Enciclopedia filosofica Bompiani: Dom-Lam [2]

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[Dom] DOMANOVSZKY, ENDRE. – Filosofo ungheDomanovszky rese d’indirizzo hegeliano, n. a Budapest nel 1817, m. a Tótkomlós nel 1895. Discepolo di J.E. Erdmann, solo a 59 anni divenne professore universitario a Nagyszeben. Subì l’influsso di Erdmann e la sua filosofia assunse un’impronta hegeliana. Pur non seguendo pedissequamente Hegel, non sostituì nulla di nuovo alle costruzioni hegeliane. Restò lontano dalle polemiche del tempo, che si svolgevano fra positivismo e neokantismo, e si dedicò alla storia della filosofia. Acuto e profondo il suo libro A philosophia története (Storia della filosofia, Budapest 1870-90, 4 voll.) rimasto incompiuto (non oltrepassa il Rinascimento). S’occupò di varie figure dell’umanesimo: il suo argomento preferito fu la dottrina di Machiavelli, cui dedicò vari saggi, fra cui: Machiavelli Miklós politikája (La politica di Niccolò Machiavelli, in «Magyar Philosophiai Szemle», 8, 1889, pp. 344-384) e Machiavelli «Fejedelme» (II «Principe» del Machiavelli, ibi, pp. 430-450). Altre opere: A bölcsészet skükségképeni tudomány (La filosofia come scienza necessaria), Budapest 1872; A logica fogalma (Il concetto della logica), ivi 1874; Dante, ivi 1888. T. Hanak BIBL.: B. ALEXANDER, Domanovszky Endre, Budapest 1904.

DOMAT, JEAN. – N. nel 1625 e m. nel 1696, Domat Domat, esponente della filosofia del diritto giansenista, è considerato uno dei precursori della codificazione napoleonica, poiché ha avuto il merito di dare una prima sistemazione alle fonti del diritto in Francia nel suo capolavoro: le Loix civiles dans leur ordre naturel (pubblicate insieme al Traité des loix tra il 1689 e il 1694, mentre il Droit public vide la luce postumo nel 1697). Il «giansenismo» di Domat si colloca idealmente di fronte alla teologia della seconda scolastica e al giusnaturalismo di Grozio: ma è una concezione che non coincide completamente né con l’Augustinus di Giansenio né con le opere di morale o di logica di Port-Royal. Per capire il suo sistema giuridico, è necessario fare riferimento alla sua antropo-

logia e alla sua metodologia. Bisogna comprendere come è fatto l’uomo, qual è la sua natura; e per comprendere la natura dell’uomo, bisogna capire qual è il suo fine. Ora il vero fine dell’uomo è Dio; solo il possesso di Dio dà all’uomo la beatitudine. Ma in questa concezione cristiana tradizionale si fa luce un nuovo taglio metodologico, vicino al Discours de la méthode cartesiano. Il metodo scientifico per eccellenza è il metodo deduttivo, che pone certi assiomi e ne trae tutte le conseguenze di cui si compone il sistema. Sul tronco antropologico giansenistico (o piuttosto agostiniano) si innesta una mentalità geometrica. Domat pone così due principi fondamentali, che si convertono in altrettante leggi: l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo. Poi viene inserita una distinzione fondamentale, fra leggi immutabili e leggi arbitrarie. «Le leggi immutabili si chiamano così perché sono naturali e talmente giuste sempre e dappertutto che nessuna autorità può cambiarle o abolirle; e le leggi arbitrarie sono quelle che un’autorità legittima può stabilire, cambiare o abolire secondo il bisogno» (Traité des loix, XI, 1); le leggi immutabili, poi, «sono tutte quelle che sono conseguenze necessarie delle prime due». Si capisce così, in prima approssimazione, che leggi immutabili e leggi arbitrarie sono differenti, perché divergono anche nella loro origine. Le prime riposano sulle prime due leggi, di cui rappresentano un’estensione; esse sono divine, perché trovano la loro giustizia «nella legge divina che ne è la fonte», e naturali, perché Dio le ha scolpite nella nostra natura e «le ha rese così inseparabili dalla ragione che questa basta a conoscerle». Invece le leggi arbitrarie procedono dal legislatore umano per cause molteplici e variegate. Per decifrare questo complesso sistema è necessario confrontarlo con le grandi caratteristiche del giusnaturalismo secentesco. Per quanto riguarda il razionalismo, a Domat è stato attribuito il titolo di «Descartes de la jurisprudence» (Jouvet-Desmarand); e davvero, nell’impiego strategico dei concetti di ordine e di metodo, egli «sembra aderire per più di un aspetto al progetto 3055

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Domenico de’ Domenici cartesiano, adesione che giunge perfino ad accentuare, in certi punti, la dimensione razionalistico-deduttiva della méthode» (Adinolfi). Tuttavia è bene tenere presente il carattere strutturalmente ambivalente del suo pensiero. L’ambivalenza è dovuta sia al «tentativo di conciliare il pensiero giuridico della tradizione giurisprudenziale culta con quel razionalismo di ispirazione cartesiana, che, sul finire del Seicento, stava per aprire le porte alla modernità e alla secolarizzazione della cultura e della società europea» (Sarzotti); sia al fatto che, partendo da una concezione non razionalistica (l’antropologia agostiniana), Domat segue poi nella propria metodologia dei canoni affini al matematismo cartesiano. Sotto il profilo dell’individualismo v’è un punto del suo pensiero, che potrebbe far presagire un risultato in tal senso: è là dove Domat, riprendendo con Nicole e Pascal terminologia e temi dell’antropologia giansenistica, afferma che l’uomo, in statu viae, è spinto ad agire fondamentalmente dall’amour-propre: e questo non è il doveroso rispetto verso se stessi, ma è l’amore egoista. Tuttavia questo pessimismo subisce una sorta di rovesciamento: anziché far scaturire dall’amour-propre un bellum omnium contra omnes, Domat pensa che la divina provvidenza se ne serva paradossalmente per consolidare i legami sociali. Non si può, infine, affermare che Domat offra una visione laicistica del diritto: non v’è in lui separazione fra il mondo della religione e quello del diritto. «La force de cette oeuvre est pour partie de rester fidèle, dans leur hétérogénéité même, aux convictions et aux inquiétudes qui furent celles d’une grande partie des esprits de son temps, et de montrer comment, en matière de droit, ces thèmes qui s’entrelacent et parfois s’entrechoquent chez lui, conduisent à poser comme nécessaire, un bouleversement des méthodes traditionnelles de la science du droit» (M.-F. Renoux-Zagamé). F. Todescan BIBL.: N. MATTEUCCI, Jean Domat un magistrato giansenista, Bologna 1959; C. VENTIMIGLIA, Società, politica, diritto. Il cristiano e il mondo in Pascal e Domat, Parma 1983; F. TODESCAN, Le radici teologiche del giusnaturalismo laico, vol. II, Milano 1987; M.-F. RENOUX-ZAGAMÉ, Domat, le salut et le droit, in «Revue d’Histoire des Facultés de Droit et de la Science Juridique», 8 (1989), pp. 69-111; C. SARZOTTI, Jean Domat. Fondamento e metodo della scienza giuridica, Torino 1995; M. ADINOLFI, L’esperienza giuridica in Jean

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Domat, in «Il Pensiero Politico», 31 (1998), pp. 239270; Y.CH. ZARKA, Philosophie et politique à l’âge classique, Paris 1998, cap. XIII; C. SARZOTTI, Domat criminalista, Padova 2001.

DOMENICO Domenico de’ Domenici DE’ DOMENICI. – Maestro d’arti e di sacra teologia, n. a Venezia nel 1416, m. a Brescia il 17 febbr. 1478. Laureatosi a Padova nel 1436, fu vescovo di Torcello dal 1448 al 1464 e quindi vicario generale di Roma. Scrisse opere di teologia, filosofia e astrologia, molte delle quali sono ancora inedite. Da ricordare il De potestate pape et terminus eius (ed. a cura di H. Smolinsky, Münster 1976) intorno alle relazioni tra la chiesa e lo stato, con argomenti tratti anche da Aristotele: l’unità del fine ultimo, comune a tutti gli uomini, postula l’unità del regime (cfr. G. Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani, Venezia 1752-54, vol. I., pp. 386-439). A. Tognolo BIBL.: R. AUBERT, s. v., in Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, Paris 1912-, vol. XIV, coll. 584-588; M. GRABMANN, Studien über den Einfluss der aristotelischen Philosophie auf die mittelalterlichen Theorien über das Verhältnis von Kirche und Statt, «Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse», vol. II, München 1934; H. JEDIN, Studien über Domenico de’ Domenichi, «Abhandlungen der Geistes- und Sozialwissenschaftlichen Klasse», vol. V, Wiesbaden 1957.

DOMENICO DI FIANDRA (Domenico di Domenico di Fiandra Flandria). – Filosofo e teologo tomista, domenicano, n. a Merris (o Merville; dipart. del Nord) nel 1425 ca., m. a Bologna il 16 lug. 1481. Studia a Parigi, insegna a Bologna (1462-70) e a Firenze (1471-72); poi, per volere di Lorenzo il Magnifico, insegna fisica all’Accademia di Pisa; nel 1478, infine, è chiamato a reggere lo studio domenicano di Firenze. Presso i contemporanei Domenico di Fiandra poté godere di larga fama, particolarmente come logico sottile e rigoroso; oggi gli si riconosce un certo talento nell’analisi, benché talvolta eccessivamente sottile, che non manca di originalità e di profondità. Tra le opere principali si devono ricordare: In XII libros Metaphysicae Aristotelis secundum expositionem Angelici Doctoris lucidissimae atque utilissimae quaestiones (Venetiis 1499; 1637; Coloniae 1621; ripr.

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New York - Frankfurt 1967); Quaestiones in Thomae de Aquino Commentaria super libros Posteriorum (Venetiis 1514; ripr. Frankfurt 1967); Expositio super tractatum Thomae de Aquino De fallaciis (Venetiis 1507 ss.); Quaestiones et annotationes in tres libros De anima, cum commentariis sancti Thomae in eosdem (Venetiis 1503 e 1518); Quaestiones quodlibetales (Venetiis 1500). L’essere assoluto e incondizionato è assolutamente uno in quanto è pura realtà che non patisce negazione. Ora, è proprio la negazione a determinare la differenziazione fra gli esseri e, perciò, la distinzione fra gli individui reali. Tale distinzione può essere fondamentalmente di quattro tipi: essenziale, che riguarda la natura stessa dell’essere (per es., fra finito e infinito, essere o non essere); reale, quando gli esseri differiscono per proprietà fondamentali, pur risultando del medesimo genere in quanto provvisti della medesima natura (per es., uomo e animale); formale, quando gli esseri differiscono per il grado o l’intensità delle proprietà (per es., uomo e Dio per quanto riguarda la ragione); logica, quando la distinzione appare da un confronto operato dal soggetto (per es., il caso in cui il soggetto considera maggiori o minori l’uno dell’altro individui reali della medesima natura). A. Cardin BIBL.: H. HURTER, Nomenclator literarius theologiae catholicae, Innsbruck 1903-133 (ripr. Cambridge 1962), vol. II, coll. 997-98; U. SCHIKOWSKI, Dominicus de Flandria O. P.: sein Leben, seine Schriften, seine Bedeutung, in «Archivum Fratrum Praedicatorum», 10 (1940), pp. 169-221; L. MAHIEU, Dominique de Flandre: sa métaphysique, Paris 1942; M. MARKOWSKI, Definicje substancji w «Komentarzn do Metafizyki» Dominika z Flandrii, in «Studia Mediewistyczne», 5 (1964), pp. 19-52 (riassunto in francese, pp. 52-54); A.F. VERDE, Domenico di Fiandra, intransigente tomista non gradito nello studio fiorentino, in «Memorie Domenicane», 7 (1976), pp. 304-321; F. RIVA, L’analogia dell'ente in Domenico di Fiandra, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 86 (1994), pp. 287-322.

DOMINIO (rule; Herrschaft; domain; dóminio). Dominio – La nozione di dominio possiede una sua connotazione già nel periodo arcaico e classico della grecità. La civiltà greca arcaica, fondata su modelli eroici, è essenzialmente imperniata sulla violenza come suo nucleo semantico originario, ma riflette anche sull’idea di dominio, cui dà dei connotati negativi. L’unico dominio legittimo, ancorché spesso crudele e

Dominio sempre imperscrutabile, è quello degli dei: l’eroe al contrario non deve mai improntare il suo comportamento in modo da generare hybris. Nell’età classica della filosofia, invece, la riflessione sul dominio investe interamente l’ambito umano, e anche qui si mescola al concetto di violenza, inteso stavolta come sopraffazione a opera del tiranno e prevaricazione dei più forti. In quest’epoca compaiono tanto le prime teorizzazioni sulla legittimità del dominio in generale, quanto, specialmente sotto l’influsso della sofistica, le prime posizioni che legittimano apertamente il dominio nella sua accezione negativa. Contro di esse si scaglia risolutamente Platone: la Repubblica non solo è la confutazione di tali teorie (libri I-II), ma soprattutto è il tentativo di fondare il dominio come positività semantica ed etica, cioè come esercizio del potere secondo giustizia. La risposta platonica, che oscilla tra ottimismo speculativo e pessimismo storico, risulta alla fine un compromesso tra i due: prova ne sia il fatto, non certo marginale, che i reggitori dello stato perfetto sono sì filosofi, ma anche guerrieri. L’inevitabilità della forza, come elemento che indebolisce il tentativo teorico di costruire tale filosofia del dominio positivo, ritorna nel Politico, dove le figure del filosofo e del reggitore dello stato vengono separate e dove la realizzazione di un dominio positivo privo dell’apporto della forza viene spostata nel tempo mitico in cui legislatore era il daímon (Politico, 271 b - 272 d). Tale soluzione, che seguita a non rispondere al problema di un’implicita negatività intrinseca alla storia, probabilmente non soddisfaceva Platone, che nelle Leggi ritorna a una posizione più simile a quella della Repubblica, ma senza aver risolto il problema. Se il dominio commisto alla forza è per Platone in qualche modo accettabile, o quanto meno indifferibile, in Aristotele, essendo che per lui la vita felice è la vita virtuosa, il dominio appare depotenziato nelle sue potenzialità pericolose dall’esercizio della media virtus. La brama di onori, comunque, non di dominio, è la molla che spinge alcuni a occuparsi di politica (Etica Nicomachea, I, 3, 1095 b 22-23). La migliore riflessione sul dominio in ambito greco appartiene però a Tucidide. Nel dialogo tra i meli e gli ateniesi (Bellum Peloponnesiacum, libro II), l’opinione dell’autore, sebbene non dichiarata, è implicitamente di condanna per ogni uso prevaricatore della forza mascherato da ragioni di ne3057

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Dominio di sé cessità politica, la cui radice l’autore fa risalire al moltiplicarsi dei bisogni, e quindi della ricchezza e dei commerci, proprio alle comunità democratiche. L’ambito cristiano accoglie e acuisce l’aporia platonica tra il tentativo di formulare una positività teoretica del dominio e l’inevitabilità della forza, nella separazione tra città terrena e città divina: così, per Agostino, gli stati non sono se non «magna latrocinia» (De civitate Dei, IV, 4), la cui gloria procede in realtà dalla legittimità dei vincitori. Il dominio diviene però oggetto filosofico precipuo solo a partire dalla modernità. Giustificando i mezzi col fine, il Principe di Machiavelli compie in realtà il passo fondamentale di porre apertamente per la prima volta il dominio come fine in se stesso. Se si escludono le scuole giusnaturalista e hobbesiana, che favoriranno l’idea di un dominio anche ingiusto e tirannico purché eviti l’anarchia, il filone razionalistico della modernità (coronamento del quale sarà lo scritto kantiano Sulla pace perpetua del 1795) tenderà a condannare ogni abuso del dominio, cercando, come Spinoza, di darne una fondazione razionale e non basata sul superamento contrattuale dello stato di natura nella descrizione dello stato forte attuata nel Trattato teologico-politico (1670); questo, pur non giungendo ancora a dare una risposta teorica convincente al problema del giusto dominio e del suo rapporto con l’inevitabilità della forza. L’idealismo hegeliano, col suo brutale richiamo all’insuperabilità dell’orizzonte storico, introduce la temperie contemporanea, che fondamentalmente giustifica il dominio, spesso anche nelle sue accezioni più violente, come insopprimibile componente della volontà e progettualità umane. Il marxismo e tutti i filoni rivoluzionari che ne discendono fino a Lenin e Mao parleranno di necessità, per la rivoluzione proletaria, di instaurare un dominio dittatoriale e di recare con sé la violenza come conseguenza necessaria. Un filone più esistenziale e irrazionalistico, che ha invece per capostipite F. Nietzsche, pone il dominio come autoaffermazione di sé: il dominio diviene l’unica possibile salvezza per l’individuo in un mondo retto ormai da strutture sempre più impersonali. A questo filone si possono anche ricondurre tutte le teorizzazioni di gusto decadentistico, che vedono nella realizzazione di un ideale estetico l’affermazione del dominio di sé, nonché la singolare riflessione di G. Sorel sulla legittimità della violenza. Di contro al dila3058

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gare del dominio inteso come oggettivazione del mondo e conferimento di senso ad esso a opera di una soggettività assoluta, le posizioni di M. Heidegger e S. Freud costituiscono le due eccezioni più rilevanti. Il primo ha il merito di aver evidenziato come in realtà l’idea di dominio sia centrale alla filosofia in quanto tale sin dai suoi esordi greci, e pone nell’abbandono di ogni orizzonte legato al dominio il definitivo superamento di tale eredità metafisica (posizione approfondita, per strade diverse, da J. Derrida e soprattutto da E. Levinas); il secondo trova un concetto positivo e non sopraffacente di dominio come affermazione di sé nella liberazione del soggetto dai pesi costituiti dalle memorie inconsce. Entrambi rifiutano fermamente l’equazione tra esistenza autentica e legittimazione immoralistica del dominio. Negli ultimi decenni, con l’esaurirsi del filone marxista e di quello esistenzialistico, il dibattito sul dominio ha ripreso connotati più classici, ossia si è nuovamente spostato sull’interrogazione se esista la possibilità di fondare teoricamente un dominio giusto, e quali siano, se vi sono, le ragioni per l’uso della forza. Accentuato dall’evolversi dell’economia e delle dinamiche sociali in senso globale, tale riflessione sul dominio si orienta oggi verso l’estensione dei diritti alla popolazione dell’intero pianeta, ma vede anche l’interrogazione critica verso ogni forma di egemonia globale nella discussione dell’idea di «impero»; coinvolge processi di trasformazione politica tendenti ad aggregazioni supernazionali, come l’allargamento dell’Unione Europea; e interroga infine la nozione di dominio dell’uomo sulla natura mettendo in discussione il tradizionale portato umanistico dell’uomo al centro dell’universo e ridiscutendo il suo posto nell’ordine naturale inteso come unica reale struttura di riferimento. C. Chiurco ➨ FORZA E DIRITTO; IMPERO; VIOLENZA.

DOMINIO Dominio diDI sé SÉ (self-control; Selbstbeherrschung; maîtrise de soi-même; dominio de sí). – Il dominio di sé può essere inteso sia come figura antropologica sia come figura morale. Nella prima accezione, esso indica la strutturale capacità di disporre liberamente dei propri atti; nella seconda, invece, indica l’abituale capacità di orientarli in modo coerente col proprio giudizio morale, vincendo l’avversità delle circostanze fattuali e passionali.

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SOMMARIO: I. In senso antropologico. - II. In senso morale. I. IN SENSO ANTROPOLOGICO. – Plotino riconosce il pieno autodominio solo all’essere; mentre non sarebbe sensato attribuirlo all’uno, nel quale nessuna distinzione formale tra dominante e dominato avrebbe fondamento. L’uomo, in quanto partecipe dell’essere che lo signoreggia, può dirsi in qualche modo, già in questa vita, «signore [kuvrio"] di sé» (Enn., VI 8, 12). Tommaso d’Aquino parla di dominium sui actus, per indicare la capacità di esercitare il libero arbitrio, che differenzia l’uomo dalle creature irrazionali (Sum. theol., Ia-IIae, q. 1, artt. 1-2). Dunque, «siamo signori dei nostri atti, in quanto possiamo scegliere questo piuttosto che quello» (Sum. theol., I, q. 82, art. 1). Un importante commentatore cinquecentesco di Tommaso, Francisco De Vitoria, fonda proprio sul dominium sui actus, di cui anche gli indiani d’America sono capaci, il loro diritto ad essere proprietari delle terre che abitano; diversamente dai bruti, i quali, non avendo dominio su se stessi, neppure possono averne su altro da sé (cfr. De Indis relectio prior, I, 12). Spinoza, invece, ritiene che la tesi secondo cui l’uomo avrebbe «una assoluta potenza sulle proprie azioni», sia un pregiudizio; da cui deriva l’errore di attribuire «la causa dell’impotenza e dell’incostanza umane, non alla comune potenza della natura, bensì a non si sa qual vizio dell’umana natura» (Ethica, s. l. 1677, tr. it. di S. Giametta, Etica, Torino 1959, parte III, Prefazione). Anche Kant tratta il tema del dominio di sé, in riferimento a quello della libertà: «La libertà interna esige due condizioni: esser padroni di noi stessi in un caso dato (animus sui compos), e avere una assoluta padronanza su di noi (imperium in semetipsum), cioè poter moderare i propri moti d’animo e dominare le proprie passioni» (Metaphysik der Sitten, in AA, vol. VI, p. 407, tr. it. di G. Vidari, revisione di N. Merker, La metafisica dei costumi, Roma-Bari 1983, p. 261). Schopenhauer, a sua volta, vede nella capacità di dominare il proprio agire, la differenza che specifica l’uomo dai bruti (Preisschrift über die Grundlage der Moral [1841], in Sämtliche Werke, a cura di A. Hübscher, vol. IV, Wiesbaden 19502, p. 215). Certo pensando a Kant, alcuni autori più recenti hanno visto nel dominio di sé una figura discutibile, in quanto implicante qualche forma di dualismo antropologico (quasi ci fosse, in noi, un io che controlla un altro io). Tra que-

Dominio di sé sti, Fritz Mauthner (cfr. Wörterbuch der Philosophie, Leipzig 1923-242), ma anche Otto F. Bollnow, il quale, oltretutto, interpretando il dominio di sé come un controllo innaturalmente esercitato sugli slanci affettivi, preferisce parlare di «Besonnenheit» o di equilibrio interiore (Wesen und Wandel der Tugenden, Frankfurt am Main 1958). Ma questo già ci porta alla seconda accezione del termine. II. IN SENSO MORALE. – Il dominio di sé, nella accezione morale, indica il genere di alcune possibili declinazioni specifiche, tra loro non sempre facilmente discernibili: principalmente enkráteia e sophrosýne, che alcuni identificano nella complessiva figura della temperanza, altri distinguono come introduzione, la prima, alla seconda; altri ancora (nel Novecento) contrappongono l’una all’altra. L’autocontrollo fu sentito fin dalla gnomica più antica e dalla filosofia presocratica come un dovere, anche sociale (cfr. Democrito, in F.W.A. Mullach, Fragmenta philosophorum graecorum, Parisiis 1860-81, vol. I, p. 345: «Vincere se stesso è la prima e migliore di tutte le vittorie; l’essere vinto da sé è quanto mai turpe e cattivo»; Antifonte Sofista, in H. Diels [a cura di], Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1903, 3 voll., poi a cura di H. Diels e W. Kranz, Berlin 1934-375, 1951-526 [rist. Zürich 1996], 87 B 58: «Non di alcun altro uomo si deve giudicar retta la saggezza se non di colui che [...] è riuscito a dominare e a vincere se stesso da sé»). Nella filosofia socratica la padronanza di sé (’ejgkravteia) è posta come libertà spirituale contro la schiavitù dell’intemperanza (Senofonte, Memorabilia, IV, 5, 5: th;n kakivsthn douleivan oiJ ’ajkratei'" douleuvousin); ed è celebrata in quanto capace di dare la swfrosuvnh: l’assennata serenità dell’animo (Platone, Carmide). Le scuole socratiche minori continuano su questa strada con la teoria cirenaica del «dominare il piacere» (cfr. Fragmenta philosophorum graecorum, cit., vol. II, p. 412: «Domina il piacere non chi se ne astiene, ma chi ne usa senza però lasciarsene dominare»), e col precetto cinico della «libertà dalle cose esterne» (ibi, p. 329: «Ho domato atleti fortissimi [...]: la povertà [...], e la belva più crudele e ingannevole di tutte: il piacere»). Già in questi sistemi il dominio di sé è un aspetto particolare del «bastare a se stessi». In Platone il dominio di sé è uno dei temi dominanti della Repubblica (IV, 430 e - 443 b). Qui, l’espressione kreivttwn aujtou' («padrone di sé») viene considerata nella sua problema3059

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Dominio di sé ticità: sembra, infatti, «che tale espressione voglia significare che nella medesima persona ci sono due anime: l’una migliore e l’altra peggiore; e quando la natura migliore domina la peggiore, si dice che si è padroni di se stessi». L’aporia viene poi sciolta introducendo la nota articolazione, nell’anima e nello stato, tra l’elemento regolatore (logistikovn) e il regolato (ejpiqumhtikovn). Il dominio di sé vale, platonicamente, non solo all’interno dell’uomo – come via di purificazione dell’anima e liberazione dal corpo (Phaed., 65 a) –, ma anche all’interno della vita sociale (Leg., 689 b), dove, per la salute dello stato, la moltitudine deve stare soggetta a chi ha l’autorità per governare e alle leggi. Aristotele, nella sua trattazione sulle virtù, si intrattiene su alcune precisazioni relative al dominio di sé. Anzitutto, egli distingue tra enkráteia e sophrosýne, in quanto il primo atteggiamento indica uno stato di lotta interiore, che il secondo suppone ormai stabilmente superato (Et. Nic., VII, 3; 11). In tal senso, l’enkráteia potrà considerarsi solo come una tappa verso la virtù, e non come una virtù essa stessa (ibi, IV, 1128 b 34). In secondo luogo, egli oppone l’enkráteia al proprio contrario – l’akrasía (ajkrasiva) –, che analogamente non potrà qualificarsi come un vizio in senso proprio (ibi, VII, 11). I sistemi postaristotelici insistono sull’intima connessione tra virtù e dominio di sé: Epicuro vede nell’autodominio la base della felicità, che inizia appunto con la moderazione dei desideri; nello stoicismo la lotta per l’autodominio è una delle parti più vive e drammatiche del sistema; e anche nello scetticismo l’autodominio è necessario per raggiungere l’adiaforia. Nel mondo romano, in cui l’educazione attingeva tradizionalmente alla disciplina militare, la battaglia interna per la virtù trova la sua più piena espressione. Cicerone (Tusculanae, II-IV) innesta tale concetto tradizionale nell’etica stoica. Enfatizzando la lotta del sapiente per affermare la razionalità su affezioni e passioni (specie il dolore), anch’egli giunge all’ideale dell’autarchia. Questa battaglia assume toni ancora più drammatici nello stoicismo romano successivo: in Seneca la ferma volontà è artefice di virtù (cfr. De ira, II, 12: «Quodcumque sibi imperavit, animus obtinuit»). Epitteto e Marco Aurelio descrivono con forti immagini questa lotta (Epitteto, Manuale, 48: «Conviene stare all’erta con se stesso non altrimenti che con un nemico o un insidiatore»; Marco Aure3060

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lio, Ricordi, VII, 61: «L’arte della vita è più simile a quella della lotta che della danza»). Nelle teosofie filoniana, neopitagorica e neoplatonica, il dominio di sé si esplica nella lotta per la liberazione dal corpo e il raggiungimento del bene in sé. Il «vince te ipsum» è poi elemento fondamentale dell’ascesi cristiana. Nell’età moderna, Cartesio sviluppa tecnicamente il tema del dominio dell’anima sulle proprie passioni: passioni le cui dinamiche sono normalmente condizionate dagli influssi del corpo sulla «ghiandola pineale». Egli insiste sul fatto che la lotta per l’autodominio ha come antagonisti, appunto, l’anima e il corpo, e non due potenze dell’anima (la razionale e la passionale), come pensava Platone (R. Descartes, Passions de l’âme, Paris 1649, §§ 45-50). Anche Spinoza, nonostante quel che abbiamo sopra richiamato, teorizza la possibilità di un approccio ancipite (razionalmente coerente o meno) al mondo delle passioni, e afferma al riguardo: «Chiamo schiavitù l’impotenza umana a dominare e impedire gli affetti; poiché l’uomo soggetto agli affetti non appartiene a se stesso ma alla fortuna, ed è in suo potere in modo tale che spesso, benché veda il meglio, è costretto tuttavia a seguire il peggio» (Ethica, tr. cit., parte IV, praefatio). In Kant il dominio di sé ha pure un imponente rilievo morale; infatti, «la virtù, in quanto è fondata sulla libertà interna, contiene per gli uomini anche un comando positivo, quello cioè che si sottomettano al proprio potere (all’autorità della ragione) tutte le facoltà e inclinazioni, ossia comanda la padronanza di noi stessi; il qual comando viene ad aggiungersi al divieto di lasciarsi dominare dai propri sentimenti e tendenze (il dovere dell’apatia); perché, se la ragione non tiene le redini del governo, queste inclinazioni diventano ben presto padrone dell’uomo» (Metaphysik der Sitten, cit., p. 408, tr. cit., pp. 261-262). Nietzsche, preparando la dottrina freudiana del «principio di realtà», pretende di smascherare il dominio di sé come espressione raffinata del mimetismo animale, il cui senso ultimo è comunque la lotta per la sopravvivenza: «si presta orecchio con diffidenza alle parole suadenti della passione, ci si reprime e si rimane in guardia contro se stessi; l’animale comprende tutto questo al pari dell’uomo, anche in esso l’autodominio germoglia dal senso del reale (dalla saggezza)» (Morgenröthe, in Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe in 15 Bänden, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. III, München 1999, tr. it. di F. Masini, Aurora, in Opere

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Donagan

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di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, vol. 5, t. 1, Milano 1986, § 26). Nel Novecento, Nicolai Hartmann torna a distinguere tra ejgkravteia e swfrosuvnh. La prima è un «tiranneggiare sugli affetti», che pure non ne ottiene l’estirpazione; la seconda, invece, coincide con l’armonia e la bellezza interiore dell’uomo completamente formato (Ethik, Berlin 19493, pp. 435-438). Il tema del dominio di sé (come enkráteia) è poi presente – almeno indirettamente – nella recente letteratura analitica, attraverso la discussione del tema opposto: quello della akrasía e delle sue condizioni di possibilità (cfr. A.R. Mele, Irrationality. An Essay on akrasia, Self-deception, and Self-control, New York - Oxford 1987; J. Gosling, Weakness of Will, London - New York 1990). G. Garuti - P. Pagani ➨ ADIAFORIA; APATIA; ASCESI; ATARASSIA; AUTARCHIA; EUDAIMONIA; EUNOMIA; ISTINTO; LIBERO ARBITRIO; SOPHROSYNE; TEMPERANZA.

DOMNINO. Domnino – Filosofo e matematico neoplatonico, n. a Larissa (Siria) all’inizio del V secolo d. C., m. intorno al 470-475. Discepolo di Siriano e condiscepolo di Proclo, rappresentò, non meno di Asclepiodoto, l’indirizzo scientifico e razionalistico della Scuola di Atene. Fonti: Proclo, Commentario al Timeo, Damascio, Vita Isidori, Marino, Vita Procli. L’unica testimonianza che attesterebbe la successione di Domnino a Siriano nello scolarcato, quella di Marino, Vita Procli 26 (che si riferisce a Domnino con l’espressione filosovfw· kai; diadovcw/), è stata ritenuta nulla da Saffrey e Westerink, Proclus. Théologie platonicienne I (Paris 1968, Introduction, XVII). Ci sono rimasti: un Manuale di introduzione all’aritmetica (a cura di J. Fr. Boissonade, in Anectoda graeca, Paris 1829-33, IV, 413-429; ripr., Hildesheim 1962; tr. fr. di P. Tannery, in «Revue des études grecques» 19, 1906, 359-382; ed. critica con tr. it. di F. Romano, Domnino di Larissa. La svolta impossibile della filosofia matematica neoplatonica. Manuale di introduzione all’aritmetica. Introduzione testo e tr. it., Catania 2000) e un frammento di argomento matematico dal titolo Come trarre rapporto da rapporto, forse tratto da uno scritto su Gli elementi di aritmetica (testo e tr. fr. di C.E. Ruelle - J. Dumontier, in «Revue de Philosophie», 7, 1883). G. Faggin - R.L. Cardullo Scientific Biography, New York 1971, vol. IV, pp. 159-160; J.

BIBL.: I. BULMER - THOMAS, s. v., in Dictionary of

MAU, s. v., in Der Kleine Pauly, München 1975, vol. II, coll. 135-136; A.-PH. SEGONDS, s. v., in R. GOULET (a cura di), Dictionnaire des Philosophes Antiques, vol. II, Paris 1994, pp. 892-896.

DONAGAN, ALAN. – N. nel 1925, m. nel 1991. Donagan Filosofo australiano di formazione analitica, ha insegnato tra l’altro nelle università del Minnesota, di Chicago e al California Institute of Technology. Si è occupato di argomenti storico-filosofici, in particolare di Collingwood (The Later Philosophy of R.G. Collingwood, Oxford 1962) e di Spinoza (Spinoza, Chicago 1989). Muovendo da interessi di filosofia della storia, si è poi rivolto alla filosofia dell’azione e all’etica. Riprendendo alcune tesi di Davidson, ha difeso la concezione tradizionale, di derivazione aristotelica e tomista, dell’agente come causa delle proprie azioni (Choice, London 1987). Le azioni sono eventi causati dalle scelte, ossia dall’assunzione di atteggiamenti proposizionali di tipo appetitivo, ma intellettuale; la capacità di assumere tali atteggiamenti in maniera non deducibile da eventi precedenti in base a leggi di natura è ciò che la tradizione medievale chiama volontà. L’affermazione della volontà come forma di causalità libera rende ragione del privilegio accordato alle creature razionali, come realtà di valore superiore e perciò meritevoli di rispetto. L’idea della persona come fine in sé costituisce, secondo Donagan, il fondamento della common morality, ossia della morale ereditata dalla tradizione ebraico-cristiana. In The Theory of Morality (Chicago 1977), Donagan sostiene la continuità tra la concezione kantiana dell’autonomia della ragion pratica e la teoria medievale della legge naturale e pone il principio del rispetto per la creatura razionale come fine in sé, in quanto versione filosofica del comandamento dell’amore, a fondamento del sistema morale. La lettura di Kant operata da Donagan presenta due caratteristiche principali: in primo luogo, Donagan nega l’equivalenza tra le diverse formule dell’imperativo categorico, affermando la priorità della formula dell’umanità; di conseguenza, nega che l’etica kantiana vada interpretata in senso meramente deontologico e formale: il sistema deontologico dei principi si fonda su una più profonda teleologia, ossia sulle persone come fini autosussistenti in nome dei quali ogni altro fine può essere perseguito. Donagan rivaluta quindi la Metafisica dei costumi, mostrando co3061

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Donati me, accettata la priorità della formula dell’umanità, l’etica kantiana si mostri pienamente in grado di generare contenuti specifici. Tali contenuti vengono articolati in The Theory of Morality, dove Donagan distingue tra doveri perfetti e doveri imperfetti, affronta svariate questioni di etica applicata, si confronta criticamente con l’utilitarismo e mostra come le risorse della casistica tradizionale consentano di risolvere le situazioni di conflitto. I suoi principali saggi sono raccolti in tre volumi postumi: The Philosophical Papers of Alan Donagan, a cura di J.E. Malpas, Chicago 1994, 2 voll., e Reflections on Philosophy and Religion, a cura di A.N. Perovich Jr, Oxford 1999. M. Reichlin BIBL.: J. STOUT, The Philosophical Interest of the HebrewChristian Moral Tradition, in «The Thomist», 47 (1983), pp. 165-196; S. KAGAN, Donagan on the Sins of Consequentialism, in «The Canadian Journal of Philosophy», 17 (1987), pp. 643-653; T.E. HILL JR, Donagan’s Kant, in «Ethics», 104 (1993), pp. 22-52; M. REICHLIN, Fini in sé. La teoria morale di Alan Donagan, Torino 2003.

DONATI, ALAMANNO. – Filosofo, n. a Firenze Donati il 20 magg. 1458, m. a Firenze nel 1488. Allievo prediletto di Marsilio Ficino, del quale seguì il corso sul Simposio, è autore di un volgarizzamento dell’Historia de duobus amantibus, di Enea Silvio Piccolomini (pubblicato a Firenze forse nel 1492), che si collega a quell’interesse per il tema dell’amore tipico della filosofia ficiniana. Fra il 1482 e il 1487 scrisse un opuscolo De intellectus voluntatisque excellentia, nel quale l’esaltazione tanto dell’intelletto (potenza quasi divina, fonte della suprema felicità consistente nella contemplazione) quanto della volontà (che nella sua libertà comanda l’intelletto) conduce al riconoscimento della grandezza dell’uomo. L.M. Bianchi BIBL.: P. VITI, s. v., in Dizionario biografico degli Italiani, Roma 1960-, vol. XLI, pp. 6-9; S. GENTILE - S. NICCOLI - P. VITI (a cura di), Marsilio Ficino e il ritorno di Platone, Firenze 1984, pp. 107-108; J. HASKINS, The Myth of the Platonic Academy of Florence, in «Renaissance Quarterly», 44 (1991), p. 466.

DONATI, BENVENUTO. – Filosofo del diritto, Donati n. a Modena l’8 nov. 1883, m. ivi l’8 febbr. 1950. Insegnò filosofia del diritto nelle università di Camerino, Perugia, Sassari, Cagliari, Macerata e infine, dal 1924 in quella di Modena. Legato 3062

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all’inizio della sua attività scientifica e didattica a premesse positivistiche, se ne è a poco a poco liberato, avvicinandosi nell’ultima fase del suo pensiero al neokantismo, rappresentato in Italia soprattutto da Del Vecchio. Nel campo teoretico, di Donati vanno ricordati in modo particolare due scritti: Fondazione della scienza del diritto. Parte prima di una Introduzione alla scienza del diritto (Padova 1929) e Il principio del diritto (ivi 1933), dai quali meglio si deduce la sua dottrina filosofico-giuridica, che egli stesso ha definito «idealismo storico». Il diritto è un fenomeno sociale, è «un agire per un fine concreto, entro certi limiti segnati dalla regola, pur sempre sostenuto da un ideale etico». Esso dà prevalente rilievo all’azione, anziché all’intenzione, e al coordinamento esteriore degli atti e dei fini, anziché all’ordine interiore della vita; per questo si distingue dalla morale e da tutte le altre forme dell’attività teoretica e pratica. Il diritto tende a garantire le condizioni di possibilità delle relazioni umane in base a tre principi: il principio costitutivo (il riconoscimento reciproco dei soggetti come esseri razionali e liberi); il principio commutativo (l’eguaglianza dei soggetti); e il principio distributivo (la disuguaglianza del «suo» di ciascuno). Da ciò la conseguenza, che il primo precetto del diritto va ricercato nell’honeste vivere. L’ultima fase della speculazione di Donati è stata caratterizzata dallo studio del problema sociale. La conclusione alla quale è pervenuto è la seguente: occorre capovolgere il trinomio libertà, eguaglianza, fratellanza, così caro ai rivoluzionari dell’89, perché è necessario elevare a principio primo, a «scopo generico» del diritto il principio di solidarietà, il principio di «onestà sociale»; e a tale principio debbono essere subordinati tanto l’arbitrio individuale, quanto l’eguaglianza formale. Notevoli anche alcuni studi storici, che hanno gettato nuova luce sulla vita e sul pensiero di Vico (raccolti in gran parte in Nuovi studi sulla filosofia civile di G.B. Vico. Con documenti, Firenze 1936) e di Muratori (L.A. Muratori e la giurisprudenza del suo tempo. Contributi storico-critici, Modena 1935; L.A. Muratori, ivi 1942; Muratori e Verney, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», 26, 1949, pp. 450-465). Un elenco completo degli scritti di Donati fino al 1937 è stato curato dallo stesso autore (Pubblicazioni 1907-1937, Modena 1937). Per gli scritti successivi al 1937, si veda l’appendice a A. Grop-

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pali, In memoria di Benvenuto Donati, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», 27 (1950), pp. 181-187. Fra essi: Rosmini e Gioia, Firenze 1949; Natura e diritto, uno scritto inedito a cura di G. Ambrosetti, Bologna 1973. R. Orecchia BIBL.: F. BATTAGLIA, In memoria di Benvenuto Donati, in «Archivio giuridico», 1950, pp. 87-90; W. CESARINI SFORZA, Oggettività e astrattezza nell’esperienza giuridica, in «Bollettino dell’Istituto di filosofia del diritto della Reale Università di Roma», 1950, pp. 91-208; G. PERTICONE, Il diritto e lo Stato nel pensiero italiano contemporaneo, Padova 1950 (rist. 1964), pp. 61-62; G. SOLARI, Benvenuto Donati, in «Atti dell’Accadademia delle Scienze di Torino», 1949-50 (trattazione completa); G. AMBROSETTI, Rievocazione di Benvenuto Donati, Bologna 1969; F. TAMASSIA, Benvenuto Donati, in A.M. GHISALBERTI (a cura di), Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLI, Roma 1992.

DONATI, GIACOMO. – Filosofo e psicologo, n. Donati a Savignano sul Rubicone (Forlì) il 26 lug. 1888, m. a Bologna il 24 ag. 1948. Fu docente di Filosofia teoretica nelle università di Padova e Bologna. Ne La logica (Forlì 1920) collegò tutti gli elementi dell’esperienza immediata (sensazione e percezione) e mediata (concetto, giudizio e ragionamento) sotto la categoria dell’esistenza; tutti i rapporti fra gli elementi stessi sotto la categoria dell’equivalenza. Mentre la prima categoria si riferisce al dato intuibile, la seconda si riferisce alla comprensione di esso conciliando l’identico e il diverso. Intuire e comprendere costituiscono un unico metodo, induttivo e deduttivo a un tempo: il processo per cui si percepiscono i fatti, traducendoli in formule. Nel metodo si manifesta poi l’attività dello spirito come forma individua, animata da una tensione interiore. L’intuizione e la comprensione di tutta la realtà come un sistema di forme tendenti individue, delle quali ciascuna riassume in sé il proprio passato e porta, nella propria tensione interiore, la capacità di uno sviluppo futuro, Donati espone nelle sue opere successive: Tu e il mondo, Bologna 1924; Noi e la legge, ivi 1925; L’evoluzione, Roma 1932; Il cosmo, Padova 1937; Dio, ivi 1940. Donati in quest’ultima opera, decisamente orientata nel senso di una metafisica cristiana, prospetta l’assoluto come valore trascendente, in cui trovano fondamento e unificazione le due categorie dell’esistenza e dell’equivalenza. Dio infatti, scrive Donati, «è

Donato la pura identità, che si diversifica in sé pur mantenendosi identità pura» (p. 76). Non è, infine, da trascurare il contributo che egli diede agli studi di psicologia con le seguenti opere: L’equivalenza psichica, Rimini 1914; La psicologia scientifica, Forlì 1917; Le penombre dell’anima, Ferrara 1922; La psicologia, Bologna 1923; Il manuale della volontà, ivi 1928. A.M. Moschetti

DONATISTI. – Protagonisti della vita non Donatisti soltanto ecclesiastica in Africa dagli inizi del IV secolo sino almeno all’invasione dei vandali (426), essi prendono il nome da Donato di Casae Nigrae, eletto metropolita di Cartagine in opposizione a Ceciliano, la cui consacrazione, intorno al 312, era stata aspramente contestata in quanto, fra i tre ordinanti, c’era un vescovo, Felice di Aptungi, accusato di essere un traditor, vale a dire uno di quei chierici che, durante la persecuzione di Diocleziano (dal 303), avevano consegnato (traditio) le sacre scritture all’autorità romana che provvedeva poi a bruciarle. Il nucleo fondamentale della dissidenza sta proprio nella valutazione dell’efficacia del sacramento – a cominciare da quello battesimale – in dipendenza dalla dignità morale di colui che lo amministra (ex opere operantis), contro la prassi cattolica per cui esso sacramento resta valido indipendentemente dalla dignità del ministro (ex opere operato). Di qui la convinzione donatista di costituirsi come l’autentica Ecclesia Sanctorum, erede delle promesse scritturistiche, in opposizione a una Catholica, cinghia di trasmissione del potere politico romano. R. Cacitti BIBL.: fonti: H. MAIER (a cura di), Le dossier du Donatisme, «Texte und Unterschungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur», voll. CXXXIV-CXXXV, Berlin 1989, 2 voll. Insuperata resta la monografia di P. MONCEAUX, Histoire littéraire de l’Afrique chrétienne depuis les origines jusqu’a l’invasion arabe, vol. V: Le Donatisme, Paris 1912; un’estesissima rassegna bibliografica può ora leggersi in S.LANCEL - J.S. ALEXANDER, s. v., in C. MAYER (a cura di), AugustinusLexikon, Basel 2001, vol. II, coll. 606-638.

DONATO, ELIO. – Grammatico latino (metà Donato sec. IV) vissuto a Roma, maestro di s. Girolamo. Autorevole nel Medioevo fino all’età moderna la sua Ars grammatica, divisa in Ars prima o minor (elementare), in cui sono analizzate, do3063

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Donazione manda e risposta, le 8 parti del discorso, e Ars maior o secunda, non dialogata, che tratta de voce, littera, syllaba, pedibus, tonis, posituris e stilistica (ed. H. Keil, Grammatici Latini, IV, Leipzig 1864; rist. Hildesheim 1961). È giunto incompleto un suo commento a Virgilio (introduzione alle Bucoliche e Vita Vergilii attinta a Svetonio) e uno a Terenzio in cui manca la parte dell’Heautontimoroumenos. I. Ramelli BIBL.: B. LÖFSTEDT - L. HOLTZ - A. KIBRE, Liber in partibus Donati, Turnholti 1986, CCM 68; G. GERMANO, Iacobi Curuli Epitoma Donati in Terentium, Napoli 1987; M. BUFFA, Expositio artis Donati, Genova 1990; L. NICASTRI, Problemi di biografia virgiliana, in «Vichiana», 4 (1993), pp. 67-99, 222-253; V. MAZHUGA, Observations sur les sources de l’Ars de Aelio Donato, in «Hyperboreus», 5 (1995), pp. 139-154; F. STOK, Prolegomeni a una nuova edizione della Vita Vergilii di Svetonio-Donato, Roma 1991; J.W. BECK, Zur Zuverlässigkeit der bedeutendsten lateinischen Grammatik: Die «Ars» des Aelius Donatus, Stuttgart 1996; R. JACOBI, Die Kunst der Exegese im Terenzkommentar des Donat, Berlin - New York 1996.

DONAZIONE (giveness; Gabe, Gegebenheit; doDonazione nation, donnée; donación). – Il concetto di donazione appartiene alla fenomenologia, la quale, nel suo impianto husserliano, si assegna come oggetto la Gegebenheit assoluta di un fenomeno, cioè il darsi di una presenza effettiva a una coscienza che tiene in vista la certezza. Husserl teorizza una essenziale correlazione tra la pura visione (la sfera immanente degli atti di coscienza) e il carattere assoluto del dato che appare (oggetto di conoscenza), perché, in regime di riduzione fenomenologica (epoché), la visione afferra immediatamente il dato. Ciò significa che la coscienza è sempre coscienza di qualcosa (intenzionalità) e che le cose acquistano senso ed essere solo per una coscienza «che coglie direttamente e adeguatamente la cosa stessa» (E. Husserl, Die Idee der Phänomenologie, in Hua, vol. II, tr. it. di A. Vasa, L’idea della fenomenologia, Milano 1981, p. 90). In questo contesto, l’apparire intenzionale (la donazione soggettiva che è donazione di senso alla cosa intenzionata) e la cosa che appare (il dato intuitivo o l’intuizione riempiente) si trovano, nell’immanenza dei vissuti della coscienza, per così dire intrecciati ma anche giocati l’uno contro l’altro, in una tensione interna tra formalismo e intuizionismo. La donazione può essere allora intesa sul versante soggettivo 3064

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(intenzionale o noetico come Sinngebung) o in quello oggettivo (intuitivo o noematico come Erfüllung). Se nella traduzione francese la Gegebenheit è stata resa, a seconda del contesto, sia con donation (designante il lato attivo e l’azione di dare) sia con donnée (che sta per l’oggetto dato o il risultato della donazione), in ciò aiutata dalla ricchezza semantica del verbo francese donner (dare e donare), in italiano Gegebenheit è stato tradotto con il neutro «datità» a indicare il riempimento dell’intenzionalità significante e costituente attraverso la «visione [Anschauung] originariamente offerente» (principio di tutti i principi). In questo caso, l’essere che si manifesta (il fenomeno) consiste non tanto nell’apparire soggettivo, ma nel suo darsi all’istanza originaria dell’intuizione che soddisfa le esigenze di afferramento diretto, di presenza permanente e di evidenza immediata. Il termine «donazione», invece, è stato riservato all’attività di costituzione o conferimento di senso operato dalla intenzionalità gnoseologica, facendo in questo modo propendere la prospettiva husserliana, in tema di donazione, verso l’idealismo trascendentale. La costituzione, infatti, pur non essendo produttiva, nella misura in cui non crea né l’oggetto né il senso, è una sorta di posizione (Setzen) che rende presente l’oggetto, assicurando il discernimento delle significazioni intenzionali. Ne consegue che l’atto della coscienza che conferisce senso (sinngebendes) va innanzi a ogni donazione intuitiva del contenuto dell’esperienza. Spostandosi dal territorio gnoseologico a quello dell’ontologia, Heidegger pensa l’essere non già come il fondamento dell’essente ma come donazione (Gabe) e disvelamento, a partire dalla figura dell’es gibt. La differenza tra la cosa data (l’ente) e il movimento di donazione originaria (il si dà quale essenza dell’essere) fa percepire nel dato una profondità ontologica, come profondità inapparente dell’atto donativo, il quale ostende e porta innanzi l’ente mentre si ritira, si trattiene e differisce dal contenuto della manifestazione. In questa dinamica, l’essere, al di là di ogni sua riduzione a oggetto, ente o presenza, è pensato come ciò che originariamente si dona, non alla stregua di un ente, ma nella sua differenza con ogni ente. Il darsi, del resto, appartiene tanto all’essere come destinare (versare nella presenza), quanto al tempo come arrecare (portare all’aperto):

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l’istanza che tiene insieme, nella loro co-appartenenza, «l’invio destinale» e l’«arrecare liberante» è attestato come Ereignis («evento appropriante im-propriante»). Esso succede all’essere, nel doppio senso che ne rappresenta l’ultima figura e soprattutto che sporge su ogni precedente costellazione ontologica: idea, energheia, actualitas, concetto, volontà. Tuttavia, Heidegger oscilla ancora nell’attribuire l’ultima parola all’essere (di cui l’Ereignis rappresenta l’inveramento e la più alta possibilità) o all’Ereignis stesso (come «donazione» [Er-gebnis], della quale «l’essere ha ancora bisogno, per pervenire, come essere presente, a ciò che gli è proprio», Unterwegs zur Sprache, Pfullingen 1971, tr. it. a cura di A. Caracciolo, In cammino verso il linguaggio, Milano 1973, p. 202). In quest’ultimo senso, «l’essere sarebbe un modo dell’Ereignis e non l’Ereignis un modo dell’essere» (Zur Sache des Denkens, Tübingen 1969, tr. it. a cura di E. Mazzarella, Tempo e essere, Napoli 1987, p. 127). L’Ereignis viene esperito dall’uomo «all’interno del dire originario come il donante». Ciò avviene quando il pensiero, abbandonandosi alla donazione (Er-gebnis) dell’evento che si destina all’uomo, fa esperienza del reciproco appartenersi (Zu-einander-Gehören) di uomo ed essere come com-propriati. Nella fenomenologia contemporanea, il filosofo francese Jean-Luc Marion, raccogliendo l’eredità della Gegebenheit husserliana e dell’es gibt di Heidegger, declina in piena autonomia la figura della donazione (donation), in cui l’essere è fatto precipitare, divenendo un semplice caso, regionale e particolare, dell’orizzonte originario della donazione. La donazione appare come la maniera d’essere degli enti: alla base di ogni «dato» si dispiega il movimento di donazione, come risalita del fenomeno alla propria manifestazione, per cui il dato ridotto (cioè l’apparire ristretto alla autentica donazione attraverso la sospensione di ogni trascendenza così come degli orizzonti dell’oggettività e dell’essere) va inteso anche come dono, rivelando il suo carattere di «donato» solo a uno sguardo addestrato fenomenologicamente. S. Zanardo BIBL.: E. HUSSERL, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, in Hua, vol. I, tr. it. a cura di F. Costa, Meditazioni cartesiane con l'aggiunta dei Discorsi parigini, Milano 1988; M. HEIDEGGER, Identität und Differenz, Pfullingen 1957, tr. it. di U. Ugazio, Identità

Donders e differenza, in «aut aut», 187-188 (1982), pp. 2-37; E. HUSSERL, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, in Hua, voll. III-V, tr. it. a cura di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Torino 2002, 2 voll.; E. HUSSERL, Logische Untersuchungen, in Hua, voll. XVIII-XIX, tr. it. di G. Piana, Ricerche logiche, Milano 2001, 2 voll.; M. HEIDEGGER, Über den Humanismus, in GA, vol. IX, pp. 311-360, tr. it. di F. Volpi, Lettera sull’«umanismo», in Segnavia, Milano 1987, pp. 267315; J.-L. MARION, Réduction et donation, Paris 1989; J.-L. MARION, Etant donné: essai d’une phénoménologie de la donation, Paris 19982, tr. it. di R. Caldarone, Dato che: saggio per una fenomenologia della donazione, Torino 2001. ➨ DATO; DONO; EREIGNIS; ESPERIENZA; FENOMENO; INTENZIONALITÀ; OGGETTO.

DONDERS, FRANCISCUS CORNELIS. – FisioloDonders go e oftalmologo olandese, n. a Tilburg il 27 magg. 1818, m. a Utrecht il 24 mar. 1889. Si laureò in Medicina presso l’università di Utrecht e i suoi primi interessi in ambito scientifico riguardarono i movimenti oculari, l’accomodazione e il suono delle vocali. Nel 1846 elaborò il principio secondo cui, per ogni direzione dello sguardo, l’occhio assume sempre la stessa posizione; fu Helmholtz che, nel 1886, definì questa regola come legge di Donders. Nel 1854 Donders fondò, con A. von Gräfe, l’«Archiv für Ophthalmologie». Dapprima medico nell’esercito olandese, nel 1842 gli furono assegnati gli insegnamenti di anatomia, istologia e fisiologia nella scuola medica militare di Utrecht. Nel 1858 fondò il primo ospedale oftalmico olandese, e nel 1862, alla morte del maestro, il fisiologo Van der Kolk, ne ereditò la cattedra di Fisiologia dell’università di Utrecht. Investito del nuovo impegno accademico, Donders, insieme con l’allievo Johan Jacob de Jaager, iniziò ad indagare la connessione fra neurofisiologia e coscienza. Escludendo dal proprio orizzonte ogni principio vitalistico come causa dei fenomeni mentali, Donders era convinto che mediante i metodi della fisiologia si potesse riuscire ad oggettivare la coscienza. A partire dalle prospettive di ricerca sulla cosiddetta «equazione personale» in astronomia e sulla velocità dell’impulso nervoso in neurofisiologia, si occupò quindi di misurare i fatti psichici. Nel 1865 pubblicò un famoso report (Over de snelheid der gedachte en der wilsbepaling: Voorloopige mededeeling, in 3065

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Dondeyne «Nederlandisch Archiv voor Genees-en Natuurkunde, 1, 1865, pp. 518-521») sulla possibilità di valutare il lavoro mentale mediante il calcolo dei tempi fisiologici, in seguito definiti da Exner «tempi di reazione»; nel 1868, la traduzione tedesca di questo report fece conoscere le sue importanti ricerche fra i fisiologi e gli psicologi. La misura del tempo giocò, da allora, un ruolo chiave per lo sviluppo di un metodo che fornisse alla psicologia una base scientifica; si sconfessava infatti l’idea che la psicologia non sarebbe mai potuta essere una scienza della natura al pari delle altre poiché non c’era un modo per applicarle la matematica. Donders, ipotizzando che la differenza tra il tempo necessario per eseguire un compito complesso e quello richiesto per un compito semplice fosse dovuta al fatto che, nel primo caso, erano messi in gioco processi mentali in misura quantitativamente maggiore, e determinando tale differenza, fornì la misura oggettiva del tempo necessario per lo svolgimento dei processi mentali implicati nell’esecuzione di compiti, come, ad esempio, scegliere fra differenti risposte. La possibilità di associare un parametro quantitativo a un fenomeno psichico contribuì a realizzare il distacco della psicologia dall’alveo della filosofia e a inserirla in quello delle scienze naturali. Donders dette avvio, quindi, alla cosiddetta psicocronometria, tecnica di ricerca fondamentale nella tradizione di psicologia sperimentale wundtiana. Affiancando l’introspezione sistematica alla misurazione dei tempi di reazione, la psicologia sperimentale di tradizione tedesca si diffuse come principale corrente psicologica alla fine del XIX secolo. A partire dal secondo dopoguerra, dopo una parentesi rappresentata dall’egemonia comportamentista, si riscontra un rinnovato interesse per i tempi di reazione all’interno del contemporaneo indirizzo cognitivista. R. Foschi BIBL.: E.G. BORING, A History of Experimental Psychology, New York 19502; J. BROZEK, Contributions to the History of Psychology: XII. Wayward history: F. C. Donders (1818-1889) and the Timing of Mental Operations, in «Psychological Report», 26 (1970), pp. 563-569; J. BROZEK - M.S. SIBINGA, Origins of Psychometry: Johan Jacob de Jaager, Student of F. C. Donders on Reaction Times and Mental Processes, Nijeuwkoop 1970; E. S. GOODMAN, Citation Analysis as a Tool in Historical Study: a Case Study Based on F. C. Don-

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

ders and Mental Reaction Times, in «Journal of the History of the Behavioral Sciences», 7 (1971), pp. 187-191; F. W. NEWELL, Franciscus Cornelis Donders (1818-1889), in «American Journal of Ophthalmology», 107 (1989), pp. 691-693.

DONDEYNE, Dondeyne ALBERT. – Filosofo e teologo belga, n. a Lovanio il 10 mag. 1901 e m. ivi il 12 febbr. 1985. Dopo gli studi teologici, dal 1925 si trasferì a Lovanio; sacerdote dal 1926, ritornò a Bruges come insegnante di teologia dogmatica, dove diresse le Collationes Brugenses fino al 1933. Dal 1936 al 1971 insegnò all’università di Lovanio, ricoprendo, oltre la presidenza della locale Société philosophique, la direzione della Revue Philosophique de Louvain e del Répertoire bibliographique de la Philosophie. La speculazione filosofica e la riflessione teologica di Dondeyne è orientata a fondare filosoficamente la possibilità della fede e a connetterla alla comprensione della concreta esistenza storica testimoniata dal pensiero contemporaneo. L’ultima fase della sua riflessione è caratterizzata dall’incontro con il pensiero di E. Levinas. C. Palermo BIBL.: L’intellectuel chrétien, Bruxelles 1948; con J. GIBLET, Christianisme et vérité, Paris 1959; Foi chrétienne et pensée contemporaine, Louvain 19613; Geloof en wereld, Antwerpen 1961, tr. it. di V. Pagani, La fede in ascolto del mondo, Assisi 1966; Miscellanea Albert Dondeyne, Louvain 1974. Su Dondeyne: «Université catholique de Louvain, bibliographie académique», VI, pp. 45-46; VII, pp. 357-60; VIII, p. 22; J. LADRIÈRE, In memoriam Mgr Albert Dondeyne, in «Revue Philosophique de Louvain», 83 (1985), pp. 462-484; B. WILLAERT (a cura di), Miscellanea Albert Dondeyne: Godsdienstfilosofie. Philosophie de la religion, Louvain 1974; A. VERGOTE, Mgr Albert Dondeyne, in «Ephemerides theologicae Lovanienses», 1985, pp. 445-448.

DONG ZHONGSHU. – Vissuto tra il 179 ca. Dong Zhongshu e il 104 ca. a. C. Confuciano del primo periodo Han autore del Chunqiu fanlu (Gemme depositate come rugiada negli Annali delle Primavere e degli Autunni). Sulla base del Commentario di Gongyang agli stessi Annali, elabora la dottrina della «mutua risonanza» fra Cielo e mondo umano, introducendo il concetto di «volon); «volontà» che «rità celeste» (Tianzhi sponde» (ying ) alle azioni (gan ) armoniche o disarmoniche degli uomini – e in particolare del Sovrano inteso come intermediario fra il Cielo e la Terra. Le applicazioni più pro-

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Dono

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

priamente politiche della sua prospettiva cosmologica contribuiranno in maniera rilevante all’adozione del confucianesimo come «dottrina di stato». A. Cadonna BIBL.: S. DAVIDSON - M. LOEWE, Ch'un ch'iu fan lu, in M. LOEWE, Early Chinese Texts. A Bibliographical Guide, Berkeley 1993, pp. 77-87.

DONIO, AGOSTINO. – Filosofo, di Cosenza, Donio vissuto nella seconda metà del XVI secolo. Intelligente divulgatore della filosofia di Telesio, scrisse il trattato De natura hominis (Basileae 1581) in cui espone, da un punto di vista critico-interpretativo, le soluzioni telesiane dei problemi filosofici concernenti l’anima e le attività umane. L’aspetto più interessante dell’opera è costituito da un approfondimento in senso agostiniano (che già preannuncia Campanella) della gnoseologia di Telesio, per cui Donio afferma il primato conoscitivo del primus sensus come intellectio sui ipsius. Muovendo da questo punto di partenza coscienzialistico, egli delinea anche una metafisica generale di impronta naturalistica e panpsichistica, secondo cui il principio che unifica e regge tutta la realtà naturale è il calore, inteso come senso universale e causa di ogni mutamento. M. Schiavone BIBL: G. SAITTA, Il pensiero italiano nell’Umanesimo e nel Rinascimento, vol. III: Il Rinascimento, Firenze 19612, pp. 76-79; L. DE FRANCO, L’eretico Agostino Doni, medico e filosofo cosentino del 500, Cosenza 1973 (in appendice il De natura hominis, con tr. a fronte).

DONNOLO, SHABBETAJ BEN AVRAHAM. – EruDonnolo dito ebreo italiano, n. a Oria (Brindisi) nel 913, m. attorno al 982. Autore di un celebre trattato farmacologico, il Sefer ha-Jaqar (Il libro Prezioso), Donnolo espose il proprio sapere enciclopedico nel Sefer Chakhmoni (Libro Sapiente), uno dei più antichi commenti al Sefer Jetzirah. In quest’opera, medicina, astrologia e tradizione esoterica ebraica sono organizzate in un sistema di tipo neoplatonico che tradisce l’influenza su Donnolo della cultura greco-bizantina. Incentrato sull’analogia microcosmo-macrocosmo, il Sefer Chakhmoni rappresenterà una fonte importante per le successive speculazioni mistiche sulla creazione, soprattutto presso i chassidim ashkenaziti. V. Putzu

BIBL.: D. CASTELLI, Il commento di Shabbetaj Donnolo sul Libro della Creazione - pubblicato per la prima volta nel testo ebraico con note critiche e introduzione da David Castelli, Firenze 1880; A. SHARF, The Universe of Shabbetaj Donnolo, Warminster 1976; G. FIACCADORI, Donnolo Shabbetaj bar Abraham, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1992, vol. XLI, coll. 213218; E.R. WOLFSON, The Theosophy of Shabbetaj Donnolo, with Special Emphasis on the Doctrine of the Sefirot in Sefer Hakhmoni, in «Jewish History», 6 (1992), pp. 281-316; P. MANCUSO - D. SCIUNNACH (a cura di), Sefer Yetzirà - Libro della Formazione. Con il commentario Sefer Chakhmonì (Libro Sapiente) di Shabbetaj Donnolo, Milano 2001; G. LACERENZA (a cura di), Shabbetaj Donnolo. Scienza e cultura ebraica nell’Italia del secolo X, suppl. agli «Annali Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”», 2004; V. PUTZU, Shabbetaj Donnolo: un sapiente ebreo nella Puglia bizantina altomedievale, Cassano delle Murge 2004.

DONO (gift; Geschenk, Gabe; don; don). – La riDono flessione intorno al dono, che oggi viene da più parti rivisitata da un punto di vista speculativo e pratico-politico, trae origine dal Saggio sul dono scritto nel 1924 da Marcel Mauss, sulla base dell’osservazione antropologica delle società arcaiche. Il dono vi compare come un principio strutturante e un «fenomeno sociale totale»: è collettivo, ritualizzato e riguarda tutti gli aspetti della società: è, infatti, creatore simbolico di socialità e motore della circolazione materiale dei beni. La sua essenza relazionale si riassume nel triplice obbligo di donare, ricevere e restituire. Segue che il contro-dono è implicato e inscritto nella natura stessa del dono, pena l’estromissione dall’ordine sociale del donatario insolvente. La circolarità dei beni prodotta dalla catena di offerte e di controprestazioni introduce, però, una nozione di reciprocità che trascende il semplice arco delle interpretazioni economiche. Infatti, l’obbligo alla restituzione non è regolato da qualcosa di simile a un contratto, né rientra nella pratica del baratto, ma è una proprietà intrinseca della cosa donata, nella misura in cui essa rimane permanentemente legata alla persona del donatore: nel dono risiede una «virtù», forza o azione vitale e spirituale (il mana), che rappresenta il vero motivo e il fondamento dello scambio (di doni). La logica soggiacente a questa pratica è di assumere il debito come intrinsecamente congiunto al dono: il debito, mentre impegna gli attori sociali a mantenersi in rapporto, introduce una circolarità aperta, consistente nel fatto che il dono ricambiato 3067

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Dono non è mai uguale a quello ricevuto e rimane sospeso in una indecidibilità costitutiva. Il dono arcaico non è funzione della gratuità né pretende di essere disinteressato, ma nasce nell’interrelazione di quattro componenti che rappresentano anche le fonti di senso dell’azione sociale: obbligo (in vista del mantenimento del legame sociale), libertà (nella forma del differimento temporale e della fluidità delle forme di restituzione), interesse strumentale (legato al bisogno di appartenenza) e piacere (nella tessitura interminabile di rapporti). Nella sua ripresa di Mauss, Georges Bataille sovradetermina la dimensione agonistica del dono (inconsciamente ammessa nelle pratiche arcaiche del potlatch), trasformandolo in un gesto ostentatorio (di affermazione personale legata al piacere di perdere) e in uno strumento di potere (ciò di cui il soggetto si disfa, nella distruzione e nel consumo di risorse, si trasforma in un potere che lo rinforza socialmente). Il dono diventa funzione di dispendio energetico (dépense), il cui scopo è il ritiro dei beni dal regime dell’utilità e dal circuito della produzione. Alla razionalità economica retta dall’interesse e dal profitto, Bataille oppone le pratiche improduttive, aventi il proprio fine in se stesse (attività edonistiche, pratiche di consumo individuale e sociale, forme dell’arte e della scrittura): esse propiziano la creazione per mezzo del «principio di perdita», avendo di mira l’esperienza di spossessamento del soggetto, chiamato con ciò a trascendere il senso del limite e a raggiungere l’intimità perduta con un fondo veritativo coperto e inaccessibile. Fondamentalmente disinteressato al legame, il dono viene così declinato nella dimensione della dispersione, nella soppressione della misura e nel sogno di anarchia creativa all’indirizzo della «sovranità»: l’essenza del dono «che è di aprire, di dare, di perdere, e che esclude calcoli» viene così eletta a luogo di senso della vita umana che, per un verso, si smarca dalla mercificazione del mondo e dei rapporti e, per altro verso, nello smarrimento dell’inutile coltivato per se stesso, si deposita in un nodo di contraddizioni e di inganni riflessi nella storia e ancor più «nelle operazioni di pensiero». Il lavoro intorno al dono è proseguito nelle scienze sociali a partire dagli anni ottanta per merito del Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales (MAUSS), che di Mauss ha assunto il nome e l’aspirazione a una antropolo3068

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gia normativa. Autori come A. Caillé, J. Godbout e S. Latouche, tra gli altri, hanno interrogato l’universale relazione donante allo scopo di ripensare la genesi e il consolidamento del legame sociale sul fondamento di «una terza rete di circolazione di beni e servizi», terza rispetto allo scambio di mercato e alla redistribuzione statale. Il «paradigma del dono» si oppone, perciò, tanto all’assiomatica dell’interesse individuale promosso dalle istituzioni economiche (dove le scelte sono regolate dal rapporto di appropriazione dei beni secondo il calcolo costi/benefici), quanto alle derive olistiche, dove i soggetti diventano momenti estrinseci della riproduzione di un sistema funzionale ipostatizzato e formalizzato. Il modello teorico che ne risulta è costruito intorno a due tesi centrali: anzitutto, il dono è uno scambio (un obbligo liberamente contratto), per cui la risposta e il rilancio del dono sono immanenti al sistema; in secondo luogo, questa forma di scambio è irriducibile a ogni movente utilitaristico: dona colui che, invece di rendere, comincia a sua volta a donare. La logica del dono esprime in questo modo una reciprocità asimmetrica che, assicurando la sporgenza del gesto oblativo su ogni comportamento di tipo acquisitivo e su ogni ricerca di proporzionalità diretta o di equità formale, tiene innanzi un doppio traguardo normativo: il rafforzamento del senso di debito simbolico diffuso tra gli attori sociali e il primato del legame (il bene relazionale) sul bene scambiato. Parallelamente alla trattazione sociologica, l’analisi filosofica del concetto di dono compare con Husserl (nella Gegebenheit come intuizione donatrice originaria) e soprattutto con Heidegger (nella costellazione di figure che rimandano alla semantica del dare: es gibt, Gabe, Ereignis, Er-gebnis). In questo senso, la donazione diventa l’orizzonte teorico in cui si gioca l’ontologia contemporanea post-metafisica, oltre ogni riduzione dell’essere a oggetto, ente o semplice presenza. Il dono, espressione più radicale della differenza ontologica, rappresenta un nuovo sorgere, in qualità di evento inappropriabile, nella misura in cui scioglie il coagulo sostanziale, mentre inietta, nell’essere, il divenire, il movimento di dis-propriazione e l’azione di disvelamento. In questa direzione si inseriscono le recenti proposte teoriche di J. Derrida e di J.-L. Marion, che, mentre respingono ogni interpretazione economica e ogni lettura relazionale del dono (Mauss), sug-

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geriscono la decostruzione o l’oltrepassamento dell’ontologia. In Jacques Derrida, che annoda antropologia e ontologia generale, il dono assume la forma del paradosso: se giunge a manifestarsi nell’esperienza secondo il modello causale (Aristotele) o quello circolare (Mauss), il dono si insabbia nel suo contrario (lo scambio), perché il semplice senso intenzionale del dono gratifica il donatore, risarcendolo della perdita, e trattiene il donatario nell’insolvenza oppure lo proietta nel calcolo dei tempi e dei modi di estinzione del debito. In questo modo, le condizioni di possibilità del dono, individuate da Mauss nelle categorie di reciprocità, contro-dono e identità, descriverebbero in realtà l’annullamento del dono, trasformandolo in un prestito da rimborsare. Se, invece, il dono non accede alla scena della fenomenalità, ma si ritira dietro ogni apparire, esso si dilegua nella figura dell’impossibile. Questa impossibilità del dono (di ordine fenomenico) si rende pensabile nella cifra dell’evento, imprevedibile, irriducibile a un significante e casuale: l’evento donante lacera il continuum temporale mentre si espone alla possibilità della perdita senza riserve. Immettendo nel «presente» lo scarto dell’assenza (il dono non può farsi presente senza dileguarsi), vi introduce la plastica e informe potenza della khora, quale oscurità fluida e indifferenziata: in questo modo il dono precede ogni questione, differisce l’essere e sfalda la coscienza autoreferenziale della modernità nel suo disegno di colonizzare l’alterità. A questa lettura antieconomica del dono segue, in Donare la morte, un’interpretazione «ultra-etica», nel senso che il puro dono incrocia le figure del sacrificio e della «donazione iperbolica», in ragione di un obbligo intransitivo e senza condizioni che, sulla scia di Levinas, impegna l’essere umano verso ogni altro in quanto «totalmente altro» (tout autre), trascendendo così il piano giuridico-politico-etico retto da simmetria, giustizia e proporzionalità. Jean-Luc Marion, nell’impresa di purificazione eidetica delle componenti relazionali del dono, (riduzione di ogni trascendenza dietro al dono e affrancamento dal regime dello scambio), ripensa il dono sullo sfondo della donazione ed eleva quest’ultima a principio «ultimo» e «originario» che apre l’intero campo dell’apparire, rimanendo immanente alla manifestazione di ogni fenomeno d’essere. La cifra della donazione intende così restituire la

Dono sovrabbondanza dell’inapparente atto donativo su ogni contenuto della manifestazione, mostrando che al cuore di ogni dato agisce il suo carattere donato, ovvero il suo essere-peril-dono (il fondo donato di ogni dato). La risposta di Marion allo stupore del c’è qualcosa piuttosto che il nulla, lo conduce a trasformare l’accadimento dell’essere (appiattito sulla presenza) nell’azione di donazione e il soggetto da coerenza autofondativa e immanenza autarchica a originaria passività ontologica (adonato): vedere significa ricevere un dono, perché apparire è darsi da vedere. Spingendo il dono fino all’ipotesi della interdonazione (fra adonati), Marion allude poi a un’antropologia relazionale: la donazione libera l’ego da se stesso, imprimendogli non un quid, ma la sua energheia: la forma del dono e il modo d’essere della ritrazione. La disposizione al per-altri è quindi il primo gesto del pensiero e la condizione dell’apertura della coscienza, giacché nessuno può iniziare la dinamica del donare, se dal dono è già sempre preceduto. Illuminante è, infine, la posizione di Paul Ricoeur che, saldando etica e ontologia, colloca il dono all’intersezione tra la verticale della gratuità e della generatività di agape (la disimmetria e la logica della sovrabbondanza) e l’esigenza orizzontale della relazione di scambio. La forza paradossale del dono sembra insistere su questo: dare senza chiedere il contro-dono rappresenta la condizione di possibilità del dono, ma dare senza interesse alla risposta significa perdere la relazione di dono. S. Zanardo BIBL.: G. BATAILLE, La part maudite: précédé de La notion de dépense, Paris 1967, tr. it. di F. Serna, La parte maledetta: preceduto dalla nozione di “dépense”, Torino 1992; J. BAUDRILLARD, L’echange symbolique et la mort, Paris 1976, tr. it. di G. Mancuso, Lo scambio simbolico e la morte, Torino 1984; C. LÉVI-STRAUSS, Le strutture elementari della parentela (1947), Milano 1984; J. DERRIDA, Donner le temps, Paris 1991, tr. it. di G. Berto, Donare il tempo. La falsa moneta, Milano 1996; J. GODBOUT, L’esprit du don, Paris 1992 (scritto in collaborazione con A. Caillé), tr. it. di A. Salsano, Lo spirito del dono, Torino 1993; M. GODELIER, L’énigme du don, Paris 1992; J. STAROBINSKI, Largesse, Paris 1994, tr. it. di A. Perazzoli-Tadini, A piene mani. Dono fastoso e dono perverso, Torino 1995; J.-L. MARION, Etant donné, Paris 1997, tr. it. di R. Caldarone, Dato che, Torino 2001; A. CAILLÉ, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono (1988), Torino 1998; J.D. CAPUTO - M. SCANLON (a cura di), God, the Gift and Postmodernism, Bloomington 1999; J. DERRIDA, Donner la mort, Paris

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Donoso Cortés

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

DONOSO CORTÉS, JUAN FRANCISCO, priDonoso Cortés mo marchese di Valdegamas. – Politico e

Donoso Cortés è stato chiamato il de Maistre spagnolo, per lo spirito della sua dottrina, più ancora che per comunanza di idee. Afferma che la scienza teologica comprende tutte le altre scienze, che sono tali nella misura in cui sono permeate di dottrina teologica. Tali affermazioni si fondano su alcuni postulati di chiara intonazione tradizionalistica o fideistica, cui Donoso Cortés era portato dalla sua fede di convertito al cattolicesimo e dalla conoscenza dell’Europa del suo tempo. Egli accentua il fideismo e la sfiducia nella ragione. Conformemente a questo tradizionalismo scettico, Donoso Cortés considera il linguaggio come una delle proprietà in attributo ricevuto dall’uomo nell’atto stesso della creazione. Nel linguaggio risiedono le prime e fondamentali idee dell’uomo. Come pensatore politico, Donoso Cortés (dopo l’esperienza rivoluzionaria del 1848) ricerca le cause determinanti della crisi europea e mondiale e i rimedi adeguati per risolverla. Sostiene che il cattolicesimo è la contraddizione assoluta della rivoluzione, e perciò ne può essere, esso solo, il rimedio radicale. A una delle forme di civiltà, e cioè alla forma filosofica che è negativa e decadente, egli contrappone la forma cattolica, che è positiva e costruttiva. La mentalità razionalistica, egli scrive, ha avvelenato la società europea.

filosofo della storia spagnolo, n. a Valle de la Serena (Badajoz) il 6 magg. 1809, m. a Parigi il 3 mar. 1853. I suoi lavori, sebbene siano in gran parte solo polemici e occasionali, rivelano grande penetrazione filosofica. L’opera principale è Ensayo sobre el catolicismo, el liberalismo y el socialismo, Madrid 1851 (subito tradotto in francese e in italiano). Tra i lavori occasionali: gli articoli del 1838 sul «Correo nacional» circa la Scienza Nuova di Vico, che egli aveva allora conosciuto rimanendone fortemente impressionato: Donoso Cortés accentua l’opposizione fra storia ideale eterna, da lui identificata con una «metastoria» (Agostino), e la storia temporale; alcuni discorsi alle Cortes (sulla situazione della Spagna, 4 marzo 1847; sulla dittatura, 4 gennaio 1849; sull’Europa, 30 dicembre 1850); alcune lettere, specie quelle al cardinale Fornari, nelle quali egli si difende dall’accusa di manicheismo: sul piano naturale la storia si concluderebbe col trionfo del male, se Dio, mediante interventi soprannaturali, non portasse a compimento l’opera frammentaria dei suoi santi.

A. Muñoz Alonso BIBL.: J. JURETSCHKE (a cura di), Obras completas de Donoso Cortés, Madrid 1946, 2 voll.; L. CIPRIANI PANUNZIO - G. DE ROSA (a cura di), Antologia degli scritti. Il potere cristiano, Brescia 1965; C. VALVERDE (a cura di), Obras completas, Madrid 1970, 12 voll. Su Donoso Cortés: E. SCHRAMM, Donoso Cortés Leben und Werken, Hamburg 1935, tr. sp. Donoso Cortés, su vida y su pensamiento, Madrid 1936; P. DIETMAR WESTMEYER, Donoso Cortés, Staatsmann und Theologe. Eine Untersuchung seines Einsatzes der Theologie in die Politik, Münster 1940; C. SCHMITT, Positionen und Begriffe, Hamburg 1940; R. CEÑAL, La filosofía de la historia de Donoso Cortés, in «Revista de Filosofía», 11 (1952), pp. 91-113; E. SCHRAMM, Donoso Cortés, ejemplo del pensamiento de la tradición, Madrid 1952; C. SCHMITT, Interpretación europea de Donoso Cortés, Madrid 1952; G. DE ARMAS, Donoso Cortés, Madrid 1953; J. CHAIX-RUY, Donoso Cortés, théologien de l’histoire et prophète, Paris 1956; R. DEMPF, Die Ideologiekritik des Donoso Cortés, in «Philosophisches Jahrbuch», 64 (1956), pp. 298-338; R. FERNÁNDEZ CARVAJAL, Las constantes de Donoso Cortés, in «Revista de Estudios políticos», 95 (1957), pp. 75-107; A. CATURELLI, Donoso Cortés Ensayo sobre su filosofía de la historia, Córdo-

1999, tr. it. di L. Berta, Donare la morte, Milano 2002; R. GUIDERI, Ulisse senza patria: etica e alibi del dono, Napoli 1999; P. SEQUERI, Dono verticale e orizzontale: fra teologia, filosofia e antropologia, in G. GASPARINI (a cura di), Il dono tra etica e scienze sociali, Roma 1999; M. MAUSS, Saggio sul dono (1924), in Teoria generale della magia, Torino 2000; P. GILBERT - S. PETROSINO, Il dono. Un’interpretazione filosofica, Genova 2001; G. MARANIELLO - S. RISALITI - A. SOMAINI, Il dono. Offerta ospitalità insidia, Milano 2001; E. PULCINI, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Torino 2001; M. HÉNAFF, Le prix de la vérité. Le don, l’argent, la philosophie, Paris 2002; G. RICHARD, Nature et formes du don, Paris 2002; P. SEQUERI, L’umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Milano 2002; C. VIGNA, Sul dono come relazione pratica trascendentale, in C. VIGNA (a cura di), Etica trascendentale e intersoggettività, Milano 2002; G. FERRETTI (a cura di), Il codice del dono. Verità e gratuità nelle ontologie del Novecento, Pisa-Roma 2003; S. LABATE, La buona verità. Senso e figure del dono nel pensiero contemporaneo, Assisi 2004; P. RICOEUR, Parcours de la reconnaissance, Paris 2004, tr. it. a cura di F. Polidori, Percorsi del riconoscimento, Milano 2005; S. CURRÒ, Il dono e l’altro. In dialogo con Derrida, Levinas e Marion, Roma 2005; L. HYDE, Il dono. Immaginazione e vita erotica della proprietà (1979), Torino 2005. ➨ ECONOMIE PRIMITIVE.

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Dooyeweerd

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

ba 1958; S. GALINDO HERRERO, Donoso Cortés y su teoría política, Badajoz 1958 (dissertazione); B. MONSEGÚ, Clave teológica de la historia según Donoso Cortés, Badajoz 1958 (dissertazione); C. VALVERDE, Presupuestos metafísicos en la filosofía social y política de Donoso Cortés, in «Miscelanea Comillas», 16 (1958), pp. 5-81; P. SIENA, Donoso Cortés, Roma 1966; B. PERRINI, Donoso Cortés. La concezione della storia e la sua polemica con i liberali e i socialisti, Milano 1980; A. SCHWAIGER, Christliche Geschichtsdeutung in der Moderne: eine Untersuchung zum Geschichtsdenken von J. Donoso Cortés, E. Von Lasaulx und V. Solov’ev, Berlin 2001.

DONS, WALDEMAR THEODOR. – Filosofo norDons vegese, n. nel 1849, m. nel 1917. Incaricato all’università di Kristiania dal 1875 al 1882. Come scolaro di Monrad ebbe una formazione essenzialmente hegeliana e nello scritto Sul Boströmianismo (in «Norske universitets og skoleannaler», serie III, 1874) attaccò l’idealismo oggettivo del pensatore svedese e ricondusse i presupposti di questo sistema, per metà platonico e per metà romantico, ai principi della dialettica hegeliana. In saggi pubblicati in «Nyt norsk tidsskrift» («Nuova rivista norvegese», 1877) diede poi un’esposizione, sotto molti aspetti benevola e anche penetrante, delle idee fondamentali del positivismo. Più tardi si convertì al cattolicesimo. A. Nyman BIBL.: A. AALL, Filosofien i Norden, Kristiania 1919.

DONZELLI, GIUSEPPE. – Filosofo sensista, Donzelli abate, vissuto nella seconda metà del Settecento e nei primi decenni del sec. XIX. Ispirandosi alle teorie di Condillac e Bonnet, scrisse: Principi di diritto naturale, Palermo 1813; Logica ed elementi dell’arte di pensare, ivi 1818. I Principi sono fondati sul presupposto che i sensi e la ragione sono i soli mezzi concessi dalla natura per conoscere il vero e che le sensazioni, dandoci la prima cognizione delle cose, sono la base dei giudizi e dei ragionamenti. Il fine dell’uomo è la felicità, e la norma per giungere a tal fine è la retta ragione. Sulla ragione, per mezzo dell’obbligazione, è fondato il diritto, che è la facoltà di agire e il mezzo che ci concede la natura per ottenere ciò che è necessario alla nostra felicità. Nei Saggi sui vantaggi della monarchia moderna (Palermo 1794-1813) difende le teorie liberali inglesi. A. Viviani

BIBL.: G. CAPONE BRAGA, La filosofia francese e italiana del Settecento, Arezzo 1920 (Padova 19412), vol. II, p. 103; G. NATALI, Il Settecento, Milano 19646, p. 316.

DOOYEWEERD, HERMAN. – Giurista e filoDooyeweerd sofo olandese, n. ad Amsterdam il 7 ott. 1894, m. nel 1977. Laureatosi in diritto civile all’università libera (riformata) di Amsterdam nel 1926 (cfr. la prolusione De beteekenis der wetsidee voor rechtswetenschap en rechtsphilosophie [Il significato dell’idea della legge per la scienza e la filosofia del diritto]), divenne professore di filosofia del diritto e di diritto storico olandese nella stessa università. Insieme a D.H.Th. Vollenhoven, Dooyeweerd ha posto i fondamenti di una filosofia trascendentale cristiana. Questo tipo di filosofare è consapevole, nella riflessione trascendentale sul pensiero teoretico, dei propri presupposti cristiani fondati sulla fede, e mette capo a un’idea trascendentale fondamentale (idea della legge e idea del soggetto), determinata nella direzione e nel contenuto da questo motivo religioso di fondo. In quanto «teoria della struttura della realtà temporale», la filosofia comprende una teoria delle «strutture modali» (l’ordine e la connessione degli aspetti del reale) e una teoria delle «strutture individuali», cioè delle individualità temporali nella diversificazione modale delle loro funzioni. Sul pensiero di Dooyeweerd hanno influito largamente le dottrine neokantiane della Scuola di Marburgo e specialmente il metodo fenomenologico di Husserl; tuttavia la sua speculazione si sviluppa proprio come critica trascendentale a queste dottrine sulla base della rivelazione cristiana, che egli professa nell’ambito della tradizione riformata del calvinismo, sebbene a partire dal 1940 accentui sempre più il carattere ecumenico del proprio pensiero. Nel 1936 Dooyeweerd ha fondato, insieme a Vollenhoven, una Società per la filosofia calvinistica e la rivista «Philosophia reformata». M. Marlet BIBL.: De wijsbegeerte der wetsidee (Filosofia dell’idea della legge), Amsterdam 1935-36, 3 voll. (tr. ingl. completamente rifatta, A New Critique of Theoretical Thought, Amsterdam-Philadelphia 1953-57; un quarto vol. di indici è uscito nel 1958); Introduction à une critique transcendentale de la pensée philosophique, in Mélanges Philosophiques, Bibliothèque du Xme Congrès International de Philosophie, vol. II, Amsterdam 1948, pp. 70-82; Reformatie en Scholastiek in de wijsbegeerte (Riforma e scolastica nella filosofia),

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Dopp vol. I, Franeker 1949; La sécularisation de la science, in «La revue réformée», 1954, pp. 138-157; Philosophie et théologie, in «La revue réformée», 1958, pp. 48-60; Mouvements progressifs et regressifs dans l’histoire, in «La revue réformée», 1958, pp. 1-13; Cinq conférences données au Musée social à Paris, in «La revue réformée», 1959, pp. 1-76 (La prétendue autonomie de la pensée philosophique; La base religieuse de la philosophie grecque, scolastique, humaniste; La nouvelle tâche d’une philosophie chrétienne); Roots of Western Culture, Toronto 1979. Su Dooyeweerd: W. YOUNG, Toward a Reformed Philosophy. The Development of a Protestant Philosophy in Dutch Calvinistic Thought since the Time of A. Kuyper, Grand Rapids - Franeker 1952; M.F.J. MARLET, Grundlinien der kalvinistischen «Philosophie der Gesetzidee» als christlicher Transzendentalphilosophie, München 1954; A.M. CONRADIE, The Neo-calvinistic Concept of Philosophy, Natal 1960; V. BRUMMER, Transcendental Criticism and Christian Philosophy. A Presentation and Evaluation of H. Dooyeweerd’s «Philosophy of the Cosmonomic Idea», Franeker 1961; R. NASH, Dooyeweerd and the Amsterdam Philosophy, Grand Rapids 1962; AA.VV., Philosophy and Christianity. Philosophical Essays Dedicated to Professor Dr. H. Dooyeweerd, Kampen-Amsterdam 1965 (bibl. degli scritti, pp. 449-452); C.T. MCINTIRE (a cura di), The legacy of H. Dooyeweerd, Lanham 1985; C.T. MCINTIRE, H. Dooyeweerd in North America, in D. WELLS (a cura di), Reformed Theology in America, Grand Rapids 1985, pp. 172-185.

DOPP, JOSEPH. – Logico belga, n. a Bruxelles Dopp il 21 apr. 1901, m. a Eizer-Overijse il 22 febb. 1978. Pensatore di stampo neoscolastico, si è occupato soprattutto di logica, dedicandosi al confronto dell’impostazione tradizionale con quella matematica. A partire dal suo orientamento epistemologico realista venato da tendenze empiristiche, si avvicinò alle correnti di filosofia analitica (tradusse, con P. Gochet, Word and Object di W.v.O. Quine, Paris 1977). Professore all’università di Lovanio dal 1938, ricoprì anche l’incarico di segretario di redazione della «Revue philosophique de Louvain» e di «Logique et Analyse»; fu membro dell’Istitut international de philosophie e dell’Association for Symbolic Logic. F.V. Tommasi BIBL.: Félix Ravaisson, la formation de sa pensée d’après des documents inédits, Louvain 1933; Leçons de logique formelle, Louvain 1950, 3 voll. (nuova edizione in un volume, Notions de logique formelle, Louvain 1965); Essai d’une présentation de la logique combinatoire, in «Logique et Analyse», 3 (1960), pp. 183-201; Logi-

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ques construites par une méthode de déduction naturelle, Louvain 1962. Curò l’edizione, aggiungendovi alcune parti, di R. FEYS, Modal Logics, Louvain 1965. Su Dopp: J. LADRIÈRE, In memoriam. Le professeur Joseph Dopp, in «Revue philosophique de Louvain», 76 (1978), pp. 273-282.

DORFLES, GILLO. – N. a Trieste il 10 apr. Dorfles 1910, si laurea in medicina specializzandosi in psichiatria, libero docente e poi ordinario di estetica, visiting professor in numerose università degli USA e dell’America Latina e come pittore tra i fondatori a Milano del Movimento Arte Concreta (1948). Manifesta una costante curiosità nei confronti di diversi campi del sapere attraverso la comprensione delle motivazioni antropologiche che stanno dietro le singole espressioni artistiche. Lo stimolante panorama culturale milanese del dopoguerra lo pone di fronte a una nuova cultura, fatta di grafica, pubblicità, disegno industriale, che avrà le sue conseguenze nel pensiero di Dorfles. La collaborazione come redattore della rivista bimestrale di filosofia «aut-aut» diretta da Enzo Paci (dal 1951) costituisce una fondamentale palestra per i suoi studi di estetica caratterizzati da una larga apertura di orizzonti. Il non assoggettarsi ad alcuna scuola di pensiero gli permette di sconfinare in fenomeni culturali contemporanei senza pregiudizi critici. In uno dei primi libri Le oscillazioni del gusto (1958) analizza alcuni aspetti dell’incomprensione dell’arte moderna dove mette in moto nuovi scenari lievitati da inediti nessi tra creatività artistica e comportamenti sociali. Ne Il divenire delle arti (1959) analizza il continuo processo metamorfico dei diversi linguaggi artistici sottoposti a un costante consumo tanto che ogni tentativo di sistematizzarli si rivela precario. Al disegno industriale e alla grafica pubblicitaria delle Oscillazioni, in questo saggio aggiunge lo studio oltre che delle tipologie artistiche canoniche anche delle nuove manifestazioni della cultura: la musica elettronica, la fantascienza, il fumetto. Nei testi degli anni sessanta le due costanti del rito e del mito fanno da filtro a un’ulteriore indagine esteticoantropologica. Per i numerosi scritti si rimanda al repertorio bibliografico: Gillo Dorfles Scritti di architettura 1930-1998, Mendrisio 1999. E. Torelli Landini

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Dorner

DORIA, PAOLO MATTIA. – Filosofo e politico, Doria n. a Genova il 24 febbr. 1667, m. a Napoli il 25 febbr. 1746. Esponente dell’alta nobiltà genovese, ricevette un’educazione frivola e bigotta, alla quale, recatosi a Napoli, reagì con un decennio di vita mondana e rissosa. Stanco di tale modo di vivere e attratto dall’ambiente culturale napoletano, entrò in contatto con il pensiero di Gassendi e Descartes, aderendo alle dottrine di quest’ultimo. Tale adesione, però, riguardò più i fondamenti platonico-agostiniani della speculazione cartesiana che le sue metodologie «scientifiche», le quali, al contrario, erano al centro degli interessi dei «modernizzatori» napoletani. A partire da ciò, il pensiero di Doria evolse in una progressiva accentuazione della sua componente neoplatonica e antisensistica e nella rivendicazione della superiorità regolativa della metafisica sulle altre discipline, che egli coltivò opponendosi all’assolutismo politico e al clericalismo religioso.

tes als soziales Reformsystem (München 1895) in cui si afferma che Senofonte soltanto può fornire la fonte genuina del pensiero di Socrate; Geschichte der griechischen Philosophie (Leipzig 1903, 2 voll.) ecc. Lasciò inoltre scritti di logica (Grundzüge der allgemeinen Logik, Dortmund 1880) e, segnatamente, di morale (Philosophische Güterlehre, Berlin 1888; Handbuch der menschlich-natürlichen Sittenlehre, Stuttgart 1899). Il sommo bene risiede, secondo lui, nella soddisfazione del bisogno di «autoestimazione motivata» (begründete Selbstschätzung) quando, cioè, ognuno, promuovendo il bene (il piacevole) di altri esseri, appaga l’interiore esigenza di attribuire a se stesso un «valore oggettivo» generale.

M. Forlivesi BIBL.: La vita civile, Francfort [ma Napoli] 1709-10 (ristampa 2001 dell’edizione 1753); Opere matematiche, Venezia 1722-26, 2 voll.; Discorsi critici filosofici intorno alla filosofia degl’antichi, e de i moderni, ed in particolare intorno alla filosofia di Renato des-Cartes. Con un progetto di una metafisica, Venezia [ma Napoli] 1724; Filosofia di Paolo Mattia Doria, con la quale si schiarisce quella di Platone, Amsterdam [ma Napoli] 1728, 2 voll.; Difesa della metafisica degli antichi filosofi contro il signor Giovanni Locke, ed alcuni altri moderni autori, Venezia 1732-33, 2 voll.; Il capitano filosofo, Napoli 1739 (ristampa 2003); Lettere e ragionamenti vari, Perugia [ma Napoli] 1741, 2 voll.; Massime del governo spagnolo a Napoli, a cura di V. Conti, Napoli 1973; Manoscritti napoletani, Galatina 197982, 5 voll.; Altri manoscritti, Galatina 1986. Su Doria: P. ZAMBELLI, Il rogo postumo di Paolo Mattia Doria, in P. ZAMBELLI (a cura di), Ricerche sulla cultura dell’Italia moderna, Bari 1983, pp. 149-198; E. NUZZO, Verso la «Vita civile». Antropologia e politica nelle lezioni accademiche di Gregorio Caloprese e Paolo Mattia Doria, Napoli 1984; G. PAPULI (a cura di), Paolo Mattia Doria fra rinnovamento e tradizione, Galatina 1985; M. RASCAGLIA, Gli interlocutori di Vico nei manoscritti della Biblioteca Nazionale di Napoli, in «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», 30 (2000), pp. 109-124.

go protestante, n. a Schleuzingen nel 1680, m. a Wolffenbüttel il 12 ag. 1752. Fu dal 1705 magister e poi rettore della scuola di Blankeburg; nel 1752 fu nominato secondo bibliotecario a Wolffenbüttel, ove morì nello stesso anno. La sua attività letteraria è concentrata nell’edizione di testi e nella raccolta bibliografica secondo i criteri del genere polistorico coltivato nel Seicento da Jonsius e da Morhof e continuato nel Settecento da Fabricius e da Struve. È noto soprattutto per la riedizione dei tre libri De scriptoribus historiae philosophicae (Jena 1716) di J. Jonsius, cui aggiunse un quarto libro dedicato alla letteratura filosofica dell’età moderna, coprendo tutto il Seicento.

DÖRING, AUGUST. – Positivista tedesco, n. a Döring Elberfeld nel 1834, m. a Oporto nel 1912. Studioso di filosofia antica, scrisse: Die Kunstlehre des Aristoteles (Jena 1867) importante per la trattazione della catarsi; Die Lehre des Sokra-

DORNER, AUGUST. – Filosofo idealista tedeDorner sco, n. a Schiltach (Baden) nel 1846, m. a Hannover nel 1920. Fu professore a Königsberg. Il suo pensiero sentì l’influsso di Kant, Schleiermacher, Schel-

A.M. Moschetti BIBL.: V. CATHREIN, Moralphilosophie, Freiburg im Breisgau 1893, 2 voll., tr. it. di E. Tommasi, Filosofia morale, Firenze 1913, vol. I, pp. 274-275.

DORN, JOHANN CHRISTOPH. – Erudito e teoloDorn

M. Longo BIBL.: tra le altre opere: Oratio de vita et obitu H. Kelleri, Jenae 1702; Diss. De doctis impostoribus, Jenae 1703; Biblioteca theologico-critica, secundum singulas divinioris scientiae partes disposita, Jenae 1721-25, 2 voll. Su Dorn: M. LONGO, Le storie generali della filosofia in Germania, in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. II: Dall'età cartesiana a Brucker, Brescia 1979, ad indicem.

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Dorp ling e in particolare R. Eucken. Un dualismo teistico ne costituisce l’aspetto più significativo: Dio, che si raggiunge con un metodo dialettico-speculativo, è un’essenza spirituale e trascendente, che si rivela nella natura e nella storia. Le sue opere principali sono: Das menschliche Erkennen, Berlin 1887; Grundriss der Religionsphilosophie, Leipzig 1903; Eine Metaphysik des Christentums, Stuttgart 1913. A.M. Moschetti BIBL.: G.G. FREBOLD, Dorners philosophische Grundstellung, Hannover 1917; P. LAU, August Dorners Religionsphilosophie, Königsberg 1928.

DORP, GIOVANNI. – Nominalista del XV secolo. Dorp II suo nome compare nell’elenco dei maestri ockhamisti (nominalisti o terministi) espulsi dall’università di Parigi, per ordine di Luigi XI, nel 1474. Red. BIBL.: F. EHRLE, Der Sentenzenkommentar Peters von Candia, des Pisaner Papstes Alexander V, Münster 1925, p. 313; M. DE WULF, Histoire de la philosophie médiévale, Paris 1934-476, pp. 129, 146, tr. it. di V. Miano, Storia della filosofia medievale, Firenze 19572, vol. III, pp. 125, 150; H. WOJTCZAK, Johannes Dorp, Autor des Kommentars zu Summulae logicales von Johannes Buridan, in «Acta Mediaevalia», 12 (1999), pp. 311-332.

DOSSOGRAFI. – Termine passato in uso per Dossografi designare gli autori che, nell’antichità, scrissero sui più antichi filosofi greci, fornendo notizie sulla loro vita e dottrine; dopo che Hermann Diels ebbe a escogitare il neologismo latino che compare nel titolo della sua opera monumentale sui Doxographi graeci (Berlin 1879; 19764), seguita e completata, nel 1903, dalla prima edizione della raccolta Die Fragmente der Vorsokratiker (Berlin; Hamburg 19516, rist. Dublin-Zürich 1972). Occorre distinguere la dossografia propriamente detta, vale a dire i compendi e le antologie redatti in base all’esigenza storico-erudita predominante nell’età dell’ellenismo alessandrino, dall’attenzione storiografica anteriore, che è più spesso intimamente connessa, se non subordinata, alla riflessione teoretica personale. Il filosofo che per primo fa riferimento alle dottrine precedenti è Platone, per quanto i richiami storici, criticamente importanti, non figurino nei dialoghi in modo sistematico. È invece con Aristotele che la considerazione delle filosofie anteriori acquista ampiezza di 3074

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svolgimento organico (cfr. in particolare Metaph., A, 983 a - 993 a); infatti, grazie al metodo «dialettico» (Aristotele, Top., I.14), gli enunciati e i «problemi» che contrassegnano le dottrine precedenti, vengono esaminati e valutati; la prospettiva storico-dialettica appare modalità essenziale per la più piena verifica della validità dei risultati conseguiti; perciò, rispetto a quest’ultimi, il «dialogo» con i sistemi filosofici da Talete a Platone, unito alla rassegna di quanto rientra nel convincimento dei più o degli «esperti» (ta; e[ndoxa), delinea lo spazio concettuale in cui si prospetta la ricerca, ed è, insieme, banco di prova delle soluzioni proposte. Il modello «dialettico» con cui Aristotele introduce molti dei suoi scritti condizionò il metodo utilizzato, all’interno del Liceo, nel raccogliere testi e notizie storiche riguardanti la storia della filosofia, con speciale riguardo per i principi dei sistemi «fisici» e le «cause» della «sostanza», le scienze naturali e le teorie etico-politiche. Punto di partenza decisivo dell’attività di questo tipo devono considerarsi i 18 libri del trattato su Le dottrine fisiche di Teofrasto (372-288 a. C.), allievo e successore di Aristotele nella direzione della scuola peripatetica (il titolo, riferito da Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi V II, 48, fu dapprima interpretato da Diels come Le opinioni dei Fisici); conserviamo buona parte del primo (sui «principi», ajrcaiv), e citazioni significative dell’ultimo libro (sulla percezione sensoriale); l’esposizione delle «opinioni» (dovxai) segue un criterio sistematico ed è accompagnata da commenti critici che si ispirano alla filosofia aristotelica. Non a Teofrasto, ma certamente all’ambiente scientifico del Peripato, risale lo scritto pseudo-aristotelico De Melisso, Xenophane et Gorgia, che, verosimilmente, doveva far parte di un ampio programma di studio della filosofia presocratica. La ricostruzione d’insieme dello sviluppo della letteratura dossografica, nell’interna sua differenziazione, ramificazione e trasmissione di fonti, presenta difficoltà di non facile risoluzione, anche dopo le conclusioni cui è giunto Diels, sulla scia delle indicazioni fornite dal suo maestro Hermann Usener. Snodo importante sembra essere la Raccolta di opinioni (´Aetivou th;n peri; ajreskovntwn sunagwghvn) di Aezio (I-II sec. d. C), autore per altri aspetti sconosciuto, la cui opera è segnalata nel V secolo dal padre della chiesa Teodoreto; essa deriva a sua volta da una fonte più antica, i Vetusta Pla-

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cita (prima metà del sec. I a. C.), uscita dalla scuola di Posidonio, la cui esistenza Diels ha ipotizzato sulla base delle concordanze esistenti fra i Placita, in cinque libri (sec. II d. C.), attribuiti erroneamente a Plutarco di Cheronea, e l’antologia (Eclogae) di Stobeo (V secolo d. C.). In generale, nell’ambito della produzione dossografica in senso stretto, occorre distinguere, sia pure schematicamente, tre diversi generi letterari, tendenzialmente diversi per i temi trattati e il metodo adottato. Alcuni autori – com’è il caso dei già citati Aezio, pseudo-Plutarco e Stobeo – si dedicano a comporre rassegne – che con il tempo diventano sempre più brevi e schematiche – delle vedute filosofiche apparse storicamente, con estratti dalle opere dei loro autori. A questo tipo di derivazione pseudoplutarchea appartengono la Confutazione di tutte le eresie, dello scrittore cristiano Ippolito (inizio III secolo), specialmente importante per la documentazione presocratica, e la Storia filosofica (III-V secolo d. C.), falsamente attribuita a Galeno; oltre allo scritto in difesa dei cristiani di Atenagora, lo pseudo-Giustino, e lo Scherno dei filosofi pagani di Ermia. Un altro gruppo di dossografi preferisce invece narrare le vite dei filosofi – sotto l’influsso dello stoicismo considerate esemplari per il conseguimento della saggezza –, le loro relazioni personali o di scuola; in questo campo, l’opera più significativa è certamente la Raccolta delle vite e dottrine dei filosofi, scritta in dieci libri da Diogene Laerzio (prima metà sec. III), ricca di informazioni preziose; cui va aggiunta quella Sulle scuole di uno scrittore dalla cronologia incerta, Ario Didimo (I-III secolo). Per la dossografia «biografica» vanno inoltre ricordati il primo libro della Confutazione di tutte le eresie di Ippolito, che per le sezioni dedicate a Talete, Pitagora, Eraclito ed Empedocle, ha presumibilmente utilizzato qualche raccolta di aneddoti apocrifi. Una terza e ultima tendenza si occupa di presentare, facendo ricorso quasi sempre al criterio della connessione «dialettica», la «successione» (diadochv) intercorsa tra i filosofi (per esempio, nel rapporto maestro-scolaro) e, soprattutto, tra i diversi orientamenti, o «scuole» filosofiche. A questo proposito, si possono ricordare gli scritti del filosofo e poeta greco Filodemo (sec. I a. C.), che si occupa di stabilire i rapporti fra l’Accademia e lo stoicismo (che critica) ed espone ciò che i filosofi hanno detto circa gli dei, in stretto parallelismo con quanto

Dostoevskij Sulla natura degli dei scrive Cicerone, i cui diversi trattati filosofici (De finibus bonorum et malorum, De officiis, De fato) offrono, peraltro, scorci essenziali del dibattito filosofico che si accese fra gli indirizzi dello stoicismo, epicureismo e scetticismo. E tuttavia, per quanto le notizie trasmesse risultino spesso indispensabili per la migliore conoscenza del pensiero classico greco e romano, le opere di questi ultimi scrittori, come del resto quelle di Plutarco e di Clemente d’Alessandria, per citare solo i maggiori, non fanno parte della tradizione dossografica tecnicamente intesa. G.F. Pagallo BIBL.: Per i singoli autori, cfr. voci e bibl. relative: fondamentale H. DIELS, Doxographi graeci, Berolini 1879 (rist. anast. Berolini 1965), tr. it. di L. Torraca, I dossografi greci, Padova 1961, integrato da P. WENDLAND, Eine doxographische Quelle (Vetusta Placita), in «Sitzungsberichte der Akademie der Wissenschaften in Berlin, Gesellschaftswissenschaften», Philosophie 1897. Vedi anche: M. GIUSTA, I dossografi di etica, vol. l, Torino 1964. STUDI: M. DAL PRA, La storiografia filosofica antica, Milano 1948; AA.VV., Storiografia e dossografia nella filosofia antica, a cura di G. Cambiano, Torino 1986; D.E. HAHM, The Ethical Doxography of Arius Didymus, in W. HAASE - H. TEMPORINI (a cura di), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, vol. II, cap. 36.4, Berlin New York 1990, pp. 2935-3055; J. MANSFELD, Doxography and Dialectic: the Sitz im Leben of the «Placita», in W. HAASE - H. TEMPORINI (a cura di), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, Berlin - New York 1990, pp. 3056-3229; J. MANSFELD, «Physikai doxai» and «Problemata physica» from Aristotle to Aëtius (and Beyond), in W.W. FORTENBAUGH - D. GUTAS (a cura di), Theophrastus: His Psychological, Doxographical and Scientific Writings, New Brunswick 1992, pp. 63111; J. MANSFELD, Sources, in The Cambridge History of Hellenistic Philosophy, Cambridge 1999, pp. 3-30; D.T. RUNIA, What is Doxography?, in PH.J. VAN DER EIJK (a cura di), Ancient Histories of Medicine: Essays in Medical Doxography and Historiography in Classical Antiquity, Leiden 1999, pp. 33-55; L. ZHMUD, Revising Doxography: Hermann Diels and his Critics, in «Philologus», 145 (2001), pp. 219-243; J. MANSFELD, Deconstructing Doxography, in «Philologus», 146 (2002), pp. 277-286.

DOSTOEVSKIJ, FËDOR MICHAJLOVIC. – N. a Dostoevskij Mosca il 30 ott. 1820, m. a Pietroburgo il 28 genn. 1881. Figlio di un medico militare, viene iscritto dal padre ai corsi di ingegneria del collegio militare di Pietroburgo. In realtà la sua vocazione è letteraria: terminati gli studi ottie3075

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Dostoevskij ne un modesto incarico burocratico che lascia quasi subito per dedicarsi alla professione di scrittore, scelta che manterrà tra molte sofferenze e umiliazioni (epilessia, debiti, lutti familiari, arresto e deportazione in Siberia) e che gli regalerà comunque inattese soddisfazioni e, alla fine, una grande notorietà. I romanzi di Dostoevskij, intrisi di filosofia, affrontano sempre problemi universali: Dio, il male, la colpa, la libertà, le profondità dell’anima. La vita attiva dei suoi personaggi, liberata dalle incombenze del quotidiano, corrisponde alla nostra vita profonda. Spesso si è sottolineato, forse non a torto, il carattere profetico dell’opera di Dostoevskij, vedendo in essa un’anticipazione e una critica ante litteram del pensiero di Nietzsche, del nichilismo ateo moderno e degli esiti totalitari delle ideologie utopistiche. Si è soliti indicare, sulla scia di Lev Šestov, nelle Memorie dal sottosuolo (1865) una svolta cruciale nella produzione di Dostoevskij: il passaggio da un socialismo umanitario – presente in Povera gente (1846), Umiliati e offesi (1862) e nelle Memorie da una casa di morti (1861), resoconto dell’atroce prigionia siberiana – a una concezione tragica del mondo e della sofferenza. Ciò che la spietata autoanalisi dell’uomo del «sottosuolo» mette in luce è infatti una regione nascosta e inquietante dell’animo umano, nella quale il dolore appare nella sua irriducibile ambiguità, dove il soggetto scopre il piacere morboso di impersonarsi vittima e carnefice di se stesso. Le umiliazioni che il protagonista di questo racconto volontariamente ricerca e si infligge dimostrano l’impossibilità di un distacco dal male e dalla degradazione proprio perché condizioni delle quali l’uomo arriva a compiacersi. Raskolnikov, lo studente protagonista di Delitto e castigo (1866), è un autentico uomo del sottosuolo: un’idea lo ossessiona, quella della libertà propria dell’«uomo superiore» di uccidere per fini più alti. Tale idea, a lungo covata sotterraneamente e assaporata fino al tormento, una volta messa in pratica finisce per schiacciarlo: dopo aver ucciso una vecchia usuraia e sua sorella per procurarsi del denaro, Raskolnikov si accorge di essere solo un banale omicida, di non aver raggiunto una libertà al di là del bene e del male e di non essersi dimostrato all’altezza della sua idea. Per questo, anche se confessa e affronta la pena volendola, presentendo in qualche modo la sua colpevolezza (soprattutto at3076

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traverso terribili incubi), non può pentirsi né condannare se stesso: la storia della sua rinascita grazie all’amore per Sonja, la prostituta che lo ama e lo segue fino in Siberia, non viene narrata ma solo accennata alla fine del romanzo. Stavrogin, il personaggio centrale dei Demoni (1873), è ancora al di là di Raskolnikov: non ha nessuna norma da violare e nessuno scopo da perseguire in quanto ignora ogni distinzione di bene e male. Individuo eccezionale, affascinante, è l’incarnazione di una forza negatrice fine a se stessa destinata a distruggere e ad autodistruggersi: ogni sua azione e provocazione è motivata solo dalla noia, dall’indifferenza e dalla volontà di sperimentare. Disincantato spettatore di se stesso, Stavrogin sposa una povera infelice solo per la sadica curiosità di impersonarsi improbabile benefattore; distribuisce fra i suoi amici idee titaniche da lui coltivate senza aderirvi solo per vederne gli esiti mortiferi (il nichilismo rivoluzionario di Pëtr Verchovenskij, l’ateismo suicida di Kirillov, il nazionalismo religioso di Šatov non sono che frammenti della sua personalità viventi di vita propria); seduce e violenta una bambina per spiare in lei il tormento della colpa che la porta infine al suicidio. Proprio quest’ultimo delitto – che ora lo perseguita dopo una lunga rimozione – viene rievocato nella confessione che Stavrogin consegna al vescovo Tichon: atto estremo ancora nel segno dell’ambiguità, ove il rimorso si mescola con il piacere della propria degradazione e con la vanità dell’ostentazione. Stavrogin in realtà cerca la croce, vorrebbe soffrire ma non può perché si vergogna del pentimento, perché si rifiuta di patire lo scherno al quale la sua confessione lo condannerebbe: il suicidio non è che la conferma della sua demoniaca vocazione al nulla e alla distruzione, vocazione che finisce per inghiottirlo. Se Stavrogin è l’incarnazione del male, il principe Myškin, protagonista dell’Idiota (1868-69) vuole essere, secondo le parole di Dostoevskij, la rappresentazione di un uomo «assolutamente buono», il simbolo di Cristo stesso. Myškin è un disadattato, infermo nel fisico e nella mente, epilettico, un «idiota» appunto, eppure è capace di un’infallibile penetrazione psicologica, prevede le azioni degli uomini comprendendole e perdonandole in anticipo, è sempre mite e generoso, attira e affascina le anime più sensibili delle donne e dei bambini:

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proprio la sua povertà di spirito e la sua infantile estraneità all’opportunistica morale comune rendono il suo sguardo (uno sguardo da nessun luogo) così chiaro. Riapparso a Pietroburgo dopo un soggiorno in Svizzera dove ha curato una malattia nervosa, il principe è accolto inizialmente come un ritardato da deridere e di cui profittare, ma pian piano tutti i personaggi restano incantati dal sua figura enigmatica e dalla sua altezza d’animo: «questo intruso diventa indispensabile. [...] Agli occhi di tutti è la prova di un’altra esistenza, di un altro mondo possibile» (H. Troyat, Dostoevskij, Paris 1940, pp. 334 ss). Ma questo mondo alternativo non si realizza. Due donne si innamorano di Myškin, Aglaja e Nastasja: quest’ultima è ricambiata ma si sente indegna di lui e si abbandona al perfido Rogozin che alla fine la uccide in preda alla gelosia. Il principe, che presentiva un simile esito, ripiomba nella follia. Diversi autori (L. Šestov, P. Evdokimov, H. Troyat, H. De Lubac) hanno letto la vicenda dell’Idiota nel segno dell’insufficienza e del fallimento di un amore che non è che compassione: Myškin in effetti non sa agire ma solo amare, e quando agisce sbaglia; può solo consolare, non salvare. Il suo ricadere nella follia dimostrerebbe (questo il messaggio di Dostoevskij) lo smacco di una concezione del bene fondata sulla passività e non opposizione al male. Altri (R. Guardini, L. Pareyson) hanno invece insistito più sull’equazione Myškin-Cristo, riconoscendo nella fugace apparizione mondana del protagonista e nella sua incapacità di adattamento il destino tragico del bene che si incarna senza essere «di questo mondo». Nell’ultimo romanzo di Dostoevskij, I fratelli Karamazov (1879-80), è la sofferenza stessa a rivelarsi, tragicamente, l’unica espiazione possibile: solo rivivendo l’esperienza di Cristo, riconoscendosi colpevoli verso tutti e tutto, si può riscattare la sofferenza altrui con la propria, perdonare ed essere perdonati. Dmitrij Karamazov, accusato di parricidio e condannato ai lavori forzati, anche se innocente accetta la pena e vuole soffrire per tutti, soprattutto per coloro che soffrono inutilmente, i bambini (come quel bambino che lui stesso ha ferito per sempre umiliandone il padre davanti agli occhi). Questa è la vera risposta all’ateismo del fratello Ivan, il quale in un fondamentale dialogo con il novizio Alëša (il terzo dei fratelli), aveva rifiutato di ammettere la compatibi-

Dostoevskij lità di Dio e della sofferenza umana: non è accettabile l’idea che Dio si serva di essa per realizzare il suo piano di riconciliazione finale, in particolare nel caso in cui a patire siano i bambini. Se il prezzo dell’armonia finale è anche la sola lacrima di un solo bambino, Ivan dichiara di volersi tenere fuori da tutto ciò: quella lacrima basta di per sé a dimostrare l’assurdità del mondo e l’inesistenza di Dio. Anche la redenzione ha fallito: Cristo, invece di liberare l’uomo dal dolore, non ha fatto che peggiorare il suo stato caricandolo del peso insostenibile della libertà. L’ateismo di Ivan culmina però in un indifferentismo etico (se Dio non esiste «tutto è permesso») e in un nichilismo che lacerano la sua anima assetata di giustizia e lo condannano alla dissociazione e alla follia. La risposta di Alëša a Ivan esprime bene il comportamento di Dmitrij: c’è chi può perdonare tutto e riscattare la sofferenza inutile proprio perché anch’egli ha patito innocente, ed è Cristo. Dio stesso, lungi da voler piegare la sofferenza ai propri piani, l’ha presa su di sé e ha condiviso con l’uomo l’abisso del dolore e dell’abbandono fino alla morte. L’unico senso possibile della sofferenza è allora quello della consofferenza col redentore: l’assurdità e lo scandalo del male sono tolti e vinti per il fatto stesso che Dio li ha accolti in sé partecipandovi. Questo il messaggio di Dostoevskij, «tormentato da Dio» (sono sue parole) e dall’ateismo per tutta la vita: le parole di Ivan, da Dostoevskij profondamente sentite e scritte di getto in pochi giorni trovano nella theologia crucis la loro tragica e sofferta soluzione. Il destino dell’uomo che rifiuta Dio è cadere nelle braccia del demonio: demoni sono coloro che uccidono e incendiano cercando di costruire una società perfetta senza Dio; diabolica la follia in cui precipita Ivan; pura fantasticheria il sogno (messo in bocca a Versilov nell’Adolescente, 1875, e al demonio nei Fratelli Karamazov) di un’umanità liberata dall’amore per Dio e unita in una trepidante dedizione al finito. M. Rossi Monti BIBL.: L. ŠESTOV, Dostoevskij i Nitse. Filosofija tragedii, Berlin 1922, tr. it. di E. Lo Gatto, La filosofia della tragedia, Napoli 1950; R. GUARDINI, Religiöse Gestalten in Dostoevskijs Werk: Studien über den Glauben, München 1951, tr. it. di M.L. Rossi, Il mondo religioso di Dostoevskij, Brescia 1951; N. BERDJAEV, Mirosozercanie Dostoevskago, Praha 1923, tr. it. di B. Del Re, La concezione di Dostoevskij, Torino 19772; P. EVDOKIMOV, Dostoevskij et le problème du mal, Paris 19782; S. GIVO-

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Dottore NE,

Dostoevskij e la filosofia, Roma-Bari 1984; H. DE LUBAC, Le drame de l’humanisme athee, Paris 1944, tr. it. di A. Tombolini, Il dramma dell’umanesimo ateo, Milano 19922; L. PAREYSON, Dostoevskij, Torino 1993; V. IVANOV, Dostojewskij: Tragodie-Mythos-Mystik, Tübingen 1922, tr. it. di E. Lo Gatto, Dostoevskij. Tragedia Mito Mistica, Bologna 1994.

DOTTORE (doctor; Doctor; docteur; doctor). – Dottore Etimologicamente significa: colui che è atto a insegnare; in senso più rigoroso, definisce un grado accademico, il cui sviluppo storico è connesso allo sviluppo delle università. Fu adoperato da principio come puro titolo onorifico e conferito, accompagnato da un aggettivo, ai più insigni maestri del tempo; divenne quindi un equivalente di maestro, e soltanto più tardi, sembra per la prima volta a Bologna, acquistò un valore a sé, distinto dagli altri gradi accademici. In questo senso il titolo di dottore veniva conferito a chi, svolto un determinato corso di studi e superati gli esami, si dimostrava capace di insegnare. Fra i più famosi soprannomi di dottore si possono ricordare: Alano di Lilla, Alberto Magno e Abelardo, Doctor universalis; Bernardo di Chiaravalle, Doctor mellifluus; Alessandro di Hales, Doctor irrefragabilis; Tommaso d’Aquino, Doctor angelicus, communis; Bonaventura di Bagnorea, Doctor seraphicus; Enrico di Gand, Doctor solemnis; Ruggero Bacone, Doctor admirabilis; Goffredo di Fontaines, Doctor venerandus; Giovanni Duns Scoto, Doctor subtilis; Raimondo Lullo, Doctor illuminatus; Egidio Colonna o Romano, Doctor fundatissimus; Durando di San Porciano, Doctor resolutissimus; Gregorio di Rimini, Doctor authenticus; Niccolò Cusano, Doctor christianus; Gabriele Biel, Doctor profundissimus; Francisco Suárez, Doctor eximius. Il titolo di «dottore della chiesa» è conferito dalla chiesa cattolica a un esiguo numero di scrittori ecclesiastici, i quali, grazie all’eccezionale conoscenza teologica profusa in maniera originale nei loro scritti, hanno contribuito in maniera determinante all’approfondimento e alla relativa diffusione della dottrina e dell’ortodossia cattolica. Inizialmente, il titolo di dottore della chiesa venne attribuito a personaggi famosi («padri della chiesa») che, oltre che proclamati santi, furono unanimemente riconosciuti e considerati meritevoli di questo titolo. Successivamente, circa dal VI secolo in poi, il titolo di dottore della chiesa fu attribuito mediante ufficiale proclamazione del som3078

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mo pontefice, non necessariamente in coincidenza con la canonizzazione a santo. Nel XVI secolo, il pontefice san Pio V stabilì un formulario liturgico per celebrare la memoria dei santi dottori; nel 1970, a opera di Paolo VI, furono proclamate dottori della chiesa, per la prima volta, due sante, Caterina da Siena e Teresa d’Avila. Il titolo non coincide con quello di padre della chiesa (solo alcuni padri sono dottori). Red. BIBL.: G. LE BRAS, Velut splendor firmamenti: Le docteur dans le droit de l’Église médiévale, in AA.VV., Mélanges offerts à Étienne Gilson, Toronto-Paris 1959, pp. 373-388.

DOTTRINA MONOFILETICA (dal gr. moDottrina monofiletica vno" «solo», fulhv «radice» - monophyletic theory; monophyletische Lehre; théorie monophyletique; doctrina monofilética). – Dottrina secondo cui tutte le specie di organismi avrebbero avuto origine da una unica specie originaria attraverso successive e progressive evoluzioni. Ne fu sostenitore E. Haeckel. A questa teoria altri oppongono invece la dottrina polifiletica, secondo la quale non una, ma molte sarebbero le specie originarie. Red. ➨ EVOLUZIONISMO.

DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA Dottrina sociale della chiesa (the church’s social teaching; Soziallehre der Kirche; magistère social de l’église; doctrina social de la iglesia). – Per dottrina sociale della chiesa s’intende un corpus di principi dottrinali e d’indicazioni operative attraverso cui la chiesa ha interpretato (e interpreta) la questione sociale, alla luce del Vangelo e della tradizione successiva, offrendo in particolare ai credenti e alle comunità cristiane criteri di giudizio per valutarne il significato e indirizzi concreti secondo i quali sviluppare il proprio impegno nella società. Si suole far risalire l’inizio di tale dottrina all’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891), documento che ha assunto storicamente il ruolo di «magna charta», cioè di paradigma letterario e dottrinale al quale i documenti successivi, in gran parte commemorativi della sua promulgazione, si sono ispirati. SOMMARIO: I. Lo sviluppo storico della dottrina sociale e le principali categorie interpretative della realtà sociale. - II. Le diverse accezioni di dottrina sociale e i criteri di valutazione delle

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varie affermazioni. - III. Il rinnovamento della dottrina sociale e le prospettive per il futuro. I. LO SVILUPPO STORICO DELLA DOTTRINA SOCIALE E LE PRINCIPALI CATEGORIE INTERPRETATIVE DELLA REALTÀ SOCIALE. – Nonostante l’arco di tempo piutto-

sto ristretto – poco più di un secolo – e il numero limitato di documenti prodotti, la dottrina sociale della chiesa è andata soggetta a profonde trasformazioni, sia sul terreno della struttura formale che dei contenuti, a causa soprattutto dei profondi e rapidi mutamenti verificatisi in tale periodo nella società. I testi che ad essa fanno capo sono, oltre alla già citata Rerum novarum, l’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI (1931), alcuni radiomessaggi di Pio XII (in particolare quelli del 1 giugno 1941, cinquantesimo anniversario della pubblicazione della Rerum novarum, e quelli del 1 settembre e del 24 dicembre 1944), le encicliche Mater et magistra (1961) e Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII, la costituzione pastorale Gaudium et spes del Vaticano II (1965), l’enciclica Populorum progressio (1967) e la lettera apostolica Octogesima adveniens di Paolo VI, il documento del sinodo dei vescovi Giustizia nel mondo (1971) e infine le encicliche Laborem exercens (1981), Sollicitudo rei socialis (1987) e Centesimus annus (1991) di Giovanni Paolo II. Oltre a questi documenti, che costituiscono il blocco più consistente e più autorevole, importanti riferimenti alla questione sociale sono reperibili in altri interventi papali e delle congregazioni romane, mentre notevole significato rivestono le prese di posizione di numerose conferenze episcopali nazionali o di interi continenti (basti pensare ai documenti conclusivi degli incontri della conferenza episcopale latino-americana a Medellín e a Puebla). L’interesse per la realtà sociale e l’impegno a interpretarla secondo la logica evangelica sono una costante della tradizione cristiana. I padri della chiesa hanno affrontato ripetutamente, sia pure in modo occasionale, questioni che avevano attinenza con la giustizia sociale; mentre, a loro volta, i teologi medioevali hanno approfondito, con rigore teoretico, le categorie che definiscono la struttura portante della socialità umana. La dottrina sociale della chiesa non è dunque un masso erratico nell’ambito della riflessione ecclesiale; ha precisi antecedenti, ai quali fa peraltro spesso riferimento nell’esposizione delle sue linee orientative. L’elemento di novità che in essa si riscontra è costituito dal carattere di organici-

Dottrina sociale della chiesa tà con cui si accosta ai problemi della vita sociale; organicità resa necessaria dall’emergere in senso proprio, con l’avvento della rivoluzione industriale, della cosiddetta «questione sociale», dall’affermarsi cioè di una situazione di grave conflitto tra le classi che compongono il tessuto della società – in particolare tra la classe borghese e la classe operaia – e dalla necessità di intervenire in termini globali, creando i presupposti per l’attuazione di un ordine giusto. Le direttrici attorno alle quali tale ordine va costruito sono ben espresse da alcune fondamentali categorie di lettura della realtà sociale, che rivestono, nello stesso tempo, il significato di criteri di valutazione dell’esistente e di prospettive per la costruzione del futuro. Al centro di tali direttrici vi è anzitutto il concetto di giustizia sociale, la quale viene identificata (contrariamente a quanto avveniva nella manualistica morale del tempo, dove centrali erano i concetti di giustizia commutativa e distributiva) con la giustizia tout court, in quanto a costituirne l’oggetto è il bene di tutti e di ciascuno. Il fatto che l’uomo sia essenzialmente un essere sociale e sia, nel contempo, fine (e non mezzo), impone che il vero bene della comunità venga riferito trascendentalmente – come osserva acutamente la Mater et magistra – al bene della persona e che, a sua volta, il bene di quest’ultima non possa essere determinato senza tenere conto dei vincoli di solidale comunione, anteriori a ogni forma di organizzazione sociale. Questa concezione riceve ulteriori approfondimenti nel corso del tempo, sia a seguito dell’introduzione della categoria di «umanesimo plenario», che conferisce allo sviluppo una dimensione «umanistica» (cfr. Populorum progressio), sia grazie al riferimento a un «parametro interiore», destinato a garantire la promozione di ogni soggetto umano nel rispetto della radicale uguaglianza tra gli uomini (cfr. Sollicitudo rei socialis, nn. 27-33). Accanto a questi contributi, che determinano un affinamento qualitativo, è poi doveroso ricordare il graduale ampliamento di orizzonti cui il concetto di giustizia sociale va soggetto, con l’assunzione, in conseguenza dell’avanzare del processo di interdipendenza tra i vari settori della convivenza e tra i popoli (fino all’attuale globalizzazione), di dimensioni universalistiche e con il superamento di una prospettiva puramente sincronica e l’apertura a una prospettiva diacronica – resa urgente dalla gravità 3079

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Dottrina sociale della chiesa della crisi ecologica – che tiene in seria considerazione la promozione umana delle generazioni future (Sollicitudo rei socialis, n. 34). Così definito, il concetto di giustizia sociale è l’humus nel quale affondano le loro radici due grandi principi, che secondo la dottrina sociale della chiesa vanno posti alla base degli ordinamenti socioeconomici e politici: il principio di sussidiarietà e il principio della destinazione universale dei beni. Il principio di sussidiarietà, enunciato per la prima volta, in termini precisi, dalla Quadragesimo anno (n. 80) per tutelare l’autonomia dei singoli e dei gruppi intermedi – oggi si direbbe della «società civile» – di fronte all’indebita invadenza dello stato, ha subito, successivamente, un processo di graduale ridimensionamento con l’introduzione del principio di solidarietà, che assume con la Populorum progressio il carattere di presupposto fondante dell’ordine sociale (cfr. nn. 5961). Per questo lo sforzo dei documenti più recenti – si veda in particolare la Centesimus annus (n. 39) – è teso a ristabilire un giusto equilibrio tra i due principi, assegnando al principio di solidarietà il carattere di orizzonte ultimo di riferimento e attribuendo al principio di sussidiarietà il significato di mezzo per il coinvolgimento responsabile dei diversi soggetti individuali e sociali nel processo di ricerca del bene comune. Il secondo – il principio della destinazione universale dei beni – è invece il punto di arrivo di un cammino che è venuto facendosi strada gradualmente nell’ambito della dottrina sociale della chiesa, ridimensionando la centralità assegnata in partenza all’istituto della proprietà privata, e che ha ricevuto la sua definitiva consacrazione nella Populorum progressio (n. 22). Con esso si afferma, in termini inequivocabili, il diritto di tutti gli uomini e di tutti i popoli ad attingere dai beni della terra quanto è necessario alla soddisfazione dei propri bisogni, esigendo, di conseguenza, che ogni ordinamento socio-economico sia fondato sulla ricerca di un’equa distribuzione dei beni secondo criteri di giustizia non disgiunta dalla carità. A partire da tali presupposti viene anzitutto affrontato il problema dei rapporti tra capitale e lavoro, che rappresenta, nella prima fase di sviluppo della questione sociale, il nodo critico più rilevante, partendo dalla difesa dei diritti dei lavoratori – dal diritto al salario al diritto al rispetto dell’integrità fisica e morale, fino al diritto alla libertà di associazione e al 3080

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pieno inserimento nella vita sociale – per giungere alla richiesta della creazione di un sistema economico che si sviluppi secondo una logica di partecipazione e di solidarietà (cfr. Centesimus annus, nn. 30-43). In una seconda fase – che ha inizio con la pubblicazione della Populorum progressio e, successivamente, della Sollicitudo rei socialis –, nella quale la questione sociale non può più limitarsi a considerare le ineguaglianze fra le classi ma deve porre al centro della riflessione la questione dei rapporti tra i popoli della terra, essenziale diventa la denuncia dello stato di sperequazione esistente tra Nord e Sud del mondo e l’individuazione dei presupposti sui quali costruire un nuovo ordine internazionale. La solidarietà s’identifica qui con la promozione dell’intera famiglia umana e deve concretamente tradursi nella elaborazione di progetti di collaborazione mondiale e nella creazione di relazioni commerciali ispirate a criteri di vera equità sociale. II. LE DIVERSE ACCEZIONI DI DOTTRINA SOCIALE E I CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE VARIE AFFERMAZIONI. – Accostando i vari documenti del magistero sociale non è difficile individuare la presenza, nel succedersi delle varie fasi storiche, di accezioni diverse del concetto di dottrina sociale della chiesa. La prima di queste accezioni coincide con lo sviluppo di un modello ideologico-dottrinale, che interpreta l’intervento della chiesa nei confronti della realtà sociale come offerta di un progetto autonomo, contrapposto tanto al liberalismo capitalista, che negava l’esistenza di un ordine oggettivo capace di fondare il bene comune, quanto al collettivismo marxista, che sosteneva il primato della struttura sociale sulla persona. Questo modello, presente anzitutto nella Rerum novarum e ripreso, successivamente, dalla Quadragesimo anno, finiva per trasformare la dottrina sociale della chiesa in una vera e propria «terza via», caratterizzata dalla pretesa di ricavare immediatamente dal messaggio evangelico un preciso progetto socio-politico, con la tentazione della caduta nell’integrismo, ma anche con il pericolo di riduzione della fede a una ideologia storico-sociale. La presa di coscienza di questi limiti e il tentativo del loro superamento si verificano soprattutto all’epoca del Vaticano II, in concomitanza con l’avanzare di forti critiche al concetto di dottrina sociale della chiesa non solo al di fuo-

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ri della chiesa – si pensi alla radicalità della critica marxista – ma soprattutto al suo interno: ad essere contestata è la possibilità della chiesa di costruire un progetto coerente, capace di mediare i valori della parola di Dio nella concretezza delle situazioni, fino a pervenire a decisioni tecniche che concernono la regolamentazione dei processi propri della società industriale. Le piste che nel periodo del concilio e del postconcilio vengono percorse, nel tentativo di uscire da questo stato di impasse, sono riconducibili alla produzione di due modelli: il modello antropologico-etico e il modello critico-profetico. Il primo identifica il compito della chiesa nei confronti della realtà sociale con l’indicazione di alcuni valori irrinunciabili che ogni sistema deve acquisire e porre alla base del proprio progetto, se intende conferirgli un significato umanizzante. Sono espressione di questo indirizzo la Mater et magistra e la Populorum progressio, ma il documento che getta le basi per tale impostazione è soprattutto la costituzione Gaudium et spes del Vaticano II, dove avviene il pieno riconoscimento dell’autonomia delle realtà terrestri come esito dell’accoglienza positiva della secolarizzazione e dove emerge, nello stesso tempo, la considerazione dell’importanza di una valutazione etica dell’economia, della politica e dell’organizzazione sociale come condizione per fornire ad esse una prospettiva liberante, nonché il ruolo della fede in quanto orizzonte capace di conferire senso ultimo a ogni attività umana (cfr. nn. 33-39). Il secondo modello – quello critico-profetico – è contrassegnato dalla critica alle ideologie e ai sistemi esistenti e dalla evocazione del «nuovo» e del «diverso» come possibili. Il documento in cui soprattutto si esprime quest’orientamento è l’esortazione apostolica Octogesima adveniens; in essa, mentre si riconosce che la chiesa non è portatrice di un proprio progetto politico ma indica semplicemente una serie di valori in base ai quali regolare i rapporti di convivenza nel rispetto del pluralismo delle opzioni concrete, si spinge la comunità cristiana a un permanente discernimento critico e a una testimonianza adulta (cfr. n. 4) e soprattutto alla ricerca, insieme a tutti gli uomini di buona volontà, di soluzioni creative animate da una forte «immaginazione sociale» (cfr. n. 19) e da una tensione prospettica e utopica (cfr. nn. 36-40).

Dottrina sociale della chiesa III. IL RINNOVAMENTO DELLA DOTTRINA SOCIALE E LE PROSPETTIVE PER IL FUTURO. – Con il pontificato di

Giovanni Paolo II ha luogo una forte ripresa della dottrina sociale della chiesa (lo stesso termine viene pienamente recuperato); ripresa che coincide tuttavia con un consistente mutamento del suo contenuto concettuale. È stata soprattutto la Sollicitudo rei socialis a intervenire al riguardo, sottolineando che la dottrina sociale della chiesa non è una «terza via» e neppure un’ideologia ma una categoria a sé, che appartiene al campo della teologia, e specialmente della teologia morale (cfr. n. 41) e rilevando come ad essa non spetti soltanto il compito di denunciare le situazioni di ingiustizia presenti nel mondo, ma anche di annunciare la possibilità del loro superamento mediante il rispetto di alcune irrinunciabili istanze, quali l’opzione preferenziale per i poveri e il principio della destinazione universale dei beni della terra (cfr. n. 42). I documenti più recenti della dottrina sociale della chiesa indicano dunque con chiarezza le modalità secondo le quali la chiesa è chiamata a intervenire, se intende impegnarsi in seno alla realtà sociale in conformità agli indirizzi della teologia conciliare e postconciliare e alle domande che scaturiscono dall’attuale stato di globalizzazione. La riflessione ecclesiologica del Vaticano II ha posto le basi per tale rinnovamento, mettendo l’accento sulla necessità di un rapporto privilegiato con il territorio sul quale la chiesa opera – è questo uno degli esiti della riscoperta della chiesa locale – e recuperando un rapporto positivo e insieme critico nei confronti del mondo e della storia. Tensione critico-profetica e articolazione più decentrata e più pluralista degli interventi sono pertanto le istanze alle quali la dottrina sociale della chiesa deve sempre più conformare il proprio modo di affrontare la realtà sociale per esercitare il ruolo di permanente stimolo al cambiamento, con attenzione alla concretezza delle situazioni storiche. G. Piana BIBL.: J. KANAPA, La doctrine sociale de l’Eglise et le marxisme, Paris 1962; C. VAN GESTEL, La doctrine sociale de l’Eglise, Paris 19643, tr. it. di D. Calderari, Introduzione all’insegnamento sociale della Chiesa, Roma 1966; J.B. METZ, Zur Theologie der Welt, München 1968, tr. it. di G. Ruggieri, Sulla teologia del mondo, Brescia 1969; A. MANARANCHE, Y-a-t-il une éthique sociale chrétienne?, Paris 1969, tr. it. di M. Ronzoni, Esiste un’etica sociale cristiana?, Bologna 1971; E. SCHIL-

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Dovere LEBEECKX, God the Future of Man, London 1969; M.D. CHENU, La dottrina sociale della Chiesa. Origine e sviluppo (1891-1971), Brescia 1977; R. CORTESE, Un impegno critico e profetico. Il magistero sociale della Chiesa, Casale Monferrato 1984; AA.VV., La dottrina sociale della Chiesa, Milano 1989; H. CARRIER, The Social Doctrine of the Church Revisited. A Guide for Study, Vatican City 1990, tr. it. di S. Bronzini, Dottrina sociale. Nuovo approccio all’insegnamento sociale della Chiesa, Cinisello Balsamo 1993; G. PIANA, Magistero sociale, in Nuovo Dizionario di teologia morale, Cinisello Balsamo 1990, pp. 681-708; G. GUTIÉRREZ, teología de la liberación. Perspectivas, Salamanca 1992, tr. it. di L. Bianchi - E. Demarchi, Teologia della liberazione, Brescia 1992; F. APPI, Cos’è la dottrina sociale della Chiesa, Roma 1996; G. FROSINI, Il pensiero sociale dei Padri, Brescia 1996; E. BENVENUTO, Il lieto annunzio ai poveri. Riflessioni storiche sulla dottrina sociale della Chiesa, Bologna 1997.

➨ ASSOCIAZIONE, LIBERTÀ DI; COSMOPOLITISMO; GIUSTIZIA SOCIALE; GLOBALIZZAZIONE; LAICO - LAICITÀ; LAVORO; PERSONA; PROPRIETÀ, DIRITTO DI; SECOLARIZZAZIONE; QUESTIONE SOCIALE; SOLIDARIETÀ; SOLIDARISMO; SUSSIDIARIETÀ , PRINCIPIO DI ; UGUAGLIANZA.

DOVERE (dal lat. debere: verbo; come sost.: Dovere officium - duty, oughtness; Pflicht, Sollen; devoir; deber). – Etimologicamente debere (da de e habere) indica che si è ricevuto qualche cosa e che qualcosa si deve restituire. Questo è anche il senso dei vocaboli derivati: debitum (dehabitum) e debitor (de-habitor). Con il termine dovere si intende, nel comune linguaggio, sia l’azione da compiere o l’omissione a cui l’uomo è obbligato; sia l’obbligazione morale in virtù della quale l’uomo è tenuto a compiere o a omettere qualcosa. Considerato nella prima accezione, il dovere risulta declinabile al plurale, e può risultare: a) con riferimento alla sua causa: naturale o positivo, secondo che proceda dalla legge naturale o dalla legge positiva; b) con riferimento al soggetto: individuale o sociale, secondo che debba compiersi dall’individuo o dalla società; c) con riferimento al termine, cioè alla persona a cui si riferisce: dovere verso Dio, dovere verso se stesso, dovere verso il prossimo. Considerato nella seconda accezione, che è la più profonda e veramente essenziale (quindi la più importante speculativamente), il concetto del dovere presenta, nella storia della filosofia, un’estesa varietà d’interpretazioni. Su queste ultime si rivolge qui l’attenzione in linea principale, mentre, per la problematica 3082

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generale del dovere dal punto di vista teoretico, si rinvia alla voce «obbligazione». SOMMARIO: A) Aspetto filosofico: I. Il dovere nel pensiero greco. - II. II dovere nel pensiero cristiano. - III. Il dovere nel pensiero moderno: 1. Kant, Fichte, Hegel. - 2. Il pensiero italiano nell’epoca del risorgimento. - 3. Schopenhauer e Nietzsche. - 4. Concezioni positivista e aprioristica del dovere. - IV. Il dovere nel pensiero contemporaneo: 1. Croce e Gentile. - 2. I fenomenologi. V. Essere e dover-essere: 1. La «ghigliottina di Hume». - 2. Tentativi di un suo superamento. - VI. Dovere e potere: 1. Dovere e potere secondo Kant. - 2. Sviluppi formali. - B) Aspetto giuridico. A) ASPETTO FILOSOFICO. I. IL DOVERE NEL PENSIERO GRECO. – Una prima esplicita trattazione filosofica del dovere si trova, nell’ambito della filosofia greca, nel Critone di Platone. Nella prosopopea delle Leggi, contenuta in questo dialogo (nn. 11-16), il concetto del dovere si profila chiaramente: l’uomo, con l’accettare liberamente di far parte di una repubblica, si deve impegnare a rispettarne le leggi, cioè a «fare ciò che ella ordina di fare, e soffrire se ella ci ordina di soffrire» (Crit., 51 b, tr. it. di M. Valgimigli, Bari 1966). È l’impegno assunto con il pactum unionis politico: «Dimmi: se uno si trovi d’accordo con un altro nel riconoscere che una cosa è giusta, questa cosa colui la deve fare, o deve cercare di eludere l’altro e non farla? – La deve fare» (ibi, 49 e). Sino a questo punto il dovere morale, per Socrate, non si configura diversamente che come un pactis standum del tutto umano. Il dovere socratico assume però assai presto un carattere di religiosità trascendente, di comando divino. La condanna di Socrate, infatti, è stata formulata contro giustizia e rettitudine dai responsabili della cosa pubblica. Per questo, argomenta Critone nel suo tentativo di persuadere l’amico a fuggire, Socrate non è più tenuto ad obbedire alle leggi, ch’egli accettava solo in quanto erano fondate sul giusto. La pretesa di Critone è logicamente fondata dal punto di vista della saggezza umana, e Socrate può rifiutarla solo perché si pone da un punto di vista superiore, cioè dal punto di vista del comando divino. Infatti la condanna ingiusta, secondo Socrate, non infirma il valore delle leggi, ma mostra soltanto che ingiusti sono gli uomini che male le applicano. In tal modo il principio della morale, astratto da ogni contingente applicazione giusta o ingiusta, è valido in sé per il suo fondamento tra-

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scendente riposto in Dio. Solo per questo l’uomo deve ascoltare la voce del dovere: «ché questa è la via per cui ci conduce Iddio» (ejpeidh; tauvth/ oJ qeo;" uJfhgei'tai: ibi, 54 e; cfr. Apol. Soc., 28 e). La piena trascendenza della legge morale è altrove riaffermata da Platone: Dio ha dato all’uomo l’anima come genio tutelare; l’uomo deve ascoltare la sua voce e sollevarsi in tal modo alla parentela col cielo (cfr. Theaet., 176177; Tim., 90 a-c). Il dovere sommo, per l’uomo, è dunque di assomigliare a Dio, dato che in Lui, e non nell’uomo (come voleva il soggettivismo protagoreo), è la misura di tutte le cose: «Ora per noi la misura di tutte le cose è Dio soprattutto [...] chi pertanto vorrà essere amico d’un tal essere, è necessario che anche lui cerchi di divenire, quanto più è possibile, quale egli è» (Leg., IV, 716 c, tr. it. di A. Cassarà, I, Bari 1920, p. 121). La morale aristotelica, fondata sul concetto di felicità, potrebbe sembrare escludere la possibilità di una trattazione adeguata del dovere; potrebbe infatti sembrare che la virtù morale sia intesa da Aristotele come un «mezzo» in vista della felicità intesa come fine. Considerato però che per questo autore la felicità non consiste nei piaceri, negli onori, nelle ricchezze, ma nel perfezionamento della natura razionale dell’uomo, nell’acquisto quindi delle virtù dianoetiche ed etiche, si può dire che – nella sua prospettiva – l’uomo che non s’impegna all’acquisto delle virtù, non segua il dettame della retta ragione; e che il vizioso sia uno snaturato e un malvagio. L’uomo è obbligato a compiere il bene e a evitare il male perché la sua natura glielo comanda; si tratta di un dovere veramente morale, anche se non è concepito come emanante da un’autorità trascendente. Il concetto di dovere fu trattato molto diffusamente dagli stoici. Si deve ad essi l’introduzione del termine kaqh'kon, che i più traducono appunto con «dovere». Opere dal titolo Peri; tou' kaqhvk onto" scrissero Zenone, Cleante, Sfero e Crisippo. Secondo la definizione di Zenone, che fu il primo a usare questo termine, kaqh'kon «è quello che, quando sia compiuto nell’azione, si può pienamente giustificare davanti alla ragione. Es.: la coerenza nella vita, un principio naturale che si estende anche alle piante e agli animali, i quali noi vediamo svolgersi e agire in modo conforme alla propria natura. Quel principio stesso, applicato all’animale ragionevole, dà la formula ”coerenza nel-

Dovere la vita”. Il kaqh'kon è quindi un atto inerente alle istituzioni conformi alla natura» (N. Festa, I frammenti degli Stoici antichi, I: Zenone, Bari 1932, p. 72). Questa definizione ci mostra chiaramente che il concetto di dovere non si ritrova ancora nel termine usato dagli stoici. Kaqh'kon, conformemente alla propria origine etimologica da to;; katav tina" h{{kein (l’avvicinarsi a qualcuno), significa semplicemente «conforme», «convenevole» – come traduce Festa –, o «conveniente» – come suggerisce Mondolfo (Il pensiero antico, Firenze 19502, p. 406). Come già faceva notare Cicerone, il kaqh'kon, o commune officium, si trasforma in perfectum officium, o katovrqwma, solo per effetto della retta ragione (De officiis, I, 3, 8). Se la trattazione del kaqh'kon rimane estranea a una vera e propria teorica del dovere, l’etica stoica è d’altronde tutta informata al concetto di una voce superiore all’umano, che prescrive imprescindibilmente a tutti gli uomini una missione da realizzare. Ogni uomo, secondo gli stoici, ha il dovere di conformarsi, nelle sue azioni, a quell’ordine razionale e divino, che è immanente nel mondo: dovere che si estrinseca nel rispetto e nell’amore alla persona altrui, nella fratellanza umana e nel cosmopolitismo, nell’altruismo e nel sacrificio, nella comprensione per la fragilità dell’uomo e nel rifiuto di giudicare – tutte qualità, le quali, nonostante gli stoici non posseggano ancora il concetto della personalità di Dio e dell’immortalità dell’anima, avvicinano questa filosofia alla visione cristiana della vita. Cicerone ci dà un’esplicita e compiuta trattazione del dovere, che egli fa coincidere con il pieno adempimento delle quattro virtù cardinali: sapienza («in perspicientia veri»), giustizia («in hominum societate tuenda tribuendoque suum cuique»), fortezza («in animi excelsi atque invicti magnitudine ac robore»), temperanza («in omnium quae fiunt quaeque dicuntur ordine et modo»). I doveri, poi, si dispongono in diversi gradi: «sunt gradus officiorum, ex quibus, quid cuique praestet, intelligi possit, ut prima dis immortalibus, secunda patriae, tertia parentibus, deinceps gradatim reliquis debeantur» (op. cit., I, 45, 160). II. IL DOVERE NEL PENSIERO CRISTIANO. – Col cristianesimo il dovere trova la sua più profonda giustificazione. Secondo la fede cristiana, infatti, la persona umana non possiede tanto un valore autonomo, indipendente e assoluto, quanto un valore che trae ogni sua realtà dall’infini3083

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Dovere ta trascendenza creatrice di Dio. La morale cristiana si radica profondamente nella trascendenza; ma caratteristica fondamentale di essa è la capacità di costituire sull’eteronomia morale la piena rivalutazione dell’autonomia della persona umana. L’uomo, infatti, ha come dovere sommo quello di amare Dio; a questo dovere fondamentale tengono dietro gli altri doveri, che si riassumono nell’amare il prossimo: «Ama il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il massimo e il primo dei comandamenti. Il secondo, poi, è simile a questo: ama il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende l’intera legge e i profeti» (Mt 22, 37-40). A queste fondamentali premesse sono conformi numerose precettistiche dei doveri, che mettono capo a san Paolo (p. es., il dovere del lavoro: 2 Ts 3, 10), e che si sviluppano nella patristica. Celebre, p. es., il De officiis ministrorum di Ambrogio. Il vescovo di Milano non nega la teorica ciceroniana del dovere, ma la supera in una visione più ampia, nella quale il dovere sommo, o amore di Dio, si costituisce come l’unità inscindibile di utile e di honestum, eliminando quelle ultime incertezze circa un possibile contrasto tra i due termini, che ancora permanevano nel filosofo romano (cfr. Cicerone, op. cit., III, 2 ss.; Ambrogio, op. cit., III, 2). Agostino esalta la trascendenza della morale: Dio è il fine «ad quod adipiscendum omnia officia referenda sunt» (cfr. De civ. D., X, 18); nel dovere più che la materialità dell’opera vale l’intenzione: «officium nostrum non officio, sed fine pensandum est» (Enarr. in psalmum 118, 12, 2); il dovere è adesione alla volontà divina «ordinem naturalem conservari iubens, perturbari vetans» (Contra Faustum, XXII, 27): concetto che fonda una tradizione di pensiero. III. IL DOVERE NEL PENSIERO MODERNO. – Nell’epoca moderna l’indagine intorno al dovere trova poco spazio, ed assume invece importanza l’indagine intorno ai diritti dell’uomo: un uomo che è orientato a una realizzazione sempre più complessa della propria personalità. Giusnaturalismo e illuminismo, fenomeni improntati a una piena esaltazione dei diritti dell’uomo, trascurano per voluta polemica un’indagine approfondita attorno al dovere. La riflessione sul dovere si sviluppa nell’età moderna, appunto come reazione alle correnti illuministiche. Il primo esponente di questa opposizione è Rousseau, per il quale la viva 3084

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coscienza del dovere è l’unico sostegno dell’umana fragilità, l’unico segno del divino in noi: «Coscienza! Coscienza! divino istinto; voce immortale e celeste; guida sicura di un essere ignorante ma intelligente e libero, giudice infallibile del bene e del male che rende l’uomo simile a Dio» (Émile, l. IV, cap. 6, tr. it. di G. Tarozzi, Emilio, Bologna 1934, p. 430). 1. Kant, Fichte, Hegel. – L’indagine intorno al dovere diventa fondamentale nell’etica di Kant. Per questo autore, «il concetto del dovere [...] contiene quello di una volontà buona, sebbene con certe determinate limitazioni e ostacoli soggettivi, i quali però, lungi dal celarlo o dal renderlo irriconoscibile, lo rendono evidente per contrasto, facendolo risaltare con ciò in modo tanto più chiaro». Kant distingue tra: azioni che contrastano il dovere; azioni che ad esso si conformano vincendo avverse inclinazioni; e azioni che ad esso si conformano, anche col concorso di favorevoli inclinazioni. Nel secondo caso, è chiaro che il dovere è compiuto per il dovere. Nel terzo caso, invece, occorrerà chiedersi se il movente prevalente di simili azioni stia nell’inclinazione oppure nella considerazione stessa del dovere: solo in quest’ultimo caso, infatti, l’azione realizza la sua autonoma purezza morale. Lo stesso perseguimento della propria felicità e lo stesso amore per il prossimo, hanno un contenuto morale – secondo Kant –, solo se vengono intesi come determinazioni del dovere morale, cioè se sono vissuti, non come «inclinazioni», bensì come contenuti pratici di un precetto. Il valore propriamente morale dell’azione non sta negli «scopi» e negli «effetti» che essa si propone, e neppure nel suo contenuto (Gegenstand), bensì nel «principio del volere», cui essa obbedisce: essa è buona, se è determinata dalla legge propria di ogni essere razionale. In tal senso, «dovere è necessità di un’azione per rispetto della legge» (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Riga 17862 [1785], sezione I, tr. it. di F. Gonnelli, Fondazione della metafisica dei costumi, Roma-Bari 1997, pp. 23-31). Al di là di ogni imperativo ipotetico, eteronomo e utilitario, la legge morale deve fondarsi sulla propria essenziale e categorica formalità: «tu devi» (du sollst). Il «dover essere» – spiega Kant – è la formula che esprime «il rapporto di una legge oggettiva della ragione con una volontà che, secondo la sua costituzione soggettiva, non viene con ciò determinata in modo necessario», non viene cioè costretta: dunque, il «tu

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devi» ha senso solo in relazione a una volontà libera di scegliere (ibi, sezione II, pp. 57-59). Sugli stessi temi, Kant ritorna nella Critica della ragione pratica: «il concetto del dovere richiede nell’azione, oggettivamente, l’accordo con la legge, ma nella massima di essa, soggettivamente, il rispetto alla legge, come il solo modo di determinazione della volontà mediante la legge» (KpV, parte I, l. I, cap. 3, tr. it. di F. Capra, riveduta da E. Garin, Critica della ragion pratica, Roma-Bari 1997, pp. 177 ss.). L’esaltazione del dovere è fondamentale per tutta la filosofia di Kant, dato che questo concetto permette di fondare non solo il regno dell’assoluta moralità, adempiendo in tal modo, nella sfera pratica, quel compito di introduzione nella realtà assoluta, che spetta, nella sfera teoretica, alla ragione, ma altresì sancisce quel primato della ragione pratica, che porta l’uomo all’assoluta certezza dei tre postulati. È proprio il dovere che diviene la riprova interiore dell’esistenza di Dio: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me» (ibi, p. 353). E l’esaltazione del dovere assume un tono lirico, che ricorda Rousseau e prelude al romanticismo: «Dovere! Nome sublime e grande, che non contieni niente di piacevole implicante lusinga, ma desideri la sommissione; che, tuttavia, non minacci niente donde nasca nell’animo naturale ripugnanza e spavento che muova la volontà, ma esponi soltanto una legge, che da sé trova adito nell’animo, e anche contro la volontà si acquista venerazione» (ibi, p. 189). Nella Metafisica dei costumi Kant si occupa anzitutto della distinzione tra il dovere in senso giuridico e il dovere in senso morale: «Tutti i doveri sono: o doveri giuridici (officia iuris), cioè tali per i quali è possibile una legislazione esterna, o doveri di virtù (officia virtutis s. ethica), per i quali non è possibile una tale legislazione. Questi ultimi non possono essere soggetti a nessuna legislazione esterna, perché sono diretti ad un fine che è nello stesso tempo un dovere (o che è nostro dovere di raggiungere)». Kant propone anche una ideale tavola dei doveri («divisione secondo il rapporto oggettivo della legge con il dovere»), generata dall’incrocio tra due coordinate: la qualità del dovere (perfetta o imperfetta), e il suo referente (se stessi o gli altri). In tal senso, ci sono: (1) do-

Dovere veri perfetti verso se stessi; (2) doveri perfetti verso gli altri; (3) doveri imperfetti verso se stessi; (4) doveri imperfetti verso altri. Quelli indicati all’(1) e al (2) sono «doveri di diritto»; quelli indicati al (3) e al (4) sono «doveri di virtù». I doveri di diritto hanno senso per l’uomo – osserva Kant – solo se vissuti in relazione con esseri a loro volta capaci sia di diritti che di doveri, cioè in relazione con altri uomini (e non in relazione agli animali, che non hanno diritti, oppure a Dio, che non ha doveri) (Die Metaphysik der Sitten, Königsberg 1797, tr. it. di G. Vidari poi riveduta da N. Merker, La metafisica dei costumi, Roma-Bari 1989, pp. 48-50). Solo i doveri di diritto hanno come corrispettivo il diritto altrui di «costringere» il portatore del dovere; mentre i doveri di virtù sono semplicemente soggetti alla interna «obbligazione» morale (ibi, pp. 231-232). Non tutti i «doveri etici» sono anche «doveri di virtù»: questi ultimi sono i doveri che si riferiscono, non a principi formali da rispettare, ma a contenuti determinati da attuare. Ai doveri di virtù, Kant dedica, nella sezione della Metaphysik dedicata alla dottrina della virtù, una trattazione che si propone di essere «scientifica», cioè di tenere come filo conduttore per la deduzione dei doveri la legge morale, e non i fini che gli uomini si propongono di fatto (mentre sarebbe autocontraddittorio proporsi come fine l’ottenimento di quella eudaimonia che deriva dall’aver compiuto disinteressatamente il proprio dovere) (ibi, pp. 221-224). Identificando «etica», «dottrina della virtù» e «dottrina dei doveri», Kant spiega che «il concetto del dovere contiene già in se stesso il concetto di una obbligazione esercitata dalla legge sul libero arbitrio; questa costrizione può essere o esterna o imposta da noi stessi. L’imperativo morale con il suo decreto categorico (il dovere assoluto) indica questa condizione [...]. Siccome però l’uomo è un essere libero, il concetto del dovere [...] non può contenere altra costrizione se non quella che ci imponiamo da noi stessi (con la sola rappresentazione della legge). [...] Ma allora il concetto del dovere rientrerà nel dominio dell’etica». «Il rapporto del fine con il dovere si può concepire in due modi: o, partendo dal fine, cercare la massima dell’azione conforme al dovere; o al contrario, partendo dalla massima, cercare il fine che è nello stesso tempo un dovere». Ora, la dottrina del diritto segue la prima via, cioè lascia all’arbitrio di ciascuno di 3085

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Dovere individuare i propri fini, e impone ad essi di accordarsi col criterio della universalizzabilità; l’etica invece segue la seconda via, cioè va determinando i fini nella forma di altrettanti doveri, cioè di altrettante determinazioni della legge morale (ibi, pp. 227-232). Quanto ai fini che nello stesso tempo sono doveri, Kant ne individua fondamentalmente due: «la propria perfezione» (corporea, intellettuale e morale) e «la felicità altrui» (fare propri i fini leciti altrui, senza danno per i propri). Mentre, la felicità propria non ha bisogno di essere proposta come un dovere, e la perfezione altrui è concepibile come un dovere solo per altri (ibi, pp. 235-238). La legge morale, diversamente da quella giuridica, «può soltanto imporre la massima delle azioni, non le azioni stesse»: quindi, indica i suoi doveri in modo «largo» o «imperfetto» – in un modo, cioè, che indica una direzione, ma che non ha un termine definito; mentre «stretto», o ben definito, è il dovere giuridico. Ora, «quanto più largo è il dovere, e più imperfetta quindi l’obbligazione per l’uomo di agire, e quanto più egli, nell’osservanza di un dovere largo, avvicina tuttavia la sua massima al dovere stretto (al diritto), tanto più perfetta è la sua azione virtuosa» (ibi, p. 240). La virtù – secondo Kant – è una sola, quando la si intenda come l’intenzione di compiere il dovere per il dovere; ma, in relazione ai fini che è possibile proporsi nell’agire virtuoso, si possono distinguere parecchie virtù, e parecchi «doveri di virtù» (ibi, p. 246). Nel tentativo di dedurne una tavola, Kant articola i doveri in relazione al loro referente; e distingue così: doveri dell’uomo verso l’uomo (se stesso; gli altri), e doveri dell’uomo verso esseri non umani (sottoumani, sovraumani) (ibi, p. 267). Egli poi, sulla base di tale articolazione, costruisce la sua «dottrina degli elementi dell’etica». A ben vedere, però, «l’uomo ha soltanto dei doveri verso l’uomo», o, più precisamente, verso un soggetto che sia persona e insieme sia oggetto d’esperienza (il che esclude sia gli animali bruti, sia i puri spiriti) (ibi, pp. 303-305). Che si parli di doveri dell’uomo verso se stesso, e quindi di un idem che sia obbligante e insieme obbligato, non è contraddittorio se si distingue tra homo phaenomenon (l’uomo naturale, oggetto di obbligazione) e homo noumenon (l’uomo libero, soggetto d’obbligazione). Tali doveri, a loro volta, si dividono – in senso oggettivo – tra «negativi» e «positivi»: i primi 3086

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proibiscono all’uomo di agire contro il fine della sua natura (riguardano quindi la conservazione morale di sé), i secondi comandano di tendere al perfezionamento morale di sé. In senso soggettivo, invece, tali doveri si dividono in doveri verso di sé come «essere animale e morale nello stesso tempo» (che riguardano la conservazione fisica di sé, la conservazione della specie, la conservazione delle proprie forze), e doveri verso di sé come «essere puramente morale» (riguardanti il mantenimento della propria dignità personale) (ibi, pp. 271275). I doveri umani possono legittimamente essere interpretati come ordini di un «giudice della coscienza», identificabile con Dio stesso (ibi, p. 300). Quanto ai doveri verso gli altri, Kant li distingue in doveri che creano obbligazione nell’altro (o meritori) e doveri che non ne creano (o obbligatori). Entrambi, comunque, implicano sia l’amore che il rispetto: «il dovere dell’amore del prossimo può essere anche espresso come dovere di far propri i fini degli altri (in quanto questi non siano immorali); il dovere del rispetto dei miei simili è contenuto nella massima che proibisce di abbassare chiunque al rango di puro mezzo per i miei fini» (ibi, pp. 315-317). Kant parla anche dei doveri religiosi, intendendoli – «entro i limiti della pura ragione» – come gli stessi doveri morali considerati come se fossero comandi divini. E afferma che il «dovere relativo a Dio è un dovere dell’uomo verso se stesso, vale a dire non è l’obbligazione oggettiva di prestare certi servizi a un altro, ma soltanto l’obbligazione soggettiva di fortificare l’impulso morale nella nostra propria ragione legislatrice» (ibi, pp. 367-369). Questa salda coscienza del dovere viene ripresa e sviluppata da Fichte, che su questa continua tendenza a superare e realizzare sempre più il proprio io, costituisce l’idealismo etico. La filosofia di Fichte è la filosofia del Sollen, cioè del «dover essere», tensione continua verso una realtà infinita che continuamente ci sfugge, perché, una volta raggiunta, la meta diviene finita e risulta insoddisfacente. Secondo le Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten, la missione dell’uomo, il suo dover essere, consiste appunto in questo avvicinamento all’infinito, in questo costante perfezionamento, che non potrà mai terminare nella perfezione: «avvicinarsi, e avvicinarsi all’infinito; questo egli può, e questo egli deve» (op. cit., tr. it. di C. Mazzantini, La missione del dotto, Torino

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1949, p. 113). In questa lotta senza tregua per sottomettere la natura alla ragione, si realizza la completa missione dell’uomo, il quale potrà sostenere con Fichte: «io sono un sacerdote della verità» (ibi, p. 158). La posizione di Fichte è importante non solo per questo approfondimento del dovere kantiano, ma anche perché la nozione stessa del dovere chiarisce a se medesima la necessaria contraddizione dell’etica immanentistica e, sulla crisi di questa, pone le basi di un’etica della trascendenza. Scopo di Fichte, infatti, era quello di liberare il kantismo da ogni residuo trascendentistico. Sennonché proprio l’aver tentato, nelle Vorlesungen e nella prima Wissenschaftslehre, di costituire un dover essere immanentistico, dimostra chiaramente, per l’impossibilità di conseguire questo scopo, la necessità di legare il Sollen a un principio trascendente. Per questo le ultime opere di Fichte cercano decisamente di fondare il concetto di dovere su di un principio trascendente, per modo che la vita morale si presenti come una sorta di itinerario, che dal dubbio attraverso il sapere conduca alla fede, alla beatitudine (cfr. Die Anweisung zum seligen Leben), che l’uomo consegue immedesimandosi in Dio: «Così vivo e sono, e così sono immutabile, saldo e perfetto per tutta l’eternità» (Die Bestimmung des Menschen, tr. it. di R. Cantoni, Milano 1944, p. 212). La critica del dovere diviene costitutiva nel sistema di Hegel. «La filosofia kantiana e fichtiana assegna come il punto più alto della risoluzione delle contraddizioni della ragione il dover essere, che invece non è che la posizione del persistere nella finità, e quindi nella contraddizione» (Wissenschaft der Logik, tr. it. di A. Moni riveduta da C. Cesa, Scienza della logica, Roma-Bari 1988, vol. I, l. I, sezione I, cap. II, B, c, b, Nota, p. 137). Ciò che Hegel rimprovera ai kantiani è l’aver voluto fondare il Sollen su di un puro fatto di coscienza, affetto dalle determinazioni della soggettività; mentre per Hegel il vero essere coincide con la realtà, esistente indipendentemente dall’attività del soggetto. Anche in lui, pertanto, si rispecchia la crisi dell’etica immanentistica, la necessità di legare la legge morale a un principio valido oggettivamente, non limitato alla pura attività soggettiva della coscienza. Sennonché Hegel si rifiuta di fondare il dovere in Dio e, conformemente alla sua attitudine di realismo empiristico, egli pone a fondamento del Sollen la Sittlichkeit, ossia il costume. Tutto

Dovere ciò che deve essere, per lui, si ritrova nel fatto: il mondo reale è come deve essere. In tal modo si viene a eliminare il divario esistente tra Sein e Sollen, solo perché si risolve questo nel seno di quello. Il punto conclusivo della critica hegeliana al concetto di dovere avvicina dunque la sua filosofia a tutte quelle filosofie che, come l’empirismo o il materialismo, fondano il diritto sul fatto: parentela, che è esplicitamente confessata dallo stesso Hegel (Enzyklopädie, tr. it. di B. Croce, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, nuova ed. a cura di N. Merker, Roma-Bari 1983, § 38). Più in particolare, nella Enciclopedia la figura del dover essere viene mostrata come la situazione contraddittoria – tipica della soggettività astratta – di chi vive qualcosa che è e che insieme non è: «la contraddizione sotto tutti gli aspetti, che viene espressa in questo molteplice dover essere – l’essere assoluto, che tuttavia insieme non è –, contiene l’analisi più astratta dello spirito in se stesso» (ibi, § 511). Nei Lineamenti di filosofia del diritto, Hegel identifica la Moralität con «il punto di vista del rapporto, del dover essere, ovvero dell’esigenza» (Grundlinien der Philosophie des Rechts, Berlin 1821, tr. it. di G. Marini, Lineamenti di filosofia del diritto, Roma-Bari 1987, § 108). Il dovere è una formalità che può essere riempita tramite l’attuazione del «diritto» e del «benessere». Ciò significa che qualunque insistenza sul «dovere per il dovere» è una retorica affermazione del formalismo astratto: il dovere ha senso solo in relazione a ciò di cui è dovere, e un tale vario contenuto gli è offerto solo dal contesto della vita etica (Sittlichkeit) (ibi, §§ 133-137). 2. Il pensiero italiano nell’epoca del risorgimento. – La salda coscienza del dovere, che informa tutta la filosofia italiana del risorgimento, deriva dall’avversione comune per le teorie dei diritti formulate dall’illuminismo, e dall’esigenza religiosa di evitare l’utilitarismo morale settecentesco. Nell’opera di Pellico, Dei doveri degli uomini, la precettistica è possibile solo in quanto esiste una idea del dovere, alla quale l’uomo non può sottrarsi. L’uomo deve essere ciò che deve essere, cioè deve tendere a Dio. Similmente in Mazzini la teorica dei doveri verso Dio, l’umanità, la patria, la famiglia, se stessi, è possibile in quanto il concetto di dovere si fonda nella realtà infinita di Dio: «L’origine dei vostri doveri sta in Dio. La definizione dei 3087

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Dovere nostri doveri sta nella sua legge» (Dovere dell’uomo, Lugano 1860, cap. 2). Rosmini compie una critica ed una più esatta interpretazione del dovere kantiano, che egli dimostra soggettivo e quindi incapace di fondare l’universalità della legge morale: «il principio morale di Kant è immorale» (Storia comparativa e critica de’ sistemi intorno al principio della morale, in Principî della scienza morale, Edizione Nazionale e Critica, vol. 23, Roma-Stresa 1990, p. 265). È necessario, invece, se veramente si vuole fondare un concetto universale della morale, radicare il concetto di dovere nel concetto di essere: «In questa necessità morale consiste il concetto dell’obbligazione e del dovere. L’uomo deve con la sua volontà operare secondo l’ordine dell’essere, perché altrimenti il suo atto, la sua volontà, egli stesso sarebbe indeclinabilmente guasto e malvagio» (Compendio di etica e breve storia di essa, in Edizione Nazionale e Critica, vol. 29, Roma-Stresa 1998, n. 48, p. 43). La riconduzione dell’obbligazione morale alla non-contraddizione, è operata con grande chiarezza nei Principî, dove l’autore distingue tra verità conosciuta (la norma) e verità riconosciuta (l’operare secondo la norma). Scrive Rosmini: «Dico che l’obbligazione in questa prima operazione del riconoscere ciò che pur si conosce è per sé evidente [...]. Io sono dunque l’autore del male in me, perché io colla mia volontà sono l’autore della contraddizione e della pugna in me stesso, cioè della pugna fra la ricognizione e la cognizione». Dunque, «non abbiamo ridotta con ciò la scienza dei costumi alla sua prima ragione? [...] Se noi diciamo di non conoscere ciò che pur conosciamo, non facciamo noi con ciò uno sforzo per fare che non sia ciò che è, e che sia ciò che non è? in tal modo non operiamo noi contro il principio di non contraddizione, che dice “ciò che è non può non essere, e ciò che non è non può essere”? non oppugniamo noi con questo l’essere, poiché ci sforziamo di fare che non sia ciò che pur è e che sia ciò che pur non è?» (cfr. Principî della scienza morale, cit., pp. 138-140). Gioberti, in piena fedeltà alle sue premesse teoretiche, critica non solamente il dovere kantiano, ma altresì il dovere teorizzato da Rosmini, che egli accusa di soggettivismo: «il principio cardinale dell’etica rosminiana guida dunque di necessità all’immoralismo, che considera la legge morale come una disposizione subiettiva dello spirito umano, priva di fonda3088

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mento nell’eterna essenza delle cose» (Del buono, ed. naz., XII, Milano 1940, p. 19). Mentre «la legge è obbiettiva e indipendente dagli spiriti creati [...] la sua obbiettività deriva dalla sua medesimezza con l’oggetto conoscitivo» (ibi, p. 86). Il progressivo cammino morale si configura così come I’ascensus per cui l’«Esistente» ritorna all’«Ente». 3. Schopenhauer e Nietzsche. – Anche Schopenhauer rivolge una critica alla concezione kantiana del dovere. Secondo lui, il tentativo di Kant di fondare un dovere incondizionato doveva necessariamente fallire, dato che in questa definizione è evidente la contradictio in adiecto consistente nel voler porre incondizionatamente una nozione, che è necessariamente legata ai concetti condizionati di pena o ricompensa. La morale kantiana, per Schopenhauer, è morale egoistica, come ogni concezione che congiunge virtù e felicità: «ogni virtù che venga esercitata per una qualche ricompensa, riposa sopra un avveduto, metodico, lungimirante egoismo» (Kritik der kantischen Philosophie, in appendice a Die Welt als Wille und Vorstellung, tr. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. I, Bari 1928, p. 649; cfr. anche Über das Fundament der Moral, cap. 4). La morale kantiana – per questo autore – riposa, al pari d’ogni altra morale, su di un principio eteronomo e teologico, e si mostra, a un attento esame, fondata su di un imperativo ipotetico e non categorico. Anche la critica schopenhaueriana dunque mostra l’impossibilità di fondare, immanentisticamente, la nozione del dovere. E la nuova morale, che Schopenhauer propone, fondata non più sul dovere ma sulla compassione (Mitleid), finisce per implicare la trascendenza di un principio etico, che ponga la giustificazione dell’intenzione morale, mediante un concetto innato, che Schopenhauer chiama «genio etico», «amore istintivo», «virtù spontanea» o, assai più chiaramente, «grazia» (cfr. ibi, l. IV, §§ 66 e 70; Über das Fundament der Moral, cap. 16). In Nietzsche la critica del dovere coincide con la prefigurazione dell’Übermensch, che, imponendo la propria morale, nega quella dell’accettazione di un ordine etico precostituito. In Also sprach Zarathustra la sostituzione della morale del dovere con la morale del volere è simboleggiata dalla metamorfosi per cui il cammello, che pazientemente si era caricato del fardello del «du sollst», si trasforma nel le-

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one, che nega tutti i valori tradizionali: «Là dove il deserto è più solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa leone, egli vuol come preda la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto. Qui cerca il suo ultimo signore: il nemico di lui e del suo ultimo dio vuol egli diventare, con il grande drago vuol egli combattere per la vittoria. Chi è il grande drago, che lo spirito non vuol più chiamare signore e dio? “Tu devi” si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice “io voglio”. “Tu devi” gli sbarra il cammino, un rettile dalle squame scintillanti come l’oro, e su ogni squama splende a lettere d’oro “tu devi!”» (op. cit., tr. it. di M. Montinari, Così parlò Zarathustra, Milano 1988, p. 24). Nietzsche non comprende come ogni morale del dovere implichi in realtà non già la rinuncia alla dignità umana, ma proprio il potenziamento sommo di questa dignità. La singolare contraddizione di Nietzsche, che alimenterà di sé gran parte del pensiero del Novecento, consiste nella sua coscienza della impossibilità di fermarsi alla fase leonina dello spirito e alla funzione puramente critica e negativa di questa fase. Nelle allegorie dello Zarathustra si rende, infatti, necessaria una terza metamorfosi: quella che trasforma il leone in fanciullo, ristabilendo lo stato dell’innocenza («innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì»; cfr. ibi, p. 25). In tal modo, Nietzsche finisce per criticare tutto il pensiero moderno, la sua filosofia e la sua stessa critica del dovere Se infatti si vuole evitare per l’Übermensch la conclusione nichilista dell’«Unico» stirneriano, è necessario fondare la negazione della civiltà umana su di un criterio superumano, che non può provenire che da un principio sia pur enigmaticamente trascendente. Solo in tal modo l’Übermensch, superate le smanie ferine della distruzione, potrà, al pari del fanciullo evangelico, entrare nel regno dei cieli. 4. Concezioni positivista e aprioristica del dovere. – Tra Ottocento e Novecento, la discussione intorno al dovere vede formarsi due atteggiamenti opposti, che oppostamente risolvono il problema dell’origine di questo significato. Già nella morale utilitaristica inglese (cfr. J. Bentham, Deontology, London-Edinburgh 1834, vol. I, 1) si tende a sostituire il concetto di dovere con quello di interesse. I doveri verso sé e verso gli altri si riducono a una forma di interesse individuale e sociale. In seguito, i fi-

Dovere losofi positivisti teorizzeranno pienamente l’origine sociologica della nozione del dovere. Per Spencer è l’elemento coattivo della coscienza che ha dato origine alla figura del dovere e che trasforma la primitiva coazione estrinseca in coazione intrinseca (Data of Ethics, London 1879, §§ 46-47). Achille Ardigò sostiene l’origine aposterioristica del dovere, che si sarebbe formato da una generalizzazione empirica (La morale dei positivisti, in Opere, vol. III, Padova 19013, pp. 430 ss.). Di questo parere sono anche Harald Høffding (Etik [1876], tr. fr. di L. Poitevin, Paris 19072, pp. 131 ss.), Friedrich Paulsen (System der Ethik, Berlin 19129, pp. 342 ss.), Friedrich Jodl (L’etica del positivismo, Messina 1909, pp. 19 ss.), Jean-Marie Guyau (Esquisse d’une morale sans obligation ni sanction, Paris 1885), Alfred Loisy (La morale humaine, Paris 1923). Per tutti i seguaci della scuola sociologica – Lucien Lévy-Bruhl (La morale et la science des moeurs, Paris 1903), Émile Durkheim (Les règles de la méthode sociologique, Paris 1895), Eugène Dupréel (Traité de morale, Bruxelles 1932), Edvard Westermarck (The Origin and Development of Moral Ideas [190608], tr. fr. di R. Godet, Paris 1923, 2 voll.) –, non è già l’assolutezza del dovere che impone l’imperatività, ma, al contrario, è l’imperatività reale che impone l’assolutezza. A tutti questi autori che, insieme a molti altri, sostengono l’origine empirica della nozione di dovere, fanno riscontro numerosi altri filosofi, che si fanno sostenitori dell’apriorità di questo concetto. Fra questi basti ricordare Hermann Cohen (Ethik des reinen Willens, Berlin 19072, pp. 468 ss.), Georg Simmel (Hauptprobleme der Philosophie [1910], tr. it. di A. Banfi, Firenze 1920, pp. 202 ss.), Heinrich Rickert (System der Philosophie, vol. I, Tübingen 1921, pp. 324 ss.), Viktor Cathrein (Moralphilosophie [1910-11], tr. it. di E. Tommasi, I, Firenze 1913, pp. 422 ss.), Nicolai Hartmann (Ethik, BerlinLeipzig 19332, cap. 6). In tutti questi filosofi (ad eccezione di Cathrein, che lega il concetto di dovere alla realtà trascendente di Dio) si nota la preoccupazione di fondare la nozione di dovere approfondendola in senso immanentistico. La loro posizione è chiaramente espressa da Wilhelm Windelband (Präludien [1884], tr. it. di R. Arrighi, Preludi, Milano 1947, cap. 7), che sostiene l’indipendenza e l’apriorità del concetto stesso, necessarie per fondare ogni giudizio morale: «la coscienza del dovere è il principio morale in quanto è la condizione su3089

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Dovere prema della possibilità di una vita morale» (ibi, p. 177). Si rispecchia in questi pensatori la crisi dell’etica immanentistica, la necessità di legare la nozione di dovere alla trascendenza di un principio ideale, come ha chiaramente mostrato Francis H. Bradley (Appearence and Reality [1893], tr. it. di C. Goretti, Apparenza e realtà, Milano 1947), per il quale il fine della moralità trascende l’uomo e il mondo della morale stessa: «ogni aspetto separato dell’universo finisce per esigere qualche cosa di più alto di se stesso, e come ogni altra apparenza il bene implica ciò che per realizzarlo deve assorbirlo» (ibi, pp. 468-69; cfr. pure, dello stesso autore, Ethical Studies, Oxford 19272, cap. 4). IV. IL DOVERE NEL PENSIERO CONTEMPORANEO. – 1. Croce e Gentile. – Benedetto Croce formula una critica della nozione di dovere: esso è tautologico e inutile alla vita etica stessa (Filosofia della pratica, Bari 1909, pp. 304-305). Merito della civiltà moderna, secondo Croce, è stato quello di approfondire il concetto di libertà contro il concetto di dovere, il concetto di individualità contro quello di universalità (Cultura e vita morale, Bari 19262, p. 302). Il vero dovere, quindi, coincide con la libertà e col diritto del singolo, quale si viene storicamente determinando. La fedeltà all’immanentismo porta Croce a una forma di utilitarismo etico, come in politica lo porta a una forma di atomismo sociale: «L’individuo è la situazione storica dello spirito universale in ogni istante del tempo, e, quindi, l’insieme degli abiti che, per effetto delle situazioni storiche, si producono» (Filosofia della pratica, cit., p. 167). Il concetto di dovere è invece il cardine della filosofia morale di Giovanni Gentile, che molto deve a Fichte. L’uomo realizza veramente se stesso, solo allorquando nega ciò che immediatamente egli è e cerca di ritrovare se stesso in un dover essere che lo trascende: «tendere a una realtà in cui non è ma sarà la nostra realtà, questo è lo slancio morale dell’uomo» (Discorsi di religione, Firenze 19343, p. 41). La voce del dovere, che nella filosofia di Gentile si fa tanto più forte, quanto più egli accentua il suo distacco dall’immanentismo crociano, è l’unica base trascendente della morale: «C’è una voce dentro l’anima dell’uomo che non tace mai, e lo sprona a non ristare, ad andare avanti: dove? Verso se stesso: quello che egli deve essere» (Genesi e struttura della società, Firenze 1946, pp. 7-8). 3090

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2. I fenomenologi. – Edmund Husserl mette in evidenza la dimensione del dovere, nella sua fenomenologia dell’umano: infatti, «l’essereuomo implica un essere-teleologico e un dover-essere» (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale [1954], tr. it. di E. Filippini, Milano 1961, p. 290). Husserl connette il dovere al fine. Entrambi acquistano senso – a suo avviso – entro la «temporalità originaria» dell’io, per cui esso è «possibilità». Secondo Husserl, «in quanto io vivente-fluente io sono la possibilità di me stesso, una possibilità molteplice; cioè io sono libero. Ma che cosa significa questa libertà? Essa significa che all’io, che è originariamente temporale, spetta anche sempre originariamente una “volontà” e un “dovere”, che l’io non si limita semplicemente ad essere, ma può essere, deve essere e vuol essere» (G. Brand, Mondo io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl [1955], tr. it. di E. Filippini, Milano 1960, pp. 217-218). L’altro caposcuola della fenomenologia, Max Scheler, vuole invece approfondire la dimensione concreta e «materiale» del dovere; e lo fa in polemica con la concezione kantiana, di cui però cerca di potenziare l’istanza di intransigenza anti-utilitaria. Il soggetto in tanto deve, in quanto intuisce preliminarmente il valore: l’intuizione (o «percezione emozionale») del valore antecede la coscienza del dovere, che non costituisce dunque il fenomeno morale originario, ma una spontanea e pur necessaria conseguenza della intuizione del valore. In tal modo l’astrattezza e il rigorismo impliciti nella nozione kantiana di dovere vengono vinti dalla concreta partecipazione all’ordine assiologico gerarchicamente scoperto: il dovere non è più obbligazione, l’etica non è più qualificata dal dovere, ma dal discernimento (cfr. Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Halle 19273, pp. 192-196). Martin Heidegger, da parte sua, indica nella «distinzione di essere e dovere», l’ultima delle delimitazioni dell’essere, e, precisamente, quella «verso l’alto»; come a dire che il dovere, lungi dall’esser misurato dall’essere, è una possibile «misura» per l’essere. Infatti, da Platone a Kant, «è l’essere stesso che, proprio per via della sua specifica interpretazione come idea [...], implica il riferimento a qualcosa di esemplare, di dovuto»; e, a un tale impoverimento deontologico dell’essere, fa appunto riscontro la concezione che pone qualcosa al di sopra dell’essere: qualcosa che esso «non è

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ancora, ma che deve ognora essere» (Introduzione alla metafisica [1953], tr. it. di G. Masi, Milano 1968, p. 201). Culmine di un tale processo teorico, è il primato del Sollen sul Sein, che si afferma nella filosofia di Kant (ibi, p. 402). Oltretutto, la divaricazione dell’ordine del dover essere da quello dell’essere diviene drammatica nell’«epoca della tecnica», in cui si assiste alla tendenziale riduzione dell’essere a un insieme di oggetti sperimentabili. Ciò rende inevitabile che il dovere pretenda di emanare da qualcosa di ulteriore all’essere, e cioè dal valore. «Ciò che pretende di valere in sé come imperativo deve essere in se stesso legittimato a ciò. Qualcosa come un dovere non può emanare che da ciò che in se stesso è in grado di avanzare una tale pretesa, da ciò che ha in sé un valore, che è esso stesso un valore. I valori in sé divengono ora il fondamento del dovere» (ibid.). Quindi, è inevitabile che la figura del dovere venga coinvolta nella polemica – avviata da Nietzsche – intorno all’«origine problematica» del «concetto di valore» (ibi, pp. 203-204). IV. ESSERE E DOVER ESSERE. – 1. La «legge» di Hume. – Un’obiezione radicale – espressa da Hume nel XVIII secolo, e vigorosamente ripresa in età a noi contemporanea – mette in questione le modalità della fondazione teorica del dovere morale. Hume, nel suo Treatise of Human Nature (1739-40), affermava che la determinazione di ciò che è bene e ciò che è male, non può che avvenire per intuito affettivo (Moral Sense), e che la riflessione razionale non ha alcuno spazio in tale materia. Infatti, (a) «la moralità non consiste in nessun dato di fatto che si possa scoprire con l’intelletto»; e (b) «la morale non consiste in certe relazioni che sono invece gli oggetti della scienza» (cfr. ibi, tr. it. di E. Lecaldano ed E. Mistretta, Trattato sulla natura umana, Roma-Bari 1982, l. III, parte I, sez. 1, p. 495). In questa duplice affermazione sta il nocciolo della cosiddetta «legge di Hume»; esaminiamolo dunque più da vicino. (a) La prima affermazione humiana equivale al riconoscimento che «questo è bene», non è un giudizio che corrisponda a una constatazione di fatto, alla descrizione di un pezzo di mondo. Moralmente buona, infatti, non è la realizzazione che è frutto dell’atto, e neppure la materiale esecuzione del medesimo (l’azione fisica). Sarà proprio questo carattere «non fisico» del bene e male morali, a far dire a Ludwig Wittgenstein, nel suo Tractatus logico-philosophicus, che «buono» e «cattivo» sono esclusi dalla ca-

Dovere tegoria dei «fatti» (cioè non sono componenti del «mondo») (cfr. ibi, 6.43; 6.423). Dunque, possiamo dire che il primo divieto che dal discorso di Hume viene alla teoria morale, è quello di tradurre il linguaggio normativo («questo è bene», «devo fare questo»), in un linguaggio descrittivo («il bene è questo», «questo deve essere fatto»). Fatalmente, infatti, al linguaggio descrittivo sfugge la dimensione interiore dell’intenzionalità morale, e quindi la qualità morale stessa dell’atto. Ora, questo primo divieto humiano corrisponde, a ben vedere, a una considerazione classica: quella che distingue tra «azione fisica» (actus secundum genus naturae) e «azione intenzionale» (objectum actionis). (b) Il secondo divieto humiano, dice che «questo è bene» (o «questo deve essere fatto») non è neppure interpretabile come la conclusione di un’argomentazione, dunque come una verità introdotta logicamente a partire da altre verità più note. Infatti, il carattere obbligante del bene morale, non può – secondo Hume – essere dedotto da altri elementi. Insomma, se ben interpretiamo, il «dover essere», o è dedotto da un altro (già noto) dover essere – dunque da un elemento a sé omogeneo –; oppure è dedotto da un semplice «essere» – dunque da un elemento a sé disomogeneo. Ma, nel primo caso si verrebbe a riconoscere che il discorso morale ammette già in partenza il «dover essere» – e, dunque, non lo giustifica, ma lo presuppone. Nel secondo caso, invece, la deduzione (cioè il passaggio logico) avverrebbe da una premessa di tipo descrittivo (riguardante l’«essere»), a una conseguenza di tipo normativo (riguardante il «dover essere»). Sennonché, una simile deduzione rappresenterebbe uno slittamento da un genere all’altro della realtà – dall’aletico al deontico –: generi che non sembrano riconducibili l’uno all’altro, ma piuttosto cooriginari. Leggiamo, in proposito, le parole stesse di Hume: «In ogni sistema di morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l’autore va avanti per un po’ ragionando nel modo più consueto, e afferma l’esistenza di un Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è e non è incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o un non deve; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve o non deve, esprimo3091

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Dovere no una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa completamente differenti. Ma poiché gli autori non seguono abitualmente questa precauzione, mi permetto di raccomandarla ai lettori, e sono convinto che un minimo di attenzione a questo riguardo rovescerà tutti i comuni sistemi di morale e ci farà capire che la distinzione tra il vizio e la virtù non si fonda semplicemente sulle relazioni tra gli oggetti e non viene percepita mediante la ragione» (cfr. Hume, op. cit., l. III, parte I, sez. 1, pp. 496-497). Il secondo divieto humiano si può allora esprimere così: da asserti descrittivi, non può essere dedotto alcun asserto normativo. Vale a dire: dal fatto – ad esempio – che l’uomo sia fatto in un certo modo, non si può far discendere che debba comportarsi in un certo modo. Ora, è proprio questa pretesa humiana a costituire la vera e propria «ghigliottina», che avrebbe la pretesa di separare, senza possibilità di comunicazione, l’osservazione e la norma, l’ontologia e la morale, e, più a fondo, i trascendentali «essere» e «bene». 2. Tentativi di superamento. – Dopo una ricezione assai larga della «ghigliottina di Hume» – mediata anche dalla teoria della «fallacia naturalistica», sostenuta da Gorge Edward Moore –, si è assistito a una diffusa reazione a questo luogo comune, e a vari i tentativi di superarlo. In particolare, al tentativo di superare il primo dei due divieti humiani sono dedicate alcune ricerche di Alan R. Anderson (allievo di G.H. Von Wright). Anderson sembra partire dalla diffusa tendenza a ridurre il diritto a diritto positivo (e, più in generale, le discipline prescrittive, come l’etica, a scienze descrittive dei comportamenti o costumi). In particolare, egli intende mostrare che i concetti «deontici» (che parlano dell’obbligo e del divieto) sono traducibili nei concetti «modali» (che parlano di possibilità e impossibilità), grazie all’inserimento, nel linguaggio modale, del concetto fattuale (cioè descrittivo) di «sanzione». La costante proposizionale S descrive – in Anderson – quello stato di cose consistente nell’esserci della sanzione; di modo che, una certa indicazione è obbligatoria, se e solo se la sua mancata realizzazione implica necessariamente la sanzione (cfr. A.R. Anderson, A Reduction 3092

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of Deontic Logic to Alethic Modal Logic, in «Mind», 1958, pp. 100-103). Il «riduzionismo» andersoniano è stato imputato – tra gli altri, dal logico latino-americano Hector Neri Castañeda – di «fallacia naturalistica» (cioè di una confusione tra il piano dei fatti – le sanzioni – e il piano degli obblighi morali). In particolare, la fallacia starebbe nel far corrispondere necessariamente, e surrettiziamente, il non esserci della sanzione, con il non esserci della infrazione all’obbligo (cfr. H.Neri Castañeda, Obligation and Modal Logic, in «Logique et Analyse», 3, 1960). Al tentativo di superare il secondo divieto humiano, si è dedicato, tra gli altri, l’americano John R. Searle, che – insieme all’inglese John L. Austin – è uno dei principali interpreti della teoria degli Speech Acts. Searle presenta dei controesempi al divieto di Hume, servendosi di «fatti istituzionali» (cioè che fondano un impegno), quali l’atto di promettere. Affermare un tale fatto istituzionale – spiega Searle – è già un invocare le regole costitutive dell’istituzione. Sono proprio queste regole a dare alla parola “promessa” il suo significato; ma esse sono tali che impegnarmi all’opinione che Tizio ha fatto una promessa, comporta l’impegnarmi anche a quel che egli dovrebbe fare, perlomeno per quanto riguarda l’obbligo che egli si è assunto promettendo. Ad esempio, se Tizio ha enunciato – sotto certe condizioni – le parole «ti prometto, Caio, di pagarti tot», allora «Tizio dovrebbe pagare a Caio tot» (cfr. J.R. Searle, How to derive ‘Ought’ from ‘Is’, in «The Philosophical Review», 73, 1964, pp. 48-53). Al tentativo di Searle si è opposto John L. Mackie, osservando che i fatti istituzionali sono obbliganti, non di per sé, ma solamente per chi accetta di collocarsi al loro interno (Hume’s Moral Theory, London 1980, p. 159). Di altro rilievo è, in proposito, la riflessione del logico polacco Jerzy Kalinowski. Le indicazioni forniteci da Kalinowski sono tre. In primo luogo, egli chiarisce che il divieto humiano di dedurre proposizioni normative da proposizioni descrittive non va confuso – come molti fanno – con l’analogo divieto posto a suo tempo da Henri Poincaré alla deducibilità degli «imperativi» dalle proposizioni descrittive. Ora, confondere normativo e imperativo (le norme, di cui ci si occupa in morale, con gli ordini, che di per sé possono anche non avere un contenuto morale), è proprio – secondo Kalinowski – di un certo «volontarismo», che dà

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per scontato che non si possa parlare della norma morale in termini di verità o di falsità (cfr. J. Kalinowski, Le problème de la vérité, Lyon 1967). Quanto poi al secondo divieto humiano – quello che dà luogo all’autentico divisionismo etico –, Kalinowski lo accetta, ma con una precisazione decisiva: dire che dall’«è» non si può far derivare il «deve», non significa che la norma morale sia qualcosa di indeducibile; ma, piuttosto, che è deducibile a partire da un proprio ordine di evidenze, diverso da quello delle constatazioni. La conoscenza pratica come la conoscenza teorica – spiega Kalinowski – ha le sue proposizioni seconde, conclusioni di tali o tali ragionamenti, e le sue proposizioni prime, evidenti, la cui verità è colta senza alcun ragionamento. Allo stesso modo che nell’ordine delle definizioni bisogna arrestarsi a qualche termine primo, indefinito, il cui significato chiaro e netto s’impone senza definizione, così nell’ordine dei ragionamenti, teorici o pratici che siano, è inevitabile partire da premesse autoevidenti. La legge morale naturale, che termina nei giudizi di coscienza, non è altro – spiega Kalinowski – che un insieme di premesse morali che si propongono come evidenti, e che sono sottoponibili alla disgiunzione «vero/falso» Questo però non significa dedurre l’etica dalla metafisica; anche se «la metafisica permette di cogliere l’evidente verità della legge naturale»: fornisce, cioè, quel quadro di significati (concernente Dio, l’uomo, il bene, l’azione umana), entro il quale acquistano senso le indicazioni fondamentali della legge naturale (cfr. J. Kalinowski, Initiation à la philosophie morale, Paris 1966, pp. 127-130). Ma è proprio una «logica delle norme», che indichi anche formalisticamente i modi secondo cui è corretta la deduzione delle norme pratiche dalle verità morali prime, quella che manca nel panorama contemporaneo: una logica che tenti di illustrare, insomma, il modo di argomentare della coscienza. Kalinowski osserva, in proposito, che i teorici della logica deontica ci danno solo, in realtà, «logiche degli enunciati sulle norme». Essi, cioè, si occupano di esprimere in formule e operazioni i rapporti tra obblighi normativi, oppure tra obblighi normativi e sanzioni, oppure tra obblighi normativi e possibilità di attuazione; finendo, insomma, per sottintendere che si dia quella logica produttiva di norme, sulla quale esitano a impegnarsi. Invece si tratterebbe di concentrarsi proprio sui criteri e i modi di formulazio-

Dovere ne delle norme stesse (cfr. J. Kalinowski, Théorie des propositions normatives, in «Studia logica», 1, 1953, pp. 147-182). Secondo Alasdair MacIntyre, il principio «nessuna conclusione sul dovere a partire da premesse sull’essere», può essere fatto valere solo all’interno di una morale che abbia rifiutato il «concetto funzionale di uomo», proprio dell’etica classica: il concetto che riconosce all’uomo una certa natura essenziale, che attende un certo tipo di compimento (After Virtue [1981], tr. it. di p. Capriolo, Dopo la virtù, Milano 1988, pp. 77-78). In altre parole, l’«essere» che la morale ha in vista è, in primo luogo, l’essere dell’uomo. Ora, l’essere dell’uomo è una realtà dinamica, e parlare dell’uomo, è parlare del suo orientamento al fine ultimo. Alla considerazione di questo orientamento strutturale, la morale aggiunge, di suo, solo una esigenza: che l’uomo non contraddica tale orientamento, che non entri quindi in contraddizione con se stesso. Il «dover essere» è semplicemente la non contraddittorietà ovvero la coerenza interna della vita appetitiva, e non un’esigenza che ad essa sopraggiunga da altrove. VI. DOVERE E POTERE. – 1. Dovere e potere secondo Kant. – Il tema è proposto da Kant nella discussione della terza antinomia della ragione pura. Il dovere (die Pflicht) – cioè il contenuto del dover-essere (Sollen) – è una qualità ontologica eterogenea rispetto allo «è, era, sarà», su cui si attesta l’intelletto scientifico. Il doveressere, infatti, è una qualità che inerisce, non a fatti, bensì ad atti: cioè, a realtà extra-temporali, che non stanno in relazioni di tipo temporale. Più precisamente, il Sollen esprime un atto possibile; e ciò, in due sensi. (1) «Possibile» (möglich), anzitutto, nel senso che l’atto potrebbe non tradursi mai in un fatto attuale, ed essere però ugualmente reale – anche se in una dimensione diversa da quella empirica. La possibilità qui in questione, sembra essere quella normalmente considerata nell’ambito della filosofia moderna, dove il possibile, inteso come non-internamente-contraddittorio, è la base comune tra l’ideale (o meramente possibile) e l’attuale (che traduce il possibile in realtà effettiva). (2) Ma, il contenuto del Sollen è detto da Kant «possibile» anche in un altro senso: e precisamente, nel senso che esso non può non essere anche «possibile in condizioni naturali». In altre parole, Kant ritiene che, se so che devo fare x, per ciò stesso so anche che 3093

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Dovere posso fare x; vale a dire: so che x, non solo è un contenuto non-internamente-contraddittorio (in astratto), ma è anche un contenuto realizzabile nelle condizioni empiriche in cui deve essere attuato (cioè, non è neppure contraddittorio rispetto al contesto che deve accoglierlo). Leggiamo dal testo kantiano: «La ragione non s’arrende al principio, che è dato empiricamente, e non segue l’ordine delle cose, com’esse si presentano nel fenomeno; ma si fa, con piena spontaneità, un suo proprio ordine secondo idee, alle quali adatta le condizioni empiriche, e alla stregua delle quali dichiara necessarie perfino azioni che per anco non sono accadute e probabilmente non accadranno; ma di tutte, nondimeno, suppone che la ragione, rispetto ad esse, possa esercitare una causalità, giacché senza di ciò dalle sue idee non attenderebbe verun effetto nella esperienza» (KrV, tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, riveduta da V. Mathieu, Critica della ragion pura, Roma-Bari 1987, pp. 438439). Quando invece non è il dovere la causa dell’umano volere, ma piuttosto «un impulso sensibile» (ein sinnlicher Trieb), allora l’oggetto (il contenuto) dell’azione non avrà le caratteristiche (1) e (2) ora indicate; e la volizione di quell’oggetto sarà solo condizionata, e non libera. Riguardo a quell’oggetto, l’uomo potrà farsi libero, in tanto in quanto lo investirà con la categoria morale del dovere, che esprime la ragione che è in lui, e che assegna agli oggetti pratici (cioè agli atti) «misura e scopo», «inibizione e autorità» – come Kant si esprime (ibid.). 2. Sviluppi formali. – La tesi per cui il dovere comporta il potere – tesi qualificante per il discorso kantiano sulla libertà – può essere approfondita con l’aiuto di qualche forma di linguaggio simbolico. In un ambito di logica puramente deontica – ad esempio nel calcolo OKD (per una esposizione del calcolo O-KD, e del calcolo KQ si veda: S. Galvan, Introduzione alle logiche filosofiche II: applicazioni filosofiche della logica deontica, Milano 1987) –, è derivabile una formula come: (a) ¬(Oα ∧ O¬α), la quale viene a dire che non può essere obbligatoria la autocontraddizione, cioè, nessuno è tenuto a porre insieme atti contraddittori tra loro («non si dà che sia obbligatorio a e insieme sia obbligatorio non-a»). La (a) è derivabile grazie alla presenza in O-KD dell’assioma O-D, il quale asserisce che «se a è obbligatorio, allora c’è almeno un mondo possibile e buono (ossia 3094

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una alternativa deontica) in cui a è vero (cioè, realizzato)». Applicando all’assioma O-D la «regola di contrapposizione», si può derivare che, se non c’è alcuna alternativa deontica in cui a è vero, allora a non è obbligatorio. Kant probabilmente sottoscriverebbe questa conclusione: infatti, dal suo punto di vista, il contenuto del dovere (cioè a) ha una propria realtà (diciamo pure nel «regno dei fini»), che è indipendente dall’attuazione empirica. La (a) equivale a: (b) ¬O ⊥ , cioè: non c’è obbligo all’autocontraddizione. La possibilità implicata dall’obbligatorietà – in O-KD – consiste infatti nella semplice non-contraddittorietà. Sennonché, il potere (la possibilità operativa) cui alludeva Kant, è certamente qualcosa di più ricco, di quanto qui riconosciuto. Qui si documenta piuttosto la povertà espressiva di un sistema di logica puramente deontica. Più espressivo al riguardo risulta un sistema «aletico di logica deontica»: cioè, un sistema che usi un linguaggio misto, in cui le costanti deontiche (come O) trovano posto accanto ai simboli modali, come quello della possibilità (◊ ). Ad esempio, nel sistema misto KQ, risulta derivabile: (c) Oα → ◊α. La (c) significa che l’obbligo di compiere a, implica materialmente che sia possibile compiere a. Anche qui, comunque, occorre intendersi bene sul significato dei simboli usati. Infatti, se ◊α significasse, non la possibilità di realizzare a, ma solo l’astratta non-interna-contraddittorietà di a, allora ciò non sarebbe sufficiente a esprimere quel che la formula kantiana indicava. Ma anche riguardo all’implicazione ci sono problemi. Se la leggo genericamente così: «non si dà che a sia obbligatorio e non sia insieme possibile», allora essa è approvabile (dal punto di vista di Kant). Ma, con una simile formula, non si sarebbe ancora colto il senso filosofico della questione. Ne è prova il fatto che, per contrapposizione, si potrebbe rovesciare la (c) in: (c’) ¬◊α → ¬Oα (se a non è possibile, allora non è neppure obbligatorio); il che, oltre che formalmente lecito, sarebbe forse anche accettato da Kant – senza però che, con questo, il senso della sua affermazione venga minimamente espresso. Non a caso, Jaakko Hintikka (cfr. Models for Modalities, Dordrecht 1969) nega che (c) sia espressione adeguata della formula kantiana, e propone in alternativa: (d) O(Oα → ◊α); formula nella quale – come si vede – la freccia dell’implicazione materiale è sottoposta all’operatore deontico O, e viene dunque a

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Dovere

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esprimere una implicazione deontica. La (d) può esser letta come segue: la realizzabilità di a è una condizione deonticamente esigita nel mondo in cui a è obbligatorio; il che è certamente più impegnativo della semplice affermazione – proposta in alternativa da altri autori –, per cui la realizzabilità di a è condizione di senso per il valere della obbligatorietà di a (ibi, pp. 196-198). Come si può notare, Kant – con la formula che stiamo discutendo – propone un tipo di inferenza che è l’inverso di quello che la «ghigliottina di Hume» intendeva vietare. Uno dei divieti previsti dalla «ghigliottina di Hume», era che non si potesse passare argomentativamente dall’«essere» al «dover-essere» (dall’is all’ought): Kant propone piuttosto di passare dal «dover-essere» al «poter-essere» (che comunque presuppone in vario modo l’«essere»). Kant, insomma, inferisce dal deontico il modale, il quale presuppone in qualche modo l’aletico (infatti, che un contenuto di dovere sia possibile a realizzarsi, è un asserto che dice anche alcunché su come stanno le cose).

privatistica, è popolata di esempi in tal senso. Questa assenza di correlazione assoluta tra diritti e doveri consente di definire il dovere in senso specifico come quella situazione giuridica svantaggiosa, posta dall’ordinamento giuridico a carico di un soggetto, senza che vi sia un beneficiario di essa che si possa considerare come soggetto di un diritto correlativo (es. il dovere costituzionale di esercitare il voto). Diversamente, si definisce obbligo un comportamento che una norma impone a un soggetto nell’interesse o a vantaggio di un altro soggetto, titolare di una pretesa. Quest’ultimo si configura come obbligazione nel caso in cui abbia a oggetto una prestazione suscettibile di una valutazione economica. Un cenno a parte merita il concetto di onere, nel quale l’azione del soggetto è posta in funzione di un interesse proprio che si vuole realizzare. In tal senso l’onere, è un dovere condizionato, che esige un comportamento nella misura in cui il soggetto voglia ottenere un risultato giuridico (es. la validità di un atto), risolvendo un conflitto intra-subiettivo di interessi.

G. Morra - P. Pagani

G. Gambino BIBL.: parte A: studi di carattere generale: J. P. BULNES, La filosofía del Deber, Madrid 1947; R. LE SENNE, Le devoir, Paris 1950; A. GUZZO, La moralità, Torino 1950, pp. 386 ss.; J. DE FINANCE, Essai sur l’agir humain, Roma 1962; R. M. HARE, Freedom and Reason, Oxford 1963; G. MORRA, La crisi dell’autonomismo etico e la riproposizione della morale teologica, ivi 1967. Per la storia del concetto di dovere: R. LE SENNE, Traité de morale générale, 2ª ed., Paris 1947; A. SERTILLANGES, Il cristianesimo e le filosofie, tr. it., 2 voll., 2ª3ª ed., Brescia 1954-56; J. LECLERCQ, Les grandes lignes de la philos. morale, Parigi 1954; J. MARITAIN, La philos. mor. Examen histor. et crit. des grands systèmes, ivi 1960. Per l’antichità classica: R. MONDOLFO, La comprensione del soggetto umano nell’antichità classica, Firenze 1958; ID., Moralisti greci. La coscienza morale da Omero a Epicuro, Milano-Napoli 1960; E. C. WELSKOPF, Probleme der Musse im Alten Hellas, Berlin 1962. Per Socrate: A. FOUILLÉE, La philos. de Socrate, ivi 1874, p. 298 ss.; R. GUARDINI, Der Tod des Sokrates, tr. it. di E. Pocar, Milano 1948. pp. 118 ss. Per Platone: L. STEFANINI, Platone, 2ª ed., Padova 1949 (con bibl.). Per Aristotele: G. ZUCCANTE, Aristotele e la morale, Firenze 1926, p. 106 ss.; R. A. GAUTHIER, La morale d’Aristote, Paris 1958. Per lo stoicismo: G. MANCINI, L’etica stoica da Zenone a Crisippo, Padova 1940, pp. 69 ss.; E. MARTINAZZOLI, Seneca. Studio sulla morale ellenica nell’esperienza morale, Firenze 1945; O. LUSCHNAT, Das Problem des ethischen Fortschritts in der alten Stoa, in «Philologus», 1958. Per il cristianesi-

B) ASPETTO GIURIDICO. – Il dibattito filosoficogiuridico sul concetto di dovere lascia tradizionalmente emergere la distinzione tra dovere morale e dovere giuridico, che ha ricevuto una specifica formulazione nella differenziazione evidenziata da Thomasius tra forum internum e forum externum, e nell’idea che il dovere giuridico sia, da un lato, necessariamente accompagnato dalla minaccia di una sanzione, e dall’altro fondato sul presupposto che sia concretamente possibile adempierlo. Nell’ambito proprio della teoria generale del diritto, il concetto di dovere si è venuto delineando nell’epoca moderna come momento autonomo e fondamentale dell’esperienza giuridica. In senso generico, il dovere si può definire come un comportamento di obbedienza che sorge in conseguenza di un atto normativo e di una fattispecie determinata. Titolare di un dovere può essere solo il soggetto cui spetta di provvedere al suo adempimento, venendo così in rilievo la coincidenza tra titolarità ed esercizio del dovere. In ordine al contenuto, il dovere può essere positivo (impone un contegno attivo, in virtù della bona fides romana) o negativo (impone un contegno passivo, in parte riconducibile al principio del neminem laedere). Non tutti i doveri corrispondono a dei diritti: l’esperienza giuridica, sia pubblicistica che

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Doxa mo: F. CAYRÉ, Patrologia e storia della teologia, tr. it. di T. Pellizzari, Roma 1938, 2 voll.; A. D. SERTILLANGES, La philosophie morale de St Thomas d’Aquin, Paris 1947. Per il dovere in Kant: G. RENSI, L’eteronomia morale nel kantismo, nel vol. La trascendenza, Torino 1914, pp. 47-84; P. MARTINETTI, Kant, 2ª ed., Milano 1946, pp. 150 ss. (con bibl.); H. REINER, Pflicht und Neigung, Meisenheim 1951; G. A. SCHRADER, Autonomy, Heteronomy, and Moral Imperatives, in «Jour. Philos.», 1963, pp. 65-77 ; P. PAGANI, Schematismo trascendentale : etica e intersoggettività in Kant, in C. VIGNA (a cura di), Etica trascendentale e intersoggettività, Milano 2002. Per Fichte: X. LÉON, La philos. de Fichte, Paris 1902. Per Hegel: P. MARTINETTI, Hegel, Milano 1943, pp. 171-96. Per Schopenhauer: U.A. PADOVANI, Schopenhauer, ivi 1934, pp. 156 ss.; G. FAGGIN, Schopenhauer, il mistico senza Dio, Firenze 1951, pp. 195 ss. (con bibl.). Per l’interpretazione cristiana di Nietzsche: A. TILGHER, Cristo e noi, Modena 1934, pp. 59-72; T. MORETTI COSTANZI, Il cristianesimo in Nietzsche, nel vol. Kierkegaard e Nietzsche, Roma 1953, pp. 201-7. Sulla filosofia italiana del sec. XIX: B. BRUNELLO, Rosmini, Milano 1941, cap. 6; L. STEFANINI, Gioberti, ivi 1947, pp. 360 ss. Sulla morale nel sec. XIX: E. FOUILLÉE, Critique des systèmes de morale contemporains, Paris 1883. Su Croce: E. CIONE, Croce, Milano 1944, pp. 183 ss.; F. OLGIATI, B. Croce e lo storicismo, ivi 1953, pp. 245 ss. Su Gentile: V. A. BELLEZZA, L’esistenzialismo positivo di G. Gentile, Firenze 1944, pp. 95 ss. Sul dovere nella filosofia contemporanea: R.B. BRANDT, The Concepts of Obligation and Duty, in «Mind», 73 (1964); W.D. HUDSON (a cura di), The Is/Ought-Question, London 1969; G. FJ.K. MISH’ALANI, «Duty”, “Obligation» and «Ought», in «Analysis», 30 (1969); PH. FOOT, Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy, Oxford 1978; I. ADINOLFI, Dovere, in Gli strumenti del sapere contemporaneo. Volume II: I concetti, Torino 1997. Parte B: C. THOMASIUS, Fundamenta iuris naturae et gentium, Halle - Leipzig 1705 (rist. anast. Aalen 1963); H. KELSEN, General Theory of Law and State, Cambridge (Massachusetts) 1945, tr. it. di S. Cotta e G. Treves, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano 1952; S. ROMANO, Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1947, pp. 91-110; F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, Roma 19513, pp. 168-175; E. BETTI, Teoria generale delle obbligazioni, vol. I, Milano 1953; N. BOBBIO, Teoria della norma giuridica, Torino 1958; H.L.A. HART, Legal and moral obligation, in A.I. MELDEN (a cura di), Essays in moral Philosophy, Seattle 1958, tr. it. a cura di V. Frosini, Obbligazione morale e obbligazione giuridica, in Contributi all’analisi del diritto, Milano 1964; W. CESARINI SFORZA, Sul concetto di obbligo, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», 40 (1963), pp.431-445; M. KRIELE, L’obbligo giuridico e la separazione positivistica fra diritto e morale, in «Rivista di Filosofia», 57 (1966), pp.

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193-213; N. IRTI, Due saggi sul dovere giuridico (obbligo-onere), Napoli 1973; J.C. SMITH, Legal obligation, London 1976; U. SCARPELLI, Dovere morale, obbligo giuridico, impegno politico, in L’etica senza verità, Bologna 1982; R. GUASTINI, Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto, Torino 1996; G. OPPO, La prestazione in adempimento di un dovere non giuridico (cinquant’anni dopo), in «Rivista di diritto civile», 43 (1997), 4, pp. 515-527; L. BAGOLINI, David Hume on Legal Obligation and Sanction, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», 77 (2000), 3, pp. 395-402. ➨ CONSEQUENZIALISMO; DEONTOLOGISMO; DIRITTI UMANI; DIRITTO, FILOSOFIA DEL; ETHOS; ETICA, EPISTEMOLOGIA DELL’; ETICHE DEONTOLOGICHE / TELEOLOGICHE ; FILOSOFIA MORALE ; IMPERATIVO ; NORMA; OBBLIGAZIONE; OBBLIGO; PIACERE; SANZIONE; SITTLICHKEIT.

DOXA (dovxa). – La doxa è l’opinione, cioè la Doxa conoscenza relativa che non coglie l’autentica verità e che, dunque, è fonte di errore. In tal senso, è contrapposta all’episteme (ejpisthvmh). Una sostanziale svalutazione della doxa si riscontra negli eleati, soprattutto in Parmenide, secondo cui essa si contrappone alla retta ragione (cfr. H. Diels - W. Kranz [a cura di], Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-526 [rist. Zürich 1996], fr. 28 B 1.) Anche Melisso vede in essa la fonte delle illusioni (cfr. ibi, fr. 30 B 8). Il termine viene poi sviluppato da Platone, che lo inserisce coerentemente nel proprio pensiero, facendo della doxa la conoscenza sensibile, articolata in eikasia (eijkasiva, immaginazione o conoscenza delle immagini sensibili) e pistis (pivsti", credenza o conoscenza degli oggetti sensibili). Facendo dell’essere sensibile un piano intermedio (metaxy) tra il vero essere (il mondo delle idee) e il nulla, Platone considera la doxa come una conoscenza mediana, che richiede però di essere confermata e trasformata in episteme (cfr. Men., 97 ss.; Conv., 202 a; Theaet., 187 b ss.; Resp., 476 d - 479 d). Nel Menone (cfr. 97 b- 100 b) doxa ricorre anche in un contesto etico, per indicare una forma iniziale e spontanea di virtù dell’uomo comune, corrispondente a una sorta di intuizione spontanea del bene da compiere nel mondo sensibile. Aristotele parla della doxa soprattutto in riferimento al sillogismo dialettico (appunto fondato sulle opinioni, cioè sugli «elementi che appaiono accettabili a tutti, o alla maggioranza, o ai sapienti» (cfr. l’intero passo in Top., 100 a 18 - b 23). In età ellenistica

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Dramma

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non viene meno la critica verso la doxa, che gli stoici considerano come fonte di passioni (cfr. H. von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, Lipsiae 1903-24, vol. III, 378, 380, 381. Cfr. infine Plotino, Enn., II 1, 2; VI 1, 1). E. Vimercati ➨ EPISTEME; METAXY.

DRAGHETTI, ANDREA. – Filosofo eclettico, Draghetti gesuita, n. a Novara nel 1736, m. nel 1825. Fu professore di metafisica nel Collegio di Brera. Insegnò logica e metafisica anche nell’università di Pavia. Scrisse un’opera organica di filosofia: Psychologiae specimen (divisa in tre parti: De voluntate; De attentione, memoria, imaginatione; De reflexione, ratione, libertate), Milano 1771-72. Avversò il tentativo condillachiano e bonnetiano di spiegare il sistema delle facoltà dell’anima coi sensi e col movimento delle fibre cerebrali. Nell’Ethica (Reggio Emilia 1818) fondò il principio della morale sull’istinto morale combinato con la ragione. Scrisse anche: Istituzioni logiche, Modena 1820; Elementa metaphysices, ivi 1821. A. Viviani BIBL.: AA.VV., Memorie e documenti per la storia dell’Università di Pavia e degli uomini più illustri che vi insegnarono, parte I, Pavia 1878, p. 468; G. CAPONE BRAGA, La filosofia francese e italiana del Settecento, Arezzo 1920 (Padova 19412), vol. II, p. 98.

DRAKE, DURANT. – Realista americano, n. nel Drake 1878, m. nel 1933. Di famiglia puritana, studiò a Harvard con Royce, James, Santayana, e a Columbia con Dewey e Montague. Ha insegnato al Vassar College. Le sue opere principali sono: Problems of Conduct, Boston 1914; Problems of Religion, New York 1916; Mind and Its Place in Nature, ivi 1925; The New Morality, ivi 1928. Contribuì, con altri, al libro Essays in Critical Realism, New York - London 1920. Come realista critico, indirizzo rappresentato anche da A.O. Lovejoy, J.B. Pratt, A.K. Rogers, G. Santayana, R.W. Sellars, C.A. Strong, Drake sostiene che l’esperienza tende a una realtà oggettiva che la trascende e la cui esistenza non può essere logicamente provata, ma deve essere posta come una ipotesi necessaria all’azione e alla scienza. La realtà non ci è mai data immediatamente: i dati della conoscenza sono essenze, che non hanno esistenza, ma solo un puro stato logico. Secondo Drake la loro presenza alla mente indica l’esistenza di un

meccanismo psichico, mediante il quale gli stati mentali vengono proiettati nel mondo esterno. In esso si esprimerebbe la stessa vita organica, e non una sostanza separata o anima. D’altra parte l’intera realtà avrebbe carattere psichico. L’errore si verifica allorché l’essenza da noi intuita e interpretata come una qualità dell’oggetto non corrisponde alla struttura di esso. In etica Drake è un migliorista; la felicità è per lui la sola norma valida da cui trarre, sperimentalmente, i precetti morali. Egli non mira tuttavia alla felicità individuale, ma a quella del genere umano nel suo complesso. N. Bosco BIBL.: Autoesposizione: La filosofia di un migliorista, in J.H. MUIRHEAD, Filosofi americani contemporanei, Milano 1939, pp. 87-114; A. FERRO, Orientamenti della filosofia angloamericana (Drake), in «Archivio di Storia della Filosofia italiana», 2 (1934); R. CAPONIGRI, in Les grands courants. Tendances, pp. 954-955, 958 ss.

DRAMMA (drama; Drama; drame; drama). – Dramma Accettando per il termine l’indicazione dell’etimo greco, dramma indica il momento operativo di ogni azione teatrale. Dra'ma vale infatti «opera», e quindi a ragione lo stesso termine poteva servire alla tragedia ditirambica del V secolo a. C. ad Atene e al melodramma dell’Italia barocca e romantica. E l’intenzione di accentuare appunto il momento attivo dello spettacolo, sia come contrasto patetico, sia come dialettica di un antagonismo che si ricompone in vista di un ulteriore approdo, è presente nell’applicazione aggettivale del termine. Quando si parla di poesia drammatica, infatti, non si intendono tanto i testi disposti a una elaborazione spettacolare degli attori, ma un’opera letteraria attenta agli esempi dell’azione teatrale. E di qui deriva o qui s’appoggia il tentativo di gerarchizzare le varie forme letterarie (lirica, narrativa, drammatica), in vista di un primato ora della drammatica ora della lirica, lasciando oramai alla narrativa, se non alla saggistica, d’essere oggi il luogo proprio di ogni scrittura. II termine, più specificamente inteso, indica invece un particolare genere di opera teatrale, che ebbe inizio nel Settecento, procurando un modo di riflessione più adatto allo spirito illuminista e a una classe borghese che poneva la sua candidatura al potere politico. 3097

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Dray Il rigore onde erano stati distinti e divisi i due generi tradizionali di spettacolo teatrale, tragedia e commedia, cede a una più accorta e più rassegnata modulazione del reale. Anche se tragedia e commedia erano state confuse nella tradizione mimica della commedia dell’arte e nella tradizione musicale del teatro dell’opera, esse rimanevano tuttavia ben distinte, specie dove l’intellettualismo della cultura, come in Francia, faceva volentieri capo alle distinzioni accademiche. Si parla ora di «tragedia civile» e di «commedia lacrimosa», capovolgendo le indicazioni semantiche più vulgate che individuavano nella tragedia il «luogo» del pianto e nella commedia il «luogo» del riso. Se ciò rischiava di portare a una forma di teatro svincolata dalla responsabilità dell’impegno civile e a un personalismo eccentrico, le ragioni positive prevalsero sulle negative. Il «genere», variamente avviato dagli italiani (qualche commedia di Carlo Goldoni, come Il padre di famiglia, sembra esserne il capostipite), dai francesi (Denis Diderot), dai tedeschi (Gotthold E. Lessing), anche se in parte contraddetto da quel recupero di estremismo e di impegno etico-religioso che fu il romanticismo, ebbe grande successo nell’Ottocento, soprattutto nelle forme del teatro naturalista e realista. Ogni nazione d’Europa mette in scena la propria storia: a cominciar dalla Francia di Diderot, di Emile Augier e di Dumas figlio; e ognuna di esse, cominciando o ricominciando a fare un teatro rispondente alle aspirazioni medie della vita comune, si esprimeva in forma di dramma: dall’Italia di Paolo Giacometti e di Paolo Ferrari, prima, di Marco Praga e di Giuseppe Giacosa poi, alla Germania di Hermann Sudermann e di Gerhart Hauptmann, all’Inghilterra di Arthur W. Pinero e di Bernard Shaw, alla Scandinavia di Henrik Ibsen e alla Russia di Anton Cechov. M. Apollonio BIBL.: W. WETZ, Die Anfänge der ernsten bürgerlichen Dichtung des achtzehnten Jahrhundert, Worms 1885; J. GUILLEMINOT, L’évolution de l’idée dramatique chez les maîtres du théâtre de Corneille à Dumas Fils, Paris 1909; F.C. NOLTE, Early Middle Class Drama, Lancaster 1935; H. GOUHIER, L’essence du théâtre, Paris 1943; R. PIGNARRE, Histoire du théâtre, Paris 1949; G.R. MORTEO, Idee per una storia morale del teatro, Torino 1953; A.F. JOHNSON, Drama: Technique and Philosophy, Valley Forge 1963; G. LUKÁCS, Il dramma moderno, Milano 1977; S. D’AMICO, Storia del teatro drammatico, Roma 1982, 4 voll.; M.L. SCELFO, Le teo-

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rie drammatiche nel romanticismo, Catania 1996; P. SZONDI, Theorie des modernen Dramas, Frankfurt am Main 1996, tr. it. di G.L., Teoria del dramma moderno, Torino 2000; P. SZONDI, Das lyrische Drama des Fin de siècle, Frankfurt am Main 2001; M. APOLLONIO, Storia del teatro italiano, Milano 2003. ➨ ATTORE; COMICO; TEATRO.

DRAY, WILLIAM HERBERT. – Filosofo canadeDray se, n. a Ottawa il 23 giu. 1921. Addottoratosi in filosofia a Oxford, ha insegnato fino al 1986 all’università di Ottawa. Va ricordato principalmente come critico delle teorie positiviste sulla spiegazione storica, in particolare quella di Hempel, secondo cui anche in storia valgono spiegazioni mediante «leggi di copertura», sul modello della fisica. L’opera principale è Laws and Explanation in History (Oxford 1957, tr. it. di R. Albertini, Leggi e spiegazioni in storia, Milano 1974): sulla base delle idee di R. Collingwood, Dray propone un modello di spiegazione per cui l’evento storico, data la sua unicità, va ricostruito attraverso il riferimento a elementi valutativi propri dell’agente, e non è pertanto riconducibile a mere leggi empiriche. M. Bastianelli BIBL.: Philosophy of History, London 1964, tr. it. di G. Baroncini, Filosofia e conoscenza storica, Bologna 1969; Philosophical Analysis and History, New York London 1966; Perspectives on History, London 1980; Substance and Form in History: a Collection of Essays in Philosophy of History, Edinburgh 1981; On History and Philosophers of History, Leiden 1989, 2 voll.; History as Re-enactment: R.G. Collingwood’s Idea of History, Oxford 1995; Introduction, in R.G. COLLINGWOOD, The Principles of History and Other Writings in Philosophy of History, Oxford 1999. Su Dray: R. SIMILI (a cura di), La spiegazione storica, Parma 1984; M.V. PREDAVAL MAGRINI (a cura di), Filosofia analitica e conoscenza storica, Firenze 1979; W.C. SALMON, Four Decades of Scientific Explanation, Minneapolis 1990, tr. it. di M.C. Di Maio, Quarant’anni di spiegazione scientifica. Scienza e filosofia 19481987, Milano 1992.

DREBEN, BURTON SPENCER. – Logico, mateDreben matico e filosofo statunitense, n. a Boston il 26 sett. 1927 e m. ivi l’11 lug. 1999. Compiuti gli studi (Deductive Completeness of n-valued Quantification Theory, Harvard 1949), insegnò a Chicago, Harvard e Boston. Si è occupato prevalentemente di problemi di logica matematica connessi alla teoria della quantificazione e, in particolare, alla decidibi-

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lità. In The Decision Problem, con W.D. Goldfarb, Reading (Massachusetts) 1979, partendo dall’impostazione di Hilbert e dai risultati di Turing, trasforma il problema della decisione nel problema della classificazione delle formule decidibili. Allievo e collega di Quine, in Quine and Wittgenstein (in R. Arrington - H. Glock [a cura di], Wittgenstein and Quine, London - New York 1996, pp. 39-62), sostiene che la filosofia analitica, iniziata con i tentativi di rigorizzazione di Frege e Russell, ha esaurito il suo compito con il tardo Wittgenstein e con Quine. Al rapporto tra filosofia e logica e alle origini della filosofia analitica ha dedicato l’ultima fase della sua riflessione. In On Rawls and Political Liberalism (in S. Freeman [a cura di], The Cambridge Companion to Rawls, Cambridge 2001, pp. 316346), ridimensiona gli aspetti kantiani della dottrina di Rawls. È noto per aver affermato che «il nonsenso è spazzatura, ma la storia della spazzatura diventa dottrina». M. Bastianelli BIBL.: H. PUTNAM, A Half Century of Philosophy, «Daedalus», 1 (1997), pp. 175-208; J. RAWLS, A Reminiscence (of Burton Dreben), in J. FLOYD (a cura di), Future Pasts: The Analytic Tradition in Twentieth-Century Philosophy, Oxford 2001, pp. 417-430.

DREHEN - HEBEN (ruotare - sollevare). – Il Drehen - Heben pensiero dialettico oltrepassante, proprio del «principio speranza» di Ernst Bloch, sul piano gnoseologico fonda la possibilità della buona riuscita sia dell’esperimento dell’uomo, sia di quello del mondo (experimentum possibilis salutis) nella coppia categoriale del «ruotare» e del «sollevare», operanti sinergicamente. La coppia categoriale drehen - heben illumina la mediazione riflessiva dell’immediato, nella quale il passivo si rivela come l’altro lato dell’attivo: un ruotare l’immediatezza del fenomeno volta a individuarne le possibilità inespresse, e inscritte nel soggiacente piano della «tendenza» e «latenza» in cui il fenomeno stesso affonda le sue radici. Ora, per produrre effetti conoscitivi critici, demistificanti e anticipatori, il ruotare (drehen) deve operare sinergicamente col sollevare (heben), che eleva valorialmente il visto più in alto del vedente, consentendo a questi di esercitare uno sguardo che va dal basso all’alto, senza pregiudizi ma anche senza risolversi in un atteggiamento oggettivante. Il primo, fondamentale, esito speculativo pro-

Dressler dotto dalla coppia drehen - heben è la focalizzazione della differenza tra l’oggettivazione, nel senso dell’astrazione indispensabile a ogni conoscenza razionale, e l’estraneazione, di cui la mercificazione capitalistica per Bloch è il caso più evidente. S. Mancini

DREIER, FREDERIK. – Pensatore danese, n. Dreier nel 1827, m. nel 1853, chiamato «il primo socialista danese». I suoi studi universitari furono rivolti alle scienze: studiò medicina e volle esercitare la professione. Subì l’influenza di Condorcet e dei socialisti francesi, come pure di Bentham, Stuart Mill, Marx ed Engels; si propose di combattere tutte le superstizioni correnti; si presentò come nemico dichiarato di ogni teologia, metafisica e mistica, e aspirò a un rinnovamento della civiltà, da conseguirsi anzitutto mediante una migliore educazione del popolo fondata sulle scienze. Queste idee sono espresse particolarmente nelle opere Fremtidens Folkeopdragelse (L’educazione nazionale del futuro), København 1848 e Aandetroen og den fri Taenkning (La credenza negli spiriti e il libero pensiero), apparsa nel 1852. Alla base del suo pensiero sta una concezione monistico-naturalistica. A. Nyman BIBL.: H. HÖFFDING, Danske Filosofer (Filosofi danesi), København 1906; H. NORREGARD POSSELT (a cura di), Frederik Dreier og samfundets reform, Kobenhavn 2003.

DRESSLER, JOHANN GOTTLIEB. – Filosofo e Dressler pedagogista tedesco, n. nel 1799, m. nel 1867. Si propose di spiegare e difendere il pensiero filosofico e pedagogico di F.E. Beneke. Le sue più importanti opere sono: Beiträge zu einer besseren Gestaltung der Psychologie und Pädagogik, anche sotto il titolo Beneke und die Seelenlehre als Naturwissenschaft, Bautzar 1840-46; Praktische Denklehre, ivi 1852; Ist Beneke Materialist?, Berlin 1862; Die Grundlehren der Psychologie und Logik, Leipzig 1867 (2ª edizione riveduta e ampliata da F. Dittes e O. Dressler, ivi 1872). Red.

DRESSLER, MAX. – Pensatore tedesco, n. a Dressler Karlsruhe nel 1863, m. ivi nel 1936. I suoi principali scritti sono: Vorlesungen über Psychologie. Die Welt als Wille zum Selbst, Hei3099

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Drewnowski

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delberg 1904; Der Monismus des Gesetzes und das Ideal der Freiheit, in A. Drews (a cura di), Der Monismus, Jena 1908, vol. I. Il suo monismo è di intonazione volontaristica: ne sono fonti principali Schopenhauer e Haeckel. Red.

DREWNOWSKI, JAN FRANCISZEK. – Filosofo Drewnowski polacco (n. nel 1896 e m. nel 1979. Fortemente influenzato dalla filosofia analitica fiorita in Polonia nel XX secolo, studiò a Varsavia con T. Kotarbinski, S. Lesniewski e J. Lukasiewicz, dopo aver anche compiuto studi di fisica e matematica. Alla fine della seconda guerra mondiale ottenne la cattedra di filosofia presso l’Accademia Teologica Cattolica di Varsavia. Nel 1936 fondò, con J. M. Bochenski, J. Salamucha e B. Sobocinski, il Circolo di Cracovia, di ispirazione cattolica ma assai vicino alle posizioni del pensiero analitico. Drewnowski elaborò un programma filosofico basato sulla scienza e la matematica. Suo scopo era trasformare la filosofia in una disciplina scientifica rigorosa, costruendola assiomaticamente e partendo da nozioni primitive esatte. Lo stesso discorso valeva, a suo avviso, per la teologia, in quanto anche alcuni dogmi teologici possono essere spiegati con metodi razionali. In questo senso anticipa alcune vedute contemporanee secondo cui la teologia va sottoposta a verifica e può essere sostenuta dai dati empirici. Drewnowski e gli altri filosofi del Circolo di Cracovia intendevano modernizzare il pensiero neoscolastico facendo ricorso alla logica matematica. I suoi articoli sono raccolti nel volume: Filozofia i precyzja. Zarys programu filozoficznego i inne pisma (in it., Filosofia e precisione. Esposizione di un programma filosofico e altri saggi), Lublin 1996. M. Marsonet BIBL.: J. WOLENSKI, Logic and Philosophy in the LvovWarsaw School, Dordrecht 1989; F. CONIGLIONE, Nel segno della scienza. La filosofia polacca del Novecento, Milano 1996.

DREWS, ARTHUR. – Filosofo tedesco, n. a Drews Ütersen (Holstein) l’1 nov. 1865, m. a Karlsruhe il 19 lug. 1935. Discepolo di E. v. Hartmann, elaborò un monismo concreto. Nel «monismo concreto» il mondo s’identifica con lo stesso operare divino; è un mezzo annullando il quale Dio consegue la propria liberazione. Non discorda con questo irrazionalismo teore3100

tico la negazione che Drews ha tentato dell’esistenza storica di Gesù. Red. BIBL.: Die deutsche Spekulation seit Kant, Leipzig 1893, 2 voll.; Das Ich als Grundproblem der Metaphysik, Tübingen 1897; Hartmanns philosophisches System, Heidelberg 1902; Nietzsches Philosophie, Heidelberg 1904; Die Religion als Selbstbewusstsein Gottes, Jena 1906; Geschichte des Monismus im Altertum, Heidelberg 1913; Einführung in die Philosophie, Berlin 1922; Die Christusmythe, Jena 19242, 2 voll. (190911); Psychologie des Unbewussten, Berlin 1924; Die Leugnung der Geschichtlichkeit Jesus, Karlsruhe 1926; Das Wort Gottes, Mainz 1933; Deutsche Religion, Berlin 1934. Su Drews: autopresentazione in R. SCHMIDT (a cura di), Die deutsche Philosophie der Gegenwart in Selbstdarstellungen, vol. V, Leipzig 1924, pp. 67-128; F. UEBERWEG, Grundriss der Geschichte der Philosophie, Berlin 1923-2812, vol. IV, p. 339 e seguenti; J. MACQUARRIE, s. v., in P. EDWARDS (a cura di), The Encyclopedia of Philosophy, New York - London 1967, vol. II, pp. 417-418.

DRIESCH, HANS. – Biologo e filosofo tedeDriesch sco, n. a Kreuznach il 28 ott. 1867 e m. a Lipsia il 17 apr. 1941. Scolaro di E. Haeckel, si dedicò dapprima agli studi zoologici, lavorando a lungo alla stazione zoologica di Napoli. I frutti delle sue ricerche lo portarono gradualmente a respingere la concezione meccanicisticodarwiniana dei processi vitali, ad affermare il carattere autonomo della biologia come scienza, alla quale è essenziale la categoria della finalità, e a sostenere la dottrina del vitalismo dinamico (Der Vitalismus als Geschichte und als Lehre, Leipzig 1905, tr. it. di M. Stenta, Il vitalismo: storia e dottrina, Milano 1911). A partire dal 1902 gli interessi di Driesch divennero prevalentemente filosofici. Gifford-Lecturer all’università di Aberdeen nel 1907-08, l’anno seguente si abilitò in filosofia della natura a Heidelberg ove ottenne la cattedra nel 1911. Successivamente fu professore a Colonia (1920) e a Lipsia (1921). Driesch espose il suo pensiero con una chiarezza e una organicità classiche. Driesch concepisce la filosofia come intuizione comprensiva del mondo: il punto d’inizio di essa è nella consapevolezza che ognuno ha circa il proprio sapere, e il suo sviluppo risulta dalla dottrina dei principi categoriali strutturanti la conoscenza (Ordnungslehre) e dalla metafisica o dottrina della realtà (Wirklichkeitslehre) che Driesch, contrariamente al criticismo

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kantiano, ritiene costituibile, entro limiti, sulla base della filosofia della natura. Nella ricerca categoriale di Driesch ha particolare importanza la sua teoria della causalità totale (Ganzheitskausalität), caratteristica della natura organica e presente nei sistemi che, da un grado originario di molteplicità di ripartizione, passano a un grado superiore di essa, senza l’intervento di un’azione esteriore. Le categorie organologiche aprono a Driesch la via della metafisica, poiché egli afferma che lo sviluppo organico è determinato da un fattore extraspaziale e superindividuale: l’entelechia. Essa è una realtà non materiale, non fisica o chimica, esigita appunto dal fatto che i fattori materiali fisico-chimici sono insufficienti a spiegare i fenomeni biologici. Se si divide un meccanismo in parti qualsiasi, è assurdo che ognuna di queste parti contenga il meccanismo completo, capace di produrre l’organismo intero. L’entelechia, che determina il comportamento dei sistemi armonici equipotenziali, non è una realtà «costituita di elementi disposti l’uno accanto all’altro. Essa è, all’opposto, un fattore naturale sui generis e appare accanto ai fattori naturali noti alle scienze fisiche e chimiche come un principio peculiare elementare assolutamente nuovo». (Il vitalismo: storia e dottrina, cit., p. 303). La funzione dell’entelechia si compone con quella dei geni, però in tal modo che «l’entelechia usa i geni come propri mezzi e tutto l’ordine nella morfogenesi è esclusivamente dovuto alla entelechia» (The Science and Philosophy of the Organism, London 19292, p. 154). F. Barone BIBL.: tra le opere filosofiche più notevoli: Die Logik als Aufgabe, Tübingen 1913; Ordnungslehre. Ein System des nicht-metaphysischen Teiles der Philosophie, Jena 19232 (1912); Leib und Seele, Leipzig 19233 (1916); Wissen und Denken, Leipzig 19232 (1919); Metaphysik, Breslau 1924; Metaphysik der Natur, München 1926; Behaviorismus und Vitalismus, Heidelberg 1927; Grundprobleme der Psychologie, Leipzig 19292 (1926); Philosophie des Organischen, Leipzig 19304 (1909), 2 voll.; Wirklichkeitslehre, Leipzig 19313 (1917); Die Überwindung des Materialismus, Heidelberg 1935; Alltagsrätsel des Seelenlebens, Stuttgart 19392 (1938); Selbstbesinnung und Selbsterkenntnis, Leipzig 1940. Su Driesch: autoesposizione in R. SCHMIDT (a cura di), Die Philosophie der Gegenwart in Selbstdarstellungen, vol. I, Leipzig 19232, pp. 49-78; O. HEINICHEN, Driesches Philosophie, Leipzig 1924; H. SCHNEIDER - W. SCHINGNITZ (a cura di), Festschrift zum 60. Geburtsta-

Drobisch ge, Leipzig 1927; E. CASSIRER, Storia della filosofia moderna, vol. IV, Torino 19644, pp. 300-311; T. MILLER, Konstruktion und Begründung. Zur Struktur und Relevanz der Philosophie H. Driesches, Zürich - New York 1991.

DRIYARKARA, NICOLAUS. – N. a DedungguDriyarkara bah (Indonesia) nel 1913, m. a Jakarta (Indonesia) nel 1967. Filosofo e teologo gesuita, si è formato al Collegio Ignaziano di Yogyakarta (Indonesia) e poi a Maastricht e all’Università Gregoriana di Roma. Ha insegnato all’università di Jakarta. Al centro dei suoi interessi la persona, la libertà e l’etica, temi trattati secondo una prospettiva da lui definita di «fenomenologia trascendentale». Unisce nella sua prospettiva filosofica neo-tomismo, esistenzialismo e fenomenologia. Importante per la cultura filosofica del suo paese, in quanto ha fatto conoscere indirizzi fondamentali del pensiero occidentale contemporaneo, forgiando la relativa terminologia filosofica in Indonesia. P. Valenza BIBL.: Participationis cognitio in existentia Dei percipienda secundum Malebranche utrum partem habeat, Yogyakarta 1954; Sosialitas sebagai eksistensial (La socialità, un “esistenziale”), Jakarta 1962; Riflessioni filosofiche, Jakarta 1964; Opere scelte, Yogyakarta, s. d.; Filosofia umana, Jakarta 1969; Driyarkara sull’uomo, Jakarta 1980; Driyarkara sull’educazione, Jakarta 1980; Driyarkara sulla cultura, Jakarta 1980; Driyarkara sullo Stato e sulla nazione, Jakarta 1980.

DROBISCH, Drobisch MORITZ WILHELM. – Filosofo tedesco, n. a Lipsia il 16 ag. 1802 e m. ivi il 30 sett. 1896. Dal 1826 insegnò matematica e dal 1842 anche filosofia all’università di Lipsia. Tra i maggiori sostenitori della filosofia herbartiana, cui dedicò i suoi primi scritti, improntò ad essa i suoi ampi studi di logica formale, di psicologia empirica e di filosofia della religione. Tra essi: Neue Darstellung der Logik nach ihren einfachsten Verhältnissen, mit Rücksicht auf Mathematik und Naturwissenschaft, Leipzig 1836 (con fondamentali mutamenti nella 2ª edizione del 1851 [18875], uno dei manuali classici dell’Ottocento); Grundlehren der Religionsphilosophie, ivi 1840; Empirische Psychologie nach naturwissenschaftlicher Methode, ivi 1842 (Hamburg 18982); Erste Grundlinien der mathematischen Psychologie, ivi 1850; Ueber die Fortbildung der Philosophie durch Herbart, ivi 1876. 3101

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Droga Drobisch insiste sul carattere matematico della filosofia: i fenomeni psichici sono intesi herbartianamente come rappresentazioni e quindi come forze cui è applicabile il calcolo; pur considerando la logica come mediata anche dalla conoscenza empirica, Drobisch insiste sulla sua struttura formale opponendosi allo psicologismo indipendentemente dalle correnti logicistiche. Applicò metodi herbartiani anche alla «filosofia della religione» come comprensione concettuale del dato religioso. Dal sentimento della limitatezza nasce nell’uomo l’esigenza dell’elevazione a un ente superiore, ma perché il concetto di Dio abbia una validità oggettiva è necessaria una prova logica. Drobisch ritiene insoddisfacenti le prove ontologica e cosmologica dell’esistenza di Dio, mostrata invece con alta probabilità dalla prova teleologica, cui si aggiunge la forza convincente dell’argomentazione morale. F. Barone BIBL.: M. BRASCH, Leipziger Philosophen, Leipzig 1894; L. CREDARO, Maurizio Guglielmo Drobisch, Roma 1897; W. NEUBERT-DROBISCH, Moritz Wilhelm Drobisch, Leipzig 1902; W. GERALD - L. KREISER, Moritz Wilhelm Drobisch anlässlich seines 200. Geburtstages, Stuttgart-Leipzig 2003.

DROGA (drug; Droge; drogue; droga). – SOMMADroga RIO:

I. Definizioni e distinzioni. - II. Il contesto generale. - III. Questione morale e questione legislativa. I. DEFINIZIONI E DISTINZIONI. – Il termine droga, nel linguaggio corrente, indica varie sostanze che agiscono a livello psichico. Altri termini sono sostanze psicotrope (o psicoattive) o anche sostanze stupefacenti, ma quello più in uso è droga. La classificazione in droghe leggere (marijuana, analgesici, allucinogeni minori, inalanti ecc.) e pesanti (eroina, cocaina, LSD, barbiturici), sia pure corretta dal punto di vista medico, è ritenuta imprecisa e pericolosa. L’uso (abuso) di droga è diversamente interpretato: dipendenza da sostanze tossiche (tossicodipendenza); desiderio o ricerca di piacere; evasione; tentativo di cambiare la situazione della persona. Quale sia l’aspetto prevalente, dipende spesso dal soggetto. II. IL CONTESTO GENERALE. – Il fenomeno droga è specifico, ma non isolabile dal contesto delle nostre società, dai modelli e stili di vita dominanti. Secondo diversi esperti, rivela un profondo malessere, un rifiuto di un modello di società incapace di offrire ragioni di vita; para3102

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dossalmente, una sfida alla permissività, alla società dei consumi, che tradiscono o ignorano le genuine aspirazioni della persona. Le società ricche sono chiamate in causa anche per un altro aspetto. I popoli del Nord hanno diritto di esigere che i popoli poveri non producano sostanze di morte – sulle quali si muovono con spregiudicatezza e cinismo i narcotrafficanti imprendibili e più forti del potere locale e internazionale – ma, prima ancora, hanno il dovere di rendere possibili produzioni alternative. La droga chiama in causa la famiglia nel suo insostituibile ruolo di integrazione affettiva e socializzante della persona in formazione. Non si tratta solo delle famiglie fallite per divorzio o separazione, ma anche per disarmonia coniugale e/o parentale. Alla radice, tuttavia, la droga chiama in causa la libertà-responsabilità individuale sia nella prevenzione come nella cura e terapia. III. QUESTIONE MORALE E QUESTIONE LEGISLATIVA. – Il fenomeno droga è un problema eminentemente morale non solo per le cause che sono riconducibili a una crisi di valori, a fattori etico-sociali e familiari, ma anche per la necessità di una convergenza di assunzione di responsabilità individuali e sociali per superarlo. Non esiste un diritto alla droga: è solo un male morale per le gravi conseguenze sulla persona e sulla società. Soltanto una convinta e collettiva disapprovazione etica può costituire la base delle strategie preventive, terapeutiche e politico-legislative. Sul piano legislativo, le tendenze sono riconducibili a un triplice modello: liberalizzazione, coercizione, strategie di contrasto. La liberalizzazione (legalizzazione, depenalizzazione) è sostenuta attualmente per le droghe leggere, negando superficialmente che il passaggio alla droga pesante sia inevitabile. Inoltre, è rivendicata allo scopo della riduzione del danno, qualora la liberazione dalla droga non sia programmabile in tempi brevi. Tali obiettivi vantano una certa razionalità, ma risultano insoddisfacenti dal punto di vista etico, in quanto mostrano una resa al male droga. Inoltre, lo stato appare nel ruolo ambiguo di diffusore e, insieme, curatore del male. All’opposto, la repressione ha il merito di dare alla società una chiara indicazione pedagogica e formativa. Tuttavia, se deve essere perseguita con fermezza nei confronti degli spacciatori, non sembra efficace nell’intento dissuasivo nei confronti dei consumatori, se resta unicamente nell’ambito repressivo. Al di là del proibizionismo/antiproibizionismo, la strategia del

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Droysen

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contrasto offre maggiori opportunità e speranze: prende a cuore la prevenzione sociale, si preoccupa dell’informazione nelle scuole e nei luoghi di lavoro; organizza una repressione efficace sulla distribuzione e sullo smercio e, quindi, punta sull’efficienza delle forze dell’ordine; suscita solidarietà civile e ampia collaborazione. L. Lorenzetti BIBL.: M. GARAVELLI - G. CASELLI, In nome della legge, Torino 1990; G.M. GILLI - M.T. CAIRO, Famiglia e tossicodipendenze: il dibattito e le ricerche, Milano 1990; S. CANALI et al. (a cura di), Contro le droghe. Cultura e strategie preventive contro la diffusione di sostanze stupefacenti 1980-1992. Rassegna bibliografica, Perugia 1993; P. UGOLINI - F.C. GIANOTTI (a cura di), Valutazione e prevenzione delle tossicodipendenze. Teoria, metodo, strumenti valutativi, Milano 1998; AA.VV., Atti della III Conferenza Mondiale sulla prevenzione dall’uso di droghe, Palermo 2000; C.A. ROMANO - G. BOTTOLI, La normativa sugli stupefacenti in ambito europeo, Roma 2002; G. VENTAVOLI PRIVITERA, Tossicomanie: un’epidemia psicosociale. Verso l’ecocidio della mente, Milano 2002. ➨ FAMIGLIA; PSICOPATOLOGIA.

DROSSBACH, MAXIMILIAN. – Atomista tedeDrossbach sco del secolo XIX. Con la dottrina atomistica Drossbach spiega l’immortalità dell’anima e la presenza del divino nell’universo, quale acme supremo della gerarchia delle monadi-atomi. Opere: Die individuelle Unsterblichkeit von monadistmethaphysischen Standpunkt, Olmütz 1853; Die Harmonie der Ergebnisse der Naturforschung mit den Forderungen des menschlichen Gemütes oder die persönliche Unsterblichkeit als Folge der atomistischen Verfassung der Natur, Leipzig 1858; Die Genesis des Bewusstseins nach atomistischen Prinzipien, ivi 1866; Über die scheinbaren und die wirklichen Ursachen des Geschehens in der Welt, Halle 1884. Red.

DROYSEN, JOHANN GUSTAV. – N. a Treptow il Droysen 6 lug. 1808, m. a Berlino il 19 giu. 1884. La sua educazione, nell’ambito della famiglia e dell’ambiente sociale a cui apparteneva, fu profondamente influenzata dai valori del luteranesimo e del prussianesimo che restarono determinanti anche nel seguito della sua vita. Studiò all’università di Berlino, frequentando, tra gli altri, i corsi di filologia di Boeckh e quelli di filosofia di Hegel, dai quali trasse i principi della sua teoria della storiografia e della sua

visione della storia. Libero docente di filologia classica nel 1833, dal 1835 ebbe un insegnamento a Berlino come professore straordinario. I suoi studi riguardarono, in questo primo periodo, l’Antike sia dal punto di vista filologico-letterario che storico. Dopo la Doktordissertation De Lagidarum regno Ptolomaeo VI Philometore rege (Berlin 1831), in cui si cominciava già a delineare una rivalutazione dell’età ellenistica, Droysen pubblicò la Geschichte des Alexanders des Grossen (Berlin 1833, tr. it. di L. Alessio, Alessandro il Grande, Milano 1978), a cui seguirono la Geschichte der Nachfolger Alexanders (Hamburg 1836), e la Geschichte der Bildung des hellenistischen Staatensystems (Hamburg 1843), costituenti le due parti della Geschichte des Hellenismus. Secondo la innovativa tesi di Droysen, l’«ellenismo», definito come «l’evo moderno del paganesimo», alla storia che sa vedere «il nesso degli svolgimenti storici» non si presenta come un’età di tramonto e degenerazione, ma come quell’epoca che «ha accolto l’eredità sia del mondo greco, sia dell’antichità orientale» e da questa «mescolanza» ha prodotto «qualche cosa d’altro, di nuovo, che, così mediato, non cessa di rimandare al suo prossimo antecedente» (come scrive Droysen nella Privatvorrede – Theologie der Geschichte – alla seconda parte della Geschichte des Hellenismus). Divenuto nel 1840 professore ordinario di storia a Kiel, Droysen spostò l’asse dei suoi studi nella storia e diede maggiore risalto alla funzione politica della storiografia. Nel 1846 pubblicò infatti le Vorlesungen über das Zeitalter der Freiheitskriege (Kiel 1846), che orientarono la sua stessa attività politica al cui centro si poneva il problema dell’unità tedesca. Nel 1848 partecipò quale rappresentante dello Holstein all’assemblea nazionale di Francoforte, schierandosi su posizioni moderate e propendendo per una soluzione «piccolo-tedesca» della questione unitaria. La principale opera storica, a cui lavorò a partire dagli anni cinquanta, è la imponente Geschichte der preussischen Politik (Leipzig 1855-86, 5 parti in 14 voll.). La sua teoria della storia è esposta sistematicamente nei corsi di lezioni su enciclopedia e metodologia della storia tenuti dal 1857 al 1882, di cui Droysen nel 1858 fece circolare a Jena come manoscritto un sommario (Grundriss der Historik), che ebbe tre edizioni a stampa nel 1868, nel 1875 e nel 1882. R. Hübner ha pubblicato l’ultimo corso di lezioni del 1881-82 con il titolo di Historik. Vorlesungen 3103

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Droz über Enzyklopädie und Methodologie der Geschichte (Oldenburg 1937, tr. it. a cura di L. Emery, Istorica, Milano-Napoli 1966), mentre P. Leyh ha pubblicato in edizione critica il corso del 1857 (Historik. Die Vorlesungen von 1857, Stuttgart - Bad Cannstatt 1977, tr. it. a cura di S. Caianiello, Istorica, Napoli 1994). Tra gli scritti postumi sono importanti il Briefwechsel (a cura di R. Hübner, Berlin 1929), e le Politische Schriften (a cura di F. Gilbert, München 1933). Nella Istorica Droysen, sotto l’influsso oltre che di Hegel e Boeckh, anche di W. von Humboldt, e in dura polemica con il positivismo storiografico, elabora una compiuta metodologia della storia. I punti fondamentali della sua esposizione riguardano: i caratteri del metodo storico, l’euristica, la critica delle fonti, l’interpretazione, la sistematica del lavoro storico, la topica, cioè i vari tipi di trattazione (indagativa, narrativa, didattica, discussiva). Il vero campo della storia è per lui quello morale in senso largo e si distingue nettamente da quello della natura: la sua conoscenza non è fondata sul metodo statistico e generalizzante ma sulla comprensione. La ricerca storica nasce da un problema, la soluzione del quale illumina non solo il passato ma anche il presente. La storia, infatti, è sviluppo e progresso, come qualitativa crescita dello spirito su se stesso («epidosis eis auto»): l’universale vive solo nel particolare, onde la vanità del tentativo di scoprire o verificare «leggi» astratte nel processo storico. La storia è una giustificazione della presenza di Dio nel mondo e in questo senso lo studio delle forze storiche presenta il carattere e il significato di una teodicea. R. Franchini - G. Cantillo B IBL.: F. GILBERT, J.G. Droysen und die preußischdeutsche Frage, Berlin 1931; H. ASTHOLZ, Das Problem «Geschichte» untersucht bei J.G. Droysen, Berlin 1933; J. RÜSEN, J.G. Droysen, in H.-U. WEHLER (a cura di), Deutsche Historiker, vol. II, Göttingen 1971; L. CANFORA, Ellenismo, Roma-Bari 1987; G. CANTILLO, L’eccedenza del passato, Napoli 1993, parte II; S. CAIANIELLO, La duplice natura dell’uomo. La polarità come matrice del mondo storico in Humboldt e in Droysen, Soveria Mannelli 1999; E. STRAUB, J.G. Droysen und die Geschichte Preußens, Berlin - New York 2000.

DROZ, FRANÇOIS-XAVIER-JOSEPH. – Pensatore Droz francese, n. a Besançon nel 1773, m. a Parigi nel 1850. Non formulò un sistema né aderì a una precisa scuola. Nell’Essai sur l’art d’être heureux (Paris 3104

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1806, tr. it. L’arte di essere felice, Milano 1808) si mostra vicino all’epicureismo, inteso nel più largo senso possibile. Droz sviluppa queste idee in De la philosophie morale, ou des différents systèmes sur la science de la vie (Paris 1823): il fine della vita non è il bene né la felicità, ma la loro unione: l’azione conforme al valore implica la gioia della coscienza. L’epicureismo si raffina così sino a divenire quasi spiritualismo. Altri scritti: Etudes sur le beau dans les arts, Paris 1815; Applications de la morale à la politique, ivi 1825; L’économie politique, ou principes de la science des richesses, ivi 1829; Histoire du règne de Louis XVI pendant les années où l’on pouvait prévoir et diriger la Révolution française, ivi 183942, 3 voll. Le opere di Droz anteriori al 1826 sono riunite in due volumi. G. Morra BIBL.: T.S. JOUFFROY, De la philosophie morale de M. Droz, ou de l’Eclectisme moderne, in «Globe», 1 (1824); G. DAMIRON, Essai sur l’histoire de la philosophie en France au XIXe siècle, Bruxelles 1832, pp. 288-295.

DRTINA, FRANTIŠ EK. – Filosofo e pedagogiDrtina sta cecoslovacco, n. a Hnevsín il 3 ott. 1861, m. a Praga il 14 genn. 1925. Studiò filologia classica in Germania e in Francia; nel 1891 professore di filosofia e dal 1898 di pedagogia all’università di Praga. Negli anni 1907-11 deputato del parlamento, nel 1918 segretario del ministero della pubblica istruzione. Drtina scrisse opere storiche, fra le quali più importante è Myslenkový vývoj evropského lidstva (L’evoluzione del pensiero della umanità europea, Praha 1902), dove espone la sua tesi sull’origine della civiltà contemporanea. Questa, secondo Drtina, è una sintesi da una parte del naturalismo che appare nell’antichità e nel Rinascimento, e dall’altra parte dell’ideale morale cristiano che si manifestò al tempo della Riforma. La sintesi di questi due elementi rappresenterebbe l’umanesimo moderno. L’opera fu ampliata ed edita sotto il titolo Úvod do filosofie (Introduzione alla filosofia; 2 parti, Praha 1914-26). Fra le opere pedagogiche la più importante è Ideály výchovy (L’ideale dell’educazione; 1900, 1930), dove Drtina cerca di trovare una relazione tra le correnti pedagogiche e la storia della cultura generale. Drtina è piuttosto uno storico che filosofo secondo l’esempio del suo maestro Paulsen; riuscì, però, felicemente nella ricerca dei principi generali che dominano le diverse correnti culturali e con chiarezza espose l’unità del pro-

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gresso continuo e coerente della cultura umana. Con entusiasmo e in un buon stile letterario comunicava ai suoi lettori e ascoltatori la sua persuasione ottimistica sul progresso della civiltà e della morale. Le sue concezioni religiose inclinano al panteismo. T. Spidlík BIBL.: O. CHLUP, in «Ceská Revue», 1907; Miscellanea in onore del cinquantesimo anno di Drtina, 1911, a cura di F. CÁDA - O. KÁDNER - J. TÚMA - O. WAGNER; e del suo sessantesimo anno, 1921, a cura di J. V. KLÍMA; J. TVRDÝ e O. CHLUP, in «Nase doba» (L’era nostra), 1925; J. PATOCKA, in «Nase doba» (L’era nostra), 1932.

DRUMMOND, HENRY. – Positivista inglese, Drummond n. a Stirling nel 1851, m. ivi nel 1897. Insegnò per qualche tempo nel College della Chiesa libera di Scozia, poi viaggiò in Africa e in Australia e si dedicò all’attività di scrittore. La sua opera fondamentale è Natural Law in the Spiritual World (London 1883) il cui successo, oltre che allo stile facile, fu dovuto all’assunto: conciliare il positivismo con la coscienza religiosa e con la dottrina cristiana. Drummond mira a estendere le leggi della natura (tra cui ha importanza preminente la «legge di continuità») al regno dello spirito, senza però che si possa capire se ne risulti una spiritualizzazione della natura o una naturalizzazione dello spirito. In On the Ascent of Man (ivi 1894) Drummond sostituisce al concetto evoluzionistico di «lotta per l’esistenza» quello di «lotta per l’esistenza altrui», in quanto secondo Drummond la moralità è propria anche degli animali e in tutta la natura si mostra una tendenza altruistica non meno forte dell’egoistica. V. Mathieu BIBL.: W. ZOLLER, Evolution der Liebe, Stuttgart 1997; T.E. CORTS (a cura di), Henry Drummond: a Perpetual Benediction; Essays to Commemorate the Centennial of his Death, Edinburgh 1999.

DSM (acronimo di Diagnostic and Statistical Dsm Manual). – Il DSM, redatto a cura dell’American Psychiatric Association (APA), è giunto alla sua quarta edizione nel 1994, rivista con alcune modificazioni nel 2000 (DSM-IV-TR). La prima edizione, del 1952, rappresentava il primo manuale ufficiale americano di psichiatria: nella sua nosologia rifletteva, tra le altre, le concezioni psicobiologiche di Adolf Meyer. Ebbe scarsa diffusione al di fuori degli Stati Uniti e si dovette attendere il 1968 per vederne

Dsm la seconda edizione, che utilizzava la classificazione dei disturbi mentali dell’ICD 8 (ottava revisione della Classificazione Internazionale delle Malattie redatta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità). Il tentativo di facilitarne la diffusione internazionale fu favorito anche dall’abbandono del termine «reazione» e di riferimenti teorici particolari per i disturbi mentali non organici. Nel 1974 l’APA designò un gruppo di lavoro incaricato di redigere la terza edizione del DSM, in quanto la classificazione dei disturbi mentali contenuta nell’ICD 9 non era ritenuta esauriente dagli psichiatri americani. Questa task force, selezionata sulla base delle esperienze specifiche nei vari ambiti delle patologie psichiatriche, stabilì gli obiettivi prioritari del manuale, che rappresentarono le linee guida anche per le successive edizioni, vale a dire: l’utilità clinica, l’affidabilità diagnostica, l’accettabilità in abiti teorici diversi, l’utilità per l’istruzione, la compatibilità con l’ICD 9, la rinuncia a terminologie e concetti nuovi, il consenso sul significato dei termini diagnostici e l’esclusione di quelli oramai superati, l’accordo con i dati che convalidavano le categorie diagnostiche. La pubblicazione dell’edizione definitiva del DSM III, nel 1979, fu preceduta da numerose modifiche della prima provvisoria stesura, suggerite dai pareri di altre organizzazioni mediche, di istituzioni psicoanalitiche, psicologiche, oltre che da varie prove sul campo. Questa elaborata e prolungata metodologia di redazione è stata da allora utilizzata anche nelle edizioni successive; quella del 1979 rappresenta anche il punto di riferimento per i «concetti di base» del manuale, qui di seguito riassunti. Ogni disturbo mentale è descritto come una «sindrome» o una «situazione clinicamente significativa», comportamentale o psicologica, associata tanto alla sofferenza quanto ad alterazioni del funzionamento sociale, lavorativo o scolastico. L’approccio descrittivo dei singoli quadri morbosi consente al DSM di mantenersi «ateoretico» rispetto all’eziopatogenesi, tranne nei casi ove questa sia dimostrata e quindi inclusa nella definizione stessa del disturbo. Rispetto alle precedenti edizioni e all’ICD-9, il DSM III fornisce allo psichiatra criteri diagnostici espliciti e specifici per ciascun quadro clinico, migliorando radicalmente l’affidabilità e la riproducibilità diagnostica. Viene inoltre in3105

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Dualismo trodotto per la prima volta un sistema di «valutazione multiassiale» che classifica in Asse II i disturbi di personalità e i disturbi specifici dello sviluppo; in Asse I tutti gli altri disturbi mentali; in Asse III i disturbi e le condizioni di ordine fisico; in Asse IV la gravità degli eventi psicosociali stressanti; in Asse V il massimo livello di adattamento, raggiunto nell’anno precedente. L'organizzazione gerarchica delle classi diagnostiche, oltre a facilitare le diagnosi differenziali, rende possibile la creazione di «alberi decisionali» sistematici. La descrizione sistematica dei seguenti elementi: caratteristiche essenziali delle diverse patologie; manifestazioni associate; età d’insorgenza; decorso; grado di compromissione; complicanze; fattori predisponenti; prevalenza; distribuzione tra i sessi; familiarità e diagnosi differenziale – trascurando, però, le teorie eziologiche e le condotte terapeutiche – stabilisce in modo inequivocabile che l’utilità del DSM è ristretta ai soli fini diagnostici e statistici. Un’ulteriore importante peculiarità del DSM consiste nella controversa omissione, già con la seconda edizione, della categoria diagnostica unitaria delle nevrosi, che viene frammentata e distribuita tra i disturbi dell’umore, i disturbi d’ansia, i disturbi dissociativi e quelli psicosessuali. L’edizione italiana del manuale, curata da Vittorino Andreoli, Giovanni Battista Cassano e Romolo Rossi, ha visto la luce la prima volta nel 1983 con la traduzione del DSM III (DSMIII. Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, a cura di A.P.A., Washington 19793, tr. it. di C. Maggini et al., DSM-III. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Milano 1983). In questi ultimi vent’anni l’importanza e la diffusione del DSM sono cresciute in tutto il mondo, parallelamente alle dimensioni stesse del volume, passato dalle iniziali 464 pagine alle attuali 1002. L’accettazione del DSM come principale punto di riferimento per la nosografia psichiatrica ha consentito il miglioramento dell’affidabilità e della riproducibilità diagnostica, con indiscutibili effetti benefici anche sulla confrontabilità degli studi clinici e sperimentali. Le iniziali perplessità – soprattutto nell’Europa continentale, forte delle solide tradizioni della psicopatologia classica di scuola francese, tedesca e italiana – suscitate dalle eccessive semplificazioni pragmatistiche del manuale, sono state ora ampia3106

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mente superate da una sua definitiva ricollocazione storica, nosografica e applicativa. R. Rossi - S. Mungo BIBL.: C. MAGGINI - R. DALLE LUGHE, La diffusione del DSM-III: verso una nuova ideologia?, in «Rivista Sperimentale di Freniatria», 115 (1991), pp 491-503; AA.VV., DSM-IV-TR. Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. Text Revision, a cura di A.P.A., Washington 20004, tr. it. di S. Banti e M. Mauri, DSM-IV-TR. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Text Revision, Milano 2001. ➨ NEVROSI.

DUALISMO (dualism; Dualismus; dualisme; Dualismo dualismo). – In senso ampio con dualismo s’intende ogni concezione che ricorre a due enti o principi tra loro irriducibili per rendere conto di un certo ambito problematico. Nel corso della storia del pensiero le grandi aree tematiche a cui sono state date soluzioni dualistiche sono l’area cosmogonico-religiosa, con la contrapposizione ad esempio della luce alle tenebre, o del bene al male; l’area metafisico-ontologica, nella quale spesso lo spirito è visto in opposizione alla materia, o, in alcuni autori, il pensiero opposto all’estensione; l’area gnoseologica, sovente segnata dalla difficile spiegazione del rapporto tra soggetto e oggetto; l’area antropologica, che talora ravvisa nell’essere umano la compresenza di bene e male, pensiero ed emozioni, mente e corpo; l’area politica, che sovente registra conflitti incomponibili tra gli individui, oppure tra individui e stato. Specifico dell’ambito psicoanalitico è il dualismo degli istinti, che Freud intende come lotta nella psiche umana tra eros, o istinto di vita, e thanatos, o istinto di morte. Il termine dualismo compare per la prima volta in Historia religionis veterum Persarum (Oxford 1700) di Thomas Hyde per indicare il carattere di dottrine religiose che riconoscono l’attività di due principi coeterni, il bene e il male, nella generazione del mondo. Venne in seguito impiegato nelle edizioni del Dizionario di Bayle successive alla prima e da Leibniz in Theodicaea. Wolff ne estese l’uso al campo psicologico, per designare i rapporti dell’anima con il corpo. SOMMARIO: I. Dualismo cosmogonico-religioso. - II. Dualismo metafisico-ontologico: 1. Dualismi irriducibili. - 2. Dualismi relativi. - III. Dualismo gnoseologico. - IV. Dualismo antropologico. - V. Dualismo politico-sociologico.

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I. DUALISMO COSMOGONICO-RELIGIOSO. – Molte cosmogonie arcaiche e antiche, documentate presso gruppi culturali umani variamente dislocati da un punto di vista geografico e virtualmente reperibili in ogni parte del globo (Cina, India, Africa, Sud-America, Australia, Persia, Egitto), soggette a differenti vicende di permanenza storica (alcune sono ancora oggi vive), spiegano l’origine del cosmo e della terra come dovuta all’azione e all’interazione di due principi diversi, talora visti in lotta perpetua, talora in collaborazione. Il dualismo fondamentale che, con modalità diverse, tutte le cosmogonie condividono è quello tra caos e cosmo ordinato. Le singole tradizioni mitologiche o religiose rispondono con modalità proprie al problema del modo in cui dal caos, da talune meglio identificato come virtuale, o come pre-essere, si passa al cosmo ordinato, o attuale, o essere. Alcune ricorrono al concetto, unificante e non dualistico, di creatore supremo del cosmo, dando così origine al vasto filone delle cosmogonie religiose creazionistiche da cui derivano le grandi religioni occidentali (ebraismo, cristianesimo, islamismo); altre fanno derivare il mondo degli umani da una interazione tra due principi, che restano separati e distinti. Tra le cosmologie dualistiche vanno ricordate quella cinese, quella vedica, la egiziana, la zoroastriana, il manicheismo, lo gnosticismo, l’orfismo. La cosmogonia cinese, le cui antichissime e mitiche origini vengono fatte risalire all’imperatore FuXi vissuto nel III millennio a. C., pur ponendo il Tao quale principio unitario, invisibile e impercettibile a origine di tutto l’universo, interpreta l’intera realtà come concretamente composta di due elementi, yin e yang, contrapposti ma complementari, che entrano nella costituzione di ogni cosa esistente. Lo yin rappresenta la contrazione, il riposo, il freddo, la notte, il femminile, mentre lo yang costituisce tutto ciò che si espande, si muove, è caldo, luminoso, maschile; yin e yang non esistono allo stato puro o assoluto, ma entrambi entrano in proporzioni diverse in ogni cosa e sono tali solo in modo relativo. Ad esempio la primavera, che è yang rispetto all’inverno, è yin rispetto all’estate e lo stesso essere umano si costituisce attraverso l’interazione tra il corpo, manifesto, che è yin, e lo spirito, meno manifesto, ma generatore, che è yang. Lo yin e lo yang sono principi di realtà e di riferimento universali, utilizzati non solo

Dualismo per spiegare qualunque fenomeno, ma anche per regolare l’azione umana nel mondo; valgono come principi d’azione morale, come ideali di riequilibrio nelle pratiche mediche, come chiavi di lettura e comprensione delle vicende storiche e politiche. Altra grande e complessa cosmogonia è quella vedica, espressa tra il 2000 e il 500 a. C. dalla cultura indiana di lingua indoeuropea. In essa l’ordine del mondo, dominato da Varuna, è difeso da Indra, che lotta contro le forze della disgregazione e del caos. Le incessanti battaglie di Indra vanno sostenute con le attività rituali e con il comportamento morale dagli esseri umani sulla terra, che partecipano, sia pure indirettamente e secondariamente, al mantenimento della stabilità ordinata del mondo. In questa cosmogonia il dualismo irriducibile, espresso in forma di mito, è tra le forze che aggregano e quelle che disgregano il cosmo. Anche la cosmogonia egiziana vede contrapposti due principi: quello divino, celeste e solare, dal nome arcaico di Oro, più recente di Osiride, e quello, fratello e nemico di Osiride, di nome Seth, dio della tempesta e della notte. La cosmogonia dell’antico Iran, pur legata per molti aspetti a quella vedica, si caratterizza per un dualismo radicale. Fondata verso la fine del II millennio a. C. da Zarathustra, detto anche Zoroastro, da cui deriva la denominazione di zoroastrismo, viene codificata nel testo sacro Avesta. È dominata dallo spiccato dualismo tra l’ordine-verità e la disgregazione-menzogna, che vengono rappresentati in diverse forme mitologiche di divinità in lotta tra di loro: Spanta Mayniu, lo spirito benefico, combatte Angra Mayniu, lo spirito malefico; Ohrmazd, dio della luce, del bene, dell’ordine del mondo, è perpetuamente attaccato da Ahriman, dio delle tenebre, del male, del disfacimento. Gli attacchi disgreganti del male non prevarranno, ed è atteso in prospettiva escatologica e soteriologia il trionfo del bene. Nel manicheismo, fondato da Mani nel III secolo in area mesopotamica, confluiscono elementi cristiani, buddhisti e zoroastriani; dallo zoroastrismo è assunto e drammaticamente accentuato il dualismo cosmogonico. Tutta la realtà è espressione di una perpetua lotta tra due principi opposti e coeterni: Dio, come bene, luce, spirito, in opposizione a Spirito demoniaco, male, tenebre, materia. Dalla lotta, espressa in forma mitologica, tra principe delle tenebre e mondo della luce nasce il mondo umano, nel 3107

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Dualismo quale frammenti di luce restano imprigionati nelle tenebre. Nella costituzione ontologica dell’uomo è drammaticamente presente il dualismo bene-male, e l’uomo, che porta in sé il marchio delle tenebre, può liberarsi di esse solo con una intensa e attenta cooperazione con il bene (osservando numerosi precetti, tra i quali la castità, il rifiuto di mangiare carne). Il manicheismo in Occidente si fuse con correnti gnostico-neoplatoniche e influenzò direttamente Agostino, che per vari anni ne fu convinto seguace. Lo gnosticismo è una complessa corrente spirituale e dottrinale fiorita in età ellenistico-romana, anche in concomitanza e sincretismo con il cristianesimo, nella quale un elemento cosmogonico rilevante reca il marchio del dualismo: a un Dio supremo, perfetto e irraggiungibile, fa da contrasto il mondo materiale e contingente, gravato di sofferenza, male e morte. Il dramma del macrocosmo si riproduce nel microcosmo umano, nel quale l’elemento materiale contrasta con quello spirituale, e per il quale la salvezza consiste nel pervenire, attraverso numerose e faticose tappe intermedie, alla totale liberazione dagli elementi inferiori e alla finale assunzione della piena e pura essenza luminosa. L’orfismo, affermatosi soprattutto in Grecia come movimento religioso esoterico e iniziatico tra il VI secolo a. C. e il III dell’era cristiana, intrecciato in Magna Grecia con il pitagorismo, scorge nell’essere umano un dualismo irriducibile e compresente di un’anima spirituale e immortale con un corpo che la imprigiona come una tomba. Il complesso percorso iniziatico codificato nei riti orfici e in una serie di prescrizioni ascetiche facilita e consente la liberazione dell’anima dal corpo e il suo finale ritorno alla condizione divina. II. DUALISMO METAFISICO-ONTOLOGICO. – In ontologia e metafisica il dualismo è rintracciabile in due forme principali, una fondamentale e irriducibile, l’altra relativa, o secondaria. Nella forma fondamentale il dualismo metafisico riporta la costituzione e l’intellegibilità della realtà a due principi, o anche enti, quali l’essere e il non-essere, la materia e il pensiero. Si oppone al monismo, che considera la realtà configurata da un solo principio o ente. Nelle varie forme secondarie il dualismo risolve un problema specifico facendo ricorso a due principi o enti; chiama in causa, ad esempio, la materia e la forma per risolvere il problema della strut3108

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tura ontologica del mondo, l’atto e la potenza per rendere conto del divenire, l’essere e l’essenza per spiegare le sostanze. Il dualismo può quindi costituire una presenza dominante e imprescindibile di un certo sistema filosofico, o può caratterizzarlo solo per aspetti marginali; di conseguenza possiamo avere dualismi irriducibili e dualismi relativi a tematiche regionali. 1. Dualismi irriducibili. – Eraclito fiorisce a Efeso tra il VI e il V secolo a. C.; osserva che le cose del mondo esistono in quanto mutano continuamente, e conclude che «il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte re». Si tratta di un’opposizione feconda, in quanto il suo armonico svolgimento rende possibile il mondo. In Eraclito è anche presente un altro livello, più profondo, di dualismo, tra la realtà naturale che percepiamo con i sensi e il logos, che è la ragione profonda ordinatrice delle cose. Capire il cosmo per Eraclito vuol dire andare al di là del fisico raggiungendo il logos; si tratta di un percorso difficile, che pochi sono capaci di seguire. La scuola pitagorica, fiorita nell’Italia meridionale tra il VI e il IV secolo a. C., vede nel numero il principio di tutte le cose, nel senso che ogni cosa è riconducibile a un numero; siccome i numeri sono pari o dispari, anche le cose sono diversamente caratterizzate a seconda che derivino da un numero pari o da un numero dispari. Il dualismo tra pari e dispari è spiegato a sua volta ricorrendo a due altri più fondamentali principi, che sono l’illimitato e il limitato, alla cui interazione si deve la generazione dei numeri: i numeri pari si generano da una prevalenza dell’illimitato, quelli dispari da un dominio del limitato. L’universo pitagorico, pur generato da due principi, riconduce l’ordine del cosmo e la produzione delle cose alla loro armoniosa collaborazione. Parmenide, fondatore della scuola eleatica, nella sua via della verità assoluta oppone in modo insanabile l’essere e il non-essere; l’essere è il puro positivo, pensabile ed esprimibile, il nonessere è la totale negazione dell’essere, impensabile e inesprimibile, dunque indicibile. Parmenide intende l’essere in modo univoco e con piena valenza ontologica, respingendo da esso tutto ciò che andrebbe spiegato ricorrendo in qualche modo al non-essere. L’essere deve essere ingenerato, incorruttibile, immobile, continuo, compiuto. È colto con il logos, che è la via della ragione, mentre i sensi attestano il divenire, cioè una mescolanza di esse-

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re e non-essere. Dunque per Parmenide occorre abbandonare l’apparenza sensoriale (doxa) e seguire la ragione (logos). La filosofia di Parmenide attribuendo positività al solo essere scava un solco profondo con il mondo del divenire e del mutamento, pagando per il monismo metafisico il prezzo di un radicale dualismo tra quanto ci attesta il logos e quanto ci attestano i sensi. Platone cercherà di ricomporre la frattura parmenidea, riuscendovi solo in parte. Per Platone i sensi corporei ci consentono di cogliere le forme fisiche delle cose, transeunti, cangianti e contraddittorie; se però vogliamo capire la realtà a livello più elevato, sarà solamente grazie alla visione intellettuale; con essa coglieremo l’idea, o forma, incorporea e immutabile delle cose. Il mondo delle idee risulta quindi opposto a quello empirico, ma tale dualismo è ricomposto da Platone con la messa a fuoco della relazione tra i due mondi: il mondo ideale è la causa superiore, metafisica e incontraddittoria, da cui nasce il sensibile. Se il dualismo tra mondo ideale e mondo sensibile è sanato da Platone in maniera abbastanza soddisfacente, nel piano puramente metafisico resta una tensione irrisolta tra l’uno e la diade, che sono i principi cui Platone fa ricorso per giustificare il sorgere del molteplice (sia ideale che empirico). I molti derivano dalla diade, che è il principio della disuguaglianza; l’uno agisce su di essa garantendo l’unità. Tutti gli enti sono una mescolanza dei due principi originari, che pur restando distinti cooperano nella costituzione delle cose. Una forma drastica di dualismo metafisico è presente in Descartes, per il quale la realtà va spiegata riconducendo ogni cosa a due sostanze eterogenee e irriducibili, la res extensa e la res cogitans. La res extensa comprende le cose materiali, esprimibili quantitativamente, e costituisce l’universo fisico; la res cogitans è puro pensiero colto con la riflessione introspettiva, e inerisce al dominio spirituale. Tra sostanza spirituale e sostanza materiale non c’è mediazione, e il loro dualismo si riflette anche nell’essere umano, composto di corpo materiale e anima, o pensiero, spirituale. 2. Dualismi relativi. – Aristotele all’interno di un impianto metafisico fortemente monistico, in cui la priorità ontologica e logica è attribuita all’essere, per spiegare come mai le cose mutino introduce i due concetti di atto e di potenza. La potenza è la capacità che gli enti materiali hanno di ricevere o assumere una for-

Dualismo ma; l’atto è l’effettiva realizzazione e assunzione di una forma da parte di un certo ente. Gli enti materiali divengono, cioè sono soggetti a mutamento, in quanto in essi sono presenti sia la potenza sia l’atto, cioè in quanto non sono totalmente in atto. Aristotele riesce così a spiegare il divenire senza sacrificare il generale, e più soddisfacente, monismo metafisico. L’atto infatti è comunque superiore alla potenza, ed è il modo delle sostanze superiori, cioè eterne. Plotino, fiorito nel III secolo, riprende il dualismo platonico tra mondo sensibile e mondo intelligibile, ma li riconduce a forte unità metafisica dando all’intelligibile un totale primato produttivo sul sensibile: il sensibile, sprovvisto di una sua indipendenza ontologica, è solo derivazione dal soprasensibile uno, che è infinita capacità creativa. Tommaso d’Aquino introduce i due concetti di ente e di essenza per spiegare l’individualità ontologica e l’intelligibilità logica delle sostanze. L’essenza è ciò per cui una singola cosa è se stessa, è ciò che fa essere una cosa proprio quella determinata cosa; è sinonimo di forma o natura e viene espressa dalla definizione. L’ente è ciò che possiede l’essenza. I due termini si definiscono l’uno con l’altro, e si implicano anche ontologicamente in quanto entrambi costituiscono il soggetto. III. DUALISMO GNOSEOLOGICO. – Una forma particolare di dualismo viene sviluppata nell’età moderna, con residui anche nel pensiero contemporaneo, allorché la filosofia fa oggetto di problematizzazione il rapporto tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. Descartes per primo sottolinea l’importanza specifica di tale tema, e, nella sua ricerca di una fondazione certa del sapere filosofico, afferma che l’oggetto è garantito solo in quanto pensato, mentre le cose attestate dai sensi sono incerte e mutevoli. In tal modo consuma la frattura tra il soggetto e le sue idee da un lato e l’oggetto dall’altro, e rende l’oggetto empirico irraggiungibile al pensiero; tale frattura, talora indicata come il problema del ponte, segna la speculazione filosofica a venire. Hobbes esprime con molta chiarezza la sua condivisione del dualismo gnoseologico affermando che anche se il mondo venisse annichilito, un uomo sopravissuto manterrebbe le idee e le immagini delle cose scomparse, e non le vedrebbe come fantasmi interni, ma come idee di cose esterne. Anche Locke si concentra sul problema 3109

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Dualismo della conoscenza, che per lui è costituita fondamentalmente dalle idee; alcune idee presentano un carattere di particolare certezza, e tra queste le idee dei corpi sensibili. Hume ritiene che ogni attività conoscitiva consista in percezioni, cioè in presenze alla mente di dati sensoriali, o emozionali o di puro pensiero. Anche nel pensiero di Kant è rintracciabile una forma di dualismo gnoseologico; Kant ritiene che il soggetto umano conosca il mondo fenomenico grazie alla sintesi tra i dati della sensibilità e gli elementi trascendentali in suo possesso (spazio, tempo e categorie). Alla conoscenza fenomenica si oppone quella noumenica, o della cosa in sé, che risulta inattingibile all’uomo in quanto consiste in una intuizione intellettuale, che possiamo capire solo in modo negativo, come negazione di ogni determinazione sensibile. Il dualismo gnoseologico diventa un presupposto accettato da molti autori e correnti sia nell’Ottocento che nel Novecento, ed è spesso implicitamente condiviso sia da coloro che sostengono il primato delle idee, trascurando l’empirico, sia da chi afferma il primato dell’oggettività e minimizza il ruolo del soggetto. IV. DUALISMO ANTROPOLOGICO. – Spesso il dualismo presente in teorie cosmogoniche, metafisiche e gnoseologiche riverbera in modo più o meno diretto sulle antropologie che conseguono o fanno da corollario a quelle teorie più generali. Così i manichei ritengono che nell’uomo convivano il bene e il male; Descartes vede nell’essere umano la compresenza di un elemento spirituale, l’anima, e del corpo materiale e meccanico; e per Hobbes la ricostruzione razionale del mondo deve eliminare la conoscenza ordinaria. Una descrizione dualistica dell’essere umano si trova anche indipendentemente dall’esplicitazione di generali posizioni metafisiche o ontologiche, e consiste nell’individuazione di due elementi o parti costitutive irriducibili l’una all’altra, entrambe degne di essere prese in considerazione ai fini di una descrizione antropologica completa e soddisfacente. L’essere umano di Kierkegaard è lacerato da molteplici, inconciliabili paradossi: ragione e fede, storia ed eterno, disperazione e speranza, finito e infinito. Tale dualismo è l’impasto ontologico, drammatico nella sua contraddittorietà, con cui l’essere umano deve convivere ed entro cui deve fare la sua scelta. Bergson contrappone l’intelligenza geometrica e analitica, utilizzata dalle scienze 3110

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empiriche, all’intuizione intesa come sapere assoluto, capace di fare a meno delle mediazioni logiche e analitiche. Le filosofie femministe rintracciano nella storia politico-sociale occidentale la presenza costante dell’oppressione maschile ai danni delle donne, alle quali è stata negata l’espressione e il riconoscimento di un’identità strutturalmente e radicalmente diversa da quella maschile. Il vasto filone della filosofia della mente contemporaneo nasce come tentativo di ricomporre il dualismo tra cervello e mente, cioè tra la struttura materiale pubblicamente osservabile, quale appunto è il cervello, e i qualia, o esperienze private e soggettive, che costituiscono la vita mentale del soggetto umano. Un dualismo antropologico particolare, registrato dall’antichità a oggi, è quello tra ragione e passioni, o tra intelletto ed emozioni. Quasi tutte le filosofie occidentali hanno valorizzato e studiato il pensiero, inteso secondo una vasta gamma di significati, ma prevalentemente in esclusione o in opposizione rispetto al vissuto emozionale. Le emozioni sono state viste soprattutto come fonti di disturbo e di alterazione del percorso della ragione, e se ne è raccomandato l’emendamento o purificazione. Un ripensamento generale del dualismo pensiero-emozioni è oggi suggerito alla filosofia dalle neuroscienze, in particolare da Damasio. V. DUALISMO POLITICO-SOCIOLOGICO. – Molte teorie politiche delineando i rapporti tra individuo e stato o quelli tra individui scorgono in essi motivi di conflitto insanabile. Per Hobbes i rapporti tra individui sono all’insegna della guerra di tutti contro tutti, in quanto ognuno pretende per sé il diritto a tutto; l’istituzione dello stato è il risultato di un patto, effettuato comunque all’insegna di una rinuncia. Per Marx il tessuto economico del capitalismo sorge su interessi in conflitto, quelli del salariato e del capitalista. L’arricchimento del capitalista non può che avvenire grazie all’impoverimento dell’operaio, così come a un arricchimento dell’operaio, conseguito attraverso un aumento del salario, consegue l’impoverimento del capitalista, che vede diminuire il suo profitto. Tra capitalista e operaio può esserci una relazione esclusivamente conflittuale, superabile solo con l’eliminazione delle forme di produzione che l’hanno generata. Per Dahrendorf nella società contemporanea è continuamente in atto un conflitto insanabile tra coloro che hanno potere legittimato e colo-

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ro che non ne hanno, come pure tra potere politico-burocratico e organizzazioni economiche. L. Urbani Ulivi BIBL.: B. NARDI, Il dualismo cartesiano dagli occasionalisti a Leibniz, Roma 1954; M. MORETTI, Dualismo greco e antropologia cristiana, L’Aquila 1972; S. VANNI ROVIGHI, Appunti di antropologia filosofica, Milano 1978; U. BIANCHI, Il dualismo religioso. Saggio storico ed etnologico, Roma 19832; S. NICOLOSI, Il dualismo da Cartesio a Leibniz, Venezia 1987; I. HANNOVER, Dualität, Dualismus und Bipolarität. Ein philosophischer Essay, Frankfurt am Main 1991; J.R. SEARLE, The Rediscovery of the Mind, Cambridge (Massachusetts) 1992; K. ALT, Weltflucht und Weltbejahung. Zur Frage des Dualismus bei Plutarch, Numenios, Plotin, MainzStuttgart 1993; J. ARANA CAÑEDO-ARGÜELLES, La mecánica y el espíritu. Leonhard Euler y los origines del dualismo contemporáneo, Madrid 1994; M.K. LACEWING, Dualism: a feminist perspective, Oxford 1995; G. BONTADINI, Dall’attualismo al problematicismo, Milano 1996 (1945); M. ROZEMOND, Descartes’ Dualism, Cambridge (Massachusetts) - London 1998; F. REGO, La relación del alma con el cuerpo. Una reconsideracíon del dualismo agustiniano, Buenos Aires 2001; G. CLOITRE, Dualisme et énigme de la raison. De Platon à Schiller, tesi di dottorato, Dijon 2003. ➨ CORPO; COSA; EMOZIONE; FEMMINISMO; MANICHEISMO; MENTE, FILOSOFIA DELLA; PENSIERO; YIN E YANG; ZOROASTRISMO.

DUBARLE, DOMINIQUE. – Filosofo e teologo Dubarle francese, domenicano, n. a Bivier (Isère) il 23 sett. 1907, professore all’Institut Catholique di Parigi dal 1944 al 1980 (decano di filosofia dal 1967 al 1973), m. a Parigi il 25 apr. 1987. Dubarle si è formato alla scuola del tomismo, ma anche dell’hegelismo, della logica matematica e della fisica. Le sue prime pubblicazioni affrontano il problema del rapporto tra scienza e fede (Humanisme scientifique et raison chrétienne, Paris 1955; La civilisation de l’atome, Paris 1962), fino ad approdare a una teologia delle scienze in Approches d’une théologie de la science (Paris 1967): un insieme di articoli che vanno dal problema dell’evoluzione fino all’attitudine alla preghiera dello scienziato, passando per una riflessione sul senso del mistero ecc.; Dubarle sostiene che la teologia non può impossessarsi dei risultati della scienza, ma è di sua pertinenza riflettere piuttosto sull’atteggiamento dell’uomo in ricerca di razionalità scientifica. Dubarle si è però interrogato soprattutto sulla possibilità di parlare filosoficamente di Dio oggi, in un contesto se-

Dubbio gnato da categorie originali (quale, per esempio, il concetto di geometria proiettiva che si rivela particolarmente importante per comprendere l’idea d’infinito), dalla logica formale (Initiation à la logique, Paris 1957) e dalla filosofia del linguaggio (Logos et formalisation du langage, Paris 1977). La sua attenzione alla scienza si appoggia su una uguale padronanza della tradizione tomista (L’ontologie de Thomas d’Aquin, Paris 1996§ – edizione di un corso tenuto tra il 1976-1977 – in cui il pensiero filosofico dell’Aquinate veniva spiegato internamente in relazione alla sua intenzione teologica) e del pensiero contemporaneo (Dieu avec l’être. De Parménide à S. Thomas, Paris 1986, titolo che evoca ovviamente le discussioni heideggeriane sull’onto-teologia). P. Gilbert BIBL.: AA.VV., Recueil D. Dubarle, in «Revue de l’Institut Catholique de Paris», 26 (1988), pp. 161-188; AA.VV., D. Dubarle. Une liberté pensante, in «Transversalités», 67 (1998), pp. 1-106.

DUBBIO (gr. aj p oriv a; lat. dubium - doubt; Dubbio Zweifel; doute; duda). – In senso lato il termine indica, da un punto di vista più soggettivo, uno stato di indecisione o di incertezza circa scelte da effettuare o azioni da compiere, oppure, da un punto di vista più oggettivo ma non opposto al precedente, una situazione di sospensione, di problematicità e talora di indeterminazione circa la verità di un’affermazione o di una cosa oppure la sua negazione. SOMMARIO: I. Aspetti teorici. - II. Percorso storico: 1. La filosofia antica. Dall’ironia socratica al dubbio scettico. - 2. La filosofia cristiana. Il valore del dubbio e la ricerca della verità. - 3. Da Cartesio a Husserl. Il dubbio come strumento gnoseologico. - 4. Il dubbio antropologico e morale. I. ASPETTI TEORICI. – Il termine «dubbio» si accompagna all’idea stessa di filosofia, all’idea di una filosofia come interrogazione, come sforzo costante di ricerca di una verità mai pienamente raggiungibile in un orizzonte temporalmente determinato, eppure cercata e desiderata, mai totalmente possedibile, eppure avvertita come originaria certezza: una verità non ancora conosciuta, svelata, incontrata. La ricerca della verità implica una tensione che assume caratteristiche sia morali che intellettuali, di cui il dubbio, nella molteplicità delle sue forme, rappresenta uno strumento positivo e fecondo che aiuta l’individuazione di evidenze inerenti all’oggetto stesso e di argo3111

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Dubbio mentazioni razionalmente e universalmente adeguate, assumendo, secondo le situazioni, dimensioni di ordine più speculativo o di ordine più pratico. Si può distinguere tra dubbio necessario e dubbio volontario. Il dubbio necessario è il dubbio che si impone a motivo della mancanza di evidenza degli oggetti di conoscenza. Il dubbio volontario invece è determinato dall’influsso della volontà. La volontà, infatti, può agire indirettamente sulla percezione e comprensione di fatti, principi, valori, e può indurre alla sospensione dell’assenso. Qualora venga ad assumere un carattere stabile e definitivo, il dubbio può generare una situazione di blocco, di indeterminazione problematica e problematizzante che produce, in senso teoretico, la paralisi del giudizio e della ricerca; in senso morale, l’incapacità di decidere, di scegliere: un’incapacità, vissuta talora come impossibilità, che sfocia nella disperazione e nell’abbandono. In quest’ultimo caso il dubbio si configura come dubbio esistenziale, che è un mettere totalmente in discussione se stessi. Se inteso come radicale e assoluto, il dubbio può attestare una resa – il non voler più cercare – oppure può indicare una ben precisa presa di posizione, specie di ordine intellettuale: la radicale messa in questione di ogni verità e quindi, conseguentemente, il ritenere vana e inutile ogni sua ricerca. Va in questa linea il dubbio scettico, che può avere caratteri di definitività. Il dubbio tuttavia non può essere confuso con l’ignoranza, che indica assenza di spirito di ricerca e di ogni cognizione per quanto incerta possa essere, né con il sospetto, che può avere solo un connotato negativo. La storia del pensiero indica nel dubbio un metodo di ricerca, frequentemente utilizzato, capace di sottoporre a continua verifica ogni tipo di determinazione (dubbio metodico). Il dubbio metodico ha carattere solo provvisorio, in quanto si pone come via verso il raggiungimento della certezza, e tuttavia può costituirsi come stimolo alla ricerca di altre soluzioni ai problemi, come sforzo di esercitare pienamente la fatica del pensare anche quando questo significa la coltivazione di pensieri difficili e coraggiosi. Il dubbio, infine, può porsi utilmente anche come punto di intersezione tra l’ambito strettamente filosofico e altri campi del sapere (p. es., tra filosofia e psicologia, da un lato, e filo3112

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sofia e diritto, dall’altro). L’esercizio del dubbio appare infatti fondamentale anche per la ricerca storica, come per la critica letteraria e per l’analisi politica, divenendo contestualmente un fruttuoso strumento d’insieme al di là della parcellizzazione dei saperi, indicando uno stile e un metodo per ogni intellettuale disponibile a una genuina ricerca del vero. Anche per gli scienziati, nel tempo del prepotente dominio della tecnologia, il dubbio può rappresentare un pungolo fecondo nel contesto di una ricerca di senso del lavoro scientifico che eviti la caduta in forme fideistiche incapaci di assumere criticamente i risultati del progresso scientifico e tecnologico. Allo stesso modo, si può affermare che il dubbio rappresenta un apporto caratterizzante anche all’interno di una ricerca di fede. Per quanto paradossale possa sembrare, non c’è vera fede, autentica ricerca religiosa che non faccia i conti con il dubbio nella polivalenza delle sue dimensioni. II. PERCORSO STORICO . – 1. La filosofia antica. Dall’ironia socratica al dubbio scettico. – Socrate (specie nella sua polemica con i sofisti) e gli scettici rappresentano nella filosofia antica le due espressioni più caratteristiche della polivalenza del termine «dubbio». L’ironia socratica, come «sapere di non sapere», esprime la funzione positiva del dubbio. Essa consiste nel rifiuto di ogni accettazione passiva e irriflessa di quanto appare ovvio, per procedere a un esame critico delle motivazioni che fondano il giudizio. In tal senso, il dubbio si configura quale percorso razionale per accedere alla verità e fondare così validamente la decisione pratica. Il dubbio esprime, pertanto, la fecondità e il pregevole valore di ogni autentica ricerca. «Socrate, – così dice Menone nel noto dialogo platonico rivolgendosi al filosofo – anche prima di incontrarmi con te sapevo che tu non fai altro che mettere in dubbio te e gli altri», e Socrate rispondendo si definisce «più di chiunque altro dubbioso» e poi continua: «Fo sì che anche gli altri siano dubbiosi» (Men., 79-80). Dunque nessuno, per Socrate, è escluso dal dubbio. E il dubbio, che ha carattere costruttivo, ha una funzione preliminare ed essenziale in ordine alla maieutica. Il dubbio è positiva provocazione per la conoscenza, in quanto mette in discussione ciò che si crede di conoscere e spinge a riconoscere ciò che non si conosce realmente. La via tracciata dal dubbio socratico nella ricerca della verità apre

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alla teoria platonica della conoscenza, in quanto implica che sia oltrepassato il livello dell’opinione generata dalla conoscenza sensibile fino ad arrivare, nella sospensione delle credenze consolidate, alla conoscenza di ciò che la ragione coglie con assoluta certezza. Nel «mito della caverna», descritto nella Repubblica, la conoscenza si perfeziona per gradi, a partire da quello più basso, rappresentato dalla conoscenza sensibile che genera l’opinione, fino ad arrivare, attraverso la conoscenza razionale e dimostrativa, alla visione intuitiva delle idee. Anche nella metodologia filosofica aristotelica il dubbio svolge un ruolo importante, poiché Aristotele, prima di procedere alla determinazione sistematica dei problemi, discute le difficoltà intrinseche e le soluzioni proposte dai precedenti filosofi. Nel libro III della Metafisica, Aristotele chiarisce il valore metodologico del dubbio: «Ora, se si intende dare una felice soluzione alle difficoltà, è utile farne immediatamente un’approfondita disamina, giacché lo stato di agiatezza in cui dopo verremmo a trovarci non è altro se non lo scioglimento delle precedenti aporie, ed è impossibile sciogliere quando non si conosca il nodo; la perplessità del pensiero, invece, sta a indicare proprio la presenza di un tal nodo nell’oggetto dell’indagine, giacché per tutto il tempo che la mente versa nell’aporia, è più o meno nelle condizioni di un uomo incatenato: in entrambi i casi infatti non si può fare un passo in avanti» (Metaph., III, B, I, 995 a). Perplessità e dubbio sono generati in molti casi dall’equivalenza dei ragionamenti contrari: «Quando infatti ragioniamo in entrambe le direzioni e tutti gli elementi del discorso ci sembrano svilupparsi con pari validità in ciascuno dei due sensi, siamo incerti quale delle due azioni intraprendere» (Top., VI, Z, 6, 145 b). Il dubbio che scaturisce da questa situazione può contribuire a porre metodicamente i problemi ed è, in quanto tale, avviamento alla scienza. Esso tuttavia non può estendersi ai primi principi che sono il fondamento stesso della ricerca e della scienza e che meritano la massima fiducia del sapiente. Con gli scettici il dubbio diviene sistematico e definitivo, perde il suo carattere metodico di via per la ricerca della verità e si afferma quale unica modalità possibile di approccio al reale sia a livello teoretico che pratico. Il dubbio scettico non riguarda l’effettualità dei fenomeni. Non a caso, Timone afferma:

Dubbio «Sempre vige il fenomeno, ovunque si manifesti» (Frammenti, 69). Il dubbio scettico è relativo alla possibilità di spiegarne la vera natura, alla possibilità di giungere alla realtà in sé delle cose e induce perciò la sospensione del giudizio (epoché), determinando l’impossibilità di qualsiasi asserzione. Dal punto di vista dello scettico, ogni tentativo di argomentazione è un inutile spreco di tempo. La sospensione del giudizio, piuttosto che portare alla disperazione e generare la paralisi dell’azione, conduce l’animo alla tranquillità. Secondo Sesto Empirico, chi dubita è imperturbabile, perché «non sa se una cosa sia buona o cattiva per natura, e perciò non desidera, né fugge, né persegue nulla con desiderio» (Ipotesi pirroniane, I, 10, 20). Già nell’antichità lo scetticismo presenta forme diverse. Secondo Popkin si può distinguere tra uno scetticismo assertivo (accademico) e uno scetticismo non assertivo (pirronismo). Per lo scetticismo assertivo, l’unica cosa saputa è non sapere nulla, ma poiché ciò implica pur sempre sapere qualcosa, lo scetticismo accademico «si confuta da sé», configurandosi come una forma di dogmatismo negativo. I pirroniani, invece, «dubitano di ogni proposizione e sospendono il giudizio su ogni proposizione, anche su quella che afferma che tutto è dubbio» (The History of Scepticism, tr. it. R. Rini, Storia dello scetticismo, Milano 2000, p. 64) ed è quest’atteggiamento che costituisce la vera contestazione di ogni dogmatismo. 2. La filosofia cristiana. Il valore del dubbio e la ricerca della verità. – La riflessione agostiniana sul dubbio si sviluppa nel confronto con lo scetticismo dell’Accademia e oltrepassa il piano teoretico per investire il rapporto dell’uomo con Dio. L’interesse fondamentale di Agostino è la conoscenza di Dio e dell’anima, come egli stesso dichiara all’inizio dei Soliloqui: «Io desidero conoscere Dio e l’anima. [...] Nient’altro, assolutamente» (Sol. 1, 2,7). Tutta la sua filosofia è un itinerario verso Dio che conduce a ritrovare la ricchezza dell’interiorità dell’uomo, compresa quale luogo privilegiato del rivelarsi di Dio. Il dipanarsi del suo pensiero può essere letto come una lunga «prova» dell’esistenza di Dio, un argomentare la verità che è Dio e la possibilità che l’uomo ha di riconoscerla e di aderire ad essa. Non siamo dinanzi a una dimostrazione che si sviluppa sul piano puramente gnoseologico di una considerazione delle pos3113

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Dubbio sibilità conoscitive della ragione, ma a una riflessione intensa e profonda sulla ricerca che l’uomo vive nella concretissima realtà della sua esistenza. Quanto Agostino afferma circa il dubbio si lega così strettamente a questa ricerca della verità, che è ricerca di ciò che solo consente la felicità dell’uomo. Il dubbio è momento essenziale nel riconoscimento della verità, passaggio che di per sé conduce all’affermazione della verità che è nel vivere stesso di ogni uomo. Nella sua giovinezza Agostino era stato vicino agli ambienti dello scetticismo accademico, ma se ne distacca nettamente nell’adesione al cristianesimo, per prenderne poi esplicitamente le distanze nell’opera Contra Academicos dove mostra come sia per noi possibile pervenire ad alcune indubitabili certezze e quale relazione sussista tra conoscenza della verità e sapienza, e tra sapienza e felicità. Posso cadere in errore qualora presupponga una costante corrispondenza tra ciò che mi appare e la realtà, ma non posso dubitare del fatto di avere delle impressioni. Neppure lo scettico può confutare chi dice: «So che questo oggetto mi sembra bianco, so che questo suono mi fa piacere, so che questo odore mi piace, so che questo mi sembra dolce, so che questo mi sembra freddo» (C. Acad., 3, 11, 26); il sentire è di per sé certo (io sono certo del mio sentire), l’impressione si dà con indubitabile certezza (una certezza che viene sicuramente prima e che va oltre la possibile corrispondenza alla realtà oggettiva). D’altra parte, chi dubita sa di dubitare, così che la sua stessa capacità di dubitare dimostra il fatto indubitabile che egli esiste: «Se tu non esistessi, non potresti ingannarti su nessuna cosa» (De lib. arb., 2, 3, 7). Si fallor sum: se mi inganno esisto, perché se non esistessi non potrei nemmeno dubitare e ingannarmi. Il dubbio conduce alla certezza dell’esistenza, fa risaltare una certezza di per sé evidente che è il fatto di esistere, cui si accompagna un’altra certezza altrettanto indubitabile: l’esser vivo di colui che esiste. Ciascuno di noi è certo di esistere e di esser vivo, e dunque tre sono le certezze che si danno nel fatto stesso della nostra esistenza: la certezza di esistere, di vivere e di conoscere. Più specificamente, poiché so di esistere, sono certo di conoscere, ma sono certo anche di volere, perché per il fatto stesso di dubitare non solo conosco, ma voglio conoscere. Esse, nosse e velle segnano il superamento del dubbio e tuttavia è 3114

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il dubbio stesso che ci conduce a tali certezze. Il dubbio ci porta alla verità perché ci introduce nella realtà dello spirito, a ciò che conosciamo cioè con assoluta certezza in quanto si lascia cogliere nell’esperienza interiore che non ha bisogno, di per sé, della mediazione dei sensi. Non c’è nulla di più presente allo spirito dello spirito stesso. «Noi esistiamo e sappiamo di esistere, amiamo il nostro essere e la nostra conoscenza; in queste tre cose che abbiamo elencato non temiamo di ingannarci, dal momento che non le raggiungiamo per mezzo di sensi corporei, come avviene per gli oggetti esterni» (De Civ. D., 11, 26). «Gli uomini hanno dubitato se attribuire la facoltà di vivere, ricordare, comprendere, volere, pensare, sapere, giudicare all’aria o al fuoco o al cervello o al sangue o agli atomi o a un quinto ignoto elemento corporeo al di fuori dei quattro elementi conosciuti, oppure se tutte quelle operazioni le possa compiere la struttura e l’armonia del nostro corpo; chi si è sforzato di ricordare, di sostenere un’opinione, chi un’altra. Di vivere tuttavia, di ricordare, di comprendere, di volere, di pensare, di sapere e giudicare, chi potrebbe dubitare? Poiché, anche se dubita, vive; se dubita, ricorda donde provenga il suo dubbio; se dubita, comprende di dubitare; se dubita, vuole arrivare alla certezza; se dubita, pensa; se dubita, sa di non sapere, se dubita, giudica che non deve dare il suo consenso alla leggera. Perciò chiunque dubita di altre cose, non deve dubitare di tutte queste, perché, se non esistessero, non potrebbe dubitare di nessuna cosa. [...] Lo spirito si conosce anche quando si cerca» (De Trin., 10, 14.16). La verità si dà dunque nell’interiorità di ogni uomo. Tuttavia l’uomo non è la verità. Distinto dalla verità, l’uomo è colui che la ricerca e la riceve come dono. La verità non può essere che Dio. In quanto presuppone il rapporto dell’uomo con la verità e aiuta a cogliere tale rapporto come assolutamente certo, il dubbio conduce perciò esso stesso a Dio. Minore rilievo è attribuito al dubbio dal pensiero di Tommaso d’Aquino, che riprende i termini della riflessione aristotelica. Tommaso non ignora il fondamento oggettivo del dubbio e tuttavia ne sottolinea soprattutto il carattere soggettivo, considerandolo quale ignoranza o deficienza dell’informazione. Il dubbio può agire come impedimento e vincolo del pensiero e va adeguatamente discusso, in modo che ne sia possibile la soluzione. Per Tom-

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maso, però, il dubbio non può mai intendersi come universale sospensione dell’assenso, dal momento che i primi principi sono da ritenere assolutamente certi. È comunque compito della metafisica discutere il dubbio concernente la verità in se stessa. 3. Da Cartesio a Husserl. Il dubbio come strumento gnoseologico. – Con la modernità il dubbio si caratterizza nettamente in senso gnoseologico divenendo un fondamentale strumento di ricerca e di conoscenza, un metodo per affermare o rafforzare la ricerca dell’indubitabile. Ciò appare particolarmente evidente in Cartesio, che per primo fa uso del dubbio quale elemento corrosivo di certezze consolidate e via per la definizione della conoscenza universalmente valida. Il dubbio cartesiano è volto alla ricerca dell’indubitabile, di ciò che è indubitabile sotto il profilo psicologico, logico e gnoseologico. Il dubbio non è perciò fine a se stesso, ma è lo strumento di un metodo rigoroso nella ricerca della verità, una ricerca che non procede per semplici approssimazioni o per un puro calcolo di probabilità. Il dubbio è prima di tutto, in Cartesio, dubbio metodico, critica preliminare a ogni contenuto che non sia adeguatamente fondato su un principio di certezza. «L’utilità di un dubbio così generale – scrive Cartesio – benché non appaia manifesta a prima vista, tuttavia è grandissima in questo, che quel dubbio ci libera da ogni sorta di pregiudizi, e ci prepara un cammino facilissimo per assuefare il nostro spirito a distaccarsi dai sensi, ed infine grazie ad esso non potremo più avere alcun dubbio su quel che scopriremo in appresso esser vero» (Meditazioni metafisiche, tr. it. di A. Tilgher, rivista da F. Adorno, in Discorso sul metodo. Meditazioni filosofiche, Roma-Bari 1978, p. 67). Da metodico il dubbio si fa poi iperbolico, spingendo fino all’assurdo le sue istanze e introducendo l’ipotesi di un genio maligno che ingannerebbe l’uomo facendogli apparire come reali cose inesistenti. Ma è proprio a partire da questa ipotesi, in cui tutto è sottoposto al dubbio, che il filosofo perviene a un fondamento di incrollabile certezza e si trova così in grado di costruire la nuova scienza. Anche se infatti non esistesse in realtà un mondo fisico, anche se vivessimo in un mondo di sogno, una cosa sarebbe tuttavia certa: che benché io possa dubitare di tutto, per dubitare devo esistere. «Lo spirito che, usando della sua propria libertà, suppone che tutte le cose, della cui esi-

Dubbio stenza è possibile anche il minimo dubbio, riconosce essere assolutamente impossibile che, nel frattempo, non esista egli stesso» (ibid.). Questa è la prima certezza assoluta: «Io penso, dunque sono». Ed è fondamentale che questa certezza, posta da Cartesio come verità prima, sia conquistata a partire dal dubbio. Il «dunque» non è la conclusione di un sillogismo, esprime piuttosto un’intuizione di assoluta e immediata evidenza: io esisto pensando. Il criterio del vero è l’indubitabilità. Le prime verità non sono quelle che fondano logicamente il percorso argomentativo (i primi principi) né quelle che fondano ontologicamente il sistema (Dio): la prima verità è l’esistenza dell’io pensante ed è all’interno del pensiero che possono essere riguadagnate tutte le altre verità, compresa l’esistenza stessa di Dio. Cartesio costruisce la sua metafisica facendo perno su quello che si può conoscere con assoluta certezza a partire dal soggetto finito. Assolutamente vero è ciò che non è passibile di alcun dubbio. Non si può accettare come vero se non ciò che si presenta come assolutamente certo, indubitabile e si deve rifiutare invece qualsiasi opinione che possa essere confutata per un qualunque motivo. Il dubbio discrimina così tra il vero e il falso e orienta la ricerca non verso una conoscenza semplicemente verosimile o probabile, ma verso la vera scienza che riconosce come caratteri essenziali della verità la chiarezza e la distinzione. Sbaglierebbe pertanto chi ritenesse il dubbio una fase soggettiva della ricerca. Il dubbio cartesiano esprime, infatti, la fase critica di un sapere che riconosce l’insufficienza dei suoi fondamenti. Cartesio stesso scrive: «Già da qualche tempo mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo accolto una quantità di false opinioni, onde ciò che poi ho fondato su principi così mal sicuri, non poteva essere che assai dubbio e incerto, e dovevo necessariamente disfarmi di tutte le opinioni alle quali avevo creduto se volevo stabilire qualcosa di fermo e durevole nelle scienze» (ibid.). E nella Seconda Meditazione annota: «La meditazione che feci ieri m’ha riempito lo spirito di tanti dubbi che non posso più dimenticarli [...]. Nondimeno mi sforzerò e seguirò a capo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontanandomi da tutto quello in cui potrò immaginare il minimo dubbio proprio come farei se lo riconoscessi assolutamente falso; e continuerò sempre su questa 3115

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Dubbio strada finché non incontrerò qualcosa di certo» (ibid.). Il dubbio cartesiano non lascia dunque alcun margine allo scetticismo poiché intende dimostrare che la certezza esiste. In tal senso il dubbio delinea il percorso che è proprio della scienza. «Come Cartesio – afferma Gadamer – nella sua famosa meditazione sul dubbio, mette in opera un dubbio iperbolico, artificiale come un esperimento, che conduce poi al fundamentum inconcussum dell’autocoscienza, così il metodo scientifico insegna a dubitare radicalmente di tutto ciò di cui si possa dubitare, per giungere in tal modo alla sicurezza dei suoi risultati» (Wahrheit und Methode, Tübingen 1960, tr. it di G. Vattimo, Verità e metodo, Milano 1983, p. 283). Il dubbio non definisce una condizione esistenziale, ma apre a un processo di accertamento teso a stabilire criteri di rigore. Il dubbio radicale conduce alla certezza della scienza. Ciò nonostante non è mancato chi, come Rorty, ha accusato Cartesio di fare il gioco degli scettici, in quanto la distinzione del dualismo cartesiano fra l’«interno mentale» quale regno dell’indubitabile e l’«esterno corporeo» (cfr. Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton 1979, tr. it. a cura di D. Marconi e G. Vattimo, La filosofia e lo specchio della natura, Milano 1979), che è il regno del sempre dubitabile, produce la problematizzazione dell’esistenza dell’esterno, nel momento stesso in cui afferma la certezza razionale delle nostre rappresentazioni. Il progetto cartesiano mira in realtà a mettere in discussione ogni scienza che sia costruita sulla generalizzazione dei dati sensibili per procedere alla matematizzazione del mondo. Se infatti si può senz’altro dubitare dell’affidabilità dei sensi, le scienze matematiche, che hanno per oggetto le nature semplici, si sottraggono all’incertezza e consentono di ricavare da esse le regole fondamentali del metodo. L’indubitabilità delle scienze matematiche è posta così alla base del progetto di fondazione della scienza cartesiana. Partito dal dubbio radicale, Cartesio giunge così alla convinzione che ci sono molte cose che possiamo conoscere con certezza assoluta. «È certo che io esisto; che Dio esiste e non è un genio maligno; che tutte le idee chiare e distinte sono vere; che i teoremi della matematica, essendo chiari e distinti, sono veri, e che infine esiste un mondo esterno alle nostre idee. Non possiamo però sapere se appartengono a tali oggetti i colori, i suoni, gli odori, i 3116

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sapori e le sensazioni tattili che abbiamo, dal momento che nessuna di queste idee è sia chiara sia distinta. La nostra conoscenza è perciò meno estesa di quanto immagini la persona comune, ma è più estesa di quanto avremmo potuto credere quando abbiamo preso l’avvio con il metodo del dubbio sistematico» (R.H. Popkin - A. Stroll, Skeptical Philosophy for Everyone, 2002, tr. it. di L. Sosio, Il dovere del dubbio, Milano 2004, p. 62). Proprio per questa sua capacità di indicare la necessità di un’adeguata interrogazione critica per la conoscenza, il dubbio cartesiano assumerà carattere paradigmatico nella vicenda filosofica della modernità, influenzerà lo sviluppo successivo della filosofia moderna, anche al di là degli aspetti metodici che lo hanno contraddistinto. Il dubbio cartesiano agisce nell’empirismo di Locke e nella sua ricerca circa la certezza e l’estensione della conoscenza, agisce nella visione scettica di Hume, nonostante questi esplicitamente lo contesti affermando che «il dubbio cartesiano, anche se si potesse conseguire da parte di qualcuno (il che evidentemente non è) sarebbe assolutamente irrimediabile» (Enquiry on Human Understanding, XII, I, tr.it. di M. Dal Pra, Ricerca sull’intelletto umano, in Opere filosofiche, RomaBari 1992, p.160). Ma il dubbio cartesiano ha avuto rilevante significato anche per la critica della ragione di Kant, per la sua ricerca di una conoscenza universale e necessaria fondata sul soggetto conoscente. Il dubbio cartesiano è inoltre presente nella stessa filosofia di Hegel, che considerò la necessità che «alla scienza debba preceder il dubitar di tutto, cioè la mancanza di presupposti in tutto» (Enciclopedia delle scienze filosofiche, § 78). Tuttavia nella visione hegeliana il negativo è risolto nel positivo e il dubbio (Zweifel), collegato alla disperazione (Verzweiflung) – il dubitar di tutto è un disperar di tutto –, è riassorbito nel cammino della ragione hegeliana. Il rapporto tra dubbio e disperazione, affermato da Hegel, è ripreso da Kierkegaard che, nel porre in connessione i due termini, distingue nettamente la disperazione dalla pratica intellettuale del dubbio. In Aut-Aut Kierkegaard scrive: «Si è parlato più che a sufficienza del fatto che tutta la speculazione comincia col dubbio; d’altra parte io, quando mi son dovuto occupare di queste meditazioni ho inutilmente cercato degli schiarimenti per sapere in che cosa il dubbio sia diverso dalla disperazione [...]. Il dubbio è la di-

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sperazione del pensiero, la disperazione è il dubbio della personalità [...]. Il dubbio è il movimento interno del pensiero stesso e nel mio dubbio mi comporto più impersonalmente che posso. Supposto che il pensiero, quando il dubbio si completa, trovi l’assoluto e si riposi in lui, esso riposa in lui non in seguito a una scelta ma in seguito alla stessa necessità per cui dubitava, poiché il dubbio stesso è una determinazione di necessità e così pure il riposo [...]. Il dubbio e la disperazione stanno dunque di casa in due sfere completamente diverse, sono corde assai diverse dell’animo che vengono messe in movimento. Ma questa conclusione non mi soddisfa affatto, poiché il dubbio e la disperazione vengono in questo modo coordinati e questo non deve avvenire. La disperazione è un’espressione molto più profonda e completa. Il suo movimento è molto più ampio di quello del dubbio. La disperazione è l’espressione di tutta la personalità, il dubbio solo del pensiero. La presunta obiettività del dubbio, che lo rende tanto aristocratico, è proprio un’espressione della sua imperfezione. Il dubbio sta perciò nella differenza, la disperazione nell’assoluto. Per dubitare occorre del talento, ma per disperare non ne occorre affatto» (S. Kierkegaard, Aut-Aut, tr. it. di K.M. Guldbrandsen e R. Cantoni, Milano 1975, pp. 8889). Strettamente legato all’ambito dell’azione, piuttosto che dimensione del pensiero, appare invece il dubbio nella prospettiva di Peirce. Il dubbio è la sospensione dell’azione quando le nostre credenze sono contraddette dall’esperienza ed è condizione che provoca la verifica e l’eventuale cambiamento dei nostri comportamenti e delle nostre abitudini. Il dubbio è lo stato di inquietudine con il quale lottiamo per pervenire a una credenza che possa regolare l’agire. Anche per W. James «il dubbio di per sé è una decisione della massima portata pratica» (The Will to Believe and Other Essays in Popular Philosophy, New York - London 1904, tr. it. di P. Bairati, Volontà di credere, Milano 1984, p. 132). L’attitudine a credere presenta caratteristiche originarie e il dubbio assoluto non è possibile non solo per la natura della mente umana, ma per le esigenze della vita. Sui risvolti pragmatici e contestuali del dubbio insiste anche J. Dewey. «Noi siamo dubbiosi perché la situazione è nella sua essenza dubbiosa» (Logic, the Theory of Inquire, tr. it. a cura di A. Visalberghi,

Dubbio Logica. Teoria dell’indagine, Torino 1974, p. 137) e la ricerca, che è provocata dalla situazione problematica, conduce a sempre nuovi assetti nella relazione dell’uomo con l’ambiente. Una sistematica e chiara ripresa del dubbio cartesiano e delle questioni ad esso inerenti si ha con Edmund Husserl. La fenomenologia husserliana che mira all’intuizione diretta delle «cose stesse» ha nell’epoché circa ogni teoria o giudizio preconcetto un momento essenziale dell’articolarsi del suo metodo. Residuo indubitabile dell’epoché è la sfera del cogito, poiché di tutto si può dubitare per la fenomenologia, tranne che delle evidenze caratterizzanti gli atti della coscienza. L’epoché implica la sospensione dell’atteggiamento naturale, delle convinzioni derivanti dal senso comune per procedere a una fondazione rigorosa del sapere che riconduca le nostre certezze a un’evidenza razionale immediata. In tale direzione l’epoché husserliana ripropone la funzione metodica propria del dubbio cartesiano che esprime di per sé la criticità della ricerca filosofica. La fenomenologia non deve accettare alcunché come scontato, non deve «lasciar valere alcuna datità». Ma se ogni cosa può essere posta tra parentesi, ciò di cui non si può dubitare è il soggetto dubitante stesso: «È indubbiamente certo che io dubito». Allo stesso modo è certo che le mie cogitationes non sono investite dal dubbio: non posso dubitare né di me come soggetto dubitante né delle percezioni che ricevo: «È assolutamente chiaro che io percepisco questo o quest’altro». Così Husserl affermava già nel 1907 (Die Idee der Phänomenologie, Den Haag 1950, tr. it. di A. Vasa, L’idea della fenomenologia, Milano 1981, pp. 65-66) nella stessa direzione in cui si porrà con le successive Meditazioni cartesiane. All’interno di questa visione generale si situano le considerazioni più specifiche sull’importanza del dubbio in ordine al giudizio che Husserl propone in Ideen I e nelle Lezioni sulla Sintesi passiva. Nel par. 103 di Ideen I il dubbio è descritto come uno dei modi di darsi della cosa stessa. «Il modo della credenza “certa” – scrive Husserl – può passare in quello della semplice pretensione o supposizione, o della domanda o del dubbio; e correlativamente ciò-che-appare (pur essendo caratterizzato, rispetto alla prima dimensione di caratterizzazioni come originario, riproduttivo e simili) assume la modalità 3117

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Dubbio di essere del possibile, del verisimile, del discutibile, del dubbioso» (Ideen zu einer reiner Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Den Haag 1950, tr. it. di E. Filippini, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro I, Torino 1976, p. 233). Nelle Lezioni sulla Sintesi passiva Husserl considera il dubbio come una modalità del giudicare e ne descrive il configurarsi come luogo di intersezione tra la dimensione teoretica e quella «affettiva» della conoscenza, emblematica attestazione del radicarsi del sapere nell’antepredicativo del mondo della vita. Il dubbio è quella modalità intenzionale che fa esperienza della complessità delle cose, dell’ambiguità del loro apparire, del loro darsi alla coscienza relativamente (perché altre rispetto alla coscienza), un vissuto reso possibile proprio dalla recettività originaria della coscienza, quindi dal suo carattere sensibile-emotivo. Io sono colpito da possibilità problematiche tra loro inconciliabili (dubbio passivo) e oscillo fra di esse in modo ondivago senza sapermi decidere per nessuna (dubbio attivo): «La tensione passiva e disgiuntiva delle possibilità problematiche (il dubbio in senso passivo) motiva un dubitare attivo, un atteggiamento che pone l’io in una scissione d’atto (Aktspaltung)» (Analysen zur passiven Synthesis, Dodrecht 1966, tr. it. di V. Costa, Lezioni sulla sintesi passiva, Milano 1993, p. 99). La scissione che immobilizza l’io, tenendolo nell’incertezza, genera il domandare, come esplicita tendenza mirante a superare l’impasse, ovvero il disagio in cui versa l’io. Il dubbio, quindi, porta con sé lo strumento che permette di affrontare positivamente la problematicità, cercando di diradarla. Quel che è interessante sta nel fatto che il dubbio non è una semplice indecisione teoretica, una neutra incertezza, bensì un disagio che nasce a livello sensibile: l’incertezza teoretica affonda le sue radici nella sensibilità originaria, nel momento cioè in cui si impongono al soggetto i dati percettivi inconciliabili, ovvero possibilità di esperienze incompossibili. L’esperienza originaria della problematicità delle cose, della loro ambiguità, l’incapacità di ricondurle immediatamente a una struttura e a un ordine ben precisi e riconoscibili, genera nell’io una sorta di sgomento e insieme un disagio, un’insofferenza. La coscienza è attraversata da tendenze inconciliabili, ognuna delle quali troppo debole per potersi imporre sulle 3118

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altre. Essa «patisce» il carattere disgiuntivo di tali possibilità, subisce il travaglio della loro reciproca esclusività o poca chiarezza. L’impulso a superare tale disagio è alla base del domandare che si assume il compito di vagliare le possibilità e di prendere una decisione su di esse. La situazione spiacevole del dubbio motiva in altri termini una volontà positiva tendente al superamento del dubbio verso la certezza. La domanda è definita da Husserl come tendenza pratica, tendenza «a più livelli»: essa incorpora in sé la situazione di sgomento propria del dubbio e tende al suo superamento, pone cioè come obiettivo da raggiungere la certezza del giudizio. «La vita giudicativa, anche quella che giudica razionalmente, è un terreno per un desiderare peculiare, per un tendere, volere ed agire i cui scopi sono appunto giudizi» (ibid., p.102). Il dubbio teoretico trova pertanto la sua genesi in una dimensione originariamente sensibile/emotiva: il dubbio è sì una modalità del giudicare, ma il giudicare, come mostra l’analisi genetica, non è un atto teoretico ab origine, poiché affonda le proprie radici nell’esperienza preteoretica (quella che Husserl chiamerà poi Lebenswelt). Come atto teoretico, il giudicare è un «composto» intenzionale che si costituisce di vari «strati»: al fondo di essi vi è quell’intenzionalità passiva sensibile che è alla base di ogni possibile esperienza nel mondo. 4. Il dubbio antropologico e morale. – Al di là della figura caratterizzante di Husserl, che propone la riflessione teoreticamente più rilevante, e di pochi altri tra cui il neoscolastico Mercier che, in termini classici, ritiene il dubbio momento decisivo per la filosofia, si può sicuramente affermare che la questione del dubbio, nella filosofia del Novecento, subisce decisive modificazioni. Il dubbio, per così dire, non fa più notizia, nel senso che la filosofia convive con il dubbio perché in tutti i campi della vita privata e pubblica si registra uno stato di smarrimento e una mancanza di fondamenti che significa anche semplicemente assenza di punti di riferimento condivisi e che fa da sfondo all’incertezza nelle decisioni, al conflitto dei valori, alla fatica dell’agire. Ciò vale, pur con le dovute differenze, anche in campo più strettamente scientifico per il prevalere della nozione di probabilità e/o di relatività e di visioni indeterministiche. «Insomma il dubbio gnoseologico o epistemico – scrive La Vergata – ha perso drammaticità: è diventato un vicino un po’

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scomodo con cui si convive, tutto sommato, meno difficilmente di quanto si temesse. Il dubbio metafisico, quello, non solo non angoscia più nessuno, ma ha addirittura perso popolarità: cosa oggi peggiore. La forza smarrita per strada da queste due forme di dubbio si è ritirata nell’ultima roccaforte: il dubbio morale, inteso in modo da comprendere non solo l’incertezza sulle scelte etiche, ma anche la confusione sui valori [...]. Esso è alimentato dall’esperienza moderna della relatività e delle contingenza delle forme sociali, dei quadri mentali e dei valori. È soprattutto nel campo morale, politico e sociale che sperimentiamo la dispersione nel molteplice, lo spaesamento, l’incertezza dell’identità, la frammentazione. Queste sono le forme contemporanee del dubbio antropologico del Duemila» (Dubbio antropologico e attestazione morale, in L’altro, l’estraneo, la persona, a cura di A. Rigobello, Roma 2000, pp. 101-102), di quel dubbio antropologico di cui, alla fine degli anni cinquanta, Lévi Strauss scriveva: «La ricerca sul terreno, da cui ha inizio ogni carriera etnologica, è madre e matrice del dubbio, atteggiamento filosofico per eccellenza. Questo “dubbio antropologico” non consiste solo nel sapere che non si sa nulla, ma nell’esporre risolutamente quel che si credeva di sapere, e persino la propria ignoranza, agli insulti e alle smentite inflitte, a idee e abitudini carissime, da idee e abitudini che possono contraddirle al più alto grado» (Elogio dell’antropologia, in Razza e storia e altri studi di antropologia, a cura di P. Caruso, Torino 1967, p. 75), una «profanazione» di cui l’antropologo si rende complice, «quando assume senza restrizioni mentali né secondi fini, le forme di una società straniera» (ibid., p. 63), una esposizione che è totale. Ora il dubbio in senso antropologico può essere vissuto in senso esclusivamente traumatico, come un totale essere messi in questione, oppure in senso maieutico. Come afferma Rigobello: «Abbisogniamo di una scossa maieutica, e anche il trauma della profanazione ha una sua efficacia morale, ma non è dalla sola iconoclastia che sorge una fede più pura, e l’iconoclastia stessa diventa una posa se eretta a sistema, ossia a costume. Cerchiamo invece di cogliere, nell’esercizio terapeutico di un “dubbio antropologico”, l’impostazione rigorosa di un procedimento che conduca all’arresto del dubbio il quale, anche qui, ha funzione metodica» (Legge morale e mondo della vita, Roma 1968,

Dubislaw pp. 170-171) . È questo, senz’altro, il nucleo più fecondo del dibattito attuale sul dubbio. La possibile funzione metodica, sia pure in senso nuovo, del dubbio antropologico (e dell’esplorazione consapevole delle tante filosofie dell’«assurdo» da Rensi a Michelstaedter, per fare solo qualche esempio) può condurre alla responsabilità etica e al rinnovato esercizio di una ragione che prova ad applicarsi ai diversi campi della vita in modo concreto e rigoroso insieme. F. Miano BIBL : PLATONE, Menone, tr. it. di F. Adorno, in Opere Complete, vol. 5, Roma-Bari 1982, pp. 249-296; SESTO EMPIRICO, Ipotesi pirroniane; AGOSTINO, Contra Academicos; E. HUSSERL, Cartesianische Meditationen und Pariser Vörtrage, The Hague 1950, tr. it. di F.Costa, Meditazioni cartesiane e discorsi parigini, Milano 1966; E. HUSSERL, Analysen zur passiven Synthesis, Dodrecht 1966, tr. it. di V. Costa, Lezioni sulla sintesi passiva, Milano 1993; C. LEVI-STRAUSS, Elogio dell’antropologia, in Razza e storia e altri studi di antropologia, a cura di P. Caruso, Torino 1967, pp 47-82; A. RIGOBELLO, Legge morale e mondo della vita, Roma 1968; E. M. CIORAN, Le mauvaise démiurge, Paris 1969, tr. it. di D. Grange Fiori, Il funesto demiurgo, Milano 1986; S. KIERKEGAARD, Enten-Eller, tr. it. di K. M. Guldbrandsen e R. Cantoni, Milano 1975; CARTESIO, Meditazioni metafisiche, tr. it. di A. Tilgher, rivista da F. Adorno, in Discorso sul metodo. Meditazioni filosofiche, Roma-Bari 1978; A. LA VERGATA, Dubbio antropologico e attestazione morale, in L’altro, l’estraneo, la persona, a cura di A. Rigobello, Roma 2000, pp. 63-104; H. POPKIN, The History of Scepticism, tr. it. R. Rini, Storia dello scetticismo, Milano 2000; R. H. POPKIN - A. STROLL, Skeptical Philosophy for Everyone, 2002, tr. it. di L. Sosio, Il dovere del dubbio, Milano 2004. ➨ CERTEZZA; CONOSCENZA; EPOCHÉ; OPINIONE; PIRRONISMO; SCETTICISMO; VERITÀ; .

DUBISLAW, WALTER ERNST OTTO. – Filosofo Dubislaw della scienza, n. a Berlino il 20 sett. 1895, m. a Praga il 17 sett. 1943. Ottenuta l’abilitazione alla Technische Hochschule di Berlino, vi fu professore dal 1931. Dubislaw fu membro della «Società berlinese per la filosofia empirica» che, unitamente al Circolo di Vienna, intese la filosofia come analisi della struttura logica della ricerca scientifica, polemizzando contro ogni interpretazione metafisica di essa. I suoi studi sono rivolti essenzialmente ai fondamenti della matematica e al carattere della logica formale: Über die sogenannten analytischen und synthetischen Urteile, Berlin 1926; Die Friessche Lehre von der Be3119

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Duboc

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gründung, ivi 1926; Die Definition, 1926; Die Philosophie der Mathematik in der Gegenwart, Berlin 1932; Naturphilosophie, ivi 1933; Zur Unbegründbarkeit der Forderungssätze, in «Theoria», 1937, pp. 330-342. Collaborò anche alle riviste «Annalen der Philosophie» ed «Erkenntnis», l’organo ufficiale del neopositivismo. Dubislaw critica l’intuizionismo matematico sia nella forma kantiana sia in quelle contemporanee e sostiene una concezione formalistica della logica e della matematica di tipo hilbertiano. Il calcolo logico-matematico, nell’applicazione alle scienze della natura, determina unicamente in modo chiaro le asserzioni già implicite nell’insieme di proposizioni empiriche accettate. Dubislaw non aderisce tuttavia a un empirismo atomistico: non si può parlare di un «dato» indipendentemente da ogni teoria; egli si accosta, quindi, alla teoria della verità come coerenza, sostenuta nel neopositivismo da Neurath e Carnap, per quanto non prenda posizione rispetto al fisicalismo. L’inferenza induttiva non è per lui giustificabile razionalmente, ma si risolve in una decisione ad accettare una teoria. F. Barone BIBL.: K. GRELLING, Bemerkungen zu Dubislaws «Die Definition», in «Erkenntnis», 1933, pp. 189-200; R. LÖHRICH, Towards a Convention on Engaging Postulates, in «Theoria», 1938, pp. 181-182; A. MENNE, s. v., in «Neue deutsche Biographie», IV, Berlin 1959, p. 145.

DUBOC, JULIUS (pseudonimo: JULIUS LANZ). – Duboc Evoluzionista tedesco, n. ad Amburgo nel 1829, m. a Dresda nel 1903. Le principali opere in cui si trova esposto iI suo monismo evoluzionistico e ateo sono le seguenti: Leben ohne Gott. Untersuchungen über den ethischen Gehalt des Atheismus, Hannover 1875 (18842); Grundriss einer einheitlichen Trieblehre vom Standpunkt des Determinismus, Leipzig 1892; Die Lust als sozial-ethisches Entwicklungsprinzip, ivi 1900. Red.

DU BOIS, FRANÇOIS (Sylvius). – Teologo n. a Du Bois Braine-le-Comte in Belgio nel 1581, m. a Douai il 27 febbr. 1649. Addottoratosi nel 1610, nel 1613 successe a Estio sulla cattedra di teologia a Douai. Tra i primi avversari del giansenismo, oltre a commentari biblici pubblicò: S. Thomae Aquinatis Opuscula, Douaci 1608-09, 2 voll.; Explicatio doctrinae sancti Thomae [...] De motione primi 3120

motoris, ivi 1609; Apologetica pro Sancto Thoma Aquinate [...] oratio, ivi 1624; Litterae [...] ad Leopoldum Belgii gubernatorem, ivi 1648 (contro i giansenisti); Commentaria in Summam theologicam sancti Thomae, ivi 1620-35; 1622-482. N. Beghin BIBL.: le opere di Du Bois furono più volte riedite; NORBERTO D’ELBECQUE ne curò un’edizione completa (Antwerpen 1682-98; ristampa Paris 1714 e Venezia 1726). Su Du Bois: J.-N. PAQUOT, Mémoires pour servir à l’histoire littéraire des dix-sept Provinces Unies, Louvain 1763, vol. II, pp. 285-298; É. AMANN, s. v. Sylvius, in Dictionnaire de Théologie catholique, vol. XIV, Paris 1941, coll. 2923-2925.

DUBOIS, PIERRE. – Scrittore politico, n. a Dubois Coutances, in Normandia, tra il 1250 e il 1255, m. intorno al 1320. Discepolo a Parigi di Tommaso d’Aquino e di Sigieri di Brabante, «avvocato del re» sotto Filippo IV il Bello, Dubois visse in un contesto di vicende politiche che avrebbero portato all’aspro conflitto tra il re di Francia e papa Bonifacio VIII. Nei suoi scritti mostra una solida conoscenza del codice di diritto romano, per cui si suppone che egli abbia compiuto anche studi giuridici, che gli consentirono di svolgere la professione di avvocato. La complessa personalità di Dubois è messa in luce dalle tesi centrali dei suoi due trattati più organici (le altre sette opere pervenuteci rivelano un carattere occasionale): nel Summaria brevis et compendiosa doctrina felicis expedicionis et abreviationis guerrarum ac litium regni Francorum (1300; ed. a cura di H. Kämpf, «Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters und der Renaissance», vol. IV, Leipzig-Berlin 1936), egli propone una nuova tattica di guerra e progetta uno sveltimento della procedura giudiziaria, tale da porre rimedio all’ingerenza dei tribunali ecclesiastici nel campo della giurisdizione civile; la sua opera più significativa, il De recuperatione Terre Sancte (13051307; ed. a cura di Ch.V. Langlois, Paris 1891) dedicato a Edoardo I d’Inghilterra nella prospettiva di una più generale diffusione in Europa, ma in realtà destinato a Filippo il Bello, ha come movente politico la prospettazione di una crociata destinata a un sicuro successo dei cristiani nella liberazione dei luoghi santi dagli infedeli, che, dopo la riconquista di San Giovanni d’Acri nel 1291, erano tornati padroni

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di tutta la Terra Santa. La preparazione e lo svolgimento dell’impresa sono progettati in modo del tutto nuovo e originale e si sviluppano in una serie di riforme che tendono a riorganizzare l’assetto politico dell’Europa, la ratio studiorum, la politica degli stati e l’istituzione ecclesiastica, nella quale il primato del papa rimane indiscusso benché si affermi il principio della completa gestione da parte di laici dei beni ecclesiastici patrimoniali e del divieto del possesso di beni produttivi. Si può affermare che in Dubois è rispecchiato il permanere dell’universalismo spirituale, mentre va attenuandosi l’idea imperiale di fronte alla presa di coscienza dell’immensità dell’Oriente. Si manifesta la consapevolezza che l’universalità cattolica è realizzabile soltanto nel quadro di uno sforzo volontario comune, attraverso il rinnovamento culturale (lo studio delle lingue orientali e il conseguente confronto comparato tra culture cristiana, ebraica e islamica). Si possono rintracciare in Dubois chiari riferimenti a pensatori del XIII secolo; tra i contemporanei che sembrano avere direttamente influito sul suo pensiero figurano Sigieri di Brabante, per l’autonomia della critica filosofica; Ruggero Bacone, il cui influsso fu determinante soprattutto nell’affermazione dell’altissimo valore metodologico dell’esperienza, e dell’importanza dello studio delle lingue; infine Raimondo Lullo, per il forte ottimismo circa la buona riuscita delle riforme politico-ecclesiastiche e circa il loro potenziale apologetico e missionario nella diffusione del cristianesimo. A. Ghisalberti BIBL.: M. DELLE PIANE, Vecchio e nuovo nelle idee politiche di Pietro Dubois, Firenze 1959; L. GATTO, I problemi della guerra e della pace nel pensiero politico di Pierre Dubois, Roma 1959; A. DIOTTI (a cura di), «De recuperatione Terrae Sanctae»: dalla «Respublica Christiana» ai primi nazionalismi e alla politica antimediterranea, Firenze 1977; A. GHISALBERTI, Ideali etici e pensiero politico nel «De recuperatione Terre Sancte» (1306) di Pierre Dubois, in «Veritas», 159 (1995), pp. 643-658; A. GHISALBERTI, La filosofia medievale, Firenze 2002, pp. 237-247.

DU BOIS-REYMOND, EMIL. – ElettrofisioDu Bois-Reymond logo, n. a Berlino il 7 nov. 1818, m. ivi il 26 dic. 1896. Incerto sull’indirizzo di studi da intraprendere, nel 1837 si iscrisse all’università di Berlino seguendo i corsi di teologia, filosofia e psicologia. All’università di Bonn studiò logi-

Du Bois-Reymond ca, metafisica e antropologia. L’incontro con il grande fisiologo J. Miller, alla cui scuola si formarono scienziati quali Schwann, Virchow e Helmholtz, lo convinse a iscriversi alla facoltà di medicina. Ricevuto da Müller l’Essai sur les phénomènes électriques des animaux di C. Matteucci, con l’invito a verificare l’esistenza di una corrente elettrica associata all’attività muscolare, nel 1843 si laureò in medicina con una tesi sull’elettricità animale. Dai suoi raffinati metodi elettrofisiologici di misurazione di deboli correnti bioelettriche nacquero le monumentali Untersuchungen úber die thierische Elektricität (1848). Nel 1851 fu eletto membro dell’Accademia Prussiana delle Scienze. Nominato professore di fisiologia (1858), fu per due volte rettore dell’università di Berlino, nel 1869-1870 e nel 1882-1883. Segretario perpetuo dell’Accademia delle Scienze di Berlino, le sue pubblicazioni posteriori al 1877 raccolgono i numerosi discorsi pubblici tenuti all’Accademia. Le sue commemorazioni di Müller (1858), Helmholtz (1859), Voltaire (1868), LaMettrie (1875) e Maupertuis (1892) rivestono un grande interesse storico. In netta contrapposizione alle diffuse concezioni vitalistiche del tempo, du Bois-Reymond rifiuta qualsiasi ricorso a principi immateriali o forze vitali nella spiegazione dei fenomeni biologici, perché ritiene che l’azione di tali forze immateriali sia del tutto incompatibili con il principio di conservazione dell’energia. Suscitarono vivaci dibattiti in tutto il mondo tedesco e all’estero le sue due conferenze: Über die Grenzen des Naturerkennens (Leipzig 1872) e Die sieben Welträthsel (ivi, 1880, tr. it. di entrambi, Milano 1973). I sette enigmi del mondo individuati da du Bois-Reymond sono: l’essenza della materia e della forza; l’origine del movimento; l’origine della vita; l’ordinamento teleologico della natura; l’origine della sensibilità; il pensiero razionale e l’origine del linguaggio; il problema del libero arbitrio. La scienza non potrà mai risolvere questi enigmi. Posto di fronte ad essi, lo scienziato non potrà fare altro che pronunciare l’inappellabile e definitivo verdetto “ignoramus et ignorabimus”: ignoriamo ora e ignoreremo per sempre. Altri scritti: Untersuchungen über die tierische Elektricität, (Berlin 1848-49). C. Rosso - L. Conti BIBL.: E. METZE, E. du Bois-Reymond, sein Wirken und seine Weltanschauung, Bielefeld 19183; W. COLEMAN, Biology in the Nineteenth Century, Cambridge, 1977,

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Du Bos tr. it., Bologna 1984; L. CONTI, L’infalsificabile libro della natura. Alle radici della scienza, Assisi 2004.

DU BOS (DUBOS), JEAN-BAPTISTE (abbé Dubos). Du Bos – Estetologo, storico, diplomatico francese, n. a Beauvais il 21 dic. 1670, m. a Parigi il 23 mar. 1742. Celebri le sue paradossali tesi storiografiche, criticate da Montesquieu in L’Esprit des lois (London 1757; cfr. libri XXX e XXVIII, cap. III). L’opera più importante resta comunque il saggio Réflexions critiques sur la poésie et la peinture (Paris 1719), che si conclude con una Dissertation sur les représentations théâtrales des Anciens. L’estetica di Du Bos, cui allude anche La Henriade di Voltaire (La Haye 1728), si pone alla confluenza tra classicismo francese ed empirismo anglosassone. L’assunto su cui si fonda l’analisi è la constatazione che l’emozione indotta dall’arte distrae l’uomo di per sé perennemente afflitto dalla noia: fine dell’opera è dunque quello di commuovere, suscitando «passioni artificiali», cioè attenuate e incapaci di produrre «le pene e le afflizioni» connesse invece alle emozioni reali. Non senza qualche contraddizione, Du Bos si appoggia su questa osservazione psicologica per avvalorare la sua estetica a discapito di posizioni di stampo razionalista. Esemplare è in questo senso il parallelo che Du Bos sviluppa tra poesia e pittura, ovvero quelle che egli considera le arti per eccellenza: entrambe prescindono da ogni contenuto dottrinale, etico o pedagogico, e si rivolgono invece al «sentimento», laddove questo, onde evitare l’opposto eccesso di un esito sensualistico, è inteso come reazione che coinvolga tanto la sensibilità quanto l’intelletto. Tant’è che in entrambe queste arti riveste grande importanza la scelta del soggetto: al di là del puro piacere degli occhi e dell’udito, quest’ultimo deve infatti riuscire a «interessare». La seconda parte del trattato articola invece la teoria del genio, di cui Du Bos, con Antoine Houdar de La Motte e Bernard Fontenelle, fornisce una delle prime formulazioni: il genio è l’organo della produzione artistica; è libero e innato, e risente semmai dell’ambiente in cui si trova a svilupparsi. La sua opera riesce a commuovere, mentre quella dettata da canoni e regole non sa produrre che opere freddamente corrette. Così il meraviglioso sa piacere perfino quando cade nell’inverosimile, se è vero che l’incanto delle opere di Torquato Tasso 3122

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o di Ludovico Ariosto ne fa dimenticare ogni difetto. Dopo le polemiche tra Nicolas Boileau e Charles Perrault, e tra Antoine de La Motte e Madame Dacier, Du Bos cerca una nuova soluzione della querelle des anciens et des modernes, schierandosi a fianco degli antichi, ma rifiutando un’estetica razionalistica: per far ciò Du Bos riconosce nella storia umana non una, ma molteplici epoche di splendore, ed enfatizza il ruolo del pubblico nella fortuna dell’opera. Egli ribadisce la grandezza degli antichi, legittimandola sull’infallibilità del sentimento. La commozione di generazioni davanti alle opere di Omero o di Virgilio non può esser tolta da nessun sofisma della ragione né dall’osservazione, probabilmente fondata, che un giorno nasceranno geni perfino maggiori di quelli dell’antichità. La teoria del progresso vale per i prodotti della ragione, non già per l’arte, perché il sentimento dell’uomo, cui essa si rivolge, è eterno e immutabile. E. Fubini - B. Zaccarello BIBL.: M. BRAUNSCHVIG, L’abbé Du Bos, rénovateur de la critique au XVIIIe siècle, Toulouse 1904; A. LOMBARD, La querelle des anciens et des modernes: l’abbé Du Bos, Neuchâtel 1908; A.H. KOELER, The abbé Du Bos, his Advocacy of the Theory of Climate: a Precursor of G. Herder, Champaign 1937; E. MIGLIORINI, Note alle Réflexions critiques di J.-B. Du Bos, Firenze 1962; E. FUBINI, Empirismo e classicismo. Saggio sul Du Bos, Torino 1965; E. MIGLIORINI, Studi sul pensiero estetico del Settecento. Crousaz, Du Bos, Firenze 1966; A. LOMBARD, L’abbé Du Bos, un initiateur de la pensée moderne, Genève 1969; T. BESTERMAN (a cura di), Studies on Voltaire and the Eighteenth Century, vol. CXXVII, Banbury 1974; D. DUMOUCHEL, Le problème de Du Bos et l’affect compatissant: l’esthétique du 18e siècle à l’épreuve du paradoxe tragique, in T. BELLEGUIC - E. VAN DER SCHUEREN (a cura di), De la sympathie sous l’Ancien Régime: discours, savoirs, sociétés, Québec 2003; C. NICOLET, La fabrique d’une nation, Paris 2003.

DU BOSC, JACQUES. – Pensatore francescaDu Bosc no, originario della Normandia, n. verso la fine del secolo XVI, se ne ignora la data di morte. Pochissime le notizie biografiche. Entrato giovanissimo nell’ordine, in seguito pare che l’abbia temporaneamente abbandonato e che abbia scelto di condurre, in quel periodo di allontanamento, una vita disordinata. In una lettera del 1662, tuttavia, il generale dell’ordine si congratula con lui per aver difeso per trent’anni l’autorità pontificia e allude ad alcune lettere che Alessandro VII gli avrebbe inviato.

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Si oppose decisamente a Port-Royal e partecipò a quasi tutte le controversie, come appare dagli scritti apologetici sull’eucaristia e la penitenza (1647 e 1648), sulla passione di Cristo, la grazia (1651) ecc. Però a un certo punto egli si ritirò dalla polemica (1657): mancano documenti che ce ne spieghino i motivi. Un suo scritto interessante è l’Honnête femme (Paris 1632; ed. riveduta e ampl., in 3 parti, 1633-35; le 3 parti insieme: 1639, 1643, 1662, 1665), in cui l’autore intende completare l’insegnamento di Francesco di Sales a proposito dell’educazione femminile. Secondo questo progetto pedagogico, la formazione cristiana deve seguire quella morale, proposta sul fondamento degli autori pagani (soprattutto gli stoici e Plutarco). Naturalmente, Du Bosc mette in guardia contro eventuali errori o deficienze negli insegnamenti di questi autori pagani. L’operetta venne più tardi seguita da Les femmes héroïques comparées avec les héros (Paris 1642), la cui tesi sostiene la possibilità per le donne di atti di eroismo pari a quelli degli uomini. Altro scritto degno di rilievo è Le philosophe indifférent (ivi 1643) in cui Du Bosc espone un nuovo metodo per confutare il libero pensatore (libertino), anticipando di quindici anni le tesi di Pascal nei Pensées. L’operetta, incompiuta, è difficilmente comprensibile a causa della terminologia usata. La dialettica pascaliana è adombrata nella ripartizione dei maggiori sistemi filosofici in due grandi categorie contrapposte, i dogmatici e i pirroniani. In una prima parte, l’autore tenta di concludere direttamente al Vangelo, ma poi si accontenta di condurre il non-credente a uno stato d’indifferenza, che dovrebbe permettere più facilmente la scelta tra le diverse religioni. Pascal avrebbe vivamente respinto quest’ultima possibilità. Una terza e una quarta parte, che avrebbero dovuto realizzare il metodo così presentato, non furono pubblicate. Julien-Eymard d’A. BIBL.: TH. JORAN, Féminisme d’autrefois: l’«Honnête femme» de Jacques du Bosc, in «La Femme Contemporaine», 5 (1909), pp. 233-239; R. PINTARD, Le libertinage érudit, Paris 1943, vol. I, pp. 333-334; C. CHESNEAU, Un précurseur de Pascal? Jacques Du Bosc (1643), in «Dix-septième Siècle», 15 (1952), pp. 426-448; C. CHESNEAU, Sénèque et le stoicïsme dans l’oeuvre du cordelier Du Bosc, in «Dix-septième Siècle», 18 (1955), pp. 353-377; C. FITZGERALD, Autho-

Ducasse rity in Ancien Regime France: The Understanding of Jacques du Bosc, Saskatoon (Canada) 1996.

DUCASSE, CURT JOHN. – Filosofo statunitenDucasse se di origine francese n. ad Angoulême il 7 lug. 1881, m. a Providence (Rhode Island) il 3 sett. 1969. Emigrò nel 1900 negli Stati Uniti e frequentò le università di Washington e di Harvard, dove conseguì il dottorato nel 1912 con Royce. Tornò a Washington nello stesso anno per iniziare la sua attività di docente, che proseguì poi, a partire dal 1926 e fino al 1958, presso la Brown University. Ducasse può essere considerato un pensatore sistematico per l’ampiezza dei suoi interessi: epistemologia, filosofia del corpo e della mente, estetica, etica e religione. Il suo metodo lo inserisce nel solco della tradizione analitica: per evitare inutili errori occorrono rigore tecnico e la precisa contestualizzazione dei termini in questione, in particolare di quelli basilari per la filosofia e che riguardano i predicati di valore come «reale», «buono», «valido» e il loro uso standard (cfr. Philosophy as a Science, New York 1941 e AA.VV., La filosofia contemporanea in Usa, Asti 1958, pp. 253-273). In Nature, Mind and Death (La Salle [Illinois] 1951), e nella raccolta di saggi Truth, Knowledge and Causation (London 1968), sono riassunti i risultati più importanti della sua ricerca. Ducasse, che aveva già criticato l’interpretazione humeana della causalità in Causation and the Types of Necessity (Seattle 1924), sostiene la tesi di un realismo avverbiale per rendere conto della conoscenza del mondo esterno: le sensazioni non sono oggetti, ma appunto, tenendo conto anche dello stato psicologico dell’osservatore e delle condizioni fisiche dell’osservazione, modi in cui percepiamo un oggetto. Si vede non this blue, ma bluely. Egli difende inoltre il «diritto di credere» quando, dopo aver verificato imparzialmente tutti i possibili argomenti, non c’è evidenza a favore di una delle alternative disponibili. Di qui anche il suo «liberalismo etico», che assume il fatto della diversità dei codici morali, ma tenta di evitarne l’esito relativistico puntando su un’educazione capace di allargare progressivamente gli orizzonti. The Philosophy of Art (New York 1929), e Art, the Critics and You (ivi 1944), espongono una chiara tesi espressionista: l’opera d’arte non coincide con il bello, ma con l’oggettivazione dei sentimenti del suo creatore. Per quanto riguarda la religione, Ducasse vede in essa un 3123

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Dufrenne insieme di articoli di fede e di pratiche che hanno una funzione sociale e devono garantire la pace interiore, senza chiudersi sulla questione dell’esistenza di Dio (cfr. A Philosophical Scrutiny of Religion, ivi 1953). Va sottolineata infine l’attenzione dedicata ai fenomeni paranormali e al problema della sopravvivenza dopo la morte (cfr. A Critical Examination of the Belief in Life after Death, ivi 1961 e Paranormal Phenomena, ivi 1969). S. Semplici BIBL.: F.C. DOMMEYER (a cura di), Current Philosophical Issues: Essays in Honour of C.J. Ducasse, Springfield (Illinois) 1966; P.H. HARE - E.H. MADDEN, Causing, Perceiving and Believing: an Examination of the Philosophy of C.J. Ducasse, Dordrecht 1975.

DUFRENNE, MIKEL. – Filosofo ed estetoloDufrenne go francese, n. a Clermont il 9 febbr. 1910, m. a Parigi il 10 giu. 1995. Dopo gli studi all’Ecole Normale Supérieure di Parigi, fu professore in diversi licei francesi. Caduto prigioniero in guerra nel 1940, trascorse la sua prigionia in Pomerania, nello stesso campo d’internamento di Paul Ricoeur, insieme al quale scoprì l’opera di Karl Jaspers: i due amici pubblicheranno nel 1947 Karl Jaspers et la philosophie de l’existence (Paris 20002). A partire dal 1955 fu professore all’università di Poitiers e dal 1964 a quella di Parigi-Nanterre, dove creò il dipartimento di filosofia e insegnò fino al 1974. Autore e direttore, oltre alla collezione «Esthétique» delle edizioni Klincksieck, della «Revue d’esthétique», con Etienne Souriau prima e con Olivier Revault d’Allonnes a partire dal 1978. L’opera principale di Dufrenne, Phénoménologie de l’expérience esthétique (Paris 19923, 2 voll., tr. it. I vol. di L. Magrini, Fenomenologia dell’esperienza estetica, Roma 1969), costituisce uno dei più notevoli contributi, insieme agli studi di Roman Ingarden e di Moritz Geiger, alla formulazione di un’estetica fenomenologica. Dufrenne intende la fenomenologia husserliana secondo l’interpretazione data in Francia da Jean-Paul Sartre e da Maurice Merleau-Ponty, respingendo le possibili implicanze «idealistiche» della concezione husserliana del soggetto trascendentale. L’opera di Dufrenne muove dalla delineazione di una fenomenologia dell’oggetto estetico, precisandosi come analisi dell’opera d’arte e come fenomenologia dell’esperienza estetica, concludendosi in una sua critica, kantianamente intesa quale 3124

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giustificazione trascendentale, attraverso un a priori, di tale esperienza. L’oggetto estetico, «irresistibile e magnifica presenza del sensibile», si definisce attraverso l’analisi fenomenologica come un quasi-soggetto: a differenza della realtà naturale, caratterizzata da quella opacità che Sartre chiama l’in sé, l’oggetto estetico è una forma unitaria autonoma, un per sé analogo a quello del soggetto. A questa caratterizzazione dell’oggetto estetico come quasi-soggetto corrisponde, dal lato dello spettatore, un’esperienza estetica in cui si possono distinguere tre momenti: quello della presenza, quello della rappresentazione, quello della riflessione. L’oggetto estetico è anzitutto una presenza che si impone ai nostri sensi, con la sua struttura fisica, ordinata secondo schemi (ritmo e rima). Nella percezione estetica è impegnata anche l’immaginazione, la quale però, proprio in quanto l’oggetto estetico non ha nulla di oscuro e di ambiguo, va rigorosamente disciplinata dall’intelletto: questo costituisce il terzo momento, quello della riflessione. Al di là di questa analisi, tuttavia, ciò che per Dufrenne caratterizza l’esperienza estetica è piuttosto una risposta globale di tutto il soggetto, che egli chiama «sentimento», distinguendolo dalla semplice riflessione. Contro lo schema soggettivistico, secondo Dufrenne, la profondità dell’esperienza estetica nel soggetto corrisponde a una profondità propria dell’oggetto estetico stesso. Occorre scoprire la radice della corrispondenza tra soggetto e oggetto, cioè fondare un’ontologia dell’esperienza estetica solo apparentemente analoga a quella heideggeriana. Per Dufrenne, l’artista finisce così per rivelarsi come uno strumento della natura. Questa apertura dell’ontologia dell’arte nella direzione di una filosofia della natura è ripresa e sviluppata da Dufrenne in Le poétique (Paris 19722, tr. it. di L. Zili e introduzione di D. Formaggio, Il senso del poetico, Urbino 1981), dove si descrive l’intima unità dell’uomo con la natura, cosicché la poesia ha il compito di riportare il linguaggio al suo stato di natura. L’a priori poetico in base a cui si giustifica l’esperienza estetica non è altro che l’accordo esistenziale originario tra l’artista e ciò che l’ispira, la natura. Negli scritti successivi Dufrenne allarga la sua tematica ai rapporti tra arte, politica, ideologia, utopia. Con Art et politique (Paris 1974) fa eco all’appello di Herbert Marcuse per l’avvento di una nuova sensibilità, illustrando una

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delle principali ragioni del vivo interesse nutrito dal pensiero francese per la ricerca estetica: l’arte è, in «questa nostra triste civiltà», uno dei rari luoghi in cui ancora si esercita la libertà, in cui il piacere conserva un senso alla felicità. Nell’ultima sua opera, L’oeil et l’oreille (Paris 19912, tr. it. e prefazione di C. Fontana, L’occhio e l’orecchio, Milano 2004), Dufrenne avanza delle riserve circa l’ontologia della carne di Merleau-Ponty. La critica si rivolge in particolare all’imperialismo dell’occhio e dell’immaginazione visiva, per riabilitare l’orecchio e riflettere sulla pluralità dei sensi – non delle sensazioni –, la cui unità è pensata attraverso una fenomenologia del sentire mutuata in parte da Erwin Straus e compresa come modo di comunicazione tra un sé (Selbst, self) e il mondo. La totalità a cui dà luogo tale stretta relazione del sentire si manifesta nel sentimento: l’immediato può così essere conquistato e l’originario, se non proprio ritrovato, almeno approcciato. G. Vattimo - K. Rossi BIBL.: La notion d’a priori, Paris 1959; Language and Philosophy, Bloomington 1963; Jalons, La Haye 1966; Esthétique et Philosophie, vol. I, Paris 1967; vol. II, Paris 1976; vol. III, Paris 1981, tr. it. parziale di P. Stagi, Estetica e filosofia, Genova 1989; Pour l’homme, Paris 1968; La personnalité de base, Paris 19723; Subversion, perversion, Paris 1977, tr. it. di M.L. Mazzini, Sovversione, perversione, Milano 1978; Esthétique et science de l’art, in AA.VV., Tendances principales de la recherche dans les sciences sociales et humaines, Paris 1978, parte 2, vol. II; L’inventaire des “a priori”, Paris 1981; Trattato di estetica, Milano 1981, 2 voll. (con D. Formaggio). Su Dufrenne: J.-C. PIGUET, De l’esthétique à la phénoménologie, La Hague 1959; G. MORPURGO TAGLIABUE, L’esthétique contemporaine, Milano 1960, pp. 460468; P. RICOEUR, Philosophie, sentiment et poésie. La notion d’a priori selon Mikel Dufrenne, in «Esprit», 29 (1961), 3, pp. 504-512; R. BARILLI, Per un’estetica mondana, Bologna 1965, cap. 7; AA.VV., Vers une esthétique sans entrave. Mélanges Mikel Dufrenne, Paris 1975; A. MANESCO, Arte e politica nell’ultimo Dufrenne, Verona 1976; AA.VV., Hommage à Mikel Dufrenne, in «Revue d’esthétique», 21 (1992), pp. 165 ss.; AA.VV., Ricordo di Mikel Dufrenne, in «Informazione filosofica», 28 (1996), pp. 5-15; AA.VV., Mikel Dufrenne. La vie, l’amour, la terre, in «Revue d’esthétique», 30 (1997); M. SAISON, Le tournant esthétique de la phénoménologie, in «Revue d’esthétique», 36 (1999), pp. 125-140.

Duhamel DUGUIT, LÉON. – Filosofo del diritto, n. il 4 Duguit febbr. 1859 a Libourne, m. il 18 febbr. 1928 a Bordeaux. Professore a Caen e a Bordeaux, autore di numerose opere di diritto pubblico, tra cui L’Etat, le droit objectif et la loi positive (Paris 1901), L’Etat, le gouvernement et les agents (ivi 1903), Manuel de droit constitutionnel (ivi 1907), Le droit social, le droit individuel et la transformation de l’Etat (ivi 1908, tr. it. di B. Paradisi, Il diritto sociale, il diritto individuale e la trasformazione dello Stato, Firenze 1950), Traité de droit constitutionnel (Paris 19233). Strettamente legato all’indirizzo positivistico e alla sociologia di Comte e di Durkheim, Duguit vuole banditi dalla scienza giuridica i concetti che non siano puramente tecnici e scientifici, criticando il carattere metafisico della scienza tradizionale; per scienza egli intende soltanto quella che consti di ragionamenti sperimentali, che concernano i fatti e non le valutazioni di questi. Il concetto che Duguit critica radicalmente è in particolare quello di diritto soggettivo, fondato sul presupposto metafisico dell’individualismo razionalistico per il quale l’individuo è per se stesso centro incondizionato di diritti: alla nozione di diritto soggettivo Duguit vuole sostituita quella di funzione sociale, in quanto questa – e non le volontà individuali in se stesse – è in realtà tutelata dall’ordinamento giuridico. Del pari Duguit respinge, come contraria alla ragione sperimentale, la nozione di sovranità intesa come volontà di una società personificata: sola realtà sperimentabile è per lui la forza di chi governa. Eliminati i presupposti metafisici, la vera realtà giuridica rimane il diritto oggettivo: la regola di diritto, cioè la regola che impone all’individuo, in quanto membro di un ambiente sociale, di realizzare la solidarietà con gli altri; la legge positiva, constatazione, non creazione, di un siffatto diritto oggettivo, è giustificata in quanto corrispondente a tale diritto: tesi questa che è stata criticata da alcuni come giusnaturalistica e riconducente a una posizione metafisica. G. Fassò BIBL.: A. BARBERA - C. FARALLI - M. PANARARI (a cura di), Le trasformazioni dello Stato, Torino 2003.

DUHAMEL, JEAN-BAPTISTE. – Fisico e filosoDuhamel fo, n. a Vire (Normandia) nel 1624, m. a Parigi il 6 ag. 1706. Avviatosi giovanissimo agli studi matematici, divenne oratoriano e parroco a Neuilly-sur3125

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Duhamel

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Marne, e quindi elemosiniere del re e professore di filosofia greca e latina al Collège royal. Messosi in luce per i suoi studi scientifici, nel 1666 fu nominato segretario perpetuo (carica che lasciò nel 1697) dell’Académie des Sciences fondata da Colbert. Svolse missioni diplomatiche all’estero e in Inghilterra frequentò R. Boyle. Tra i suoi scritti, oltre a numerose opere di carattere biblico e teologico e alla traduzione del Galateo di G. della Casa e del Cortegiano di B. Castiglioni: Astronomia physica, Parisiis 1659; De meteoris et fossilibus, ivi 1659; De corporum affectionibus, tum manifestis tum occultis, ivi 1670; De mente humana, ivi 1673; De corpore animato, ivi 1673. Particolare successo ebbero le opere De consensu veteris et novae philosophiae, ubi Platonis, Aristotelis, Epicuri, Cartesii aliorumque placita de principiis rerum excutiuntur (ivi 1663; Rouen 1667 e 1675) e Philosophia vetus et nova, ad usum scholae accomodata (Parisiis 1678, 4 voll.), che fu tradotta in tartaro dai gesuiti per far conoscere all’imperatore della Cina le dottrine dei filosofi d’Europa. Pur manifestando un forte interesse per le questioni sperimentali, queste due opere cercano di mostrare la conciliabilità del nuovo spirito filosofico con le dottrine dei filosofi antichi, favorendo così la diffusione delle nuove dottrine. F. Barone BIBL.: R. KLESCZEWSKI, Die französischen Übersetzung des Cortegiano von Baldassare Castiglione, Heidelberg 1966; G. PIAIA, Jean-Baptiste Du Hamel (16241706), in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. II: Dall'età cartesiana a Brucker, Brescia 1979, pp. 22-31 (con bibliografia); E. RAPETTI, Percorsi anticartesiani nelle lettere a PierreDaniel Huet, Firenze 2003, pp. 143-196.

DUHAMEL, JEAN-MARIE. – Fisico francese, n. Duhamel a Saint-Malo il 5 febbr. 1797, m. a Parigi il 29 apr. 1872. Le sue numerose memorie sull’analisi matematica e il suo Des méthodes dans les sciences de raisonnement (Paris 1866-72, 5 voll.) non hanno lasciato grande traccia nel pensiero matematico. In quest’opera però Duhamel accosta al metodo matematico quello delle scienze dello spirito, ritenendo che non si ponga tra i due tipi di indagine alcuna differenza metodologica. M. Gliozzi

DUHEM, PIERRE MAURICE MARIE. – N. a PariDuhem gi il 10 giu. 1861, m. a Cabrespine (Carcassonne, Aude), il 14 sett. 1916. 3126

Fisico, epistemologo e storico della scienza, allievo dell’Ecole Normale Supérieure di Parigi presentò, nel 1864, una tesi sul concetto di «potenziale termodinamico» entrando in polemica con ambienti ufficiali e smentendo la teoria del «valore di reazione» di M. Berthelot. Per questo motivo, la carriera universitaria di Duhem si svolse fuori da Parigi, prima alla facoltà di scienze di Lille (1887-93), poi a quella di Rennes (1893-94), infine, dal 1894 fino alla morte, nella cattedra di fisica teorica della facoltà di scienze dell’univeristà di Bordeaux. Non abbandonò quest’insegnamento neppure quando gli fu offerta la cattedra di Storia della Scienza al Collège de France. Nel 1890 tuttavia fu eletto membro non residente della Académie des Sciences. Ingegno versatile, ha condotto ricerche in vari campi della scienza, le quali seppero poi tradursi in frutti durevoli sul piano epistemologico e su quello storiografico, piani per lui strettamente interconnessi, che affiancarono la sua attività scientifica con pari impegno di ricerca e con uguale, se non con maggiore, vastità di vedute e originalità polemica. Per quanto concerne il primo punto, Duhem si è occupato di termodinamica, elettromagnetismo, chimica, idrodinamica ed elasticità, spinto però dalla convinzione che la termodinamica fosse l’elemento unificatore tra le varie branche della fisica e della chimica, incluso l’elettromagnetismo. La ricerca di un’applicazione al maggior numero di settori della fisica di una termodinamica generalizzata, modellata sulla termodinamica fenomenologica del fisico americano J. W. Gibbs e vicina all’energetica di W. Ostwald, è il filo conduttore della sua attività scientifica, e ciò a partire dalla sua tesi Le potentiel thermodynamique et ses applications à la mécanique chimique et à la théorie des phénomènes électriques, Paris 1886, attraverso il Traité de mécanique chimique, Paris 1897-99, Thermodinamique et chimie, Paris 1902, Les théories electriques de J. Clark Maxwell, Paris 1902 fino al più tardo Traité d’énergétique, Paris 1911, opera di sintesi in cui sono riuniti i risultati delle ricerche in campo scientifico. Per quanto concerne invece l’idrodinamica e l’elasticità si veda: Hydrodinamique, élasticité, acoustique, Paris 1891, Recherches sur l’hydrodinamique, Paris 1903-04, 19612, Recherches sur l’élasticité, Paris 1906. Ora, se l’energetica come teoria generalizzata dei fenomeni fisici si dimostrò un insuccesso, l’opera di Duhem contribuì almeno

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a diffondere presso i fisici francesi il pensiero di Gibbs e Helmoltz, ebbe anche il merito di dimostrare le capacità interpretative di una teoria generale, quale la termodinamica, per la comprensione di numerosi risultati sperimentali in vari campi della fisica e della chimica. Sul piano epistemologico il suo progetto – si vedano soprattutto i materiali raccolti in La théorie physique: son objet et sa structure (Paris 19142, tr. it. a cura di S. Petruccioli, La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura, Bologna 1978) – è quello di elaborare un’analisi logica del metodo attraverso cui la scienza fisica progredisce, facendo perciò riferimento alla sua stessa esperienza di fisico teorico. In effetti, l’uso della termodinamica fenomenologica lo conduceva all’abbandono dell’idea che un modello meccanico dovesse farsi carico di spiegare i fenomeni, all’abbandono della convinzione che un metodo scientifico possa introdurci alla conoscenza dei meccanismi reali che sottendono i fenomeni e, per converso, ad attribuire alla conoscenza scientifica una valenza di mera descrizione fenomenica indipendente dalla conoscenza della realtà; quest’ultima ritenuta propria di un’esperienza diversa da quella scientifica, quella metafisica. Per questo Duhem, d’accordo con E. Mach, sentiva l’esigenza di eliminare dalla scienza ogni forma di metafisica e ridurre la stessa a una lingua ben fatta che descrivesse i fenomeni dati e permettesse di prevederne di nuovi. In definitiva, il nucleo del progetto epistemologico di Duhem consiste nella scoperta delle possibilità immense dell’elemento teorico, che invece la tradizione positivista aveva reso subalterno all’elemento sperimentale: le interpretazioni dei fenomeni sono il frutto di una scelta di ipotesi, cioè della scelta di linguaggi, la quale dipende da presupposti esterni alla scienza stessa. Per Duhem, dunque, il problema della conoscenza della realtà, della sua spiegazione, risiede fuori della scienza, appartiene alla metafisica ed è quindi oggetto di fede; attribuire una valenza metafisica alla descrizione fenomenica della scienza genera equivoci pericolosi e posizioni conservatrici. Quest’attribuzione meramente fenomenistica al sapere scientifico si appoggia, in Duhem, su un’analisi molto raffinata delle strutture della teoria scientifica e della dinamica epistemologica tra teoria ed esperienza. Una teoria fisica non è una «spiegazione» di fatti o di risultati sperimentali,

Duhem quanto piuttosto «un sistema di proposizioni matematiche, dedotte da un ristretto numero di principi, che hanno lo scopo di rappresentare nel modo più semplice, più completo e più esatto, un insieme di leggi sperimentali» (ibi, tr. cit., pp. 23-24). Una teoria rappresenta perciò «un’economia di pensiero» e l’economia intellettuale è il «principio guida» della scienza, (ibi, tr. cit., pp. 25-26). Più nel dettaglio, la costruzione della scienza si svolge secondo quattro operazioni successive: a) organizzazione di un sistema di proposizioni matematiche, che rappresentino un determinato insieme di leggi sperimentali; b) collegamento di tali proprietà mediante ipotesi o proposizioni che fungano da «principi per le nostre deduzioni», ipotesi che, tuttavia, non enunciano una relazione vera «tra le proprietà reali dei corpi» (per questo le ipotesi, vero caposaldo della conoscenza scientifica, possono essere formulate in modo del tutto arbitrario, fatta salva la legge della non-contraddizione logica); c) correlazione delle ipotesi mediante le regole dell’analisi matematica; d) traduzione delle conseguenze logiche delle ipotesi in «giudizi vertenti sulle proprietà fisiche dei corpi» e confronto di tali giudizi con le leggi sperimentali. Ne consegue che, se «l’accordo con l’esperienza è, per una teoria fisica, l’unico criterio di verità» (ibi, tr. cit., p. 25), tuttavia una teoria è vera non in quanto ci dà una spiegazione conforme alla realtà, ma in quanto fornisce in maniera soddisfacente una rappresentazione simbolica di un insieme di fatti sperimentali. La verifica sperimentale interviene solo in seguito alla posizione di un’ipotesi teorica, il cui compito non è tanto quello di riassumere o catalogare i risultati dell’esperienza, quanto quello di «venir prima (dévancer)» l’esperienza e arditamente interrogarla. È chiaro allora che, In ordine alla struttura e alla funzione delle teorie Duhem, in polemica con la precedente concezione induttivistica, propria del positivismo, e che affermava che la scienza giace sulla sempre più vasta raccolta di fatti empirici e sul loro collegamento matematico scevro di ipotesi speculative, ha una posizione risolutamente anti-induttivistica, rivelando la natura ipotetico-deduttiva della scienza. L’indagine della dinamica epistemologica teoria-esperienza è la seconda fondamentale componente metodologica del discorso duhemiano; dotata di una notevole originalità, è 3127

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Duhem riassumibile nell’accettazione di una precisa posizione olistica. Si tratta del seguente assunto epistemologico: una teoria fisica è un insieme molteplice, organicamente inscindibile, non divisibile in parti distinte tra loro, da sottoporre a prova l’una indipendentemente dall’altra. Per cui, la «contraddizione sperimentale» non ha il potere di validare o falsificare definitivamente un’ipotesi fisica, dal momento che «il fisico non può mai sottoporre al controllo dell’esperienza un’ipotesi isolata, ma soltanto tutto un insieme di ipotesi» e «quando l’esperienza è in disaccordo con le sue previsioni, essa gli insegna che almeno una delle ipotesi costituenti l’insieme è inaccettabile e deve essere modificata, ma non gli indica quale dovrà essere cambiata [...] non si può verificare ogni pezzo isolatamente» (ibi, tr. cit., p. 211). Duhem, contrariamente a quanto pensava F. Bacone, non crede alla possibilità degli esperimenti cruciali: «in fisica è impossibile fare l’experimentum crucis [...] la verità di una teoria scientifica non si decide a testa o croce» (ibi, tr. cit., pp. 212, 214). Lo stesso confronto tra due ipotesi isolate, se fosse possibile, permetterebbe di confutare una delle due, ma non di validare in maniera conclusiva l’altra, perché non si può dimostrare che l’ipotesi sopravvissuta sia l’unica capace di dar conto dei fenomeni presi in esame e non risulti criticabile da esperienze successive. Quest’argomentazione è divenuta un luogo privilegiato nel dibattito epistemologico del secondo Novecento, difesa nelle sue conclusioni duhemiane dall’epistemologo americano W.v.O. Quine – ecco la denominazione di «tesi DuhemQuine» – nelle sua celebre critica ai «due dogmi dell’empirismo», respinta invece con forza da Popper, che fa dell’esperimento cruciale uno dei fondamenti del proprio falsificazionismo. Ma, se nessuna teoria ha il diritto di rivendicare una migliore verità rispetto a una teoria precedente, ciò non comporta un esito scettico (inaccettabile per il cattolico Duhem). Una teoria, «non è solamente una rappresentazione economica delle leggi sperimentali: è anche una classificazione di quelle leggi» (ibi, tr. cit., p. 28). Una buona teoria permette dunque di fare previsioni, di estendere l’insieme delle leggi sperimentali e di guidare lo scienziato alla scoperta. In tal modo, la teoria fisica dimostra di essere il «riflesso» di un ordine reale, anche se mai potrà pretendere di illuminare le 3128

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affinità reali tra le cose. La classificazione artificiale della scienza tende gradualmente ad avvicinarsi alla natura in quanto tale, per cui «sentiamo che i raggruppamenti stabiliti dalla teoria corrispondono a reali affinità tra le cose [...] più si perfeziona, più avvertiamo che dietro l’ordine logico nel quale essa dispone le leggi sperimentali è il riflesso di un assetto ontologico» (ibi, tr. cit., p. 31). Duhem giunge a parlare di «classificazione naturale»: «la teoria fisica non è un sistema puramente artificiale, oggi utile e domani non più [...] essa è vieppiù una classificazione naturale, un riflesso sempre più chiaro della realtà con cui il metodo sperimentale non saprebbe confrontarsi» (ibi, tr. cit., p. 303). Se la realtà è raggiungibile solo attraverso il discorso metafisico, tuttavia anche il fisico, pur non essendo «in grado di dimostrare che l’ordine stabilito tra le leggi sperimentali riflette un ordine trascendente l’esperienza», non può ridurre se stesso a convincersi che il sistema è «puramente artificiale», non può negarsi la «fede in un ordine reale» (ibi, tr. cit., p. 32), pur sapendo che si tratta di un «atto di fede» che la scienza in quanto tale non giustifica. L’epistemologia convenzionalista duhemiana giunge così a privilegiare, nell’ordine conoscitivo, la metafisica rispetto alla scienza. L’ordine reale che le facoltà intuitive dell’uomo percepiscono sotto il fluire delle teorie scientifiche è un ordine che la scienza non può investire di alcun criterio esplicativo o critico, e che solo l’approccio metafisico e religioso ci permette di cogliere. Duhem, cattolico convinto, intende separare fisica e metafisica, considerate come esperienze conoscitive che poggiano su basi completamente diverse anche se non antitetiche. Duhem, è certo, si preoccupa di separare la scienza dalla fede, tale separazione, tuttavia, instaura una tensione tra scienza, metafisica e fede. Un ulteriore aspetto rilevante della speculazione di Duhem è da ritrovare nell’intrinseco legame che egli pone tra epistemologia e storia della scienza, quindi nella considerazione dell’importanza della storia della scienza, intesa come riflessione critica sulle grandi costruzioni del passato, sulle ipotesi via via accolte o abbandonate, intesa insomma come ciò che fornisce gli strumenti per comprendere il percorso delle teorie e per guardare senza pregiudizi ai nuovi risultati della ricerca. La storia della scienza, ponendo in luce lo sviluppo continuo delle idee

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scientifiche, suggerendo al «buon senso» un’immagine realistica delle teorie stesse che sembrano evolvere verso una «classificazione naturale», finisce per divenire il luogo rivelatore dell’ordine naturale che il progresso scientifico riflette sempre meglio. Essa, non solo si svolge in maniera continua e senza rivolgimenti teorici, ma rivela l’affermarsi di una semplicità e di una bellezza teorica via via maggiori, e che sono appunto il riflesso della semplicità e bellezza di quell’ordine superiore: e «là dove regna l’ordine c’è la bellezza» (ibi, tr. cit., p. 29). È dunque un disegno provvidenziale che guida la storia della scienza: quando una teoria diventa troppo complicata un impulso estetico porta lo scienziato ad abbandonare quella teoria ormai aggrovigliata e confusa per abbracciarne una nuova che sia più semplice ed elegante. Ne emerge l’idea che sono le nostre scelte soggettive, di natura non-razionale, che decidono il rifiuto di una teoria e quindi anche l’avvicendamento di teorie. In questo quadro di una storiografia sostanzialmente continuista, volta alla rivalutazione della funzione dei «precursori», Duhem produce lavori storiografici – alcuni dei quali di gran mole – che hanno finito per rivoluzionare schemi tradizionali. In particolare, fedele all’idea dell’evoluzione continua del sapere scientifico, alla convinzione che tutti i grandi innovatori hanno dei precursori, egli dimostra in modo convincente che la rivoluzione scientifica moderna ha avuto le sue profonde radici nel lavoro intellettuale del Medioevo. Gli studi di Duhem concorrono in modo evidente alla rivalutazione del pensiero scientifico medioevale, soprattutto del ruolo delle scuole di Oxford e Parigi cui Leonardo da Vinci e lo stesso Galileo Galilei sarebbero stati altamente debitori. Occorre citare, per comprendere in tutte le sue sfaccettature il personaggio, La science allemande (Paris 1915), una specie di biografia intellettuale nella quale, partendo dalla distinzione pascaliana tra esprit de géométrie ed esprit de finesse, Duhem critica la mente eccessivamente assiomatizzante e deduttiva dei tedeschi, contrapposta a quella intuitiva, guidata dal buon senso e dal cuore, dei francesi. Proprio in quest’opera troviamo il ben noto giudizio sulla relatività ristretta di A. Einstein: un «aberrante» prodotto della mente germanica incapace di giudizi equilibrati e irrispettosa della realtà.

Duhem-Quine In definitiva, al di là del valore intrinseco della produzione, dei limiti di alcune posizioni teoriche, storiografiche, apologetiche, le raffinate analisi di Duhem sulla struttura delle teorie scientifiche e sulla procedura sperimentale hanno costituito una prosecuzione senz’altro originale e indipendente del pensiero di E. Mach, di G. Milhaud e H. Poincaré, i quali ultimi con lui condividono la paternità del convenzionalismo epistemologico francese di inizio secolo. Non c’è dubbio poi che da esse l’epistemologia del sec. XX abbia appreso alcuni fattori essenziali della logica della scoperta scientifica e della dinamica epistemologica tra teoria ed esperienza. C. Vinti BIBL.: Le mixte et la combination chimique. Essai sur l’évolution d’une idée, Paris 1902; L’évolution de la mécanique, Paris 1903; Les sources des théories physiques. Les origines de la statique, Paris 1906, 2 voll.; Etudes sur Léonard de Vinci: ceux qu’il a lu, ceux qui l’ont lu, Paris 1906-13 (rist. 1955, 3 voll.); Sozei ta phainomena. Essai sur la notion de théorie physique de Platon à Galilée, Paris 1908, tr. it. a cura di F. Bottin, Salvare i fenomeni: saggio sulla ozione di teoria fisica da Platone a Galileo, Roma 1986; Le système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernique, Paris 1913-59, 10 voll. (gli ultimi cinque pubblicati postumi dalla figlia Hélène 1955-59). Su Duhem: E. PICARD, La vie et l’oeuvre de Pierre Duhem, Paris 1921; P. HUMBERT, Pierre Duhem, Paris 1932; H.P. DUHEM, Un savant français: Pierre Duhem, Paris 1936; W. DIEDERICH, Konventionaltät in der Physik. Wissenschaftstheoretische Untersuchungen zum Konventionalismus, Berlin 1974; P. REDONDI, Introduzione a AA.VV., La verità degli eretici, Milano 1978 (pp. 14-24, efficace e sintetica presentazione dell’opera di Duhem, cui questa stessa deve molto); R. MAIOCCHI, Chimica e filosofia. Scienza, epistemologia, storia e religione nell’opera di Pierre Duhem, Firenze 1985; P. BROUZENG, Duhem, 1861-1916. Science et providence, Paris 1987; S.L. JAKI, Uneasy Genius. The Life and Work of Pierre Duhem, Dordrecht 1987; R. ARIEW - B. BACKER, Pierre Duhem: Historian and Philosopher of Science, in «Synthèse», 2-3 (1990); A. BRENNER, Duhem: Science, réalité et apparence. La relation entre philosophie et histoire dans l’oeuvre de Pierre Duhem, Paris 1990; R.N.D. MARTIN, Pierre Duhem: Philosophy and History in the Work of a Believing Physicist, La Salle (Illinois) 1991; M. FORTINO, Essere, apparire e interpretare. Saggio sul pensiero di Pierre Duhem (18611916), Milano 2006.

DUHEM-QUINE, TESI DI. – Tesi secondo la Duhem-Quine quale il confronto tra le nostre affermazioni e 3129

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Duhem-Quine l’esperienza non è mai tra la singola affermazione e il singolo evento, ma avviene sempre tra un complesso teorico e un insieme di eventi, da cui discende l’impossibilità di falsificare una singola ipotesi in modo netto e definitivo. Duhem espose in forma sistematica le proprie idee sul rapporto tra proposizioni scientifiche ed esperienza nel celebre testo del 1906, La théorie physique. La linea argomentativa di Duhem parte dall’analisi della nozione di esperimento in fisica per evidenziare che ogni esperienza richiede di essere interpretata in modo da tradurre la mera osservazione in una proposizione del linguaggio scientifico. Questa interpretazione avviene impiegando concetti scientifici (se non altro quelli che sono implicati nel funzionamento degli strumenti usati) i quali hanno un significato che dipende dalle teorie all’interno delle quali tali concetti sono definiti. Per Duhem una teoria è un insieme di simboli astratti (i concetti), introdotti del tutto liberamente e connessi tra di loro da relazioni matematiche poste altrettanto liberamente, che può essere posto in relazione con l’esperienza mediante l’associazione tra alcuni simboli e alcuni strumenti di misura; ogni concetto scientifico, anche il più operativo in apparenza, è in realtà il punto di confluenza di reti teoriche che ne definiscono il significato. Ma se ogni esperimento va interpretato con l’ausilio di concetti e se il significato di questi ultimi è definito da teorie, allora ne consegue che il giudizio sul risultato di una osservazione è il prodotto di un insieme di teorie. Se ogni esperienza, ogni enunciato scientifico ha un senso solo in forza di una o più teorie è chiaro che ogni controllo sperimentale implicherà un atto di fede in tutto un insieme di teorie. Ogni volta che si compie una misura, ogni qual volta si mette alla prova una qualunque ipotesi, si mette in realtà in discussione una teoria o anche un gruppo di teorie. Il confronto tra enunciati scientifici ed esperienza è sempre il confronto tra una o più teorie e l’esperienza. Di qui deriva la conclusione più celebre della riflessione di Duhem: la critica all’esperimento cruciale falsificante. Quando l’esperimento non riesce, quando le previsioni teoriche risultano smentite dai fatti, è l’intero sistema di teorie che sono implicate dai calcoli e dagli strumenti usati ad essere falsificato, mai la singola ipotesi. È impossibile falsificare un’ipotesi isolata. Le cosiddette esperienze cruciali sono tali solo in apparenza; in realtà, a 3130

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rigore, mai portano all’obbligo di eliminare una particolare ipotesi, ma si limitano a mostrare l’imperfezione di tutto un sistema teorico di cui quell’ipotesi fa parte. Noi siamo quindi, dal punto di vista logico, liberi di attribuire le ragioni dell’insuccesso a questo o a quell’aspetto del sistema teorico implicato nell’esperienza e negare che il responso dell’esperimento suoni a definitiva condanna di un’ipotesi particolare. Non sono possibili esperimenti cruciali falsificanti. Che un esperimento non possa falsificare necessariamente un’ipotesi non significa che sia effettivamente sempre possibile salvare quest’ultima, cioè che qualsiasi ipotesi possa essere tenuta per vera di fronte a qualsiasi responso sperimentale: la logica lascia aperta la possibilità di scaricare su altre parti del complesso teorico impiegato la colpa dell’insuccesso, ma non è detto che si riesca poi effettivamente a trovare quel nuovo assetto teorico che consente effettivamente di salvare l’ipotesi in questione. Duhem afferma che nessuna ipotesi si può dimostrare falsa, ma non è affatto detto che qualsiasi ipotesi si possa dimostrare vera. Di fronte alle difficoltà incontrate nel tentativo di salvare un’ipotesi modificandone altre, spetterà ancora una volta allo scienziato decidere se continuare nei suoi sforzi oppure lasciare cadere l’ipotesi in discussione. La logica lascia sempre aperte entrambe le strade. La tesi di Duhem riguarda la singola ipotesi, mentre resta aperta, sebbene su questo punto il suo linguaggio sia oscillante, la possibilità di falsificare una teoria; essa è inoltre limitata alla fisica, non riguarda la logica, la matematica, né altre discipline empiriche come la fisiologia. Nel primo neopositivismo, sotto l’influenza di Carnap (nel cui pensiero dell’opera di Duhem non si trovano tracce), la riflessione filosofica si concentrò sulla singola proposizione, considerata la corretta unità significante: erano le singole proposizioni, non le teorie, ad essere analizzate allo scopo di ridurle a combinazioni più o meno complesse di proposizioni a contatto con l’esperienza (i fatti atomici di Wittgenstein o le proposizioni protocollari di Schlick e Carnap). Obiettivo di questa analisi era la possibilità di stabilire la verificabilità empirica (dunque la significanza) di una proposizione mediante la sostituzione dei termini teorici presenti in essa con un combinazione di termini osservativi, attribuendo all’esperienza la capacità di stabilire la verità (o la fal-

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sità) delle proposizioni dotate di significato. Nel corso di un’accanita polemica sulla natura delle «proposizioni protocollari», che avrebbero dovuto fungere da tramite tra la proposizione (il linguaggio) e l’esperienza (il mondo), emerse la concezione «fisicalista» di Neurath che, in modo del tutto indipendente da Duhem, propose una concezione olistica della scienza radicalmente convenzionalista. Neurath non parte dalla riflessione sulla natura delle teorie scientifiche, né su quella dell’attività sperimentale, come aveva fatto Duhem, ma da un interesse per la filosofia del linguaggio. Per Neurath, una proposizione è un fatto fisico, un insieme di segni ordinato che ha la stessa natura dei fatti di cui la scienza si occupa; il linguaggio non è un simbolo di qualche cosa che non è linguaggio, ma è piuttosto un elemento primario. «Compiere osservazioni» significa semplicemente scrivere degli enunciati, come gli «enunciati protocollari» che descrivono esperienze osservative semplici, e il confronto tra una proposizione e l’esperienza è in realtà un confronto tra proposizioni. In un dato momento storico, ogni nuova proposizione è confrontata con la totalità delle proposizioni già condotte a un accordo le une con le altre e si dirà che la proposizione è corretta (vera) quando essa può venire inserita nel sistema di proposizioni preesistente; la verità non è corrispondenza tra linguaggio e realtà, ma è coerenza delle proposizioni tra di loro. Tutto ciò che non possiamo inserire in questo sistema coerente viene generalmente rigettato come non corretto (falso); è chiaro, tuttavia, che esiste anche la possibilità invece di rifiutare la nuova proposizione che non si accorda con il resto, di cambiare il precedente sistema di proposizioni finché la nuova proposizione possa essere inserita. Sebbene Neurath non faccia riferimento a Duhem, egli arriva comunque a concludere che ciò che si suol chiamare confronto con l’esperienza avviene mettendo in discussione un sistema di proposizioni, non la singola proposizione. Nonostante questo esito, Neurath continuò a considerare la singola proposizione come unità significante. Altri autori dell’area neopositivista si spinsero oltre. Carl Hempel all’inizio degli anni cinquanta partì dal problema di definire i termini teorici presenti nella scienza, criticando la concezione neopositivista ortodossa che cercava di definire tali termini esplicitamente o operativamente usando solo termini osserva-

Duhem-Quine tivi. A suo parere i termini teorici devono essere introdotti nella scienza dalle teorie, il che significa che un termine teorico è in effetti definito implicitamente non da termini osservativi, ma dalla teoria. Tuttavia, poiché dalla teoria sono deducibili proposizioni confrontabili con l’esperienza che non contengono il termine in questione, si deve dire che è la teoria intesa come un tutto unitario ad avere un significato empirico, ed è solo la teoria che può essere confermata o falsificata. Decisamente critico nei confronti del neopositivismo fu il celebre intervento del 1951 di Willard van Orman Quine, Two Dogmas of Empiricism. I due dogmi che Quine intende mettere in discussione, in aperta polemica con Carnap, sono la distinzione netta tra proposizioni analitiche (vere per la loro forma linguistica) e proposizioni sintetiche (vere in base all’esperienza) e il riduzionismo, cioè la credenza che ogni proposizione dotata di significato sia equivalente a qualche costrutto logico con termini che si riferiscono all’esperienza immediata. Quine assume una prospettiva linguistica, senza prestare alcuna attenzione alle problematiche più legate alle teorie scientifiche e alla sperimentazione e il nome di Duhem è citato solo in nota, ciononostante questo saggio sarà poi unanimemente indicato come il testo in cui è esposta la tesi Duhem-Quine. Quine parte dalla ricerca di una chiara definizione di analiticità, soffermandosi in particolare sulla definizione fondata sull’impiego del concetto di «sinonimia»: analitica è una proposizione che può essere trasformata in una verità logica sostituendo sinonimi con sinonimi. Tuttavia, le relazioni di sinonimia si basano su usanze linguistiche, non su definizioni, dunque anche la definizione di analiticità, data partendo dalla nozione di sinonimia, viene a reggersi su usanze, su conoscenze empiriche, non è chiarificabile rigorosamente. Questa e altre argomentazioni conducono a dover ammettere che è impossibile tracciare una linea di demarcazione chiara tra enunciati analitici, la cui verità dipende solo dalla forma linguistica, e sintetici, la cui verità dipende solo dall’esperienza. Ogni enunciato è vero in dipendenza tanto da componenti linguistiche, quanto da componenti fattuali, ma non è possibile disegnare nettamente ciò che le separa. Se non esistono enunciati la cui verità dipende solo dall’esperienza, allora cade anche l’altro dogma, quello del riduzionismo, che si fonda sull’idea che esistano 3131

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Duhem-Quine enunciati che, presi isolatamente, si possano dichiarare veri o falsi senza ambiguità in base a esperienze sensoriali. La scienza nel suo complesso ha una doppia dipendenza dal linguaggio e dall’esperienza, ma questa dualità non è individuabile all’interno degli enunciati della scienza presi uno a uno. La conclusione è dunque analoga a quella di Duhem: le nostre affermazioni sul mondo esterno affrontano il tribunale dell’esperienza non individualmente, ma solo come un tutto organico. L’unità di significanza empirica è l’intera scienza. Allorquando incontriamo un disaccordo tra il complesso degli enunciati scientifici e l’esperienza siamo liberi di ritoccare qualsiasi enunciato per sanare la contraddizione, nessuna esperienza può costringerci a dichiarare falso un singolo enunciato. Le differenze rispetto alla formulazione duhemiana sono tuttavia rilevanti. Innanzi tutto Quine generalizza all’intera scienza un discorso che Duhem mantiene nei limiti delle teorie della fisica: per Quine anche la logica e la matematica, oltreché le varie discipline empiriche, fanno parte del complesso di enunciati che viene messo a confronto con l’esperienza e per salvare un’ipotesi è lecito ritoccare anche logica e matematica. In secondo luogo Quine non solo ritiene che una singola ipotesi non venga condannata dall’esperienza, ma sostiene anche che qualsiasi ipotesi può essere salvata, che qualsiasi enunciato può essere mantenuto vero qualsiasi cosa accada, se si fanno riaggiustamenti drastici in qualche altra parte del sistema. Con la riformulazione datane da Quine, la tesi duhemiana cominciò negli anni cinquanta a circolare anche in ambiente anglosassone, che l’aveva in precedenza quasi ignorata. Fu solo allora che Karl Popper si accorse che la critica agli esperimenti cruciali falsificanti era una obiezione devastante per la sua filosofia. Nella Logik der Forschung del 1934 Popper aveva presentato una filosofia della scienza radicalmente alternativa a quella neopositivista incentrata sull’idea che la scienza sia un insieme di enunciati falsificabili empiricamente, anziché verificabili. In questo testo egli non prese in considerazione l’argomento di Duhem, che negava il suo presupposto di partenza, cioè che il singolo enunciato sia falsificabile, limitandosi a dichiarare (in nota) che la critica duhemiana era rivolta contro gli esperimenti cruciali verificanti, cosa del tutto inesatta. Dopo l’apparizione del saggio di Quine l’argomento non po3132

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teva più essere aggirato e Popper in vari saggi lo affrontò elaborando la nozione di «conoscenza di sfondo». Quando discutiamo di un problema, per esempio il risultato inaspettato di un’esperienza, sostiene Popper, accettiamo sempre (anche solo provvisoriamente) elementi di ogni genere in maniera non problematica, come elementi garantiti: essi costituiscono, provvisoriamente e relativamente alla discussione di quel particolare problema, una conoscenza di sfondo non problematica. Nessun elemento di questa conoscenza è a rigor di logica immune dalla falsificazione, tuttavia la maggior parte della vasta conoscenza di sfondo che usiamo resta fuori discussione per ragioni pratiche: senza ammettere nulla di garantito (provvisoriamente), rimettendo in forse tutto, la discussione razionale, la critica, non sarebbero possibili, occorrerebbe sempre ripartire da dove ha cominciato Adamo. Ammettendo la conoscenza di sfondo, la tesi Duhem-Quine perde molta della sua forza e diventa possibile mettere alla prova alcune particolari ipotesi senza dover necessariamente mettere in discussione l’intera scienza. Una dura critica alla tesi Duhem-Quine fu compiuta negli anni sessanta in una serie di lavori di Adolf Grünbaum. Egli sostenne che la tesi di Duhem-Quine è falsa perché si è in grado di costruire un controesempio: la falsificazione della geometria fisica. La critica non sembra cogliere il bersaglio, almeno per quello che riguarda Duhem, il quale sostenne che non è falsificabile la singola ipotesi, ma non escluse la possibilità di falsificare una teoria, qual è la geometria fisica. Grünbaum insistette anche su un secondo punto: anche ammettendo che un’esperienza non possa falsificare un’ipotesi, non vi è modo di garantire che quest’ipotesi possa essere salvata effettivamente. Ma Duhem non affermò mai che l’impossibilità di falsificare un’ipotesi in modo definitivo sia equivalente alla possibilità di salvare effettivamente quell’ipotesi, questa fu semmai l’opinione di Quine. In difesa di Duhem vari autori (Laurens Laudan, Giancarlo Giannoni, Gary Wedeking) operarono una distinzione tra una versione forte della tesi di Duhem-Quine, che non è sostenuta da Duhem, la quale afferma che chi nega che un’ipotesi sia falsificata deve mostrare in che modo essa può essere salvata, e una versione debole, propria di Duhem, secondo cui chi nega un’ipotesi deve mostrare che non vi è modo

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di salvarla. La critica di Grünbaum vale contro la prima, non contro la seconda. Nel corso degli anni sessanta la tesi di Duhem - Quine, sulla cui importanza per la teoria della conoscenza insistette Mary Hesse, fu inserita in un ampio contesto filosofico da lavori importanti come The Structure of Scientific Revolutions (Chicago 1962) di Thomas S. Kuhn e Against Method (1970) di Paul Feyerabend. Per Kuhn la normale attività degli scienziati avviene sulla base di risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una comunità scientifica riconosce, per un certo periodo di tempo, la capacità di costituire il fondamento della sua prassi ulteriore. Grandi opere come quelle di Aristotele o di Newton hanno per lungo tempo definito i problemi e i metodi da considerarsi legittimi in un determinato campo, hanno avuto la funzione che hanno i paradigmi dei verbi nello studio delle lingue. Il paradigma scientifico dominante in un dato periodo orienta tutta l’attività di ricerca, tanto teorica quanto sperimentale, verso la soluzione di quei problemi che sono rimasti aperti. Lo scienziato che opera dentro un paradigma si comporta come un solutore di rompicapo, poiché agisce dando per presupposto che, entro il suo paradigma, esista la soluzione del problema che affronta. Se non si riesce a risolvere qualche problema, in particolare se alcuni esperimenti sembrano falsificare il paradigma, la reazione spontanea è quella di attribuire la colpa del fallimento non al paradigma, ma alla scarsa abilità dello scienziato; non sarà certo la singola anomalia a far dichiarare falsa la teoria. Il confronto tra il paradigma e l’esperienza è sempre un confronto complessivo, un bilancio tra il paradigma e l’insieme delle esperienze ad esso relative. Può darsi che le anomalie persistano e si moltiplichino, che il paradigma manifesti segni di crisi; questa crisi è la fase preparatoria all’avvento di un nuovo paradigma, la premessa a una rivoluzione scientifica. Il nuovo paradigma è una risposta alla crisi del vecchio, una rivoluzione scientifica è il passaggio da un paradigma dominante a un altro paradigma dominante. Solo l’avvento del nuovo paradigma falsifica quello vecchio. Il passaggio al nuovo paradigma non avviene in base a esperienze cruciali che falsificano il vecchio: i singoli scienziati aderiscono al nuovo paradigma per ragioni di vario genere e di solito per parecchie ragioni nello stesso tempo; alcune di queste ragioni si trovano completamente al

Duhem-Quine di fuori della sfera della scienza e riguardano le convinzioni filosofiche e religiose. In questa ampia concezione della natura della scienza kuhniana la forza decisionale dell’esperimento falsificante si indebolisce fino ad assumere funzioni del tutto sussidiarie. Entro l’«anarchismo metodologico» di Paul Feyerabend il ruolo degli esperimenti falsificanti diventa ancor più evanescente. Per Feyerabend non esiste la possibilità di porre in evidenza un insieme di regole che lo scienziato sarebbe obbligato a rispettare, un metodo scientifico. Le maggiori rivoluzioni sono avvenute solo perché alcuni scienziati decisero di violare norme metodologiche, ivi compresa la condizione di coerenza con le ipotesi già accettate. Non solo: soprattutto per teorie ricche di novità, le aspettative teoriche si possono trovare in profondo contrasto con i dati empirici, ma non per questo sono state abbandonate, poiché sono lecite molteplici strategie, in primo luogo l’applicazione della tesi di Duhem-Quine nella versione forte, che consentono di proseguire lungo la strada intrapresa. L’esperienza sembra non avere più alcun potere falsificante. Con la mediazione di queste filosofie, che indeboliscono il ruolo giocato nello sviluppo scientifico dall’esperimento, la tesi di Duhem-Quine negli ultimi decenni è stata accolta dalla sociologia della scienza, ad esempio nei lavori di Andrew Pickering. Tra i pensatori ispirati dal pensiero di Popper, un impegnato tentativo di salvare la nozione di falsificabilità di fronte a questi attacchi è stato fatto da Imre Lakatos. Per Lakatos l’impresa scientifica si sviluppa mediante unità complesse che sono programmi di ricerca. Un programma è costituito da un nucleo, che è un insieme di ipotesi di particolare importanza accettato come (provvisoriamente) non confutabile, una euristica che indica quali problemi affrontare, i modi leciti e quelli illeciti per farlo e un insieme di ipotesi di importanza minore che formano, con l’euristica, una cintura protettiva che ha lo scopo di preservare il nucleo. Secondo questa prospettiva, ciò che si confronta con l’esperienza è una unità complessa e articolata e le anomalie riscontrate non hanno il potere di falsificare le principali ipotesi teoriche. Per Lakatos i programmi di ricerca navigano sempre in un mare di anomalie, lavorando sulla cintura protettiva allo scopo di preservare il nucleo; non esiste alcun esperimento cruciale in grado di decidere senza ap3133

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Dühring pello la sorte di un programma. La falsificazione di un programma avviene solo a opera di un programma rivale: allorquando un programma di ricerca si sviluppa senza mai anticipare fatti nuovi, inattesi, ed esiste invece un programma rivale che vive producendo, almeno di tanto in tanto, previsioni sorprendenti confermate dall’esperienza, allora è razionale abbandonare il primo per il secondo. D’altra parte, poiché nessuno può garantire che il programma vecchio non cominci a produrre novità, è anche razionale non aderire al nuovo e si tratta dunque di una falsificazione sempre soggetta al dubbio e rivedibile. Un ritorno all’impostazione originale di Duhem è rappresentato da alcuni autori che, a partire dagli anni ottanta, hanno posto al centro della propria attenzione l’analisi delle procedure sperimentali della fisica, particolarmente quelle della fisica delle particelle elementari (I. Hacking, P. Galison, A. Franklin). Costoro hanno cercato di mettere a fuoco alcune strategie mediante le quali i fisici normalmente cercano di accrescere la forza persuasiva di un risultato sperimentale. Alla tesi di Duhem-Quine viene riconosciuto un valore logico ed epistemologico fondamentale, ma si cerca di ricostruire modalità mediante le quali si possa realmente imparare dall’esperienza aumentando la nostra fiducia nei risultati sperimentali ottenuti. Negli anni novanta la tesi di Duhem-Quine è stata estesa all’economia, ed è stato affrontato il problema se sia possibile falsificare le singole ipotesi economiche o le diverse teorie economiche, giungendo a conclusioni spesso negative (A. Boitani, A. Salanti, D.M. Hausman), nonostante non siano mancati tentativi di segno opposto (Th.A. Boylan, Paschal F. O’Gorman). La tesi di DuhemQuine è venuta così a occupare un ruolo sempre più importante nella riflessione epistemologica e filosofica. R. Maiocchi BIBL.: S.G. HARDING (a cura di), Can Theories Be Refuted?, Dordrecht 1976; I. HACKING, Representing and Interventing, Cambridge 1983, tr. it. di E. Prodi, Conoscere e sperimentare, Roma-Bari 1987; R. ARIEW, The Duhem Thesis, in «The British Journal of the Philosophy of Science», 35 (1984), pp. 313-325; D.M. HAUSMAN, The Inexact and Separate Science of Economics, Cambridge 1992; Y. BALASHOV, Duhem, Quine and the Multiplicity of Scientific Tests, in «Philosophy of Science», 61 (1994), pp. 608-628; P. GALISON, Ima-

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ge and Logic, Chicago 1997; A. FRANKLIN, Can That Be Right? Essays on Experiment, Evidence and Science, Dordrecht 1999.

DÜHRING, KARL EUGEN. – Filosofo tedesco, Dühring n. a Berlino il 12 genn. 1833, m. a Nowawes (oggi presso Potsdam) il 21 sett. 1921. Studia diritto a Berlino e inizia la carriera giuridica, ma a causa di una malattia agli occhi che lo rende quasi cieco non può diventare giudice. Nel 1863 si abilita con Trendelenburg in filosofia e più tardi anche in economia politica. Sospeso dall’insegnamento universitario nel 1877 a causa dei suoi atteggiamenti fortemente polemici provocatigli anche dal suo carattere orgoglioso, continua imperterrito la sua attività di filosofo e scienziato come libero scrittore. Si interessa di matematica, fisica, chimica, in particolare di economia; la sua produzione è molto vasta e spazia per i campi più disparati. Uno dei suoi meriti consiste nell’opera di storico della scienza e dell’economia, come documentano le opere: Kritische Geschichte der Nationalökonomie und des Sozialismus, Leipzig 1871; Kritische Geschichte der allgemeinen Prinzipien der Mechanik, Berlin 1873). A partire dal 1899 ha pubblicato la rivista «Personalist und Emanzipator». Più che un dotto, egli vuole essere un riformatore: il suo sogno è quello di trasformare la società in base ai principi della sua filosofia, che definisce Wirklichkeitsphilosophie; si tratta di una forma di positivismo materialistico, per cui «sentire e pensare sono stati di eccitazione della materia» (Der Wert des Lebens, Breslau 1865, p. 79); però il suo materialismo non è meccanicistico, bensì permette una visione dinamico-organica della realtà che si riflette in una concezione ottimistica della vita. Per Dühring la morale deriva dalla volontà; un comportamento morale è possibile solo nel rapporto reciproco tra gli uomini, in cui deve valere il principio di giustizia (Gerechtigkeitsprinzip), che è il punto basilare per le riforme politico-sociali propugnate da Dühring. Nella filosofia politica lo stato è concepito come il risultato di un’originaria situazione di violenza che si perpetua sino ai nostri giorni nell’esercizio del potere politico. Dühring vi contrappone il concetto di «giustizia naturale» e vuole eliminare questo elemento di violenza dalla società mediante la creazione di un «sistema socialitario».

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Il socialismo di Dühring si distingue nettamente dal marxismo per l’importanza che annette all’individuo e per il rifiuto della rivoluzione; anzi egli cerca di conciliare i principi del liberalismo economico (A. Smith) e dell’economia di mercato con le esigenze di giustizia e di eguaglianza del socialismo. Così egli propugna l’unione dei lavoratori e dei deboli in «coalizioni sociali» che si debbono sviluppare economicamente nel libero gioco della concorrenza. Tale sistema socialitario è il primo cosciente tentativo di mediazione e sintesi tra socialismo e liberalismo. La filosofia della religione di Dühring è caratterizzata da una violenta polemica contro il motivo della «servitù dell’uomo», tipico della religione ebraica, ma presente anche nel cristianesimo; bisogna eliminare questo elemento «asiatico» dalla religione, la cui essenza consiste nell’educazione etica (Geistesführung) la cui forma suprema è la Selbstführung. La sua continua polemica con il marxismo, col militarismo, con la politica di Bismark, con la filosofia accademica, il suo fanatico antisemitismo e la sua generica avversione contro ogni religione, gli crearono molti nemici e gli resero la vita difficile. Sono rimasti famosi gli articoli scritti contro di lui in «Vorwärts» da F. Engels, raccolti poi in volume, testimonianza dei timori nutriti dai marxisti di una diffusione delle idee di Dühring tra la classe operaia. Nel 1924 è stato fondato da E. Döll un Dühring-Bund. M. Durissini BIBL.: Kritische Geschichte der Philosophie, Berlin 1869; Logik und Wissenschaftstheorie, Leipzig 1878; Der Ersatz der Religion durch Vollkommeneres, Karlsruhe 1883; Wirklichkeitsphilosophie, Leipzig 1895. Su Dühring: H. VAIHINGER, Hartmann, Dühring und Lange, Iserlohn 1876; F. ENGELS, Herrn Eugen Dühring’s Umwälzung der Wissenschaft, Leipzig 1878, tr. it. di G. de Caria, Anti-Dühring, Roma 1985; E. DÖLL, Eugen Dühring, Leipzig 1893; G. ALBRECHT, Eugen Dührings Wertlehre, Jena 1914; G. ALBRECHT, Eugen Dühring, Jena 1927; H. BINDER, Das sozialitäre System Eugen Dührings, Jena 1933; B. CROCE, «Il signor Dühring», in «Quaderni della critica», 13 (1949), pp. 45-60; G. KRAUSE, Eugen Dühring in the Perspective of Karl Marx and Friedrich Engels, in «Journal of Economic Studies», 29 (2002), pp. 345363.

DUMAS, JEAN-BAPTISTE-ANDRÉ. – Chimico Dumas francese, n. ad Alais (Gard) nel 1800, m. a Cannes nel 1884.

Dumbleton A trentadue anni succedeva a L.J. Gay-Lussac sulla cattedra della Sorbona. È considerato in Francia il fondatore della chimica organica, e fu uno dei più grandi chimici della prima metà del sec. XIX. Contro le teorie elettrochimiche di Berzelius, allora largamente accettate, egli oppose una teoria unitaria della materia, che, attraverso i lavori di altri chimici, condusse (1869) alla scoperta di D.I. Mendeleev. Oltre alle numerosissime memorie, sono tuttora ricordate tre sue opere fondamentali: Traité de chimie appliquée aux arts, Paris 182845, 8 voll.; Leçons sur la philosophie chimique (per due terzi di carattere storico), ivi 1837; Essai de statique chimique des êtres organisés, ivi 1841. M. Gliozzi BIBL.: J. PETREL, La négation de l’atome dans la chimie du XIXème siècle. Le cas de Jean-Baptiste Dumas, Paris 1979; M. CHAIGNEAU, Jean-Baptiste Dumas. Sa vie, son ouvre: 1800-1884, Paris 1984.

DUMBLETON, GIOVANNI. – Fellow al Merton Dumbleton College di Oxford, logico e filosofo della natura attivo tra il 1338 e il 1347/8. Prese forse parte alla fondazione del Queen’s College (1340). Si conoscono un suo commentario teologico, intitolato Summa theologiae maior, in dieci libri (Oxford, Magdalen College, cod. 195, ff. 1-131) e una Summa logicae et philosophiae naturalis (Vat. lat. 6750, ff. 1-202). In logica segue le teorie innovatrici di Ockham; così in etica, accedendo al determinismo etico-teologico. In fisica accetta la teoria averroista a proposito della questione circa la conservazione degli elementi nelle sostanze composte, affermando che, contrariamente alle forme delle sostanze superiori, le forme delle elementari possono subire una diminuzione di intensità (remissio), e pertanto, dall’unione di queste forme remissae, risulta una forma entitativa perfetta unica, la forma mixti. Possono essere soggette a intensione e remissione, superando la difficoltà determinata dal principio secondo cui «forma substantialis non suscipit plus vel minus», in quanto rappresentano qualcosa di intermedio tra sostanza e accidente. A. Pompei BIBL.: A. MAIER, An der Grenze von Scholastik und Naturwissenschaft, Roma 1952; E.D. SYLLA, The Oxford Calculators and Mathematical Physics: John Dumbleton’s Summa logicae et philosophiae naturalis, part II and III, in S. UNGURU (a cura di), Physics, Cosmology and Astronomy, 1300-1700: Tension and Accomodation, Dordrecht 1991, pp. 129-161; E.D. SYLLA, The

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Duméry Oxford Calculators and Mathematics of Motion 13201350. Physics and Measurement by Latitudes, New York - London 1991.

DUMÉRY, HENRY. – Filosofo della religione Duméry francese, n. ad Auzances il 29 febbr. 1920. Dopo la formazione teologica sotto la guida di J. Trouillard, uno dei massimi studiosi francesi del neoplatonismo, nel 1941 conobbe personalmente M. Blondel di cui divenne in seguito assistente fino alla morte di questi (1949). Ha insegnato filosofia nell’università di Caen e, a partire dal 1966, filosofia e storia delle religioni a Paris-Nanterre. L’opera di Duméry si caratterizza per il tentativo di elaborare una compiuta filosofia della religione. Per fare ciò muove dal pensiero di Blondel (cfr. La philosophie de l’action. Essai sur l’intellectualisme blondelien, Paris 1948, tr. it. Bari 1973, Blondel et la religion, ivi 1954 e la seconda parte de La tentation de faire du bien, ivi 1956), dove, particolarmente nell’Action (1893) e nella Lettre sur l’apologétique, egli individua il compito di questa disciplina nel preservare la specificità del fenomeno religioso ottemperando nel contempo alle istanze critiche della filosofia moderna. A questa fondamentale ispirazione blondeliana si combina (cfr. Foi et interrogation, ivi 1954; Regards sur la philosophie contemporaine, ivi 1956) quella plotiniana e quella proveniente da varie correnti della filosofia contemporanea, come la fenomenologia husserliana e l’esistenzialismo sartriano. Sulla base di esse, e in modo un po’ sincretico, Duméry ha elaborato un progetto sistematico di filosofia della religione che ha trovato espressione in un gruppo di opere pubblicate tutte nel 1957: Critique et religion. Problèmes de méthode en philosophie de la religion, ivi; Le problème de Dieu en philosophie de la religion. Examen critique de la catégorie d’Absolu et du schème de transcendance, ivi; Philosophie de la religion. Essai sur la signification du christianisme, ivi, 2 tt.; La Foi n’est pas un cri, Tournai-Paris. Di esse, la prima costituisce il discorso sul metodo in cui vengono esaminati e discussi alcuni dei tradizionali modelli di filosofia della religione; la seconda offre un’originale dimostrazione dell’esistenza di Dio chiamata riduzione apofatica o henologica; la terza, nel primo tomo, sviluppa un’antropologia a sfondo neoplatonico che considera la religione come fenomeno essenzialmente spirituale e che rappresenta il presupposto dell’analisi critica di alcune cate3136

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gorie e di alcuni schemi del cristianesimo, svolta nel secondo tomo. L’ultimo scritto è una ripresa di questa analisi critica che, nelle intenzioni di Duméry, avrebbe dovuto estendersi all’intero corpo dottrinale del cristianesimo con l’obiettivo di chiarirne la genesi e di illustrarne il senso. L’ambizioso progetto di Duméry non ha però trovato prosecuzione: le opere pubblicate nel 1957, messe all’Indice con decreto del Sant’Uffizio nel 1958, trovarono una ricezione, quasi esclusivamente critica, soltanto in ambito teologico. Dapprima impegnato nell’offrire una sintesi della propria filosofia della religione (Phénoménologie et religion. Structures de l’institution chrétienne, Paris 1958) e poi nel replicare su vari fronti ai molti critici (La Foi n’est pas un cri, suivi de Foi et institution, ivi 1959; Raison et Religion dans la philosophie de l’action, ivi 1963), Duméry non ha dato seguito al progetto iniziale, pubblicando dopo il 1966 soltanto alcuni brevi articoli sull’interpretazione contemporanea del neoplatonismo. La filosofia della religione ha il compito per Duméry di «comprendere» le diverse nozioni religiose, cioè di mettere in rilievo il significato razionale di queste ultime senza pregiudicarne la realtà. Ciò è possibile grazie al metodo che egli chiama della «discriminazione», risultante da un’integrazione fra il metodo dell’immanenza blondeliano e l’epoché fenomenologica husserliana, in base al quale vengono distinti diversi livelli della coscienza (intelligibile, razionale, psico-empirico). Se il primo livello è quello in cui lo spirito finito si auto-costituisce in virtù della processione dall’«Uno», l’assoluto trans-categoriale della filosofia plotiniana, gli altri due permettono di oggettivare la «conversione all’Uno» che trova nella religione la sua l’espressione attiva e voluta. Tale oggettivazione si realizza per mezzo di categorie e di schemi con i quali lo spirito finito, in quanto razionale e incarnato, esprime il proprio dinamismo interiore verso l’Uno, il quale tuttavia rimane ad esso assolutamente trascendente. La filosofia della religione costituisce il momento riflessivo di quest’atto vitale e si applica alle categorie e agli schemi religiosi con l’intento di «ridurli» criticamente, cioè di stabilire il loro grado di adeguazione al dinamismo interiore. I capisaldi di questa concezione sono rappresentati dal rifiuto della ontologia partecipazionistica tra Dio e il mondo e dall’assunzione di una rigorosa teologia apofatica che si spinge fino alla negazione del

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carattere personale di Dio. Su questa base Duméry ha sviluppato un’interpretazione del cristianesimo, largamente influenzata dalla filosofia spinoziana e hegeliana, volta ad apprezzarne la superiorità rispetto alle altre religioni in virtù del carattere spirituale e interiore delle sue rappresentazioni. Le critiche da parte teologica a Duméry si sono appuntate soprattutto sul suo rifiuto dell’ontologia e la sua sostituzione con l’henologia plotiniana. A. Aguti BIBL.: L. MALEVEZ, Transcendance de Dieu et création des valeurs. L’absolu et l’homme dans la philosophie de H. Duméry, Paris 1958; H. VAN LUIJK, Philosophie du fait chrétien. L’analyse critique du Christianisme de H. Duméry, Paris 1964; G. DE VETH, L’homme créateur. Essai sur l’antropologie développée par M.H. Duméry dans sa philosophie de la religion, Liège 1966; J.M. VELASCO, Hacia una filosofía de la religión cristiana. La obra de H. Duméry, Madrid 1970; R.F. DE BRABANDER, Religion and Human Autonomy. H. Duméry’s Philosophy of Cristianity, The Hague 1972; A. AGUTI, H. Duméry. Filosofia della religione e critica del cristianesimo (con bibliografia finale), Brescia 2004.

DUMÉZIL, GEORGES. – Linguista e storico Dumézil delle religioni, n. a Parigi il 10 giu. 1898, m. a Parigi l’11 ott. 1986. Insegnò Storia delle Religioni dal 1925 al 1931 presso l’università di Istanbul, fu dal 1919 al 1968 membro del Collège de France e, dal 1978, dell’Académie Française. Muovendo dallo studio della cultura romana, Dumézil teorizza l’esistenza, nelle società indoeuropee, di una «ideologia delle tre funzioni», che struttura sia la realtà, sia l’immaginario e che può essere riscontrata nell’organizzazione sociale, nella letteratura, nelle credenze religiose: la funzione della sovranità (Giove), quella guerriera (Marte), quella riproduttiva (Quirino). La prima funzione, inoltre, vivrebbe del dualismo tra una valenza giuridico-politica, rappresentante dell’ordine costituito e strutturato, e una magico-religiosa, la quale (interagendo con la funzione guerriera) presiederebbe, invece, al momento istitutivo di tale ordine. Fra i testi a cui Dumézil rimanda a sostegno dell’esistenza dell’«ideologia delle tre funzioni», sono pressoché assenti quelli di carattere filosofico, tanto per la cultura indiana, quanto per quella greca; la riflessione filosofica e, soprattutto, la realtà sociale di tipo democratico di cui essa è espressione avrebbero

Dummett infatti alterato, secondo Dumézil, l’ideologia indoeuropea originaria. S. Borutti BIBL.: Jupiter, Mars, Quirinus, Paris 1955; Les dieux des Germains. Essai sur la formation de la religion scandinave, Paris 1965; Le livre des héros, légendes sur les Nartes, Paris 1965; La religion romaine archaïque, Paris 1966; Mythe et épopée, vol. I: L’idéologie des trois fonctions dans les épopées des peuples indo-européens, Paris 1968; Mythe et épopée, vol. II: Types épiques indo-européens: un héros, un sorcier, un roi, Paris 1971; Mythe et épopée, vol. III: Histoire romaine, Paris 1973; Les dieux souverains des Indo-Européens, Paris 1977. Su Dumézil: J.C. RIVIÈRE, Georges Dumézil à la découverte des indo-européens, Paris 1979; AA.VV., Georges Dumézil: cahiers pour un temps, Paris 1981; D. ERIBON, Faut-il brûler Dumézil?, Paris 1982; D. DUBUISSON, Mythologies du XX siècle, Lille 1993.

DUMMETT, MICHAEL . – N. a Londra nel Dummett 1925. Ha studiato al Christ Church College di Oxford, ottenendo una fellowship al All Souls College, e in seguito al New College. Nel 1979 è diventato Wy Reham Professor di logica a Oxford, ed è divenuto cavaliere della regina nel 1999. Sir M. Dummett, noto anche in campo politico-sociale per le sue lotte per le minoranze etniche, si rivela al pubblico filosofico internazionale con il suo primo libro Frege, Philosophy of Language (London 1973). In questo testo presenta una visione complessiva dell’opera di Frege, rivelandone la influenza profonda su tutta la filosofia del linguaggio. Prima Frege era soprattutto il rappresentante del logicismo – una dottrina in filosofia della matematica – e il logico il cui sistema formale era stato denunciato come contraddittorio da B. Russell. Dopo Dummett Frege diviene il fondatore della filosofia analitica moderna, l’autore che influenzò non solo grandi autori come Husserl, Russell, Carnap e Wittgenstein, ma ebbe un effetto duraturo su tutto il dibattito filosofico del XX secolo. La svolta di Frege, che Dummett fa sua, è quella di riportare la logica al centro della filosofia, dopo che ne era stata estromessa da Descartes e Locke, che ponevano al centro della filosofia l’epistemologia. La domanda dei filosofi moderni era: come possiamo conoscere i concetti? La domanda di Frege è: cosa è un concetto, di cui ci domandiamo l’origine? Più che di logica si potrebbe parlare di ontologia o, come fa Dummett, di una teoria sistematica del significato. La «svolta 3137

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Dumoulin linguistica» inaugurata da Frege è stata quella per cui non è più possibile un’analisi della struttura del pensiero (e del concetto) che non passi attraverso un’analisi della struttura e del funzionamento del linguaggio. Dummett basa su questa visione della svolta linguistica una sua originale interpretazione della filosofia analitica, delle sue origini e del suo carattere fondamentale. Alle origini della filosofia analitica si situano Frege e Husserl, anche se è il primo ad aver individuato, con il concetto di «senso di un enunciato», la strada maestra per giungere ad una analisi del pensiero. Comune a entrambi – ma l’origine dell’idea è di Frege – è l’antipsicolgismo: i pensieri (o per Husserl i noemi) sono oggettivi e non dipendono dai processi psichici. Frege giustificava la oggettività dei pensieri relegandoli in un terzo regno quasi platonico; Dummett vede nel secondo Wittgenstein l’autore che riconduce l’idea fregeana dell’oggettività dei pensieri all’ambiente in cui essa può essere meglio giustificata: il linguaggio e le pratiche dell’uso linguistico. La filosofia analitica dunque si definisce per la tesi secondo cui il pensiero può essere studiato solo a partire dalla sua espressione linguistica. Questa tesi è stata contestata da molti in ambito analitico, primo tra tutti G. Evans, che pur non rientra nella cosiddetta «filosofia post-analitica». Sulla base di queste idee, sviluppate e chiarite in un intenso dibattito con i suoi critici e in numerose altre pubblicazioni su Frege, l’autore definisce in altri scritti una sua visione del rapporto tra logica e metafisica, impostando in modo nuovo le categorie del dibattito metafisico tra realisti e antirealisti. Il dibattito tra realisti e antirealisti si configura per diversi campi di indagine, dalla matematica alla fisica, alla psicologia e alla sociologia. Cercando di superare la visione ingenua del realismo («esistono» gli enti di cui si parla: esistono i numeri, esistono le funzioni d’onda, esistono le credenze individuali e i desideri collettivi), Dummett propone una nuova definizione del dibattito: la differenza tra realisti e antirealisti si caratterizza per il tipo di enunciati che vengono accettati nelle varie discipline scientifiche. In matematica un realista accetta come significanti enunciati su totalità infinite attuali che l’antirealista (ad es. l’intuizionista in matematica) non accetta; in psicologia il realista accetterà come significanti enunciati che parlano di credenze e desideri mentre l’antirealista 3138

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(ad es. il comportamentista) accetterà nello statuto della sua disciplina solo enunciati in termini di stimolo e risposta. Il dibattito realismo-antirealismo, così concepito, pone il problema di definire cosa si intende per significato di un enunciato e – in ultima analisi – per verità. Per il realista, come Frege e il Wittgenstein del Tractatus, il significato di un enunciato è dato dalle sue condizioni di verità, a prescindere dalla possibilità di riconoscerle: un enunciato è vero o falso a prescindere dalla nostra possibilità di riconoscerlo come tale. Per un antirealista, come il secondo Wittgenstein, o un intuizionista in matematica, il significato di un enunciato è dato dalle condizioni di asseribilità o dalle condizioni alle quali può essere giustificato (o, in matematica, dimostrato). La verità dunque non è un concetto così facilmente trattabile né è un concetto puramente formale (come vorrebbero i deflazionisti), ma si definisce come asseribilità giustificata o garantita. Idee di questo genere verranno sviluppate da C. Wright con il concetto di verità come super-asseribilità in condizioni ideali. C. Penco BIBL.: Frege. Philosophy of Language, London 1973, tr. it. a cura di C. Penco, Filosofia del linguaggio: saggio su Frege, Casale Monferrato 1983; Truth and Other Enigmas, London 1978, tr. it. a cura di M. Santambrogio, La verità e altri enigmi, Milano 1986; The Interpretation of Frege’s Philosophy, London 1981; The Logical Basis of Metaphysics, Cambridge (Massachusetts) 1991, tr. it. a cura di E. Picardi, La base logica della metafisica, Bologna 1997; Frege and Other Philosophers, Oxford 1991; The Origins of Analytic Philosophy, London 1993, tr. it. a cura di E. Picardi Origini della filosofia analitica, Torino 2001; On Immigration and Refugees, London 2001; Pensieri. Interviste con Michael Pataut, Genova 2004. Su Dummett: B. ROSSLER, Die Theorie des Verstehens in Sprachanalyse und Hermeneutik: Untersuchungen am Beispiel M. Dummetts und F.D.E. Schleiermachers, Berlin 1990; B. MC GUINNESS - G. OLIVIERI (a cura di), The Philosophy of Michael Dummett, Dordrecht 1994; R. PRESILLA, Olismo e significato nel programma di ricerca di Michael Dummett, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2000; K. GREEN, Dummett: Philosophy of Language, Cambridge (Massachusetts) 2001; B. WEISS, Michael Dummett, Princeton 2002.

DUMOULIN, CHARLES. – Giurista francese, Dumoulin n. a Parigi nel 1500, m. ivi il 27 dic. 1566. Si dedicò agli studi giuridici, occupandosi anche di problemi economici e finanziari. Parte-

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cipò alla lotte giurisdizionalistiche e religiose del suo paese, convertendosi prima al calvinismo e in seguito al luteranesimo. Esiliato in Germania, ottenne d’insegnare a Tubinga e poi a Strasburgo, tornando però successivamente a Parigi. Nel suo Tractatus contractuum et usurarum avversa le teorie degli scolastici circa la proibizione del mutuo oneroso e tratta anche argomenti vari di economia sulle rendite, l’interesse e la moneta. Egli afferma che l’usura non è di per sé illecita, ma lo è soltanto quando avviene in modo fraudolento o prossimo a una circonvenzione. In questo senso si deve giudicare anche degli altri contratti. Dumoulin mirava dunque non alla difesa dell’usura, bensì a favorire un ordine giuridico capace di liberare d’ogni malinteso i contratti favorevoli all’espansione commerciale. Intorno alle rendite, che giuristi ed economisti confondevano con il mutuo, egli rileva che la costituzione di rendite non ha nulla a che vedere con l’usura, ossia con il mutuo a interesse. A. Nobile-Ventura BIBL.: Opera omnia, Paris 1681. Su Dumoulin: F. AUBÉPIN, De l’influence de Dumoulin sur la législation française, in «Revue critique de Législation et de Jurisprudence», 3 (1853), pp. 603625, 778-806; 4 (1854), pp. 27-44 e 261-330; 5 (1854), pp. 32-62 e 305-332; A. NOBILE VENTURA, Le dottrine economiche nel periodo umanistico-rinascimentale, in Grande Antologia filosofica, diretta da U.A. Padovani - M.F. Sciacca, Milano 1954-85, vol. X, pp. 952-954; J.-L. THIREAU, Charles du Moulin (1500-1566). Étude sur les sources, la méthode, les idées politiques et économiques d'un juriste de la Renaissance, Genève 1980.

DUNAN, CHARLES. – Filosofo francese, n. a Dunan Nantes nel 1849, m. nel 1931. Le sue principali opere sono: Essai sur les formes a priori de la sensibilité, Paris 1884; Cours de philosophie, ivi 1893; Théorie psychologique de l’espace, ivi 1895; Essais de philosophie générale, ivi 1898 (19023); Les deux idéalismes, ivi 1911. Dopo aver sostenuto nelle sue prime opere una posizione spiritualista affine a quella di Bergson – fondata sul carattere irriducibile della vita intesa come istinto e spontaneità – e aver professato anche una teoria della percezione che, ponendosi su una via parallela a quella di Husserl, influenzerà la fenomenologia francese, ne I due idealismi Dunan sostiene un «idealismo sperimentale», il cui intento è quello di elaborare, al di là dell’empirismo e dell’idealismo di matrice cartesiana e kantia-

Dunin Borkowski na, una metafisica dell’esperienza concreta della natura, che – collegata anche alla storia, alla scienza e alla religione – sappia sviluppare il «pensiero germinale» di Platone e Aristotele, consistente, a suo modo di vedere, nella comprensione dell’unità di natura e idea, sensibile e intellegibile. L. Ghisleri BIBL.: G. DE RUGGIERO, La filosofia contemporanea, Bari 1920, vol. I, pp. 228-230; J. BENRUBI, La philosophie contemporaine en France, Paris 1933, pp. 680-686; A. JACOB (a cura di), Encyclopédie Philosophique Universelle, Paris 1992, vol. III, coll. 2378-2379.

DUNGAL SAINT-DENIS. – Astronomo Dungal diDI Saint-Denis di origini irlandesi, visse durante il regno di Carlo Magno, ma collaborò anche con il figlio, Ludovico il Pio; m. verso l’827. A Dungal, già interpellato da Carlo Magno in merito alla Quaestio de nihilo sollevata da Fridugisio, abate di Tours, Ludovico affidò il compito di rispondere alle tesi iconoclaste di Claudio di Torino, che aveva individuato nell’Italia settentrionale alcune radicate tradizioni di venerazione di immagini e reliquie. L’iconoclastia, che era stata difesa alla fine del secolo VIII dai teologi carolingi nei Libri Carolini contro i pronunciamenti iconoduli del secondo concilio di Nicea (787), veniva infatti malvista alla corte di Ludovico che, a differenza del padre, voleva migliorare i rapporti con Bisanzio. Dungal, ignorando dunque la tradizione iconoclasta dei Libri, individuò nella distinzione agostiniana tra adorazione (dovuta a Dio) e venerazione (estendibile alle immagini sacre) la giustificazione patristica della iconodulia carolingia. A. Bisogno BIBL.: Responsa contra perversas Claudii Taurinensis episcopi sententias, ed. in J.-P. MIGNE, Patrologiae cursus completus, Series II: [Patres] Ecclesiae Latinae, Paris 1845-55, vol. CV, coll. 465-430 e in Epistolae, ed. a cura di E. Dümmler, «Monumenta Germaniae Historica: Epistolae karolini Aevi», vol. IV-2, Berlin 1895, pp. 570-585; Carmina, ed. a cura di E. Dümmler, «Monumenta Germaniae Historica: Poetae», voll. I-II, Berlin 1881-84, pp. 411 ss., pp. 664-665. Su Dungal di Saint Denis: G. D’ONOFRIO, La teologia carolingia, in G. D’ONOFRIO (a cura di), Storia della teologia nel Medioevo, vol. I: I principi, Casale Monferrato 1996, pp. 152-155 (bibliografia, pp. 184-185); P. ZANNA, Responsa contra Claudium: A Controversy on Holy Images, Firenze 2002.

DUNIN BORKOWSKI, STANISLAUS VON. – Dunin Borkowski Studioso di Spinoza, gesuita, n. a Leopoli l’11 3139

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Dunkmann nov. 1864, m. a Pullach (Monaco di Baviera) l’1 magg. 1934. Insegnò pedagogia a Francoforte. Pur avendo pubblicato anche altri scritti notevoli, la fama di Dunin Borkowski è legata ai suoi studi spinozistici condotti con infaticabile tenacia, rigorosità e completezza di ricerche per oltre trent’anni. Ricordiamo: Zur Textgeschichte und Textkritik der ältesten Lebensschreibung B. Despinozas, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», 1904, pp. 1-34 (in polemica con Freudenthal); Nachlese zur ältesten Geschichte des Spinozismus, in «Archiv für Geschichte der Philosophie» 1910, pp. 61 ss.; Der junge De Spinoza. Leben und Werdegang im Lichte der Weltphilosophie, Münster 1910 (a pp. 1-78 bibl. ragionata ed esame critico delle fonti; viene affrontata l’intricata e oscura questione della formazione del pensiero spinoziano, con risultati che in materia, almeno su un piano storico-filologico, si possono considerare definitivi); Spinoza nach dreihundert Jahren, BerlinBonn 1932; infine la grande opera in 4 voll.: Spinoza, Münster 1933-36; il primo volume riproduce il Der junge De Spinoza, gli altri tre, riuniti sotto il titolo: Aus den Tagen Spinozas, Geschehenisse, Gestalten, Gedankenwelt, portano i sottotitoli: Das Entscheidungsjahr 1657 (1933); Das neue Leben (1935); Das Lebenswerk (1936). L’atteggiamento generale di Dunin Borkowski rispetto a Spinoza, come osserva Guzzo, quale risulta da tutte le sue opere, anche se mai formalmente espresso, è piuttosto polemico e negativo, specie in relazione alla originalità del pensiero spinoziano; egli sembra infatti voler mostrare come «non solo non ci sia motivo della sua filosofia che non abbia una lunga storia, ma anche che le idee centrali del sistema sono tutt’altro che peregrine». E nel far ciò egli s’avvale della conoscenza precisa e minuziosa dell’ambiente in cui visse Spinoza, degli studi che egli compì, degli amici con i quali fu in relazione, e fin dei libri che componevano la sua biblioteca. Atteggiamento il suo, comunque, discreto, tale da non turbare mai la serenità, obbiettività e rigorosità del suo giudizio. A. Cardin BIBL.: A. GUZZO, nota in appendice all’ed. parziale dell’Etica, Firenze 1924, pp. 215-217; W. HENTRICH, Eines Spinozaforschers Lebensweg und Lebenswerk, in «Scholastik», 1935, pp. 541-547.

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

DUNKMANN, KARL. – Teologo e sociologo Dunkmann tedesco, n. ad Aurich il 2 apr. 1868, m. a Berlino il 28 nov. 1932. Insegnò dal 1912 al 1916 nell’università di Greifswald e, successivamente, nella Technische Hochschule für Soziologie di Berlino. Dal 1928 al 1932 diresse l’«Archiv für angewandte Soziologie». Come teologo egli vide nell’autocoscienza religiosa la coscienza normativa, che riconduce all’ultima unità tutte le norme eterogenee. Come sociologo elaborò una «dottrina dei gruppi». Red. BIBL.: opere principali: System theologischer Erkenntnislehre, Leipzig 1909; Metaphysik der Geschichte, Leipzig 1914; Religionsphilosophie, Gütersloh 1917; Die Kritik der sozialen Vernunft, Berlin 1924; Soziologie der Arbeit, Halle an der Saale 1933. Su Dunkmann: H. SAUERMANN (a cura di), Probleme deutscher Soziologie. Gedächtnisgabe für Karl Dunkmann, Berlin 1933; Neue Deutsche Biographie, vol. IV, Berlin 1959, pp. 199-200 (con bibliografia).

DUNS Duns Scoto SCOTO, GIOVANNI. – Filosofo e teologo francescano, n. a Duns nella contea di Berwich (Scozia) tra il 23 dic. 1265 e il 17 mar. 1266, m. a Colonia l’8 nov. 1308. SOMMARIO: I. La vita. - II. Le opere. - III. Il contesto culturale e le fonti. - IV. La controversia tra filosofi e teologi. - V. L’oggetto proprio dell’intelletto umano. - VI. Univocità delle nozioni trascendentali. - VII. Metafisica e teologia naturale. - VIII. Struttura ontologica dell’ente corporeo. - IX. Natura e dignità dell’uomo. - X. La conoscenza. - XI. Il primato della volontà libera. - XII. Filosofia della prassi: 1. L’etica. - 2. La società politica. - XIII. La teologia. I. LA VITA. – Il primo dato biografico attendibile è quello dell’ordinazione presbiterale, avvenuta il 17 marzo 1291 nella chiesa di Sant’Andrea a Northampton per le mani del vescovo di Lincoln Oliviero Sutton, per la quale occorreva aver compiuto i 25 anni di età; pertanto si può fissare la sua data di nascita tra la fine del 1265 e i primi mesi del 1266. Da alcune cronache tardive e da un velato cenno autobiografico sembra che Giovanni Duns abbia frequentato da giovanetto le scuole di grammatica nel convento dei frati minori di Haddington e quindi, per l’interessamento dello zio paterno Elia, vicario dei francescani di Scozia, sia entrato nel noviziato a 15 anni; dopo la professione religiosa fu avviato agli studi di filosofia e di teo-

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logia nel convento dei minori a Oxford in preparazione al sacerdozio e poi destinato al conseguimento dei gradi accademici in teologia, con il prescritto tirocinio di 13 anni, sembra dall’autunno 1288 a quello del 1301. L’ipotesi di un suo soggiorno di studio a Parigi dal 1293 al 1297 è oggi abbandonata dagli studiosi. Nell’estate del 1300 Giovanni Duns era certamente a Oxford dove, come baccelliere, aveva ultimato il commento alle Sentenze di Pietro Lombardo; infatti, il 26 luglio appare nella lista dei frati presentata al vescovo per ottenere la facoltà di confessare i fedeli nella chiesa annessa al convento, inoltre lui stesso accenna alla disfatta dei saraceni in Egitto notificata in Inghilterra nel mese di giugno, mentre attendeva alla revisione della seconda questione del prologo dell’Ordinatio, e poco tempo prima veniva ricordato quale «baccalaureus formatus» in una disputatio del suo reggente Filippo di Bridlington. Forse nell’anno accademico 1300-01 commentò qualche libro della Bibbia, trascorrendo poi un anno di aspettativa (1301-02) nel convento di Cambridge (recentemente alcuni studiosi hanno posto in dubbio un suo insegnamento teologico a Cambridge), dal quale fu inviato, quale segno di distinzione, nel più importante studio dell’ordine, a Parigi, ove riprese a commentare una seconda volta il testo di Lombardo in vista del magistero in teologia. I manoscritti superstiti documentano le sue lezioni sui libri delle Sentenze dall’autunno 1302 al 25 giugno 1303, allorché dovette lasciare Parigi per essersi opposto alla richiesta del re Filippo IV (il Bello) di convocare un concilio per deporre il papa Bonifacio VIII; il nome di Giovanni Scoto compare con gli altri 86 frati minori che si rifiutarono di schierarsi nella lotta contro il pontefice, e così fu costretto a ritornare in patria, pare certo a Oxford, dove completò altri suoi scritti, tenendovi un corso sul III libro delle Sentenze e un ciclo di dispute (collationes) con altri baccellieri. Ristabilita la concordia tra il re e il papa Benedetto XI, probabilmente nella primavera del 1304 poté ritornare a Parigi riprendendo i commentari interrotti nell’anno precedente sotto la reggenza di Gonzalvo di Spagna, nel frattempo eletto ministro generale dei francescani (16 maggio 1304), il quale aveva potuto ammirare personalmente le perspicue doti intellettuali e morali del suo baccelliere scozzese riconosciute ovunque da tutti, e pertanto lo candidò al

Duns Scoto prossimo magistero in teologia (lettera del 18 novembre 1304), conseguito all’inizio del 1305. Quale magister regens di teologia nel convento dei minori, Duns Scoto tenne diverse collationes, sostenendo anche varie dispute quodlibetali nel biennio 1305-07; sennonché, all’apogeo della sua carriera, per ragioni che ancora ci sfuggono, nell’autunno del 1307 fu inviato dal superiore generale quale reggente nel nuovo studio dei minori a Colonia (forse per la sua minacciata incolumità in occasione del processo contro i Templari, o il clima parigino ostile alle sue idee sull’immacolata concezione di Maria, o per un valida opposizione teologica alle dottrine di Meister Eckhart e dei beguardi, o più semplicemente per la necessità di un rapido avvicendamento dei maestri per far posto ai giovani baccellieri), dove improvvisamente l’8 novembre 1308 morì. È sepolto ivi nella Minoritenkirche; il 6 luglio 1991 Giovanni Paolo II ne approvò l’antico culto di beato. II. LE OPERE. – Dopo la morte, gli scritti che il maestro francescano stava rivedendo con diverse annotazioni marginali autografe, correzioni, integrazioni, furono portati dal suo segretario a Oxford, costituendo quel nucleo autentico di opere, denominato dai discepoli immediati «liber Scoti», assai presto smarrite (quando non bruciate nelle pubbliche piazze, come nel 1535 per ordine del segretario di Enrico VIII, Tommaso Cromwell, nel tristemente famoso «funus Scoti et scotistarum». I manoscritti che oggi possediamo riflettono lo stato ancora imperfetto di elaborazione in cui le aveva lasciate la prematura scomparsa del Maestro, con le varie aggiunte e cancellature o vistose lacune da riempire in un secondo momento per le opere più impegnative, e riportano inoltre gli interventi, talvolta discutibili, dei suoi seguaci nei diversi centri di studio francescani d’Europa nell’intento di predisporre dei testi scolastici completi del loro maestro (il cosiddetto Opus oxoniense) con trasposizione di quaestiones da un’opera all’altra, manomissioni, scelte arbitrarie di varianti, e perfino l’attribuzione di opere spurie. Ciò spiega la difficoltà e la lentezza con cui negli ultimi decenni sono dovute procedere le commissioni per un’edizione critica del corpus scotianum, stante che l’unica edizione finora disponibile era quella fornita in 12 volumi a Lione nel 1639 dal francescano irlandese Luca Wadding (riedita a Parigi da Ludovico Vivès nel 1891-95), incom3141

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Duns Scoto pleta, sovente non affidabile, con parecchi testi inautentici. Ricerche erudite di non pochi studiosi nel corso del Novecento hanno portato all’individuazione di un elenco di opere scotiane più sicuramente autentiche, suddivise in un primo gruppo di commentari aristotelici all’Organon, al De anima e alla Metafisica tenuti nei corsi di logica, filosofia naturale e metafisica propedeutici alla teologia (Quaestiones in librum Porphyrii Isagoge; Quaestiones super Praedicamenta Aristotelis; Quaestiones in I et II librum Perihermeneias Aristotelis; Quaestiones in duos libros Perihermeneias. Opus secundum; Quaestiones in libros Elenchorum; Quaestiones super libros Aristotelis De anima; Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis [libri I-IX]; recentemente è stata individuata nella Biblioteca Ambrosiana a Milano la connessa Expositio litteralis della Metafisica [libri II-X; XII] cui l’autore fa cenno sia nelle Quaestiones che nell’Ordinatio, denominata nel manoscritto: Notabilia Scoti super Metaphysicam). A eccezione di parte delle «questioni metafisiche», essi sono il frutto iniziale della sua carriera accademica (tra il 128897) e rivelano già alcune scelte di fondo della futura evoluzione speculativa del maestro; il commentario alla Metafisica, invece, è il risultato di più corsi, stratificati nelle additiones et deletiones dei manoscritti, che per i libri VII-IX si spingono fino alla maturità dottrinale delle opere teologiche maggiori. Tutti gli altri commenti a opere logiche, fisiche, metafisiche di Aristotele devono ritenersi spuri, compresa la Grammatica speculativa su cui ha lavorato Martin Heidegger per la sua abilitazione (1916), il cui autore è Tommaso di Erfurt. Seguono le opere teologiche, alla cui ampiezza e profondità è legata la fama del Doctor subtilis, comprendenti i commentari ai quattro libri delle Sentenze di Pietro Lombardo. La critica testuale più recente ne ha indicati tre: il primo è la Lectura (1298-1300) tenuta come baccelliere a Oxford, di cui sopravvivono solo i commenti ai primi due libri, e nei mesi dell’esilio (1303-04) quelli sul III, costituita dai suoi appunti delle lezioni; il secondo è formato dall’Ordinatio (1300-08), vale a dire la continua revisione della sua prima opera oxfordiana che lo tenne impegnato fino agli ultimi giorni della vita; il terzo è composto dalle diverse Reportationes dei corsi parigini (1302-05), che sono la ricostruzione delle sue lezioni da parte degli studenti, alcune delle quali riviste dal maestro 3142

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dovevano venir incorporate nell’Ordinatio (cfr. la Reportatio I A); la cosiddetta Reportatio cantabrigiensis sul I libro è stata identificata da qualche studioso con il commentario di Enrico di Harcley. Quale magister regens, Duns Scoto affrontò diverse Quaestiones quodlibetales nei giorni di avvento e di quaresima previsti per tali esercitazioni accademiche (1305-07); nell’edizione di Wadding se ne trovano 21, eccetto l’ultima licenziate dall’autore, che offrono la puntualizzazione più alta del pensiero scotiano. Tra le sue opere teologiche sono da ricordare, anche se più brevi, le Collationes oxonienses e quelle parisienses, finora scarsamente considerate dagli studiosi, nonché alcuni trattati specifici, come il celebre De primo principio sull’esistenza e l’unicità di un ente infinito, per circa la metà dipendente dal I libro dell’Ordinatio, i Theoremata, sulla cui paternità si è molto discusso e resta tuttora «sub iudice» contenendo dottrine contrarie alle posizioni caratteristiche di Duns Scoto, e l’ancora più improbabile De perfectione statuum. Delle sue opere esegetico-bibliche non è rimasto nulla. III. IL CONTESTO CULTURALE E LE FONTI. – Per comprendere l’opera di Duns Scoto è necessario situarla nel contesto storico in cui si è formata, in quel travagliato momento di inculturazione della fede che fece seguito alla condanna del 7 marzo 1277, che mise in crisi il tentativo albertino-tommasiano di un’assimilazione delle dottrine aristoteliche all’interno del discorso teologico, segnando il ritorno al neoplatonismo agostinista della tradizione patristica contro ogni apertura al razionalismo radicale dei filosofi averroisti delle Arti. Lo scontro tra filosofi e teologi divenne allora incandescente fino al punto di rottura, con riflessi anche socio-professionali delle due corporazioni universitarie. Il dialogo con l’aristotelismo sembrava pertanto bloccato, mentre la ripresa dell’agostinismo veniva impersonata dal teologo più rappresentativo del tempo, Enrico di Gand, uno dei componenti la commissione incaricata delle censure del 1277: per la teologia non sembravano esserci altre vie di rinnovamento. Negli studia inglesi il giovane Duns Scoto, oltre ai padri e ai classici antichi disponibili nella biblioteca dei medievali, aveva acquisito un’ampia conoscenza diretta dei maggiori teologi della sua famiglia francescana (in particolare di Bonaventura, Matteo d’Acquasparta, Pietro di Giovanni Olivi), nonché dei maestri

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oxfordiani e parigini coevi. Avendo frequentato i più rinomati centri della cultura scientifica del suo tempo, dalla Scozia alla Germania, da Oxford a Parigi (qualcuno ipotizza anche Bologna durante l’esilio da Parigi), egli emergeva come un pensatore davvero «europeo», ed è singolare inoltre come entrasse facilmente in dialogo con molti dei contemporanei citandoli per nome (Guglielmo di Ware, Egidio Romano, Goffredo di Fontaines ecc.), sebbene il principale interlocutore del suo pensiero restasse sempre in primo luogo Enrico di Gand. Come risulta chiaramente dalle indicazioni testuali dell’edizione critica vaticana (1950 ss.), quasi in ogni questione il nostro francescano istituisce dapprima un colloquio serrato con le posizioni del Gandavense, assumendone sovente i termini e la struttura dalla Summa e dai Quodlibeta, ma superando dialetticamente la fragilità del suo impianto illuminazionista. È pertanto da relegare tra le favole l’opinione del cardinale Gaetano, che Duns Scoto avesse mirato innanzitutto con una critica rancorosa a distruggere tutta l’opera di Tommaso, perché anche quando deve dissociarsi dalle soluzioni dell’Aquinate egli lo fa con rispetto e un senso di riverenza verso un doctor antiquus che ammira, ma di cui non può approvare la stretta dipendenza dal naturalismo necessitarista di Aristotele, in alcuni punti da lui giudicato incomponibile con le verità della fede cristiana. Il francescano scozzese si presenta così quale cerniera tra la fine del Duecento, che ha visto il dissolversi della sintesi dei grandi dottori della scolastica d’oro sotto l’incalzare delle nuove istanze problematiche dei «chierici» e di altri ceti sociali, e l’inizio del nuovo secolo, il Trecento, che in molti settori della vita e dell’esperienza intellettuale anticipava i tempi della modernità. Egli congiunse strettamente la sapienzialità agostiniano-francescana con il rigore dimostrativo della logica aristotelica, sottoponendo le diverse opinioni a un implacabile sforzo dialettico finché l’intelligenza non fosse quietata nell’incontrovertibile evidenza dei principi primi; pur inserito esplicitamente nell’alveo della tradizione agostiniana, egli comprese la superiorità scientifica della lezione di Aristotele, che non poteva ormai più essere obliata o smentita da nessun teologo: per questo fu immediatamente salutato con il titolo di Doctor subtilis. IV. LA CONTROVERSIA TRA FILOSOFI E TEOLOGI. – Si è già detto che Duns Scoto è figlio del clima in-

Duns Scoto tellettuale creato dalle condanne ecclesiastiche del 1277 contro un aristotelismo che esaltava la capacità di autorealizzazione della natura umana, pervenendo con la pura ragione alla pienezza della verità e della felicità ultima senza alcun bisogno di ricorrere a una rivelazione soprannaturale. Per il filosofo la natura gode di una sua sufficienza e perfezione; tutte le potenze dell’uomo devono avere in se stesse la possibilità di una completa attuazione, altrimenti, come ribadiva Averroè, sarebbero «oziose», cioè inutili; il ricorso a un principio estrinseco e soprannaturale diviene quindi del tutto superfluo. La ragione da sola è in grado di far attingere all’uomo il suo ultimo destino, perché con il compimento del sapere fino alla conoscenza delle sostanze separate gli arreca una beatitudine perfetta. Soltanto i filosofi, dunque, sono i veri sapienti in questo mondo; tutto il bene possibile per noi sta nell’esercizio delle virtù intellettuali; la felicità si può raggiungere in questa vita terrena mediante l’acquisizione delle tre scienze speculative indicate da Aristotele (la fisica, la matematica, la filosofia prima). A questa antropologia dei «nuovi filosofi», chiusa nella finitudine e compiutezza della pura natura, i teologi opponevano l’insufficienza delle forze umane e la necessità del soprannaturale. È in questo scontro frontale che viene a inserirsi l’impegno riflessivo di Duns Scoto, e quanto esso lo toccasse da vicino traspare chiaramente dall’ampiezza inusitata con cui egli affronta il problema più sofferto del suo tempo tra un umanesimo immanentista-laico e una concezione trascendente della vita umana, nel prologo della sua opera teologica maggiore (l’Ordinatio) che presenta l’andatura di un vero trattato di teologia fondamentale più che di una semplice introduzione. Focalizzando fin dall’inizio la questione nodale, cioè se nella condizione attuale (status iste) dell’umanità sia necessario essere illuminati da una qualche dottrina superante la natura, egli annota che vige una «controversia inter philosophos et theologos», perché mentre i primi sostengono la perfezione della natura negando quella soprannaturale, i teologi invece riconoscono il defectus naturae e la necessità della grazia e di un perfezionamento soprannaturale (Ord., prologus, p. Ia, q. unica, n. 5). Posta in questi termini, la questione non riguarda soltanto le due categorie di intellettuali evocate, bensì coinvolge profondamente ogni uomo 3143

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Duns Scoto nel rapporto ragione-rivelazione, natura-soprannatura, sfociando in due sistemi escludentisi sul senso ultimo della vita e dell’intero. Di fronte a questa alternativa metafisica il teologo francescano, ponendosi esplicitamente dal punto di vista della fede (ex creditis, ibi, n. 12), dimostra con una serrata disamina la radicale insufficienza della conoscenza filosofica delle sostanze separate e del fine ultimo o beatitudine dell’uomo. Essendo astratto e universale, il sapere dei filosofi è incapace di fornire la visione intuitiva di Dio com’è in sé e delle sue perfezioni proprie, né determinare quali atti umani siano accetti e degni della sua fruizione in una eterna felicità cui possa partecipare anche il nostro corpo. La filosofia quindi non può rispondere in modo esaustivo all’anelito umano di felicità, ed è per aver assolutizzato la presente condizione storica dell’umanità come l’unica possibile e perfetta che essa non è in grado nemmeno di avvertire la propria deficienza e restare aperta a un libero soccorso divino per sanare questa mancanza. Duns Scoto non intende con ciò negare l’autonomia del filosofo né umiliare la dignità dell’uomo; al contrario, chiedendogli di mantenersi neutrale e disponibile all’accoglimento di una conoscenza ulteriore offerta dalla rivelazione, lo innalza a una perfezione maggiore, svelandogli delle capacità più profonde della sua stessa natura che la ragione è incapace di rilevare. Viene così in luce il metodo della riflessione scotiana in cui teologia e filosofia interagiscono strettamente senza confondersi ma anche senza contrapporsi, nella sforzo sinergico di una comprensione sempre più profonda e luminosa dell’unica verità di Dio, del mondo, dell’uomo. Di questa teoresi vediamo ora gli esiti più originali nel problema della conoscenza, della metafisica, dell’etica. V. L’OGGETTO PROPRIO DELL’INTELLETTO UMANO. – Duns Scoto dedica una notevole attenzione a questo problema perché dalla sua soluzione dipendono importanti conclusioni gnoseologiche e metafisiche. I maestri del suo tempo erano schierati su due posizioni contrastanti, aristotelica e agostinista, rappresentate rispettivamente da Tommaso d’Aquino e da Enrico di Gand. Secondo l’Aquinate, l’oggetto adeguato alla natura dell’intelletto umano è l’essenza di una realtà materiale appresa mediante i sensi (quidditas rei materialis); il teologo francescano però lo contesta dal punto di vista sia della teologia sia della filosofia. Infat3144

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ti, se il nostro intelletto fosse limitato per natura alle essenze materiali, egli osserva, non potrebbe avere alcuna conoscenza dell’essenza immateriale divina in cui consiste la nostra beatitudine, né vale supporre l’aggiunta di una luce soprannaturale che lo abiliterebbe a conoscere le realtà spirituali, in quanto tale nuova qualità, più che abilitarlo al nuovo oggetto, lo trasformerebbe in un’altra natura; l’opinione tommasiana, inoltre, renderebbe impossibile la metafisica come scienza dell’ente in quanto ente (ens qua ens), cioè della totalità del reale, perché un simile oggetto supera le capacità di un intelletto ristretto ai soli enti materiali (Ord., I, distinctio 3, p. I, q. 3, nn. 110 ss.). Enrico di Gand, invece, indicava Dio quale oggetto primo dell’intelletto in quanto, secondo la teoria dell’illuminazione, le essenze delle cose sono conosciute veramente soltanto nell’idea archetipa divina; ma Duns Scoto gli obiettava che se fosse così, l’essenza divina dovrebbe essere comune a ogni oggetto intelligibile o virtualmente contenuta in esso; Dio però non è predicabile, né incluso virtualmente in alcun altro ente, se no anche il nostro intelletto creato, come quello di Dio, dovrebbe essere attivato unicamente dall’essenza divina e non dalle singole cose. Per lo stesso motivo neanche la sostanza con i suoi accidenti può fungere da oggetto adeguato primo dell’intelletto perché in tal caso gli accidenti sarebbero intelligibili solo per mezzo di essa e non direttamente per se stessi: nessun oggetto singolo, quindi, può costituirsi quale primo per il nostro intelletto, nel senso di essere comune a tutti o contenere virtualmente tutto ciò che è intelligibile (ibi, nn. 125-128). Per Duns Scoto, quindi, l’oggetto proprio e adeguato dell’intelletto umano secondo la sua natura propria (ex natura potentiae) è «l’ente in quanto ente», mentre la quidditas rei sensibilis è l’oggetto proprio nella condizione storica in cui esso attualmente si trova a operare, in unione con le potenze sensibili del corpo (pro statu isto, in Ord., I, distinctio 3, p. I, q. 3, nn. 185-188). «Dire che l’oggetto proprio dell’intelletto umano è l’“ens in quantum ens” equivale a dire che anche per esso l’ambito dell’intelligibilità coincide con quello della realtà, e che nessun essere quindi, sia pure l’essere immateriale per eccellenza, l’essere divino, è, in linea di diritto, escluso dall’orizzonte intellettuale dell’uomo. Il fatto che la nostra conoscenza per ora debba prendere l’avvio dalle co-

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se sensibili non pregiudica la capacità dell’intelligenza umana di poter estendersi alla totalità dell’essere, capacità pronta a rivivere quando verranno meno le circostanze connesse con la nostra attuale condizione di viatores» (E. Bettoni, Duns Scoto filosofo, Milano 1966). Da questa determinazione dell’ente in quanto ente quale orizzonte adeguato dell’intelligenza umana derivano alcune dottrine caratteristiche del Dottore sottile, quali l’univocità delle nozioni trascendentali, la metafisica quale scienza trascendentale dell’ente, la peculiare struttura della sua prova dell’esistenza di un ente infinito. VI. UNIVOCITÀ DELLE NOZIONI TRASCENDENTALI. – Strettamente connessa con la tesi dell’oggetto proprio dell’intelletto umano è la dottrina scotista dell’univocità del concetto di ente e delle altre nozioni trascendentali, comuni a Dio e alle creature, alla sostanza e agli accidenti, che ne consegue come un corollario. La posizione dell’univocità dell’ente segnava una rottura abbastanza violenta nell’ambiente speculativo del tempo, dove era comunemente accettata la predicazione analogica dei nostri concetti quale condizione imprescindibile per la salvaguardia della trascendenza divina rispetto al creato. Duns Scoto ne era consapevole e vi pervenne lentamente, non senza qualche esitazione e resistenza interna al suo stesso pensiero, passando dall’affermazione esplicita dell’analogia nelle sue prime opere logiche a una progressiva apertura all’univocità in alcune tormentate revisioni delle questioni sulla Metafisica, fino alla dichiarazione finale dell’Ordinatio che c’è un concetto assolutamente semplice (simpliciter simplex), quello di ente, univocamente comune a Dio e alle creature, perché se non fosse così, non si potrebbe nemmeno parlare di un oggetto proprio dell’intelletto né giustificare il discorso metafisico (da notare che l’edizione critica ha espunto come spuria la riserva presente in alcuni manoscritti e nelle edizioni precedenti secondo cui egli l’avrebbe proposta «non asserendo, quia non consonat opinioni communi»). Il concetto univoco è da lui definito come «quello che è uno in modo tale che la sua unità è sufficiente a dar luogo alla contraddizione qualora lo si affermi e lo si neghi della stessa cosa, e inoltre è sufficiente a fungere da termine medio nel sillogismo, in modo che i due termini estremi uniti con esso dotato di tale unità, possano congiungersi tra loro senza in-

Duns Scoto correre nella fallacia dell’equivoco» (Ord., I. distinctio 3, p. I, qq. 1-2, n. 26). Pur essendo indeterminato e neutrale rispetto a tutte le determinazioni concrete degli enti o delle categorie, il concetto di ente possiede egualmente una sua identità semantica capace di escludere la contraddizione e garantire la validità della conclusione dimostrativa. Anche questo tema, come gli era abituale, viene discusso in un confronto critico con Enrico di Gand, il quale affermava invece che abbiamo due concetti propri di essere, uno come infinito applicabile esclusivamente a Dio, l’altro come finito applicato alle creature, e non è possibile ammetterne un terzo, distinto e comune a quei due se non come concetto analogico per una certa loro somiglianza. Duns Scoto però rileva che se quei concetti non avessero un elemento comune, non si darebbe alcuna possibilità di conoscere Dio naturalmente, dato che nessuna nozione attinta dalle creature finite è in grado di aprirci il passaggio a un concetto interamente appropriato all’essere infinito, e così la metafisica diverrebbe impossibile. Ci dev’essere quindi un ens in communi, anteriore ai diversi modi, ai generi della sostanza e degli accidenti con cui può concretamente comporsi e attuarsi, una nozione certo imperfetta, ma distinta e costituente l’oggetto primo dell’intelligenza e il soggetto della metafisica. La negazione di un concetto trascendentale e precategoriale di ente comune, infatti, pregiudicherebbe non solo la metafisica ma anche la possibilità delle altre scienze, compresa la teologia rivelata: l’univocità concettuale sta così a fondamento della stessa analogia reale, senza di essa si cadrebbe nel nominalismo dei termini e nell’equivocità dei principi conoscitivi, con un esito scettico o fideistico. La confutazione scotiana fa leva sull’incompatibilità simultanea di concetti certi e dubbi (Ord., I. distinctio 3, p. I, qq- 1-2, nn. 27 ss.). Quando un intelletto è certo di un concetto e dubita di altri, evidentemente vuol dire che si tratta di concetti differenti; ora, la storia della filosofia e la nostra stessa esperienza confermano che tutti siamo certi che Dio è un essere e invece dubitiamo se sia un ente finito o infinito (ibi, n. 29); ciò dimostra che il concetto di ente è diverso da quello dei suoi modi ed è univocamente predicabile di ambedue, altrimenti, se fosse identificato con essi, si avrebbe la contraddizione di un pensante che è in3145

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Duns Scoto sieme certo e dubbioso circa lo stesso concetto. Duns Scoto afferma l’unità e la semplicità del concetto di essere, anteriore alla sua composizione con quello di finito e infinito, univocamente predicabile di ambedue e delle diverse categorie. Senza dubbio, anch’egli ammette che la nozione propria di Dio e quella della creatura sono analoghe, ma sottolinea il fatto che se non ci fosse il concetto logico soggiacente di ens commune, quelle due nozioni reali proprie risulterebbero semplicemente equivoche e incapaci di fornire una conoscenza razionale di Dio. Il concetto scotiano di ente derivato dalla metafisica avicenniana è, dunque, trascendentale, quidditativamente predicabile di tutto ciò che non è nulla, e gode di una priorità e di una universalità logica non confondibili con il primato dell’essere trascendente. VII. METAFISICA E TEOLOGIA NATURALE. – Gli studiosi più recenti del pensiero scotiano hanno messo in risalto che la dottrina dell’univocità dell’ente ha portato a una profonda trasformazione della metafisica neoplatonico-aristotelica dei medievali, spostandone l’oggetto dall’atto puro di essere, causa prima degli enti, a quello dell’ente trascendentale, univocamente predicabile di tutto ciò che non è nulla, vale a dire non contraddittorio, oggetto primo del pensiero e soggetto proprio di una scienza generale dell’essere che nell’età moderna sarà denominata ontologia, comprendente in sé quale parte speciale la scienza di Dio, o teologia filosofica; così l’ontologia, avendo il primato nell’ordine della predicazione, avrebbe poi subordinato a sé l’essere divino che ha il primato nella perfezione. A partire da Duns Scoto, quindi, si dovrebbe parlare di una «rifondazione» o anche di un «secondo inizio» della metafisica, non più incentrata primariamente sul problema di Dio, bensì sulla rappresentazione concettuale dell’essere e sulle sue proprietà trascendentali, come poi fu sistematicamente sviluppata da Francisco Suárez e da Christian Wolff, sino alla riformulazione distruttiva di Kant che da riflessione sull’essere oggettivo la restrinse all’analisi critica delle condizioni soggettive del pensiero (cfr. Ludger Honnefelder, Olivier Boulnois). Pur con qualche riserva circa una pretesa riduzione di Dio «come un essere tra gli altri, e non come il principio trascendente ogni ente» (cfr. O. Boulnois, Quand commence l’onto-théologie? Aristote, Thomas d’Aquin et Duns Scot, in «Revue Thomiste», 95, 1995, pp. 85-108), è ammis3146

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sibile che la tesi dell’univocità abbia comportato una modificazione strutturale della metafisica tradizionale; infatti una scienza dell’ente inteso come predicato comune a tutto ciò che è realmente esistente o semplicemente possibile, neutro rispetto alle modalità dei singoli, precede ed è per sé autonoma nei confronti della scienza dell’essere primo nella perfezione; sebbene l’ontologia racchiuda un’intrinseca orientazione verso la teologia quale sua esplicazione ultima, la riflessione sull’ente universale univoco non è legata a una dipendenza causativa dall’essere divino, tanto che Duns Scoto stesso poteva scrivere: «Metaphysica transcendens est tota prior scientia divina» (Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis, I, q. 1, n. 47), anticipando in certo senso la figura moderna della metafisica quale scienza trascendentale, passando dalla heideggeriana «ontoteologia» all’ontologia, dall’essere primo nella perfezione all’essere primo del pensiero universalmente comune a tutti gli enti. Se però consideriamo attentamente l’argomentazione scotiana per l’esistenza di Dio nei commentari alle Sentenze e nel De primo principio, dobbiamo concludere che la dissociazione moderna della metafisica generale da quella speciale è solo virtualmente presente nell’opera del teologo francescano: tanto, infatti, quell’argomentazione è ampia, complessa, rigorosamente costruita secondo le più raffinate esigenze del discorso scientifico da far trasparire che la prova «di un ente infinito in atto tra gli enti», che per noi è il concetto più semplice e perfetto che possiamo farci di Dio (Ord., I, distinctio 3, p. I, qq. 1-2, n. 58), rappresenti il vertice della teoresi del Dottore sottile e forse anche il «cuore» della sua fatica di filosofo-teologo, in cui l’ontologia e la teologia naturale risultano strettamente intrecciate come un unico discorso integrale sull’essere e i suoi modi. Sembra quindi improprio designarlo come l’iniziatore di una metafisica essenzialistica astratta e vuota, se si riflette che per lui non esiste un’essenza senza il suo esse, e non si dà una distinzione reale tra essenza ed esistenza come tra potenza e atto, bensì come tra due realtà soltanto formaliter distinctae nell’unità di una medesima natura o quiddità, possibile o realmente esistente. Secondo Duns Scoto, infatti, l’ente non è ristretto a ciò che ha l’atto fisico di esistenza, ma comprende tutto

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ciò che ha l’attitudine a esistere, tutto il possibile cui non ripugna l’essere. Pur seguendo lo schema delle «vie» dimostrative già elaborato da Enrico di Gand, infatti, Duns Scoto lo ripensa e ripropone in modo originale, congiungendo organicamente gli esiti razionali più validi della tradizione agostiniana e di quella aristotelica, con un risultato unico rispetto ai suoi predecessori che non cessa ancora di stupire. I punti salienti del suo itinerario al principio primo degli enti sono costituiti preliminarmente dalla negazione dell’ontologismo e di ogni pretesa conoscenza a priori dell’essere divino perché, sebbene la proposizione «Dio esiste» sia per se nota dall’analisi dei termini, per noi che ne ignoriamo l’essenza ha bisogno di essere dimostrata movendo dall’esperienza degli effetti e dalla loro problematicità (Ord., I, distinctio 2, p. I, qq. 12, nn. 28 e 39). Egli, però, innanzitutto rifiuta la prova averroistica fondata sul motus o divenire degli enti; più che a un «primum movens», ancora incluso nei limiti della fisicità e della durata temporale, occorre con Avicenna pervenire a un «primum ens» mediante una riflessione schiettamente metafisica sulle proprietà disgiuntive dell’essere, per concludere dagli enti finiti contingenti molteplici a un ente infinito necessario unico. La sua dimostrazione si snoda nelle seguenti tappe: 1) tra gli enti ve n’è uno assolutamente primo per causalità efficiente, finale e nella perfezione; 2) il primato in una di queste tre dimensioni comporta anche le altre due e appartiene a un’unica natura; 3) questa natura, essendo incausabile, «infinibile» (ovvero non dipendente da alcun fine), perfettissima, se è possibile, cioè non contraddice alla nozione di essere, esiste necessariamente in atto; 4) un tale ente assolutamente primo e incausabile, necessariamente dotato d’intelligenza e volontà, è infinito nella potenza, nella conoscenza, nell’amore, nella perfezione; 5) essendo infinito è anche necessariamente unico: questi è perciò il vero Dio, da noi conosciuto pure mediante la rivelazione, il principio che solo può rendere ragione del perché ci sia il mondo e non il nulla. C’è da notare che per dimostrare il «primum» nella causalità, con una scelta metodologica calcolata Duns Scoto non muove da un’esperienza fattuale contingente (aliquid movetur), bensì dalla producibilità di qualcosa («aliquod ens est effectibile», in Ord., I, distinctio

Duns Scoto 2, p. I, qq.1-2, n. 43), ponendo così la premessa dell’argomentazione sul piano della possibilità reale con una proposizione universale e necessaria. Non potendo autocrearsi né venire dal nulla (sarebbe un’assurdità impensabile, contraria al principio di non contraddizione), gli enti producibili devono essere prodotti da un altro (un effectivum) come loro causa; ora, scartando il rinvio a una serie di cause accidentalmente o essenzialmente ordinate, implicanti un’inconcludente regressione all’infinito o un’inconsistente circolarità esplicativa, è necessario ammettere una causa produttrice assolutamente prima, nel suo essere e nel suo agire non dipendente da nessun altro agente intrinseco o estrinseco, perciò del tutto incausabile. Poiché una tale perfettissima e autonoma causalità non contiene nulla di confliggente con i primi primcipi del conoscere e dell’essere, appare quindi possibile, ma se è possibile, conclude il Sottile, allora esiste in atto da sé, altrimenti, essendo assolutamente prima, non ci sarebbe alcun’altra causa anteriore ad essa in grado di produrla e pertanto, contro il presupposto, dovrebbe dirsi impossibile («igitur si potest esse, quia non contradicit entitati, potest esse a se, et ita est a se», in De primo principio, n. 55). La mera possibilità ontologica di un tale principio effettivo implica dunque il transito ineludibile alla sua autoposizione in atto nell’esistenza, altrimenti si incorre nell’elenchos di affermare e negare simul idem de eodem. Lo stesso ragionamento viene ripetuto per l’esistenza di un fine ultimo e di una perfezione suprema: dall’esperienza dei fini intermedi e dei diversi gradi di perfezione si deduce la necessità di un «primum» nei fini e nelle perfezioni, dunque un primo fine e un primo perfetto «infinibile» e «incausabile» da altri, pienamente conformi alla natura dell’essere, quindi possibili, e pertanto, se possibili, esistenti in atto. La «prova» scotiana prosegue quindi con l’attribuzione del triplice primato a un’unica natura e con la dimostrazione della sua infinità perfezionale o intensiva di contro alla pseudo-infinità estensionale e di durata del motore aristotelico; si conclude infine con l’affermazione di un’altra proprietà assoluta dell’essere incausato e infinito, cioè la sua unicità, approdando così alla più perfetta intelligenza umana del vero Dio. Nell’economia generale della prova si deve notare che l’acquisizione dell’infinità quale 3147

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Duns Scoto modo intrinseco costitutivo dell’essenza divina rappresenta un momento nevralgico per il superamento dell’imperfetta nozione di onnipotenza e di contingenza pensate da Aristotele, e ciò avviene in forza di una nuova concezione della modalità in cui il possibile o l’effectibile non sono più vincolati alla verifica statistica del loro darsi fattuale nel tempo, bensì implicano che la potenza della prima causa si estenda in modo libero e immediato a tutti gli enti non logicamente incompossibili, cioè incontraddittori (Ord., I, distinctio 2, p. I, qq. 12, nn. 75 ss.; Lect., I, distinctio 39, qq. 1-5, nn. 42 ss.). Che l’infinità in tal modo riscattata nel suo autentico concetto intensivo di pienezza di essere esista in atto e appartenga in modo esclusivo alla natura divina, viene dimostrato dal maestro francescano in base alla sua potenza, intelligenza, eminenza, amabilità infinite (Ord., I, distinctio 2, p. I, qq. 1-2, nn. 111 ss.), mediante un percorso in cui «il costante riferimento alla possibilità comprova l’apporto decisivo della rinnovata teoria scotiana della modalità, in rapporto a quel modo radicale dell’essere che è l’ens infinitum» (A. Ghisalberti, in L. Honnefelder et al., John Duns Scotus: Metaphysics and Ethics, «Atti del convegno internazionale di Bonn, 14-18 marzo 1994», Leiden - New York - Köln 1996). Guardata in profondità, la nervatura logica dell’articolata dimostrazione scotiana è di natura dialettica, poggia direttamente sul principio di non contraddizione: al livello della pienezza di perfezione di un essere incausabile e infinito (l’anselmiano ens perfectissimum), la sua possibilità (di summum cogitabile) si converte necessariamente nell’attualità (incausabile est ex se necesse esse, in De primo pr., n. 56), altrimenti si cadrebbe nell’autoconfutazione di affermarlo possibile e impossibile nello stesso tempo, violando l’incontraddittorietà dell’essere e del pensiero. La movenza finale a priori della «prova», dalla possibilità all’atto, non deve far scordare la sua partenza a posteriori dall’esperienza empirica di enti producibili richiedenti una loro giustificazione, né sottovalutare la cosiddetta «coloratio» o modificazione da lui operata dell’argomento del Proslogion mediante il passaggio intermedio della possibilità, vale a dire dell’incontraddittoria pensabilità dell’ens perfectissimum di Anselmo, come poi richiesto anche da Leibniz; occorre inoltre rilevare che nell’itinerario del francescano non si passa qui dall’ordine puramente 3148

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logico del concetto a quello dell’esistenza, perché nella sua argomentazione egli non ha mai abbandonato il piano della realtà essenziale delle nature. VIII. STRUTTURA ONTOLOGICA DELL’ENTE CORPOREO. – Per una liberissima e gratuita donazione d’amore, dall’eternità Dio ha pensato e voluto far sorgere all’esistenza dal nulla nel tempo l’universo degli enti finiti (Ord., II, distinctio 1, qq. 1-5). Nella comprensione del mondo creato dei corpi e di quello dell’uomo Duns Scoto segue generalmente la dottrina aristotelica, preferendola a quella platonico-agostiniana; sebbene egli si trovi spesso d’accordo con la cosmologia e l’antropologia dell’Aquinate, v’è da notare però che su non poche questioni di notevole importanza la sua posizione teoretica diverge profondamente da quella tomistica, motivata da una più convinta fedeltà ai dati della fede e all’esperienza stessa. Pur aderendo alla teoria dell’ilemorfismo, ad esempio, il maestro francescano nega decisamente che la materia prima sia una pura possibilità; se non avesse in sé qualcosa di positivo, un proprio atto di essere, che senso avrebbe dichiararla principio reale delle cose e termine dell’atto creatore di Dio? (Lect., II, distinctio 12, q. unica, nn. 29 ss.). Questa minimale positività di cui è dotata, tuttavia, non impedisce alla materia di entrare in composizione con la forma, costituendo un’entità nuova qualificata dall’unico atto di essere di ambedue. Una posizione analoga si verifica circa la pluralità delle forme negli esseri viventi e in particolare nell’uomo. Contrariamente a Tommaso, il quale per non spezzare l’unità sostanziale dell’individuo aristotelicamente affermava che è l’anima l’unica forma conferente l’essere anche al composto biologico, Duns Scoto riprende la tesi enrichiana della necessità di una specifica forma corporeitatis, distinta dalla forma che dà la vita, per la quale si richiede un principio diverso e qualitativamente superiore; è precisamente in virtù di quella particolare forma corporea che anche dopo la morte, o separazione dell’anima, un corpo conserva per un certo tempo la sua unità e riconoscibilità individuale, come l’esperienza ci mostra. D’altra parte, la coesistenza di due o più forme in una sostanza composta, secondo il teologo francescano non ne compromette l’unità qualora, come nel composto umano, si dia una subordinazione delle stesse forme in ragione della loro crescente perfezione, sicché l’ultima

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più perfetta divenga il polo unificatore delle determinazioni inferiori. Sarebbe infatti contraddittorio che una forma superiore come l’anima intellettiva, principio della vita vegetativa e sensitiva del corpo, fosse nel contempo principio anche dello stesso corpo privo di vita: la medesima forma sarebbe così simultaneamente principio di un vivente e di un non vivente (Ord., IV, distinctio 11, q. 3, nn. 37 ss.). Egualmente originale e innovativa rispetto alle posizioni di Tommaso e di Enrico è la teoria scotiana del principio d’individuazione, un problema tra i più dibattuti alla fine del Duecento. Duns Scoto elenca cinque opinioni diverse, da lui analiticamente confutate come insoddisfacenti, proponendone una sua, fondata sulla tesi avicenniana della natura communis, vale a dire di una essenza specifica reale, per se stessa non universale né singolare (equinitas est equinitas tantum, in Ord., II, distinctio 3, p. I, q. 1, n. 31), ma che diventa tale quando è pensata dalla mente (un universale logico) o attuata nella realtà (un individuo concreto); infatti, se quella natura con la sua entità minore (diminuta) nei confronti delle altre unità numeriche non restasse neutrale rispetto alle due predette realizzazioni, sarebbe predicabile soltanto di una con l’esclusione dell’altra. La scuola tomista, rappresentata allora da Egidio Romano, spiegava l’individuazione di una specie mediante la materia determinata da una certa estensione o quantità (signata quantitate); al che il francescano replicava che è un’assurdità riporre nella materia, per sé indeterminata e divisibile, il principio della massima determinazione e unità com’è l’individuo. Enrico di Gand invece asseriva non esserci alcun bisogno di un fattore individuante perché una natura è già individuata per se stessa con il proprio atto di esistenza singolo, indivisibile e in tutto distinguibile dagli altri. Duns Scoto però obiettava che l’individuo è qualcosa di positivo ed è necessario cercare la causa di quella duplice negazione che lo distingue dagli altri; essendo però l’atto di esistenza come esterno rispetto alla struttura categoriale della sostanza, si aggiunge ad essa in modo quasi accidentale e non può individuarne l’essenza; egualmente, anche la quantità e gli altri predicamenti sono posteriori e derivano da una sostanza già individuata (Ord., II, distinctio 3, p. I, q. 2, nn. 47 ss., 99 ss.).

Duns Scoto Conclusivamente, secondo il Dottore sottile il principio d’individuazione dev’essere qualcosa di positivo (un aliquid positivum o un’entitas positiva) nella linea della sostanzialità, l’ultimo tocco perfezionale di una forma mediante l’aggiunta di una differentia individualis alla sua natura specifica. Pertanto, come la differenza specifica toglie a una natura la capacità di suddividersi in altre specie, così la differenza individuale impedisce la sua comunicabilità ad altri individui, essendo ambedue le differenze assolutamente semplici e irriducibili ad altre specie o individui; si deve però notare che la differenza individualizzante non arreca alcuna ulteriore realtà quidditativa alla natura e che in un certo senso funziona come quasi «materia» contraente la forma specifica nelle diverse unità numeriche soggettive (ibi, nn. 168-188). Nelle lezioni parigine Duns Scoto stesso aveva denominato tale differenza haecceitas (si potrebbe tradurre con «questità», o con l’aristotelico tovde ti), per designare più precisamente la singolarità di un ente risultato dal principio d’individuazione (Rep. par., II, distinctio 12, q. V, nn. 8, 13, 14). Il significato complessivo di questa teoria è che con essa Duns Scoto «rompeva con la fondamentale concezione greca della specie quale principale espressione dell’essere e dell’intelligibilità, codificata nella tradizione latina da Boezio nell’asserto che “la specie è tutto l’essere di un individuo” [...] estendendo il processo di divisione e di differenziazione nella linea della sostanza oltre la specie e fin dentro la costituzione dell’individuo stesso» (S. D. Dumont, s. v., in E. Craig [a cura di], Routledge Encyclopedia of Philosophy, London - New York 1998, vol. III, pp. 153-170). IX. NATURA E DIGNITÀ DELL’UOMO. – Nella fase ormai avanzata di recezione dell’aristotelismo alla fine del Duecento, non fa meraviglia che anche un teologo francescano come Duns Scoto coltivi fondamentalmente un’antropologia ispirata alle dottrine dello Stagirita più che a quelle platonizzanti dei padri della chiesa, sebbene con una discreta libertà innovativa per una migliore comprensione dei dati dell’esperienza. Si è visto sopra che anche l’uomo è unità di materia e forma, di una materia però già organizzata da una sua «forma corporeitatis», e da una forma di particolare eccellenza ontologica com’è l’anima umana, dotata d’intelligenza e di volontà. La sua essenza specifica, o natura 3149

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Duns Scoto communis, mediante il principio d’individuazione viene portata alla sua massima perfezione e completezza nell’essere (ultima realitas entis) che la rende indivisibile e incomunicabile ad altri, una sussistenza ontologica unica nell’universo degli enti, in quell’estrema circoscrizione e indipendenza nel suo essere (ultima solitudo) che la definisce propriamente come persona («Ad personalitatem requiritur ultima solitudo, sive negatio dependentiae actualis et aptitudinalis ad personam alterius naturae», in Ord. III, distinctio 1, q. 1, n. 17). Ontologicamente tutta raccolta in sé, la persona umana tuttavia, mediante l’intelligenza scopre la sua relazione fondativa (= transcendentalis) con il suo creatore e si apre all’intero dell’essere, mentre con la volontà si protende verso la totalità del bene che brilla in ogni ente, amandolo in sé e per sé, non solo in funzione di se stessa, associando così all’incomunicabilità della sua sussistenza una costitutiva relazionalità operativa. Come gli altri scolastici, Duns Scoto illustra profondamente l’emergenza o spiritualità dell’anima umana che, pur essendone forma, trascende con esperienza innegabile l’attività legata alla vita organica e sensitiva del corpo; si distingue però dai maestri contemporanei circa il rapporto che intercorre tra l’anima e le sue facoltà, che per lui non sono né realmente distinte quali accidenti derivanti dalla sua sostanza (Tommaso d’Aquino) né identificate con essa (Enrico di Gand), ma solo «formalmente» distinte. La distinzione formale ex natura rei è un’originale categoria logica scotiana, introdotta nella spiegazione anche di altri problemi teologici (tra l’essenza divina e i suoi attributi o le relazioni trinitarie, tra la natura umana e la persona del Verbo nell’incarnazione ecc.), che si verifica tra alcune perfezioni concettualmente irriducibili l’una all’altra (ad es., la bontà, la bellezza ecc.), ma che nella realtà del soggetto che le possiede risultano inseparabili; così nel caso nostro, intelletto e volontà sono formalmente distinti dall’anima, sebbene realmente facciano una sola cosa con essa («Anima continet potentias istas unitive, quamquam formaliter sint distinctae», in Ord., II, distinctio 16, q. unica, n. 17). Egualmente, l’intelletto e la volontà sono due principi formalmente distinti tra loro e autonomi nella loro causalità operativa (necessitata da parte dell’intelletto, libera da parte della volontà), anche se ambedue necessari e concorrenti 3150

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all’azione umana, con una certa predominanza della volontà. Un’altra posizione controcorrente del Dottore Sottile afferma non essere razionalmente dimostrabile che l’anima umana sia immortale, mentre i teologi del tempo l’accreditavano sull’autorità di Aristotele e sul fatto che si tratta di una forma immateriale avente l’essere per se stessa, o anche, agostinianamente, sull’istintivo desiderio di una vita e felicità senza fine. Sennonché, con un’acribia testuale inconsueta per quei tempi, egli replica che nelle varie opere del Filosofo si possono trovare affermazioni a favore e anche contrarie, secondo la materia trattata, indice, questo, che non era riuscito a raggiungere una soluzione chiara, restando quindi neutrale sul problema; in quanto forma spirituale, poi, in linea di principio l’anima potrebbe sussistere per sé, ma ciò non è conoscibile dai dati naturali, perché nella condizione presente dell’umanità ha l’essere solo nel risultato del composto, e pertanto è lecito dubitare anche circa la «naturalità» del suo desiderio di eternità (Ord., IV, distinctio 43, q. 2, nn. 16-23). X. LA CONOSCENZA. – Anche nella dottrina della conoscenza Duns Scoto segue la linea aristotelica, scartando come obsolete alcune tesi dell’agostinismo, come la necessità della illuminazione, ma integrandone altre nella sua nuova sintesi che compone l’astrazione dell’universale con l’intuizione del singolare, e contro la passività del senso e dell’intelletto possibile o ricevente riafferma l’attività concausale del soggetto conoscente e dell’oggetto conosciuto, sia a livello della percezione che del concetto. Secondo Duns Scoto, nella conoscenza confluisce una doppia causalità: quella dell’oggetto movente, rappresentato dalla sua species intelligibilis, e quella del soggetto quale intelletto ricevente; egli perciò respinge l’opinione di Enrico che riduceva l’oggetto a mera condizione occasionale del conoscere che sorgerebbe interamente dall’attività del soggetto, e rifiuta pure quella tomistica di Goffredo di Fontaines, dove l’intelletto è ridotto alla passività di una materia prima in potenza alle varie forme determinate dagli intelligibili. Nessuna delle due posizioni, infatti, rispetta la fenomenologia del conoscere, in quanto una sacrifica la necessità determinativa dell’oggetto, mentre l’altra misconosce tutta l’attività immanente della mente intorno all’intelligibile; pertanto

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egli conclude: «Si nec anima sola nec obiectum solum sit causa totalis intellectionis actualis, et illa sola videntur requiri ad intellectionem, sequitur quod ista duo sunt una causa integra respectu notitiae genitae» (Ord., I, distinctio 3, p. III, q. 2, n. 494). L’analisi dell’esperienza dunque, egli spiega, richiede la sinergia di oggetto e intelletto nella conoscenza, cooperanti ciascuno con la propria attività come due vere cause parziali essenzialmente ordinate alla produzione dell’atto conoscitivo, analogamente a quanto avviene nella generazione di un figlio, a cui partecipano attivamente e in proprio sia il padre che la madre integrando la rispettiva causalità dell’uno con quella dell’altra, anche se poi è giusto riconoscere un’esplicita superiorità dell’intelletto sull’oggetto, come lo è del padre rispetto alla madre nei confronti della prole (Quodl., XV, n. 10). Un contributo particolarmente significativo della gnoseologia scotista nello sviluppo del pensiero successivo è appunto la sua distinzione tra conoscenza intuitiva e conoscenza astrattiva. La prima è da lui definita come «la conoscenza di un’essenza che ha l’essere attualmente esistente (o di una cosa presente nella sua esistenza)», mentre l’altra è «la conoscenza di un’essenza astraendo dalla sua attuale esistenza o non esistenza» (Ord., II, distinctio 3, p. II, q. 2, n. 321); egli avverte poi di non identificare quella intuitiva semplicemente con la «non discorsiva», dato che anche qualche conoscenza astrattiva è non discorsiva, senza tuttavia potersi dire intuitiva nel senso proprio di un’intuizione della cosa come realmente è, cioè nella sua esistenza e presenzialità. Si può quindi rilevare che, diversamente dalla tradizione aristotelica, l’intuizione non è per lui limitata alla percezione del particolare sensibile, ma concerne anch’essa l’essenza, e quindi si oppone alla particolarità del senso. Ora, una perfezione posseduta da una facoltà inferiore deve potersi trovare in un grado più alto anche in una facoltà superiore della medesima specie (ibi, n. 320); pertanto, come i nostri sensi hanno la conoscenza intuitiva di un oggetto particolare esistente e presente e l’immaginazione ne astrae poi una rappresentazione che rimane anche nell’assenza dell’oggetto, a più forte ragione un’analoga capacità conoscitiva deve potersi ascrivere all’intelletto, di intuire cioè nella sua particolarità un oggetto esistente e presente, e inoltre di elabo-

Duns Scoto rarne mediante l’astrazione una rappresentazione universale ai fini della sua conoscenza scientifica, che non è possibile ottenere nella contingenza dei particolari. L’ammissione della conoscenza intellettuale intuitiva garantisce così la certezza anche nelle proposizioni e nei fatti contingenti con la stessa forza di quelli necessari. Diversamente da Agostino, egli afferma però che soltanto un intelletto puro come quello angelico possiede una conoscenza intuitiva immediata della propria essenza; la nostra mens invece, sullo sfondo di una memoria sui abituale ma confusa, perviene di fatto a tale autocoscienza solo con una riflessione sui propri atti conoscitivi mediante astrazione, dei quali possiede un’evidenza immediata (Ord., II, distinctio 3, p. II, q. 1, nn. 289-293). Infine, il teologo francescano ammonisce che chi negasse una conoscenza di tipo intuitivo al nostro intelletto, non potrebbe più rendere conto della visione beatifica quale incontro e fruizione presenziale di Dio all’anima, come insegna la rivelazione biblica, che «lo vedremo facie ad faciem, così come egli è». XI. IL PRIMATO DELLA VOLONTÀ LIBERA. – Intelletto e volontà sono le due potenze emergenti dalla memoria sui che meglio esprimono la natura propria del soggetto umano. Mentre per l’intelletto Duns Scoto si era attenuto in generale alle conclusioni aristoteliche, nell’illustrazione della volontà invece si distacca nettamente dal Filosofo, proponendo una dottrina innovativa e originale rispetto anche agli altri maestri, dalla quale deriverà poi l’impianto costruttivo dell’intera sua filosofia della prassi. Per il teologo francescano la volontà è una perfezione pura che si trova in Dio nella sua pienezza e quale amore ne forma l’essenza; Dio perciò ama necessariamente se stesso, ma in questa necessità brilla la suprema libertà della sua volontà che è sempre rationabilissime et ordinatissime volens (Ord., III, distinctio 3, q. unica, n. 6), per cui non può non volere il proprio essere infinito, mentre l’universo degli enti finiti proviene da una sua libera scelta ragionevole e ordinata tra gli infiniti mondi possibili, mai però irrazionale o arbitraria. Dio è essenzialmente amore, e anche l’uomo, creato a sua immagine, è ontologicamente costituito nella sua radice da una chiamata all’amore; secondo Duns Scoto, più che l’intelligenza, il nucleo essenziale della persona consiste nella volontà con cui liberamente orienta se stessa e il proprio agire all’amore fontale (Ord., I, di3151

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Duns Scoto stinctio 2, p. I, qq. 1-2, nn. 75-110; distinctio 10, q. unica; Rep. par., IV, distinctio 49, qq, 1-4; Quodl., XVI). Intelletto e volontà sono due facoltà razionali dell’anima, però mentre il primo agisce in modo naturale, vale a dire determinato dall’oggetto, l’altra invece agisce in modo libero (appetitus cum ratione liber); essendo del tutto indeterminata, essa può agire o non agire, oppure agire in senso contrario: la scelta o il rifiuto, anche di fronte al sommo bene, dipendono esclusivamente da lei, e ciò semplicemente quia voluntas est voluntas, non necessitata da nulla di estrinseco ad essa (Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis, IX, q. 15, nn. 20-41; Rep. par., II, distinctio 25, q. unica, n. 20). Il nostro teologo accentua fortemente il contrasto fra ciò che è naturale e ciò che è volontario; per lui, infatti, la libertà non è opposta alla necessità (come si è visto nell’amore di Dio), bensì alla natura, cioè alla causalità deterministica. Ora la volontà può autodeterminarsi a effetti contrari, l’intelletto invece è bloccato in una sola direzione; la causalità della volontà, quindi, gode di una flessibilità razionale molto maggiore di quella dell’appetito sensitivo o della facoltà intellettiva. Prendendo sempre più le distanze da ogni compromesso intellettualista con la scuola tomista alla quale inizialmente era stato vicino, alla fine egli scriveva che nell’atto di scelta la volontà è causa totale della decisione, mentre l’intelletto è richiesto solo quale condizione previa (conditio sine qua non) per la presentazione di un bene appetibile, non quale causa concorrente, nemmeno secondaria o parziale: questo dato psicologico conclusivo esalta quanto mai la responsabilità e l’imputabilità delle scelte personali. Da lungo tempo si discute tra gli studiosi se veramente ci sia stata una evoluzione su questo tema nel pensiero del Sottile; nonostante l’autorevole parere negativo di Carlo Balic e della stessa Commissione scotistica (Prolegomena al vol. XIX dell’ed. critica, pp. 38*-41*), alcuni interpreti ritengono ancora attendibile l’annotazione del suo segretario Guglielmo di Alnwick che effettivamente nelle lezioni parigine egli abbia mutato opinione rispetto a quanto aveva insegnato ad Oxford, escludendo interamente il concorso causale dell’intelletto nelle decisioni ultime della volontà: «Nihil creatum aliud a voluntate est causa totalis actus volendi in voluntate» 3152

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(Rep. par. II, distinctio 25, n. 20). Sebbene nella revisione ultima dell’Ordinatio egli abbia lasciata in sospeso la redazione definitiva della distinzione 25 del II libro sul problema, forse in vista di un ripensamento ulteriore, è evidente da queste righe il suo avvicinamento alla posizione tradizionale dei francescani, che era pure quella di Enrico di Gand. La superiorità della volontà su ciò che agisce in modo naturale si evidenzia anche dal fatto che essa ha il potere di compiere atti opposti non solo nella successione temporale, ma anche nell’istante stesso in cui si decide per una scelta: anche allora mantiene egualmente la libertà di volerne un’altra contraria (Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis, IX, q. 15, n. 65). Tale capacità fa parte della sua essenza di causa contingente e libera che non le può venir meno in nessun momento: un tipo di causalità, questo, assai diverso dalla contingenza possibile nell’incrociarsi fortuito dei moti delle cause seconde com’è nell’universo aristotelico. In Duns Scoto, dunque, più che una metafisica della presenza dell’essere all’intelligenza, abbiamo un’ontologia della libertà quale costitutivo formale dell’essere divino e umano, e una metafisica dell’amore nella suprema beatitudine di comunione della vita trinitaria, offerta e partecipabile anche dall’uomo, nel quale atto beatificante, necessità e libertà vengono a fondersi e a celebrarsi insieme, perché a questo livello anche per l’uomo «la più alta forma della libertà diviene la necessità dell’amore di Dio» (O. Boulnois, Être et représentation. Une généalogie de la métaphysique moderne à l’époque de Duns Scot [XIIIe-XIVe siècle], Paris 1999). XII. LA FILOSOFIA DELLA PRASSI. – 1. L’etica. – Contrariamente agli indirizzi oggi correnti, non si deve dimenticare che l’etica scotiana è saldamente ancorata a presupposti ontologici di forte valenza metafisica, innanzitutto alla sua distinzione della «teologia dei necessari» dalla «teologia dei contingenti». Secondo il maestro francescano, infatti, necessario in senso assoluto è soltanto l’essere infinito divino e tutto ciò che ha immediata attinenza con lui; tutto il resto nel mondo degli enti finiti risulta creato liberamente dalla volontà di Dio, e pertanto essenzialmente contingente e relativo. Da questa base metafisica scaturisce un impianto dell’etica diverso da quello necessitaristico della concezione greco-araba e della vi-

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sione fatalistica stoica. Il supremo principio pratico che ne deriva è che solo Dio è l’oggetto o il sommo bene necessario che non può non essere amato: Deus est diligendus è l’imperativo categorico mai mutabile né dispensabile esprimente la legge naturale in senso stretto e il perno dei primi tre precetti del decalogo; gli altri comandamenti della cosiddetta «seconda tavola», concernenti le relazioni con il prossimo, con le istituzioni familiari e sociali, sono invece passibili di mutazione, in quanto la loro determinazione morale dipende dalla libera scelta divina per l’ordinamento naturale oggi vigente, ma nulla vieta che Dio avrebbe potuto pensare e volere un altro ordine della natura in cui sarebbero risultate valide norme di comportamento diverse da quelle attualmente in vigore (Ord., III, distinctio 37, q. unica). In questo secondo caso la legge naturale perde quindi la rigidità e l’immutabilità con cui l’aveva pensata l’Aquinate, e inoltre diviene più semplice la spiegazione di alcuni sconcertanti episodi biblici della sua violazione, in quanto trattandosi di norme vigenti in un mondo contingente, esse hanno potuto non già venire dispensate, bensì revocate o mutate da un altro comando divino. Questa originale interpretazione della legge e del diritto naturale, tuttavia, non equivale a una caduta nel relativismo etico o nel positivismo teologico, come molti insistono ancora a denunciare, bensì riflette una potente esaltazione dell’assoluta trascendenza della libertà e dell’amore di Dio e della contingenza di ogni sua opera ad extra, la quale è così solo perché lui (de potentia ordinata) l’ha voluta in quel modo, senza escludere per questo la possibilità (de potentia absoluta) di altre realizzazioni con nuovi ordinamenti ad esse adeguati; comunque, finché persiste il presente ordinamento la legge naturale conserva intatta la sua forza obbligante (Ord., IV, distinctio 44, q. unica). Sarebbe quindi del tutto erroneo considerare Duns Scoto come il precursore dell’arbitrarismo ockhamiano; esplicitamente egli dichiara che nemmeno la volontà divina può agire contro la verità dell’essere, ponendosi fuori del principio di non contraddizione; egualmente, il fondamento della moralità dell’atto umano è ripetutamente da lui individuato nella conformità con la natura del soggetto agente, con l’essenza dell’oggetto voluto, con le diverse circostanze in cui l’atto viene a compiersi: c’è

Duns Scoto dunque come uno sbarramento ontologico entro il quale la ragione deve «misurare» la bontà morale o l’immoralità delle decisioni personali, ponendosi quale misura e norma a sua volta misurata dall’oggettività del valore, contro il rischio insorgente dal capriccio degli impulsi individualistici (Ord., I, distinctio 17, q. unica, III, q. 34, q. unica, Quodl., 18). Al seguito di Anselmo, il teologo francescano distingue nettamente la nativa inclinazione della volontà umana verso il bene oggettivo (affectio iustitiae) da quella verso il proprio benessere soggettivo (affectio commodi); ovviamente, soltanto nel superamento del desiderio egoistico del proprio piacere la volontà potrà elevarsi all’amore del bene supremo nel quale incontrerà la sua piena felicità; tale rettitudine nella scelta del bene morale è garantita dalla sua conformità con quel dictamen completum rationis rectae, che è appunto la misura della moralità degli atti fornita dal giudizio della prudenza (Ord., II, distinctio 6, q. 2, nn. 49-54; III, distinctio 26, nn. 17-18). La prassi infatti rappresenta per lui l’ideale dell’azione umana, radicata nell’intelligenza prudenziale che la custodisce dalla cecità degli impulsi, e pienamente conforme all’imperativo della ragione retta che la preserva dalla caduta nella malvagità deviante dal bene (Ord., prologus, p. V, qq. 1-2, nn. 228-235). 2. La società politica. – In netto contrasto con le dottrine di «papalisti» estremi come Egidio Romano o Giovanni di Parigi (Jean Quidort), Duns Scoto propone una teoria innovativa e per alcuni aspetti assai moderna della società e dell’autorità politica, in cui il consenso della comunità ha un ruolo decisivo nella legittimazione del potere dei sovrani e delle leggi da loro emanate. Nello stato di innocenza, egli osserva, gli uomini vivevano in pace e perfetta eguaglianza tra loro, partecipando secondo i propri bisogni ai beni ch’erano comuni a tutti e vivendo secondo la legge naturale sotto l’autorità paterna nelle varie famiglie; sennonché, dopo il peccato, a motivo dell’avidità del possesso e del potere da parte di alcuni prepotenti, incuranti del bene comune, subentrò la necessità della divisione dei beni materiali e della protezione dei diritti dei singoli mediante un’autorità più alta di quella familiare e con delle leggi positive giuste. Fu così che diverse popolazioni fino ad allora libere ed estranee, al fine di 3153

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Duns Scoto poter vivere in pace si accordarono ex mutuo consensu omnium per eleggere tra loro un capo (princeps) al quale solo obbedire come sudditi. Da questa specie di contratto sociale nasce dunque la prima società politica, da cui l’autorità riceve il potere di emanare le leggi con saggezza e giustizia per il bene di tutti, secondo le diverse situazioni storiche, purché non contrastanti con la legge divina e quella naturale. Pur dipendenti dalla suprema volontà di Dio, secondo il teologo francescano l’attività politica e quella giuridica godono di una loro legittima autonomia metodologica per rispondere con la normativa razionale più adatta alle esigenze storiche della società. Questa prospettiva si rivela pienamente in linea con il volontarismo francescano che riconosce la validità di un diritto soggettivo, prodotto dalla volontà della persona, e trova un’immediata applicazione nella più aperta valutazione scotiana del giusto prezzo, calcolato non soltanto in base a criteri ufficiali prefissati, ma tenendo conto anche del valore soggettivo delle merci, nonché della legittimità del profitto nello scambio commerciale e finanziario, quale onesto compenso e premio del rischio, della laboriosità, dell’utilità che esso comporta. XIII. LA TEOLOGIA. – Illustrando il pensiero di Duns Scoto non si deve scordare che egli è innanzitutto un teologo, e che la sua riflessione filosofica si sviluppa in strettissima aderenza, quasi in simbiosi, con il suo intento essenziale di una più profonda comprensione razionale e sistematica delle verità rivelate, in modo che la teologia potesse venir onorata con la dignità di scienza. La discussione sulla scientificità del discorso teologico occupa interamente le questioni dell’amplissimo prologo dell’Ordinatio, nel quale l’autore distingue una teologia divina (o in se), che è la conoscenza intuitiva e perfetta che Dio ha della propria essenza (ut haec essentia) e di tutte le realtà attuate o possibili che da essa dipendono (il «sapersi dell’assoluto»); una teologia dei beati, i quali conoscono intuitivamente Dio e le verità delle nature create, però in modo parziale e contingente secondo quanto viene loro concesso dal beneplacito divino; una teologia nostra, cioè di viatores in questa terra, limitata a quelle verità che Dio ha voluto rivelarci di se stesso, da noi accolte con la fede e illuminate con la nostra ragione, movendo dal concetto più perfet3154

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to di lui quale ens infinitum, attinto mediatamente a partire dalla nozione univoca di ente e dalle sue proprietà trascendentali. Ovviamente, il concetto di scienza richiesto da Aristotele negli Analitici gli stava stretto nell’applicazione alla teologia, e il Dottor sottile lo nota esplicitamente, tanto più che per lui la teologia «nostra» è essenzialmente un sapere pratico, che ha per suo fine la carità teologale, vale a dire l’amore di Dio sommo bene e nostra eterna beatitudine (Lect., I, prologo, IV, qq. 1-2, n. 164; Ord., prologo, p. V, qq. 1-2, nn. 314-344). Divergendo dall’opinione di tutti gli altri teologi, Duns Scoto sostenne che nonostante il peccato di Adamo e indipendentemente da tale infelice e occasionale situazione di colpa, il Padre ha predestinato dall’eternità l’incarnazione di Cristo, perché sussistendo nell’unica persona del Verbo con la sua duplice natura divina e umana potesse con il suo puro e obbediente amore di figlio glorificare Dio nel modo più perfetto concepibile in una creatura e divenisse come il punto alpha e omega dell’intera creazione; la redenzione dell’uomo mediante la sofferenza e la morte in croce è stata una modalità contingente aggiunta al disegno primitivo, che si sarebbe realizzato egualmente, sebbene in forma non soggetta alla patibilità (Ord., III, distinctio 7, q. 3; distinctiones 18-19, q. unica; Rep. par., III, distinctio 7, q. 4). Altrettanto ardita e originale è la tesi scotiana della concezione immacolata di Maria, eletta a divenire madre di Cristo-Dio, perché apparentemente confliggente con il dogma dell’universalità del peccato originale per tutti i discendenti di Adamo e della redenzione universale di Cristo; padri della chiesa e teologi nella quasi totalità negavano tale ipotesi e non vedevano vie d’uscita conciliative. La genialità del Sottile fu di aver pensato a una modalità più alta di redenzione dal peccato d’origine, consistente nella possibilità di preservare una persona dalla caduta in previsione dei meriti futuri del figlio stesso di Dio, come avvenne nella vergine di Nazareth (Ord., III., distinctio 3, q. 1, nn. 5-7). Per queste sue dottrine teologiche qualificanti, assieme a molte altre tesi innovative e ardite sulla predestinazione, il merito, la grazia, la causalità dei sacramenti ecc., oltre che come Doctor subtilis, Duns Scoto fu salutato anche quale Doctor Verbi Incarnati e Doctor Marianus.

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La sua eredità fu immediatamente raccolta con entusiasmo dai primi discepoli e spontaneamente diffusa nelle scuole francescane, oscurando il magistero degli altri grandi maestri dell’ordine (Antonio di Padova, Alessandro d’Hales, Bonaventura ecc.); dopo di lui, dichiarava Matteo Ferchic nella prolusione del 1634 al suo corso di teologia in via Scoti all’università di Padova, tra i francescani non ci furono più «doctores, sed solum Scoti discipuli», discepoli che negli studia dell’ordine e nelle università europee illustrarono con fedeltà il suo pensiero teologico con le annesse dottrine epistemologiche, metafisiche, etiche di supporto, in un serrato confronto dialettico con le altre correnti della scolastica e della modernità, riproponendo l’insegnamento più profondo del loro maestro: l’essere è essenzialmente amore e libertà, che uniti con l’intelligenza trovano la loro espressione più alta nelle persone, divine e umane. A. Poppi BIBL.: la prima ed. dell’Opera omnia, dopo le pubblicazioni a stampa di singoli libri a partire dal 1471, è quella realizzata da L. Wadding, Iohannis Duns Scoti Doctoris Subtilis et Mariani opera omnia, Lugduni 1639, 12 voll. (ripr. Hildesheim 1968) e un’editio minor in 5 voll., a cura di G. Lauriola, Alberobello 1998-2001, accompagnata da un Index scotisticus quale vol. VI, ivi 2003 e ripubblicata da L. Vivès, Paris 1891-95, 26 voll. Attualmente è in corso un’ed. a cura della Commissione Scotistica (citata quale ed. Vaticana, dal nome della casa editrice, o anche Balic, dal nome del suo presidente, padre C. Balic, dei Frati Minori), che ha pubblicato i commentari ai primi due libri delle Sentenze, cioè dell’Ordinatio (voll. I-VIII, 1950-98), e quelli della Lectura (oxoniensis) (voll. XVI-XIX, 1960-93); nel 2003 è uscito il vol. XX con le distinctiones 1-17 della Lectura sul libro III delle Sentenze, tenuta a Oxford durante l’esilio da Parigi. Per l’ed. critica delle opere filosofiche di Duns Scoto, recentemente si è costituita una seconda Commissione presso The Franciscan Institute of St. Bonaventure University (New York) e poi la Catholic University of America (Washington D.C.), diretta in successione da G.J. Etzkorn, R. Green, T. Noone, che ha già pubblicato le Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis (voll. III-IV, 1997) e le Quaestiones in librum Porphyrii Isagoge et Quaestiones super Praedicamenta Aristotelis (vol. I, 1999); sono imminenti gli altri commentari al Peri hermeneias, agli Elenchi sophistici, (vol. II, comprendente anche i Theoremata) e al De anima (vol. V). Sono inoltre disponibili alcune edd. parziali di testi dall’Ordinatio, dalle Lecturae di Oxford, dalle Reportationes pari-

Duns Scoto gine su importanti problemi di gnoseologia, di metafisica, di etica discussi dal Sottile, con introduzione e tr. ingl. di A.B. Wolter, e di altri autori in altre lingue moderne; del De primo principio si trovano parecchie edd. con testo bilingue o in semplice tr. nelle principali lingue europee, condotte generalmente sull’ed. critica di M. Müller (Freiburg im Breisgau 1941) con la revisione di E. Roche (1949) o di W. Kluxen (1974): in it. quella curata da P. Scapin (Padova 1973); delle Quaestiones quodlibetales esiste una versione in sp. e una in ingl.; numerose pure le antologie recenti di passi scelti da varie opere dell’autore (ancora di grande utilità le raccolte sistematiche di Girolamo da Montefortino, Ioannis Duns Scoti summa theologica ex universis operibus eius concinnata, Roma 1900-32 (1728-38), 6 voll.; e di P. Minges, Ioannis Duns Scoti doctrina philosophica et theologica, Quaracchi 1930, 2 voll. Per un indice lessicografico cfr. M. FERNÁNDEZ GARCÍA, Lexicon scholasticum philosophico-theologicum, Quaracchi 1910. Su Duns Scoto: oltre ai comuni repertori bibliografici di teologia e di filosofia, si rinvia al periodico specifico «Bibliographia Franciscana», che offre l’elenco più ampio e puntuale di quanto si pubblica nel mondo anche per Duns Scoto. Una vasta rassegna bibliografica è quella curata da O. SCHÄFER, Bibliographia de vita, operibus et doctrina Iohannis Duns Scoti, Roma 1955, aggiornata da G. ZAMORA e G. DE SOTIELLO in «Naturaleza y Gracia», 15 (1968), pp. 75116. Qui si citerà soltanto qualche opera più significativa partendo dalla metà del Novecento, cioè dalla svolta che gli studi scotistici hanno avuto con l’utilizzo dell’ed. critica. Ricordiamo dapprima gli atti dei convegni organizzati dalla Commissione (i primi due) e poi dalla Società internazionale scotistica (3-6) a partire dal 1950, di notevole importanza per il numero e la qualità degli studiosi partecipanti, nonché per la vastità dei temi affrontati, che scandiscono il progredire della ricerca storico-critica. 1) Scholastica ratione historico-critica instauranda, Romae 1951; 2) De doctrina Iohannis Duns Scoti, «Acta congressus scotistici internationalis Oxonii et Edimburgi 11-17 sept. 1966 celebrati», Roma 1968, 4 voll.; 3) Deus et homo ad mentem Iohannis Duns Scoti, «Acta tertii congressus scotistici internationalis, Vindebonae 28 sept.-2 oct. 1970», Roma 1972; 4) Regnum hominis et regnum Dei, «Acta quarti congressus scotistici internationalis, Patavii 24-29 sept. 1976», ed. a cura di C. Bérubé, Roma 1978, 2 voll.; 5) Homo et mundus, «Acta quinti congressus scotistici internationalis, Salmanticae 21-26 sept. 1981», ed. a cura di C. Bérubé, Roma 1984; (Gli Atti del VI congresso scotistico internazionale, tenuto a Cracovia nel 1986, non sono stati pubblicati); 6) Via Scoti. Methodologica ad mentem Iohannis Duns Scoti, «Acta congressus

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Duns Scoto scotistici internationalis, Romae 9-11 marzo 1993», ed. a cura di L. Sileo, Roma 1995. Tra i molti volumi miscellanei usciti in occasione del VII centenario della nascita di Duns Scoto, merita una menzione particolare quello a cura di B.M. BONANSEA e J.K. RYAN, John Duns Scotus, 1265-1965, Washington 1965. Si segnalano inoltre alcuni volumi di atti dei convegni organizzati dal Centro studi personalistici «Giovanni Duns Scoto», curati da G. Lauriola, Bari 1992 ss.; gli atti del convegno «Etica e persona. Giovanni Duns Scoto e suggestioni nel moderno. Bologna, 18-20 febbario 1993», a cura di S. Casamenti, Bologna 1994; A. GHISALBERTI (a cura di), Giovanni Duns Scoto: filosofia e teologia, Milano 1995; un’altra importante raccolta di studi è quella curata da L. HONNEFELDER et al., John Duns Scotus: Metaphysics and Ethics, «Proceedings of a Conference Held March 14-18, 1994, at the University of Bonn», Leiden - New York - Köln 1996; e da E.P. BOS (a cura di), John Duns Scotus: Renewal of Philosophy, «Acts of the Third Symposium organized by the Dutch Society for Medieval Philosophy Medium Aevum, May 23 and 24 1996», Amsterdam-Atlanta 1998 (i contributi raccolti in questi volumi di atti non verranno citati singolarmente nelle rubriche seguenti). Tra le monografie con una visione complessiva del pensiero filosofico (e in parte teologico) di Duns Scoto, se ne citano alcune in ordine cronologico: E. GILSON, Jean Duns Scot. Introduction à ses positions fondamentales, Paris 1952; O. TODISCO, Lo spirito cristiano della filosofia di G. Duns Scoto, Roma 1975; B. BONANSEA, L’uomo e Dio nel pensiero di Duns Scoto, Milano 1991; A.G. MANNO, Introduzione al pensiero di Giovanni Duns Scoto, Bari 1994; A. VOS JACZN, Johannes Duns Scotus, Leiden 1994; R. CROSS, Duns Scotus, New York - Oxford 1999; L. IAMMARRONE, Giovanni Duns Scoto metafisico e teologo: le tematiche fondamentali della sua filosofia e teologia, Roma 1999; F. TODESCAN (a cura di), Giovanni Duns Scoto, Padova 2002; TH. WILLIAMS (a cura di), The Cambridge Companion to Duns Scotus, Cambridge 2003. Gli studi che affrontano temi particolari nell’opera di Duns Scoto sono innumerevoli; oltre quelli contenuti nei volumi miscellanei o di atti sopra indicati, ci limitiamo a qualche segnalazione: per la vita e le opere, oltre alle introduzioni ai singoli volumi dell’ed. critica, si rinvia a C.K. BRAMPTON, Duns Scotus at Oxford, 1288-1301, in «Franciscan Studies», 24 (1964), pp. 5-20; C. BALIC, John Duns Scotus: Some Reflections on the Occasion of the Seventh Centenary of his Birth, Roma 1966; A.B. WOLTER, Reflections on the Life et Works of Scotus, in «American Catholic Philosophical Quarterly», 57 (1993), pp. 1-36; G. PINI, Duns Scotus’s Metaphysics: The Critical Edition of his «Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristote-

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lis», in «Revue de Théologie et Philosophie Médiévales», 65 (1998), pp. 353-368; J.A. SHEPPARD, Vita Scoti, in «Franciscan Studies», 60 (2002), pp. 291-323; M. ROBSON, The Birth-Place of Blessed John Duns Scotus: Thomas Gascoigne, a Hitherto Unnoticed Witness, in «Miscellanea Francescana», 103 (2003), pp. 703-718. Sulla conoscenza: F.A. PREZIOSO, La critica di Duns Scoto all’ontologismo di Enrico di Gand, Padova 1961; C. BÉRUBÉ, La connaissance de l’individuel au Moyen Âge, Montréal-Paris 1964; I. MANZANO, La «Habilitationsschrift» de Martin Heidegger sobre Escoto, in «Verdad y Vida», 24 (1966), pp. 305325; S.D. DUMONT, The Univocity of Being in the Fourteenth Century, in «Mediaeval Studies», 49-51 (1987-89), pp. 1-75, pp. 186-256, pp. 1-129; O. BOULNOIS, La destruction de l’analogie et l’instauration de la métaphysique, in J. DUNS SCOT, Sur la connaissance de Dieu et l’univocité de l’étant, Paris 1988, pp. 10-81; M. SERAFINI, Duns Scoto interprete critico di Anselmo, in «Collectanea Franciscana», 69 (1999), pp. 375-394; G. PIZZO, Intellectus und memoria nach der Lehre des Johannes Duns Scotus: das menschliche Erkenntnisvermögen als Vollzug von Spontaneität und Rezeptivität, Kevelaer 1998; G.I. MANZANO, Estudios sobre el conoscimiento en Juan Duns Escoto, Murcia 2000. Sull’ontologia e la teologia naturale: T. BARTH, Individualität und Allgemeinheit bei Duns Scotus: eine ontologische Untersuchung, in «Wissenschaft und Weisheit», 16-20 (1953-57), pp. 122-141, 191-213, 112-136, 106-119, 198-220, 117-136, 106-119, 198200; P.T. STELLA, L’ilemorfismo di Giovanni Duns Scoto, Torino 1955; H. BORAK, De radice ontologica contingentiae, in «Laurentianum», 2 (1961), pp. 122-145; T. BARTH, Die Grundstruktur des göttlichen Seins bei Johannes Duns Scotus, in «Franziscanische Studien», 48 (1966), pp. 271-296; P. SCAPIN, La causalità nel pensiero di Scoto, in «Miscellanea Francescana», 66 (1966), pp. 357-400; L. IAMMARRONE, Il problema della creazione nel pensiero di Giovanni Duns Scoto, in «Miscellanea Francescana», 66 (1966), pp. 401-447; R. PRENTICE, The Basic Quidditative Metaphysics of Duns Scotus as Seen in his «De primo principio», Roma 1970; J.D. SCOTUS, Tractatus de primo principio, tr. ted. di W. Kluxen, Abhandlung über das erste Prinzip, Darmstadt 1974; L. HONNEFELDER, «Ens in quantum ens». Der Begriff des Seienden al solchen als Gegenstand der Metaphysik nach der Lehre des Johannes Duns Scotus, Münster 1979; C. BÉRUBÉ, De l’homme à Dieu selon Duns Scot, Henri de Gand et Olivi, Roma 1983; S. MARRONE, The Notion of Univocity in Duns Scotus’ Early Works, in «Franciscan Studies», 43 (1983), pp. 347-395; S.D. DUMONT, The «quaestio si est» and the Metaphysical Proof for the Existence of God according to Henry of Ghent and Duns Scotus, in «Franziscanische Studien», 66 (1984), pp. 335-367; L. HONNEFELDER, «Scientia transcendens». Die formale Bestimmung der Seiendheit in der Metaphysik des Mit-

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telalters und der Neuzeit (Duns Scotus, Suárez, Kant, Pierce), Hamburg 1990; A.B. WOLTER (a cura di), The Philosophical Theology of John Duns Scotus, Ithaca (New York) 1990; P. KING, Duns Scotus on the Common Nature and the Individual Difference, in «Philosophical Topics», 20 (1992), pp. 51-76; T.B. NOONE, Individuation in Scotus, in «American Catholic Philosophical Quarterly», 69 (1995), pp. 527-542; O. BOULNOIS, Preuve de Dieu et structure de la métaphysique selon Duns Scot, in «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 83 (1999), pp. 35-52; A. GHISALBERTI, Jean Duns Scot et la théologie rationnelle d’Aristote, in «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 83 (1999), pp. 5-19; H.-J. WERNER, «Incommunicabilitas» et «libertas». La métaphysique de la personne selon Thomas d’Aquin et Duns Scot, in «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 83 (1999), pp. 21-33. Sulla filosofia della prassi si veda: W. HOERES, Der Wille als reine Vollkommenheit nach Duns Scotus, München 1962, tr. it. di A. Bizzotto, La volontà come perfezione pura in Duns Scoto, Padova 1976; P. SCAPIN, Contingenza e libertà divina in Giovanni Duns Scoto, in «Miscellanea Francescana», 64 (1964), pp. 3-27, 277-324; R. PRENTICE, The Contingent Element Governing the Natural Law on the Last Seven Precepts of the Decalogue According to Duns Scotus, in «Antonianum», 42 (1967), pp. 259-292; R. PRENTICE, The Voluntarism of Duns Scotus as Seen in his Comparison of the Intellect and the Will, in «Franciscan Studies», 28 (1968), pp. 63-103; M. DAMIATA, I e II tavola. L’etica di Giovanni Duns Scoto, Firenze 1973; R. ANDOLFATO, Utilità, prezzo, contratto sociale: crisi dell’etica economica in Duns Scoto, in L. RUGGIU (a cura di), Genesi dello spazio economico. Il labirinto della ragione sociale: filosofia, società e autonomia dell’economico, Napoli 1982, pp. 119-146; S.D. DUMONT, The Necessary Connection of Moral Virtue to Prudence According to John Duns Scotus Revisited, in «Recherches de Théologie Ancienne et Médiévale», 55 (1988), pp. 184-206; O. TODISCO, L’onnipotenza divina in Giovanni Duns Scoto e in Guglielmo d’Ockham. Dalla libertà di Dio al primato del singolare, in «Miscellanea Francescana», 89 (1989), pp. 393-459; G. PIZZO, La giustizia nella dottrina della volontà di Giovanni Duns Scoto, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 81 (1989), pp. 3-26; G. PIZZO, «Malitia» e «odium Dei» nella dottrina della volontà di Giovanni Duns Scoto, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 81 (1989), pp. 393-415; M.E. INGHAM, Ethics and Freedom. An Historical-Critical Investigation of Scotist Ethical Thought, Lanham 1989; J. BOLER, The Moral Psychology of Duns Scotus: Some Preliminary Questions, in «Franciscan Studies», 50 (1990), pp. 31-56; J. BOLER, Transcending the Natural: Duns Scotus on the Two Affections of the Will, in «American Catholic Philosophical Quarterly», 67 (1993), pp. 109-126; I. MIRALBELL, El dinamicismo vo-

Duodinamismo luntarista de Duns Escoto: una transformación del aristotelismo, Pamplona 1994; A. VOS JACZN et al., Contingency and Freedom John Duns Scotus Lectura I 39, Dordrecht-Boston-London 1994; H. MÖHLE, Ethik als «scientia practica» nach Johannes Duns Scotus. Eine philosophische Grundlegung, Münster 1995; F. BOTTIN, Giovanni Duns Scoto sull’origine della proprietà, in «Rivista di Storia della Filosofia», 52 (1997), pp. 4759; W. KLUXEN, Über Metaphysik und Freiheitsverständnis bei Johannes Duns Scotus, in «Philosophisches Jahrbuch», 105 (1998), pp. 100-109; S.D. DUMONT, Did Duns Scotus Change his Mind on the Will?, in J.A. AERTSEN et al., Nach der Verurteilung von 1277. Philosophie und Theologie an der Universität von Paris im letzten Viertel des 13. Jahrhunderts, Berlin - New York 2001, pp. 719-794; L. PARISOLI, La philosophie normative de Jean Duns Scot: droit et politique du droit, Roma 2001. Per la teologia: W. PANNENBERG, Die Prädestinationslehre des Duns Scotus in Zusammenhang der scholastischen Lehrentwicklung, Göttingen 1954, tr. it. di A. Sberveglieri, La dottrina della predestinazione di Duns Scoto nel contesto dello sviluppo della dottrina scolastica, Milano 1994; W. DETTLOFF, Die Entwicklung der Akzeptations- und Verdienstlehre von Duns Scotus bis Luther: mit besonderer Berücksichtigung der Franziskanertheologen, Münster 1963; L. VEUTHEY, Jean Duns Scotus: pensée théologique, Paris 1967, ed. it. a cura di O. Todisco, Giovanni Duns Scoto tra aristotelismo e agostinismo, Roma 1996; F. WETTER, Die Trinitätslehre des Johannes Duns Scotus, Münster 1967; O. TODISCO, La ragione nella fede secondo Giovanni Duns Scoto: Riflessi nella filosofia contemporanea, Roma 1978; G. IAMMARRONE, Attualità e limiti della cristologia di Giovanni Duns Scoto per l’elaborazione del discorso teologico oggi, in «Miscellanea Francescana», 89 (1989), pp. 277-299; M. BÜRGER, Personalität im Horizont absoluter Prädestination. Untersuchungen zur Christologie des Johannes Duns Scotus und ihrer Rezeption in modernen theologischen Ansätzen, Münster 1994; A. GHISALBERTI, Giovanni Duns Scoto e la scuola scotista, in G. D’ONOFRIO (a cura di), Storia della teologia nel Medioevo, vol. III: La teologia nelle scuole, Casale Monferrato 1996, pp. 325-374; R. CROSS, The Physics of Duns Scotus: The Scientific Context of a Theological Vision, Oxford 1998; A. BÄCK, Scotus on the Consistency of the Incarnation and the Trinity, in «Vivarium», 36 (1998), pp. 83-107; O. BOULNOIS, Duns Scot: la rigueur de la charité, Paris 1998, tr. it. di C. Mirabelli, Duns Scoto: il rigore della carità, Milano 1999.

DUODINAMISMO (duodynamism; DuodyDuodinamismo namismus; duodynamisme; duodinamismo). – Concezione che afferma l’esistenza nell’uomo di due principi vitali, di due anime: un principio vegetativo-sensitivo e un altro intellettivo; 3157

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Dupanloup è detta anche dicotomia. Ne furono assertori: Filone di Alessandria, i manichei e gli gnostici, Clemente Alessandrino, Guglielmo di Ockham, F. Bacone, P. Gassendi, A. Günther, F.-P. Maine de Biran e molti altri. Questi due principi vitali, non subordinati uno all’altro, rendono inesplicabile (come il tridinamismo o tricotomia) l’unità personale dell’uomo. Red. BIBL.: A. ALBERTI, Sensazione e realtà: Epicuro e Gassendi, Firenze 1988; H.-G. GADAMER, L’anima alle soglie del pensiero nella filosofia greca, Napoli 1988; R. RADICE, Platonismo e creazionismo in Filone di Alessandria, Milano 1989; C. PANACCIO, Le discours intérieur: de Platon à Guillaulme d’Ockham, Paris 1999, P. ROSSI, Francesco Bacone: dalla magia alla scienza, Bologna 2004. ➨ ANIMA; PERSONA; TRIDINAMISMO.

DUPANLOUP, FÉLIX-ANTOINE-PHILIBERT. – Dupanloup Pedagogista ed educatore francese, n. a StFélix in Savoia il 3 genn. 1802, m. a Lacombe (Savoia) l’11 ott. 1878. Vescovo di Orléans dal 1849, nel 1854 è stato membro dell’Accademia francese e nel 1875 senatore. Il suo intervento nelle più difficili questioni culturali, religiose e politiche del tempo è stato sempre pronto e coraggioso (se pur non sempre opportuno). A lui si deve la vigorosa difesa contro l’invadenza monopolistica dell’«università» napoleonica: il principio della «libertà d’insegnamento» ha trionfato, per suo merito, con la legge Falloux (1850). Della lunga esperienza educativa e della riflessione sui problemi pedagogici reca frutto l’opera principale, in due parti: De l’éducation en général (Paris 1850-52, 3 voll.) e De la haute éducation intellectuelle (Orléans 1855-57, 3 voll.). In essa rivivono, in uno stile nervoso e chiaro, i grandi principi della tradizione dottrinale cattolica, posti a confronto con le nuove idee, specie di Rousseau, di cui ha criticato efficacemente l’individualismo e il naturalismo, pur accettando l’istanza del rispetto della libertà e della spontaneità dell’educando. Partendo dalla concezione religiosa e cattolica dell’uomo e della vita, Dupanloup deduce un concetto etico-religioso dell’educazione, dove l’ideale educativo è quello di formare il perfetto cristiano, che è anche l’uomo completo: pedagogia soprannaturale e umanistica, che si traduce in una metodologia orientata alla formazione del carattere, attraverso la valorizza3158

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zione teorica e pratica della disciplina e della libertà («l’educazione è un’opera d’autorità e di rispetto»). «Ciò che il maestro fa è poco, ciò che fa fare è tutto» e «non è questione di insegnare molte cose ai fanciulli, ma di renderli capaci di apprendere»: coscienza dunque, in Dupanloup, dell’importanza dell’attiva partecipazione dell’educando all’opera educativa e didattica, ma insieme forte accentuazione dell’essenzialità dell’intervento autoritario ed esemplare dell’educatore. L’opera pedagogica di Dupanloup rimane uno degli sforzi più riusciti di deduzione di una dottrina dell’educazione da una concezione cristiana della vita: la struttura del sistema di Dupanloup rivela una connessione organica tra la sua pedagogia e la concezione cattolica della realtà. Dupanloup si può quindi considerare uno dei classici della pedagogia cattolica. P.G. Grasso BIBL.: F. LAGRANGE, Vie de Mgr. Dupanloup, évêque d’Orléans, Paris 1883-84, 3 voll.; F. DE HOVRE, Le catholicisme; ses pédagogues, sa pédagogie, Bruxelles 1930, pp. 110-154; C. MARCILHACY, Le diocèse d’Orléans sous l’épiscopat de Mgr. Dupanloup, 18491878, Paris 1962.

DU PASQUIER, SÉBASTIEN. – Scotista, miDu Pasquier nore conventuale, n. a Chambéry nel 1630 circa, m. nel 1718. È autore di una fortunata sintesi del pensiero di Scoto: Summa philosophiae scholasticae et Scotisticae (Lyon 1692-93); Summa theologiae Scotisticae (ivi 1695), più volte riedite. Du Pasquier non si limita a ripetere Scoto, ma apporta al pensiero scotistico contributi personali. Non condivide, per esempio, la dottrina della praemotio physica dei tomisti, tuttavia allontanandosi da Scoto ammette l’influsso immediato della causa increata sull’effetto ultimo, rinnovando così la tesi del francescano Pier di Giovanni Olivi e accostandosi al molinismo. Riprende anche altri tratti della psicologia di Olivi, attribuendo all’intelletto, nella generazione dell’atto libero, il solo ruolo di conditio sine qua non, e non quello di concausa efficiente. Va pure segnalata la precisazione sulla tesi scotistica dell’oggetto primo dell’intelletto, che di diritto è l’ente «in sua tota latitudine», ossia l’ente trascendentale, mentre di fatto, dopo il peccato originale, è l’ente finito simpliciter, pur restando vero che l’oggetto sensibile è comunque il primo a muovere l’intelligenza. F. Simoncioli

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BIBL.: D. SPARACIO, Frammenti bio-bibliografici di scrittori e autori minori conventuali, Assisi 1931, pp. 7980; B. JANSEN, Zur Philosophie der Scotisten des 17. Jahrhunderts, in «Franziskanische Studien», 17 (1936), pp. 159-161; F. SIMONCIOLI, Il problema della libertà umana in Pietro di Giovanni Olivi e Pietro de Trabibus, Milano 1956, pp. 21-54, 119-124 e 160-163.

DUPONT-BERTRIS. – Il cognome «Du Pont Dupont-Bertris Bertris», privo di nome, compare in calce alla lettera dedicatoria al duca d’Orléans apposta all’opera anonima Éloges et caractères des philosophes les plus célèbres, depuis la naissance de Jésus-Christ jusqu’à présent (Paris 1726). L’opera, che ha carattere divulgativo ed ospita in appendice anche alcune composizioni poetiche in latino, viene esplicitamente presentata dall’autore come una integrazione dell’Abrégé des vies des anciens philosophes (1726) attribuito a Fénelon, ma nel titolo e nell’impostazione sembra rifarsi ai modelli offerti dai Caractères (1688) di La Bruyère e dagli Éloges des académiciens (1708-19) di Fontenelle. Essa presenta una serie di quindici profili o medaglioni a partire dall’età romana (Seneca, Plutarco, Avicenna, Abelardo, Averroè, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Cardano, Gassendi, Cartesio, Maignan, Pascal, Malebranche, Leibniz). Il pensatore cui è dato maggiore spazio (ben 45 pagine) è Leibniz, ma l’autore dà mostra di propendere per la filosofia di Cartesio, visto come un campione dell’esprit français. G. Piaia BIBL.: A.-A. BARBIER, Dictionnaire des ouvrages anonymes, Paris 1872-79 (ristampa Hildesheim 1969), vol. II, p. 93; G. PIAIA, Dupont-Bertris, in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. II: Dall'età cartesiana a Brucker, Brescia 1979, pp. 170-177, F. AZOUVI, Descartes et la France, Paris 2002, pp. 89-91.

DUPRÉEL, EUGÈNE. – Filosofo belga, n. a Dupréel Malines nel 1879 e m. a Bruxelles nel 1967, è stato professore all’università di Bruxelles, ed è stato insignito nel 1950 del premio decennale per la filosofia. L’itinerario filosofico di E. Dupréel – forse il più originale dei filosofi belgi, noto soprattutto come storico della filosofia antica e come maestro di Ch. Perelman – si è svolto nel segno di una feconda collaborazione tra filosofia e sociologia. La sua opera si colloca alla confluenza di un processo di pensiero e d’indagi-

Durand ne che va dalle ricerche di Simmel alla sociologia relazionale di von Wiese, coinvolgendo, a diverso titolo, autori come Tarde e Durkhein, Giddings e Waxweiler. Ponendo al centro della sua speculazione la nozione di «rapporto sociale», inteso come principio sociologico fondamentale e come categoria filosoficamente rilevante, Dupréel intende sgomberare il campo dalle false problematiche insite, da un lato, nell’ontologismo sociologico e, dall’altro, nella metafisica tradizionale, per ricercare una via esplicativa e interpretativa della realtà colta nella sua dimensione interumana. Il relazionismo dupréeliano è, in tal senso, una teoria sociologica basata sull’assunto che la vita sociale è un tessuto di relazioni ma è, insieme, una concezione filosofica fondata sul presupposto che si può comprendere l’uomo solo attraverso la considerazione sistematica di una pluralità di coscienze in relazione. Di qui l’idea di una razionalità svincolata dal criterio dell’evidenza incontestabile: la dupréeliana «ragione ragionevole» è aperta e dinamica, nella misura in cui non è data anteriormente all’esperienza ma si fa e diviene attraverso la comunicazione tra gli uomini. Tale impostazione si rivela particolarmente feconda nello studio dell’etica in quanto consente di superare la tradizionale visione individualistica e di porre le basi di una concezione sociologica del fatto morale assai più articolata, pur se meno rigorosa, di quella durkheimiana. L. Battaglia BIBL.: La Légende socratique et les sources de Platon, Bruxelles 1921; Traité de Morale, Bruxelles 1932, 2 voll.; Esquisse d’une philosophie des valeurs, Paris 1939; Les Sophistes, Neuchâtel 1948; Sociologie générale, Paris 1948; Essais pluralistes, Bruxelles 1949. Su Dupréel: M. BARZIN, L’oeuvre d’E. Dupréel, in «Revue Universitaire de Bruxelles», 1949-50, pp. 379390; G. STABILE, Valore morale e società nel pensiero di E. Dupréel, Salerno 1976; L. BATTAGLIA, Sociologia e morale in E. Dupréel, Milano 1977; L. CEDRONI, Per una filosofia dei valori. Saggio su E. Dupréel, Roma 1992.

DURAND, JOSEPH-PIERRE (detto Durand de Durand Gros). – Scienziato e filosofo francese, n. a Gros (Rodez, Aveyron) nel 1826, m. ad Arsac il 17 nov. 1900. Interrotti gli studi di medicina per seguire il padre, esule in Algeria dopo il colpo di stato napoleonico del 2 dicembre1851, e, dopo viag3159

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Durandello gi in America e in Europa, tornato in patria, si stabilì ad Arsac, presso Rodez. La lontananza in provincia, una certa intemperanza polemica contro i rappresentanti della scienza ufficiale (specie contro i positivisti Broca, Littré, Taine, ma anche contro Claude Bernard, Renan ecc.), il carattere un po’ perentorio delle sue affermazioni, spesso non accompagnate da descrizioni precise dei fatti, hanno impedito il tempestivo riconoscimento di idee formulate da Durand nel campo scientifico, in particolare nella fisiologia del sistema nervoso e nella psicologia sperimentale. Durand qualifica la sua concezione come panteismo spiritualista o panpsichismo. Dall’uno (monade assoluta di tipo leibniziano, forza semplice, spirituale ma impersonale) è formata ogni particella di materia. Perciò l’uno è anche infinito in numero. Tutto è costituito di «uni», in ognuno dei quali risiede l’eterna essenza e causa. Tutto quel che si manifesta è quindi «anima» e tutte le «anime» sono essenzialmente eguali, differendo solo per le loro manifestazioni, dipendenti dal modo della loro agglomerazione. II mondo forma un tutto di cui le parti sono solidali. La materia è un’agglomerazione di cui gli elementi costitutivi sono forze semplici, centri dinamici e indistruttibili. Agglomerazione, più sintetica, è anche quella del corpo vivente. Esso ha parecchi sistemi viventi e formati, come il sistema totale, da tutti i principi essenziali della vita: Durand lo chiama «polizoismo». Tra il corpo invertebrato e quello vertebrato c’è continuità. Anche il corpo umano è agglomerazione di centri dinamici. L’anima è uno di essi e centralizza l’organizzazione intera. Il polizoismo si specifica nell’uomo in polipsichismo: quel che si chiama «io» non è che il principale di una gerarchia d’individualità psichiche «scaglionate dai gangli encefalici fino all’estremità inferiore dell’albero spinale» (Variétés philosophiques, Paris 1900, p. 185). In forza di questi principi Durand vuol conciliare spiritualismo e materialismo, deismo e ateismo, dando una soluzione in cui si ritrovi la verità delle opposte affermazioni. F. Weber BIBL.: Électro-dynamisme vital, Paris 1855; Cours théorique et pratique de Braidisme, Paris 1860 (pubblicate sotto lo pseudonimo di J.P. Philips); Essais de physiologie philosophique, Paris 1866; Les origines animales de l’homme, Paris 1871; Ontologie et psychologie physiologique, Paris 1871 (2ª ed., col titolo Variétés

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philosophiques, Paris 1900); Le merveilleux scientifique, Paris 1894; L’idée et le fait en biologie, Paris 1896; Aperçus de taxinomie générale, Paris 1899; Nouvelles recherches sur l’esthétique et la morale, Paris 1900; Questions de philosophie morale et sociale, a cura di D. Parodi, Paris 1901 (postumo). Su Durand: E. BLANC, Mélanges philosophiques, Paris 1900, pp. 31-46; N. VASCHIDE - M. MIGNARD, Les doctrines philosophiques de Durand de Gros, in «Revue de Philosophie», 1902, pp. 357-378, 495-517; D. PARODI, Du positivisme à l’idéalisme, Paris 1930, pp. 104-143; D. BARRUCAND, Histoire de l’hypnose en France, Paris 1967, pp. 81-88.

DURANDELLO. – Con questo nome si desiDurandello gna l’autore delle Evidentiae contra Durandum (ed. a cura di P.T. Stella, Tübingen-Basel 2003). Opera di un tomista fedele del secolo XIV, costituisce una delle migliori critiche al Commentarium in Libros Sententiarum di Durando di San Porziano e si inserisce nella strategia attuata dai tomisti di seconda generazione per restituire dignità e reputazione all’insegnamento dell’Aquinate dopo la condanna e le controversie del XIII secolo. Le Evidentiae sono in particolare testimonianza della nuova stagione attraversata dall’ordine domenicano nei primi decenni del XIV secolo: in essa si tenta di trasformare Tommaso in autorità teologica. Per questa promozione del tomismo viene intenzionalmente utilizzato come strumento di confronto critico il commento di Durando alle Sentenze di Pietro Lombardo, così da creare una continuità tra il suddetto insegnamento e la tradizione teologico-magistrale del concilio Laterano del 1215. Secondo Koch, l’autore, identificato in un manoscritto come Nicolaus Medensis, potrebbe essere Nicola di San Vittore, allievo di Giovanni di Napoli, supponendo che sia originario della cittadina di Meda. Lo stesso ipotizza Stella, riconoscendone però il valore di mera congettura. G. Feltrin BIBL.: AA.VV., Saint Thomas au XIVe siècle, «Actes du Colloque organisé par l’Institut Saint Thomas d’Aquin les 7 e 8 juin 1996 à l’Institut catholique de Toulouse», in «Revue Thomiste», 97 (1997), pp. 1262; I. IRIBARREN, Durandus and Durandellus: The Dispute behind the Promotion of Thomist Authority, in «Akademievorträge. Schweizerische Akademie der Geistes- und Sozialwissenschaften», 11 (2004), pp. 15-28.

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DURANDO Durando d’Aurillac D’AURILLAC. – Scolastico francese, domenicano, vissuto nel XIV secolo, m. nel 1380. Il suo pensiero rimane fedelmente legato al tomismo, e non presenta originalità di rilievo. Secondo Koch non bisogna confonderlo con Durandello. Red. BIBL.: J. KOCH, Durandus de S. Porciano, Münster 1927; A. BACIC, Ex primordiis scholae thomisticae, Romae 1928, pp. 51-72; P. FOURNIER, Histoire littéraire de la France, Paris 1938, t. XXXVII, pp. 515-517; P. MANDONNET, Saint Dominique: l’idée, l’homme et l’œuvre, Paris 1937, vol. I, p. 199.

DURANDO PORZIANO. – TeoloDurando di DI SanSAN Porziano go domenicano, n. a Saint-Pourçain, nella regione dell’Alvernia, tra il 1270 e il 1275; nel 1303 è nel convento domenicano parigino di Saint Jacques, dove nel 1307-08 commentava le Sentenze e nel 1312 diveniva maestro in teologia. A partire dal 1313, è lettore alla corte papale di Avignone e dal 1317 vescovo, dapprima di Limoux, poi di Puy-en-Velay, quindi di Meaux nel 1326, dove muore nel 1334. L’insegnamento prodotto commentando le Sentenze subisce immediatamente vivaci contestazioni all’interno dell’ordine domenicano: venivano viste con sospetto le numerose discordanze tra la sua dottrina e quella di Tommaso d’Aquino. Lo scontro non si placò nemmeno dopo la revisione del Commento operata da Durando intorno al 1310. Nonostante tali dissensi all’interno dell’ordine di appartenenza, papa Giovanni XXII lo nomina lector Curiae, poi vescovo; nel 1326 lo inserisce nella commissione esaminatrice dell’ortodossia degli scritti di Ockham. Approfittando della sua nuova dignità, Durando pubblicherà la terza edizione del Commento alle Sentenze (1317-27), che conoscerà diverse edizioni a stampa nel Cinquecento; condurrà nuove polemiche, una delle quali, quella sulla visione beatifica, gli attirerà la censura papale. Già però l’immediato successore, Benedetto XII (1334-1342) ne riabiliterà la posizione: fino al XVI secolo, il pensiero di Durando sarà considerato autorevole, per spiegare il quale saranno istituite specifiche cattedre. In polemica con l’assunzione di Tommaso d’Aquino come auctoritas all’interno dell’ordine domenicano, Durando invocava il dovere dell’indipendenza intellettuale; rimproverava all’aristotelismo di marca tomista mancanza di linearità e di capacità esplicativa, che porta-

Durando di San Porziano va a postulare entità superflue, soprattutto in materia psicologica, noetica e metafisica. Egli diffidava dunque della dottrina tomista degli habitus, della distinzione tra essenza ed esistenza, come pure della tesi che la materia sia il principio di individuazione; riteneva che non fosse necessario invocare l’esistenza nell’uomo dell’intelletto agente, né tanto meno delle specie intelligibili, forme intellettive che nell’intelletto possibile farebbero da medium tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. Il rifiuto di queste tesi è collegato all’assunzione da parte di Durando di un’originale concezione della relazione: essa non va intesa come legame estrinseco tra sostanze, bensì come fondamentale modo dell’essere. Le applicazioni di tale dottrina sono decisive anche a livello teologico, in particolare nella speculazione sulla Trinità. È nota, infine, la sua opposizione nei confronti della concezione tommasiana della teologia come scienza speculativa e della sua unità: avendo per oggetto la salvezza, la teologia è, e solo in senso lato, scienza pratica. Anche le sue dottrine sul peccato originale e sull’azione causale del sacramento sono state al centro delle dispute teologiche dell’inizio del XIV secolo. A. Petagine BIBL: quanto alle opere di interesse teologico e filosofico, la terza stesura del Commento alle Sentenze ha conosciuto diverse edd. cinquecentesche: cfr. In Sententias thologicas Petri Lombardi commentariorum libri IV, Venetiis 1571; rist. anast. New York 1964; possediamo in ed. critica: Quaestio de natura cognitionis, ed. a cura di J. Koch, Münster 1935; Tractatus de habitibus: qq. I-III, ed. a cura di T. Takada, Kyoto 1963; q. IV, ed. a cura di J. Koch, Münster 1930; Magistri Durandi a Sancto Porciano Ordinis Praedicatorum Quodlibeta Avinionensia tria, ed. a cura di P. Stella, Zürich 1965; Libellus de visione Dei, ed. a cura di G. Cremascoli, in «Studi Medievali», 25 (1984), pp. 394-442. Per una rassegna completa delle sue opere, comprese quelle ancora inedite, cfr. TH. KÄPPELI - E. PANELLA, Scriptores Ordinis Praedicatorum Medii Aevi, Roma 1975, vol. II, pp. 339-350; Roma 1993, vol. IV, pp. 73-74. Su Durando di San Porziano: il principale studio rimane ancora quello di J. KOCH, Durandus de S. Porciano O. P. Forschungen zum Streit um Thomas von Aquin zu Beginn des 14. Jahrhunderts, Münster i. W. 1927; cfr. anche M.T. BEONIO BROCCHIERI FUMAGALLI, Durando di S. Porziano. Elementi filosofici della terza redazione del Commento alle Sentenze, Firenze 1969; profili di più recente composizione si trovano in F. ALESSIO, L’età di Giovanni XXII: Eckhart, il dibattito

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Durata sul tomismo, i primi scotisti, in T. GREGORY - A. MAIERÙ - F. ALESSIO, La filosofia medievale: i secoli XIII e XIV, Firenze 1975, pp. 284-288; E.H. WÉBER, L’Ordine domenicano dal dibattito sul tomismo a Eckhart, in G. D’ONOFRIO (a cura di), Storia della teologia nel Medioevo, vol. III: La teologia delle scuole, Casale Monferrato 1996, pp. 403-405; I. IRIBARREN, Durandus of St. Pourcain. A Dominican Theologian in the Shadow of Aquinas, «Oxford Theological Monographs», Oxford 2005 (con bibl. aggiornata).

DURATA (duration; Dauer; durée; duración). – Durata Nel pensiero classico il concetto di durata ha indicato, in un senso genericissimo, il modo o «misura» del perseverare di un ente nella sua esistenza, ed è stato distinto in tre specie diverse: se si tratta di un essere che è subordinato a un divenire successivo e continuo, la durata è stata detta tempo; se di un essere subordinato a una forma di divenire successivo ma non continuo, la durata è stata detta evo; se di un essere non subordinato ad alcuna forma di divenire, ma esistente tutto insieme sempre, la durata è stata detta eternità. In quest’ultimo senso la durata è concepita come il modo o la «misura» del durare piuttosto che come il durare stesso o l’ente in quanto dura. Il pensiero moderno, invece, è passato dal concepire la durata come modo o «misura» del durare al concepirla come il durare stesso, e da un durare come ente che dura alle strutture di coscienza in cui il durare dell’ente si costituisce. SOMMARIO: I. La durata e i suoi problemi. - II. La durata nella storia del pensiero. I. LA DURATA E I SUOI PROBLEMI. – La nozione generica della durata trae la sua prima origine dalla riflessione che la mente compie sul processo della propria esperienza. Ora si richiede in primo luogo che il processo sia continuo, giacché, se fosse discontinuo, la discontinuità significherebbe interruzione e rottura del divenire e quindi non più il durare di un processo, ma il disseminarsi di frammenti staccati nell’astratto continuo spazio-temporale. La continuità del durare significa altresì che il processo è uno, uno nel suo differenziarsi continuo. L’unità nel processo significa appunto continuità e la continuità raccoglie insieme l’identico e il diverso: il rimanere uno di ciò che si muove e si differenzia o (ciò che è la stessa cosa) il differenziarsi di ciò che è e resta essenzialmente uno. Ora qual è la prima radice di questa unità-continuità (identità-diversità)? 3162

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Si è detto che sia la memoria a trattenere il tempo dalla dispersione e a salvarlo dall’annullamento a cui l’irreversibilità del suo processo lo condannerebbe. Nel libro XI delle sue Confessioni Agostino misurò il tempo (meglio in questo caso si direbbe la durata) in relazione alla mente, trovando in questa, nel vivente fluire dell’anima, tre termini esattamente corrispondenti ai tre momenti della durata. Come la durata si svolge nel trapassare incessante del futuro nel passato attraverso il presente, così la mente ha l’aspettazione con cui si rappresenta il futuro, ha l’intuizione con cui si accorge del presente, ha la memoria con cui raccoglie e conserva il passato. Difficile è però definire che cosa sia in se stesso il tempo, nel suo concreto durare. «Se nessuno me lo chiede, lo so – dice Agostino –; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più» (Conf., XI, 14.17). È qui un’anticipazione dello sgomento da cui sarà preso Pascal, e una chiara consapevolezza delle difficoltà inerenti alla nozione del tempo. Infatti, secondo Agostino, se nulla passasse, nulla di ciò che è a venire si realizzerebbe mai nel tempo; e se, per ipotesi strana, tutto rimanesse immutabile, si avrebbe il riassumersi del corso del tempo nel presente e il presente sarebbe non più un momento del tempo, bensì, semplicemente, l’eternità. Ma, per la necessità del divenire che è inerente al tempo, il futuro non è ancora, il passato non è più, il presente sussiste proprio perché continuamente, assorbendosi nel passato, si annulla. Dove, dunque, si raccoglie e conserva il tempo, questo simulacro dell’essere vero, che consiste nel suo stesso continuo trascorrere ed estinguersi? È appunto nella mente e precisamente nella memoria, che si ritrova la possibilità di conservare e di misurare il tempo, ossia non le stesse cose che passano, ma le impressioni che esse imprimono, passando, nella mente. L’oggetto dell’aspettazione passa per l’attenzione per convertirsi nella memoria. Fin qui Agostino. Un punto di vista che assume la necessità di prendere le mosse dall’ente che dura insisterà sul fatto che il tentativo di definire il tempo e la durata in funzione della memoria inverte di fatto l’ordine reale delle nozioni. La memoria si distingue infatti come forma specifica di conoscenza in quanto si pone quale coscienza che nell’identità del suo atto confronta quello che è con quello che non è più e con questi due termini mette in rapporto

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la propria permanente unità. È vero cioè che è la memoria a svelare quella sorta di continuo successivo che è la durata; ma è la durata che costituisce il presupposto ontologico della memoria e la definisce come la differenza dell’oggetto definisce la differenza dell’attività che gli è relativa. La memoria stessa è possibile in quanto l’unità dell’io (la kantiana unità trascendentale dell’autocoscienza), secondo questa dottrina, raccoglie e tien ferme le diverse rappresentazioni, il cui succedersi è continuo, appunto perché uno, pur nel mutare dell’esperienza: è il tessuto nel quale vengono, come trame essenziali, a inserirsi le rappresentazioni. Questo avrebbe presentito Agostino, quando, rivolgendosi alla sua anima, esclamava: «È in te, o anima mia, ch’io misuro il tempo»; ma questo non avrebbe chiaramente esposto, perché non vedeva l’unità funzionale dell’io, logicamente presupposta all’esperienza e pur presente e attiva in essa (di essa, anzi, costituita nel suo continuo attuarsi): poneva l’anima come fondamento metempirico dell’esperienza e ricorreva alla memoria per rinsaldare la vita interiore, che così correva il rischio di disgregarsi e di disperdersi. La prospettiva fenomenologica, che riprende le preoccupazioni agostiniane, ha attirato l’attenzione sul fatto che insistere sugli aspetti soggettivi, sulla coscienza interna del tempo, non significa tuttavia necessariamente dissolvere ciò che dura in strutture soggettive. Per sfuggire a una considerazione psicologica della tematica della durata è sufficiente distinguere, all’interno dell’apparire soggettivo, ciò che dura dal suo durare. Così, se vediamo qualcosa che dura, questo può presentarsi come l’identico che persiste nel variare dei suoi modi di manifestazione. Husserl – andando oltre e sopprimendo la distinzione tra analisi psicologica e analisi ontologica della durata – nota per esempio che ciò che dura si costituisce in quanto tale proprio nel variare dei suoi modi di manifestazione temporale. Se prendiamo un dato di sensazione bruno, possiamo distinguere il dato che dura dal suo durare. Infatti, il dato che dura si mostra secondo modi di manifestazione soggettiva, la manifestazione «mostra una durata di “bruno”, è una manifestazione estesa nella quale c’è un oggetto esteso; e l’intenzione non è diretta sulla durata, ma sul “bruno” che dura e che nella durata è identica, cioè è inteso in unità e medesimez-

Durata za» (E. Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins (1893-1917), Den Haag 1966, ed. it. a cura di A. Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Milano 1985, p. 251). Noi abbiamo cioè medesimezza e tuttavia diversità delle fasi, e questo possiamo notarlo in quanto possiamo portare lo sguardo intenzionale sia su ciò che dura sia sul suo annunciarsi e costituirsi attraverso fasi temporali. Abbiamo molte fasi singole, ciascuna diversa, e tuttavia è presente una coscienza di identità: è lo stesso bruno che, nella molteplicità delle fasi, si manifesta, e «la coscienza continua di unità o di identità non va scambiata con tutt’altra coscienza, quella di un tutto di istanti allineati nel tempo. Vivendo nella coscienza d’identità, abbiamo nel costante continuum, nel costante flusso dell’estensione temporale, sempre uno» (ibi, p. 252). Può infine la durata, nella sua consistenza puramente psicologica, apparire suscettibile d’una misurazione oggettiva? Maine de Biran, ponendo l’io come una forza iperorganica, attiva nell’atto del volere produttivo del movimento, credeva di poter trovare in esso il principio della misurazione della durata, sia interna, sia riferita alle cose esterne. Royer-Collard cercò un fatto-tipo, che servisse come unità di misura per tale misurazione e indicò, come atta a farci intendere e la durata interna e quella esteriorizzata nell’uniformità del movimento, la tensione della volontà, col movimento che ne segue. Si tratta, qui, di tentativi non conciliabili col senso interiore della durata, che non sarebbe a sua volta concettualizzabile o suscettibile di misurazione oggettiva. II. LA DURATA NELLA STORIA DEL PENSIERO. – Per Zenone di Elea, che aveva affermato essere assurdo il movimento, e trovarsi la freccia, in ogni istante, ferma in un luogo determinato, una durata, intesa come somma di istanti, non è che una somma di immobilità (cfr.: Aristotele, Phys., VI, 9, 239 b). Nella speculazione greco-cristiana il concetto di durata è assorbito quasi del tutto dal concetto di tempo. Quanto alla distinzione della durata dal tempo, possono essere fatti tre rilievi, uno in Aristotele, uno in Plotino e uno in Agostino. Un’affermazione aristotelica di grande importanza è quella che riporta, in ultima analisi, il tempo all’anima, essendo a quello essenziale la misura ed essendo l’anima la sola realtà capace di misurare. La consistenza del tempo è, dunque, relati3163

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Durata va all’anima: tolta l’anima, sarebbe annullato il tempo nel suo significato spirituale e ne resterebbe soltanto il sostrato, e cioè il movimento. In Plotino l’anima, che è una ipostasi divina collocata al centro dell’universo, conserva l’unità nella molteplicità e produce quindi col tempo un’immagine dell’uno, l’uno nella continuità (Enn., III 7, 11): ecco affacciarsi l’idea della continuità, che è più propriamente della durata anziché del tempo astrattamente inteso. Agostino (lo abbiamo visto precedentemente) attinge da Aristotele l’intuizione della misura psicologica del tempo, ma la sviluppa con acutezza e con una sensibilità assai vicina alle più moderne esigenze del pensiero filosofico. Bisogna giungere a Cartesio per trovare in modo esplicito la distinzione della durata dal tempo. Quando noi distinguiamo, egli dice, il tempo dalla durata, considerata in generale, e diciamo che è la misura del movimento, questo è solo un modo di pensare, giacché, nel moto come nella quiete, la durata è sempre per noi la stessa. Per misurare la durata di tutte le cose, la confrontiamo con la durata di questi moti massimi e regolari, che producono gli anni e i giorni: e questa durata chiamiamo tempo. Ma il tempo nulla aggiunge alla durata, generalmente intesa, se non un modo di pensare (Principia philosophiae, in AT, vol. VIII, I, 57). La durata è dunque, per Cartesio, l’aspetto concreto del divenire; il tempo l’oggettivazione e la spazializzazione di esso necessarie a misurarlo (cfr. anche Meditationes de prima philosophia, in AT, vol. VII). Rifacendo il cammino percorso da Cartesio, ma chiarendo e sviluppando in modo originale le sue intuizioni, Spinoza definisce lapidariamente la differenza tra tempo e durata. Come vi è l’ente la cui essenza include l’esistenza (che cioè esiste di necessità ed è perciò eterno), così vi è l’ente la cui essenza include un’esistenza soltanto finita e che perciò non è eterno ma diviene (si genera, muta, è, in altri termini, immerso nella durata). Il concetto di durata sorge, dunque, in contrapposizione a quello di eternità: l’eternità è l’attributo «sub quo infinitam Dei existentiam concipimus. Duratio vero est attributum, sub quo rerum creatarum existentiam, prout in sua actualitate perseverant, concipimus». La durata non si distingue dalla totale esistenza di una cosa se non con la ragione. Per misurarla noi la riportiamo alla durata di altre cose, che 3164

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hanno un movimento certo e determinato: «haec comparatio tempus vocatur». Il tempo non è un’affezione delle cose, ma soltanto un puro modo di pensare, un «ens rationis», e precisamente un «modus cogitandi durationi explicandae inserviens». Ora, della durata è da notare che può concepirsi maggiore o minore, quasi composta di parti, e che è attributo dell’esistenza e non dell’essenza (così Spinoza nei Cogitata metaphysica, parte I, cap. 4, in Opera, ed. Gebhardt, vol. I, Heidelberg 1925). Altrove (nella lettera XII a Lodovico Meyer dell’11 genn. 1663, in Opera, ed. cit., vol. IV) Spinoza, dopo aver distinto la sostanza dall’affezione o modo (a seconda che dalla definizione dell’ente si ricavi o meno l’esistenza), fa dell’eternità l’attributo dell’esistenza della sostanza e della durata l’attributo dell’esistenza dei modi, insistendo sul fatto che, mentre l’eternità è una e indivisibile come la sostanza, la durata, come la quantità in generale, può essere determinata a piacere secondo il tempo: il tempo serve a determinare la durata, come la misura la quantità. Dal fatto poi che la durata e la quantità si scompongono in parti, così come le affezioni e i modi si distinguono in classi, nasce il numero, con cui noi le determiniamo. Misura, tempo, numero sono enti non reali bensì del pensiero o piuttosto dell’immaginazione. Bisogna tener ferma, secondo Spinoza, la distinzione tra enti reali ed enti di ragione (e quindi, fra gli altri, della durata dal tempo), perché mentre questi sono divisibili in parti e misurabili, quelli non lo sono. A dividere in parti la durata, confondendola col tempo, si rischia di non poter più intender come, p. es., passi un’ora, dividendo la quale s’incorre in un processo all’infinito: dire che la durata consta di momenti è come dire che il numero risulta da una addizione di zeri. Numero, misura e tempo, come enti dell’immaginazione, non possono essere infiniti e non devono d’altra parte essere confusi con le cose stesse reali: chi fa questa confusione finisce col negare l’infinito attuale. In breve, nella concezione spinoziana, ricondurre la durata al tempo è come trasformare il concreto in astratto, l’effettivamente esistente in una pura finzione razionale. Per Locke il problema della durata si sgancia dal significato cosmologico e realistico ch’esso conservava in Spinoza, per assumerne uno psicologico e relativo all’esperienza del finito: si tratta non tanto di determinare la durata in

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sé, quanto, piuttosto, di dire come sorge in noi l’idea di durata. Ed era ben naturale che questo avvenisse con Locke, perché l’empirismo critico, che da lui prende le mosse, è volto precisamente a disintegrare il dogmatismo razionalistico, per limitare l’indagine filosofica all’origine, al modo e all’estensione della conoscenza umana. L’idea di durata ci viene, dice Locke, dagli elementi della successione, che scorrono e passano continuamente. A sua volta, l’idea di successione nasce in noi quando riflettiamo sul seguito delle idee che si succedono costantemente l’una all’altra nella nostra intelligenza finché siamo svegli. La distanza tra due elementi di questa successione, ossia tra il manifestarsi di due diverse idee della nostra mente, è ciò che chiamiamo appunto durata. Ora, poiché noi ci accorgiamo di esistere in quanto pensiamo o accogliamo successivamente varie idee nella mente, chiamiamo durata (nostra e delle cose coesistenti col nostro pensiero) l’esistenza o la continuazione dell’esistenza nostra e di qualsiasi altra cosa commisurata alla successione delle nostre idee. Modi semplici della durata sono poi le ore, i giorni, gli anni, il tempo, l’eternità, ossia tutte quelle lunghezze di cui abbiamo idee distinte. In particolare, il tempo è la durata in quanto è considerata divisa in determinati periodi e contrassegnata da certe misure o epoche (cfr. Essay Concerning Human Understanding, l. II, cap. 14, §§ 1, 3, 17). La speculazione di Leibniz è quanto mai importante anche per l’argomento che qui c’interessa. Leibniz comincia con l’osservare, nel suo Saggio, che non il movimento, bensì una continuità costante di idee ci dà l’idea di durata. Ecco, dunque, riportata la durata nell’interno dell’uomo, ad attingervi la propria concretezza. Ma in quanto alla continuità in cui essa sembrerebbe, secondo l’espressione citata, consistere, siamo subito disingannati dal filosofo, il quale ci avverte che «una continuità di percezione ci suggerisce l’idea di durata, ma non la costituisce». Le nostre percezioni non hanno mai «una continuità tanto costante e regolare da equivalere a quella del tempo, che è un continuo semplice e uniforme come la retta». «Il mutamento delle percezioni ci dà occasione di pensare al tempo, e questo si misura per mezzo di cambiamenti uniformi». Riportando il movimento difforme a quello uniforme, si può infine stabilire che «il tempo è la

Durata misura del movimento». La durata, dunque, è un’idea che nasce occasionata dalla continuità ma non rappresenta essa medesima la continuità (cfr. Nouveaux essais sur l’entendement humain, II, cap. 14, tr. it. di M. Mugnai, Nuovi saggi sull’intelletto umano, Roma-Bari 1982). Inoltre, l’origine della stessa idea, derivante dalla successione che si attua nell’interno della mente, fa sì che non avvenga, per Leibniz, il distacco della durata e del tempo dall’eterno, come avviene per quelli che intendono la durata e il tempo sul piano cosmologico e metafisico, bensì che l’idea di eternità si ricavi da un’indefinita aggiunzione di lunghezze di tempo le une alle altre, quanto ci piace (ibi, § 27). Da questo punto di vista Leibniz si ritrova sullo stesso piano dell’empirismo lockiano, per il quale altresì l’idea di eternità era il risultato dell’addizione all’infinito di lunghezza di una certa durata (Locke, Essay..., cit., l. II, cap. 14, § 27). Per Condillac, sensista, l’idea di durata nasce in noi – o meglio, nella statua di cui egli espone la vita psichica nel suo progressivo arricchirsi, dalle sensazioni elementari alla coscienza e di qui alle più complesse forme di esperienza e di ideazione – quando la successione di alcuni avvenimenti esteriori, il loro sottrarsi e ricomparire all’osservazione dei sensi, occasiona nella coscienza una successione d’idee. L’avvenimento che, col suo regolare (o almeno creduto regolare) comparire e ricomparire, occasiona nella statua l’idea di durata è il sorgere e il tramontare del sole. Di qui nasce una successione d’idee che dà confusamente l’idea di durata; ma, una volta riferita alle rivoluzioni solari, tale idea si chiarisce, si obbiettiva, si misura. Tuttavia, l’origine psicologica dell’idea di durata non è mai, per Condillac, annullata, se pure è come messa da parte e obliata. A seconda dello stato d’animo del soggetto, che può essere lieto o triste, interessato allo spettacolo del mondo circostante o annoiato, ozioso o occupato, la durata stessa, o meglio il senso interiore della durata, assume valori diversi (lentezza o rapidità, brevità o lunghezza), anche se oggettivamente contenuta entro i limiti d’uno stesso intervallo astronomico. Così, p. es., nell’ozio il giorno passa lentamente, ma l’anno, fatto di giorni uguali si uniforma e si abbrevia. Per il sensismo, se pur sussiste un’oggettivazione della durata (ciò che per altri indirizzi è detto tempo), il significato concreto della durata stessa si at3165

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Durata tinge nel processo della vita interiore, nella coscienza, diremmo meglio nel senso intimo della durata (cfr.: É.B. Condillac, Traité des sensations [1754], parte III, in Oeuvres philososophiques, Paris 1947, vol. I). Da ciò che abbiamo detto fin qui appare chiaramente che il problema della durata oscilla tra un significato psicologico e uno metafisico, e che allora la durata assume un significato epistemologico quando si obiettiva e si concettualizza nel tempo. Impostato così il problema, la speculazione kantiana, guardando la successione da un punto di vista che non è né psicologico né metafisico (secondo l’accezione classica del termine metafisico), bensì gnoseologico (in quanto Kant nella sua estetica trascendentale stabilisce le condizioni fondamentali per la possibilità della scienza), porta chiarimento intorno al concetto non di durata, ma di tempo (cfr. KrV, Tranzendentale Ästhetik, sez. II, §§ 4 e 5). Con Bergson si ritorna all’intuizione psicologica della durata e quindi alla contrapposizione tra durata e tempo. Rifacendosi ad Agostino e a Pascal, Bergson trova che l’intelligenza, presente nell’uomo per l’esigenza pratica dell’azione, volta a ciò che si ripete e che è definibile con concetti astratti, non è in grado di cogliere la durata o tempo reale, e cioè l’incessante, intrinseco, irripetibile trasformarsi di tutte le cose. L’intelligenza, egli dice, ripugna a ciò che fluisce e tende a solidificare ciò che tocca. Perciò noi non pensiamo il tempo reale, ma lo viviamo, perché la vita non è contenibile dall’intelligenza (cfr. Évolution créatrice, Paris 193240, p. 50). Noi concepiamo la nostra vita interiore come una successione di stati, ciascuno dei quali verrebbe a porsi dopo l’altro, e concepiamo lo stesso io come l’insieme di tali stati. Tuttavia questa visione non corrisponde all’effettiva realtà della vita spirituale, la quale è in se stessa un cangiamento continuo, in cui singoli momenti sono essi medesimi soggetti a un’intrinseca variazione, perché il loro consistere è proprio nel loro incessante trasformarsi e divenire. Il passaggio da uno stato all’altro (da un momento all’altro del divenire) è come il prolungarsi, e trasformarsi, d’un solo stato, così come il restare lo stesso è già un variare. Ecco però che quando la variazione è divenuta notevole, essa s’impone alla nostra attenzione, e questa, obbedendo, tra l’altro, alle necessità pratiche della vita, rompe il continuo nel 3166

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discontinuo e fa della durata reale una giustapposizione d’istanti. Intanto, la vita psicologica si sottrae ai simboli e si svolge, al di sotto dell’astratta spazializzazione e temporalizzazione, come durata o progresso continuo del passato, che corrode l’avvenire e che s’accresce avanzando, e insieme conservandosi indefinitamente. Non è la memoria, come astratta facoltà che stringa insieme rappresentazioni tra di loro separate, a conservare il passato: questo si conserva da sé, automaticamente, e ci accompagna tutto intero in ciascun istante. Così la nostra personalità si accresce e matura senza posa (ibi, pp. 1-8). In Essai sur les données immédiates de la conscience (Paris 193634) Bergson aveva detto che la durata pura è la forma che prende la successione dei nostri stati di coscienza, quando il nostro io «si lascia vivere» e si astiene dallo stabilire una separazione tra lo stato presente e quelli anteriori: i momenti della durata sono non giustapposti, ma insieme fusi e compenetrati come le note d’una melodia (ibi, p. 76). La pura durata è la successione di cambiamenti qualitativi che si fondono, si compenetrano, senza contorni precisi, senza esteriorizzarsi gli uni rispetto agli altri, senza alcuna parentela col numero: è, in breve, l’eterogeneità pura (ibi, p. 79). Il tempo, viceversa, è il simbolo astratto della durata, rappresentato a sua volta simbolicamente nello spazio, per l’esigenza pratica della misurazione. Col tempo noi pensiamo il più delle volte a un mezzo omogeneo, dove i nostri fatti di coscienza si allineano, si giustappongono come nello spazio e riescono a formare una molteplicità distinta (ibi, p. 69). Rifacendosi a Bergson, Hamelin distingue un tempo omogeneo quantitativo da un tempo eterogeneo qualitativo o pura durata, e trova che l’aspetto di quantità è riferito al tempo per via del suo riferimento alla spazialità e all’estensione (Essais sur les éléments principaux de la représentation, Paris 19252, pp. 63 ss.). Posteriormente a Bergson, Husserl, con l’analisi fenomenologica dell’intuizione del tempo, riporta il tempo a una necessità a priori, in quanto il tempo fenomenologico «costituisce un fondamento cardine di tutte le cosiddette teorie dell’esperienza» (E. Husserl, Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie, Den Haag 1984, p. 274). Il tempo trascendentale, o la coscienza interna del tempo è infatti «la forma di ogni possibile oggettività» (ibi, p. 273). Sul senso

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del termine trascendentale non vi può essere qui alcun dubbio: «il tempo non è una forma della coscienza, bensì di ogni possibile oggettività» (ibid.). Il problema della durata e della misura degli intervalli è stato sviluppato, in polemica con l’impostazione che riconduce il problema alle strutture di coscienza, dalla corrente che nel Novecento si è richiamata all’empirismo. Già Poincaré denuncia il valore convenzionale della uguaglianza di due intervalli e della simultaneità di avvenimenti distanti; Enriques torna a ricercare la possibilità d’una misura oggettiva del tempo; la relatività rinunzia a parlare d’un movimento e d’un tempo assoluti. Si tratta, com’è ben chiaro, d’indagini che riguardano strettamente il concetto di tempo e hanno significato esclusivamente nel campo dell’epistemologia. Bertrand Russel, in polemica con Bergson, sostiene che chi riduce la durata al flusso di coscienza confonde l’oggettività del tempo con la nostra percezione soggettiva di esso. In questa direzione si è mosso soprattutto Hans Reichenbach, il quale insiste sul carattere oggettivo del tempo. Il tempo si risolve infatti nella struttura topologica e metrica di carattere dimensionale che organizza la molteplicità degli eventi. In questo modo, la stessa problematica che già in Aristotele aveva spinto verso l’analisi della coscienza del tempo (l’anima come misura del tempo) viene spostata su strutture oggettive. Per esempio, diciamo che gli intervalli di tempo che la terra richiede per compiere una rotazione completa sono uguali. Per misurare la durata impieghiamo dunque il conteggio dei periodi, per esempio quando diciamo che i periodi di un pendolo sono egualmente lunghi (H. Reichenbach, Filosofia dello spazio e del tempo, Milano 1977, p. 137). Possiamo dunque usare il movimento stesso come misura di uniformità e considerare come eguali i tempi di transito attraverso distanze uguali. C. Carbonara - V. Costa BIBL.: Oltre gli autori citati nel corso della voce, si possono indicare, quali classici sulla problematica della durata: PLATONE, Timeo; ARISTOTELE, Physica; B. PASCAL, Oeuvres complètes; N. MALEBRANCHE, Entretiens sur la métaphysique et sur la religion, Paris 16963. Studi: Z. ZAWIRSKI, L’évolution de la notion du temps, Kraków 1936; G. BACHELARD, Dialectique de la durée, n. ed., Paris 1950; E. MINKOWSKI, L’éphémère, durer, avoir une durée, l’éternel, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 3-4 (1956), pp. 217-241; D. VILLANUEVA

Dürken MEJIA, La duración supra-oposizional. Ensayo de una metafísica de la duración, Lima 1956; J. KOPPER, Einige Bemerkungen zur Bedeutung von Ewigkeit und Dauer in Spinozas Ethik, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», 43 (1989), pp. 432-448; P. TARONI, Bergson, Einstein e il tempo. La filosofia della durata bergsoniana nel dibattito sulla teoria della relatività, Urbino 1998; A. GENOVESI, Bergson e Einstein. Dalla percezione della durata alla concezione del tempo, Milano 2001. ➨ CONTINUO; DISCONTINUO; ETERNITÀ; EVO; MEMORIA; PERCEZIONE; TEMPO.

DURDÍK, JOSEF. – Filosofo herbartiano ceco, Durdík n. a Horice (Boemia) nel 1837, m. a Praga nel 1902. Insegnò a Praga. Scrisse: Leibnitz und Newton. Ein Versuch über die Ursachen der Welt, Halle 1869; Dejinný nástin filosofie novoveké (Storia della filosofia moderna), ivi 1870; Karakter (II carattere), ivi 1873; Vseobecná estetika (Estetica generale), ivi 1875; Poetika, ivi 1881; Dejiny filosofie nejnovejsí (Storia della filosofia contemporanea), ivi 1887; Darwin und Kant, Praha 1906, postumo (scritto 1874-75). Si occupò principalmente del problema della scienza, prima tentando un accostamento fra i sistemi di Leibniz e di Newton, in seguito cercando di dare alle scienze un ordinamento unitario che comprendesse, oltre alle scienze oggettive, come si era limitato a sostenere Comte, anche le soggettive (psicologiche). Red. BIBL.: F. KREJCÍ - J. KAMPER, Sborník Durdíkuv (Miscellanea per Durdík), Praha 1906; R. DYKAST (a cura di), Sborník z konference usporádané ke 100. výrocí úmrtí významného ceského filozofa a estetika Josefa Durdíka (Atti del convegno per il centesimo anniversario del filosofo ed estetico ceco Josef Durdík), Praha 2003.

DÜRKEN, BERNHARD. – Biologo teorico e Dürken sperimentale, n. a Geerte (Meppen) il 20 sett. 1881, m. a Breslavia il 30 nov. 1944. Condusse numerose e importanti ricerche specialmente nel campo della meccanica dello sviluppo, sostenendo una concezione organicistica o olistica che ha come argomento base la critica fatta da H. Driesch al meccanicismo. Tuttavia Dürken non accetta la soluzione di Driesch: l’entelechia a-spaziale è un fattore soprannaturale inaccettabile; la «totalità», egli dice, deve essere intrinseca. I due brani seguenti contengono le idee più tipiche della sua concezione olistica. «Il concetto fondamentale dell’olismo si può esporre in 3167

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Durkheim breve. Le parti dell’organismo non sono primitive rispetto al “tutto”, non sono esse quelle che formano, come risultato, l’insieme, il tutto secondario, ma il rapporto è esattamente invertito: il tutto è primitivo, le parti invece secondarie. Il tutto unitario dell’organismo non è il risultato della somma e della coordinazione delle sue parti, ma è invece proprio la premessa di questo» (Entwicklungsbiologie und Ganzheit, Berlin 1936, tr. it. di L. Raunich, riveduta da P. Pasquini, Biologia dello sviluppo e olismo, Firenze 1943, p. 19). «Non è detto che dal punto di vista chimico il plasma ucciso si diversifichi da quello vivente; ed i chimici fisiologici sono certamente tutti dell’opinione che questo non è neanche il caso. Ma proprio per questo bisogna ammettere che non è la costituzione chimica a determinare la vita, bensì, oltre a questo, è necessario ancora qualcosa di specifico non rilevabile per via chimica; infatti se la differenza tra plasma morto e plasma vivente non è di natura chimica, essa dovrà essere di natura specifica organismica» (ibi, p. 195). Dürken, come tutti gli organicisti, ha sostenuto che la regolarità dei fenomeni vitali non può essere spiegata con il caso ed è stato quindi un oppositore del darwinismo (che è appunto una teoria casualistica dell’evoluzione). G. Blandino BIBL.: G. BLANDINO, Problemi e dottrine di biologia teorica, Torino 1960, pp. 119-121, 125.

DURKHEIM, EMILE. – Sociologo francese n. Durkheim a Epinal il 15 apr. 1858, m. a Parigi il 15 nov. 1917. Il tema fondamentale che percorre l’intera opera di Durkheim a partire dal suo primo grande libro, De la division du travail social (Paris 1893, tr. it. di F. Airoldi Namer, La divisione del lavoro sociale, Milano 19894), può indicarsi nell’interesse per il rapporto fra individuo e collettività, nella ricerca delle condizioni che permettono l’esistenza della società, ovvero il consenso e l’integrazione degli individui attorno a norme morali. Società e individuo sono due entità distinte e autonome, e l’interpretazione della società deve muovere da questa – in quanto ente diverso dalla, e superiore alla, somma delle sue parti – e non dall’individuo: tale dualità si riflette anche sulla concezione dell’individuo, che è visto da Durkheim come homo duplex, la cui vita ruota attorno a due centri, l’individualità (il profano) e la socialità (il sacro). Vi sono diverse motivazioni adduci3168

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bili riguardo alla esteriorità della società nei confronti dell’individuo: in primo luogo, coscienza e comportamento dell’individuo in quanto singolo sono differenti da quelli come membro di un gruppo; secondariamente, le statistiche sociali mostrano uniformità, mentre le storie individuali sono contraddittorie e singolari; in terzo luogo, non si può far discendere il superiore dall’inferiore; e, infine, gli individui sono costretti dalle istituzioni, e sarebbe paradossale ritenere che siano gli individui a costringere se stessi. Nella Divisione del lavoro sociale, Durkheim muove da una doppia critica a individualismo e contrattualismo, affermando che nell’esistenza collettiva vi è qualcosa di irriducibile sia all’individuo sia al contratto. Si tratta della cosiddetta «solidarietà sociale», ovvero la forza della coesione collettiva. La tesi del sociologo francese è che la società moderna non tenda alla disgregazione, nonostante lo scadimento delle credenze tradizionali, in quanto il passaggio dalla società tradizionale a quella moderna non è consistito – a dispetto delle apparenze – in un crollo della solidarietà (senza la quale nessuna società potrebbe reggersi), ma in un mutamento della sua natura, che occorre esaminare. Dal punto di vista metodologico, tale esame avviene per Durkheim in prospettiva positivistica. Egli chiama gli oggetti della sociologia «fatti sociali», per sottolineare che essi sono «modi di agire, di pensare e di sentire esterni all’individuo, e dotati di un potere di coercizione in virtù del quale si impongono ad esso» (Les règles de la méthode sociologique, Paris 1895, tr. it. di F. Airoldi Namer, Le regole del metodo sociologico, Milano 1963, p. 26). I fatti sociali vanno studiati come cose, vale a dire che per studiare un fenomeno sociale occorre osservarlo oggettivamente dall’esterno, trovando le espressioni in cui si esplicitano quegli stati di coscienza che non possiamo cogliere direttamente. Tornando alla problematica affrontata nella Divisione del lavoro sociale, da quanto detto sopra consegue che uno stato di coscienza come la solidarietà può essere studiato solo trovando un suo indicatore. Durkheim lo individua nel diritto, dato che ogni qual volta sussiste stabilmente una forma di vita sociale, le regole morali sono codificate in leggi. Le norme giuridiche sono di due tipi: quelle che prevedono sanzioni a carattere repressivo, e quelle che

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prevedono sanzioni a carattere restitutivo. Nel diritto repressivo la funzione della pena è quella di riparare l’offesa recata dal reato, che mette in dubbio l’inviolabilità e la sacralità della «coscienza collettiva», ovvero l’insieme di credenze e sentimenti condivisi dall’intera comunità. Il vincolo di solidarietà al quale corrisponde il diritto repressivo è una solidarietà «meccanica», tipica di una società a bassa divisione del lavoro, formata da clan simili gli uni agli altri per funzioni e caratteristiche, in cui la coscienza collettiva è rigorosamente definita e permea totalmente la coscienza individuale: in tal modo ogni offesa portata al singolo è immediatamente un’offesa alla coscienza collettiva, che scatena una reazione emotiva alla trasgressione, che non ha solo la funzione di punire il reo, ma anche quella fondamentale di conservare l’intensità dei sentimenti collettivi. Nel diritto restitutivo, invece, la pena ha carattere di riparazione e non di espiazione: questo perché a essere colpita non è l’intera società, ma l’individuo, e ciò presuppone che la coscienza individuale si sia in parte separata da quella collettiva. Tale fenomeno avviene grazie allo sviluppo della divisione del lavoro, che dà luogo a un nuovo vincolo di solidarietà, ovvero la solidarietà «organica». Come afferma Durkheim, se la solidarietà meccanica «vincola direttamente l’individuo alla società senza intermediari [...] nella seconda [...] l’individuo dipende dalla società perché dipende dalle parti che la compongono» (Divisione del lavoro sociale, cit., p. 144). Con l’avvento della solidarietà organica, la coscienza collettiva è sempre meno definita, e consiste in modi di pensare e di sentire generali che lasciano spazio a un maggior numero di differenze individuali. Non per questo però le società moderne precipitano nel disordine, in quanto «a misura che le altre credenze e le altre pratiche assumono un carattere sempre meno religioso, l’individuo diventa oggetto di una specie di religione» (ibi, p. 183): è il cosiddetto «culto dell’individuo». Le difficoltà della società moderna nascono piuttosto dal suo sviluppo troppo rapido, che ha generato una situazione patologica di mancanza di regolazione morale, o, nei termini di Durkheim, una situazione di anomia. Il problema dell’anomia, congiuntamente alle problematiche metodologiche, è ripreso dal sociologo francese nell’opera Le suicide (Paris 1897, tr. it. di M.-J. Cambieri Tosi, Il suicidio, To-

Durkheim rino 1998). Come sostiene Anthony Giddens, «la preoccupazione principale di Durkheim in Il suicidio è forse quella di portare alla luce la natura di questa lacuna morale nelle società contemporanee, attraverso l’analisi precisa di un fenomeno specifico. A ciò si deve aggiungere un obiettivo metodologico: l’applicazione del metodo sociologico alla spiegazione di quello che, a prima vista, potrebbe sembrare un fenomeno del tutto “individuale”» (Capitalism and Modern Social Theory, Cambridge 1971, tr. it. di C. Cantini e M. Pogatschnig, Capitalismo e teoria sociale, Milano 1975, p. 151). L’analisi dei tassi di suicidio porta Durkheim a scoprire che essi aumentano al decrescere dell’integrazione degli individui nei vari settori della società: ad esempio, il numero dei suicidi è maggiore fra i protestanti che fra i cattolici, e fra questi è maggiore che fra gli ebrei. Questo non accade per motivi legati alla religione, ma piuttosto perché il protestante ha meno punti di riferimento del cattolico, vivendo in una chiesa meno integrata, e il cattolico meno degli ebrei, la cui comunità è notoriamente molto coesa. Allo stesso modo, gli individui non sposati presentano tassi di suicidio più alti dei coniugati e così via: il suicidio varia dunque in ragione inversa al grado di integrazione sociale dell’individuo. Tale tipo di suicidio è il cosiddetto suicidio «egoistico», perché nasce dalla eccessiva affermazione dell’io individuale su quello sociale, ma non è l’unico tipo di suicidio esistente. Nella società moderna, infatti, è diffuso anche il suicidio «anomico», dovuto alla mancanza di regolazione morale che caratterizza le relazioni economiche, e alle fluttuazioni dei cicli economici che, indifferentemente dal loro carattere ascendente o discendente, distruggono i modi tradizionali di vita, ponendo gli individui in una situazione in cui le loro abituali aspettative sono messe in crisi. Tuttavia, essendo l’anomia – come già notato in precedenza – uno stato patologico della società, anche il suicidio a essa dovuto è patologico. Nelle società tradizionali, infine, il suicidio assume un carattere differente, dovuto all’esistenza di una forte coscienza collettiva che prevale su quella individuale. Qui infatti il suicidio è di tipo «altruistico», che può essere obbligatorio se vi è l’obbligo morale di uccidersi (la moglie che in alcune società indiane doveva raggiungere il coniuge defunto sul rogo), o facoltativo quando suicidarsi fa parte della 3169

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Dussel conservazione di un codice d’onore e di prestigio. Nella sua ultima grande opera, Les formes élémentaires de la vie religieuse (Paris 1912, tr. it. di C. Cividali, Le forme elementari della vita religiosa, Milano 19823), Durkheim ritorna sul tema della continuità fra le forme di società tradizionali e quelle moderne, accomunate comunque da un vincolo di solidarietà e dalla presenza di credenze condivise: nelle seconde, però, tali credenze non possono più essere costituite dalla religione tradizionale, che mal si accorda con un mondo sempre più secolarizzato. Il fatto, secondo Durkheim, è che la religione in realtà non è altro che la trasfigurazione della società, e gli interessi religiosi sono soltanto la forma simbolica degli interessi sociali e morali. Egli può giungere a tale conclusione esaminando le forme religiose a partire dalla più elementare, quella totemica. Caratteristica della religione non è tanto la presenza della divinità; ciò che accomuna le diverse religioni è il fatto di dividere il mondo in sacro e profano. L’oggetto sacro (come può essere un totem) è un simbolo della società: esso infatti è sentito come qualcosa di più grande e potente dell’individuo, ma è anche avvertito come parte di sé (del proprio clan, per esempio), rispecchiando quindi il rapporto fra individuo e società, che si pone nei confronti del singolo con i caratteri tipici del sacro, quali trascendenza, superiorità e imperatività. M. de Benedittis BIBL.: A. GIDDENS, Emile Durkheim, Sussex 1979, tr. it. di R. Falcioni, Durkheim, Bologna 1998; G. POGGI, Emile Durkheim, Bologna 2003.

DUSSEL, ENRIQUE. – Filosofo e sociologo arDussel gentino, n. a La Paz (Mendoza, Argentina) nel 1934. Dottore in filosofia a Madrid e in lettere alla Sorbona. È stato professore di etica all’università di Cuyo. Ha fatto l’esperienza di operaio in Israele. Nel 1973 subì un attentato da parte della destra peronista e per le sue idee politiche dovette lasciare l’Argentina per insegnare all’università nazionale autonoma di Città del Messico. L’evoluzione di Dussel può essere scandita nelle seguenti tappe: la «simbolica latinoamericana» (1961-68) che sviluppò durante il decennio di formazione in Europa; il periodo della maturità culminante nella fondazione della filosofia della liberazione sulla base del «metodo analettico»; un confronto tra la filosofia 3170

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della liberazione e il marxismo (1976-88) in concomitanza con l’esilio in Messico; infine l’apertura alla pragmatica trascendentale in dialogo con K.O. Apel e J. Habermas con importanti incontri in Germania e America latina (cfr. K.O. Apel - E. Dussel, Etica della comunicazione e etica della liberazione, a cura di A. Savignano, Napoli 1999). A. Savignano BIBL.: Para una ética de la liberación latinoamericana, México 1969-75, 5 voll.; Para una destrucción de la historia de la ética, Mendoza 1970; América Latina. Dependencia y liberación, Buenos Aires 1974; El dualismo en la antropología de la cristianidad, Buenos Aires 1974; Método para una filosofia de la liberación, Salamanca 1974; Filosofía de la liberación, México 1977, tr. it. a cura di A. Savignano, Filosofia della liberazione, Brescia 1992; La producción teórica de Marx, México 1985; Hacia un Marx desconocido, México 1988; El ultimo Marx y la liberación latinoamericana, México 1990; Etica de la liberación, Madrid 1998. Su Dussel: E. RICARDO NOCETI, La ética de la liberación en Dussel, Buenos Aires 1988; H. SCHELKSCHORN, Ethik der Befreiung. Einführung in die Philosophie Dussels, Freiburg im Breisgau 1992; AA.VV., Für Dussel, Aachen 1995; A. INFRANCA, El otro Occidente, Buenos Aires 2000.

DUTENS, Dutens VINCENT-LOUIS. – Letterato, filosofo, diplomatico, n. a Tours il 15 genn. 1730, m. a Londra il 23 magg. 1812. Fece il suo esordio con una tragedia, rappresentata con successo a Orléans nel 1748, ma si impegnò poi in ricerche antiquarie e filosofiche e soprattutto nel lavoro di edizione delle opere di Leibniz, oltre che di Epitteto. Si trasferì in Inghilterra alla ricerca di un’occupazione e la trovò nell’ambito della diplomazia, affiancando gli ambasciatori inglesi in varie capitali europee. Fu più volte in Italia e a lungo a Torino. La sua fama è legata all’edizione di Leibniz (di cui inoltre pubblicò per la prima volta i Nouveaux essais sur l’entendement humain): Leibnitii Opera omnia, nunc primum collecta, in classes distribuita, praefactionibus et indicis exornata (Genève 1768, 6 voll). Dutens riaprì inoltre la «querelle des anciens et des modernes» con le Recherches sur l’origine des découvertes attribuées aux modernes, où l’on démontre que nos plus célèbres philosophes ont puisé la pluspart de leurs connaissances dans les ouvrages des Anciens: et que plusieurs vérités importantes sur la Religion ont été connues des Sages du Paganisme (Paris 1766, 2 voll). Più volte riedita, quest’opera suscitò fra l’altro le critiche vivaci

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di Condorcet e di Naigeon. Tra gli altri scritti sono da ricordare i seguenti: Institutions Leibnitiennes ou Précis de la Monadologie (Lyon 1768); Le tocsin (Roma 1769 – contro i philosophes, in particolare Voltaire e Rousseau – riedito nel 1777 col titolo: Appel au bon sens); La logique ou l’art de raisonner (Paris 1773). M. Longo BIBL.: P. GROSCLAUDE, Une négotiation prématurée: Louis Dutens et les protestants français, in «Bullétin de la Société d’histoire du Protestantisme», 104 (1958), pp. 73-93; J.W. LORIMER, A neglected aspect of the «Querelle des anciens et des modernes», in «The Modern Language Review», 52 (1956), pp. 179-185; G. PIAIA, Storia della filosofia e «histoire de l'esprit humain» in Francia tra Enciclopedia e Rivoluzione, in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. III: Il secondo Illuminismo e l'età kantiana, Padova 1988, pp. 216-217.

DU TERTRE, RODOLPHE. – Scrittore, gesuiDu Tertre ta, n. ad Alençon, o a Mortagne (Orno), m. a Parigi nel 1762. Si congettura che possa essere identificato con il «p. Temmen» che è nominato nella lettera (13 novembre 1706) di Leibniz a Des Bosses e con il «Temmigk» della lettera del 14 giugno 1708. Dapprima fu seguace di Malebranche, ma poi fu indotto dai suoi superiori a confutarlo, cosa che fece con una Réfutation d’un nouveau système de métaphysique (Paris 1715). Scrisse anche dei vivaci Entretiens sur la réligion contro gli atei e i deisti (Paris 1743, 3 voll., tr. it. Trattenimenti sovra la religione, Napoli 1749; L’Aquila 1818). S. Contri BIBL.: C. SOMMERVOGEL, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, Bruxelles-Paris 1890-1909, vol. VII, coll. 1936-37 (riproduzione Louvain 1960); V. MATHIEU, Lettere di Leibniz al padre Des Bosses, Torino 1961.

DUVERGIER HAURANNE, JEAN. – TeDuvergier de DE Hauranne ologo giansenista, n. a Bayonne nel 1581, m. a Parigi l’11 ott. 1643. Noto come abate di Saint-Cyran (dal nome dell’abbazia di cui fu commendatario nel 1620), studiò alla Sorbona e quindi al collegio dei gesuiti di Lovanio. Amico di Giansenio, si dedicò agli studi patristici; nel 1633 divenne direttore spirituale di Port-Royal. A causa delle sue posizioni giansenistiche fu arrestato nel 1638 per ordine di Richelieu. Incarcerato a Vincennes, venne rilasciato solo il 6 febbraio 1643, dopo la morte dello stesso Richelieu.

Dworkin Fortemente influenzato da Agostino, il pensiero di Duvergier de Hauranne è centrato sul tema della «conversione», intesa come nuova creazione dell’essere umano: la conversione non può essere che opera di Dio; di qui la necessità della tolleranza verso coloro che non credono, in quanto sarebbe impossibile acquisire dei fedeli alla chiesa attraverso mezzi puramente umani. I suoi scritti (fra cui la Théologie familière, una sorta di catechismo giansenista apparso a Parigi nel 1642 e messo all’Indice nel 1654, e le Lettres chrétiennes et spirituelles, Paris 1645) furono raccolti nelle Oeuvres (Lyon 1679). A. Del Noce - F. Grigenti BIBL.: J. ORCIBAL, Jean Duvergier de Hauranne abbé de Saint-Cyran et son temps, Paris 1947-48, 2 voll.; J. ORCIBAL, Saint-Cyran et le jansénisme, Paris 1961; J. ORCIBAL, La spiritualité de Saint-Cyran avec ses écrits de piété inédits, Paris 1962; A. BARNES (a cura di), Lettres inédites de Jean Duvergier de Hauranne, Paris 1962; M. ESCHOLIER, Port-Royal, Paris 1965.

DWORKIN, RONALD MYLES. – N. nel 1931, ha Dworkin compiuto i suoi studi di filosofia e jurisprudence presso l’università di Oxford e gli studi di diritto presso l’Harvard Law School. Dal 1969 al 1998 ha occupato la prestigiosa cattedra di Jurisprudence dell’università di Oxford in sostituzione di H.L.A. Hart. Attualmente è docente presso la New York University. Nei suoi primi scritti egli ha sviluppato una veemente e acuta critica nei confronti del positivismo giuridico e, in particolare, della versione difesa da Hart. Il giuspositivismo nega che vi sia una connessione necessaria tra diritto e morale e afferma che l’individuazione del diritto dipende da determinati fatti sociali. Dworkin rifiuta entrambe queste assunzioni e ritiene che l’idea hartiana, secondo cui la validità delle norme giuridiche si fonda su una «norma di riconoscimento» di natura convenzionale, non permetta di rendere conto dell’esistenza di standard giuridici diversi dalle regole e, in particolare, dell’esistenza dei principi giuridici. Questi ultimi sono validi se, e in quanto, esprimono un’appropriata concezione della giustizia. A questa concezione del diritto Dworkin associa un’articolata teoria dell’interpretazione giuridica, il cui aspetto di maggiore originalità è rappresentato dalla tesi secondo cui ogni caso giudiziale ammette un’unica risposta giusta e/o corretta. Nei casi facili, la decisione corretta è l’esito di un sillo3171

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Dynamis gismo normativo la cui premessa maggiore è una regola, mentre la premessa minore è rappresentata dai fatti del caso in questione. Nei casi difficili, la decisione corretta scaturisce dall’appropriato bilanciamento dei principi confliggenti che insistono sul caso da decidere. L’attenzione che Dworkin tributa ai principi e alla interpretazione giuridica, nonché qualche sporadica citazione di tesi gadameriane rintracciabile nei suoi testi, è indice dell’influenza che l’ermeneutica continentale ha esercitato sul suo pensiero. Nei suoi scritti più maturi, Dworkin si impegna a delineare una teoria del diritto più strutturata, che egli definisce «diritto come integrità». L’idea centrale è quella secondo cui il diritto sarebbe una pratica sociale che ruota intorno ad alcuni principi e valori – primo fra tutti, l’«eguale considerazione e rispetto» – condivisi dai partecipanti. Gli interessi di Dworkin non sono circoscritti alla filosofia e alla teoria del diritto. Meritano di essere menzionati i suoi studi sul valore dell’uguaglianza e, in particolare, la sua difesa, da una prospettiva liberale alla Rawls, dell’eguaglianza di risorse (o di mezzi), piuttosto che dell’eguaglianza di risultati. Dworkin si è inoltre occupato di questioni di etica applicata, quali l’aborto e l’eutanasia. Egli ritiene che l’unico modo per evitare che il dibattito su questi temi sia vuoto e sterile consista nel prendere le mosse da un valore condiviso da tutti, valore che egli individua nella sacralità della vita intesa in senso liberale. Infine, in anni recenti, Dworkin ha anche contribuito al dibattito, specificamente statunitense, circa i criteri che devono orientare l’interpretazione della costituzione. L’obiettivo critico di Dworkin è principalmente l’«originalismo», secondo il quale l’interpretazione costituzionale deve risolversi nell’individuazione dell’intenzione dei padri costituenti. In opposizione a tale concezione, Dworkin ritiene che, quando sorgono delle controversie relative alla corretta interpretazione della costituzione, bisogni necessariamente ricorrere ad argomenti morali e privilegiare l’interpretazione che favorisca l’eguaglianza, «virtù sovrana» che consente di ricondurre a unità la poliedrica produzione dworkiniana. A. Schiavello BIBL.: Taking Rights Seriously, Cambridge (Massachusetts) 19782, tr. it. parziale di F. Oriana, I diritti presi sul serio, Bologna 1982; A Matter of Principle,

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Cambridge (Massachusetts) 1985, tr. it. di E. D’Orazio, Questioni di principio, Milano 1990; Law’s Empire, Cambridge (Massachusetts) 1986, tr. it. di L Caracciolo di San Vito, L’impero del diritto, Milano 1989; A Bill of Rights for Britain, London 1990; Life’s Dominion, London 1993, tr. it. di C. Bagnoli, Il dominio della vita, Milano 1994; Freedom’s Law. The Moral Reading of the American Constitution, Oxford 1996; Sovereign Virtue, Cambridge (Massachusetts) 2000, tr. it. di G. Bettini, Virtù sovrana, Milano 2002; Justice in Robes, Cambridge (Massachussets) 2006. Su Dworkin: M. COHEN (a cura di), Ronald Dworkin and Contemporary Jurisprudence, London 1983; S. GUEST, Ronald Dworkin, Edinburgh 1992; A. HUNT (a cura di), Reading Dworkin Critically, New York 1992; A. SCHIAVELLO, Diritto come integrità: incubo o nobile sogno? Saggio su Ronald Dworkin, Torino 1998.

DYNAMIS (duvnami"). – Dynamis deriva dal Dynamis verbo dynamai (duvnamai), che significa «potere, essere in grado di, essere capace di». Aristotele ha così riassunto i significati che il termine ha assunto prima di lui (cfr. Metaph., 1019 a 15 ss., tr. it. di G. Reale): 1) «il principio di movimento o di mutamento che si trova in altra cosa, oppure in una cosa stessa in quanto altra»; 2) «il principio per cui una cosa è fatta mutare o è mossa da altro o da se stessa in quanto altra»; 3) «la capacità di condurre a termine una data cosa, bene o nel modo in cui si vorrebbe»; 4) «lo stesso vale anche per la potenza passiva»; 5) «si chiamano potenze tutti gli stati in virtù dei quali le cose sono assolutamente impassibili o immutabili o non facilmente mutabili in peggio». Aristotele aggiunge un significato ulteriore: «diciamo in potenza, per esempio, un Ermete nel legno, la semiretta nell’intera retta, perché li si potrebbe ricavare, e diciamo pensatore colui che non sta speculando, se ha capacità di speculare; diciamo invece in atto (energheia, ejnevrgeia) l’altro modo di essere della cosa (cfr. Metaph., 1048 a 25 ss., tr. cit.)». In ambito psicologico il termine dynamis ha generalmente assunto il significato di «facoltà», sia come capacità dell’anima di provare determinate sensazioni o passioni (cfr. Aristotele, Eth. Nic., 1105 b 20 ss.), sia come «parte» o funzione dell’anima (cfr. Aristotele, De anima 414 a 29 ss.). Quest’ultimo significato permane anche in età ellenistica (cfr. H. von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, Lipsiae 1903-24, vol. II, 823 ss.). Si veda infine il significato che il termine assume in Filone di Alessandria («potenza» è la manifestazione dell’attività di Dio; cfr. Quaestiones et so-

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Dyroff

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lutiones in Exodum II, 68; De Abrahamo 119123) e in Plotino, dove l’uno è inteso come «potenza» e come principio perché dà origine a tutti gli altri esseri (cfr. Enn. V 2, 15-16). E. Vimercati ➨ ENERGHEIA.

DYROFF, ADOLF. – N. a Damm presso AschafDyroff fenburg il 2 febbr. 1866, m. a Monaco il 3 lug. 1943. Allievo di Dilthey, fu professore dapprima a Freiburg im Breisgau e poi, dal 1903, nella facoltà cattolica di Bonn. Dyroff iniziò la sua attività scientifica come cultore di filosofia antica (donde le opere: Die Ethik der alten Stoa, Berlin 1897, e Demokritstudien, München 1899), rivolgendo successivamente il suo interesse alla psicologia e alla filosofia teoretica, proseguendo tuttavia sempre gli studi di storia della filosofia medievale, moderna e soprattutto rinascimentale. Tra i suoi scritti: Über den Existenzialbegriff, 1902; Über das Seelenleben des Kindes, 1904 (19112); Rosmini, 1906; Einführung in die Psychologie, Leipzig 1907 (19326); Religion und Moral, Berlin-Bonn 1925; Betrachtungen über Geschichte, Köln 1925; con W. Hohnen, Die Philosophie Christoph Bernhard Schlüter und Seine Vorläufer, Paderborn 1935; Der Peripatos über das Greisenalter, ivi 1939; Der Gottesgedanke bei den europäischen Philosophen in geschichtlicher Sicht, Fulda 1942; Einleitung in die Philosophie; e Ästhetik des tätigen Geistes, ed. postuma a cura di W. Szylarski, in «Deus et anima. Archiv der Christlichen Philosophie und Dichtung», 1948, 1, 2-3. Dyroff fu anche il cura-

tore tra il 1908 e il 1920 dei 13 voll. della collezione «Renaissance und Philosophie». Per Dyroff la filosofia, ch’egli intende come philosophia perennis, ha l’intento di ricercare i principi fondamentali di ogni esplicazione dell’essere per coordinare in un’unica immagine del mondo, sempre condizionata temporalmente, tutte le conoscenze particolari. Lo sviluppo delle varie parti della filosofia: gnoseologia (improntata al realismo critico), etica, estetica, filosofia della religione, metafisica, filosofia del linguaggio, filosofia politica ecc. offre per Dyroff una problematica aperta, in base a cui si può intraprendere una sistemazione dei valori manifestantisi nei vari domini dell’essere e delle attività umane, senza indulgere alle concezioni soggettivistiche o alla ipostatizzazione dei valori stessi, per la fondazione di una «scienza della cultura», a cui Dyroff volle contribuire con i suoi saggi storici. F. Barone BIBL.: Autoesposizione in Die Philosophie der Gegenwart in Selbstdarstellungen, V, Leipzig 1924; e in W. ZIEGENFUSS - G. JUNG, Philosophen-Lexikon. Handwörterbuch der Philosophie nach Personen, Berlin 1949-50, vol. I, pp. 270-272; AA.VV., Synthesen in der Philosophie der Gegenwart. Festgabe zum 60. Geburtstage A. Dyroff, Bonn 1926; AA.VV., Festgabe A. Dyroff zum 70. Geburtstag von Freunden und Schülern gewidmet, in «Philosophisches Jahrbuch» 1936, pp. 1-288; W. SZYLARSKI, Adolf Dyroff, Bonn 1947; W. SZYLARSKI, s. v. in «Neue deutsche Biographie», IV, Berlin 1959, pp. 212-213; V. RÜFNER, Adolf Dyroff, in «Philosophisches Jahrbuch», 1966-67, pp. 220-228.

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[E] EADMERO (Cantuariensis). – Monaco beneEadmero dettino inglese, storico della chiesa anglosassone, agiografo e teologo, n. intorno al 1060, m. nel 1128 ca., arcivescovo di St. Andrews, dove però non aveva potuto stabilirsi. Discepolo e quindi amico inseparabile di Anselmo, ne pianse la morte in una calda elegia e ne scrisse la vita con serietà di studio ed eleganza di stile (De vita et conversatione Anselmi, in 2 ll., dall’anno 1093 all’anno 1109, in J.-P. Migne, Patrologiae cursus completus, Series II: [Patres] Ecclesiae Latinae, Paris 1845-55, vol. CLVIII, coll. 49-118; ed. a cura di E.W. Southern, The Life of St. Anselm, Archibishop of Canterbury, by Eadmer, Oxford 19722). Fu autore anche di una Historia novorum in Anglia (in J.P. Migne, op. cit., vol. CLIX, coll. 347-524; ed. a opera di M. Rule, Rerum Britannicarum Medii Aevi scriptores, London 1884). Lasciò diverse opere, per lo più di carattere storico; a lui sono falsamente attribuiti l’opera De Anselmi similitudinibus (ibi, coll. 605-708) e alcuni scritti di teologia. Unica eccezione pare essere un Tractatus de conceptione sanctae Mariae (ibi, coll. 301-318; ed. a cura di H.H.C Thurston e Th. Slater, Friburgi Brisgovie 1904), di particolare rilievo e precedentemente attribuito ad Anselmo. A. Tognolo BIBL.: B. HEURTEBIZE, s. v. in A. VACANT - E. MANGENOT - É AMANN (a cura di), Dictionnaire de Théologie Catholique, Paris 1909-47, vol. IV, coll. 1977-1978; H. RICHTER, Englische Geschichtsschreiber des XII Jahrhunderts, Berlin 1938; R.W. SOUTHERN, St. Anselm and his Biographer, Cambridge 1966; A. GRANSDEN, Historical Writings in England, vol. I: c. 550 to c. 1307, London 1974.

EATON, RALPH MONROE. – N. a Stockton (CaEaton lifornia), il 14 giu. 1892, m. a Cambridge (Massachusetts) il 13 apr. 1932. Filosofo analitico statunitense, si è formato e ha insegnato alla University of California e a Harvard, ed è stato segnato dall’influenza, tra gli altri, di Royce e Withehead. Il centro del suo lavoro filosofico è costituito dalla teoria della

conoscenza nelle sue espressioni simboliche, trattata nella sua opera principale: Symbolism and Truth: An Introduction to the Theory of Knowledge (Cambridge [Massachusetts] 1925, rist. New York 1964. Quest’opera entra anche nel dibattito tra Russell e Raphael Demos sulla negazione, rispetto al quale Eaton sostiene la possibilità di analizzare il negativo come tale, senza considerazioni su verità, falsità o incompatibilità. Per Eaton la teoria della conoscenza è indipendente dall’indagine metafisica e psicologica, ma intrattiene con esse relazioni necessarie e conduce alla fine alla metafisica. In General Logic (New York 1931), presenta un quadro della logica fino ai suoi sviluppi contemporanei, sostenendo la continuità tra la logica classica aristotelica e la logica matematica. P. Valenza BIBL.: J.D. MORENO, Eaton on the Problem of Negation, in «Transactions of the C.S. Peirce Society», 16 (1980), pp. 59-72.

EBBINGHAUS, HERMANN. – Psicologo tedeEbbinghaus sco, n. a Barmen il 24 genn. 1850, m. a Halle il 26 febbr. 1909. Ricercatore tenace e metodico, deviò dagli iniziali interessi filosofici formandosi come psicologo indipendentemente da ogni scuola. Fu ammiratore di G.Th. Fechner, di cui seguì la rigorosa metodologia sperimentale applicandola, secondo proprie direttive, allo studio dei processi mentali superiori. A partire dal 1880 insegnò filosofia presso l’università di Berlino, dove aprì un piccolo laboratorio di psicologia, e si affermò pubblicando nel 1885 il libro Ueber das Gedächtnis. Untersuchungen zur experimentellen Psychologie (Leipzig 1885, ripr. Amsterdam 1966, tr. it. di C. Conoldi e A.M. Longoni, La memoria, Bologna 1975). Questo lavoro pionieristico nello studio della memoria esponeva le lunghe ricerche quantitative che aveva condotto tra il 1879 e il 1884 su se stesso, esaminando la propria capacità di memorizzare numeri (da 0 a 9), toni musicali, poesie e brani di prosa. Resosi conto, tuttavia, che il materiale memorizzabile di senso 3175

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Ebbinghaus compiuto o con diverse possibilità di combinazione provocava infiniti intrecci di associazioni che differivano da soggetto a soggetto secondo modalità che non potevano essere controllate e calcolate, predispose la semplificazione degli stimoli e l’isolamento delle risposte attraverso l’utilizzazione di materiale uguale per tutti i soggetti, ossia sillabe senza senso (suoni consonantici), pertanto prive di valore semantico. Essendo, in tal modo, analizzabili le condizioni sperimentali, ritenne che le conclusioni tratte potevano essere espresse con la massima esattezza. La procedura sperimentale prevedeva la correlazione tra il numero delle sillabe memorizzate, il numero delle ripetizioni del materiale stimolo e il tempo intercorso dalla fase di apprendimento. I risultati erano rappresentati graficamente attraverso la cosiddetta curva dell’oblio. Nello studio dell’apprendimento, inoltre, Ebbinghaus adottò la tecnica del risparmio, consistente nel misurare quante ripetizioni venivano risparmiate per riapprendere il materiale studiato in precedenza. Nel 1890 rifiutò l’invito, rivoltogli dalla Cornell University, a ricoprire la cattedra di psicologia, poi occupata dall’allievo di W. Wundt, E.B. Titchener. Nello stesso anno fondò, con Arthur König, la «Zeitschrift für Psychologie und Physiologie der Sinnesorgane», a cui collaborarono, fra gli altri, Helmholtz, Exner, Hering e Stumpf, tutti psicologi e fisiologi indipendenti dalla scuola wundtiana. Chiamato, nel 1894, dall’università di Breslau per insegnarvi filosofia, anche qui aprì un laboratorio. Vi rimase fino al 1905, anno in cui si trasferì a Halle per trascorrervi il resto della sua vita. I Grundzüge der Psychologie (Leipzig 1911-133, 2 voll., Berlin 19194) la cui pubblicazione iniziò a Lipsia nel 1897 e proseguì fino al 1902, e che costituiscono tuttora un documento di notevole interesse, incontrarono grande successo fra gli studiosi del tempo per linearità e chiarezza di stile. A Ebbinghaus si devono inoltre ricerche sulle capacità mentali dei ragazzi di età scolare (Über eine neue Methode zur Prüfung der geistigen Fähigkeiten und ihre Anwendung bei Schulkindern, Hamburg-Leipzig 1897) mediante metodi poi divenuti modello per alcuni test mentali. È anche noto per le ricerche sulla percezione cromatica (Theorie des Farbensehens, Hamburg-Leipzig 1893) e per uno scritto polemico contro la psicologia esplicativa di W. Dil3176

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they (Über erklärende und beschreibende Psychologie, in «Zeitschrift für Psychologie», 9, 1896, pp. 161-205). E. Ponzo - M. Sinatra BIBL.: D. SHAKOW, Hermann Ebbinghaus, in «American Journal of Psychology», 42 (1930), pp. 505-518; E.G. BORING, A History of Experimental Psychology, New York 19502, pp. 386-391; L. POSTMAN, Hermann Ebbinghaus, in «American Psychologist», 23 (1965), pp. 149-157; W. TRAXEL, Einleitung, in H. EBBINGHAUS, Urmanuskript «Ueber das Gedächtnis» 1880, Passau 1983, pp. I-VI; W. TRAXEL - H. GUNDLACH (a cura di), Ebbinghaus-Studien 1, Passau 1986.

EBBINGHAUS, JULIUS. – Filosofo neokantiaEbbinghaus no, figlio di Hermann, n. a Berlino il 9 nov. 1895 e m. a Marburgo nel 1981. Ha insegnato a Friburgo in Brisgovia, a Rostock e a Marburgo. Professore emerito. I suoi numerosi scritti sono stati raccolti in Gesammelte Aufsätze. Vorträge und Reden (Hildesheim 1968, poi in Gesammelte Schriften, a cura di H. Oberer e G. Geismann, Bonn 1986-94, 4 voll.). Particolare attenzione ha rivolto all’idea di diritto, visto come diritto dell’umanità e diritto degli stati, come diritto naturale e diritto positivo. Il tema della tolleranza è stato affrontato sia a livello teorico (cfr. Über die Idee der Toleranz. Eine staatrechtliche und religionsphilosophische Untersuchung, in «Archives de Philosophie», 4, 1950, pp. 1-34), sia a livello storico, con una fortunata traduzione delle lettere sulla tolleranza di Locke, Brief über Toleranz, Hamburg 1957. Nell’ambito del pensiero morale di Kant ha prestato particolare attenzione al problema dell’imperativo categorico: Interpretation and Misinterpretation of the Categorical Imperative, in R.P. Wolff (a cura di), Kant: A Collection of Critical Essays, Melbourne 1968; Die Formeln des kategorischen Imperativs und die Ableitung inhaltlich bestimmter Pflichten, in «Filosofia», 32 (1959), pp. 733-752; Die Naturgesetz-Formel des kategorischen Imperativs und die Ableitung inhaltlich bestimmter Pflichten, in «Kant-Studien», 93 (2002), pp. 371-373. Dal 1940 al 1945 è stato l’editore dell’Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie. A Monaco è raccolto lo Julius-Ebbinghaus-Archiv. S. Marcucci BIBL.: altre opere: Relativer und absoluter Idealismus, Leipzig 1910; Kants Lehre vom ewigen Frieden und die Kriegsschuldfrage, Tübingen 1929; Ueber die Fortschritte der Metaphysik, Tübingen 1931; Zu Deutsch-

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lands Schicksalswende, Frankfurt am Main 19472 (1946); Die Strafen für Tötung eines Menschen nach Prinzipien einer Rechtsphilosophie der Freiheit, Bonn 1968; Traditionfeindschaft und Traditionsgebundenheit, Frankfurt am Main 1969; Wozu Rechtsphilosophie? Ein Fall ihrer Anwendung, Berlin - New York 1972. Su Ebbinghaus: K. KOLENDA, Professor Ebbinghaus’ Interpretation of the Categorical Imperative, in «The Philosophical Quarterly», 5 (1955), pp. 74-77; K. KOLENDA, Vervollständigte Bibliographie Julius Ebbinghaus [fino al 1959], in Gesammelte Aufsätze, Darmstadt 1968, pp. 335-339; H. ZUCCHI - R. MALIANDI, Un diálogo con pensadores alemanes acerca de la clasificación de las ciencias, in «Revista de filosofìa» (La Plata), 22 (1970), pp. 21-27; K. HERB, Das Julius-Ebbinghaus-Archiv, in «Kant-Studien», 90 (1989), pp. 345353; G. GEISMANN, Die Formeln des kategorischen Imperativs nach H.J. Paton, N.N., Klaus Reich und Julius Ebbinghaus, in «Kant-Studien», 93 (2002), pp. 374-384.

EBELING, GERHARD. – Teologo, n. a Berlino Ebeling il 6 lug. 1912, m. a Zurigo il 30 sett. 2001. Allievo a Marburgo di R. Bultmann, ha insegnato Storia della chiesa a Tubinga e Teologia sistematica a Zurigo, dove ha diretto l’Institut für Hermeneutik. Con E. Fuchs ha dato origine a un sodalizio intellettuale che va sotto il nome di «Nuova ermeneutica» e si è posto per molti aspetti vicino alle problematiche del «secondo» Heidegger e, soprattutto, di H.-G. Gadamer. Non ha però cessato di cercare ispirazione dall’opera di Lutero, intesa come evento linguistico che interpella e continua a produrre effetti nella storia (cfr. Luther. Einführung in sein Denken, Tübingen 1964, tr. it. di G. Beari, Lutero, un volto nuovo, Brescia 1970). Ebeling è persuaso che le preoccupazioni dei riformatori e quelle degli esponenti dell’ermeneutica filosofica contemporanea convergano nell’importanza attribuita alla parola: l’esistenza infatti è tale «attraverso» e «nella» parola. Il suo itinerario è delineato soprattutto in due linee di ricerca: i saggi raccolti in Wort und Glaube (Tübingen 1960-75, 3 voll., tr. it. parziale del II volume di G. Mion, Parola e fede, Milano 1974) e la Dogmatik des Christlichen Glauben (Tübingen 1979, 3 voll., tr. it. di A. Rizzi, Dogmatica della fede cristiana, Genova 1990). Benché faccia proprie alcune istanze demitizzanti e l’interpretazione esistenziale di Bultmann intesa in senso linguistico, prende però le distanze da lui quando afferma che il kerygma

Eberhard predicato dalla chiesa rimanda come a suo fondamento al Gesù storico; è pertanto un evento della Parola. Poiché si deve parlare in maniera responsabile di Dio, una particolare sollecitazione a farlo viene da una teologia ermeneuticamente vigile, espressione di una teologia fondamentale che sempre presuppone un evento della Parola fissato nel testo delle Scritture, il quale autorizza l’annuncio e di nuovo lo rende possibile come evento della Parola. In tal modo sono ricondotti a unità il compito e il metodo sia della teologia storica (che riflette sul «tramandato») sia della teologia dogmatica (impegnata a discernere ciò che dev’essere tramandato), che si fa a sua volta actus tradendi, evento attualizzante di trasmissione, verificando così la parola di Dio nelle situazioni fondamentali dell’uomo (cfr. R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Brescia 1992, pp. 76-78). In una stagione che vede incombere il rischio di un incrinamento del rapporto tra la tradizione linguistica cristiana e «l’intrico dei linguaggi» contemporanei, Ebeling ha elaborato una teoria del linguaggio teologico in Einführung in die theologische Sprachlehre (Tübingen 1971, tr. it. di L. Tosti, Introduzione allo studio del linguaggio teologico, Brescia 1981) in vista del ristabilimento della corretta funzione comunicativa della teologia. P. Grassi BIBL.: J. ROBINSON - L. COBB (a cura di), The New Hermeneutic, New York 1964, tr. it. parziale di G. Torti, La nuova ermeneutica, Brescia 1967; R. MARLÉ, Parler de Dieu aujourd’hui. La théologie herméneutique de G. Ebeling, Paris 1975; W. JEANROND, Theological Hermeneutics. Development and Significance, London 1994, tr. it. di G. Volpe, L’ermeneutica teologica. Sviluppo e significato, Brescia 1994, pp. 258 ss.

EBERHARD, JOHANN AUGUST. – Illuminista Eberhard tedesco, n. a Halberstadt il 31 ag. 1739, m. a Halle il 6 genn. 1809. Rappresentante della «filosofia popolare». Dopo gli studi a Halle, ove fu allievo di Semler, si stabilì a Berlino assumendo la carica di pastore a Charlottenburg. Fu in stretto contatto con Mendelssohn, Nicolai e con lo stesso Federico II; nonostante questi appoggi, non potè continuare la carriera ecclesiastica alla quale aspirava, a causa dell’ostilità dell’ambiente religioso verso la sua Neue Apologie des Sokrates (Berlin 17762, 2 voll. [1772]), in cui criticava come demoraliz3177

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Eberstein zanti e antiumane numerose dottrine della rivelazione cristiana (grazia, dannazione dei pagani ecc.) e offriva un significativo esempio di interpretazione razionalistica della teologia. Nella polemica contro Eberhard intervenne, un po’ a sorpresa, lo stesso Lessing, che difese Leibniz dall’accusa di aver simulato nella Teodicea la credenza nelle pene eterne (cfr. G.E. Lessing, Gesammelte Werke, Berlin 1956, vol. VII, pp. 454-488). Nel 1778 Eberhard accettò la cattedra di filosofia presso l’università di Halle, vacante dopo la morte del wolffiano G.F. Meier. I suoi interessi si allargarono allora all’ambito più propriamente filosofico: scrisse una Allgemeine Geschichte der Philosophie (Halle 1778), si occupò di estetica e di sinonimica tedesca (il suo Versuch einer allgemeinen deutschen Synonymik, Halle 1795-1802, raggiunse la diciassettesima edizione nel 1910). La sua concezione (come risulta dalla Allgemeine Theorie des Denkens und Empfindens, Berlin 1776; da Von dem Begriffe der Philosophie und ihren Theilen, ivi 1778; e dalla Sittenlehre der Vernunft, ivi 1781) è intessuta di motivi leibniziani e wolffiani, che egli tenta di conciliare, ecletticamente, con l’empirismo inglese. Sono da ricordare, per l’estetica, Theorie der schönen Künste und Wissenschaften, Berlin 1783, e Handbuch der Aestetik, Halle 1803-05, 4 voll. Eberhard avversò il criticismo kantiano (definito «un documento assai curioso per la storia delle aberrazioni dello spirito umano»), polemizzando a lungo sulle riviste «Philosophisches Magazin» (Halle 1788-92, 4 voll.) e «Philosophisches Archiv» (ivi 1792-95, 2 voll.), da lui fondate. All’affermazione di Eberhard (nel primo volume del «Philosophisches Magazin») che il meglio del criticismo era già nella filosofia leibniziana, Kant rispose con il saggio Über eine Entdeckung nach der alle neue Kritik der reinen Vernunft durch eine ältere entbehrlich gemacht werden soll (Königsberg 1790), in cui rilevò l’incapacità della filosofia dogmatica di giustificare i giudizi sintetici a priori (laddove Eberhard muoveva proprio dal presupposto della portata ontologica del principio di contraddizione e degli altri principi logici). Eberhard criticò anche Fichte, che difese tuttavia dall’accusa di ateismo in Über den Gott des Herrn Prof. Fichte und den Götzen seiner Gegner (Halle 1799). Negli ultimi anni ritornò sui temi giovanili con l’opera Der Geist des Urchristenthums. Ein Handbuch der Geschichte der philo3178

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sophischen Cultur, Halle 1807-08, 3 voll., scritta contro Le Génie du Christianisme di Chateaubriand e l’ormai imperante Mystizismus della cultura romantica. F. Barone - M. Longo BIBL.: L. GABE, s. v., in AA.VV., Neue deutsche Biographie, Berlin 1959, vol. IV, pp. 240-241; A. PUPI, La formazione della filosofia di K.L. Reinhold, Milano 1966, pp. 150-164, 248-258; H.E. ALLISON, The KantEberhard Controversy, Baltimore-London 1973; M. LONGO, Johann August Eberhard, in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. III: Il secondo Illuminismo e l’età kantiana, Padova 1988, pp. 791-813.

EBERSTEIN, W ILHELM L UDWIG G OTTLOB Eberstein VON. – N. a Mohrungen presso Sangerhausen il 10 nov. 1762, m. ivi il 4 febbr. 1805. Studioso di storia della filosofia e autore di una critica a Kant dal punto di vista delle posizioni leibniziano-wolffiane. Ricchi di notizie, anche sui sostenitori e gli avversari di Kant sino alla fine del XVIII secolo, sono i due volumi: Versuch einer Geschichte der Logik und Metaphysik bei der Deutschen von Leibniz auf gegenwärtige Zeit (Halle 1744-99, rist. Bruxelles 1970 e Hildesheim 1985). S’interessò inoltre della filosofia medievale e della riforma protestante in altre due opere: Beschaffenheit der Logik und Metaphysik bei den reinen Peripatetikern (Halle 1800) e Die natürliche Theologie der Scholastiker (Leipzig 1803, rist. Bruxelles 1968). A.M. Moschetti

EBNER, FERDINAND. – Filosofo dialogico criEbner stiano, n. a Wiener Neustadt il 31 genn. 1882, m. a Gablitz il 17 ott. 1931. Con Das Wort und die geistigen Realitäten. Pneumatologische Fragmente (Innsbruck 1921, ed. it. a cura di S. Zucal, tr. it. di P. Renner, La parola e le realtà spirituali. Frammenti pneumatologici, Cinisello Balsamo 1998) cerca di elaborare un’originale filosofia della parola che avrà come punti di riferimento J.G. Hamann, S.A. Kierkegaard e il vangelo di Giovanni. Per Ebner la pienezza della vita spirituale non sta nell’arte, nella filosofia, nelle scienze, nella teologia, realtà del «sogno dello spirito» (Traum vom Geist), ma nella relazione tra le realtà spirituali «io» e «tu», che implica la fuoriuscita dall’«autosolipsismo dell’io» (Icheinsamkeit). Senza l’incontro fra l’io e il tu che ha il suo veicolo oggettivo nella parola e quello soggettivo nell’amore, non esisterebbero né

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l’io nella sua effettualità né il linguaggio relazionale, non più meramente segnaletico come quello animale. La genesi dell’io dipende interamente dal tu. L’io ha innanzitutto una natura «tuale». Lo fonda la sua «tuità» (Duhaftigkeit), memoria vivente dello statuto ontologico originario dell’io divenuto tale allorché Dio parlandogli (la creazione è un divino atto verbale) l’ha reso il proprio tu e in tal modo l’ha insieme costituito come io. Tale costituzione originariamente «tuale» si reduplica e s’invera anche nei rapporti interumani fin dalla nascita: ognuno è anzitutto un tu per un altro e, solo grazie a questa relazione verbale, potrà progressivamente diventare un io. La coscienza dell’io si illumina e diviene autocoscienza – e non semplice coscienza animale – grazie all’evento della parola che gli viene rivolta e che, a sua volta, potrà rivolgere al tu divino e umano. L’uomo raggiunge la propria identità personale grazie al suo essere «uditore della parola» e insieme «attore verbale» che ha la parola come dato costitutivo. Si trova nella duplice possibilità di limitarsi a vocalizzare foneticamente in modo a-dialogico oppure può creare con la «parola giusta» il ponte tra l’io e il tu (nel primo caso – utilizzando il doppio plurale tedesco – avremo «parole-Wörter», nel secondo «parole-Worte»). La ragione umana (Vernunft), diversamente dall’intelletto (Verstand) che accomuna agli animali, è potenza recettiva della parola, «senso della parola e per la parola». La chiave della vita spirituale e dello stesso destino identitario della persona è tutta nel «miracolo della parola», e il metodo di Ebner può essere definito una sorta di fenomenologia «filo-logica» della persona. S. Zucal BIBL.: altre opere: Wort und Liebe, Regensburg 1935, tr. it. a cura di E. Ducci - P. Rossano, Parola e amore, Milano 1998; Das Wort ist der Weg. Aus den Tagebüchern, Wien 1949, tr. it. a cura di E. Ducci - P. Rossano, La parola è la via: dal diario, Roma 1991; Fragmente, Aufsätze, Aphorismen, a cura di F. Seyr, München 1963; Notizen, Tagebücher, Lebenserinnerungen, a cura di F. Seyr, München 1963; Briefe, München 1965; è in corso di stampa la Gesamtausgabe. Su Ebner: W. METHLAGL (a cura di), Gegen den Traum vom Geist. Beiträge zum Symposion Gablitz, Salzburg 1985; S. ZUCAL - A. BERTOLDI (a cura di), La filosofia della parola di Ferdinand Ebner, Brescia 1999; S. ZUCAL, Ferdinand Ebner. La «nostalgia» della parola, Brescia 1999, pp. 311-347 (bibliografia completa);

Ebraismo B. CASPER, Das dialogische Denken. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner und Martin Buber, Freiburg 2002.

EBRAISMO ( ). – Il termine indica in Ebraismo generale l’intera civiltà ebraica, anche se talora designa in particolare il periodo precedente la cattività babilonese; in questo caso, per il periodo seguente a essa, si suole parlare già di giudaismo. SOMMARIO: I. Cenno storico. - II. Lo sviluppo delle concezioni religiose e morali durante il corso della storia ebraica. - III. L’incontro col mondo greco-romano e cristiano. I. CENNO STORICO. – Oggi sembra prevalere l’opinione che gli ebrei antichi fossero un gruppo dei chabiru, che in diversi documenti del secondo millennio a. C. appaiono, in varie regioni del Vicino Oriente, come apatridi assoldati a prestare servizio militare e di lavoro. Non c’è da meravigliarsi che in alcuni documenti essi vengano caratterizzati come bande di predoni. Del resto, anche nelle storie dei patriarchi degli ebrei riferite nel Genesi si trovano esempi di razzie. Del nome è stata cercata la spiegazione pure in ‘Eber, discendente di Sem, figlio di Noè (Gn 10, 21), e nella radice ‘a-v-r «passare», (nel senso del latino trans), che significherebbe un popolo venuto «di là dal fiume». Comunque si tratta di una popolazione, a giudicare dal linguaggio, di origine semitica. Gli ebrei raccontavano che il loro capostipite Abramo avesse lasciato Ur dei Caldei e fosse salito verso il nord, per poi scendere per ordine di Dio dalla Siria. Tale trasmigrazione avvenne presumibilmente attorno al 1850 a. C. Col nome di Israele, dato a Giacobbe nipote minore di Abramo, venne chiamata poi abitualmente la nazione, costituita dalle tribù (dodici) derivate dai figli di lui. Alcuni secoli dopo, nel 1240 a. C. ca., gli ebrei partirono, sotto la guida di Mosè, dall’Egitto, dove si erano stabiliti diventando un popolo numeroso. Nel deserto attorno al Sinai, Dio strinse solennemente con loro un patto di alleanza: essi lo scelsero per unico loro Dio ed egli si impegnò a difenderli dai nemici e dare loro prosperità. Dopo quarant’anni di permanenza nel deserto, verso la metà del sec. XIII iniziarono la cossiddetta conquista lenta della terra promessa (Palestina), costituendosi poi in monarchia e facendo di Gerusalemme la capitale dello stato (verso il 1000). L’unità nazionale venne infranta verso il 924, dopo la morte di re Salomone figlio di Davide: si ha così il regno del Nord 3179

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Ebraismo (Israele) e quello del Sud (Giuda). Il primo ebbe fine per opera degli assiri nel 722/721; il secondo con la deportazione a Babilonia nel 587/586. Con l’avvento del dominio persiano comincia il ritorno in patria. II. LO SVILUPPO DELLE CONCEZIONI RELIGIOSE E MORALI DURANTE IL CORSO DELLA STORIA EBRAICA. – Il nome divino caratteristico per l’epoca dei patriarchi è Shaddaj, che l’antica versione greca rende con «onnipotente»; si direbbe sintetizzi tutte le forze operanti nella natura. Associato all’altro nome divino ‘EI, esso risulta come espressione di coscienza monoteistica, in opposizione al politeismo dei popoli vicini, che deifica le forze della natura, ma anche in progressivo superamento dell’enoteismo. Sarà questa concezione monoteistica la linea centrale del pensiero ebraico e il suo grande contributo alla storia del pensiero umano. Dio è concepito come creatore benefico, che conferisce vita e prosperità a tutto il creato; ma è in pari tempo un Dio temibile per coloro che si manifestano come suoi avversari. Egli è giusto, concede la sua protezione a tutti coloro che lo servono e lo invocano, è il giudice dalle sentenze giuste ed è perciò che i fedeli a lui si rivolgono per ottenere protezione per sé e punizione per chi è ingiusto riguardo agli altri uomini, disobbedendo in tal modo alla volontà divina. L’attaccamento al Dio unico trova speciale sostegno nell’azione e negli insegnamenti dei condottieri d’Israele delle epoche successive, da Mosè ai giudici. A Mosè Dio si rivela come JHWH, «colui che è» (cfr. Es 3, 14). Sorta poi la monarchia, il prototipo del re giusto è Davide, re fedele a Dio e strenuo difensore d’Israele, che più tardi, in alcune concezioni messianiche, sarà considerato antenato del messia. Dalla metà del sec. IX sino ca. alla fine del IV a. C. agiscono i profeti. Spesso essi insorgono contro i re e le masse che deviano cedendo al fascino dei culti politeisti e orgiastici dei cananei rimasti nella Palestina e delle popolazioni circonvicine. Inoltre essi tendono a difendere i diritti delle classi diseredate e a spiritualizzare il culto. Il culto sacrificale e le cerimonie penitenziali servono spesso ai più abbienti a crearsi una religiosità apparente, dietro alla quale vanno compiendo opere di ingiustizia sociale; d’altra parte le antiche disposizioni, che avevano lo scopo di combattere le ingiustizie sociali (cfr. Es 22-23; Lv 19; Dt 22), si sono dimostrate di 3180

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scarsa efficacia. I profeti, in particolare Amos, insorgono con violenza contro i profittatori che si ammantano di osservanza religiosa. Isaia si leva contro il fasto delle cerimonie cultuali sottolineando che lo sguardo di Dio è rivolto piuttosto verso i poveri, gli umili, i timorati di Dio. JHWH, «re di Israele», diventa il Dio di tutti in una visione progressivamente universale. Più viva si fa la nozione di peccato e di espiazione. Il peccato non è più una violazione di leggi soltanto sacrali, ma assume una connotazione etica. Il culto sacrificale e la confessione, concepita come «espressione», quasi fisica, del male, cominciano a denotare, sia pure in forma rudimentale, il desiderio di purezza; ora però la parola qadosh, che nei testi sacerdotali sta a indicare prevalentemente la purità rituale, comincia, sotto l’influenza del profeta-teologo Isaia, a significare «santità». La lotta sostenuta dai profeti per la giustizia sociale e per far risplendere l’ideale di santità e l’ideale messianico, nel cui orizzonte si attende l’inviato di Dio per fare opera di giustizia fra i popoli e i singoli, apre la via a nuovi fermenti religiosi tra i quali si colloca anche la nascita del cristianesimo. La predicazione e le lotte dei profeti si riflettono in molti dei centocinquanta canti religiosi (inni di lode, carmi penitenziali e messianici, canti di vittoria o elegie ecc.), noti sono sotto il nome di Salterio. Dio è un giudice giusto; giusti quindi devono essere quanti esercitano il potere, e gli uomini nei loro rapporti sociali. Le classi economicamente depresse e oppresse si considerano, nelle loro invocazioni, più vicini a Dio dei loro oppressori (contro i quali invocano la punizione divina: salmi «imprecatori»). L’ateismo è considerato come un atto di stoltezza; la superbia e la prepotenza, opposizione aperta alla volontà di Dio. Non mancano neppure salmi a carattere sapienziale. A differenza del pensiero sapienziale egiziano che è d’impronta pratica (il sapere è un mezzo per raggiungere onori, ricchezze, longevità, stima presso gli altri), la sapienza prettamente israelitica parte dal principio che inizio della sapienza vera è il timor di Dio. L’esilio babilonese fu seguito da un processo di ravvedimento e di penitenza. Si inizia così il periodo degli scribi, ai quali si deve anche l’inizio della redazione dei testi biblici. Le letture bibliche del Pentateuco, e in particolare del Deuteronomio, furono poste al centro del culto (cfr. Ne 8). Le dolorose esperienze

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diedero al popolo la consapevolezza di essere indissolubilmente legato a JHWH. D’ora in poi si rafforzerà la coscienza che le opere di culto hanno valore secondo la disposizione del cuore. Si comprende meglio che il Signore è padre e rifugio, che la vita umana è qualche cosa di caduco e di fragile – in corrispondenza con una meno confusa idea dell’aldilà – e che nulla è atto a conferire dignità all’infuori del timore e dell’amore di Dio. A poco a poco il profetismo cede il posto alle scuole rabbiniche, nelle quali si va elaborando un sistema di precetti la cui osservanza talvolta dà ai fedeli un senso di autosufficienza. Nascono dibattiti e tensioni che danno origine a movimenti diversi come quello degli esseni. I testi sacri dell’ebraismo, che ora comprendono anche gli scritti sapienziali, non mancano di agitare particolari, ma fondamentali, problemi filosofici, per esempio quello del dolore; presentati, di regola, in forma diversa da quella propria della speculazione filosofica grecoellenistica. III. L’INCONTRO COL MONDO GRECO-ROMANO E CRISTIANO. – Negli ultimi tempi prima dell’era cristiana, l’ebraismo viene a contatto con la civiltà ellenistica e latina, sia mediante la «diaspora», o dispersione, tra le «nazioni», di ebrei emigrati, sia attraverso l’ingresso del Vicino Oriente nell’orbita greca dopo le conquiste di Alessandro. Di particolare importanza l’incontro con il mondo ellenistico. Nella Palestina tale incontro diventa uno scontro, a cominciare da Antioco Epifane, che intende grecizzare la Palestina non solo dal lato politico, ma anche da quello religioso, e che trova una strenua opposizione da parte dei maccabei: il regime autonomo che ne deriva durerà, in forma varia, fino allo scontro frontale con la potenza romana, che culminerà con la distruzione di Gerusalemme al tempo di Vespasiano (prima guerra giudaica nel 66-70 d. C.). L’ultimo atto si avrà con l’imperatore Adriano (seconda guerra giudaica nel 132-135 d. C.) in seguito alla quale si accentuerà la diaspora. In essa la compenetrazione delle due civiltà e delle due culture si svolge in un modo pacifico. I greci evoluti considerano gli ebrei come una stirpe di filosofi. La Scrittura viene tradotta in greco sotto i tolomei, il che corrisponde a una necessità riguardante la prassi religiosa, poiché gli ebrei della diaspora egiziana (Alessandria) sono ormai dimentichi della lingua

Ebraismo nazionale. Attraverso la versione greca, detta dei Settanta, il mondo ellenistico comincia a conoscere e ad apprezzare la Bibbia ebraica. Filone ricorre all’interpretazione allegorica della Scrittura (le sue nozioni in fatto di ebraico e di cultura ebraica sono piuttosto modeste), per così «ritrovare» la filosofia greca negli scritti biblici. Presso gli ebrei ellenisti comincia a svilupparsi la consapevolezza della superiorità del pensiero monoteistico biblico su quello politeistico greco. Le singole comunità degli ebrei ellenisti della diaspora saranno poi il punto di partenza per l’attività missionaria del giovane cristianesimo. Lo stesso avviene nei più antichi centri ebraici in Italia, con a capo Roma. Gli ebrei trasportati prigionieri o immigrati in Italia divennero i testimoni del monoteismo biblico, fatto che non passò inosservato agli stessi scrittori romani. Anche il fenomeno delle persecuzioni, comuni a ebrei e cristiani, sebbene fosse ufficialmente giustificato con ragioni politiche, finì per allargare immensamente l’influenza delle idee religiose e morali dei perseguitati. Le sorti dell’ebraismo e del suo influsso sul mondo civile cambiano da quando il cristianesimo esce dalla primitiva condizione di inferiorità sociale per divenire infine la religione ufficiale dello stato romano: gli ebrei, dopo la caduta del Tempio, hanno ricostituito le loro comunità religiose basandole sullo studio della Torah, della nascente letteratura rabbinica e sull’osservanza rigorosa dei precetti, pertanto sia il loro credo che la loro prassi religiosa si differenziano sempre più dal credo e dalla prassi religiosa cristiana. Sorge così, soprattutto in ambito cristiano, una vasta letteratura a carattere polemico, la quale contribuisce a mettere in evidenza sempre maggiore il distacco tra ebraismo e cristianesimo. La lotta religiosa comincia a riflettersi nella vita sociale, in un modo sempre più doloroso per gli ebrei. Essi iniziano a essere trattati come cittadini di «secondo» ordine e vengono privati di una buona parte dei diritti di eguaglianza civile: fatti questi che contribuiscono fortemente al consolidarsi della scissione tra gli ebrei e il mondo che li circonda. Si apre così la via a quella tensione di rapporti che poi continuerà per secoli, sino ai nostri giorni. In tale orizzonte si svilupperà col tempo e con significative influenze arabe la filosofia ebraica. E. Zolli

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Ecateo di Mileto BIBL.: G. FOHRER, Geschichte Israels, Heidelberg 1977, tr. it. di M. Soffritti, Storia d’Israele, Brescia 1980; J.A. SOGGIN, Introduzione all’Antico Testamento, Brescia 19874; R. RENDTORFF, Das Alte Testament. Eine Einführung, Neukirchen-Vluyn 1988, ed. it. a cura di D. Garrone; Introduzione all’Antico Testamento, Torino 1990; G. BOCCACCINI, Il medio giudaismo, Genova 1993; P. SACCHI, Storia del Secondo Tempio, Torino 1994; E. MELLO, Ebraismo, Brescia 2000; J.A. SOGGIN, Israele in epoca biblica, Torino 2000; J.A. SOGGIN, Storia d’Israele, Brescia 20022. ➨ BIBBIA; CRISTIANESIMO; ‘EI; ELOHIM; ELLENISMO; ENOTEISMO; ESSENI; FILOSOFIA EBRAICA; GIUDAICI, MOVIMENTI; GIUDAISMO; JHWH; MESSIA - ATTESA MESSIANICA; TORAH.

ECATEO MILETO (gr. ÔEkatai'o"). – GeEcateo diDI Mileto ografo e storico, vissuto tra i secc. VI e V a. C. Di nobile famiglia, fece numerosi viaggi, visitando tra l’altro l’Egitto, e prese parte attiva alle vicende politiche della sua patria, durante la sommossa della Ionia contro la Persia. Scrisse due opere: Genealogie (o Eroologia, o Storia) e Periegenesi (o Periodo), di cui non ci restano che frammenti (ed. G. Nenci, Hecataei Milesii fragmenta, Firenze 1954, v. Introduzione). In esse Ecateo si rivela dotato di quello stesso spirito razionalistico che caratterizza la contemporanea filosofia milesia. Del resto già l’antica tradizione lo connette con Anassimandro, da cui riprese, per migliorarlo, il disegno di una carta geografica della terra. Notevolissimo è infatti in lui l’intento, esplicitamente dichiarato all’inizio delle Genealogie, di sceverare quanto nella tradizione fosse attendibile (anche se la realizzazione del programma si limitò piuttosto a una correzione del mito, anziché a una sua sostituzione con la vera e propria storia) e lo sforzo di ricondurre a unità una massa di dati, in parte desunti da esperienze dirette, inquadrandoli in schemi generali di ordinamento. D. Pesce BIBL.: F. IACOBY, s. v., in A. PAULY - G. WISSOWA, RealEncyklöpadie der klassischen Altertumswissenschaft, Stuttgart 1893-1965, vol. VII, coll. 2667-2750; A. MOMIGLIANO, II razionalismo di Ecateo di Mileto, in «Atene e Roma», 3 (1931); L. PEARSON, Early Ionian Historians, Oxford 1939; N. FERTONANI, Ecateo di Mileto e il suo razionalismo, in «La parola del passato», 7 (1952), pp. 18-19; P. TOZZI, Ecateo di Mileto in Eustazio, in «Athenaeum», 49 (1961), pp. 26-32; S. FUSAI, Ecateo da Mileto, in «Vichiana», 2 (1965), pp. 115-145.

ECATONE RODI. – Stoico vissuto nella Ecatone diDI Rodi seconda metà del sec. II a. C., allievo di Pane3182

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zio di Rodi. Scrisse un’opera Sul dovere che dedicò a Quinto Tuberone (Cicerone, De officiis, III, 63). Si conoscono di lui vari trattati di morale, di cui uno intitolato Sulle virtù, in cui distingueva tra virtù «teoretiche» e «pratiche», secondo l’insegnamento di Panezio; un altro intitolato Sui beni, nel quale sosteneva una posizione antiedonistica. Compose una raccolta di motti attribuiti a filosofi cinici e stoici, intitolata Sentenze (cfr. Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, VI, 32). F. Alesse BIBL.: H. GOMOLL, Der stoische Philosoph Hekaton. Seine Begriffswelt und Nachwirkung unter Beigabe seiner Fragmente, Leipzig 1933; J. ANNAS, Cicero on Stoic Moral Philosophy and Private Property, in M. GRIFFIN J. BARNES, Philosophia Togata, vol. I, Oxford 1989, pp. 151-173.

ECCEITÀ (lat. haecceitas). – È il termine con Ecceità cui Giovanni Duns Scoto intende l’individuazione o il principio della medesima. È noto che, per la metafisica classica, nella realtà si danno solo enti individuali, e che quelli corporei sono composti di materia e di forma. Per qualificare la propria soluzione al problema degli universali in direzione di un realismo moderato, Duns Scoto considera, secondo l’insegnamento della metafisica avicenniana, tale composto una natura communis, indifferente cioè all’universalità e alla singolarità. Pertanto, se per spiegare come tale indifferenza divenga una concreta possibilità di predicabilità universale è costretto a far intervenire un atto intellettivo, per giustificare come la medesima indifferenza si moltiplichi numericamente negli individui è chiamato a identificare un principio che, contraendo la natura communis stessa, la renda una cosa esistente «distinta» da tutte le altre. Rappresentando l’individuo un incremento ontologico rispetto alla specie, in quanto caratterizzato da un’unità e una coesione superiore, Duns Scoto reputa un controsenso la soluzione tomista che vede il principio d’individuazione nella materia signata quantitate: quest’ultima è al contrario principio di divisibilità e dispersione. Nessun accidente, aggiunge, può essere la ragione ultima dell’individualità di una sostanza. Questo allora il ragionamento alternativo di Scoto: la ragione ultima delle differenze tra gli enti deve essere ricondotta a qualcosa che sia originariamente

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diverso; visto che negli individui di una medesima specie ciò che li differenzia non può essere la natura, in quanto essa è al contrario ciò che li accomuna, deve trattarsi di un’entità positiva capace di determinare quella stessa natura. Come l’unità della specie consegue a un’entità in comune, che è la natura specifica, così allora l’unità dell’individuo consegue a un’entità peculiare, la quale è perciò distinta dalla natura specifica e ne costituisce anzi una determinazione. Questa entitas individualis non è poi né la materia, né la forma, né il composto, ma è l’ultima realitas entis, che è materia, forma e composto. È dunque un’entità che si distingue formalmente dalle altre del composto, per quanto tutte, nel composto stesso, costituiscano una cosa sola. La soluzione scotista si appella a «un’ultima realtà dell’ente», una perfezione entitativa che sopraggiunge alla natura communis, attualizzandone la potenzialità in ordine all’esse, non all’essenza. Infatti, pur riconoscendo la preminenza dell’apporto formale nella genesi dell’individuo, tale entità non modifica l’esse quidditativum della cosa (quasi fosse una nuova caratteristica che va semplicemente ad aggiungersi all’essenza), ma ne rappresenta l’ultima, irripetibile e indivisibile realizzazione. G. Feltrin BIBL.: M.F. SCIACCA, La «haecceitas» di Duns Scoto, Napoli 1935; T. BARTH, Individualität und Allgemeinheit bei J. Duns Skotus, in «Wissenschaft und Weisheit», 16 (1953), pp. 122-141, 191-213; P. STELLA, L’ilemorfismo di Giovanni Duns Scoto, Torino 1955; A. GHISALBERTI, Individuo ed esistenza nella filosofia di Giovanni Duns Scoto, in C. BÉRUBÉ (a cura di), Regnum hominis et Regnum Dei, «Acta Quarti Congressus Scotistici Internationalis, Patavii 24-29 septembris 1976», Romae 1978, vol. I, pp. 355-365. ➨ INDIVIDUAZIONE, PRINCIPIO DI.

ECCENTRICITÀ. – In geometria indica la diEccentricità stanza di un punto o di un qualsiasi altro ente geometrico rispetto al centro di una circonferenza o di un asse di simmetria, definendo pertanto ciò che non è simmetrico, mentre nella fisica moderna si parla dell’eccentricità dell’asse dei pianeti o dell’orbita di alcuni tipi di particelle. Il termine fu impiegato in un contesto prettamente filosofico per la prima volta da L. Klages in Vom Wesen des Bewußtseins (1918, ma pubblicato nel 1921) per indicare la funzione svolta dallo «spirito» (la razionalità,

Eccentricità la volontà) nella vita umana, ossia da quella forza che, agendo sulla vita dall’esterno, decentra il principio vitale dell’uomo (la sua anima). Fu tuttavia solo H. Plessner il primo a usarlo in maniera sistematica, facendone uno dei concetti fondamentali della sua antropologia filosofica esposta per la prima volta in Die Stufen des Organischen und der Mensch (1928), dove definì lo specifico modo d’essere di quel vivente che è l’«uomo» con l’espressione «posizionalità eccentrica». Confrontandosi con la fenomenologia di Husserl e di Scheler, con la filosofia della vita di Dilthey e con le riflessioni biologistiche sullo statuto dell’organico di H. Driesch e di F. Buytendijk, ma rivelando talune affinità anche con le analisi sull’esistenza estatica e sulla trascendenza dell’esserci abbozzate da Heidegger in Sein und Zeit (1927), Plessner intese con tale concetto il modo in cui si struttura la vita umana, in quanto l’uomo, in virtù della sua peculiare capacità di riflettere su se stesso, trascende il centro biologico costituito dalla propria dimensione corporea, pervenendo a una posizione eccentrica, ossia esterna, rispetto a se stesso. Tale eccentricità radicalizza la tradizionale nozione di «autocoscienza» quale contrassegno specifico dell’essere umano rispetto agli altri viventi, integrandone il carattere puramente soggettivo con la componente spirituale, ovvero culturale e sociale. Criticando i dualismi di matrice cartesiana – esasperati dall’idealismo tedesco e presenti ancora nella coppia «impulso-spirito» di Scheler – implicati nel concetto di autocoscienza (anima-corpo, spirito-natura, mondo interno-mondo esterno, soggetto-oggetto), Plessner adottò il dualismo «natura-spirito» (mondo naturale-mondo storico) per definire l’«uomo intero» (Dilthey), ossia la realtà umana intesa come l’unità corporeo-psichico-spirituale. Per definire l’«uomo» è necessario un confronto con gli altri viventi, tuttavia l’esistenza umana non si riduce al solo aspetto empirico (naturale) e nemmeno a quello psichico (interiore), ma è costituita anche da un mondo spirituale che integra il mondo naturale a cui si rapportano anche le altre forme di viventi. Nel concetto di «posizionalità eccentrica» confluiscono due categorie ricavate da un’analisi della struttura dell’essere organico rispetto all’essere inorganico: ogni vivente è caratterizzato 1) dalla «posizionalità», ma soltanto l’animale 3183

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Eccentricità e l’uomo anche 2) dall’«eccentricità». Vegetali, animali, uomini – sono diversi gradi, diverse forme intese come diversi modi d’essere, e non gradi di una evoluzione o di una gerarchia. Confrontandosi con la Umwelttheorie del biologo J. von Uexküll (estesa poi da E. Rothacker all’ambito della Kultur), Plessner rilevò che l’organico si differenzia dall’inorganico per via del suo «essere-posto» (Gestelltheit) rispetto al proprio «mondo-ambiente» (Umwelt), ovvero del suo porsi in un rapporto dinamico e oppositivo con l’ambiente circostante (Umgebung). Tale rapporto è la posizionalità («forma logica», modo d’essere) propria di ogni vivente, in virtù della quale quest’ultimo si costituisce come un «centro» (come individualità) attorno a cui si organizza la vita. La posizionalità non coincide con la mera corporeità, ma è piuttosto la condizione logica che rende possibile al vivente di trovarsi collocato spazialmente e temporalmente all’interno di un ambiente circostante. Il rapporto che il vivente ha col proprio corpo – con quel medium fra sé e il mondo che costituisce il loro «limite» (Grenze) – si costituisce, se considerato muovendo dalla realtà umana, come un diverso grado di consapevolezza (riflessione) che determina propriamente i diversi gradi dell’organico. Tre sono le forme di posizionalità: 1) l’«esser corpo» (corpo = mondo); 2) l’«esser nel corpo» (corpo e mondo); 3) l’«esser fuori dal corpo» (corpo, mondo e «Io»). Alla base del costituirsi come un centro (l’individualizzazione) v’è una differenza che il vivente pone tra sé e il proprio ambiente, ovvero un certo grado di presa di distanza dal proprio limite. Tale principium individuationis non è inteso da Plessner in senso empirico (il singolo esemplare di una specie), ma in quello formale in quanto è la struttura che determina ogni vivente come tale. 1) Nella sfera vegetale il vivente condivide il proprio essere con l’ambiente, è cioè una forma di organizzazione «aperta»: non è posta alcuna distanza tra corpo e mondo, non v’è alcuna esperienza della propria posizionalità. 2) Nella sfera animale il vivente è individuum, cioè una forma di organizzazione «chiusa», in quanto la propria posizionalità è organizzata in riferimento a un centro, ponendo una distanza fra sé e il mondo. Soltanto 3) nella sfera umana, però, è posta anche una peculiare distanza anche dalla propria posizionalità: si costituisce 3184

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quella realtà individuale capace di dire «io», l’individuo è «persona», pervenendo a quella sfera in cui il Sé ha preso distanza anche da se stesso, ponendosi fuori dal proprio centro, dalla propria posizionalità. Se anche gli animali possiedono un centro, sicché possono differenziarsi l’uno dall’altro e dal loro ambiente, essi non possono però differenziarsi da se stessi, non possono prendere distanza dal proprio rapporto con le possibilità offerte dal loro ambiente e svilupparne di nuove. L’uomo è «apertura del mondo» (Weltoffenheit – termine impiegato già da Scheler) e non vincolato a un ambiente come l’animale, instaurando dunque un triplice rapporto eccentrico rispetto al proprio mondo, inteso ora come «mondo esterno» (Außenwelt), ora come «mondo interno» (Innenwelt), ora come «mondo collettivo» (Mitwelt). Il mondo dell’uomo include pertanto anche quel mondo della cultura che apre nuove possibilità per la propria esistenza. La posizionalità eccentrica dell’uomo è certo costituita 1) dalla sua capacità di riflettere su se stesso (la sua «immediatezza mediata»), ma non si riduce a una dimensione soggettiva, bensì 2) apre nell’uomo quella dimensione spirituale (sociale, culturale, storica) che da un lato integra la sua dimensione naturale, lo libera dal mero istinto e dalla dipendenza che caratterizza l’animale (la sua «artificialità naturale»), ma dall’altro 3) lo pone di fronte al compito di dare una condotta alla propria vita, di determinare sempre di nuovo la propria «posizione nel cosmo» (il «luogo utopico»). Queste tre «leggi (Gesetze) antropologiche fondamentali» caratterizzano il modo in cui l’uomo vive la propria posizione eccentrica, ovvero lo determinano come un sempre rinnovato tentativo di trovare una posizione equilibrata all’interno dell’antagonismo tra posizionalità (dimensione naturale, pulsionale e istintuale) ed eccentricità (dimensione spirituale, riflessività), intesi come i due poli tra i quali oscilla la sua vita. L’uomo ha una distanza da se stesso che può anche perdere, senza per questo perdere la propria esistenza umana (posizionalità). L’eccentricità della sua forma di vita rende l’uomo un compito, e non qualcosa di definibile una volta per tutte – ed è in tal senso che Plessner ha parlato di «insondabilità» dell’essere umano, infatti è possibile sapere che cos’è l’uomo solo comprendendone di volta in volta i diversi modi

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d’essere in cui si è espresso nel corso della sua storia. C. Badocco BIBL.: F. HAMMER, Die exzentrische Position des Menschen. Methode und Grundlinien der philosophischen Anthropologie Helmuth Plessners, Bonn 1967; H.U. ASEMISSEN, Helmuth Plessner. Die exzentrische Position des Menschen, in J. SPECK (a cura di), Grundprobleme der großen Philosophen. Philosophie der Gegenwart 2, Stuttgart 19812, pp. 146-180; S. PIETROWICZ, Philosophische Anthropologie und Geschichte. Helmuth Plessners Geschichtsverständnis der Moderne und der Begriff der exzentrischen Positionalität, in G. DUX - U. WENZEL (a cura di), Der Prozeß der Geistesgeschichte. Studien zur ontogenetischen und historischen Entwicklung des Geistes, Frankfurt am Main 1994, pp. 4563; J. FISCHER, Exzentrische Positionalität. Plessners Grundkategorie der Philosophischen Anthropologie, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», 48 (2000), pp. 265-288; M. PANSERA, Antropologia filosofica, Milano 2001, cap. IV; H.-R. MÜLLER, Exzentrische Positionalität. Bildungstheoretische Überlegungen zu einem Theorem Helmuth Plessners, in «Zeitschrift für Erziehung», 5 (2002), pp. 53-61. ➨ AMBIENTE; CORPO; DUALISMO; INDIVIDUAZIONE, PRINCIPIO DI; IO-AUTOCOSCIENZA; SIMMETRIA; UOMO.

Eccezione L’eccezione, invece, è realmente tale ove si ammetta che la legge della natura non è assolutamente necessaria, né assolutamente contingente, quando cioè la legge stessa, ipoteticamente necessaria, produca effetti vari e, quindi, anche anomali, purché siano varie le condizioni di essi. Né le eccezioni vengono, per questo, a sottrarsi all’ordine: ciò che viene considerato eccezione, rispetto a un ordine particolare, può e deve rientrare in un ordine universale, quando sia considerato in rapporto a un «Provisor universalis» che, come dice Tommaso, «permittit aliquem defectum in aliquo particolari accedere, ne impediatur bonum totius» (Summa theologiae, I, q. 22, a. 2 ad 2). II concetto di eccezione è affine al concetto di caso, perché entrambi indicano un avvenimento che accade al di fuori di una norma o legge. Se ne distingue, tuttavia, nella misura in cui il caso, oltre ad essere l’eccezione a una norma, non è riconducibile all’intenzione e all’intellezione di un agente; al contrario, per es., il miracolo, in quanto prodotto da Dio, sarebbe un’eccezione alle leggi della natura, ma non avverrebbe a caso. A.M. Moschetti

ECCETTUATIVE, Eccettuative

PROPOSIZIONI: V. PROPOSI-

ZIONI ECCETTUATIVE.

ECCEZIONE (da ex-cipio «prendo fuori» Eccezione exception; Ausnahme; exception; excepción). – Indica, in generale, qualcosa che non avviene secondo una legge o una regola, e che quindi non si può spiegare. Dal punto di vista di una filosofia della natura il termine rinvia al problema riguardante l’essenza delle leggi naturali e, più in generale, al problema dell’ordine cosmico: le cosiddette eccezioni sono forse espressioni, esse stesse, di leggi più particolari, legate a un’assoluta necessità, oppure sono soltanto le più appariscenti manifestazioni di una spontaneità essenziale alla natura, inesauribile nelle sue novità e variazioni? La questione sospinge, pertanto, da una parte verso il determinismo, dall’altra verso il contingentismo. Così considerata, l’eccezione, sia che si presenti come l’effetto di una causa assolutamente necessaria, sia che si presenti come un mero fatto contingente non riducibile ad altri, cessa di essere eccezione in senso proprio, per diventare fatto normale: o di una natura in cui ogni cosa non può che essere quel che è, o di una natura in cui ogni cosa può essere altra da quel che è.

Secondo la filosofia dell’esistenza, l’eccezione esprime il valore insostituibile della singolarità, che si determina come tale di contro al generale. Per Kierkegaard: «Il particolare è l’eccezione e deve rimanere cosciente di sé come tale; e perciò ben lungi dal consigliare agli altri di fare la stessa cosa, deve consigliarli di fare il generale, poiché il particolare è vero soltanto quando suppone la primitività del suo rapporto a Dio. Tutto ciò che non possiede questa primitività è eo ipso ingiustificato quando volesse costituire l’eccezione» (Papirer, XI1 A 485, tr. it. di C. Fabro, Diario, vol. II, Brescia 19833). Per Nietzsche l’uomo d’eccezione è l’«uomo eletto», in contrapposizione all’«uomo medio», uomo del gregge, e all’«ultimo uomo», che subisce, senza comprenderlo, l’evento della «morte di Dio»; al di là di facili letture vitalistiche, l’eccezionalità del «superuomo» nietzscheano si misura appunto sulla capacità di corrispondere ai «grandi eventi» della storia, portandoli a compimento. Per Jaspers l’eccezione «è l’infrangersi concreto di ogni singolo modo di un universale. L’eccezione esperimenta la sua natura eccezionale e l’esclusività come un destino il cui senso le rimane ambiguo». La più chiara espressione 3185

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Eccitazione dell’eccezione è la libertà (Existenzphilosophie, Berlin 1938, pp. 38 ss.). Dal punto di vista del concreto manifestarsi del senso storico della verità, «eccezione» e «autorità» costituiscono insieme una complementarietà in cui si rivela, in forma infinitamente comprensiva, l’unità essenziale, intrinseca e insieme estrinseca, del vero: «Ogni comprensione della verità risulta dall’aprirsi spiritualmente all’eccezione, dal portare lo sguardo su di essa, ma in modo tale che colui che comprende non vuol essere eccezione. Egli si rassegna, come eccezione sottomettendosi all’universale, come universale sapendosi insignificante di fronte al sacrificio che l’eccezione compie» (ibid.; cfr. Von der Wahrheit, München 1948 [1830-33], pp. 747 ss.). Come rileva E. Mounier, occorre ben guardarsi dal considerare l’eccezione come pura prodezza della vita individuale: «se la persona si compie seguendo dei valori situati all’infinito, essa è ben chiamata allo straordinario nel mare stesso della vita quotidiana, ma questo straordinario non la separa dagli altri, ogni persona essendo chiamata allo straordinario. Come scriveva Kierkegaard: “L’uomo veramente straordinario è il vero uomo dell’ordine”» (Le personnalisme, Paris 1950, p. 64). G. Masi - S. Palazzo BIBL: S TAKEDA, Die subjektive Wahrheit und die Ausnahme-Existenz. Ein Problem zwischen Philosophie und Theologie, Würzburg-Amsterdam 1982. ➨ AUTORITÀ; CASO; CONTINGENZA; DETERMINISMO; GENERALE; GIUSTIFICAZIONE, TEORIA DELLA; LEGGE; LIBERTÀ; NECESSITÀ; NORMALE; NORMATIVO; ORDINE; SINGOLARE; SPIEGAZIONE.

ECCITAZIONE (dal lat. tardo excitatione(m), Eccitazione deriv. da ex-citare, composto dal prefisso rafforzativo ex e da citare, intensivo di ciere = muovere, spingere – excitation, Erregung, excitation, excitación). – In neurofisiologia, per «eccitazione» s’intende il processo attraverso il quale una stimolazione esogena o endogena produce una modificazione elettrochimica nelle cellule del tessuto nervoso e muscolare, modificazione che è in grado a sua volta di esercitare la funzione di stimolo su (di «eccitare») altre cellule. L’eccitazione delle cellule nervose è alla base della conduzione dell’impulso nervoso: un neurone «eccitato» può trasmettere l’eccitazione (ovvero la modificazione elettrochimica) ad altri neuroni ad esso connessi mediante sinapsi o può impedire che essa si propaghi. Il processo attivo volto a sopprimere o 3186

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ridurre l’eccitazione di altre cellule nervose o di interi circuiti neuronali è detto «inibizione». Il concetto di eccitazione è strettamente connesso anche a quello di «attivazione», che fa riferimento alla funzione di determinati sistemi di cellule nervose, come il sistema reticolare ascendente, che hanno il compito di «attivare» e modulare l’azione di intere aree del cervello. Meccanismi omeostatici di eccitazione e inibizione sono costantemente in funzione nel sistema nervoso centrale; e la comprensione dei complessi processi elettrofisiologici e biochimici posti alla loro base, delle soglie di eccitazione dei recettori neuronali, dei meccanismi di comunicazione tra neuroni e di trasmissione dell’informazione all’interno dell’asse cerebro-spinale è uno degli obiettivi principali cui oggi tendono le neuroscienze. Dal punto di vista storico, l’eccitazione ha un suo immediato precursore nel concetto di «irritabilità», elaborato dalla fisiologia del XVII secolo, in particolare da F. Glisson, e ripreso nel Settecento da A. von Haller (De partibus corporis humani sensilibus et irritabilibus, Göttingen 1753) per indicare la proprietà dei muscoli di rispondere con una contrazione ad una stimolazione. Nel XIX secolo l’irritabilità è posta da F.J.V. Broussais alla base del suo sistema medico-biologico, secondo il quale la vita sarebbe possibile solo in virtù delle potenzialità «irritative» dei tessuti. L’irritabilità, a suo parere, si manifesta per soglie, si attiva dall’esterno o dall’interno dell’organismo, e può presentarsi in eccesso o in difetto; in tali casi si produce lo scompenso patologico. La patologia, e per esteso anche la patologia nervosa e mentale, sarebbero dovute ad alterazioni quantitative della irritabilità, ovvero all’eccesso o alla mancanza di eccitazione dei differenti tessuti al di sopra e al di sotto del grado che costituisce lo stato di normalità («principio di Broussais»). In psicologia, il termine «eccitazione» è in genere adoperato per designare lo stato psicofisiologico che accompagna un vissuto emozionale e che può essere più o meno intenso, più o meno duraturo, fino a oltrepassare certi limiti fisiologici oltre i quali sconfina nella patologia. Il concetto di eccitazione è stato assunto soprattutto nelle modellizzazioni psicodinamiche. Per esse, il funzionamento normale o patologico della mente sarebbe determinato da meccanismi di regolazione omeostatica dell’eccitazione (riducibili, in ultima analisi, a

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meccanismi psicofisiologici), che mantengono l’equilibrio dell’apparato psichico. In tale prospettiva, la mente è stata concettualizzata sulla base di uno schema di forze, rappresentate da stimoli esterni (sociali, relazionali, culturali) e da pulsioni interne, il cui equilibrio sarebbe dovuto al mantenimento di un livello stabile di eccitazione, ovvero di energia psicofisica. I primi e più noti modelli psicodinamici sono stati elaborati da Pierre Janet e Sigmund Freud. Mentre il modello janetiano non fa ricorso a specifiche energie psichiche per spiegare e regolare i processi nervosi e mentali, Freud invece propone la teoria della «libido», considerata come una particolare energia di carattere sessuale che sottende le pulsioni, il cui aumento e diminuzione, ripartizione e spostamento sarebbe alla base del funzionamento dell’apparato psichico e del suo sviluppo. Nella psicologia contemporanea, il concetto psicofisiologico di eccitabilità è al centro di tutte quelle teorie della personalità che collegano il livello di eccitazione nervosa ai tratti osservabili del comportamento. Seguendo questa impostazione, Pavlov, Eysenck, Strelau, Gray e Zuckerman hanno prospettato teorie secondo cui differenti tipologie del sistema nervoso centrale, caratterizzate da tipici pattern fisiologici di eccitazione e\o inibizione, sarebbero in stretta corrispondenza con diverse tipologie di personalità. R. Foschi BIBL.: W. GERSTNER - W.M. KISTLER, Spiking Neuron Models: Single Neurons, Populations, Plasticity, New York 2002; I.B. LEVITAN - L.K. KACZMAREK, The Neuron: Cell and Molecular Biology, New York 2002; G.P. LOMBARDO - R. FOSCHI, La costruzione scientifica della personalità, Torino 2002; J. SMYTHIES, The Dynamic Neuron: A Comprehensive Survey of the Neurochemical Basis of Synaptic Plasticity, Cambridge (Massachusetts) 2002; M. ZUCKERMAN, Psychobiology of Personality, New York, 20052; E.R. KANDEL - J.H. SCHWARTZ - T.M. JESSEL, Principles of Neural Science, New York 20065.

ECCLES, JOHN CAREW, Sir. – Neurofisiologo Eccles e filosofo australiano n. a Melbourne il 27 genn. 1903, m. a Locarno il 2 magg. 1997. Laureato in medicina nel 1925 a Melbourne, professore di fisiologia all’università di Otago (Nuova Zelanda) dal 1944 al 1951, dal 1952 al 1966 ha insegnato all’Australian National University di Canberra; premio Nobel per la fisiologia nel 1963 per lo studio della trasmissione

Eccles dello stimolo nelle cellule nervose, dal 1968 ha insegnato alla State University of New York (Buffalo). Con Karl R. Popper, è uno dei maggiori esponenti della soluzione dualistica e interazionistica del problema corpo-mente. Come Popper, Eccles rifiuta la concezione materialistica e deterministica della persona umana, perché non si può fornire alcuna spiegazione fisicalistica né dell’emergenza della coscienza negli animali né a maggior ragione dell’autocoscienza umana. Assai più decisamente di Popper, però, Eccles distingue sia fra l’io come centro attivo delle proprie esperienze e l’io come risultato di un particolare processo d’apprendimento sia fra l’uomo e le altre forme di vita animale (v. K.R. Popper - J.C. Eccles, The Self and Its Brain, Berlin - New York 1977, parte III, dialoghi II, III e XI). In particolare, il problema della morte e dell’immortalità concerne soltanto l’uomo, perché soltanto l’uomo possiede l’autocoscienza (cfr. Facing Reality, Berlin - New York 1970, p. 62). Il sentimento dell’unicità personale e il mistero del risvegliarsi alla vita, trovando se stessi esistenti come un io incarnato in un certo corpo e in un certo cervello, conducono anzi alla nozione dell’immortalità personale e a quella della creazione soprannaturale d’ogni singola anima (v. ibi, p. 83; The Self and Its Brain, parte III, dialogo XI). A differenza della concezione parallelistica – qui di nuovo d’accordo con Popper – la mente autocosciente agisce sul cervello, legge selettivamente ciò che avviene nei moduli cerebrali, organizzando l’unità dell’esperienza cosciente e consentendo la realizzazione di scopi e intenzioni (v. p. es. ibi, dialogo VII). Altre opere: The Neurophysiological Basis of Mind, Oxford 1953; The Human Mystery, Berlin 1979; The Human Psyche, Berlin 1980; Evolution of the Brain, New York 1990; How the Self Controls Its Brain, Berlin 1994. M. Buzzoni BIBL.: A. VIGLIANI, Karl Popper and John Eccles, in «Filosofia», 34(1983), pp. 87-144; R.J. DOUGLAS - B.P. KEANEY, Popper and Eccles’ Psychophysical Interaction Thesis Examined, in «Grazer philosophische Studien», 23 (1985), pp. 129-153; G. STOTZ, Person und Gehirn: historische und neurophysiologische Aspekte zur Theorie des Ich bei Popper/Eccles, Hildesheim 1988; H.-J. BIERSACK - H. ECCLES (a cura di), In memoriam Sir John Eccles, Landsberg 2000; C.U.M. SMITH, Renatus Renatus: The Cartesian Tradition in British Neuroscience and the Neurophilosophy of J.C. Eccles, in «Brain and Cognition», 46 (2001), pp. 364-372.

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Ecfanto di Siracusa ECFANTO SIRACUSA. – Pitagorico, visEcfanto di DI Siracusa suto forse nel sec. IV a. C., della sua esistenza si è (a torto) dubitato. Le scarne notizie superstiti lo indicano come figura di un certo interesse e originalità soprattutto su temi cosmologici. Integrò il pitagorismo e la dottrina dei numeri con l’atomismo di Democrito, da lui viceversa rimodellato sui principi pitagorici. Sostenne la corporeità delle monadi pitagoriche (i numeri), trovando nell’atomismo una efficace ipotesi cosmologica che adattò affermando l’unicità del cosmo (rispetto agli infiniti mondi degli atomisti) e l’esistenza di un numero finito di atomi, da cui un numero finito di cose sensibili. Attribuì a ciascun atomo, oltre a forma e dimensione, una forza (dynamis) diversa, e sostituì come cause del movimento i concetti di mente e anima, forze divine, a quelli di peso e impatto esterno, costruendo un cosmo governato dalla provvidenza. Affermò inoltre la rotazione della terra intorno al proprio asse, e l’impossibilità di avere conoscenza vera di ciò che esiste, che si può solo definire come a noi appare. Falsamente ascritto a Ecfanto un ellenistico Peri; basileiva". L. Perilli BIBL.: H. DIELS, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-529, nr. 51; M. TIMPANARO CARDINI, Pitagorici, Firenze 19692, vol. II; W.K.C. GUTHRIE, A History of Greek Philosophy, Cambridge 1962, vol. I, pp. 323327.

ECHARD, JACQUES. – Storico ed erudito, doEchard menicano, n. a Rouen il 22 sett. 1644, m. a Parigi il 15 mar. 1724. Opere: Sancti Thomae Summa suo auctori vendicata, sive de V.F. Vencentii Bellovacensis scriptis dissertatio (Paris 1708); Scriptores Ordinis Praedicatorum recensiti, notisque historicis et criticis illustratis (ivi 1719-21, 2 voll., con tre piccoli supplementi: 1721-23). Nella prima di tali opere Echard mira a difendere l’autenticità della Summa dalle interpretazioni di coloro, come Pierre de Alva e Jean de Launoy, che la facevano derivare dallo Speculum Morale di Vincenzo di Beauvais. Nella seconda Echard, partendo dai risultati cui erano giunte le ricerche di J. Quétif, ampliandole e proseguendole con accresciuto rigore, offre un compiuto studio della storia degli autori del suo ordine (ristampa dell’intera opera, New York 1959, 4 voll.). D. Cerato Minozzi BIBL.: H. DENIFLE, Quellen zur Gelehrtengeschichte des Predigerordens im 13. und 14. Jahrhunderts, in «Ar-

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chiv für Literatur und Kirchengeschichte des Mittelalters», Berlin 1886, pp. 165 ss. (ristampa Graz 1955); R. COULON, Scriptores Ordinis Praedicatorum, Roma 1912, vol. III, pp. 369-375; R. CREYTENS, L’oeuvre bibliographique d’Echard, ses sources et leur valeur, in «Archivum Fratrum Praedicatorum», 14 (1944), pp. 43-71.

ECHECRATE (´Ecekravth"). – Secondo alcuEchecrate ne fonti fu di Fliunte, per altre di Taranto. È nel catalogo dei pitagorici di Giamblico. È a Echecrate che Fedone, nel Fedone platonico, racconta la morte di Socrate e il dialogo di Socrate con Simmia e Cebete, discepoli di Filolao, sull’immortalità dell’anima. Nel Fedone è forse l’unica testimonianza di qualche valore: perché, quando Fedone riferisce l’opinione di Simmia, che l’anima è armonia, Echecrate dichiara di essere sempre stato attratto da questo discorso, e di aver anzi una volta creduto, anche lui, che l’anima fosse una specie d’armonia. Tale opinione era probabilmente di Filolao. Sicché la notizia di Giamblico pare non improbabile. A. Maddalena BIBL.: M. TIMPANARO CARDINI, Pitagorici, Testimonianze e frammenti, Diocle, Echecrate, Polimnasto, Fantone, Arione, vol. II, Firenze 1962, pp. 426-429; A. MADDALENA, I frammenti dei filosofi del sesto e quinto secolo (e i loro immediati seguaci), Diocle, Echerate, Polimnesto, Fantone, Arione, in AA.VV., I Presocratici. Testimonianze e frammenti, tomo I, Bari 1969, 19752, 19813, p. 503; D. DELATTRE, Les Pythagoriciens récents Echécrate, Textes traduits, présentés et annotés, in AA.VV., Les Présocratiques, Paris 1988, pp. 550-551.

ECHEVERRÍA, ESTEBAN. – Poeta, sociologo Echeverría e rivoluzionario argentino, n. a Buenos Aires il 2 sett. 1805, m. a Montevideo il 19 genn. 1851. Ispirandosi a Henri de Saint-Simon pubblicò El dogma socialista (Montevideo 1846); in quest’opera la scienza sociale trovò in Argentina la sua fondazione e il suo indirizzo. Echeverría fu anche un precursore nel postulare l’inserimento delle scienze sociali nel curricolo delle università. S. Contri BIBL.: Obras completas, a cura di J.M. Gutiérrez, Buenos Aires 1870-74, 5 voll.. Su Echeverría: J. INGENIEROS, Sociologia argentina, Buenos Aires 1918, pp. 301-329; A. PALACIOS, Esteban Echeverría, albacea del pensamiento de mago, Buenos Aires 19553; A. PALCOS, Historia de Echeverría, Buenos Aires 1960.

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ECKHART (Eckehart; Meister Eckhart; MagiEckhart ster Eckardus; Ekhardus; Aychardus). – Filosofo e mistico, domenicano, n. ad Hochheim presso Gotha verso il 1260, m. ad Avignone probabilmente il 20 genn. 1328. SOMMARIO: I. Vita, opere, significato. - Il. Unità di Dio, generazione, creazione. - III. La vita dell’anima. I. VITA, OPERE, SIGNIFICATO. – Entra nell’ordine dei domenicani a Erfurt e compiuti i suoi studi in Germania viene inviato a perfezionarsi a Parigi (ove nel 1293-94 è baccelliere sentenziario). Dal 1294 al 1298 è priore del convento di Erfurt e vicario del provinciale Teodorico di Freiberg per la Turingia. Insegna quale magister sacrae theologiae a Parigi dal 1302 al 1303 sulla cattedra riservata ai domenicani non francesi. Nel settembre 1303 viene eletto priore provinciale della nuova provincia domenicana della Germania orientale (Saxonia), e mantiene la carica sino al 1310. La sua successiva elezione a priore dell’altra provincia tedesca (Teutonia) viene cassata dalla direzione dell’Ordine per consentirgli un nuovo periodo di insegnamento a Parigi (1311-13). Negli anni 1314 e 1316 è documentato puntualmente a Strasburgo; nel 1322 compie per incarico del Generale una visita disciplinare al monastero femminile di Unterlinden (Colmar). La critica ritiene comunemente che egli risiedesse a Strasburgo con l’incarico della supervisione dei monasteri femminili sottoposti alla cura pastorale dell’ordine domenicano, ma si tratta di ipotesi senza adeguata base documentaria. Nel 132526 è sicuramente a Colonia (documentazione raccolta e pubblicata per intero in L. Sturlese [a cura di], Acta Echardiana, in Die lateinischen Werke, vol. V, pp. 155-193). Nel 1326 due suoi confratelli lo denunciano all’arcivescovo Enrico di Virneburg, mettendo così in movimento un pericoloso processo per eresia «per promoventem». I materiali di accusa (due liste di tesi estratte dalle sue opere latine e tedesche per un totale di 107; ricostruzione in L. Sturlese, op. cit., nn. 46-47, pp. 198-246) ci sono pervenuti tramandati all’interno di un memoriale di difesa redatto da Eckhart in vista della prima udienza del processo, fissata per il 26 settembre 1326 (ed. L. Sturlese, Responsio, in Die lateinischen Werke, vol. V, pp. 247-354). Eckhart si appella il 13 febbraio 1327 al papa e il processo, nonostante l’opposizione dei giudici delegati di Colonia, viene avocato da Avignone. Da questo punto in poi il processo as-

Eckhart sume il carattere di procedimento di censura dottrinale, e viene gestito presso la corte papale avignonese da una commissione che sollecita perizie esterne (una di esse viene stesa dal futuro papa Benedetto XII; L. Sturlese, Acta, cit., n. 58), seleziona dai materiali di accusa 28 tesi erronee, le sottopone ad Eckhart e contesta punto per punto la sua difesa. Il processo si conclude il 27 marzo 1329, data della pubblicazione della bolla con cui il papa Giovanni XXII condanna tutte le proposizioni incriminate (gli atti relativi alla fase avignonese del processo e la bolla di condanna in L. Sturlese, Acta, cit., nn. 56-67) e sottolinea il fatto che Eckhart, nel corso del processo, ha revocato le proposizioni incriminate «nella misura in cui potessero generare un significato eretico negli ascoltatori, e quanto a quel significato» (secondo W. Trusen, Der Prozeß gegen Meister Eckhart: Vorgeschichte, Verlauf und Folgen, «Rechts- und staatswissenschaftliche Veröffentlichungen der Görres-Gesellschaft», nuova serie, vol. LIV, Paderborn 1988, pp. 120-121, citazione da un documento notarile perduto). Eckhart non vedrà la sua condanna. Muore molto probabilmente il 20 gennaio 1328 (L. Sturlese, Acta, cit., n. 61). La sua memoria verrà difesa da Enrico Suso nel Buch der Wahrheit, da Giovanni Tauler nelle sue prediche e da un gruppo di anonimi seguaci che cureranno la pubblicazione delle sue opere, noncuranti della condanna (L. Sturlese, Die Kölner Eckhartisten, in A. Zimmermann [a cura di], Die Kölner Universität im Mittelalter: geistige Wurzeln und soziale Wirklichkeit, «Miscellanea mediaevalia», vol. XX, Berlin 1989, pp. 192-211; Heinrich Seuse, Das Buch der Wahrheit, a cura di L. Sturlese e R. Blumrich, «Philosophische Bibliothek», vol. CDLVIII, Hamburg 1993, pp. XIX-XXI). L’ordine cronologico delle opere eckhartiane è ricostruibile soltanto a grandi linee nel modo seguente: a) predica latina per la Pasqua e Collatio in Libros Sententiarum, documento della sua attività di baccelliere (1294); b) le Rede («Discorsi», così il titolo originale; nell’ed. Quint: Reden der Unterscheidung) sono immediatamente successive (Erfurt, 1298 ca.); c) le «quaestiones» Utrum in Deo, Utrum intelligere angeli, Utrum laus Dei e una predica per la festa di sant’Agostino risalgono al periodo di insegnamento a Parigi nel 1302-03; d) intorno al 1304 è già in fase di elaborazione l’Opus tripartitum, di cui sono ricostruibili almeno tre stati 3189

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Eckhart redazionali, il primo dei quali tramandato da un codice amploniano (Prologi, In Genesim I, In Exodum, In Ecclesiastici cap. XXIV, In Sapientiam), mentre l’ultimo – probabilmente una sorta di edizione postuma del suo lascito realizzata da parte di un gruppo di fedeli discepoli – è documentato completamente dal codice di Cusa 21 (Prologi, In Genesim I, In Genesim II, In Exodum, In Ecclesiastici cap. XXIV, In Sapientiam, In Iohannem e Sermoni latini), e parzialmente da codici oggi conservati a Treviri e Berlino (elenco dei manoscritti in Die lateinischen Werke, vol. III, pp. IX-XIV). Nel mezzo si situa la redazione, sicuramente genuina, di In Genesim II (ancora nella forma di prima parte di un più ampio Liber parabolarum rerum naturalium, e concluso da un indice delle cose notevoli eliminato nella redazione finale), Prologi e In Genesim I, conservata in un codice oxoniense recentemente ritrovato. Le «quaestiones» Utrum aliquem motum, Utrum in corpore Christi appartengono agli anni 1311-13; alla stessa epoca risale probabilmente anche il Liber benedictus (composto dal Buch der göttlichen Tröstung e dalla predica Von dem edeln Menschen). Sull’ordine cronologico delle numerose prediche tedesche (circa 120 sono attualmente riconosciute autentiche) è difficile fare supposizioni, perché Eckhart le raccolse probabilmente in un quaderno sottoposto ad aggiunte, integrazioni e correzioni per un lungo lasso di tempo, e dal quale furono in diverse occasioni tratte e messe in circolazione singolarmente o a piccoli gruppi (cfr. L. Sturlese, Hat es ein Corpus der deutschen Predigten Meister Eckharts gegeben?, in A. Speer - L. Wegener, Meister Eckhart in Erfurt, «Miscellanea mediaevalia», vol. XXXII, Berlin 2005, pp. 393-408). Recenti progressi della critica hanno contribuito a definire con sempre maggior ricchezza di dettagli l’orizzonte storico-culturale nell’ambito del quale Eckhart maturò e discusse il suo progetto filosofico. Si tratta della Germania fra Due- e Trecento, un ambiente segnato dal monopolio culturale dell’ordine domenicano (che regge e alimenta, a partire dal 1248, lo Studium generale di Colonia, per un intero secolo unica università di rilievo nella Mitteleuropa sino alla fondazione di Praga, avvenuta nel 1348) ed occupato a sviluppare l’eredità filosofica, teologica e scientifica di Alberto il Grande. Ad Alberto, Eckhart si richiama nella sua più antica predica a noi pervenuta (1294, Parigi; Sermo Paschalis, Die lateinischen Werke, 3190

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vol. V, n. 13, p. 145). Con Alberto e Teodorico di Freiberg, Eckhart condivide la problematica dell’«intelletto in quanto intelletto», e cioè il problema – di origine averroistica – della conciliazione dell’individualità della funzione cognitiva con l’universalità dei contenuti dell’intelletto scientifico. La filosofia dell’intelletto presentata a Parigi nel corso del suo insegnamento è elaborata probabilmente in una feconda e critica discussione con Teodorico, con il quale Eckhart aveva documentati rapporti personali (è suo vicario, sono entrambi a Tolosa nel 1304; L. Sturlese, Acta, cit., n. 10, pp. 161-162), e il quale, secondo una recente scoperta, nel suo De visione beatifica (in Opera omnia, vol. I: Schriften zur Intellekttheorie, ed. a cura di B. Mojsisch, Hamburg 1977, pp. 39-41) discute puntualmente la dottrina dell’immagine contenuta nel primo commento al Genesi di Eckhart (ed. a cura di L. Sturlese, Die lateinischen Werke, vol. I-2, n. 115, pp. 154-155). Nel grande progetto di un Opus tripartitum, che prevede un commentario sistematico all’intera Scrittura, Eckhart avvia l’indagine delle conseguenze metafisiche e teologiche del concetto di intelletto così elaborato, e in una intensa attività predicatoria in lingua latina e tedesca (le cui bozze egli conserva con cura) ne sviluppa con rigore il potenziale antropologico. È l’intelletto che, in quanto immagine di Dio, sta in rapporto di correlazionalità univoca con il suo principio, ne fluisce e vi ritorna in un movimento sovratemporale di identità e differenza e costituisce l’occulto fondamento del singolo uomo, che tuttavia vive nell’esteriorità e nell’inconsapevolezza di sé. Tutta la predicazione di Eckhart è rivolta a sollecitare la riscoperta del fondamento divino, eterno e «increato» dell’uomo, che ne costituisce la ragione di vera «nobiltà» e di motivazione etica. Nelle prediche tenute in occasione di diversi Capitoli provinciali (Die lateinischen Werke, vol. II, pp. 229-300; cfr. L. Sturlese, Acta, cit., n. 33, p. 179) Eckhart presenta la sua dottrina all’élite dell’Ordine, esplicitando così le linee di un coerente e filosofico progetto di riforma morale e di fondazione della «dignità dell’uomo» cristiano e della sua vera libertà, del quale egli si fa instancabile portatore dalla cattedra e dal pulpito. L. Sturlese

II. UNITÀ DI DIO, GENERAZIONE, CREAZIONE. – Nella «quaestio» parigina Utrum in deo sit idem esse et intelligere, l’esigenza dell’unità lo conduce a

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porre Dio al di sopra dell’essere; se l’essere è molteplice e determinato – aliquid determinatum – Dio è altius ente; non è ente, ma causa dell’ente, «quia nihil est formaliter in causa et causato, si causa sit vera causa». Dio, per essere causa di ogni essere, dev’essere privo di ogni essere: egli è la puritas essendi, il suo esse è risolto nell’intelligere, e l’intelligere identificato all’operari: «Eius actio est ipsius substantia; ipsi agere vel operari est esse». La prima proposizione dell’Opus tripartitum, «Esse est deus», sembra contraddire senz’altro alla tesi precedente. In realtà, essa è la conferma ontologica della questione parigina. Dio non è questo o quell’ente determinato, ma è la pienezza dell’essere, il pelagus infinitae substantiae. Non possiamo definirlo, poiché ogni definizione è una delimitazione e perciò una negazione. Dio è negatio negationis: è l’infinito che si distingue dal finito ed eccede ogni finito con la sua infinitezza: «Deus indistinctum quoddam est, quod sua indistinctione distinguitur». La trascendenza divina sembra così difesa e garantita: se Dio, in quanto essere, è sostegno ontologico di ogni essere finito (esse commune omnibus), egli, in quanto infinito, trascende ogni essere in maniera assoluta: «Deus est rebus omnibus intimus, utpote esse, et sic ipsum edit omne ens; est et extimus, quia super omnia et sic extra omnia» (In Ecclesiastici cap. XXIV, n. 54, Die lateinischen Werke, vol. II, pp. 282-283). La teologia negativa sembra essere a questo punto l’ultima parola: «Deus ineffabilis et incomprehensibilis est, et in ipso omnia sunt ineffabiliter» (cfr. Sermones, IV 1 n. 28, Die lateinischen Werke, vol. IV, p. 28; Predigten, 9, in Die deutschen Werke, vol. I, pp. 141 ss. ecc.). L’esigenza monistica, che lo accomuna agli eleati (è significativo, a questo proposito, il suo richiamo a Parmenide e a Melisso; cfr. Prologi in Opus tripartitum, proposizione n. 5, Die lateinischen Werke, vol. I, p. 168), lo porta così a distinguere divinitas e deus: la «Divinità» è il fondo oscuro, in cui nessuna distinzione è possibile, è la natura innaturata (ungenatûrte natûre), che «sub ratione esse et essentiae quasi dormiens et latens abscondita in se ipsa, nec generans nec genita est» (cfr. Predigten, 109, in Die deutschen Werke, vol. IV, pp. 761 ss.): essa abita in una luce a cui nessuno giunge, perché è al di là di ogni alterità e relazione; come natura naturata (genatûrte natûre), «Dio» è paternità, fecondità, essentia cum relatione: come tale è Padre, e il ritmo della sua generazio-

Eckhart ne interiore si attua nella trinità delle ipostasi; è creatore, e la sua opera si rinnova attimo per attimo e vive nelle creature e in esse perennemente si riconosce e si ama. Nel dogma della Trinità Eckhart ritrova così l’uno e la vita dell’uno: l’unità divina si articola e vive nella relazione e nell’alterità per essere più intima a se stessa, non per uscire da sé. La generazione e la creazione non violano dunque l’unità assoluta. La generazione si compie nell’eternità, ed è alterità nell’unità; ma poiché «quod est in uno, unum est», l’alterità non spezza l’unità, ma la rende possibile come vita perenne: il Padre trasfonde nel Figlio tutto ciò che egli è, ed è Padre in quanto genera il Figlio; e il Figlio è Figlio in quanto è identico al Padre e immagine del Padre. «Ma l’immagine, come tale, nulla di sé riceve dal soggetto in cui è, ma riceve tutto l’essere suo dall’oggetto di cui è immagine»: perciò in Dio l’esemplare e l’immagine sono una cosa sola (cfr. In Iohannem, nn. 23-27, in Die lateinischen Werke, vol. III, pp. 19-22; nn. 36-37, pp. 30-32; Sermones, L, n. 514, in Die lateinischen Werke, vol. IV, p. 530). Nemmeno la creazione può turbare l’unità divina: poiché fuori dell’essere non c’è nulla, Dio non crea fuori di sé, ma in se stesso; e non esce da sé, ma «in se ipso solo quiescit. Deus omnia operatur in se ipso», poiché «omne quod est a deo, est in deo». Dio non è dunque la totalità degli enti, ma la totalità degli enti è in Dio: panenteismo, non panteismo. Nessuna cesura temporale separa il creato dal Creante: l’atto creatore è eterno e incessante: «Simul enim et semel quo deus fuit, quo filium sibi coaeternum per omnia aequalem deum genuit, etiam mundum creavit» (In Genesim, I, n. 7, in Die lateinischen Werke, vol. I-2, p. 65; cfr. anche In Iohannem, n. 216, in Die lateinischen Werke, vol. III, pp. 181-182; Sermones, XLV, n. 458, in Die lateinischen Werke, vol. IV, p. 380; è questa la III delle proposizioni condannate) e l’atto con cui egli provvede al mondo è un atto di continua creazione: «Dio crea adesso il mondo in quella stessa e precisa maniera in cui l’ha creato il primo giorno» (Predigten, 78, in Die deutschen Werke, vol. III, pp. 351 ss.). In realtà, con questa teoria, che gli inquisitori si sono affrettati a condannare, Eckhart non intendeva affatto consolidare ontologicamente la realtà creata in quanto tale. Eckhart non è il metafisico della creatio, ma della generatio – cioè della realtà intelligibile che ab aeterno emana da Dio e che è l’unica realtà. Ciò che di3191

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Eckhart viene nel tempo e nello spazio, ciò che muta, ciò che è molteplice e sensibile, vale a dire il «creato», non è reale. Così afferma la XXVI delle proposizioni condannate: «Omnes creaturae sunt unum purum nihil. Non dico quod sint quid modicum vel aliquid, sed quod sint purum nihil». All’assoluta realtà dell’uno è contrapposto il non essere della molteplicità come tale: «Multa, ut multa non sunt». Soltanto l’atto dell’intelligere divino fonda l’essere autentico; soltanto il pensiero di Dio è; perciò «cogitatio sine intellectu est omnis cogitatio mala vel de malo aut etiam de praeterito vel futuro sive de ente quocumque includente nihil, id est negationem» (In Sapientiam, n. 10, in Die lateinischen Werke, vol. II, pp. 330-331). Non c’è realtà fuori dell’intelligibile puro, che è essenziale e universale: «Tolle scientiam, remanet unum purum nihil». Perciò, se fuori di Dio è nulla, il mondo creato, aggiunto a Dio, non costituisce accrescimento dell’essere, poiché è assurdo pensare che esso possa aggiungere qualcosa a Dio: «Qui acciperet totum mundum una cum deo, ille non haberet plus quam si ipse solum deum haberet» (Processus Coloniensis I, ed. a cura di L. Sturlese, in Die lateinischen Werke, Stuttgart 1936-, vol.V, n. 106, p. 344). Nessuna autosufficienza appartiene alle cose create; e se di una loro natura è lecito parlare, essa consiste «in continuo fluxu et fieri», come desiderio e tensione dell’essere (In Sapientiam, n. 292, in Die lateinischen Werke, vol. II, p. 627): fuori dell’essere «inquieta sunt omnia»; in Dio, che è quiete (rûowe), ogni cosa s’acquieta e sussiste. La materia è puro non-essere e come tale non dà nulla di sé al composto; ciò che la creatura possiede, lo «riceve» da Dio, e Dio «dona» ciò che «è», tutto ciò ch’egli è: «deus nescit parum dare». Dentro questa «metafisica della generazione», sbiadiscono i fondamenti storici del cristianesimo: il peccato originale e l’esistenza storica di Gesù. Adamo è il paradigma extratemporale della creatura, considerata nel tempo e nello spazio, come individualità effimera e inconsistente; il Cristo storico è il simbolo visibile della nascita divina che si compie in ogni anima buona (cfr. la XII proposizione condannata). I richiami alle vicende della sua vita visibile, alla nascita, alla morte, alla resurrezione, all’ascensione, vogliono segnare i momenti dialettici essenziali della vita dello spirito, sempre identica a se stessa nel suo valore 3192

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eterno. Il pensiero eckhartiano è sì cristocentrico nel suo teocentrismo, ma solo in quanto considera Dio come generante piuttosto che come creante, e il Figlio, «qui semper natus est et semper nascitur», come Verbo eterno e non come Verbo incarnato. La storicità non conserva che il valore di un puro simbolo. III. LA VITA DELL’ANIMA. – A queste condizioni metafisiche, cioè dentro l’ambito della generazione eterna, è possibile la vita spirituale dell’anima. Il suo fine supremo è Dio, fuori del quale è nulla. La generazione eterna del Figlio si compie nell’anima in ogni istante, ogni qualvolta Dio lo generi in essa e l’anima possa accoglierlo. Soltanto nell’anima si apre e si chiude il ciclo della vita divina: in essa Dio si riconosce e si ama. In questo ritorno dell’anima a Dio il «creato» è ciò che deve essere abbandonato e trasceso, affinché ciò che dev’essere sia; la sua funzione è puramente dialettica. Il distacco (Abgeschiedenheit) è perciò la condizione primaria del ritorno, è la virtù per eccellenza. L’anima deve distaccarsi dall’immediato, cioè dal sensibile, dal molteplice, dal contingente. Il suo fare, in cui consiste la sua eticità, è perciò un non-fare, è un toglier via le apparenze sensibili, affinché in essa sia e agisca soltanto Dio. Il fare di Dio, che è nulla se non si attua in noi, nella nostra coscienza di esseri pensanti, esige il nostro non-fare. L’epifania della luce divina coincide con la nostra umiltà: «Humilis homo est ita potens super deum, sicut ipse sui ipsius; et quidquid est in omnibus angelis et omnibus sanctis, hoc est proprium humilis hominis. Quidquid deus operatur, hoc operatur ipse, et quidquid deus est, hoc ipse est, una vita et unum esse» (Processus Coloniensis II, ed. a cura di L. Sturlese, in Die lateinischen Werke, Stuttgart 1936-, vol.V, n. 57, p. 314). Alle parvenze sensibili l’anima è radicata con le sue facoltà inferiori (memoria, fantasia, desiderio ecc.), e le parvenze sono radicate in essa: un nulla che sorregge un nulla. In rapporto con le cose, l’anima assume nomi e funzioni, esteriorizzandosi dimentica se stessa. Soltanto l’atto intellettivo le fa ritrovare l’essere e se stessa; ma l’universale, cui giunge mediante l’astrazione (che è il suo non-fare teoretico), non è opera dell’anima: è ciò che rimane e si svela quando abbiamo tolto via ciò che si nascondeva, è il Verbo che Dio genera in noi quando noi ci offriamo a lui in nudità assoluta. Qui l’uomo si spoglia della sua individualità creaturale, diventa figlio di Dio, uomo univer-

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sale, luogo della verità: quella conoscenza non è più la sua azione, ma l’azione di Dio in lui. Nella ritrovata unità del verbo eterno, in cui il creato ritorna e si risolve, l’opera esteriore, nata da uno stimolo esterno e rifluente nel mondo delle relazioni estrinseche e perciò non libera ma servile, perde significato e valore (cfr. le proposizioni condannate XVI-XIX); le stesse opere comandate dalla chiesa sono tutt’al più occasioni e avviamenti. Non perché Eckhart esalti un quietismo inerte: l’uomo deve agire come agisce Dio, in un completo distacco dalle conseguenze pratiche dell’azione, deve agire «senza un perché», soltanto per amore di Dio: «Omne opus habens quare ipsum ut sic non est divinum nec fit deo» (In Exodum, n. 247, in Die lateinischen Werke, vol. II, p. 201). Ancora una volta, la virtù così intesa è ciò che rimane nel nostro intimo: «virtus habet radicem in fundo divinitatis radicatam et plantatam, ubi habet esse suum vel essentiam suam et solum ibi et nusquam alibi» (Processus Coloniensis I, ed. a cura di L. Sturlese, in Die lateinischen Werke, Stuttgart 1936-, vol.V, n. 56, p. 217). Ma l’anima deve procedere ancora, oltre l’intelligere (che è relazione e alterità), oltre «Dio», verso quell’abissale «divinità», dove non c’è distinzione, ma unità assoluta. Ora, l’unione perfetta non sarebbe possibile se l’anima si esaurisse tutta nelle sue «facoltà» inferiori e superiori; nel suo «fondo» l’anima è senza nome, come la stessa ineffabile divinitas: «Aliquid est in anima ita cognatum deo, quod est unum et non unitum» (Processus Coloniensis I, ed. a cura di L. Sturlese, in Die lateinischen Werke, Stuttgart 1936-, vol.V, n. 71, p. 225): è questo l’abditum animae, la scintilla (vünkelin), il fondo dell’anima (grunt der sele), in cui l’anima si identifica con la divinità e il cerchio divino si chiude; è quell’increatum in anima, che rimane indubbiamente il punto più controverso e incriminato della sua metafisica. G. Faggin BIBL.: l’ed. delle opere complete, sia latine che tedesche, è in corso dal 1936, esce a fascicoli e si sta avviando alla conclusione: Die deutschen und lateinischen Werke. Die lateinischen Werke: vol. I-1: Prologi in Opus tripartitum, Expositio libri Genesis, Liber Parabolarum Genesis, 1964, a cura di K. Weiß; vol. I-2: Prologi in Opus tripartitum, Expositio libri Genesis sec. recensionem cod. L, Liber Parabolarum Genesis, editio altera, a cura di L. Sturlese, 1987-92; vol. II: Expositio libri Exodi, Sermones et Lectiones super Ecclesiastici cap. XXIV, Expositio libri Sapientiae, Expositio Cantici

Eckhart I,6, a cura di H. Fischer - J. Koch - K. Weiß, Stuttgart 1992; vol. III: Expositio sancti Evangelii secundum Iohannem, a cura di K. Christ - B. Decker - J. Koch H. Fischer - L. Sturlese - A. Zimmermann, Stuttgart 1994; vol. IV: Sermones, a cura di B. Decker - J. Koch, Stuttgart 1956; vol. V: Collatio in libros Sententiarum, Quaestiones Parisienses, Sermo die b. Augustini Parisius habitus, Tractatus super Oratione dominica, Sermo Paschalis, Acta Echardiana, 1936-2000, a cura di E. Benz - B. Geyer - J. Koch - E. Seeberg - L. Sturlese (ancora in corso i voll. I-2 e V); Die deutschen Werke: vol. I: Predigten, 1-24, a cura di J. Quint, Stuttgart 1958; vol. II: Predigten, 25-59, a cura di J. Quint, Stuttgart 1971; vol. III: Predigten, 60-86, a cura di J. Quint, Stuttgart 1976; vol. IV-1: Predigten, 87-105, a cura di G. Steer, Stuttgart 2003; vol. IV-2: Predigten, 106 ss., a cura di G. Steer, Stuttgart 2003; vol. V: Traktate: Liber benedictus, Die rede der underscheidunge, Von abegescheidenheit, a cura di J. Quint, Stuttgart 1963; (in corso il vol. IV-2). L’ed. è corredata da una tr. ted. L’indice tematico del Gn II, ritrovato nel 1985, in L. STURLESE, Meister Eckhart, Tabula contentorum in Libro parabolarum Genesis secundum ordinem alphabeti, in AA.VV., Scritti in onore di Eugenio Garin, Pisa 1987, pp. 39-50. Testo critico dei voll. IIII e V delle opere tedesche e un’antologia delle latine, con commentario esplicativo, in N. LARGIER (a cura di), Meister Eckhart: Werke, «Bibliothek deutscher Klassiker», vol. XCI-XCII, Frankfurt a. M. 199293. Un commentario alle prediche a cura di diversi specialisti è in corso: G. STEER - L. STURLESE (a cura di), Lectura Eckhardi: Predigten Meister Eckharts von Fachgelehrten gelesen und gedeutet, Stuttgart 1998 ss. (2 voll. pubblicati). Traduzioni italiane: Trattati e prediche, a cura di G. Faggin, Milano 1982, (ampia scelta di Die deutschen Werke, voll. I-II e V); a cura di M. Vannini: Opere tedesche, Firenze 1982 (Die deutschen Werke, voll. I e V); I sermoni latini, Roma 1989; Commento alla Genesi, «Ascolta Israele!», vol. VI, Genova 1989; Commento all’Ecclesiastico, Firenze 1990; Commento al Vangelo di Giovanni, Roma 1992; Una mistica della ragione, ed. a cura di G. Penzo, vol. XLVI, Padova 1992 (antologia); Prediche, Milano 1995 (scelta da Die deutschen Werke, voll. II e III). Traduzioni francesi: Les traités, a cura di J. Ancelet-Hustache, Paris 1971; Sermons, ed. a cura di J. AnceletHustache, Paris 1979, 3 voll.; L’oeuvre latine de Maître Eckhart, ed. a cura di F. Brunner - A. de Libera - E.H. Wéber - E. Zum Brunn, vol. I: Le Commentaire de la Genèse, précédé des Prologues, Paris 1984; vol. VI: Le Commentaire de l’Évangile selon saint Jean, Le Prologue (chap. 1, 1-18), Paris 1989; Traités et Sermons, a cura di A. de Libera, Paris 1993. Tr. ingl.: Parisian Quaestions and Prologues, a cura di A. Maurer, Toronto 1974; The Essential Sermons, Commentaries, Treatises and Defense, a cura di E. Colledge - B. McGinn, London - New York 1981; Teacher and Prea-

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Eckhart cher, a cura di B. McGinn, New York - London 1986; Selected Writings, a cura di O. Davies, London 1994. Su Meister Eckhart: bibl. esaustiva sino al 1988 in N. LARGIER, Bibliographie zu Meister Eckhart, Fribourg 1989; un bilancio delle nuove interpretazioni in L. STURLESE, Recenti studi su Eckhart, in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 66 (1987), pp. 368-377. Fra le opere più recenti si segnala: H. FISCHER, Meister Eckhart: Einführung in sein philosophisches Denken, Freiburg 1974; K. FLASCH, Die Intention Meister Eckharts, in H. RÖTTGES - B. SCHEER - J. SIMON (a cura di), Sprache und Begriff: Festschrift für Bruno Liebrucks, Meisenheim 1974, pp. 292-318; K. ALBERT, Meister Eckharts These vom Sein: Untersuchungen zur Metaphysik des Opus tripartitum, Saarbrücken-Kastellaun 1976; A. KLEIN, Meister Eckhart: la dottrina mistica della giustificazione, Milano 1978; C. SMITH, The Way of Paradox: Spiritual Life as Taught by Meister Eckhart, London 1978, tr. it. di G. Gastone, La via del paradosso: la vita spirituale secondo Maestro Eckhart, Milano 1992; E. WALDSCHÜTZ, Meister Eckhart: eine philosophische Interpretation der Traktate, Bonn 1978; B. WELTE, Meister Eckhart: Gedanken zu seinen Gedanken, Freiburg-Basel-Wien 1979; A. DE LIBERA, Le problème de l’être chez Maître Eckhart, «Cahiers de la Revue de Théologie et de Philosophie», vol. IV, Genève-Lausanne-Neuchâtel 1980; B. MOJSISCH, Meister Eckhart: Analogie, Univozität und Einheit, Hamburg 1983; AA.VV., Maître Eckhart à Paris: une critique médiévale de l’ontothéologie. Les Questions parisiennes n. 1 et n. 2 d’Eckhart, Paris 1984; A. DE LIBERA, Introduction à la mystique rhénane: d’Albert le Grand à Maître Eckhart, Paris 1984, tr. it. di A. Granata, Introduzione alla mistica renana, Milano 1998; É. ZUM BRUNN - A. DE LIBERA, Maître Eckhart: métaphysique du Verbe et théologie négative, Paris 1984; K. RUH (a cura di), Abendländische Mystik im Mittelalter, «Symposium Kloster Engelberg 1984», Stuttgart 1986; F. TOBIN, Meister Eckhart: Thought and Language, Philadelphia 1986; K. FLASCH, Meister Eckhart: Versuch, ihn aus dem mystischen Strom zu retten, in P. KOSLOWSKI (a cura di), Gnosis und Mystik in der Geschichte der Philosophie, Zürich-München 1988, pp. 94-110; W. TRUSEN, Der Prozeß gegen Meister Eckhart, Paderborn 1988; K. RUH, Meister Eckhart: Theologe-Prediger-Mystiker, München 19892, tr. it. di M. Vannini, Meister Eckhart: teologo, predicatore, mistico, Brescia 1989; L. STURLESE, Die Kölner Eckhartisten, in A. ZIMMERMANN (a cura di), Die Kölner Universität im Mittelalter: geistige Wurzeln und soziale Wirklichkeit, Berlin - New York 1989, pp. 192211; E. WALDSCHÜTZ, Denken und Erfahren des Grundes: zur philosophischen Deutung Meister Eckharts, Wien-Freiburg-Basel 1989; O. DAVIES, Meister Eckhart: Mystical Theologian, London 1991; M. VANNINI, Meister Eckhart e «il fondo dell’anima», Idee, vol. LXXXVII, Roma 1991; U. KERN, La conoscenza come

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conoscenza di Dio: aspetti epistemologici della teoria dell’intelletto di Meister Eckhart, in G. FERRETTI (a cura di), Filosofia e teologia nel futuro dell’Europa, «Colloquio di filosofia e religione, Macerata, 24-27 ottobre 1990», Università degli studi di Macerata, «Pubblicazioni della Facoltà di lettere e filosofia, vol. LVIII, Atti di convegni», vol. XV, Genova 1992, pp. 239-258; H. STIRNIMANN - R. IMBACH (a cura di), Eckardus Theutonicus, homo doctus et sanctus, Fribourg 1992; L. STURLESE, Mistica o filosofia? A proposito della dottrina dell’immagine di Meister Eckhart, in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 71 (1992), pp. 4964; W. BEIERWALTES, Primum est dives per se: Meister Eckhart und der «Liber de causis», in E.P. BOS - P.A. MEIJER (a cura di), On Proclus and His Influence in Medieval Philosophy, Leiden - New York - Köln 1992; P. REITER, Der Seele Grund. Meister Eckhart und die Tradition der Seelenlehre, Würzburg 1993; R. MANSTETTEN, Esse est Deus: Meister Eckharts christologische Versöhnung von Philosophie und Religion und ihre Ursprünge in der Tradition des Abendlandes, Freiburg-München 1993; L. STURLESE, Meister Eckhart: ein Porträt, Regensburg 1993; M. VANNINI, Dio, l’essere e il nulla in Meister Eckhart, in «Doctor Seraphicus», 40-41 (1993-94), pp. 35-48; L. STURLESE, Meister Eckhart in der Bibliotheca Amploniana: Neues zur Datierung des Opus tripartitum, in A. SPEER (a cura di), Die Bibliotheca Amploniana: ihre Bedeutung im Spannungsfeld von Aristotelismus, Nominalismus und Humanismus, «Miscellanea mediaevalia», vol. XXIII, Berlin - New York 1995, pp. 434-446; U. KERN, Die Anthropologie des Meister Eckhart, Hamburg 1995; I. KAMPMANN, «Ihr sollt der Sohn selber sein!»: eine fundamentaltheologische Studie zur Soteriologie Meister Eckharts, Frankfurt a. M. 1996; G. PENZO, Invito al pensiero di Eckhart, Milano 1997; W. GORIS, Einheit als Prinzip und Ziel: Versuch über die Einheitsmetaphysik des «Opus tripartitum» Meister Eckharts, Leiden 1997; K. JACOBI (a cura di), Meister Eckhart: Lebensstationen - Redesituationen, Berlin 1997; N. WINKLER, Meister Eckhart zur Einführung, Hamburg 1997; A. SACCON, Nascita e logos: conoscenza e teoria trinitaria in Meister Eckhart, Napoli 1998; C. CAVICCHIOLI, Essere, Parola, Silenzio. Introduzione alla filosofia mistica di Meister Eckhart, Bologna 1998; E. ZUM BRUNN (a cura di), Voici Maître Eckhart: textes et études, Grenoble 1998; B. MCGINN, The Mystical Thought of Meister Eckhart, New York 2001; L. STURLESE, Eckhart, l’inquisizione di Colonia e la memoria difensiva conservata nel codice Soest 33, in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 80 (2001), pp. 62-89; A. BECCARISI, Libertà e intelletto: una lettura di Eckhart, Predica 1 (Quint), in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 82 (2003), pp. 383-401; A. BECCARISI, Philosophische Neologismen zwischen Latein und Volkssprache: «istic» und «isticheit» bei Meister Eckhart, in «Recherches de Théologie et Philosophie Médiévales», 70

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(2003), pp. 329-358; D. MIETH, Meister Eckhart: Mystik und Lebenskunst, Düsseldorf 2004; A. SPEER - L. WEGENER (a cura di), Meister Eckhart in Erfurt, Berlin - New York 2005.

ECKHART IL GIOVANE. – Mistico domeniEckhart il Giovane cano tedesco: si sa soltanto che fu discepolo di Meister Eckhart, che appartenne al convento di Erfurt e che morì nel 1337 (cfr. J. Quétif J. Echard, Scriptores Ordinis Praedicatorum, Paris 1719-21, ripr. New York 1959, Torino 1965, vol. I). Ci sono rimasti di lui due sermoni (La perfetta rassegnazione; Quanto s’impara alla scuola del Signore) e una lettera (nelle opere di Tauler, Sermones de tempore et de sanctis totius anni: reliquaque eius opera omnia, con tr. lat. di L. Surius, Coloniae 1613, pp. 11-13, 46-48, 807-808, tr. fr. nel vol. IV delle opere di Tauler, Paris 1914). W. Preger, che nella Geschichte der deutschen Mystik im Mittelalter (Leipzig 1874-93, vol. II, pp. 434-439, ripr. Cambridge 1962) pubblicò quattro suoi frammenti, gli attribuì anche un breve trattato «sull’intelletto agente e possibile» (Von der wirkenden und möglichen Vernunft, in «Sitzungsberichte der bayerischen Akademie der Wissenschaften. Philosophischphilologische und historische Klasse», München 1871, pp. 176-189, pp. 176 ss.); ma è attribuzione assai discussa. Il motivo che appare dominante nel pensiero di Eckhart il Giovane, e che proviene dal filone plotiniano-eckhartiano, riguarda la preminenza ontologica dell’universale e la conseguente svalutazione dell’individualità empirica: poiché il creato come tale, cioè come cosa circoscritta nel tempo e nello spazio, è – secondo la XXVI delle proposizioni condannate di Meister Eckhart – un «purum nihil», è moralmente necessario che l’uomo trascenda le condizioni e le dimensioni cronotopiche della sua finitezza creaturale e, liberandosi da quel «nulla», si instauri nella natura umana, individua e indistinta; eliminando da sé tutto ciò che porta in lui distinzione e differenza, egli diventa il Figlio nella sua essenza universale; e per questa sua trasformazione, tutte le sue opere divengono divine. La creatura si eleva così sul piano della «generazione», che è atto eterno. G. Faggin BIBL.: A. LEVASTI, I mistici, Firenze 1925, vol. I, pp. 5153 (testi); H.S. DENIFLE, Das geistliche Leben, Salzburg 19369, pp. 472-474; A. DEMPF, Vom inwendigen Reichtum. Texte unbekannter Mystiker aus dem Kreise

Eclettismo Meister Eckharts, Leipzig 1937, p. 170; G. FAGGIN, Meister Eckhart e la mistica tedesca preprotestante, Milano 1946, pp. 284-285; T. SCHALLER, Die Meister Eckhart-Forschung von der Jahrhundertwende bis zur Gegenwart, in «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», 15 (1968), pp. 262-316; T. RENNA, Angels and Sprituality: The Augustian Tradition to Eckhart, in «Augustinian Studies», 16 (1985), pp. 29-37.

ECLETTISMO (dal greco ejklevgw, «sceglieEclettismo re» - eclecticism; Eklektizismus; éclectisme; eclectismo). – Voce introdotta nella terminologia filosofica tra Seicento e Settecento in Germania e diffusa da uno specifico articolo dedicatole da Diderot nell’Encyclopédie (1755), dove l’eclettismo viene assunto come la forma più autentica del filosofare. L’eclettismo è un metodo filosofico che ritiene la ricerca della verità non esauribile in un’unica forma sistematica e si propone quindi di coordinare e armonizzare tra loro gli elementi di verità scelti da sistemi diversi. La problematica dell’eclettismo gravita intorno al criterio di scelta: se la scelta degli elementi da coordinare è fatta ad arbitrio, o è determinata da motivi pragmatici e sociali contingenti, il metodo eclettico si pone fuori della filosofia, che è attività speculativa e critica; d’altra parte, se la scelta è fatta secondo principi determinati, si introduce nuovamente l’istanza unitario-sistematica, sia poi essa sviluppata in un sistema originale o sia invece realizzata in una semplice accettazione di sistemi già formulati in precedenza. Tale inconcludenza teoretica ha indotto spesso a considerare l’eclettismo come espressione del rilassamento filosofico di epoche miranti più a un accordo su credenze comuni che al rigore e all’originalità di ricerca. Il termine è allora usato come sinonimo di sincretismo: il kantiano W.T. Krug nell’Allgemeines Handwörterbuch der philosophischen Wissenschaften (Leipzig 1827, vol. I, p. 628) afferma, per esempio, che «l’eclettismo è nient’altro che sincretismo». Altrettanto negativo è il giudizio pronunciato da Hegel e dagli hegeliani. Vi è tuttavia anche una valutazione positiva dell’eclettismo, quale espressione della mancanza di esclusività e di assolutismo; si coglie così il tema dottrinale più robusto in esso: l’affermazione, implicita o esplicita, che lo spirito umano non è mai del tutto estraneo alla verità, pur giungendo di volta in volta a formulazioni valide solo in una prospettiva. Il miglior signi3195

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Eclettismo ficato dell’eclettismo è quindi rintracciabile sia nella tradizione della «filosofia perenne», sia in quei filosofi che riconoscono nel pensiero il fondamento della possibilità e dell’unità dei singoli veri. Ma si rifugge di solito in tal caso da un’esplicita professione di eclettismo, per evitare l’ambiguità etimologica: il riconoscimento della validità di una prospettiva non è il risultato di una «scelta», bensì di un ripensamento personale e unitario. Nella storia della filosofia si incontra per la prima volta un diffuso atteggiamento eclettico durante il periodo ellenistico-romano. I contrasti tra accademici, peripatetici, stoici ed epicurei creano un ambiente ricco di contatti e scambi reciproci; se lo scetticismo si nutre dell’inasprimento delle posizioni contrastanti, il movimento delle idee offre anche la possibilità di un avvicinamento delle scuole in una mediazione eclettica. A ciò contribuisce in modo notevole lo spirito della romanità, indifferente in genere alla ricerca teoretica e mirante alla valenza pratica della filosofia. La media Stoa, con Panezio e Posidonio, e l’ultima Accademia, con Antioco di Ascalona, mostrano una chiara tendenza a rinunciare ad alcuni dogmi della loro ortodossia in favore di dottrine estranee, per formare una linea compatta contro gli attacchi dello scetticismo. In Roma, M. Terenzio Varrone e Cicerone rivelano nel loro eclettismo il predominio di interessi morali e culturali su quelli speculativi; più tardi Seneca e Marco Aurelio intesseranno la psicologia stoica con temi platonici e aristotelici. La latinità non si cura tuttavia di denominare espressamente questo atteggiamento filosofico. Presso i greci vi è, invece, l’uso specifico dell’aggettivo ejklektikov": oltre al cenno ai medici «eclettici» nella Introductio seu Medicus dello pseudo-Galeno (a cura di C.G. Kühn, vol. XIV, Leipzig 1827, p. 684), si ha la testimonianza di Diogene Laerzio (Proemio a Vite dei filosofi, 21) circa la fondazione di una scuola eclettica (ejklektikh; ai{resi") da parte del filosofo Potamone di Alessandria, contemporaneo di Augusto. Poiché risulta che la dottrina di Potamone fosse essenzialmente stoica, la sua innovazione concerne non tanto la sostanza quanto il nome, essendo usata precedentemente, per «eclettico», la voce sumpeforhmevnw" (Teofrasto, De physicorum opinionibus, fr. 2; cfr. H. Diels, Doxographi graeci, Berolini 1879, p. 81, nota 4, e p. 477). Il pensiero cristiano si vale dell’eclettismo come metodo di apprezzamen3196

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to del pensiero antico; Clemente Alessandrino (Stromata, I, 37, 6) osserva: «Quando dico filosofia non intendo quella degli stoici, o di Platone, o d’Epicuro, o d’Aristotele. Tutto ciò che di buono è stato detto in queste scuole e che ci insegna la giustizia insieme con la pia scienza: questo insieme scelto chiamo filosofia». Un atteggiamento analogo è assunto da Lattanzio nelle Divinae institutiones (VII, 7, a cura di S. Brandt, Wien 1890, pp. 606-607). La fiducia nella perennità dei veri raggiunti dal pensiero anima anche il cosiddetto eclettismo di Leibniz, per cui ritrovare le tracce di verità nel pensiero degli antichi significa «estrarre il diamante dalla miniera» e pervenire alla philosophia perennis. Un diverso eclettismo, ispirato all’empirismo di Locke, è promosso in Germania alla fine del Seicento da Ch. Thomasius, che ne fa la bandiera contro ogni forma di settarismo, sia cartesiano sia soprattutto aristotelico, e a difesa della libertas philosophandi, che divenne il motto della nuova università prussiana di Halle. Era ben chiara (e fu espressamente sottolineata dal collega di Thomasius a Halle, J.F. Buddeus) la distinzione dell’eclettismo non solo dal settarismo e dallo scetticismo, ma anche dal sincretismo: è filosofo eclettico colui che «ex rerum ipsarum contemplatione principia accurate sibi format», in base ai quali poi distingue nelle dottrine di ciascuna setta «quid amplectendum, quid contra repudiandum sit» (J.F. Buddeus, Compendium historiae philosophicae, Halle 1731, p. 537). Tale concetto divenne categoria storiografica in J.J. Brucker, tanto da essere usato per caratterizzare il sorgere della filosofia moderna e per interpretarne lo sviluppo da Cartesio a Leibniz, fornendo a Diderot le linee per il citato articolo dell’Encyclopédie. Un ritorno in grande stile dell’eclettismo si ebbe in Francia nella prima metà dell’Ottocento ad opera di V. Cousin; egli riconobbe che Leibniz fu l’iniziatore di un metodo «insieme teorico e storico, la cui pretesa è di non respingere niente e di tutto comprendere per tutto spiegare», ma osservò che «il grande eclettico finì per cadere lui stesso in un sistema eccessivo, nell’idealismo più spinto » (Histoire générale de la philosophie, Paris 18642). L’eclettismo – che Cousin cercò inizialmente di configurare in dottrina che superava e inverava sensismo e spiritualismo (o idealismo), e che andava oltre lo scetticismo e il misticismo che ne derivano – nello sviluppo del suo pensiero fu tuttavia

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sostituito da una concezione schiettamente spiritualistica, mirante a subordinare i sensi allo spirito e a elevare l’uomo con tutti i mezzi della ragione. L’eclettismo fu conservato come semplice metodo di lettura della storia della filosofia, influendo sull’attività storiografica di Cousin e della sua scuola. F. Barone - M. Longo BIBL.: F. SUSEMIHL, Geschichte der griechischen Literatur in der Alexandrinerzeit, Leipzig 1892; M. POHLENZ, Die Stoa, Göttingen 1948-49, 2 voll. (19643), tr. it. Firenze 1967; W. CAPELLE, Die griechische Philosophie, vol. IV: Von der Alten Stoa bis zum Eklektizismus, Berlin 1954; M. LONGO, La storia della filosofia tra eclettismo e pietismo, in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. II: Dall’età cartesiana a Brucker, Brescia 1979, pp. 329-421; H. HOLZHEY, Philosophie als Eklectic, in «Studia Leibnitiana», 15 (1983), pp. 19-29; W. SCHNEIDERS, Vernünftiger Zweifel und wahre Eklectic zur Entstehung des modernen Kritikbegriffes, in «Studia Leibnitiana», 17 (1985), pp. 143-181; M. ALBRECHT, Eklektik. Eine Begriffsgeschichte mit Hinweisen auf die Philosophie- und Wissenschaftsgeschichte, Stuttgart - Bad Cannstatt 1994; G. PIAIA (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. IV/2: L’età hegeliana. La storiografia filosofica nell’area neolatina, danubiana e russa, Padova 2004, pp. 89-200 (su V. Cousin). ➨ FILOSOFIA PERENNE.

ECO, UMBERTO. – Filosofo del linguaggio, seEco miologo e romanziere, n. ad Alessandria il 5 genn. 1932. Il pensiero di Eco si sviluppa sul confine tra la chiusura della struttura e l’apertura dell’interpretazione, nel tentativo di pensarne la tensione costitutiva e di mappare così le regolarità di ciò che per essenza sembra sfuggirvene. In una prima fase (Opera aperta, Milano 1962) sono la musica d’avanguardia, la letteratura e l’arte contemporanea a costituire il terreno d’indagine in cui definire i rapporti tra la forma dell’opera e l’indeterminazione della sua interpretazione (esecuzione, lettura), nel tentativo di determinare così la struttura stessa dell’apertura nella tensione tra libero intervento interpretativo e caratteristiche strutturali dell’opera che insieme stimolano e regolano l’ordine delle sue interpretazioni. In una seconda fase (Lector in fabula, Milano 1979), questa stessa tensione è ripensata e radicalizzata in chiave semiotica, collocando il lettore nella trama stessa del testo attraverso le sue strutture semiotiche simulacrali, al fine di descriverne le mosse interpretative, ma an-

Eco che di limitarne e controllarne l’operato (I limiti dell’interpretazione, Milano 1990). Questa stessa tensione tra struttura e interpretazione è altresì all’origine della svolta semiotica del pensiero di Eco, che si determina essenzialmente come un originale tentativo di connettere in un «equilibrio felicemente instabile» le prospettive dello strutturalismo semio-linguistico di Saussure e Hjelmslev (La struttura assente, Milano 1968) e la semiotica interpretativa di Peirce. Ecco allora come nel Trattato di semiotica generale (Milano 1975) a una teoria strutturale dei codici viene affiancata una teoria generale dei modi di produzione segnica che li mettono in opera nei testi, li utilizzano nei discorsi e li modificano attraverso le pratiche di interpretazione. In questo modo, l’idea stessa di sistema semantico assume la forma al contempo globalmente instabile e localmente stabilizzata di una rete enciclopedica di rimandi semiotici al contempo effetto e condizione di possibilità delle interpretazioni che li formano (Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino 1984). Nel tentativo di definire un realismo contrattuale fondato sul consenso della comunità e sulla possibile falsificabilità di ciò che non può essere sostenuto alla luce dell’esperienza, la stessa tensione tra struttura e apertura migra in Kant e l’ornitorinco (Milano 1997), in una dialettica filosofica tra la datità strutturata del fatto e l’apertura dell’interpretazione chiamata a renderne conto, ed è affiancata a livello epistemologico, etico e sociale da una teoria della negoziazione (Dire quasi la stessa cosa, Milano 2003) secondo cui ogni progresso si fonda essenzialmente sul processo razionale dell’accordarsi con l’altro. Saggista e storico (La ricerca della lingua perfetta, Roma-Bari 1993), studioso di comunicazione (Apocalittici e integrati, Milano 1964) ed estetica (Il problema estetico in San Tommaso, Milano 1954), dal 1980 Eco ha intrapreso un’attività di romanziere che lo ha reso universalmente celebre. Ben lungi dall’essere il dominio dell’energia creatrice e del vortice dionisiaco su cui l’analisi non ha presa, la stessa pratica letteraria consiste per Eco nel gioco di frontiera tra vincoli strutturali e libertà inventiva, in funzione di una creatività controllata che sebbene non corrisponda alle stesse regole del teorizzare risponde però ad altre regole, che il pensiero può indagare e di cui deve poter essere in grado di rendere conto, venendo così 3197

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Ecologia

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definitivamente consegnato alla lotta contro l’ineffabile (Sulla letteratura, Milano 2002). C. Paolucci

ECOLOGIA Ecologia (dal gr. oi\ko" «casa», lovgo" «discorso» - ecology; Ökologie; écologie; ecologia). – Il termine fu coniato da Ernst Haeckel nel 1866 a indicare: «lo studio dell’economia e del modo di abitare degli organismi animali. Essa include le relazioni degli animali con l’ambiente inorganico e organico, soprattutto i rapporti positivi o negativi, diretti o indiretti con piante e altri animali: in una parola, tutta quell’intricata serie di rapporti ai quali Darwin si è riferito parlando di condizioni della lotta per l’esistenza» (Generelle Morphologie der Organismen, Jena 1866, II, p. 286 e Über Entwicklungsgang und Aufgabe der Zoologie, in «Jenaische Zeitschrift für Naturwissenschaft», Jena 1870, pp. 353354). È però in un contesto lontano da quello dell’evoluzionismo darwiniano, e precisamente nell’ambito degli studi di geobotanica e biogeografia inaugurati da Alexander von Humboldt agli inizi del XIX secolo e proseguiti da August Grisebach, Charles Flahault, Alphonse de Condolle ed Eugen Warming, che va identificata l’autentica origine dell’ecologia come scienza, il cui oggetto non sono i processi di speciazione, bensì le interrelazioni dinamiche tra popolazioni o insiemi di popolazioni (biocenosi) e l’ambiente fisico, chimico, climatico e biologico entro cui vivono. Il complesso integrato di comunità biotica e ambiente verrà definito da Arthur Tansley nel 1935 come «ecosistema»: ed è intorno alla metà del XX secolo che l’ecologia delle successioni vegetali fondata da Conway McMillan, quella delle successioni biotiche della scuola di Chicago, la sociologia vegetale delle scuole di Zurigo-Montpellier e Uppsala e la biocenotica iniziata da Karl Möbius confluiscono in una teoria quantitativa degli ecosistemi, che è la forma in cui l’ecologia si è definitivamente imposta e tuttora viene esercitata come disciplina scientifica. Determinanti in ordine a questo sviluppo, oltre a impulsi di carattere strettamente economico, legati a questioni come lo sfruttamento degli agrosistemi o delle popolazioni selvatiche e la lotta contro i nocivi, sono stati i lavori dei matematici Alfred J. Lotka e Vito Volterra, che hanno introdotto i principi del metodo modellistico di simulazione delle dinamiche di popolazione, metodo che variamente perfezionato è ancora oggi in auge (cfr. A.J. Lotka, 3198

Elements of Physical Biology, Baltimora 1925; V. Volterra, Variazioni e fluttuazioni del numero di individui in specie animali conviventi, in: Mémoires de l’Academia de’ Lincei, 1926, serie VI, vol. II). A partire dalla proposta di questo schema formale tutto incentrato sull’analisi delle relazioni trofiche tra i componenti del bioma entro un dato biotopo, si rafforza un approccio sempre più ostile alle tentazioni organicistiche di ascendenza neovitalista, ancora presenti nella bioecologia di Frederic E. Clements e della scuola di Chicago. Per arrivare all’espressione compiuta più autorevole della scienza ecologica, però, si dovranno attendere le fondamentali intuizioni di Erwin Schrödinger, la cui «biofisica» permise di superare l’impostazione troppo rigidamente matematica di Lotka e Volterra, integrandola con la termodinamica statistica di ispirazione boltzmanniana (cfr. What is Life? The Physical Aspect of the Living Cell, Cambridge 1944, tr. it. di M. Ageno, Che cos’è la vita?, Milano 1995): si apriva così la strada alla teoria energetista degli ecosistemi, preannunciata da Raymond Lindemann nel 1941 e sviluppata compiutamente a partire dagli anni cinquanta dai fratelli Eugene P. e Howard T. Odum, che la integrarono con la cibernetica di Norbert Wiener e la teoria dei sistemi di Ludwig von Bertalanffy. La sintesi energetista-cibernetica si fonda sull’introduzione di un’unità di misura unica – la caloria – per la commisurazione di ambiente e bioma: solo a partire da ciò l’ecosistema non è più un complesso eterogeneo, seppur interrelato, bensì un fenomeno unitario, atomico, descrivibile secondo leggi dinamiche di circolazione dell’energia-informazione. Si assiste così alla traduzione dei termini legati all’analisi delle relazioni trofiche tra popolazioni, in riferimento alle loro nicchie ecologiche, in concetti di un’economia termodinamica regolata da sistemi di controllo ed equilibrio cibernetici: i flussi di energia e i cicli di materia si svolgono senza soluzione di continuità dall’irraggiamento solare, alla fotosintesi, con la sua produzione di biomassa che prosegue lungo le catene alimentari nella serie ascendente dei livelli trofici, distinti funzionalmente e in ordine al tipo di retroazione (feedback) che esercitano sull’intero processo, conservandone la naturale tendenza all’omeostasi o climax (cfr. E.P. Odum, Basic Ecology, Filadelfia 1983, tr. it. di L. Nobile, Basi di Ecologia, Padova 1988, pp. 11 ss., 74 ss.).

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Il processo di fisicizzazione dell’ecologia, se da un lato la inserisce nella corrente biologica riduzionista, dall’altro le permette la trattazione quantitativa unitaria e rigorosa di molti ambiti fenomenici, ben al di là del regno biologico in senso stretto. Ciò è reso possibile dalla commutabilità delle unità di misura termodinamiche, informatiche ed economiche: la trasmissione delle informazioni può essere descritta in termini di relazioni tra energia ed entropia, mentre i flussi economici vengono facilmente ridotti a fattori energetici o informatici (per l’eco-economia e il concetto di sviluppo sostenibile, cfr. H. Daly, Economics, Ecology, Ethics: Essays toward a Steady-State Economy, San Francisco 1980 e D.W. Pearce - R.K. Turner, Economics of Natural Resources and the Environment, Baltimora 1991, tr. it. di M. Botticini, Economia delle risorse naturali e dell’ambiente, Bologna 1997). Grazie a questa plasticità e capacità universalizzante e nonostante il carattere riduzionista del suo apparato concettuale e metodologico, l’ecologia si propone nella seconda metà del Novecento come modello ermeneutico sempre più generale, divenendo infine il paradigma dell’«olismo» e generando un’importante serie di sintesi teoriche, dalla considerazione unitaria degli ecosistemi naturali e antropizzati nell’Ipotesi Gaia di James Lovelock, che introduce il concetto di «sistema biocibernetico autoregolato» per la biosfera (cfr. Gaia: A new Look at Life on Earth, Oxford 1979, tr. it. di V. Bassan Landucci, Gaia. Nuove idee sull’ecologia, Torino 1996, pp. 7 ss., 24), alla storia materiale in chiave ecologica di Jeremy Rifkin o all’ecologia della mente di Gregory Bateson. Su questa via e in dipendenza dalla consapevolezza sempre più lucida, a partire dalle pubblicazioni del Club of Rome negli anni settanta (cfr. D.H. Meadows et al., The Limits to Growth, New York 1972, tr. it. di F. Macaluso, I limiti dello sviluppo, Milano 1972), di un mutamento radicale nelle relazioni tra società umana e natura, consapevolezza che culmina nella diagnosi della «crisi ecologica» in atto, quale carattere epocale della contemporaneità, l’ecologia perde la sua caratterizzazione puramente scientifica e diviene denominatore comune di una serie di concezioni, che sfumano spesso verso prese di posizione di natura ideologica, come l’ecoanarchismo di Murray Bookchin e l’ecologia profonda di Arne Naess, o schiettamente politica.

Ecologismo Sul piano filosofico, è principalmente l’opera di Hans Jonas a farsi interprete, rinnovando implicitamente fondamentali categorie heideggeriane e ampliando lo spettro delle analisi di Günther Anders, di una riflessione ampia e approfondita sulle implicazioni della crisi ambientale: è con il suo Il principio responsabilità (1979) che di fatto l’etica ecologica acquisisce pieno diritto di cittadinanza nel contesto dell’etica pratica e applicata N. Russo BIBL.: P. ACOT, Histoire de l’écologie, Paris 1988, tr. it. di S. Nesi Sirgiovanni, Storia dell’ecologia, Roma 1989; J. DELÉAGE, Histoire de l’écologie, Paris 1991, tr. it. di T. Capra, Storia dell’ecologia, Napoli 1994; E. TIEZZI, Tempi storici, tempi biologici, Milano 1992; N. RUSSO, Filosofia ed ecologia. Idee sulla scienza e sulla prassi ecologiche, Napoli 2000. ➨ AMBIENTE, ETICA DELLO; ECOLOGISMO.

ECOLOGISMO (ecologism; Ecologism; écologiEcologismo sme; ecologismo). – Molto presto nella riflessione sulle implicazioni dell’ecologia si è venuta delineando l’idea che la nuova disciplina rappresentasse una scienza «sovversiva». Da un lato si è infatti osservato che essa modifica profondamente il tradizionale statuto metodologico delle scienze naturali, in particolare per quanto riguarda le critiche alla separazione tra soggetto e oggetto, il riduzionismo, il determinismo, il carattere predittivo delle leggi scientifiche. Dall’altro, questo mutamento di prospettiva non è senza conseguenze per le scienze sociali, dal momento che, come ha osservato Edgar Morin, «l’ecologia generale è la prima scienza che, proprio nella sua qualità di scienza [...] richiede una presa di coscienza quasi diretta. Ed è la prima volta che una scienza, e non la filosofia, ci pone il problema della relazione fra l’umanità e la natura vivente» (Il pensiero ecologico, Firenze 1988, pp. 127-128). La consapevolezza circa le implicazioni generali dell’ecologia ha condotto alla distinzione tra un approccio ai problemi ecologici che mette radicalmente in discussione i fondamenti epistemici e pratici della relazione tra esseri umani e natura, e una visione che ricerca una gestione più accorta dell’ambiente e delle risorse naturali nel mantenimento delle metodologie e dei valori generalmente accettati. La duplice prospettiva è stata per la prima volta presentata in termini analitici dal filosofo norvegese Arne Næss come distinzione tra deep ecology e shallow ecology, espressioni che 3199

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Econometria possono essere tradotte come ecologismo e ambientalismo (Shallow and the Deep, LongRange Ecology Movement. A Summary, in «Inquiry», 16, 1973, pp. 95-100): la prima consiste nell’assunzione di una prospettiva ecosistemica, nel decentramento della posizione umana nel mondo, nel riconoscimento di valore alle totalità naturali a prescindere da qualunque utilità umana, nell’azione che asseconda l’imperativo di minima interferenza con i processi naturali. La posizione di Næss non è comunque senza precedenti, trovando riscontro – oltre che nella tradizione antica e moderna dell’organicismo, come pure in una parte del romanticismo e del trascendentalismo – nell’etica della terra di Aldo Leopold e nelle leggi ecologiche di Barry Commoner («everything is connected to everything else; everything must go somewhere; nature knows best; there is no such thing as a free lunch», The Closing Circle, New York 1971). Tali posizioni rimangono nell’ecologia profonda come ispirazione spirituale nella protezione incondizionata della natura selvaggia (wilderness). All’interno della riflessione a fondamento ecologico, l’antropologo Gregory Bateson ha compiuto il più creativo e coerente ripensamento del rapporto tra esseri umani e natura a partire dall’epistemologia, intesa come «ecologia della mente». L’espressione si riferisce all’indagine sul significato biologico-ecologico dei processi cognitivi, seguendone le implicazioni dall’ambito dell’evoluzione biologica fino all’impatto delle conseguenze sociali e politiche. Il termine ecologism è stato esplicitamente adottato in filosofia politica da Andrew Dobson, in contrapposizione a environmentalism: il primo assume che una vita sostenibile e piena presuppone cambiamenti radicali nella nostra relazione con il mondo naturale e nella vita sociale e politica; il secondo propone un approccio manageriale ai problemi ambientali, senza mettere in discussione i valori prevalenti e le attuali forme di produzione e consumo. Benché molte visioni ecologiste siano caute nell’inferire direttamente dall’ecologia come scienza direttive morali, volutamente economiche o politiche, le implicazioni epistemiche (una latente fallacia naturalistica), filosoficoantropologiche (l’antiumanismo) e il radicalismo socio-politico (la critica ai dominanti stili di vita consumistici) hanno reso minoritarie le 3200

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posizioni ecologiste nell’ambito delle prevalenti etiche e politiche dell’ambiente. M.C. Tallacchini BIBL.: P. SHEPARD - D. MCKINLEY (a cura di), The Subversive Science, Boston 1969; G. BATESON, Mind and Nature. A Necessary Unity, New York 1979; A. NÆSS, Ecology, Community and Lifestyle, Cambridge 1989; A. DOBSON, Green Political Thought, London 1990; P.C. LIST (a cura di), Radical Environmentalism. Philosophy and Tactics, Belmont (California) 1993. ➨ AMBIENTE; AMBIENTE, ETICA DELLO; TERRA.

ECONOMETRIA (econometrics; Ökonometrie; Econometria économétrie; econometría). – È quella branca dell’economia che si prefigge di dare contenuto empirico alle relazioni economiche, utilizzando metodi matematici e statistici. La Econometric Society venne fondata nel 1933 con lo scopo di unificare l’approccio teoretico-quantitativo all’economia con quello empiricoquantitativo, in maniera analoga a quanto avveniva nelle scienze naturali (cfr. R. Frisch, Editorial, in «Econometrica», 1, 1933, p. 1). Il rapporto tra relazioni teoriche e proprietà statistiche dei dati, o, in altri termini, tra relazioni causali e correlazioni, rimane oggetto della maggior parte delle questioni metodologiche dell’econometria. Si individuano tre paradigmi metodologici. Il primo è quello conosciuto come Cowles Commission, dal nome della commissione scientifica fondata nel 1932 negli Stati Uniti. Il contributo fondamentale è di Trygve Haavelmo (Nobel 1989), il quale individua, in The Probability Approach in Econometrics (in «Econometrica», suppl. 12, 1944), le condizioni algebriche necessarie e sufficienti perché un sistema di equazioni possa essere «identificato». Identificare un sistema di equazioni significa determinare la struttura causale (e probabilistica) che ha generato i dati. Il problema dell’identificazione deriva dal fatto che la struttura è in generale sotto-determinata dalle proprietà statistiche (è il noto problema dell’induzione: correlazione non è causalità). La soluzione data dalla Cowles è quella di utilizzare la teoria economica per specificare a priori la struttura delle relazioni causali. Il ruolo della statistica è quello di misurare la forza delle relazioni e di testare le restrizioni della teoria. Questo approccio viene criticato da Robert Lucas (Nobel 1995) in Econometric Policy Evaluation: A Critique (in «Carnegie-Rochester Confe-

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Economia

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rence Series on Public Policy», 1, 1976, pp. 1946). Lucas sostiene che i parametri strutturali identificati col metodo della Cowles non sono stabili e variano col cambiare della politica economica. Infatti se i modelli econometrici della Cowles venissero usati in modo sistematico per intraprendere nuove azioni di politica economica, gli individui adatterebbero il loro comportamento cercando di trarre il massimo vantaggio dalla nuova politica. Le equazioni utilizzate per prevedere gli effetti della nuova politica non sarebbero più valide, perché trascurerebbero il comportamento intenzionale degli individui. Secondo Lucas, relazioni macroeconomiche stabili devono essere invece derivate dalle scelte e dalle aspettative razionali degli individui. Da questa critica nasce un approccio alla macroeconomia «micro-fondato» sull’ipotesi delle aspettative razionali degli agenti economici. Ciò si traduce in econometria nel derivare dall’ipotesi suddetta restrizioni algebriche per l’identificazione. Tuttavia, oggetto della critica è più la teoria utilizzata sino ad allora nell’identificazione (cioè la teoria macroeconomica keynesiana, egemone fino agli anni settanta), che i presupposti metodologici della Cowles. La critica mossa da Christopher Sims (Macroeconomics and Reality, in «Econometrica», 48, 1980, pp. 1-48) all’econometria della Cowles è invece più radicalmente rivolta al metodo dell’identificazione. Oltre a mettere in dubbio le restrizioni teoriche utilizzate dalla Cowles per l’identificazione, Sims sostiene che le equazioni strutturali sono in principio non identificabili. Infatti l’alto numero di interdipendenze tra le variabili compromette algebricamente l’identificazione. Per Sims occorre lasciar parlare i dati, senza imporre restrizioni teoriche. In effetti i modelli proposti da Sims, i vettori autoregressivi (VAR), si dimostrano ottimi strumenti per riassumere in maniera efficace le proprietà statistiche dei dati, ma non per fare valutazioni di politica economica, poiché le equazioni stimate non sono le equazioni strutturali. Lo scopo dei VAR è quello, meno ambizioso, di identificare gli effetti di shock strutturali, ma anche ciò richiede l’imposizione di restrizioni a priori. L’uso di restrizioni a priori avulse dalla teoria, proposto inizialmente da Sims, è stato considerato arbitrario e il programma di un’econometria indipendente dalla teoria economica è stato recepito come un insuccesso (cfr. Thomas Cooley - Stephen

Le Roy, Atheoretical Macroeconomics: A Critique, in «Journal of Monetary Economics», 16, 1985, pp. 283-308). La tendenza odierna è di utilizzare i VAR per identificare gli effetti di shock strutturali richiedendo, in modo del tutto coerente alla metodologia Cowles, l’intervento di restrizioni derivate dalla teoria o dalla conoscenza dei meccanismi delle istituzioni economiche. A. Moneta BIBL.: D. HENDRY, Dynamic Econometrics, Oxford 1985; C. GRANGER (a cura di), Modelling Economic Series, Oxford 1990; M. MORGAN, The History of Econometric Ideas, Cambridge 1990; D. POIRER (a cura di), The Methodology of Econometrics, Aldershot 1994; K. HOOVER (a cura di), Macroeconometrics: Developments, Tensions, and Prospects, Boston 1995; H. KEUZENKAMP, Probability, Econometrics and Truth. The Methodology of Econometrics, Cambridge 2000. ➨ CAUSALITÀ.

ECONOMIA Economia (economy, economics; Wirtschaft, Wirtschaftslehre; économie; economía). – SOMMARIO:

I. Economia come governo della casa. - II. Il principio di economia. - III. L’economia come scienza della ricchezza. - IV. L’economia come teoria dell’uso di risorse scarse e oltre. I. ECONOMIA COME GOVERNO DELLA CASA. – I due termini greci oi\k o" (oikos) e nov mo" (nomos) compongono il termine oijkonomiva (oikonomia), da cui il latino oeconomia, il cui etimo, dunque, significa «regola o governo della casa». Il termine-concetto ha pertanto un contenuto essenzialmente pragmatico cui inerisce un programma normativo che riguarda lo studio, così come la prassi, di regole di buona amministrazione della realtà della casa-azienda descritta ad esempio negli Oeconomica di scuola aristotelica. Questa origine può certamente contribuire a spiegare il senso comunemente attribuito al sostantivo (così come al verbo corrispondente) nel linguaggio quotidiano, dove esso indica le ricerca di modi per evitare lo spreco e conseguire un determinato risultato col minimo di mezzi e di sforzo. L’economia nasce dunque, etimologicamente ma senza dubbio anche storicamente, come studio della organizzazione e, più esattamente, della efficienza nella organizzazione. Seguendo la definizione qui indicata del campo disciplinare non vi rientrano, almeno in forma diretta, fenomeni che oggi ascriviamo al campo dell’economia con rilievo primario, come lo scambio. In continuità con il senso aristotelico si sviluppò un filone di letteratura sul governo 3201

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Economia della casa, l’economica che sopravvisse in Germania fino al Settecento sotto il nome di Hausvaterliteratur. II. IL PRINCIPIO DI ECONOMIA. – Nella filosofia stoica il termine oijkonomiva passò, con un trasferimento dal microcosmo al macrocosmo, a designare l’ordine del governo divino del cosmo. Dalla filosofia stoica il termine passò al linguaggio del Nuovo Testamento e della patristica per designare il piano divino della salvezza (cfr. 1 Cor 9, 17; Ef 1, 10; Clemente Alessandrino, Stromata I, 52, 3). Il termine greco venne tradotto in latino alternativamente con oeconomia, dispositio o dispensatio. Tuttora nel linguaggio teologico appare la nozione di oeconomia salutis per designare la concezione della storia dell’umanità come realizzazione del piano divino. Nella tradizione logico-metodologica medievale e moderna si formò un principio d’economia, espresso nella esigenza di «economizzare» i concetti formulata da Guglielmo di Ockham con la nota formula detta del rasoio di Ockham: «frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora». Sotto vari nomi questo principio si tramandò nei secoli successivi biforcandosi in una prescrizione metodologica e in un postulato riguardante l’ordine della creazione. Il «principio di parsimonia» di Nicolas Malebranche postula la semplicità dei mezzi usati dal creatore nel realizzare il creato e il principio della minima azione di Pierre-Louis Moreau de Maupertuis postula il «risparmio» nel numero di cause che determinano i fenomeni naturali. Anche quello che Ernst Mach a fine Ottocento chiamò «principio di economia» è una prescrizione metodologica che postula che «la scienza possa essere considerata come un problema di minimo che consiste nell’esprimere i fatti nel modo più perfetto possibile con il minimo dispendio di pensiero» (Die Mechanik in ihrer Entwicklung historisch-kritisch dargestellt, ed. a cura di R. Wahsner e H.H. von Borzeszkowski, Berlin 1988, tr. it. a cura di A. D’Elia, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, Torino 20013 [1883], cap. 4, § 4, sezione 6). III. L’ECONOMIA COME SCIENZA DELLA RICCHEZZA. – In età moderna compare la locuzione di economia politica, per la prima volta in Antoine de Montchrétien (Traicté de l’économie politique, a cura di F. Billacois, Genève 1999 [1615]). La locuzione non è necessariamente incompatibile con il senso originario del termine economia, 3202

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dato che nasce da un ampliamento della sfera dello oikos sino a ricomprendere la nazione, e anzi riprende un’espressione greca che compare nel libro II degli Economici pseudoaristotelici; si deve tuttavia notare che l’ampio uso, da parte di Montchrétien e poi di altri, dell’analogia iatro-politica induce a pensare non già a un passaggio binario dal governo della casa al governo della nazione bensì a un passaggio ternario dall’ordine della casa all’ordine degli organismi viventi (économie animale) e da questo all’ordine della nazione, assimilata a un organismo vivente che può godere di buona salute o soffrire di malattie. La locuzione finì col prevalere come nome di una nuova disciplina, pur accompagnandosi per un certo tempo ad altre analoghe, quali quelle di scienza camerale, economia civile, economia sociale, catallattica. In italiano la locuzione è tuttora viva e la proposta di adottare il termine «economica», corrispondente al termine «economics», affermatosi in inglese a fine Ottocento e analogo alla denominazione di altre discipline scientifiche, non ha avuto successo L’economia politica considera la questione della definizione della ricchezza delle nazioni e lo studio delle cause della dinamica comparata della ricchezza stessa e dei suoi effetti, come annuncia il titolo dell’opera di Adam Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (a cura di R.H. Campbell, A.S. Skinner, W.B. Todd, Oxford 1976, tr. it. a cura di A. Roncaglia, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Roma 1995 [1776]). Nel compimento di questo passaggio, è possibile anche leggere il richiamo alla polis come la conferma della inclusione nell’oggetto della disciplina dello studio di comportamenti interpersonali di natura consensuale e contrattuale, fra i quali lo scambio e il mercato, che si collocano al di fuori di una specifica struttura organizzativa – studio ascritto all’etica in Aristotele e poi nella scolastica. In Adam Smith permane una certa distanza rispetto al termine «economia politica», di uso non frequentissimo e non di rado riferito ai sistemi fatti oggetto di critica più che alla teoria che l’autore si prefigge di costruire. Non vi è dubbio in ogni caso che l’economia politica, così come prende forma in epoca moderna, deve considerarsi in primo luogo quale frutto di sviluppi da un lato pragmatici e operativi e dall’altro quale sottoprodotto del giu-

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snaturalismo. A fare da catalizzatore fra questi due elementi si aggiunsero i programmi metodologici della nuova scienza, che produssero fra l’altro la nascita dell’econometria o, più esattamente, l’«aritmetica politica» quale venne concepita da William Petty. In economia non divenne però mai prevalente una concezione puramente induttivista delle leggi scientifiche, stante l’impossibilità di sperimentare e di distinguere sperimentalmente l’azione di cause diverse, come venne chiarito da John Stuart Mill (On the Definition of Political Economy [1844], in Collected Works, a cura di J.M. Robson, Toronto 1963-1991, vol. I, pp. 229-239, tr. it. a cura di L. Infantino, Sulla definizione dell’economia politica, in Economia e scienze sociali, Soveria Mannelli 2004). IV. L’ECONOMIA COME TEORIA DELL’USO DI RISORSE SCARSE E OLTRE. – Con il marginalismo prevalse la concezione dell’utilità come funzione della disponibilità dei beni. L’economia neoclassica e il concetto di equilibrio economico da essa sviluppato sono spesso visti come espressione di una concezione tendenzialmente statica che concentra l’attenzione sull’efficienza allocativa di risorse date e non affronta la questione dello sviluppo. Si è affermato così un paradigma basato sull’assunzione dell’esistenza di agenti individuali dotati di preferenze stabili e coerenti il cui comportamento obbedisce allo schema razionale della massimizzazione di preferenze date. Non a caso Vilfredo Pareto teorizzò l’economia come disciplina delle azioni «logiche», mosse cioè da razionalità strumentale, distinta dalla sociologia che si occupa dell’ambito «non-logico» e l’etimologia è ben rispecchiata nella definizione di economia come disciplina che studia l’allocazione di risorse scarse suscettibili di uso alternativo data da Lionel Robbins in Essay on the Nature and Significance of Economic Science (London 19352, con prefazione di W.J. Baumol, London 19843, tr. it. Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica, Torino 19532 [1932]) secondo il quale il problema allocativo viene risolto con una procedura di massimizzazione nella quale il rapporto rilevante è quello tra l’agente economico e le risorse a disposizione. In questo modo il problema economico si riconduce a un problema di ottimizzazione e la disciplina economica lo studia sulla base di un impianto di razionalità ottimizzante. Molte delle sfide dell’economia contemporanea riguardano da un lato i possibili percorsi

Economia civile dell’economia dinamica e, dall’altro lato, il superamento dell’orizzonte positivistico dell’economia neoclassica attraverso aperture interdisciplinari in direzione della psicologia (economia sperimentale) e della sociologia (socioeconomia) e la ripresa del rapporto con l’etica (etica economica). P. Porta BIBL.: P. GROENEWEGEN, ‘Political economy’ and ‘economics’, in J. EATWELL - M. MILGATE - P. NEWMAN (a cura di), The New Palgrave, London 1991, vol. III, pp. 904907. ➨ ANALOGIA IATRO-POLITICA; ARITMETICA POLITICA; ECONOMIA NEOCLASSICA; ECONOMIA SPERIMENTALE; ECONOMIA (OECONOMICA); ETICA ECONOMICA (PROBLEMI); MARGINALISMO; SOCIOECONOMIA; SVILUPPO; UTILITÀ.

ECONOMIA CIVILE. – Il concetto di econoEconomia civile mia civile viene proposto e utilizzato soprattutto entro una linea di sviluppo del pensiero economico caratteristica della tradizione italiana. Il primo autore a farne uso è Antonio Genovesi (1713-69) – primo titolare al mondo di una cattedra universitaria di economia, istituita nell’università di Napoli nel 1754 – nelle sue Lezioni di commercio o sia di economia civile (1765-67, ed. a cura di M.L. Perna, Napoli 2005). Il termine civile era stato usato e verrà usato successivamente in diversi contesti, p. es. nella locuzione società civile, con slittamenti semantici importanti nelle diverse epoche. Al pari della locuzione società civile, anche quella di economia civile è oggi ampiamente ripresa. All’epoca di Genovesi il termine si giustifica soprattutto per l’indicazione di chiara impronta illuministica di un «luogo in cui la felicità può essere raggiunta pienamente, grazie alle buone e giuste leggi, ai commerci e ai corpi civili nei quali gli uomini esercitano la loro socialità» (L. Bruni - S. Zamagni, Economia civile, Bologna 2004, p. 74). Altrettanto presente in Genovesi è tuttavia anche un legame molto preciso con la tradizione dell’umanesimo civile italiano dei secoli precedenti. Se l’espressione riflette dunque gli interessi e la formazione di Genovesi, essa non diviene però dominante. Già nel Settecento si diffonde in Italia l’espressione economia politica, utilizzata, ad esempio, da Pietro Verri nelle Meditazioni sulla economia politica (1771, ed. a cura di R. De Felice, Milano 1998). La nozione di economia civile si caratterizza per la sottolineatura di aspetti di relazionalità, fiducia, reci3203

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Economia evoluzionistica procità, collegati a una buona legislazione e a codici di norme interiorizzati, anziché privilegiare i lati autointeressati dell’agire economico usualmente associati con l’idea di economia politica. A cavallo tra Ottocento e Novecento, si parlerà di economia sociale o Sozialökonomie, soprattutto nella tradizione tedesca, con Max Weber e altri autori, per indicare soprattutto la unitarietà tra le discipline sociali, alle quali l’economia appartiene. Il civile si differenzia dal sociale per essere più collegato alla produzione di norme e alla dimensione giuridica. Nella stessa linea la tradizione italiana ha ripreso ampiamente il concetto in collegamento anche con la sottolineatura della creatività come risorsa economica. Spesso ricordato è al riguardo il contributo di Gian Domenico Romagnosi, il quale insiste sulla nozione di incivilimento. Carlo Cattaneo riprende e sviluppa lo stesso concetto soprattutto nella direzione della creatività e, in definitiva, nel senso di quel che oggi chiamiamo il capitale umano e il capitale sociale. Su un diverso versante, una componente non trascurabile dell’economia sociale, prodotta dalla ispirazione cattolica, ha sviluppato una linea d’indagine molto vicina a quella dell’economia civile specie per l’importanza attribuita ai gruppi intermedi nella vita economica, sociale e politica. Un esempio è fornito da Giuseppe Toniolo e dal suo Trattato di economia sociale (1901, ed. a cura di F. Vito, in Opera omnia, serie II, 1-5, Roma 1949-52). Oggi il concetto di economia civile viene studiato soprattutto in rapporto coi più recenti sviluppi della economia del benessere, che hanno condotto a riportare al centro dell’attenzione il concetto di felicità e più esattamente di felicità pubblica. Su questo terreno si è sviluppata di recente una linea neoutilitarista, rappresentata per esempio dallo psicologo Daniel Kahneman, dalla quale si distingue un’impostazione eudemonistica, sviluppata da Amartya Sen e ricollegabile al neoaristotelismo di Martha Nussbaum. Le proposte di ripresa della nozione di economia civile sono vicine alla seconda linea di ricerca. P.L. Porta BIBL.: E. GARIN, L’umanesimo italiano, Roma-Bari 1994; P.L. PORTA - R. SCAZZIERI, Concorrenza e società civile, in A. QUADRIO CURZIO (a cura di), Alle origini del pensiero economico in Italia. Economia e Istituzioni: il paradigma lombardo tra i secoli XVIII e XIX, Bologna

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1996, pp. 15-58; L. BRUNI, Civil Happiness. Economics and Human Flourishing in Historical Perspective, London 2006. ➨ HOMO OECONOMICUS; RECIPROCITÀ; SOCIOECONOMIA.

ECONOMIA EVOLUZIONISTICA (evoluEconomia evoluzionistica tionary economics; Evolutionsökonomik; économie évolutive; economía evolutiva). – Per economia evoluzionistica si intende l’applicazione analogica della teoria dell’evoluzione biologica all’analisi di fenomeni economici. In svariati contesti l’utilizzo di concetti evoluzionistici si è rivelato particolarmente fecondo di sviluppi, in particolare per quanto riguarda lo studio del progresso tecnologico, del comportamento organizzativo, delle dinamiche industriali, del mutamento istituzionale, delle norme sociali e dei comportamenti strategici. Il rapporto tra pensiero economico e pensiero evoluzionistico ha una lunga tradizione, che ha visto autori, anche molto diversi tra loro, quali Adam Smith, Karl Marx, Thorstein Veblen, Alfred Marshall, Joseph Schumpeter, Friedrich von Hayek, Armen Alchain, Oliver Williamson, Richard Nelson e Sidney Winter, importare in ambito economico metafore naturalistiche, ma anche idee economiche penetrare il pensiero naturalistico, si pensi per esempio all’influenza esercitata da Thomas Malthus sullo sviluppo delle idee di Charles Darwin, o più recentemente all’utilizzo della teoria dei giochi per lo studio di fenomeni biologici. La metafora evoluzionistica si fonda su tre pilastri: il «principio di variazione», secondo il quale occorre che all’interno di una popolazione di agenti, siano essi individui o organizzazioni, sia presente una elevata variabilità. Questa implica la diversità, sia essa conseguenza di un mutamento casuale o intenzionale. Il «principio di ereditarietà» prevede un meccanismo attraverso il quale tali variazioni vengono trasmesse da una generazione all’altra e, infine, il «principio di selezione» che richiede l’esistenza di un criterio attraverso il quale solo le variazioni vantaggiose, in senso generale, vengono selezionate e trasmesse da una generazione all’altra. L’analogia evoluzionistica viene utilizzata in economia sia come «euristica», per suggerire un approccio con il quale affrontare un dato fenomeno, ma anche come «giustificazione», per rafforzare, cioè, conclusioni di modelli

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economici attraverso il trasferimento di dominio di consolidate verità biologiche. Lo schema di spiegazione evoluzionistico opera considerando soggetti semplificati che pongono in essere strategie comportamentali o routine le quali, benché non completamente determinate geneticamente né perfettamente ereditate, vengono generalmente considerate alla stregua di geni o di tratti fenotipici. Proseguendo nell’analogia biologica si assume anche la possibilità della comparsa di soggetti mutanti, vale a dire di strategie nuove rispetto a quelle iniziali, ottenute per sperimentazione, ricombinazione o imitazione. I soggetti interagiscono tra loro in modi strutturati (giochi) attraverso incontri casuali o assortativi, producendo degli esiti diversificati a seconda delle combinazioni di strategie scelte. Se queste determinano un vantaggio relativo per il soggetto che ne è portatore, allora aumenta la probabilità che esse vengano trasmesse e di conseguenza la loro diffusione nella popolazione. Di generazione in generazione quindi, ogni strategia si può diffondere o estinguere. Quando, infine, una sola strategia sarà presente nell’intera popolazione questa avrà raggiunto la «fissazione». L’applicazione nella quale, probabilmente, più stretto è il legame tra ragionamento biologico e ragionamento economico è la teoria dei giochi evolutivi che implementa un concetto di razionalità limitata, considerando giocatori che deliberano e apprendono attraverso un processo di tentativi ed errori. Alcuni problemi metodologici relativi in particolare al rapporto tra evoluzione naturale ed evoluzione culturale tendono a limitare il dominio di applicabilità dell’economia evoluzionistica. V. Pelligra BIBL.: JOHN MAYNARD-SMITH, Evolution and the Theory of Games, Cambridge 1982; R.R. NELSON - S.G. WINTER, An Evolutionary Theory of Economic Change, Cambridge (Massachusetts) 1982; G.M. HODGSON, Economics and Evolution, Cambridge 1993; J. WEIBULL, Evolutionary Game Theory, Cambridge (Massachusetts) 1995; P.H. YOUNG, Individual Strategy and Social Structure, Princeton (New Jersey) 1998; G.M. HODGSON, Evolution and Institutions, Cheltenham 1999; ROBERT SUGDEN, The Evolutionary Turn in Game Theory, in «Journal of Economic Methodology», 8 (2001), pp. 113-130; R.R. NELSON - S.G. WINTER, Evolutionary Theorizing in Economics, in «Journal of Economic Perspective», 16 (2002), pp. 23-46; T.B. BERGSTROM, Evolution of Social Behavior: Individual and

Economia neoclassica Group Selection, in «Journal of Economic Perspective», 16 (2002), pp. 67-88.

ECONOMIA NEOCLASSICA (neoclassical Economia neoclassica economics; neuklassische Wirtschaftslehre; économie néoclassique; economía neoclásica). – Con economia neoclassica si suole intendere oggi quel corpus teorico che nasce intorno al 1870 in seguito alla cosiddetta «rivoluzione marginalista» e in contrapposizione all’economia politica classica, per opera soprattutto dell’inglese W. Stanley Jevons (1835-82), dell’austriaco Carl Menger (1840-1921) e del francese Léon Walras. È importante distinguere il marginalismo come metodo dall’economia neoclassica come dottrina. Nonostante siano nati e si siano sviluppati insieme, non necessariamente l’uno implica l’altra: è possibile (ed esiste) una teoria economica neoclassica non marginalistica, così come il marginalismo come metodo può essere applicato a teorie economiche non neoclassiche. I caratteri fondamentali dell’impostazione teorica neoclassica, che dagli anni settanta dell’Ottocento è divenuta e rimasta dominante nel pensiero economico anche contemporaneo, sono tre: 1) l’idea che l’oggetto dell’economia sia la scarsità, ovvero lo studio di tutte le cose che sono, al tempo stesso, utili e disponibili in quantità limitata e perciò hanno un prezzo; 2) la concezione secondo cui la costruzione della teoria debba necessariamente partire dall’analisi del comportamento individuale dei soggetti, siano essi i consumatori o le imprese, e quindi procedere per successive aggregazioni; 3) la convinzione che l’economia sia una scienza se e in quanto a essa venga applicato il metodo matematico, ritenuto il modello privilegiato di un sapere rigoroso. Di qui discende che l’economia, piuttosto che lo studio di una sfera particolare dell’attività umana, sia lo studio di quell’aspetto generale dell’attività umana consistente nel dovere operare necessariamente delle scelte. Nella celebre definizione di un grande economista neoclassico del Novecento, l’economia è appunto «la scienza che studia il comportamento umano come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi» (L. Robbins, An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, London 19843 [1932], p. 16, tr. it. Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica, Torino 19532, p. 20). In altri termini, il problema economico viene concepito come il 3205

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Economia politica cristiana problema di rendere massimo un certo risultato condizionatamente a una data disponibilità di mezzi, oppure, in modo equivalente, di rendere minimo il dispendio di mezzi per conseguire un determinato risultato. L’economia neoclassica presuppone che i soggetti siano individualmente in grado di operare un ordinamento «razionale» delle loro preferenze e degli scopi molteplici. Così impostato, al problema economico è quindi assolutamente naturale applicare il calcolo matematico, in quanto esso costituisce lo strumento più adatto e potente per risolvere problemi di questa natura. Nello stesso tempo, l’economia neoclassica individua leggi economiche il cui valore è considerato assoluto come i principi della matematica, ossia leggi non ritenute storicamente o socialmente determinate. L’economia neoclassica si è sviluppata lungo due grandi direzioni: quella dell’equilibrio economico generale walrasiano e quella dell’equilibrio economico parziale marshalliano. Nella prima, prevale la concezione secondo la quale tra le differenti parti e variabili di cui si compone il sistema economico vi sono relazioni di reciproca causalità, che debbono essere tutte e contemporaneamente considerate (di qui anche la necessità e l’opportunità del metodo matematico, data la complessità delle molteplici relazioni di interdipendenza tra tutti i differenti mercati da cui è composta l’economia). Nella direzione dell’equilibrio parziale, si ritiene invece che nell’esame di un determinato problema economico si debbano isolare alcune variabili, considerando le altre esogene e invarianti, e procedere quindi a un’analisi «pezzo per pezzo». F. Ranchetti BIBL.: C. MENGER, Grundsätze der Volkswirtschaftslehre, Wien 1871 (ora vol. I dei Gesammelte Werke, a cura di F.A. Hayek, Tubingen 1968-702, 4 voll.), tr. it. a cura di R. Cubeddu, Principi di economia politica, Soveria Mannelli 2001; C. NAPOLEONI - F. RANCHETTI, Il pensiero economico del Novecento, Torino 19902; G.J. STIGLER, Production and Distribution Theories, New Brunswick (New Jersey) 1994; G. LUNGHINI - F. RANCHETTI, Valore, in AA.VV., Enciclopedia delle Scienze Sociali Treccani, Roma 1998, vol. VIII, pp. 739-750; W.S. JEVONS, The Theory of Political Economy, London 18792 (rist. Basingstoke 2001), tr. it. a cura di L. Amoroso, Teoria della economia politica e altri scritti, Torino 19662. ➨ MARGINALISMO; UTILITÀ.

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ECONOMIA POLITICA CRISTIANA (ChrisEconomia politica cristiana tian political economy). – Termine con cui si designa una corrente di pensiero economico presente nel mondo di lingua inglese fra Settecento e Ottocento che prese il nome dal titolo dell’opera di un discepolo di Sismondi: A. de Villeneuve-Bargemont, Economie politique chrétienne (Paris 1834, 3 voll.). L’opera verteva sulle cause e i rimedi del pauperismo in Francia e in Europa. Villeneuve conosceva gli scritti di Smith, Say e Malthus, ma la sua opera era «cattolica di fede, e cattolica nel suo modo di concepire la scienza» (A. de Villeneuve-Bargemont, Christian Political Economy, in «Dublin Review», 2, 1837, [pp. 166-197], p. 175). Ignorato dagli economisti dell’Ottocento in Francia e Gran Bretagna, influenzò il pensiero di Wilhelm Emmanuel von Ketteler, e per suo tramite Leone XIII e la «dottrina sociale cattolica» della Rerum Novarum (Roma 1891). Il termine è stato riscoperto da Salim Rashid nel 1977 per caratterizzare l’opera degli economisti britannici del Settecento e Ottocento che erano ecclesiastici. È stato ridefinito da Anthony M.C. Waterman nel 1991 per indicare una tradizione intellettuale coerente che inizia intorno al 1798 e si spinge fino al 1840 alla quale diedero importanti contributi Thomas R. Malthus, William Paley, John B. Sumner, Edward Copleston, Richard Whately e Thomas Chalmers e che si proponeva di combinare l’economia politica classica con la teologia cristiana nella teoria sociale normativa. Esclude perciò l’opera di autori che furono ecclesiastici come George Berkeley, Josiah Tucker, Richard Jones e William Whewell, che o precedettero la scuola «classica» o ne restarono fuori. Il pensiero economico del Settecento, che traeva origine nella concezione teologicamente ispirata dell’ordine di mercato di Pierre Le Pesant Sieur de Boisguilbert e culminava con l’opera di A. Smith An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (London 1776, tr. it. a cura di A. Roncaglia, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Roma 1995), era ritenuto compatibile con la fede cristiana in generale e con l’idea di divina provvidenza in particolare. Questo presupposto fu brutalmente scosso da An Essay on the Principle of Population (London 1798, tr. it. a cura di G. Maggioni, Saggio sul principio di popolazione, Torino 1977) di Malthus. Infatti un effetto non intenzionale della polemica di Malthus

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contro William Godwin fu quello di integrare nell’analisi economica quella che divenne poi nota come la legge dei «rendimenti decrescenti». L’«economia politica» divenne la scienza della scarsità, costituendo un nuovo e preoccupante esempio di «problema del male» teologico, il problema di come una divinità onnipotente e benevolente abbia creato un mondo in cui tutti devono vivere nella «miseria» o nel «vizio». Questa «tetra scienza» venne deprecata come blasfema e «ostile alla religione». Malthus nel primo Essay tentò di elaborare una teodicea, ma questa era palesemente insoddisfacente e fu subito emendata da Paley che sfuggì al problema inserendo il principio della popolazione nel suo schema teleologico. La soluzione di Paley fu ampliata da Sumner con grande e duraturo successo e rifinita e integrata da Copleston e dal suo illustre discepolo Whately; fu infine volgarizzata dal teologo scozzese Chalmers. La soluzione nella sua versione finale può essere riassunta nel modo seguente: la povertà e la disuguaglianza sociale sono conseguenze inevitabili della pressione della popolazione su un mondo dotato di risorse limitate. Per via del peccato originale e della redenzione portata dal Cristo, la vita umana sulla terra costituisce uno stato di «disciplina e prova» per l’eternità. Anche se la povertà e la disuguaglianza implicano una certa quantità di autentica sofferenza – che si spiegano con la caduta originale – esse sono soprattutto un deliberato «ritrovato» di un Dio benevolo che deve servire a esercitarci in vista della vita futura. La proprietà privata e il matrimonio sono economicamente necessari, adatti alla natura umana, e conformi alla Scrittura. La proprietà privata combinata con la scarsità prodotta dalla competizione conduce all’economia di mercato. L’efficacia di questa nell’organizzare l’attività umana in vista della massimizzazione della ricchezza è prova della divina sapienza e misericordia nell’usare la debolezza umana per fini socialmente benefici. L’impossibilità di promuovere il progresso sociale attraverso la legislazione è prova sia del «disegno divino» (creazione dell’economia autoregolantesi) sia del bisogno morale e religioso dei cristiani di praticare la carità e la compassione. La vera felicità in questa vita è in larga misura indipendente dalla ricchezza e dalla collocazione sociale. Ma in ogni caso la ricchezza è correlata con il merito morale, a sua

Economia sperimentale volta prodotto dalla fede cristiana. Una educazione cristiana generalizzata è quindi della massima importanza pratica e costituisce una caratteristica essenziale della tradizionale unione fra chiesa e stato. Queste tesi costituirono l’ortodossia politica in Gran Bretagna per quasi un secolo e furono rilanciate negli anni ottanta del Novecento da Margaret Thatcher. A.M.C. Waterman BIBL.: A. DE VILLENEUVE-BARGEMONT, Economie politique chrétienne, ou recherches sur la nature et les causes du paupérisme, en France et en l’Europe, et sur les moyens de la soulager et de le prévenir, Paris 1834, 3 voll.; S. RASHID, Richard Whately and Christian Political Economy at Oxford and Dublin, in «Journal of the History of Ideas», 38 (1977), pp. 147-175; A.M.C. WATERMAN, Revolution, Economics and Religion: Christian Political Economy, 1798-1833, Cambridge 1991.

ECONOMIA SPERIMENTALE (experimenEconomia sperimentale tal economics; experimentelle Wirtschaftsforschung; economie expérimentale; economía experimental). – Disciplina delle scienze sociali dedita allo studio dei fenomeni economici in laboratorio. L’economia sperimentale contemporanea si sviluppa a partire dalla metà del Novecento sotto l’impulso della neonata teoria dei giochi e dopo un periodo di generale scetticismo si impone come uno dei programmi di ricerca più innovativi in economia, come riconosciuto dal premio Nobel del 2002. Gli esperimenti economici (a differenza delle simulazioni con agenti artificiali) studiano il comportamento di esseri umani alle prese con decisioni di tipo economico, in circostanze disegnate dallo sperimentatore per scopi scientifici. L’economia sperimentale è ispirata da una filosofia di tipo empirista, e mira a fornire basi fattuali più solide alla teoria economica, tradizionalmente fondata su modelli idealizzati del comportamento razionale. Essa ha generato una serie impressionante di «anomalie empiriche», ovvero fenomeni che contraddicono le previsioni della teoria economica ortodossa (o neoclassica) (R. Thaler, The Winner’s Curse, Princeton 1993). Ma allo stesso tempo ha anche confermato alcune importanti congetture neoclassiche, e soprattutto ha permesso l’applicazione della teoria a casi concreti – per esempio attraverso la creazione di mercati «intelligenti» (A. Roth, The Economist as Engineer, in «Econometrica», 70, 2002, pp. 1341-1378). 3207

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Economicismo La caratteristica distintiva dell’economia sperimentale è l’uso dell’esperimento controllato, ovvero la variazione sistematica di un fattore causale mantenendo tutte le altre condizioni sperimentali invariate. In questo modo, l’influenza di un singolo fattore «in isolamento» può essere accuratamente osservata, riducendo il rischio di attribuire rilevanza causale a correlazioni statistiche accidentali (problema della validità interna degli esperimenti). L’economia sperimentale promette dunque di aggirare i problemi tradizionalmente associati all’analisi econometrica (statistica) «sul campo», dove i fattori causali sono solitamente molto numerosi e variano in modo disordinato confondendo le inferenze causali. Questo vantaggio dell’esperimento controllato viene tuttavia acquisito a prezzo di un grado maggiore di «artificialità» e dunque di una scarsa realisticità delle microeconomie costruite in laboratorio (problema della validità esterna degli esperimenti). Validità interna ed esterna sono generalmente inversamente correlate. Per aggirare questo problema, gli economisti tendono a seguire un metodo di graduale approssimazione, cominciando a studiare sistemi molto semplici in situazioni altamente controllate, che vengono progressivamente rese più complesse aggiungendo elementi di realisticità rispetto al mondo reale (C. Plott, Laboratory Experimental Testbeds: Application to the PCS Auction, in «Journal of Economics and Management Strategy», 5, 1997, pp. 605-638). Si tratta di un procedimento di «induzione eliminativa», dove le possibili dissimilarità fra sistema di laboratorio ed economia reale vengono sistematicamente controllate fino a quando non vi è ragione di ritenere che esistano differenze rilevanti. Il successo di questo metodo è in gran parte fondato sull’ipotesi che le migliori teorie a disposizione dello scienziato forniscano una lista di fattori causali approssimativamente completa (nel caso nuove teorie portino a identificare nuove possibili discrepanze fra laboratorio e mondo reale, queste potranno essere controllate a loro volta per via sperimentale). F. Guala BIBL.: A. ROTH - J. KAGEL (a cura di), The Handbook of Experimental Economics, Princeton 1995; M. MOTTERLINI - F. GUALA (a cura di), L’economia cognitiva e spe-

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rimentale, Milano 2004; F. GUALA, The Methodology of Experimental Economics, New York 2005. ➨ RAZIONALITÀ STRATEGICA.

ECONOMICISMO (economism; ÖkonomisEconomicismo mus; économicisme; económicismo). – In generale, teoria che assegna un ruolo determinante nella storia umana ai fattori economici. Un antenato del termine economicismo fu coniato da Antonio Labriola che chiamò il marxismo «economismo storico» con connotazione positiva. Il termine equivalente, più diffuso nel lessico marxista-leninista in russo e poi in altre lingue, «materialismo economico» venne usato da parte di chi si opponeva alle sue versioni deterministiche che affermavano una causalità unidirezionale fra «base economica» e «sovrastruttura», intendevano le formazioni sociali come riducibili immediatamente ai modi di produzione, e per lo più predicavano l’inevitabilità del crollo del capitalismo. Queste versioni avrebbero rappresentato «una concezione materialista volgare» che avrebbe affermato che il soggetto della storia non sono gli uomini stessi che la fanno sulla base delle condizioni materiali date, ma invece le stesse «forze» o gli stessi «fattori» economici dei quali l’azione umana sarebbe ridotta a «epifenomeno» (cfr. G. Batusev, Ecoknomiceskij materializm, in F.B. Kostantinov [a cura di], Filosofskaia Entsiklopedija, 5 voll., Moskva 1962, vol. V, pp. 545-546; cfr. I.V. Starikov, Istoriceskij Materializm, in F.B. Kostantinov [a cura di], op. cit., vol. II, pp. 353-368). Il leninismo è stato il tipico avversario dell’economicismo in quanto affermava la possibilità della rivoluzione proletaria anche in un paese dove lo sviluppo delle forze produttive non avesse ancora raggiunto il suo apice grazie alla costruzione di una coscienza di classe nel proletariato per opera di una avanguardia esterna. Nel marxismo italiano fu tipicamente avversario dell’economicismo Antonio Gramsci che accentuò il ruolo della cultura e degli intellettuali come organizzatori delle masse (cfr. Quaderni del carcere, 4 voll., ed. a cura di V. Gerratana, Torino 1975, vol. II, pp. 1386-1394). Tuttavia né il leninismo né il gramscismo affrontarono il problema teorico connesso alle nozioni di formazione economico-sociale e di modo di produzione, ovvero se vi sia modo di ricostruire una causalità pluridirezionale fra fattori tecnologici ed economici e fattori culturali, politici, religiosi in una società storicamente data, e non solo una

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causalità unidirezionale dalla «base economica» alla «sovrastruttura», e si limitarono invece alla vaga affermazione che tale causalità unidirezionale non è deterministica per poi postulare una autonomia della politica o della cultura rispetto all’economia, e infine svolgere analisi dei fattori politici o dei fattori culturali senza più tentare alcuna teoria sociale complessiva. Dai teorici sociali non marxisti o post-marxisti, soprattutto a partire dall’opera di Karl Polanyi, l’accusa di economicismo è stata rivolta allo stesso Marx per avere tendenzialmente privilegiato la spiegazione dei fenomeni sociali a partire dai fenomeni del mercato prescindendo da fattori di organizzazione sociale che precedono e accompagnano il mercato stesso; per via di questa sopravvalutazione del ruolo del mercato, Marx avrebbe sottovalutato l’importanza di dimensioni da lui stesso esplorate come l’«accumulazione originaria» nella quale i rapporti di forza politici e sociali agivano prima della dinamica del mercato e la dialettica delle classi sociali nelle loro manifestazioni storicamente determinate che dipendono da fattori ideologici e associativi che il modello astratto di Marx dichiarava dipendenti dai rapporti di mercato. S. Cremaschi BIBL.: R. JESSOP, Mode of Production, in J. EATWELL - M. MILGATE - P. NEWMAN (a cura di), The New Palgrave, London 1991, vol. II, pp. 489-491; E. MINGIONE, Sociologia della vita economica, Roma 1997. ➨ FORMAZIONE ECONOMICO-SOCIALE.

ECONOMIE PRIMITIVE. – La categoria Economie primitive concettuale di «primitivo», termine inteso originariamente come «selvaggio» o «barbaro», contrapposto a «civilizzato», si sviluppa, a partire dalla seconda metà del XV secolo, man mano gli europei entravano in contatto col mondo non occidentale e cominciavano a descriverlo nei loro resoconti. L’insieme di tali annotazioni poteva già essere trattato come «storia morale» (da mores, costumi) nel corso del Cinquecento, per divenire poi, nell’Ottocento, «etnografia» e, quindi, «antropologia». Entrato stabilmente nel linguaggio professionale, il termine economie primitive si è fatto ingombrante alla fine del Novecento in quanto impreciso, infondato ed eurocentrico, senza che si sia individuato un sostituto. Nell’uso che se ne continua a fare, per «primitive» s’intendono le società studiate sul campo dagli

Economie primitive antropologi, in modo «olistico» (ossia «sostanzialistico»), a fini comparativi e definite, di volta in volta, come non occidentali, senza scrittura, senza moneta unica di mercato, senza stato, non capitalistiche, semplici, naturali, a economia di sussistenza, del faccia a faccia, tribali, di piccole dimensioni, fondate sulla parentela, tecnologicamente a livello del neolitico. L’interesse che riveste lo studio delle loro descrizioni sta nell’affinare un metodo di lettura applicabile universalmente a tutti i sistemi economici e sociali e nel fornire i materiali per individuare le invarianti delle società umane, indipendenti dai luoghi e dai tempi. Per quanto riguarda in particolare i sistemi economici primitivi, vale a dire le attività attraverso le quali, in quelle società, si usano le risorse a disposizione per produrre, distribuire e consumare beni e servizi, è stato messo in evidenza come tali attività siano incorporate (embedded) nel sociale, nel senso che chi le svolge non le considera come «economiche» bensì come parte integrante delle relazioni che s’intrattengono con gli esseri umani e con la natura, terrena e ultraterrena. Le tecnologie impiegate sono molto semplici e con una divisione del lavoro fondata sul sesso, sull’età e qualche volta anche sul rango. Le unità produttive sono prevalentemente costituite dalle famiglie nucleari legate in complessi sistemi di parentela e che svolgono funzioni riproduttive, affettive, educative, politiche, religiose, militari, territoriali. Le economie primitive sono descritte come fortemente stabili e consuetudinarie in quanto vi si impedisce l’accumulazione di ricchezza, personale e comunitaria. Il sovrappiù, infatti, è normativamente investito e dissipato allo scopo di rinsaldare legami interpersonali, parentali e intertribali nel corso di feste, riti, cerimonie (come il potlach) e dell’esercizio dell’ospitalità. Peraltro, l’accumulo di beni oltre un certo limite espone a diffidenza, sospetti e pericolose ostilità. I modi di produzione primitivi sono classificati, tipicamente, in tre grandi famiglie: caccia e raccolta, pastorizia, agricoltura. Mancando una moneta unica di mercato e la possibilità di tenere registrazioni, la distribuzione e lo scambio avvengono sempre sulla base di rapporti personali secondo regole di reciprocità. Tra consanguinei e affini si adotta una reciprocità generalizzata (dono); al di fuori delle alleanze parentali, ove vi sia dimestichezza e fiducia tra le persone, si possono stabilire circuiti di reciprocità bilan3209

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Ecpirosi ciata (alla pari); tra nemici vige invece una reciprocità negativa (inganno, rapina, guerra). Gli scambi si distinguono anche sulla base delle categorie degli oggetti che passano di mano – cibi e strumenti per la sussistenza, beni cerimoniali, beni non necessari – ognuna delle quali alimenta un proprio circuito, senza possibilità che vi sia commistione tra l’uno e l’altro. Per questo le economie primitive sono definite come multicentriche per distinguerle da quelle che fanno perno su di una moneta unica che ha potere su qualunque bene e servizio. Mentre le società primitive sono definite invece come monocentriche, essendo imperniate intorno al sistema della parentela, a differenza di quelle occidentali che sono caratterizzate da pluralismo istituzionale, sociale e culturale. M. Bianchini BIBL.: E.S. MILLER - C.A. WEITZ, Introduction to Anthropology (1931), Englewood Cliffs (New Jersey) 1979; K. POLANYI, Primitive, Archaic and Modern Economies, Garden City (New York) 1968, tr. it. di N. Negro, Economie primitive, arcaiche e moderne, Torino 1980; M. SAHLINS, Stone Age Economics, London 1972, tr. it. di L. Trevisan, L’economia dell’età della pietra, Milano 1980; M. GODELIER, Primitivo, in Enciclopedia Einaudi, 16 voll., Torino 1977-84, vol. X, pp. 1130-1145.

ECPIROSI (gr. ejkpuvrosi", «conflagrazione»). Ecpirosi – Secondo gli stoici, il mondo, dopo aver percorso il suo ciclo, si dissolverà alla fine nell’ecpirosi, cioè nella conflagrazione generale. La conflagrazione non è una distruzione dell’universo, ma una sua nuova rigenerazione, perché in essa il mondo si dilata nel vuoto illimitato che lo circonda e tutte le cose si trasformano in fuoco, o in luce come sostiene Crisippo. Il mondo giunge alla sua perfezione, perché ritorna al fuoco da cui si era originato alla fine del grande anno, quando tutti i pianeti occupano la medesima posizione che occupavano al principio. «Nel corso dei periodi fatali il mondo intero va in fiamma, e quindi comincia una nuova costituzione cosmica» (in Eusebio, Praeparatio evangelica, XV, 816 d; cfr, anche: Taziano, Adversus Graecos, 5; Plutarco, De stoicorum repugnantiis, 41; De communibus notitiis adversus Stoicos, 36). La teoria dell’ ecpirosi, già presente nel pensiero iranico e babilonese (cfr. Seneca, Naturales quaestiones, III, 29) e formulata esplicitamente da Eraclito (cfr. Ippolito, Refutatio, IX, 10; v. G.S. Kirk, Ecpyrosis in Heraclitus. 3210

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Some Comments, in «Phronesis», 1959, pp. 7379) si connette così con la concezione presocratica del tempo ciclico e con quella, conseguente, della palingenesi di tutta la realtà. Anche nel pensiero cristiano la dottrina della fine del mondo è connessa al fuoco come elemento distruttore (2 Pt 3,12; 1 Cor 3,15); ma non è possibile dimostrare che essa abbia il suo genuino antecedente nell’ecpirosi stoica, e nemmeno in una dottrina consimile che si presume esistesse anche presso gli ebrei (cfr. Oracula Sybillina, II, 253-255; IV, 172). L’ecpirosi, nel concetto cristiano, non ha un mero carattere naturalistico, come nello stoicismo, ma una funzione etico-escatologica: il fuoco è insieme prova e purificazione. Con questo significato la ritroviamo negli apologisti cristiani (Taziano, Adversus Graecos, 6; Giustino, Apologia, I, 20; II, 7) e nella patristica (Origene, Commento alla Genesi, in J.-P. Migne, Patrologiae cursus completus, Series I: [Patres] Ecclesiae Graecae, 161 voll. in 167 tomi, Paris 1857-66, vol. XII, col. 105). G. Faggin - A.M. Ioppolo ➨ FUOCO; PALINGENESI; STOICISMO.

ECUMENISMO. – SOMMARIO: I. Chiesa unita Ecumenismo e divisa. - II. Il movimento ecumenico. - III. Significato e prospettive. I. CHIESA UNITA E DIVISA. – Fin dall’inizio la storia cristiana è stata una storia di unità e divisione insieme. Forti tensioni e divergenze sul piano teologico ed ecclesiologico esistevano già nel cristianesimo apostolico (identificato approssimativamente con quello del I secolo), tanto che studiosi autorevoli come Ernst Käsemann si sono chiesti se il canone neotestamentario fosse realmente in grado di fondare l’unità della chiesa. Nel II secolo sorsero nel cristianesimo correnti critiche e aree di dissenso che, in generale, furono sommariamente classificate come «eretiche», non sempre a ragione. Il Credo detto «ecumenico», fissato dai concili di Nicea (325) e Costantinopoli (381) e perciò conosciuto come «niceno-costantinopolitano», proclama la fede cristiana nella unicità e unità della chiesa («Crediamo [...] nella Chiesa una, santa, cattolica e apostolica»), ma già allora il corpo ecclesiale era stato e continuava a essere attraversato da seri conflitti dottrinali: si pensi, per limitarci a due soli esempi, allo scontro nel IV secolo tra Donato, intransigente in tema di prassi penitenziale, e il più conciliante Ceciliano, sostenuto da Roma, e al con-

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seguente «scisma donatista» in Africa del Nord; oppure al più vasto, duro confronto tra arianesimo e ortodossia trinitaria che si protrasse per molto tempo. Questi conflitti sfociarono in vere e proprie divisioni durature nei secoli, oppure in scismi che con ogni probabilità sarebbero anch’essi stati permanenti, se non fosse intervenuto il potere politico a «risolverli» reprimendoli con la forza della legge, e qualche volta persino con quella delle armi. L’appoggio dell’imperatore Teodosio svolse un ruolo non secondario nella vittoria dell’ortodossia trinitaria. Nel V secolo, in relazione alle dispute sulla natura divina e umana di Cristo e al loro rapporto nell’unica persona di Gesù di Nazareth, sorse uno scisma tra le cinque chiese ortodosse orientali (o «antiche orientali», o anche «precalcedonensi», o anche «nestoriane», o «monofisite») e le altre chiese cristiane, tuttora non superato anche se il dialogo per porvi fine è a buon punto. Nell’XI secolo ha avuto luogo la divisione tra la chiesa d’Oriente e la chiesa d’Occidente, che tuttora permane, malgrado i tentativi di riconciliazione dei concili di Lione (1274) e di Ferrara-Firenze (1438-39). Nel XVI secolo è stata la cristianità occidentale a dividersi in protestantesimo (a sua volta articolato in alcune confessioni e numerose denominazioni) e cattolicesimo romano, mentre in Inghilterra nasceva la chiesa anglicana, vicina al protestantesimo sul piano teologico, pur conservando l’assetto istituzionale e le forme liturgiche e devozionali vicine al cattolicesimo. Infine, nel XIX secolo, all’indomani della proclamazione del dogma del primato e dell’infallibilità del pontefice romano al concilio Vaticano I (1870), una parte dell’episcopato cattolico, contraria a quel dogma, s’è separata da Roma dando vita alla chiesa vecchio-cattolica. Tutte queste divisioni sussistono ancora, anche se nessuna riguarda il nucleo centrale della fede cristiana costituito dalla fede nel Dio trinitario e nella vera divinità e vera umanità di Gesù Cristo. Questa fede condivisa da tutte le chiese, non basta a tenerle unite. Tutte le chiese credono che la chiesa è una e sono effettivamente unite nella confessione centrale della fede cristiana, riguardo a Dio e a Cristo. Sono però divise per ragioni dottrinali (su varie questioni relative alla chiesa) e per una serie di fattori non teologici di varia natura, che condizionano non poco la vita delle chiese e i loro rapporti. È per superare la contraddizione di una chiesa al

Ecumenismo tempo stesso unita e divisa che è sorto il movimento ecumenico. II. IL MOVIMENTO ECUMENICO. – L’esigenza di manifestare nel «vissuto» delle chiese quell’unità che esse credono e confessano nelle loro dichiarazioni di fede è stata avvertita in ogni tempo, ma in maniera più viva a partire dal secondo millennio della storia cristiana. Un ecumenismo di largo respiro tra rappresentanti di fedi diverse animava, già del XII secolo il Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, scritto da Abelardo intorno al 1140. Uno spirito analogo ispirò nel 1453 il De pace fidei di Niccolò Cusano: in base alla sua comprensione di Dio come complexio e coincidentia oppositorum, Cusano considera le differenze e divergenze che si manifestano nell’umanità in tutti i campi, compreso quello religioso, come provvisorie, non definitive e non fondamentali. Tutte le religioni non sono altro che quaedam loquutiones verbi Dei sive rationis aeternae: in tutte c’è qualcosa di vero, ma nessuna da sola esprime l’intera verità divina, anche se il cristianesimo le si avvicina di più. La pace tra le religioni, e tanto più tra le confessioni cristiane, scaturisce dall’unità di fondo dell’esperienza religiosa, anche se espressa in modi molti diversi: una religio in rituum varietate. Cusano lavorò assiduamente (ma invano) per ricondurre gli hussiti all’unità della chiesa latina e per la riconciliazione tra Oriente e Occidente cristiano. Dopo la Riforma del XVI secolo possiamo ricordare il luterano Georg Calixt (1586-1656), che propose di distinguere tra gli articuli fundamentales, cioè gli articoli di fede necessari alla salvezza che i cristiani di tutte le chiese devono condividere, e le peculiarità dottrinali, liturgiche e devozionali delle singole confessioni, che non riguardano i fondamenti della fede cristiana e possono essere diverse senza compromettere l’unità della fede. Calixt ravvisava nel consensus quinquesaecularis (i dogmi dei primi cinque secoli della storia cristiana) la base teologica necessaria e sufficiente, se condivisa, per fondare l’unità cristiana. La sua proposta fu fieramente avversata dai luterani ortodossi, che lo accusarono di sincretismo e criptocattolicesimo. Altra personalità luterana da menzionare è Gottfried W. Leibniz (16461716) che, ispirandosi all’opera e al pensiero dell’arminiano Ugo Grozio, coltivò per tutta la vita il sogno di una grande chiesa universale unificata. Dal 1691 fu in corrispondenza con Jacques Bénigne Bossuet, vescovo di Meaux, e 3211

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Ecumenismo propose una piattaforma teologica per la futura chiesa unita che si collegava con l’antica tradizione cristiana, mettendo tra parentesi le definizioni tridentine, considerate troppo confessionali per essere ricuperabili ai fini di un progetto ecumenico. Bossuet rifiutò di discutere una simile ipotesi e la trattativa fu interrotta. Anche in campo cattolico vi furono uomini animati da propositi ecumenici, come, tra gli altri, il generale dell’ordine francescano Cristoforo Spinola, che redasse un testo intitolato Regole di guida alla riunione di tutte le Chiese cristiane, destinato a un’assemblea che avrebbe dovuto preparare la riunificazione delle chiese. Molti altri nomi potrebbero essere fatti, ma è soprattutto nell’Ottocento che fiorirono iniziative ecumeniche collettive che prepararono il terreno al sorgere del movimento ecumenico propriamente detto. Qui va menzionata l’Alleanza Evangelica, primo cospicuo esempio di ecumenismo intraprotestante, creata a Londra nel 1846. Due anni prima, sempre a Londra, era nata l’Associazione Cristiana dei Giovani ( YMCA), seguita nel 1895 dal ramo femminile (YWCA). I due movimenti si diffusero rapidamente a livello mondiale, con un progetto missionario tra i giovani secolarizzati di allora, attuato non più in nome di una chiesa particolare, ma della comune appartenenza cristiana. Un altro importante organismo, che fornì non pochi leaders al movimento ecumenico del Novecento, fu la Federazione mondiale degli Studenti cristiani (WSCF), creata a Vadstena (Svezia) nel 1895. Infine sorsero vari organismi confessionali mondiali nei quali per la prima volta nella loro storia si incontrarono e cominciarono a conoscersi da vicino chiese che, pur appartenendo alla stessa confessione o denominazione, erano tra loro abbastanza diverse per i diversi contesti storici e culturali in cui si erano impiantate e sviluppate. Questi organismi furono le prime palestre in cui le chiese fecero l’esperienza ecumenica fondamentale dell’unità nella diversità. Così, tutte le chiese anglicane cominciarono, a partire dal 1867, a incontrarsi con scadenza regolare nelle «Conferenze di Lambeth», quelle riformate in una «Alleanza» creata nel 1875, quelle metodiste in un «Consiglio» nato nel 1881, quelle battiste in una «Alleanza» del 1905, quelle luterane in una «Federazione» del 1929, e così via. 3212

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La nascita del movimento ecumenico organizzato si fa comunemente risalire alla conferenza missionaria mondiale di Edimburgo del 1910, dove si prese coscienza del fatto che la missione cristiana nel mondo sarebbe stata molto più efficace e credibile se fosse stata unitaria. L’ecumenismo come decisione corale fu dunque presa non in seno alle «chiese stabilite», comodamente insediate nella divisione, ma in seno alle società missionarie che registravano ogni giorno, nel loro lavoro, il danno che la divisione delle chiese recava al progresso del cristianesimo nel mondo. Conseguentemente, la finalità primaria e originaria dell’ecumenismo era (e resta) di favorire la missione che lo ha generato. Il movimento si sviluppò nei primi decenni della sua storia lungo due linee distinte, che corrispondono a due diverse visioni dell’unità della chiesa e del modo per raggiungerla: la prima linea, promossa dalla corrente «Fede e Costituzione» (Faith & Order), è quella dell’unità nella fede ottenuta attraverso il dialogo teologico; la seconda linea, promossa dalla corrente «Vita e Azione» (Life & Work), puntava sull’unità cristiana raggiunta attraverso il lavoro comune, secondo il motto «la dottrina divide, l’azione unisce»: è questa corrente che organizzò la prima grande assemblea ecumenica mondiale, a Stoccolma nel 1925. Queste due tendenze, pur vivendo esistenze parallele, erano (e sono) in realtà complementari. Non stupisce quindi che insieme abbiano dato vita al principale organismo ecumenico oggi esistente: Il Consiglio Mondiale delle Chiese, creato ad Amsterdam nel 1948, del quale fanno parte la grande maggioranza delle chiese protestanti e ortodosse (oggi oltre 300; quando fu fondato erano 147; tra le grandi chiese cristiane manca solo la chiesa cattolica romana). La base teologica del Consiglio, che bisogna sottoscrivere per farne parte, è la seguente: «Il Consiglio ecumenico delle chiese è un’associazione fraterna (fellowship) di chiese che confessano il Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore secondo le Scritture, e perciò cercano di adempiere insieme la loro comune vocazione alla gloria dell’unico Dio Padre, Figlio e Spirito Santo». Dal 1948 a oggi il Consiglio ha tenuto nove assemblee mondiali: l’ultima s’è svolta a Porto Alegre, Brasile, nella primavera del 2006. Con il concilio Vaticano II (1962-65) anche la chiesa cattolica romana, che fino allora aveva espresso un giudizio negativo sul movimento

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ecumenico vietando ai cattolici di parteciparvi (enciclica Mortalium animos di Pio XI, del 1928), ha sensibilmente modificato la sua posizione decidendo di partecipare attivamente al movimento, senza peraltro entrare a far parte del Consiglio Mondiale delle chiese. Il documento conciliare Unitatis redintegratio (1964) è il «manifesto» del nuovo ecumenismo cattolico e contiene affermazioni che dischiudono nuovi orizzonti nei rapporti tra la chiesa cattolica e le altre chiese, come quella secondo la quale le chiese ortodosse e protestanti «non sono affatto prive di significato e di peso nel mistero della salvezza» (n. 3). Al tempo stesso viene ribadita la centralità della chiesa di Roma, titolare, secondo il Vaticano II, della «pienezza» dei mezzi di grazia e della verità cristiana. Comunque, con la «conversione ecumenica» del cattolicesimo romano, una pagina nuova s’è aperta nella sua storia. Un punto fermo in questa direzione resta un memorabile documento del Gruppo Misto (Ginevra-Roma) dedicato al tema Verso una professione di fede comune (1980). Esso insiste su un particolare a priori di metodo, che possiamo considerare essenziale per il cammino intrapreso: «Le chiese al cui interno il contenuto della fede si esprime in una formulazione più ampia non devono ritenere a priori che le altre chiese, meno esplicite nelle loro tradizioni dottrinali, tradiscano volontariamente o in base a qualche calcolo perverso l’integralità dell'eredità cristiana. Devono invece fare affidamento sull'implicito e sul vissuto che esso permette. A loro volta, evidentemente, le chiese più sobrie a livello di enunciati dottrinali e di vita sacramentale, devono guardarsi dal pensare a priori che le altre chiese, più ricche di formule di fede e di riti, inquinino la purezza della fede con aggiunte superflue o parassitarie. Non devono negare ma lasciare aperta la questione» (n. 924). Il testo citato ha grande importanza: prima di tutto perché elaborato da un gruppo di elevata ufficiosità, nel quale sì esprime anche la voce teologica cattolica; e poi perché non si riferisce a punti secondari di diversità tra le chiese bensì proprio al settore delicato della dottrina della fede e della liturgia. III. SIGNIFICATO E PROSPETTIVE. – Le grandi religioni del mondo sono tutte, come quella cristiana, divise al loro interno, anche profondamente, ma in nessuna di esse esiste qualcosa di analogo a quello che è il movimento ecumenico nel cristianesimo, che quindi è per ora un

Ecumenismo unicum nel panorama religioso dell’umanità. Qual è il suo significato? Se ne possono sommariamente indicare tre. [a] Il primo, e forse il principale, è che l’ecumenismo è un movimento di pace tra le chiese. Con l’inizio del movimento ecumenico s’è virtualmente chiusa la lunga stagione della polemica, cioè della guerra, nelle varie forme che essa ha assunto: guerra vera e propria (crociate interne contro gli «eretici», oltre a quelle esterne contro gli «infedeli»; scontri armati tra truppe confessionalmente caratterizzate), oppure guerra legale (leggi discriminatorie e repressive per soffocare il dissenso e le minoranze religiose), o ancora guerra verbale (discorsi con i quali il cristiano «diverso» veniva screditato, denigrato, diffamato, così da suscitare nell’opinione pubblica sentimenti negativi, di ripulsa e avversione nei suoi confronti). Ecumenismo vuol dire in primis fine della guerra e inizio della pace, fine dello scontro e inizio dell’incontro, fine del monologo e inizio del dialogo. Questo comporta una bonifica degli animi, un cambiamento di mentalità e una vera conversione dei cuori. L’altro (cristiano) non è più il nemico da combattere e possibilmente eliminare, ma il portatore di un’altra esperienza di fede all’interno del cristianesimo, il testimone di un altro modo di intendere e vivere l’unica verità cristiana che trascende tutte le chiese e che nessuna chiesa particolare possiede in esclusiva. Ecumenismo vuol dire pluralità riconciliata di tradizioni, confessioni, istituzioni, liturgie e teologie, accettate e riconosciute come altrettante forme legittime nelle quali vive e si esprime l’unica chiesa di Cristo, che è una e plurale e la cui unità è un’unità di diversi. Ecumenismo vuol dire coesistenza pacifica nel senso alto del termine, nel senso cioè che le chiese non si accontentano più di esistenze isolate e parallele, anche se non più conflittuali, ma decidono di vivere e operare insieme, condividendo la loro vocazione e intrecciando le loro esistenze. E questo non riducendo artificiosamente lo spazio del consenso a un minimo denominatore comune, ma al contrario riconoscendo, attraverso dialoghi pazienti e prolungati che le grandi contrapposizioni dottrinale tradizionali, ad esempio tra cattolicesimo e protestantesimo, su temi centrali come Scrittura e tradizione, fede e opere, Parola e sacramento, grazia divina e iniziativa umana, e così via, non devono necessariamente essere viste e vissute nei ter3213

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Ecumenismo mini di una serie di aut-aut esclusivi e inconciliabili, ma possono essere spiegate in termini diversi di correlazione e complementarietà, pur salvaguardando il primato della Scrittura sulla tradizione, della grazia divina sull’iniziativa umana, e così via. Il teologo luterano Oscar Cullmann parlava di una «carisma cattolico», di un «carisma protestante», di un «carisma ortodosso» che potrebbero e dovrebbero essere individuati e riconosciuti come necessari alla pienezza dell’unità cristiana. Tutto questo, comunque, presuppone l’esistenza tra le chiese di rapporti di pace, stima, fiducia e apprezzamento reciproco. Le religioni, ed anche le chiese, sono state sovente all’origine di conflitti di varia natura, oppure hanno contribuito ad aggravarli. L’ecumenismo è l’antidoto a questa storia lunga e infausta, e rappresenta, per il cristianesimo, l’inizio di un’epoca nuova. [b] Un secondo significato di rilievo del movimento ecumenico è il collegamento, istituito si può dire fin dall’inizio, tra la ricerca dell’unità della chiesa e quella dell’unità dell’umanità. I due ambiti, benché nettamente distinti, non possono essere separati, sia perché sovente le divisioni presenti nell’umanità si manifestano anche nelle chiese, sia perché l’unità della chiesa non è fine a se stessa, ma intende porsi al servizio dell’unità della famiglia umana. L’orizzonte del movimento ecumenico non è soltanto ecclesiale. Uno dei programmi ecumenici recenti di maggiore rilievo è quello intitolato «Pace – Giustizia – Salvaguardia del creato»: si tratta di obiettivi che riguardano la sopravvivenza e la convivenza pacifica dell’umanità. La chiesa è, secondo il suo statuto, una comunità di uomini e donne nella quale cadono le barriere che dividono l’umanità: nella chiesa «non c’è né giudeo né greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina» (Gal 3,28). Oltre alle differenze culturali, sociali e sessuali, anche quelle economiche tendono a essere livellate: la comunità cristiana si sforza di praticare l’antico principio biblico secondo cui «chi aveva raccolto molto non ne ebbe di troppo, e chi aveva raccolto poco, non ne ebbe mancanza» – s’intende rispetto ai propri bisogni – cercando così di attuare, per quanto possibile, il «principio di uguaglianza» (2 Cor 8,13-15). Le differenze presenti nell’umanità non vengono annullate, ma vengono ridimensionate, così da non dividere più le persone tra loro e non impedire la loro comunione e, con essa, l’unità cristiana. 3214

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Anche se questa esperienza di unità è di carattere religioso e spirituale e non può essere immediatamente tradotta in termini politici, sociali ed economici, pure è altamente significativa e promettente: l’unità del genere umano, cioè la convivenza pacifica e feconda di culture, religioni, tradizioni, classi, popoli e nazioni diverse, è possibile. La chiesa è uno spaccato di umanità riconciliata, che proprio per questo «osa parlare di se stessa come di un segno della futura unità del genere umano» (Assemblea ecumenica mondiale di Uppsala, 1968). Ma per poter essere davvero questo «segno», le chiese devono superare le loro divisioni. Il movimento ecumenico ha dunque un duplice obbiettivo: promuovere l’unità cristiana in vista di un progetto più grande e più inclusivo ancora, cioè l’unità del genere umano. [c] Questo discorso introduce, perché in nuce già lo contiene, quello che collega ecumenismo e «coscienza planetaria» (come la chiamava Ernesto Balducci): in questo nesso c’è il terzo significato rilevante del movimento ecumenico. Fin dall’inizio della sua storia la chiesa si è concepita e presentata come «cattolica», cioè universale, sia perché l’Evangelo che l’ha generata e che essa annuncia è destinato a «ogni creatura» (Mc 16,15), sia perché nella chiesa l’antica divisione tra ebrei e pagani è stata superata, dato che Cristo «dei due popoli ne ha fatto uno solo» (Ef 2,14). Nel corso dei secoli, a motivo delle divisioni che si sono susseguite, la coscienza dell’universalità si è molto affievolita, pur senza essere mai dimenticata. Oggi il movimento ecumenico la sta ricuperando e ricollocando al centro dell’esperienza cristiana, ma in una nuova accezione: la vera e piena universalità cristiana, quella che corrisponde all’universalità di Dio e dovrebbe rifletterla, è quella che saprà spogliarsi delle sue determinazioni confessionali e religiose, per inverarsi in una universalità più inclusiva, quella di una comunità umana finalmente affratellata. Nella Gerusalemme celeste descritta dall’Apocalisse «non ci sarà più Tempio» (21,22). Questo vuol dire che tutte le identità religiose e laiche, compresa quella cristiana, che via via si sono succedute nei secoli e intorno alle quali l’umanità s’è organizzata dando luogo anche a innumerevoli conflitti, sono provvisorie e penultime. Non si tratta, ora, di rinnegarle, ma occorre trascenderle per ritrovarle in una identità umana nuova e condivisa a livello planetario. Si tratta di ripartire da una

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domanda radicale che coinvolge non solo la riflessione teologica, ma prima ancora quella antropologica e filosofica: «Che cosa è universalmente umano?». E questo corrisponde perfettamente anche a quello che è il cuore vivo della fede cristiana: «La Parola è stata fatta carne» (Gv 1,14), cioè umanità, nel senso più ampio ed inclusivo, cioè planetario, del termine. Ma quali sono, oggi, le prospettive del movimento ecumenico? I segnali sono contrastanti. Da un lato il movimento ecumenico ha conosciuto un indubbio, vasto successo, diffondendosi in quasi tutte le chiese e coinvolgendo innumerevoli cristiani a tutti i livelli: semplici credenti, pastori, teologi. D’altro lato i rapporti istituzionali tra le chiese non registrano progressi significativi. Si dialoga da decenni a tutto campo, raggiungendo in qualche caso accordi che non è retorico definire «storici», come il «consenso differenziato» del 1999 tra cattolici e luterani sulla dottrina della giustificazione per grazia mediante la fede, oggetto per secoli di aspre controversie, o come la Charta Oecumenica sottoscritta nel 2000 a Strasburgo da tutte le maggiori chiese cristiane d’Europa – in assoluto il primo documento del genere nella storia cristiana. Ma malgrado questi e altri importanti traguardi raggiunti, la piena comunione tra i cristiani resta lontana. In anni recenti si è anzi notato un irrigidimento identitario da parte di chiese e confessioni che pure dichiarano irrevocabile la loro adesione al movimento ecumenico. Le chiese non sono più come prima e non sono più divise come prima, e in questo senso l’ecumenismo ha vinto la sua battaglia; ma non sono ancora unite né si vede, al momento attuale, come possano diventarlo, e in questo senso il movimento ecumenico vive una fase di stallo. I cristiani delle diverse chiese continuano a non poter celebrare insieme la Cena del Signore, supremo segno e vincolo della loro unità. Eppure una serie di fattori interni (molti cristiani «di base» sentono di più ciò che li unisce ai cristiani di altre chiese, che ciò che da essi li divide) ed esterni (la secolarizzazione, i nuovi paganesimi, l’espansione missionaria di altre religioni mondiali) rendono l’ecumenismo non solo una via obbligata per il cristianesimo presente e futuro, ma anche, e più ancora, un debito che le chiese non hanno ancora saldato nei confronti dell’umanità che, divisa com’è,

Eddington ha il diritto di ricevere da loro un segnale chiaro che, fra gli umani, l’unità è possibile. P. Ricca BIBL.: A History of the Ecumenical Movement, I: 15171948, a cura di R. ROUSE - S.CH. NEILL, 1954, tr. it. di A. Prandi in tre volumi: Storia del movimento ecumenico 1 e 2, Bologna 1973; 3, Bologna, 1982); II: 19481968, a cura di H.C. FEY, 1970, tr. it. di A. Prandi, Bologna 1982; III: 1968-2000, a cura di J. BRIGGS - M.A. ODUYOYE - G. TETSIS, World Council of Churches, Geneva 2004; W.A. VISSER’T HOOFT, Memoirs, London 1973, Genève 19872; H. FRIES - K. RAHNER, Unione delle Chiese possibilità reale, («Quaestiones disputatae»), n. 100, Brescia 1986; Enchiridion Oecumenicum, I-VI, a cura di S.J. VOICU - G. CERETI - J.F. PUGLISI - S. ROSSO - E. TURCO, Bologna 1986-2005; J. VERCRUYSSE, Introduzione alla teologia ecumenica («Introduzione alle discipline teologiche», n. 11), Casale Monferrato 1992; Dizionario del movimento ecumenico, tr. it. a cura di G. CERETI - A. FILIPPI - L. SARTORI, Bologna 1994 (ediz. orig. Genève 1991); The Ecumenical Movement. An Anthology of Key Texts and Voices, a cura di M. KINNAMON - B.E. COPE, Genève-Michigan 1997; Il consenso cattolico-luterano sulla dottrina della giustificazione, a cura di F. FERRARIO - P. RICCA, Torino 1999; P. NEUNER, Teologia ecumenica («Biblioteca di teologia contemporanea», n. 110), Brescia 2000. Charta Oecumenica, a cura di S. NUMICO - V. IONITA, Torino 2003.

EDDINGTON, ARTHUR STANLEY. – AstronoEddington mo, fisico ed epistemologo inglese, n. a Kendal il 28 dic. 1882, m. a Cambridge il 22 nov. 1944. Studiò fisica a Manchester e matematica a Cambridge. Assistente capo (1906) dell’osservatorio di Greenwich, divenne (1913) Plumian Professor di astronomia e filosofia sperimentale a Cambridge. Eddington si occupò di astronomia stellare (importanti i suoi risultati nell’analisi della costituzione e della temperatura dell’interno delle stelle fisse, cfr. Stellar Movement and the Structure of the Universe (London 1914); The Internal Constitution of the Stars (Cambridge 1926); Stars and Atoms (Oxford 1927, tr. it. Milano 1933); The Rotation of the Galaxy (Oxford 1930); di cosmologia generale (The Expanding Universe, Cambridge 1933, tr. it. Bologna 1934); di teoria della relatività (Report on the Relativity Theory of Gravitation, London 1918; Space, Time and Gravitation. An Outline of the General Relativity Theory, Cambridge 1920, tr. it. con appendice di T. Regge, Torino 1971; The Theory of Relativity and Its Influence on Scientific Thought, London 1922; 3215

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Edelman The Mathematical Theory of Relativity, Cambridge 1923) e di meccanica quantistica (Relativity Theory of Protons and Electrons, Cambridge 1936; The Combination of Relatvity Theory and Quantum Theory, Dublin 1943; Fundamental Theory, Cambridge 1946): in occasione dell’eclissi di sole del 1919, partecipò all’esperimento decisivo per la valutazione della deviazione della luce in un campo gravitazionale. Sulla base di questi studi Eddington formulò una dottrina gnoseologica e filosofica di carattere idealistico, descritta in The Nature of Physical World, Cambridge 1928 (tr. it. Bari 1935); Science and the Unseen World, London 1929 (tr. it. Verona 1948) e The Philosophy of Physical Science, Cambridge 1939 (tr. it. Bari 1941). La fisica moderna è per lui scienza della struttura e non della sostanza (che invece è solo un’incognita postulata al di là delle impalcature simboliche con cui la mente determina le invarianze del mondo fisico). Eddington sostiene allora un «soggettivismo selettivo», per cui «la mente ha inquadrato i fenomeni della natura in un sistema di leggi di un modello in gran parte scelto da lei stessa; e nello scoprire questo sistema di leggi si può considerare che la mente abbia ricuperato dalla natura ciò che nella natura aveva messo» (La natura del mondo fisico, p. 276). Il concetto di attività selettrice, contrapposto a quello di astrazione, conduce a parlare di «creazione», anziché di «scoperta» scientifica, e il tessuto del mondo è dunque di natura mentale, benché solo isole limitate di essa posseggano la coscienza. F. Barone BIBL.: L.P. PACKS, Sir A. Eddington: Man of Science and Mystic, London - New York 1949; N.B. SLATER, The Development and Meaning of Eddington’s «Fundamental Theory», Including a Compilation from Eddington’s Unpublished Manuscripts, Cambridge New York 1957; J. MERLEAU-PONTY, Philosophie et théorie physique chez Eddington, Paris 1965; C.W. KILMISTER, Sir A. Eddington, Oxford 1966; S. CHANDRASEKHAR, Eddington: The Most Distinguished Astrophysicist of His Time, Cambridge 1983; V. DE SABBATA T.M. KARADE (a cura di), Proceedings of the Sir A. Eddington Centenary Symposium, Singapore 1984; C.W. KILMISTER, Eddington’s Search for a Fundamental Theory, Cambridge 1994; D.S. EVANS, The Eddington Enigma: a Personal Memoir, Princeton 1998.

EDELMAN, GERALD MAURICE. – Biologo staEdelman tunitense n. a New York nel 1929. Professore al Rockefeller Institute di New York dal 1966 al 3216

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1998, direttore del dipartimento di Neurobiologia allo Scripps Research Institute a La Jolla, ha lavorato sulla memoria immunitaria e sulle proteine che nel corso dello sviluppo danno forma al sistema nervoso attraverso una serie di meccanismi epigenetici. Queste sue ricerche, legate sia ai processi di sviluppo nervosi, sia ai meccanismi attraverso cui gli agenti infettivi selezionano e innescano gli anticorpi che sono al centro delle reazioni immunitarie, hanno suggerito a Edelman – premio Nobel nel 1972 insieme a Rodney Porter – il concetto di «darwinismo neuronale». Questa teoria, che si oppone a ogni ipotesi di rigido determinismo del sistema nervoso, si ispira alle teorie di Darwin. Secondo la teoria darwiniana, una particolare popolazione di animali o vegetali può essere selezionata dall’ambiente (il clima, la disponibilità di cibo, gli agenti infettivi) perché gli individui che la compongono sono più o meno resistenti rispetto a quelli che formano altre popolazioni; avviene così che alcuni individui, o popolazioni, sopravvivano e altri soccombano. Anche i neuroni, indica Edelman, possono essere considerati come individui che appartengono a popolazioni diverse le une dalle altre per le loro peculiari caratteristiche: un particolare stimolo che fa ingresso nel nostro cervello (visivo, acustico ecc.) può quindi selezionare un gruppo di neuroni più adatti a riconoscerlo, a resistergli o ad accettarlo. In base alla teoria del darwinismo neuronale, i messaggi che sin dalla nascita agiscono sul nostro sistema nervoso verrebbero decodificati da gruppi di neuroni più «adatti», che da quel momento si assocerebbero tra di loro in una rete nervosa in grado di trattenere la memoria di quello stimolo-evento e di riconoscerlo in futuro. Un evento si trasformerebbe quindi in memoria in quanto agirebbe su una particolare popolazione di neuroni che verrebbero selezionati da quell’esperienza, cioè dall’ambiente, nell’ambito della quasi infinita popolazione di neuroni disponibili; ma poiché ogni memoria è sfaccettata e ha aspetti diversi, ogni suo singolo aspetto verrebbe codificato a più livelli da diversi gruppi o popolazioni di neuroni, in grado di interagire tra di loro per ricostruire, in seguito, l’esperienza nel suo insieme. Lo stesso meccanismo consentirebbe anche di codificare in una stessa popolazione di neuroni aspetti simili di realtà diverse; tramite questo processo di generalizzazione, me-

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morie diverse condividerebbero degli elementi comuni che talora potrebbero sovrapporsi generando incertezze, confusione, oblio. L’originalità della teoria di Edelman sta nell’indicare come l’ambiente, cioè le esperienze, siano in grado di contribuire alla «costruzione» del cervello e come ogni cervello sia diverso da un altro: siamo geneticamente diversi ed esperienze diverse, o anche la stessa esperienza, sono in grado di costruire dei circuiti nervosi diversi da individuo a individuo. Se si guarda in quest’ottica alle diverse funzioni del cervello e alle diverse attività mentali, si può giungere a una concezione meno meccanicistica della mente, cioè una concezione in cui i fattori genetici e quelli legati all’esperienza si fondono tra di loro e in cui la mente non risponde a un «istruzionismo» ma a criteri fortemente plastici. In sostanza, le teorie di Edelman tentano di elaborare un modello del mentale nell’ambito di un sistema concettuale unitario che spieghi il funzionamento del cervello e colmi la lacuna tra scienze naturali e scienze umane, rigettando sia il dualismo interazionista di Popper ed Eccles o quello di Penfield, sia il funzionalismo cognitivista centrato sul software anziché sulle caratteristiche strutturali del cervello, sia le teorie dell’identità sostenute da alcuni neuroscienziati, come Jean Pierre Changeux e Paul Churchland, e da filosofi come Rorty. A. Oliverio BIBL.: Neural Darwinism: The Theory of Neuronal Group Selection, New York 1987, tr. it. di S. Ferrares, Darwinismo neurale. La teoria della selezione dei gruppi neuronali, Torino 1995. Su Edelman: v. Darwinismo neurale, in A. FASOLO (a cura di), Dizionario di biologia, Torino 2003.

EDELMANN, JOHANN CHRISTIAN. – Teologo, Edelmann n. a Weissenfels il 9 lug. 1698, m. a Berlino il 15 febbr. 1767. Nell’autobiografia (pubblicata da W. Klose a Berlino nel 1849, e riedita in copia anastatica da F. Frommann, presso Stuttgart - Bad Cannstatt, nel 1976) Edelmann ci ha descritto le tappe della sua inquieta evoluzione spirituale che si fissò, dopo aver esperimentato il pietismo, in un definitivo atteggiamento razionalistico. Interpretò il Verbo giovanneo come ragione, sì che le rivelazioni della religione positiva venivano ad essere spiegate nel senso del-

Edgeworth la religione razionale. Si avvicinò poi all’acosmismo spinoziano. A. Milanese BIBL.: Göttlichkeit der Vernunft, Frankfurt 1741; Moses mit aufgedeckten Angesicht, von zwei ungleichen Brüdern Lichtlieb und Blinding beschaut, Frankfurt am Main 1747 (Berleburg 1740); Der neu eröffnete Edelmann, oder Auswahl aus Edelmanns Schriften, Bern 1847. Su Edelmann: K. MONCKEBERG, H.S. Reimarus und J.C. Edelmann, Hamburg 1867; K. GUDEN, J.C. Edelmann, Hannover 1870; E.W. ZEEDEN, s. v., in W. KASPER et al. (a cura di), Lexikon für Theologie und Kirche, vol. III, Freiburg im Breisgau 1959, col. 656; W. GROSSMANN, J.C. Edelmann: from Orthodoxy to Enlightenment, The Hague 1976; A. SCHAPER, Ein langer Abschied vom Christentum: J.C. Edelmann (16981767), The Hague 1976 (con bibliografia alle pp. 267-281); W. GORZNY et al. (a cura di), Deutscher Biographischer Index, München 19982, vol. II, p. 753.

EDGEWORTH, FRANCIS YSIDRO. – EconomiEdgeworth sta e statistico n. l’8 febbr. 1845 a Edgeworthstown, Irlanda, m. il 13 febbr. 1926 a Oxford. Dal 1888 professore di economia al King’s College di Londra e dal 1891 a Oxford. Pubblicò tre libri e circa settecento fra articoli, recensioni e voci di enciclopedia. In New and Old Methods of Ethics, or “Physical Ethics” and “Methods of Ethics” (Oxford 1877) confrontò le dottrine utilitariste di Alfred Barrat e Henry Sidgwick, applicando per la prima volta gli strumenti del calcolo differenziale al problema del benessere individuale, e individuò nella «esperienza ereditaria» di Herbert Spencer la fondazione epistemologica comune per le scienze sociali. In The Hedonical Calculus (in «Mind», 3, 1879, pp. 394-402) discusse il problema del benessere sociale e della sua massimizzazione. In Mathematical Psychics (New York 1962 [1881]) matematizzò l’idea di contratto, introducendo alcuni strumenti centrali per la moderna microeconomia, come le curve di indifferenza (combinazioni di panieri di beni che danno al consumatore la stessa utilità) e la «scatola di Edgeworth» che serve per individuare le soluzioni di equilibrio nello scambio tra due contraenti. Edgeworth mostra che individui guidati dal solo desiderio di massimizzare la propria utilità danno luogo a un processo di scambio che raggiunge una posizione di equilibrio quando nessuno ha interesse a rivedere gli accordi presi, un’intuizione 3217

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Edgeworth che è alla base degli sviluppi contemporanei dell’analisi di equilibrio economico generale. La produzione successiva è equamente divisa fra economia e statistica. Dalle pagine dello «Economic Journal», la più importante rivista di economia dell’epoca, di cui fu direttore dal 1890 fino al 1926, intervenne su una enorme varietà di temi di economia matematica e teoria economica, come l’analisi del monopolio, la teoria della moneta, la tassazione ottimale, il commercio internazionale, l’economia di guerra. Il suo contributo alla statistica consiste nella costruzione di alcuni nuovi strumenti analitici, e, più in generale, nell’applicazione della teoria della probabilità alla inferenza statistica nelle scienze sociali. Edgeworth ha anticipato le odierne teorie pluraliste della probabilità con una sintesi fra l’interpretazione frequentista di John Venn, che definisce la probabilità come frequenza statistica di un evento in una lunga serie di eventi simili, e quella epistemica che considera la probabilità una misura della credenza razionale. A. Baccini BIBL.: J. CREEDY, Edgeworth and the Development of Neoclassical Economics, London 1986; F.Y. EDGEWORTH, Papers Relating to Political Economy, 3 voll., Bristol 1993 (1925); C.R. MCCANN (a cura di), F.Y. Edgeworth: Writings in Probability, Statistics and Economics, Cheltenam 1996; S. STIGLER, Statistics on the Table, Cambridge (Massachusetts) 1999; P. NEWMAN (a cura di), F.Y. Edgeworth’s Mathematical Psychics and further Papers on Political Economy, Oxford 2003; A. BACCINI, Bibliography of Edgeworth’s Writings, in P. NEWMAN (a cura di), F.Y. Edgeworth’s Mathematical Psychics and further Papers on Political Economy, Oxford 2003; A. BACCINI, Edgeworth on the Foundations of Ethics and Probability, n. mon. «Quaderni del Dipartimento di Economia Politica», 427 (2004).

EDGEWORTH, MARIA. – Scrittrice di narratiEdgeworth va per l’infanzia e di pedagogia, n. a Black Bourton (Oxfordshire) l’1 genn. 1767, m. a Edgeworthtown (Irlanda), il 22 magg. 1849. Più nota come narratrice (le opere sono raccolte in Tales and Miscellaneous Pieces, London 1825, 14 voll.; Tales and Novels, ivi 1823-33, 18 voll.), va ricordata anche per le sue Letters for Literary Ladies (ivi 1793) e più ancora per i due volumi di Practical Education (ivi 1798), che, sebbene non originali nel pensiero, servirono a diffondere i principi pedagogici di Rousseau. O. Visentini BIBL.: A.J.C. HARE, The Life and Letters of Maria Edgeworth, London 1894; C. HILL, Maria Edgeworth and

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her Circle, London 1909; H.J. BUTLER - H.E. BUTLER (a cura di), The Black Book of Edgeworthstown and other Edgeworth Memories (1585-1817), London 1928; I.C. CLARKE, Maria Edgeworth: her Family and Friends, London 1949; G. CALÒ, Pedagogia del risorgimento, Firenze 1965; E. KOWALESKI-WALLACE, Their Fathers' Daughters: Hannah More, Maria Edgeworth, and Patriarchal Complicity, New York - Oxford 1991; B. HOLLINGWORTH, Maria Edgeworth Irish Writing: Language, History, Politics, London 1997.

EDONISMO (dal greco hJdonhv «piacere» - heEdonismo donism; Hedonismus; hédonisme; edonismo). – Con il termine «edonismo», inteso nel suo significato più generico, si è soliti indicare qualsiasi dottrina che ponga il piacere a norma e fine ultimo dell’attività umana, identificando così il piacere con il bene morale stesso. Una prima teorizzazione dell’edonismo, nel pensiero occidentale, si è avuta a opera di Aristippo di Cirene (435-360), il fondatore della scuola cirenaica, che ha reso concreto il concetto socratico di bene, polarizzandolo verso il godimento sensibile e l’appagamento del desiderio. Il sapiente, secondo Aristippo, è colui che ha scelto il piacere come suprema norma dell’agire e che, proprio per questo, ha anche imparato l’arte del godere, ovvero l’arte che consente di conseguire il massimo piacere attraverso il dominio del piacere stesso. Il saggio, afferma infatti Aristippo, deve possedere il piacere e non esserne posseduto: «Posseggo ma non sono posseduto, perché il dominare i piaceri e non lasciarsene trascinare è ottima cosa, non l’astenersene» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 75, cfr. tr. it. di M. Gigante, Bari 1962). In questo senso l’edonismo filosofico di Aristippo viene a distinguersi dall’edonismo volgare o bruto, che coincide con la più completa incontinenza. All’interno della scuola cirenaica la dottrina edonistica ha avuto vari sviluppi e tra questi vanno senz’altro menzionati quelli elaborati da Egesia e da Anniceride, se non altro per il loro carattere di opposti. Egesia era un edonista che però considerava impossibile il raggiungimento del piacere, perché il corpo è afflitto da un’infinità di mali, perché l’anima si turba e soffre insieme al corpo e perché la fortuna ostacola le nostre aspirazioni. Per queste ragioni Egesia elaborò una visione del mondo tanto fosca e cupa da guadagnarsi l’appellativo di «persuasor di morte». La vita, diceva infatti Egesia, è un bene soltanto per gli sciocchi, mentre il sapiente sa che la

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felicità non esiste e che il morire è preferibile al vivere (Diogene Laerzio, op. cit., II, 75). Al contrario di Egesia, Anniceride diede uno sviluppo positivo all’edonismo, temperandolo con altri valori quali l’amicizia, la benevolenza, l’altruismo, la riverenza dei genitori. Anniceride si spinse persino ad affermare che per la benevolenza si possono, e a volte si debbono, anche sopportare dei dolori (Diogene Laerzio, op. cit., II, 97). L’edonismo venne sottoposto a una serrata critica da Socrate, Platone e Aristotele, i tre grandi classici della grecità. Platone negò l’identificazione cirenaica di bene e piacere sensibile (Gor., 51, 496-97) e contrappose ai piaceri che turbano l’anima «i piaceri dell’apprendere accompagnati da sanità e saggezza» (Phil., 37-39). Eudaimonistica, ma antiedonistica è l’etica di Aristotele, che pose come fine dell’agire umano la felicità. Tutti gli uomini cercano il piacere e fuggono il dolore, ma il piacere vero non è quello sensibile, bensì una conseguenza dell’atto virtuoso, esso «perfeziona l’atto [...] come un compimento sopraggiunto» (Et. Nic., X, 5, 1175; cfr. Aristotele, Le plaisir [Eth. Nic., VII, 11-14; X, 1-5], a cura di A.J. Festugière, Paris 1936; nuova ed. 1960 [con intr.]). Nonostante tali autorevoli critiche i principi edonistici di Aristippo ricomparvero, in età ellenistica, nel pensiero di Epicuro, che spinse a tal punto l’equazione tra piacere e bene da rendere lo stesso termine «epicureismo» un sinonimo di «edonismo». «Il piacere», scrive infatti Epicuro, «è principio e fine del viver felice» (Epistola a Meneceo, 129). A volte, però, facendo ingiustizia al pensiero di Epicuro, si è usato nella letteratura l’aggettivo «epicureo» persino come analogo di crapulone, dando consistenza all’idea, del tutto sbagliata, secondo cui l’edonismo di Epicuro si configurerebbe come una sorta di edonismo volgare e crudo, proprio di chi è dedito, senza alcun ritegno e senza alcuna capacità di autodominio, a tutti i piaceri del corpo. In realtà, invece, l’edonismo di Epicuro è tutt’altra cosa dalla crapuloneria. Anzi, esso finisce addirittura per trasfigurarsi in una sorta di ascetismo, che predica con forza l’astinenza da tutta una serie di piaceri e in particolare da quelli di grado più basso. Secondo Epicuro, infatti, occorre distinguere tra il piacere momentaneo, che egli chiama anche piacere cinetico, perché con il suo movimento turba e sconvolge l’animo, e il

Edonismo piacere catastematico, che è la pura assenza di dolore nel corpo (aponia) e di turbamento nell’animo (atarassia) (cfr. H. Usener, Epicurea, Lipsiae 1897, fr. 2) e che, come tale, produce uno stato permanente di serenità interiore e di piacere stabile dell’animo. Quando dunque diciamo «che il piacere è fine», precisa infatti Epicuro, «non vogliamo dire il piacere degli intemperanti... ma il non soffrire nel corpo, né esser turbati nell’anima» (Epicuro, op. cit., 131). Il piacere nasce dalla soddisfazione di un bisogno e, secondo Epicuro, non tutti i bisogni vanno soddisfatti, o almeno non tutti allo stesso modo. Il saggio è colui che sa classificare e distinguere i bisogni e i piaceri corrispondenti. Esistono in primo luogo i bisogni naturali e necessari, come la fame, la sete, il bisogno di ripararsi dal freddo, che vanno sempre soddisfatti, perché la loro soddisfazione toglie al corpo un dolore, realizzando l’aponia. Ci sono poi i bisogni naturali, ma non necessari, come, ad esempio, mangiare cibi raffinati, vestire abiti eleganti, i quali, secondo Epicuro, vanno soddisfatti con molta moderazione e cautela, perché essi, oltre una certa misura, conducono verso un piacere di tipo cinetico, che reca con sé turbamento dell’animo. Infine ci sono i bisogni non naturali e non necessari, come quelli relativi alla ricchezza, alla fama, al potere, che non vanno mai soddisfatti, perché impediscono il conseguimento dell’atarassia. Di qui il precetto epicureo del «vivere nascosti». Come si vede dunque, le regole della morale epicurea, se applicate alla lettera, conducono, attraverso il calcolo dei piaceri e l’astinenza da tutti quei piaceri che possono recare con sé dolori e turbamenti più grandi, a una vera e propria forma di ascetismo. Infine, l’idea di un calcolo meticoloso dei piaceri anticipa forme moderne di edonismo, quali l’utilitarismo benthamiano, con la sua nota aritmetica morale. L’avvento del cristianesimo, che esalta l’amore come superamento dell’egoismo e rivela i lati positivi del dolore, i quali lo rendono perfino amabile, non in sé, ma come mezzo insostituibile di purificazione e di perfezione individuale e di redenzione per i fratelli, in conformità a Cristo, conduce a una critica dell’edonismo. Per il cristiano diventa fondamentale vivere una vita buona, giusta, ricca di significato e non necessariamente una vita comoda o piacevole. La gioia, nel senso cristiano, può convivere con il dolore, perché la gioia proviene dalla percezione di una sovrabbondanza di 3219

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Edonismo senso, che è in grado di rendere significativo anche il dolore. Ciò che rende infelice l’uomo, nella prospettiva cristiana, non è il dolore, ma la mancanza di senso che si può sperimentare anche nel piacere. Un’illustrazione efficacissima di questa prospettiva ci viene fornita da san Francesco d’Assisi che, raccontano i biografi, dovendo spiegare al compagno frate Leone che cosa fosse la perfetta letizia, disse, esemplificando, che l’essere scambiati per dei ladri dai compagni del convento e l’essere picchiati e cacciati fuori, alla pioggia e al freddo, sarebbe perfetta letizia, se accettato per amore di Dio («se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore; o frate Leone, scrivi che questa è perfetta letizia», cfr. Z. Lazzeri [a cura di], I fioretti di santo Francesco, Firenze 1925, p. 43). Ma poi tutta la pietà popolare cristiana è caratterizzata da quest’idea fondamentale, secondo cui le sofferenze umane rappresentano una forma di partecipazione al sacrificio redentivo del Cristo. Con l’umanesimo, in cui, in opposizione all’ascetismo medioevale, si rivendicano la natura umana e le sue terrene passioni, rinasce con nuovo spirito l’epicureismo, che ha i suoi principali esponenti in C. Raimondi, secondo cui l’uomo non può dirsi felice «sine corporis et rerum externarum commodis» (Lettera ad Ambrogio Tignosi, a cura di G. Santini, in A. Crivellucci - E. Pais [a cura di], Studi storici, Torino 1899, p. 563) e particolarmente in Valla, che nel De voluptate ac de vero bono mostra che il piacere è il vero bene, che l’azione umana, anche quella che sembra più pura e disinteressata, è determinata dal piacere. Secondo il Valla noi non amiamo la virtù per se stessa, ma per il piacere che ci procura; Catone non si è tolto la vita per amore della virtù, ma perché non tollerava il giogo di Cesare (L. Valla, op. cit., II, 6). La voluptas, di cui parla Valla, non è libertinaggio, brama mai sazia di godere, abbandono agli istinti, ma quel piacere che non è in contrasto con l’onesto. È, come dice Saitta, la voluptas idealizzata, che è frutto della prudenza del saggio, che antepone il maggior vantaggio al minore (ibi, II, 40). Un cenno, a tal proposito, merita anche Gassendi (De vita, moribus et doctrina Epicuri, 1674). Nell’epoca moderna l’edonismo, nella sua forma mediata (piacere connesso con valori superiori al piacere sensibile immediato), è il 3220

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motivo etico dominante di tutte le filosofie sensistiche, materialistiche e positivistiche, che pongono nell’utile e nel senso il fondamento della vita morale; a questo titolo entrano, in qualche modo, nell’orbita dell’edonismo: Montaigne, Hobbes, Gassendi, Helvétius, Holbach, La Mettrie, Condillac, Diderot, Feuerbach e, con un taglio utilitaristico, Bentham, Stuart Mill, James e Spencer. La prospettiva di Jeremy Bentham riveste sicuramente un interesse particolare tra le varie proposte moderne che rientrano, in vari modi, nell’orbita dell’edonismo, anche perché Bentham è stato esplicitamente accostato a Epicuro da John Stuart Mill. Bentham propone una forma di edonismo che può essere definito, al tempo stesso, motivazionale e normativo. Motivazionale perché sostiene che solo il piacere può motivare l’azione, normativo perché identifica il piacere con il valore e con il bene e lo assume come norma di condotta. Le prime righe di Introduzione ai principi della morale e della legislazione lo confermano in modo esemplare. «La Natura», scrive infatti Bentham, «ha posto l’umanità sotto il dominio di due sovrani assoluti, il dolore e il piacere. Soltanto tramite essi risulta possibile indicare che cosa si deve fare, così come è in relazione a essi che stabiliamo che cosa faremo» (J. Bentham, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, London 1789, a cura di E. Lecaldano, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, Torino 1998). Tali premesse, tuttavia, non danno origine a una forma banale di edonismo, basato esclusivamente sul perseguimento del piacere immediato. Bentham, infatti, è mosso dalla preoccupazione sociale di assicurare la felicità al maggior numero di persone e, a questo fine, ritiene necessario che, a volte, la ricerca individuale del piacere immediato vada notevolmente limitata. Bentham, inoltre, introduce la teoria del calcolo quantitativo dei piaceri, che costituisce il suo contributo più originale all’utilitarismo. Tale calcolo verrebbe realizzato tramite la redazione di una tabella di tipo aritmetico, che terrebbe conto di elementi che caratterizzano i vari aspetti del piacere quali la durata, l’intensità, la certezza, la prossimità, la capacità di produrre altri piaceri, l’assenza di conseguenze dolorose, consentendo così di fornire una base scientifica alla morale. L’edonismo di Bentham è stato criticato da John Stuart Mill, a causa del suo carattere

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«quantitativo», a cui Stuart Mill contrappone un edonismo di tipo «qualitativo». Stuart Mill è infatti preoccupato di rispondere all’obiezione che viene fatta a Bentham di aver elaborato, com’è stato ironicamente osservato, una «filosofia per maiali», che concepisce la felicità dell’uomo in analogia con la sensazione che prova un maiale sazio. Per questo Stuart Mill sviluppa un approccio all’edonismo basato sulla qualità, piuttosto che sulla quantità del piacere, distinguendo tra piaceri di basso grado e piaceri di carattere elevato, più nobili e spiritualmente più elevati (cfr. J.S. Mill, Utilitarianism, London 1863). La critica più radicale rivolta in età moderna nei confronti dell’edonismo è venuta dal filosofo tedesco Immanuel Kant. Nella prospettiva morale kantiana, infatti, il dovere va compiuto per esso stesso, per rispetto della legge insita nel dovere, e non per i piaceri che ne possono derivare. La legge morale, se vuole costituire un comando veramente universale, uguale per tutti, deve infatti fondarsi sulla ragione, che è l’unica facoltà dell’uomo che sia veramente pura, «a priori», e non deve essere subordinata al conseguimento di un fine particolare, rilevabile attraverso l’esperienza, qual è il piacere, pena la perdita del suo carattere di universalità (cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi; Critica della ragion pratica). Sulle orme di Kant Giovanni Gentile distingue «un edonismo naturalistico... in cui il piacere è un fatto naturale», che dev’essere negato per realizzare la libertà spirituale e un edonismo in cui il piacere è il «positivo dell’atto spirituale» ed è risolto nella concezione etica dello spirito (cfr. G. Gentile, Generi e struttura della società, Firenze 1959, cap. VII, § II). Un’altra interessante critica dell’edonismo (ma anche dell’eudaimonismo e dell’utilitarismo), la si può trovare nell’etica dell’altruismo di G. Calogero (cfr. G. Calogero, Etica, giuridica, politica, Torino 1947). Una ripresa, in anni recentissimi, di una prospettiva edonistica si è avuta nel campo della bioetica, da parte di autori neoutilitaristici come, ad esempio, Peter Singer (cfr. P. Singer, Practical Ethics, Cambridge 1979, tr. it. di G. Ferranti, Etica pratica, Napoli 1989), che tendono ad attribuire valore alla vita in relazione al saldo tra piaceri e dolori che prevedibilmente questa vita sarà in grado di conseguire. Se il saldo è negativo la vita non meriterebbe di essere vissuta, se è positivo sì. Vengono risolte in questo modo questioni quali quelle del-

Edonismo l’aborto o dell’eutanasia, anche nei casi in cui i soggetti non risultano aver espresso alcuna volontà, perché la previsione di una prevalenza del dolore sul piacere fa presupporre l’assenso del soggetto alla sua soppressione. A questa prospettiva si oppongono autori antiedonistici come, ad esempio, Ronald Dworkin (cfr. R. Dworkin, Life’s Dominion, London - New York 1993, a cura di S. Maffettone, Il dominio della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale, Milano 1994), che definisce il piacere un interesse d’esperienza, a cui egli contrappone interessi critici ben più importanti, quali ad esempio «vivere una vita buona», «vivere una vita giusta» ecc. Secondo Dworkin, dunque, una vita ricca di senso, anche se poco comoda o povera di piaceri, è preferibile a una vita piacevole ma priva di un significato ideale. Anche Dworkin ammette un diritto all’aborto e all’eutanasia, ma per ragioni diverse da quelle di Singer. Alla prospettiva edonistica si oppone anche Hans Jonas (cfr. H. Jonas, Technik, Medizin und Ethik, Frankfurt am Main 1985, a cura di P. Becchi, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità, Torino 1997), che contrappone ad essa una critica di carattere ontologico: secondo Jonas l’essere è sempre preferibile al non essere, perché l’essere è teleologicamente orientato, ha degli scopi e un significato che il non essere non ha, e questi scopi fanno sì che «valga la pena» essere, anche quando il saldo tra piacere e dolore è negativo. E. Centineo - F. Turoldo BIBL.: A. WENDT, De philosophia cyrenaica, Gottingae 1841; D. DE STEIN, De philosophia cyrenaica, Gottingae 1855; J.B. WATSON, Hedonistic Theories, New York 1895; H. GOMPERZ, Kritik des Hedonismus, Jena 1898; H. MAIER, Sokrates, sein Werk und seine geschichtliche Stellung, Tübingen 1913, tr. it. di G. Sanna, Socrate. La sua opera e il suo posto nella storia, Firenze 194344, 2 voll.; J.-M. GUYAU, La morale d’Epicure et ses rapports avec les doctrines contemporaines, Paris 1927; E. BIGNONE, L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, Firenze 1936, 2 voll.; A. TILGHER, Filosofia delle morali, Roma 1937, pp. 96-104; A. ROSMINI, Storia comparativa e critica dei sistemi intorno al principio della morale, Milano 1941; H. HAWTON, Philosophy for Pleasure, London 1949; W.H. SHELDON, The Absolute Truth of Hedonism, in «Journal of Philosophy», 47 (1950), pp. 285-304; R. MASSOLO, Il problema della felicità in Epicuro, Palermo 1951; R. AMERIO, L’epicureismo, Torino 1953; J. LIEBERG, Aristippo e la Scuola cirenaica, in «Rivista critica di Storia della Filosofia», 13 (1958), pp. 2-11; J.J.C. SMART - B. WILLIAMS, Utilita-

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Educazione rianism: For and Against, Cambridge 1966; W. SUMNER, Welfare, Happiness and Ethics, Oxford 1996; F. FELDMAN, Hedonism, in L.C. BECKER - C.B. BECKER (a cura di), Encyclopedia of Ethics, London - New York 2001; E. MILLGRAM, Pleasure in Practical Reasoning, in E. MILLGRAM (a cura di), Varieties of Practical Reasoning, Cambridge 2001, pp. 331-353. ➨ DOLORE; EUDAIMONIA; EUDEMONISMO; FELICITÀ; PIACERE; UTILITARISMO; VIRTÙ.

EDUCAZIONE (dal lat. educo ed educo - eduEducazione cation; Erziehung; éducation; educatión). – L’educazione costituisce uno dei due oggetti centrali – l’altro è rappresentato dalla formazione – propri della riflessione all’interno della pedagogia. Quanto è considerato a proposito dell’«educativo» si presenta come il frutto della relazione tra due (o più) soggetti, che – pur entro la distinzione dei ruoli di educando ed educatore – si educano. La dimensione dell’educazione appare, dunque, anzitutto riferita all’eteroeducazione dell’uomo. Egli si trova all’interno di un processo complesso che lo vede posto di fronte all’altro, contribuendo a dar vita alla molteplicità relazionale dell’umano. Pertanto, l’educazione non è una mera trasmissione di conoscenze, culture o condotte. Tantomeno riguarda l’ammaestramento, l’allevamento e la coltivazione, l’indottrinamento, l’etichetta o la plasmazione, l’addestramento, l’esercizio o l’apprendistato. Né può venir confusa con l’istruzione e l’erudizione, l’apprendimento e l’insegnamento. SOMMARIO: I. Il concetto di educazione. - II. Storia dell’educazione. I. IL CONCETTO DI EDUCAZIONE. – Sotto il profilo strettamente filologico, la radice della parola educazione va ricercata nei due verbi latini educo ed educo. Con educo, il cui infinito è educare, si richiamano i significati differenti del «far crescere», mentre con educo, il cui infinito è educere, emerge il valore proprio del «trarre fuori», ma anche del «condurre con sé». Si può, pertanto, sostenere che l’educazione contempli due particolari e differenziati modi d’essere del rapporto interpersonale, promossi dall’educatore nei confronti dell’educando. Anzitutto, egli provvede a che ogni condizione adeguata sia posta affinché la crescita interiore ed esteriore del soggetto avvenga nel migliore contesto, oggettivo e soggettivo, possibile. Di poi, si adopera attraverso un’opportuna pratica educativa per inverare ciò che già sussiste nell’educando. Così il soggetto sente 3222

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promossa, secondo una determinata linea di sviluppo, la propria crescita globale ed è contemporaneamente aiutato a trarre da se stesso ciò che in nuce è già presente. L’azione educativa diventa, così, la risultante di atti, fatti, eventi in cui il soggetto educando si rende destinatario dei percorsi e dei progetti posti in essere dal soggetto educatore, ma avverte anche, almeno in una certa misura, le proprie potenzialità. L’educazione costituisce, quindi, un cammino delicato, un percorso non privo di ostacoli, una tensione indirizzata verso mete non necessariamente prestabilite, ma soprattutto è un processo intenzionale governato da un fine generale: la promozione dell’umanità che è nell’uomo. Inoltre, il fine dell’educazione è dato anche dall’assumere la coscienza critica di se stessi e la conoscenza problematica del mondo. Va allora stabilito che non vi sia educazione se non nella libertà di sé e degli altri. La libertà del soggetto prescinde dalle età della vita e contrassegna: a) la possibilità e la capacità di scegliere; b) la partecipazione ai valori morali, civili, politici; c) la vita personale e sociale; d) l’equilibrio armonico della persona; e) la struttura della personalità culturale unitamente alla costruzione del senso del vero e del giusto, del bene e del bello; f) la libera adesione alle fedi religiose. La storia personale del soggetto è attraversata dalla sua educazione: questa deve poter essere vissuta in armonia con l’interiorità del soggetto, in modo da renderlo responsabile di se stesso e capace di un congruo agire sociale. Ciò favorisce la continua proiezione verso la lietezza e la gioiosità, il benessere e l’appagamento. Un consimile stato eudemonico è la premessa del dare forma alla propria coscienza etica e antropologica, secondo un fondamentale principio pedagogico che pone l’uomo nell’equilibrio armonizzato tra il suo mondo personale e il mondo a lui esterno. Ciò significa che ogni corretta educazione tende all’emancipazione del soggetto e alla sua compiuta liberazione da moralismi e ideologie, pregiudizi e prevenzioni; da qualsiasi forma di fondamentalismo o integralismo, razzismo o fanatismo; da ogni pratica di intolleranza, discriminazione, intransigenza. Inoltre, l’educazione continua a rappresentare – proprio oggi, ancora più di ieri – anche una liberazione dall’inciviltà che si manifesta nella rozzezza, nella villania, nella volgarità e perfino nello sgarbo o nella scortesia. La gentilezza

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dell’animo e dei modi rappresenta il principale antidoto alla maleducazione che si concreta dove prevale l’assenza di decoro, correttezza, contegno, compitezza e creanza: in una sola parola, nell’uomo privo di urbanità. Si dirà, allora, che l’educazione non ha come scopo il conseguimento di prestazioni, ma la promozione di condotte critiche, consapevoli, creative, indipendenti, autonome, responsabili. Il soggetto educato è colui che in ogni occasione possiede la responsabilità libera, piena e matura di se stesso. L’esperienza della vita si profila come un’esperienza educativa se è affiancata dalla riflessione sull’agire proprio e degli altri, dalla scoperta organica del mondo, dall’incontro comunicativo con il prossimo. L’educazione implica, quindi, la «culturalizzazione» delle esperienze, la conoscenza critica della realtà in ogni sua manifestazione, il rapporto ricco di significati umani e valoriali dell’intersoggettività. Essa si propone come un’opera in cui più soggetti sono impegnati con compiti diversi, direttamente, consapevolmente e volontariamente finalizzati a fare della vita un’esperienza di crescita formativa. Così come ogni esperienza si contrassegna della sua irriducibile complessità culturale, anche l’esperienza educativa dichiara le proprie anfibolie: le incertezze, le ambiguità, le ambivalenze interpretative sono il tratto distintivo della natura anfibolica dell’educazione. Per sviluppare meglio la conoscenza dell’educazione si può assumere l’evento educativo nella sua realtà di segno, in modo da affrontarne l’interpretazione considerandolo come un testo. Ogni azione educativa manifesta una natura segnico-testuale e chiama la pedagogia generale a studiarla muovendo da un principio di ordine interpretativo. L’educazione evoca anzitutto l’uomo inteso come soggetto storico e morale, naturale e spirituale, politico e sociale. Alla struttura costitutiva dell’uomo «educato» non pertengono le forme dell’individualismo, del soggettivismo, dell’antiumanesimo nichilista. Questo uomo, che nel tempo e nello spazio viene educandosi entro il difficoltoso cammino posto tra inculturazione e acculturazione, tradizione e utopia, ontogenesi e filogenesi, componenti geneticamente innate e ambientalmente acquisite, è un soggetto storico, nel senso che si rende figlio della propria storia personale e di quella sociale. Ma egli è anche un soggetto

Educazione composto della propria natura, che è irripetibile e singolare, dunque capace di renderlo diverso da ogni altro uomo. Tale statuto storicoantropologico costituisce la premessa intrinseca per la sua fondazione morale e per le sue scelte valoriali. Se è vero, come ha osservato Hans-Georg Gadamer, che «educazione è educarsi» (H.-G. Gadamer, Erziehung ist sich erziehen, Heidelberg 2000, p. 11), l’educazione di se stessi parte dall’essenza spirituale che l’uomo possiede e nella quale si radicano il suo senso dell’umano e dell’umanità, il suo sentimento della vita e della morte, il significato attribuito al mistero che dimora in lui al di qua e al di là della sua storia personale e sociale. L’educazione contribuisce, così, a fondare ontologicamente l’uomo. La costituzione dell’educare è, nella sua stessa forma, attiva. Ciò richiede libero consenso unito a impegno intenzionale e cooperazione educante: la comunità d’intenti fra chi educa e chi è educato si istituisce sull’idea di unità della persona umana. Si tratta di un’unità nella differenza; essa è statuita dalla specificità di quell’unicum che l’uomo è nei suoi caratteri distintivi, i quali sono poi parte della sostanza ontologica dell’ente-uomo capace di vivere dialogicamente e dialetticamente in relazione con gli altri uomini. Al centro dell’educazione si pone pertanto un uomo stenico, abile nell’attingere alle proprie energie intellettuali e morali, fisiche e psichiche. Il suo crescere educandosi dipende, dunque, da lui stesso, ma anche dalla realtà economica, sociale, politica nella quale nasce e da cui trae i motivi di uno sviluppo umano, culturale ed esperienziale che la famiglia e la società con le tradizioni delle comunità di appartenenza possono favorirgli o inibirgli. Tale organicità, nella quale il soggetto si trova immerso, non è immune da problemi di orientamento o disorientamento nelle scelte, di costruzione o decostruzione della personalità, di autonomia o conformismo nelle decisioni. Qui il ruolo dell’educatore può coincidere con quello di una autorità altezzosamente superiore facile preda del più nefando autoritarismo o può proporsi nei termini di una equilibrata autorevolezza. Se la libertà e l’emancipazione del soggetto attraverso il suo educarsi non percorrono l’itinerario dell’alienazione o della reificazione, una concezione «unitaria» dell’uomo lo vede organicamente connesso con figure educative capaci di garantirgli idonee opportunità di crescita all’interno 3223

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Educazione dei gruppi sociali, equità delle occasioni formative, sviluppo educativo permanente durante l’intero arco della vita. È così che la famiglia, la scuola, la società, l’extrascolastico, i differenti ambienti educativi, l’associazionismo, le chiese, le agenzie che governano le comunicazioni di massa sono stati posti in discussione nei loro ruoli tradizionali. Il Novecento è parso essere un secolo in cui mai così severa e forte è stata rivolta una critica pedagogica a tutte le istituzioni educative. Ne è emerso un quadro assai articolato la cui cornice è data dalle forme di nichilismo che impediscono all’uomo d’essere se stesso nell’autenticità della sua struttura ontologica e antropologica, etica e sociale. La critica alla modernità e alla sua ineludibile e ineliminabile costituzione interna – istituita su stili educativi frutto di stili di pensiero e stili di vita supportati dalla scienza, dalla tecnica e dalla tecnologia, a loro volta governate dal denaro e dal potere, quindi dalle logiche del mercato e del capitale finanziario – ha posto in luce i tratti marcati di un’educazione venata da forme disumanizzanti di nichilismo. E ciò non già semplicemente perché nella società contemporanea si assista a una crisi valoriale, ma in quanto sul teatro del Novecento è stata messa in scena la distruzione dell’uomo, dell’umano e dell’umanità. Due guerre mondiali, la shoah, il nazionalsocialismo e i fascismi europei, i GULAG staliniani e sovietici, l’indiscriminato uso bellico dell’energia atomica e poi il temibile collasso dell’ecosistema terrestre, le centinaia di guerre locali, la povertà, le malattie, la fame e la sete in aree vastissime del pianeta e, in ultimo, le tragedie dovute al terrorismo (su cui spicca il massacro dei bambini nella scuola di Beslan, in Ossezia) sono alcuni degli esiti più disastrosi della «cultura del nulla» preferita alla «cultura dell’uomo». Ciò è stato la causa di effetti devastanti tra cui l’emarginazione di interi popoli, di gruppi sociali, di etnie, culture e tradizioni; le migrazioni forzate di moltitudini di uomini disperati dai paesi poveri verso l’Occidente industrializzato; il ripresentarsi ciclico di diffuse forme di razzismo, antisemitismo, nazionalismo xenofobo; il prevalere delle logiche della sopraffazione dell’uomo sull’altro uomo, le sempre più diffuse condotte delinquenziali, il terrorismo come prassi politica. I dati relativi all’infanzia costituiscono una delle più preoccupanti denunce: 250 milioni di 3224

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bambini nel mondo vivono in condizioni di sfruttamento; 8 milioni e mezzo di bambini sono ridotti in schiavitù; un milione e duecentomila bambini ogni anno divengono vittime del traffico di esseri umani; inoltre, 400 mila donne di età inferiore ai 18 anni, provenienti dall’est-europeo, sono costrette alla prostituzione nelle città europee all’inizio del XXI secolo; mortalità infantile, malnutrizione, malattie endemiche e analfabetismo coinvolgono aree geografiche enormi del terzo e quarto mondo in cui il rapporto tra sottosviluppo e infanzia è disumano. Nell’intero Occidente si assiste al prevalere di una «cultura della morte» in cui la violenza e la droga divengono pratiche diffuse sempre più comuni. Agli ingenti bisogni di educazione espressi dai singoli, i sistemi sociali rispondono con politiche ritenute ampiamente inadeguate dagli stessi organismi internazionali di controllo i quali lamentano il forte deficit pedagogico che coinvolge il modello di vita occidentale. Il ricorso sistematico a scienze quali la psicologia o la sociologia per affrontare le problematiche educative contemporanee non ha risolto neppure questioni di dettaglio. A ciò si affianca un impoverimento qualitativo della riflessione pedagogica, causa ed effetto della sua sostanziale emarginazione nel mondo scientifico. Si trae dunque l’impressione che, ad esempio, la richiesta di alfabetizzazione nei saperi mediatici non sia destinata all’autentica promozione educativa dell’uomo, bensì a una sua migliore manipolazione al fine di renderlo un consumatore passivo e acritico. L’enfasi sull’istruzione, la comunicazione, l’apprendimento a scapito di una educazione armonica dell’uomo potrebbe risultare soltanto utile all’integrazione in una «modellistica» sociale che controllerebbe comportamenti e condotte, mistificando e tradendo le biografie personali degli uomini per renderli soltanto cittadini obbedienti, individui eterodiretti, soggetti passivi, produttori acritici, funzionari o impiegati dalla mentalità dogmatica e convenzionale, opportunista e superficiale. D’altra parte, «l’educazione è una forza sociale e non soltanto l’esito del rispecchiamento di forze sociali» (M. Gennari - A. Kaiser, Prolegomeni alla pedagogia generale, Milano 2001, p. 83). Ciò conduce a ritenere possibile un impegno pedagogico nell’educazione dell’uomo, orientato da alcune consapevolezze: a) conformismo, dipendenza e sottomissione sono ipo-

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crisie dannose per l’educazione; b) anticonformismo, eccentricità e ribellione sono illusioni pericolose per l’emancipazione; c) l’educabilità rimane una delle potenzialità fondamentali dell’umano; d) non esiste un rapporto educativo «ideale» o universale; e) ogni uomo ha possibilità infinite e indefinite di educarsi; f) l’egemonia di un qualsiasi modello educativo va rifiutata in nome della libertà; g) qualsivoglia ideologia educativa va respinta in nome dell’umanità; h) l’educazione che diviene routine e abitudine porta il soggetto a estraniarsi da sé e a distrarsi dall’altro. In ultimo: «L’adulto che pretende di educare il bambino senza, a sua volta, essere da lui educato non sa educare né pare degno di questo nome: educatore» (ibi, p. 62). Come si è fin qui osservato, l’educazione consta di un proprio processo, si riferisce a un rapporto, tiene in conto i risultati conseguiti, si congloba entro un micro o macro sistema finalizzato allo sviluppo, alla crescita, alla socializzazione, all’inculturazione. Polisegnico e polisenso, il termine educazione richiama ormai una politica degli interventi educativi che è vasta e articolata, in quanto comprende i genitori, gli insegnanti, gli educatori così come i gruppi di pari, il cosiddetto tempo libero, le realtà educative sparse sul territorio, le differenti forme di associazionismo, i movimenti, i media tra cui prevalgono la stampa, la televisione, i computer, le reti informatiche. A ciò si aggiunga ogni altra realtà «al plurale» che svolga un ruolo qualificante verso la prima e la seconda infanzia, la fanciullezza, la preadolescenza, l’adolescenza e la giovinezza. Ma l’educazione concerne anche l’adultità e la senescenza. In qualsiasi tempo della vita, l’uomo manifesta un bisogno di educazione. Questa domanda richiede un impegno sociale sempre più diffuso, delle interazioni sempre più profonde, delle risorse sempre più adeguate affinché per ogni uomo, per ogni popolo, per ogni continente si diano le possibilità concrete di vivere una vita educante, priva di egemonie imposte, ideologie prestabilite, modelli acritici di pensiero. Il nesso tra educazione e visione del mondo attraversa il soggetto interessando in modo vitale la struttura della sua intima essenza di uomo su cui agiscono l’educazione pubblica e l’educazione privata, l’enunciazione giuridicopolitico-sociale dei diritti e dei doveri, la disgiunzione fra autorità e libertà, l’intreccio tra domande e risposte educative ai bisogni sog-

Educazione gettivi, il risolversi del dualismo fra rifiuto e accoglimento, il dimensionarsi equilibrato di autoeducazione ed eteroeducazione, la corretta sinergia tra formazione ed educazione, infine il responsabile e reciproco connettersi dei mezzi e dei fini. Ci si trova, così, proiettati di fronte all’urgenza di precisazione teleologica del processo educativo, di chiarificazione axiologica circa i suoi significati valoriali, di puntualizzazione deontologica a proposito dell’esercizio di tutte quelle professioni che fanno dell’educare un’«arte» anche non estranea da un presupposto «vocazionale». Fini, mezzi e modi debbono essere messi sempre a servizio del costituirsi di persone e personalità umanamente libere: a) nella loro intrinseca unitarietà di soggetti completi; b) nella loro strutturale globalità di soggetti dinamicamente sviluppati in ogni potenzialità; c) nella loro interiore armonicità di soggetti soddisfatti di se stessi; d) nella loro costitutiva autonomia mentale e coscienziale di soggetti ragionevoli. Questi quattro caratteri possono rappresentare il fondamento di quella vitalità con la quale il soggetto si educa alla vita affettiva, alla vita sociale, alla vita intellettuale, alla vita etica ed estetica. Presiede a tutte le problematiche dell’educazione la pedagogia, il cui sistema di saperi scientifici ne coordina le teorie e le prassi, quindi le differenti forme educative. Tra esse vanno segnalate le seguenti: a) L’educazione critica: la principale caratteristica di un uomo dalla mente libera è data dal consapevole uso della criticità nell’analisi compiuta su se stesso e sui mondi con cui interagisce. L’educazione della mente può preservare dallo scadimento nelle «prassi delle mentalità» quando l’autonomia di giudizio è intesa come il fulcro di ogni attività intellettuale. b) L’educazione spirituale: non si ha una corretta educazione alla «materialità» della vita senza una profonda educazione alla sua «spiritualità». Con essa il soggetto entra dentro se stesso, nell’intimo del suo animo e del suo spirito, per compiere un grande viaggio formativo che lo condurrà, forse, sulla soglia del proprio mistero di uomo posto fra immanenza e trascendenza. c) L’educazione morale: la virtù dell’onestà dei pensieri, dei sentimenti e delle azioni è il cardine intorno al quale ruota la personalità etica dell’uomo, il cui senso dell’umano e dell’uma3225

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Educazione nità è dato dalla sua soggettiva statura morale i cui principi costitutivi non possono che essere tratti dalla coscienza interiore, pur nelle sue mediazioni con gli ambienti di vita. d) L’educazione estetica: l’incontro con la bellezza è indispensabile per l’armoniosa crescita culturale del soggetto, che deve poter entrare in un rapporto profondo, autentico e vitale con l’arte, la letteratura, la poesia, ma anche con la musica, il teatro, il cinema, nonché i beni estetici disseminati nella città e nel paesaggio. e) L’educazione sociale: la relazione degli uomini tra loro è uno dei più potenti vettori di educazione. Essa richiede rispetto dell’altro, attenzione a leggi e regole, impegno diretto nella gestione di contesti specifici del vivere comunitario, senso profondo della partecipazione, rifiuto dell’esercizio autoritario del potere in ogni sua forma e aspetto. La dimensione socio-relazionale del vivere comune abbisogna di senso civico e socievolezza, cooperazione e comunicazione educativa. f) L’educazione affettiva: poiché l’amicizia e l’amore sono elementi fondativi della vita umana, le componenti emotivo-affettive che ad essi presiedono non possono essere mai trascurate. Ciò implica il rispetto della libertà personale unitamente al rispetto della libertà dell’altro, poste entrambe nella connessione comunicante delle emozioni, dei sentimenti, degli affetti che costituiscono l’autentica cifra umana dell’uomo. g) L’educazione civico-politica: il civismo inteso come esercizio delle virtù proprie del «buon cittadino» è un fine generale che permea di sé il senso della solidarietà umana, del rispetto delle leggi, dell’attenzione verso l’emarginazione sociale, della legalità assunta quale norma di vita. La città costituisce il teatro su cui agisce l’impegno politico vissuto nella partecipazione gestionale della cosa pubblica, indirizzata all’accoglienza di «cittadinanze» suffragate dalla convivenza democratica e pacifica. h) L’educazione alla religiosità: alle grandi domande sull’uomo, la sua origine, le sue escatologie, e poi il mondo, il sacro, il mistero e il divino possono voler cercare delle risposte una coscienza e un’intelligenza educate al sentimento della religiosità, che non va confuso con le conoscenze circa la storia delle religioni né con le catechesi. i) L’educazione ecologico-ambientale: la conoscenza della natura, unita al rispetto per l’ambiente e alla salvaguardia degli ecosistemi, in3226

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duce a condotte di vita consapevoli dell’importanza di non favorire l’inquinamento nelle sue più diverse forme, anche d’ordine visivo, tattile, acustico, olfattivo e gustativo. Il disprezzo ecologico per la vita vegetale e animale è uno dei modi attraverso cui si dileggia la vita umana. l) L’educazione corporea: la costruzione di un corretto rapporto tra l’io e il corpo che il soggetto avverte di possedere diventa occasione decisiva per accogliere e accettare se stessi in modo armonico, sicché tra psiche e corporeità può essere edificata una positiva e sinergica sintonia che favorisca tanto l’equilibrio interiore quanto le relazioni con il mondo circostante. m) L’educazione scientifico-tecnologica: immerso in una galassia di linguaggi dominati dalla scienza, dalla tecnica e dalle tecnologie, il soggetto deve poter provvedere a un’alfabetizzazione che consenta la conoscenza, l’uso e il controllo dell’informazione automatizzata nelle comunicazioni, conseguiti a un elevato livello di consapevolezza critica, la quale va unita all’acquisizione di un abito di ricerca suffragato anche dall’indagine empirico-sperimentale. n) L’educazione sessuale: la sfera psico-sessuale del soggetto è una delle principali componenti della sua persona e della sua personalità, che nell’amore, nell’affetto e nell’emozione dell’eros, non disaccorpato dal bios, dal logos e dal pathos, influenza l’equilibrio responsabile delle condotte amorose e la vita di coppia. A queste fondamentali e prioritarie forme educative se ne possono affiancare altre, le quali svolgono anch’esse un ruolo significativo nella crescita armoniosa dell’uomo in ogni età della vita, indipendentemente dal credo religioso, dalla comunità di appartenenza, dalla cultura di riferimento, dalla lingua, dagli ideali politici, dalle condizioni socio-economiche. Tra esse spiccano: a) l’educazione al lavoro; b) l’educazione al gioco; c) l’educazione interculturale; d) l’educazione creativo-espressivo-inventiva; e) l’educazione alimentare, alla salute e all’igiene; f) l’educazione fisica e allo sport; g) l’educazione alla pace; h) l’educazione all’immaginario; i) l’educazione ai beni culturali e ambientali; l) l’educazione stradale ecc. Ciascuna di queste forme dell’educare ammette una propria estrinsecazione didattica che richiama le strategie dell’istruire attraverso processi interconnessi di insegnamento e apprendimento. L’educazione deve poter permeare di

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sé ogni intervento scolastico ed extrascolastico, orientando e finalizzando i mezzi, i metodi, le strategie, i progetti e i curricoli. Tutto ciò, nella distinzione tra educare e istruire, tra pedagogia e didattica. In ogni società e in qualsiasi epoca storica, l’educazione si è trovata immersa in un complesso sistema di relazioni economiche, culturali e politiche da cui è stata contrassegnata. Nella modernità, e quindi dal Seicento al Novecento, essa ha subito delle profonde mutazioni debitrici di fronte a ideali e tradizioni, conoscenze e valori, eventi e condizionamenti. L’urgenza del controllo sociale sull’educazione ha imposto meccanismi di coercizione e sorveglianza, strumenti di repressione, percorsi prestabiliti di apprendistato, tattiche di punizione, strategie di condizionamento, alfabetizzazioni forzate, pratiche correttive il cui scopo generale non è stato quello di liberare l’uomo, ma di assoggettarlo alle necessità collettive di classi, gruppi, ceti dominanti. Le logiche del potere si sono sovente impadronite dell’educazione, imponendo ordine e disciplina secondo scale valoriali indiscusse e indiscutibili. Alla scuola è stato assegnato il compito di produrre selezione sociale e non piuttosto quello di educare l’uomo all’idea di vita e di morte, alla bellezza e alla bontà, all’amore e all’amicizia, al sacro e al mistero. Ne hanno risentito il corpo e la mente dell’uomo, il suo modo di pensare e vivere nella libertà, ma anche la sua concettualizzazione del mondo e del viaggio, dell’essere e dell’avere, dell’originarietà e della trasformazione. Tutto questo ha provocato nel suo insieme maggiore equilibrio sociale, ma ha anche accentuato i disquilibri interiori, le crisi soggettive, generazionali, collettive, inducendo all’incompatibilità con lo status generale della società, alla repulsione verso le istituzioni familiari e scolastiche quali luoghi di rispecchiamento dei modi di produzione economica e dei congegni di riproduzione sociale. Da ciò, il soggetto ha ricavato una latente ma endemica condizione di scompenso, vissuta nell’opposizione irrisolta fra adattamento e disadattamento. Mai nettamente distinti fra loro, questi ultimi piuttosto si mescolano contribuendo ad alimentare una crasi sociale, in cui gli stili educativi presentano contemporaneamente tanto le forme omologate del «massivo», quanto quelle differenziate dell’«individualismo» elitario e anomico. In entrambi i casi, l’uomo soffre un processo di

Educazione riduzione del suo statuto umano e rischia di diventare un «individuo» indistinto: senza nome e cognome, senza un volto e uno sguardo, senza storia e senza vita. Un progetto educativo che si fondi sul rifiuto di ogni nichilismo farà leva sulle culture dell’umano dove scienza e religione, storia e utopia, arte e letteratura hanno pari dignità e importanza. Ma il «progetto» in educazione riguarda tutti gli ambienti educativi in cui l’uomo è presente, vive e stabilisce relazioni proficue con l’altro da sé. Per tale motivo occorre realizzare un’integrazione progettuale fra realtà differenti: ad esempio tra scuola e famiglia, extrascolastico e scolastico, mass media e società. Ciò per evitare dannose schizofrenie a proposito dell’enunciazione di finalità, metodologie, mezzi educativi, ma anche per rimarcare come l’uomo vada rispettato nella sua irrinunciabile unicità di essere umano, appartenente all’umanità intera, bisognoso della propria umanizzante armonia interiore ed esteriore. Affinché una sintonia di intenti trovi riscontro nell’impegno delle pratiche, l’educazione è da considerare come una fondamentale premessa in ciascuno dei contesti di seguito richiamati: a) Educazione e scuola: là dove la scuola si configura come un ambiente il cui «clima» positivo trasmette il senso autentico e operante di un laboratorio di idee, culture, conoscenze, sono allora poste le condizioni basilari affinché l’insegnamento e l’apprendimento si interconnettano dando vita a un costume educativo (e, soltanto dopo, didattico e istruzionale) ove prevalgono il ragionare, l’esplorare, l’interrogarsi, l’esprimersi, il comunicare, l’accogliere, il ricercare. Una tensione all’interpretazione del mondo impegna ogni soggetto presente nella comunità educativa, finalizzando il disegno complessivo dell’istituzione scolastica non all’interrogare, al valutare e al selezionare, bensì a un educare inteso come occasione costante di libera crescita dell’uomo vissuta nel piacere della conoscenza e dell’istruzione. b) Educazione e società: ripensare la città non come luogo di mercato o centro di dominio significa studiare delle rinnovate forme organizzative nel corpo delle società operanti per la liberazione dell’uomo, ricostruendo le interazioni fra i diversi «sottosistemi» sociali (economico, politico, giuridico ecc.) in funzione educante. La città che favorisce occasioni di incontro fra uomini, culture e religioni pone 3227

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Educazione un’ipoteca positiva su tutti i processi di socializzazione, aprendo canali diffusi a favore del dialogo, della condivisione, della solidarietà. Ciò pone il soggetto all’interno di una rete educativa di relazioni sociali e comunitarie, ma pure di conoscenze i cui saperi – tanto codificati quanto non codificati – impiantano l’autentica struttura democratica della società civile. c) Educazione e famiglia: la famiglia costituisce il principale punto di riferimento del soggetto in qualunque età della vita. In essa egli costruisce il proprio sentimento del vivere. I sistemi relazionali istituiti nel vincolo dei legami familiari sono frutto di mediazioni, anche difficoltose, alle quali ogni membro apporta il proprio contributo umano. Se vissute nel rispetto reciproco e nell’accoglimento delle differenze dei ruoli, le dinamiche familiari conferiscono sostanza qualitativa agli affetti e alle emozioni strutturando positivamente le relazioni parentali, che diventano un’occasione costante di crescita armoniosa a cui per sempre il soggetto e la sua educazione saranno debitori. d) Educazione ed extrascuola: la continuità e la reciprocità fra mondi scolastici ed extrascolastici sono la premessa per non recare confusione nel percorso educativo del soggetto. L’exrascolastico favorisce l’interiorizzazione di saperi, conoscenze, culture ed esperienze umane che vanno al di là dei compiti sociali ed educativi della scuola. Per questo, la frequentazione di ambienti quali musei, teatri, ludoteche, biblioteche, archivi, luoghi dell’associazionismo laico e religioso, centri sportivi, circoli culturali arricchiti da una opportuna «atmosfera» educativa, e non banalizzati nella routine di mode e riti effimeri o nelle prassi di educatori incompetenti, restituisce al soggetto uno spazio e un tempo della vita che saranno preziosi per la sua crescita libera, il suo sviluppo globale, la sua capacità di assumere il punto di vista dell’altro. La risorsa presente in tale policentrismo delle occasioni educative non può essere abbandonata al caso, ma va attentamente controllata dalla famiglia, dalla scuola, dalla società, dalle istituzioni statali e/o locali. e) Educazione e ambiente: una legislazione permissiva e incerta ha lasciato che l’ambiente venisse considerato come un luogo di non autorizzata devastazione. Le prassi diffuse di inquinamento dell’aria, dei mari, dei laghi e dei fiumi, dei boschi, dei campi e dei monti, non3228

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ché delle città hanno esposto l’uomo ai rischi dovuti alla distruzione sistematica degli ecosistemi. Quando l’organizzazione politica della società mette in atto misure severe di controllo e salvaguardia, il soggetto può vivere liberamente il proprio rapporto umano con l’ambiente traendo da esso autentici motivi di educazione. Questi si esplicano anzitutto nella fruizione del paesaggio, dei beni culturali e dei beni ambientali ivi presenti, attraverso l’uso critico e consapevole (e non piuttosto sconsiderato o alienante) del patrimonio naturale e artificiale in esso presente. f) Educazione e mass media: una pressoché illimitata rete di comunicazioni mediatiche sommerge il soggetto. In essa egli può trovare sia occasioni culturali ed educative sia percorsi contrassegnati da banalità inutili quanto sofisticate. Districarsi nelle maglie di tale rete, piuttosto che rifiutarla acriticamente, costituisce uno dei più complessi itinerari pedagogici. Tuttavia, i giornali, la radio, la televisione, i networks informatici, la fotografia, il cinema si istituiscono sempre più su alfabetizzazioni che non possono essere ignorate, ma alle quali occorre venire avvicinati in modo graduale e con il supporto di educatori, insegnanti, genitori responsabilmente attenti a che i soggetti soprattutto in età evolutiva possano trarre soltanto dei vantaggi, in termini di criticità e creatività ma anche di conoscenza e consapevolezza, dall’uso di tecnologie, strumenti di comunicazione, apparati di conservazione, progettazione, fruizione e trattamento informatizzato delle conoscenze. I differenti ambienti educativi presi in considerazione riassumono un patrimonio di teorie, pratiche ed esperienze che è parte integrante della cultura nelle società occidentali. Se in esse l’educazione non è intesa come un insieme di attività rivolte a condizionare il soggetto nella sua libera formazione di uomo, in ciascun ambiente in cui sarà posta in atto l’opera educativa verranno bandite tutte le azioni indirizzate a determinare il soggetto attraverso l’indottrinare, il modellare, il plasmare e ogni altra forma di dipendenza, subordinazione o influenza limitativa. Educare significa infatti porre un uomo nelle condizioni concrete per vivere la propria esperienza umana nel segno della libertà interiore ed esteriore, attraverso il progressivo potenziamento delle sue strutture cognitive, linguistiche e morali, attivando l’autocontrollo degli istinti e del carattere senza

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dover soffrire di deprivazioni psichiche, imparando ad accettare la propria e l’altrui «diversità» e cogliendo nella «differenza» tra gli uomini la bellezza della «plasticità» della vita. Occorre avere consapevolezza che l’educazione non sa correggere il destino biologico del soggetto, il quale può essere tuttavia aiutato nella sua crescita formativa. Inoltre, è necessario non ignorare che l’educazione è impossibilitata, da sola, a cambiare il destino socio-politico di qualsiasi società, sebbene il suo peso sia tale da influenzarne attivamente e positivamente le pratiche culturali, politiche, sociali e civili. Alla forte crisi del modello economico-politico-sociale moderno non si risponde con una accentuazione del razionalismo educativo, ma tentando di reimpostare costantemente ogni singola relazione educativa fortificandola in senso umano e valoriale, non trascurando la memoria del passato, articolando il progetto del futuro affinché il soggetto cresca nell’equilibrio tra cultura della ragione e cultura del sentimento, scienza e immaginario, laicità e religiosità, agire critico e intenzione responsabile. Così l’educazione diventa vita e la vita coincide, almeno in parte, con l’educazione. M. Gennari

II. STORIA DELL’EDUCAZIONE. – L’educazione prende storicamente avvio nel momento in cui l’uomo entra in una relazione con l’altro tale da generare formazione in entrambi. Risulta impossibile stabilire da quando questo si è verificato tra uomini venuti in contatto tra loro. Tuttavia, alcune condizioni sussistenti nella società arcaica permettono d’individuare la presenza dell’educazione nella trasmissione orale delle consuetudini e nell’apprendistato di abilità, tipici dei nuclei familiari o di gruppi sociali ristretti, nonché poi nella definizione di miti, riti e tabù vivificanti le tradizioni collettive. Un originale e primigenio apporto alla storia dell’educazione nel mondo occidentale è fornito dalle culture mesopotamiche e da quella egizia. Stanziati nella terra fra il Tigri e l’Eufrate, tra il 3000 e il 500 a. C., sumeri, assiri e babilonesi danno origine a una cultura mitopoietica, comprensiva di visioni cosmogoniche e panteistiche affidate alla tradizione orale. L’uso convenzionale, quasi esclusivamente commerciale, di segni cuneiformi e di immagini è rimesso agli scribi. Proprio lo scriba insieme al sacerdote, strettamente legati ai ceti dominanti, rappresentano i letterati di professio-

ne presenti in Egitto, in particolare tra il 1800 e il 525 a. C. Essi affrontano uno specifico percorso istruzionale ed educativo. Gli dei sono incommensurabilmente lontani dall’umanità, che subisce gli oscuri eventi della natura. Le arti della calligrafia e dell’ortografia dei geroglifici richiedono un’educazione fondata sull’esercizio e l’obbedienza, ma pur sempre rivolta alle esigenze della quotidianità. Con la nascita dell’alfabeto, quale insieme di ventiquattro segni che simbolizzano suoni, lo sviluppo degli strumenti di alfabetizzazione produce la prima sistematizzazione del pensiero, operata dai greci. Dall’VIII secolo a. C. la civiltà greca pone le fondamenta della cultura occidentale. L’attenzione all’educazione muta, producendosi anche una teoria che la concerne (con Platone, Isocrate, Aristotele). Pure il rapporto con le divinità cambia, poiché gli dei rappresentano le forze della natura, possiedono attributi umani, interagiscono con la vita della comunità sociale. L’economia, basata sull’agricoltura o sul commercio marittimo, differenzia, dal V secolo, lo sviluppo della cultura e dei comportamenti sociali nelle cittàstato greche: l’educazione nell’agreste Sparta è diversa da quella presente nell’Atene sempre più aperta ai traffici e agli scambi sul mare. Così, l’ideale del guerriero che difende la propria terra richiede un addestramento fisico che occupa parte dei processi educativi, tesi a rafforzare la virtù (ajrethv), propria dell’uomo libero che sa essere anzitutto politico. Vincere in combattimento e sopportare le fatiche costituiscono mete prioritarie per un’educazione che pone al centro i valori del coraggio, della fortezza, dell’obbedienza, della temperanza, della prudenza. Le medesime assiologie sono presenti anche là ove il commercio richiede pure capacità specifiche, quali contare e scrivere. Mentre la prima forma di educazione rimane tradizionalmente affidata alla famiglia, prima alla madre o alla nutrice, poi al padre, ai fratelli maggiori, a chi può insegnare al giovane il mestiere futuro, in Grecia si differenzia nettamente l’educazione successiva alla prima infanzia. Essa riguarda esclusivamente le famiglie dei ceti dominanti, nel cui ambito si muove, spesso straniero e servo, il pedagogo. Questi si occupa del bambino e della sua educazione, accompagnandolo a scuola e aiutandolo a ripetere le lezioni. Sorta tra il VI e il V secolo a. C., la scuola (dal greco scolhv, tempo libero da3229

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Educazione gli impegni del lavoro) accoglie solo uomini liberi e offre un’educazione ginnica, musaica e letteraria, atta a formare buoni cittadini. Insegnare a difendere la patria è uno degli obiettivi prioritari dell’educazione greca. L’educazione ginnica si lega alla musaica in quella «danza guerriera» o pirrica che addita ai più giovani l’arte della guerra. Gli esercizi atletici in armi preparano anche alle gare panelleniche che, dall’VIII secolo a. C., si svolgono a Olimpia e successivamente in altre città greche. I giochi olimpici, nel prevedere, anzitutto, la corsa, il combattimento in armi, la lotta, la guida dei carri, il lancio del disco, il tiro con l’arco, il salto, costituiscono un’occasione formativa non solo allo spirito agonistico, ma anche a quello religioso, essendo essi dedicati a una divinità e al suo culto. Il vincitore viene ritenuto un eroe, alla stregua di chi si distingue in battaglia. E in onore degli dei e degli eroi si partecipa ai cori tramandati dai padri, attraverso cui l’educazione musaica coinvolge tutti, dal punto di vista sia del canto sia della produzione musicale (in particolare, con la lira, la cetra, il flauto). Tramandare quanto la cultura ha elaborato nel tempo è compito dell’educazione, che rafforza la sua facoltà penetrativa mediante la ripetitività, anche a livello di lettura e scrittura. Le lettere dell’alfabeto hanno bisogno di un maestro specifico, il grammatista (da gravmma, carattere inciso), al quale si affianca il retore, che insegna l’arte di parlare in pubblico. Gli scritti di Omero, seguiti da quelli di Esiodo e di storici, lirici, filosofi, rappresentano un basilare punto di riferimento, soprattutto per l’educazione morale, culturale, religiosa e anche politica e storica del giovane. Dall’educazione letteraria, musaica, ginnica le donne non sono totalmente escluse; tuttavia, è loro riconosciuto il prioritario ruolo domestico di cura della casa e di educazione sia dei bambini più piccoli sia delle fanciulle. Pertanto, i luoghi dell’educazione in Grecia sono la famiglia, la scuola, il ginnasio e poi i giardini privati, in cui i filosofi radunano i propri allievi (esemplari sono peripato e stoà), e la biblioteca. La cultura dei greci influenza profondamente quella latina, a partire dalla metà del III secolo a. C. Fondata Roma nel 753 a. C., il popolo rude e bellicoso dei latini assorbe tradizioni e costumi dalle popolazioni con cui viene a contatto. In particolare, sono gli schiavi greci a contribuire in maniera determinante alla costituzione della cultura romana che pur conserva, 3230

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nelle fasi fiorenti del suo sviluppo, una propria originalità. Già nella considerazione della donna-madre è rintracciabile una maggiore attenzione rispetto ai greci proprio dal punto di vista pedagogico, poiché la cura e l’allevamento del bambino sono ritenuti primari momenti educativi, degni di massima attenzione e rispetto. L’auctoritas del pater familias e la sua severa disciplina sono tuttavia incontrovertibili. Al gioco è riservato uno spazio, così come i bambini sono chiamati a un’educativa partecipazione alle cerimonie religiose e civili. Il mos maiorum – insieme di usanze e abitudini che si tramandano – costituisce infatti un punto di riferimento basilare per il rispetto sia della legge, in cui sono statuiti diritti e doveri del cittadino, sia della patria potestas. A fare rispettare l’una e l’altra vengono chiamati anche la nutrice e il pedagogo che, soprattutto dal II secolo a. C., sono pedagogicamente presenti accanto ai più giovani. Questi poi, solitamente in spazi all’aperto, incontrano il maestro che si guadagna da vivere insegnando a leggere, scrivere, parlare e additando, seppur anche mediante punizioni corporali, quali siano i buoni costumi, i valori civili, politici, militari e quindi il rispetto dei genitori e degli dei (pietas), la dignità (gravitas), la lealtà (fides), la fermezza (firmitas) e il coraggio (virtus). Copiare testi, recitare a memoria, imparare le regole grammaticali, leggere gli autori stimolano, attraverso la commistione di nozioni di letteratura, musica, scienze naturali, matematica e geometria, logica, l’educazione dei giovani e la loro formazione, anzitutto politica. Tuttavia, non è sufficiente per i romani tale preparazione, poiché non può mancare l’attenzione all’educazione del corpo atto a combattere. La scuola delle armi o tirocinium esercita alla guerra, attraverso l’equitazione e il nuoto, la lotta, la corsa, il salto, il lancio del disco e del giavellotto, il pugilato. Gli stadi e le palestre, come pure le terme, diventano luoghi di incontro, confronto, gioco ed esercizio. Non tutti possono però frequentarli, poiché plebei e schiavi devono affrontare percorsi educativi assai differenti: a loro spetta l’apprendistato per osservazione e imitazione, tipico di quei ceti sociali che lavorano per altri e vengono educati, fin dall’infanzia, alla pratica di strumenti atti a produrre merce. Il declino di Roma e la nascita del cristianesimo segnano una svolta anche nell’ambito dell’educazione, svolta che diverrà decisiva

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particolarmente nel basso Medioevo. Nei primi secoli dopo Cristo è soprattutto il sincretismo della cultura greco-romana e di quella ebraico-cristiana a elaborare il fertile incontro e la successiva compresenza della filosofia greca con la fede cristiana. Le difficoltà di affermazione in cui versano le concezioni dell’anima, del corpo e dell’essere spirituale tipiche del cristianesimo, quindi i conflitti religiosi, contemporaneamente alla carenza di poteri politici e/o militari capaci di unificare i popoli, restituiscono un sistema di processi educativi frammentato, gestito da singoli, spesso in privato, ove la speculazione o lo spirito d’indagine propri dello studio sono sostituiti da pratiche di istruzione funzionali alle attività lavorative. Gli sforzi di dare forma sistematica alle dottrine cristiane da parte dei padri della chiesa non riguardano direttamente l’organizzazione dell’educazione, anche se il loro apporto in ambito pedagogico contribuirà a cambiare assiologicamente e teleologicamente i processi educativi. Nel VI secolo, in Occidente, sono i monasteri – sorti già dal IV secolo – gli unici centri di cultura nei quali confluisce il sapere, per essere conservato e tramandato attraverso l’interpretazione della parola di Cristo. Un ideale ascetico di educazione che s’impernia sul timor di Dio accompagna l’espressione più rilevante della formazione dell’uomo: la morale. La condotta cristiana si basa sulla ricerca della fede, ma riconosce al singolo il libero arbitrio. Per questo il giovane deve essere educato, anche nell’azione, ai valori insegnati da Gesù Cristo e abbandonare la tradizione ellenistico-romana quale espressione dell’idolatria pagana. L’unico maestro è il Cristo, raffigurato, mentre insegna alle folle, dall’iconografia, che si diffonde quale strumento educativo privilegiato per raggiungere ogni persona, in particolare gli analfabeti. Le scuole che Roma aveva voluto per tutti chiudono, lasciando il posto a quelle per pochi, di catechesi, nei monasteri; i testi mitologici o degli autori antichi vanno dimenticati; le manifestazioni dell’anfiteatro, nello stadio, nel circo scompaiono, insieme al valore attribuito a ginnastica e musica. Rimane il canto e si diffonde la muta praedicatio delle immagini, mentre le lettere dell’alfabeto sono appannaggio di pochi grammatici e filologi che si servono ancora, seppur interpretandoli cristianamente, degli autori latini, greci, ebrei, arabi. Le popolazioni barbariche che attraver-

Educazione sano l’antico impero romano portano con sé l’educazione ai giochi di guerra, all’equitazione, alla caccia. Soltanto l’impero carolingio registrerà una seppur breve rinascita culturale con una ormai desueta attenzione all’istruzione per tutti, seppur gestita dal clero. Al posto dei testi dei classici, si ricopiano e si illustrano con preziose miniature quelli degli evangelisti e dei padri della chiesa: inesorabilmente le forme letterarie, artistiche ed educative elaborate nel corso di tanti secoli cadono nell’oblio. Dopo il Mille e il superamento delle crisi demografiche e anche produttive, allo sviluppo economico si accompagna quello culturale. Ritorna così la forma d’istruzione pluriennale legata all’apprendistato nelle botteghe artigianali. Tra esse aprono progressivamente pure quelle dei maestri di scuola che, attraverso contratti notarili, stabiliscono contenuti, modalità, tempi, compensi economici relativi all’insegnamento e all’apprendimento. Conquistano nuovamente spazio le artes liberales del trivium e del quadrivium: con le prime tre o artes sermocinales (grammatica, retorica e dialettica) l’uomo elabora una struttura linguistico-letteraria, con le altre quattro o artes reales (aritmetica, geometria, astronomia e musica) si persegue la formazione scientifica. Le sette scienze liberali troveranno però il loro ambito espressivo privilegiato e completo soltanto nell’universitas studiorum. Ivi, dal XIII secolo, esse costituiscono un percorso obbligato e propedeutico agli studi specifici del diritto, della medicina e della teologia. I frequentanti sono soprattutto chierici e i docenti ecclesiastici, ma presto l’università si aprirà a tutti, donne comprese. Gli studi si rinnovano, anche quelli teologici, in particolare con la nascita di ordini religiosi (ad esempio, Domenicani e Francescani) che comprendono la necessità di una preparazione culturale al fine della predicazione della parola cristiana. Tali impulsi, uniti a quelli delle «corporazioni di arti e mestieri», producono un notevole sviluppo letterario e artistico a cui contribuiscono le scuole comunali e quelle monastiche, nonché le università, nutrendo processi educativi anche attenti all’elaborazione di cultura. La nascita delle letterature in volgare declama la perfusione dell’educazione letteraria e la lotta contro l’analfabetismo. La caduta dell’uso di chiedere ai vescovi la licentia docendi suggella il processo di laicizzazione del sapere, dell’istruzione, della cultura. 3231

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Educazione Tale passaggio è confermato ancor più dalla riscoperta del mondo antico i cui prodromi sono rintracciabili già nello studio del diritto, presente alla fondazione dell’università. Le humanae litterae acquistano valore, pur affiancandosi agli studi religiosi: la cultura medioevale cristiana si intreccia con quella classica, mentre il potere politico e quello religioso si saldano. Tra il Trecento e il Cinquecento proliferano le scuole che da private o ecclesiastiche diventano anche comunali e si rivolgono a laici attenti al commercio, alle attività artigianali e mercantili propri della città. Non sono più sufficienti le nozioni grammaticali legate al leggere e allo scrivere e neppure i contenuti teologici delle sacre scritture; nuove conoscenze – connesse, in particolare, con l’aritmetica e la geometria, la geografia, l’astronomia – acquisiscono spazio diversificando nel tempo, e sempre più nettamente, la cultura umanistica dalla cultura mercantile, il latino dal volgare, la lettura dei classici dall’esperienza pragmatica. Il nobile unisce l’amore per le armi e la caccia al gusto per le lettere: gli esercizi fisici per la cura del corpo non tolgono spazio alla musica, alla lettura, alla composizione di scritti atti a vivificare l’anima. Pur contrastata, la presenza femminile nella città quattro-cinquecentesca non è più limitata alle mura domestiche, ma si amplia, raggiungendo la monacazione o la cortigianeria quali posizioni di emancipazione anzitutto culturale. Intanto, l’invenzione dei caratteri a stampa permette una diffusione della cultura finora ignota, mentre la scoperta e la conquista di nuove terre contribuiscono allo sviluppo economico e politico che si lega al fervore culturale dell’umanesimo e del rinascimento. L’incremento delle università e la nascita delle accademie – già nel XV secolo, a opera di associazioni di «literati» e «dilettanti», a cui seguiranno le note accademie della Crusca (1583) e dei Lincei (1603) – incentivano non solo nuovi insegnamenti, studi e scoperte scientifiche, ma anche l’ampliarsi dell’enciclopedia dei saperi, lo spostamento in più sedi di docenti e studenti, una maggiore organizzazione istituzionale, il controllo politico esercitato sempre più spesso dal potere locale, nonché la diffusione di un pensiero pedagogico che, riflettendo sui processi educativi, elabora specifiche teorie rivolte ai diversi ceti sociali. Anche i poveri, e in particolare gli orfani e i bambini emarginati, i derelitti, i sofferenti richiamano l’attenzione 3232

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pedagogica di chi detiene il potere dell’istruzione. I nuovi ordini religiosi dei Somaschi e dei Gesuiti – sorti entrambi nella prima metà del Cinquecento – redigono programmi educativi che sottolineano l’importanza dell’apprendimento e della cultura, ma non per tutti. All’assistenza e alla beneficenza destinate agli strati poveri della popolazione non corrisponde l’intento di renderle culturalmente autonome. Soltanto le utopie di Moro, all’inizio del Cinquecento, o di Campanella, un secolo dopo, disegnano una comunità, ordinata politicamente e socialmente secondo il principio di uguaglianza, in cui all’educazione è riservato un ruolo preminente. Saranno soprattutto i Gesuiti a segnare la storia dell’educazione per almeno due secoli: la loro Ratio atque institutio studiorum, del 1586 – redatta a seguito dei decreti del Concilio di Trento (1545-64) – stilizza un’impostazione pedagogica che prevede contenuti di ordine umanistico (relativi a grammatica, umanesimo, retorica), scientifico (con logica, matematica e fisica, metafisica, etica e psicologia) e teologico (filosofia scolastica e teologia), accompagnati da precisi criteri didattici, metodologici e organizzativi (p. es. la suddivisione in classi secondo l’età e il profitto, la compilazione di registri, gli esami mensili e a fine anno). La disciplina, attraverso l’autorità che sviluppa conformismo, diventa il perno attorno al quale ruota l’educazione morale. I destinatari privilegiati sono i ceti dominanti della società – attraverso i quali si raggiunge il controllo politico della comunità. Anche nel Seicento, la discriminazione sociale si perpetua, rispecchiata dalle istituzioni preposte all’educazione: queste riservano una preparazione propedeutica all’attività professionale dell’età adulta, a seconda del ceto di appartenenza. Il diritto all’educazione continua ad essere determinato dalla nascita. Gli strati popolari nelle campagne ricevono l’educazione che si tramanda di padre in figlio, nelle città hanno la possibilità del lungo e faticoso tirocinio nelle botteghe artigianali. Nei paesi della Riforma protestante, però, l’istruzione popolare si sviluppa in maniera capillare: tutti devono poter liberamente interpretare le Scritture, quindi a ognuno è riconosciuto il diritto di apprendimento e acquisizione dei mezzi idonei per la loro comprensione. La chiesa cattolica riserva invece a pochi tale interpretazione: l’istruzione scolastica superiore è per

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coloro che sono destinati al sacerdozio, mentre ai ceti subalterni e alle masse analfabete spetta l’indottrinamento catechistico, perseguito mediante prediche morali e dogmi teologali. I nuovi ordini religiosi, dai Barnabiti agli Scolopi, organizzano così scholae laicales, distinte dalle scholae piae, mentre tra Seicento e Settecento nascono congregazioni di «suore maestre». Tuttavia, sono sempre i vescovi a esercitare il controllo culturale e la supervisione di università e istituzioni scolastiche, inserendovi p. es. come obbligatorio l’insegnamento della teologia o esautorando dal governo accademico le rappresentanze di studenti e docenti. Inoltre, i testi librari e ogni progresso scientifico sono inquisiti e vagliati secondo precisi criteri di concordanza con la Bibbia. La chiesa cattolica sviluppa la propria influenza anche attraverso una rete privata di istituzioni scolastiche a pagamento, di università e collegi, fino a quando si diffonde gradualmente, ormai nel Settecento e in tutta Europa, la convinzione che l’educazione sia compito dello stato. Nonostante sia massiccia la presenza di ecclesiastici tra gli insegnanti, e ancora per molto tempo lo sarà, la scuola tenta di laicizzarsi. Le riforme si susseguono. È sostenuto il carattere universale dell’istruzione pubblica, ma sono pure sottolineate le differenze tra chi si serve delle braccia e chi dei talenti, immediatamente riscontrabili nell’organizzazione di differenti scuole per gli uni e per gli altri. Vengono redatti nuovi libri di testo per ogni ordine di scuola, con la proposta di innovative metodologie didattiche. Mentre avanza l’abolizione definitiva delle corporazioni d’arte e mestieri, nelle scuole pubbliche entrano le prime forme d’istruzione tecnico-professionale, accanto agli insegnamenti della lingua e della letteratura, della storia profana o della geografia. Anche alle fanciulle povere, alla stregua delle nobili, è riservato uno spazio scolastico con l’elementare apprendimento delle capacità di leggere, scrivere e far di conto. Sarà però soltanto la rivoluzione francese a sancire paradigmi decisivi nella storia dell’educazione dell’Occidente. Mai prima della Rivoluzione Francese di fine Settecento erano emersi principi politici capaci di riconoscere agli uomini uguaglianza e libertà, anche sotto il profilo educativo. Lo stato è chiamato ora a garantire l’istruzione pubblica, gratuita, indipendente da ogni credo religioso, obbligatoria, laica. Tale presupposto

Educazione rende l’educazione e l’istruzione tramiti privilegiati dell’uguaglianza tra i cittadini, poiché si riconosce che l’uomo di qualsiasi ceto sociale ha bisogno di esse; le amministrazioni locali, in parte indipendenti dal governo centrale, sono chiamate a occuparsene. L’educazione cerca di comprendere elementi di tutte le conoscenze umane, proponendosi come letteraria e intellettuale, fisica e morale, nonché tecnica. Inoltre, ogni cittadino ha diritto a organizzare privatamente istituzioni educative, concorrendo così al progresso delle lettere, delle arti, delle scienze. L’educazione sembra profilarsi quale perno fondamentale per una democratica palingenesi sociale. Però, davanti al fondato rischio di perdere la sua plurisecolare egemonia, la chiesa eleva proteste e preoccupazioni per l’inevitabile corruzione delle anime infantili, avocando ancora a sé il potere di sorvegliare e controllare insegnanti e libri. Si giunge così al concordato del 1801, firmato da Napoleone, in cui la religione cattolica è riconosciuta religione di stato. Rivoluzionari e conservatori continuano a scontrarsi, mentre speranze e delusioni si alternano a disorientamento e incertezza. Cioò nonostante, alcuni paradigmi acquisiscono un’attenzione che riaffiorerà nel tempo: l’educazione è un «Politikum» – come asserisce Maria Teresa d’Austria – spettante allo stato, che s’impegna per l’istruzione primaria di tutti; la formazione degli insegnanti delle scuole superiori va sollecitata, pur rimanendo subordinata all’autorità statale; l’insegnamento è libero e pubblico; i giovani vanno educati all’amore per la patria, all’obbedienza alle leggi, al rispetto dei princìpi della religione, senza bisogno di ricorrere alle punizioni corporali. Nel fervore rivoluzionario che investe la vita pubblica, tra un diffuso interesse per la politica raggiunto tramite la stampa popolare, feste nazionali, nuove istituzioni scientifiche, vengono stilati innovativi progetti educativi, scolastici e didattici. Questi non riescono però ad essere attuati, se non in minima parte: caduto Bonaparte, l’epoca della restaurazione inizia subito la sua azione disgregatrice nei confronti delle proposte appena elaborate: l’intento conservativo sopravviene quello rivoluzionario. Vengono reintegrati tanto i deliberati del Concilio di Trento quanto l’ordine dei Gesuiti. L’educazione, stretta fra il sillabario e il catechismo, torna alle dinamiche dell’indottrinamento e del moralismo pedagogico, anche se 3233

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Educazione forme di istruzione popolare, pur finalizzate al mantenimento dell’ordine sociale, politico, religioso, si diffondono sempre più capillarmente, raggiungendo talvolta le campagne. Tornano le scuole regionali a pagamento, controllate dai vescovi, mentre le parrocchie gestiscono quelle gratuite, rette dalla carità dei privati, per i ceti sociali più deboli. Gli insegnanti sono ecclesiastici; le punizioni corporali paiono un mezzo didattico efficace; licei e scuole per insegnanti sono dimenticati; la censura sui libri è severa. Ancora il ceto sociale determina il percorso educativo e formativo delle prime età, dagli orfanotrofi per gli «esposti» o diseredati alle case di correzione per i «giovani traviati» o disadattati, dallo sfruttamento nei campi a quello nelle botteghe artigianali o delle prime officine industriali. Tuttavia, anche chi riesce a frequentare la scuola non smette di soffrire, tra rigidi regolamenti e severe pratiche punitive. Alla donna sono riservate le «faccenduzze di casa»: un ruolo che rimane distinto dal maschile, escluso quasi totalmente dai percorsi educativi istituzionali e a cui si contrappongono gli sforzi delle «suore di carità», p. es., dedite all’educazione delle fanciulle. Diversi ordini religiosi mostrano sensibilità verso l’educazione, affiancati da filantropi che, per singola iniziativa privata, si dedicano ora ai figli dei contadini ora all’infanzia abbandonata. Si tratta, però, di forme assistenziali, piuttosto che di formazione culturale capace di stimolare cambiamenti sociali. Durante l’Ottocento lo sviluppo degli opifici, delle industrie manifatturiere, delle fabbriche meccaniche produce, in breve tempo, esigenze che coinvolgono anche le istituzioni educative. Gli «asili infantili» nascono in Inghilterra a inizio secolo per custodire i figli degli operai mentre lavorano. Si diffondono quindi in Europa, ora osteggiati ora incentivati, ammantandosi solo raramente di un significato pedagogico, comunque non scevro da condizionamenti sociali. Intanto, si sviluppano pure le «scuole d’arti e mestiere», tese a fornire un’istruzione professionale agli artigiani «conveniente al loro stato». L’ordine sociale è garantito da entrambe le istituzioni. E pure le nascenti società di mutuo soccorso, sorte per iniziativa degli operai, volendo promuovere istruzione, moralità e benessere, sono chiamate a cooperare al bene pubblico. La nuova metodologia didattica del «mutuo insegnamento» – con gli scolari più grandi che insegnano ai più 3234

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piccoli, sotto la supervisione del maestro – tende a controllare e regolamentare, tradotta in un’organizzazione meccanica e una disciplina di tipo militare. Dalla seconda metà dell’Ottocento l’ordinamento politico dei diversi stati differenzia non poco i relativi assetti educativi. La proclamazione del Regno d’Italia nel 1861 e il raggiungimento della sua definitiva unità nel 1870 segnano una svolta decisiva, poiché lo stato, avocando l’istruzione a sé, mette in atto un processo di diffusione e unificazione della scuola. Questa si sviluppa, pur lentamente, in ogni ordine e grado, sia ampliando progressivamente la fascia della popolazione scolastica sia aprendo nuove sedi anche accademiche. Associazioni e sindacati dei lavoratori, alla stregua degli istituti di assistenza e beneficenza cattolici, promuovono l’educazione scolastica primaria raggiungendo i ceti più svantaggiati e offrendo loro scuole serali e domenicali. Soltanto gli asili infantili rimangono sotto la completa giurisdizione della chiesa, poiché questa comincia a perdere con gradualità, ma inesorabilmente, il controllo plurisecolare sulle istituzioni educative sia a causa della soppressione di enti ecclesiastici e corporazioni religiose sia in nome di una concezione laica dell’insegnamento. Il cattolicesimo è comunque riconosciuto religione di stato e le lezioni ad esso inerenti rimangono obbligatorie in tutte le scuole, salva la facoltà di richiesta d’esonero. L’educazione fino ai sei anni d’età non viene presa in considerazione dalle leggi statali («Casati» del 1859 e «Coppino» del 1877, tra le decisive): è tacitamente demandata alle famiglie, nonché alla chiesa, che però rifiuta e ostacola la diffusione dei «giardini d’infanzia» fröbeliani, sorretti dal porre al centro dell’educazione dei bambini l’attività di gioco. Per chi ha compiuto sei anni d’età, prima sono i comuni chiamati ad aprire scuole idonee con classi differenti per maschi e femmine (1859), poi sono i medesimi bambini convocati all’obbligo di frequenza della scuola elementare del comune (1877), salvaguardato da provveditori e ispettori del ministro degli interni. Soltanto all’inizio del Novecento (1904) l’obbligo sale dai nove anni ai dodici. Quanto ai contenuti educativi essi paiono distanti dalle esperienze di vita dei bambini, spesso già costretti a lavorare: la grammatica e gli esercizi di calligrafia, accompagnati da metodi repressivi, non in-

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centivano la frequenza scolastica in ambienti sovraffollati e malsani. L’educazione fisica conquista uno spazio ormai perso da tempo, mentre vengono introdotte le «prime nozioni di doveri dell’uomo e del cittadino». Tutti sembrano avere diritto all’educazione, ma immediatamente dopo la frequenza della scuola elementare ancora una volta il ceto sociale incide sui percorsi educativi e lavorativi. Scuole e istituti statali, solo talvolta triennali, sorgono per preparare al lavoro produttivo: l’istruzione tecnica si profila come subalterna a quella superiore, priva di una matrice culturale e volta all’apprendistato, pur nei diversi ambiti professionali, dall’industriale all’artistico, dall’artigianale all’agricolo. I ceti dominanti afferiscono invece al quinquennale ginnasio, seguito dai tre anni di liceo, dove l’educazione classica – letteraria e filosofica anzitutto, arricchite da discipline scientifiche – prepara all’università. Alle tradizionali facoltà di Giurisprudenza, Medicina, Lettere e Scienze non si affianca più quella teologica, soppressa (1873) per carenza di studenti. All’inizio del Novecento, mentre si rende vivace la ricerca di un possibile equilibrio politico tra borghesia, chiesa e sindacati dei lavoratori, nascono le associazioni per insegnanti, si rafforzano le lotte contro l’analfabetismo e si diffonde l’istruzione elementare – regolamentata dai nuovi programmi del 1905 –, si organizza il coinvolgimento del volontariato nelle sedi educative, s’introducono nella scuola nuove visioni pedagogiche. L’educando riceve maggiore rispetto e attenzione, anche se il processo d’inculturazione rimane affidato a metodi autoritari e volti al conformismo. I bambini anormali o minorati sono studiati da una pedagogia che vuole recuperarli, ponendo soprattutto attenzione alle loro specifiche esigenze, così come l’età infantile viene investita da un interesse che ne evidenzia e differenzia le peculiarità. Anche alla donna – che continua a costituire la minoranza rispetto alla popolazione alfabetizzata – sono riconosciute caratteristiche peculiari, che però portano soltanto a riservarle professioni socialmente secondarie, quali la maestra d’asilo, l’insegnante nella scuola elementare femminile, la sarta, la cuoca, la stiratrice, l’infermiera, fino alla segretaria, la dattilografa, la telefonista. Tuttavia, i processi educativi del bambino e della donna, ormai istituzionalmente legittimati, cominciano a segnalare le prime forme di emancipazio-

Educazione ne da secoli che avevano socialmente estromesso e sfruttato queste fasce di popolazione più deboli. Iniziative di assistenza e beneficenza si dispiegano in loro favore, raggiungendo zone depresse, orfani, poveri; organizzazioni infantili e giovanili – ispirandosi agli scouts inglesi – sviluppano pratiche educative extrascolastiche, volte alla vita nella natura, alla fratellanza, alla padronanza di sé. Con lo scoppio della prima guerra mondiale i processi in corso subiscono però un drastico rallentamento. Gli anni postbellici registrano la diffusione di innovativi principi pedagogici in molti paesi: dall’interrelazione fra cultura generale e preparazione professionale all’insegnamento religioso non confessionale, dall’attenzione all’esperienza dell’alunno al lavoro didattico individuale o di gruppo. In Italia è il fascismo a dettare, attraverso proprie leggi – su tutte la riforma Gentile del 1923 –, e imporre – tramite il regime dittatoriale – idee, programmi, metodi educativi. Secondo dichiarati intenti politici, che prevedono anche una riduzione degli atenei, la popolazione scolastica diminuisce rapidamente; alla discriminazione legata al sesso – p. es. alle donne non è permesso insegnare nei licei – si affianca quella di classe: l’educazione connessa con l’istruzione e la cultura non è prevista per tutti, mentre la selezione premia anzitutto i ceti benestanti. L’insegnamento della religione cattolica torna – dopo il Concordato del 1929 – obbligatoria in tutte le scuole: non è più a scelta, essendo riconosciuta come «la sola religione dello stato italiano». La scuola è chiamata a ispirarsi alle «idealità del fascismo»; per questo essa dev’essere bonificata: il controllo dell’editoria scolastica e della letteratura per l’infanzia si accompagna al perseguimento della tradizionale cultura umanistico-letteraria, insieme all’esaltazione dell’amore per la patria, alla preparazione ginnica a matrice militarista, all’istituzione di organizzazioni giovanili atte a formare la «coscienza fascista». Il percorso delle scuole tecnico-professionali, frequentate dopo le elementari e alle quali è precluso l’accesso all’università, non è ritenuto né culturale né educativo, tanto da non dipendere dal ministero dell’istruzione; questo fino a quando (nel 1929) il nuovo ministero dell’educazione nazionale ne unifica i diversi tipi – «classi integrative», scuola «complementare», istituti industriali, agrari, di scienze economiche e 3235

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Educazione commerciali, professionali femminili – in un’unica scuola di avviamento al lavoro. La «Carta della scuola», trasformata in legge nel 1940, giunge a una «scuola media unica» che fa proseguire gli studi fino ai 14 anni soltanto per chi ha scelto alcune scuole (p. es. liceo classico o istituto magistrale), senza però illudere la «gioventù di spostare la propria condizione sociale» e con l’esclusione degli ebrei dal diritto all’educazione istituzionale. Ma ormai la seconda guerra mondiale ha avuto inizio, con non pochi episodi di resistenza al nazifascismo da parte di studenti e scuole. La massiccia ricostruzione post-bellica riguarda anche gli edifici preposti all’educazione, ma l’impostazione pedagogica dei percorsi educativi non viene rinnovata in maniera altrettanto decisa. Mentre il mondo si divide tra Stati Uniti d’America e Unione Sovietica, in Italia riemerge il tradizionale conflitto tra cattolici e laici sulla libertà d’insegnamento, la scuola privata, l’istruzione obbligatoria. Riconosciuto costituzionalmente, nel 1948, il dovere dello stato di organizzare scuole atte a formare culturalmente e politicamente soggetti responsabili e autonomi, e sottolineato il diritto all’educazione da parte di tutti i cittadini, sono riconfermate le scuole di ogni ordine e grado già presenti, così come si perpetuano discipline, programmi, metodi, solo in parte defascistizzati. Intanto, riprendono le loro attività educative e animative le organizzazioni degli «esploratori» laici e cattolici, mentre si sviluppano le «repubbliche dei ragazzi» – rette dall’autogoverno dei giovani partecipanti, intenti a interpretare la vita sociale e proporne cambiamenti non secondari – e altre iniziative di «pedagogia attiva» a differente matrice politica. L’alfabetizzazione raggiunge, seppur con gradualità, le zone maggiormente depresse del sud, mentre diventa legge, nel 1955, la revisione dei programmi della scuola elementare. Una maggiore attenzione al bambino e un carattere meno nozionistico degli studi primari non eliminano però l’autoritarismo dell’insegnante né l’ispirazione confessionale. Un passaggio epocale avviene nel 1962, con la legge che statuisce la scuola media unica: i differenti indirizzi post elementari vengono unificati in un unico corso, uguale per tutti, di tre anni, in cui rimane soltanto un latino facoltativo, ancora discriminante per la scelta degli studi successivi. La seguente legislazione del 1977 eliminerà il latino, dando maggior spazio 3236

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alle discipline scientifiche e inserendo l’«educazione artistica», l’«educazione musicale», l’«educazione tecnica» accanto all’«educazione fisica» al fine del conseguimento di una formazione maggiormente armonica e completa. Intanto, ancora negli anni sessanta si dibatte intorno alla scuola materna, che viene istituzionalmente statalizzata e regolamentata con la legge del 1968, mentre a quella privata è riconosciuto comunque un finanziamento. Il bambino è seguito fin dai primi mesi di vita. L’attività ludica diventa il perno intorno a cui fare ruotare il percorso educativo e formativo dell’infanzia. Convegni, dibattiti, commissioni di studio e disegni di legge si susseguono circa tutti gli ordini di scuola, mentre esplode, improvvisa e imprevista, una diffusa contestazione studentesca. È il 1968: si lotta per una democrazia scolastica e si protesta contro i percorsi educativi gestiti dallo stato che riproducono le differenze di classe proponendo, da una parte, una cultura umanistica desueta e, dall’altra, una cultura industrialistica strumentale al potere economico e politico. I risultati non sono però immediati. Più efficace sembra la successiva contestazione operaia del 1969 che ottiene agevolazioni, legate alle «150 ore», affinché tutti i lavoratori dipendenti possano frequentare, fuori del luogo di lavoro, corsi atti a migliorare la loro preparazione culturale o/e professionale. È la prima volta che si riconosce questo diritto al lavoratore, precedentemente obbligato a seguire l’istruzione tecnica impartita dall’imprenditore durante il lavoro nell’azienda e utile a qualificarlo solo professionalmente, ora libero di frequentare il percorso educativo a lui più congeniale. Ancora la fine degli anni sessanta registra la riforma dell’esame di stato nelle scuole superiori, nonché soprattutto la liberalizzazione dell’accesso all’università, per il cui tramite chiunque abbia conseguito il diploma di scuola superiore può iscriversi a qualsiasi corso di laurea, selezionando quindi liberamente l’indirizzo dei propri studi a prescindere dalle scelte compiute alla fine della scuola dell’obbligo. Dagli anni settanta si susseguono l’originale elaborazione di teorie pedagogiche, alcuni decreti che istituiscono programmi didattici atti a mutare nella scuola prassi educative consolidate, l’individuazione di ambienti e contesti educativi prima trascurati. Così, si istituzionalizza il «tempo pieno» e si scelgono le schede

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di valutazione con giudizi articolati al posto dei voti, ma soprattutto si tenta di «realizzare la partecipazione nella gestione sociale della scuola» (come invitano a fare i Decreti Delegati del 1974) da parte di tutti, docenti e allievi, familiari e personale direttivo, nonché comunità locali: i processi educativi non coinvolgono più soltanto gli insegnanti. E mentre la scuola diventa l’istituzione educativa a cui le famiglie demandano sempre più frequentemente l’educazione dei giovani, si sottolinea la rilevanza di un «processo unitario di sviluppo della formazione»: l’idea della «continuità educativa» coinvolge i primi tre ordini di scuola – materna, elementare, media –, chiamati a porre in atto «forme di raccordo pedagogico». Gli anni ottanta si aprono con il riassetto della docenza universitaria, ma ciò ha soltanto un risvolto amministrativo. Gli atenei crescono gradualmente, garantendo la frequenza anche agli stranieri e anzi incentivando sempre di più negli anni gli scambi con altri paesi. Gli stranieri s’inseriscono nei diversi contesti educativi, alla stregua dei portatori di handicap, dei disabili, dei socialmente disadattati o culturalmente svantaggiati, ai quali la Costituzione ha attribuito il «diritto all’ educazione», gli anni settanta il diritto all’inserimento «nelle classi normali di scuola pubblica» prevedendo «insegnanti specializzati», gli anni novanta la totale integrazione con la partecipazione progettuale e decisionale dell’«insegnante di sostegno» nei consigli di classe e di interclasse. Inoltre, tra le categorie ormai non più escluse dai processi educativi si annoverano quelle dei soggetti in situazione di atipicità sociale, quali i ricoverati in ospedale, i reclusi nelle carceri, i minori nelle comunità, i bambini immigrati e quelli nomadi. All’orientamento cognitivistico impresso alla scuola elementare a metà degli anni ottanta, insieme all’introduzione delle due discipline della seconda lingua e degli «studi sociali», segue, all’inizio degli anni novanta, la definitiva eliminazione del maestro unico, sostituito dall’insegnamento modulare, per ambiti disciplinari. Anche la scuola materna viene parzialmente riformata, mentre si diffondono nell’università i piani di studio obbligatori. L’educazione sembra sempre più attraversata da normative, sistemi di valutazione continui, sperimentazioni che cercano nuove possibilità di organizzazione dei curricoli. La preparazione culturale e pedagogica delle figure profes-

Educazione sionali che si occupano di educazione transita in diversi corsi di laurea accademici, fintanto che esse si moltiplicano anche nella loro denominazione. L’extrascolastico si sviluppa in maniera massiccia, così come ambienti educativi diventano i luoghi dell’arte, della storia, della scienza e si sviluppano percorsi di educazione ambientale, alla salute, alla pace, prima ignorati. Tuttavia, nel tempo in cui l’istituzione accademica conquista la propria autonomia e muta i curricoli di studio, riducendoli a tre anni e prevedendo una specializzazione di due, nonché gli scambi interculturali con altri paesi sono più facili e frequenti e il diploma di laurea diventa quasi un passaggio obbligato per accedere più velocemente al mondo del lavoro, si nota un analfabetismo di ritorno e una diminuzione dell’abitudine alla lettura che non riescono a contrastare la potente forza, in gran parte diseducativa, dei mass-media, televisivi e telematici in particolare. La logica industriale, tipicamente moderna, travolge i mondi dell’educazione. Ogni ambiente educativo sembra predisporsi a tramutarsi in un’azienda, retta da manager interessati soltanto al profitto economico. La scuola si nutre di crediti scolastici, l’università di crediti formativi: il processo educativo è ridotto al computo preciso di tabelle numeriche. L’autonomia locale, attribuita legislativamente, non pare in grado di contrastare le spinte del potere politico e di quello economico, affatto incuranti non soltanto di che cosa sia l’educazione, ma soprattutto di che cosa produca un’educazione basata su criteri istruttivi, apprenditivi, specializzanti, e non umanamente formativi. A. Kaiser BIBL.: I. IL CONCETTO DI EDUCAZIONE. – L. BORGHI, L'educazione e i suoi problemi, Firenze 1953; L. MILANI, Lettera a una professoressa, Firenze 1967; A. CAPITINI, Educazione aperta, Firenze 1967-68, 2 voll.; J. BRUNER, The Relevance of Education, New York 1971; A. BROCCOLI, Ideologia e educazione, Firenze 1974; R. MASSA, La scienza pedagogica, Firenze 1975; S. DE GIACINTO, Educazione come sistema, Brescia 1977; W. BREZINKA, Metatheorie der Erziehung, München 1978; B. ROSSI, Teoria e azione educativa, Siena 1983; M. GENNARI, Interpretare l'educazione, Brescia 1992; G. MINICHIELLO, Il mondo interpretato. Educazione e teoria della conoscenza, Brescia 1995; F. RAVAGLIOLI (a cura di), Educazione occidentale, Roma 1995, 2 voll.; F. CAMBI, Mente e affetti nell'educazione contemporanea, Roma 1996; R. LAPORTA, L’assoluto pedagogico. Saggio sulla libertà in educazione, Firenze 1996; G. ACONE, Antropologia

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Educazione dell'educazione, Brescia 1997; A. KAISER, Gnoseologia dell'educazione, Brescia 1998. II. STORIA DELL’EDUCAZIONE. – W. BOYD, The History of Western Education, London 1947, tr. it. di L. Picone, Storia dell’educazione occidentale, Roma 1959; R. ALT, Bilderatlas zur Schul- und Erziehungsgeschichte, Berlin 1960, 2 voll.; J. BOWEN, A History of Western Education, London 1972, tr. it. di G.A. De Toni, Storia dell’educazione occidentale, Milano 1979, 3 voll.; AA.VV., Nuove questioni di storia della pedagogia, Brescia 1977, 3 voll.; G. MIALARET - J. VIAL (a cura di), Histoire mondiale de l’éducation, Paris 1981, tr. it. a cura di G. Giugni e A. Pieretti, Storia mondiale dell’educazione, Roma 1986, 4 voll.; M.A. MANACORDA, Storia dell’educazione dall’antichità ad oggi, Torino 1983; M.A. MANACORDA, Storia illustrata dell’educazione. Dall’antico Egitto ai giorni nostri, Firenze 1992; E. BECCHI, I bambini nella storia, Roma-Bari 1994; F. CAMBI, Storia della pedagogia, Roma-Bari 1995; E. BECCHI - D. JULIA (a cura di), Storia dell’infanzia, Roma-Bari 1996, 2 voll. ➨ ATENE; BARNABITI; CITTÀ EDUCANTE; CRISTIANESIMO; CRITICA PEDAGOGICA; DIDATTICA; ETÀ DELLA VITA; EVENTO EDUCATIVO; FORMAZIONE; GESUITI; GINNASIO; PEDAGOGIA; SCOLOPI; SPARTA; TEORIE PEDAGOGICHE.

EDUCAZIONE, ERMENEUTICA DELLA (hermeEducazione neutics of education; Hermeneutik der Erziehung; herméneutique de l’éducation; ermenéutica de la educación). – Scienza dell’educazione, che nasce dal reciproco innesto della pedagogia nell’ermeneutica e dell’ermeneutica nella pedagogia. Quest’area disciplinare si è sviluppata soprattutto negli anni novanta del Novecento, quando la pedagogia ha rinvenuto nelle scienze dell’interpretazione (prime tra tutte, la semiotica e l’ermeneutica) proficui interlocutori al fine di elaborare ricerche originali circa i testi educativi. Quanto conchiude ogni evento, fatto, atto, che sia connotabile come «educativo» o «formativo», è divenuto possibile oggetto di studio da parte dell’ermeneutica dell’educazione. Questa utilizza la teoria e la pratica dell’interpretazione per conseguire processi di costruzione, disvelamento, chiarificazione, nonché problematizzazione dei significati pedagogici relativi ai testi e agli eventi educativi di cui persegue la conoscenza. Lontana dall’osservazione empirica, dall’analisi sperimentale e dalla spiegazione scientifica, l’ermeneutica dell’educazione non si propone di formulare leggi generali che denotino la ricorrenza o la costanza fenomenica delle esperienze educative, bensì è interessata alla 3238

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singolarità di ogni evento, vissuto, pensato e assunto come insieme di atti verbali, paraverbali e non verbali a matrice educativa. La specificità di ciascun testo è data tanto dalla sua configurazione originaria e storica quanto dalle «dimensioni simboliche, esistenziali e spirituali che si affrancano dai sensi più letterali e profani» (M. Gennari, Interpretare l’educazione. Pedagogia, semiotica, ermeneutica, Brescia 1992, p. 189) e ne fanno emergere la peculiarità irripetibile. La cultura educativa e la tradizione educativa si inseriscono nel contesto interpretativo, poiché per l’ermeneutica dell’educazione la storia si delinea quale elemento fondamentale, se non decisivo, rispetto al costituirsi e allo svilupparsi dei rapporti educativi e dei processi formativi. L’apertura al contenuto complessivo del testo educativo comporta la capacità di porsi in ascolto davanti ad esso, ai soggetti e alle implicazioni storico-ontologiche di cui sono latori. Il presupposto dell’interpretazione ermeneutica in pedagogia è quindi la comprensione poiché, se l’«interpretazione non consiste nell’assunzione del compreso, ma nella elaborazione delle possibilità progettate nella comprensione» (M. Heidegger, Sein und Zeit, Halle 1927, tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Milano 1953, p. 189), la costruzione dei significati pedagogici racchiusi nel testo educativo rinnoverà costantemente il processo conoscitivo proiettato sul testo medesimo. Si costituisce così un continuo gioco di rinvii che problematizzano l’interpretazione e vivificano quella circolarità ermeneutica capace di connettere il soggetto con l’oggetto, il testo con la storia, la parte con il tutto, l’autore con il lettore, la lingua con il linguaggio. Conoscere un evento educativo vuol dire tentare di svelarne la verità, costruendolo o decostruendolo. L’interpretazione ermeneuticopedagogica costruisce i significati di un testo, ma può anche ricondurre un testo alle sue strutture originarie ed elementari, sia per eliminare strati di senso ovvi e calcificati sia per rinvenire significati inediti. Costruzione e decostruzione dei significati, con la loro ricerca della verità, non possono mai essere considerate concluse, date l’incertezza e l’ambivalenza, se non l’ambiguità, appartenenti ai rapporti educativi e ai processi formativi. Per questo, prudenza e ponderatezza, criticità e invenzione rappresentano qualità proprie dell’interprete che opera in ambito pedagogico. Consapevole

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dell’impossibilità di una neutralità o di una obiettività interpretativa, egli è chiamato a non trascurare l’inevitabile presenza della sua soggettività in ogni azione interpretativa. Spontaneamente si verificano fraintendimenti rispetto ai significati del testo, costituendo essi le condizioni iniziali dei processi ermeneuticopedagogici. Nei loro confronti l’interprete è chiamato a porre in atto ulteriori sforzi che gli permettano di conseguire significati chiarificatori. Inoltre, personali abitudini mentali, così come pregiudizi o precognizioni imposte dal senso comune, possono condizionare in maniera decisiva l’interpretazione, a meno che l’interprete non li riconosca e non ne assuma adeguata consapevolezza. Una tale «coscienza ermeneuticamente educata» (H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode: Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Tübingen 1960, tr. it. a cura di G. Vattimo, Verità e metodo. Lineamenti di un’ermeneutica filosofica, Milano 1994, p. 316) non esclude che ogni soggetto interpreti il medesimo evento educativo operando mediante differenti modalità e conseguendo esiti diversi. I significati pedagogici possono però convergere o sovrapporsi, pur lasciando intatta la possibilità che ciascun interprete possiede: conoscere la propria storia e l’uomo che egli è, per il tramite della partecipazione tanto prassico-educativa quanto teorico-pedagogica al testo di cui tenta di costruire i significati mediante l’approccio dell’ermeneutica dell’educazione. A. Kaiser BIBL.: L. AGNELLO, Ermeneutica e pedagogia, in «Pedagogia e vita», 2 (1982-83), pp. 133-138; F. CAMBI, Il congegno del discorso pedagogico. Metateoria ermeneutica e modernità, Bologna 1986; P. MALAVASI, Tra ermeneutica e pedagogia, Firenze 1992; G. SCHUP-HIRSCH, Hermeneutische Pädagogik, Frankfurt am Main 1994; F. CAMBI - E. FRAUENFELDER (a cura di), La formazione. Studi di pedagogia critica, Milano 1994; U. BOELHAUVE, Hermeneutische Pädagogik: Die wissenschaftstheoretische Grundlegung der pädagogischen Theorie Otto Friedrich Bollnows im Kontext seiner Philosophie, Aachen 1995; M. MUZI - A. PIROMALLO GAMBARDELLA (a cura di), Prospettive ermeneutiche in pedagogia, Milano 1995; C. XODO CEGOLON, La pedagogia come ermeneutica dell’evento educativo, in G. VICO (a cura di), Teorie pedagogiche e dimensioni professionali, Brescia 1997, pp. 103-149; G. MASSARO, L’educazione all’interpretare e al comprendere nella prospettiva ermeneutica, in G. MASSARO (a cura di), Orientamenti pedagogici del XX secolo, Bari 1998, pp. 181-207; A. MARIANI, La decostruzione e il discorso pedagogico. Saggio su

Derrida, Pisa 2000; J. HOPFNER, Schleiermacher in der Pädagogik, Würzburg 2001. ➨ DECOSTRUZIONE; EDUCAZIONE; ERMENEUTICA; EVENTO EDUCATIVO; FORMAZIONE; EDUCAZIONE, SCIENZE DELLA; EDUCAZIONE, SEMIOTICA DELLA.

EDUCAZIONE, Educazione

FILOSOFIA DELLA (Philosophy of Education; Philosophie der Erziehung; philosophie de l’éducation; filosofía de la educación). – A lungo, in Occidente, la filosofia è stata la più rigorosa forma di conoscenza universalmente legittimata. È nel cuore della modernità che la filosofia dà origine alla sua filiazione teoricosperimentale, che andrà sotto il nome di teorizzazione scientifica. Dalla rivoluzione scientifica del XVII secolo in poi, teorizzazione filosofica e scienze della natura (scienze fisiche, scienze esatte, scienze sperimentali) tendono a diversificare e a divaricare i loro interessi e il loro ambito di riferimento. È difficile dire in breve cos’è la filosofia. A volere richiamare rapidissimamente la posizione del celebre filosofo Benedetto Croce, quando non si consideri il termine in senso strettamente tecnico, ogni uomo a suo modo è filosofo, in quanto, diceva il filosofo napoletano, titolare di un personale pensiero e di una sua visione delle cose. Ma qui interessa il senso tecnico del termine filosofia così come è stato pensato ed elaborato dalla lunga tradizione occidentale. E in questo secondo significato la filosofia si può definire come l’atteggiamento di meraviglia aperta alla conoscenza dell’essere, così come si deduce dalla Metafisica di Aristotele. Essa è conoscenza e, insieme, indicazione di salvezza, tentativo di conoscere e di evocare l’essere in senso universale, al di là della superficie e dell’apparenza. In quanto tale essa è naturaliter metafisica, ontoteologica, religiosa, nel senso ulteriore per il quale in uno sguardo totale ritiene possibile comprendere il tutto. Dal secolo XVII in poi, dal suo grande tronco diparte il ramo della conoscenza scientifica, fisica, sperimentale, tecnologica e tecnica. In Occidente la razionalità scientifica, cui siamo abituati e di cui oggi vediamo il trionfo, è figlia della razionalità filosofica. Essa è razionalità filosofica separata dalla sua forma finalistica, etica, e, con l’avanzare della modernità, specializzata in conoscenza, nel weberiano atteggiamento afinalistico e disincantato. Hanno così inizio due processi nella grande storia del pensiero occidentale: quello di divaricazione del pensiero filosofico inteso come

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Educazione razionalità inerente anche all’essere, al valore e al senso; e quello del dipartirsi dal grande albero della filosofia occidentale del ramo della conoscenza rivolta programmaticamente a una sorta di comprensione del mondo e dell’uomo secondo criteri che non implicano coefficienti finalistici, valoriali e di senso. E, allora, in conseguenza di questo secondo processo, la filosofia diviene una rete di filosofie di, come, per stare dentro la metafora finora adottata, si dipartissero dal grande tronco una serie di rami, da quello appena ricordato della razionalità tecno-scientifica a quelli che configurano l’esplosione delle cosiddette scienze umane. Quest’ultimo sviluppo configura una sorta di ulteriore dislocazione dei discorsi ragionati (e ricorrentemente integrati da controlli empirici e/o sperimentali) sull’uomo, a cui si applicano le metodologie di osservazione, di produzione di ipotesi e congetture, di riscontri e tentativi di ottenere risultati verificati, precedentemente applicati alla natura fisica e biologica. Si tratta di una seconda rivoluzione scientifica (teorica, epistemologica) dopo quella del sec. XVII, collocabile all’incirca tra la seconda metà del XIX secolo e tutto il XX, che estende all’uomo e alla sua dimensione quanto Galilei, Newton, Cartesio, Bacone avevano pensato di estendere alla costruzione della fisica e della scienza moderne. Ne consegue che la filosofia finisce per oscillare tra il suo riservarsi alcuni campi e linguaggi tecnicamente specifici e il suo articolarsi (fino, talora, a frantumarsi) in una serie di filosofie di, tra le quali la filosofia dell’educazione (accanto alla filosofia della scienza, a quella della politica, della storia, dell’arte, della religione, della psicologia e via di seguito). Si comprende che le filosofie di sono, esse stesse, pur sempre tentativi di allungare «sguardi conoscitivi» che hanno comunque a che fare con l’essere, il valore, il senso e il fine; e, anche quando cercano di cogliere rigorosamente parti specifiche della realtà, la riguardano e ne riflettono la profondità dalla specifica angolazione della totalità. Nel caso della filosofia dell’educazione, la cosa è ancora più evidente. Essendo l’educazione un referente totale, nel suo essere impregnata di valori, di fini, e nel suo non poter prescindere da una direzione di senso, la filosofia che la riguarda non può limitarsi alla dimensione della conoscenza, ma deve necessariamente avere a che fare con l’idea che oscilla dal prendersi cura dell’umano alla vera e propria realtà/uto3240

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pia della salvezza. In tale accezione significativa la filosofia dell’educazione, come filosofia di, è la rispecificazione dell’intera filosofia (della sua idea dell’essere e della totalità), sia per la forma che per il contenuto, sul metro, sulla misura e sul profilo alto dell’educazione umana. D’altra parte, anche in senso tecnico, la filosofia è concepita, dalla Grecia classica in poi, fino ai giorni nostri, con molti registri linguistici, concettuali e metaforici, con sfumature di significato, più o meno secondo l’idea generale che si è tentato fin qui di tratteggiare. L’uomo e l’educazione, o se si vuole la connessione forte uomo-educazione, sono altrettanto difficili da ricondurre a univocità di significato, proprio come il più impegnativo tentativo di comprenderli con il pensiero, messo in atto dalla filosofia. Per la filosofia, presa in senso lato, c’è da ricordare la celebre definizione di Piaget (che pure filosofo professionale non può essere considerato). Piaget, nel suo Sagesse et illusions de la philosophie (Paris 1968, tr. it. di A. Munari, Saggezza e illusioni della filosofia, Torino 1970), scrive testualmente: «La filosofia è una presa di posizione ragionata sul tutto». Hegel da parte sua scrive la celebre definizione secondo la quale «la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero». Kant, nel pieno della modernità, cerca una definizione e una attribuzione decisiva di compiti alla filosofia in quanto tale. Egli restituisce alla filosofia una funzione teorico-critica, pur contestandone la possibilità che essa possa conoscere gli oggetti classici dell’ontometafisica (anima, mondo, Dio) e che possa essere capace di conoscenza dell’essenza delle cose (noumeno), lasciando alla scienza il compito di conoscere la superficie fenomenica delle cose (fenomeni). La filosofia in quanto tale riscrive i tracciati di conoscenza del tutto attraverso il suo dislocare il pensiero come totalità sull’idealismo (Hegel) coincidente con l’ordine delle cose dialetticamente concepito, fino a identificare essere, pensiero dialettico e storia, e fino a radicare in quest’ultima tutte le ragioni dell’antropocentrismo moderno, quale continuazione dell’antropocentrismo teocentrico. L’avvento della scienza-tecnologia del nostro tempo (con una sorta di tentativo di delineare un inedito e, per ora, velleitario umanesimo tecnocentrico) completa la traiettoria. Con il duplice risultato di dissolvere la potenza conoscitiva della filosofia metafisica in quanto tale e di

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spostarne la valenza su terreni ermeneutici, etici, estetici, pedagogici, educativi. La filosofia dell’educazione, quindi, nasce e si sviluppa storicamente e teoreticamente entro questo quadro concettuale, conoscitivo, umanistico. È difficile staccare l’antropocentrismo (che è una continuazione della mentalità metafisico-teologico-religiosa, applicata alla centralità secolarizzata dell’uomo) dalla filosofia dell’educazione in ogni sua forma (compresa quella nichilistica, come vedremo). L’intera storia della filosofia dell’educazione occidentale si sviluppa attraverso la continua dislocazione di concetti generali e sistematici, elaborati dai grandi pensatori dell’Occidente, sul terreno dell’educazione umana, considerata quest’ultima sotto il profilo metafisico, etico, ermeneutico, politico, estetico e via di seguito. In molti casi (da Socrate, Platone e Aristotele, attraverso Agostino e Tommaso, da Comenio, Locke, Rousseau, Herbart fino a Maritain e Rorty, e ai giorni nostri) si tratta di una rispecificazione concettuale, teoretica e applicativa di un intero sistema di pensiero sull’uomo considerato come soggetto del processo educativo e quale soggetto cui dar forma secondo la sua natura, il suo essere, le sue dinamiche endogene (biologiche, psicologiche, antropologiche, sociali, culturali) in relazione con lo sviluppo della grande storia umana e del processo globale di umanizzazione dell’uomo. Occorre tentare una definizione del soggettooggetto della filosofia dell’educazione che è l’educazione medesima vista quale connessione e concernenza con la persona. Brezinka scrive che l’educazione è azione volta a migliorare la compagine delle disposizioni psichiche dei soggetti umani prevalentemente in fase di crescita, in un processo che conduce dalla costituzione originaria del soggetto-persona alla formazione della personalità. Dewey scrive che educare è dar significato alle cose. Si tratta, anche nel caso del pensatore meno legato agli schemi concettuali del pensare metafisico, di istituire una differenza di dignità ontologica tra l’esperienza in generale e l’esperienza educativa. Esistono definizioni dell’educazione di dominanza psicologica (Piaget, Bruner, Gardner), di dominanza sociologica (Durkheim), di dominanza antropologica. Tutte queste definizioni sono anche, contestualmente e imprescindibilmente, di dominanza filosofica. Quest’ultima è quella che considera nella cultura occidentale soprattutto l’intersezione/de-

Educazione marcazione essere, valore, senso, quale costitutiva anche delle linee e delle reti concettuali espresse dalle cosiddette scienze umane. Lungo tale confine, nel corso della filosofia occidentale da Platone a Gentile, a Dewey, a Maritain e a Rorty, o addirittura al nichilismo («fiume carsico» che attraversa, da Gorgia a Nietzsche, tutta la coscienza più o meno sommersa della filosofia), si articola il discorso sull’educazione quale sinonimo del senso di verità e di bene intorno al processo di umanizzazione degli uomini in quanto persone e in quanto genere. La filosofia garantisce legittimazione e fornisce cornici di senso a termini come sviluppo, istruzione, formazione. Hessen arriva a scrivere che la pedagogia «è filosofia applicata all’educazione umana». Gentile ritiene radicalmente filosofica la razionalità pedagogica e ne fa una chiave generale di interpretazione dello sviluppo dello spirito come atto, inteso quale totalità evolutiva del pensiero che tutto crea e nulla presuppone e quale perenne autoproduzione di sé dotata di senso. Dewey ritiene che l’educazione sia una delle grandi metafore di lettura-progettazione della totalità dell’esperienza concepita quale esperienza educativa, in cui la specificità filosofica consiste nella chiarificazione-coscientizzazione del processo cosmico della realtà (processo dei processi). La filosofia dell’educazione è definita da Brezinka come segue: «Per filosofia dell’educazione o pedagogia filosofica si intende talvolta nient’altro che un sistema di asserzioni scientifico-empiriche sull’educazione, che solo in modo non essenziale viene arricchito con enunciati normativi [...]. Una combinazione di scienza empirica dell’educazione e di filosofia normativa o analitico-critica della conoscenza [...], sistemi di asserzione che trattano dell’influsso esercitato dalle teorie filosofiche sulle teorie generali dell’educazione». In sintesi, sempre a parere di Brezinka, «per filosofia dell’educazione, o espressioni analoghe, il più delle volte si intende una filosofia normativa dell’educazione». Ovviamente tali definizioni moderne e contemporanee, in parte generalmente condivisibili, giungono al punto di arrivo di un lungo cammino in cui la filosofia, dopo essere stata lungamente egemone (almeno in Occidente), convive con la forma della razionalità scientifica, la cui dominanza, per quel che concerne gli enunciati di conoscenza, è largamente privilegiata da Brezinka. Resta il 3241

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Educazione fatto che, se si prescinde da qualsiasi direzione di senso, questioni concernenti referenti quali educazione, istruzione, sviluppo significativo, umanizzazione, socializzazione, formazione, e simili, finiscono per essere prive di qualsiasi significato. Si comprende come qui è possibile istituire la distinzione tra filosofia dell’educazione, ideologia, scienza, pedagogia. E si comprende ancor meglio come ogni concettualizzazione della filosofia dell’educazione debba in qualche modo tener conto delle intersezioni, delle linee di demarcazione e degli ambiti di significato che delimitano ciascuno di questi sistemi concettuali. Essi in molte trattazioni sono come campi confinanti: non si può ingrandire l’uno senza rimpicciolire l’altro. Ne discende che la filosofia dell’educazione ha sempre il terreno conteso dalla dialettica prossimità/distanza tra la sua identificazione tout-court con la pedagogia generale (com’è nella versione tradizionale) e la sua separazione/specificazione in una disciplina specialistica che, secondo alcuni, si staccherebbe in maniera netta e decisa dalla pedagogia generale. Al di là di tali dispute, la filosofia dell’educazione si riconosce comunque nell’atteggiamento mentale e nello stile di pensiero con cui affronta i problemi che appartengono anche al campo di riferimento complessivo della pedagogia generale e di altre scienze umane. A voler considerare la lunga tradizione dell’Occidente, ci vengono incontro i ritratti di grandi pedagogisti che, per molti versi, e a guardarli come in un cannocchiale rovesciato dal punto di osservazione del nostro tempo, ci appaiono anche pedagogisti, ma sono soprattutto grandi pensatori ritenuti filosofi dalla comune, condivisa percezione. Basti riferirsi emblematicamente a Rousseau, Comenio, Locke, Herbart, Rosmini, Gentile, Dewey, Maritain. Ci sono poi filosofi professionali che si sono interessati di educazione in forma, appunto, filosofica: si può esemplificare citando pensatori come Kant, Rorty, Vattimo, Morin, Luhmann tanto per procedere con esempi tratti dalla storia ufficiale della filosofia (o della sociologia filosofica). Razionalità filosofica e razionalità scientifica costituiscono le modalità fondamentali di affrontamento di problemi educativi e umanistici del mondo moderno. La razionalità filosofica, come si è detto, impregna tanto il compito conoscitivo quanto quello di cura e salvezza, inserito nella forma stessa dell’umanizzazione dell’uomo quale orizzonte di senso di ogni in3242

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dividualizzazione/personalizzazione dei processi educativi. Mentre metafisica, etica, ermeneutica costituiscono le forme teoriche attraverso le quali la filosofia dell’educazione intercetta la pratica dell’educare, la determinazione attraverso la quale si costituisce in razionalità scientifica appartiene ad approcci empiriologici e sperimentali che sono più specificamente perseguibili nell’orizzonte delle cosiddette scienze umane. A voler usare l’ulteriore metafora fornita da Gadamer attraverso il termine orizzonte si può ben dire, in ordine alla concettualità espressa dalla filosofia dell’educazione, che essa non può, pena la perdita dell’oggetto-educazione, limitarsi all’orizzonte culturale, ma deve necessariamente accedere a un orizzonte di senso. L’utilizzazione della metafora fornita da Gadamer costituisce per la filosofia dell’educazione del nostro tempo una carta in più per determinare le forme intellettuali, etiche, ermeneutiche dell’analisi teorica dei processi educativi. È difficile eludere una certa trascendentalità dell’educazione nella sua relazione alla persona, quella che con Giuseppe Catalfamo possiamo ritenere una sorta di kantiana preferibilità trascendentale. Su di essa si costituisce l’educazione come concetto-valore, la cui intrinseca metaempiricità è posta in una costante tensione tra essere e dover essere. Trascendentalità e orizzonte di senso costituiscono due punti forti della filosofia dell’educazione, che privilegia una forma di razionalità la cui intersezione con la pratica empirica e sperimentale non è necessariamente da escludere. Lungo questa linea il confine/demarcazione è costituito dalla dialettica senso/non senso, valore/disvalore, essere/non essere, apparire/essere. L’educazione viene sempre connotata in direzione dell’essere, del valore, del senso e della loro modalità di orizzonte e di dimensione trascendentale (per semplificare in un filo rosso che va da Kant a Gadamer). Se si sceglie deliberatamente questa linea, essa aiuta a comprendere il raggio d’azione teorico-pratica della filosofia dell’educazione oggi. Ciò non significa che non si possano qui accennare altre angolazioni di lettura. Ad esempio, ancora e per altri aspetti, la filosofia dell’educazione si caratterizza per una sorta di duplice approccio. Dalla parte del suo essere filosofia anche in senso tecnico, per la forma universalizzante e totalizzante del pensiero dotato di senso (visto come pensiero critico-rifles-

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sivo o addirittura costruttivo-creatore); dalla parte dell’oggetto-soggetto del suo pensare, ossia dalla parte della connessione soggetto/persona/umanizzazione dell’uomo, in un costante richiamo a un orizzonte di senso in grado di dar significato e figura al pensiero puramente astratto e a una sorta di pensiero senza contenuto. Dire «orizzonte di senso» dell’educazione significa mettere in forma teorica rigorosa l’approccio pedagogico, e comunque dar significato in uno specifico senso all’esperienza umana e a un processo di trasformazione che viene connotato come processo di incremento di senso dell’umanità e, come tale, educativo. Paradigmi generali teorico-filosofici dell’educazione sono la natura, la persona, la società, la politica, la comunicazione, la libertà, la ragione, la storia, la tradizione, l’innovazione, il progresso, la vita interiore, la testa ben fatta, la perfettibilità/perfezione, la formazione (Bildung), l’apprendere ad apprendere. I primi termini generalissimi quali natura, persona, società, ragione, tanto per isolarne emblematicamente alcuni, sono stati storicamente in Occidente quelli che hanno connotato più marcatamente la filosofia in generale e, ricorrentemente, la filosofia dell’educazione. Più recentemente, alcuni altri sono diventati paradigmi di riferimento di una interpretazione in termini teorici e riflessivi della lettura filosofica della pedagogia e dei discorsi ad essa riconducibili sull’educazione, o nell’intersezione con dominanze di tipo sociologico, o di tipo psicologico e antropologico. Più ricorrentemente si tratta di termini come socializzazione, sviluppo, formazione, apprendere ad apprendere. Ad esempio Luhmann (1988) fissa le formule d’intersezione tra sistema teorico e sistema educativo nei paradigmi della perfezione/perfettibilità, della formazione (Bildung) e dell’apprendere ad apprendere. Morin si serve del concetto di testa ben fatta. La tradizione filosofico-religiosa occidentale (per tanti versi anche metafisica) si è soffermata spesso sul concetto di vita interiore e interiorizzazione. La concezione teorica a matrice sociologica si struttura spesso sull’idea generale di integrazione nel sistema di funzionamento sociale e nei sistemi di riferimento simbolico. Ciascuno di questi paradigmi può essere tale da costituire e costruire l’oggetto di una filosofia dell’educazione, o, almeno, un’angolazione rispecificante di un discorso filosofico più generale. Questa seconda via consente di rispe-

Educazione cificare il significato generale di educazione, pur nel riferimento di senso comunque avente a che fare con l’idea di umanizzazione dell’uomo, in una più concreta modalità di approccio in grado di ipotizzare e verificare dinamiche cui la cornice teorica conferisce rigore e legittimità. Nella storia della filosofia occidentale le metafore di riferimento (o, se si preferisce, paradigmi) sono state prevalentemente lo spirito, la sociocultura, la natura. Tanto per semplificare, tutta la linea neoidealistica tedesca si è fortemente attestata sul Geist; Rousseau si è attestato sulla natura; la linea marxista e neomarxista sul nesso società/rivoluzione/educazione. In tempi recentissimi si registra finalmente una convergenza (dopo tante avventure intellettuali) sulla persona. La filosofia dell’educazione contemporanea trova nella relazione persona-educazione (che ha il suo copyright nella grande tradizione dell’umanesimo cristiano) la forma fondamentale di narrazione pedagogica che, dall’Occidente, si tenta di veicolare, in una tendenziale estensione universalizzante, all’intero pianeta. Se ne deduce che una delle grandi idee della filosofia dell’educazione, appunto, è la persona. L’altra faccia della medaglia della narrazione occidentale in forma filosofica, che ormai si mostra del tutto dispiegata nell’orizzonte storico e culturale nella cosiddetta postmodernità, è quella della tecnica (Heidegger). È la via della filosofia dell’educazione che, come vedremo, nel mondo contemporaneo costituisce il supporto del primato della cognizione/tecnologia/tecnica/istruzione. Si tratta di un tema che andrà chiarito fino in fondo nelle note che seguono. Qui dobbiamo dire che il processo educativo, tematizzato dalla filosofia dell’educazione, è comunque quello che centra sulla persona e sul suo sviluppo significativo, multilaterale e globale, la triplice azione di natura (potenzialità dell’individuo o anche area potenziale di sviluppo), cultura/società e spirito (forme simboliche). Lungo tale direzione, la filosofia dell’educazione è in sommo grado pedagogia dell’uomo nel senso dell’organizzazione, dell’unificazione e dell’incessante valorizzazione di tutte le risorse naturali, culturali, spirituali dell’umanità in generale e di ciascuna persona in particolare. I suoi temi fondamentali costituiscono il terreno della forma teorica di ogni pedagogia. Pertanto autorità/libertà, educazione/istruzione, autoritarismo/permissivismo finiscono per co3243

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Educazione stituire la pianta delle relazioni interne di qualsiasi discorso pedagogico che operi ricognizioni e progetti sul processo educativo. Nella presente fase storica emergono almeno due questioni fondamentali di filosofia dell’educazione. La prima concerne il raccordo sempre più difficile tra cultura occidentale e processi di globalizzazione e dinamiche interculturali. La dimensione planetaria della comunicazione e i connessi processi di multiculturalismo da un lato operano una tendenziale riduzione della concettualità filosofica dell’Occidente alla modalità di vita, di civiltà, di cultura e di coscienza della parte più avanzata del mondo, dall’altro sono costretti a misurarsi con un orizzonte a misura di mondo, che riconduce spesso la cultura dell’Occidente a una oscillazione tra l’essere dominante perché universale e l’essere universale perché dominante. La filosofia dell’educazione contemporanea, o almeno una certa sua linea, appronta per tale questione fondamentale una risposta in termini di intercultura. Si tratta di una questione aperta la cui rete di complessità e problematicità non è di facile affrontamento. Nella cultura contemporanea, quindi, anche la filosofia dell’educazione è attraversata dalla dinamica dialettica globale/locale, da quella difficoltà antropoetica intrinseca alla questione del multiculturalismo (Habermas, Taylor) rispetto alla quale la proposta del glocalismo etico (Tomlinson) e l’interculturalismo sono strutturalmente concepibili come pedagogici. Connesso con tale modalità è il discorso della filosofia dell’educazione che individua la complessità come metadiscorso e come contesto rispetto al testo educativo (persona/cultura educativa). Vi è una tendenza di filosofia dell’educazione che nel pensiero contemporaneo riconduce educare, formare e istruire, e le connesse antinomie della ragione pedagogica alla complessità del mondo della tarda modernità. Scrive efficacemente F. Cambi che «la complessità si è delineata come il volano del presente, e quindi come la sua struttura e, forse, il suo stesso senso». E ciò accade perché, come sempre afferma Cambi, «il mondo postmoderno è un mondo complesso; costituito di relazioni intrecciate, da un pluralismo di livelli, diremmo, ontologici (istituzionali, mentali, intenzionali) che interagiscono fra di loro denotando una realtà che non si può leggere più in modo semplice, univoco, omogeneo. È un mondo, appunto, reticolare, in cui ogni evento 3244

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può e deve essere sottoposto a letture plurali, intrecciate e dismorfiche a un tempo». La complessità come sostitutiva del tutto, del valore, del senso. È un modo di vedere che può essere parzialmente accolto come complesso di criteri di ricognizione conoscitiva della condizione della cultura umana in un tempo difficile. Esso, però, non può essere considerato esaustivo, in termini di filosofia dell’educazione. Esprime bene la temperie (Stimmung) di un tempo e si ferma lì, o ne indica la possibilità di affrontamento giustamente plurale e pluriverso. Ma è difficile dire che indichi una via costruttiva e un orizzonte di senso al di là di una teorizzazione che finisce per essere autoreferenzialmente riflessiva rispetto alla stessa complessità; una sorta di raddoppiamento della complessità in forma teorica. L’altra via che percorre la filosofia dell’educazione è nella relazione tra razionalizzazione delle trasformazioni empiricamente ed evolutivamente verificabili (biologicamente, psicologicamente, sociologicamente) e le questioni etiche e comunque connesse alla dimensione etico/metafisica e ontoetica dell’uomo in una fase storica in cui è possibile una costruibilità/decostruibilità assoluta della base biologica stessa del nostro essere uomini (biotecnologia, genetica, ingegneria genetica e simili). Ad essa si riferisce il confronto della filosofia dell’educazione contemporanea con la bioetica. In termini di assetti legati alla comunicazione e alla dimensione linguistica l’approccio della filosofia dell’educazione ritrova il confronto tra la posizione etico-metafisica classica e le posizioni che tendono a un indebolimento e a una flessibilità dell’essenzialismo normativo (R. Rorty). Sulla scorta della concettualizzazione di Gadamer per la quale «l’esperienza umana è essenzialmente esperienza linguistica», Rorty ha ritenuto di poter dislocare una certa interpretazione della filosofia in generale nell’ambito della filosofia dell’educazione cui ha dedicato alcuni scritti. La lettura di Rorty diviene interessante per la radicalizzazione che mostra una linea di continuità rispetto alla impostazione che estremizza le posizioni di Gadamer sulla riconduzione al linguaggio della consistenza dell’essere, lungo la lettura ermeneutica che Gadamer stesso compie del pensiero di Heidegger. Si può dire che se il linguaggio, come dice Heidegger, «è la dimora dell’essere», appare del tutto evidente che es-

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so non si identifica con l’essere stesso. La radicalizzazione di questa posizione è quindi proprio la riduzione dell’essere a linguaggio. L’esperienza linguistica dell’uomo diventa a questo punto matrice dell’etica e dell’educazione, e tale posizione alla fin fine diviene anche la chiave di lettura dei percorsi etici e dei processi educativi. Rorty porta alle estreme conseguenze, nei suoi scritti, tale posizione specie allorché si riferisce al rapporto tra esperienza linguistica ed esperienza etica e tra queste due modalità dell’esperienza umana e l’esperienza educativa. Se solo il linguaggio è il parametro di confronto e di supporto, non soltanto della correttezza linguistico-comunicativa di un discorso, ma della stessa correttezza etica di una qualsiasi azione umana, e se entrambe diventano paradigma di riferimento dell’esperienza educativa, sarà difficile trovare criteri di demarcazione, a un tempo etici ed educativi, tra vero e falso, tra bene e male e tra bello e brutto. Ancora, in parole più aperte a una più agevole comprensione di aspetti pedagogici del discorso della visione di tipo post-empirico e linguistico della filosofia dell’educazione, è come dire che qui alla totalità, e al senso, non solo si sostituisce la complessità, ma addirittura la lingua (forma organizzata storicamente, socialmente e culturalmente del linguaggio). Con la conseguenza in termini di filosofia dell’educazione (e il connesso rischio) di ridurre l’educazione a comunicazione. Quest’ultima ne è un aspetto ma non si identifica con l’educazione medesima. Così come la persona è anche lingua ed esperienza linguistica, ma non si identifica nel suo processo di realizzazione con il suo essere produttrice di procedure linguistiche e referente comunicativo di una molteplicità di linguaggi. Ovviamente, essa non è soltanto riconducibile a tale dimensione. In sintesi, le modalità di legittimazione teorica dei processi educativi, riconducibili alla filosofia dell’educazione, oscillano dall’orizzonte di senso della persona a quello della complessità, fino a quello della centralità della esperienza linguistica come matrice di ogni esperienza umana. In ulteriore sintesi, è possibile dire che nella cultura pedagogica contemporanea, intesa in senso lato e «reticolare», restano in campo tre approssimativi identikit delle forme in cui si presentano le principali linee di filosofia dell’educazione. La prima è comunque da ricondurre alla linea classica umanista-per-

Educazione sonalista, di lunga e consolidata ispirazione metafisica e attraversata/legittimata dall’orizzonte di senso di matrice e tradizione/memoria cristiana (in Occidente attraverso la mediazione con l’eredità della cultura classica e della linea profetica giudaico-cristiana). Anche qui possiamo tracciare una linea che va da Aristotele a Maritain (ma solo per fornire un’idea di massima al lettore). La persona diviene la forma attraverso cui si realizza il processo di umanizzazione e l’educazione è l’attuazione progressiva di tutte le potenzialità della persona per la realizzazione della personalità. Essere, coscienza, interiorità, libertà, responsabilità, retta intenzione costituiscono le connotazioni di riferimento dell’educazione della persona. La rilevante carica umanistica di questa prospettiva, che per gli aspetti generali tende ad essere anche universalizzante e trasversalmente estensibile a tutte le modalità dell’umanesimo moderno, costituisce comunque l’orizzonte fondamentale della filosofia dell’educazione anche del nostro tempo. Ad essa è assimilabile qualsiasi linea di filosofia dell’educazione che veda la persona come fine e che ritenga la persona una costellazione di valori, oltre che la compagine delle disposizioni biopsichiche che configurano l’individualità. L’educazione è l’itinerario da un orizzonte socioculturale (o, se si vuole, dalla cosiddetta «tirannide della culla») all’orizzonte di senso di una personalità compiuta e multilaterale in grado di restituire al massimo grado il potenziamento di tutte le disposizioni della costituzione originaria individuale. In questo senso la filosofia dell’educazione fornisce una tenuta teorica e una cornice di senso all’attraversamento dalla vita alla sua piena consapevolezza nel darsi della persona vista come intelligenza, intenzione, coscienza, interiorità, libertà, responsabilità. Una parziale variante interna di tale linea di filosofia dell’educazione è rappresentata dall’interpretazione illumista-neoillumista dell’umanesimo, che parte dalla pienezza della modernità e dall’insieme dei processi di secolarizzazione, e vede nella centralità della ragione la fonte di legittimazione dell’umanizzazione dell’emancipazione dell’uomo attraverso la perfettibilità educativa. Il soggettopersona è visto qui come prevalentemente razionale e la proposta di filosofia dell’educazione ha il suo punto forte nell’affidare alla ragione umana i destini di emancipazione dell’umanità e alla persona la sua realizzazione 3245

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Educazione come testa ben fatta. L’altra faccia della medaglia di questa visione delle cose è nel radicalizzarsi della proposta illuminista in proposta razionalista-tecnocratica, per la quale la razionalità nel suo complesso si riduce a razionalità strumentale, tecnologica e tecnica. La specificità della proposta di tale filosofia dell’educazione, in senso pedagogico, sta nel primato dell’istruzione e, tutt’al più, nel primato dell’istruzione educativa. Ad essa, sul piano etico, corrisponde una costante ristrutturazione dell’etica nella proceduralità giuridica (RawlsVeca). La metafora-concetto di istruzione educativa, la quale ha una sua forte rilevanza nei sistemi scolastici contemporanei, suppone che l’istruzione scientificamente corretta, di per sé, possa produrre l’educazione come processo interessante la persona umana nella sua globalità. Essa può facilmente degenerare nell’istruzionismo, nello scientismo e nel tecnicismo. In essa la stessa configurazione regolativa delle condotte etiche o, almeno, dei comportamenti socialmente rilevanti, viene vista in dissolvenza dall’etica al diritto (Kelsen). La terza linea della filosofia dell’educazione contemporanea può essere tratteggiata nell’identikit del nichilismo nella sua forma di neonichilismo, la quale esprime una sorta di Stimmung di quella che da più parti viene indicata come tramonto della modernità (Vattimo). Essa non è istituzionalmente definibile in senso strettamente pedagogico, poiché non vi è una concezione dichiaratamente nichilista nell’ambito delle teorie istituzionali dell’educazione. Sta di fatto che sia sotto forma di scientismo (nessun senso delle cose oltre la scienza e la tecnica), sia sotto forma di nichilismo in senso forte o in senso debole (non vi sono valori né vi è senso nel fatto puro e semplice della vita e dell’esserci, da Nietzsche a Heidegger) o, anche, sotto l’aspetto di un inedito nichilismo soft, fatto di tollerante estetismo e di costruzione di una sorta di convivenza, dovuta proprio all’assenza di valori forti, l’educazione possibile diventa quella libertaria, vitalistica, estetizzante di una sorta di nichilismo positivo, per il quale non vi è alcun limite alla libertà dell’individuo, fatta eccezione per la prescrizione del neminem laedere. È così che il pendolo della filosofia dell’educazione del nostro tempo finisce per oscillare da una proposta di riappropriazione umanisticopersonalista della cultura della modernità avanzata (o estenuata), espressa dalla riproposizione arricchita della classica memoria cen3246

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trata sulla relazione persona-umanesimo-educazione, all’affermazione per la quale l’unica proposta praticabile nel nostro tempo sia quella di tradurre l’idea universale di educazione in una pluralità irriducibile di stili di vita. Come dire, un pendolo che oscilla dal personalismo al nichilismo, attraverso itinerari tecnologici e attraverso l’illusione che ci si possa fermare alla pura razionalità strumentale e tecnica. G. Acone BIBL.: G. GENTILE, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, Bari 1913-14, 2 voll.; J. DEWEY, The Sources of a Science of Education, New York 1929, tr. it. di M. Tioli Gabrieli, Fonti per una scienza dell’educazione, Firenze 1958; A. AGAZZI, Saggio sulla natura del fatto educativo in ordine alla teoria della persona, Brescia 1950; D.J. O’CONNOR, An Introduction to the Philosophy of Education, London 1957; J. MARITAIN, Pour une philosophie de l’éducation, Paris 1959, tr. it. di A. Agazzi - P. Viott - G. Galeazzi, Per una filosofia dell’educazione, Brescia 2001; H.G. GADAMER, Wahreit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Tübingen 1960, tr. it. a cura di G. Vattimo, Verità e metodo, Milano 1983; G.M. BERTIN, Educazione alla ragione, Roma 1962; G.F. KNELLER, Logic and Language of Education, New York 1966, tr. it. di N. Ponzanelli, Logica e linguaggio della pedagogia, Brescia 1975; I. SCHEFFLER, Philosophy of Education, Boston 1966; J.F. SALTIS, An Introduction to the Analysis of Educational Concepts, London 1968; S. PETERS, The Logic of Education, London 1970; G. BACHELARD, Epistemologie, Paris 1971; R. LAPORTA, La via filosofica alla pedagogia, in «Bollettino della società filosofica italiana», 90-91 (1975), pp. 17-52; G.M. BERTIN (a cura di), La filosofia dell’educazione oggi, n. mon. «Scuola e città», 1-2 (1976); D. ANTISERI, Epistemologia e ricerca pedagogica, Roma 1976; W. BREZINKA, Metatheorie der Erziehung, Stuttgart 1978, tr. it. di L. Pusci, Metateoria dell’educazione, Roma 1980; N. LUHMANN K.L. SCHORR, Reflexionsprobleme im Erziehungssystem, Stuttgart 1979, tr. it. di E. Koetti Cerretti - P. Cipolletta, Il sistema educativo, Roma 1988; M. MANNO, Filosofia, filosofie dell’educazione, pedagogia, in «Nuove ipotesi», 3 (1980); R. RORTY, Hermeneutics, General Studies and Teaching; Education, Socialization, Individuation, Fairfax (Virginia) 1982, tr. it. a cura di F. Santoianni, Scritti sull’educazione, Firenze 1996; A. BANFI, Pedagogia e filosofia dell’educazione, Reggio Emilia 1986; G. ACONE, La filosofia dell’educazione oggi, in «Il quadrante scolastico», 41 (1989), pp. 12-27; E. AGAZZI (a cura di), Filosofia e filosofia di, Brescia 1992; P. BERTOLINI, L’esistere pedagogico, Firenze 1992; A. GRANESE, Il labirinto e la porta stretta, Firenze 1992; F. CAMBI, La filosofia dell’educazione: struttura, funzioni, modelli, in «Nuove ipotesi», 1

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(1993); P. RICOEUR, Sé come un altro, Milano 1994; M. LAENG (a cura di), Enciclopedia pedagogica, Brescia 1989-2003, 7 voll.; E. DUCCI, Postille di filosofie dell’educazione, in «Il quadrante scolastico», 64 (1995), pp. 94-103; R. LAPORTA, L’assoluto pedagogico, Firenze 1995; G. MINICHIELLO, Il mondo interpretato, Brescia 1995; G. ACONE, Antropologia dell’educazione, Brescia 1997; A. KAISER, Gnoseologia dell’educazione, Brescia 1998; P. MALAVASI, L’impegno ontologico della pedagogia, Brescia 1998; G. MARI, Razionalità metafisica e pensare pedagogico, Brescia 1998; CH. TAYLOR J. HABERMAS, Multiculturalismo, ed. it. di L. Ceppa G. Rigamonti, Milano 1998; J. TOMLINSON, Globalization and culture, Chicago 1999, tr. it. di G. Bettini, Sentirsi a casa nel mondo, Milano 2001; G. BERTAGNA, Avvio alla riflessione pedagogica, Brescia 2000; F. CAMBI, Manuale di filosofia dell’educazione, Roma-Bari 2000; M. GENNARI, Filosofia della formazione dell’uomo, Milano 2001; G. SOLA (a cura di), Epistemologia pedagogica, Milano 2002; A. GRANESE, Istituzioni di pedagogia, Padova 2003. ➨ BILDUNG; COMPLESSITÀ; EDUCAZIONE; FORMAZIONE; FILOSOFIA; PEDAGOGIA.

EDUCAZIONE, PSICOLOGIA DELLA. – Si fa riEducazione salire la nascita della psicologia dell’educazione a circa cento anni fa, quando la locuzione fu coniata da Edward L. Thorndike, Educational Psychology, vol. II: The Psychology of Learning (New York 1913), ma sin dagli inizi si è sviluppato un vivace dibattito su che cosa realmente fosse questa disciplina: alcuni sostenevano, infatti, che si trattasse di una conoscenza derivata dall’applicazione degli esiti della ricerca psicologica nel campo scolastico; altri ritenevano, invece, che la psicologia dell’educazione dovesse usare i metodi della ricerca psicologica per studiare direttamente le caratteristiche della classe e della vita della scuola. In altre parole, per alcuni si potevano affrontare i problemi psicologici che emergono a scuola applicando direttamente gli esiti della ricerca psicologica, anche se questa fosse stata condotta in laboratorio; per altri, invece, tali problemi si potevano studiare solo nel contesto in cui sorgono e non altrove. Così, ad esempio, il modo in cui i ratti imparano, indagato mediante opportuni accorgimenti in laboratorio, secondo la prima prospettiva poteva costituire un riferimento anche per l’apprendimento in classe. Ancora oggi non vi è accordo sulla definizione della psicologia dell’educazione come disciplina, poiché vi sono prospettive teoriche che continuano a considerarla un campo di appli-

Educazione cazione di principi e di esiti di ricerche condotte dalla psicologia tout court, mentre altre prospettive la ritengono un campo di studio autonomo dove, al contrario, hanno origine prospettive teoriche e strategie di ricerca che sono estensibili anche in altri settori. C’è accordo, invece, su quali siano le tematiche di specifica pertinenza della psicologia dell’educazione: esse sono lo sviluppo umano, l’acquisizione del linguaggio, le differenze individuali, la motivazione, la misura e la valutazione dell’efficacia degli interventi educativi. Tornando alle origini, Thorndike propose anche l’ambito di studio e la concezione della psicologia dell’educazione, influenzando così per molto tempo la storia di questa disciplina. Per quanto riguarda la seconda, propose una concezione della psicologia dell’educazione assolutamente dipendente e ancillare rispetto alla psicologia generale, da cui mutuava strategie e tecniche di ricerca, oltre che recepirne gli esiti sperimentali come ambiti di applicazione. La psicologia dell’educazione, in altre parole, doveva trasferire i risultati della ricerca psicologica ai problemi educativi e didattici, anche se tali risultati, ad esempio, costituivano esiti di esperimenti condotti con piccoli animali in laboratorio (ad es. ratti). Il tema focalizzato da quegli esperimenti era l’apprendimento, che rappresentava per Thorndike il principale oggetto di studio della disciplina; la scoperta di principi e leggi (ad esempio il principio dell’effetto, dell’esercizio, della contiguità) che regolano l’apprendimento è stata infatti considerata il suo specifico ambito di ricerca. Concezione «applicativa» della psicologia dell’educazione e apprendimento come tema proprio della disciplina hanno rappresentato, dunque, una specie di marchio di origine della psicologia dell’educazione che ha molto influenzato la sua storia successiva. Agli occhi degli studiosi contemporanei appaiono evidenti i limiti di questa impostazione, che vanno dalla pretesa continuità fra l’apprendimento animale e quello umano, al misconoscimento della specificità dei complessi fenomeni educativi nel contesto scolastico. Tuttavia, malgrado i limiti di tale prospettiva, sono stati condotti studi molto rilevanti, in particolare nell’ambito dell’addestramento militare, con l’analisi delle sequenze di attività che compongono una prestazione esperta (task analysis: analisi del compito) e con la messa a punto di sequenze didattiche per 3247

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Educazione l’istruzione programmata e la tecnologia dell’insegnamento. Da quella prospettiva, inoltre, ha preso l’avvio l’insieme di ricerche che si riconducono alle learning theories (teorie dell’apprendimento), le quali hanno rappresentato il filone dominante, anche se non esclusivo, della psicologia dell’educazione negli Stati Uniti, che peraltro sono stati il paese di origine e di diffusione della disciplina sino alla fine degli anni cinquanta. La conferenza di Woods Hole del 1959 rappresenta uno spartiacque nella storia della psicologia dell’educazione, perché segna l’atto di nascita di un processo di cambiamenti e di riforme dei curricoli scolastici che testimonia, in modo manifesto e pubblicamente esibito, la critica ai fondamenti dell’impostazione riconducibile alle learning theories. Lo smacco «spaziale» a opera dell’URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche), che aveva dimostrato in tal modo una superiorità esplicita nella cultura scientifica, rese evidente la necessità di riformare i curricoli scolastici, individuati come i principali responsabili di quella sconfitta. Infatti, benché fossero già presenti e diffusi, in scritti di psicologi di diversa matrice, elementi incompatibili con l’iniziale concezione della disciplina e dell’apprendimento, soltanto sull’onda di quello che venne avvertito come un vero fallimento educativo si rivolse attenzione a quegli studi che focalizzavano diversamente il tema dell’apprendimento e dello sviluppo cognitivo. È stato questo il momento in cui, per esempio, gli studi di Jean Piaget sullo sviluppo dell’intelligenza hanno attratto e catalizzato in modo manifesto l’interesse degli psicologi dell’educazione, che hanno così reputato degne di approfondimento questioni sino ad allora considerate marginali rispetto alla loro disciplina. Gli studi sui processi cognitivi e sulle fasi del loro sviluppo, allora, sono divenuti punti di avvio per sperimentazioni educative e didattiche, che hanno riguardato in larghissima prevalenza l’acquisizione di contenuti scientifici (cfr. ad es. R. Karplus - H.D. Thier, A New Look at Elementary School Science, Chicago 1967, tr. it. di L. Salvatori - A. Suvero, Rinnovamento dell’educazione scientifica elementare, Bologna 1971, per una estensione in ambito italiano). Ma più in generale hanno fatto l’ingresso nel territorio della psicologia dell’educazione temi come la memorizzazione di contenuti disciplinari, le modalità di elaborazione, l’organiz3248

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zazione di materiali da apprendere, le modalità di acquisizione per ritenere contenuti significativi (D.H. Ausubel, Educational Psychology: a Cognitive View, New York 1968) e per preparare «alla scoperta» (J. Bruner, The Process of Education, New York 1960), sino ai temi più recenti relativi agli stili cognitivi, al cambiamento concettuale, alle differenze di genere ecc. L’apertura verso altre prospettive ha segnato anche il riconoscimento di studi e ricerche che, negli anni della «guerra fredda», avevano trovato ostacoli alla loro diffusione. Ci riferiamo più specificamente a quelli di Lev S. Vygotskij, che rappresenta uno degli studiosi più originali e interessanti per la psicologia dell’educazione. L’impostazione di Vygotskij muove dal riconoscimento dell’origine sociale delle funzioni cognitive superiori, quelle più tipicamente umane, e giunge a individuare una legge fondamentale che afferma: ogni funzione nello sviluppo culturale del bambino si presenta due volte, prima a livello sociale e in seguito sul piano individuale; prima tra le persone (interpsicologica) poi dentro il bambino (intrapsicologica). Lo spostamento di fuoco dallo sviluppo come fenomeno individuale allo sviluppo come fenomeno interattivo ha determinato un insieme di approfondimenti che hanno avuto per la psicologia dell’educazione una notevolissima rilevanza. In primo luogo è stato messo al centro il rapporto fra apprendimento e sviluppo, nel senso che – come dice Vygotskij – è efficace l’apprendimento che precede lo sviluppo; se, infatti, bisogna «aspettare» di avere certe caratteristiche cognitive per poter acquisire certe nozioni/abilità, allora la funzione dell’apprendimento è molto depotenziata perché l’apprendimento «arranca» dietro lo sviluppo. Ma se l’apprendimento è considerato nelle sue funzioni propulsive dello sviluppo, nel senso che mediante l’acquisizione di conoscenze/abilità si sviluppano funzioni cognitive progressivamente più complesse, allora è fondamentale il modo in cui avviene l’apprendimento stesso. Compito di chi detiene responsabilità educative, quindi, è quello di indurre acquisizioni progressivamente più ricche e articolate, che si collochino cioè nell’«area di sviluppo prossimo» del soggetto, che è quella zona in cui può efficacemente svolgersi la funzione propulsiva suddetta. L’utilità di un’acquisizione si determina, in altre parole, se non si fonda su abilità già completamente acquisite, ma richiede in-

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vece lo sviluppo e/o il consolidamento di abilità cognitive emergenti che producano perciò uno spostamento in avanti del confine dell’area di sviluppo prossimo. La rilevanza di questa prospettiva è lampante e facilmente riconducibile alle aspirazioni radicali e rivoluzionarie della psicologia sovietica, che aspirava a concorrere alla costruzione dell’«uomo nuovo», per il quale risultava fondamentale il ruolo modificante ed efficace dell’intervento educativo. L’interesse di Vygotskij per gli aspetti della società e della cultura, sollecitato dal contatto dello psicologo sovietico con la molteplicità di individui appartenenti a nazionalità, costumi e culture diversi presenti nello stato sovietico, ha orientato i suoi studi verso la specificità cognitiva dei soggetti e alla sua presa in carico, che mal si conciliava con la prospettiva unificante e uniformante cui mirava quello stato agli albori della sua costruzione; per questi motivi i suoi scritti furono a lungo censurati e non diffusi in occidente. Dal punto di vista della psicologia dell’educazione, la focalizzazione del ruolo della cultura nello sviluppo e nell’acquisizione dei processi cognitivi superiori si è tradotta nel riconoscimento della funzione di mediazione che gli «strumenti» simbolici e materiali, oltre che gli adulti e i pari, rivestono nella promozione dello sviluppo individuale. Per tale ragione coloro che, richiamandosi alla prospettiva storicoculturale – questo è il nome con cui si denota la prospettiva vygotskijana –, hanno studiato aspetti diversi dell’interazione a scuola, relativi alla funzione degli insegnanti, dei pari, degli strumenti, della comunicazione discorsiva e così via, hanno messo a fuoco elementi specifici, diversamente riconducibili al tema unitario che potremmo etichettare come «mediazione sociale ed educazione». Sulla scia della prospettiva vygotskijana, inoltre, sono stati condotti studi sperimentali diversi in paesi e contesti differenti, mettendo a punto di volta in volta costrutti che esaminano questioni specifiche. Così negli USA sono state studiate, ad esempio, le modalità di apprendimento e di funzionamento di classi come «communities of learners» (A. Brown - J.C. Campione, Guided Discovery in a Community of Learners, in K. McGilly [a cura di], Classroom Lessons: Integrating Cognitive Theory and Classroom Practice, Cambridge [Massachusetts] 1994, pp. 229-270) e il ruolo dell’adulto competente

Educazione nell’indurre modalità di risoluzione agendo da scaffolding (D. Wood - J. Bruner - S. Ross, The Role of Tutoring in Problem Solving, in «British Journal of Psychology», 66, 1976, pp.181-191), vale a dire come una struttura di supporto per l’elaborazione cognitiva, struttura che viene progressivamente smantellata col progredire di chi impara. In Italia è stato molto studiato il funzionamento delle discussioni come ragionamento collettivo, in cui l’interazione cognitiva sostiene l’elaborazione progressiva con adulti competenti che rivestono ruoli metodologico-cognitivi (C. Pontecorvo, Discutere per ragionare: la costruzione della conoscenza come argomentazione, in «Rassegna di Psicologia», 2, 1985, 1/2, pp. 23-45; M. Pascucci-Formisano, Imparare da soli, imparare insieme. Rappresentazioni e comportamenti degli insegnanti, in C. Pontecorvo - A.M. Ajello - C. Zucchermaglio, Discutendo si impara, Roma 1991, pp.149-162; M. Santi, Ragionare con il discorso, Firenze 1995; M. Orsolini, Information Exchange in Classroom Conversation: Negotiation and Extension of the Focus, in «European Journal of Psychology of Education», 3, 1988, pp. 341-355). In Svizzera si sono condotte ricerche sulla costruzione dell’intersoggettività necessaria per la comunicazione adulto-bambino come negoziazione di significati e come condizione di base per interventi educativi efficaci (M. Grossen, La construction de l’intersubjectivité entre adulte et enfant en situation de test, Cousset [Fribourg] 1988; A.N. Perret-Clermont, La construction de l’intelligence dans l’interaction sociale, Berne 1979). Un filone autonomo è rappresentato dagli studi neo-vygotskijani che hanno focalizzato il ruolo dell’acquisizione di conoscenza e dell’elaborazione cognitiva in contesti organizzativi e quotidiani, a partire da culture in cui non fosse presente la scuola, per poi estendersi in altri ambiti (J. Lave, Cognition in Practice: Mind, Mathematics, and Culture in Everyday Life, New York 1988; J. Lave - E. Wenger, Situated Learning: Legitimate Peripheral Participation, Cambridge [Massachusetts] 1991). Tali studi interessano la psicologia dell’educazione, perché hanno analizzato le modalità di funzionamento dell’individuo nella vita quotidiana in cui, prendendo parte a situazioni sensate, impara e risponde adeguatamente ai «problemi» che deve normalmente fronteggiare. È stato così messo a punto il costrutto di «apprendistato cognitivo» per indicare la condizione per3249

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Educazione manente di acquisizione di conoscenze/abilità in cui tutti gli esseri umani si trovano nel loro ambiente di vita. In altre parole, l’agire in situazioni che hanno senso produce implicitamente, anche senza averne l’intenzione, «apprendimento». Questa nuova accezione di apprendimento, che curiosamente segna il ritorno in posizione centrale di un tema che è stato, come si è detto, all’origine della psicologia dell’educazione, presenta numerose implicazioni sul piano educativo. In questa sede ne elenchiamo sinteticamente alcune. 1) Poiché l’individuo, se è immerso in situazioni sensate a cui prende parte, impara automaticamente, i problemi di apprendimento che si rilevano a scuola possono essere inquadrati anche come mancato riconoscimento di senso di azioni a cui si è richiesti di partecipare. 2) Se si impara quando si è attivi e partecipi a situazioni sensate, il problema della motivazione ad apprendere può leggersi anche come problema tipicamente scolastico e in un certo senso indotto dalla scuola. 3) Se l’apprendimento è una sorta di apprendistato, allora il ruolo docente è principalmente un ruolo di accompagnamento e sostegno a un’attività in cui il soggetto è coinvolto in prima persona. 4) La scuola come attività di trasmissione di nozioni e abilità può facilmente essere riconosciuta per la funzione sociologica di mantenimento di una memoria che un gruppo sociale intende trasmettere alla generazione successiva; più problematica appare la sua funzione psicopedagogica se relega i soggetti in una posizione passiva e tendenzialmente alienata, visto che a loro è richiesto di imparare per lo più contenuti e abilità il cui senso e valore vengono difficilmente riconosciuti. A.M. Ajello BIBL.: L.S. VYGOTSKYJ, Pensiero e linguaggio: ricerche psicologiche, ed. it. a cura di L. Mecacci, Bari 1990; C. PONTECORVO - A.M. AJELLO - C. ZUCCHERMAGLIO, Discutendo si impara, Roma 1991.

EDUCAZIONE, Educazione

SCIENZE DELLA (sciences of education; Erziehungswissenschaften; sciences de la éducation; ciencias de la educación). – Nel corso dell’ultimo Novecento ha preso avvio un processo inarrestabile di generazione di nuove discipline nate e cresciute attorno all’educazione e alla formazione dell’uomo, assunte anzitutto nella loro natura problematica. Ad esse

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è stato dato il nome di scienze dell’educazione. Ciascuna delle aree di ricerca sviluppatasi viene alla luce dall’incontro della pedagogia generale – pensata come la scienza dell’educazione e della formazione – e di altre scienze umane capaci di condurre i saperi pedagogici a un potenziamento delle loro indagini critiche. La dimensione «interdisciplinare» costituisce il carattere dominante delle scienze dell’educazione, sorte dalla necessità di far progredire l’analisi sulle dimensioni che l’educativo via via sussume anche sotto la spinta di bisogni sociali emergenti e di un inedito profilo del soggetto disegnato dalla modernità. Posta all’interno di questo complesso intreccio di relazioni interdisciplinari, la pedagogia ha il compito di non smarrire i significati originari dei propri saperi, disponendosi a un ruolo «orientante» nei confronti di ogni scienza dell’educazione al cui strutturarsi essa contribuisce in modo decisivo. Il rischio della frantumazione dei saperi pedagogici e della correlativa dissoluzione della pedagogia nelle varie e differenti scienze dell’educazione richiede una sempre più puntuale riflessione epistemologica, affinché l’identità della pedagogia generale non ne esca turbata o intaccata con grave danno per la sua specifica identità di scienza e di scienza umana. Alle scienze dell’educazione vanno, anzitutto, ascritte la filosofia dell’educazione (promossa dall’incontro fra pedagogia e filosofia), la psicologia dell’educazione (emersa dall’incontro fra pedagogia e psicologia), la sociologia dell’educazione (risultato dell’incontro fra pedagogia e sociologia). A tale comparto disciplinare sono inoltre attribuiti ulteriori saperi frutto di innesti più recenti: tra essi si distinguono l’antropologia dell’educazione, la semiotica dell’educazione, l’ermeneutica dell’educazione, la politica dell’educazione, la teologia dell’educazione, la gnoseologia dell’educazione, la metafisica dell’educazione, l’ontologia dell’educazione, l’economia dell’educazione, la tecnologia dell’educazione. Lo sviluppo di questi e altri settori di ricerca è assicurato tanto dal loro ruolo sociale sempre più marcato, quanto dai problemi educativi che i sistemi sociali fanno emergere, ma anche dalla consapevolezza epistemologica che ciascuna area di ricerca matura al proprio interno. Nel prendere sempre meglio coscienza di come la pedagogia rappresenti un sistema organico e articolato di saperi, ciascuna scienza

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

dell’educazione vede posta al proprio interno la questione del suo rapporto con le due scienze che la costituiscono. Volendo assumere come esempio la filosofia dell’educazione, si potrà riconoscere che essa non è più soltanto «pedagogia» o «filosofia», ma appunto dall’incontro fra queste due scienze è venuto promuovendosi un sistema di saperi che entrambe le contiene eppure le supera, in una unità organica che possiede la dignità di scienza. E ciò varrà per ogni contesto disciplinare sopra richiamato e ascritto alla famiglia delle scienze dell’educazione. Ciascuno di quei settori fa progredire la ricerca spingendola oltre i limiti dei saperi da cui deriva, producendo problematizzazioni, costruendo nuove logiche di ricerca, facendo scaturire inediti linguaggi e dando ordine a contenuti che le prassi stesse dell’educativo hanno prima posto in luce e poi in essere. Tale procedere non può arrestarsi e, soprattutto, non va limitato, anche se occorre che venga dovutamente posto sotto un vaglio e un controllo critico-epistemologico. Per farlo v’è la necessità che la pedagogia generale non abdichi a (o non sia spodestata da) quel suo impegno «orientante», il quale fa sì che il discorso a proposito dell'educativo e del formativo resti sempre, comunque e ovunque, ancorato alla riflessione pedagogica. Una pedagogia generale organicamente organizzata all’interno di ogni relazione interdisciplinare che essa sceglie di sviluppare non può temere la propria dispersione o il proprio frazionarsi, in quanto il suo sapere è messo al servizio – di concerto con gli altri saperi scientifici – della ricerca, i cui temi sono determinati dalla vita, dal mondo, dalla storia, da tutti gli «eventi» (o dalle «lunghe durate») che possono e debbono essere ricondotti all’educazione e alla formazione umana. Non, dunque, una pedagogia timorosa e chiusa in se stessa, ma, al contrario, una pedagogia libera, né settaria né faziosa, equanime, priva di preconcetti o pregiudizi, scrupolosamente attenta ai propri equilibri epistemologici interni, ma anche spregiudicata nell’andare a scovare «tutto ciò» che stabilisce un indice di afferenza con l’educativo e il formativo. Ciascuna scienza dell’educazione contribuisce alla ri-costruzione corretta del discorso pedagogico anzitutto se la pedagogia sa avviare relazioni interdisciplinari che non la vedano soggiacere a saperi imperialistici, cadere nel gregarismo, sprofondare nell’eclettismo, sottomettersi a egemonie,

Educazione essere vittima di sudditanze e, in primo luogo, manifestarsi incapace di originalità. Questo è il principale compito di cui la pedagogia generale si fa carico quando entra in relazione con un’altra scienza umana. Le scienze dell’educazione dimostrano oggi una vitalità pari ai risultati conseguiti nella ricerca. In questa, il loro impegno è ormai decisivo, costante, irrinunciabile, con vantaggi per ogni settore del sapere: tanto quindi per la pedagogia generale, quanto per ogni altra scienza che abbia scelto di convenzionarsi con essa al fine di incrementare le potenzialità del proprio statuto euristico e scientifico. Il futuro delle scienze dell’educazione si deciderà in senso positivo soltanto se esse rammenteranno di essere scienze dell’uomo che appunto nell’uomo trovano il loro prioritario fine. M. Gennari BIBL.: A. KLAUSSE, Initiation aux sciences de l'éducation, Lìege 1967; G. AVANZINI, Introduction aux sciences de l'éducation, Toulouse 1976; W. BREZINKA, Metatheorie der Erziehung, München 1978; A. VISALBERGHI et al., Pedagogia e scienze dell'educazione, Milano 1978; C. NANNI, Educazione e scienze dell'educazione, Roma 1984; G. MIALARET, Introduction aux Sciences de l'Education, Genève 1985; R. MASSA (a cura di), Istituzioni di pedagogia e scienze dell'educazione, Roma-Bari 1990; M. GENNARI - A. KAISER, Prolegomeni alla Pedagogia Generale, Milano 2000; G. SOLA (a cura di), Epistemologia pedagogica, Milano 2002. ➨ EDUCAZIONE; FORMAZIONE; PEDAGOGIA GENERALE.

EDUCAZIONE, SEMIOTICA DELLA (semiotics of Educazione education; Semiotik der Erziehung; sémiologie de l’éducation; semiótica de la educatión). – È la scienza dell’educazione derivante dal rapporto interdisciplinare tra la pedagogia e la semiotica, i cui fondamenti epistemologici sono stati affrontati primariamente nel volume di Mario Gennari, Pedagogia e semiotica (Brescia 1984, 19982). Deputata a interpretare i segni, i sistemi di segni e le culture rinvenibili in ogni genere di transazione educativa – familiare, scolastica, extrascolastica –, la semiotica dell’educazione s’avvale dell’integrazione fra gli apparati concettuali ed euristici propri d’entrambi i saperi dei quali è tributaria. Qualsiasi evento inerente all’educare viene considerato in veste di segno, ovvero come un aliquid che stat pro aliquo, rinviante dalla propria immediata occorrenza ai possibili e molteplici interpretanti culturali costituenti il suo senso. Signa appaiono le condotte verbali, paraverbali e 3251

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Educazione non verbali dei soggetti implicati nell’interazione educativa, ma non meno le modalità d’organizzazione degli spazi e delle attività o la scansione dei tempi che la contraddistinguono. Segno è ciò che può essere interpretato, per cui selezionare un atto educativo quale signum implica l’avvio di processi inferenziali tesi a esplicitare le molteplici valenze pedagogiche, etiche, affettive, sociali, ideologiche, retoriche ecc. di cui è intessuto e sulle quali edifica i propri significati. La semiotica dell’educazione ha per oggetto la complessa «semiosi educativa» generata dalle relazioni intrecciate fra educatori e educandi. Costoro comunicano scambiandosi peculiari produzioni segniche emesse sulla base di specifici codici, ossia ricorrendo ai repertori di regole convenzionalmente adottati in una determinata cultura per produrre discorsi a contenuto educativo, il cui impiego avviene con differenti gradi d’intenzionalità. Nella semiosi educativa si identificano come testi quei complessi semiosici dove è rintracciabile un qualche legame strutturale, così come viene definita «educhema» l’unità segnico-educativa minimale attraverso cui risulta attuabile un processo interpretativo. L’ambito storico-culturale fungente da orizzonte per ogni possibile attribuzione di significato è detto «enciclopedia» (cfr. M. Gennari, Interpretare l’educazione. Pedagogia semiotica ermeneutica, Brescia 1992, 20032). Scopo e prodotto dell’esegesi condotta dalla semiotica dell’educazione è la significazione, cioè l’istituzione di significati. Allorché l’interpretazione s’inoltra al di là di quelli culturalmente già sedimentati si ha un arricchimento della conoscenza. In siffatta direzione, particolarmente fecondo è il concetto di «abduzione» elaborato da Charles Sanders Peirce per indicare la forma d’inferenza necessaria quando si manifesta un genuine doubt. L’abduzione – innescata dal sospetto verso i luoghi comuni e le false evidenze – impone al ricercare percorsi congetturali differenti dalle strade consuete, così da fornire inedite prospettive di senso. Similmente a ogni altro, anche l’itinerario attivato dalla semiotica dell’educazione conduce a una «semiosi illimitata», giacché ciascuna interpretazione risulta a sua volta suscettibile di ulteriori interpretazioni. Di conseguenza non si dà un significato finale, un sapere apofantico, in quanto qualsiasi asserita conclusione è possibile rimetterla in gioco a un successivo esame. 3252

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Pertanto, la semiotica dell’educazione, costituendosi quale logica della cultura educativa, da un lato, acclara le peculiari caratteristiche assunte dai codici in essa attivi, dall’altro, è sempre protesa a oltrepassarli, denudandone i contenuti abitudinari, gli schematismi aprioristici, le assunzioni ideologiche. Il suo procedere, raffigurabile pure quale azione di coscientizzazione circa il significato delle abituali condotte educative, si distende in aperture capaci di rinnovare i sistemi segnici per il cui tramite vengono generati i segni e i testi che danno forma e sostanza all’educare. Le problematiche concernenti la struttura epistemologica della semiotica dell’educazione sono affrontate nel loro complesso nei lavori di M. Gennari, mentre i diversi altri saggi riconducibili al suo ambito soffermano l’attenzione su alcuni aspetti in particolare. Negli Stati Uniti, muovendo dalle ricerche peirceiane, alcuni studiosi hanno incentrato l’indagine sul ruolo del pensiero abduttivo nei processi d’apprendimento, evidenziando i vantaggi educativi di quell’informed skepticism che conduce a guardare ai problemi in modo inusuale, rendendo il familiare inconsueto e l’inconsueto familiare (cfr. D.J. Cunningham [a cura di], Education and Pedagogy, n. mon. «The American Journal of Semiotics», 5, 1987). Altri, come Jay L. Lemke, si sono avvalsi degli strumenti elaborati dalla social semiotics per indagare le pratiche significanti impiegate nella classe scolastica, al fine di far emergere le semiotic formations che la guidano, cioè i modelli normativi con cui solitamente vengono generati tanto le sequenze insegnative quanto i temi e i concetti disciplinari. Fra le prime ricerche riconducibili alla semiotica dell’educazione si annoverano quelle intorno alle problematiche dell’educazione visiva e musicale, di cui s’acclara la specificità codessicale allo scopo di promuovere in ogni soggetto sia una semiosi critica sia valide capacità d’espressione personale. Analoga finalità è perseguita dagli studiosi impegnati a lumeggiare le problematiche didattiche concernenti la generazione e la ricezione di testi – in lingua madre o straniera –, i quali fanno leva sulle conoscenze enciclopediche degli studenti e favoriscono percorsi di cooperazione interpretativa. E.W. Tizzi BIBL.: M. GENNARI, Lo sguardo iconico, Brescia 1984; J.L. LEMKE, Semiotics and Education, Toronto 1984; D.J. CUNNINGHAM, Semiotics and Education: An Istance

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

of the «New» Paradigm, in «The American Journal of Semiotics», 2 (1987), pp. 195-200; D.J. CUNNINGHAM, Outline of an Education Semiotic, in «The American Journal of Semiotics», 2 (1987), pp. 201-216; J. PETÖFJ, Testologia semiotica e didattica, in P. DESIDERI (a cura di), La centralità del testo nella pratica didattica, Firenze 1991; B. BASSI - M. GENNARI (a cura di), Semiotica e educazione, n. mon. «Versus. Quaderni di studi semiotici», 68-69 (1994); R. TITONE, Recenti tendenze europee nella «semiotica dell’educazione», in «Pedagogia e vita», 4 (1997), pp. 136-142. ➨ PEDAGOGIA.

EDUCAZIONE, Educazione

TEOLOGIA DELLA (theology of education; Theologie der Erziehung; théologie de l’éducation; teología de la educación). – La riflessione teologica sulla struttura, sulla forma simbolica, sulla rilevanza antropologica della fede prospetta l’universalità dell’esperienza credente come elemento ineludibile per l’elaborazione del sapere e per la formazione umana. In un contesto culturale pluralista, alla teologia è naturalmente assegnato il compito di esibire le ragioni della fede. Di là da preconcetti ideologici, marcare la possibilità della ratio critica, e non indulgere invece nella necessità della vis apologetica, coinvolge insieme credenti e non credenti nella prospettiva di una comune responsabilità ermeneutica. In Occidente, la riflessione lato sensu teologica sull’educazione è antica quanto il cristianesimo. Trattazioni su diverse questioni educative, a vario titolo ispirate da una prospettiva teologica, sono comuni nei padri della chiesa, nei sistemi teologici medievali, negli scritti di numerosi teologi moderni e contemporanei. Al tempo stesso, l’elaborazione teologica tradizionale manca di una riflessione sistematica sulle pratiche e sulle istituzioni dell’educazione. Soltanto verso la metà del Novecento, la disciplina denominata teologia dell’educazione ha assunto un profilo epistemico autonomo, dichiarando che il suo oggetto formale è un ambito dell’attività umana, l’educazione, considerata nell’orizzonte e nella forma critica del discorso teologico. Per le sue finalità euristiche, la teologia dell’educazione instaura un riferimento polisemico sia con l’interpretazione dei fenomeni educativi sia con le scienze dell’educazione. Nel 1991 Giuseppe Groppo teorizza in modo articolato la teologia dell’educazione come luogo del dialogo interdisciplinare tra teologia e scienze dell’educazione, avvalorando la neces-

Educazione sità di superare modelli gerarchici tra le aree disciplinari, ispirati alla chiusura reciproca o alla rigida delimitazione delle competenze. L’itinerario compiuto dal pensiero teologico come accostamento ermeneutico all’educazione prende le mosse nei paesi di lingua tedesca, nell’ambito della teologia pastorale, e si articola in riferimento alla crescente sensibilità pedagogica della catechetica che, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, approda a una Religionspädagogik (pedagogia della religione). Mentre il movimento di riforma della catechetica si sviluppa prima in contesto evangelico e in seguito anche nella cultura cattolica, il discorso epistemologico sulla natura della pedagogia della religione ottiene maggiore attenzione in ambito cattolico. L’interpretazione della catechetica come pedagogia della religione pone a tale nuovo «ritaglio disciplinare» una serie di questioni relative alla definizione dello statuto epistemologico e ai rapporti tra teologia e pedagogia. In questo orizzonte problematico, sorge l’esigenza di un’analisi teologica dell’attività educativa che si preannuncia nei primi decenni del Novecento e acquisisce una compiuta definizione nell’ambito del rinnovamento teologico sollecitato dal Concilio vaticano II. Negli anni settanta del secolo scorso, Hans Schilling conduce una ricognizione puntuale sui modelli tradizionali di rapporto tra teologia e pedagogia in ambito cattolico, criticandone sia le forme di subalternità sia quelle ingenuamente analogiche. Del modello di rapporto gerarchico è inaccettabile il fatto che la teologia abbia una preminenza sulla pedagogia in quanto scienza della fede rivelata e norma che disciplina l’educazione cristiana; del modello analogico è ritenuta inappropriata la relazione di similitudine proporzionale tra la pedagogia Dei e la pedagogia hominis. La disamina critica compiuta da Schilling conduce all’avvaloramento dell’autonomia della teologia e delle scienze dell’educazione, pone l’enfasi sulla necessità della relazione e della collaborazione reciproca. Il sapere pedagogico, iuxta propria principia, negli ultimi decenni si è ampiamente articolato, precisando il proprio statuto epistemologico. Ciò può permettere di vagliare in modo rinnovato la consistenza teoretica di argomenti ritenuti a lungo e in modo pregiudiziale non propriamente scientifici. La connessione tra «discorso pedagogico e dimensione religiosa» 3253

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Educazione estetica designa una relazione costitutiva e una sfida per le possibilità della formazione umana. Una teologia dell’educazione, aliena da forme di irenismo eclettico, può sollecitare la comprensione delle culture religiose, la riscoperta di una peculiare connotazione spirituale degli eventi educativi e la tematizzazione di una dialettica formativa aperta alla reciprocità amante del tu divino. La teorizzazione di una teologia dell’educazione si delinea oggi nella prospettiva dell’educazione alla e nella libertà, nel rispetto delle differenze che concorrono allo sviluppo integrale e armonico della persona umana. La costituzione critico-ermeneutica della teologia dell’educazione prospetta l’impraticabilità di una sua rappresentazione semplicistica. Né la teologia né la pedagogia possono dialogare in modo adeguato con una teologia dell’educazione che si identifichi come una sorta di sintetico compendio o di corollario di altre discipline. L’esercizio critico della teologia si misura con l’opera aperta dell‘educazione, muovendo dalla ragione credente ovvero da un pensiero che si pone alla sequela della rivelazione. Riflettere sulle risorse dell’humanum implica a pieno titolo il peculiare orizzonte costituto da un pensiero credente. L’anelito alla verità e il desiderio di senso dischiusi dal mistero dell’universo personale richiedono di pensare lo statuto ontologico della vita e del mondo creato, di considerare le dinamiche socioeducative e culturali, di provare stupore di fronte alla ricchezza dell’immaginazione e dell’espressività umana. La teologia dell’educazione in quanto forma dell’elaborazione scientifica contemporanea è chiamata a proporre la ricerca della verità nella prospettiva della problematizzazione della parola e della vita ecclesiale, a prefigurare l’apertura al «mistero di Dio», senz’alcuna utilizzazione funzionale o subalternazione. La fede, possibilità educativa irrinunciabile, è l’espressione esistenziale che l’uomo non appartiene ultimamente a se stesso. La ricerca nel campo della teologia dell’educazione rappresenta un emblema della centralità della persona umana nel vivo dell’esperienza storico-culturale di fronte al mistero dell’alterità. La teologia dell’educazione è riflessione sull’esperienza liberante di Dio come mistero del mondo, che rende, da parte sua, misterio3254

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so l’uomo il quale percorre vie che deve aprirsi in forza della sua libertà. P. Malavasi BIBL.: H. KÖHLER, Theologie der Erziehung, München 1965; H. SCHILLING, Theologie der Erziehung, München 1969; C. BISSOLI, Bibbia e educazione. Contributo storico-critico ad una teologia dell’educazione, Roma 1981; AA.VV., Teologia e scienze dell’educazione. Atti del XXVIII Convegno di Scholé, Brescia 1990; L.J. FRANCIS - A. THATCHER (a cura di), Christian Perspectives for Education. A Reader in Theology of Education, Leominster 1990; G. GROPPO, Teologia dell’educazione. Origine, identità, compiti, Roma 1991; P. MALAVASI, Discorso pedagogico e dimensione religiosa, Milano 2002. ➨ EDUCAZIONE; EDUCAZIONE, ERMENEUTICA DELLA; PEDAGOGIA; EDUCAZIONE, SCIENZE DELLA; TEOLOGIA.

EDUCAZIONE ESTETICA (aesthetic educaEducazione estetica tion; ästhetische Erziehung; Education esthétique; educación estética). – Benché si tenda con l’espressione «educazione estetica» a designare la sfera dell’educazione al gusto, detta nozione rinvia a un ambito problematico ben più ampio che coincide con il ruolo che l’elemento estetico svolge nella formazione complessiva dell’individuo. Con Platone si assiste a una condanna dell’arte e conseguentemente dell’educazione estetica perché considerata del tutto incapace di svolgere un’azione educativa. Un pieno riconoscimento del valore dell’educazione estetica lo si ha solo con l’estetica post-kantiana e in particolare con Friedrich Schiller e nel romanticismo. Nel suo testo Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen (Stuttgart 2000 [1975], tr. it. a cura di A. Negri, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, Roma 2001), Schiller concepisce l’educazione estetica come un percorso in grado di far superare all’uomo la condizione di scissione in cui si trova immerso (pura ragione da una parte, mera sensibilità dall’altra): essere educati esteticamente equivale ad avere accesso a una dimensione dell’umano la cui cifra è il comportamento disinteressato e libero. Nel secolo scorso John Dewey con il suo lavoro di pedagogista riserverà all’educazione estetica un ruolo fondamentale tanto da considerarla il tratto caratteristico di ogni nostra esperienza (Art as Experience, New York 1980, tr. it. di A. Granese, Arte come esperienza e altri scritti, Firenze 1995). Grande importanza al motivo dell’educazione esteti-

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Edwards

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ca è attribuito dallo psicologo dell’arte Rudolf Arnheim che la considera l’unico percorso capace di restituire vigore all’esperienza sensibile in opposizione all’impianto educativo tradizionale. A. Sartini BIBL.: J.F. HERBART, Über die ästhetische Darstellung der Welt als das Hauptgeschäft der Erziehung, in Kleine Schriften zur Pädagogik, a cura di T. Dietrich, Bad Heilbrunn 1962, tr. it. di I. Vopicelli, La rappresentazione estetica del mondo considerata come compito fondamentale dell’educazione, Roma 1996; G.M. BERTIN (a cura di), L’educazione estetica, Firenze 1978; M. GENNARI, Lo sguardo iconico: per un’educazione all’immagine, Brescia 1986; M. GENNARI, L’educazione estetica, Milano 1994; F. CARMAGNOLA, Synopsis. Introduzione all’educazione estetica, Milano 2005. ➨ EDUCAZIONE; ESTETICA; GUSTO.

EDUZIONE (lat. eductio, «tirar fuori» - educEduzione tion; Eductio; éduction; educción). – Termine che caratterizza, nella cosmologia aristotelico-scolastica, il modo proprio con cui vengono prodotte, nelle mutazioni o generazioni corporee, le forme materiali, sostanziali e accidentali. L’espressione completa è eductio formae e (oppure de) potentia materiae, e significa che le forme materiali, non essendo sostanze complete o sussistenti, cioè aventi un proprio essere nello stato di separazione, non possono avere un’origine assoluta o separata: «cum fieri sit via ad esse, hoc modo alicui competit fieri, sicut ei competit esse» (Tommaso, Sum. theol., I, q. 90, art. 2). Ciò che viene prodotto, in senso pieno, è il composto di materia e forma (materiale); la forma materiale viene «comprodotta», o «concreata», in quanto la causa efficiente attualizza la potenzialità della materia; la nuova forma viene «edotta», tirata fuori, attuata, dalla potenza della materia. Aristotele, per caratterizzare l’eduzione delle forme, adoperò (ad es., Metaph., VI, 8, 1033 a 24; VII, 3, 1043 b 15; 5, 1049 b 21-23; cfr. il commento di Tommaso, e Sum. theol., I, q. 65, art. 4) la formula: «formae generantur sine generazione et corrumpuntur sine corruptione» nel senso che, non le forme propriamente sono generate o corrotte, bensì sono propriamente generati e corrotti gli esseri (o «sinoli»), di cui le forme sono le determinazioni sostanziali o accidentali. Nell’essere generato le forme non vengono propriamente generate, ma, appunto, semplicemente edotte dallo stato di potenza allo stato di atto.

Un’erronea concezione dell’eduzione (denunciata già da Tommaso in Quaestio disputata De virtutibus in commune, art. 11, e Sum. theol., I, q. 45, art. 8, e da lui attribuita ad Anassagora: In VII Metaph., lectio VII, ed. Cathala, n. 1430) consiste nel ritenere le forme come «latitantes» nella materia o nella sostanza (a seconda che siano forme sostanziali o accidentali), per cui l’eduzione non sarebbe più un passaggio dall’esistere in potenza all’esistere in atto, ma una semplice «estrazione» di una realtà già in atto, ma nascosta; non si avrebbe più una vera e propria generazione di un essere prima non esistente. Si ricadrebbe pertanto nell’impossibilità di sciogliere il problema di Parmenide, e si dovrebbe rinunciare alla spiegazione della possibilità e della realtà delle mutazioni intrinseche, sia accidentali che sostanziali. In questo modo poi, secondo il sistema della preformazione, in opposizione a quello dell’epigenesi, preesisterebbero nei semi degli animali e delle piante i nuovi esseri generati. G.M. Pozzo BIBL.: P. HOENEN, Cosmologia, Roma 19565, pp. 300318, 598-603. ➨ EPIGENESI; FORMA.

EDWARDS, Edwards JOHN. – Teologo e pastore calvinista, n. a Hertford il 26 febbr. 1637, m. a Cambridge il 16 apr. 1716. Conseguiti i gradi accademici fu predicatore al St. John’s College di Cambridge, dedicandosi alla composizione di scritti teologici e polemici. Il suo calvinismo intransigente non gli permise la carriera accademica. Dopo la pubblicazione della Reasonableness of Christianity ingaggiò un’aspra polemica con Locke, accusandolo di favorire il socinianesimo e di aprire la strada all’ateismo. Criticò la riduzione del credo rivelato al solo dogma della messianicità di Gesù e l’omissione intenzionale dei passi evangelici riguardanti la Trinità, l’incarnazione del Verbo e la morte redentrice di Cristo, obiezioni che Edwards mosse a Locke in diversi scritti: Some Thoughts Concerning the Several Causes and Occasions of Atheism (London 1695); Socinianism Unmask’d (ivi 1696); The Socinian Creed (ivi 1697). Ai deisti oppose la concezione della conoscenza come partecipazione dell’uomo alla divina verità e della rivelazione come «an Other Channel of Truth» (Free Discours Concerning Truth and Error, ivi 1701, p. 64). Scrisse anche in polemica con Whiston e Clarke. Il Dictionary of National Biography gli attribuisce l’anonima Free but 3255

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Edwards Modest Censure on the Late Controversial Writings and Debates [...] of Mr. Edwards and Mr. Locke (ivi 1698). E. Rapetti BIBL.: M. SINA, L’avvento della ragione, Milano 1976, pp. 395-407; V. NUOVO (a cura di), John Locke and Christianity: Contemporary Responses to the Reasonableness of Christianity, Bristol 1997; J.C. HIGGINS-BIDDLE, Introduction, in J. LOCKE, The Reasonableness of Christianity as Delivered in the Scriptures, Oxford 1999, pp. XV-CXV; R. RUSSO, Locke contro Edwards: un conflitto ermeneutico, in A. BABOLIN (a cura di), Metafisica e filosofia della religione, Città di Castello 2004, pp. 231-271.

EDWARDS, JONATHAN. – Teologo protestanEdwards te, pastore e missionario, n. a East Windsor il 5 ott. 1703, m. a Princeton il 22 mar. 1758. Studiò all’università di Yale che ne sta ripubblicando oggi l’opera omnia; dal 1757 fu primo presidente dell’università di Princeton. I suoi scritti furono raccolti in varie edizioni, tra cui: The Works of President Edwards (ed. a cura di S.E. Dwight, New York 1889) e J. Edwards Representative Selection (ed. a cura di C.H. Faust T.H. Johnson, Cincinnati 1935; ripr. 1962). Edwards può essere considerato il fondatore della teologia del New England. Sentì più di ogni altro il problema, assai dibattuto tra i teologi del tempo, della conciliazione delle esigenze del sentimento individuale con quelle di una religiosità più tradizionalmente ecclesiale. Visse inoltre acutamente il dramma dell’incertezza della giustificazione e della predestinazione alla salvezza. Da questi stimoli Edwards fu indotto a tentare una fusione di tesi teologiche pietiste e puritane. Egli si servì come strumento di dottrine filosofiche di varia provenienza: il sensismo lockiano, il sentimentalismo di Hutcheson, l’immaterialismo di Berkeley, il platonismo di Cambridge. Ne risultò una visione del mondo in cui predomina l’affermazione estrema delle assolute maestà e priorità divine, sia nell’ordine dell’essere che in quello dell’azione. Dio è la causa unica di ogni accadimento, sia naturale che spirituale; avvenimenti ed esseri singoli sono non cause seconde, ma puri strumenti dell’elezione divina. Metafisicamente occorre quindi affermare che «a rigore solo Dio è» e «al suo confronto tutto il resto deve essere considerato nulla». Tanto rigorismo è però temperato dall’energica affermazione che Dio è amore, è presente nella bellezza e nella vita universale, con cui 3256

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Edwards sembra talora perfino identificarlo, e percepibile alla coscienza individuale attraverso un particolare «senso del divino» che è fonte di sicurezza e di gioia. Edwards si preoccupò anche di conciliare l’affermazione dell’assoluta libertà e potenza dell’iniziativa divina con la possibilità della previsione scientifica, accettando in larga misura la validità della fisica newtoniana e del suo «sottofondo metafisico» (cfr. Treatise on the Nature of True Virtue, Boston 1889). N. Bosco BIBL.: A.C. MCGIFFERT, Jonathan Edwards, New York 1932; H.W. SCHNEIDER, The Puritan Mind, New York 1932; C.H. FAUST - T.H. JOHNSON, Jonathan Edwards, New York 1936; T.H. JOHNSON, The Printed Writings of Jonathan Edwards, Princeton 1940; O.E. WINSLOW, Jonathan Edwards, New York 1940 (biografia); A.L. JONES, Early American Philosophers, New York 1958; A.A. MAURER, s. v., in P. EDWARDS (a cura di), The Encyclopedia of Philosophy, New York - London 1967, vol. II, pp. 460-462; D.J. ELWOOD, Philosophical Theology of Jonathan Edwards, New York 1960; T. MANFERDINI, Esperienza religiosa e riflessione filosofica: Jonathan Edwards, in Studi sul pensiero americano, Bologna 1960, pp. 65-102; H.W. SCHNEIDER, Storia della filosofia americana, Bologna 1963, cap. 2 (bibliografia: pp. 637-639); C. SARACENO, Un pensatore puritano del diciottesimo secolo: Jonathan Edwards, in «Rivista di Filosofia Neo-scolastica», 3 (1966), pp. 347-356; G.M. MARSDEN, Jonathan Edwards: a Life, New Haven London 2003.

EDWARDS, PAUL. – N. a Vienna il 2 sett. Edwards 1923. Filosofo analitico austriaco di nascita e statunitense di adozione, si è formato presso l’università di Melbourne e alla Columbia University e ha insegnato, oltre che in queste università, a Berkeley e New York. Sostenitore nella sua prima opera importante, The Logic of Moral Discorse (Glencoe [Illinois] 1955) di un’etica basata su un oggettivismo naturalistico e sull’emotivismo, ha dato vita a rilevanti strumenti di divulgazione, soprattutto The Encyclopedia of Philosophy (New York 1967, 8 voll.). Radicale il suo ateismo, che afferma la insostenibilità delle pretese metafisiche delle religioni. Di qui le sue polemiche con Buber (Buber and Buberism, Laurence 1970) e Tillich. Più recentemente ha affrontato il tema dell’immortalità e della reincarnazione, attraverso la storia della filosofia, attraverso il dibattito sul rapporto mente-corpo, ma anche attraverso letteratura e testimonianze non scientifiche: P. Edwards (a cura di), Immortality, New York

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Effetto

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1992, e Reincarnation: a Critical Examination, Buffalo 1996. Sempre in chiave polemica contro contenuti metafisici, analizzati in termini di proposizioni dotate di senso sul piano linguistico, da ricordare anche Heidegger on Death: a Critical Evaluation (La Salle [Illinois] 1979). P. Valenza

EFETTICI (gr. ejfektikoiv, «coloro che sospenEfettici dono il proprio giudizio»; dal verbo ejpevcw ephectics; Ephektiker; éphectiques; efécticos). – Filosofi «efettici» erano chiamati nell’antichità i seguaci delle dottrine scettiche di Pirrone, e questa era una delle quattro denominazioni, tratte dai princìpi della scuola, mediante le quali essi venivano variamente designati. Le enumera Diogene Laerzio, nella Vita di Pirrone (Vite dei filosofi, IX, 69-70), affermando che mentre gli scettici erano detti pirroniani dal nome del loro maestro, venivano anche chiamati aporetici (aj p orhtikoiv) , scettici (skept i k o i v ) , ef e t t i c i (e j f e k t i k o i v ) e z e t e t i c i (zhthtikoiv). E spiega: «zetetici» perché la loro dottrina li conduce a inseguire incessantemente la verità; «scettici», in quanto la ricerca non approda a una conclusione; «efettici», a indicare la condizione in cui si trova chi sospende il giudizio poiché l’indagine non è giunta ad alcun risultato; «aporetici», infine, perché aperti al dubbio di fronte a ogni affermazione. G.F. Pagallo

EFFECTUS ASSIMILATUR CAUSAE Effectus causae AGENTI. – L’effetto, in quanto risultato dell’azione della causa, che non può esplicare se non quanto di fatto essa possiede («nemo dat quod non habet»), ritiene in sé qualche cosa di essa. È, tuttavia, da tener presente che la locuzione estende il proprio significato da una similitudine perfetta fino a una conformità soltanto analogica (cfr. Sum. theol., I, q. 4, art. 3: q. 45, art. 7; q. 105, art. 1 ad 1). Red. ➨ CAUSA; EFFECTUS PROPORTIONATUR SUAE CAUSAE EFFICIENTI; EFFETTO.

EFFECTUS PROPORTIONATUR SUAE Effectus causae CAUSAE EFFICIENTI. – Espressione scolastica, in cui si afferma che l’effetto è proporzionato alla sua causa: un effetto particolare deriva da una causa particolare; un effetto generale da una causa generale; l’effetto universalis-

simo e fondamentale, che è l’essere, da una causa universalissima e prima; a effetti ordinati corrispondono cause ordinate ecc. L’espressione viene compresa pienamente se posta in relazione con l’altra espressione scolastica: «nemo dat quod non habet». Su questo principio si fonda il quarto metodo di Stuart Mill per la ricerca sperimentale: in esso le «variazioni concomitanti» di due fenomeni sono prese come sintomo di una connessione causale (System of Logic, III, cap. 8). È da notare, però, che qualora l’effetto risulti proporzionato a una causa di natura diversa e superiore (come accade nelle creature rispetto a Dio), esso non va oltre un rapporto di somiglianza puramente analogica (cfr. Tommaso, In I Sent., distinctio I, q. 2, a. 2 solutio). Red. BIBL.: N. SIGNORIELLO, Lexikon peripateticum philosophico-theologicum, Roma 19315, pp. 127-128; G.P. KLUBERTANZ, Introduction to the Philosophy of Being, New York 1955; T.M. FLANIGAN, Secondary Casuality in the «Summa contra Gentiles», in «Modern Schoolman», 36 (1958), pp. 31-39; G.P. KLUBERTANZ, St. Thomas Aquinas on Analogy: A Textual Analysis and Systematic Syntesis, Chicago 1960; A.C. LLOYD, The Principle that the Cause is Greater than its Effect, in «Phronesis», 21 (1976), pp. 146-156.

EFFETTO (effect; Wirkung; effet; efecto). – È il Effetto termine correlativo di causa e significa il prodotto o risultato di un processo causale. Il significato proprio di effetto subisce una gamma di variazioni in funzione della diversa concezione fondamentale della causalità, nei diversi sistemi, e in funzione dei diversi tipi di cause a cui viene riferito: p. es., altro è l’effetto formale di una forma, altro l’effetto della medesima forma considerata come causa efficiente. Gli scolastici hanno espresso con alcune formule rimaste famose le principali affermazioni sul rapporto causa-effetto, p. es.: «effectus assimilatur causae agenti»; «effectus proportionatur suae causae efficienti»; «causa est prior suo effectu» ecc. La nozione di effetto ha rilievo anche nella problematica morale, in relazione alle conseguenze effettuali delle azioni umane e alla loro imputabilità. G.M. Pozzo ➨ ATTO UMANO; CAUSA; CAUSALITÀ, TEORIE DELLA; CAUSALITÀ; CONSEGUENZA; EFFICIENZA / EFFETTIVITÀ; ETEROGENESI DEI FINI, TEORIA DELLA.

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Effettuale

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EFFETTUALE (effectual; tatsächlich; effectif; Effettuale efectual). – Sinonimo di effettivo, è termine proprio di Machiavelli, il quale nella descrizione degli eventi storici sceglie il criterio della «verità effettuale», in contrapposizione alla «immaginazione di essa»: gli eventi umani non sono cioè interpretati e giustificati in base a valori e principi morali o ideali, ma unicamente in base a ciò che di fatto accade (cfr. Il Principe, cap. 55). Red.

EFFICACE (efficacious; wirksam; efficace; eficaz). Efficace – Etimologicamente indica l’idea di potere, capacità e realtà di operare e produrre, in rapporto all’effetto. Secondo la tradizione scolastica, efficace si dice della causa in atto, che produce cioè di fatto un’azione e un eventuale effetto, che può dipendere dall’azione. La validità metafisica del concetto di efficace si fonda sui principi di finalità e di ragion sufficiente: «virtutes operativae quae in rebus inveniuntur, frustra essent rebus attributae, si per eas nihil operarentur. Quinimmo omnes res creatae viderentur quodammodo esse frustra, si propria operatione destituerentur: cum omnes res sit propter suam operationem» (Sum. theol. I, q. 105, art. 5; cfr. C. Gent. l. III, q. 69). Secondo la dottrina filosofica dell’occasionalismo ogni tipo di causalità efficace risale esclusivamente a Dio. Nel mondo operano semplici cause seconde che sono occasione dell’azione propriamente divina: solo Dio consente l’interazione fra sostanze eterogenee (anima e corpo). A. Pompei - F. Mazzini BIBL.: F. SELVAGGI, Causalità e indeterminismo, la problematica moderna alla luce della filosofia aristotelicotomista, Roma 1964; M. PAOLINELLI, Fisico-teologia e principio di ragion-sufficiente. Boyle, Maupertuis, Wolff, Kant, Milano 1971; A. PYLE, Malebranche, London 2003; D. MOREAU, Malebranche: une philosophie de l’expérience, Paris 2004; M. PRIAROLO, Visioni divine: la teoria della conoscenza di Malebranche fra Agostino e Descartes, Pisa 2004. ➨ AZIONE; CAUSA; CAUSA, TEORIE DELLA; DETERMINISMO FISICO; EFFETTO; FINALISMO; OCCASIONALISMO; RAGION SUFFICIENTE.

EFFICIENZA (efficiency; Wirksamkeit; efficienEfficienza ce; eficiencia). – Significa assenza di sprechi. Si verificano sprechi, se, da una determinata situazione, è possibile raggiungerne un’altra senza penalizzare alcuno o, qualora qualcuno 3258

sia penalizzato, i vantaggi del mutamento superino i danni, permettendone il risarcimento. L’efficienza può limitarsi alla dimensione produttiva. Nella letteratura economica e di etica pubblica è però usuale riferirsi all’efficienza intesa come raggiungimento del massimo benessere sociale. Si ha massimo benessere sociale quando non solo si realizza l’efficienza nella produzione, ma si produce anche ciò che gli individui desiderano. Il massimo benessere sociale può diversamente configurarsi. Il massimo può essere inteso nei termini unanimistici della prospettiva paretiana, secondo cui è efficiente qualsiasi situazione allontanandosi dalla quale qualcuno sarebbe effettivamente svantaggiato. Oppure, può essere inteso nella prospettiva della compensazione potenziale, come situazione in cui si realizzano i massimi benefici, a prescindere dal risarcimento effettivo dei danni. Diverse possono, pure, essere le accezioni di benessere. In linea di principio, per la moderna teoria economica, il benessere coincide con il soddisfacimento delle preferenze individuali, qualunque esse siano e qualsiasi sia l’ambito verso il quale si indirizzano, da quello dell’allocazione dei beni a quello della scelta delle regole collettive e della redistribuzione. Ciò nonostante, è assunto comune a molte analisi economiche fare coincidere le preferenze con gli interessi personali alla disponibilità di reddito e di ricchezza. Inoltre, l’ambito prediletto dell’efficienza resta quello allocativo e la redistribuzione, qualora considerata, si limita agli interventi a vantaggio di tutti, come nella prospettiva della redistribuzione paretoottimale. Il che significa escludere tutte le attività redistributive, dove i guadagni per gli uni comportino perdite per gli altri. In quest’ultimo caso, il criterio dell’efficienza non è in grado di esprimere alcuna valutazione, diventando necessari criteri alternativi di giustizia distributiva. Una volta fissati tali criteri, efficienza e giustizia distributiva potrebbero essere compatibili. Il requisito è che siano disponibili imposte e trasferimenti non distorsivi, ossia, non interferenti con le scelte individuali. Diversamente, si ingenererebbe il noto trade off tra tali valori. Le imposte correlate al reddito, ad esempio, distorcono le scelte individuali, inducendo a sostituire il lavoro con il riposo. Il risultato sarebbe la creazione di inefficienze, poiché ai costi relativi alla minore offerta di lavoro non si

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accompagnerebbe alcun beneficio in termini di gettito. Minore offerta di lavoro significa, infatti, perdite di benessere per i contribuenti, costretti a modificare le proprie scelte a seguito della coazione pubblica, perdite macro-economiche, a causa della ridotta produzione e perdite di gettito, a causa della ridotta base imponibile. Il trade off tra efficienza e giustizia distributiva è centrale nella teoria economica. Le analisi empiriche tendono però a circoscriverne l’entità, sottolineando il ruolo del disegno istituzionale. Inoltre, le perdite di benessere per i contribuenti potrebbero essere messe in discussione da un punto di vista etico: tali perdite esistono solo se si presuppone che le finalità dell’intervento pubblico non siano consensuali. Appunto, se si è costretti a modificare le scelte a seguito della coercizione pubblica. Diversamente, la modifica delle scelte deriverebbe dal tentativo opportunistico di rimuovere, scaricandoli su altri, i costi associati al raggiungimento delle finalità desiderate. Infine, un ultimo limite del criterio di efficienza è stato messo in luce dal dilemma di Amartya Sen del paretiano liberale, secondo cui potrebbe ingenerarsi anche un trade off tra la libertà di scelta di perseguire benessere e la difesa intrinseca della libertà. Quest’ultima, infatti, potrebbe non essere inclusa fra le preferenze individuali. E. Granaglia BIBL.: F. BATOR, The Simple Analytics of Welfare Maximization, in «American Economic Review», 47 (1957), pp. 22-59; F. CAFFÈ (a cura di), Saggi sulla moderna economia del benessere, Torino 1965; A. SEN, The Impossibility of a Paretian Liberal, in «Journal of Political Economy», 78 (1970), pp. 152-157; J. HICKS, Wealth and Welfare, Oxford 1981; D. HAUSMANN - M. MCPHERSON, Economic Analysis and Moral Philosophy, Cambridge 1993. ➨ PARETIANO LIBERALE.

EFFICIENTE, CAUSA: V. CAUSA EFFICIENTE. Efficiente EFFICIENZA / EFFETTIVITÀ (gr. aujtopoiEfficienza / effettività hv si" / poiouvmenon; lat. effectus - efficiency / effectiveness; Wirkungsgrad / Wirksamkeit; efficience / effectivité; eficiencia / efectividad). – Mentre l’efficienza è l’abilità di produrre l’effetto desiderato con il minimo di sforzo, spesa o spreco ed è dunque una proporzione tra lo sforzo impiegato e il risultato prodotto, l’effettività è più in

Efficienza / effettività generale il potere di produrre effetti, la qualità di essere. Se una causa è qualcosa dalla quale dipende il verificarsi di qualcos’altro, la relazione di dipendenza non è né solo logica, con simmetria tra cause e variabili, né solo temporale, non è insomma post hoc, ma è propter hoc e allora la causa è effettiva. L’effettività è dunque il termine di paragone per valutare se un effetto è stato raggiunto. Diverso il discorso dell’efficienza, che riguarda la valutazione dello sforzo impiegato. Nella medicina antica, si parla di effettività per indicare il successo relativo di medicine e terapie. Nel Fedone, Socrate sa che non deve far altro che «bere il veleno e camminare fino a che le gambe gli si facciano pesanti, poi coricarsi e aspettare che il veleno abbia effetto da sé (aujto poihvsei)» (117 a - b). Per i presocratici, l’ai[tion o l’ajrch' sono cause materiali, sono la kivnhsi" inerente alle cose stesse. Empedocle considera ad esempio amore e odio come effetti delle forze motrici nell’uomo (DK, B 17, 21-24) e Anassagora indica ogni moto come effetto del nou'" (DK, B 12, 10-14). Aristotele formula il principio di ragion sufficiente nelle prime righe degli Analitici primi, «tutti gli insegnamenti che implicano l’uso della ragione derivano da un sapere preesistente» (An. pr., 71 a 1-2). Nella Fisica, Aristotele spiega che ciò che agisce è causa rispetto a ciò che è prodotto: to; poiou'n tou' poiouvmenon (Phys., 194 b 32). Poivew significa però sia produrre sia agire, dove agire viene espresso anche da pravssw e Aristotele nell’Etica nicomachea distingue tra la poihvsi" in quanto effetto della tevcnh, che è un’attività il cui fine è altro da sé, come il tavolo lo è del lavoro del falegname, e la pravxi" in quanto effetto della frovnhsi", che è un’attività il cui fine è se stessa, come fare attenzione (Et. Nic., 1140 a 10; 1140 b 5). Anche ejrgavzomai (e i suoi derivati e[rgon, ejnevrgeia) designa la produzione di effetti. Nella Repubblica, Platone lo usa per indicare gli «effetti buoni e cattivi della guerra» (Resp., 373 e). Per l’efficienza, invece, i greci usano duvnami", potere, potenza. Nella Metafisica, Aristotele distingue ciò che è in potenza (dunatovn) da ciò che è in atto (ejnevrgeia), ad esempio chi ha gli occhi chiusi, ma ha il potere della vista e chi sta effettivamente vedendo (Metaph., 1048 a 37 - 1048 b 6). Al contrario della causalità, l’effettività non è ancora parte del lessico filosofico della latinità, anche se Cicerone usa efficio per realizzare, 3259

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Effluvium mostrare, provare; efficitur poi vale quanto «ne segue», ita efficitur, ut omne corpus mortale sit (cfr. De natura deorum, 3, 12, 30). Compare invece in Tommaso d’Aquino, che distingue la grazia che opera nell’anima «formaliter, secundum quod quaelibet forma facit esse in subjecto», così come la bianchezza ha come effetto l’esser bianco, dalla grazia che opera «effective, secundum quod habitus effective causat opus» in quanto opera un movimento dell’anima che effettivamente consegue un risultato (In II Sent., distinctio 26, q. 1, art. 5, resp. 5). Niccolò Machiavelli indica nella «verità effettuale» l’oggetto del lavoro dello storico e la distingue dalla «imaginazione di essa» (Il principe, cap. 15). Nella sua elaborazione della teoria aristotelica degli abiti Jacopo Zabarella lo usa per definire l’arte, «habitus cum recta ratione effectivus», rispetto alla prudenza, «habitus recta cum ratione activus» (De natura logicae, I, 2). Nella filosofia tedesca, effetto viene indicato da Wirkung, efficienza con Wirkungsgrad, effettività con Wirksamkeit. Causa ed effetto entrano a far parte della tavola kantiana delle categorie nella Critica della ragione pura (cfr. KrV A 80 / B 106). Il concetto di effettività viene tematizzato da Wilhelm von Humboldt nel saggio di filosofia politica redatto nel 1792 e dedicato ai limiti dell’azione dello stato, dove Wirksamkeit, appunto vale sia come effettività sia come azione, secondo i due significati del greco poivew (cfr. Ideen zu einem Versuch, die Grenzen der Wirksamkeit des Staats zu bestimmen, Breslau 1851). La categoria kantiana della realtà in quanto Wirklichkeit (cfr. KrV, A 218 / B 265-266), viene ripensata in termini aristotelici da Hegel, per il quale la Wirklichkeit non è la semplice realtà seguente alla posizione da parte di un altro (che sarebbe la Realität, con un termine di derivazione latina), ma è piuttosto ejnevrgeia, la totalità della realtà considerata come qualcosa che contiene in sé il potere di divenire effettivo (cfr. Scienza della logica, tr. it. di A. Moni, riveduta da C. Cesa, vol. II, Roma-Bari 20048, p. 595), distinzione ripresa da Giovanni Gentile per delineare il progresso dello spirito verso se stesso: il «fatto» rappresenta un che di esterno, astratto e vuoto e non può avere alcuna funzione fondativa, mentre l’«atto» è un che di interno, concreto, significativo ed è ciò su cui riposa l’intera costruzione dello spirito come unità di teoria e prassi (cfr. Teoria generale dello spirito come atto puro [1916], in Opere di 3260

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Giovanni Gentile, vol. 3, Firenze 19987, pp. 83 ss.). Nel § 15 di Sein und Zeit, Martin Heidegger interpreta i prodotti della poihvsi" come «semplice presenza (Vorhandenheit)» e quelli della pravxi" come «utilizzabilità (Zuhandenheit)». A sua volta Hannah Arendt, chiama produzione il risultato del lavoro e prassi il lavoro stesso, che è azione, «la sola attività che mette in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità» (Vita activa, Stuttgart 1960, tr. it. Vita activa, a cura di S. Finzi, Milano 1964, p. 7). R. Pozzo BIBL.: R. BERNASCONI, The Fate of the Distinction Between Praxis and Poiesis, in «Heidegger-Studies», 2 (1983), pp. 111-139; D. EMMETT, Introduction, in The Effectiveness of Causes, Albany (New York) 1985, pp. 1-5; R. POZZO, On the History of the Concept of Effectiveness, in G. AUSENDA (a cura di), On Effectiveness, Woodbridge (New York) 2003, pp. 13-26. ➨ AITIA; ATTUALITÀ; CAUSA; EFFETTO; EFFICIENTE, CAUSA; FARE; KINESIS; PHYSIS; POIESIS; PRAXIS; REALTÀ; SFORZO.

EFFLUVIUM (gr. rJeu'ma). – Termine che si riEffluvium scontra in Empedocle e con cui viene spiegata, in modo particolare, la sensazione. Effluvium è l’irradiamento continuo e costante degli elementi costitutivi di un composto, determinato da quella legge di affinità e di adattamento reciproco per cui il simile tende al simile; l’effluvium penetra nei pori dei composti, e attraverso questi avviene il contatto degli elementi e quindi, nella sensazione, la conoscenza (cfr. Plutarco, Quaestiones naturales, 19, 3; Aristotele, Gen. et corr., I, 8, 324 b 26; Teofrasto, De sensu, 12, in H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di W. Kranz, Berlin 1961-64, 31 A 86). A. Tognolo

EGEMONIA (hJgemoniva «autorità di condurEgemonia re», «condotta», «guida» – hegemony; Hegemonie; hégémonie; hegemonía). – Oltre il significato metafisico, il termine ha assunto un significato tecnico prima nella sua accezione politicomilitare greca e oggi nella terminologia marxista. L’egemonia corrisponde al latino imperium in opposizione al dominatus o dominatio (ajrchv), è cioè nell’ambito della polis la potestà in opposizione alla tirannide; nei rapporti fra diverse città è la forma di prevalenza di una polis in se-

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no a una lega militare, nella quale essa, rispettando l’autonomia interna delle città associate (il novmo" è un istituto riguardante essenzialmente la singola comunità politica), ha però la direzione esclusiva della guerra e degli affari della lega con altri stati: tale è la situazione di Atene all’inizio della Lega delio-attica (cfr. A. Ferrabino, L’impero ateniese, Torino 1927). Nella storia romana una situazione analoga è quella di Roma rispetto alle «colonie latine» del secolo IV-III. Il termine ha oggi un significato politico non tecnico ed equivale in genere a predominio politico-economico, di fatto esercitato da uno stato su altri che di diritto sono indipendenti; si ricollega a imperialismo. Il concetto di egemonia nella problematica marxista è stato teorizzato soprattutto da Lenin e da Gramsci allo scopo di accentuare l’importanza dell’elemento cosciente e volontario nella dialettica storica e, conseguentemente, di mostrare, contro l’interpretazione deterministica del materialismo storico, l’importanza dell’attività del partito per la realizzazione della società socialista. II termine egemonia, infatti, indica la direzione della classe operaia, impersonata dal partito politico, esercitata sulle altre classi dei contadini e degli intellettuali. Questa direzione dovrebbe essere basata soprattutto sul consenso e non sulla forza, sulla collaborazione e non sulla costrizione. Il proletariato, infatti, solo rendendosi egemone di tutte le forze sociali potenzialmente rivoluzionarie, potrà instaurare la società senza classi: questa sorgerà così soprattutto per l’azione politica del partito e non tanto per le contraddizioni interne dell’economia. Proprio partendo da questo concetto, sia Lenin sia Gramsci hanno sottolineato l’importanza dell’ideologia e degli intellettuali per il movimento socialista: solo questi infatti possono elaborare quella concezione del mondo e quella coscienza storico-sociale, che permettono una più facile direzione politica delle masse, sottraendole alle remore della tradizione e all’influsso del passato. N. Mattecuci BIBL.: H. TRIEPEL, Die Hegemonie, Stuttgart 1938; H. NEUBERT, Zur Machtfrage in der marxistischen Theorie. Der Beitrag Antonio Gramscis, Berlin 1994; E. LACLAU C. MOUFFE, Hegemony and socialist Strategy. Towards a radical democratic Politics, London - New York 20012. ➨ EGEMONICO; IMPERO.

Egemonico EGEMONICO (gr. hJgemonikov" - hegemonic; Egemonico Hegemonikon; hégémonique; hegemónico). – È nella filosofia greca il «principio direttivo», postulato fin dai presocratici sotto due aspetti: a) principio direttivo del mondo, o identificato con la divinità o visto come direttamente proveniente da questa; b) principio direttivo delle attività umane, e come tale identificato con la ragione e localizzato in un centro fisico e psichico del corpo. La prima postulazione di un hJgemonikov" sembra essere stata quella del pitagorismo: Filolao lo pone nel fuoco centrale: to; hJgemoniko;n ejn tw'/ mesaitavtw/ puriv (H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di W. Kranz, Berlin 1961-64, 44 A 17), mentre hJgemwvn è anche il dieci (B 11) e, secondo un’incerta testimonianza, anche il sette (B 20). La «guida» come principio psichico è pienamente formulata in Platone, in cui però sui derivati di hJgouvmai prevalgano altri termini fra cui a[rcw. La gerarchia da lui posta nei tre principi psichici è appunto gerarchia direttiva: l’anima razionale esercita la hJgemoniva, la virtù del governare, e ad essa si sottopone sia l’anima volitiva con l’ajndreiva, cioè con l’accettare i dati razionali, sia l’anima concupiscente, essenzialmente con la swfrosuvnh, cioè con la piena sottomissione alla ragione (Resp., IV, 430 b ss., 442 c). La giustizia, il complesso delle virtù, regola tutti questi rapporti (ibi, 433 a ss.). Analogamente nello stato il comando spetta ai sofoiv, che da questa loro mansione prendono il nome di a[rconte" (op. cit., III, 412 b). Solo nello stoicismo postzenoniano (in Zenone il termine non ha ancora un preciso senso tecnico) hJgemonikov" ha un pieno valore filosofico. Nel mondo esso è il principio direttivo, identificato con uno dei due elementi dell’anima del mondo, o con il fuoco (per Cleante il sole: H. von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, I, Leipzig 1903, p. 112) o con l’aria (come per Crisippo e Posidonio: ibi, II, p. 194; cfr. Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, VII, 139), in qualche tardo stoico anche con la terra, come in Archedemo di Tarso (: H. von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, I, Leipzig 1903, III, p. 264). Analogamente nell’anima esso è l’io, il principio unificatore, una delle otto parti dell’anima, guida delle altre (i cinque sensi, la voce e il principio di generazione) che operano nei loro organi particolari (ibi, II, pp. 226 ss.). Da questo procede inoltre il complesso dell’esperien3261

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Egesia di Cirene za e della prolessi e, al di sopra di queste, il lovgo", la piena ragione che approfondisce i dati sensibili (ibi, II, pp. 21 ss.). Infine anche le virtù e le passioni sono determinate dai suoi giudizi (ibi, III, pp. 75 e 110 ss.). Quanto alla sua sede, i più la pongono nel petto (ibi, III, p. 217). Nell’ulteriore svolgimento dello stoicismo l’hJgemonikov" fu sempre visto in funzione di guida dell’anima, e come tale partecipò a tutte le lievi oscillazioni che si ebbero tra i filosofi sulle funzioni e particolarità di questa. G. Garuti BIBL.: teorie pitagoriche: per l’hJgemonikov" nel fuoco, cfr. V. CAPPARELLI, La sapienza di Pitagora, II, Padova 1945, pp. 724 ss.; A. MADDALENA, I Pitagorici, Bari 1954, pp. 180-181, che sostiene l’attribuzione di detta dottrina a Filolao; per il dieci e il sette: A. MADDALENA, I Pitagorici, Bari 1954, rispettivamente pp. 175 ss. e 198 ss.; per Platone L. STEFANINI, Platone, Padova 1932-35 2 voll. (19492): esposizione schematica in vol. I, pp. 296-297; v. ancora II, p. 37 ecc.; v. inoltre: K. HILDEBRANDT, Platone, Torino 1947, pp. 276-277. Stoicismo: Zenone: F. ADORNO, Sul significato del termine hJgemonikov" in Zenone, in «La parola del passato», 1959, pp. 26-41; M. POHLENZ, Die Stoa, I, Göttingen 19643, pp. 83, 95 ss., tr. it. a cura di O. De Gregorio, Milano 2005; sulla terra come egemonico in N. FESTA, I frammenti degli Stoici antichi, II, Bari 1935, pp. 118-119. Nell’uomo: esposizione chiara in G. MANCINI, L’etica stoica da Zenone a Crisippo, Padova 1940, pp. 131 ss.; per l’impostazione iniziale e la storia particolareggiata del concetto M. POHLENZ, Die Stoa, I, Göttingen 19643, I, pp. 54 ss., 88 ss., 143 ss. e passim.

EGESIA CIRENE (ÔHghsiva"). – Filosofo Egesia diDICirene tradizionalmente considerato appartenente alla scuola cirenaica, vissuto tra il sec. IV e il sec. III a. C. Per le sue idee pessimistiche, che avrebbero spinto molti dei suoi ascoltatori al suicidio, fu soprannominato «persuasore di morte» (Peisiqavnato") e, secondo la tradizione, sarebbe stato dal re Tolomeo I Soter diffidato a proseguire il suo insegnamento. Gli viene attribuito un libro intitolato «Colui che si lascia morire di fame» (´Apokarterw'n), nel quale il protagonista, sul punto di morire volontariamente, salvato dagli amici, spiega ad essi i motivi della sua risoluzione, facendo un lungo elenco dei mali che affliggono l’umana esistenza. Secondo Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, II, 85) fu iniziatore di una delle tre correnti in cui la scuola cirenaica si divise nel sec. III, quasi certamente anche sotto la spinta di una 3262

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polemica forte con gli epicurei, ma senza che per questo lo si debba considerare come l’iniziatore di una sua scuola autonoma, i cui seguaci vengono costantemente chiamati egesiaci. Il punto di partenza del suo pensiero è costituito dalle premesse cirenaiche sia in gnoseologia che in etica. Sennonché, quanto alla prima, egli negava che i sensi potessero mai dare una conoscenza esatta e, quanto alla seconda, dall’assunto che il bene e il male fossero rispettivamente da riporre nel piacere e nel dolore, egli ricavava la sua conclusione tipicamente pessimistica, unita tuttavia a una sorta di egualitarismo sociale, non lontano da posizioni ciniche. Piacere e dolore infatti non corrispondono a situazioni determinate e oggettive né seguono come effetti prevedibili dalle medesime cause, ma hanno una natura relativa e instabile, dipendendo soprattutto il piacere dalla rarità e dalla novità e il dolore dai loro contrari (dove è abbozzata una teoria del dolore come noia). Né essi hanno relazione alcuna con condizioni stabili dell’esistenza, come possono essere la ricchezza, la nobiltà, la libertà e l’onore da una parte e la povertà, la condizione umile, la schiavitù e l’ignominia dall’altra. A ciò si aggiunge il potere della fortuna che così spesso delude le umane speranze. Ricondotto, a questo modo, il piacere corporeo a qualcosa di incerto e di fortuito, incapace di essere sottomesso a una regola che possa valere per l’arte del vivere, nemmeno si può trovare conforto, come voleva Anniceri, nel godimento dell’animo, sia perché in esso sempre si riflettono i dolori del corpo, sia perché i legami affettivi si risolvono in realtà in semplici rapporti di interesse. Essendo dunque impossibile conseguire la felicità, il «fine» non può che essere negativo, non tanto ricerca del bene, quanto fuga dal male. Perciò la vita non è di per sé un bene, come stoltamente ritiene l’uomo comune, ma qualcosa di indifferente che il saggio, a seconda delle circostanze, accetta o rifiuta. Le stesse posizioni pessimistiche che sfociavano ad esempio nella considerazione dell’amicizia, della riconoscenza, della benevolenza quali valori meramente relativi, inducevano Egesia ad assumere un atteggiamento di indulgenza di fronte all’errore, ritenuto sempre involontario e perciò da rimuovere non con l’odio ma con l’insegnamento. D. Pesce - E. Spinelli

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Egidi

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BIBL.: fonti: G. GIANNANTONI (a cura di), Socratis et Socraticorum Reliquiae, Napoli 1990, IV, F 1-7; G. GIANNANTONI, I Cirenaici, Firenze 1958; E. MANNEBACH, Aristippi et Cyrenaicorum fragmenta, Leiden-Köln 1961. Su Egesia di Cirene: J.C. MURRAY, An Ancient pessimist, in «Philosophical Review», 2 (1893), pp. 24-34; Socratis et Socraticorum Reliquiae, cit., vol. IV, p. 189, n. 1; E. SPINELLI, P. Köln 205: il Socrate di Egesia?, in «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», 91 (1992), pp. 10-14; K. DÖRING, Sokrates, die Sokratiker und die von ihnen begründeten Traditionen, in H. FLASHAR (a cura di), Grundriss der Geschichte der Philosophie: Die Philosophie der Antike, vol. 2/1: SophistikSokrates-Sokratik-Mathematik-Medizin, Basel 1998, pp. 257-258; R. GOULET, s. v., in Dictionnaire des philosophes antiques, a cura di R. Goulet, vol. III, Paris 2000, pp. 528-529.

EGESINO PERGAMO (ÔHghsivno"). – FiEgesino diDI Pergamo losofo della media Accademia, visse tra il sec. III e il sec. II a. C. Di lui non abbiamo notizie sicuramente attendibili: forse fu scolarca dopo Arcesilao, Lacide, Telecle ed Evandro e immediatamente prima di Carneade (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IV, 60), che probabilmente lo ebbe a maestro. È quasi sicuramente da identificarsi con l’Egesilao ricordato da Clemente Alessandrino (Stromata, I, 14, 63). G.M. Pozzo BIBL.: H. VON ARNIM, s. v., in A. PAULY - G. WISSOWA, Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, vol. VII, Stuttgart 1893-1965, coI. 2610; DAEBRITZ, Hegesilaos, in A. PAULY - G. WISSOWA, Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, vol. VII, Stuttgart 1893-1965, col. 2609; H.J. METTE, Weitere Akademiker heute (Fortsetzung von Lustr. 26-794). Von Lakydes bis zu Kleitomachos, «Lustrum», 27 (1985), p. 52.

EGGERSDORFER, FRANZ XAVER. – PedagoEggersdorfer gista, sacerdote, n. a Pörndorf (Baviera) il 22 febbr. 1879, m. a Passau il 2 magg. 1958. Fu uno degli editori dello Handbuch der Erziehungswissenschaft (München 1928-38, 11 voll.) e professore di Pedagogia a Passau. Lo Jugendbildung (che fa parte dello Handbuch) è classico per il pensiero pedagogico cattolico. Per Eggersdorfer la pedagogia è scienza normativa sul piano di una paedagogia perennis, metodologicamente adeguantesi alle esigenze del tempo e della storia. Oltre agli studi pedagogici, nei quali è riconoscibile l’influsso di O. Willmann, Eggersdorfer si interessò attivamente di politica scolastica. F. Schlederer

BIBL.: Das Ziel der Erziehung, Münster 1925; Vom inneren Aufbau aller Bildung, in «Bayerisches Bildungswesen», 1 (1927), pp. 139 ss.; Jugendbildung, «Handbuch der Erziehungswissenschaft, I. Teil: Allgemeine Erziehungslehre», vol. III, München 19566 (1928); Die «Pädagogische Hochschule» als Stätte der künftigen Lehrerbildung, Donauwörth 1950; Jugenderziehung, München 1962. Su Eggersdorfer: R. LOCHNEE, Deutsche Erziehungswissenschaft, Meisenheim-Glan 1963, p. 54; L. BOPP, s. v., in AA.VV., Dizionario enciclopedico di pedagogia, Torino 1969, vol. II, pp. 86-87; R. WEINSCHENK, F.X. Eggersdorfer (1879 - 1958) und sein System der allgemeinen Erziehungslehre: biographisch-systematische Untersuchung über Leben, Wirken und die grundlegenden Fragen seiner wissenschaftlichen Pädagogik, Paderborn 1972; A. PAULUS, Festschrift zur Einweihung der Baumassnahmen an der Franz-Xaver Eggersdorfer-Schule und an den Wirtschaftsgebäuden, Vilshofen 2002.

EGIDI, MARIA ROSARIA. – N. ad Ascoli Piceno Egidi il 15 nov. 1932. Laureata in filosofia nel 1956 all’università di Roma e libera docente in Filosofia della Scienza nel 1964, è professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università Roma Tre. I suoi studi si sono inizialmente orientati verso la logica filosofica di G. Frege, del quale la sua Ontologia e conoscenza matematica (Firenze 1963) rappresenta la prima monografia critica pubblicata in Italia. Nel pensatore di Jena ha ravvisato la convergenza di due filoni della speculazione classica tedesca, risalenti a Leibniz e Kant, e la rielaborazione nella sua «ideografia» dell’ideale della mathesis universalis. La ricerca di Egidi si è poi concentrata sui problemi del linguaggio scientifico, nel tentativo, da un lato, di legare l’approccio epistemologico del neoempirismo con quello semantico e, dall’altro, di delineare una concezione antiriduzionistica della scienza sulla scorta di figure quali W. Sellars, S. Toulmin, P. Feyerabend e T. Kuhn. La reazione nei confronti della concezione oggettivistica del sapere scientifico doveva modellare gli studi successivi di Egidi incentrati, dapprima, sul dibattito che tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso mirava a una valutazione globale del relativismo epistemologico e, in seguito, sul pensiero del «secondo» Wittgenstein, criticamente esaminato in particolare sulla base degli scritti intorno alla filosofia della psicologia. Vari studi ha dedicato a A. Marty, G. Bergmann, G.E. von 3263

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Egidio di Medonta Wright, D. Davidson e a temi della filosofia analitica del linguaggio e dell’azione. M. Dell’Utri BIBL.: altre opere: Studi di logica e filosofia della scienza, Roma 1971; Il linguaggio delle teorie scientifiche, Napoli 1979; M.R. EGIDI (a cura di), Wittgenstein. Momenti di una critica del sapere, Napoli 1983; M.R. EGIDI (a cura di), La svolta relativistica nell’epistemologia contemporanea, Milano 1988; A. Marty. Eine Sprachphilosophie in der Nachfolge Brentanos, Amsterdam 1992; M.R. EGIDI (a cura di), Wittgenstein. Mind and Language, Dordrecht 1995; M.R. EGIDI (a cura di), In Search of a New Humanism, Dordrecht 1999.

EGIDIO Egidio di Medonta(anche Guido) DI MEDONTA. – Maestro di teologia, agostiniano del XIV secolo, oriundo parigino, m. dopo il 1364. Insegnò nello Studio generale di Parigi. Pochissimo sappiamo di lui; nel 1352 ottiene di leggere le Sentenze durante il periodo estivo, come baccelliere; nel 1354 è chiamato dall’università di Parigi a revocare alcune proposizioni erronee da lui insegnate nella scuola agostiniana. Ci resta una sua lettera a Nicola d’Autrecourt (ed. a cura di J.C. Lappe, Nicolaus von Autrecourt: Sein Leben, seine Philosophie, seine Schriften, Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, vol. VI, 2, Münster i.W. 1908, pp. 1-31 [pp.14-24; risposta, pp. 24-30]) dove ne combatte le teorie principali intorno alla causalità e al problema della conoscenza. C. Testore BIBL.: H. DENIFLE - E. CHATELAIN, Chartularium Universitatis Parisiensis, Paris 1894, vol. III, nn. 1207, 1218 e nota p. 122 (ripr. Bruxelles 1964); P. FÉRET, La Faculté de théologie de Paris et ses docteurs les plus célèbres; Moyen-âge, Bruxelles 1896, vol. III, pp. 182-184.

EGIDIO Egidio da Viterbo(ANTONINI) DA VITERBO. – Oratore, filosofo, teologo e storico, n. a Viterbo nel 1469, m. a Roma nel 1532. Sembra errato l’appellativo Canisius, da una trascrizione di Caninius, in riferimento al paese natale della madre. Dell’ordine degli Agostiniani, studia a Padova, ove pubblica, oltre a tre inediti di Egidio Romano, le due Quaestiones de materia celi et de intellectu possibili contra Averroim insieme con i Commentaria in VIII libros Physicorum Aristotelis (1493). Allievo di Nifo, incontra G. Pico, del quale apprezza la polemica antiastrologica e con il quale discute del significato della cabala. Conosce Ficino e nel 1497 consegue il magistero in teologia a Roma, discutendo tesi pla3264

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toniche. A Napoli, affiliato all’Accademia Pontaniana, è stimato da Sannazzaro e dallo stesso Pontano, che lo fa protagonista del suo Aegidius; in seguito si stabilisce presso la Congregazione degli Osservanti di Lecceto, vicino a Siena, per dedicarsi alla vita ascetica. Del 1506 è l’orazione De Ecclesiae incremento, in cui interpreta in senso provvidenzialista le recenti conquiste dei portoghesi. Nominato predicatore apostolico da Giulio II, nel 1507 diviene priore dell’ordine. In uno scritto di questo periodo mette in rapporto la dignità dell’uomo con l’incarnazione di Dio; degli stessi anni sono le Sententiae ad mentem Platonis, sull’opera di Lombardo, che sviluppano l’idea della continuità tra platonismo e cristianesimo. Pronuncia l’orazione inaugurale al concilio Lateranense V; tra il 1513 e il 1518, scrive la Historia viginti saeculorum, forse sotto l’influenza gioachimita, una «teologia della storia» che esalta i valori di unione e di concordia; del 1517 sono il Libellus de litteris hebraicis e la Schechina, in cui, entro un quadro cristiano, tratta delle lettere e dei numeri e dei nomi divini. Eletto cardinale nel 1521, nell’ultimo periodo si dedica sistematicamente allo studio delle dottrine ebraiche e cabalistiche. M. Laffranchi BIBL.: In I Sententiarum ad mentem Platonis, ed. parziale a cura di E. MASSA, I fondamenti metafisici della «dignitas hominis» e testi inediti di Egidio da Viterbo, Torino 1954; Scechina e Libellus de litteris hebraicis, ed. a cura di F. Secret, Roma 1959, 2 voll.; De Ecclesiae incremento, ed. a cura di J.W. O’Malley, in «Traditio», 25 (1969), pp. 265-338; La dignità dell’uomo, l’amore di Dio e il destino di Roma, ed. a cura di J. W. O’Malley, in «Viator», 3 (1972), pp. 389-416; Orazione inaugurale al V Concilio Lateranense, ed. a cura di C. O’Reilly, in «Augustiniana», 27 (1977), pp. 166204; Lettere familiari, ed. a cura di A.M. Voci Roth, Roma 1990, 2 voll. Su Egidio da Viterbo: E. MASSA, Egidio da Viterbo, Machiavelli, Lutero e il pessimismo cristiano, in «Archivio di Filosofia», 18 (1949), pp. 75-123; M. REEVES, Joachimist Espectations in the Order of Augustinian Hermits, in «Recherches de Théologie Ancienne et Médiévale», 25 (1958), pp. 111-141; F. SECRET, Le symbolisme de la Kabbale chrétienne dans la «Scechina» de Egidio de Viterbo, in «Archivio di Filosofia», 27 (1958), pp. 131-154; G. ERNST - S. FOÀ, Egidio da Viterbo, in Dizionario biografico degli italiani, Roma 1960 ss., vol. XLII, pp. 341-353; J.W. O’MALLEY, Giles of Viterbo on Church and Reform, Leiden 1968; F.X. MARTIN, The Writings of Giles of Viterbo, in «Augusti-

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niana», 19 (1979), pp. 141-193; F.X. MARTIN, Egidio da Viterbo, 1469-1532: Bibliography, 1510-1982, in «Biblioteca e Società», 4 (1982), pp. 45-52; AAVV., Egidio da Viterbo O. S. A. e il suo tempo, «Atti del V Convegno dell’Istituto storico agostiniano, RomaViterbo, 20-23 ottobre 1982», Studia Augustiniana historica, vol. IX, Roma 1983; D. GIONTA, Scholastik und Platonismus im Prolog zum Sentenzenkommentar des Aegidius von Viterbo, in «Augustiniana», 39 (1989), pp. 132-153; J. MONFASANI, Hermes Trismegistus, Rome and the Myth of Europa: an Unknown Text of Giles of Viterbo, in «Viator», 22 (1991), pp. 311-342; F. TATEO, Egidio da Viterbo fra Sant’Agostino e Giovanni Pontano, Roma 2000.

EGIDIO LESSINES (de Lessinia). – TomiEgidio diDILessines sta, domenicano, n. a Lessines (Hainaut) verso il 1230, m. nel 1304. Studente a Colonia (probabilmente) e a San Giacomo di Parigi, dove lo troviamo insegnante di teologia con il grado di baccelliere. Egidio di Lessines è uno dei primi domenicani che cerca di penetrare e sviluppare le virtualità del tomismo e di difenderlo dagli attacchi degli oppositori: difesa che si manifesta nella questione dell’unità della forma rivendicata da Egidio contro il pluralismo di Roberto Kilwardby. Il suo trattato De unitate formae (1278) occupa uno dei primi posti nella letteratura di tale controversia (ed. a cura di M. De Wulf, Les philosophes belges, vol. I, Louvain 1901). Discepolo e amico di Alberto Magno, con cui ha negli anni 1270-77 rapporto epistolare a causa delle opposizioni incontrate dal tomismo, si interessa anche a questioni scientifiche in trattati come: De essentia motu et significatione cometarum (ed. a cura di L. Thorndike, in Latin Treatises on Comets between 1238 and 1368 A. D., Chicago 1950, pp. 103-184); De geometria; De crepusculis; De concordia temporum. Un suo trattato De usuris è stato attribuito a Tommaso e così pubblicato. Altre opere teologiche: Commentarium in I et II Sententiarum; Quaestiones theologicae; De immediata Dei visione. B. D’Amore BIBL.: P. GLORIEUX, Répertoire des maîtres en théologie de Paris au XIIIe siècle, Paris 1933; F.J. ROENSCH, Early Thomistic School, Dubuque 1964, pp. 89-92, 266-275; J-P. TORRELL, Le savoir théologique chez les premiers thomistes, in «Reveu Thomiste», 97 (1997), pp. 9-30.

EGIDIO ORLÉANS (Aegidius AurelianenEgidio diDIOrléans sis). – Maestro alla Facoltà delle Arti di Parigi, è autore di commenti al De generatione e alla Physica (entrambi conservati, come sembra, in

Egidio di Orléans duplice redazione), e all’Ethica Nicomachea. Gli vengono anche attribuiti, ma con maggiore incertezza, commenti al De anima, al De progressu animalium, alla Metaphysica, ai Meteorologica. L’immagine tradizionale che fa di Egidio di Orléans uno dei più radicali esponenti della tendenza averroista dovrebbe essere, secondo Z. Kuksewicz, parzialmente rivista e qualificata: in effetti, solo nella seconda versione del commento alla Fisica (conservata nel ms. Padova, Anton. 380) egli sembra allinearsi su alcuni dei capisaldi dottrinali del cosiddetto «averroismo latino» (eternità del mondo, rifiuto della creazione ex nihilo, negazione della potenza infinita di Dio, necessitarismo), ammettendo una rigorosa separazione disciplinare tra l’ambito della filosofia (l’ordine naturale) e quello della teologia (l’ordine soprannaturale). Poiché tale versione è relativamente tarda (ammesso che l’attribuzione, su cui esistono ancora dubbi, sia effettivamente fondata), l’attitudine di Egidio di Orléans sembrerebbe così caratterizzata da una progressiva evoluzione da un aristotelismo «moderato» («semi-averroista», secondo la definizione di Kuksewicz) a uno più marcatamente averroista. Anche nel commento all’Etica, tuttavia, egli sembra adottare una posizione «averroista» per quel che riguarda l’interpretazione della felicità terrena, che viene fatta dipendere esclusivamente dall’agire umano e non dall’intervento divino (per non introdurre in Dio una forma di mutabilità). P. Porro BIBL.: Quaestiones super De generatione et corruptione, ed. a cura di Z. Kuksewicz, Amsterdam-Philadelphia 1993. Su Egidio di Orléans: R.-A. GAUTHIER, Trois commentaires «averroïstes» sur l’Éthique à Nicomaque, in «Archives d’Histoire Doctrinale et Littéraire du Moyen Âge», 16 (1947-48), pp. 187-336; Z. KUKSEWICZ, Gilles d’Orléans était-il averroïste?, in «Revue Philosophique de Louvain», 88 (1990), pp. 5-24; Z. KUKSEWICZ, Ein unbekanntes Werk von Aegidius von Orleans, «Quaestiones super Physicam», in «Mediaevalia Philosophica Polonorum», 31 (1992), pp. 3-21; Z. KUKSEWICZ, Le problème de l’averroïsme de Gilles d’Orléans encore une fois, in «Medioevo», 20 (1994), pp. 131178; Z. KUKSEWICZ, Une seconde version des «Quaestiones super libros Physicorum» de Gilles d’Orléans retrouvée, in «Mediaevalia Philosophica Polonorum», 32 (1995), pp. 3-32; Z. KUKSEWICZ, Quelques problèmes théologiques chez Gilles d’Orléans et la censure du 1277, in «Bochumer Philosophisches Jahrbuch für Antike und Mittelalter», 3 (1998), pp. 87-98; Z. KUK-

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Egidio Romano SEWICZ,

La foi et la raison chez Gilles d’Orléans, philosophe parisien du XIIIe siècle, in J.A. AERTSEN - A. SPEER, Geistesleben im 13. Jahrhundert, «Miscellanea mediaevalia», vol. XXVII, Berlin - New York 2000, pp. 252-261.

EGIDIO ROMANO (Aegidius Romanus). – FiEgidio Romano losofo e teologo n. a Roma tra il 1243 e il 1247 e m. ad Avignone il 22 dic. 1316. Entra nell’ordine degli Eremitani di sant’Agostino e studia a Parigi, dove forse ha anche modo di seguire Tommaso nel corso della sua seconda reggenza parigina tra il 1268 e il 1272. A questo primo periodo (comunque anteriormente al 1270) viene fatta risalire una compilazione di errori dei filosofi (Errores philosophorum) sulla cui autenticità si nutre tuttavia ancora qualche dubbio. Agli inizi degli anni settanta commenta le Sentenze di Pietro Lombardo, ultimando tuttavia l’Ordinatio del solo I libro (1271-73). Nel 1277 è coinvolto nella campagna di censure avviata dal vescovo di Parigi Tempier e dal legato pontificio Simone di Brion. Gli vengono contestati 51 articoli estratti dal suo commento al I libro delle Sentenze: Egidio tenta di difendersi (la sua Apologia è stata conservata in alcune annotazioni di Goffredo di Fontaines, ed è stata edita da R. Wielockx, Aegidii Romani Opera Omnia, Corpus Philosophorum Medii Aevi. Testi e studi, vol. IV, Firenze 1985, vol. III1, pp. 49-59), ma è costretto a interrompere la sua carriera e a lasciare Parigi. Probabilmente in reazione alla condanna Egidio compone il Contra gradus et pluralitatem formarum, in cui afferma che la tesi dell’unicità della forma sostanziale nell’uomo non solo non è incompatibile con la fede, ma è anzi l’unica realmente conforme ad essa. Una tradizione non suffragata da riscontri lo vuole quindi precettore di Filippo il Bello: è invece certo che abbia composto su sua richiesta, tra il 1277 e il 1282, il De regimine principum, un trattato in 3 libri destinato a una larghissima diffusione in cui Egidio non solo traccia un quadro dell’educazione da riservare ai nobili (secondo il genere degli specula principum), ma propone anche un efficace compendio della morale e della politica aristotelica a uso dei laici imperniato fondamentalmente sulla virtù suprema della prudentia. Per altro, egli introduce qui anche modifiche non del tutto irrilevanti al quadro di riferimento aristotelico, sostenendo ad esempio la superiorità assoluta del sistema monarchico nel3266

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la forma ereditaria, e la relativa indipendenza del sovrano rispetto alla legge positiva. Nel 1281 partecipa al Capitolo generale degli agostiniani a Padova, occasione nella quale disputa alcune questioni (il cosiddetto Quodlibet padovano). Riprende la carriera universitaria nel 1285, quando su richiesta di papa Onorio IV, le sue dottrine furono riesaminate da una commissione di teologi nominata dal nuovo vescovo di Parigi Ranulfo de la Houblonnière. Divenuto così infine il primo maestro di teologia del suo ordine, inizia a insegnare verosimilmente già nel 1285-1286, ed è reggente fino al 1291. Tra i frutti più importanti della sua attività in questo periodo figurano 6 Quodlibeta e le Quaestiones de esse et essentia. Nel 1287, nel capitolo generale di Firenze, è proclamato già in vita dottore ufficiale del suo ordine, con un’apertura di credito in qualche modo singolare: tutti gli agostiniani sono tenuti a far riferimento alla sua autorità non solo per gli scritti già editi, ma anche per quelli che sarebbero apparsi successivamente. Agli inizi del 1292 è eletto priore generale degli agostiniani, e nel 1295 è nominato da Bonifacio VIII arcivescovo di Bourges. Si schiera dalla parte di Bonifacio VIII sia nel corso della controversia relativa alla legittimità della sua elezione dopo la rinuncia di Celestino V, sia nel successivo conflitto con Filippo il Bello. Il De ecclesiastica potestate, composto nel 1301-02, è forse il documento teoreticamente più importante del partito teocratico, da cui può essere fatta dipendere anche la nota bolla di Bonifacio VIII Unam sanctam. Egidio si spinge qui ad affermare non solo che la supremazia assoluta del pontefice sull’intera cristianità si estende anche alla sfera temporale, ma anche che l’origine dei regni, se non si colloca nell’ambito del sacerdotium, è da considerarsi illegittima. E poiché anche il possesso si fonda sulla comunione della chiesa, coloro che sono esclusi da quest’ultima non sono neppure legittimati a possedere bene temporali. È tuttavia probabile che, con il venir meno delle mire di Bonifacio VIII, Egidio abbia cercato di rientrare in rapporto con il potere civile, e in particolare con Roberto d’Angiò, a cui è dedicata l’Ordinatio del suo commento al II libro delle Sentenze (1309). Partecipa quindi al Concilio di Vienne (1311-12) schierandosi a favore della soppressione dell’ordine dei Templari e di ogni altra forma di esenzione (salvo quelle relative agli ordini mendicanti) dalla giurisdi-

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zione vescovile (temi a cui è dedicato il Contra exemptos). Svolge anche un ruolo nel procedimento postumo contro Pietro di Giovanni Olivi (1309-1312), compilando una lista di 24 errori (l’Impugnatio doctrinae Petri Iohannis Olivi) alcuni dei quali saranno condannati proprio in occasione del Concilio di Vienne. Muore ad Avignone, presso la Curia. Dal punto di vista strettamente dottrinale, la fama di Egidio Romano è legata soprattutto alla radicalizzazione della distinzione reale tra essere ed essenza, che lo contrappone in una lunga polemica con Enrico di Gand, sostenitore invece della distinzione intenzionale. Andando oltre Tommaso d’Aquino, Egidio concepisce essenza ed essere come due vere e proprie res: solo ponendo l’essere come qualcosa di assolutamente distinto ed estrinseco rispetto alle essenze delle creature si può mostrare e mantenere la contingenza di queste ultime, il fatto cioè che non esistano da sempre necessariamente e che possano anche essere annichilite. Questa soluzione affonda le sue radici da una parte in una concezione ultrarealistica di matrice neoplatonica (l’essere è una sorta di metaforma, di cui partecipano, come soggetti potenziali, le essenze già in qualche modo costituite come res), dall’altra nell’esigenza di ovviare alle critiche che Enrico di Gand aveva mosso alla dottrina tomista della creazione: identificando strettamente creazione e conservazione, e rifiutandosi di concepire la creazione come un mutamento, Tommaso avrebbe reso la creazione del tutto simile al caso delle produzioni trinitarie (generazione e spirazione). La dottrina della distinzione reale ut res ad rem sembra essere elaborata da Egidio proprio per dar conto del modo in cui l’azione uniforme di Dio possa essere recepita in modi diversi: ogni creatura riceve l’essere in una essenza differente che limita e diversifica la donazione divina. Questo modello comporta tuttavia uno scarto anche rispetto alla dottrina originaria di Tommaso: la creazione infatti non è più concepita, soprattutto nelle Quaestiones de esse et essentia, come assolutamente identica all’essenza divina (come appunto in Tommaso), ma come un’azione transitiva che, a differenza delle produzioni trinitarie, presuppone un soggetto potenziale esterno che funga da ricettore (le essenze creaturali). Su molti altri punti Egidio si mantiene abbastanza vicino, sia pure con qualche aggiustamento, alle posizioni di Tommaso: è il caso

Egidio Romano della teoria della conoscenza, fondata su una dinamica astrattiva di tipo aristotelico che esclude ogni conoscenza diretta del singolare (e ogni autoconoscenza diretta di sé da parte dell’anima), e in cui è ancora conservato (a differenza di Enrico di Gand e Pietro di Giovanni Olivi) il ruolo delle specie intelligibili come mediazioni tra i fantasmi sensibili e gli atti di apprensione intellettuale; del rifiuto dell’unicità dell’intelletto agente e ancor più dell’unicità dell’intelletto possibile; della negazione dell’ilemorfismo universale; della concezione della materia come pura potenzialità (contro Enrico di Gand e Riccardo di Mediavilla); dell’eternità del mondo, a proposito della quale, prima della condanna, assume una posizione simile a quella di Tommaso. Lo stesso può dirsi per l’unicità della forma sostanziale, tesi inizialmente inclusa negli Errores (se davvero l’opera è egidiana) e fatta invece propria negli scritti del periodo della censura, come detto: è tuttavia probabile che questa sia una delle tesi che Egidio abbia dovuto ritrattare al momento del ritorno a Parigi. Sempre in accordo con Tommaso, adotta la materia signata quantitate come principio di individuazione nelle sostanze materiali, ma a differenza del maestro domenicano si mantiene fedele, nell’esplicazione di questa dottrina, alla dottrina averroistica delle dimensioni indeterminate, che ineriscono alla materia prima della forma sostanziale, rendono la materia stessa divisibile e spiegano così la plurificazione numerica della forma. Nell’ambito dell’etica, Egidio Romano sembra allinearsi su una specie di intellettualismo moderato, intermedio tra il volontarismo di Enrico e l’intellettualismo più accentuato di Goffredo di Fontaines. La volontà è per Egidio una potenza passiva, che non può attivarsi da sola, ma richiede l’apprensione intellettuale del bene; una volta attivata, tuttavia, essa non è determinata da altro, e può autodeterminarsi. Tra gli articoli imputati a Egidio nel 1277 ben due riguardavano la dipendenza della corruzione della volontà dall’errore o dall’ignoranza della ragione (art. 24: «Non est malitia in voluntate, nisi sit error in ratione»; art. 51: «Numquam est malitia in voluntate, nisi sit error vel saltem aliqua nescientia in ratione»); dopo la riabilitazione, Egidio sembra precisare che il darsi del male nella volontà implica sempre un errore di giudizio, ma non è in senso stretto causato da quest’ultimo, mentre è vero il contrario. 3267

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Egitto Particolarmente degne di interesse sono le posizioni di Egidio relativamente al soggetto rispettivo della teologia e della metafisica. Soggetto della teologia è Dio in quanto restauratore e glorificatore della natura umana (Tractatus de subiecto theologiae), ed è questa la ratio specialis in base alla quale il teologo può delimitare l’infinità del suo ambito (l’infinità stessa è per altro intesa da Egidio come il principale attributo in base a cui circoscrivere la considerazione dell’essenza divina). Il fine della teologia non è d’altra parte quello di conoscere Dio, ma di amare Dio in quanto appunto restauratore e glorificatore, e per questo la teologia non è in senso stretto né una scienza pratica né una scienza speculativa, ma una scienza «affettiva», in cui la bona operatio e la speculatio sono ordinate alla dilectio. Relativamente alla filosofia prima (Quaestiones metaphysicales; si tratta tuttavia di una reportatio da utilizzare con cautela) Egidio distingue tra un subiectum principale per se et primo (l’ente in quanto ente) e un subiectum principale ex consequenti, che è quello in cui si manifesta al massimo grado la natura del primo: ora, poiché la ratio entis si trova espressa nel modo migliore e più vero in Dio che in ogni altro ente, Dio può essere considerato soggetto principale ex consequenti della metafisica. In quanto scienza umana, tuttavia, quest’ultima ha solo una conoscenza limitata e accidentale di Dio, fondata appunto sul fatto che Dio non si sottrae comunque all’ambito dell’ente (non effugit rationem entis). A Egidio si devono infine numerosi commenti alle opere aristoteliche, tra i quali spiccano da una parte quello alla Retorica (1272-1273), destinato a influenzare tutta la successiva ricezione dello scritto, e dall’altra quelli alla Fisica e al De generatione. Alcune delle dottrine sostenute da Egidio in questi ultimi (ma anche in alcune questioni di angelologia) hanno in effetti attirato da tempo l’attenzione degli storici della scienza: è il caso ad esempio dell’idea di quantità di materia, che rappresenta forse il concetto scolastico più vicino a quello moderno di massa e che viene introdotto da Egidio per spiegare i fenomeni di rarefazione e condensazione; dell’ammissione, almeno ipotetica, della possibilità del movimento nel vuoto (misurabile da un tempo composto di istanti inestesi e discontinui) e della pluralità dei tempi; o, infine, della dottrina del luogo for3268

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male come distanza di un corpo localizzato rispetto a punti fissi dell’universo. P. Porro BIBL.: per un elenco dettagliato degli scritti egidiani, della loro cronologia relativa, delle principali edizioni e degli studi disponibili si rinvia a F. DEL PUNTA - S. DONATI - C. LUNA, s. v. in Dizionario biografico degli Italiani, Roma 1960-, vol. XLII, pp. 319-341; S. DONATI, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano. I: le opere prima del 1285. I commenti aristotelici. I-II, rispettivamente in «Documenti e Studi sulla Tradizione Filosofica Medievale», 1-I (1990), pp. 1-111; 2-I (1991), pp. 1-74. Nell’ambito della nuova edizione critica delle opere egidiane (Aegidii Romani Opera Omnia, a cura di F. Del Punta - G. Fioravanti - C. Luna, Firenze 1985 ss.) sono apparsi, oltre a 8 voll. di catalogo di manoscritti e repertorio dei sermoni, i seguenti volumi: Apologia, ed. a cura di R. Wielockx, Firenze 1985; Reportatio Lecturae super libros I-IV Sententiarum, Firenze 2003.

EGITTO. – Per gli egiziani, che i greci del temEgitto po di Erodoto (Storie II, 37) dichiararono «i più scrupolosamente religiosi fra gli uomini», la religione ebbe potere di ispirazione, di collegamento e sintesi anche di ogni altra forma di pensiero filosofico e scientifico, e ciò non solo nelle origini remote di quella civiltà, i cui ricordi risalgono almeno al IV millennio a. C., ma anche per tutte le età successive, fino all’avvento di Alessandro e oltre (in merito al pensiero filosofico egiziano si veda: J.P. Allen et al. [a cura di], Religion and Philosophy in Ancient Egypt, New Haven 1989, e anche il classico H.A. Frankfort et al., The Intellectual Adventure of Ancient Man. An Essay on Speculative Thought in the Ancient Near East, Chicago-London 1977 [1946], tr. it. di E. Zolla, La filosofia prima dei Greci: concezioni del mondo in Mesopotamia, nell’antico Egitto e presso gli ebrei, Torino 19805, pp. 47-150). SOMMARIO: I. Il pantheon egizio. - II. L’oltretomba. - III. La sapienza egiziana e la sua letteratura. I. IL PANTHEON EGIZIO. – Il pensiero religioso dei popoli abitanti la valle del Nilo, che fu certamente vario nelle origini, mirò più volte, attraverso combinazioni molteplici, talora attraverso influssi stranieri, a una unità concettuale e formale, che in realtà non fu mai in grado di raggiungere. Prima che si creasse un regno dell’Alto Egitto e uno del Basso Egitto, in parte contrapposti, anche se talvolta riuniti sotto il medesimo scettro, si deve ritenere che ogni più piccolo distretto, di quelli che in età greca

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e romana si chiamarono nomi (nomoiv), avesse come una sua indipendenza politica e amministrativa, così una sua religione locale: esisteva cioè un dio supremo del nomo, di cui il re locale era il sacerdote autorizzato. Troppo si ignora dei culti e dei miti preistorici della Valle per azzardare l’ipotesi, sostenuta da qualcuno dei moderni, di un’unità religiosa e filosofica delle origini, quando i popoli, provenienti probabilmente e soprattutto dall’oriente e dal mezzogiorno, abbandonarono il nomadismo per collocare le loro sedi fisse nel paese; si può dire soltanto che ben presto influirono sopra l’evoluzione e la trasposizione delle religioni più antiche due fatti principali: le lotte dei piccoli capi locali che portarono, con la sopraffazione dei più audaci sui più deboli, non solo la dipendenza politica, economica e amministrativa degli uni sugli altri, ma anche il predominio del dio del vincitore sulla religione degli sconfitti; in secondo luogo dovette intervenire ben presto nei centri più evoluti l’opera vasta e penetrante dei teologi, che non esitarono, con arbitraria e non disinteressata esegesi, a tentare un ordine tra il caos degli dei e delle credenze (K. Sethe, Urgeschichte und älteste Religion der Aegypter, Leipzig 1930; H. Kees, Der Götterglaube im alten Ägypten, Berlin 19562; per la fase di formazione si veda: B.J. Kemp, Ancient Egypt: Anatomy of a Civilization, London 20052 [1989]). Essi accentuarono lo sviluppo di una religione degli intellettuali in contrapposizione con quella del popolo minuto e incoraggiarono insieme la concezione di una aristocrazia del divino, fino a proclamare la dignità e la supremazia di un re-dio (sulla regalità si veda anche: H.A. Frankfort, Kingship and the Gods: a Study of Ancient Eastern Religion as the Integration of Society & Nature, Chicago 1948; G. Posener, De la Divinité du pharaon, Paris 1960; J. Assmann, Der König als Sonnenpriester: ein kosmographischer Begleittest zur kultischen Sonnenhymnik in thebanischen Tempeln und Gräben, Glückstadt 1970). Dai privilegi di una tale fede erano escluse le classi umili della popolazione, alle quali non spettava che il dovere dell’obbedienza e del sacrificio durante la vita e la sorte dell’annientamento dopo di essa. Codesta gradazione di valori tra i viventi e anche tra i defunti nel campo delle concezioni religiose, oltre che sociali e politiche, appare in ogni tempo caratteristica dell’Egitto fino in età greca e romana, sicché il re-dio e la sua discendenza e la sua «corte» di-

Egitto vina e i suoi «amici» costituivano una potente aristocrazia anche in campo religioso e morale, la quale in certi periodi degenerò in una intollerabile autocrazia del sacerdozio (dinastia XXI), e in certi altri periodi, ca. il 2000 a. C., provocò una vera e propria rivoluzione sociale, che aprì anche alle classi minori l’accesso non tanto agli onori terreni, quanto a una graduale eguaglianza di diritti nella sorte sperata per il mondo ultraterreno (S. Sauneron, Les prêtres de l’Ancienne Egypte, Paris 19882, tr. it. di C. Giardini, I preti dell’antico Egitto, Milano 1961). Dalla moltitudine degli esseri divini particolarmente legati a culti locali si possono scegliere alcuni esempi più significativi, cominciando dai distretti dell’Alto Egitto fino al Delta: Satis, per esempio, è la dea di Elefantina insieme con Khnum e con la dea Anukis (D. Valbelle, Satis et Anoukis, Mainz 1980), signora dell’isola di Sehel; Horo, identificato poi con Apollo, adorato in forma di sparviero e divenuto protettore dei faraoni; la dea Nekhbet, lunare, protettrice della nascita con sede a El Kab; il dio guerriero Mont ad Armant; Ammone a Tebe; la dea Hathor a Dendera (C.J. Bleeker, Hator and Thot, Leiden 1973); il primitivo dio agrario Osiride ad Abido (J.G. Griffiths, The Origins of Osiris and His Cult, Leiden 1980); Anubi nella città che fu detta Licopoli dai greci; Thot nella greca Ermopoli (P. Boylan, Thot, the Hermes of Egypt, Oxford 1922; C.J. Bleeker, Hator and Thot, Leiden 1973); Ptah a Menfi; la dea Neith a Sais; Atum a Eliopoli; la dea Bast a Bubasti; Iside a Buto e così via. Da questa serie di divinità e da altre numerose, qui trascurate, si vengono poi determinando alcuni dèi più universalmente venerati e preminenti sugli altri, che a noi pertanto risultano più chiaramente caratterizzati e intorno ai quali fiorì più facile il mito e si organizzò un sistema cosmologico, filosofico o morale (E. Hornung, Der Eine und die Vielen: Ägyptische Gottesvorstellungen, Darmstadt 1971, tr. it. di D. Scaiola, Gli dei dell’antico Egitto, Roma 1992; C. Traunecker, Les dieux de l’Egypte, Paris 1992; D. Meeks - C. Favard-Meeks, Les dieux égyptiens, Paris 1995; per le divinità qui citate si vedano le singole voci in: W. Helck - R. Otto [a cura di], Lexikon der Ägyptologie, Wiesbaden 1972-92). Tale il dio solare Ra, il cui culto si installa nella città di Iunu, e qui identificato poi con Atum e con Harakhte e messo a capo di una enneade, che comprese, oltre Ra, Harakhte e Atum, anche il dio Sciu, l’aria, e la moglie di questo Tef3269

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Egitto nut, il fuoco, e i loro figli: il dio Geb, la terra, e la dea Nut, il cielo, e ancora Osiride e la moglie e sorella di questo Iside, il fratello Seth (E. Hornung, Seth. Geschichte und Bedeutung eines ägyptischen Gottes, in «Symbolon», n. s. 2, 1974, pp. 49-63; H. te Velde, Seth, God of Confusion, Leiden 19772) e la moglie di questo Nephthys; oppure il dio Ptah di Menfi posto a capo di una triade con Sakhmet, la leonessa, e il figlio Nefertem (H. Junker, Die Götterlehre von Memphis, in «Abhandlungen der Preussischen Akademie der Wissenschaften zu Berlin. Philosophischhistorische Klasse», 23, 1939); o il dio Ammone, appartenente prima a una ogdoade di Ermopoli e poi divenuto, dopo la XI dinastia, il dio supremo di Tebe, legato alla sorte della città nell’ascensione politica di questo gran centro di potenza egiziana durante il Regno Nuovo. Accanto a personificazioni cosmogoniche sono anche sorte nuove figure, per esempio Thot, il dio della sapienza e Maat, la dea della giustizia (M. Lichtheim, Maat in Egyptian Autobiographies and Related Studies, Freiburg 1992; J. Assmann, Maât, l’Egypte pharaonique et l’idée de justice sociale, Fuveau 1999). Ed è pure in corso durante gli anni del Regno Nuovo (per esempio, dinastie XXI-XXII) il processo di una sempre maggiore spiritualizzazione del divino, fenomeno che si accompagna con quello di un movimento tendenzialmente monoteistico, che alcuni attribuiscono già alle origini, ma che forse non risale a epoche così lontane (J. Assmann, Re und Amun: die Krise des polytheistischen Weltbilds im Ägypten der 18.-20. Dynastie, Göttingen 1983). Caratteristica invece del culto egiziano di ogni tempo è l’adorazione del feticcio, che può essere un oggetto inanimato, per esempio uno scudo con due frecce incrociate, o la corona (la bianca o la rossa), simboli della regalità; ovvero un oggetto animato: una pianta, per esempio il sicomoro, il loto o il papiro, ma specialmente un animale (T. Hopfner, Der Tierkult der alten Aegypter, Wien 1913 [Denkschriften der Akademie der Wissenschaften in Wien. Philosophisch-historische Klasse, vol. 57/II]); i culti di divinità teriomorfe sono certamente antichissimi e assai diffusi, anche perché non sempre sono generali di tutto l’Egitto, ma limitati ad alcuni distretti, per esempio il leone a Bubasti, il toro ad Armant, il coccodrillo nel Fayûm, l’avvoltoio a El-Kab, l’ibis a Ermopoli e poi il gatto, la gazzella, il falcone e cento altri. Codesto culto feticistico dell’animale, soprat3270

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tutto in epoca tarda, dà luogo alla credenza che il dio si identifichi con l’animale stesso; di qui le figure divine con corpo umano e testa di animale, o con caratteristiche animalesche (si pensi alle corna di Ammone) e l’allevamento e la venerazione di alcuni esemplari di singoli animali sacri, ritenuti estrinsecazioni terrene del dio (per esempio il bue Api di Menfi, immagine di Ptah). L’evoluzione graduale della religione egiziana in tanti secoli di storia locale dimostra una sostanziale fedeltà, nello spirito e nelle forme, alle origini; anzi ebbe talora, come al tempo dei faraoni della XXVI dinastia (663-525 a. C.) un ritorno voluto all’arcaismo tradizionale. Un solo episodio, pur tuttavia transitorio, fa eccezione, quello del XIV secolo a. C., dovuto all’iniziativa del cosiddetto re eretico Amenophi IV (che trasformò il suo nome in Ekhnaton) e non esitò ad abbattere con energia improvvisa i vecchi culti dell’Egitto, per sostituirvi l’adorazione dell’unico dio solare Aton: celebre il nobile inno ad Aton, superstite fino a noi, che si ritiene, se non del tutto composto, tuttavia ispirato dal sovrano (J. Assmann, Die «Häresie» des Echnaton. Aspekte der AmarnaReligion, in «Saeculum», 23, 1972, pp. 109-126; E. Hornung, Echnaton: Die Religion des Lichtes, Zürich 1995, tr. it. di C. Salone, Akhenaton. La religione della luce nell’antico Egitto, Roma 1998). II. L’OLTRE-TOMBA. – La concezione della vita di oltretomba, almeno in età storica, è pure un tratto caratteristico della religione in Egitto (H. Kees, Totenglauben und Jenseitsvorstellungen der alten Aegypter, Leipzig 1926; J. Assmann, Der Tod als Thema der Kulturtheorie, Frankfurt am Main 2000, tr. it. di U. Gandini, La morte come tema culturale: immagini e riti mortuari nell’antico Egitto, Torino 2002); essa si riflette sia nella pratica della imbalsamazione dei cadaveri, che speciali processi, a noi ancora sconosciuti, trasformano in mummie in parte incorruttibili, sia nella costruzione di tombe talora grandissime e assai complesse: le piramidi, i mastaba e le tombe sotterranee della Valle dei Re e della Valle delle Regine nella necropoli tebana, coi templi per il culto esterno dei defunti (M. Ullmann, König für die Ewigkeit: Die Häuser der Millionen von Jahren: Eine Untersuchung zu Königskult und Tempeltypologie in Ägypten, Wiesbaden 2002). Tale concezione era fondata su due presupposti: che «l’anima» fosse in grado di sopravvive-

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re al corpo solo in quanto il cadavere fosse conservato nella sua integrità e che nel corpo stesso imbalsamato o nelle statue, che rappresentavano spesso in grandezza naturale il defunto, «l’anima» si compiacesse, quando voleva, di tornare e godesse in tale contingenza di vedersi circondata dalle suppellettili e dai ricordi della vita vissuta; da ciò la necessità di costruire tombe ampie e ricolme di ogni oggetto in uso fra i viventi e di dipingere sulle pareti non simboli di morte, ma aspetti lieti e confortevoli della vita. Inoltre le teorie escatologiche egiziane di età avanzata immaginano una forma di immortalità d’oltretomba fondata sopra un giudizio finale della vita. Si tratta in sostanza di presentarsi al tribunale di Osiride a giustificare la propria condotta morale, dando luogo alla confessione negativa, di cui sono superstiti le formule più significative. In questo caso, come in altri, la magia interviene, auspice soprattutto la memoria e il culto di Iside (A. Roccati - A. Silotti [a cura di], La magia in Egitto ai tempi dei Faraoni, Milano 1987; A.R. David, Religion and Magic in Ancient Egypt, London 2002), nelle pratiche che coinvolgono la vita dell’oltre-tomba e la conservazione del cadavere, e da essa sono ispirati soprattutto i vari Libri, come quello cosiddetto dei Morti e altri analoghi, che furono scoperti in numerosi esemplari nelle tombe, per istruzione delle «anime» avviate verso il regno dei morti, presieduto dal dio morto Osiride, oppure verso ogni altro dio che le arti magiche potranno permettere, come è la credenza delle età più recenti, di uguagliare e perfino di dominare. III. LA SAPIENZA EGIZIANA E LA SUA LETTERATURA. – Alle pratiche magiche e alle credenze religiose si innestano, e continuamente con esse interferiscono, i concetti filosofici e morali del popolo egiziano in ogni secolo della sua storia, conforme alla predicazione di una dottrina di verità e di giustizia che risale al III millennio a. C., e conforme poi a una tradizione sapienziale che gli scribi tebani copiavano dai testi più noti dell’Antico Regno. La sapienza degli egiziani era, secondo gli autori greci, Platone compreso, quasi tutta affidata agli studiosi della classe sacerdotale di Eliopoli, di Tebe e di Sais, le fonti di quanto essi sanno e credono di sapere della filosofia egiziana. Indipendentemente da queste fonti mediate, cioè da quanto possiamo leggere in riferimento alla sapienza egiziana, per esem-

Egitto pio presso Erodoto, Platone, Diodoro, Strabone, Plutarco e altri, e ancora e prima nei frammenti di Solone, di Pitagora, di Democrito di Abdera e di altri minori, le fonti egiziane, in quanto ora superstiti nelle iscrizioni e nei papiri, sono in generale un materiale assai scarso e assai poco soddisfacente. Pare infatti che i loro libri sapienziali abbiano di mira non già la più alta speculazione filosofica, ma piuttosto le esigenze della vita pratica e della vita morale allo scopo di raggiungere la prosperità e il benessere. La loro è, a questo fine, soprattutto una letteratura didattica, attribuita a personaggi non legati al mondo sacerdotale, apprezzata in antico anche fuori dell’Egitto, se è vero che Salomone, come dichiara la stessa fonte ebraica (1 Re 4, 30) era istruito fra l’altro di tutta la sapienza degli egiziani. Codesta predicazione morale che si immagina, negli scritti superstiti, o come una dottrina divina, cioè rivolta dal dio al re, o come una dottrina regale del re al popolo, o familiare, cioè del padre alla famiglia a lui sottoposta, comincia già in documenti molto antichi (per una presentazione e traduzione dei testi sapienziali si veda: A. Roccati, Sapienza egizia, Brescia 1994) con le Istruzioni di un ignoto a Kagemni, e di Hardedef al figlio e dalla V dinastia (2750-2625 a. C.) col celeberrimo libro delle Istruzioni del vizir Ptahhotep, conservato nel papiro Prisse fino al Regno Medio con gli insegnamenti di Merikara della X dinastia (ca. 2200 a. C.) o con quelli di re Amenemhat della XII (ca. 2200-1700 a. C.) o di Kheti, figlio di Duauf pure della XII dinastia, ma trascritti e studiati ancora dagli scolari della XIX (1350-1205 a. C.). La serie continua con altri scritti analoghi nel Nuovo Regno, per esempio con gli insegnamenti di Ani (dinastia XVIII, 1580-1350 a. C.), con quelli di Amenemope (dinastie XXI-XXVI, 945-525 a. C.); e infine con quelli del papiro Insinger di Leida, di età persiana o tolemaica. Forse cercano di elevarsi in una sfera più alta alcuni dialoghi retorici, come il dialogo di un disperato che discute con la sua anima del valore della vita, conservato a Berlino in un papiro del Regno Medio, o del contadino derubato che medita sulla ingiustizia umana, conservato in numerosi papiri della stessa epoca. Ma anche qui mancano la profondità del pensiero e la base di un sistema coerente filosofico e morale. Nei racconti poi e nei poemi, come del resto accade in ogni letteratura, si trovano 3271

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Egitto spunti di scetticismo e di edonismo o anche di ascetismo appena accennati. Nell’eresia di Aton pare di vedere il tentativo di sostituire una parvenza almeno di filosofia rivoluzionaria a una religione tradizionalistica, ma, come si è detto, il tentativo ebbe presto fine col ritorno integrale all’antico. Più tardi certi spunti di misticismo paiono ispirare l’ultima fase della «sapienza» egiziana, prima che nell’Alessandria dei tolomei e poi in quella dei romani si dessero convegno greci e orientali, e anche indigeni, a iniziare nuovi incontri di pensiero e nuove meditazioni. Risultato di questo incontro è il culto di Serapide, divinità di istituzione tolemaica, collegata alla concezione osiriana, dionisiaca e regale, e intesa a rappresentare in forma sincretistica l’unione dei greco-macedoni con gli egiziani. E mentre il popolo tende a identificare gli dei greci con i più noti dei egiziani, i sapienti sentono l’influsso delle nuove correnti di pensiero giunte con i greci in Egitto. Così gli stessi scritti del sacerdote egizio Manetone, contemporaneo dei primi tolomei, paiono già, per quanto ne possiamo sapere, permeati di sapienza e di ispirazione greca, e alcuni secoli più tardi l’egizio Cheremone, amico di Nerone e scrittore, passa per un filosofo stoico. Circa un secolo dopo un dotto della chiesa egiziana, Clemente Alessandrino (Stromata, VI, 4), dichiarava che tutta la filosofia indigena era compresa nei 42 libri di Ermete Trismegisto, necessari alla preparazione dei sacerdoti locali, e alludeva a quegli scritti neopitagorici che si dicevano di ispirazione divina e si attribuivano al dio Ermete in quanto era identificato col dio Thot «tre volte grande». In tali libri avevano gran parte i «misteri» egiziani. Così a sua volta la religione egiziana, o meglio la religione di Alessandria, che in questo periodo è il centro di ogni speculazione religiosa e filosofica, con le sue correnti mistiche, che hanno origine dal culto osiriano e dalle sue derivazioni, influisce sul pensiero filosofico neoplatonico e poi sulle dottrine dello gnosticismo egiziano. La lode dunque che scrittori greci di vari tempi fanno della sapienza egiziana, fino alla dichiarazione iperbolica di Ecateo di Abdera, che tutta la cultura greca derivasse dall’Egitto, andrà intesa con molta discrezione, così come la religione andrà studiata più come un ammasso di esperienze e di azioni, che come un’orga3272

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nica espressione di un pensiero disciplinato e coerente. A. Calderini BIBL.: TH. HOPFNER, Fontes historiae religionis Aegyptiacae, Bonn 1922-25; L. VANDIER, La religion égyptienne, Paris 1944; H. BONNET, Reallexikon der aegyptischen Religionsgeschichte, Berlin 1952; S. MORENZ, Ägyptische Religion, Stuttgart 1960, tr. it. di G. Glaesser e W. Perretta, La religione egizia, Milano 1983; J. ASSMANN, Schöpfung, in W. HELCK - R. OTTO (a cura di), Lexikon der Ägyptologie, Wiesbaden 1972-86, vol. V, pp. 677-678; P. DERCHAIN, Kosmogonie, in W. HELCK - R. OTTO (a cura di), Lexikon der Ägyptologie, Wiesbaden 1972-86, vol. III, pp. 747-755; J.B. PRITCHARD, The Ancient Near East, Princeton 1973, 2 voll.; H. FRANKFORT, Ancient Egyptian Religion, New York 1975, tr. it. di L. Fua, La religione dell’antico Egitto, Torino 1991; W. DIETRICH, Egyptian Saints: Deification in Pharaonic Egypt, New York 1977; M. LICHTHEIM, Late Egyptian Wisdom Literature in the International Context: a Study of Demotic Instructions, Göttingen 1983; E. IVERSON, Egyptian and Hermetic Doctrine, «Opuscula Graecolatina», vol. 27, København 1984; E. HORNUNG, Der ägyptische Mythos von der Himmelskuh: eine Ätiologie des Unvollkommenen, Göttingen 1986; M. BILOLO, Le Créateur et la création dans la pensée Memphite et Amarnienne: approche synoptique du «Document Philosophique de Memphis» et du «Grand Hymne Théologique» d’Echnaton, Kinshasa 1988; A.I. SADEK, Popular Religion in Egypt during the New Kingdom, Hildesheim 1988; M.T. DERCHAIN-URTEL, Priester im Tempel: Die Rezeption der Theologie der Tempel von Edfu und Dendera in den Privatdokumenten aus ptolemäischer Zeit / Maria-Theresia DerchainUrtel, Wiesbaden 1989; G. ENGLUND (a cura di), The Religion of the Ancient Egyptians. Cognitive Structures and Popular Expressions, «Proceedings of Symposia in Uppsala and Bergen 1987 and 1988», Uppsala 1989; E. HORNUNG, Geist der Pharaonenzeit, Zürich 1989, tr. it. di A. Amenta, Spiritualità nell’antico Egitto, Roma 2002; E. BRESCIANI, Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Torino 1990; B.E. SHAFER (a cura di), Religion in Ancient Egypt: Gods, Myths, and Personal Practice, London 1991; F. DUNAND - C. ZIVIE-COCHE, Dieux et hommes en Egypte 3000 av. J.-C. 395 apr. J.-C.: anthropologie religieuse, Paris 1991, tr. it. di M.S. Croce, Dei e uomini nell’Egitto antico: 3000 a. C.-395 d. C., Roma 2003; J. ASSMANN, Das kulturelle Gedächtnis. Schrift, Erinnerung und politische Identität in frühen Hochkulturen, München 1992, tr. it. di F. de Angelis, La memoria culturale: scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino 1997; S.G.J. QUIRKE, Ancient Egyptian Religion, London 1992; S. DONADONI, La religione egiziana, in G. FILORAMO (a cura di), Storia delle religioni, vol. I: Le religioni antiche, Roma-Bari 1994, pp. 61-114; H. GARDINER, Philosophy (Egyptian), in J. HASTINGS (a cura di),

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EGOCENTRISMO (dal lat. ego «io», e cenEgocentrismo trum «centro» - egocentrism, selfishness; Egocentrismus; égocentrisme; egocentrismo). – SOMMARIO: A) Aspetto psicologico. - B) Aspetto filosofico. A) ASPETTO PSICOLOGICO. – Atteggiamento mentale per cui l’individuo sembra ignorare l’esistenza di punti di vista e di propositi diversi dai propri, considerando la propria percezione immediata come assoluta, imponendo schemi arbitrari alle cose, sostituendo cioè al necessario adattamento al mondo esterno l’assimilazione di questo al proprio io. Piaget (Le jugement et le raisonnement chez l’enfant, Neuchâtel 1935, tr. it. di E. Nunberg Almansi, Giudizio e ragionamento nel bambino, Firenze 1966) considera l’egocentrismo come caratteristico della mentalità infantile dai tre ai sette anni circa e lo distingue, da una parte, dal cosiddetto «autismo puro» – in cui il pensiero ha per unica funzione quella di dare ai bisogni e agli interessi una soddisfazione immediata e senza controllo, deformando la realtà, ed è privo di legami logici e quindi incomunicabile – e dall’altra dal pensiero «socializzato» proprio dell’adulto. Il fanciullo riconduce tutto al proprio punto di vista: «egli non ha ancora scoperto la molteplicità delle prospettive e resta chiuso nella propria come se fosse la sola possibile» (Piaget, La représentation du monde chez l’enfant, Paris 1938, p. 115, tr. it. di M. Villaroel, La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Torino 1955, p. 106). Intimamente legato all’egocentrismo «logico» vi è l’egocentrismo «ontologico»: i legami causali e fisici vengono confusi con i legami di motivazione psicologica, come se l’universo avesse l’uomo al pro-

Egocentrismo prio centro; da ciò derivano l’«animismo» infantile, ovvero l’attribuzione istintiva a esseri inerti di un principio vitale che li anima, e l’«artificialismo», cioè il considerare tutte le cose come prodotti della fabbricazione umana. E. Cattonaro

B) ASPETTO FILOSOFICO. – In filosofia, l’egocentrismo può essere visto come sinonimo di egoismo, nella sua accezione prevalentemente morale. Esso non ha il valore teoretico del soggettivismo, il quale è, dal punto di vista storico, una posizione ben precisa che si rifà, al punto di coincidervi, con la modernità, e, dal punto di vista teoretico, implica la risoluzione del reale nell’attività conoscitiva del soggetto, posto come principio ultimo del sapere. Ma non ha neppure la valenza psicologica o etologica che può assumere l’egoismo, il quale può essere un principio di autoconservazione che, in quanto tale, non soggiace a critica né a condanna morale. L’egoismo si configura invece in filosofia come ogni dottrina che ponga al proprio centro la soddisfazione del sé, o, più gravemente, che predichi la negazione o l’assenza del riconoscimento dell’altro, tanto nelle sue esigenze quanto nella sua irripetibile soggettività. Nonostante le apparenze, il pensiero di autori come Stirner e Nietzsche non può essere classificato come egocentrico. Stante la definizione che se ne è data, come tendenza, volontaria o meno, alla totale oggettivazione della soggettività altrui, la formulazione più completa dell’egocentrismo la si può riscontrare in tutte le forme di pensiero che predicano apertamente la necessità della violenza, o la sopraffazione da parte di un individuo o gruppo di individui su tutti gli altri. Così, ad es., le argomentazioni di Trasimaco nel I libro della Repubblica (specie 343 a - 344 c), in cui l’ingiustizia viene posta apertamente come virtù, o la particolare accezione della figura del potlac in G. Bataille (cfr. G. Bataille, La part maudite, Paris 1949, tr. it. a cura di F. Rella, La parte maledetta, Verona 1972), la quale diviene una modalità di affermazione di una condizione signoriale assoluta dal sapore estetizzante, di cui vi sono esempi in letteratura specie nel decadentismo (ad es. D’Annunzio e Wilde). C. Chiurco BIBL.: parte A: M. HENLE - M.B. HUBBELL, Egocentricity in Adult Conversation, in «Journal of Social Psychology», 9 (1938), pp. 227-234; M. VIOLET-CONIL - N. CANIVET, L’exploration expérimentale de Ia mentalité infantile, Paris 1946, pp. 191-201; D. MACCARTY, Le déve-

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Egoismo loppement du language chez l’enfant, in L. CARMICHAEL (a cura di), Manuel de psychologie de l’enfant, vol. II, Paris 1952, pp. 840-850. Parte B: S. AGACINSKI, Critique de l’égocentrisme, Paris 1996. ➨ ASSIMILAZIONE; DECADENTISMO; EGOISMO; RICONOSCIMENTO; SOGGETTIVISMO; SOGGETTIVO - SOGGETTIVITÀ; SOGGETTO.

EGOISMO (dal lat. ego, «io» - egoism, selfishEgoismo ness; Egoismus; égoisme; egoismo). – SOMMARIO: A) Aspetto filosofico. - I. Definizione di egoismo. - II. L’egoismo nella storia della filosofia. - III. L’egoismo nel pensiero contemporaneo. IV. Conclusioni. - B) Aspetto economico. A) ASPETTO FILOSOFICO. I. DEFINIZIONE DI EGOISMO. – Si denomina così la caratteristica dell’individuo di riferire ogni cosa a se stesso, quasi che egli possa considerarsi il centro dell’universo. L’io personale, per l’egoista, è l’unica realtà assoluta. Tutto il resto esiste solo nelle sue relazioni con l’io. Il termine, che diviene di largo uso solo nella seconda metà del sec. XVIII, viene però usato in almeno tre diverse accezioni: psicologica, teoretica e morale. Dal punto di vista psicologico, egoismo indica l’insieme di quelle tendenze, che hanno come fine la conservazione e la difesa dell’individuo. Intesa in questo senso, la parola egoismo non implica nessuna valutazione morale. Per questo, al fine di evitare ogni possibile fraintendimento peggiorativo del termine, si preferisce a volte usare altre espressioni corrispondenti, quali: tendenze personali, amor di sé, istinto di conservazione (cfr. W. James, The Principles of Psychology, London 1890, cap. 10, tr. it. di G.C. Ferrari, Principi di psicologia, Milano 1909, pp. 239-241). Esistono poi altre due possibili valutazioni dell’egoismo: una di tipo teoretico, e una di tipo morale. In entrambi i casi, la nozione di egoismo appare assimilabile o confondibile con nozioni assai vicine: con quella di soggettivismo nel campo teoretico, e con quella di egocentrismo nel campo morale. Dal punto di vista teoretico, si definisce l’egoismo come quella concezione metafisica, per la quale l’esistenza degli altri esseri è problematica e illusoria. L’uomo non può essere certo che della sua esistenza personale: l’esistenza della realtà esterna è indimostrabile, dato che l’io può conoscere le cose solo facendole rientrare nella sfera della propria attività conosci3274

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tiva: da qui l’assimilabilità dell’egoismo al soggettivismo, di cui l’egoismo sarebbe la forma più radicale. Per tutto il sec. XVIII la parola egoismo viene usata spesso indifferentemente, sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista teoretico, al posto dell’altra espressione equivalente: solipsismo. Per lo più, comunque, si denomina con egoismo semplicemente l’egoismo teoretico, e con solipsismo l’egoismo pratico. In questo senso parlano di egoismo Wolff, Baumgarten, Tetens, Mendelssohn e ancora Kant, il quale usa poi la parola solipsismo per indicare l’egoismo pratico o Selbstsucht (KpV, l. I, cap. 3, tr. it. di F. Capra, Critica della ragion pratica, Bari 19638 [1909], p. 85). Nel sec. XIX, invece, il significato dei due termini si inverte. Egoismo si usa ancora in senso teoretico, ma sempre con l’aggiunta di un aggettivo (metafisico, speculativo, teoretico). Per esempio, Schopenhauer distingue l’egoismo pratico, «il quale considera e tratta la persona propria come la sola persona reale, e tutte le altre come puri fantasmi», dall’egoismo teoretico, «che ritiene fantasmi tutti i fenomeni, eccetto il proprio individuo» (Die Welt als Wille und Vorstellung, Leipzig 1819, l. I, cap. 19, tr. it. di P. Savy-Lopez, Il mondo come volontà e rappresentazione, Bari 1914-16 [poi varie edd.], p. 133). Dal punto di vista morale, infine, egoismo indica l’atteggiamento di quegli individui o la dottrina morale di quei filosofi, che ricercano la soddisfazione esclusiva dei propri interessi personali e in virtù di questa soddisfazione regolano ogni loro azione. Si può considerare l’egoismo come l’eccessivo amor di sé; incapace di limitare la proprie esigenze con le esigenze altrui: le altre persone perdono ogni valore autonomo di fronte all’io, del quale divengono semplici strumenti. Da qui la possibilità di assimilare l’egoismo all’egocentrismo. II. L’EGOISMO NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA. – Per Platone, l’egoismo (philautìa) è il più grande di tutti i mali e di tutti i nostri errori. Per questo bisogna evitare l’egoismo e comprendere che il vero amor di sé coincide con l’amore di ciò che è giusto (Leg., 731 d - 732 b). Secondo Aristotele, l’egoista crede di amare se stesso, mentre in realtà odia se stesso. Bisogna, sì, essere egoisti, ma virtuosamente: all’egoismo va contrapposto il sentimento dell’amicizia, per cui si ama se stesso negli altri (Et. Nic., IX, 8). Non manca poi nella visione dello Stagirita –

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che, in un contesto come quello greco, ha sempre come sfondo la polis, e quindi ha sempre in vista delle finalità collettive – la consapevolezza che un cattivo amore di sé è fonte di danno per la collettività. Anche per gli Epicurei e per gli stoici è proprio l’amicizia o fratellanza umana, che ci permette di trasformare l’innato e ineliminabile egoismo in altruismo. Nel cristianesimo, l’introduzione del concetto di amore o carità rappresenta la critica evidente di ogni forma di egoismo. Il superamento o rinnegamento di sé («abneget semetipsum»: Mt 16, 24) è la sostanza dell’ascesi cristiana. Agostino distingue un improbus amor sui da un probus amor sui: mediante il primo noi crediamo di amare noi stessi, mentre in realtà amiamo le cose terrene e materiali; mediante il secondo, amando Dio, amiamo spiritualmente noi stessi (De lib. arb., l. III, cap. 25, § 76; ma cfr. altresì De moribus Ecclesiae catholicae, l. I, cap. 26, nota 48). Per Tommaso l’uomo pecca solo se ama se stesso disordinatamente. Alla domanda: «utrum amor sui sit principium omnis peccati», l’Aquinate risponde che l’amore di sé, buono, non è causa di peccato (Sum. theol., Ia-IIae, q. 77, art. 4). Per cosa Tommaso intenda con tale amore buono di sé, si confronti la sua affermazione per la quale l’uomo deve amare Dio sopra ogni cosa e, dopo Dio, se stesso prima di ogni cosa (Sum. theol., IIa-IIae, q. 26, art. 4). Nell’epoca moderna, col prevalere dei motivi individualistici rinascimentali, l’indagine intorno all’egoismo assume un carattere diverso. Di grande interesse appare la riflessione sull’egoismo condotta da Machiavelli e dai moralisti francesi, di cui si dirà più sotto a proposito di Nietzsche. In generale, specie nella riflessione politica, nell’epoca moderna l’egoismo viene esaltato come la molla più valida di ogni azione umana e come l’elemento necessario per la costituzione della società. Per Hobbes l’egoismo, o istinto di conservazione, costituisce la base fondamentale dell’agire personale e sociale. La costituzione dello stato, fondata sul contratto, mediante i criteri egoistici dell’utilità e del danno, limita l’egoismo personale soltanto per garantire la reciproca autoconservazione: «Omnis igitur societas vel commodi causa, vel gloriae, hoc est sui, non sociorum amore contrahitur» (De cive, cap. 1, § 2; cfr. pure Leviathan, cap. 17). Anche per Spinoza ogni azione umana è indirizzata

Egoismo alla soddisfazione egoistica del proprio interesse (suum esse conservare). Ma in lui l’empirismo hobbesiano viene trasvalutato idealmente, dato che l’istinto di conservazione non si esplica solo fisicamente (potenza), ma ancora spiritualmente (sapere), e si conclude infine nell’amor Dei intellectualis (cfr. B. Spinoza, Ethica, parte IV, prop. 18 [scolio], prop. 24; parte V, propp. 33-36). Si ricollega a Hobbes, nella sua critica dell’innatismo morale di Shaftesbury, Mandeville, il quale, in The Fable of the Bees, sostiene che la società si basa solo sugli interessi egoistici dei singoli, i quali sollecitano il progresso e lo sviluppo degli stati: «vizi privati» divengono «pubblici benefici». Tutta la filosofia dell’illuminismo, in sostanza, tenta di compiere una difesa dell’egoismo, mostrandone l’importanza enorme ai fini del benessere sociale, quando però si trasformi da egoismo malinteso («amor de soi dans soimême», per usare la definizione dell’Encyclopédie) in egoismo beninteso (amor di sé negli altri). Di questo parere è pure Hume, per il quale la soddisfazione del piacere, cioè un egoismo regolato, non impedisce, e anzi sollecita le virtù e i sentimenti morali (cfr. Enquiry Concerning the Principles of Morals, London 1751, Appendice II, tr. it. di G. Prezzolini, Bari 1910 [poi varie edd.], pp. 290-297). Kant distingue tre tipi di egoista: logico (chi si accontenta del proprio giudizio), estetico (chi si accontenta del proprio gusto), morale (chi restringe tutti i fini a se stesso). All’egoismo Kant oppone il pluralismo (cfr. Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, Königsberg 1798, parte I, l. I, § 2, a cura di G. Vidari, Antropologia prammatica, Torino 1921, pp. 9-12). E la critica dell’egoismo, del resto, è implicita nella seconda formulazione della legge morale, per cui dobbiamo trattare l’umanità sempre come fine e mai soltanto come mezzo (cfr. Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Riga 1785, parte II). Anche Schopenhauer, kantianamente, condanna l’egoismo come «motivo antimorale» (Über die Grundlegung der Moral, § 14), contrapponendogli la compassione. Pure una critica dell’egoismo formulano i filosofi dell’idealismo tedesco, per i quali l’individuo acquista un valore solo nel seno dell’assoluto, al quale partecipa. Per Kierkegaard l’egoismo tipico dello stadio estetico viene vinto nello stadio etico mediante il rapporto sociale (matrimonio, lavoro e amicizia) e nello stadio religioso 3275

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Egoismo mediante il rapporto con Dio (cfr. soprattutto Entweder-oder e Der Begriff Angst). III. L’EGOISMO NEL PENSIERO CONTEMPORANEO. – Contro questa concezione della persona vogliono reagire i due principali esaltatori dell’egoismo: Stirner e Nietzsche. Per Stirner, l’unica realtà esistente è l’individuo, nella sua irripetibile singolarità (l’io passeggero). Qualsiasi morale della rinuncia o della sottomissione, come p. es. la morale cristiana dell’amore, non è ammissibile di fronte alla libera e anarchica volontà dell’io. Chi rinuncia alla propria libertà serve un egoismo superiore: ci si deve convincere, sostiene Stirner, «che il miglior partito è quello dell’egoista». Onde la conclusione: «voglio essere l’egoista io stesso» (M. Stirner, Der Einzige und sein Eigentum, Leipzig 1845, tr. it. di E. Zoccoli, L’unico, Milano 19213, p. 2). L’unica libertà che l’uomo possa veramente realizzare è quella che egli stesso si costituisce: «sol quella è libertà, che da se stesso l’uomo ottiene, cioè la libertà dell’egoista» (ibi, p. 153). Questo egoismo, al pari dell’istinto per la proprietà, è innato in ogni uomo; anche l’Unico può amare, ma non disinteressatamente, bensì egoisticamente: «Anch’io amo gli uomini. Ma li amo con la coscienza dell’egoista, io li amo perché il loro amore mi rende felice, io li amo perché l’amore è incarnato nella mia natura, perché così mi piace» (ibi, p. 266). Anche in Nietzsche l’esaltazione dell’egoismo deriva dalla sua critica della morale cristiana e kantiana, ma assume un respiro e una portata ben più ampi. Il punto di partenza di Nietzsche è smascherare l’egoismo nascosto dietro gli ideali apparentemente più nobili e disinteressati. Riprendendo uno spunto già di Machiavelli e dei grandi moralisti francesi, Nietzsche individua l’interesse personale, e financo la spinta della più cieca fisiologia, dell’appetitus proprio al corpo e all’organico, dietro le pretese della «spiritualità». Non esistono atti, neppure quelli apparentemente gratuiti dell’artista o del filosofo o del santo, che non siano in realtà dettati dall’affermazione, e che non abbiano questa come loro fine. Il soggettivismo nietzscheano, perciò, non va preso alla lettera, come banale egoismo nel senso più grettamente «desiderativo» del termine, ma ha una valenza trascendentale: è la condizione di possibilità stessa della vita, tanto dell’individuo, quanto delle nazioni, o delle religioni, o di 3276

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qualunque idea. La volontà di potenza, come volontà di autoaffermazione, non è perciò nient’altro che l’essere stesso di ogni cosa: da qui la decisa richiesta, da parte di Nietzsche, di sospensione di ogni giudizio morale, in quanto pretesa contraddittoria di fondare quella che è già un’evidenza, l’evidenza stessa della realtà. Ogni pretesa che tenti di abbellire tale verità, fondandola su altro (come lo Sollen kantiano), camuffandola di trascendenza (come in Platone), o ammantandola delle vesti del «valore», finisce di fatto per allontanarsi da essa, cioè dall’affermazione, in sé nient’affatto scandalosa, dell’egoismo essenzialmente connesso a ogni cosa, a ogni atto, essendo che «essere» e «autoaffermazione» sono identici. In ciò consiste l’enorme sforzo nietzscheano di riportare la vita – e l’egoismo ad essa essenzialmente inerente – alla sua primitiva «innocenza». Per il positivismo, l’egoismo deve essere superato nel «vivre pour autrui», nell’altruismo, termine che si trova usato per la prima volta in Comte (Catéchisme positiviste, Paris 18903, p. 51). Spencer critica questa tesi di Comte, proponendo l’eliminazione dell’antinomia tra egoismo e altruismo nell’ego-altruismo (H. Spencer, Principles of Psychology, London 1855, parte VIII, capp. 6-7; cfr. anche Data of Ethics, capp. 11-14, tr. it. di G. Salvadori, Torino 19083). IV. CONCLUSIONI. – Si può quindi notare come, di tutte queste riflessioni, solo quella nietzscheana abbia saputo fornire un’interpretazione affatto originale della nozione di egoismo, la quale fosse al contempo completamente sganciata da quelle di soggettivismo ed egocentrismo. In generale, nell’attuale riflessione filosofica, tali nozioni vengono preferite, perché più esatte, a quella di egoismo, la prima nell’ambito teoretico, la seconda in quello morale. Così, le critiche alla coloritura totalitaria presente nella modernità sin dal suo inizio, come quella di E. Levinas, fanno del soggettivismo il loro principale bersaglio. Per quanto attiene la riflessione morale, e quindi la nozione di egocentrismo, questo viene visto come quella forma di cattivo amore di sé, la quale va evitata in nome di una forma sostenibile, o addirittura auspicabile, di egoismo. Tale è l’impostazione, ad esempio, di autori di area anglosassone come l’americana Ayn Rand, la quale, rifacendosi a un’impostazione di tipo

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Egoismo

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aristotelico, unisce l’idea per la quale l’uomo è un fine in sé, con quella per la quale egli deve perseguire la propria felicità, di contro a ogni morale astratta che ne limiterebbe l’autonomia. Non può mancare un accenno all’importanza che la nozione di egoismo possiede in campo economico: essa infatti costituisce il cuore di molte critiche rivolte all’economia di tipo capitalistico. Famosa è d’altronde l’affermazione di Adam Smith, secondo la quale «non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse» (Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano 1973, l. I, cap. II, p. 18). Nello specifico, occorre ricordare come Smith, accanto a La ricchezza delle nazioni, sia anche, e non caso, l’autore della Teoria dei sentimenti morali. Rifiutando l’egoismo assoluto di stampo hobbesiano, che presuppone una visione della realtà come intimamente caotica e violenta, Smith vede nella «mano invisibile» dei meccanismi del mercato l’elemento che, guidato dal principio della ricerca del benessere collettivo, supera e corregge i comportamenti umani. Questi sono infatti spesso dettati dall’irrazionalità, cui Smith associa essenzialmente l’egoismo visto come elemento cieco e perciò distruttivo. La ricerca della ricchezza perseguita dal liberalismo non può perciò prescindere da uno sfondo etico complessivo della realtà – né, pertanto, dalla negazione dell’egoismo nella sua accezione più cruda. Infine, nell’ambito dell’etologia, dopo la stagione dominata dall’impostazione di Konrad Lorenz, per la quale la natura è armoniosamente regolata dalle prestazioni altruistiche dei singoli, ha ripreso corpo una visione più legata all’evoluzionismo classico, per il quale il benessere delle specie è assicurato dalla competizione senza esclusione di colpi dei singoli individui al loro interno. G. Morra - C. Chiurco

B) ASPETTO ECONOMICO. – Nel prender forma dell’economia politica come scienza dotata di una seppur imperfetta autonomia, ha giocato un ruolo importante l’assioma dell’interesse autocentrato (self-interest) secondo il quale gli individui nel perseguire il proprio interesse producono effetti benefici ad altri che non si proponevano. Questo assioma si era venuto formulando in una discussione che datava dal

Rinascimento intorno al ruolo dell’interesse (ricerca razionale del proprio tornaconto, diverso dalle passioni egoistiche sfrenate) nella natura umana. Il noto paradosso di Mandeville, secondo il quale i vizi privati si trasformano in benefici pubblici, lungi dall’essere la formula ispiratrice dell’economia politica, era una versione estremizzata di questa acquisizione. Il teorema smithiano secondo il quale l’investitore è condotto come da una mano invisibile a investire il proprio capitale là dove questo è più necessario, lungi dal basarsi su una concezione egoistica (né psicologica né tantomeno normativa), è un uso metodologicamente consapevole della nozione di self-interest come analogo delle nozioni di forza della fisica newtoniana per permettere una spiegazione del mercato in base a un modello di sistema di forze in equilibrio. L’utilitarismo benthamiano partiva invece da un’assunzione di egoismo psicologico molto netto, accompagnata però a un quasi-altruismo (la felicità da produrre è quella di ognuno incluso l’agente) prescrittivo altrettanto netto. Adam Smith professava un’etica e una teoria politica agli antipodi dell’utilitarismo; David Ricardo fu un compagno di strada dei benthamiti nelle battaglie politiche ma aveva una filosofia diversa ed era critico in modo particolare della «dottrina dell’utilità». L’utilitarismo non diede alcun contributo teorico all’economia politica classica anche se i benthamiti giustapposero l’etica utilitarista all’economia politica ricardiana per formare una eclettica filosofia sociale antitradizionalista e un programma politico per i ceti medi. L’assioma del selfinterest assunse perciò un peso illimitato nelle volgarizzazioni ottocentesche dell’economia politica che ne fecero una dottrina del laissezfaire incondizionato, la prima delle quali fu opera di James Mill. Si comprende come i critici tedeschi dell’economia politica britannica provenienti dalla scuola storica credessero di identificare nel razionalismo l’errore metodologico dell’economia politica (per quanto folle fosse classificare come razionalista uno scettico moderato come Adam Smith), nell’egoismo il suo errore etico (per quanto la sofisticata teoria smithiana della simpatia fosse agli antipodi dell’egoismo e prevedesse un ruolo preciso per benevolenza, giustizia e «prudenza», preposta alla cura di sé razionale e compatibile con le due virtù precedenti). A partire da questo fraintendimento storico si è perpetua3277

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Egotismo to nell’Europa continentale un filone di critica filosofica all’egoismo-individualismo-utilitarismo dei filosofi portavoce della borghesia. Dopo la svolta marginalista, l’immagine dell’agente economico come massimizzatore di utilità ha preso il posto di quella dell’individuo razionale che persegue il proprio interesse autocentrato. Dato che l’utilità è divenuta una grandezza sempre più astratta, identificandosi alla fine con la soddisfazione di preferenze, fra le quali possono rientrare preferenze dettate da preoccupazioni morali, anche le più disinteressate, la critica a questo modello di agente razionale si è concentrata più sul suo carattere quasi tautologico e sui suoi limiti come ipotesi teorica che sui suoi assunti di egoismo etico o psicologico. Il filone di teorie dell’altruismo in economia si è occupato di problemi reali, ma chiamando col nome di «altruismo», coniato da Auguste Comte per indicare non il precetto di amare il prossimo o prediligere i più piccoli della tradizione ebraicocristiana, ma il precetto (non troppo plausibile) di «vivere per gli altri», cose piuttosto eterogenee; fra queste sono state fatte rientrare le dimensioni dell’utilità che non sono fruibili individualmente come i beni pubblici, le precondizioni morali del mercato, e infine, nel senso introdotto da Thomas Nagel (The Possibility of Altruism, Princeton [New Jersey] 1970, tr. it. di R. Scognamiglio, La possibilità dell’altruismo, Bologna 1994), della pura e semplice possibilità di un comportamento che abbia moventi diversi da quelli egoistici. In tutti e tre i casi si tratta di qualcosa di meno dell’altruismo comtiano. Adam Smith dichiarava di diffidare di chi dichiara di mercanteggiare con l’intenzione di beneficare la collettività. L’ammonimento può avere ancora una sua attualità: la necessità di tenere conto di queste dimensioni trascurate mette in luce alcuni limiti del modello neoclassico dell’agente razionale, ma si tratta di una questione teorica, cioè della possibilità di rendere conto di fenomeni come il tasso relativamente basso di free-riding che si riscontra nelle indagini empiriche, non di una questione di etica normativa. S. Cremaschi BIBL.: parte A: R. ARDIGÒ, La morale dei positivisti, in Opere, vol. III, Padova 1885, l. II, parte I; L. LAVELLE, L’erreur de Narcisse, Paris 1939; L. FREED, Morality and Happiness, London 1944; J. DEVAUX, L’utilitarisme, Bruxelles 1955; U.A. PADOVANI, Linee per una fenomenologia dell’egoismo umano, in Filosofia e morale,

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Padova 1960, pp. 146-163 (cfr. pp. 253-264); J. LELes grandes lignes de la philosophie morale, Louvain-Paris 1966 (1947); A. MACINTYRE, s. v. Egoism and Altruism, in P. EDWARDS (a cura di), Encyclopedia of Philosophy, vol. II, New York - London 1967, pp. 462-466 (traduzione inglese e critica); A. RAND, Virtue of Selfishness. A New Concept of Egoism, New York 1989, tr. it. a cura di N. Iannello, La virtù dell’egoismo, Macerata 1999; R. SHAVER, Rational Egoism. A Selective and Critical History, Cambridge 1998; W. KLEIN - E. MÜLLER (a cura di), Genuß und Egoismus, München 2002; M.R. LEARY, The Curse of the Self. Self-Awareness, Egotism, and the Quality of Human Life, Oxford 2004. Parte B: A. SEN, Rational Fools, in «Philosophy and Public Affairs», 6 (1977), pp. 317-344, tr. it. di G. Gozzi, Sciocchi razionali, in A. SEN, Scelta, benessere, equità, a cura di S. Zamagni, Bologna 1986, pp. 147178; A. SEN, On Ethics and Economics, Oxford 1987, tr. it. di S. Maddaloni, Etica ed economia, Roma-Bari 20022; A. ETZIONI, The Moral Dimension. Toward a New Economics, New York 1988; N. BOWIE, Challenging the Egoistic Paradigm, in «Business Ethics Quarterly», 1 (1991), pp. 1-21; P. FORCE, Self-interest before Adam Smith. A Genealogy of Economic Science, Cambridge 2003. CLERCQ,

➨ ALTRUISMO; AMICIZIA; AMOR DI SÉ; ASCESI; BENI; CARITÀ; COMPASSIONE; EGOCENTRISMO; ETICA ECONOMICA; HOMO OECONOMICUS; MERCATO; RINUNCIA; SCUOLA STORICA; SOGGETTIVISMO; SOLIPSISMO.

EGOTISMO (egotism; Egotismus; égotisme; Egotismo egotismo). – Spesso, e quasi sempre nella lingua inglese, egotismo è sinonimo di egoismo; così nell’opera di G. Santayana, Egotism in German Philosophy (London 1916, tr. it. di L. Zampa, L’Io nella filosofia germanica, Lanciano 1920) il termine egotismo indica semplicemente l’«egoismo teoretico», quale caratteristica di tutta la speculazione tedesca. In senso più proprio si usa egotismo per contraddistinguere l’attitudine teoretica da quella pratica. Kant distingue «der logische Egoist», che è il solipsista, e il «praktische Egoist», che è l’eudemonista. Chi diede al termine egotismo un significato specifico fu Stendhal con i suoi Souvenirs d’égotisme (tr. it. di M. Bontempelli, Ricordi di egotismo, Roma 1944, p. 86). Se si vuole una definizione dell’egotismo in confronto all’egoismo, si potrà dire che esso, considerato strettamente, è l’incapacità psicologica di considerare una qualunque cosa da un punto di vista diverso dal proprio. M.M. Rossi

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Ehrenberg

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BIBL.: M.M. ROSSI, Swift, or the Egotist, London 1934, pp. 15-17. ➨ EGOISMO.

EHRENBERG, HANS. – N. a Bochum il 4 giu. Ehrenberg 1883, m. a Heidelberg nel 1958. Seguace di Windelband, insegnò a Heidelberg. Fu membro della chiesa confessante, quindi internato a Oranienburg per la sua avversione al nazismo. Emigrò in Inghilterra, da dove tornò nel 1947. Dal 1952 alla morte fu membro della SPD. Scrisse: Kritik der Psychologie als Wissenschaft, Tübingen 1910; Die Parteiung der Philosophie wider Hegel und die Kantianer, Leipzig 1911; Die Geschichte des Menschen unserer Zeit, Heidelberg 1911 ; Disputation 3 Bücher vom deutschen Idealismus, München 1923-25 (Fichte, 1923; Schelling, 1924; Hegel, 1925). Inoltre egli, assieme a Link, pubblicò, ricavandoli dai manoscritti, gli appunti di Hegel per il suo primo corso di lezioni (1802-03) all’università di Jena (Hegels erstes System, Heidelberg 1915; ripubblicati poi da Lasson nella sua ed. critica delle opere di Hegel [vol. XVIII] col titolo Jenenser Logik, Metaphysik und Naturphilosophie). A. Cardin

EHRENBERG, RUDOLF. – Biologo, fisiologo Ehrenberg e filosofo tedesco, con forti interessi teologici, n. a Rostock il 19 nov. 1884, m. a Gottinga il 13 magg. 1969. Nato da padre ebreo e da madre evangelica, fu battezzato da bambino. Studiò medicina a Friburgo, Tubinga e Berlino, conseguendo la libera docenza in fisiologia a Gottinga nel 1913. A partire dal 1907 iniziò un intenso dialogo con F. Rosenzweig su questioni esistenziali, filosofiche e teologiche (rapporto ebraismo-cristianesimo). Dal 1918 in poi condusse ricerche sperimentali pionieristiche e attività di docenza presso l’Istituto di fisiologia dell’università di Gottinga. Nel 1934 fu sospeso dall’insegnamento per motivi razziali e nel 1944 fu internato in un campo di concentramento. Dopo la guerra fu riabilitato, e riprese l’attività di ricerca e di insegnamento fino all’Emeritierung (1953). La ricerca di Ehrenberg si articola su tre piani ben differenziati: quello dell’indagine scientifico-sperimentale, quello della riflessione teorica sulla linea del confine fra biologia e filosofia, e quello della meditazione religiosa di ispi-

razione biblica. L’elemento unificante degli interessi del pensatore è rappresentato da un’attenzione privilegiata, e a tutto campo, ai fenomeni della vita, colta nella ricca e complessa molteplicità delle sue dimensioni biologiche, spirituali e religiose. La proposta speculativa di Ehrenberg è centrata interamente sulla tensione e sull’articolazione dinamica fra la sua parte biologica e la sua parte metabiologica. Fra esse viene instaurato un complesso gioco di interrelazioni reciproche, che fanno di ciascuna una sorta di parabola o di allegoria dell’altra, nel senso che ciascuna, pariteticamente e senza riduzionismi, si rispecchia ed è rispecchiata dall’altra. La prima di queste due parti mira essenzialmente a individuare e a mettere a fuoco, sulla base dei dati sperimentali, le leggi fondamentali che governano i fenomeni della vita biologica. La seconda, che si occupa esclusivamente dell’uomo, studia i dinamismi propri della vita spirituale. In ambedue le dimensioni – biologica e metabiologica – la vita si presenta essenzialmente come un evento che si snoda all’interno di una temporalità irreversibile, e che, attraverso un complesso gioco di dinamiche interne opposte e complementari, promuove l’inserimento degli individui all’interno di contesti extra-individuali, relazionali o comunitari molto più ampi. Un esempio particolarmente pregnante di questi contesti è rappresentato, secondo Ehrenberg, a livello metabiologico, dalla comunità ecclesiale cristiana. La proposta speculativa di Ehrenberg fu considerata da Rosenzweig (che la influenzò profondamente, restandone a sua volta profondamente influenzato), come una ramificazione o una variante biologico-metabiologica del cosiddetto «nuovo pensiero», a causa della sua attenzione per la temporalità irreversibile e per l’alterità. La stessa intuizione ermeneutica è stata ripresa e approfondita di recente da altri interpreti. F.P. Ciglia BIBL.: Ebr 10,25. Ein Schiksal in Predigten, Würzburg 1920; Theoretische Biologie vom Standpunkt der Irreversibilität des elementaren Lebensvorganges, Berlin 1923; Der Lebensablauf. Eine biologische-metabiologische Vorlesung, Heidelberg 1946; Naturwissenschaft und Religion, Göttingen s. d. [ca. 1946-50]; Metabiologie, Heidelberg 1950. Su Ehrenberg: F. ROSENZWEIG, Das neue Denken [1923], in Der Mensch und sein Werk, vol. III, Dord-

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Ehrenfels recht 1984, p. 152, tr. it. in La Scrittura, Roma 1991, p. 272; R. HERMEIER (a cura di), Jenseits all unsres Wissens wohnt Gott. Hans Ehrenberg und Rudolf Ehrenberg zur Erinnerung, Moers 1987; M.E. EHRENBERG, Rudolf Ehrenbergs Theoretische Biologie und Metabiologie, in W. SCHMIED-KOWARZIK (a cura di), Der Philosoph Franz Rosenzweig (1886-1929), vol. I, FreiburgMünchen 1988, pp. 159-177; H.-J. GÖRTZ, «Der Stern der Erlösung» als Kommentar: Rudolf Ehrenberg und Franz Rosenzweig, in M. BRASSER (a cura di), Rosenzweig als Leser, Tübingen 2004, pp. 119-171.

EHRENFELS, CHRISTIAN VON. – Psicologo, n. Ehrenfels a Rodaun, vicino a Vienna, il 20 giu. 1859, m. nel castello di Lichtenau im Waldviertel il 7 sett. 1932. Partito da forti interessi giovanili per la poesia e per la letteratura, tanto da comporre vari drammi (Allegorische Dramen, für musikalische Komposition gedichtet, Wien 1895), si iscrisse, nel 1879-80, alla Facoltà di Filosofia dell’università di Vienna cimentandosi, nel frattempo, per volontà paterna, negli studi giuridici. Allievo, a Vienna, di F. Brentano e A. Meinong, con i quali ebbe relazioni personali non prive, a volte, di contrasti, Ehrenfels si addottorò nel 1885 con Meinong presso la Karl-FranzensUniversität di Graz con il lavoro Größenrelationen und Zahlen. Eine psychologische Studie, approfondendo, quindi, le «relazioni di dipendenza tra le realtà fisiche e psichiche» e ponendo particolare attenzione all’orientamento dato alla fisiologia da É. du Bois-Reymond, su cui scrisse il suo primo saggio filosofico (Metaphysische Ausführungen an Émil du Bois-Reymond, in «Sitzungsberichte der Kaiserlichen Akademie der Wissenschaften in Wien, philosophisch-historische Klasse», 112, 1886, pp. 429-503). Nel 1888, con il saggio Über Fühlen und Wollen. Eine psychologische Studie (in «Sitzungsberichte der kaiserlichen Akademie der Wissenschaften in Wien, philosophisch-historische Klasse», 114, 1887, pp. 523-636), ottenne a Vienna l’abilitazione all’insegnamento universitario della filosofia. Dal 1896 al 1929 fu professore di filosofia all’università di Praga. Ehrenfels è uno dei più noti psicologi dei valori. Nell’ambiente culturale austriaco dello scorcio del sec. XIX, in cui era fiorente l’indagine economica del valore a opera della «scuola austriaca», giunse a una considerazione psicologica del valore, sviluppata poi in un animato dialogo con Brentano e Meinong. Se in3280

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fatti, per un verso, tendeva a distinguere i fenomeni psichici del sentire e desiderare, unificati da Brentano nella terza classe degli atti di «amore e odio», per l’altro verso, nel suo System der Werttheorie (Leipzig 1897-98), composto di due parti (I: Allgemeine Werttheorie, Psychologie des Begehrens, II: Grundzüge einer Ethik), Ehrenfels mirava a distruggere quella concezione che rendeva il valore qualcosa di oggettivo, quasi una misteriosa essenza che s’accompagna, pur nella sua immaterialità, alle cose. Il valore, invece, sarebbe dipeso unicamente dalla loro «desiderabilità» (Begehrbarkeit). Ehrenfels è anche ritenuto il precursore della «psicologia della forma». In Ueber Gestaltqualitäten (in «Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie», 14, 1890, pp. 249-92, tr. it. Le qualità formali, in E. Funari - N. Stucchi - D. Varin [a cura di], Forma ed esperienza, Milano 1984, pp. 40-74), che sintetizzava riflessioni precedenti di Mach, Brentano, Cornelius e Meinong, introduceva la nozione di Gestalt (forma). Punto di partenza era la constatazione che, sulla base di un complesso di dati sensoriali, ad esempio, di suoni, si può animare una melodia con delle caratteristiche del tutto differenti dagli elementi che la compongono e che ne sono i «fondamenti» (Fundamente). Se la si traspone, infatti, di tonalità o se la si esegue con strumenti diversi, le note cambiano, ma la melodia resta sempre la stessa. Se la si rivive, poi, nel ricordo, non si bada affatto alle singole note, ma la si ricorda semplicemente nella sua globalità. Ne derivava che «la melodia è qualcosa di diverso dalla somma delle singole note», è qualcosa in più rispetto ad esse, è una qualità formale (Gestaltqualität) immediatamente data alla coscienza nel suo complesso, i cui esempi erano rintracciabili anche nel campo della percezione spaziale, tattile e cinetica. Sulla tematizzazione del concetto di Gestalt Ehrenfels ritornò marginalmente nel 1916 (Kosmogonie, Jena 1916) e, ancora una volta, nel 1922 (Das Primzahlengesetz, entwickelt und dargestellt auf Grund der Gestalttheorie, Leipzig 1922), preferendo dedicarsi a questioni di musica, estetica ed etica (Grundbegriffe der Ethik, Wiesbaden 1907) con particolare riguardo per la morale sessuale (Sexualethik, Wiesbaden 1907). Una raccolta completa delle opere filosofiche di Ehrenfels è apparsa negli anni ot-

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tanta del Novecento (Philosophische Schriften, a cura di R. Fabian, München 1983-90, 4 voll.). M. Sinatra BIBL.: F. WEINHANDL (a cura di), Gestalthaftes Sehen. Ergebnisse und Aufgabe der Morphologie. Zum hundertjährigen Geburtstag von Christian von Ehrenfels, Darmstadt 1960; R. FABIAN (a cura di), Christian von Ehrenfels. Leben und Werk, Amsterdam 1986; A. ZIMMER, Christian von Ehrenfels, in L. ALBERTAZZI - D. JACQUETTE - R. POLI (a cura di), The School of Alexius Meinong, Aldershot et al. 2001, pp. 135-143; K. SCHUHMANN, Value Theory in Ehrenfels and Meinong, in L. ALBERTAZZI - D. JACQUETTE - R. POLI (a cura di), The School of Alexius Meinong, Aldershot et al. 2001, pp. 541-570.

EHRENSVÄRD, CARL AUGUST. – Filosofo Ehrensvärd dell’arte e scrittore svedese, n. a Stoccolma il 5 magg. 1745 e m. a Örebro il 21 magg. 1800. Viaggiò attraverso l’Europa per ragioni di studio. Scrisse: Matka italiaan 1780, 1781, 1782 (o Resa til Italien [Viaggio in Italia], a cura di M. Berger, Helsingin 2002) e De fria konsters philosophi ([La filosofia delle arti liberali], Stockholm 1974, tr. ted., Berlin 1805), opera fondamentale in cui, influenzato da Johann J. Winckelmann, Ehrensvärd prospettò una concezione neoclassica. Stimò moltissimo l’arte del primo Rinascimento italiano, che egli considerò in particolare nelle sue espressioni architettoniche. Durante l’ultimo decennio della sua vita passò dalla concezione del materialismo francese a una visione dinamica della natura, sotto l’influenza di Gottfried W. Leibniz. A. Nyman BIBL.: Skrifter, a cura di G. Bergh, Stockholm 192325, 2 voll. Su Ehrensvärd: G. LJUNGGREN, Jemförelse emellan Ehrensvärd och Winckelmann, såsom konstfilosofer (Paragone fra Ehrensvärd e Winckelmann come filosofi dell’arte), Stockholm 1857; K. WARBURG, Karl August Ehrensvärd. En lefnadsbild frän gustavianska tiden, Stockholm 1893; G. BERGH, Ehrensvärds idealuppfattning i förthallande til Winckelmans (La concezione ideale di Ehrensvärd in relazione con lo stesso Winckelmann), in «Samlaren», 1918; R. JOSEPHSON, Carl August Ehrensvärd, Stockholm 1963; H. FRYKENSTEDT, Carl August Ehrensvard, 1745-1800: an Original Swedish Aesthetician and an Early Functionalist, Uppsala 1965; S.A. NILSSON, Carl August Ehrensvärd as Architect and Theorist, in R. Rosenblum (a cura di), L’art et les révolutions: XXVII Congrès international d’histoire de l’art. Section 1, L’art au temps de la révolution française, Strasbourg 1992, pp. 307-318.

Ehrle EHRLE, FRANZ. – Storico (soprattutto della Ehrle scolastica) ed erudito; cardinale, gesuita, n. il 17 ott. 1845 a Isny im Allgäu (Württemberg), m. il 31 mar. 1934 a Roma. Addetto dal 1878 alla redazione della rivista «Stimmen aus Maria-Laach» (poi «Stimmen der Zeit»), nel 1890 passò alla Biblioteca Vaticana, di cui fu prefetto dal 1895 al 1914, acquistandosi meriti insigni. Dopo la parentesi della guerra, venne richiamato a Roma e insignito della porpora (1922). Dal 1929 fu bibliotecario e archivista della chiesa romana. Ideò una storia completa della scolastica fondata sull’investigazione diretta delle fonti. Ne fissò il programma e il metodo, in teoria e in pratica, e ne svolse parte notevole. A questo fine, fondò e diresse col Denifle l’Archiv für Literatur und Kirchengeschichte des Mittelalters (1885-1900, 7 voll.; ripr. Graz 1956). Le ricerche sulla scolastica lo condussero all’indagine su ordini religiosi, studi e biblioteche delMedioevo. Il periodo più intenso di tale lavoro furono i primi anni, con ripresa negli ultimi. Risaltano in Ehrle attitudine a impostare questioni e coglierne l’essenziale; ampiezza e profondità d’indagine; originalità e obiettività. Opere interessanti la filosofia: Grundsätzliches zur Charakterisierung der neueren und neuesten Scholastik, Freiburg im Breisgau 1918 (19332; tr. it. di G. Bruni, La Scolastica e i suoi compiti odierni, Torino 1935); Die Ehrentitel der scholastischen Lehrer des Mittelalters, München 1919; Der Sentenzenkommentar Peters von Candia, des Pisaner Papstes Alexanders V, in «Franziskanische Studien», 9, 1924 (di fatto è uno studio generale sulla scolastica del sec. XIV). Dei numerosi, ampi articoli monografici vanno citati: Die päpstliche Enzyclica von August 1879 und die Restauration der christlichen Philosophie, in «Stimmen aus Maria-Laach», 1880 (quattro puntate; forse il miglior commento all’enciclica leonina); Das Studium der Handschriften der mittelalterlichen Scholastik, in «Zeitschrift für katholischen Theologie», 1883, pp. 1-51; Nuove proposte per lo studio dei manoscritti della Scolastica medievale, in «Gregorianum», 1922, pp. 198-218 (i tre articoli sono stati ripubblicati con correzioni e note da F. Pelster, Zur Enzyklika «Aeterni Patris», Roma 1954); Heinrich von Gent, in «Archiv für Literatur- und Kirchengeschichte des Mittelalters», 1885, pp. 365401; Der Kampf um die Lehre des hl. Thomas von Aquin in den ersten 50 Jahren nach seinem Tode, in «Zeitschrift für katholischen Theologie», 3281

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Ehrlich 1913, pp. 266-318; L’agostinismo e l’aristotelismo nella Scolastica del sec. XIII. Ulteriori discussioni e materiali, in «Xenia Thomistica», III, 1925, pp. 517-88. A cura di F. Pelster dovevano apparire i Gesammelte Aufsätze zur englischen Scholastik («Storia e letteratura», 50, Roma). Ehrle iniziò pure una «Bibliotheca theologiae et philosophiae scholasticae», che però non andò oltre la riedizione di S. Mauro (4 voll.) e di C. Alamanni (5 voll.). Da ricordare infine I più antichi statuti della Facoltà teologica di Bologna, «Universitatis Bononiensis Monumenta», I, Bologna 1932. V. Cattaneo BIBL.: La bibl. di Ehrle si trova in AA.VV., Miscellanea F. Ehrle. Album («Studi e Testi», 42), Roma 1925, pp. 37-41; e in F. EHRLE, La Scolastica e i suoi compiti odierni (tr. it. di G. Bruni), Torino 1935. Su Ehrle: F. PELSTER, Il cardinal F. Ehrle, in «Civiltà cattolica», 2 (1924), pp. 449-461 e 3 (1924), pp. 1727; K. CHRIST, Kardinal F. Ehrle, in «Zentralblatt für Bibliothekenwesen» (Leipzig), 1935, pp. 1-47; M.T. GILLIO-TOS, Disciplina e libertà nel campo neoscolastico, in «Criterion», 1936, pp. 36-41; M. GRABMANN, in «Philosophische Jahrbuch», 1946, pp. 9-26; A. HAGEN, Gestalten aus dem Schwäbischen Katholizismus, II, Stuttgart 1951, pp. 381-411; F. PELSTER, H. Denifle OP und F. Ehrle SJ in ihrer Bedeutung für die Erforschung der mittelalterlichen Scholastik, in «Scholastica ratione historico-critica instauranda», Roma 1951, pp. 43-52; F. PELSTER, F. Kardinal Ehrle und sein Verdienste um die Geschichte der Scholastik, in Zur Enzyklika «Aeterni Patris», Roma 1954, pp. 189-202.

EHRLICH, EUGEN. – Filosofo del diritto, n. il Ehrlich 14 sett. 1862 a Czernowitz (Cernauti), in Bucovina, m. il 2 magg. 1922 a Vienna. Laureato in Giurisprudenza all’università di Vienna, dal 1897 professore di Diritto romano nella città natale. La sua fama è legata soprattutto alle ricerche nel campo della sociologia giuridica, che condusse muovendo dai postulati della scuola storica tedesca, in particolare dal principio che le «istituzioni» sociali sorgono spontaneamente nella società. Scopo della sociologia giuridica è, secondo Ehrlich, la determinazione delle norme di condotta osservate dagli uomini nelle loro associazioni, e l’osservazione del diritto vivente (lebendes Rechts); il diritto viene considerato come un fatto sociale, non come un complesso di regole: è la società, di cui il diritto è un mezzo di controllo, che viene posta al centro dell’interesse. Viene affievolita la distinzione fra norme giuridiche e sociali, e si fa strada l’idea che lo stu3282

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dio del diritto e dell’esperienza giuridica possa avvenire attraverso uno studio e un’osservazione diretta della realtà, indipendentemente dall’impiego dei concetti giuridici cui non si riconosce valore conoscitivo. Quando i fatti sociali non sono chiari, il giurista deve ricorrere alla Interessenabwegung (cfr. Freie Rechtsfindung und freie Rechtswissenschaft, Leipzig 1905). Ne conseguono una concezione tecnica del diritto considerato come «mezzo» e una svalutazione della tradizionale scienza giuridica (dogmatica). Sebbene il diritto venga considerato in un continuo stato di evoluzione, Ehrlich ha richiamato sempre più l’attenzione sull’esistenza di alcune istituzioni fondamentali (matrimonio, famiglia, contratto ecc.); in ogni caso è rimasto fermo a una concezione scientistica e naturalistica, in quanto ha considerato le regolarità puramente esterne di comportamento. La sua concezione ha avuto notevole influsso, oltre che in Europa, sulle correnti del realismo giuridico americano, legate a una concezione «sperimentale» del diritto. La principale opera è Grundlegung der Soziologie des Rechts (München 1913, tr. ingl. di W.L. Moll, Fundamental Principles of the Sociology of Law, Cambridge [Massachusetts] 1936; tr. it. a cura di A. Febbrajo, I fondamenti della sociologia del diritto, Milano 1976); notevole importanza ha altresì Die juristische Logik (in «Archiv für die civilistische Praxis», 115, 1917, pp. 125-439, rist. Tübingen 1925). La logica giuridica tradizionale non è una logica autentica; secondo Ehrlich, uno studio critico dei fondamenti storici della scienza giuridica rivela che i suoi postulati fondamentali (la subordinazione a una regola posta in anticipo dal legislatore, la statualità del diritto, l’unità dell’ordinamento giuridico) sono il risultato di una particolare concezione del diritto, affermatasi nell’Europa continentale. Tale concezione, che era già latente nell’opera dei glossatori, si è successivamente affermata sotto l’influsso del giusnaturalismo dei secc. XVII e XVIII. Dalla critica dei procedimenti della Begriffsjurisprudenz non emerge però una logica giuridica in termini positivi: le numerose suggestioni contenute nell’opera rivelano la simpatia per le tendenze del diritto libero. La sociologia giuridica di Ehrlich fu oggetto di un’aspra polemica da parte di Hans Kelsen nel 1914-15, al quale Ehrlich tentò invano di contrapporre argomenti a difesa della sua concezione. Alla fine della sua vita, però, Kelsen fece

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ammenda per i toni troppo aspri usati verso uno studioso che meritava e merita un’attenta considerazione scientifica. A. Giuliani BIBL.: M. REHBINDER, Die Begründung der Rechtssoziologie durch Eugen Ehrlich, Berlin 1967; E. EHRLICH H. KELSEN, Scienza giuridica e sociologia del diritto, ed. it. a cura di A. Carrino, Napoli 1992.

EHRLICH, JOHANNES NEPOMUK. – Teologo e Ehrlich filosofo austriaco, scolopio, n. a Vienna nel 1810, m. a Praga nel 1864. Insegnò a Krems, Graz e infine (dal 1852) a Praga; qui insegnò teologia morale e fondamentale e scienza della religione. Subì l'influsso di F.H. Jacobi e di A. Günther; sostenne che il sovrasensibile è l’oggetto proprio della filosofia. Scrisse: Leitfaden der Metaphysik, Krems 1841; Randglossen zu J. Fröbels System der sozialen Politik, ivi 1849; Über das christliche Prinzip der Gesellschaft, Praha 1856; inoltre fu autore di varie opere teologiche, fra cui la principale è Fundamental-Theologie (2 parti, ivi 1859-62), che fa di Ehrlich uno dei confondatori di questa disciplina. A. Cardin BIBL.: K. WERNER, Geschichte der katholischen Theologie, München-Leipzig 18892, pp. 571-579.

EHRLICH, WALTER. – Filosofo tedesco n. a Ehrlich Berlino il 16 magg. 1896, m. il 26 dic. 1968 a Bad Ragaz, nel cantone svizzero di San Gallo. Si laureò a Heidelberg nel 1920. Movendo da una concezione trascendentale della filosofia orientata kantianamente, Ehrlich giunse a un metodo fenomenologico di ricerca, che vuole svincolare l'indagine ontologica regionale dal problema della forma e del contenuto. Ha elaborato un sistema filosofico che già nelle ripartizioni risente dell’influsso scolastico e dell’ontologia classica. Tra le sue opere: Der Freiheitsbegriff bei Kant und Schopenhauer, Berlin 1920; Kant und Husserl, Halle 1923; Metaphysik im erkenntnisteoretischen Grundriss, ivi 1924; Das unpersonale Erlebnis, ivi 1927; Stufen der Personalität, ivi 1930; Intentionalität und Sinn, Zürich 1934; Der Sinn in der Geschichte. Einleitung in die Transzendentalgeschichte, ivi 1935; Das Verstehen, ivi 1939; Ontologie des Bewusstseins, ivi 1940; Geistesgeschichte, Tübingen 1952; Metaphysik, ivi 1955; Ethik, ivi 1957; Philosophische Anthropologie, ivi 1957; Einführung in die Staatsphilosophie, ivi 1958; Hauptprobleme der Wertphilosophie, ivi 1959; Grundli-

Eichhorn nien einer Naturphilosophie, ivi 1960; Aphorismen zur Philosophie der Kunst, ivi 1962; Philosophie der Geschichte der Philosophie, ivi 1965. Cfr. Bibliogr. Walter Ehrlich, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», (1966), pp. 331332. F. Barone BIBL.: H. STEINTHAL, rec. a Stufen der Personalität, in «Kant-Studien», 38, pp. 179-180; G. KLAMP, rec. a Ethik, in «Philosophischer Literaturanzeiger», 1958, pp. 274-278; G. KLAMP, rec. a Philosophische Anthropologie, in «Philosophischer Literaturanzeiger», 1959, pp. 77-82; G. KLAMP, rec. a Einführung in die Staatsphilosophie, in «Philosophischer Literaturanzeiger», pp. 298-303; G. KLAMP, rec. a Grundlinien einer Naturphilosophie, in «Philosophischer Literaturanzeiger», 1961, pp. 279-283; F. SELVAGGI, rec. a Grundlinien einer Naturphilosophie, in «Gregorianum», 1962, pp. 301-302.

EICHHORN, JOHANN GOTTFRIED. – Storico e Eichhorn teologo, n. a Doerrenzimmern (Württemberg) il 16 ott. 1752, m. a Gottinga il 25 giu. 1827. Allievo di Ch.G. Heyne nel seminario filologico di Gottinga, dal 1775 insegnò lingue orientali a Jena, dove operò in stretto contatto con Goethe e Herder. Nel 1788 ottenne la cattedra di filosofia a Gottinga, ma i suoi interessi continuarono a concentrarsi sugli studi storici ed esegetici (cfr. Einleitung in das Alte Testament, che ebbe ben quattro edizioni tra il 1780 e il 1820). Al pari di Lessing, Eichhorn concepisce la storia umana come gradi di sviluppo spirituale corrispondenti con le tappe della rivelazione divina. In questo senso il mito è inteso quale modo sensibile di pensare proprio del mondo primitivo, al quale la rivelazione si adegua. Numerosi i lavori che intrecciano la storia delle varie arti e discipline con la storia della civiltà, secondo l’orientamento della scuola storica di Gottinga: Allgemeine Geschichte der Cultur und Litteratur des neueren Europa: Litterärgeschichte, Göttingen 1799-1814, 2 voll.; Weltgeschichte, ivi 1800-14, 5 voll.; Geschichte der Litteratur von ihrem Anfange bis auf die neuesten Zeiten, ivi 1805-10, 11 voll. M. Longo BIBL.: SIEGFRIED, s. v., in Allgemeine deutsche Biographie, vol. V, pp. 731-737; L. MARINO, I maestri della Germania. Göttingen 1770-1820, Torino 1975, pp. 270-287; M. LONGO, Scuola di Gottinga e «Popularphilosophie», in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. III: Il secondo illuminismo e l’età kantiana, Padova 1988, pp. 696-697.

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Eickstedt EICKSTEDT, EGON FREIHERR VON. – AntroEickstedt pologo tedesco, n. a Poznan il 10 apr. 1892 e m. il 20 dic. 1965 a Magonza. Prima della seconda guerra mondiale diresse l’Istituto di antropologia ed etnologia di Breslavia e la rivista «Zeitschrift für Rassenkunde» (1935 ss.) e, dal 1946, fu professore all’università di Magonza. Ha pubblicato numerosi studi scientifici: programmatico è l’articolo Ganzheits-Anthropologie (in «Zeitschrift für Rassenkunde», 3, 1936, pp. 1-10). Il suo scritto principale è Rassenkunde und rassengeschichte der Menschheit (Stuttgart 1934; ivi 19372) con un’importante introduzione metodologica e storica. Fondamentali ancora sono: Grundlagen der Rassenpsychologie (ivi 1936) e Anthropologische Psychologie (ivi 1953). Von Eickstedt considera l’antropologia come scienza totale dell’uomo, che, oltre alla somatologia, comprende anche la psicologia e la scienza della cultura (storia). La sua opera, importante per l’impostazione metodologica (aristotelica), per la definizione esatta dei concetti e per la psicologia olistica, presenta qualche analogia con quella di N. Pende. C.M.I. Vansteenkiste BIBL.: W. HENNINGER, Egon v. Eickstedt, Bevölkerungsbiologie der Grosstadt, in «Allgemeines statistisches Archiv», 31 (1941-42), pp. 274-275.

EIDOLOLOGIA (eidology; Eidologie; eidologie; Eidolologia eidología). – Derivando la prima parte di questo sostantivo composto dal greco ei[dwlon (immagine, raffigurazione), il termine eidolologia (o idolologia) indica in generale qualsiasi teoria o trattazione sulle immagini. Nel mondo greco alla parola ei[dwlon è tendenzialmente sempre associata l’idea di irrealtà, poiché l’immagine è pensata come rappresentazione che si distingue sempre da ciò che è vivo e reale, pur riproducendolo specularmente. Così per es. Platone definisce ei[dwla tutto ciò che, essendo solo copia della realtà, non può dirsi effettivamente reale ed esistente (Theaet, 150 c; Soph, 265 b). Di qui la tendenza propria della filosofia greca ad identificare il reale con quello che è prima, fuori e, persino, al di là dell’immagine; e ad attribuire all’immagine stessa il carattere dell’irreale e dell’illusorio. In questo modo si comprende come la versione greca della Bibbia dei LXX abbia tradotto con ei[dwlon una serie di vocaboli che designano gli dei e le divinità dei pagani in quanto false immagini di Dio, seppur tale utilizzo sia estraneo al pensiero e alla lingua della grecità pro3284

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fana. All’uso linguistico dei LXX e in genere del giudaismo si attiene fedelmente il Nuovo Testamento (cfr. per es. Rom 2, 22; 2 Cor 6, 16), dove ei[dwlon designa gli dei pagani e le loro immagini. Parimenti si capisce come l’espressione latina idolum, accanto al significato generico di immagine, si sia diffusa nell’accezione di «statua di falsi dei» grazie al latino ecclesiastico che così ha tradotto il greco della Bibbia. Il sospetto nei confronti delle immagini si mantiene nella filosofia moderna, in particolare in Francesco Bacone che considera gli idola false anticipazioni dei concetti, dovute all’abitudine e all’educazione, che ostacolano il procedere della conoscenza inducendo pregiudizi (Novum Organum, I, 38-39). Una rivalutazione dell’eidolologia e, di conseguenza, del ruolo delle immagini si ha nell’epoca contemporanea grazie all’approccio fenomenologico ed ermeneutico. Nel primo (Edmund Husserl) ci si concentra sulla modalità di apprensione dei dati sensibili, mettendo in rilievo l’originalità con la quale essi si donano intuitivamente alla coscienza, prima ancora della loro oggettivazione in categorie linguistiche e concettuali. Così facendo la fenomenologia ha effettivamente liberato l’incontro vivo con l’immagine dall’opacità pre-riflessiva in cui era stata precedentemente confinata, e, parimenti, ha tentato di creare un lessico particolare capace di rendere comunicabile la peculiarità con cui la coscienza intenziona la «datità (Gegebenheit)» dell’immagine. Sempre in ambito fenomenologico è da segnalare l’utilizzo da parte di Jean-Luc Marion della categoria di idolo: quest’ultima non appartiene al campo dell’illusione, dell’effimero contrapposto al reale; essa, piuttosto, ha a che fare con la tentazione dell’uomo di voler a tutti i costi vedere l’invisibilità di Dio. In questo modo si capisce come sia idolatrica ogni posizione filosofica e/o teologica che, rifiutando il primato della manifestazione divina, finisce per irretire Dio nell’apriori antropologico del dinamismo rappresentativo del soggetto. Nell’eidolologia di stampo ermeneutico (Hans-Georg Gadamer) l’immagine visiva è da conoscere in quanto porta un significato che le è stato conferito da uno spirito. Attraverso un’immagine s’identifica, non solo un oggetto o una funzione, ma un’espressione umana di senso che si «traduce» in maniera sensibile attraverso la mediazione di segni integrati in una totalità infinita di significazioni.

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Infine, occorre ricordare che nella psicologia cognitiva l’eidolologia indica lo studio dell’immaginario mentale, ovvero l’analisi delle rappresentazioni mentali attraverso le quali l’individuo evoca gli aspetti sensoriali di oggetti e/o persone momentaneamente o definitivamente assenti dal suo campo percettivo. N. Reali BIBL.: E. HUSSERL, Die Idee der phänomenologie, «Husserliana», II, Den Haag 1950; N. GOODMAN, Languages of Art. An Approach to a Theory of Symbols, London 1969; J.-L. MARION, L’idole et la distance, Paris 1977; R.N. SHEPARD - L.A. COOPER, Mental Images and their Transformations, Cambridge 1982; H.-G. GADAMER, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Tübingen 19854; N. REALI, Fino all’abbandono. L’eucaristia nella fenomenologia di J.-L. Marion, Roma 2001; J.-J. WUNENBURGER, L’imaginaire, Paris 2003. ➨ IDOLO; IMMAGINE; RAPPRESENTAZIONE.

EIDOS (gr. ei\do"). – Termine di origine greca Eidos che assume vari significati, a seconda dell’autore e del contesto: specie, idea, forma, immagine. Il suo uso è soprattutto importante in Platone, ove va a indicare, socraticamente, ciò che è comune a una molteplicità di cose che recano il medesimo nome, e presuppone la distinzione ontologica fra mondo intelligibile e mondo sensibile. Nel pensiero contemporaneo Husserl si riferisce all’eidos parlando dell’essenza pura, e intende costruire la sua fenomenologia trascendentale «come scienza di essenze (o “eidetica”)» (E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, Halle 1913, tr. it. di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro I: Introduzione generale alla fenomenologia pura, Torino 2002, p. 6). L’eidos può, secondo Husserl, essere intuito direttamente, non è una costruzione fantastica, ma qualcosa di dato alla visione. Proprio per questo, alla base della fenomenologia sta la variazione eidetica, nella quale, modificando immaginativamente le caratteristiche di un oggetto, giungiamo infine al suo aspetto invariante, a ciò senza di cui quell’oggetto cessa di essere tale, perde la propria identità. In questo modo, attraverso il caso singolo, cogliamo quindi l’essenza. Questa non è l’idea o il concetto della cosa, bensì la sua struttura d’essere, ciò che la definisce in ciò che è.

Eimarmene La ricerca eidetica, quindi, si contrappone alle scienze dei dati di fatto. Queste si occupano di situazioni prive di necessità, di elementi reali esistenti nello spazio e nel tempo, quindi di elementi contingenti. E tuttavia, ogni essere fattuale possiede una sua essenza, «un eidos afferrabile nella sua purezza, e [...] questa essenza si inserisce in una gerarchia di verità eidetiche di diverso grado di generalità. Un oggetto individuale non è qualcosa di semplicemente individuale, un “questo qui”, un qualcosa di irripetibile, ma, in quanto è “in se stesso” costituito in una determinata maniera, possiede il suo specifico carattere, la sua compagine di predicati essenziali che necessariamente gli competono (competono cioè “all’ente come è in se stesso”), oltre ai quali può ricevere poi altre determinazioni secondarie e relative» (ibi, pp. 15-16). V. Costa BIBL.: M.T. ANTONELLI, Eidos o praxis?, Brescia 1955; N. HARTMANN, Zur Lehre vom Eidos bei Platon und Aristoteles (1941), in Kleinere Schriften, vol. II, Berlin 1957; A. JAULIN, Eidos et Ousia. De l’unité theorique de la metaphysique d’Aristote, Paris 1999. ➨ ESSENZA; FORMA; IDEA; IMMAGINE; OUSIA; SPECIE.

EIERSCHALE (guscio d’uovo). – Nel pensiero Eierschale di Ernst Bloch, i «gusci d’uovo» indicano i depositi inerti del passato, cioè l’inverso della sua eccedenza di senso, ossia l’inerte sopravvivenza dei significati delle epoche trascorse, i quali sono ormai acquisiti, avendo esaurito le loro potenzialità, e la cui permanenza adempie solo alla funzione ideologica di occultamento del senso nascente e di feticizzazione della datità costituita. S. Mancini

EIMARMENE (hJ eiJ m armev n h, sottinteso Eimarmene moi'ra, «la parte assegnata, destino»). – Termine già citato in Platone (Gor., 512 e; Phaed., 115 a) come tipico dei tragici. Pochissimo usato da Aristotele, e nello stesso senso, soprattutto nella Poet. (1455 a 11). Già in Epicuro è usato come termine filosofico per indicare il determinismo di Democrito (Epistola a Meneceo, 134). Diviene un termine tecnico nella filosofia stoica. Per gli stoici indica «la causalità concatenata di ciò che è, oppure la ragione che dirige e governa il cosmo» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII 149). Come ragione che governa il mondo l’eimarmene viene connessa alla pronoia, la provvidenza 3285

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Eimerico de Campo (Ario Didimo, in Stobeo, Ecloghe, I, 79, 1); ma la pronoia esprime l’eimarmene come voluntas dei (Calcidio 144), mentre il termine eimarmene viene usato soprattutto per indicare la catena delle cause. Crisippo fu autore di un Peri; eiJm armevn hß. Il titolo venne poi ripreso dai membri delle altre scuole, che si opposero al determinismo stoico scrivendo anch’essi delle opere intitolate Peri; eiJmarmevnhß. Ci rimangono quella di Alessandro d’Afrodisia, quella dello Pseudo Plutarco e quella di Proclo (ma solo in una versione latina del sec. XIII col titolo De providentia et fato). C. Natali BIBL.: una panoramica generale del concetto si trova in A. MAGRIS, L’idea di destino nel pensiero antico, Udine 1984, 2 voll. ➨ DESTINO; FATALISMO; PROVVIDENZA.

EIMERICO CAMPO (VAN DE VELDE). – FiEimerico deDE Campo losofo albertisa tedesco n. a Son (Eindhoven) nel 1395, m. a Leuven nel 1460. Studia a Parigi tra il 1410 e il 1420, nel 1422 è magister artium a Colonia e nel 1429 vi ottiene una cattedra di teologia. Nel 1432 è inviato dall’università al Concilio di Basilea; nel 1435 è professore di teologia all’università di Leuven. Rappresentante della tradizione neoplatonico-agostiniana, sostiene la posizione albertista; frequenti sono i riferimenti al Liber de causis, a Proclo, allo pseudo-Dionigi e a Raimondo Lullo. Ritiene che l’intelletto umano possa conoscere direttamente l’immateriale e il divino. Riflettono la polemica tra albertisti e tomisti il Promptuarium argumentorum disputatorum inter lileum Albertistam et spineum Thomistam (Köln 1492), le Reparationes naturalis philosophiae secundum processum Albertistarum et Thomistarum (ivi 1492) e i Problemata inter Albertum Magnum et sanctum Thomam (ivi 1517). M. Laffranchi BIBL.: De signis notionalibus trinitatis et unitatis supernae, ed. a cura di M.J.F.M. Hoenen, in «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», 45 (1998), pp. 206-263 (256-263); Opera selecta, ed. a cura di R. Imbach - P. Ladner, Freiburg 2001; Dyalogus super Reuelacionibus beate Birgitte, ed. a cura di A. Fredriksson Adman, Uppsala 2003. Su Eimerico da Campo: J.D. CAVIGLIOLI, Les écrits d’Heimeric de Campo (1395-1460) sur les oeuvres d’Aristote, in «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», 28 (1981), pp. 293-371; Z. KALUZA, La voix créatrice de Dieu. Remarques sur l’«Alphabe-

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tum» de Heimeric de Campo, in H.J. WESTRA (a cura di), From Athens to Chartres: Neoplatonism and Medieval Thought, Leiden 1992, pp. 439-468; M.J.F. HOENEN, Heimeric van de Velde (†1460) und die Geschichte der Albertismus. Auf der Suche nach den Quellen der albertistichen Intellektlehre des «Tractatus problematicus», in M.J F. HOENEN - A DE LIBERA (a cura di), Albertus Magnus und der Albertismus, Leiden 1995, pp. 303-331; A. DUMALA, L’ordre des causes («ordo causarum») dans «Compendium divinorum» par Heimeric de Campo, in «Mediaevalia Philosophica Polonorum», 34 (2001), pp. 75-85.

EINAUDI, LUIGI. – Economista, n. il 24 mar. Einaudi 1874 a Carrù (Cuneo), m. il 30 ott. 1961 a Roma. Professore di Scienza delle Finanze a Pisa e a Torino, fu allontanato dall’insegnamento per le sue idee antifasciste nel 1926. Nel periodo dell’esilio in Svizzera redasse le Lezioni di economia sociale. Fu il primo presidente della repubblica italiana (1948-55). Diresse dal 1908 al 1935 «La riforma sociale», e dal 1936 al 1943 la «Rivista di storia economica». Seguì l’indirizzo liberale in politica e liberista in economia; a differenza di Benedetto Croce, il quale sosteneva che col liberalismo in senso filosofico-politico è compatibile qualsiasi tipo di organizzazione economica, riteneva che il liberalismo possa sussistere solo in una società nella quale esista la massima libertà di iniziativa economica compatibile con l’esplicazione delle funzioni essenziali dello stato. In economia seguì l’indirizzo soggettivo-edonistico; dalla riconosciuta difficoltà di usare lo schema dell’equilibrio generale per l’interpretazione della realtà derivò la necessità di associare alle indagini teoriche quelle della storia dei fatti e delle dottrine economiche. La sua corrispondenza con numerosissime personalità di alto rilievo e la sua biblioteca sono conservate presso la Fondazione Luigi Einaudi di Torino. F. Duchini BIBL.: Opere di Luigi Einaudi, Torino 1958 ss., 20 voll. Su Einaudi: L. FIRPO, Bibliografia degli scritti, Torino 1971; M. FINOIA (a cura di), Il pensiero economico italiano 1850-1950, Bologna 1980; R. FAUCCI, La scienza economica in Italia (1850-1943), Napoli 1981; F. CAFFÈ, Einaudi, Luigi, in J. EATWELL - M. MILGATE - P. NEWMAN (a cura di), The New Palgrave, London 1991, vol. II, pp. 123-124; F. MEACCI (a cura di), Italian Economists of the Twentieth Century, Cheltenham 1998; Convegno Lincei, n. mon. «Rivista di storia economica», 3 (2004).

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EINFÜHLUNG. – Espressione tedesca variaEinfühlung mente resa con immedesimazione, entropatia, identificazione e altre, oggi correntemente con empatia, dice alla lettera di un «sentire (andando) in» altro – persona o anche animale o cosa. Definisce pertanto una peculiare modalità emozionale verso l’oggetto, da cui può scaturire una più intima forma di conoscenza per partecipazione. Il concetto assume in età romantica, specie con Herder e Novalis, caratteri vitalistici e soggettivistici; ma già nella tradizione anglosassone, con Hume e Adam Smith, «empatia», «simpatia», «contagio», «compassione» delineano una costellazione che accompagnerà quasi costantemente le riflessioni sull’empatia. Tra Otto e Novecento la nozione di Einfühlung viene estesa dal campo estetico e morale a quello psicologico-intersoggettivo. Friedrich Theodor Vischer e Robert Vischer, con le loro analisi sulla simbolica e sul sentimento della forma, inaugurano una descrizione fenomenologica degli atteggiamenti che un soggetto può assumere quando si rapporta esteticamente – nell’unità corporea vivente – a un oggetto. Lipps porterà a compimento la ricognizione sull’Einfühlung nella versione estetica e psicologico-intersoggettiva, ritenendola la chiave per la fruizione dell’opera d’arte: vi si percepisce la propria attività emotiva, proiettando in un oggetto sensibile i propri stati d’animo (Ästhetik. Psychologie des Schönen und der Kunst, Hamburg-Leipzig 1903-06; Zur Einfühlung, Leipzig 1913). Husserl e soprattutto la sua allieva Edith Stein e poi Scheler si confrontano criticamente con Lipps, mirando a una fondazione fenomenologico-trascendentale dell’Einfühlung. Cardine del nuovo approccio è il rifiuto dell’immedesimazione, per tener ferma di contro la distinzione tra il soggetto empatizzante e il suo riferimento intenzionale, cioè il vissuto psichico altrui, in uno stretto rapporto per altro con l’esperienza del corpo vissuto (Leib). Husserl, pur mostrando imbarazzo nel riferimento all’Einfühlung, nel corso della sua ininterrotta riflessione sull’intersoggettività la nomina ripetutamente come l’atto specifico tramite cui si ha esperienza del vissuto psichico altrui e si costituisce l’individuo psico-fisico (Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, vol. I, Halle 1913, tr. it a cura di E. Filippini, Idee per una fenomenologia pura e

Einfühlung per una filosofia fenomenologica, Torino 19652; Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, Den Haag 1950, tr. it. a cura di F. Costa, Meditazioni cartesiane e i discorsi parigini, Milano 1960). La Stein invece, anche nelle opere nettamente orientate al problema dell’essere, continua ad assegnare all’Einfühlung un ruolo primario come originaria apertura relazionale che ambisce a fondare gli altri tipi di partecipazione emotiva (Zum Problem der Einfühlung, Freiburg 1917, tr. it a cura di E. Costantini, Il problema dell’empatia, Roma 19982). Nello spirito fenomenologico di una rigorosa distinzione tra i vari vissuti che esprimono il rivivere, il ri-sentire, il condividere la gioia o il dolore altrui, Scheler sviluppa in particolare la nozione di Einsfühlung («unipatia»): una forma pervasiva di relazione affettiva, che precede le distinzioni io-tu, soggetto-oggetto, proprioestraneo, ed è capace di cogliere la realtà nella sua immediata espressività (Wesen und Formen der Sympathie, Bonn 1923, tr. it. di L. Pusci, Essenza e forme della simpatia, Roma 1980). Esempi ne sono la relazione «viscerale» madre-figlio, l’animismo primitivo, la psicologia delle masse, i fenomeni di identificazione isterica già studiati da Freud. Pure in psichiatria e psicologia l’Einfühlung gode di rilevante tradizione. Introdotta tra i primi in psicopatologia da Jaspers – a seguito delle osservazioni già di Dilthey sull’opportunità di una comprensione che afferri il vissuto (Erlebnis) dell’altro nel contesto di un’autentica relazione tra soggetti – l’Einfühlung vi diviene il regolare mezzo per penetrare nel mondo psichico del malato di mente, considerato come persona e non come mero oggetto di trattamento medicale. Infine, l’Einfühlung – nella dizione inglese di empathy – ha conosciuto nuova fortuna con gli sviluppi, nel tardo Novecento, di psicoterapia e psicoanalisi: inficiando il primato riservato all’insight, o mera intuizione intellettuale delle dinamiche psichiche, si insiste sul valore dell’attitudine emozionale del terapeuta a fini sia conoscitivi sia di cura. Anzi, con la psicologia del Sé di Kohut, che ne dilata alquanto il senso, essa diventa il metodo specifico di teoria e tecnica analitica: distinta una «via alta» dell’empatia (la conoscenza della mente altrui tramite «introspezione vicaria»), da una «via bassa» (l’atteggiamento di benevola accoglienza e affettuosa partecipazione), in questo secondo senso es3287

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Eingedenken sa, riproducendo l’attitudine del buon genitore, avrebbe di per sé efficacia terapeutica. L. Boella - M. Fornaro BIBL.: N. EISENBERG - J. STAYER, Empathy and Its Development, Cambridge 1987; A. PINOTTI (a cura di), Estetica ed empatia, Milano 1997; L. BOELLA - A. BUTTARELLI, Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Milano 2000; S. BOLOGNINI, L’empatia psicoanalitica, Torino 2001; M. FORNARO, Empatia: da Jaspers a Freud e oltre, in «Atque», 22 (2001), pp. 43-62. ➨ FENOMENOLOGIA; INSIGHT; INTENZIONALITÀ; PSICOANALISI.

EINGEDENKEN (rimemorazione utopica). – Eingedenken Nel pensiero di Ernst Bloch, la facoltà conoscitiva, operante nella ragione storica, che dà luogo alla categoria della «eredità culturale» è designata nella coppia di Eingedenken (memoria utopica) e di Fortbildung (ultrafigurazione). Eingedenken è un termine desueto, che risale al XIV secolo ed è ripreso nel XIX secolo da un’amica di Richard Wagner, Mathilde Wesendonck. Esso indica l’atto del rimemorare il futuro rimasto conficcato nel passato, custodito nella «tendenza-latenza» e consegnato alla contemporaneità della prassi, in vista di liberarne quelle potenzialità consentite dalla concreta situazione storica. L’Eingedenken è la rimemorazione utopica che disocculta il «plus ultra di futuro non liquidato (unabgegoltener) nel passato» (Experimentum mundi, p. 174, tr. it. a cura di G. Cunico, Brescia 1980, p. 208): quest’ultimo costituisce il «lascito» di un periodo, che comunicandosi ai successivi adempie una funzione «intercentrante», consentendo loro di costruire la rispettiva identità e disegnando così un ideale filo conduttore della storia, che tutti i periodi lega insieme nel cantus firmus della spinta alla liberazione, quale invariante direzione teleologica. Bloch interpreta tale vettore intenzionale di senso come la «sonorità trasversale» emessa da una sorta di «diapason» operante nella storia, che si connota «per un risuonare, per un penetrare con un proprio contrassegno attraverso la serie delle figure» (ibi, p. 174, tr. cit. p. 209). Con questa metafora egli vuole presentare le epoche della storia non solo nel segno dell’irreversibilità della freccia temporale, ma anche in quello della simultaneità e della stratificazione; da questo secondo punto di vista per Bloch è proficuo un approccio topologico al multiverso storico, complementare a quello dialettico, e reso possibile dal fatto che i peri3288

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odi non sono soltanto temporali, ma presentano, al loro interno, una sorta di «residuo» di spazio. La facoltà dell’Eingedenken, dell’utopico rimemorare è la fonte di ogni esperimento etico; infatti, «memoria utopica vuol dire una coscienza dell’evidenza del “giusto”, nel senso del “tanto peggio per i fatti”, e quindi una coscienza di tipo pratico» (ibid.). S. Mancini

EINSTEIN, ALBERT. – Fisico teorico tedesco, Einstein n. a Ulma il 14 mar. 1879 da genitori ebrei, m. a Princeton (New Jersey) il 18 apr. 1955. Trascorse l’adolescenza a Monaco, dove il padre dirigeva una piccola azienda elettrochimica. Nel 1896, dopo aver seguito un corso preparatorio nella scuola cantonale svizzera di Aarau, fu ammesso al Politecnico federale di Zurigo. Nel 1900 vi conseguì la laurea e, in seguito, il dottorato, ma non vi ottenne una posizione come assistente. Condusse le sue prime rilevanti ricerche mentre, cittadino svizzero dal 1902, era impiegato all’Ufficio Brevetti di Berna. I suoi primi lavori scientifici si svolsero su terreni relativamente tradizionali. Seguì una formidabile impennata: in un singolo volume degli «Annalen der Physik» pubblicò, nel 1905, tre fondamentali articoli, sulla teoria quantistica della radiazione elettromagnetica, sul moto browniano e sull’elettrodinamica dei corpi in moto, che ebbero una notevole eco e gli apersero le porte per una rapida carriera universitaria. Professore associato, dal 1909, al Politecnico di Zurigo, vi ritornò, professore ordinario, nel 1912, dopo un anno accademico passato all’università di Praga (1911-12). Nel 1913 fu eletto all’Accademia Prussiana delle Scienze, e l’anno seguente divenne direttore del settore scientifico dell’Istituto Kaiser Wilhelm di Berlino, con uno stipendio speciale e l’esonero da ogni impegno didattico e amministrativo. Nel 1933, con i nazisti ormai dilaganti sulla piazza e in una recrudescenza di attacchi alla «scienza ebraica», Einstein accettò l’offerta dell’Institute for Advanced Study di Princeton, nel New Jersey, un centro di ricerca che, una volta di più, lo avrebbe lasciato libero di dedicarsi interamente alla ricerca. Vi sarebbe rimasto definitivamente, dal 1940 come cittadino americano. Verso la fine del sec. XIX era opinione diffusa che la fisica avesse dato risposta ai quesiti

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fondamentali posti dalla natura. Solo una nube sembrava oscurare il quadro luminoso ottenuto in decenni di fruttuose indagini. Nella visione corrente, per poter rendere conto della propagazione della luce, gli spazi interstellari avrebbero dovuto essere permeati da un mezzo, l’etere cosmico, nel quale, secondo la teoria elettromagnetica codificata da J.C. Maxwell, la luce – più in generale le onde elettromagnetiche – avrebbe dovuto propagarsi con velocità definita. In un sistema in moto rispetto all’etere, come doveva essere la Terra, misure della velocità della luce lungo diverse direzioni avrebbero dovuto dare risultati diversi. Dall’esito di adeguati esperimenti in proposito si sarebbe potuta determinare la velocità assoluta della Terra. Un esperimento potenzialmente capace di evidenziare l’effetto, condotto da A.A. Michelson e E. Morley nel 1887, diede esito negativo. Una risposta, che apparve ai più convincente, alla difficoltà fu elaborata, nel corso di un fruttuoso dialogo a distanza, da H.A. Lorentz e H. Poincaré. Il primo affrontò il problema tecnico di individuare la forma che dovevano assumere le trasformazioni delle coordinate nel passaggio fra il sistema di riferimento dell’etere e un generico sistema in moto rettilineo uniforme rispetto ad esso affinché lasciassero invariate le equazioni di Maxwell dell’elettromagnetismo, cosa che avrebbe dato ragione della circostanza che esperimenti ottici, quali quello di Michelson e Morley, davano lo stesso risultato che se fossero stati condotti in un laboratorio in quiete nell’etere. A questo scopo fu costretto, oltre che a modificare la strutture delle trasformazioni per le coordinate spaziali previste dalla cinematica classica, a introdurre una trasformazione anche per la coordinata temporale. Il secondo, oltre a fornire una prima lettura per quest’ultimo risultato, in un discorso al Congresso internazionale di arti e scienze (Saint Louis, 24 settembre 1904), espresse la convinzione che dovesse valere un «principio di relatività», secondo il quale tutti i fenomeni naturali (e non soltanto quelli meccanici, secondo l’enunciato galileiano) si svolgono nello stesso modo nel sistema di riferimento dell’etere e in sistemi animati rispetto ad esso di un moto rettilineo uniforme. Per cogliere le radici di parte dell’opera successiva di Einstein va ricordato che, in due lavori del 1900, M. Planck aveva formulato una legge per la cosiddetta radiazione di corpo ne-

Einstein ro in perfetto accordo con i dati sperimentali. Nel corso della deduzione fu peraltro costretto a ipotizzare che gli oscillatori responsabili dell’emissione di onde elettromagnetiche da parte della materia solida potessero avere solo livelli energetici discreti, a intervalli determinati dal valore di una nuova costante fondamentale, il cosiddetto quanto d’azione. Nel primo degli articoli del 1905 cui si è accennato, Einstein, in riferimento al lavoro di Planck, metteva in evidenza, per la prima volta in modo esplicito, il fallimento della fisica classica nel rendere conto dell’emissione di radiazione da parte della materia. Mostrava poi che, nel limite delle alte frequenze, la radiazione descritta dalla legge di Planck si comportava come se fosse composta da quanti elementari di energia, dando così inizio al corso di idee che avrebbero portato alla nozione di fotone e alla visione dualistica (onda-corpuscolo) della radiazione elettromagnetica. Sulla base dell’idea dei quanti elementari formulò una legge per l’effetto fotoelettrico che sarebbe stata confermata sperimentalmente da R. Millikan undici anni dopo. In una memoria del 1907 avrebbe poi applicato l’ipotesi planckiana dei livelli discreti agli atomi dei reticoli cristallini, raggiungendo una spiegazione per la variazione, riscontrata sperimentalmente e in attesa di una spiegazione teorica, dei calori specifici con la temperatura. È per il complesso di questi studi, e in particolare per la legge dell’effetto fotoelettrico, che gli sarebbe stato conferito, nel 1921, il premio Nobel per la fisica. Nel secondo, interpretò il cosiddetto «moto browniano» (il moto disordinato e incessante di particelle di dimensioni lineari inferiori al micron in sospensione in un liquido) come dovuto all’azione delle molecole del liquido, derivando per esso leggi che sarebbero state controllate positivamente da J. Perrin, e apportando così un contributo decisivo alla teoria cinetico-molecolare della materia. Nel terzo, considerato il punto di partenza di quella che sarebbe poi stata chiamata teoria della relatività, proponeva una base alternativa per la problematica affrontata da Lorentz e Poincaré. Il concetto di etere era eliminato a priori; il principio di relatività era riaffermato come equivalenza fra tutti i sistemi di riferimento inerziali; accanto ad esso si postulava che la velocità della luce nel vuoto avesse lo stesso valore in tutti i sistemi inerziali, e che quindi, contrariamente al senso comune, non fosse 3289

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Einstein soggetta alle usuali leggi di composizione delle velocità. L’esito negativo dell’esperimento di Michelson e Morley ne riceveva un’immediata spiegazione. Le trasformazioni di Lorentz erano riderivate sulla base dei principi fondamentali anziché su basi riguardanti fenomeni ottici o elettromagnetici. Il postulato dell’invarianza della velocità della luce implicava una profonda revisione dei concetti di spazio e di tempo, per la quale le determinazioni sperimentali di lunghezze e durate dipendevano dallo stato di moto relativo fra l’oggetto della misura e l’osservatore. La stessa dinamica newtoniana doveva essere modificata. Einstein previde, in particolare, che la massa dell’elettrone dovesse dipendere dalla velocità, circostanza che avrebbe ricevuto le prime conferme sperimentali qualche anno dopo. Per le conferme dirette degli aspetti cinematici si sarebbe invece dovuto attendere fino agli anni quaranta. Nello stesso anno Einstein pubblicò, in un altro fascicolo degli «Annalen», anche una breve nota nella quale si ponevano le basi della relazione generale fra massa ed energia, tema che avrebbe approfondito in scritti successivi. Negli anni fra il 1907 e il 1915 Einstein diede corpo a quella che egli stesso chiamò teoria della relatività generale (RG), in partenza concepita in relazione a una possibile estensione del principio di relatività a tutti i sistemi di riferimento quale che ne fosse lo stato di moto relativo (di qui l’aggettivo «ristretta» applicato alla teoria del 1905), di fatto una nuova teoria della gravitazione – espunta dal novero delle forze ed esprimentesi in termini di una modifica della geometria spazio-temporale – e dello spazio-tempo in presenza di gravitazione. Questa creazione einsteiniana conobbe un clamoroso successo quando A. Eddington confermò, nell’occasione dell’eclisse totale del 1919, l’effetto di deflessione dei raggi luminosi provenienti da stelle e passanti in prossimità del Sole previsto dalla teoria. Dopo una lunga fase di stanca, i controlli osservativi e sperimentali – sempre più precisi e a tutt’oggi tutti positivi – della RG hanno conosciuto un grande rilancio grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie resesi disponibili. Fra i lavori successivi di Einstein almeno tre meritano una menzione specifica. Nel primo di essi, del 1917, sia pur rimanendo vincolato all’idea di un universo statico, egli poneva molte delle basi della cosmologia teorica del 3290

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XX secolo, improntata a una visione geometrica della gravitazione. Nel secondo, del 1925, Einstein applicò ai gas materiali il metodo statistico, introdotto dal fisico indiano S. Bose per il gas di fotoni. Nasceva così la prima statistica quantistica (statistica di Bose-Einstein), quella applicabile, come in seguito si sarebbe riconosciuto, alle particelle di spin intero. Per il caso dei gas materiali, Einstein previde un effetto quantistico di cambiamento di stato – che doveva aver luogo a temperature bassissime – che sarebbe stato riscontrato, date le difficoltà tecniche, solo nel 1995. Nel terzo, scritto in collaborazione con N. Rosen e B. Podolsky (EPR), sulla base di definizioni plausibili di «elemento di realtà fisica» e di completezza di una teoria fisica – una teoria è completa se rende conto di tutti gli elementi di realtà fisica attribuibili a un sistema – perveniva alla conclusione che la meccanica quantistica non era una teoria completa. Questo lavoro avrebbe stimolato, a distanza di decenni, numerosi studi teorici sulla possibilità di un suo completamento in termini di «variabili nascoste» che avrebbero potenzialmente potuto ripristinarvi il determinismo, nonché studi sperimentali che esclusero la possibilità di teorie di variabili nascoste che preservassero la località, che non ammettessero cioè la trasmissione istantanea di informazioni a distanza. I tentativi di Einstein, condotti nel periodo di Princeton, di spiegare su base geometrica, accanto ai fenomeni gravitazionali, anche quelli elettromagnetici, non andarono invece al di là di risultati formali, come del resto quelli di vari autori a lui contemporanei che si cimentarono con lo stesso problema. La prassi della ricerca einsteiniana ha posto in primo piano temi di grande interesse per quanto riguarda il metodo della ricerca fisica e la logica della scoperta scientifica. Circa il metodo – come sottolineato in particolare da P. Bridgman – la sottolineatura dell’importanza di una definizione operativa dei concetti fisici, che lo portò alle conclusioni ricordate circa la dipendenza delle nozioni di durata e lunghezza dallo stato di moto relativo fra sistema fisico in studio e osservatore. K. Popper ha poi sottolineato, in particolare per la RG, il potere predittivo della formulazione einsteiniana, da attribuirsi alla sostituzione di processi induttivi con processi ipotetico-deduttivi.

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L’epistemologia di Einstein, empirista e più specificamente machiana all’epoca delle prime opere, mutò in modo piuttosto radicale dopo la formulazione della RG, fino a fargli scrivere – in termini che elaborano e perpetuano il passo galileiano del Saggiatore sul linguaggio in cui è scritto il gran libro della natura – che questa «è la realizzazione di tutto ciò che si può immaginare di più matematicamente semplice», dove, beninteso, la semplicità è da intendersi sul piano logico. È la visione complessiva che, nel corso della sua vita, con espressioni vigorose, diventate quasi proverbiali, Einstein evocherà come un attributo della divinità. Tutte le religioni rivelate, egli dirà, hanno in comune il carattere antropomorfico dell’idea di Dio. Il rifiuto, totale e definitivo, di questa concezione non comporta però che si debba ignorare «l’ordine mirabile» che si rivela nella natura. A un rabbino che gli chiese se credeva in Dio, Einstein rispose: «Credo nel Dio di Spinoza, che si rivela nell’armonia di tutte le cose, non in un Dio che si interessa del destino e delle azioni degli uomini». È «il Dio di Spinoza» quello di cui dirà: «Sottile è il Signore Iddio, ma non maligno». Dunque un Dio che non gioca a dadi col mondo, come quello in cui mostravano di credere i costruttori della meccanica quantistica. Va infatti ricordato che Einstein, che pure aveva contribuito in modo essenziale all’edificazione della meccanica quantistica, non accettò mai, come del resto altri dei suoi padri fondatori, il suo inerente indeterminismo. Ancor prima del lavoro EPR, questo atteggiamento fece sì che esercitasse una funzione di stimolo presso gli altri autori, obbligandoli sovente a un affinamento della loro stessa interpretazione del formalismo quanto-meccanico. L. Pasquinelli - S. Bergia BIBL.: The Collected Papers of Albert Einstein, a cura di J. Stachel et al., Princeton (New Jersey) 1987 ss. (Sono previsti complessivamente 25 volumi, dei quali sono usciti i primi nove). Singole opere in versione italiana: Il significato della relatività, tr. it. di L. Radicati di Brozolo, Torino 1950; A. EINSTEIN - L. INFELD, L’evoluzione della fisica, tr. it. di A. Graziadei, Torino 1965; Pensieri degli anni difficili, Torino 1965; B. CERMIGNANI (a cura di), Relatività: esposizione divulgativa, Torino 1967; Opere scelte, a cura di E. Bellone, Torino 1988; L’anno memorabile di Einstein. I cinque scritti che hanno rivoluzionato la fisica del Novecento, a cura di J. Stachel, Bari 2001.

Eirico d’Auxerre Su Einstein: P. FRANK, Einstein: His Life and Times, London 1948; P.A. SCHILPP (a cura di), Albert Einstein Philosopher-Scientist, New York 1949, tr. it. di A. Gamba, Albert Einstein scienziato e filosofo, Torino 1958 (con saggi di vari autori); E. CASSIRER, Einstein’s Theory of Relativity, New York 1953; M. PANTALEO (a cura di), Cinquant’anni di relatività, Firenze 1955 (prima versione italiana degli articoli basilari di Einstein su RR, RG, cosmologia e teorie unitarie, per complessivi sette titoli, e saggi di vari autori); B. HOFMANN, Albert Einstein Creator and Rebel, London 1972; A. PAIS, “Subtle is the Lord...”. The Science and the Life of Albert Einstein, Oxford 1983, tr. it. di L. Belloni e T. Cannillo, “Sottile è il Signore...”. La scienza e la vita di Albert Einstein, Torino 1986; R. MAIOCCHI, Einstein in Italia. La scienza e la filosofia italiane di fronte alla relatività, Milano 1985.

EIRICO D’AUXERRE. – Filosofo, n. nell’841, Eirico d’Auxerre m. nell’876. Formatosi a Fulda, a Ferrières e a Laon, dove venne a conoscenza della filosofia di Scoto Eriugena, dal maestro irlandese Elias, Eirico fu il primo maestro, seguito poi da Remigio, della scuola di Auxerre, istituzione attiva nel processo di rivitalizzazione degli studi letterari, teologici e filosofici che, da Aquisgrana, culla dell’accademia palatina, stava interessando tutta l’Europa e che contribuì a quel grande risveglio culturale dell’occidente latino dall’avvento delle dominazioni barbariche che la storiografia tradizionale ha indicato con l’espressione «rinascita carolingia». La sua opera principale è costituita dalla Vita di San Germano, un poema agiografico, cui lo stesso Eirico aggiunse ampie glosse marginali di interi brani del trattato eriugeniano Sulle nature. Gli si attribuiscono inoltre commenti al trattato aristotelico Dell’interpretazione, oltre che all’Isagoge di Porfirio. Caratteristica di questi scritti appare essere la forte dipendenza dal pensiero di Scoto Eriugena a proposito del concetto di natura, che comprende Dio e le creature, l’essere e il non-essere; più originale risulta invece la sua dottrina circa gli universali, ove prende le distanze dal realismo eriugeniano per sostenere che gli universali sono dei nomi che designano i diversi aspetti delle realtà particolari. A. Bisogno BIBL.: R. QUADRI (a cura di), I collectanea di Eirico di Auxerre, Friburgo 1966 (con bibliografia a pp. XIXV); R. QUADRI, Sulla data di morte di Eirico di Auxerre, in «Studi Medievali», 24 (1983), pp. 355-366; F. CORVINO, Giovanni Scoto Eriugena e la scuola di Au-

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Eisler xerre, in Storia della filosofia diretta da Mario Dal Pra, vol. V, Milano 1975, p. 97.

EISLER, ROBERT. – Storico, filologo e filosofo Eisler austriaco, seguace di Avenarius, n. a Vienna il 27 apr. 1882, m. a Oxted (Surrey) il 17 dic. 1949. Nei suoi studi di storia della cultura, specialmente in Weltenmantel und Himmelszelt. Religionsgeschichtliche Untersuchungen zur Urgeschichte des antiken Weltbildes (München 1910), Eisler si sforza di ritrovare nel mondo orientale prima del sorgere della civiltà greca, l’origine di tutte le visioni del mondo poi affermatesi in Occidente, compresa la rivelazione cristiana. In tale ricerca, egli segue il filo conduttore della storia dei simboli e dei loro sviluppi e modificazioni, soprattutto nell’arte e nella poesia. Red. BIBL.: altri scritti di interesse filosofico: Die Erkenntnistheorie der ästhetischen Kritik, Wien 1902; Studien zur Werttheorie, Leipzig 1902; Der Wille zum Schmerz, Wien 1904; Plato, His Personality and Politics, Oxford 1950.

EISLER, RUDOLF. – Filosofo spiritualista e Eisler storico della filosofia, n. il 7 genn. 1873 a Vienna, m. ivi il 14 dic. 1926. Studiò a Praga, Vienna e Lipsia, ove formò la sua concezione filosofica sulle dottrine di Wundt; lavorò e insegnò privatamente a Vienna, ove fu tra i fondatori della Società sociologica. Ispirandosi a Wundt e Kant, elaborò un fenomenalismo obiettivo monistico, mirante alla sintesi di realismo empirico e di idealismo trascendentale, e intese la filosofia come la scienza che indaga criticamente i principi del conoscere e ne organizza i risultati in un’intuizione omnicomprensiva della realtà. Tra le opere teoriche: Kritische Einführung in die Philosophie, Berlin 1905; Einführung in die Erkenntnistheorie, Leipzig 1907; Grundlagen der Philosophie des Geisteslebens, ivi 1908, oltre a un’ampia serie di studi sul rapporto anima-corpo, da Der psychophysische Parallelismus (ivi 1894) a Geist und Körper (Göttingen 1912). Di ampiezza enciclopedica fu la sua attività come storico della filosofia, dalla traduzione di autori francesi e inglesi, agli studi kantiani (nel 1930 fu pubblicato postumo a Berlino un KantLexikon) e alla Geschichte des Monismus (Esslingen 1910); attività concretata infine nella preparazione di quegli utili strumenti di lavoro che sono il Philosophen-Lexikon (Berlin 1912), lo Handwörterbuch der Philosophie (ivi 1913; 3292

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19222), e particolarmente il Wörterbuch der philosophischen Begriffe, 4a ed. in 3 voll., ivi 192730. Cfr. del Kant-Lexikon la ripr., Hildesheim 1961, e l’ed. minore, ivi 1964. F. Barone BIBL.: M. SZTERN, R. Eisler und seine Philosophie, in «Kant-Studien», 1927, pp. 428-34; E. SELOW, s. v. in «Neue deutsche Biographie», IV, Berlin 1959, pp. 421-22.

EIXIMENIS (EXIMENIS, XIMENES), FRANCISCO. Eiximenis – Scrittore catalano, francescano, n. a Gerona nel 1340 ca., m. a Perpignano nel 1412 ca. Studiò fuori dalla Spagna e insegnò a Tolosa; visse poi a Barcellona e dal 1383 a Valenza. Nel 1408 gli fu conferito il patriarcato di Gerusalemme. Poligrafo (il più fecondo della cultura catalana medievale dopo Lullo e Arnaldo da Villanova), manifesta l’influenza di Gioacchino da Fiore; opera principale: Lo crestià, lavoro di apologetica, di cui si conoscono soltanto, e forse furono i soli stesi, su 13 preventivati, i libri I (Valencia 1483), III (ed. a cura di P. Martí de Barcelona, Barcelona 1929-32, 3 voll.), che tratta ampiamente la filosofia morale, e il XII, di argomento politico (Valencia 1484), donde Eiximenis trasse il Regiment de la cosa pública, che presenta in modo originale i diritti e i doveri del principe e del popolo (ed. a cura di D. de Molins de Rei, Barcelona 1927; ed. it. a cura di G. Zanoletti, Siena 1986; testi in Grande Antologia filosofica, Milano 1964, vol. VII, pp. 361366). C. Testore BIBL.: D.J. VIERA, Bibliografía anotada de la vida i obra de Francesc Eiximenis (1340-1409?), Barcelona 1980; J. PERARNAU I ESPELT, Documents i precisions entorn de Francesc Eiximenis (c. 1330-1409), in «Arxiu de Textos Catalans Antics», 1 (1982), pp. 191-215; A.G. HAUF, Fr. Francesc Eiximenis, O. F. M., «De la predestinaçión de Jesucristo», y el consejo del Arcipreste de Talavera «a los que deólogo mucho fundados non son», in «Archivum Franciscanum Historicum», 76 (1983), pp. 239-295; S. VILA, La ciudad de Eiximenis: un proyecto teórico de urbanismo en el siglo XIV, València 1984; A. ANTELO IGLESIAS, La ciudad ideal según fray Francesc Eiximenis y Rodrigo Sánchez de Arévalo, Madrid 1985; D.J. VIERA, Más sobre manuscritos, incunables y ediciones raras de la obra de Francesc Eiximenis, in «Archivio Ibero-Americano», 47 (1987), pp. 57-62; D.J. VIERA, La Dona en Francesc Eiximenis, Barcelona 1987; G. DIAZ DIAZ, Hombres y documentos de la filosofía española, Madrid 1988, vol. III, pp. 13-20; C. GUARDIOLA ALCOVER, Juan de Gales, Cataluña y Eiximenis, in «Antonianum», 64 (1989),

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Elan vital

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pp. 330-365; P. SANTONJA - A. IVARS (a cura di), El escritor Fr. Francesc Eximénez en Valencia (13831408): recopilación de los ecritos publicados por el padre Andrés Ivars en la Revista «Archivio Ibero-Americano» sobre Francesc Eiximenis y su obra escrita en Valencia, Benissa 1989; L. CERVERA VERA, Francesc de Eiximenis y su sociedad urbana ideal, Madrid 1989; M. AURELL, Eschatologie, spiritualité et politique dans la confédération catalano-aragonaise (1282-1412), Cahiers de Fanjeaux, vol. XXVII, Toulouse 1992, pp. 191-235; M.J. PÉLÁEZ, Estudios de istoria del pensamiento político y jurídico catalán e italiano, Málaga 1993, pp. 37-80, 81-107, 109-129; D.M. ROGERS, A «stemma codicum» for Francesc Eiximenis’ «Dotzè del Crestià», in L.J. SIMON (a cura di), Iberia and the Mediterranean World of the Middle Ages: Essays in Honor of Robert I. Burns S. J., Leiden 1995, vol. I, pp. 322334; J. HADZIIOSSIF, L’ange custode de Valence, in A. VAUCHEZ (a cura di), La réligion civique à l’époque médiévale et moderne (Chrétienté et Islam), Collection de l’École Française de Rome, vol. CCXIII, Roma 1995, pp. 135-152; L. VONES, s. v. in W. KASPER (a cura di), Lexikon für Theologie und Kirche, Freiburg i.B. 1993-20013, vol. III, coll. 1114-1115; C. CLAUSELL NÁCHER, El P. Carmona, O. F. M., confesor de Adriano VI y probable traductor del «Llibre de les Dones» de Francesc Eiximenis, in «Archivum Franciscanum Historicum», 89 (1996), pp. 287-305; P. SCHULTHESS - R. IMBACH, Die Philosophie im lateinischen Mittelalter, Zürich-Düsseldorf 1996, pp. 420-421; J.O. PUIG, El concepte de participacío en el pensament clàssic: l’aportació de la teoria eiximeniana de la ciutat, la comunitat i la cosa pública, in «Actes del II Congrés Català de Sociologia (Girona, 15-17 d’abril de 1994)», Barcelona 1996, vol. I, pp. 193-213; D.J. VIERA, Francesc Eiximenis’s Dissension with the Royal House of Aragon, in «Journal of Medieval History», 22 (1996), pp. 249-261; M.J. PELÁEZ - M.E. GÓMEZ ROJO, El pacifismo y la tolerancia en el pensamiento social y politico de Francesc Eiximenis, in AA.VV., Toleranz und Intoleranz im Mittelalter, «VIII. Jahrestagung der Reinecke-Gesellschaft (Toledo 14.-20. V. 1997)», Wodam Greifswalder Beiträge zum Mittelalter, vol. LXXIV, Greifswald 1997, pp. 73-81; J. PERARANAU I ESPELT, Un paràgraf del Primer de crestià de Francesc Eiximenis inspirat en el «De Mysterio cymbalorum» d’Arnau de Vilanova, in «Arxiu de Textos Catalans Antics», 17 (1998), pp. 507-510; M.T. FERRER MALLOL, Frontera, convivencia y proselitismo entre cristianos y moros en los textos de Francesc Eiximenis y de San Vicente Ferrer, in J.M. SOTO RÁBANOS (a cura di), Pensamiento medieval hispano: Homenaje a Horacio Santiago-Otero, Madrid 1998, vol. II, pp. 1579-1600; J. PUIG MONTADA, Francesc Eiximenis y la tradición antimusulmana peninsular, Madrid, pp. 1551-1577; K. RIVERS, Memory and Medieval Preaching: Mnemonic Advice in the Ars Praedicandi of Francesc Eiximenis (ca. 1327-1409),

in «Viator», 30 (1999), pp. 253-284; U. LINDGREN, s. v. in G. AVELLA-WIDHALM et al. (a cura di), Lexikon des Mittelalters, Stuttgart-Weimar 1999, vol. III, coll. 1760-1761.

’EL ( ). – Il nome divino che ricorre di fre’El quente nella letteratura antico-testamentaria. La denominazione si trova già nelle testimonianze religiose ugaritiche e proto-israelitiche. Nei documenti scoperti nel 1928 nell’antica città di Ugarit sulla costa dell’alta Siria, ’El figura come il padre delle divinità (in concorrenza però con ’Asherah [Astarte]). Egli è considerato come creatore del mondo. Melchisedek (Gn 14, 18-20) benedice Abramo in nome di «’El eccelso» (qeo;" oJ u{yisto" nella traduzione greca dei Settanta), creatore del cielo e della terra. Dal luogo citato del Genesi (14, 22) risulta che gli ebrei consideravano ’El eccelso come il Dio unico, che essi adoravano. Nel periodo più antico gli ebrei subirono l’influenza delle popolazioni autoctone, e praticarono il culto di ’El nel senso inteso dai popoli politeisti (Os 12, 1; Ez 28, 2). Nella Bibbia ’El si trova spesso associato al nome divino Shaddaj per esprimere il concetto di Dio onnipotente in tutto il creato. Talvolta ricorrono le espressioni: Dio di misericordia, di bontà, di fedeltà (cfr.: Es 34, 6; Dt 5, 10 e 32, 1ss.), Dio vivo (Gn 3, 10), Dio del Patto (Gdc 9, 46), Dio onnisciente (1 Sam 2, 3), Iddio giusto e soccorritore (Is 45, 21), Dio di splendore e di maestà (Sal 29, 3-4). E. Zolli BIBL.: A. MURTONEN, A Philological and Literary Treatise on the Old Test-Divine Names, Helsinki 1952; M.H. POPE, EI in the Ugarit Texts, in «Vetus Testamentum», suppl. II (1955); O. EISSFELDT, EI and Jahwe, in «Journal of Semitic Studies», 1 (1956), pp. 25-37; W.H. SCHMIDT, ’el Dio, in E. JENNI - C. WESTERMANN, Theologisches Handwörterbuch zum Alten Testament, München-Zürich 1971, ed. it. a cura di G.L. Prato, Dizionario teologico dell’Antico Testamento, Torino 1978, vol. I, coll. 124-130. ➨ DIO; ’ELOHIM; NOMI DIVINI.

ELAN VITAL (slancio vitale). – È, secondo Elan vital Bergson, il principio semplice e dinamico di tutta la realtà, la forza intima che ne provoca tutte le forme e manifestazioni. La totalità della vita, compresa come slancio vitale, è oggetto di studio della metafisica. L’élan vital che opera nella natura costituisce, nella compren3293

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’El‘azar

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sione olistica dell’autore, anche la chiave per l’interpretazione del mondo sociale. G. Cogliandro

’EL‘AZAR, ’El‘azar BEN JEHUDAH DA WORMS. – N. a Mainz nel 1165 ca., m. a Worms nel 1230 ca. Studioso ebreo nel campo della halakhah, della teologia, dell’esegesi e autore di inni liturgici. Fu l’ultimo grande esponente del chassidismo tedesco medievale. Proveniva da una delle più importanti famiglie ebraico-tedesche, i Kalonymus (di lontane origini lucchesi). Dopo aver frequentato molti centri di studio in Germania e nella Francia settentrionale, si stabilì a Worms. Nelle sue opere ricorda più volte avvenimenti a lui contemporanei, comprese le violenze antiebraiche in cui trovarono la morte sua moglie e due suoi figli. Il complesso della sua opera può dividersi in cinque ambiti: l’halakhah, la poesia liturgica (pijjutim), la teologia mistica, l’etica e l’esegesi. Il suo scritto teologico più importante furono i Sodè Razajja’ (Segreti dei segreti). Quattro parti dell’opera furono stampate (Bilgoroj 1936), tuttavia la sezione maggiore è ancora manoscritta. La prima parte del testo pubblicato descrive i modi in cui furono creati la terra, le stelle, gli elementi ecc. ’El‘azar scrisse questa sezione come un’esegesi basata sulle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, in accordo con la credenza, derivata dal Sefer Jetzirah, che in esso fossero racchiusi i segreti e le modalità operative della creazione. La seconda parte dell’opera affronta un altro topos della mistica ebraica: la cosiddetta «opera del Carro» in riferimento a Ezechiele 1. Essa descrive il mondo divino e angelico. La terza e più ampia parte, intitolata Sefer ha-Shem (Libro del Nome), è costituita da un’esegesi sistematica dei nomi di Dio; la quarta parte tratta dell’anima (Chokhmat ha-nefesh [Sapienza dell’anima], Lemberg 1876). P. Stefani BIBL.: G. SCHOLEM, Die jüdische Mystik in ihren Hauptströmungen, Zürich 1957, tr. it. di G. Russo, Le grandi correnti della mistica ebraica, Torino 1993, pp. 123-172.

ELEATISMO. – Corrente filosofica sorta verso Eleatismo la fine del VI secolo a. C., ad Elea, città della Magna Grecia (lat. Velia; a sud di Paestum), e fiorita durante il secolo successivo. Capitolo cruciale nella storia del pensiero dei presocratici, già Platone (Soph., 242 d) e Aristotele (Metaph., I, 5, 986 b) ne riconobbero l’importanza, sottoline3294

ando l’unità sostanziale della dottrina esposta negli scritti dei suoi maggiori rappresentanti (Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso). Quanto a Senofane, considerato sin dall’antichità «fondatore della scuola eleatica», la storiografia moderna ha sollevato non pochi dubbi sul ruolo da lui sostenuto nella storia dell’eleatismo, dato che la sua figura di rapsodo, critico della società e della religione, studioso della natura, pare conciliarsi a fatica con gli interessi e il metodo prevalenti negli altri rappresentanti di questo indirizzo filosofico. In effetti, tanto Parmenide, che possiamo considerare l’autentico iniziatore dell’eleatismo, come Zenone – e, in qualche modo, pure Melisso – mostrano una spiccata tendenza a occuparsi delle difficoltà logico-linguistiche che invalidano i tentativi, posti in essere dai precedenti filosofi della natura, di spiegare la molteplicità dei fenomeni e il loro mutamento; per cui risulta necessario il riesame dei criteri che fondano la certezza del «sapere» filosofico, rispetto all’inconcludenza e contraddittorietà delle «opinioni». Per Parmenide la «verità» cui il filosofo aspira non coincide affatto con la conoscenza dell’«origine» delle cose; ovvero del «principio» divino che tutte le contiene, anima e governa. Ciò che conta, è, invece, rendersi conto che ogni possibile ricerca della verità, è segnata, nella sua «via» e meta finale, dalla necessità immutabile e inderogabile di affermare, col pensiero e la parola, «ciò che è». L’inflessibile univocità dell’«ente», che è sempre tutt’intero e non è soggetto a cambiamento, da un lato rende palese l’assurdità dei discorsi che gli uomini comunemente si scambiano, nei quali si afferma contraddittoriamente che la cosa, o «ente», di cui si parla, «è» e insieme «non è»: è questo, ma non quello; è in un certo modo, ma non come era o come sarà. Considerazioni analoghe obbligano a condannare come mera apparenza il mondo delle «cose», che i mortali stoltamente credono reali, dando credito alla testimonianza dei sensi, e alle opinioni che il costume e la consuetudine insinuano nelle loro menti. Questa contrapposizione netta fra la realtà «vera» dell’«ente» sempre identico, ingenerato e che non può cessare di esistere; e quella illusoria dell’«opinione» che senza criterio assume come esistente il «non essere» dei fenomeni molteplici e in movimento, conduce necessariamente alla critica radicale delle cosmologie ioniche precedenti, in particolare della più raffinata e «metafisica» tra esse, la fi-

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losofia di Eraclito. Dopo Parmenide, la riflessione del discepolo e successore Zenone approfondisce e difende le ragioni del caposcuola, ponendo in luce, con argomentazioni sottili, le aporie che invalidano la tenuta logica delle rappresentazioni della quantità continua e del movimento. A questo proposito, sono famosi i «paradossi» con cui Zenone, applicando la reductio ad absurdum – la tecnica «dialettica» che avrà fortuna nell’insegnamento «retorico» di alcuni sofisti (è il caso di Gorgia) e presso la scuola socratica dei megarici, fino a Diodoro Crono (fine IV secolo a. C.), e che influenzerà notevolmente il metodo ipotetico-deduttivo dei matematici greci – dimostra l’inconsistenza dei ragionamenti di quanti, in vario modo, si opponevano alla concezione che Parmenide aveva dell’«ente». Con Melisso, infine, la filosofia eleatica sembra allontanarsi dall’originario orientamento logico e fare ritorno ai temi tradizionali della «fisica» ionica; tanto che Aristotele reputa la filosofia di Melisso concettualmente meno elaborata rispetto a quella dei suoi predecessori. Tuttavia, anche grazie al sistema melissiano, la crisi profonda che l’eleatismo ha introdotto nella trama concettuale del monismo dei «fisiologi» ionici, si sviluppa ulteriormente, condizionando gli assetti epistemologici delle dottrine pluraliste e i nuovi modelli destinati a «salvare i fenomeni», elaborati da Empedocle, Anassagora, Democrito. Per altro verso, anche nell’insegnamento di Protagora e Gorgia, si mostra presente la lezione dell’eleatismo, soprattutto nell’assidua attenzione che i maggiori tra i sofisti portano alla questione del rapporto che il pensiero-discorso ha con la realtà. Le suggestioni provenienti dall’ontologia eleatica sono raccolte ed elaborate da Platone – soprattutto nel dialogo dedicato alla figura del «venerando e terribile» Parmenide – in vista dell’approfondimento dei temi decisivi concernenti l’«essere» e il «non-essere», l’«identico» e il «diverso», sullo sfondo della discussione intrattenuta da Socrate con i sofisti, riguardante la verità e la possibilità dell’errore. Invece, negli scritti di Aristotele (Phys., I 1-3, 184 b 15-187 a 11; Metaph., A 5, 986 b 11-987 a 35), l’esposizione delle tesi fondamentali dell’eleatismo – unitamente a quella delle altre filosofie presocratiche, di Socrate e Platone – rientra nell’introduzione «dialettica» dell’indagine sui principi fisici e la sostanza, momento di vero e proprio collaudo della più matura trattazione personale. Ma che la «crisi»

Eleatismo suscitata dall’eleatismo venisse avvertita dalla cultura filosofica del tempo come punto di svolta capitale, vale a testimoniarlo lo scritto De Xenophane, Melisso et Gorgia, che, se non è opera di Aristotele stesso, certamente riflette un aspetto degli studi storico-filosofici promossi dalla scuola peripatetica del Liceo. G.F. Pagallo BIBL.: testi e testimonianze: H. DIELS, Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di W. Kranz, Berlin 1961-64, 21 (Senofane), 28 (Parmenide), 29 (Zenone),30 (Melisso), tr. it. di P. Albertelli, Bari 1939 (rist. in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, vol. I, Roma-Bari 1981); v. le edd. a cura di M. Untersteiner (Senofane, Firenze 19672; Parmenide, 19672; Senofane, 19672) e di G. Reale (Melisso, Firenze 1970). Bibliografie: E. ZELLER, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, a cura di R. Mondolfo, Firenze, vol. III: Gli Eleati, a cura di G. Reale, Firenze 1967, pp. XIII-XXXIX (fino al 1967); A. CAPIZZI, Introduzione a Parmenide, Roma-Bari 1975, pp. 122-127; W. TOTOK, Handbuch des Geschichte des Philosophie, vol. I: Altertum, Frankfurt am Main 1997, pp. 156-167; B. SIJAKOVIC, Bibliographia praesocratica, Paris 2001. Studi: sui presocratici e i singoli autori citati v. le voci rispettive; inoltre K. REINHARDT, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Bonn 1916; G. CALOGERO, Studi sull’eleatismo, Roma 1932 (nuova ed. Firenze 1977); R. MONDOLFO, Note sull’eleatismo, in «Rivista di filologia e d’istruzione classica», 1934, pp. 209-228; J. ZAFIROPULO, L’Ecole éléate, Paris 1950; A. CAPIZZI, Recenti studi sull’eleatismo, in «Rassegna di Filosofia», pubblicata dall’Istituto di filosofia dell’università di Roma, 1955, pp. 205-213; H. SCHWABL, Die Eleaten, in «Anzeiger für die Altertumswissenschaft», 1957, pp. 195-226; V. GUAZZONIFOÀ, Attualità dell’ontologia eleatica, Torino 1961; J.H.M.M. LOENEN, Parmenides, Melissus, Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, New York 1961; W.K.C. GUTHRIE, A History of Greek Philosophy, vol. II, Cambridge 1965 (rist. 1980), cap. I; G. PRAUSS, Platon und der logische Eleatismus, Berlin 1966; G. CALOGERO, Storia della logica antica, vol. I, Bari 1967, pp.109208; E. ZELLER, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, vol. I a cura di R. Mondolfo, t. III: Gli Eleati, a cura di G. Reale, Firenze 1967; W. LESZL, Parmenide e l’Eleatismo, Pisa 1986; AA.VV., «Atti del Convegno Internazionale su La Scuola Eleatica», in «La Parola del Passato», 43 (1988); AA.VV., Saggi sulla filosofia eleatica, Napoli 1988; A. SZABÒ, Die Philosophie der Eleaten und die Mathematik der Griechen, in «La Parola del Passato», 43 (1988); R.B.B. WARDY, Eleatic pluralism, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», 70 (1988), pp. 125-146; E. BERTI, La dialettica eleatica nell’interpretazione di Hegel, in La Cultura filosofica della Magna Grecia. «Atti del Convegno in-

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Eleftherópulos ternazionale (Messina 1987)», Messina 1989, pp. 21-42.

ELEFTHERÓPULOS, AVROTÉLIS (Abrotéles Eleftherópulos Eleutherópoulos). – Filosofo greco, n. a Costantinopoli nel 1869, m. ad Atene il 26 nov. 1963. Laureatosi in filosofia a Lipsia (1892-96), fu incaricato (1897) e ordinario nell’Università di Zurigo (1914) e poi ordinario di sociologia in quella di Salonicco (1930-37). Le sue opere principali sono: Soziologie, Jena 1904 (3a ed. 1923); Das Schöne, Leipzig 1906; Einführung in eine wissenschaftliche Philosophie, ivi 1908 (nuova ed. in greco, Athina 1952); Das Seelenleben, Zürich 1911; Philosophie. Allgemeine Weltanschauung, ivi 1911 (nuova ed. in gr., Atene 1950); Die exakten Grundlagen der Naturphilosophie, Stuttgart 1926 (nuova ed. in gr., Athina 1935). Opere in greco: Il bello e l'arte, ivi 1932; La vita sociale degli uomini, ivi 1934; La vita psichica degli uomini, ivi 1935 ; Religione, Dio, Moralità e gli uomini, ivi 1953. Eleftherópulos sostiene un monismo assoluto e materialistico. Al di là dei fenomeni, c'è l'essere che è la sostanza prima, ignota e inconoscibile. Gli esseri ne sono la manifestazione relativa ed evolutiva. Anche l'uomo viene dall'evoluzione della vita inferiore e se ne distingue come ente capace di formulare un ideale autonomo sia sul come dovrebbe essere il mondo (arte) sia sul come dovrebbe vivere l'uomo per avere un valore propriamente umano (etica). Ma arte ed etica non implicano nessun rapporto con alcun principio trascendente. Religione e Dio personale sono solo dei rimedi per consolare l'uomo delle sue impotenze. F. Weber BIBL.: P. KANELLÓPULOS, in «Archivio di filosofia e di teoria delle scienze» (in gr.; Athina), 1930, p. 480 ss.; D. KALITSUNAKIS, Avrotélis Eleftherópulos, in «Arch. di sc, econ.» (Athina), 1963, p. 1001-1002.

ELEMENTARE (elemental, elementary; eleElementare mentar; élémentaire; elemental). – È, in generale, tutto ciò che ha rapporto con elemento, nei suoi diversi significati. Forme elementari sono seconda la scolastica le forme sostanziali dei corpi semplici o elementi, mentre Spirito elementare è detto da alcuni filosofi (Paracelso, Heinrich Cornelius Agrippa, occultisti moderni) una specie di anima inferiore che si manifesterebbe nelle azioni dei corpi inorganici. 3296

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In particolare riguardo alla logica è da ricordare la distinzione che fa Immanuel Kant nella seconda parte della Dottrina trascendentale degli elementi della Critica della ragion pura (tr. it. di P. Chiodi, Torino 1977, pp. 125-134) tra «logica elementare» (come logica dell’uso generale dell’intelletto) e «logica dell’uso particolare». La prima comprende le leggi necessarie dell’intelletto a prescindere dagli oggetti cui si rivolge, mentre la seconda identifica le regole per pensare rettamente una determinata specie di oggetti. Sempre dal punto di vista logico, Ludwig Wittgenstein chiama «proposizione elementare» quella che afferma l’esistenza di un fatto atomico, mentre ogni altra proposizione è risultato di operazioni con proposizioni elementari. In sociologia, presso Émile Durkheim elementare è sinonimo di essenziale e primitivo: si pensa cioè che, per scoprire i tratti essenziali di un fenomeno sociale, p. es. la vita religiosa, il metodo migliore sia quello di rifarsi alle forme primitive che, secondo i postulati della scuola, sarebbero anche necessariamente le più semplici. In chimica, con «analisi elementari» viene definito un metodo di analisi che può essere qualitativa se ha lo scopo di determinare la natura degli elementi che entrano a far parte di un composto organico, oppure quantitativa se mira a stabilire i rapporti coi quali i diversi elementi sono presenti nel composto. V. Miano - N. Reali BIBL.: É. DURKHEIM, Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie, Paris 1921; L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, Frankfurt am Main 1960.

ELEMENTO (element; Element; élément; eleElemento mento). – Tra i significati primi e fondamentali di elemento, in greco (stoicei{on) e in latino (elementum), spicca quello di lettera dell’alfabeto o carattere che è parte di una sillaba. In senso traslato, elemento viene presto a significare la parte prima e più semplice di un composto o di una mescolanza (p. es. l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco come «quattro elementi» delle realtà fisiche); allo stesso tempo, l’uso del termine elemento si collega alla struttura assiomatica di una scienza, ricondotta a proposizioni semplici non riducibili ad altre, come accade negli Stoicei'a (Elementi di geometria) di Euclide.

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Testimone di questa duplicità di significato è il corpus delle opere di Aristotele: da un lato, stoicheion è applicato alla geometria e si riferisce, secondo un uso probabilmente accademico, alle sue proposizioni elementari non ulteriormente dimostrabili (p. es. Cat., 12, 14 b 1; Metaph. B 3, 998 a 25-26); ma più spesso stoicheia sono gli elementi dei corpi, ossia «quelle parti nelle quali essi si risolvono in ultima analisi e le quali non possono più scomporsi in altre di diversa specie» (Metaph. D 3, 1014 a 32). In generale Aristotele definisce elemento «il primo costitutivo di una cosa, intrinseco, indivisibile in parti di diversa specie» (ibi, 1014 a 26): quindi, elemento di un corpo è un corpo semplice, ossia un composto di materia e forma (che non sono corpi, ma principi dei corpi) non ulteriormente divisibile in parti di differente natura; viceversa, il corpo composto può essere risolto in altri corpi di diversa specie. Concretamente, in linea con il Timeo platonico (cfr. 53 b - 59 c), elementi sono, nel mondo sublunare, acqua, aria, terra e fuoco, e, nel mondo celeste, l’etere. Questo concetto di elemento attraversa tutta la storia del pensiero filosofico e scientifico, in particolare nella chimica rimanendo sostanzialmente immutato. P. es., nel suo Dictionnaire de chimie (Paris 1776, I, p. 376) il teorico del «flogisto» Pierre-Joseph Macquer scrive: «Si dà in chimica il nome di elemento ai corpi che sono di una tale semplicità che tutti gli sforzi dell’arte sono insufficienti per decomporli, e per produrre su di loro qualunque specie di alterazione, e che d’altra parte entrano come principi o parti costituenti nella combinazione degli altri corpi che si denominano perciò corpi composti»; e Antoine-Laurent Lavoisier, il chimico della Rivoluzione Francese, nel Traité élémentaire de chimie (Paris 1789, p. 376), osserva: «Se col nome di elemento noi intendiamo designare le molecole semplici e indivisibili che compongono i corpi, è probabile che noi non li conosciamo; che se al contrario noi applichiamo al nome di elemento o di principio dei corpi l’idea dell’ultimo termine a cui arriva l’analisi, tutte le sostanze che noi non abbiamo potuto scomporre con qualunque mezzo, sono per noi degli elementi; noi non possiamo assicurare che questi corpi che noi riteniamo semplici non siano essi stessi composti di due o più principi, ma essendo che questi principi non si separano mai, o meglio essendo che noi

Elemento non abbiamo nessun mezzo per separarli, essi agiscono su di noi come corpi semplici, e dobbiamo supporli composti solo al momento in cui l’esperienza e l’osservazione ce ne avranno fornito la prova». Lavoisier insiste sulla necessità di ricorrere all’esperienza per determinare quali corpi siano semplici e quali no, ma anche in questo raccoglie per un certo verso l’eredità degli antichi. La stessa teoria empedoclea delle quattro radici (rJizwvmata), cioè terra, acqua, aria, fuoco, che è arrivata fino alla soglia dell’epoca moderna, non pare stabilita aprioristicamente, ma per analogia agli stati di aggregazione e soprattutto in riferimento a una certa procedura di analisi (cfr. p. es. H. Diels - W. Kranz [a cura di], Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-526, 31 B 17). «E ciò è provato» – scrive Tommaso d’Aquino commentando il De caelo di Aristotele (lez. VIII) – «dalla stessa scomposizione, perché i corpi composti si risolvono in tali corpi semplici: come appare nella risoluzione del corpo animale che si risolve in polvere e in una certa umorosità e in alcuni vapori, e così pure avviene per gli altri composti. Come poi questi corpi, in cui si risolvono gli altri, non siano a loro volta risolvibili, perché anche questo appartiene alla definizione di elemento, Aristotele lo prova aggiungendo che nel fuoco non è presente, né secondo la potenza né secondo l’atto, la carne o il legno. Se infatti carne o legno fossero nel fuoco, questo si potrebbe risolvere in quelli, ma ciò non si verifica in alcun modo: dal fuoco si genera la carne e il legno non per risoluzione, ma per aggiunta e mistione di altri corpi semplici alterati». Nel pensiero aristotelico è ammissibile – come del resto nel Timeo di Platone (cfr. 56 d - 57 b) – che i quattro elementi si trasformino gli uni negli altri (per semplice corruzione di uno e generazione dell’altro); ma se nel Timeo questa possibilità di trasformazione dipende dalla struttura geometrica degli elementi, ricondotti ai cinque solidi regolari, in Aristotele è legata al fatto che gli elementi sono composti di materia e di forma e presentano proprietà contrarie, per cui possono agire l’uno sull’altro (ciascun elemento possiede due qualità, una delle quali è comune con un altro principio; così il fuoco è caldo e secco, l’aria è calda e umida, l’acqua è fredda e umida, la terra è fredda e secca). Qui sembra riscontrarsi una differenza profonda tra la concezione di Aristotele e la 3297

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Elemento teoria empedoclea delle quattro radici: pare infatti che per Empedocle i corpi che troviamo in natura siano un risultato dell’unione degli elementi che rimangono in sé invariati (cfr. Diels-Kranz [a cura di], op. cit., 31 A 40-44; B 21), e quindi egli come gli atomisti rigetterebbe ogni mutazione intrinseca dei corpi elementari; per Aristotele invece si dà la possibilità di vere mutazioni intrinseche agli elementi, dato che essi non esistono nel composto in atto, ma in potenza. Aristotele non risolve tale questione nel De caelo (cfr. III, 3), ma specialmente nel De generatione et corruptione (cfr. I, 10): se gli elementi fossero in atto nel composto, non si avrebbe una vera composizione, ma solo un miscuglio, mentre è proprio del composto avere delle proprietà nuove irriducibili a quelle dei componenti ed essere omogeneo in tutte le sue parti. D’altro canto, bisogna tenere presente che dalla scomposizione di un certo corpo complesso risultano sempre gli stessi elementi, quindi questi devono rimanere nel composto in qualche modo: «Così i componenti né persistono in atto, come il corpo e il bianco, né sono distrutti, sia l’uno o l’altro, sia ambedue, perché la loro potenza è conservata» (ibi, 327 b 29-30). Filtrata dalle posizioni assunte in proposito da Avicenna e da Averroè – che egli riporta e discute in più luoghi (p. es. In II Sent., distinctio 12, q. 1, art. 4; In III De caelo et mundo, comm. 67) –, Tommaso d’Aquino si interroga su questa soluzione aristotelica, esprimendosi definitivamente su di essa nella Summa theologiae (I, q. 76, art. 4 ad 4um), dove rileva che «le forme degli elementi rimangono nel composto, non in atto ma potenzialmente (non actu sed virtute): rimangono infatti le qualità proprie degli elementi benché attenuate, nelle quali si esplica il potere delle forme elementari». Questa concezione, che è coerente con la tesi dell’unicità dell’anima nell’uomo, dopo contrasti assai vivaci che culminano nella condanna del 1277, finisce per diventare comune e viene anche ripresa nella filosofia neoscolastica, ove talora si ritorna alla teoria della molteplicità e subordinazione delle forme sostanziali, per risolvere difficoltà sollevate dalle nuove scienze fisiche e biologiche. In epoca moderna, con l’imporsi dell’alchimia, alle quattro proprietà fondamentali ammesse da Aristotele, si sostituiscono altre proprietà, come il poter bruciare, lo splendore metallico, 3298

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il sapore, l’alterarsi o meno all’azione del calore; di conseguenza, si considerano come elementi i seguenti quattro corpi, cui sono legate le suddette proprietà: il solfo, il mercurio, il sale e la terra, che con la loro mescolanza danno origine a tutti gli altri corpi. Per motivi analoghi Paracelso, fondatore della iatrochimica, pone questi cinque principi primitivi: lo spirito o mercurio (per ciò che è volatile e odoroso), l’olio o il solfo (per ciò che è infiammabile), il sale (per ciò che è sapido e solubile), l’acqua o flemma (per ciò che è liquido e insipido) e la terra o caput mortuum (che comprende le sostanze non volatili, insipide e insolubili). Nell’ambito della pratica scientifica, Boyle pone in dubbio a partire dal 1661 che gli elementi aristotelici siano corpi semplici e considera elementi i metalli noti alla sua epoca, nella convinzione che solo essi siano, oltre che tangibili e ponderabili, non decomponibili. Tuttavia, agli inizi del Settecento la chimica sembra ritornare all’idea antica, e così lo Stahl ammette cinque elementi: la terra, l’aria, l’acqua, l’acido universale e il flogisto (detto anche etere o terra infiammabile). A lui si unisce Lavoisier, che distingue i corpi semplici o indecomposti, e indecomponibili con i mezzi attuali fisico-chimici, dagli elementi propriamente detti, ma concorda sul fatto che gli elementi siano cinque: il calore, la luce, l’ossigeno, l’idrogeno e l’azoto; i corpi semplici sono, poi, distribuiti in gruppi: sostanze non metalliche ossidabili e acidificabili; sostanze metalliche ossidabili e acidificabili; sostanze terrose, salificabili; in questa maniera, egli stila una prima tabella degli elementi chimici, che comprende una trentina di sostanze. Nel corso del sec. XIX, perfezionandosi i metodi di indagine (importantissima quella spettrale) e determinandosi man mano le leggi della chimica, vengono conosciuti, separati e classificati i diversi elementi: lo svedese Jöns-Jacob Berzelius, p. es., nel suo Manuale di chimica (Lehrbuch der Chemie, Stockholm 1818), corregge e amplia la tabella di Lavoisier, escludendone il calore e la luce e portando il numero degli elementi a una cinquantina. Dopo molteplici tentativi di altri chimici, il russo Mendeleev propone nel 1869 la sua tabella periodica degli elementi, disposta secondo i pesi atomici crescenti. La tabella Mendeleev-Moseley, nel mezzo della quale non può essere inserito nessun nuovo elemento, ammette – e ha di fatto

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ammesso – l’aggiunta alla sua fine di ulteriori elementi, di natura transuranica. Gli elementi della tabella originaria sono sufficienti a spiegare le pure reazioni chimiche, però oggi si riconduce la nozione di elementi non al suo peso atomico, ma al suo numero atomico: gli elementi chimici sono costituiti di atomi dotati dello stesso numero di protoni nel nucleo, e di un numero di elettroni orbitali, fuori del nucleo, uguale a quello dei protoni presenti nel nucleo. Per le stesse ragioni, legate alla complessità della struttura atomica, anche nella fisica contemporanea elemento non è più l’atomo come era concepito nei secoli scorsi e dagli antichi atomisti, perché questo era un corpuscolo, un minimo indivisibile quantitativamente, e qualitativamente indifferenziato. V. Miano - E. Cattanei BIBL.: P. TANNERY, La géométrie greque, Paris 1887 (rist. Hildesheim 1988); A. FOREST, La structure métaphysique du concret selon st. Thomas d’Aquin, Paris 19562 (1931); A.G.M. VAN MELSEN, Atom, Atomtheorie, in J. Ritter (a cura di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, vol. I, Basel 1971, coll. 603, 606-611 (con bibliografia); A. LUMPE, Element, in J. Ritter (a cura di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, vol. II, Basel 1972, coll. 439-441; W. SCHWABE, «Mischung» und «Element» im Griechischen bis Platon. Wort- und begriffsgeschichtliche Untersuchungen, insbesondere zur Bedeutungsentwicklung von «Stoicheion», Bonn 1980 [«Archiv für Begriffsgeschichte», Supplementheft 3]. ➨ ACQUA; ALCHIMIA; ARIA; ATOMISMO; CHIMICA; ELEMENTARE; ETERE; FUOCO; PRINCIPIO; TERRA.

ELEMOSINA (Alms; Almosen; aumône; limoElemosina sna). – Il termine deriva dal greco ejlehmosuvnh (compassione) e designa varie forme di aiuto nei confronti del prossimo in difficoltà. In contesto religioso il desiderio di aiutare il prossimo si coniuga con quello di conseguire meriti di fronte a Dio in questa vita e in quella futura. Nell’induismo l’elemosina, prevista sia come forma di offerta nei confronti della casta sacerdotale sia come aiuto a figure specifiche di bisognosi, è ritenuta in grado di migliorare il destino karmico di chi la compie. Nel buddhismo l’elemosina è chiamata a garantire la sussistenza dell’ordine monastico, la cui perfezione spirituale, ricadendo su quella dei donatori, è in grado di accrescerne i meriti. La Bibbia ebraica più volte indica il soccorso di chi ha bisogno come un dovere del fedele, come per esempio in Dt 15, 11 («poiché il povero

Elemosina non mancherà mai nel tuo paese, io ti ho comandato: apri la tua mano al tuo fratello povero e al misero del tuo paese»). Della letteratura intratestamentaria si veda Tb 4, 7 («dei tuoi beni fa’ elemosina. Non distogliere mai lo sguardo dal povero, così non si leverà da te lo sguardo di Dio»). Nell’ebraismo l’elemosina (matan-tzedaqah) testimonia di fronte a Dio la generosità e la bontà del donatore, soprattutto se compiuta in modo adeguato, cioè volentieri e segretamente, come sostiene per esempio Maimonide che definisce la donazione anonima come una delle forme più perfette di elemosina. Nell’Islam l’elemosina, considerata uno dei doveri fondamentali del musulmano, è nello stesso tempo pratica di purificazione rispetto al possesso delle ricchezze e atto di solidarietà nei confronti dei poveri; come tale è prevista sia nella forma di una donazione individuale che ogni fedele può versare a sua discrezione sia nella forma di una donazione legalizzata (tzaqat) che il fedele versa in un fondo comune destinato ai membri più bisognosi della comunità. Nel cristianesimo, dove l’elemosina è prevista sia nella forma dell’offerta personale a singoli sia in quella della donazione a istituzioni deputate alla distribuzione di beni materiali e spirituali (ordini religiosi, chiesa), l’idea dell’elemosina come dovere verso il prossimo e verso Dio è fondata sull’identificazione tra il bisognoso e il Cristo (Mt 25, 31-46) e come tale declinata nella dottrina delle opere di misericordia corporale e spirituale dove vengono compendiate tutte le forme di elemosina che il cristiano deve esercitare nei confronti del prossimo in vista della salvezza. Sostiene questa dottrina un’ininterrotta riflessione, dai padri fino ai nostri giorni, che iscrive il dovere dell’elemosina ora all’interno del circuito della carità, là dove l’attenzione sia concentrata sui meriti del donatore, cioè sulla sua capacità di amore e di compassione e sui modi in cui l’offerta viene compiuta, ora in quello della giustizia, là dove l’attenzione sia rivolta ai bisogni del beneficiato, alla possibilità di migliorare le sue condizioni e dunque alla necessità di una diversa distribuzione delle ricchezze. Questa dialettica tra meriti del beneficiario e bisogni del beneficiato dà luogo nella scolastica pre- e post-tridentina a una casistica dell’elemosina fondata sulla distinzione fra il necessario e il superfluo. Stabilito che l’elemosina consiste nel donare ciò che è necessario per il beneficato e non necessario per il donatore, vengono variamente distinti sia i gradi del 3299

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Elenchos bisogno del beneficato, che vanno dal bisogno estremo che implica pericolo per la sopravvivenza alle varie condizioni che implicano privazioni più o meno gravi, sia quelli del superfluo del donatore, che a loro volta vanno da ciò che è superfluo rispetto alla sopravvivenza di sé e della propria famiglia a ciò che è superfluo rispetto al mantenimento di uno status; l’incrocio tra queste diverse condizioni determina di volta in volta l’obbligo dell’elemosina. In tal modo la riflessione sull’elemosina, muovendosi tra l’idea di un possesso delle ricchezze inteso come amministrazione di un bene comune che l’elemosina contribuisce a ridistribuire e l’idea di una legittima accumulazione di ricchezze escluse dal circuito dell’elemosina nella misura in cui garantiscono il benessere di una condizione sociale, coincide in parte con la riflessione sulla legittimità del possesso dei beni e del loro accumulo. C. Casagrande BIBL.: R. BROUILLARD, Aumone, in AA.VV., Catholicisme hier, aujourd'hui, demain, Paris 1948 ss., vol. I, coll. 1050-1056; s. v. Charity, in AA.VV., Encyclopaedia judaica, Jerusalem 1971 ss., vol. 5, coll. 338-353; I. NOYE, Miséricorde (Oeuvres de), in Dictionnaire de spiritualité, ascétique et mystique, Paris 1980, vol. X, coll. 1328-1349; CH.S.J. WHITE, Elemosina, in M. ELIADE (a cura di), Enciclopedia delle religioni, Milano 1996, vol. III, pp. 168-170.

ELENCHOS. – Rivista italiana, fondata nel Elenchos 1980 da Gabriele Giannantoni. Viene edita a cura dell’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee (ILIESI), sezione Pensiero antico, del Consiglio Nazionale delle Ricerche. La rivista è normalmente composta di quattro parti (studi e saggi, discussioni, recensioni e segnalazioni bibliografiche, informazioni) e ha periodicità semestrale; i due fascicoli escono a maggio e a novembre. Questa rivista è l’unica in Italia dedicata interamente al pensiero antico e ha lo scopo di promuovere e incoraggiare questi studi, come esplicitamente indicato dal fondatore. È inoltre caratterizzata dall’unità di campo e non dall’unità di orientamento interpretativo, nell’intento che proprio dal confronto e dal dibattito tra posizioni diverse nasca un progresso degli studi. La rivista è collegata anche alla collana dallo stesso nome, «Elenchos», fondata anch’essa 3300

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da Gabriele Giannantoni, che cura l’edizione di testi e studi sulla filosofia antica. G. Negro

ELENCHOS (gr. e[legco" «prova, confutazioElenchos ne» - elenchus; Elenchos, Elenchus; elenchus; elenco). – È il processo per cui Socrate confutava il suo interlocutore e ne smascherava la falsa scienza. Red. BIBL.: G. REALE, Storia della filosofia greca e romana, vol. IX, Milano 2004, pp. 131-132. ➨ CONFUTAZIONE; IGNORATIO ELENCHI.

ELENCHOS, FORMALIZZAZIONE DELLO. – SOMElenchos MARIO:

I. Premessa. - II. Preliminari logici. - III. Formalizzazione della procedura elenctica: calcolo elenctico E. - IV. Non conclusività dell’argomento elenctico. I. PREMESSA. – Una forma di giustificazione esterna (eterofondazione) dei principi logici – quale può essere la giustificazione via evidentiae – non è possibile. Al suo posto la tradizione classica (in particolare Aristotele) ha avanzato una forma di giustificazione interna (autofondazione), priva di presupposti, interamente basata sulle regole procedurali del contesto e, quindi, non necessitata a stabilire agganci con elementi esterni. L’elenchos è la forma classica di autofondazione ed esso consiste, secondo la lezione aristotelica, nel mostrare che il negatore del principio ha bisogno, proprio allo scopo di dare significato alla sua negazione, di presupporre il principio stesso. Esempio paradigmatico di applicazione dell’elenchos è il quarto libro della Metafisica, ove Aristotele dà prova di una fondazione elenctica del principio di non contraddizione. La trattazione formale dell’argomentazione elenctica, che è oggetto della presente voce, riguarderà esclusivamente l’elenchos applicato a tale principio. Da esso, pertanto, prende inizio la nostra analisi. Scopo di tale analisi è mostrare come la struttura dell’elenchos sia sintattica e come l’assunzione di un punto di vista sintattico sia in ogni caso richiesta ai fini della formalizzazione. Anche nel caso del principio di non contraddizione, obiettivo dell’elenchos è mostrare che il negatore del principio ha bisogno, proprio allo scopo di dare significato alla sua negazione, di presupporre il principio stesso. In concreto, infatti, il negatore del principio di non contraddizione (lo scettico) è costretto, per dare significato alla sua stessa posizione, a concepire l’op-

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posizione di positivo e negativo. Senza intendere tale opposizione, quale significato potrebbe avere la presunta negazione del principio di non contraddizione? Ma concepire l’opposizione significa affermare la legge dell’opposizione tra positivo e negativo, legge che è identica al principio stesso. Dunque, chi nega il principio – non a parole, ma conferendo significato alla sua negazione – è costretto ad accettarlo. L’elenchos consiste in questo passaggio dalla negazione sensata della tesi alla sua affermazione. Tuttavia, esistono dei problemi nel modo di interpretare la forma di significato che il negatore del principio è obbligato a conferire alla sua negazione. Che cosa può significare per lo scettico negare il principio di non contraddizione? Significa naturalmente affermare la contraddizione. Ma, che cosa significa, a sua volta, per lo scettico, contraddizione? La nozione di contraddizione si può considerare definita in riferimento al contesto semantico condiviso dall’assertore del principio di non contraddizione, contesto secondo il quale ¬α è vero se e solo se lo stato di cose espresso da a non è attuale. Tale modo naturale di intendere la negazione soffre, tuttavia, di un limite decisivo. Non è detto, infatti, che lo scettico intenda la negazione in tal senso e il suo opponente (assertore del principio di non contraddizione) non può pretendere che lo faccia. Avanzare la pretesa che lo faccia coinciderebbe con il pretendere che lo scettico già ammetta in partenza il principio, essendo questo necessariamente implicato dal contesto semantico richiamato. In altre parole, il buon funzionamento dell’elenchos richiede che sia individuata una dimensione di intesa tra scettico e suo opponente, che possa essere condiviso da entrambi. Questo non pare tuttavia possibile se si richiede la condivisione del contesto semantico del sostenitore del principio di non contraddizione, perché questo coinciderebbe con il far assumere già in partenza allo scettico il principio o, comunque, una teoria che lo implica. L’intesa paritaria ci può essere solo se esiste un contesto sintattico minimale di regole formali che definiscono l’uso del segno di negazione condiviso da entrambi i contendenti, a prescindere dallo specifico significato semantico che essi gli conferiscono in base al loro specifico punto di vista. Il seguito della presente voce presenta un contesto formale che soddisfa tali requisiti. Esso è costituito essenzialmente da un sistema formale entro il quale è possibile formaliz-

Elenchos zare l’argomentazione elenctica sopra illustrata. Tale formalizzazione consente di ottenere che l’elenchos non è incondizionatamente conclusivo. Anche l’argomentazione elenctica richiede, per essere conclusiva, che valgano alcune – per quanto debolissime – condizioni preliminari. II. PRELIMINARI LOGICI. – Un’esposizione sufficiente e completa del linguaggio e dei sistemi di regole di cui si farà uso nel seguito di questa voce si può trovare in S. Galvan, Non contraddizione e terzo escluso. Le regole della negazione nella logica classica, intuizionistica e minimale, Milano 1997. In questa sede ci limitiamo a fornire le indicazioni essenziali per la lettura dei segni linguistici e metalinguistici. Si farà uso del linguaggio enunciativo abituale. Le formule di tale linguaggio saranno designate metateoricamente attraverso lettere greche minuscole. I segni X e Y saranno usati quali variabili metateoriche per insiemi di tali formule.  sarà il segno metateorico della relazione di derivabilità. Le regole saranno presentate nella formulazione tipica della deduzione naturale per sequenze. Di queste, però, ci limiteremo a presentare solo quelle che interessano il tema della formalizzazione dell’elenchos. Per le altre si rinvia al testo citato o a un qualsiasi manuale che fornisca la presentazione dei calcoli, classico (sistema K), intuizionistico (sistema I) e minimale (sistema J) nella formulazione sequenziale. Innanzitutto, nella nostra analisi è importante il gruppo delle regole che riguardano esclusivamente l’uso dei connettivi della congiunzione, disgiunzione e implicazione: A (Regola d’assunzione), I ∧ (Introduzione della congiunzione nel conseguente), E ∧ (Eliminazione della congiunzione nel conseguente), I ∨ (Introduzione della disgiunzione nel conseguente), ∨I (Introduzione della disgiunzione nell’antecedente), I → (Introduzione della implicazione nel conseguente), MP (Modus Ponens). Nel loro insieme esse costituiscono la base comune della logica classica, intuizionistica e minimale (che per questo sarà indicata nel seguito attraverso la lettera B). In secondo luogo, non possono mancare alcune importanti regole e alcuni principi riguardanti la negazione. In particolare saranno utili: (1) le regole caratteristiche, rispettivamente, del calcolo classico K, di quello intuizionistico I e di quello minimale J; (2) il principio di non contraddizione NC, la regola di 3301

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autocontraddizione AC e la prima regola di contrapposizione C(a): Regole della negazione (¬k), (¬i), (¬j):

Regola della negazione classica (¬k)

X¬  Y ¬ ¬ X∪Y 

Regola della negazione intuizionistica (¬i)

X Y¬ X∪Y 

Regola della negazione minimale (¬j)

X  Y ¬ X∪Y  ¬

Principi della negazione NC, AC, C(a):

NC

 ¬(α ∧ ¬α)

AC

X α  ¬α X  ¬α

C(a)

X αβ X ¬β  ¬α

III. FORMALIZZAZIONE

DELLA PROCEDURA ELENCTICA:

CALCOLO ELENCTICO E.

– Il calcolo E costituisce, come abbiamo detto all’inizio, il contesto rispetto al quale avviene il confronto tra il negatore del principio di non contraddizione (d’ora in poi NC) – ovvero lo scettico – e il suo opponente, ovvero l’assertore del principio di non contraddizione. Il calcolo E serve per trattare la versione locale dell’elenchos, ovvero la procedura di confutazione della formulazione locale della contraddizione (la particolare contraddizione p ∧ ¬p asserita dallo scettico). La versione generale della tesi scettica consiste, invece, nell’affermazione che per ogni enunciato p vale p ∧ ¬p . Chiaramente la formulazione generale è più forte, ma, appunto per questo, più difficile da sostenere. Nel seguito sarà presa in considerazione solo la formulazione locale, decisamente più insidiosa. Nella costruzione di E è usato il linguaggio enuncia3302

tivo richiamato nella sezione precedente. La contraddizione asserita dallo scettico sarà indicata attraverso la lettera t. Vediamo ora le regole che caratterizzano il calcolo E. Innanzitutto, tra le regole di E sono da assumere tutte le regole relative al comportamento dei segni logici diversi dalla negazione ritenute necessarie per assicurare quella minimale condizione di significanza del discutere a cui neppure lo scettico può sottrarsi. Si noti, infatti, che non sarebbe, ad esempio, assicurata la significanza della tesi sostenuta dallo scettico se, per caso, egli non condividesse le regole della congiunzione: quale significato avrebbe l’affermazione della contraddizione se non fosse previamente dato il significato della congiunzione, significato fissato dalle regole relative? Per comodità assumeremo che tali regole siano tutte quelle appartenenti alla base comune B dei sistemi K, I e J, definita nel paragrafo precedente. La regola tipica di E riguarda, tuttavia, la negazione. Essa è la regola di autocontraddizione elenctica seguente:

AE

τ  ¬τ  ¬τ

Si noti la somiglianza con la usuale regola di autocontraddizione AC, già sopra richiamata. AE si ottiene da AC per semplice sostituzione di a con t e cancellazione di X. In sintesi, dunque: E=B+AE. Ma qual è la giustificazione di AE? Per comprendere la ragione dell’introduzione di AE, occorre riflettere sulla struttura dell’intera strategia dello scettico. Oltre alla minimale condizione di significanza, sopra menzionata, lo scettico deve soddisfare anche una minimale condizione di coerenza. Non certamente una condizione basata sul rispetto del principio di non contraddizione – che lo scettico si propone al contrario di negare – ma quella richiesta dall’esigenza per lo scettico (1) di impegnarsi su tutto ciò che è implicato dalla sua tesi – il darsi della contraddizione – e (2) di non accettare niente che sia incompatibile con essa. In altri termini, è essenziale che valga tutto ciò che è essenziale per assicurare il valore della tesi scettica e che sia negato tutto ciò che le è incompatibile. Nelle parole dello scettico: affermo tutto ciò che è condizione necessaria della mia posizione e nego tutto ciò che la elimina.

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Ebbene, è proprio grazie a tale condizione minimale di coerenza che AE risulta giustificata anche agli occhi dello scettico. Tale condizione, formalizzata, viene a coincidere, infatti, con le due seguenti regole, costituenti, insieme con B, la teoria condivisa dallo scettico e che, in ragione di ciò, indicheremo in seguito con la sigla TS:

S1

 

e

S2

α  ¬τ  ¬α

Ora, si confronti AE con S2. AE non è altro che una esemplificazione di S2. Per questo, la giustificazione di AE, nella prospettiva dello scettico, segue dalla giustificazione di S2 e, in prospettiva più ampia, da quella di S1. Ancora una osservazione riguardante il rapporto tra AE, da una parte, e S1, S2, dall’altra. Si è visto che S2 include la regola AE, ma che non è ad essa equivalente e si può, inoltre, vedere che AE non intrattiene un rapporto diretto con S1. Ci si potrebbe chiedere perché il calcolo elenctico E non contenga le regole che caratterizzano la strategia dello scettico nella loro globalità. La risposta è però ovvia. Il calcolo elenctico deve contenere le regole alle quali ambedue i contendenti sono disposti ad attenersi e, quindi, le regole a cui si attiene non solo lo scettico ma anche il suo opponente. Ora, non avrebbe alcun senso pretendere che l’opponente accetti S1 o S2. Infatti, accettare tali due regole significa, come si può facilmente vedere, accettare anche t, il che non può essere certamente condiviso dall’opponente dello scettico. In altre parole, mentre S1 e S2 sono assiomi tipici della teoria rappresentata dallo scettico, E è il calcolo che ne costituisce la base comune, condivisa anche dal suo avversario. IV. NON CONCLUSIVITÀ DELL’ARGOMENTO ELENCTICO. – A questo punto, ci si può facilmente rendere conto che per confutare elencticamente il sostenitore di t, è necessario mostrare che ¬τ è una tesi di E e, a tale scopo, sarebbe da ottenere E ¬(p ∧ ¬p), ove τ ≡ p ∧ ¬p . Ma ciò è im-

possibile. Per ottenere ¬τ è necessario qualcosa di aggiuntivo rispetto al calcolo E. La dimostrazione è per assurdo: sia τ ≡ p ∧ ¬p , occorre dimostrare E ¬τ E ¬τ Ipotesi per assurdo E ¬( p ∧ ¬p ) def. τ B + AC ¬( p ∧ ¬p ) per ché AC implica AE ma: B + AC ¬(p ∧ ¬p) quindi: E ¬τ Il cuore della dimostrazione sta, naturalmente, nel fatto che B + AC ¬(p ∧ ¬p), enunciato che non è possibile ottenere senza entrare in particolari tecnici non affrontabili in questa sede e per i quali si rinvia al testo precedentemente richiamato. Il senso dell’enunciato si può però illustrare attraverso lo schema seguente, dal quale risultano i rapporti principali – che sono d’interesse per il nostro discorso – tra le regole e i principi della negazione già presentati nel paragrafo dei preliminari. Per comprendere il modo in cui tali rapporti vi sono visualizzati occorre tenere presente che: (1) la freccia sta a indicare la relazione tra regola derivabile (arrivo della freccia) e regole che servono da premessa (punti di partenza della freccia); (2) la relazione di derivabilità è definita rispetto alle regole della base comune B. AC

(¬ k)

(¬ i)

(¬ j )

C (a)

NC

Così dalla figura si può ricavare che, sullo sfondo della base comune B: ( ¬ k) implica ( ¬ j) e ( ¬ i); ( ¬ j) implica a sua volta AC, C(a) e NC; d’altro lato, ( ¬ j) è implicata da AC+C(a) o da AC+( ¬ i); per questo, il rifiuto di NC, sotto la condizione di validità di AC, implica il rifiuto sia di C(a) sia di ( ¬ i). Però non ci sono frecce 3303

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Elettra che escono soltanto da AC e terminano in NC, il che sta a significare che NC non si può ottenere dalla regola AC da sola. In effetti, NC si può ottenere da AC solo attraverso la mediazione di regole eccedenti il sistema B+AC, quali sono C(a) o ( ¬ i). Nello schema precedente tale relazione figura in modo indiretto, nel senso che a NC si arriva attraverso ( ¬ j). In conclusione, si può dire che ¬ t, nella formulazione locale, si ottiene dallo schema AC (e quindi a maggior ragione dallo schema elenctico AE, che è più debole) solo presupponendo qualche principio eccedente il calcolo elenctico E. Lo scettico, pur rispettando le regole comuni del contendere rappresentate da tale calcolo, non è dunque costretto a respingere la sua tesi. D’altro lato, però, la non conclusività della procedura elenctica non va sopravvalutata. È, infatti, sufficiente accettare una regola elementare come la prima regola di contrapposizione per restituire all’elenchos tutta la sua forza dimostrativa. S. Galvan BIBL.: H. HERMES, Introduction to Mathematical Logic, Berlin - Heidelberg - New York 1973; G. SUNDHOLM, Systems of Deduction, in D. GABBAY - F. GUENTHNER (a cura di), Handbook of Philosophical Logic. Vol. I: Elements of Classical Logic, Dordrecht 1983, pp. 133188; A. CORRADINI, Riflessioni sul principio di non contraddizione, parte I in «Epistemologia», 8 (1985), pp. 217-246, parte II in «Epistemologia», 9 (1986), pp. 14-31; E. BERTI, Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Palermo 1987; G. PRIEST et al. (a cura di), Paraconsistent Logic: Essays on the Inconsistent, München 1989; S. GALVAN, A Formalization of Elenctic Argumentation, in «Erkenntnis», 43 (1995), pp. 111-126; H. WANSING (a cura di), Negation. A notion in Focus, Berlin - New York 1996; S. GALVAN, Non contraddizione e terzo escluso. Milano 1997; D.M. GABBAY - H. WANSING, What is Negation?, Dordrecht-Boston-London 1999; P. PAGANI, Contraddizione performativa e ontologia, Milano 1999; D. BATENS (a cura di), Frontiers in Paraconsistent Logic, London 2000; W.A. CARNIELLI et al. (a cura di), Paraconsistency: The Logical Way to the Inconsistent, New York 2002; G. PRIEST, Paraconsistent logic, in D. GABBAY - F. GUENTHNER (a cura di), Handbook of Philosophical Logic, vol. VI, Dordrecht 20022, pp. 287-393; P. WEINGARTNER (a cura di), Alternative Logics. Do Sciences Need Them?, Berlin 2005; F. BERTO, Teorie dell'assurdo. I rivali del principio di non contraddizione, Roma 2006.

ELETTRA, SOFISMA DI: V. SOFISMA DI ELETTRA. Elettra 3304

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

ELEUTERONOMIA (Eleutheronomie). – SeEleuteronomia condo Kant è «il principio della libertà su cui si appoggia la legislazione interna». Cfr. Metaphysik der Sitten, II, Vorrede. Red.

ELIA (´Eliva"). – Filosofo e commentatore Elia neoplatonico alessandrino, vissuto nella seconda metà del VI secolo d. C., allievo di Olimpiodoro il giovane. Il nome ne attesta la fede cristiana, nonostante la sua adesione ad alcune tesi pagane, come quella dell’eternità del mondo. Della sua opera esegetica ci rimangono: Prolegomeni alla filosofia e Commentario all’Isagoge di Porfirio, editi da A. Busse nel 1900 (AA.VV., Commentaria in Aristotelem graeca, Berolini 1891 ss., XVIII 1) assieme a un Commentario alle Categorie di Aristotele, da alcuni critici attribuito a David l’Armeno, ma per la cui attribuzione definitiva si attende ancora un più accurato studio comparativo del vocabolario e dello stile dei due esegeti; un frammento di un Commentario agli Analitici Primi di Aristotele, pubblicato da L.G. Westerink in «Mnemosyne» serie 4, 14 (1961) pp. 126-139 (ora anche in Texts and Studies in Neoplatonism and Byzantine Literature, Amsterdam 1980, pp. 59-79), in cui l’autore si autodefinisce filovsofo" e ajpo; ejpavrcwn, titolo onorifico, quest’ultimo, che designava uomini di lettere; restano infine alcuni Scholia al De interpretatione di Aristotele, editi da A. Busse nel 1897 (Commentaria in Aristotelem graeca, Berolini 1891 ss., IV 5). G. Faggin - R.L. Cardullo BIBL.: J.-P. MAHÉ, David l’Invincible dans la tradition arménienne, in P. HADOT (a cura di), Simplicius. Commentaire sur les Catégories, Leiden 1990, vol. I, pp. 189-207; L.G. WESTERINK, The Alexandrian Commentators and the Introductions to Their Commentaries, in R. SORABJI (a cura di), Aristotle transformed, London 1990, pp. 325-348; CH. WILDBERG, Three Neoplatonic Introductions to Philosophy: Ammonius, David and Elias, in «Hermathena», 149 (1990), pp. 33-51; R. GOULET, s. v., in R. GOULET (a cura di), Dictionnaire des philosophes antiques, III, Paris 2000, pp. 57-66.

ELIADE, MIRCEA. – Storico delle religioni roEliade meno, n. a Bucarest il 9 mar. 1907, m. a Chicago il 22 apr. 1986. All’università di Bucarest, soprattutto attraverso Nae Ionescu, Eliade entra in contatto con la filosofia tedesca del periodo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (Wilhelm Dilthey, Edmund Husserl, Rudolf Ot-

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to), mentre la lettura di Raffaele Pettazzoni e Vittorio Macchioro orienta sempre più i suoi interessi verso la storia delle religioni. Significativo è anche, nella sua formazione, l’influsso di René Guénon, Julius Evola e Ananda K. Coomaraswamy. Tra la fine del 1928 e la fine del 1931 vive in India, dove studia lo yoga sotto la direzione di Surendranat Dasgupta e lo pratica sotto quella di Shiwananda. Tornato in Romania, diventa assistente di Ionescu e svolge attività politica aderendo alla Guardia di Ferro. Nella sua produzione scientifica vanno segnalati volumi su yoga, alchimia e folklore. Dopo gli anni di guerra, trascorsi a Londra e a Lisbona come membro del corpo diplomatico, Eliade non fa ritorno in Romania e si trasferisce a Parigi, dove, su invito di Georges Dumézil, tiene conferenze all’EPHE. A Parigi pubblica Techniques du Yoga (1948), il Traité d’histoire des religions (1949) (nel quale introduce le nozioni di ierofania e illud tempus), Le mythe de l’éternel retour (1949), Le chamanisme et les techniques archaïques de l’extase (1951), Images et symboles (1952), Yoga. Immortalité et liberté (1954), Forgerons et alchimistes (1956), Naissances mystiques (1959). In questo periodo dà alle stampe anche Das Heilige und das Profane (Hamburg 1957). Tra il 1950 e il 1961 partecipa ai convegni del circolo Eranos di Ascona, dove incontra, tra gli altri, Henry Corbin, Carl Gustav Jung, Gershom Scholem. Grazie a Joachim Wach è invitato a Chicago, dove diventa professore titolare nel 1959. Nel periodo americano insiste sempre più sui concetti di «nuovo umanesimo», di «ermeneutica creatrice» (che sviluppa con particolare attenzione al pensiero di P. Ricoeur), di homo religiosus. Fonda le riviste «Antaios» (con Ernst Jünger) e «History of Religions» (con Joseph Mitsuo Kitagawa e Charles Long), pubblica Religions australiennes (Paris 1972), l’Histoire des croyances et des idées religieuses (Paris 1976-83, 3 voll.), una serie di volumi in cui raccoglie i suoi articoli e diversi tomi di memorie. Dirige l’Encyclopaedia of Religion (New York 1987). Specialmente in gioventù ha coltivato, accanto agli interessi storico-religiosi, l’attività di romanziere. I fenomeni religiosi sono definiti da Eliade «ierofanie». Le ierofanie presentano, accanto a una dimensione storica, una struttura astorica, nella misura in cui incarnano «archetipi» (modelli esemplari). L’inoggettivabilità del sacro e la sua inesauribilità fanno sì che essi si prestino a una interpretazione senza fine. Dal

Elias momento che la tensione dell’uomo verso il trascendente è direttamente collegata alla sua finitezza, l’essere umano è considerato fondamentalmente religioso (homo religiosus). Nelle religioni «tradizionali» questa tensione si configura come «terrore della storia», cioè come volontà di negare il divenire storico attraverso una concezione ciclica della temporalità e il riferimento a un tempo originario, l’illud tempus, nel quale l’uomo trova i modelli esemplari del suo comportamento (archetipi, intesi in un senso differente da quello introdotto sopra) e al quale ritorna costantemente, attraverso il mito e il rito. L’ebraismo e il cristianesimo valorizzano invece la storia come luogo di manifestazione di Dio. Nel mondo contemporaneo la storia è stata spogliata, secondo Eliade, del suo significato trascendente, ma poiché la dimensione religiosa rimane costitutiva dell’essere umano il sacro continua a manifestarsi, sebbene in maniera camuffata, nelle attività profane. N. Spineto BIBL.: M.L. RICKETTS, Mircea Eliade. The Romanian Roots, 1907-1945, New York 1988; M. HANDOCA, Mircea Eliade (1907-1986). Biobibliografie, Bucuresti 1997-99, 3 voll.; F. TURCANU, Mircea Eliade. Le prisonnier de l’histoire, Paris 2003.

ELIAS, NORBERT. – Sociologo, filosofo, psicoElias logo e poeta, n. a Breslau (oggi Wroclaw, Polonia) il 22 giu. 1897 e m. ad Amsterdam l’1 ag. 1990. Si addottorò in filosofia nel 1924, con una tesi su Idea e individuo, in cui contesta la concezione kantiana dell’apriorità di spazio, tempo, causalità e principi morali. Laureatosi in sociologia con A. Weber, dal 1933 andò in esilio, prima in Francia e poi in Gran Bretagna, dove rimase fino al 1962. Insegnò quindi ad Accra (Ghana) e, dal 1975, si stabilì definitivamente ad Amsterdam. Nel 1983 fondò la Norbert Elias Foundation, ancora attiva. In Die höfische Gesellschaft (Neuwied 1969, tr. it. di G. Panzieri, La società di corte, Bologna 1980) sostiene che l’idea moderna di civiltà nasce dal tentativo delle monarchie di controllare la condotta dei membri della nobiltà. Il tema della repressione degli istinti nelle relazioni tra società e potere è ripreso e sviluppato in Über den Prozess der Zivilisation (Basel 1939, tr. it. di G. Panzieri, Il processo di civilizzazione, Bologna 1988). M. Bastianelli BIBL.: N. ELIAS (a cura di), The Established and the Outsiders, London 1965, con J.L. Scotson, tr. it. di A. Perulli - E. Cioni, Strategie dell’esclusione, Bologna

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Elías de Tejada y Spínola 2004; Was ist Soziologie?, München 1970, tr. it. di T. Griffero, Che cos’è la sociologia?, Torino 1990; Een essay over tijd, Amsterdam 1974-75, tr. it. di A. Roversi, Saggio sul tempo, Bologna 1986; Über die Einsamkeit der Sterbenden in unseren Tagen, Frankfurt am Main 1982, tr. it. di M. Keller, La solitudine del morente, Bologna 1985; Die Gesellschaft der Individuen, Stockholm 1983, tr. it. di G. Panzieri, La società degli individui, Bologna 1990; Humana Conditio, Frankfurt am Main 1985, tr. it. di A. Cavalli, Humana conditio, Bologna 1987; Studien über die Deutschen, Frankfurt am Main 1989, tr. it. di G. Panzieri, I tedeschi, Bologna 1991; Mozart. Zur Soziologie eines Genies, Frankfurt am Main 1991, tr. it. a cura di M. Schröter, Mozart: sociologia di un genio, Bologna 1991; The Symbol Theory, London 19912, tr. it. Teoria dei simboli, Bologna 1998. Su Elias: H. KUZMICS - I. MORTH (a cura di), Der unendliche Prozess der Zivilisation: zur Kultursoziologie der Moderne nach Norbert Elias, Frankfurt am Main 1991; S. MENNELL, Norbert Elias: an Introduction, Oxford 1992; S. TABBONI, Norbert Elias: un ritratto intellettuale, Bologna 1993; J. FLETCHER, Violence and Civilization: an Introduction to the Work of Norbert Elias, Cambridge 1997; H. KORTE, Über Norbert Elias: das Werden eines Menschenwissenschaftlers, Opladen 1997; M. SCHRÖTER, Erfahrungen mit Norbert Elias: gesammelte Aufsätze, Frankfurt am Main 1997; J. GOUDSBLOM - S. MENNELL (a cura di), The Norbert Elias Reader: a Biographical Selection, Oxford 1998, tr. it. di V. Camporesi et al., Tappe di una ricerca, Bologna 2001; R. VAN KRIEKEN, Norbert Elias, London 1998; M. STRAZZERI (a cura di), La sintesi possibile: saggi su Norbert Elias, Lecce 2000; A. TREIBEL (a cura di), Zivilisationstheorie in der Bilanz: Beiträge zum 100. Geburtstag von Norbert Elias (1897-1990), Opladen 2000.

ELÍAS TEJADA Y SPÍNOLA, FRANCIElías deDE Tejada y Spínola SCO. – Filosofo del diritto e della politica, n. il 6 apr. 1917 a Madrid e m. il 18 febbr. 1978 a Madrid. È stato professore di filosofia del diritto e diritto naturale nell’università di Murcia, Salamanca, Sevilla, Madrid. Elías de Tejada sostiene l’idea di una filosofia giuridica di radici metafisiche e storiche, di matrice tomistica, con accenti vitalistici ed esistenzialisti. La sua opera storiografica è basata sulla convinzione che la causa della differenziazione delle comunità politiche non si radica nella «nazione», ma nella «tradizione». Nella tradizione delle Spagne rintraccia lo spirito genuino della cristianità, scomparsa dall’Europa tra il 1517 e il 1648, e rimasta nel mondo ispanico e, dopo la «europeizzazione» di quest’ultimo, nel legittimismo carlista spagnolo. Distingue nella co3306

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munità politica corpi intermedi autarchici precedenti lo stato, nei quali si esercitano i sistemi di libertà politiche concrete che sono i fueros. Quanto alle concezioni strettamente filosofico-giuridiche, Elías de Tejada si rifà innanzitutto al fondamentale principio etico della responsabilità dell’uomo davanti a Dio. Il diritto è infatti una norma politica con contenuto etico, e l’unità della persona umana fonda l’unità della morale e del diritto. I. Trujillo BIBL.: Introducción al estudio de la ontología jurídica, Madrid 1941; La causa diferenciadora de las unidades políticas, Madrid 1943; Historia de la filosofía del derecho y del Estado, Madrid 1946; Las Españas, Madrid 1949; El pensamiento político del reino hispánico de Cerdeña, Sevilla 1954; La monarquía tradicional, Madrid 1954; Sociología del Africa, Madrid 1956; Nápoles hispánico, Madrid 1958; Cerdeña hispánica, Sevilla 1960; Ideas políticas y jurídicas de s. Isidoro de Sevilla, Madrid 1960; Tratado de filosofía del derecho, Sevilla 1976-78; Historia de la literatura política en las Españas, Madrid 1991. Su Elías de Tejada: R. STEINEKE, Die Rechts- und Staatsphilosophie des Francisco Elías de Tejada Ein Beitrag zum spanischen Traditionalismus, Bonn 1970; M. AYUSO, La filosofía jurídica y política de Francisco Elías de Tejada, Madrid 1994; M. DI GIOVINE, Il pensiero tradizionalista nell’opera di Francisco Elías de Tejada, Civitella del Tronto 2002.

ELIDE, SCUOLA DI: V. SCUOLA DI ELIDE. Elide ELIMINAZIONE (elimination; Elimination; Eliminazione élimination; eliminacción). – Termine che assume diversi significati in base alle discipline in cui viene adoperato. Nella logica aristotelica (cfr. specialmente i Topici) il sillogismo dialettico, che conclude dal probabile, attua l’eliminazione delle ipotesi assurde; quest’operazione si ritrova anche in sistemi di logica postaristotelici, qualora si attui un procedimento epagogico. Essa viene criticata dalla logica hegeliana, che sostituisce all’eliminazione l’operazione dialettica del «togliere» (aufheben), in cui il residuo irrazionale, invece d’essere eliminato, viene conservato e superato. In senso metodologico l’eliminazione sistematica degli elementi soggettivi e irrazionali dall’edificio della scienza è stata teorizzata per la prima volta da Bacone nel Novum Organum attraverso la teoria degli idola. Eliminazione metodologica dell’irrazionale si attua anche in Cartesio attraverso il dubbio metodico. Nel significato

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Eliot

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poi di sistematica indagine sul verificarsi dell’esclusione di un dato fenomeno in date circostanze, al fine di eliminare tali circostanze dallo studio del campo d’azione di quel fenomeno, l’eliminazione assume valore logico-metodologico ed è stata teorizzata prima da Bacone, a proposito della tabula absentiae, quindi da John Stuart Mill a proposito del «metodo della differenza» (System of Logic Ratiocinativ and Inductive, London 1843, l. III, cap. 8, § 2). ln psicologia s’intende per eliminazione il sistematico allontanamento di alcune sensazioni, immagini o attività dalla zona cosciente della psiche e il loro trasferirsi nell’ambito della psiche inconsciente o automatica. Questo processo, che può verificarsi a proposito di attività abituali, è stato studiato per la prima volta da David Hartley nelle sue Observations on Man, his Frame, his Duty and his Expectations (London 1749), e quindi da Priestley. Per quanto riguarda invece le sensazioni e le immagini, il processo della loro eliminazione dalla zona cosciente della psiche è stato studiato da Freud e dalla scuola psicanalitica. Nella teoria dell’evoluzione il termine eliminazione acquista significato tecnico e viene adoperato per designare una parte fondamentale del processo della «selezione naturale», studiato da Darwin in Origin of Species (London 1859). L’eliminazione consiste qui nell’esclusione progressiva delle forme o strutture di vita meno adatte alla conservazione e al miglioramento della specie. Sulle orme di Darwin, Spencer cerca di mostrare come attraverso queste eliminazioni si attui la conservazione delle forme vitali migliori («the survival of the fittest»). Questa teoria – com’è noto – ha avuto molti oppositori, in quanto non sempre trova la sua conferma nel campo sperimentale. A. Plebe BIBL.: J.L. MARION, Sur l’ontologie grise de Descartes: science cartesienne et savoir aristotelicien dans les Regulae, Paris 2000; A.A. SEMI, La coscienza in psicoanalisi, Milano 2003; E. BERTI (a cura di), Guida ad Aristotele, Roma-Bari 2004, pp. 47-101; P. ROSSI, Francesco Bacone: dalla magia alla scienza, Bologna 2004; F. BERTO, Che cos’è la dialettica hegeliana? Un’interpretazione analitica del metodo, Padova 2005. ➨ DIALETTICA; DIFESA, MECCANISMI DI; EPAGOGE; SELEZIONE.

ELIOCENTRISMO (heliocentrism; HeliozenEliocentrismo trik; héliocentrisme; heliocentrismo). – Sistema astronomico che, in opposizione al geocentri-

smo, pone il sole al centro del nostro sistema planetario. Ebbe un influsso decisivo sulla nuova concezione della realtà fisica che si annuncia con la filosofia del Rinascimento. Red. ➨ ASTRONOMIA; GEOCENTRISMO.

ELIOT, THOMAS STEARNS. – Poeta, drammaEliot turgo e critico angloamericano, n. il 26 sett. 1888 a St. Louis, Missouri, da una ricca famiglia legata al New England degli antenati, m. il 4 genn. 1965 a Londra. Dopo aver iniziato gli studi nella città natale, nel 1906 entra a Harvard, dove riceve una solida educazione umanistica e nasce come poeta. Qui legge i metafisici inglesi, i simbolisti francesi e soprattutto Dante e viene a conoscere la poesia provenzale e gli stilnovisti. Attratto dalla cultura europea, nel 1910 parte per Parigi dove studia alla Sorbona e segue i corsi del filosofo Henri Bergson. Rivoltosi eminentemente alla filosofia scrive la tesi di dottorato su F.H. Bradley; il problema della relazione tra la coscienza soggettiva e la realtà costituirà l’interesse centrale di Eliot poeta. Nel 1914 è di nuovo in Europa. A causa dei primi tumulti della prima guerra mondiale si stabilisce in Inghilterra, dove rimarrà per il resto della vita costruendovi una carriera intensa e complessa. Il determinante incontro con Ezra Pound lo lancia nel mondo artistico londinese. Eliot è redattore di riviste letterarie come «The Egoist» (1917-19), fondatore dell’importante «The Criterion» (1922-29) e, dal 1925 fin quasi alla morte, codirettore della prestigiosa casa editrice Faber & Faber. Contemporaneamente scrive poesia sotto l’influenza dei simbolisti francesi e studia i metafisici inglesi e il teatro giacomiano proseguendo quella ricerca della tradizione prossima e remota dell’Occidente iniziata con i classici latini e greci. Dopo Prufrock and Other Observations (London 1917), nel primo numero di «Criterion» appare The Waste Land (1922) che, uscita quasi contemporaneamente in volume a New York, per la primitività della visione del passato e l’asprezza di un realismo ora sarcastico ora parodistico con cui il poeta guarda alla vita sordida della città moderna, eserciterà, anche per la sua forma «a frammento», un’influenza incalcolabile non solo sulla poesia ma su tutto il mondo letterario del Novecento. Nel frattempo Eliot ha riunito in The Sacred Wood (London 1920) una serie di saggi strettamente legati al3307

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Eliot la sua pratica poetica. Per l’importanza storica si stagliano sugli altri Tradition and the Individual Talent (1919) e Hamlet and His Problems (1919). Nel primo affronta il concetto di tradizione in una visione della poesia come simultaneità di un sistema organico di relazioni che si intrecciano nella mente dell’artista secondo procedure obiettive assimilabili alla reazione catalitica. Il poeta funge, infatti, da medium per la trasmutazione di immagini, esperienze, materiali emotivi in una forma complessa che costituisce il nuovo prodotto poetico. Commisurato ai monumenti del passato, esso è immesso nel presente e, alterandone relazioni e valori preesistenti, contribuisce a costituire quel «complesso vivente di tutta la poesia che è stata scritta» e che per Eliot costituisce la tradizione. Insieme con la particolare disposizione all’assimilazione, il concetto giustifica lo stile «a mosaico» di Eliot che incorpora citazioni, prestiti, derivazioni da poeti che l’hanno preceduto. Accanto alla decisa affermazione antiromantica della impersonalità dell’artista, nel secondo saggio sostiene come la funzione critica non risieda nell’interpretare ma nella prassi della comparazione. Qui formula quella dottrina del «correlativo oggettivo» per cui stati mentali o emotivi hanno il loro corrispettivo in situazioni del mondo esterno che si associano istantaneamente a quelle emozioni, evocandole. Come John Donne e i poeti inglesi del primo Seicento, che rivaluta, Eliot, consapevole che l’unico mezzo per esprimere l’emozione in forma d’arte è quello di trasformare ogni tipo di esperienza in poesia, risponde alla grande complessità della civiltà presente con la coscienza della varietà, con ampiezza di conoscenze, con un dire intensamente allusivo ed indiretto. L’imponente attività saggistica, alla quale si dedica durante tutta la sua esistenza con uno stile prosastico omogeneo, anche se non sempre piacevole, si spinge ben oltre l’ambito puramente letterario in quanto esso non può dissociarsi da quello sociologico, economico, politico e teologico. Gli scritti, che appaiono in periodici filosofici o letterari, vengono talora raccolti in volume, come Selected Essays (London 1932), The Use of Poetry and Use of Criticism (London 1933) sul concetto di «immaginazione uditiva», The Idea of a Christian Society (London 1939), Notes Towards a Definition of Culture (London 1948) e On Poetry and Poets (London 1957). 3308

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Prendendo la cittadinanza britannica e professandosi monarchico in politica, classicista in letteratura e anglo-cattolico in religione, nel 1927 Eliot si consacra definitivamente alla ricerca di un ordine di riconciliazione, da non pochi visto come conservatorismo. Da questo momento le sue opere poetiche, a esclusione della purgatoriale Ash-Wednesday (London New York 1930) e di Four Quartets (New York 1943 e London 1944), sono in prevalenza drammatiche. Al teatro, medium ideale per la più diretta espressione dell’utilità sociale della poesia, Eliot affida, infatti, l’esposizione di temi legati alla propria visione del mondo. Inoltre, introducendo la poesia nel desolato mondo quotidiano, egli mira alla percezione di un ordine, quello musicale, che illumini la realtà portandola a una condizione di serenità, di riappacificazione (la funzione e gli attributi del dramma moderno vengono discussi soprattutto in The Possibility of Poetic Drama e «Rhetoric» and Poetic Drama, entrambi del 1919). Dopo Murder in the Cathedral (London 1935), centrato sul tema del martirio come adempimento di un disegno provvidenziale e condotto sulle orme del teatro greco,del mistero medioevale e del rito religioso, Eliot prosegue nel suo intento di innovazione drammatica con altre quattro prove. Il suo talento per il teatro, che fonde in uno gli umori della commedia di costume, del dramma psicologico, del «mistero» religioso, riscuote in The Cocktail Party (London 1949) il maggior successo commerciale. Nel periodo postbellico Eliot è anche acclamato conferenziere in Europa e negli Stati Uniti, dove gli vengono tributati onori per la sua arte e per l’infaticabile presenza in questioni sociali e culturali. Nel 1948 viene prima insignito della più ambita onorificenza dei sovrani inglesi, l’Order of Merit, e poi del premio Nobel per la letteratura. Il grande modello dal quale deriva molti dei concetti fondamentali della sua teoria estetica, interpretandoli però in chiave personale e integrandoli con il pensiero e l’apparato immaginifico di poeti francesi come Baudelaire e Laforgue, ma anche di Dante e dei drammaturghi elisabettiani e giacomiani e di Remy de Gourmont, dal quale probabilmente desume il nucleo della dottrina del «correlativo oggettivo», è Ezra Pound, guida e giudice di tanta sua prima poesia. Presenze vive, sebbene non del tutto avvertite, sono anche quelle dell’americano Irving Babitt, contrario all’individualismo

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nell’arte e alla presunzione dei romantici di possedere la chiave immaginativa o filosofica dell’universo, e dell’inglese T.E. Hulme, scettico nei confronti del progresso della razza umana e lontano da atteggiamenti democratici e tolleranti. Alle premesse poundiane e hulmiane vanno, infatti, ricollegate non solo l’opposizione a Milton e insieme la rivalutazione di Dryden e di Pope, ma anche la sua interpretazione del concetto di tradizione secondo il quale lo scrittore può avvertire il posto che occupa nel tempo grazie al «senso storico». Esso gli consente di percepire la presenza del passato e di constatare che nessun artista e nessuna opera d’arte esauriscono in se stessi il proprio significato. Poeta di un’epoca di avanguardia e di un’Europa torturata e sinistra, di personaggi privi di vitalità spirituale, dopo aver scrutato l’abisso, Eliot si pone con profondo umiltà nell’attesa di Dio. Con la sua conversione graduale e pubblica, nutritasi anche del pensiero di Jacques Maritan, Eliot, pur privo dell’ambizione di essere un eroe morale, riporta a dignità la fede, il credere. Di fronte alla sicurezza volgare e grossolana sono, infatti, a disposizione di chi crede le espressioni più elevate del pensiero e della vita umana, la bellezza coltivata,che è grazia per chi la trova, la purificazione dei motivi dell’agire, la profonda tensione della disciplina, la libertà dai legami delle appartenenze, il culto della memoria. Nel viaggio all’indietro nel tempo e negli spazi, in un’Inghilterra familiare al passato degli avi come al presente del discendente americano e nell’America della sua prima giovinezza di Four Quartets, Eliot trova, infatti, il correlativo della sua visione del vivere umano, l’incontro tra il tempo e l’eternità. Nella sua tensione lirica, quest’ultima fase mira, infatti, a superare le antinomie e i contrasti, la frammentarietà e la discontinuità dell’esperienza umana nella folgorazione estatica dell’intersecarsi dell’invisibile con il visibile. Qui culmina anche uno dei temi fondamentali del pensiero e della poesia di Eliot, quello del tempo con le sue scansioni in passato, presente e futuro. Eliot ora non ritorna soltanto alla persistenza del passato ma, in quadri lussureggianti di immagini e stabilendo le più lontane analogie, affonda lo sguardo nel disegno che trascende il flusso temporale proiettando la tumultuosa scena mondana nella «danza» eterna, nell’immobile centro

Eliot ove, nella compresenza, si annullano tutte le aporie e si riconquista il tempo. M. Giulietti BIBL.: Poesia: Poems, London 1919; Ara Vos Prec, London 1920; Collected Poems 1909-35, London 1936; The Cultivation of the Christmas Trees, London 1954; Collected Poems 1909-62, London 1963. Teatro: Sweeney Agonistes, London 1932; The Rock, London 1934; The Family Reunion, London 1939; The Confidential Clerk, London 1954; The Elder Statesman, London 1959 Saggistica: For Lancelot Andrews, London 1928; After Strange Gods, London 1934; Elizabethan Essays, London 1934; The Music of Poetry, London 1942; What is a Classic?, London 1945; Poetry and Drama, Cambridge (Massachussetts) 1951; To Criticize the Critic, London 1965. Su Eliot: B. RAJAN (a cura di), T.S. Eliot: A Study of His Writings by Several Hands, London 1947; H. GARDNER, The Art of T.S. Eliot, London 1949; F.O. MATTHIESSEN, The Achievement of T.S. Eliot, New York - London 1958; H. KENNER, The Invisible Poet, New York 1959; N. FRYE, T.S. Eliot, Edinburgh-London 1963; E. BAUN, T.S. Eliot als Kritiker: eine Untersuchung anhand der ungesammelten kritischen Schriften, Freiburg 1963; B. BERGONZI (a cura di), Four Quartets, London 1969; M. BROWN, The Making of T.S. Eliot’s Plays, London 1969; D. GALLUPP, T.S. Eliot: a Bibliography, London 1970; R. KOJECKÝ, T.S. Eliot’s Social Criticism, London 1971; J.D. MARGOLIS, T.S. Eliot’s Intellectual Development, 1922-1939, Chicago-London 1972; S. SPENDER, T.S. Eliot, London 1975; A.D. MOODY, Thomas Stearns Eliot, Poet, Cambridge 1979; F. KERMODE, An Appetite for Poetry: Essays in Literary Interpretation, London 1989; J.S. BROOKER, Mastery and Escape: T.S. Eliot and the Dialectic of Modernism, Amherst (Massachussetts) 1994; A. JULIUS,T.S. Eliot, Anti-semitism, and Literary Form, Cambridge 1997; M.A.R. HABIB, The Early T.S. Eliot and Eastern Philosophy, Cambridge 1999; A. STRANDBERG, The Orphic Voice: T.S. Eliot and the Mallarmean Quest for Meaning, Upsala 2002. Numerosissimi gli studi su Eliot in Italia tra cui: M. PRAZ, Machiavelli in Inghilterra ed altri saggi, Roma 1942; F. FERRARA, Il teatro di T.S. Eliot, Napoli 1961; G. MELCHIORI, I funamboli, Torino 1963; R. QUADRELLI, Nota sulla critica di Eliot e la critica italiana, in «Ethica» 1966, pp.47-53; L. CARETTI, T.S. Eliot in Italia, Bari 1968; M. PAGNINI, La musicalità dei Quattro Quartetti di Eliot, in Critica della funzionalità, Torino 1970; S. SABBADINI, Una salvezza ambigua, Bari 1971; A. SERPIERI, T.S. Eliot: le strutture profonde, Bologna 1973; V. FISSORE, Invito alla lettura di T.S. Eliot, Milano 1991; R. CRIVELLI, Introduzione a T.S. Eliot, Bari 1993; D. CALIMANI, T.S. Eliot: le geometrie del disordine, Napoli 1998; A. LOMBARDO (a cura di), Presenza di T.S. Eliot, Roma 2001.

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Elioteismo - eliolatria ELIOTEISMO - ELIOLATRIA (heliotheism Elioteismo - eliolatria heliolatry; Heliotheismus - Heliolatrie; héliothéisme - héliolatrie; helioteismo - heliolatría). – Termini usati per indicare il culto del sole, rispettivamente nei suoi fondamenti teoretici (elioteismo) e nella sua prassi rituale (eliolatria). Mentre sono amplissimamente diffuse, presso popolazioni di zone e periodi storici diversi, l’attribuzione all’astro solare di valori e significati simbolici, spesso connessi a figure mitiche di eroi fondatori o di antenati, nonché l’associazione o anche l’identificazione di esseri sovrumani (in particolare di esseri supremi o di divinità) con il sole, appare relativamente raro il vero e proprio culto del sole, inteso come venerazione dell’astro celeste concepito come divinità. In India il dio del sole è Surya, a cui nel Rgveda sono dedicati dieci inni, ma caratteri solari sono attribuiti in seguito anche a Visnu, Varuna e Mithra. Nell’antico Egitto spicca il culto del dio solare Ra, ben presto fuso con Atum e temporaneamente sostituito da Aton, propriamente il disco solare, in occasione della riforma religiosa tentata da Akhenaton. Mentre queste divinità assumono, in talune fasi dell’evoluzione delle rispettive religioni, il carattere di ente supremo, l’Utu dei sumeri è soltanto una delle tante divinità teogoniche e il Samas dei babilonesi il dio della giustizia e delle leggi. Nella religione iranica sono divinità solari Mithra, cui è dedicato un inno dell’Avesta, e soprattutto Ahura Mazdah, sempre accompagnato nell’iconografia dal disco raggiante: al sole erano indirizzate preghiere e sacrifici. Nell’antica Grecia e a Roma il dio del sole è Helios, dai caratteri piuttosto mitici che rituali, ed evidenti aspetti solari sono associati ad Apollo. Nell’impero romano si diffonde il culto di Mithra e, dapprima con Elagabalo e poi con Aureliano, viene istituito il culto ufficiale del sole, di spiccata ispirazione orientale, destinato a unificare tutti gli altri. Giuliano detto l’Apostata dedica ancora uno dei suoi discorsi a Helios sovrano. Nello scintoismo giapponese incontriamo il raro caso di una dea del sole, Amaterasu, protagonista della cosmogonia e titolare principale del culto, in quanto antenata dell’imperatore e garante dell’identità nazionale. Gli aztechi veneravano il quinto sole, caratterizzato da forti tratti cosmogonici e calendariali, che doveva essere quotidianamente nutrito con sacrifici umani. Tra gli incas dell’antico Perù, invece, il sole è 3310

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titolare di un culto sfarzoso e complesso ed è identificato con il sovrano, destinato a vivere, dopo la morte, nell’astro celeste. D.M. Cosi BIBL.: J. HAWKES, Man and the Sun, London 1962; SH.M. GUPTA, Surya. The Sun God, Bombay 1977; J. ASSMANN, Re und Amun. Die Krise des politheistischen Weltbilds im Ägypten der 18-20 Dynastie, Freiburg 1983; E. HORNUNG, Echnaton. Die Religion des Lichtes, Zürich 1995, tr. it. di C. Salone, Akhenaton. La religione della luce nell’antico Egitto, Roma 1998; J. RHYS BRAM, Sole, in M. ELIADE, Enciclopedia delle religioni, ed. tematica europea a cura di D.M. Cosi, L. Saibene e R. Scagno,Milano 1997, vol. IV, pp. 573-585; M. ELIADE, Traité d’histoire des religions, Paris 1949, tr. it. a cura di P. Angelini, Trattato di storia delle religioni, Torino 1999, cap. 3: Il sole e i culti solari, pp. 126-157. ➨ COSMOGONIA; CULTO; EGITTO; LUCE; MAZDEISMO; MITHRA - MITHRAISMO; RITO.

ELLENISMO. – SOMMARIO: I. La storia del terEllenismo mine. - II. Limiti cronologici e caratteri generali. - III. Lo sviluppo delle scienze ad Alessandria. IV. La filosofia ad Atene. - V. La religione. I. LA STORIA DEL TERMINE. – Il termine ellenismo è entrato nell’uso a designare il periodo storico che inizia con la morte di Alessandro Magno, avvenuta nel 323 a. C. e che termina con la conquista romana, segnata dalla vittoria di Ottaviano su Marco Antonio nella battaglia di Azio nel 31 a. C. Si è erroneamente creduto che il termine ellenismo sia stato coniato da J.G. Droysen, sulla base di un fraintendimento di un passo degli Atti degli Apostoli (4, 1), in cui si distinguono gli ellenisti, che parlano greco, dagli ebrei, che parlano un idioma semitico. Droysen tuttavia non intendeva riferirsi agli ellenisti come parlanti un greco imbastardito da elementi estranei ebraici e orientali, bensì a un qualunque parlante greco che non fosse però di origine greca. Egli quindi si riferiva alla lingua hellenistica con cui veniva definita già da secoli prima, a partire dal Seicento, la koinhv parlata e in cui è scritta gran parte del Nuovo Testamento. L’età ellenistica è caratterizzata dall’estensione delle conquiste greche e dallo spostamento del centro di gravità della civiltà greca dalla Grecia all’Oriente. La cultura greca penetrò in una vasta area del mondo orientale, dal bacino del Mediterraneo fino all’India, al Mar Nero, al Danubio, all’Etiopia e assorbì a sua volta usi, costumi e idee religiose dal mondo orientale. Fu un processo che dette origine a una nuova civiltà non riconducibile in senso

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stretto all’una o all’altra delle sue componenti, ma all’intima fusione di elementi greci e orientali che si esprime in una nuova lingua, la koinhv. La storia dell’età ellenistica è quindi la storia di tutti coloro che appartenevano al mondo culturale greco e che parlavano e pensavano in greco, qualunque fosse la loro origine. II. LIMITI CRONOLOGICI E CARATTERI GENERALI. – Nonostante l’ellenismo sia storicamente e culturalmente definibile da questi caratteri, i suoi limiti cronologici non sono univocamente accettati. Si discute se si debba anticipare l’inizio dell’età ellenistica alla conquista dell’Oriente da parte dei macedoni, includendovi le vicende storiche di Alessandro Magno, da un lato, e se la battaglia di Azio ne costituisca il limite estremo, dall’altro. Le imprese di Alessandro non fecero altro che fornire la possibilità di realizzazione ad alcune tendenze endogene, dal momento che già i fermenti di un mutato atteggiamento nei confronti della vita erano avvertiti nel IV secolo con la crisi delle poleis greche e con l’affermazione dell’individualismo e dell’universalismo. E se è indubbio che sotto Augusto la capitale del mondo civile è Roma, con la conseguenza che non sarà più il greco l’unica lingua ufficiale dell’impero, c’è chi ritiene che un cambiamento di prospettiva sia avvenuto già a partire dalla conquista di Atene da parte di Silla nell’87 a. C., e che comunque non in tutti i campi si possa individuare lo stesso limite cronologico che indichi il passaggio all’era successiva. In effetti dopo la conquista di Silla l’importanza culturale di Atene andò declinando e, soprattutto in campo filosofico, ben prima della data convenzionale del 31 a. C., già intorno al 100 a. C. si determinarono i fattori responsabili del declino delle filosofie ellenistiche (cfr. M. Frede, Epilogue, in K. Algra et al., The Cambridge History of Hellenistic Philosophy, Cambridge 1999, pp. 771-797). L’età ellenistica fu un’età segnata da continui scontri militari e politici, sia a causa dei ripetuti tentativi da parte delle poleis di riconquistare la propria indipendenza, sia per la violenta competizione per il potere esplosa tra i diadochi. La sua storia è particolarmente complicata e si conclude con le campagne militari che permisero ai romani di porre fine all’indipendenza del mondo greco. Alla morte di Alessandro l’impero fu spartito tra i diadochi e si costituirono cinque grandi regni: Macedonia, Egitto, Babilonia, Tracia e Asia Minore. La fine del IV e gli inizi del III secolo a. C. fu-

Ellenismo rono contrassegnati da guerre sanguinose tra i diadochi che cercavano di ricostituire il grande impero di Alessandro nella sua forma originaria. Da un punto di vista storico-politico si assistette quindi a un continuo mutamento dei confini tra i vari regni con lotte intestine e alleanze instabili, tanto che a quarant’anni dalla morte di Alessandro tutti i suoi diretti successori erano già scomparsi. Nel 280 a. C. ci fu una nuova divisione del vasto impero in tre grandi monarchie: il regno d’Egitto con Tolomeo II, il regno d’Asia con Antioco I, il regno di Macedonia con Antigono Gonata. Ma fu soprattutto con la generazione successiva, quella degli epigoni, che si giunse a una stabilizzazione della situazione politica, poiché tutti i sovrani abbandonarono l’idea di ricostituire sotto il proprio dominio l’impero universale di Alessandro. Tuttavia nonostante le lotte per il potere e i conflitti militari che opposero i diversi regni ellenistici, lo spirito della cultura greca riuscì a permeare le varie regioni producendo una comunanza di lingua, educazione, forme di vita, che conferì al mondo ellenistico un’unità culturale. Per questa ragione tratteremo qui dell’ellenismo intendendo essenzialmente riferirci alla sua cultura. Uno dei caratteri fondamentali dell’ellenismo è il declino delle poleis greche e lo spostamento della potenza politica ed economica in Oriente. L’ampliamento dei confini geografici, inducendo forme di mescolanza etnica, favorì un clima ideologico nuovo che permise lo sviluppo del sentimento di fratellanza universale e dell’unità dell’umanità. Le differenze nazionali furono superate in nome del principio di uguaglianza fra tutti gli uomini e scomparve il confine tra greci e barbari. L’ideale panellenico, che aveva cominciato a maturare già alla fine del IV secolo a. C. tra gli uomini colti di ogni parte dell’Ellade, legati tra loro da comuni interessi, non riconosceva come elleno soltanto chi non aveva cultura ellenica, per cui un barbaro, impadronitosi della cultura ellenica, era elleno a tutti gli effetti. Inoltre la koinhv, sviluppatasi sulla forma modificata del greco attico, ben compresa e utilizzata da tutti, non solo permise di viaggiare da un capo all’altro all’oijkoumevnh, ma divenne la lingua d’uso, soppiantando gradatamente i dialetti. Il prete babilonese Beroso e l’egiziano Manetone, che volevano far conoscere ai greci la storia della loro patria, utilizzarono la lingua greca e la sua forma letteraria. Le conquiste militari di Ales3311

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Ellenismo sandro avevano dilatato i confini del mondo finora conosciuto, permettendo di includere vaste aree geografiche nell’area del mondo abitato. I greci cominciarono a spostarsi e a viaggiare, incrementando gli scambi commerciali, per cui i vincoli locali divennero meno forti. Se dunque nel V secolo a. C. il predominio della politica aveva impedito il costituirsi di una cultura tecnica e scientifica, nel III secolo a. C. lo spostamento dell’asse della politica dalla polis allo stato territoriale, con il conseguente abbandono da parte dei cittadini dell’interesse per le questioni dello stato, favorì il formarsi di una classe di uomini colti, dediti agli studi e alla ricerca scientifica. Si venne così a determinare un nuovo assetto politico e sociale, il quale contribuì a promuovere lo sviluppo delle scienze particolari. Accanto alla filosofia, che continuò a fiorire ad Atene, ad Alessandria ebbero grande impulso le scienze, tra cui la filologia, la geografia, l’astronomia. III. LO SVILUPPO DELLE SCIENZE AD ALESSANDRIA. – Alessandria, città fondata da Alessandro nel 332 a. C., era diventata sotto i Tolomei non solo un importante centro politico con la sua enorme burocrazia, ma anche uno dei centri culturali più vivaci del mondo ellenico. Essa esercitò un grande potere d’attrazione sulle persone colte ed eclissò il predominio intellettuale di Atene, la quale conservò il primato filosofico. Ad accrescere l’importanza culturale di Alessandria contribuirono anche la fondazione della biblioteca e del museo, che la trasmissione e la diffusione dei testi letterari, ormai affidati alla carta scritta e al commercio librario, indubbiamente favorirono. La biblioteca di Alessandria, organizzata sul modello di quella della scuola di Aristotele, faceva parte della struttura del museo, che era una comunità di dotti, uniti dal comune culto per le muse. In essa confluirono tutta la produzione letteraria e filosofica in lingua greca e anche traduzioni di importanti testi di altre civiltà, come l’Antico Testamento. Il museo, fondato da Tolomeo Sotere, si trasformò con Tolomeo Filadelfo in un centro accademico di studi superiori, dove i sapienti furono mantenuti e pagati a spese del sovrano e trovarono gli strumenti necessari per le proprie ricerche scientifiche. Col passare del tempo la biblioteca continuò ad ampliarsi e assunse grandi dimensioni, passando da una dotazione di duecentomila volumi alla morte di Tolomeo Sotere a quattrocentomila a quella di Filadelfo, il quale ave3312

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va acquistato fondi importanti, tra cui quello di Aristotele. Anche gli Attalidi a Pergamo gareggiarono con i Lagidi, fondando, a loro volta, una biblioteca specializzata in opere di erudizione. Con il passare del tempo il gran numero di testi letterari raccolti rese necessaria la presenza di studiosi, i filovlogoi, esperti nella catalogazione e attribuzione dei testi. Tra i grandi bibliotecari di Alessadria meritano di essere ricordati Callimaco, Apollonio Rodio, Eratostene, Aristofane di Bisanzio, Aristarco di Samotracia. Callimaco fu anche un poeta che ebbe grande popolarità e fama nel mondo antico, anche a giudicare dal numero dei papiri che ci hanno conservato frammenti delle sue opere e dalle numerose citazioni presenti nei grammatici, lessicografi ecc. Ad Alessandria ebbero grande impulso la raccolta e la classificazione dei testi e si sviluppò un’intensa attività filologica, volta soprattutto a stabilire l’autenticità dei testi letterari e filosofici. A Callimaco si deve il catalogo ragionato in 120 libri, Pivnake", che costituisce la prima storia letteraria di carattere scientifico, e a lui risalgono le liste delle opere dei filosofi che Diogene Laerzio riporta nelle Vite dei Filosofi. Eratostene fu uno scienziato che ebbe vasti interessi, dalla filosofia alla geografia, dalla grammatica alla cronografia. Egli per primo si attribuì la qualifica di filovlogo", nel senso moderno di «critico del testo». Dalla metà del III secolo a. C. alla metà del II secolo a. C. l’attività critica ed ermeneutica si esercitò soprattutto nell’annotazione sistematica dei testi, in particolare di quelli omerici. Zenodoto, autore della prima edizione critica dell’Iliade e dell’Odissea, estese la sua indagine filologica anche ad altri poeti. Questa attività ecdotica fu proseguita da Aristofane di Bisanzio, che oltre a Omero, la dedicò a Esiodo, ai lirici e ai prosatori. Anche la biblioteca di Pergamo acquistò notevole importanza sotto la direzione di Cratete di Mallo, grande studioso, il quale fu anche autore di un’importante opera dedicata alla filosofia stoica. Ma tra la biblioteca di Alessandria e quella di Pergamo si determinò ben presto una grande rivalità, che ebbe come conseguenza l’acquisto indiscriminato di testi e quindi il deterioramento della loro qualità, anche a causa dell’introduzione di falsi. Il gusto letterario e i canoni estetici stabiliti da grammatici e filologi svolsero un ruolo importante nel conservare e tramandare i testi. Ha tuttavia pesato sul naufragio delle opere di molti auto-

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ri antichi la condanna che questi grammatici inflissero a quelle opere che non trovavano conformi ai canoni linguistici da essi stabiliti. Gli autori compresi nei canoni furono nei secoli successivi letti e commentati, gli altri invece furono condannati all’oblio. Il mecenatismo dei sovrani e la struttura del museo e della biblioteca, che mettevano a disposizione degli studiosi un grande patrimonio scientifico, fecero sì che ad Alessandria si recassero i maggiori scienziati dell’epoca. L’incremento delle conoscenze geografiche rese necessaria una nuova fissazione cartografica. Fu Eratostene a coniare per primo la parola «geografia», intendendo con essa il disegno cartografico. Nei Geographika Eratostene definì con grande precisione le dimensioni della superficie della terra e delineò una carta complessiva dell’oijkoumevnh, prescindendo da elementi fiabeschi e meravigliosi, che pure erano presenti nelle fonti a cui egli attingeva. È degno di nota che accanto alla pura informazione egli privilegiasse un ordinamento sistematico di tutti i dati osservati. La matematica ebbe grande impulso, grazie a Euclide, il quale nell’opera intitolata Elementi propose un modello di scienza deduttiva che fu accolto da altri grandi matematici, tra i quali Archimede, che forse soggiornò per un breve periodo ad Alessandria. Anche l’astronomia cominciò a fondarsi sull’osservazione dei fenomeni, giungendo alla formulazione di ipotesi esplicative. Aristarco di Samo determinò le dimensioni del sole e della luna e la loro distanza dalla terra ed ebbe l’intuizione, rivoluzionaria per l’epoca, che la terra gravita intorno al sole e non viceversa. Ipparco di Nicea, grande astronomo, tentò di salvare i fenomeni, introducendo la teoria degli eccentrici e degli epicicli, che permise di spiegare le irregolarità apparenti nel moto dei pianeti; riuscì a calcolare con notevole precisione la durata dell’anno solare con uno scarto di soli sette minuti in più, e scoprì la precessione degli equinozi. La medicina fu caratterizzata da due correnti opposte e alternative, i razionalisti, che postulavano l’esistenza di entità non direttamente osservabili, e gli empirici, i quali si fondavano sull’autopsia e osservazione diretta e ripetuta dei dati oggettivi. Entrambe le correnti si avvalsero di importanti scoperte anatomiche, superando il livello meramente empirico della scienza ippocratica. Della prima corrente fecero parte Erofilo, il quale scoprì l’esistenza del sistema nervoso e ne

Ellenismo spiegò il funzionamento mostrando il ruolo del cervello, ed Erasistrato, il fondatore della fisiologia; alla seconda appartennero Filino di Cos e Serapione di Alessandria. IV. LA FILOSOFIA AD ATENE. – Nel III secolo a. C. anche la filosofia conobbe una grande vitalità, come dimostra il sorgere di scuole filosofiche nuove, il pirronismo, l’epicureismo e lo stoicismo, accanto alle scuole tradizionali, quali l’Accademia e il Liceo, che cominciarono a perdere di importanza. La scuola di Aristotele infatti si era indirizzata verso studi specialistici, come la botanica, la zoologia, la ricerca storica, che non avevano un grande richiamo presso il grosso pubblico, mentre l’Accademia, dopo la morte di Platone, aveva proseguito l’indagine matematizzante dell’ultimo periodo della speculazione platonica, abbandonando però i metodi di ricerca del maestro per concentrarsi, a partire dal 314 a. C. con lo scolarcato di Polemone, soprattutto sull’indagine morale. Le nuove scuole ellenistiche seppero inserire l’indagine morale in un orizzonte più vasto: il fine della vita e la felicità debbono essere ricercati nell’universo e nella comprensione delle leggi che lo governano. Fu questa la ragione per la quale gli epicurei e gli stoici acquistarono maggior credito presso il pubblico, in quanto seppero fondare una nuova concezione della natura umana e del mondo sull’osservazione empirica e sui bisogni concreti. Zenone elaborò una concezione monistica della filosofia come studio del logos, ovvero del principio razionale che pervade tutto l’universo, e che si identifica con la ragione. Le varie parti della filosofia, logica, fisica ed etica, sono strettamente connesse le une alle altre in quanto studiano le varie manifestazioni del logos. In un universo dominato da un’unica entità intelligente, coestesa all’universo, che è anche dio, natura fato e provvidenza, non rimane all’uomo che vivere secondo natura, perché la perfezione della natura umana si realizza nell’accordo volontario con la natura universale. Ma per poter raggiungere quest’obiettivo lo stoico deve avere un criterio di verità saldo e infallibile con il quale poter distinguere ciò che è vero e ciò che è falso. Epicuro, pur partendo dall’affermazione metafisica che i principi della realtà sono gli atomi e il vuoto, contrapponeva l’affidabilità e l’immediatezza dei sensi ai procedimenti logico-analitici propri della filosofia platonica e aristotelica nella spiegazione del mondo reale e oggettivo. E 3313

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Ellul fondandosi sull’immediatezza dell’esperienza egli giustificava il supremo principio etico che poneva nel piacere il fine della vita. Arcesilao, che divenne scolarca dell’Accademia all’incirca nel 268 a. C., pur avendo abbandonato la dottrina metafisica di Platone a favore del metodo socratico della ricerca continua, reagì contro l’attacco dogmatico che stoici ed epicurei rivolgevano alla filosofia platonica. Già Pirrone di Elide, che aveva accompagnato Alessandro nella sua spedizione in Oriente ed era venuto in contatto con i gimnosofisti indiani e i magi, aveva sostenuto che la verità e la falsità non possono caratterizzare né le sensazioni né i giudizi. Infatti la natura delle cose è inaccessibile sia ai sensi che alla ragione, i quali non offrono alcuna garanzia di poter andare al di là di ciò che appare. Arcesilao, in linea con la filosofia socratica, riteneva che il tratto caratteristico della saggezza non fosse il possesso della conoscenza, ma la libertà dall’errore che è possibile ottenere soltanto sospendendo il giudizio di fronte all’ugual peso delle tesi contrapposte. Egli intraprese un’aspra polemica contro il dogmatismo gnoseologico epicureo e soprattutto stoico, che fondavano la conoscenza sull’incorreggibilità delle sensazioni. Per Epicuro la rappresentazione evidente e la prenozione che deriva da questa sono criterio di verità e Zenone pone alla base di una conoscenza certa e infallibile la rappresentazione catalettica, ovvero quella rappresentazione che riproduce l’oggetto esterno con precisione tecnica. Si aprì così tra l’Accademia e la Stoa un dibattito polemico che durò per più di un secolo fino alla morte di Carneade e che ebbe, come risultato dell’interazione reciproca, il chiarimento e la continua evoluzione delle rispettive posizioni. La filosofia ellenistica si può considerare conclusa con la rinascita dell’aristotelismo e del platonismo, che avvenne già alla fine del II secolo a. C., con il rinnovato interesse per la filosofia e gli scritti di Platone e di Aristotele che caratterizzano le filosofie di Panezio e di Posidonio (cfr. Frede, op. cit.). V. LA RELIGIONE. – Al principio del III secolo a. C. le classi colte sono razionaliste e la filosofia occupa il posto della religione. Lo stoicismo pur mantenendo apparentemente gli dei antropomorfici, li rivestiva di un contenuto nuovo, come ben esemplifica l’Inno a Zeus di Cleante, e anche Epicuro, se insisteva sulla neces3314

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sità di liberare l’uomo dalla paura degli dei, era scrupolosamente osservante di tutte le forme di culto. Le masse, tuttavia, che avevano sete di religione, cercarono nei culti orientali il soddisfacimento dell’ansia del divino che la religione tradizionale non era più in grado di appagare. Di fronte alla decadenza degli dei tradizionali e all’instabilità delle vicende politiche si diffusero presso la popolazione incolta il culto del monarca e il culto di tuvch, frutto del sincretismo greco-orientale. Nel contempo si svilupparono due fenomeni per un certo verso analoghi e contrapposti, anch’essi importati dall’Oriente: la magia e l’astrologia. La magia si diffuse tra la gente più povera e l’astrologia, che pretendeva di essere una spiegazione matematica e scientifica del funzionamento dell’universo, si diffuse dapprima tra le persone più colte. Del resto il grande sviluppo dell’astronomia, a cui l’astrologia era strettamente connessa, l’esigenza di una teologia solare e astrale, presente nel pensiero greco nel IV secolo a. C., la concezione filosofica stoica dell’intima solidarietà tra le varie parti dell’universo, prepararono il terreno alla diffusione dell’astrologia. Con ciò il fatalismo e il determinismo si affermarono nel mondo ellenistico. A.M. Ioppolo BIBL.: L. CANFORA, Ellenismo, Roma-Bari 1987.

ELLUL, JACQUES. – Giurista, teologo riformaEllul to, sociologo, n. il 6 genn. 1912 a Bordeaux, m. il 19 magg. 1994 a Pessac. È autore di un’imponente opera (più di 50 monografie e numerosi articoli teologici, sociologici, storici, giuridici, etici, politici) ove l’elemento unificante è la critica, da intendere come forma, religiosa e civile, di una «presenza al mondo moderno», capace di innescare un movimento dialettico, il cui esito possibile è il superamento del negativo. Dal 1937 è professore alla facoltà di diritto, a Montpellier. Sospeso dall’insegnamento nel 1940, partecipa alla resistenza. Professore a Bordeaux, negli anni cinquanta coniuga impegno teorico e civile anticipando temi in seguito divenuti centrali, quali: la critica ai sistemi della tecnica (che lo renderà celebre, specie negli Stati Uniti) e della comunicazione, l’ecologia, il federalismo e il localismo, la crisi dell’Occidente, il declino della politica e del diritto. Direttore della rivista «Foi et Vie» dal

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1969, ha rivestito importanti cariche nella Chiesa Riformata francese. P. Heritier BIBL.: scritti principali: a) storico-giuridici: Le fondement théologique du droit, Neuchâtel 1946; Histoire des institutions, voll. I-V, Paris 1951-56; b) teologici: L’espérance oubliée, Paris 1972; La raison d’être. Meditation sur l’Ecclesiaste, Paris 1987; c) sulla tecnica: La technique ou l’enjeu du siècle, Paris 1954; Le système technicien, Paris 1977; d) politico-sociologici: Propagandes, Paris 1962; L’illusion politique, Paris 1965; e) etico-politici: Ethique de la Liberté, vol. I e II, Genève 1975, vol. III, Paris 1984. Su Ellul: bibliografia in I. HANKS, Research in Philosophy and Technology. Supplement 5, nuova ed. Stamford (Connecticut), 2000. - Studi: G. MANZONE, La libertà cristiana e le sue mediazioni sociali nel pensiero di Jacques Ellul, Milano 1993; P. CHASTENET (a cura di), Sur Jacques Ellul, Paris 1994; Ellul et les droits de l’homme, n. mon. «Foi et Vie», 99 (apr. 2000), 2; P. HERITIER, L’istituzione assente. Il nesso diritto-teologia a partire da Jacques Ellul, Torino 2001.

ELLWOOD, CHARLES ABRAM. – Sociologo Ellwood statunitense, n. presso Ogdensburg (New York) il 20 genn. 1873, m. a Durham (North Carolina) il 26 sett. 1946. Insegnò prima all’università del Missouri, poi alla Duke University a Durham. Fu presidente dell’American sociological Association. Per Ellwood la sociologia è una scienza positiva, basata sullo studio dei fattori biologici e psicologici che determinano il comportamento dell’uomo in relazione all’organizzazione sociale. D’altra parte egli riconosce i limiti di ogni indagine psicologica, specie relativamente ai problemi sociali; infatti, le manifestazioni e il comportamento della società sono assai più un prodotto di fattori storici e culturali, che espressione di una originaria psicologia umana. Nell’opera Sociology and Modern Social Problems (New York 1910), Ellwood descrive l’origine dei codici morali facendola dipendere dalla competizione e dai conflitti che scaturiscono dalla normale evoluzione dei gruppi sociali: l’etica sarebbe un prodotto della lotta per la sopravvivenza. Come conseguenza, essa appare relativa alle condizioni sociali e culturali delle diverse epoche, benché non arbitraria, ma storicamente condizionata. A. Cardin BIBL.: Sociology in its Psychological Aspects, London 1912; Cultural Evolution, New York 1927; Social Problems and Sociology, New York 1932; Methods in Sociology, Durham 1933; The Psychology of Human Society, Durham 1936.

’Elohim ’ELOHIM ( ). – Nome divino, con la de’Elohim sinenza al plurale, proprio della letteratura antico-testamentaria. Data tale desinenza, è tuttora discussione tra autori che considerano tale nome come espressione in origine di un plurale vero e proprio che poi assurgerebbe a valore monoteistico, attraverso i concetti di: dei, divinità, dio, Dio e – specialmente se preceduto dall’articolo determinativo – Iddio, e altri che attribuiscono a questo plurale un semplice valore rafforzativo richiamandosi al fatto che, nelle lettere di ‘el-’Amarnah e nelle tavole di Boghazköi, il plurale ilani significa spesso un singolo dio e in particolare il re, fenomeno che si riscontra anche in altri testi. Certo è che sta a indicare anche lo spirito di un morto, le molte divinità di altri popoli e così pure Dio creatore. In quest’ultimo caso i verbi e gli aggettivi che si accompagnano a tale nome divino sono di forma singolare. C’è poi chi non considera affatto la desinenza «im» come un plurale, bensì come una forma «mimizzata» (cioè una desinenza in «m», forma normale nel più antico stadio della lingua accadica) in segno di particolare venerazione. Laddove il testo intende sottolineare il concetto di «Iddio», in contrapposizione a «dio» oppure «Dio», si premette l’articolo determinativo, per togliere così ogni dubbio. Jhwh è un ’Elohim eterno; nel Primo libro di Samuele (6, 20) si parla di Jhwh «questo Iddio santo». Altre volte egli è Iddio di Giacobbe in contrapposizione agli dei degli egizi, degli aramei, moabiti ecc. Le divinità, anche se di popoli politeisti, sono sempre ’Elohim. ’Elohim si trova associato al nome di singoli patriarchi, ma mai al nome di un profeta, perché Iddio si rivelò ai patriarchi prima che fosse sorto il popolo di Israele; una volta invece costituitasi la nazione, Jhwh è lo ’Elohim del popolo intero, e non più di singole personalità, per eminenti che possano essere. Si dice che ogni popolo segue il proprio ’Elohim o, per essere più esatti, i propri ’Elohim, mentre Israele segue «Jhwh Dio nostro». E. Zolli BIBL.: A. MURTONEN, A Philological and Literary Treatise on the Old Test-Divine Names, Helsinki 1952; M.H. POPE, EI in the Ugarit Texts, in «Vetus Testamentum», suppl. II (1955); O. EISSFELDT, EI and Jahwe, in «Journal of Semitic Studies», 1 (1956), pp. 25-37; W.H. SCHMIDT, ‘elohim Dio, in E. JENNI C. WESTERMANN, Theologisches Handwörterbuch zum Alten Testament, München-Zürich 1971, ed. it. a cura

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Elsenhans di G.L. Prato, Dizionario teologico dell’Antico Testamento, Torino 1978, vol. I, coll. 134-146. ➨ JHWH; NOMI DIVINI.

ELSENHANS, THEODOR. – Filosofo tedesco, Elsenhans n. a Stoccarda il 7 mar. 1872, m. a Dresda nel 1918. Elsenhans subì l’influsso della filosofia di Fries, ma da essa cercò di differenziarsi soprattutto per quel che riguarda la riduzione della ricerca filosofica a ricerca empirico-psicologica. Sostenne, infatti, che la teoria psicologica della conoscenza è solo una indispensabile premessa a un’adeguata impostazione del problema della conoscenza; quest’ultimo, infatti, si ha solo, propriamente, quando sia posto contemporaneamente anche il problema del trascendente. Quanto alle scienze empiriche, esse non possono prescindere da un certo numero di ipotesi, che è compito della filosofia esaminare, come è compito della filosofia tendere, attraverso i dati offerti dalle scienze sperimentali, a una visione quanto più possibile unitaria dei rapporti che legano insieme i fenomeni del mondo dell’esperienza. A. Cardia BIBL.: Wesen und Entstehung des Gewissens, Leipzig 1894; Selbstbeobachtung und Experiment in der Psychologie, Freiburg im Breisgau 1897; Die Aufgabe einer Psychologie der Deutung als Vorarbeit für die Geisteswissenschaften, Giessen 1904; Fries und Kant, Giessen 1906; Charakterbildung, Leipzig 1908; A. BUCHENAU (a cura di), Psychologie und Logik, Berlin 19367 (Leipzig 1890); Lehrbuch der Psychologie, Tübingen 19393 (1912). Pubblicò inoltre alcuni importanti articoli sulle «Kantstudien». Su Elsenhans: H. BERTELE, P. Rées Lehre von Gewissen und die Kritik derselben bei Th. Elsenhans, München 1927.

ELSTER, JON. – Sociologo norvegese n. il 22 Elster febbr. 1940 a Oslo. Dopo aver insegnato a Parigi VIII, Oslo, di nuovo a Parigi all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e a Chicago, attualmente è professore di Scienze Sociali alla Columbia University. Elster è sicuramente una delle figure più interessanti ed eclettiche del panorama delle scienze sociali e della filosofia contemporanea. La sua sterminata produzione scientifica copre i più diversi ambiti. Il primo tra questi può essere considerato il tema dell’indagine sulla razionalità, delle condizioni di formazione delle preferenze e dei limiti e condizionamenti dei processi di scelta. A 3316

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questo tema l’autore dedica la maggiore parte della sua produzione: Ulysses and the Sirens (Cambridge 19842, tr. it. di P. Garbolino, Ulisse e le sirene, Bologna 1983); Sour Grapes (Cambridge 1983, tr. it. di F. Elefante, Uva acerba, Milano 1989); The Multiple Self (a cura di J. Elster, Cambridge 1986, tr. it. di R. Rini, L’io multiplo, Milano 1991); Solomonic Judgments (Cambridge 1989). Il tema della razionalità e dei suoi limiti si è successivamente trasformato nell’analisi del ruolo che fattori «irrazionali», quali emozioni e dipendenza da sostanze psicotrope, svolgono nella spiegazione dei comportamenti. A questo tema sono dedicate le opere Getting Hooked: Rationality and Addiction (a cura di J. Elster e O.J. Skog, Cambridge 1999); Alchemies of the Mind: Rationality and Emotions (Cambridge 1999); Strong Feelings: Emotions, Addiction and Human Behaviour, Cambridge [Massachusetts] 1999, tr. it. di M. Ricucci, Sensazioni forti: emozioni, razionalità e dipendenza, Bologna 2001); Addiction: Entries and Exits (a cura di J. Elster, New York 1999); Ulysses Unbound (Cambridge 2000, tr. it. di P. Palminiello, Ulisse liberato, Bologna 2004). Il secondo ambito concerne la filosofia politica e del diritto e la teoria sociale con quattro interessi principali: 1) il marxismo: Making Sense of Marx (Cambridge 1985); 2) il costituzionalismo e la teoria deliberativa della democrazia: Constitutionalism and Democracy (a cura di J. Elster - R. Slagstad, Cambridge 1988); Political Psychology (Cambridge 1993); Arguing and Bargaining in Two Constituent Assemblies (in «University of Pennsylvania Journal of Constitutional Law» 2 , 2000, pp. 345-421, tr. it. di G. Rigamonti, Argomentare e Negoziare, Milano 1993); Deliberative Democracy (a cura di J. Elster, Cambridge 1998); 3) la teoria della giustizia: Local Justice (New York 1983, tr. it. di E. Colombo, Giustizia locale Milano 1995); 4) i fondamenti della sociologia: The Cement of Society (Cambridge 1989, tr. it. di P. Palminiello, Il cemento della società Bologna 1995); Nuts and Bolts for the Social Sciences (Cambridge 1989, tr. it. di P. Palminiello, Come si studia la società, Bologna 1993). F. Biondo

EL TOSTADO, ALONSO de MADRIGAL (AbuEl Tostado lensis). – Teologo e canonista spagnolo, n. a Madrigal nella Vecchia Castiglia nel 1400, m. a Bonilla della Sierra (Avila) nel 1455.

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Elvico

Studiò e insegnò teologia a Salamanca; nel 1449 fu nominato vescovo di Avila. Ebbe un’erudizione prodigiosa e non priva di profondità. Le sue opere principali sono costituite da commenti e dissertazioni sulla Bibbia, spesso veri trattati teologici. Tostado non appartiene a nessuna scuola. È da ricordare, per l’interesse filosofico, il De optima politica (1436), in cui segue il pensiero politico di Aristotele. Si hanno varie edd. delle sue opere; la più recente è: Opera omnia, Venetiis 1728.

stado y Pérez de Moya, in J.M. LUCÍA MEGÍAS (a cura di), Actas del VI Congreso Internacional de la Asociación Hispánica de Literatura Medieval (Alcalá de Henares, 12-16 de septiembre de 1995), Alcalá de Henares 1997, pp. 543-550; C. WITTLIN, El oficio de traductor según Alfonso Tostado de Madrigal en su comentario al prólogo de san Jerónimo a las «Crónicas» de Eusebio, in «Quaderns. Revista de Traducció», 2 (1998), pp. 9-21; D. BRIESEMEISTER, s. v. in G. AVELLA-WIDHALM et al. (a cura di), Lexikon des Mittelalters, Stuttgart-Weimar 1999, vol. VI, coll. 67-68.

Red. BIBL.: E. MANGENOT, s. v. in A. VACANT - E. MANGENOT É AMANN (a cura di), Dictionnaire de Théologie Catholique, Paris 1909-47, vol. I, coll. 921-923; S. BOSI, Alonso Tostado: vita e opere, Roma 1951; K. KOHUT, Der Beitrag der Theologie zum Literaturbegriff in der Zeit Juans II. von Kastilien, Alonso de Cartagena (1384-1456) und Alonso de Madrigal, gennant El Tostado (1400-1455), in «Romanische Forschungen», 89 (1977), pp. 183-226; R.G. KEIGHTLEY, Hercules in Alfonso de Madrigal’s «In Eusebium», in B. DAMIANI (a cura di), Renaissance and Golden Age: Essays in Honour of E.W. McPheeters, Scripta Humanistica, vol. XIV, Potomac 1986, pp. 139-147; J.L. CASTILLO VEGAS, El humanismo de Alonso de Madrigal, El Tostado y su repercusión en los maestros salmantinos del siglo XV, in «Cuadernos Abulenses», 7 (1987), pp. 11-21; N. BELLOSO MARTIN, Política y humanismo en el siglo XV: el maestro Alfonso de Madrigal, el Tostado, Derecho, vol. XIII, Valladolid 1989; N. BELLOSO MARTIN, Perspectivas antropológicas en el humanismo de Alfonso de Madrigal, el Tostado, in «Cuadernos de Realidades Sociales», 33-34 (1989), pp. 111-122; R. RECIO, Alfonso de Madrigal (El Tostado); la traducción como teoría entre lo medieval y lo renacentista, in «La Corónica», 19 (1991), pp. 112-131; P. M. CÁTEDRA, Una epistola «consolatoria» atribuida al Tostado, in «Atalaya», 3 (1992), pp. 165-176; F. DOMÍNGUEZ, s. v. in W. KASPER (a cura di), Lexikon für Theologie und Kirche, Freiburg i.B. 1993-20013, vol. I, col. 389; E. FERNÁNDEZ VALLINA, Autores clásicos, mitología y siglo XV español: el ejempto del Tostado, in M. CASQUERO (a cura di), Estudios de tradición clásica y humanistica, Léon 1993, pp. 17-28; C. SALINAS ESPINOSA, La «Cuestiones de Filosofía Moral» de Alfonso de Madrigal «Actas do IV Congresso da Associacao Hispánica de Literatura Medieval, outubro 1991», Lisboa 1993, vol. II, pp. 295-300; R. RECIO, El concepto de la belleza de Alfonso de Madrigal (El Tostado): la problemática de la traducción literal y libre, in «Livius», 6 (1994), pp. 59-68; G. SERÉS, Don Pedro de Portugal y el Tostado, in AA.VV., Actas del III Congreso de la Asociación Hispánica, vol. II, Biblioteca Española del Siglo XV, Salamanca 1994, pp. 975-982; F. CROSAS LÓPEZ, Sobre los primeros mitógrafos españoles: El To-

ELVENICH, PETER JOSEPH. – Teologo e filoElvenich sofo tedesco; n. a Embken presso Zülpich, sul Reno, nel 1796 e m. a Breslavia nel 1886. Insegnò a Bonn e a Breslavia. Fu sostenitore delle dottrine teologiche di G. Hermes; in filosofia si ispirò alle posizioni di A. Günther. All’esposizione e alla difesa della teologia hermesiana (Elvenich fece anche nel 1837 un viaggio a Roma per cercare di ottenere il ritiro della condanna dell’hermesianismo) è dedicato lo scritto Acta hermesiana, Göttingen 1836. Opere: Moralphilosophie, Bonn 1830-32, 2 voll.; De Fichtii idealismo, Breslau 1832; Die Wesenheit des Geistes, ivi 1857; Die Beweise für das Dasein Gottes nach Cartesius, ivi 1868. Red. BIBL.: H. SCHRÖRS, Ein vergessener Führer aus der Rhein. Geistesgeschichte des 19. Jahrhunderts, Bonn 1925; V. ZOLLINI, s. v., in Enciclopedia Cattolica, vol. V, col. 265; E. CORETH - W.M. NEIDL - G. PFELIGERSDORFFER (a cura di), Christliche Philosophie im katholischen Denken des 19. und 20. Jahrhundert, Graz 1987-90, 3 voll., ed. it. a cura di G Mura e G. Penzo, La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, Roma 1993, vol. I, pp. 252 e 269.

ELVICO (Helwicus). – Con questo medesimo Elvico nome, sono conosciuti – e ancora confusi fra loro – autori diversi di cui si conosce poco o nulla, ma che è comunque necessario tenere distinti: a) Elvico Teutonico, teologo domenicano, è il probabile autore del De dilectione Dei et proximi, o De mandato maximo: un’opera a carattere mistico, nella quale si sentono contemporaneamente gli influssi di Tommaso e di Meister Eckhart, pubblicata nel 1485 come opera di Tommaso; b) Elvico Teutonico, pure domenicano, noto per essere stato il priore del convento di Strasburgo, m. nel 1263, da non confondere con il precedente; c) Elvico Teutonico, pseudonimo usato dal domenicano Giovanni di San Gimignano, m. verso il 1314 e autore, con questo pseudonimo, di una Summa 3317

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Elyot

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de exemplis rerum et similitudinibus in 10 libri (Venetiis 1469; Basileae 1557); d) Elvico di Germar, domenicano tedesco, che il Grabmann (Mittelalterliches Geistesleben, vol. II, München 1936, pp. 576-585) identifica con l’autore dello scritto pseudotomistico sopra citato, e che chiama anche Elvico Junior di Germer (cfr. N. Bray, Giordano di Quedlinburg come documento delle discussioni posteckhartiane, in AA.VV., Intellect et imagination dans la philosophie médiévale, «Actes du XIe Congrès International de Philosophie Médiévale, 26-31 août 2002, Porto», Rencontres de Philosophie Médiévale, vol. XI, Turnhout 2005); e) Elvico è anche un francescano del XIII secolo, maestro a Erfurt e a Magdeburgo, m. nel 1252. A. Tognolo

ELYOT, THOMAS, Sir. – Diplomatico e umaniElyot sta inglese, n. a Wiltshire nel 1490 (?), m. a Carlton nel 1546. S’ispirò al classicismo di T. More, ma diede ai propri scritti, sull’esempio di Erasmo, un esplicito indirizzo educativo. Il suo capolavoro è The Boke Named the Governour (London 1531; ed. a cura di H.H. Croft, ivi 1883, 2 voll.), che ebbe larga influenza sulle idee educative di Asham e di Locke. Elyot ritiene che il più sicuro fondamento per ogni stato è la virtù dei governanti, in vista della quale egli espone un minuzioso e completo piano educativo per i giovani destinati al governo della cosa pubblica. Concepisce l’educazione, sull’esempio del Rinascimento italiano, come un processo liberale e armonico che, sviluppando tutti gli aspetti dell’uomo, mira alla virtù. Il suo lavoro è ritenuto il primo saggio inglese di filosofia morale (Cfr. anche Of the Knowledge Which Maketh a Wise Man, ed. a cura di E.J. Howard, Oxford 1946. Testi in Grande Antologia filosofica, Milano 1964, vol. VII, pp. 936-938). G. Bianca BIBL.: L. WARREN, Patrizi’s «De regno et regis institutione» and the Plan of Elyot’s, «The Boke Named the Gouvernor», in «Journal of English and German Philology», 49 (1950), pp. 67-77; F. CASPARI, Humanism and the Social Order in Tudor England, Chicago 1954, pp. 76-109; R. ROBERTSON RUSK, The Doctrines of the Great Educators, London 1954; P. HOGREFE, The Sir Thomas More Circle: A Program of Ideas and Their Impact on Secular Drama, Urbana 1959; R. WEISS, in Grande Antologia filosofica, Milano 1964, vol. VII, pp. 921-922; G.M. BERTIN, L’umanesimo pedagogico in Inghilterra. L’educazione del «governour» secondo Th.

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Elyot, ibi, vol. XI, pp. 211-212; J.M. MAJOR, Sir Thomas Elyot and Renaissance Humanism, Lincoln 1964; C. JORDAN, Feminism and the Humanists: the Case of sir Thomas Elyot’s «Defence of Good Women», in «Renaissance Quarterly», 36 (1983), pp. 181-201.

EMANATISMO (emanatism; EmanationsEmanatismo lehre; émanationnisme, émanatisme; emanatismo). – Il termine «emanatismo», come anche «emanazionismo», designa in generale un sistema di pensiero fondato sull’emanazione (ajpovrroia, ajporrohv), che può essere intesa sia in senso strettamente fisico, come flusso ed effluvio, come accade nei presocratici e negli atomisti, sia in senso metafisico, nel caso dei sistemi dei neoplatonici e di alcuni pensatori cristiani platonizzanti. Nelle filosofie pluraliste di Empedocle e degli atomisti, l’emanazione, che interessa strettamente il piano fisico e gnoseologico, è da intendersi come un effluvio di particelle materiali che continuamente promanano dalle cose e giungono ai nostri organi percettivi, producendo così la percezione sensoriale. Questi effluvi sono causa non soltanto delle sensazioni, ma anche delle prolessi o preconcezioni, del pensiero e delle rappresentazioni fantastiche e dei deliri. In questo contesto, dunque, l’emanatismo serve a spiegare processi conoscitivi umani. I termini ajpovrroia, ajporrohv e correlati sono attestati in Empedocle (in DK frr. 31 A 86; B 89), sul flusso dei colori dall’oggetto percepito verso la vista del soggetto percipiente, sul flusso degli odori verso l’olfatto e quello dei suoni verso l’udito, e sull’adattamento delle particelle costitutive dell’effluvio ai «pori» degli organi percettivi atti ad averne sensazione; in Democrito (in DK frr. 68 A 135; A 165; B 123); in Epicuro (fr. 293, in Epicurea. Testi di Epicuro e testimonianze epicuree nella raccolta di Hermann Usener, ed. it. a cura di I. Ramelli, pref. di G. Reale, Milano 2002, p. 209), in riferimento agli atomi che fluiscono dal ferro e dalla calamita e che forniscono una spiegazione scientifica alla reciproca attrazione dei due, ma anche (fr. 319, ibi, p. 220) in riferimento ai simulacri o ei[dwla di atomi che fluiscono continuamente dai corpi, riproducendone le caratteristiche visive, e colpiscono i recettori visivi dei soggetti percipienti, producendo così la sensazione, nonché (fr. 385, ibi, p. 258) sugli effluvi provenienti dagli dei che divengono concause di grandi beni per tutti gli esseri che vi partecipano e (fr. 394,

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ibi, p. 260) sui simulacri che emanano dai corpi sia quando questi sono in vita sia anche molto tempo dopo la loro distruzione. In ambito neoplatonico, il concetto di emanatismo si applica invece a un processo di tipo metafisico. I termini ajpovrroia e ajporrohv sono usati anche da Plotino per indicare la derivazione delle ipostasi dell’intelletto e dell’anima, e poi via via di tutte le realtà, fino all’infimo gradino che consiste nella materia, dall’uno, che è al di là dell’essere. Questi nomi che designano l’emanazione, tuttavia, si trovano in Plotino insieme a molti altri, per designare il suddetto processo di derivazione, e inoltre si riferiscono più all’aspetto immaginifico che a quello concettuale del pensiero plotiniano su questo argomento. In effetti, il concetto di emanatismo o emanazionismo, proveniente dal pensiero orientale, pur essendo stato applicato a lungo anche alla metafisica plotiniana – e poi a quella neoplatonica in genere –, non appare pienamente soddisfacente, nella fattispecie per Plotino, per molteplici motivi: 1) l’emanatismo si fonda interamente sulla necessità, mentre in Plotino l’uno, principio primo di tutto il processo derivativo, è caratterizzato da una libera attività di autoposizione e autocreazione, a cui consegue soltanto in un secondo momento la necessità dell’intera processione, e comunque questa necessità è fondata su un atto di libertà (sulla libertà dell’uno cfr. G. Leroux [a cura di], Plotin. Traité sur la liberté de l’Un: Ennéade VI 8 [39], Paris 1990); 2) l’emanatismo riguarda un processo fisico, mentre in Plotino la processione delle ipostasi e del reale dall’uno trascendente, che si trova al di là dell’essere stesso, è esclusivamente di carattere metafisico; 3) l’emanatismo prevede un effluvio e un depotenziamento progressivo della sostanza della sua fonte, mentre secondo Plotino dal principio che è l’uno si ha un effluvio e un depotenziamento di potenza: nella processione l’ipostasi iniziale permane inalterata, non si esaurisce né si indebolisce né diminuisce nella sua sostanza; è dal punto di vista della potenza e dell’attività che si ha invece un continuo digradare, tale che le ipostasi e le realtà via via prodotte sono sempre gerarchicamente inferiori alle precedenti, fino alla materia; 4) l’emanatismo non include il concetto di contemplazione creatrice su cui invece si basa interamente la processione delle ipostasi in Plotino.

Emanatismo In generale, infatti, nella metafisica neoplatonica appare più corretto parlare di processione (provodo") che non di vera e propria emanazione, e in effetti usava questo termine per il processo plotiniano del dispiegamento della molteplicità dall’assoluta unità dell’uno già J. Trouillard (La procession plotinienne, Paris 1955), termine utilizzato poi anche da G. Reale (I fondamenti della metafisica di Plotino e la struttura della processione, in AA.VV., Graceful Reason. Essays in Ancient and Medieval Philosophy Presented to J. Owens, Toronto 1983, pp. 153175). Da L.P. Gerson (Plotinus’s Metaphysics: Emanation or Creation?, in «Review of Metaphysics», 46, 1992-93, pp. 559-574) è stato addirittura proposto di parlare, per Plotino, di «creazionismo» il che è differente dall’emanatismo. L’emanazione, infatti, si pone a metà tra creazione e generazione: nella creazione, il principio creatore trascende sostanzialmente la creatura e c’è una netta frattura ontologica tra i due; nella generazione, invece, generante e generato condividono la stessa natura, come padre e figlio. L’emanazione è assimilata piuttosto alla luce proveniente dal sole, o al profumo che si sprigiona da un fiore, o ancora all’acqua che sgorga da una sorgente: come avviene in questi tipi di derivazione, l’emanazione non si produce nel tempo, ma è eterna. L’emanatismo mantiene sia la continuità del reale, senza fratture ontologiche e senza bisogno di creazioni ex nihilo, sia la superiorità metafisica del principio rispetto alla realtà derivata, a differenza di quanto si verifica nella generazione (per la divergenza tra creazione ed emanazione cfr. anche F. Ricken, Emanation und Schöpfung, in «Theologie und Philosophie», 49, 1974, pp. 483-486). Secondo J.M. Narbonne (Plotinus and the Secrets of Ammonius, in «Hermathena», 157, 1994, pp. 117-153), già il maestro di Plotino, Ammonio Sacca, avrebbe professato un sistema metafisico fondato su un concetto di émanation intégrale, che egli avrebbe voluto mantenere segreto all’esterno della sua scuola e che Plotino invece avrebbe rivelato. Secondo J. Opsomer (Proclus vs Plotinus on matter, in «Phronesis», 46, 2001, pp. 154-188) se Proclo in De malorum subsistentia, 30-37, si distanzia dall’interpretazione della materia come male sviluppata da Plotino (in Enn., I 8, 51), e se nega che la materia sia male o causa di male, asserendo piuttosto che essa è buona, in quanto prodotta ultimativamente dall’uno, ciò è do3319

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Emanatismo vuto a una diversa concezione della processione dall’uno rispettivamente in Plotino e in Proclo: secondo Plotino, la materia, che si pone all’estremo gradino della processione, non ritorna al principio primo, in base allo schema di manenza-processione-ritorno, teorizzato da Proclo; mentre quest’ultimo prevede un ritorno all’uno anche per la materia stessa che da esso deriva (sulla materia in Plotino cfr. anche K. Corrigan, Plotinus’ Theory of Matter-Evil and the Question of Substance, Leuven 1996; per il movimento triadico manenza-processione-ritorno in Proclo cfr. C. Térézis, La critique de Nicolas de Méthone à la théorie de Proclos concernant le schéma manence-procession-conversion, in «Byzantion», 65, 1995, pp. 455-466). Proclo dunque, nella sua polemica con Plotino, osserva, forse ispirandosi a Giamblico, che porre la materia come principio del male significa o accettare un dualismo cosmico, caratterizzato da due principi pari e antitetici, l’uno del bene e l’altro del male, oppure fare del bene stesso la causa del male. Entrambe le soluzioni gli sembrano inaccettabili, per cui egli conclude che la materia, estremo lembo della processione, non può essere in assoluto principio del male (attorno alla stessa problematica ruotano le osservazioni di G. Van Riel, Horizontalism or Verticalism?, in «Phronesis», 46, 2001, pp. 129-153, sulle differenze tra la processione plotiniana e quella del tardo neoplatonismo, soprattutto in Proclo). Come ha osservato D. Rehm (Plotinus’ Treatment of Aristotelian duvnami" in Emanation, in «Journal of Neoplatonic Studies», 2, 1993-94, pp. 3-44; Plotinus’ Use of duvnami" and ejnevrgeia in his Account of Emanation from the One, Chicago 1994), la processione dall’uno (che egli chiama «emanazione») in Plotino (Enn. V-VI, specialmente in VI 3), può essere letta come un tentativo di rendere ragione della pura attualità al principio di un processo che alterna attualità e potenzialità. Il sistema di processione elaborato da Plotino e da Proclo influenzò poi anche i filosofi arabi dei secoli XII-XIII. L’emanatismo si presenta anche in altri ambiti di pensiero nel mondo intellettuale tardo-antico, ad es. negli Oracoli Caldaici e nello gnosticismo, dove si tratta anche di emanazione degli eoni: nella gnosi pagana e cristiana si trovano i termini probolhv, ajpovrroia, emanatio, emissio (cfr. J. Turner, The Figure of Hecate and Dynamic Emanatism in the Chaldean Oracles, Sethian Gnosticism, and Neoplatonism, in «Se3320

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cond Century», 7, 1989-90, pp. 221-232; A. McGowan, Valentinus poeta, in «Vigiliae Christianae», 51, 1997, pp. 158-178). Nel cristianesimo, tuttavia, con la definizione del dogma trinitario e della creatio ex nihilo, e con la netta differenziazione tra generazione e creazione, il concetto di ajpovrroia e di emanatismo venne usualmente bandito, anche se esso non manca di comparire ancora in età postnicena in qualche passo particolare. Interessante è ad esempio un passo di Gregorio di Nissa (Contra Eunomium, III 6, 27-28), in cui il concetto di emanatismo è utilizzato per spiegare alcuni titoli di Cristo relativi alla generazione del Figlio dal Padre, tra cui ajpauvgasma, «splendore derivato, riflesso»: l’immagine è qui in effetti quella della luce che emana dalla luce (cfr. M. Harl, À propos d’un passage du Contre Eunome de Grégoire de Nysse, ajpovrroia et les titres du Christ en théologie trinitaire, in «Recherches de Science Religieuse», 55, 1967, pp. 217226). La generazione del Figlio, sebbene espressa anche in termini di emanazione, in modo figurato, si mantiene comunque ben distinta dalla creazione operata da Dio a partire dal nulla. Secondo H. Wolfson (The Identification of Ex Nihilo with Emanation in Gregory of Nyssa, in «Harvard Theological Review», 63, 1970, pp. 53-60), in De hominis opificio, XXVIII, il nihil della creatio ex nihilo andrebbe inteso come la negazione assoluta di tutto quanto può essere detto o pensato, e finirebbe per coincidere con Dio stesso, che – conformemente alla linea della teologia negativa, ben nota al Nisseno e da lui anche abbracciata – è ineffabile e incomprensibile, in primo luogo in ragione della sua infinità e trascendenza. Successivamente, il creazionismo cristiano si avvicinerà, in certo modo, all’emanatismo, per un’esigenza di continuità ontologica, in Giovanni Scoto Eriugena, autore ormai altomedievale del Periphyseon, fortemente influenzato dal sistema procliano cristianizzato dallo pseudo-Dionigi Areopagita, e poi, nel basso Medioevo, nella vertiginosa mistica di Meister Eckhart. Nel De divinis nominibus pseudo-dionisiano, infatti, è recuperato lo schema procliano di manenza (monhv) - processione (provodo") - ritorno (ejpistrofhv): Dio, nella sua manenza, è assolutamente trascendente, è l’uno al di sopra dell’essere, e privo di nomi, secondo la linea dell’apofatismo; nella sua processione, tuttavia, Dio, concepito come uno-essere nel

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momento più alto della processione (provodo"), è la causa produttrice di tutti gli esseri, e quindi può assumere tutti i loro nomi. L’uno totalmente trascendente rimane sempre in se stesso, in unità assoluta (e{nwsi"), inalterabile e inesauribile, nonostante la processione, che è l’emanazione della sua potenza infinita e traboccante, la quale, in tal modo, si moltiplica infinitamente. Della processione partecipano tutte le manifestazioni di Dio: bene, bello, luce, provvidenza, amore, vita, sapienza, intelligenza, logos, verità, potenza, giustizia, pace. Il momento del ritorno prevede che tutti gli esseri derivati dalla processione, e originariamente contenuti nella loro totalità già nell’uno, che è dunque un uno-tutto (come in Damascio), si rivolgano verso la loro fonte prima, attratti da essa che si manifesta come amore, bellezza assoluta e oggetto di desiderio: si ha dunque un ritorno dalla molteplicità all’unità. I. Ramelli BIBL.: J. RATZINGER, s.v. Emanation, in RAC, IV, coll. 736-905; W. JAEGER (a cura di), Contra Eunomium, in Gregorii Nysseni Opera, I-II, Leiden 19602; H. DÖRRIE, Emanation. Ein unphilosophisches Wort im spätantiken Denken, in Parusia. Studien zur Philosophie Platons und zur Problemgeschichte des Platonismus. Festgabe J. Hirschberger, a cura di K. Flasch, Frankfurt am Main 1965, pp. 119-141; K. KREMER, Das Warum der Schöpfung, in Parusia. Studien zur Philosophie Platons und zur Problemgeschichte des Platonismus. Festgabe J. Hirschberger, a cura di K. Flasch, Frankfurt am Main 1965, pp. 241-264; R. VITALI, Il novo" di Parmenide, in «Vichiana», 6 (1969), pp. 227-251; S. GERSH, From Iamblichus to Eriugena. An Investigation of the Prehistory and Evolution of the Pseudo-Dionysian Tradition, Leiden 1978; M. NALDINI, Gregorio Nisseno e Giovanni Scoto. Note sull’idea di creazione e sull’antropologia, in «Studi Medievali», 20 (1979), pp. 501533; M. NINCI, L’universo e il non essere, I: Trascendenza di Dio e molteplicità del reale nel monismo dionisiano, Roma 1980; U. BIANCHI, Polemiche gnostiche e antignostiche sul Dio dell’Antico Testamento, in «Augustinianum», 22 (1982), pp. 35-51; É. JEAUNEAU, PseudoDionysius, Gregory of Nyssa, and Maximus the Confessor in the Works of John Scottus Eriugena, in Carolingian Essays, a cura di U.R. Blumenthal, Washington 1983, pp. 138-149; A. MEREDITH, Emanation in Plotinus and Athanasius, in Studia Patristica XVI, a cura di E.A. Livingstone, Berlin 1985, pp. 319-323; R.C. HINTON, The Arguments for Emanation: Plotinus as Rational Philosopher, Athens (Georgia) 1989 (= DA 50, 1989-90, 3250A); W. BEIERWALTES, Proklos. Grundzüge seiner Metaphysik, Frankfurt am Main 1965, tr. it. di N. Scotti, Proclo. I fondamenti della sua metafisica, Milano 19902; L.M.E. BUCKLEY, Ecstatic and Ema-

Emancipazione nating, Providential and Unifying, in «Journal of Neoplatonic Studies», 1 (1992), pp. 31-61; H. MAGUIRE, Christians, Pagans and the Representation of Nature, in «Riggisberger Berichte», 1 (1993), pp. 131160; A. OUSAGER, Plotin om bevægelse og personlig identitet gennem tid, in Erfaring, tænkning, ånd: festskrift til O. Borgman Hansen, a cura di A. Ousager, Århus 1994, pp. 57-102; B. POTTIER, Dieu et le Christ selon Grégoire de Nysse, Namur 1994; J. LAMPERT, Origen on Time, in «Laval Théologique et Philosophique», 52 (1996), pp. 649-664; W. BEIERWALTES, Eriugena. Grundzüge seines Denkens, Frankfurt am Main 1994, tr. it. di E. Peroli, Eriugena. I fondamenti del suo pensiero, Milano 1998; H.J. SIEBEN, Vom Heil in den vielen «Namen Christi» zur «Nachahmung» derselben, in «Theologie und Philosophie», 73 (1998), pp. 1-28; L.F. MATEO-SECO, Cristologia e linguaggio in Gregorio di Nissa, in «Lingua e teologia nel cristianesimo greco: atti del convegno di Trento, 11-12 dicembre 1997», a cura di C. Moreschini e G. Menestrina, Brescia 1999, pp. 227-249; J.M. NARBONNE, Hénologie, ontologie et Ereignis, Paris 2001; J.M. NARBONNE, La métaphysique de Plotin, Paris 2001; G. REALE, Introduzione a Plotino. Enneadi, tr. it. di R. Radice, Milano 2002, pp. XXVIII-XXXVI; S. LILLA, Dionigi l’Areopagita e il Platonismo cristiano, Brescia 2004; C. MORESCHINI, Storia della filosofia patristica, Brescia 2004, pp. 687-704; G. REALE, Storia della filosofia greca e romana, Milano 2004, voll. VIII, sul neoplatonismo, e IX, s.vv. Emanazione ed Effluvio. ➨ CREAZIONISMO; EFFLUVIUM; GENERAZIONE; GNOSI E GNOSTICISMO; IPOSTASI; NEOPLATONISMO; UNO; UNO-MOLTI; UNO-TUTTO.

EMANCIPAZIONE (emancipation; EmanziEmancipazione pation; émancipation; emancipaciòn). – Già nel diritto romano indica l’attribuzione, a un minore in età, della capacità di agire entro condizioni fissate dalla legge; ma progressivamente il significato di emancipazione si amplia, a partire da questa accezione giuridica, fino a indicare, per estensione, il superamento di uno stato di dipendenza e subordinazione non solo personale, ma anche politica, sociale, economica, culturale. In tale signficato l’uso del termine è quanto mai esteso e non rigorosamente delimitabile. L’«età delle rivoluzioni democratiche» ha determinato, a partire dalla seconda metà del Settecento, non solo il suo ingresso massiccio nel lessico politico, ma anche il senso tipicamente moderno del termine: la lotta per la conquista dei diritti dell’homme e del citoyen, di cui è soggetto l’individuo che fuorisce dalla «minorità» mediante l’uso del suo «intelletto» (Immanuel Kant, Beantwor3321

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Emancipazione tung der Frage: Was ist Aufklärung?, tr. it. di F. Gonnelli, Roma-Bari 1995, p. 45). I moti per la conquista dell’indipendenza nazionale durante l’Ottocento si svolgono sotto il segno della richiesta di emancipazione, in questo caso dal dominio straniero (si rammenti l’«Associazione Emancipatrice Italiana», 1862). Anche i primi movimenti femministi, nello stesso periodo, richiedono emancipazione come parità dei diritti civili e politici. In questa fase le battaglie per l’emancipazione sono, pur nella loro diversità, battaglie per l’uguaglianza dei diritti, degli individui e/o delle nazioni: emancipazione e uguaglianza formano un binomio inscindibile. È Marx, ne La questione ebraica (1842), a evidenziare il carattere «astratto» e di falsa universalità dell’uguaglianza, ove questa sia intesa nel senso liberal-borghese; contrappone, in questa chiave, l’emancipazione «politica», che realizza una liberazione meramente formale, la quale non muta le condizioni «reali» dell’esistenza collettiva, all’emancipazione «umana», che è e dovrà essere invece emancipazione materiale e quindi sostanziale. Con questo Marx imprime una svolta cruciale sia alla riflessione filosofica che alla prassi rivolta all’emancipazione. Infatti, sia nella prima che nella seconda, schiude il campo a quel variegato insieme di teorie e di movimenti in cui, pur in modi diversi, viene posta al centro la questione del rapporto tra le due dimensioni dell’emancipazione appena ricordate, quella formale e quella sostanziale. Nel campo femminista, per esempio, l’accentuazione di questo aspetto si è avuta attraverso la rivendicazione, pur diversamente modulata nei differenti contesti interpretativi, dello stretto nesso che deve esistere tra uguaglianza e differenza; qui la dimensione sostanziale dell’emancipazione sta nella capacità di render ragione, entro l’uguaglianza, della differenza in tutte le sue manifestazioni. È evidente come la medesima chiave di lettura può essere applicata alle questioni legate alla cosiddetta società «multiculturale» (C. Taylor, Multiculturalism and «the Political of Recognition», Princeton 1992; tr. it. di G. Rigamonti, Milano 1993). Un senso tecnico specifico ha il concetto di emancipazione in Jürgen Habermas: esprime infatti uno degli «interessi» cognitivi dell’uomo, accanto a quello «teorico» e a quello «pratico». In particolare indica l’interesse all’instaurazione 3322

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della «condizione ideale di vita» di cui si occupano le «scienze sociali critiche» e nella quale dovrebbe essere consentita una comunicazione liberata dal dominio e dalla manipolazione (Erkenntnis und Interessen, Franfurt am Main 19732, tr. it. di L. Ceppa, Conoscenza e interesse, in Teoria e prassi della società tecnologica, RomaBari 19743, pp. 43-58). L’emancipazione quindi coinvolge non solo lo sviluppo dei diritti civili, politici e di «ripartizione sociale» (Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechsstaats, Frankfurt am Main 1992, tr. it. di L. Ceppa, Roma-Bari 1996, pp. 148-149), ma, come effetto del godimento di tali diritti, consente una forma di convivenza in cui la politica non sia più mera «amministrazione», bensì spazio per la determinazione consensuale delle scelte collettive. In una prospettiva per molti versi simile K.O. Apel ha evidenziato la tendenza «emancipativa» dell’«etica del discorso», uno dei cui fini è la demistificazione dell’«ideologia» quale legittimazione degli interessi materiali che impediscono l’intesa discorsiva tra gli individui (Das Apriori der Kommunikationsgemeinschaft, Frankfurt am Main 1973, tr. it. parziale di G. Carchia, Torino 1977). Nell’ambito del variegato contesto della «teologia politica» l’ideale dell’emancipazione è richiamato per evidenziare che la fede deve avere un impatto storico, assumendo su di sé il dovere di trasformare, già entro il mondo, le condizioni dell’esistenza umana nella lotta contro l’ingiustizia; l’emancipazione istituisce così un nesso indissolubile con la «redenzione» (J.B. Metz S. Moltmann - W. Oelmüller, Kirche im Prozess der Aufklärung, München 1970, tr. it. di F. Gentiloni Silveri, Una nuova teologia politica, Assisi 1971). R. Gatti BIBL.: J. STUART MILL, On the Subjection of Women, London 1869, tr. it. La schiavitù delle donne, Milano 1992; S. DE BEAUVOIR, Le deuxième sexe, Paris 1949, tr. it. di R. Contini e M. Andreose, Il secondo sesso, Milano 1997; J.B. METZ, Erlösung und Emancipation, in AA.VV., Erlösung und Emancipation, a cura di L. Scheffczyk, Freiburg 1973, tr. it. di G. Moretto, Redenzione ed emancipazione, in La fede, nella storia e nella società, Brescia 1978; K. MARX, Die Judenfrage, in K. MARX - F.ENGELS, Werke, vol. I, Berlin 1976, tr. it. di M. Tomba, La questione ebraica, Roma 2004; AA.VV., Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, Milano 1987; L. IRIGARAY, An Ethics of Sexual Differen-

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Embrione

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

ce, Ithaca 1993, tr. it. di L. Muraro e A. Leoni, Etica della differenza sessuale, Milano 19904.

zione sociale, gli emarginati sono spesso indicati col termine «ultimi».

➨ DISCORSO, ETICA DEL; FEMMINISMO; SOGGETTO

G. Sarpellon BIBL.: M.T. TAVASSI, Cosa leggere sull’emarginazione sociale, Milano 1977; O. ARZUFFI, Emarginazione A-Z. Guida pratica ai problemi, alle istituzioni, alla legislazione, Torino 1991; G. SARPELLON, Dentro e fuori la società. Emarginazione e stato sociale, Roma 1998; W. NANNI - T. VECCHIATO (a cura di), Cittadini invisibili: rapporto 2002 su esclusione sociale e diritti di cittadinanza, Milano 2002.

GIURIDICO; TEOLOGIA POLITICA; UGUAGLIANZA.

EMARGINAZIONE (marginality; MarginaliEmarginazione tät; marginalité; marginalidad). – È parola che ha visto mutare il proprio significato negli ultimi decenni del secolo scorso. Usata originariamente come termine burocratico, essa stava a indicare l’atto di annotare al margine di carte amministrative; affiancata per lo più all’aggettivo «sociale», essa ha denotato in seguito la posizione di chi subisce una condizione di inferiorità – o comunque di svantaggio – rispetto alla classe o al gruppo dominante. Emarginazione è un concetto che, al suo nuovo apparire sul finire degli anni sessanta del secolo scorso, assume una forte connotazione ideologica, essendo collegato a una visione politica che concepisce la società come un insieme strettamente dominato da una struttura centrale nella quale si combinano e si rafforzano, in un rapporto di interdipendenza, le diverse espressioni del potere (economico, politico, culturale ecc.). Essa, per molti versi, rappresenta l’opposto della partecipazione, elemento centrale dei movimenti sociali che caratterizzarono quegli anni. D’altra parte, così come emarginato è colui – e ciò – che è «lontano dal centro», altrettanto l’emarginazione si definisce anche come diversità da ciò che è considerato normale ed emarginate sono quindi le varie categorie dei «diversi», siano essi definiti tali rispetto alla struttura produttiva (disoccupati), all’età (anziani, minori), allo stato di salute (minorati psico-fisici), al sesso (omosessuali, ma anche le donne), alle condizioni economiche (poveri), all’appartenenza culturale (minoranze). In tempi più recenti, anche come conseguenza del declinare dell’ideologia di riferimento, il significato di emarginazione si è andato restringendo fino a qualificare la condizione di uno strato sociale più ristretto, l’infimo della gerarchia sociale, nel quale trovano posto le persone in condizione di estrema difficoltà economica e/o con gravi problemi di inserimento sociale (come, ad esempio, gli immigrati). Nel linguaggio corrente dei movimenti di ispirazione cattolica impegnati in azioni di promo-

➨ DIFFERENZA ZIONE.

/ DIVERSITÀ; MARGINALITÀ; PARTECIPA-

EMBRIONE (embryo; Embryo; embryon; emEmbrione brión). – Le recenti possibilità scientifiche e tecnologiche in ambito biomedico di intervento sulla fase iniziale della vita umana hanno problematizzato lo statuto dell’embrione umano. Si tratta di giustificare, sul piano biologico, antropologico, etico e giuridico la sussistenza o meno di ragioni (deboli o forti) a tutela dell’embrione umano di fronte all’avanzamento delle conoscenze scientifiche e delle applicazioni tecnologiche (si pensi alle tecnologie riproduttive, con la possibilità di sovrapproduzione o riduzione embrionaria, congelamento e sperimentazione di embrioni; alle diagnosi genetiche preimpianto e alla possibilità di selezione eugenetica; si pensi, ancora, alla clonazione, riproduttiva e cosidetta terapeutica). L’interrogativo bioetico preliminare si pone sul piano empirico: come è l’embrione umano? Il riduzionismo scientista, partendo dal presupposto materialistico-meccanicista che il dato fattuale conoscibile sperimentalmente sia tutto ciò che esiste, considera lo zigote una cellula appartenente alla specie umana che si forma (casualmente) e si moltiplica (secondo la legge causa/effetto) divenendo un aggregato di cellule umane (estese e in movimento), in contatto accidentale le une con le altre, scambiandosi informazioni biochimiche e genetiche (il cosiddetto «pre-embrione»). In contrapposizione alla visione scientista è stato rilevato che il fatto che la scienza metta tra parentesi le qualità non misurabili della realtà (le essenze o i fini), non significa che esse non esistano: proprio l’osservazione biologica della vita umana nelle fasi iniziali mostra che l’embrione umano, sin dallo stadio unicellulare, è già un organismo umano, con un sistema unico, integrato e organizzato (non più scom3323

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Embrione ponibile nei componenti che lo hanno generato, i gameti), che contiene in sè intrinsecamente tutte le informazioni genetiche, individuali e specifiche, orientate teleologicamente e autonomamente all’attuazione del corpo nella sua completezza, nelle diverse fasi dello sviluppo continuo, graduale e coordinato. Alla riflessione biologica segue la riflessione antropologica: chi è l’embrione umano? Molte sono le teorie che, con argomenti diversi, hanno tematizzato la posticipazione dello statuto personale rispetto all’inizio biologico della vita dell’essere umano (gli embrioni possono «divenire» persone, ma non lo sono «ancora»). La teoria relazionale (ispirata al personalismo dialogico) ritiene che solo al momento dell’annidamento (sesto/settimo giorno dal concepimento) delle cellule embrionali nella parete uterina del corpo materno (che identificherebbe l’instaurarsi della prima relazione fisiologica) si possa individuare l’inizio della persona; la teoria del quattordicesimo giorno nega l’individualità (e dunque anche la personalità) all’embrione, richiamandosi ai fenomeni della gemellazione monozigotica e della fusione chimerica, ossia della suddivisione e della compattazione delle cellule embrionali (non potendo un individuo divenire due individui e viceversa); la teoria utilitarista riconosce l’embrione come persona non prima della formazione del sistema nervoso centrale, condizione di possibilità della percezione del piacere e del dolore; la teoria del parallelismo vita-morte/cerebrale e la teoria dell’emergentismo ritengono che la formazione della corteccia cerebrale costituisca la condizione neurofisiologica per l’esercizio della funzione razionale, indispensabile per riconoscere lo statuto personale alla vita nascente; la teoria razionalistica teorizza l’imprescindibilità della ragione, intesa quale esercizio effettivo in atto, per la definizione della persona, finendo con l’identificare la persona nella fase della vita umana post-natale. A tali teorie sono state avanzate alcune obiezioni: se la relazione è un elemento necessario per lo sviluppo embrionale, essa non costituisce l’essere, bensì ne presuppone l’esistenza; inoltre il fenomeno della gemellazione è spiegabile senza negare l’individualità (gemellazione non significa divisione, bensì duplicazione o moltiplicazione di un individuo in due o più individui); le teorie funzionaliste (utilitariste e razionaliste, moderate ed estreme), che riducono la persona all’esercizio o alle condi3324

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zioni per l’esercizio delle sue funzioni (sensitive e razionali), non tengono conto che le funzioni non sono «il» soggetto, semmai sono «del» soggetto (le funzioni non potrebbero esserci se non fossero manifestate da un soggetto che per natura è in grado di manifestarle). La prospettiva ontologica, in contrapposizione alla prospettiva gradualista, si riferisce alla concezione filosofica originaria della persona, riconducibile alla formulazione classica aristotelica di «animale razionale» o alla formulazione boeziana (e poi tomista) «individua substantia rationalis naturae»: la persona è considerata un individuo concreto, che ha una sua propria natura ontologica, che si manifesta (o meglio, si può manifestare) in capacità e comportamenti, ma non è riducibile ad essi. La teoria ontologica della persona tematizza la priorità della natura sulle funzioni: l’essere persona appartiene alla natura stessa dell’embrione a prescindere dalla manifestazione esterna di determinate operazioni o delle condizioni della loro espressione. La presenza di un principio sostanziale consente di riconoscere lo statuto attuale della persona nell’essere umano anche in condizioni di «potenzialità», ossia di non attuazione, momentanea o permanente di certe funzioni, dovuta all’incompletezza dello sviluppo o alla presenza di fattori, esterni o interni, che ne impediscono la manifestazione. In questo senso, «in potenza» non è la natura umana, ma semmai l’attuazione completa delle capacità che per esplicitarsi necessitano della maturazione biologica, psichica e sociale. Ne consegue che l’embrione è «già» persona, in quanto, pur non essendosi ancora manifestate in atto tutte e al massimo grado le proprietà, sono presenti le condizioni che costituiscono il supporto necessario del processo dinamico ininterrotto e progressivo che consentirà l’attuazione di tali caratteri. Benché infinitesimamente piccolo, quantitativamente impercettibile ed esteriormente debole, l’embrione è «qualitativamente» umano (dunque «persona»). Alla luce della discussione biologica e antropologica, si apre l’interrogativo pratico: come dobbiamo trattare l’embrione umano? Coloro che riducono l’embrione ad ammasso di cellule negando lo statuto personale, non gli riconoscono una dignità intrinseca, ammettendo solo la possibilità di un’attribuzione estrinseca (convenzionale) di valore e di diritti, rivedibili e bilanciabili in base alle circostanze. È la

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posizione di chi ammette la disponibilità dell’embrione umano e la sua strumentalizzazione (la posizione più radicale ritiene lecita la produzione di embrioni a solo scopo sperimentale o commerciale; più moderata la posizione di chi sostiene che la sperimentazione non terapeutica possa essere applicata solo su embrioni soprannumerari, in stato di abbandono o non impiantabili). La prospettiva ontologica, riconoscendo la pienezza di vita della persona quale fine intrinseco dell’uomo inscritto nell’embrione sin dalla prima cellula della sua esistenza, ritiene che già a tale stadio la vita umana debba essere rispettata in senso forte e incondizionato (quale fine e non semplice mezzo): si ammettono interventi su embrioni solo per finalità diagnostiche o terapeutiche (ove il beneficio sia rapportato all’embrione su cui si interviene). L. Palazzani BIBL.: N.M. FORD, When Did I Begin? Conception of the Human Individual in History, Philosophy and Science, Cambridge 1988, tr. it. di R. Rini, Quando comincio io? Il concepimento nella storia, nella filosofia, nella scienza, Milano 1997; P. SINGER, Practical Ethics, Cambridge 19932, tr. it. di G. Ferranti, Etica pratica, Napoli 1989; H.T. ENGELHARDT, Foundations of Bioethics, New York 19962, tr. it. di S. Rini, Manuale di bioetica, Milano 1999; AA.VV., Identità e statuto dell’embrione umano, a cura del Comitato Nazionale per la Bioetica, edito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 1997; J. CARRASCO DE PAULA et al., Identità e statuto dell’embrione umano, Città del Vaticano 1998; F. D’AGOSTINO, Bioetica nella prospettiva della filosofia del diritto, Torino 1998; A. PESSINA, Bioetica. L’uomo sperimentale, Milano 1999; E. SGRECCIA, Manuale di bioetica, vol. I: Fondamenti ed etica biomedica, Milano 2000; R.M. GREEN, The Human Embryo Research Debates: Bioethics in the Vortex of Controversy, Oxford 2001; A. SERRA, L’embrione umano. Questo misconosciuto, Siena 2003. ➨ BIOETICA; BIOGIURIDICA; CLONAZIONE.

EMERSON, RALPH WALDO. – Filosofo, narraEmerson tore e poeta statunitense, n. a Boston il 25 magg. 1803, m. a Concord (Massachusetts) il 27 apr. 1882. Membro di un’antica famiglia puritana di origine tedesca, Emerson era destinato a diventare, dopo gli studi a Harvard, ministro della chiesa unitaria di Boston. La salute malferma e l’inquietudine spirituale lo indussero però ad abbandonare tale carica. Viaggiò in Italia e in Inghilterra, dove ebbe contatti con Coleridge, Carlyle, Wordsworth. Tenne numerose let-

Emerson ture e nel 1836 concorse a fondare il Club trascendentale. Diresse la rivista «The Dial» dal 1842 al 1844 e la Concord School of Philosophy dal 1879 al 1887. Gli scritti più importanti sono: Nature (Boston 1836); Intellect (ivi 1841); Experience (ivi 1844); Representative Men (ivi 1850). Emerson esercitò una grande influenza sulla cultura americana e fu uno degli scrittori più noti e ammirati. Quanto al valore strettamente filosofico dei suoi scritti, i giudizi sono assai vari. Alcuni, come James, lo definirono il più grande filosofo americano; altri, come Santayana, lo considerarono piuttosto un mistico e un poeta. In realtà Emerson fu filosofo e poeta ad un tempo. Il suo trascendentalismo occupa un posto ben definito nella storia della filosofia americana; come la poesia contemporanea inglese di Carlyle, Coleridge, Wordsworth, esso si ricollega all’idealismo hegeliano e precorre quello di Bradley e di Royce. Emerson subì inoltre potentemente l’influenza del fenomenismo berkeleyano. Tuttavia egli fa appello più spesso all’entusiasmo morale del lettore e al rigore del ragionamento preferisce il calore della predicazione o addirittura della profezia. L’elemento fondamentale del trascendentalismo di Emerson è l’identificazione di finito e infinito. Soltanto l’infinito, ossia Dio o la «superanima», è veramente reale; gli esseri finiti non sono che sue manifestazioni. II loro valore è puramente simbolico. Essi meritano di attirare la nostra attenzione soltanto come temi per la riflessione, come mezzi che ci consentono di elevarci alla contemplazione del tutto, o meglio di sentirci uno con il tutto. La natura non è che una metafora per lo spirito dell’uomo, e l’uomo è il centro dell’universo. Egli è composto infatti di corpo e di spirito. E se il suo corpo è, come ogni altra realtà fisica, un’incarnazione di Dio più bassa e remota, una proiezione di Dio nell’inconscio, il suo spirito è una scintilla del fuoco divino, una particella dell’anima universale. Nell’uomo si opera quindi il grande ritorno: il mondo è interpretato come un simbolo e ricondotto a Dio; gli assiomi della filosofia sono riportati alla loro fonte originaria che è la legge morale; il finito è sussunto nell’infinito. L’individuo rappresenta la forma più alta di realtà. Esso si realizza però soltanto con la negazione e il superamento dell’io empirico. Perciò la legge morale non può, secondo Emerson, articolarsi in precetti specifici, che sarebbero validi solo 3325

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Emerson per questo o quell’uomo, in questa o quella situazione. Essa ci impegna esclusivamente a riconoscere in tutto ciò che esiste la presenza dell’anima universale e a misurare su quella la nostra azione. Con ciò si rendono possibili l’esercizio concreto della libertà, la comunicazione con gli altri uomini, la realizzazione del progresso e un adeguato apprezzamento della natura. La libertà non consiste infatti nel tentativo, d’altronde vano, di sfuggire alla legge universale, ma nel comprendere e volere la sua necessità. La comunicazione con gli altri è possibile solo indirettamente, cioè nell’unione attiva con lo spirito universale che comprende in sé tutti gli individui e tutti li trascende. Il progresso si realizza solo favorendo l’azione dell’anima universale, e la natura si apprezza al suo giusto valore solo quando la si intende come una testimonianza presente dello spirito divino, un punto fisso rispetto al quale possiamo misurare i nostri erramenti. Appena noi degeneriamo, sostiene infatti Emerson, il contrasto tra noi e la nostra casa si fa più evidente e diventiamo estranei alla natura in quanto ci allontaniamo da Dio. Della storia Emerson ebbe un concetto tipicamente romantico. Egli la considerò come l’opera individuale dei genii, cioè di quegli uomini ispirati che, come gli eroi di Carlyle, sono i più diretti testimoni dello spirito universale. Di qui nasce il suo scarso interesse per la documentazione storica. Quanto al futuro Emerson si abbandonò volentieri alle profezie. Egli vagheggiò per lo più un’umanità ideale che il progresso tecnico e il benessere avrebbero resa più libera e sensibile ai problemi dello spirito. Questa utopia è però in contraddizione con la condanna cui Emerson sottopose la società americana del suo tempo, accusandola di dimenticare il proprio destino spirituale a causa di una volontà di potenza incrementata appunto dal tecnicismo. Della scienza e, in generale, della conoscenza intellettuale Emerson non ebbe una grande opinione. Egli le accusava entrambe di opporre tra loro soggetto e oggetto e di non interpretare la realtà secondo il suo significato spirituale, costruendo così degli schemi astratti. La vera conoscenza appartiene, secondo Emerson, alla filosofia e alla poesia, che fanno poi in realtà tutt’uno. Il loro organo comune non è l’intelletto, ma la ragione; il loro strumento non è il concetto, ma l’intuizione. 3326

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Negli ultimi anni della sua vita Emerson si fece tuttavia più attento ai risultati conseguiti dalla scienza del tempo. Il suo pensiero, sotto l’influenza dell’amico Bronson Alcott, si orientò sempre più in senso evoluzionistico. Alla concezione plotiniana, secondo cui la realtà finita deriva dall’essere infinito con un movimento di discesa, egli sostituì allora la visione darwiniana di un’infinita catena di esseri imperfetti protesi con un movimento di ascesa verso lo spirito assoluto. Non vide tra le due posizioni alcuna contraddizione, giungendo ad affermare che in filosofia vi sono tre gradi, rappresentati, nella storia, da Platone, Plotino e Alcott, ciascuno dei quali integra il precedente. In politica Emerson appoggiò i riformatori e vagheggiò un socialismo democratico, in cui il popolo americano potesse sviluppare liberamente le proprie fresche energie. Egli credette fermamente e quasi con fanatismo al grande destino che aspettava la nazione americana. Ai suoi principi si ispirò il movimento rivoluzionario «Giovane America». N. Bosco BIBL.: The Complete Works, Centenary Edition, a cura di E.W. Emerson, New York 1903-04, 12 voll. (rist. New York 1968); The Letters, a cura di R.L. Rusk, New York 1939, 6 voll.; The Collected Works, Harvard Edition, a cura di R.E. Spiller et al., Cambridge (Massachusetts) 1971 ss.; The Complete Sermons, a cura di A. v. Frank, Missouri 1989. Edizioni italiane: Il carattere e la vita umana, tr. it. di L.A. Perussia, Milano 1886; Eterne forze, tr. it. di G. Fanciulli, Milano 1917; Energia morale, Saggi scelti, tr. it. a cura di G. Ferrando, Palermo 19222; La guida della vita, tr. it. di D. Pettoello, Torino 1923; L’anima, la natura e la saggezza, tr. it. di M. Cossa, Bari 19252, 2 voll.; Uomini rappresentativi, tr. it. di G. Ferrando, Firenze 1927; La presenza di Dio. Antologia dai saggi emersoniani, tr. it. a cura di M. Favilli, Firenze 1931; Saggi. L’anima suprema; L’amore; L’amicizia; La politica, tr. it. di F. Zampini Salazar, Milano 1932. Altri saggi in: N. Abbagnano, Pagine di scrittori morali moderni, Torino 1943; Antologia degli scritti politici, tr. it. a cura di A. Santucci, Bologna 1962; Saggi, tr. it. di P. Bertolucci, Torino 1962; Gli uomini rappresentativi, tr. it. a cura di A. Biancotti, Torino 1963; Cerchi, tr. it. di R. Mussapi, Bologna 1983; Il trascendentalista e altri saggi, tr. it. di A. Ceni, Milano 1989; Natura e altri saggi, tr. it. a cura di T. Pisanti, Milano 1990; Dalla Sicilia alle Alpi, tr. it. di. C. Luli, Como 2003; Diventa chi sei, a cura di S. Paolucci, Roma 2005. Su Emerson: R.L. RUSK, The Life of Ralph Waldo Emerson, London 1957 (1949); E. BAUMGARTEN, Das Vorbild Emersons im Werk und Leben Nietzsches, Hei-

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delberg 1958; S. HUBBARD, Nietzsche und Emerson, Basel 1958; H.A. PROCHMANN, German Culture in America, Madison 1961, pp. 153-207; J. BISHOP, Emerson on the Soul, London 1965; J. MYERSON, Ralph Waldo Emerson: a Descriptive Bibliography, Pittsburgh 1982; R.E. BURKHOLDER - J. MYERSON (a cura di), Critical Essays on R.W. Emerson, Boston 1983; M.K. CAYTON, Emerson’s Emergence, Chapel Hill (North Carolina) 1989; D. JACOBSON, Emerson’s Pragmatic Vision. The Dance of the Eye, University Park (Pennsylvania) 1993; R.E. BURKHOLDER, Ralph Waldo Emerson: an Annotated Bibliography of Criticism, 1980-1991, Westport 1994; B. SORESSI, Ralph Waldo Emerson: il pensiero e la solitudine, Roma 2004.

EMERY, JACQUES-ANDRÉ. – Apologista, n. a Emery Gex il 26 ag. 1732, m. a Parigi il 28 apr. 1811. Ebbe meriti eminenti nella rinascita del cattolicesimo in Francia dopo la rivoluzione. Le sue opere furono pubblicate dal Migne (Oeuvres complétes de M. Emery, Paris 1857). Si ricordano in particolare: Esprit de Leibnitz, ou Recueil de pensées choisies sur la religion et la morale ecc., Paris 1772 (2a ed. accresciuta 1803); Le christianisme de F. Bacon, ivi 1799, 2 voll.; Défense de la révélation contre les objections des esprits forts par M. Euler, con Pensées de cet auteur sur la religion, ivi 1805 (ried. Montpellier 1825); Pensées de Descartes sur la religion et la morale, ivi 1811 (Tours 18702); Exposition de la dottrine de Leibnitz sur la religion, ivi 1819 (postuma; con una nuova raccolta di Pensées de Leibnitz). Le quattro raccolte dei pensieri di Bacone, Leibniz, Descartes ed Euler sulla religione e sulla morale tendono a «confondere quegli scrittori temerari che hanno osato dire che la credenza sincera nei dogmi della religione cristiana non può essere propria che di piccoli spiriti», col «mostrare che la religione cristiana vede marciare umilmente sotto le sue insegne i quattro grandi capi di tutta la filosofia moderna» (Discours préliminaire alle Pensées di Descartes). Per Emery. la rinascita cattolica si prospetta in quei primi anni dell’Ottocento come ritorno allo spirito del Seicento, il secolo in cui, a suo giudizio, più rifulse per numero e qualità di pensatori il genio filosofico e cristiano. A. Del Noce BIBL.: E. MÉRIC, Histoire de M. Emery et de la Église de France pendant la Révolution, Paris 18955; E. LEVESQUE, s.v., in Dictionnaire de Théologie Catholique, vol. IV, coll. 2416-2420; J. LEFLON, M. Emery, Paris 194446, 2 voll.

Eminenza EMINENZA, VIA DI (way of eminence; in überEminenza ragender Weise; voie d’éminence; via de eminencia). – Uno dei metodi – gli altri sono le vie dell’affermazione e della negazione – seguiti dai filosofi operanti nell’area cristiana, specialmente dallo pseudo-Dionigi e da Tommaso, per determinare gli attributi di Dio. Per mezzo della via di eminenza noi applichiamo o attribuiamo a Dio le perfezioni create potenziandole all’infinito, come cioè si addice a Dio, causa prima e quindi «al di sopra» (eminens) di tutto il creato. Il fondamento della via di eminenza risiede così nel principio di causalità e nel rapporto di analogia. Tommaso (Sum. theol., I, q. 13, art. 6), in opposizione a quanti affermano che i nomi divini siano pronunciabili in linea subordinata ai nomi che valgono per le creature o soltanto per indicare in Dio la causa di ciò che ha vita, sapienza, bontà, giustizia ecc., sostiene che Dio è buono non solo perché è causa della bontà degli esseri, o perché in sé non sia cattivo, ma perché possiede quella perfezione che chiamasi bontà, in un grado eminente; e questo vale anche di Dio in quanto sapiente, giusto ecc. Si viene in tal senso a configurare una distinzione fondamentale. Ciò che i nomi dicono di Dio va riferito a quanto Dio è propriamente in se stesso, anche se i modi con cui giungiamo a pronunciare quei nomi derivano dall’esperienza delle cose finite: «Riguardo dunque a ciò che tali nomi significano, convengono a Dio in senso proprio, e anzi più proprio che alle stesse creature, e si dicono di lui primariamente. Quanto invece al modo di significarle, non si dicono di Dio in senso proprio, perché hanno un modo di significarle che conviene alle creature» (ibi, art. 3 co.). Questa distinzione è certamente un punto di rigore teoretico, ma va recepita nelle connessioni che le sono implicite: presa alla lettera, implicherebbe un’insanabile contraddizione. Se, infatti, diciamo separatamente che i nomi propri di Dio trascendono il modum della loro significazione e che il modum significandi esprime la sola intelligibilità di cui l’uomo sia capace, la dizione dei nomi divini dovrebbe allora dissolversi nel silenzio dell’apofansi: nascerebbe di qui la via negationis seu remotionis, intesa appunto come intelligenza che approda al divino rimuovendo tutte le determinazioni che ne tentavano l’approdo. Stando a questa astratta impostazione dei termini, l’intelligenza teologica sembrerebbe esposta a una dupli3327

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Emmet ce impossibilità: quella della via di eminenza, il cui linguaggio sarebbe del tutto improprio quanto al divino, quella della via negationis, che sarebbe in definitiva priva di linguaggio e che dunque coinciderebbe con un silenzio muto. Il presupposto ontologico di queste impossibilità sta, a ben vedere, in una prospettiva equivocista dell’essere, per la quale il divino sarebbe assolutamente altro dall’umano, l’incondizionato dal condizionato, il fondante dal fondato. L’asserto dell’equivocità dell’essere è, però, contraddetto dalle ragioni che dal condizionato rinviano all’incondizionato fondamento dell’esserci: ragioni che per se stesse implicano un rapporto d’essere, una qualche partecipazione fra fondamento e fondato. La via di eminenza, pur nella sua conclusiva impossibilità, trova allora il suo legittimo alimento proprio nel rilievo di una partecipazione che, in quanto tale, implica pur sempre una traccia analogica, una trans-parenza del fondamento assoluto. A sua volta, la via negationis, se non coincide con un vuoto intenzionale, deve proporsi solo come cautela interna nell’esercizio della dizione analogica, nella rimozione di quei nomi che siano dati come propri e definitivi, invece che come tracce di rinvio. Il rinvio esige così che l’ascolto dei nomi sia accompagnato dal silenzio che ne custodisce e interroga l’origine: per essere donazione di senso. Il silenzio che si sporge sull’indicibile deve però implicare quanto ha vinto nella negazione. La teologia apofatica – come ha scritto J. Maritain in Distinguer pour unir ou les degrés du savoir (Paris 1932) – «è portata sulle spalle» della teologia catafatica. G. Bonafede - V. Melchiorre BIBL.: R. GARRIGOU-LAGRANGE, De eminentia deitatis. In quo sensu perfectiones divinae sunt in Deo «formaliter eminenter», in «Acta Pontificiae Academiae Romanae S. Thomae Aquinatis», 2 (1935), pp. 162-175; R. GARRIGOU-LAGRANGE, Dieu, son existence et sa nature, Paris 195011, nn. 32, 42, 54 ss.; J. MARITAIN, Distinguer pour unir ou les degrès du savoir, Paris 19596, tr. it. di E. Maccagnolo, Distinguere per unire: i gradi del sapere, Brescia 19812; C. FABRO, Partecipazione e causalità secondo s. Tommaso d’Aquino, Torino 1960; E. PRZYWARA, Analogia entis, ed. ampl., Einsiedeln 1962, tr. it. di P. Volontè, Analogia entis, Milano 1995; J. HICK, An Intepretation of Religion, London 1989. ➨ AFFERMAZIONE, VIA DELLA; ANALOGIA; NEGAZIONE, VIA DELLA.

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EMMET, DOROTHY MARY. – Pensatrice ingleEmmet se, n. nel 1904, m. nel 2000. Professoressa di filosofia e, poi, di Filosofia delle religioni all’università di Manchester dal 1938 al 1945; nel 1945-46 insegnò all’università di Cambridge, indi in quella di Manchester (1946-52). Teista, sostiene – in accordo con le posizioni di Whitehead – la rilevanza della metafisica, la cui valenza cognitiva è assicurata dal principio dell’analogia. Sottopone a critica la comprensione empiristica della causalità, fondata sulla nozione di sequenza, alla quale Emmet preferisce quella più ampia di processo. In questo modo intende mostrare l’impossibilità di limitare il concetto di causa ai soli processi naturali, ossia ai cambiamenti fisiologici, e la necessità di tener conto anche dei processi artificiali (come la costruzione di un oggetto) e di quelli sociali (come l’attività politica). A. Cardin - S. Bancalari BIBL.: Whitehead’s Philosophy of Organism, London 1932; Philosophy and Faith, London 1936; The Nature of Metaphysical Thinking, London 1945; Function, Purpor and Powers, London 1958; Sociological Theory, London 1970; Rules, Roles and Relations, Boston 1975; The Moral Prism, London 1979; The Effectiveness of Causes, London 1984; The Passage of Nature, Basingstoke 1992; The Role of the Unrealisable, London 1993; ha collaborato, inoltre, a molte riviste e pubblicazioni filosofiche. Su Emmett: P. LESLIE, The English Philosophers, London 1952, pp. 348-350.

EMO, ANDREA. – Filosofo italiano, n. a BattaEmo glia Terme (Padova) il 14 ott. 1901, m. a Roma l’11 dic. 1983. Formatosi all’università di Roma, sotto l’influenza di Giovanni Gentile, non scelse l’insegnamento, ma condusse una vita appartata, dedicata alla meditazione e affidata esclusivamente a numerosi quaderni privati di aforismi e appunti, rimasti inediti fino alla morte, di cui è stata pubblicata solo una piccolissima parte. Il punto di partenza, e la principale fonte di ispirazione del suo itinerario meditativo, è costituito dall’attualismo gentiliano; questo è riformulato da Emo come attualismo negativo e ripensato alla luce di un’originale reinterpretazione dell’intero corso della metafisica occidentale, con particolare riferimento a Plotino e a Hegel. Perno della prospettiva emiana è l’assunto che «il negativo è la trasparenza dell’assoluto»: da qui si dipartono i fili della sua intensa riflessione. In essa il concetto gentiliano

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di atto è ripreso in termini non di presenza e pienezza, ma di assenza e vuoto. L’atto si afferma solo negandosi, e la vita stessa non è nient’altro che questa sempre rinnovata autonegazione dell’atto. Emo svolge tale intuizione in una coerente interpretazione dell’arte e della religione cristiana, concepite entrambe come manifestazioni negative dell’assoluto: l’arte, nel suo impossibile sforzo di rappresentare l’irrappresentabile, che perviene a riecheggiare, nelle «voci delle muse», la voce muta del ni-ente; la religione cristiana, nel forgiare «il mito che esprime la negatività di Dio», ossia «il mito della crocifissione» come «mito dell’attualità». S. Mancini BIBL.: Il dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Venezia 1989; Le voci delle muse. Scritti sulla religione e sull’arte 19181981, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Venezia 1992; Supremazia e maledizione. Diario filosofico 1973, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Milano 1998.

EMOTIVISMO (emotivism; Emotivismus; emoEmotivismo tivisme; emotivismo). – Corrente sviluppatasi nella prima metà del Novecento all’interno della filosofia analitica, e quasi esclusivamente nei paesi di lingua inglese, che riconduce il significato del linguaggio morale e dei suoi termini più propri, come «dovere», «obbligo», «buono», alla componente emozionale e sentimentale dell’esperienza umana. I prodromi di questo orientamento possono essere rintracciati nella prima fase del pensiero di Ludwig Wittgenstein e nel positivismo logico del Circolo di Vienna. Wittgenstein fa dipendere la valenza assertiva del linguaggio dal suo essere rappresentazione della realtà: «la proposizione è un’immagine della realtà» (cfr. Tractatus logico-philosophicus, Leipzig 1921; tr. it. Torino 1974, 4.01). Il linguaggio dell’etica appartiene a un genere diverso di significato; esso non raffigura la realtà e quindi non vi possono essere «proposizioni dell’etica» (ibi, 6.42) e «l’etica non può formularsi» (ibi, 6.421). Dal fatto che il linguaggio etico non sia di tipo assertivo, né del resto sia equiparabile alle proposizioni tautologiche della logica, non consegue per Wittgenstein che esso abbia a che vedere con le emozioni; piuttosto esso rinvia a ciò che veramente conta, al «senso del mondo», che è però posto fuori del mondo stesso ed è ineffabile (cfr. ibi, 6.41; 6.522; 7). Ad esiti

Emotivismo diversi, in direzione dell’emotivismo, conduce la medesima tesi della differenza tra linguaggio assertivo fattuale o tautologico e altre espressioni linguistiche, non assertive. Per il positivismo logico il principio di verificazione costituisce il criterio di determinazione della sensatezza o meno delle proposizioni che noi utilizziamo: sensate sono le asserzioni delle scienze empiriche, le quali possono essere verificate; insensate invece le asserzioni della metafisica e dell’etica. Uno dei massimi esponenti del Circolo, Rudolf Carnap, sostiene che i concetti dell’etica non hanno alcun contenuto logico; sono pseudo-proposizioni, «espressioni di sentimenti» volti a loro volta a far sorgere sentimenti e volizioni in chi ascolta (cfr. Logische Sintax der Sprache, Wien 1934; tr. it., Milano 19662, p. 377). Con ciò si è già introdotti all’interno dell’emotivismo. Un tratto comune delle diverse forme di emotivismo è costituito dal non-cognitivismo: l’etica non è un tipo di sapere o di scienza, appunto perché tratta di emozioni e sentimenti. E la specificità del linguaggio etico, che Wittgenstein riferisce al mistico, viene invece riportata da Bertrand Russell all’espressione delle proprie emozioni (cfr. Religion and Science, Oxford 1935; Human Society in Ethics and Politics, London 1954, tr. it. Roma-Bari 1986, pp. 19 ss.). Per Russell quando si formula un giudizio morale si esprime un certo tipo di desiderio, per sé e per gli altri. Dire che «l’odio è cattivo» equivale ad affermare «vorrei che nessuno odiasse» (cfr. Power. A New Social Analysis, New York, 1938; tr. it. Milano 19815, p. 177). L’etica di Russell non ha una valenza meramente individualistica; i desideri che trovano espressione nel giudizio etico sono infatti coglibili come tali da ciascun individuo, perché sono desideri dell’umanità in generale. Rispetto a Russell l’emotivismo di Alfred Jules Ayer si distingue per il suo individualismo e per la radicalità delle tesi sostenute. Per Ayer (cfr. Language, Truth and Logic, London 1935; tr. it., Milano 1961, pp. 128-148) esiste un’unica dimensione di significato (quella delle asserzioni scientifiche) e tutto ciò che fuoriesce da essa non ha significato e non è suscettibile di un giudizio di verità e falsità. È il caso dei giudizi etici (come pure di quelli metafisici, estetici, religiosi), che riflettono le emozioni degli individui. Privi di valenza assertiva, i giudizi etici sono tra loro inconciliabili. Per questo è del tutto illusorio ritenere di poter risol3329

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Emozione vere o ridurre il conflitto tra differenti visioni etiche, ricorrendo ad una qualche forma di argomentazione. I giudizi etici in definitiva sono pertinenza della psicologia e della sociologia; alla filosofia resta il compito di mostrare che i concetti dell’etica sono pseudo-concetti e come tali non sono analizzabili. Più moderata è la posizione di Charles Leslie Stevenson, per il quale i termini etici non sono affatto privi di significato, ma rappresentano una modalità legittima di uso linguistico. Il discorso etico, con il suo «significato emotivo», non può certo essere formulato attraverso degli asserti puramente descrittivi; tuttavia «c’è sempre qualche elemento di descrizione nei giudizi etici» (cfr. The Emotive Meaning of Ethical Terms [1935], in C. L. Stevenson, Facts and Values. Studies in Ethical Analysis, New Haven 1963, p. 16). La funzione principale di tali giudizi non è però quella di descrivere i fatti, quanto piuttosto di esercitare un’influenza. Quando si esprime un giudizio etico, non si manifesta solo una propria emozione; si dichiara anche di possederla e si dichiara che l’oggetto del giudizio possiede determinate proprietà e relazioni. La novità dell’approccio di Stevenson risiede nel collegare l’espressione delle emozioni agli «atteggiamenti»: i giudizi morali riflettono, più che dei sentimenti immediati, degli atteggiamenti, ovvero delle disposizioni psicologiche dei soggetti favorevoli o contrarie a qualcosa. I contrasti in etica, e le relative discussioni, possono nascere da un disaccordo di credenze relative ai fatti; si può cercare di appianare tale disaccordo attraverso ad es. una migliore informazione sui fatti. Tuttavia le controversie in etica traggono origine soprattutto da un disaccordo di atteggiamenti; pertanto, proprio perché il disaccordo non ha per oggetto in prima istanza le credenze, «i problemi dell’etica» vanno «distinti da quelli della scienza pura»; va da sé che le controversie in etica hanno fine o si riducono quando viene meno o si attenua la diversità degli atteggiamenti (cfr. Ethics and Language, New Haven 1944; tr. it. Milano 1962, pp. 28 ss.). A partire dal 1950 l’emotivismo conosce ben presto un rapido declino. La causa di ciò consiste con ogni probabilità in un radicale noncognitivismo che, a differenza di quanto proporrà Richard Mervyn Hare, è incapace di rendere conto della dimensione prescrittiva della morale. Tale impostazione, nonostante gli sviluppi interessanti impressi dal pensiero di 3330

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Stevenson, si traduce in una sorta di decisionismo, anche perché qualsiasi tematizzazione che abbia per oggetto l’etica normativa viene intenzionalmente esclusa. A. Da Re BIBL.: E. LECALDANO, Le analisi del linguaggio morale. «Buono» e «dovere» nella filosofia inglese dal 1903 al 1965, Roma 1970; S. SATRIS, Ehical Emotivism, Dordrecht 1987.

EMOZIONE (emotion; Emotion, Gefühl; émoEmozione tion; emoción). – Le emozioni si presentano come processi che investono l’organismo in toto, colorando di sé le diverse attività psichiche (percezione, immaginazione, movimento ecc.); e manifestandosi tanto sul versante introspettivo, quanto nell’aspetto esteriore, come espressione emotiva (cfr. W. McDougall, Outline of Psychology, London 1923). Quest’ultima evenienza dà luogo alla possibilità frequente di verifiche e letture anche penetranti, attraverso l’osservazione diretta o mediata. Per fare un esempio, nell’emozione della tristezza la persona, oltre a sentirsi interiormente depressa, diviene tipicamente lenta nel percepire, nell’ideare, nel prendere decisioni e nel muoversi, si sofferma su contenuti immaginativi e percettivi consonanti con quel particolare stato emotivo; e può esprimerlo attraverso la mimica, la postura, i gesti, l’andatura, l’eloquio, l’acconciatura, l’abbigliamento e i suoi accessori, le produzioni grafico-pittoriche, musicali ecc. D’altra parte sono note le evenienze della simulazione (ad esempio: teatrale, cinematografica, oppure di cortesia, o truffaldina ecc.) e del mascheramento (dissimulazione) di emozioni reali. Il carattere processuale comporta per ciascuna emozione un andamento evolutivo nel tempo: con un inizio, un decorso, degli esiti. Nelle emozioni propriamente dette queste fasi si susseguono piuttosto rapidamente, mentre l’intensità risulta sostenuta: perciò si è parlato anche di «scosse emotive» (cfr. P. Guillaume, Psychologie, Paris 1946). A parità di tonalità e quindi di denominazione, ciò differenzia le emozioni dai sentimenti, durevoli ma di intensità relativamente moderata (amore, odio, invidia, gratitudine, sicurezza, insicurezza ecc.), nonché dalle passioni, durevoli o ricorrenti e d’intensità anche molto forte. In certi casi, il linguaggio riesce a precisare tonalità e intensità insieme, come quando differenzia fastidio, dolore, terrore, oppure benevolenza, ammira-

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zione, entusiasmo. Nel caso di disposizioni emotive molto costanti e caratteristiche, che a loro volta facilitano l’insorgenza di stati transitori, si parla piuttosto di tratti della personalità, valutabili con le opportune tecniche psicometriche (questionari, prove proiettive, colloquio): come nel caso della rabbia, dell’ansia e della depressione. La funzione delle emozioni, intuita già da C. Darwin (The Expression of Emotions in Man and Animals, London 1872) e sottolineata più recentemente da autori come N.H. Frijda (The Emotions, Cambridge 1987), appare quella di evidenziare e segnalare il significato degli eventi, nonché il loro ruolo ai fini del benessere, della sopravvivenza e dell’auto-realizzazione, anche nei rapporti con l’ambiente. La gamma delle emozioni descrivibili e riconoscibili, in ambito umano, risulta molto ampia se indagata con il metodo fenomenologico, nonché attraverso l’analisi del linguaggio verbale; mentre si restringe quando si pone attenzione esclusivamente alla trasmissione di segnali attraverso la mimica facciale (cfr. P. Ekman, Emotion in the Human Face, Cambridge 1982). Nel primo caso si può descrivere e classificare un vasto numero di emozioni «positive», a tonalità euforica (estasi, allegria, piacere ecc.), oppure «negative», a tonalità disforica (disgusto, umiliazione, dolore); o, anche, «neutre» o miste (sorpresa, indifferenza, freddezza ecc.). Lo studio psicologico delle emozioni si è avvalso fra l’altro, con le dovute cautele (dettate dai limiti fisici ed etici alla ricerca), di tecniche sperimentali di attivazione e registrazione. Sono classiche, ad esempio, le esperienze di A. Karsten (Psychische Sättigung, in «Psychologische Forschung», 10, 1928, pp. 142-234) per provocare la noia attraverso l’assegnazione di compiti monotoni; o quelle di T. Dembo (Der Ärger als Dynamisches Problem, in «Psychologische Forschung», 15, 1931, pp. 1-44) per attivare a breve termine l’emozione della rabbia, attraverso la somministrazione di «compiti impossibili». Fra le procedure più moderne ha preso piede, anche per i suoi pregi di completezza e non-invasività, la così detta «rievocazione disegnata» di esperienze personali di stress o di comfort, per durate intorno ai 20 minuti, disponendo di materiale grafico adeguato (cfr. V. Biasi - P. Bonaiuto, Colour and the Experimental Representation of Stress and Comfort, in L. Sivik [a cura di], Colour and Psy-

Emozione chology, Stockholm 1997, pp. 54-65; V. Biasi - P. Bonaiuto, Aesthetic Level of Drawings Made under Conditions of Emotional Activation, in L. Dorfman et al. [a cura di] Emotion, Creativity and Art, Perm 1997, vol. 1, pp. 319-348). Queste rievocazioni sono precedute e seguite dalla compilazione di scale bipolari di auto-valutazione (Self-Appraisal Scales), che permettono d’individuare rapidamente natura ed entità delle attivazioni emotive ottenute. Nel caso delle esperienze spiacevoli, viene così consentito lo studio accurato di emozioni «negative» tipiche dello stress, quali ansia, rabbia, tristezza, dolore, imbarazzo, colpa, vergogna, noia, con i sentimenti dell’insicurezza e dell’insufficienza. Nel caso delle esperienze piacevoli vengono riattivate, registrate e valutate le emozioni del comfort, come distensione, serenità, allegria, disinvoltura, orgoglio, divertimento e piacere, con i sentimenti della sicurezza e dell’autonomia. In tema di emozioni le differenze di personalità riguardano sia l’intensità maggiore o minore, sia l’accettazione o l’inibizione di alcune, sia le capacità di lettura dei significati emotivi nei volti, nei comportamenti e più in generale nelle configurazioni. Fra i costrutti maggiormente studiati in quest’area troviamo quello dei meccanismi di difesa dello «stile di vita», con i relativi processi di repressione e diniego di alcune emozioni «negative», nonché di evitamento dei conflitti interpersonali (predilezione per le soluzioni razionali o pseudo-razionali e «bisogno di armonia», secondo C.D. Spielberger - E.C. Reheiser, Preliminary Test Manual for the Lifestyle Defence Mechanisms inventory, Tampa [Florida] 2000). Si aggiunge l’interessante costrutto dell’alessitimia, intesa come difficoltà a identificare e comunicare contenuti affettivi, nonché a esprimere, riconoscere e descrivere le proprie emozioni (cfr. P.E. Sifneos, The Prevalence of Alexithymic Characteristic in Psychosomatic Patients, in «Psychotherapy and Psychosomatics», 22, 1973, pp. 255-262; G.J. Taylor, The Alexithimia Construct: Conceptualization, Validation, and Relationship with Basic Dimensions of Personality, in «New Trends in Experimental and Clinical Psychiatry», 10, 1994, pp. 61-74; A.M. Giannini - R. Baiocco - F. Laghi, La validazione di un nuovo strumento per la misurazione dell’alessitimia: la Scala Alessitimica Romana (S.A.R.), in AA.VV., V Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia Clinica A.I.P. Riassunti, Bari 2003, pp. 3233331

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Emozione 326). Ancora più recente è la registrazione di cospicue differenze individuali nelle capacità di «leggere» contenuti emotivi nelle configurazioni percettive. Tali capacità si prestano ad essere valutate con strumenti quali il Physiognomic Cue Test di Stein (cfr. M.I. Stein, Physiognomic Cue Test, New York 1975) e il reattivo «Forme lineari e bande colorate» (cfr. P. Bonaiuto, Forme Lineari e Bande Colorate. Un reattivo per la valutazione della capacità di percepire l’espressività visuale, Roma 1978). La percezione dell’espressività emotiva migliora dopo trattamenti sperimentali di comfort, mentre si deteriora temporaneamente in condizioni di stress, assumendo inoltre prevalenti tonalità «negative», in chiave di «proiezione» (cfr. V. Biasi - P. Bonaiuto, Visual Perception of Physiognomic Properties and Meanings in Relation to Stress or Comfort States, in «Perception», 35, 2005, pp. 31-32). La ricerca psicologica contemporanea ha affrontato anche lo studio sperimentale di emozioni positive complesse e delicate, come l’esperienza dello humour e l’emozione estetica (cfr. D.E. Berlyne, Laughter, Humour and Play, in G. Lindzey - E. Aronson [a cura di], Handbook of Social Psychology, vol. 3, Reading [Massachusetts] 1969, pp. 795-852; Id. [a cura di], Study in the New Experimental Aesthetics: Steps Toward an Objective Psychology of Aesthetics Appreciation, Washington [D. C.] 1974; P. Bonaiuto - A.M. Giannini, La diagnosi delle aspettative nello sport attraverso la grafica umoristica, in «Movimento», 3, 1987, pp. 131-137; P. Bonaiuto - A.M. Giannini [a cura di], Psicologia dello Humour. Selezione di contributi, Roma 2003; W. Ruch [a cura di], «The Sense of Humour». Explorations of a Personality Characteristic, Berlin 1998; A. Argenton [a cura di], L’emozione estetica, Padova 1993; P. Bonaiuto - A.M. Giannini - V. Biasi, Immagini conflittuali vs. armoniche, intolleranza dell’incongruità e preferenze estetiche negli adulti, in R. Tomassoni [a cura di], La psicologia delle arti oggi, Milano 2002, pp. 1542). L’esperienza umoristica, che fa parte della famiglia emozionale dell’allegria, compare quando vengono percepite o pensate situazioni conflittuali, caratterizzate da uno o più paradossi, cioè da vivaci incongruenze: purché sia presente anche un’altra componente fondamentale, costituita dall’esperienza di superiorità, con un relativo distacco emotivo. In assenza di quest’ultimo fattore la tensione conflittuale evolve piuttosto verso la serie delle emo3332

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zioni negative (fastidio, paura, amarezza, terrore ecc). Nel caso opposto si ottiene l’esperienza del comico, la quale si accompagna a distensione, ai vissuti di ricreazione e a disponibilità per ulteriori investimenti emotivi. Nelle illustrazioni prodotte con intenti umoristici, forme arrotondate, sintetiche, stilizzate e prive di chiaroscuro, nonché colorazioni giocose e rassicuranti (rosa, celeste, verde chiaro e altre tonalità pastello), favoriscono per l’appunto il distacco emotivo e lo humour; mentre aggiunte di forme angolate, dettagli, forti chiaroscuri, colorazioni seriose e allarmanti (viola, nero, grigio, verde oliva, con elementi gialli e rossi), ostacolano lo humour; fatta eccezione per le versioni amare o grottesche (cfr. P. Bonaiuto A.M. Giannini [a cura di], Psicologia dello Humour, cit.). Oltre gli accorgimenti formali, conta pure la relazione fra contenuti dei paradossi e aspetti di personalità del fruitore: contenuti fortemente trasgressivi e lineamenti di personalità non favorevoli alla tolleranza del conflitto inibiscono il distacco emotivo e quindi lo humour, al contrario delle opposte condizioni (cfr. P. Bonaiuto - A.M. Giannini - V. Biasi - F. Baralla, L’esperienza umoristica in funzione dei lineamenti personologici di tolleranza/intolleranza del conflitto, in «Rassegna di Psicologia», 20, 2003, 3, 73-125). Per quanto riguarda l’emozione estetica, l’analisi fenomenologica e la ricerca sperimentale concordano nel segnalare che tale esperienza compare come correlato della soddisfazione simultanea delle motivazioni dominanti (cfr. P. Bonaiuto, Lineamenti d’indagine fenomenologica sperimentale in rapporto con problemi ed esperienze della progettazione visuale, in «Il Verri», 22, 1966, pp. 24-65; Id., Processi cognitivi e significati nelle arti visive, in L. Cassanelli [a cura di], Linguaggi visivi, storia dell’arte, psicologia della percezione, Roma 1988, pp. 4779). Indagini condotte con l’ausilio della videoregistrazione di differenti sequenze di danza artistica, ognuna delle quali centrata su una determinata motivazione (affermazione di sé, socialità, sessualità, aggressione ecc.), hanno dimostrato la comparsa di livelli d’emozione estetica superiori quando l’osservatore presenta in grado elevato, come tratto di personalità, proprio la motivazione corrispondente alla sequenza percepita (cfr. P. Bonaiuto - V. Biasi - E. Chiappero, Aesthetic Preferences, Human Motivations and Personality, in J. Bermudez et al. [a cura di], 7th European Conference on Personality, Madrid, July 12-16, 1994, Madrid,

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Emozioni

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1994, p. 96). Personalità fortemente attratte dalle anomalie e dalle incongruenze fanno registrare punteggi di emozione estetica superiori quando osservano dipinti di tipo conflittuale, rispetto a quando osservano dipinti di tipo armonico; mentre l’opposto si verifica con osservatori molto intolleranti del conflitto e dell’incongruità (cfr. P. Bonaiuto - A.M. Giannini - V. Biasi, Immagini conflittuali, cit.). P. Bonaiuto - V. Biasi

EMOZIONI, FILOSOFIA DELLE. – Le emozioni Emozioni hanno da sempre giocato un ruolo di rilievo in filosofia, anche se spesso non centrale. Poiché la filosofia è stata spesso descritta in primo luogo come una disciplina della ragione, le emozioni sono state spesso trascurate o attaccate come aspetti primitivi, pericolosi, irrazionali, istintivi, corporei (cfr. A. Damasio, Descartes’ Error: Emotion, Reason and the Human Brain, London 1994, tr. it. di F. Macaluso, L’errore di Cartesio: emozione, ragione e cervello umano, Milano 2003). Gli stoici in primis sostenevano la necessità di una vita dominata dalla ragione e libera dalla schiavitù delle emozioni, una vita insomma di apátheia (apatia). I filosofi, tuttavia, non sempre hanno connotato le emozioni in senso negativo. David Hume, filosofo empirista del diciottesimo secolo, sosteneva che «la ragione è, e deve essere, schiava delle passioni». Nel diciannovesimo secolo, malgrado Hegel tracciasse la storia della filosofia come lo sviluppo della ragione, egli ugualmente sosteneva che «nessuna cosa grande è mai stata fatta senza passione». La maggior parte della storia della filosofia può così essere letta in termini di una continua oscillazione fra una accentuazione degli aspetti razionali o degli aspetti emotivi e passionali della natura umana che a volte sono visti come incompatibili, a volte come in guerra, a volte come elementi che idealmente dovrebbero stare in armonia. La metafora più frequente nella filosofia delle emozioni è quella fra padrone e schiavo, ovvero la saggezza della ragione che controlla gli impulsi dannosi delle emozioni forzatamente sottomessi. Questa metafora implica anzitutto una inferiorità di ruolo giocata dalle emozioni, l’idea cioè che esse siano più primitive, meno intelligenti, più pericolose e che perciò debbano essere controllate dalla ragione (questo argomento era utilizzato da Aristotele e da altri illuminati ateniesi per giustificare l’istituzione

politica della schiavitù). In secondo luogo questa metafora giustifica il dualismo ragione-emozione, attribuendo questi due aspetti a due domini diversi, conflittuali e antagonisti. Le preoccupazioni filosofiche sulle emozioni sono spesso state parte di intenti più ampi di carattere etico o epistemologico. Spinoza, ad esempio, come gli stoici, nella sua Etica vedeva le passioni come la chiave per spiegare l’umana infelicità. Un altro esempio lo si può ritrovare in Immanuel Kant che considerava virtualmente le emozioni come «inclinazioni» al fine di distinguerle nettamente dalla ragione considerata come l’ambito proprio dell’etica. La concezione delle emozioni varia con le convinzioni etiche e religiose. Ogni cultura, tuttavia, distingue fra emozioni «buone», che sono virtuose, salutari e conducono all’armonia sociale ed emozioni «cattive» che portano al vizio, all’insanità e alla disorganizzazione. Alcune emozioni vengono classificate come pie (per es. l’amore, la speranza e la fede), mentre altre vengono designate come peccaminose (l'orgoglio, l’invidia e la rabbia). La concezione delle emozioni è anche determinata dalla Weltanschauung (visione del mondo) relativa di una determinata epoca storica. Si considerano, ad esempio, come emozioni positive la rabbia del guerriero e il coraggio fisico nella Grecia omerica, il concetto di giustizia nell’Atene socratica, l’importanza della fede nel Medioevo, l’amore appassionato e romantico nella Francia del ventesimo secolo, le «virtù» del gentleman nell’Inghilterra vittoriana, il senso del dovere nella cultura tedesca, l’ideale del farsi strada e l’indignazione morale negli Stati Uniti contemporanei. Spinoza può essere considerato un ideale continuatore degli stoici, poiché anch’egli valutava le emozioni come «pensieri fuorvianti» sulla vita e sul nostro posto nel mondo. Spinoza auspicava il raggiungimento di una sorta di equilibrio, beatitudine, ottenuta relativizzando il nostro modo di porci rispetto al mondo. Secondo Spinoza occorreva abbandonare l’idea che l’uomo ha un controllo della propria vita, in favore di una concezione più fatalista e fideista in cui l’uomo e la sua mente erano parte di Dio. Hume attaccò a tutto campo la superstizione e l’irrazionalità, difendendo a spada tratta le virtù della ragione. La ragione, tuttavia, sosteneva Hume, non ha il potere di motivare anche il più piccolo comportamento morale. «Non è 3333

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Emozioni contrario alla ragione», dichiarò in una delle sue affermazioni nel Treatise on Human Nature, «preferire la distruzione dell’intero mondo al graffio di un mio dito». Ciò che motiva il comportamento giusto rispetto a quello sbagliato, sosteneva Hume, sono le nostre passioni e i sentimenti morali. Immanuel Kant era, come Hume, un esponente dell’illuminismo e malgrado egli avesse sottolineato anche i limiti e le capacità della ragione, si schierò senza compromessi in sua difesa contro ogni tentativo di rimpiazzare la ragione da fedi irrazionali, etiche fondamentaliste o da fugaci sentimenti umani. Kant, nella sua Critica del Giudizio, ha celebrato l’importanza di condividere i sentimenti di apprezzamento del bello e di stupore con i quali noi comprendiamo le meraviglie della creazione di Dio. Anche la nozione kantiana del rispetto della dignità umana che sta al cuore della sua etica razionalistica viene a volte discussa come un oggetto di sentimento e altre volte della ragione, ponendo in questione l’inconciliabilità di questi due aspetti. Quando Hegel, all’inizio del diciannovesimo secolo, prese in mano le redini della filosofia tedesca, la distinzione di Kant fra ragione ed emozione venne ulteriormente messa in discussione a favore di un’odissea della ragione (nella Fenomenologia dello Spirito), tanto che a proposito di Hegel si parlò di una «logica della passione». In Nietzsche la passione costituiva la parola d’ordine e la ragione una materia che doveva suscitare continuo sospetto. Egli rappresentava in sostanza il punto culminante di una lunga serie di «romantici» iniziata con i poeti dello Sturm und Drang nel secolo precedente e che continuerà nell’opera pessimista di Arthur Schopenhauer. Nietzsche anticipò il concetto di scetticismo globale e di caos concettuale del ventesimo secolo e descrisse e celebrò la parte più oscura, istintiva e le motivazioni meno razionali della mente umana. Celebrò le passioni, e, in un ironico gioco di parole, affermò che le passioni avevano più ragioni della ragione stessa. Nel ventesimo secolo il destino della filosofia delle emozioni occidentale imboccò due percorsi distinti. Negli Stati Uniti e in Inghilterra le emozioni vennero scarsamente considerate a causa dell’enfasi sulla logica e il linguaggio. Il filosofo inglese Bertrand Russell, ad esempio, pur enfatizzando l’amore e la passione 3334

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nelle pagine iniziali della sua autobiografia, non scrisse praticamente nulla su di esse nella sua opera filosofica. La natura delle emozioni è stata viceversa un tema centrale nell’opera di William James e nel giovane John Dewey agli inizi del secolo. È stato tuttavia James che ha determinato l’abbandono, per molti anni a venire, dell’interesse della filosofia per le emozioni a causa della sua enfasi sulla natura prioritariamente fisiologica, corporea delle emozioni. James sosteneva che un’emozione era una sensazione, o un insieme di sensazioni, che erano causate da reazioni viscerali prima ancora che cognitive. In buona sostanza la vista di un serpente provocherebbe l’aumento del battito cardiaco, un aumento della sudorazione, un arretramento del corpo che verrebbero successivamente interpretati e vissuti come emozione di paura. Le reazioni fisiologiche sarebbero quindi causa degli stati emotivi più che conseguenze. Probabilmente il maggior interesse per le emozioni nella filosofia anglo-americana venne nella metà del secolo, quando si affacciò sulla scena una teoria etica denominata «emotivismo». Mentre nel soggettivismo ortodosso una espressione come «X è buono» è equivalente a «mi piace X», o «approvo X» e riguarda un’affermazione dei sentimenti e attitudini del parlante nei confronti di X, per un emotivista un’espressione come «X è buono» non costituisce per nulla un’affermazione. Non è né vera né falsa ma solo un’espressione di emozione comparabile con il sorridere a una battuta o il piangere a seguito di cattive notizie. Queste reazioni possono essere appropriate o inappropriate, genuine o false, ma non si può affermare che siano di per sé vere o false. C.L. Stevenson, l’esponente che meglio ha sviluppato filosoficamente l’emotivismo, nella sua opera maggiore Ethics and Language del 1944 sostenne che tutte le affermazioni morali costituiscono un tentativo di persuadere gli altri a condividere la propria attitudine. Nel dire, ad esempio che «l’aborto è sempre immorale» non solo si esprime la propria ostilità all’aborto, ma si cerca di convincere gli altri ad avere questa opinione. L’emotivismo predicava in sostanza l’inutilità delle questioni etiche in filosofia (perché non scientifiche e senza soluzioni verificabili). L’emotivismo è stato pesantemente criticato sulla base principalmente di questi tre fattori: (1) non distingue fra argo-

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menti morali e propaganda; (2) esistono casi in cui affermazioni morali non sono tentativi di convincere nessuno (ad esempio quando parliamo a individui che sappiamo avere la nostra stessa opinione, o quando cerchiamo di arrivare a una decisione morale in privato); (3) perché esclude ogni forma di razionalità dagli argomenti morali. Durante la seconda guerra mondiale, JeanPaul Sartre si occupò di emozioni in Esquisse d'une théorie des émotions (Schizzo per una teoria delle emozioni) seguito da L'Etre et le Néant (L'essere e il nulla: saggio di ontologia fenomenologica) che include delle dettagliate analisi fenomenologiche. La concezione di Sartre delle emozioni come «magiche trasformazioni del mondo», stratagemmi intenzionali per far fronte alle difficoltà del mondo, venne ad aggiungere una nuova dimensione «esistenziale» alla ricerca filosofica delle emozioni. Dopo un lungo disconoscimento della loro importanza, anche da parte degli psicologi, negli ultimi decenni le emozioni sono divenute oggetto di un interesse vigoroso in filosofia. In particolare l’approccio al loro studio sta divenendo sempre più interdisciplinare coinvolgendo tutti gli specialisti delle scienze cognitive: psicologi, filosofi, neurologi, esperti di intelligenza artificiale, biologi evoluzionisti. Esistono attualmente due prospettive che modellano la ricerca in questo campo: da un lato, in ideale continuazione con Descartes, si cerca di ricondurre l’universo emozionale ad alcune emozioni di base fondamentali e universali (ovvero presenti in tutte le culture) implementate in moduli nervosi specifici (cfr. J. Panksepp, Affective Neuroscience: The Foundations of Human and Animal Emotions, Oxford 1998). Secondo Paul Ekman, il più famoso esponente di questo filone, esse sono classificabili in: felicità, tristezza, paura, rabbia, sorpresa, disgusto. Questa prospettiva pecca di semplicismo per non offrire spiegazione della variegata fenomenologia emozionale. Certo è che ciò che due studiosi di neuroscienze possono classificare come uguali possono avere poco in comune sotto la lente di ingrandimento di un introspezionista come Proust. Nella seconda prospettiva le emozioni non vengono trattate come stati discreti e classificabili in unità distinte ma secondo un modello dimensionale che include poche componenti continue tra cui le più importanti sono la valenza (piacevolezza-spiacevolezza), l’attivazione (l’entità del-

Emozioni la risposta emozionale), la dominanza (capacità di controllarsi e di far fronte alla situazione emozionale). Allo stesso modo in cui l’infinità dei colori percepibili scaturisce dalla composizione di pochi colori fondamentali, una data emozione può essere descritta dalle sue coordinate nello spazio n-dimensionale di valenza, attivazione, dominanza. Gli stati emotivi si distinguono dagli stati d’animo per avere una durata minore ed essere originati da una causa precisa e circostanziabile. Uno stato d’animo viceversa rappresenta una sorta di sottofondo affettivo che può durare giorni e la cui causa può essere a volte indefinita. Alcuni stati emotivi sono vincolati a legami verso una particolare entità come ad esempio l’amore o la nostalgia. Altre emozioni, come la tristezza, viceversa, non implicano una tale relazione. Con lo sviluppo delle scienze cognitive e l’accento sui processi mentali un’importanza sempre maggiore hanno acquisito i processi di valutazione cognitiva (appraisal) nelle teorie delle emozioni. Questa esigenza è stata tanto più forte nella misura in cui non si era in grado di differenziare dal punto di vista delle reazioni fisiologiche i diversi stati emozionali. Considerando l’implementazione neuroanatomica, ad esempio, risulta difficile distinguere l’imbarazzo dalla vergogna mentre è molto più proficuo individuarne la differenza dal punto di vista cognitivo. Nell’imbarazzo, infatti, il senso di colpa è «superficiale» e non intacca l’io ed è scatenato prevalentemente da «incidenti» sociali mentre nella vergogna è implicato un senso di colpa «profondo» in cui il soggetto si biasima per aspetti importanti della sua personalità. Altri elementi importanti della valutazione cognitiva sono il grado con cui un dato evento è prevedibile, la sua importanza per gli scopi, i desideri dell’individuo, il fatto che la situazione venga percepita come giusta o ingiusta e immorale, il grado di responsabilità e controllo che si attribuisce il soggetto, l’effetto del suo comportamento sulle altre persone. Le valutazioni cognitive possono essere sia estremamente veloci e inconsapevoli sia avere un carattere preposizionale ed essere consapevoli. L’efficacia di queste ultime nel determinare uno stato emozionale risulta tuttavia labile e più complicato. L’obiezione più comune, infatti, alle teorie cognitive, è il fenomeno della «paura di volare». Anche se si sa che l’aereo, secondo le statistiche, costituisce il mezzo di 3335

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Emozioni trasporto più sicuro, ciò non toglie che la paura di volare possa essere molto alta. Si ripresenta, cioè, nel campo delle emozioni ciò che si verifica in quello delle illusioni ottiche, in cui il sapere come stanno le cose in realtà non modifica il fatto che le si veda distorte. Dal punto di vista ontologico le emozioni possono essere considerate da prospettive molto diverse: come processi fisiologici, stati neuropsicologici, disposizioni adattive, giudizi di valutazione, stati computazionali, fatti sociali. Considerando la complessità delle funzioni delle emozioni sembra saggio riformulare la domanda non in termini di ontologia ma in termini di livelli di spiegazione. Utilizzando la tripartizione introdotta da David Marr, a livello funzionale è necessario individuare la teleologia delle emozioni, cioè il loro scopo, per quale motivo si sono evolute e quali bisogni soddisfano. A livello algoritmico ci si deve riferire alle sub-funzioni prodotte dalla selezione naturale affinché le emozioni possano esistere. Il livello più basso, quello implementazionale, designa i processi neuro-fisiologici, l’hardware delle sub-funzioni. Ad esempio al primo livello si può sostenere che le emozioni si sono evolute e hanno come funzione quella di garantire la difesa, l’affiliazione sociale, l’accoppiamento, l’evitamento di predatori. Ciascuna emozione poi si traduce nell’interessamento di diverse sub-funzioni (secondo livello): aspetti ormonali, neurologici, muscolo-scheletrici ciascuno dei quali è implementato «fisiologicamente» in un determinato modo così come descritto nel terzo livello. La razionalità è associata alla coerenza e alla concordanza dal punto di vista cognitivo e alla scelta di quelle azioni che ottimizzino le conseguenze. Tuttavia il numero delle strategie adottabili per risolvere un problema è potenzialmente infinito e le conseguenze di una strategia sono anch’esse infinite se valutate a lungo termine. Nel processo di presa delle decisioni occorre quindi che la maggior parte delle alternative e delle conseguenze siano eliminate a priori. Le emozioni, da questo punto di vista, costituiscono un meccanismo che restringe l’attenzione su pochi obiettivi dirigendola lungo pochi percorsi. Nel processo di scelta esse rendono salienti solo una piccola proporzione di tutte le possibili alternative (emozioni come ipotesi di ricerca). La capacità di provare emozioni sembra pertanto indispensabile per con3336

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durre una vita razionale. Antonio Damasio (Descartes’ Error, cit.) ha raccolto moltissime evidenze di soggetti che a seguito di una diminuita capacità di esperire emozioni a causa di lesioni neurologiche erano incapaci anche di prendere delle decisioni «pratiche» in modo intelligente. Riguardo al rapporto fra emozioni e autoconoscenza normalmente assumiamo che il conoscere le proprie emozioni sia il metodo migliore per acquisire una migliore conoscenza di noi stessi. Tuttavia spesso le emozioni sono la causa di molti fallimenti in questo senso. Le sorgenti di autoinganno possono essere sostanzialmente riconducibili a tre. Nella prima rientrano i rapporti fra emozioni e cambiamenti corporei. Seguendo quanto sosteneva James, le emozioni fanno seguito, più che esserne causa, a dei cambiamenti corporei. Poiché alcuni di questi cambiamenti sono soggetti a un nostro controllo, anche se parziale, gli individui sono in grado di dissimulare, simulare, esagerare o inibire le espressioni corporee delle loro emozioni. Poiché spesso identifichiamo le nostre emozioni in base a quello che sentiamo, se questo è stato distorto da un progetto di finzione, allora l’identificazione risulterà distorta. Una seconda sorgente di autoinganno deriva dal ruolo delle emozioni nel determinare la salienza fra potenziali oggetti dell’attenzione. I poeti da sempre conoscono che uno degli effetti dell’innamoramento è di restringere l’attenzione sui soli aspetti positivi della persona che si ama sottovalutando i suoi aspetti negativi. Se l’amore si tramuta tuttavia in rabbia l’attenzione rimane focalizzata sulla stessa persona ma questa volta si coglieranno solo gli aspetti negativi. La terza sorgente di auto-inganno è rappresentata dal ruolo delle norme sociali nella determinazione delle emozioni. Se si prova una emozione che non risulta appropriata per una determinata occasione essa può venire giustificata consapevolmente, razionalizzata, in modo da renderla accettabile. Riguardo ai rapporti con l’etica le emozioni sono state spesso trattate come minacce pericolose nei confronti della moralità e della razionalità. Il rovesciamento di questa posizione si è avuta nel periodo romantico in cui le passioni hanno giocato un ruolo centrale nella costruzione dell’individuo e della sua moralità. La stretta connessione fra emozioni ed etica è testimoniata dal fatto che il vocabolario delle emozioni coincide in larga parte con quello dei

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vizi e delle virtù: invidia, gelosia, dispetto, collera, orgoglio ad esempio sono nomi di emozioni che coincidono con quelli di vizi comuni. D’altro canto il nome di emozioni come amore, compassione, benevolenza, pietà sono anche il nome di virtù. D’altro canto la prudenza, la forza d’animo, la temperanza si riferiscono in gran parte alla capacità di resistere alla tentazione e al potere delle emozioni. La visione delle emozioni come irrazionali è stata difesa in primis da epicurei e stoici. Questi ultimi fecero propria l’ipotesi socratica che la virtù è conoscenza e che le emozioni consistono essenzialmente in credenze irrazionali. Tutti i vizi e le sofferenze sono perciò irrazionali e l’equilibrio è ottenuto eliminando ogni forma di passione e di attaccamento. La filosofia viene vista con funzione «terapeutica» avente lo scopo di espungere le emozioni dall’anima. A sostegno di questo punto di vista, gli stoici aggiungevano il fatto che è psicologicamente impossibile mantenere solo le emozioni positive e rigettare quelle negative. L’amore erotico può così portare alla gelosia di Medea e l’attaccamento all’idea di giustizia può favorire una rabbia distruttiva laddove non la si veda applicata. L’attuale approccio cognitivista ha ribaltato questa prospettiva dimostrando che la capacità per esperire emozioni è conditio sine qua non per uno sviluppo della razionalità e per una buona «condotta morale». Poiché le emozioni sono parzialmente costituite da desideri esse, come sosteneva Hume, possono aiutare a motivare comportamenti positivi e a cementare la vita sociale. In particolare al cuore del sentimento morale vi sono emozioni come la vergogna, il risentimento, la rabbia, l’imbarazzo. Emozioni che riguardano il rapporto fra il self e la costruzione di norme. M. Costa BIBL.: R.C. SOLOMON, What Is an Emotion? Classic Readings in Philosophical Psychology, Oxford 1984; R. DE SOUSA, The Rationality of Emotion, Cambridge (Massachussets) 1990; R.C. SOLOMON, The Passions: Emotions and the Meaning of Life, Indianapolis 1993; A. HATZIMOSYS (a cura di), Philosophy and the Emotions, Cambridge 2003.

EMPEDOCLE (´Empedoklh'"). – Filosofo greEmpedocle co presocratico, figlio di Metone e discendente da famiglia illustre, n. ad Agrigento verso il 492; m. nel 432 circa a. C.

Empedocle Le notizie sulla formazione spirituale e l’attività politica di Empedocle sono incerte, spesso frutto di amplificazioni arbitrarie dei cenni autobiografici contenuti negli scritti del filosofo, oltre che di elaborazioni aneddotiche occasionate dalla fama leggendaria che ben presto accompagnò la sua figura di scienziato e medicotaumaturgo. Notorietà e rango sociale dovettero consentire a Empedocle di raggiungere cariche importanti nella vita pubblica di Agrigento, con adesione alle idee democratiche che in quegli anni vi trionfavano. Diogene Laerzio, che ha come fonte Timeo, è attendibile quando fa cenno alla iniziazione pitagorica di Empedocle (Vite dei filosofi VIII, 54-55: Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, 31, A 1); tuttavia la notizia del bando che avrebbe colpito il filosofo, accusato di aver divulgato le dottrine misteriche della setta, è episodio che troppo di frequente ricorre nelle fonti antiche per non sollevare sospetti. Secondo Aristotele, la vita di Empedocle non superò i sessant’anni, gli ultimi dei quali trascorsi in esilio nel Peloponneso, costrettovi dagli avversari politici. Rivalità e intenzioni apologetiche dei suoi seguaci sono all’origine delle molte e contrastanti versioni sulla sua morte; la più nota è certamente quella secondo cui Empedocle si sarebbe gettato nell’Etna, per essere onorato come un dio dai suoi concittadini. Degli scritti minori di Empedocle, rimane soltanto la menzione dei «discorsi politici», assieme ai titoli di un trattato Sulla medicina e della composizione poetica Proemio ad Apollo; sono spurie invece le tragedie che gli sono state attribuite. Delle due opere cui è legata l’autorità del pensatore, i poemi Sulla natura (Peri; fuvsew") e sulle Purificazioni (Kaqarmoiv) – secondo alcuni critici, non si tratterebbe di testi indipendenti, ma di parti della medesima opera, di forse cinquemila versi – possiamo leggere soltanto la decima parte, con le integrazioni e conferme recentemente scoperte nel Papiro di Strasburgo, della fine del I secolo d. C. I frammenti contenutivi sono valsi a riaccendere il confronto interpretativo, specialmente a proposito della struttura del «ciclo cosmico», la prima delle due questioni importanti tuttora aperte nella letteratura critica empedoclea. L’altra concerne, invece, il rapporto di continuità, o separatezza, esistente fra i due poemi, ovvero fra le sezioni della stessa opera: mentre infatti i versi sulle «purificazioni», declamati con successo a Olimpia dal rapsodo Cleomene 3337

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Empedocle (A 1, 63; A12), rispecchiano motivi religiosi provenienti dai circoli orfico-pitagorici (dai quali il filosofo di Agrigento avrà derivato non solamente precetti morali e regole di vita, ma anche la teoria della metempsicosi, ossia delle successive reincarnazioni cui è soggetta l’anima dopo la morte, fino alla liberazione finale), il poema «fisico» offre una nuova visione della natura, dettata da spirito scientifico e fondata sulla teoria delle quattro «radici» primordiali (B 6,1: rJizwvmata: acqua, terra, fuoco, aria), la quale, assimilata a quella aristotelica sugli «elementi», avrà grande autorità e influenza nella storia della scienza e la medicina, dall’antichità fino all’epoca moderna (ragguagliano sui problemi della critica empedoclea le note integrative in E. Zeller - R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, vol. V: Empedocle, Atomisti, Anassagora, a cura di A. Capizzi, Firenze 1970, pp. 1-135). Per come concepisce l’«ente» che veramente è, Empedocle dipende da Parmenide (A 7), conosciuto in occasione di un viaggio a Elea, e di cui fu discepolo e ammiratore (cfr. B 129), tanto da imitarlo, come dice Teofrasto (Opinioni dei fisici, fr. 3; Diels, Doxografi Graeci, Berolini 1879, tr. it. di F. Torraca, Padova 1961, p. 477); per quanto fosse oggetto di critiche severe da parte di Zenone, a causa della riforma in senso pluralistico da lui applicata alla dottrina eleatica. In sintonia con i tentativi dei contemporanei Anassagora e Leucippo, anche Empedocle affronta il problema di rinnovare l’indagine naturalistica, dopo che la «via della verità» indicata da Parmenide ha dimostrato come risultino affatto insostenibili tanto i principi più tipici delle cosmologie ioniche quanto il metodo seguito dai «fisiologi». Anche se la dedica del poema Sulla natura al discepolo Pausania pare contenere un’allusione polemica nei confronti dell’eleatismo e contro coloro che «per tutto sospinti si vantano di scoprire il tutto» (ibi, B 2, 6) sulla scorta di una limitata esperienza, Empedocle sa di poter presentare come «non ingannevole» (oujk ajpathlovn: ibi, B 17, 26) il proprio discorso, proprio perché, pur rimanendo fedele a ciò che è immediatamente manifesto (dh'lon: ibi, B 3, 13), egli è in grado di conciliare l’esigenza di una controllata esperienza sensibile (ibi, 3. 9-13; cfr. ibi, 2, 7-9) con le conclusioni dedotte da Parmenide nel «discorso vero», intorno ai caratteri che appartengono necessariamente a «ciò che è». Rispetto al drastico dualismo di «realtà» e «apparenza» 3338

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sancito dalla logica eleatica, in Empedocle si avverte l’interesse a salvaguardare la funzione conoscitiva dell’osservazione, benché questo motivo empiristico appaia spesso animato, più che dalla disciplina derivante dal metodo, dalla fervida fantasia e abilità retorica di cui il pensatore fu maestro a Gorgia («inventore della retorica» lo chiama Platone, Sofista, fr. 65). A ogni modo, nella nuova filosofia empedoclea non esiste dissidio fra l’attenzione rivolta allo spettacolo delle cose che appaiono molteplici e si trasformano di continuo, e la dichiarazione secondo cui «ciò che è» realmente possiede natura immutabile e perenne. In questo senso, Empedocle fa sua l’argomentazione parmenidea che il «tutto» è in sé completo, né può crescere o diminuire (H. Diels, op. cit., B 17, 31), poiché è inconcepibile «che da ciò che non è nasca qualcosa»; come pure che «ciò che è perisca del tutto» (ibi, B 12, 1-3; cfr. 11). L’esistenza e il divenire dei fenomeni, quindi, non sono prodotti dall’unica sostanza che si trasforma – così avevano sostenuto i filosofi ionici – ma si verificano «per mutazioni quantitative» (Aristotele, Metaph., I, 3, 984 a 8: A 28), dovute ai continui spostamenti e aggregazioni di corpi primari e di natura omogenea, che si muovono e sono divisibili. Ma se la divisione comporta che ciascuno di questi enti possa essere concepito come molteplice, essa, tuttavia, non può estendersi senza alcun limite al «tutto», dato che, in termini assoluti, «nessuna cosa si aggiunge o cessa di esistere» (H. Diels, op. cit., B 17, 29). Considerato l’insieme dell’essere, il processo di divisione non è indefinito, perché la divisione si applica sempre e comunque all’essere, dato che ciò che è «sarà là, dovunque uno sempre si arresti», incontrando alla fine porzioni di realtà non ulteriormente scomponibili (ibi, B 12, 3). Come alternativa ai modelli del monismo precedente, Empedocle postula, dunque, l’esistenza di sostanze qualitativamente diverse, ciascuna delle quali è titolare, in larga misura, delle stesse proprietà che, a giudizio di Parmenide, contrassegnano la natura dell’ente. Viceversa, per giustificare la diversità qualitativa di queste realtà primarie, egli ricorre alle specificazioni utilizzate dalle cosmologie anteriori: il fuoco, l’aria, la terra e l’acqua sono gli elementi semplici «non nati» (ajgevnhta: Diels, cit., B 7), irriducibili tra loro e nel loro carattere (h\qo"; ibi, B 17, 28-29), «sempre eternamente uguali» (hjneke;" aije;n o{moia: ibi, B 17, 35), che

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Empedocle chiama anche con i nomi miticopoetici di Zeus, Era, Edoneo e Nesti (ibi, B 6). Mentre la spiegazione che così viene data dei fenomeni rappresenta, dal punto di vista formale, un momento di decisivo rinnovamento della scienza greca e anticipa, nei suoi aspetti matematizzanti e «quantitativi», quanto con maggior rigore verrà teorizzato dall’atomismo di Leucippo e Democrito, l’accoglimento delle distinzioni in uso nella fisica qualitativa ionica e nella scuola medica siciliana di Alcmeone «intorbida l’evidenza e la coerenza logica della nuova costruzione dottrinale» (Gentile, La metafisica presofistica, Padova 1939, p. 62), permanendo in essa il contrasto, implicito e non risolto, tra l’impostazione meccanicistica e la ricorrente intuizione organicistica della natura. Se la natura degli elementi originari, infatti, è assimilabile a quella delle qualità contrarie (secco, umido, caldo, freddo: Diels, op. cit., A 33; cfr. Aristotele, Phys., I, 4, 187 a 20; Diels, op. cit., A 46), la loro interna struttura, invece, e le aggregazioni con cui essi danno origine alle innumerevoli realtà individuali, ubbidiscono, almeno in parte, a criteri quantitativi. Ciascuna delle «radici», infatti, risulta dall’unione di parti piccolissime e omogenee («omeomeri»), logicamente anteriori a ciascuna delle quattro sostanze elementari che esse integrano (ibi, A 43); peraltro, tutte le cose nascono dagli «elementi» primordiali, grazie a un processo di mescolanza e separazione, per cui l’esistenza e corruzione dei composti trovano spiegazione non tanto nei mutamenti qualitativi dei componenti, ma esclusivamente nei movimenti di congiunzione e disgregazione che le «radici», in sé immutabili, realizzano secondo quantità diverse (Diels, op. cit., B 21, 9-12; cfr. Aristotele, De generatione et corruptione, II, 6 334 a 26; Diels, op. cit., A 43). Non a caso, quindi, Empedocle fonda il proprio «messaggio divino» di verità e conoscenza, accogliendo il quale la mente s’accresce (ibi, B 17, 14), sull’analogia esistente tra l’armonia dei colori che guida il lavoro del pittore (ibi, B 23), e le proporzioni matematiche presenti nei fenomeni naturali (ibi, B 96; 98). Nell’ambito di questa originale versione degli assiomi eleatici – che certamente allontana il pensiero empedocleo dall’interpretazione animistica della natura – assumono particolare rilievo le osservazioni che, in consonanza con l’insegnamento dei sofisti, Empedocle propone sul carattere convenzionale dei «nomi», e sugli ostacoli che l’uso del linguaggio abituale

Empedocle frappone alla ricerca della verità (ibi, B 8; 9). Tuttavia il risultato teoreticamente più significativo cui dà luogo la rilettura dell’eleatismo, è l’affermazione empedoclea per cui accanto alle quattro nature originarie, ma in tutto separate da esse, esistono altre due cause, o principi attivi. Precisamente dall’attività di entrambe queste cause dipende l’intreccio delle associazioni e dissociazioni degli elementi, dato che esse, nonché mettere in movimento le «radici», urgono instancabilmente e in direzioni opposte la vita dell’universo. In assenza del vuoto nell’universo empedocleo, le forze contrastanti dell’«Amicizia che avvince» (scev d unh Filov t h": ibi, B 18 e 19) e dell’odio (Nei'ko") che separa mediante la contesa, irriducibili come sono l’una all’altro e illimitatamente attive nel tempo (ibi, B 16), servono a spiegare la molteplicità e il mutamento dei fenomeni, senza pregiudizio dell’immutabilità sostanziale delle cause materiali. D’altra parte, la guerra che amore e odio si conducono senza soste pervade l’universo ed è carica di significati e valori morali: quanto esiste di buono nel mondo, dipende dal primo principio; l’altro è invece causa di disordine e sofferenza (Aristotele, Metaph., I, 4, 985 a 6-7; Diels, op. cit., A 39). L’attribuzione alle due cause attive di valenze etiche e giuridiche contrapposte necessariamente finisce per dare al susseguirsi degli eventi naturali un significato che trascende la mera dimensione «fisica»; tutto ciò che esiste, infatti, non è soltanto un’aggregazione materiale delle «radici», ma accade in ragione dell’attività, in qualche modo intenzionale, delle due forze in conflitto, dialetticamente complementari. Si tratta, per certo, di riflessi dell’animismo arcaico, che, tuttavia, non compromettono l’importanza della nuova prospettiva teoretica; nonostante l’indebita mescolanza del naturalismo tendenzialmente meccanicistico con i valori del diritto e la morale, al filosofo di Agrigento va infatti riconosciuto il merito di aver per primo introdotto «la distinzione all’interno della causa, ponendo non già un unico principio del movimento, ma altri due diversi e contrari» (Aristotele, Metaph., I, 4, 985 a 21; Diels, op. cit., A 37), per cui il «tutto» per ogni lato «eguale a se stesso» – che Empedocle chiama sfero (Sfai'ro": Diels, op. cit., B 29, 3) – risulta essere integrato dai quattro elementi e le due forze attive. La natura indistruttibe di ciascuna delle parti che compongono lo sfero fa sì che l’intera struttura dell’in3339

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Empedocle sieme possa realizzarsi esclusivamente nella dimensione di un processo circolare, lungo il quale si succedono, ritornando sempre uguali a se stessi, tutti gli scenari possibili della contesa che vede perennemente impegnati amore e odio. Le fasi intermedie del dramma cosmico si dispongono, ciclicamente, entro i termini estremi della perfetta concordia fra gli elementi e la loro massima disunione. Secondo un’interpretazione accreditata, ma non unanimemente condivisa dagli studiosi, quattro momenti fondamentali costituiscono il «ciclo cosmico», ciascuno dei quali è caratterizzato dal prevalere provvisorio, parziale o totale, di amore e odio. Soltanto nei periodi intermedi, allorché nessuna delle due forze è riuscita a imporsi completamente sull’avversario, sono date le condizioni perché possa prodursi la vita nelle forme che ci sono familiari: nessuno dei due principi ostili, infatti, può presiedere da solo alla formazione degli esseri viventi (Aristotele, op. cit. , II, 4, 1000 a 19; Diels, op. cit., A 37 a), la cui esistenza è scandita dal duplice processo della nascita e della morte (Diels, op. cit., B 17, 1-5). Più in particolare, questo nostro mondo – unico cosmo di volta in volta esistente (ibi, A 47) – si forma allorché, insidiando e penetrando dall’esterno nell’unità dello sfero, la forza disgregatrice dell’odio interviene a rompere la compatta unità degli elementi che il vincolo dell’amicizia aveva prodotto. Il concorso necessario dei due principi attivi rende tuttavia più evidente l’incertezza che insidia la coerenza del pensiero empedocleo: mentre, infatti, la logica eleatica vorrebbe che gli elementi primordiali rimanessero reciprocamente indifferenti, poiché «posta la molteplicità degli enti-forma, ogni relazione non può essere che contingente» (C. Diano, Il concetto della storia nella filosofia dei Greci, in Grande Antologia filosofica. Il pensiero classico, vol. II, Milano 1954, pp. 247-351; cit. a p. 275) e ogni cosa accade «per natura e per caso» (fuvsei kai; tuvch/): Platone, Leg., X, 889 B), la complementarità che tiene unite le due forze contrarie tende viceversa a ricondurre il movimento delle «radici» nell’ambito della visione mitico-religiosa del tempo ciclico (cfr. Diano, op. cit., p. 250). Empedocle non ha certo consapevolezza dell’antinomia che Aristotele ripetutamente gli rimprovera: amicizia e odio sono da lui interpretate simultaneamente come forze e come sostanze corporee (A 28), per cui anche ciò 3340

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che dovrebbe valere esclusivamente come «causa» interviene nei composti anche come loro «elemento» (Aristotele, op. cit., XI, 10, 1075 b 3: A 39); oltre a ciò, Aristotele osserva come le loro azioni producano, in realtà, effetti equivocamente reversibili (Ibi, I 4, 985 a 21: A 37). D’altra parte la natura «morale» delle due cause spinge Empedocle a considerare positivamente l’unità dello sfero, frutto dell’amicizia; e, al contrario, a giudicare in senso negativo la molteplicità disgregata, nata dalla forza separatrice dell’inimicizia. In questo modo la condanna che ricade sulla vita degli individui – la loro esistenza è, agli occhi del filosofo, «caduta» e peccato da redimere – sembra riprendere motivi tipici della fisica qualitativa del pitagorismo e di Eraclito (cfr. Platone, Soph., 242), e, in qualche modo, evoca l’intuizione arcaica dell’uno, divina potenza generatrice e, al tempo stesso, materia dei fenomeni (Aristotele, op. cit., I 3, 983 b 8). Non è, dunque, per semplice distrazione o concessione momentanea all’impreciso linguaggio comune, se Empedocle afferma, a proposito dell’acqua, terra, fuoco e aria, che le quattro «radici», pur rimanendo uguali, «divengono» (givg netai) tutte le cose (cfr. Diels, op. cit., B 17, 35; 21, 14; 26, 10); o se non avverte l’esigenza di comporre l’antinomia sorta dall’ammissione dei «pori», necessari a spiegare come le sostanze vengano a contatto fra loro e si conoscano (ogni conoscenza, infatti, sia sensibile che razionale, è riconducibile all’interazione fisica), una volta che l’esistenza del vuoto è stata perentoriamente esclusa (Aristotele, De generatione et corruptione, I, 8, 324 b 26; Diels, op. cit., A 87). Tali incertezze tradiscono, in realtà, il permanere di un’antitesi profonda nel pensiero di Empedocle fra l’impostazione matematizzante del sistema pluralistico e le suggestioni provenienti dalla tradizione religiosa e letteraria dei miti teogonici e cosmogonici. È bensì vero che Empedocle, con non minor rigore di Senofane, si mostra fortemente critico nei confronti dell’ingenua rappresentazione antropomorfica degli dei (ibi, B 134), reclamando una più pura rappresentazione del divino (ibi, B 29). Essa consiste nell’interpretazione teologica del «principio» del divenire cosmico: lo sfero è «Dio» (ibi, B 31), non conoscibile con i sensi (ibi, B 132; 133), immobile (monivh) nella sua perfetta uguaglianza con se stesso, e infinito (pavntoqen i[so" ... kai; pavmpan a[peiron: ibi, B 28; v. W. Jaeger, The Theology of the

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Early Greek Philosophers, Oxford 1947, p.141). Ma la logica del mito, che s’intreccia con quella eleatica a definire i caratteri dell’uno, rischia di portare al limite l’aporia di fondo presente nel sistema. In effetti, la visione organicamente unitaria con cui il mito tende a fissare il rapporto dello sfero con le quattro «radici» – in base alla quale anche ai corpi primari spetta l’attributo divino, in quanto anch’essi «membra del dio» (Diels, op. cit., B 31) – è antitetica a quella che il modello pluralistico trae implicitamente con sé e in forza della quale, terra, acqua, fuoco e aria devono considerarsi «anteriori per natura» allo stesso «tutto» (cfr. Aristotele, De generatione et corruptione, II, 6, 333 b 20: Diels, op. cit., A 40). Non è, dunque, una forzatura esegetica, dovuta a pregiudizi neoplatonici, quella che spinge Filopono a segnalare la contraddizione in cui cade Empedocle quando afferma, da un lato, che le nature che compongono le cose sono immutabili; e, dall’altro, che lo sfero formato dalle stesse è privo di qualità (a[poio"), in quanto nell’unione «tutte le cose divengono una sola» (Diels, op. cit., A 41). Analoga oscillazione, da ricondurre storicamente all’ambivalenza che caratterizza l’arché di ogni cosa descritta dai primi «fisiologi», è dato cogliere nel catalogo dei predicati che qualificano natura e funzioni dello sfero: oltre ad essere «origine» del processo cosmologico, «principio» di vita e intelligenza universale, allo sfero è inoltre affidata la custodia della giustizia e pace religiosa, da cui gli uomini spesso si allontanano, macchiandosi di colpa grave. Ai mortali, appunto, il sapiente si rivolge con la parola che rivela verità e salvezza, insegnando loro le opportune «purificazioni», grazie alle quali potranno sottrarsi al ciclo punitivo della metempsicosi. Proprio la complessità dei motivi che percorrono, non senza oscurità e incoerenze, i versi del poema Sulla natura, consente di cogliere la linea di continuità che unisce i testi della dottrina fisica all’ispirazione orfico-pitagorica delle Purificazioni. A Ettore Bignone va riconosciuto il merito di aver avviato l’interpretazione unitaria del pensiero empedocleo – progressivamente accolta, ma non senza dissensi, dagli storici, e che, da ultimo, qualche conferma ha ricevuto dal Papiro di Strasburgo – in grado di dirimere le divergenze fra le ricostruzioni genetiche proposte in precedenza da Hermann Diels (Über die Gedichte des Empedocles, in «Sitzungsberichte der Preussi-

Empedocle sche Akademie der Wissenschaften», 63 [1898]) e Joseph Bidez (La Biographie d’Empédocle, Gand 1894), secondo prospettive di segno curiosamente contrario. Il mago, onorato dalle folle come un dio (Diels, op. cit., B 112), che dispensa la «parola che sana»; e l’uomo religioso, la cui coscienza risente del dramma delle successive incarnazioni dell’anima (ibi, B 117) e ha fede di poter raggiungere la liberazione che lo renda immortale (ibi, B 146; 147), entrambi attendono, in verità, dal filosofo-scienziato la conoscenza che riveli il senso della perduta felicità originaria (ibi, B 119), dissoltasi, per opera dell’odio funesto, nel ciclo incessante e doloroso della vicenda cosmica. G.F. Pagallo BIBL.:Testimonianze e testi. H. DIELS - W. KRANZ, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1961-64, cap. 31; E. BIGNONE, Empedocle, Studio critico, tr. it. e commento delle testimonianze e dei frammenti, Roma 1963 (Torino 1916); J. BOLLACK, Empédocle, voll. I-III, Paris 1965 e 1969 [rist. 1992]; A. CAPIZZI (a cura di) in E. ZELLER - R. MONDOLFO, La filosofia dei Greci, vol. V: Empedocle, Atomisti, Anassagora, Firenze 1970, pp. 1-22 e 123-135; M.R. WRIGHT, Empedocles. The Extant Fragments, New Haven 1981; C. GALLAVOTTI, Empedocle. Poema fisico e lustrale, Milano 19932 (1975); W. TOTOK, Handbuch der Geschichte der Philosophie, vol. I: Altertum, Frankfurt am Main 1997, pp. 195-198; A. MARTIN - O. PRIMAVESI (a cura di), L’Empedocle de Strasbourg (P. Strasb. gr. Inv. 1665-1666), a cura di A. Martin e O. Primavesi, Strasbourg-Berlin 1999; B. SIJAKOVIC, Bibliographia Praesocratica, Paris 2001, pp. 563-579; J. BOLLACK, Empédocle, Les purifications. Un projet de paix universelle, tr. fr. e commento, Paris 2003; J. BOLLACK, Empédocle, Les purifications. Un projet de paix universelle, tr. fr. e commento, Paris 2003, III 2, pp. 659 ss. Studi: E. WELLMANN, s. v. in A. PAULY - G. WISSOWA, Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, vol. V 2, Stuttgart 1905, coIl. 2507-2512 (da integrare con la bibl. di C.J. CLASSEN, in A. PAULY - G. WISSOWA, Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, Suppl. XII, Stuttgart 1970, coll. 241247); U. VON WILAMOWITZ-MOELLENDORF, Die «Katarmoi» des Empedocles, in «Berlin Sitzungsberichte», 1929, pp. 626-661; G. COLLI, Empedocle, Pisa 1949; W. KRANZ, Empedocles, Zürich 1949; K. REINHARDT, Empedocles, Orphiker und Physiker, «Classical Philology», 45 (1950), rist. in H.-G. GADAMER (a cura di), Um die Begriffswelt der Vorsokratiker, Darmstadt 1968, pp. 497-511; J. ZAFIROPULO, Empedocle d’Agrigente, Paris 1953; C. DIANO, Il concetto della storia nella filosofia dei Greci, in Grande Antologia filosofica. Il pensiero classico, vol. II, Milano 1954, pp. 247-351 (con il titolo: Il pensiero greco da Anassimandro agli Stoici, in C. DIA-

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Empedocle NO, Studi e saggi di filosofia antica, Padova 1973, pp. 1-188); C.H. KAHN, Religion and Natural Philosophy in Empedocles’ Doctrine of the Soul, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», 1960, pp. 3-35 (rist. parz. in A.P.D. MOURELATOS (a cura di), The Pre-Socratics. A Collection of Critical Essays, Princeton 19932 [1974], pp. 426-456; E.L. MINAR JR., Cosmic Periods in the Philosophy of Empedocles, in «Phronesis», 1963, pp. 127-145; U. HÖLSCHER, Weltzeiten und Lebenszyklus. Eine Nachprüfung der Empedocles-Doxographie, in «Hermes», 1965, pp. 7-33; F. SOLMSEN, Love and Strife in Empedocles’ Cosmology, «Phronesis», X (1965), pp. 109-148; D. O’BRIEN, Empedocles’ Cosmic Cycle. A Reconstruction from the Fragments and Secondary Sources, New York 1969; A.A. LONG, Empedocles’ Cosmic Cycle in the Sixties, in A.P.D. MOURELATOS (a cura di), The Pre-Socratics, Garden City (New York) 1974, pp. 397-425; D. O’BRIEN, Pour interpreter Empedocle, Leiden 1981; AA.VV., Index Empedocleus, Genova 1991, 2 voll.; Empedocle e la cultura della Sicilia antica. Illustrazione di un frammento inedito della sua opera, «Atti del Convegno tenuto ad Agrigento dal 4 al 6 settembre 1997», in «Elenchos», 19 (1998); O. PRIMAVESI, Editing Empedocles: Some Longstanding Problems Reconsidered in the Light of the Strasburg Papyrus, in W. BURKERT et al. (a cura di), Fragmentsammlungen philosophischer Texte der Antike. Le raccolte dei frammenti di filosofi antichi. «Atti del Seminario Internazionale (Ascona, Centro Stefano Franscini, 22-27 settembre 1996)», Göttingen 1998, pp. 62-88; O. PRIMAVESI, Empedocle: il problema del ciclo cosmico e il papiro di Strasburgo, in «Elenchos», 19 (1998), pp. 241-288; D.W. GRAHAM, Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides, in A.A. LONG (a cura di), Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, Cambridge 1999, pp. 159-180; W. BURKERT, Lecteurs antiques et byzantins d’Empedocle, in A. LAKS C. LOUGUET (a cura di), Qu’est-ce que la philosophie Présocratique?, Villeneuve d’Ascq 2002, pp. 183-204; P. CURD, The Metaphysics of Physics: Mixture and Separation in Empedocles and Anaxagoras, in V. CASTON D.W. GRAHAM (a cura di), Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander Mourelatos, Aldershot 2002, pp. 139-158; A. LAKS, Reading the Readings: on the First Person Plurals in the Strasburg Empedocles, in V. CASTON - D.W. GRAHAM (a cura di), Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander Mourelatos, Aldershot 2002; A. MARTIN, Empédocle, Fr. 142 D.-K. Nouveau regard sur un papyrus d’Herculanum, in «Cronache ercolanesi», 33 (2003), pp. 43-52; S. TRÉPANIER, Empedocles on the Ultimate Symmetry of the World, in «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 24 (2003), pp. 1-57.

EMPEDOCLE, Empedocle PSEUDO-. – A Empedocle furono attribuiti i centosessantanove trimetri giambici de La sfera delle stelle fisse e un Sui cin3342

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que elementi giunto in Spagna dalla tradizione mediorientale nel sec. IX, dove fu diffuso dal filosofo Ibn Masarrah: contiene motivi gnostici, misterici greco-orientali e neoplatonici e verte sull’emanazione dei cinque elementi dalla nebbia primordiale; dal vero Empedocle deriva l’idea dell’odio che domina la natura e dell’amore che domina l’anima universale. Insieme ai neoplatonizzanti Theologia Aristotelis e Liber de causis, l’opera pseudo-empedoclea influenzò il pensiero arabo-ebraico in Spagna – dove Plotino, che ben conosceva Empedocle, era poco noto – specialmente Ibn-Arabî. La Theologia, il Liber e lo pseudo-Empedocle influirono anche sul pensiero cristiano, e in Europa dalla fine del sec. XII furono tradotte in latino. A. Cardin BIBL.: S. MUNK, Mélange de philosophie juive et arabe, Paris 1859 (riedizione 1955), pp. 240 ss., 369 ss.; D. NEUMARK, Geschichte der jüdischen Philosophie des Mittelalters, I, Berlin 1907, pp. 525-533; M. ASIN PALACIOS, Abenmasarra, Madrid 1914, p. 1098; M. ASIN PALACIOS, Abenhazam, I-II, Madrid 1927-32; E. WILKINS, Empedocles et alii in Filelfo’s Terza rima, in «Speculum», 38 (1963), pp. 318-323; D. DE SMET, Empedocles Arabus, Bruxelles 1998; M. BARBANTI, Empedocle in Plotino e Porfirio, in «Giornale di Metafisica», 21 (1999), pp. 217-233, e in «Invigilata lucernis: rivista dell’Istituto di Latino», 22 (2000), pp. 31-45. Un poema greco che in molti mss. segue la Sfera fu tradotto da Filelfo nel commento a Petrarca. Alla Sfera sembra riferirsi Pico, che nelle 900 Tesi interpreta la sfera di Empedocle come il mondo intelligibile (cfr. comunque anche gli interessi astronomici del vero Empedocle, ad es. nelle testimonianze 53-56, in H. DIELS - W. KRANZ [a cura di], Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1961-64).

EMPIRIOCRITICO, Empiriocritico

STATO: V. STATO EMPIRIO-

CRITICO.

EMPIRIOCRITICISMO (critical empiricism, Empiriocriticismo empiriocriticism; Empiriokritizismus; empiriocriticisme; empiriocriticismo). – Indirizzo fondato da R. Avenarius, la cui filosofia è per certi versi affine a quella elaborata negli stessi anni, in modo indipendente, da E. Mach. Si sviluppò soprattutto per opera di J. Petzold, che ne applicò i capisaldi all’interpretazione della teoria della relatività. Nella Germania e nell’Austria dei primi decenni del Novecento ne risentirono anche H. Cornelius, C. Hauptmann, R. Willy, H. Gomperz e R. Carnap, che nel suo Der logische Aufbau der

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Welt (Berlin 1928), ne ha mutuato molti elementi per dare spessore teorico al suo fenomenismo metodologico e alla tesi della neutralità ontologica del «sistema di costituzione». L’empiriocriticismo presenta inoltre qualche affinità con la pretesa della fenomenologia husserliana di cogliere la datità pura dell’esperienza, sebbene Husserl, in Prolegomeni a una logica pura delle Logische Untersuchungen (cap. XI), ne abbia criticato il principio di economia del pensiero e le tendenze psicologistiche. L’empiriocriticismo intende distinguersi dall’empirismo ingenuo e da ogni filosofia che mescoli più o meno coscientemente i concetti metafisici con le testimonianze empiriche. Si propone perciò come filosofia della «esperienza pura», cioè dell’esperienza libera dalle sovrastrutture del pensiero e ricondotta al mero contenuto della sensazione. Perché l’esperienza sia «pura» occorre che non le sia frammisto alcunché che non sia a sua volta esperienza; l’esperienza non deve essere trascesa in alcun suo elemento riguardante tanto la provenienza quanto la costituzione. Gli uomini sono sostanzialmente uguali: quindi sia l’esperienza propria sia quella altrui hanno eguale fondamento di validità. È tuttavia di fondamentale importanza l’escludere dalla esperienza pura ogni eventuale variazione individuale, cioè ogni benché minimo elemento che possa provenire dalla singola soggettività, necessariamente differente da individuo a individuo. Solo in tal modo, secondo Avenarius, si può ottenere quel «concetto naturale del mondo» che dev’essere lo scopo di ogni ricerca scientifica e filosofica (cfr. Der menschliche Weltbegriff, Leipzig 1891, un’opera volta a determinare la natura e i limiti di tale concetto). Col concetto di esperienza pura viene a cadere la distinzione tradizionale tra mondo esterno e mondo interno. Tale distinzione è artificiale e non necessariamente costitutiva dell’esperienza, perché la realtà in sé è unitaria e di per sé non presenta alcuna bipartizione. È l’uomo che, per orientarsi e per sua comodità, compie alcune delimitazioni che circoscrivono determinati settori della realtà unitaria. Il filosofo può dire tutt’al più che mondo esterno e mondo interno sono particolari «zone» della realtà, la quale ciò nonostante è unitaria. Quanto al cosiddetto «principio di economia», esso rappresenta una sorta di descrizione del modo in cui il nostro sistema nervoso centrale

Empiriocriticismo forma e modifica il patrimonio conoscitivo di cui ci avvaliamo, tanto ai livelli più «bassi» dell’attività cosciente quanto a quelli più «elevati», rappresentati dallo sviluppo del pensiero scientifico. Scopo delle formazioni concettuali, dalle più rudimentali alle più sofisticate, è di consentire una rappresentazione abbreviata e comoda delle esperienze che permetta di ricordarle, utilizzarle e trasmetterle nel modo meno dispendioso possibile. Nell’opera di E. Mach la prospettiva empiristico-fenomenistica dell’analisi delle sensazioni assume una valenza più decisamente orientata verso la comprensione del sapere scientifico e la sua depurazione da ogni oscurità metafisica. Per Mach, compito della scienza non è andare alla ricerca di spiegazioni ultime e complete dei fatti empirici, perché ciò conduce soltanto a una perniciosa ipostatizzazione metafisica dei concetti scientifici, come è avvenuto per il meccanicismo. Viceversa, ogni oscurità metafisica scompare quando ci si rende conto che l’unico obiettivo dell’indagine scientifica è la scoperta delle reciproche dipendenze funzionali dei fenomeni. La cosiddetta «spiegazione scientifica» non è che la rappresentazione coerente, sistematica e abbreviata di un complesso di fatti attraverso l’individuazione degli elementi costanti, relativamente semplici, ricorrenti in essi. La funzione delle nozioni delle scienze naturali e della matematica è quella, ausiliaria, di rendere possibile una descrizione economica dell’infinita varietà dei fenomeni osservabili. Sul piano metodologico, per il sensismo machiano, il conoscibile concerne soltanto il dominio della percezione sensoriale, per cui ciò che non appartiene a tale dominio nella scienza naturale non ha significato; su quello filosofico, gli elementi fondamentali della realtà sono quelli a noi dati attraverso le sensazioni. Va comunque detto che per Mach gli «elementi» sono qualcosa di neutrale rispetto alla distinzione fra fisico e psichico; essi si qualificano in un modo piuttosto che nell’altro a seconda del punto di vista adottato. Come sottolinea in Beiträge zur Analyse der Empfindungen (Jena 1886, rist. come Die Analyse der Empfindungen und das Verhältnis des Physischen zum Psychischen, ivi 1900), un colore diventa un oggetto fisico quando se ne consideri la dipendenza dalla sorgente di luce, diventa invece un oggetto fisio-psicologico, una sensazione, se guardiamo alla sua dipendenza dalla retina, 3343

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Empiriomonismo ossia da uno degli elementi costituenti il corpo umano. Nell’accostare il proprio sensismo alla «critica dell’esperienza pura» di Avenarius, nella prefazione a Die Mechanik in ihrer Entwicklung historisch-kritisch dargestellt (Leipzig 1883), dopo aver ribadito apprezzamento per lo sforzo di unificazione del sapere compiuto dalla filosofia, Mach riafferma il carattere non metafisico e non filosofico della sua opzione sensistica, presentandola al tempo stesso come un’ipotesi che non aspira ad alcuna validità assoluta e che va valutata sulla base dello scopo cui deve servire: la costruzione di una visione scientifica unitaria che vada al di là delle ripartizioni disciplinari. Non per questo, tuttavia, egli va ritenuto un empirista radicale che esclude il ruolo del pensiero nella costruzione della scienza. Le sue analisi e le sue discussioni metodologico-epistemologiche mostrano che la posizione da lui sostenuta è in realtà assai complessa. All’influsso di Mach non furono insensibili, oltre al già ricordato Gomperz, anche A. Stöhr, W. Ostwald e T. Ziehn. Il pensiero machiano e l’empiriocriticismo in generale ebbero inoltre una loro storia particolare in Russia, dove si intersecarono con le vicende del marxismo sovietico dei primi anni del XX secolo. In Materializm i émpiriokrititsizm (Moskva 1909, tr. it. di F. Platone, Materialismo ed empiriocriticismo, Roma 19702 [1953]), V. Lenin prese posizione contro il cosiddetto «machismo» facendo rientrare sotto questa etichetta autori come A. Bogdanov e A. Lunacarskij, i quali in realtà erano molto diversi fra loro e potevano essere «condannati» in blocco come sostenitori di una forma di idealismo soggettivistico solo muovendo da una interpretazione realisticometafisica particolarmente marcata del materialismo dialettico. A. Plebe - P. Parrini BIBL.: O. EWALD, Richard Avenarius als Begründer des Empiriokritizismus, Berlin 1905; A. PELAZZA, Riccardo Avenarius e l’empiriocriticismo, Milano 1909; C.B. WEINBERG, Mach’s Empirio-Pragmatism in Physical Science, New York 1937; W.M. SIMON, European Positivism in the Nineteenth Century. An Essay in Intellectual History, Ithaca (New York) 1963, tr. it. di E. Massari, Il positivismo europeo nel XIX secolo, Bologna 1980; L. KOLAKOWSKI, Filozofia pozytywistyczna, Warszawa 1966, tr. it. di N. Paoli, La filosofia del positivismo, Roma-Bari 1974; R.S. COHEN - R.J. SEEGER (a cura di), Ernst Mach Physicist and Philosopher, Dord-

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recht 1970; A. VERDINO, Introduzione a R. AVENARIUS, Critica dell’esperienza pura, Roma-Bari 1972, pp. IXXLVIII; W. SWOBODA - F. HOBEK, Richard Avenarius: mit einer Bibliographie, in «Conceptus», 26 (1975), pp. 25-39; L. KOLAKOWSKI, Main Currents of Marxism, vol. II: The Golden Age, Oxford 1978; G. WOLTERS, Mach I, Mach II, Einstein und die Relativitätstheorie, Berlin 1987; K. ARENS, Structures of Knowing: Psychologies of Nineteenth Century, Dordrecht 1989; D. STEILA, Scienza e rivoluzione. La recezione dell’empiriocriticismo nella cultura russa: 1877-1910, Firenze 1996.

EMPIRIOMONISMO (empirical monism; Empiriomonismo Empiriomonismus; empiriomonisme; empiriomonismo). – Sistema vicino all’empiriocriticismo, elaborato dal filosofo marxista russo Bogdanov. Il dualismo tra fenomeni fisici e psichici, non superato dall’empiriocriticismo, Bogdanov lo volle eliminare considerando fenomeni fisici e psichici come elementi della stessa esperienza, organizzati però in diverso modo: lo psichico è costituito da elementi di esperienza organizzati individualmente, mentre il fisico è costituito da elementi socialmente organizzati; da ciò deriva poi il suo carattere oggettivo e universale. G.A. Wetter BIBL: G.A. WETTER, Der dialektische Materialismus. Seine Geschichte und sein System in der Sowjet-Union, Wien - Freiburg im Breisgau 19605, pp. 108-110; H. WEBER, Monistische und antimonistische Weltanschauung. Eine Auswahlbibliographie, Berlin 2000.

EMPIRISMO Empirismo (empiricism; Empirismus; empirisme; empirismo). – Più che un sistema filosofico, è un atteggiamento speculativo, che, in opposizione al razionalismo, riconduce tutte le nostre conoscenze all’esperienza interna ed esterna, intesa come fonte primaria e criterio dell’intera conoscenza. Tale richiamo all’esperienza si esprime nell’assunzione di due presupposti fra loro strettamente connessi: a) «verità» e «certezza» sono attribuibili ai «dati» o ai «fatti» che la coscienza percepisce e sperimenta direttamente attraverso gli organi di senso; b) tali dati elementari presenti alla coscienza forniscono il materiale di base per la costruzione di concetti astratti e nozioni complesse. Di qui il carattere critico e antidogmatico assunto dall’empirismo, soprattutto nei riguardi di quelle dottrine che fanno emergere la conoscenza da idee puramente razionali non immediatamente ricavabili dai dati dell’esperienza sensibile. Va precisato che l’empirismo stesso, in questo suo riferirsi al valore esclusivo

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della sensibilità, ha assunto talvolta un atteggiamento dogmatico e riduttivo. SOMMARIO: I. Svolgimento storico: i vari aspetti dell’empirismo. - II. La problematica dell’empirismo: 1. Il metodo. - 2. Le fonti della conoscenza. - 3. Il nominalismo e la critica dei principi logici formali. - 4. Il problema della sostanza. - 5. Il problema della causalità. - 6. Il problema dell’oggetto. - 7. Il problema dell’io. - 8. La polemica antimetafisica e la critica dei trascendentali. - III. L’empirismo e la morale. - IV. L’empirismo e la religione. - V. L’empirismo e il problema dell’arte. VI. Conclusioni ed esiti dell’empirismo. I. SVOLGIMENTO STORICO: I VARI ASPETTI DELL’EMPIRISMO. – La presenza costante dell’empirismo nella storia della cultura occidentale si spiega anche con il fatto che esso si radica in un atteggiamento naturale e spontaneo dell’uomo di fronte al mondo che lo circonda. A tale forma originaria di esperienza va certamente ricondotta l’attenzione dei primi filosofi per i fenomeni della physis e le conclusioni che essi trassero circa la vita del cosmo. L’osservazione diretta degli eventi naturali, il susseguirsi ciclico della nascita e della morte e la regolarità delle traiettorie celesti furono certamente alla base delle varie «dottrine degli elementi», che si susseguono nel pensiero presocratico dai milesi a Democrito. Il fuoco, l’aria, l’acqua e gli atomi sono ajrcaiv non solo in senso ontologico, ma soprattutto perché ad essi corrisponde una certa modificazione della ai[sqhsi" – ossia della sensibilità –, che per gli antichi filosofi non è una funzione «soggettiva» e «spirituale», ma un certo «corpo dell’essere» della physis, composto degli stessi elementi che in esso si rivelano e sono percepiti. A tale dottrina si riferisce certamente Empedocle quando concepisce l’occhio come piccola lanterna, nella quale un fuoco interno trapassa dai fori della pupilla che a sua volta è un contenitore di acqua racchiuso in veli sottili. Quando il «fuoco» che è in noi incontra il «fuoco» che è fuori di noi, quando il simile riconosce il simile, ecco accadere la ai[sqhsi", la sensazione (cfr. Empedocle, Frammento 84) Tale paradigma conoscitivo rimarrà centrale fino a Platone, tanto che ancora Gorgia, in pieno movimento sofistico, ritiene i sensi formati da «pori» attraverso cui passano gli «effluvi» di elementi finissimi rilasciati dalle cose. Platone si opporrà a tale gnoseologia. Egli non svaluta in modo assoluto la conoscenza sensibile, ma ritiene che l’affidarsi completamente

Empirismo a essa comporti una sorta di accecamento rispetto alla vera natura degli esseri: «A questo pensai, ed ebbi paura che anche l’anima mia si accecasse completamente, guardando le cose con gli occhi e cercando di coglierle con ciascuno degli altri sensi» (Phaed. 99 d-e, tr. it. a cura di G. Reale, Milano 1994). Nella Repubblica sono chiamati «prigionieri» coloro che fin dalla nascita percepiscono solo «immagini» e «oggetti sensibili». Eikasia (immaginazione/rappresentazione) e pistis (credenza/certezza) delimitano infatti il campo della doxa (opinione), ma non raggiungono mai il rango dell’episteme (scienza), che è l’unica forma di conoscenza in cui la verità (aletheia) può disvelarsi. I dati che i sensi forniscono, precisa Platone nel Teeteto (151 d - 172 c) non possiedono in se stessi alcun valore conoscitivo: solo quando vengono accolti in un’anima che abbia già avuto contatto con le forme ideali essi possono essere organizzati in una vera esperienza. Aristotele si discosta in misura essenziale dalla prospettiva platonica. Il valore che egli attribuisce al suvnolon, ovvero al concreto composto di materia e forma, fa intendere l’importanza che questo autore assegnava al dato empirico nella sua concretezza e individualità. A confermare tale ispirazione speculativa sono anche gli interessi storici e scientifici presenti nell’opera dello Stagirita, che di volta in volta mostrano la propensione di Aristotele a ricondurre l’indagine dentro un orizzonte fenomenologico. Il cosiddetto empirismo aristotelico non si limita tuttavia ad essere una dottrina dell’esperienza sensibile e a concludersi nel riconoscimento dei suoi limiti: l’affermata superiorità della logica sillogistica, la teoria delle forme, gli esiti teologici e teleologici dimostrano che in esso la sensibilità è soltanto un «primo rispetto a noi», destinato a farci scoprire ciò che è «primo per natura». Ad Aristotele si deve poi l’importante dottrina della sensazione come «impronta» o «calco» dematerializzato dell’oggetto sensibile. Riguardo al sentire, «si deve ritenere che il senso è ciò che è atto ad assumere le forme sensibili senza la materia, come la cera riceve l’impronta dell’anello senza il ferro o l’oro: riceve bensì l’impronta dell’oro e del bronzo, ma non in quanto è oro e bronzo» (De an., B 12, 424 a 18-22, tr. it. a cura di G. Movia, Milano 1996, p. 183). Da questo passo si è originato un esteso dibattito circa il rapporto tra «passività» e «attività» nella per3345

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Empirismo cezione sensibile, che ha attraversato la filosofia occidentale fino a Hegel. Lo stoicismo e l’epicureismo, nella loro reazione alla metafisica aristotelica, vogliono essere un ritorno all’empirismo nella sua autenticità. Nel primo la concretezza empirica è pensata entro una visione panteistica unitaria, che non scaturisce dall’esperienza, ma la precede e la condiziona. Nel secondo, l’ipotesi atomistica è il risultato di un’argomentazione puramente razionale. Ciò che in entrambi appare evidente è l’istanza empiristica nella gnoseologia, dove il criterio nominalistico, ispirando una rigorosa critica della universalità concettuale, conduce a una dottrina della certezza e della verità che non è più intesa come adeguazione, ma come sugkatavqhsi" del soggetto, o come ejnavrgeia della percezione in quanto tale; l’universalità logica cessa di essere il riflesso mentale di entità metafisiche e diventa d’ordine psicologico. Su questa via riusciva facile allo scetticismo – che pur presumeva d’essere il difensore dell’empirismo autentico – dimostrare l’acataletticità della conoscenza e l’inammissibilità di qualsiasi rapporto necessario e universale. Se il pensiero non è funzione metempirica e universalizzatrice, se anzi è fatale che esso, qualora si avventuri oltre l’immediato, si perda in un’inevitabile antinomicità, lo scetticismo era l’unica conclusione possibile (e non soltanto nel suo genuino significato etimologico) dell’empirismo antico. Il conflitto platonico-aristotelico si rinnova, entro ben diverse coordinate spirituali, nelle due posizioni dell’agostinismo e del tomismo. Con Tommaso l’empirismo vuol essere l’inizio legittimo di un’autonoma filosofia dell’essere capace di prescindere da qualsiasi presupposto idealistico e teologico (v. le obiezioni alla prova ontologica di Anselmo). Tuttavia l’appello all’esperienza si muove anche qui entro un orizzonte speculativo, che ne segna fin dall’inizio la direzione e i limiti. La dottrina della verità, intesa come adaequatio intellectus et rei, comporta un esemplarismo divino e una teoria delle forme essenziali, che debbono convalidare il valore universale della conoscenza, ma che l’esperienza non verifica. L’individuale, il contingente, l’accidentale rimangono tuttavia estranei all’ambito della scienza come elementi indefinibili, la cui irrazionalità diventa tanto più grave quanto più il pensiero dichiara di doversi commisurare a essenze universali. Il terminismo ockhamistico, richia3346

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mandosi all’intuizione e polemizzando contro la multiplicatio entium, nega ancora una volta la metempiricità del pensiero e mina alla radice i fondamenti razionali della fede: l’empirismo medievale si conclude così, come quello antico, in una posizione necessariamente scettica, alla quale soltanto un atto di fede permette di fare il salto oltre il sensibile. Non si può negare che il Rinascimento, nella sua reazione alla scolastica e nell’impegno di riscoprire l’universo sensibile, possa sembrare una chiara affermazione di empirismo, anche là dove, come nelle scienze occulte, pare che l’indagine si allontani dall’immediato. In realtà l’empirismo rinascimentale era, per così dire, un empirismo magico ed estetico, orientato non tanto alla ricerca di essenze universali, quanto all’intuizione di «forme viventi», in cui universalità e concretezza coincidono. Per tali caratteri l’empirismo del Rinascimento non assume un atteggiamento polemico nei riguardi di posizioni razionalistiche, ma è il comune denominatore dei più diversi indirizzi speculativi. Proprio per questo suo ruolo non critico ma rivelatore, esso non ci offre ancora, se non per scarsi accenni, una teoria del metodo sperimentale. Persino Montaigne, il cui scetticismo potrebbe sembrare ancora una volta la conclusione fatale di codesto empirismo, è impegnato a scoprire la «forme maîtresse», il senso originario e irriducibile dell’individualità. L’empirismo assume la sua forma più efficace e consapevole quando la concretezza del dato, spogliandosi del suo alone magico, estetico e umanistico, viene ricondotta alle sue dimensioni scientificamente misurabili. Nell’età moderna l’empirismo trova definitivamente il suo vigore speculativo e le sue autentiche finalità nella puntuale opposizione al razionalismo. Dopo Bacone e Hobbes, in cui l’appello all’esperienza non vuol essere l’esclusione né di una conoscenza delle «forme» né di una visione unitaria e sistematica dell’universo, l’empirismo si presenta, con Locke, come una critica della conoscenza nella sua genesi e nelle sue reali possibilità. Va sottolineato che la grossa polemica sostenuta contro l’innatismo e contro i concetti basilari del razionalismo non mirava a chiudere il pensiero dentro l’orizzonte dell’immediatezza sensibile, ma a riscattarlo da qualsiasi dogmatismo iniziale e ad aprirlo verso conclusioni metempiriche (come l’esistenza di Dio e la realtà sostanziale del

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mondo esterno) che dovevano essere tanto più legittime quanto più criticamente scaturivano da argomentazioni razionali spregiudicate. Con Berkeley l’empirismo è insieme una dottrina e un metodo che conduce oltre di sé: come dottrina che ha una sua immanente problematica, rappresenta un progresso nell’eliminazione dei residui realistici ancora presenti in Locke; come metodo, voleva essere uno strumento per costruire, indipendentemente da presupposti teologici e innatistici, una visione spiritualistica dell’universo. In David Hume l’empirismo critico lockiano riprende il suo movimento inesorabile e si conchiude in una posizione scettica, negando assolutamente al pensiero qualsiasi presunzione metempirica; trascendimenti metafisici e religiosi, esigenze e sentimenti morali, concetti scientifici sono ricondotti su un piano extrateoretico dello spirito a quella sua dimensione irrazionalistica che, sola, può essere chiamata a spiegare il suo salto oltre il mondo delle presenze sensibili. Con Hume l’empirismo moderno discrimina definitivamente, come Ockham nell’età medievale, due regioni eterogenee – la teoretica e la pratica – nella vita spirituale dell’uomo e fissa insieme gli elementi essenziali di una concezione drammatica dell’esistenza. Dopo il criticismo kantiano, in cui le istanze dell’empirismo sono accolte dentro una struttura trascendentale che ne avvalora le affermazioni teoretiche positive e ne giustifica criticamente le posizioni antimetafisiche, riconducendo nello stesso tempo sul piano della razionalità le esigenze etico-religiose che Hume aveva respinto nella zona dell’irrazionale, l’empirismo ricompare sotto le vesti del positivismo, ancora una volta in situazione polemica contro la metafisica idealistica. In questo clima l’empirismo – che nelle varie epoche assume curvature e aspetti consoni all’interesse scientifico e culturale dominante – si inserisce nell’ambito delle indagini biologiche e viene invocato a convalidare una visione evoluzionistica della vita, che presume di non oltrepassare il limite dei «fatti». Anche nel pragmatismo, che per alcuni motivi vuol essere una reazione alle teorie positivistiche, l’empirismo assume in maniera accentuata quella fisionomia tecnico-costruttiva (Dewey) che lo trasferisce definitivamente sul piano dell’azione. Né va dimenticato, benché la segnalazione vada fatta con molta cautela, il cosiddetto «empirismo mistico» di Gabriel Marcel, in cui la riva-

Empirismo lutazione dell’esperienza sensibile è compiuta non più nel senso del «problema», bensì nel senso del «mistero»: così avviene che, mentre le altre forme di empirismo, qualora non siano convogliate in una superiore visione della realtà (magica, matematica, pragmatistica ecc.) che unifichi e integri l’immediatezza dei dati, si risolvono tutte in una posizione scettica, quella mistica si dissolve nell’ineffabilità del silenzio, equivalente all’ejpochvv scettica, oppure, qualora voglia chiarirsi in un sistema di pensiero, sfocia nell’accettazione di un complesso dogmatico predefinito. La forma più coerente e radicale di empirismo apparsa nel Novecento è quella del «neopositivismo» o «empirismo logico». Si tratta di un complesso movimento di pensiero, la cui origine deve essere fatta risalire alle riunioni organizzate in un caffè di Vienna da un gruppo di scienziati e filosofi a partire dal 1907. Il primo documento maturo di quello che successivamente sarà chiamato il «Circolo di Vienna» è tuttavia rappresentato da un breve scritto del 1929 intitolato La concezione scientifica del mondo. In questo lavoro, vero e proprio manifesto programmatico del Circolo, Otto Neurath, Hans Hahn e Rudolf Carnap, tra i primi fondatori del gruppo, tratteggiavano con efficacia le linee della nuova prospettiva «empirista» e «logica» che la filosofia avrebbe dovuto assumere. Essi caratterizzano la concezione scientifica del mondo secondo due attributi fondamentali: «Primo, essa è empiristica e positivistica: si dà solo conoscenza empirica, basata sui dati immediati. In ciò si ravvisa il limite dei contenuti della scienza genuina. Secondo, la concezione scientifica del mondo è contraddistinta dall’applicazione di un preciso metodo, quello cioè dell’analisi logica» (H. Hahn - O. Neurath R. Carnap, La concezione scientifica del mondo, tr. it. di S. Tugnoli Pattaro, Roma-Bari 1979, p. 80). I neopositivisti insistono dunque sulla tesi classica dell’empirismo: l’unica conoscenza ammissibile è quella basata sui dati immediati della sensibilità e sull’evidenza osservativa, ma a tale tesi abbinano il metodo di analisi e trattamento degli enunciati usato nella logica formale di Frege e Russell. Tale nucleo teorico fu sviluppato in varie direzioni; nonostante le diverse posizioni assunte dai singoli autori su temi specifici, si possono individuare nella prospettiva neopositivistica i seguenti assunti teorici di fondo: a) l’oggetto dell’analisi filosofica è il linguaggio; tuttavia, 3347

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Empirismo poiché gli unici enunciati ad avere significato cognitivo sono quelli sottoponibili a verifica empirica, sarà preliminarmente necessario individuare ed escludere dall’analisi del linguaggio quelle aree di significanza i cui asserti non possiedono la caratteristica di poter essere dichiarati veri o falsi; b) di qui il giudizio di insensatezza rivolto alle proposizioni della metafisica, dell’etica e della religione: esse non sono sottoponibili ad alcuna verifica empirica, non possono dunque essere dichiarata né vere né false, ma più radicalmente insensate; in esse non si esprimerebbe alcuna vera conoscenza, bensì un atteggiamento emotivo dell’uomo di fronte ai casi dell’esistenza; c) la scienza si fonda sull’esperienza e per tale ragione i suoi enunciati costituiscono il banco di prova privilegiato dell’analisi filosofica; d) la filosofia non è una delle scienze, ma si svolge come attività chiarificatrice del linguaggio, il cui compito è quello di determinare il senso delle proposizioni; e) la molteplicità delle scienze deve essere ridotta a unità: al di là della divisione delle discipline scientifiche (naturali, sociali e storiche) vi sarebbe la possibilità di raggiungere una concezione unitaria del sapere sulla base della verificabilità empirica e dell’analisi formale dei costrutti linguistici e dei singoli assetti teorici. All’orizzonte della tradizione empiristica, ma con significative e originali differenze rispetto al paradigma classico, può essere ricondotta l’epistemologia di Popper. Rovesciando l’assunto verificazionista di matrice neopositivistica, Popper sostiene che alcuni enunciati osservativi, i «falsificatori potenziali» , costituiscono un criterio di demarcazione tra scienza e non scienza in virtù del ruolo che essi possono giocare nella «confutazione» e nella «falsificazione» di una teoria. È evidente la critica a cui tale posizione può essere sottoposta: essa non farebbe altro che «rovesciare» la tesi empirista della verificazione, mantenendo tuttavia intatto il ruolo fondante assegnato all’esperienza. Di fatto, tuttavia, la riflessione popperiana condurrà in breve tempo a un vero e proprio abbandono di alcuni dei «dogmi» fondamentali dell’empirismo. In un saggio decisivo, intitolato appunto Two Dogmas of Empiricism (1951) Willard van Orman Quine formulava una critica radicale ai due presupposti basilari dell’empirismo contemporaneo: a) la distinzione tra analitico e sintetico; b) l’idea che tutte le proposizioni significanti sarebbero 3348

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equivalenti a costrutti logici fondati su termini che stanno in relazione diretta con l’esperienza immediata. La posizione di Quine comporta lo smantellamento di quella immagine della conoscenza che ha al proprio centro l’idea di una differenza tra elementi «fattuali» ed elementi «linguistici». Ciò implica l’ammissione di una intrinseca e inestricabile unità tra osservazione e teoria: i fatti, intesi come «dati oggettivi» e indipendenti, sono un mito filosofico; essi sono originariamente compresi all’interno di propensioni teoriche e interpretative talora incommensurabili le une alle altre. Tale prospettiva di pensiero è stata al centro della più recente filosofia della scienza, che ha avuto in autori come Norwood Russell Hanson, Thomas Samuel Kuhn e Paul K. Feyerabend i suoi esponenti di maggior spicco. Altri epistemologi – Hesse, Shapere e van Fraassen – pur riconoscendo valore al «paradigma» filosofico della «teoreticità dell’osservazione», hanno cercato di argomentare a favore del mantenimento di una qualche autonomia dell’osservativo dal teorico, senza tuttavia ricadere nel vecchio dogma della assoluta separazione dei due domini. Tali tentativi non hanno però impedito che autorevoli pensatori quali Richard Rorty (Philosophy and the Mirror of Nature, 1979), Hilary Putnam (After Empiricism, 1985) e Donald Davidson (The Mith of the Subjective, 1989) abbiano potuto affermare la fine dell’empirismo tradizionalmente inteso e l’apertura di un’«epoca post-empiristica». II. LA PROBLEMATICA DELL’EMPIRISMO. – 1. Il metodo. – Se il razionalismo intende partire criticamente da principi universali evidenti in sé e per sé, l’empirismo contesta il valore critico delle premesse razionalistiche e accusa di apriorismo dogmatico la teoria delle idee innate. La conoscenza non può essere anzitutto che accettazione dei dati empirici nella loro concreta e particolare immediatezza spaziotemporale; l’universalità delle nozioni non è un punto di partenza, ma un punto di arrivo, una conquista. Perciò è ovvio che l’empirismo, prima di affrontare una teoria del metodo, si presenti, con F. Bacone, in una funzione eversiva e demolitrice, che tende a eliminare qualsiasi elemento – storico, speculativo e culturale – che si frapponga tra il soggetto e l’oggetto. In ciò consiste la pars destruens della sua filosofia. La pars construens è rappresentata dal metodo, che per Bacone consiste nell’induzio-

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ne, intesa come formulazione di principi di validità universale a partire dalla raccolta regolata di dati e dalla ripetizione degli esperimenti, operazioni che si intende condurre in assenza di qualsiasi presupposto metafisico, o comunque metempirico. In questo senso, la storia del metodo induttivo è segnata da tre tappe fondamentali: nella sua forma classica, rappresentata da Aristotele e da Tommaso d’Aquino, il rifiuto dell’innatismo e di qualunque nozione universale che a priori condizioni il movimento del procedere induttivo del pensiero, sfocia tuttavia nell’apprensione di «forme immanenti» e di «essenze» che rendono possibile l’atto discriminante dell’astrazione e dell’intuizione intellettiva. Nella sua seconda forma, caratteristica del procedere di Galilei, il metodo non mira più a riscoprire, sul piano gnoseologico, un’essenza universale da trasporsi in un concetto, ma a individuare una certa relazione quantitativa, esprimibile in formule matematiche. Qui l’induzione non presuppone più un mondo di essenze e di forme, ma una rete di rapporti funzionali e un ordinamento meccanicistico dell’universo, cui corrisponde, nel soggetto, una logica di tipo matematico che di fatto viene a identificarsi con la struttura trascendentale del pensiero. Al presupposto ontologico succede un presupposto strutturale e formale, la cui validità si misura (anche se non si giustifica) nei limiti dell’esperienza. Con Hume e John Stuart Mill il metodo dell’empirismo giunge alla sua formulazione più coerente: negate le forme essenziali (nonché i rapporti funzionali), contestata la validità universale aprioristica di qualsiasi legge e principio, la cui postulazione non troverebbe elementi giustificativi nell’esperienza, il movimento induttivo del pensiero si riduce a un passaggio da fatto a fatto particolare, condizionato dall’associazione delle idee, cioè da un presupposto psicologico. L’uniformità della natura, cui si appella Stuart Mill, non è un principio aprioristico, equivalente al presupposto strutturale degli empiristi matematici, ma una «generalizzazione dell’esperienza», legata a tutte le variazioni empiriche e da esse dipendente: la conclusione generica di una enumeratio simplex. L’induzione non cessa di sussistere, ma rinuncia a qualsiasi funzione teoreticamente rivelatrice. In luogo di convalidare una visione oggettiva della realtà, essa ha bisogno di trovare a sua volta una verifica, che

Empirismo non può aver significato se non nel campo della prassi. Nel Novecento il metodo dell’empirismo trova il suo più fecondo approfondimento con la formulazione, in ambito neopositivista, del principio di verificazione. Interpretando la proposizione 4.024 del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein (che non aveva nelle intenzioni dell’autore un significato né empiristico né verificazionistico) Moritz Schlick, l’animatore principale della seconda fase del Circolo di Vienna, darà questa definizione del principio: «il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica» (M. Schlick, Significato e verificazione, in Tra realismo e neopositivismo, tr. it. di E. Picardi, Bologna 1974, p. 189). In essa, nonostante le incomprensioni generate dal suo utilizzo presso i neopositivisti stessi, si allude chiaramente non alla verificazione intesa come immediato confronto e adeguazione a un dato empirico o un fatto, ma come insieme di esperienze e di procedure attraverso le quali arriviamo a conoscere qualcosa come vera. Si tratta di un cambiamento importante in seno alla tradizione dell’empirismo, grazie al quale il problema della «significanza oggettuale» degli asserti si traduce nel problema della loro «significanza cognitiva». Tuttavia, la difficoltà di applicare il principio di verificazione alle leggi scientifiche (per la cui universalità non è configurabile alcun metodo di verifica) indusse Carnap ad abbandonare il principio in favore del più debole criterio di confermabilità. Ciò che si richiede per la significanza degli enunciati generali della scienza non è l’individuazione di un metodo per la loro riduzione a proposizioni verificabili in base all’esperienza, ma la possibilità di confermare tale metodo attraverso procedure di controllo di alcune sue particolari applicazioni. Una nuova frontiera nell’orizzonte metodologico dell’empirismo è rappresentata dal citato «falsificazionismo» di Popper. Egli ritiene che la verifica completa di una teoria o di una legge scientifica possa aversi solo dopo aver sperimentato tutti i casi. In realtà, ciò non è possibile: la conferma empirica avviene sempre sulla base di un numero limitato di osservazioni e un insieme, per quanto ampio, di casi particolari non potrà mai produrre una legge universale. Per tale ragione Popper propone di sostituire il principio di verificazione col «principio di falsificabilità», secondo il quale una teoria è scientifica se – e solo se – essa può ve3349

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Empirismo nire «smentita» o «confutata» (in linea di principio) anche da una sola osservazione. In altre parole: «Ogni controllo genuino di una teoria è un tentativo di falsificarla, o di confutarla. La controllabilità coincide con la falsificabilità» (K.R. Popper, Congetture e confutazioni, tr. it. di G. Pancaldi, Bologna 1972, p. 66). Ben si comprende quindi la liquidazione popperiana del principio di induzione: per quanto numerose possano essere le osservazioni singolari circa un fenomeno, il loro insieme non potrà mai costituire la ragione fondante una enunciato universale sul fenomeno stesso. L’esperienza non precede, ma segue la teoria. 2. Le fonti della conoscenza. – L’empirismo non riconosce alcuna conoscenza che non derivi da un contatto immediato del soggetto con l’oggetto sensibile: non soltanto i contenuti del pensiero, ma anche i cosiddetti principi formali provengono dall’esperienza. Su questo punto già la sofistica classica, opponendosi alla distinzione eleatica fra nou'" e ai[sqhsi", s’era espressa inequivocamente; e Aristippo di Cirene (cfr. Sesto Empirico, Adversus mathematicos, VII, 193) ne condensava la dottrina in una formula famosa: movna pavqh katalhptav (soltanto le percezioni possono essere afferrate). La fonte primaria è costituita dai dati empirici, che prendono il nome di sensazioni, percezioni, impressioni e, in senso generico, anche di «idee» (Locke). Stoici ed epicurei adoperavano il termine tuvpwsi" (impronta), per mettere maggiormente in risalto l’aspetto recettivo del soggetto. Secondo Epicuro, l’evidenza (ejnavrgeia) è carattere immanente alla sensazione nella sua immediatezza, e la credenza (Belief), che s’accompagna a una impressione presente, determina l’unica forma di certezza possibile in Hume. La concretezza del dato si presenta a una coscienza come cosa particolare e finita, determinata nel tempo e nello spazio. L’empirismo, con un’analisi inesorabile, risolve l’oggetto in un complesso di qualità sensibili atomicizzandolo, e nello stesso tempo dissolve l’unità psichica del soggetto e dell’atto conoscitivo: il soggetto viene ridotto progressivamente alla condizione di «luogo dei dati». La sensazione, o esperienza esterna, diviene la fonte assoluta di informazione, in quanto è «contenuto» presente della coscienza. Tuttavia, non potendosi la conoscenza ridurre a una mera constatazione passiva dei dati, si rende necessario individuare nel soggetto alcune operazioni cognitive originarie, che, pur non 3350

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configurandosi come apportatrici di contenuti conoscitivi eccedenti la sensazione, devono essere considerate come una condizione imprescindibile per l’ordinamento delle impressioni. Locke distingue così, accanto all’esperienza esterna, un’esperienza interna, o riflessione. Ci sono infatti delle idee (per esempio, di volontà, di analisi, di giudizio ecc.) che non possono essere derivate dalle sensazioni, ma dalla constatazione di un atto interiore: non si può contestare che il soggetto abbia coscienza di sé, analizzi, astragga, unifichi, generalizzi, sintetizzi, giudichi, voglia ecc., senza negare nello stesso tempo la validità della premessa fondamentale. Ma al razionalismo, che chiudeva l’attività dell’io entro i limiti invalicabili della sua autocoscienza, l’empirismo obietta che il riconoscimento delle operazioni del soggetto non è in alcun modo una concessione all’innatismo: nessuna operazione si compie indipendentemente dal dato. L’analisi e la sintesi si esercitano su elementi empirici, fuori dei quali non hanno né senso né possibilità; la stessa autocoscienza implica un’alterità irriducibile. Per queste ragioni Condillac crederà inutile distinguere le due fonti della conoscenza e si sforzerà di dedurre le diverse operazioni del soggetto dalla concretezza del sentire, evidentemente con l’intento non di compiere un’identificazione assurda, ma di mostrare la necessaria correlazione delle operazioni ai dati e la loro inseparabilità funzionale. L’empirismo però non poteva non esaminare, in nome del suo principio ispiratore, anche gli altri fatti della coscienza, che, pur non essendo autentici contenuti in senso oggettivo, sono tuttavia elementi di un’esperienza interna. L’amplissima regione delle emozioni e dei sentimenti è anch’essa un complesso di dati psichici, la cui esplorazione era consona allo spirito dell’empirismo; tuttavia la psicologia dell’empirismo (sono notevoli a questo riguardo le acute osservazioni di Hume) non soltanto era portata a concepire i sentimenti in strettissima dipendenza dai dati sensibili, ma a frantumare altresì l’unità psichica della persona in una molteplicità discontinua (di qui la critica spiritualistica di Maine de Biran contro la psicologia di Condillac, e la critica mossa da Bergson, che pur difende la propria posizione come «empirismo integrale»). Il criterio nominalistico, che sarebbe potuto servire anche in campo psicologico a reagire all’astratta ragione dei razionalisti e a precisare le dimensioni

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spirituali del soggetto singolo come tale, svolgeva nell’empirismo moderno una funzione prevalentemente negativa. La «vita interiore» della persona cessa qui di avere un suo positivo significato autonomo. L’uomo, nel suo moto centrifugo (di cui è impulso primo un’impersonale inquietudine, l’uneasiness di Hobbes e di Locke), si forma nel mondo empirico e con esso, né mai può evadere dal suo orizzonte sensibile: tutta la sua vita spirituale, malgrado le sue ansie metafisiche, non è che l’espressione idealizzata delle sue effettive relazioni con l’immediato. 3. Il nominalismo e la critica dei principi logici formali. – Il problema dell’universalità si identifica col problema della conoscenza; ma se il primo dato della coscienza è la percezione, particolare e finita, e se le forme e le essenze universali sono a priori negate, l’universalità viene senz’altro esclusa dall’ordine dell’oggetto. Secondo Berkeley nemmeno le idee, in quanto oggetti pensati, sono autenticamente universali. In Aristotele il concetto implica la rappresentazione, ma non si identifica con essa; la sua universalità è infatti garantita da un’essenza formale, cui corrisponde logicamente. Per gli stoici, gli epicurei, Berkeley ecc., l’origine empirica dei concetti è integrale e non ammette corrispondenze con un irreale mondo noetico. L’universale è perciò un nomen, un flatus vocis, un termine mentale, una parola, un sermo significativus. Precisiamo: non che il nomen sia universale in se stesso, giacché in questo caso l’universale sarebbe, in quanto nomen, nel soggetto; ma anche il nomen è un dato sensibile e, come tutti i dati, particolare e determinato. La sua universalità è dunque nella sua funzione indicativa di segno; tale funzione non può però essere compiuta se non da un soggetto pensante, che si serva del segno con una finalità significativa, riferendolo cioè a molte cose particolari. L’universalità appartiene dunque – come precisa Berkeley – all’ordine del soggetto, non perché il soggetto sia universale o universalizzante, ma per l’atto indicativo ch’esso è capace di compiere. La differenza che gli stoici pongono tra lovgo" ejndiavqeto" e lovgo" proforikov", fra parola interiore e parola espressa, non intende condurre – come sarà per Filone di Alessandria e per Agostino – a un mondo noetico. Le parole espresse sono indubbiamente diverse secondo i vari popoli e tuttavia si riferiscono a un unico verbo interiore; questo, tuttavia, non è generalmente com-

Empirismo prensibile se non in quanto è un complesso di immagini comuni, proveniente da una generale esperienza umana. Se l’universalità del discorso implica dunque un segno e un atto del pensiero che si serve del segno, il nominalismo si converte necessariamente in una filosofia del linguaggio (cfr. L. Rougier, La métaphysique et le langage, Paris 1960, pp. 164 ss.). Nessun rapporto reale intercede fra la cosa significata e la parola significante; il trapasso dall’una all’altra è un salto, una convenzione (novmo") di origine e di validità pratica, che rende possibili le relazioni umane. II linguaggio crea così un mondo di simboli e segni, che emerge dalla realtà sensibile e sembra rendersene indipendente, testimoniando la potenza umana (Gorgia definiva la parola un mevga" dunavsth", una grande dominatrice), ma questo mondo di parole non può mai significare e rivelare un mondo di essenze e di valori intelligibili. La parola o riesce a significare i dati concreti, a cui corrisponde per convenzione, o ci fa evadere dalla realtà sensibile e oggettiva, ma per significare ancora una volta un mondo di sentimenti e di emozioni, che non hanno un significato se non in funzione dell’esperienza sensibile. In effetti un’espressione estrema del nominalismo è rappresentata dai vari tentativi novecenteschi di considerare la scienza (e l’intero sistema del sapere) come un puro «costrutto linguistico», senza alcuna relazione con un mondo o una realtà dati. Fin dal 1931 Otto Neurath aveva sostenuto che «soltanto all’interno del linguaggio si svolgono tutte le trasformazioni della scienza, e non per un confronto del linguaggio con un “mondo”, con un insieme di “cose” di cui il linguaggio riprodurrebbe la diversità» (O. Neurath, Physikalismus, in Gesammelte philosophische und methodologische Schriften, Wien 1981 p. 419). Questa posizione, approfondita poi da Rudolf Carnap nella Logische Syntax der Sprache (1934), comporta l’adozione di un criterio «contestuale» e «sintattico» di verità: il solo requisito che un linguaggio deve possedere per essere significante è quello della coerenza interna tra le sue proposizioni; non vi sarebbe più un unico linguaggio «vero», perché adeguato all’esperienza che facciamo della «realtà», ma molteplici costrutti linguistici, a ciascuno dei quali si richiede di rispettare al proprio interno precise regole sintattiche di connessione e inferenza. 3351

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Empirismo 4. Il problema della sostanza. – L’empirismo delimita al dato l’ambito della conoscenza possibile e nega al pensiero una funzione metempirica: se tutte le nostre idee derivano dall’esperienza sensibile, nessuna di esse può condurre oltre il contenuto di essa. Non valgono, inoltre, le argomentazioni razionali a dimostrare una realtà metafisica intelligibile, dal momento che tali argomentazioni non potranno mai condurre a un’idea che per il suo contenuto sia immediatamente evidente al pensiero. Il problema della sostanza materiale ha perciò, nella storia del pensiero empiristico, un significato del tutto particolare. La definizione razionalistica della sostanza, come «ciò che esiste in sé e per sé», è una proposizione metafisica che contraddice in pieno alle esigenze dell’empirismo, per il quale il pensiero non può affermare se non ciò che cade sotto i sensi, vale a dire ciò che è relativo al soggetto senziente. Se per il razionalista l’atto con cui si afferma la sostanza è un’intuizione intellettiva, alla quale il dato sensibile serve al massimo come mera occasione, per l’empirista l’atto del pensiero con cui il soggetto afferma una cosa concreta non implica una doppia natura, intellettuale e sensibile, perché l’aspetto intellettivo di quell’atto non si differenzia essenzialmente dall’intuizione sensoriale, essendo unico il loro oggetto. Chi afferma la presenza di una cosa, non afferma da un lato una x come sostanza intelligibile e dall’altro gli accidenti sensibili che le ineriscano, ma il complesso delle qualità percepite. La sostanza diventa dunque nell’empirismo un oggetto fatuo, un’affermazione mentale, cui non corrisponde nessun dato. La storia della critica di questo concetto dimostra una progressiva eliminazione di qualsiasi elemento intellettivo e razionale, che presuma fondare la validità filosofica del concetto. Già Ockham poneva la sostanza fra gli «entia» abusivamente moltiplicati dal pensiero. Ma la piena consapevolezza critica del problema si ha nell’empirismo inglese dei secoli XVII-XVIII, in cui è facile seguire quell’eliminazione progressiva in tutti i suoi momenti logici. In Locke si avverte ancora un’oscillazione fra posizioni discordanti: la sostanza ora è una idea complessa, cioè una sintesi mentale (è innegabile un vago preannuncio delle categorie kantiane), ora è un substrato oscuro, pensato in modo confuso, cui ineriscono delle qualità sensibili, ma al quale non corrisponde alcuna esperienza. Locke, inoltre, non si limita a constata3352

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re la presenza del dato: dopo aver criticato la distinzione fra qualità primarie e secondarie, ch’egli accetta ancora pur contestandone il valore scientifico, ricerca fuori del soggetto – la cui passività nel sentire è un dato di fatto – la causa delle percezioni. La sostanza cessa di essere per lui l’oggetto di un’intuizione intellettiva, per diventare la conclusione logica di un’argomentazione che vorrebbe essere esclusivamente fondata sui dati sperimentali. Una realtà materiale esiste fuori di noi, in quanto causa esterna delle nostre percezioni: che cosa sia essenzialmente in se stessa non possiamo dire, ma sappiamo che esiste ed è causalità. Lo stesso Kant, fondatore del criticismo, non saprà svincolarsi del tutto da questi residui realistici. Berkeley elimina definitivamente la distinzione fra qualità primarie e secondarie e conduce a fondo la polemica contro le «idee generali», giungendo così a negare inequivocabilmente la sostanza materiale: la «cosa» è ridotta alla somma delle qualità attualmente percepite (esse est percipi). Va tuttavia precisato che, se Berkeley non invoca più, come fa Locke, il principio di causalità per dimostrare l’esistenza di una sostanza materiale extrasoggettiva, lo invoca tuttavia per dimostrare la realtà dello spirito, che per lui è l’unica sostanza che si possa dire esista veramente. L’empirismo devia così verso l’immaterialismo spiritualistico, rivelando in Berkeley la sua funzione puramente strumentale. Con Hume, che riporta l’empirismo al suo compito critico e analitico, la revisione del concetto di sostanza si conclude negativamente. Contestata in maniera assoluta la metempiricità del pensiero, Hume accetta da Berkeley le conclusioni negative, ne rigetta quelle costruttive e intraprende una descrizione genetica dell’idea di sostanza, che, mentre mira a giustificarne la funzionalità, scopre una zona extra-razionale nella conoscenza del soggetto. L’idea di sostanza non deriva da un’intuizione intellettiva originaria (non si danno se non intuizioni sensoriali); non è la conclusione di una dimostrazione razionale (l’esistenza si dà, non si dimostra) e non ha un corrispettivo in una determinata conoscenza, perché è concetto invocato a garantire la continuità e l’identità dell’esperienza, che di fatto è incoerente e discontinua. Alla base di tale principio non c’è nessuna ragione teoretica che lo giustifichi, ma solo un bisogno pratico di continuità e di

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unità, cui l’associazione psicologica può essere un’occasione, ma non una condizione costitutiva sufficiente, né una verifica. 5. Il problema della causalità. – Al problema della sostanza è strettamente connesso quello della causalità. Essendo la causalità l’aspetto efficiente della sostanza, i loro destini filosofici sono congiunti: l’affermazione o la negazione della sostanza importa l’affermazione o la negazione della causalità. La critica, che ritroviamo rivolta al secondo concetto in Sesto Empirico, in Ockham, in Locke, in Berkeley, in Hume, in Stuart Mill, in Comte, procede inevitabilmente affiancata alla critica del primo. Se il problema della sostanza riguardava la metempiricità dell’atto conoscitivo, quello della causalità, in quanto tale concetto implica una relazione che si presume universale e necessaria, riporta in questione il tema dell’universalità. Ora, il rapporto di causalità, com’è generalmente inteso, suppone un termine efficiente che produca un determinato effetto. La causalità rimanda così a una sostanza, che ne è la condizione ontologica. Ma se la sostanza è risolta nelle percezioni in cui la cosa percepita si esaurisce, non ha più senso parlare né di causa (elemento producente) né di effetto (elemento prodotto). Una percezione, infatti, non può essere la causa che produce un’altra percezione, ma è un fenomeno che viene dopo un altro fenomeno. Il fuoco non è una sostanza che produce determinati effetti (luce, colore, calore ecc.), ma è il complesso di queste qualità percepite. E se anche la sostanza fosse l’oggetto di un’intuizione originaria, da parte empirista si risponde che essa dovrebbe allora essere conoscenza a priori degli effetti che da essa scaturirebbero in maniera necessaria. Ciò non può darsi perché, eliminata la sostanza e la corrispondente intuizione noetica, viene anche a mancare la necessità e l’universalità del rapporto. Non sappiamo a priori che cosa debba seguire ad A, ma constatiamo a posteriori ciò che, nell’indefinita serie delle possibilità, segue di fatto. Alla necessità del rapporto di causa ed effetto è sostituita una relazione di successione nel tempo, che ha una validità soltanto psicologica e che dipende da un numero indeterminato e indeterminabile di certe esperienze compiute da un certo soggetto entro certi limiti di tempo, e che perciò non può valere necessariamente per ogni coscienza e per il tempo futuro, o, per dir meglio, indipendentemente dal tempo.

Empirismo A queste conclusioni radicali l’empirismo giunge dopo molte oscillazioni dottrinali, che costituiscono la vitalità del suo processo storico. Per Locke il principio di causalità è un’idea complessa di relazione, che sorge quando il pensiero riflette sulla relazione tra un mutamento accertato in un fenomeno e lo stato degli altri fenomeni. Non si tratta quindi di un’idea semplice, del prodotto di un singolo atto percettivo, ma di un’operazione più complessa di livello noetico superiore, in cui il soggetto riflette sull’esperienza concreta. Per questo, malgrado l’origine empirica, per Locke il principio serve a dimostrare, come s’è visto, una realtà materiale esterna, nonché l’esistenza di Dio. In Berkeley la negazione della sostanza materiale trascina con sé la negazione del rapporto di causalità nel mondo fenomenico. Solo l’affermazione della sostanza spirituale reintegra su questo piano la validità del principio. La causalità scientifica perde ogni valore teoretico e cede il posto a una causalità metafisica, il cui significato autentico è quello di «creazione». Di conseguenza, anche le sostanze spirituali finite acquistano una loro efficienza causale, la cui origine, tuttavia, non appartiene al mondo delle cose. Con Hume l’eliminazione delle sostanze, materiali e spirituali, toglie definitivamente ogni supporto ontologico alle relazioni causali: non c’è esperienza che possa condizionare e giustificare un rapporto concepito come necessario e universale. La sua origine è perciò solo psicologica e soggettiva. L’associazione delle idee, occasionata nel soggetto da una certa costanza nella successione dei fenomeni, determina un’abitudine che, anticipando la constatazione del dato, sollecita una credenza di grande valore pratico. Con Hume l’empirismo compie una demolizione teoretica che equivale a una professione di scetticismo, ma nello stesso tempo discopre il vasto orizzonte della vita pratica e sentimentale del soggetto, la cui dichiarata autonomia impone alla speculazione ulteriore una nuova problematica. 6. Il problema dell’oggetto. – Nell’empirismo l’unità, la continuità, l’ordine e la coerenza del mondo conoscitivo divengono una esigenza pratica del soggetto: negando la sostanza, o la possibilità di conoscerla, e risolvendo la realtà nella molteplicità discontinua dei dati empirici, l’empirismo atomizza il mondo delle cose e lo dissolve in un pulviscolo di impressioni. L’unità dell’«oggetto», della «cosa», può esse3353

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Empirismo re soltanto postulata, non intuita né dimostrata. I sensi, selettivi per natura, ci offrono una pluralità di elementi percettivi ma non l’unità dell’oggetto. La funzione sintetica del «senso comune» aristotelico, garantita dall’immanenza della forma all’individuo, non ha più valore. Così l’empirismo, che inizia la sua indagine con un’operazione analitica, si trova a dover ricomporre sinteticamente ciò che l’analisi ha frantumato. In realtà, nemmeno all’empirismo, che pur sembra decisamente orientato dal suo criterio nominalistico alla rivalutazione dell’oggetto individuale, riesce di fondare l’esistente nella sua individualità. La concretezza singolare che l’empirismo riconosce è soltanto quella della percezione singola (l’«idea semplice» di Locke), che appare del tutto irrelata rispetto alle altre percezioni singole. Se nessuno substrato sorregge, unificandola, tale molteplicità di impressioni, se nessuna forma o essenza universale, attuandosi nell’individuo, lo costituisce conferendogli un significato razionale unitario, il particolare individuale – questa pianta qui, questo animale qui – perde il suo volto e si risolve in una pluralità di dati sensibili. Dissolta l’unità dell’oggetto, si imponeva il problema dell’unificazione: poiché il mondo dell’esperienza comune è un mondo di enti unitari e ben definiti nel tempo e nello spazio, era necessario mostrare le ragioni dell’incongruenza fra le credenze del senso comune e le asserzioni inesorabili del pensiero filosofico. Anche l’empirismo era chiamato a giustificare quelle credenze e ad analizzarne criticamente la genesi. Per Locke, in cui il problema dell’oggetto non è decisamente distinto dal problema della sostanza, l’unificazione è compiuta da un’intuizione oscura che si accompagna ai dati percepiti e che sfuma non appena il pensiero inizia le sue operazioni analitiche: è il «common sense», con cui Thomas Reid tenterà di salvare la consistenza oggettiva delle cose dalle conclusioni scettiche dell’empirismo. Rigorosamente conseguente, Berkeley non riconosce unità e individualità se non allo spirito (che è sostanza) e riduce gli oggetti a una rete fittissima e mobile di elementi percepiti che si succedono nel tempo e nello spazio, e le cui connessioni sono sempre esposte alla possibilità di nuovi arricchimenti col procedere dell’esperienza. Gli individui del mondo fenomenico perdono qualsiasi consistenza e diventano parole di un linguaggio che è raziona3354

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le e unitario perché è linguaggio di Dio. Sarà Hume a ricondurre il problema alle sue dimensioni psicologiche e umane: l’identità e la consistenza dell’oggetto non sono né un immobile dato dell’esperienza né il termine di un’oscura intuizione, ma divengono e si formano col formarsi della stessa coscienza empirica del soggetto. La memoria e i modi dell’associazione, in quanto determinano via via dei complessi percettivi, in cui un elemento ne richiama altri per attrazione psichica, sono sufficienti a spiegare la genesi dell’«oggetto» e la credenza in esso. Nell’empiriocriticismo di Mach e Avenarius l’aspetto pratico che condiziona e orienta la scelta nel processo dell’oggettivazione, e che già è annunciato da Hume, diventa predominante: tutte le sintesi operate dalla scienza non corrispondono più a modelli reali, ma sono ritagliate fuori dal fluido materiale delle sensazioni in una direzione segnata via via dall’interesse, dalla convenzionalità, dal valore pratico, nel mutevole corso della storia. Un’importante discussione circa il genere di esperienza che può consentire la verifica empirica degli enunciati si ebbe nell’ambito del neopositivismo. La convinzione che il complesso delle asserzioni contenute nelle teorie scientifiche potesse essere ridotto a poche semplici proposizioni immediatamente collegate all’esperienza diede origine alla cosiddetta «disputa sui protocolli». All’inizio si ritenne che autentiche «proposizioni elementari» (Elementarsätze) potessero essere quelle contenenti resoconti di tipo «fenomenistico», cioè costrutti linguistici esprimenti sensazioni, percezioni o osservazioni basate sull’esperienza psichica individuale. A tale punto di vista si opposero dapprima Neurath e, successivamente, Carnap. Il primo sostenne il carattere «fisicalistico» degli asserti di base, che non esprimerebbero esperienze soggettive degli oggetti (anche se in essi compaiono il nome proprio e le circostanze particolari entro cui si trova colui che li formula), ma stati di cose osservabili e verificabili da chiunque, e perciò originariamente intersoggettivi. In maniera molto simile anche Carnap ritenne che le proposizioni protocollari, pur continuando a esprimere il vissuto elementare, dovessero comunque assumere una valenza intersoggettiva, almeno nel senso di potersi riferire al linguaggio protocollare e all’esperienza di più individui. In questo senso anche Carnap riteneva

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possibile la traduzione delle espressioni qualitative contenute nei resoconti dell’esperienza soggettiva in termini di grandezze fisiche o protocolli osservativi di tipo comportamentistico. Nello scontro sui protocolli si rivela ancora una volta la tensione non risolta all’interno dell’empirismo tra l’aspetto soggettivistico e quello oggettivistico. Il puro fenomenismo alla Schlick esprime la consapevolezza che il dato sensibile, l’oggetto dell’esperienza, è sempre tale per un soggetto spazio-temporalmente determinato, e che non vi è modo di trascendere questo punto di vista. Il fisicalismo alla Neurath richiama l’attenzione sul fatto che l’esperienza individuale, per poter autenticamente fondare le verità intersoggettive della scienza, deve ancorarsi in un oggetto non completamente riducibile all’attività psicologica di un senziente. 7. Il problema dell’io. – L’empirismo, come atteggiamento speculativo rivolto all’oggetto, tende a ridurre l’io a tabula rasa, a recettività e passività. Ma poiché la vita psichica del soggetto è complessa e non può non testimoniare di un’attività, comunque poi questa attività si valuti dal punto di vista rigorosamente teoretico, l’empirismo deve affrontare il problema di definirne la natura e le possibilità. L’io è anzitutto ed essenzialmente sensibilità; solo per essa l’io è in rapporto con l’essere, partecipa dell’essere, si apre al mondo e lo rivela a se stesso: la conoscenza ha il suo inizio nella sensazione. Distinguibile, ma non separabile dalla sensibilità, l’intelletto è inteso dall’empirismo come una facoltà il cui compito essenziale è di riconoscere i dati empirici nella loro originaria schiettezza, senza aggiunte arbitrarie. L’intelletto non possiede intuizioni a priori, non funziona secondo principi formali universali, non è atto di una sostanza spirituale, non è funzione universalizzatrice: esso astrae, analizza, sintetizza, giudica e si serve di segni sempre e solo in relazione al dato sensibile. In ciò si esaurisce il suo compito e si chiude, con esso, l’orizzonte della conoscenza possibile. La ragione completa il quadro delle facoltà teoretiche umane; la sua funzione è essenzialmente discorsiva e dimostrativa. Ma da Locke a Hume, da Condillac a Comte, questa funzione dimostrativa si spoglia progressivamente di qualsiasi valore positivo e si esaurisce in una attività esclusivamente demolitrice. Se ancora con Locke e Ber-

Empirismo keley essa presumeva di dimostrare una realtà materiale esterna, o l’esistenza di Dio, in Hume essa non solo argomenta l’impossibilità di una metafisica, ma altresì l’inconsistenza scientifica dei concetti fondamentali del sapere (tempo, spazio, causa, sostanza ecc.). Certifica e prova la non validità delle presunte dimostrazioni positive, sottoponendo ad analisi critica le stesse costruzioni scientifiche fondate sull’esperienza. La psicologia che l’empirismo instaura è una psicologia «senz’anima» ovvero una descrizione fenomenologica dei fatti psichici. Alla res cogitans che Cartesio poneva a fondamento dell’identità della persona e come principium individuationis, Locke sostituisce la continuità psicologica, fondata esclusivamente sulla memoria che accompagna e unifica i singoli stati d’animo. L’individuazione interiore è un farsi, un’unità fluida e instabile, esposta continuamente agli urti di una realtà esterna che la minaccia. Berkeley retrocede al concetto metafisico di sostanza spirituale, in cui trova la garanzia dell’attività mentale, della causalità interiore e dell’individualità personale. La sua distinzione fra idea (che abbiamo delle cose) e nozione (che abbiamo del nostro io) riproduce l’idea di alterità sostanziale, ma la sua problematica, benché estranea all’empirismo genuino, rappresenta tuttavia un approfondimento del concetto di io come attività funzionale. Con Hume ogni residuo ontologico è definitivamente eliminato: negata la possibilità di spezzare il mondo della conoscenza empirica in due sezioni interindipendenti – il soggetto in sé e l’oggetto in sé – l’io non è più un’entità ma un luogo, un sub-jectum di elementi sensibili. L’io non è ciò che è, ma ciò che diventa. Ciò che di meno instabile ritroviamo in esso è dato dalle varie costellazioni psichiche che l’associazione successivamente determina e la cui consistenza dipende esclusivamente dalla potenza della memoria. L’universalità non gli appartiene né soggettivamente né oggettivamente. Il concetto, filosoficamente indimostrabile, di «sostanza spirituale» diviene l’espressione di un profondo bisogno pratico: insidiato dalla morte e assetato di vivere, l’uomo crede nella propria identità sostanziale perché desidera di non morire. Dopo aver discriminato le autentiche facoltà teoretiche e i limiti del sapere effettivo, l’empirismo individua con la massima chiarezza la zona irrazionale o extrarazionale dell’anima 3355

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Empirismo umana. Essa è costituita dai desideri, dall’immaginazione, dai sentimenti e dalle emozioni, che i razionalisti avevano escluso dalla genuina spiritualità dell’io. Anche l’empirismo compie questa separazione in nome della teoreticità pura: ma il «salto» nella trascendenza, che il razionalismo riconosceva alla ragione nel suo normale funzionamento, l’empirismo lo riconosce soltanto a questo fattore non razionale. II mondo della religione, della morale, dell’arte, che è sua creazione, non ha valore teoretico: si tratta di un mondo esclusivamente umano, senza corrispondenze ontologiche e metafisiche. In esso si rivela la natura dell’uomo all’uomo stesso, ma non può dir nulla sulle realtà immaginate e desiderate. L’empirismo si trasforma in umanismo. 8. La polemica antimetafisica e la critica dei trascendentali. – Contro il dogmatismo razionalistico, l’empirismo sottopone ad analisi critica le nozioni trascendentali e i termini metafisici che accompagnano l’essere nella sua accezione teologica: uno, infinito, eterno. Poiché la conoscenza deriva i suoi contenuti concreti esclusivamente dall’esperienza, i cui dati appaiono determinati e finiti nel tempo e nello spazio, l’unità in senso metafisico non ha più senso: in realtà non esiste che il molteplice, e l’uno assume il significato di elemento di un insieme, nel quale soltanto compie una funzione, oppure si risolve in una vuota astrazione aritmetica. In quest’ultima accezione ad esso non corrisponde nessun dato reale se non equivocamente, cioè come cosa concreta e quindi complessa, oppure si riduce a mero termine negativo, nel senso di «non molteplice», ma così diviene semplice limite del pensiero, o addirittura negazione del pensiero stesso. Altrettanto si dica dell’infinito, di cui è assurdo affermare l’attualità: l’infinito come tale è impensabile, poiché oggetti del pensiero sono soltanto le cose spazialmente definite. Nella prospettiva dell’empirismo esso va inteso nel senso di «indefinito» (come «quantità finita», suscettibile di successivi aumenti e diminuzioni) oppure l’infinito è parola che denota l’ineffabilità degli stati d’animo (come osservava il poeta William Wordsworth: «il dolore è oscuro e misterioso e ha la natura dell’infinito») e come tale condannata a significare un elemento psichico che non può mai essere oggettivato. In altri autori, da ultimo, l’infinito si risolve in un termine negativo che sta a indicare il non-finito, il non-spaziale, cioè, in altri 3356

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termini, l’impensabile e l’inconoscibile (esplicita è a questo proposito la polemica di Gassendi contro Cartesio, che concepiva la nozione di «infinito» come positiva e originaria: cfr. T. Gregory, Scetticismo ed Empirismo: saggio su Gassendi, Bari 1961, pp. 105 ss.). Anche l’eterno, come l’infinito, si trova esposto per l’empirismo alla stessa alternativa: o significare una quantità indefinita – una «somma di tempi» – condizionata alle successive aggiunte di un processo mentale o limitarsi a denotare tutto ciò che non è temporaneo ed è oltre il tempo, vale a dire l’irreale e l’astratto. Una realtà una, infinita ed eterna non è e non può essere oggetto di pensiero e di conoscenza (l’intuizione immediata è soltanto sensibile, e perciò finita e spazio-temporale), né termine di una dimostrazione razionale, se al pensiero umano è preclusa qualsiasi potenzialità metempirica: perciò anche per l’empirismo la teologia negativa dovrebbe essere, in campo religioso, la conclusione più logica, sebbene di fatto si ritrovi in Locke una visione religiosa che prelude al deismo. La posizione metafisica del platonismo agostiniano e cartesiano è così decisamente rovesciata. In tali prospettive l’intuizione noetica dell’uno, dell’infinito e dell’eterno precede e condiziona la conoscenza della realtà molteplice, temporanea e spaziale. Per l’empirismo, al contrario, le intuizioni originarie sono quelle del molteplice, del temporale e dello spaziale, e sono queste, semmai, che condizionano le presunte intuizioni noetiche. Con questa radicale analisi fenomenologica, nella quale l’attenzione al dato oggettivo sembra porre fra parentesi o addirittura trascurare l’attività del soggetto, l’empirismo costituisce il vero preludio di quella revisione critica del fatto conoscitivo che si opera con l’analisi trascendentale kantiana. L’aver ricondotto le nozioni noetiche dal piano metafisico a quello meramente gnoseologico costringeva, in ultima analisi, a porre in evidenza le operazioni originarie del soggetto. Se l’uno, per esempio, cessava di essere contenuto oggettivo del pensiero per diventare il termine ideale di un processo, non l’unità come tale, bensì l’atto di unificare veniva con ciò collocato al centro dell’indagine: il soggetto, dichiarato incapace di trascendere, veniva sollecitato a rivelare, pur dentro i limiti delle conoscenze possibili, la sua attività funzionale. III. L’EMPIRISMO E LA MORALE. – Nell’empirismo l’etica, svincolata da qualsiasi fondamento teo-

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logico e metafisico, è ricondotta sul piano soggettivo a privilegiare quali moventi dell’azione gli stati d’inquietudine e di bisogno, mentre sul piano oggettivo individua nell’elemento empirico il fattore che contribuisce, in quanto fonte di piacere o di dolore, a soddisfare o a contrastare il desiderio originario. Il nominalismo empiristico investe anche la nozione di bene, eliminando qualsiasi unità di misura che pretenda di essere aprioristica e universale: il bene è il piacere personale nella sua immediatezza, vincolato a determinate condizioni temporali e spaziali. E anche quando si dichiara necessario l’intervento della riflessione per discriminare il piacere dall’utile, l’utile in ultima analisi non è che un piacere garantito – per quanto è possibile – per un numero maggiore di circostanze e di esperienze: la prudenza è il metodo induttivo portato nel campo dell’azione. Come non esistono principi formali né verità universali valide a priori, così non esistono leggi morali che fondino, prima dell’esperienza, l’obbligatorietà del volere. Prima di agire ho coscienza soltanto di un bisogno che mi sollecita oltre di sé, nell’ambito delle cose. Soltanto ad azione compiuta, so che cosa è il mio bene e il mio male, cioè il mio piacere e il mio dolore. Il ripetersi delle esperienze crea un habitus che può sembrare investito di una costanza rigorosa, ma che in realtà è esposto, come le generalizzazioni nel campo della conoscenza, agli imprevisti delle esperienze future. Perciò la nozione di «dovere», inteso come legge a priori, non ha alcun significato nell’empirismo, il quale, come non conosce nessuna necessità logica, così nemmeno riconosce una obbligatorietà morale. Se di un imperativo obbligante è lecito parlare, esso deve essere inteso come coscienza di un «motivo esterno efficace», capace cioè di determinare effettivamente l’azione in una direzione piuttosto che in un’altra. È ovvio inoltre che l’uomo vive in una società che si regge su un complesso di leggi e di norme, a cui le singole volontà sono tenute a obbedire. Locke distingue infatti fra leggi religiose, leggi politiche e leggi civili. Ma anche in questo caso le leggi hanno un potere obbligante solo in quanto comminano pene e sanzioni (cioè danni personali), che sono gli unici e genuini motivi determinanti. La libertà del volere acquista un significato soltanto dentro questi limiti; come non si è li-

Empirismo beri di voler vedere il rosso quando alla vista si presenta una cosa di altro colore, così non si è liberi di desiderare ciò che si vuole: il desiderio è un movimento naturale verso ciò che piace. Perciò l’impulso non è obbligante, ma coercitivo. Muta e si restringe il campo della libertà. Essa non può essere intesa come espressione di una ragione in grado di determinarsi in assoluta autonomia dagli impulsi, ma come capacità di riflessione e di calcolo che discrimina una cosa più utile da una meno utile, un piacere prossimo da uno più remoto, in vista della individuazione del «motivo preferibile» per l’azione. La morale dell’empirismo diventa così una meccanica consapevole degli impulsi, un’aritmetica morale, una scienza dell’egoismo, cui è tolto l’infamante aspetto dell’immoralità. Tutti gli altri motivi, apparentemente più nobili, disinteressati o altruistici, sono il prodotto del sentimento e dell’immaginazione, e celano inevitabilmente il vero movente utilitaristico. Anche l’etica di Hume, che sembra aprire alle azioni umane un più vasto orizzonte, individuando nel sentimento della «simpatia» il fondamento primo della dimensione sociale dell’uomo, non può né intende uscire dall’ambito dell’utile, che è l’utile della collettività; né l’aver fondato l’etica sulla simpatia, cioè su un sentimento extrarazionale, che mira ad attenuare la violenza dell’egoismo originario, riesce a collocare l’azione morale sul piano dell’obbligatorietà: l’etica rimane decisamente descrittiva. La precettistica sociale è, per così dire, il condensato dell’opera della riflessione sulla convenienza delle azioni e delle relazioni umane: non scaturisce da premesse teologiche, né conduce a finalità trascendenti. Nasce dalla considerazione dell’uomo come membro di una convivenza e si esaurisce in questo suo compito umano. Malgrado gli inevitabili oscillamenti dottrinali, l’etica dell’empirismo in tutte le sue forme conserva ognora una sua intrinseca coerenza. IV. L’EMPIRISMO E LA RELIGIONE. – L’empirismo dei secoli XVll e XVIII si sviluppò in un contesto di grandi controversie religiose, alle quali prese parte in maniera positiva. Come problema di indagine teoretica, è ovvio che il problema religioso rientrasse nell’ordine metafisico e subisse perciò il medesimo destino. Le soluzioni, che scaturiscono logicamente dalle premesse, saranno quella agnostica e quella, cui già si è accennato, della teologia negativa. 3357

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Empirismo L’empirismo non intende negare il trascendente, ma la scienza del trascendente. E se il senso del mistero non può non persistere ancora in questo atteggiamento filosofico (il cui compito non consiste nell’orgoglio di tutto dedurre e di tutto dimostrare, ma nell’accettazione di una realtà indeducibile), la teologia negativa, spogliata naturalmente degli elementi mistici e intuitivi che storicamente l’accompagnano, doveva essere la conclusione più coerente. L’infinito di Hamilton e l’Inconoscibile di Spencer testimoniano sì di una vena romantica che riesce a inserirsi nella problematica dell’empirismo positivistico, ma sono anche l’espressione di un atteggiamento spirituale non contraddittorio. Va detto che nella loro effettiva problematica storica gli empiristi guardarono al problema religioso in maniera non sempre consona alle premesse fondamentali. Locke non soltanto riconosce al principio di causalità un ruolo nella dimostrazione dell’esistenza di Dio, ma pone le basi di un deismo razionalistico che intende ricondurre le stesse affermazioni fondamentali del cristianesimo entro i limiti della ragione. In Berkeley la deviazione dell’empirismo verso una metafisica spiritualistica porta inevitabilmente a una visione religiosa del mondo, a cui non è estraneo l’influsso del neoplatonismo, così lontano dallo spirito dell’empirismo. Eppure, c’è in ambedue i filosofi inglesi, malgrado le deviazioni dottrinali, un modo di sentire e di impostare il problema che risente dell’esigenza di concretezza maturata dall’empirismo: il divino è rintracciato nell’ordine razionale del mondo, nel linguaggio vivo delle cose, nelle leggi che reggono i rapporti degli uomini e degli eventi. Continuando la polemica contro qualsiasi forma di teologia razionale e con un illimitato disprezzo per qualsiasi dottrina trascendentalistica, J. Stuart Mill non si ferma dinanzi a nessuna conclusione che possa sembrare incongruente alla luce del teologismo tradizionale, purché non sia in contraddizione con l’esperienza: Dio è intelligenza superiore a quella umana, ma non è né creatore né onnipotente né onniscente; è un demiurgo che governa finalisticamente il mondo e la cui opera progressiva, limitata dai fattori che sfuggono al suo assoluto dominio, ha bisogno di essere integrata dalla collaborazione attiva degli uomini (cfr. J. Stuart Mill, Saggi sulla religione, a cura di L. Geymonat, Milano 1987, pp. 109 ss.). Anche in questa sua 3358

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forma l’empirismo vuol essere una teoria umanistica. Già prima di Stuart Mill, tuttavia, Hume svincolava il problema religioso dall’orizzonte teoretico e, eliminando qualsiasi compromesso con la teologia razionale e col deismo, lo impostava sul piano storico-psicologico: la filosofia religiosa cede così il posto a una «storia naturale della religione». L’esperienza religiosa scaturisce da un interesse non teoretico, ma pratico, cioè dal complesso dei bisogni e dei desideri che rendono così rischiosa e problematica l’esistenza dell’uomo nel mondo. Chi interroga le religioni umane non scopre Dio, bensì la natura dell’uomo nelle sue dimensioni storiche e finite. La teoria humiana della religione, che sviluppa motivi già abbozzati dalla sofistica classica, prelude chiaramente all’antropologia di L. Feuerbach. V. L’EMPIRISMO E IL PROBLEMA DELL’ARTE. – Anche nel campo dell’estetica il compito, storicamente efficace, dell’empirismo è stato quello di aver liberato la valutazione estetica dalle pregiudiziali metafisiche fissate dal neoplatonismo e di averla ricondotta sul piano della soggettività. Il valore della «bellezza» implica anzitutto un complesso sensibile che tutti possono percepire (non si dà bellezza di un concetto o di un’idea astratta), ma non si identifica con esso: è necessario che il soggetto senta quel sensibile in quel modo particolare che viene qualificato come «estetico». La valutazione è condizionata dal sentimento e non è possibile fuori di esso: il «bello» perciò non è realtà data, poiché il dato sensibile come tale è soltanto l’occasione di un piacere che si fruisce nell’interiorità del soggetto; e nemmeno il «bello» è tale in quanto sia il riflesso sensibile di un ordine ideale, teleologico, poiché tale sua funzione importerebbe una concezione filosofica dell’universo che contraddice o, meglio, è estranea alle fondamentali asserzioni dell’empirismo. Siffatta prospettiva estetica non riesce mai a impostare con chiarezza il problema dell’arte come problema dello spirito, perché ha della fantasia una concezione ancora empiricistica, cui manca il suggello dell’unità e della personalità. Il suo problema è il problema del «bello», il quale, se non è più inteso come «bello di natura», è tuttavia ancora un’entità fittizia, sospesa fra il dato empirico – di cui non rivela nulla – e il soggetto, di cui non è l’opera. Essa deve perciò limitarsi ad analizzare i sentimenti

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estetici, nei quali viene risolto il «gusto», anzitutto per discriminarne l’eterogeneità di fronte ad altri sentimenti non estetici, e poi per tentarne una descrizione fenomenologica e una conseguente classificazione. In questo duplice compito dell’estetica gli empiristi si sono dibattuti disperatamente, sforzandosi, nel primo caso, di separare la sfera del sentimento estetico da quella edonistica e, nel secondo, con più validi risultati, di articolare dentro l’ambito del piacere estetico una gamma di valori sentimentali più o meno esteticamente puri: è da ricordare in proposito la distinzione del bello e del sublime (Burke, Home), che passerà nella terza Critica kantiana. Ma il problema più impellente riguardava l’universalità del sentimento, la cui soggettività era nell’empirismo un dato indiscutibile; la difesa dell’universalità tentata da Burke è significativa, ma infondata: essa rivela comunque quell’esigenza che Kant riconosce al piacere estetico, in quanto sentimento spirituale. Lo stesso Hume, che sembra deciso a non indietreggiare davanti alle più soggettivistiche conclusioni, sente il bisogno di distinguere un «gusto sano» da un «gusto malato»; e il gusto sano è individuabile non a priori, ma empiricamente, attraverso una rassegna storica di giudizi e di valutazioni estetiche che non riesce comprensibile se non in quanto si cristallizzi intorno a un complesso di opere generalmente considerate «belle». L’arte classica, consacrata dall’ammirazione di molte generazioni, diventa anche per gli empiristi il modello della bellezza artistica: negati i modelli ideali e i criteri razionali di valutazione, si ricorre ai modelli storici. L’estetica empiristica, incapace di reggersi sulle sabbie mobili del sentimento, cerca la terra ferma nella storia e ne accetta dogmaticamente le creazioni artistiche. Sarà necessario che l’estetica maturi per altra via il concetto di «forma», perché l’empirismo contemporaneo riprenda in esame da questo angolo visuale il problema dell’arte. VI. CONCLUSIONI ED ESITI DELL’EMPIRISMO. – Il criticismo kantiano è per l’empirismo – nelle sue varie prospettazioni storiche – la vera linea discriminante, che da un lato conchiude la problematica dell’empirismo prekantiano e dall’altro pone le premesse critiche dell’empirismo contemporaneo. Di fatto, il criticismo è sembrato la maturazione dell’empirismo a tal punto che a qualcuno è parso necessario riservare la qualifica di empirismo autentico alla fi-

Empirismo losofia kantiana, dando invece il nome di «empiricismo» al pensiero di Locke e di Hume, considerati comunemente come «empiristi». Indubbiamente, le esigenze della gnoseologia empiristica – negazione delle idee innate e delle intuizioni intellettive, attività formale del soggetto e vago preannuncio della conoscenza come sintesi a priori, definizione della ragione come attività critica – trovano in Kant il loro inveramento più logico e coerente: nel filosofo di Königsberg l’esperienza si celebra, conforme alla programmatica empiristica, come una totalità conchiusa, sufficiente a se stessa. Ma se la decisa posizione antimetafisica dell’empirismo è confermata dalla «Dialettica trascendentale», che elimina ogni residuo realistico e porta a compimento la demolizione del trascendente come oggetto di conoscenza, è pur vero che le tre Critiche hanno già oltrepassato la linea che delimita la zona autentica dell’empirismo e hanno già posto le basi di una metafisica del soggetto, che nessuna forma di empirismo genuino può considerare pertinente alla sua problematica. Semmai, il criticismo kantiano sta a dimostrare che l’empirismo, in qualsiasi forma si configuri, se pur rappresenta la ricorrente istanza del concreto sensibile nella storia del pensiero, non può concludersi nelle sue posizioni acquisite, ma è sollecitato dallo stesso impegno critico, che lo origina e l’accompagna, a una più piena giustificazione critica di se stesso e quindi a un superamento delle sue posizioni pregiudiziali: l’antimetafisica dell’empirismo deve diventare una metafisica dell’antimetafisica. È ciò che è accaduto alla più recente forma di empirismo, ossia al positivismo logico, detto anche «empirismo logico», che riprende in esame vecchi motivi ockhamistici con un rigore metodologico e analitico che solo era possibile dopo il trascendentalismo kantiano e le più recenti indagini epistemologiche. Il nuovo empirismo, sostituendo all’analisi delle facoltà psichiche l’analisi del linguaggio scientifico, mira a eliminare la metafisica, in quanto complesso di proposizioni senza significato. Ma se il contributo dell’empirismo logico al chiarimento delle metodologie scientifiche è indubbiamente prezioso, il suo esito non è essenzialmente diverso da quello dell’empirismo tradizionale: esso ha dovuto limitare la validità delle sue indagini dentro i confini del sapere scientifico e delle sue tecniche procedurali, resecando dal suo ambito la problematica più 3359

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Empirismo logico autenticamente umana e spirituale, che da secoli costituisce il termine del pensiero che diciamo filosofico. G. Faggin - F. Grigenti BIBL.: sulla storia dell’empirismo classico e sulla sua problematica, oltre le grandi storie del pensiero (v. specialmente: F. ENRIQUES - G. DE SANTILLANA, Histoire de la pensée scientifique, IV. Le problème de la connaissance: empirisme et rationalisme grec, Paris 1937; E. CASSIRER, Storia della filosofia moderna, tr. it., Milano 1968, 4 voll.), cfr. S.H. HODGSON, The Metaphysic of Experience, London 1898, 4 voll.; L. PRAT, De la notion de substance. Recherches historiques et critiques, Paris 1906; G. HEYMANS, Einführung in die Metaphysik auf Grundlage der Erfahrung, Berlin 19213; E. WENTSCHER, Das Problem des Empirismus, Leipzig 1922; L. BRUNSCHVICG, L’expérience humaine et la causalité physique, Paris 1922: J. HESSEN, Das Substanzproblem in der Philos. der Neuzeit, Berlin-Bonn 1932; A. BARATONO, Il mondo sensibile, Messina 1934; A. MESSER, Geschichte der Philosophie im 19. Jahrhundert. Die empiristisch-naturalistische Philosophie, Leipzig 19358; G. DE SANTILLANA - E. ZILSER, The Development of Rationalism and Empiricism, Chicago 1941; M.M. ROSSI, L’estetica dell’empirismo inglese, Firenze 1944, 2 voll.; D.H. PARKER, Experience and Substance, Ann Arbor 1948; G. PRETI, Praxis ed empirismo, Torino 1957; J.K. FEIBLEMAN, Foundations of Empiricism, The Hague 1962; A.J. AYER, The Foundations of Empirical Knowledge, New York 1962; C. FABRO, Introduzione all’ateismo moderno, Roma 1964, capp. 2 e 6 (sull’ateismo dell’empirismo anglo-americano); P.K. FEYERABEND, Problems of Empiricism, Beyond the Edge of Certainty, in R.G. COLODNY (a cura di), Essays in Contemporary Science and Philosophy, New Jersey 1965, pp. 145-260, tr. it. di A.M. Sioli, I problemi dell’empirismo, Milano 1971; J. MARÉCHAL, Le point de départ de la métaphysique, II: Le conflit du rationalisme et de l’empirisme dans la philosophie moderne avant Kant, Paris-Bruges 19654; R.M. ARMSTRONG, Methaphysics and British Empiricism, Lincoln 1970; J. BENNET, Locke, Berkeley, Hume. Central Themes, Oxford 1971; P.K. FEYERABEND, Problems of Empiricism: Philosophical Papers, vol. 2, Cambridge (Massachusetts) 1981; J. RICHETTI, Philosophical Writing: Locke, Berkeley, Hume, Cambridge (Massachusetts) 1983; R.A. MALL, Der operative Begriff des Geistes: Locke, Berkeley, Hume, Freiburg im Breisgau 1984; J. DUNN, The British Empiricists: Locke, Berkeley, Hume, Oxford 1992; R. BOUVERESSE, L’empirisme anglais: Locke, Berkeley e Hume, Paris 1997; M. ATHERTON (a cura di), The Empiricists: Critical Essays on Locke, Berkeley and Hume, Lahnam 1999; G. DELEUZE, Empirismo e soggettività: saggio sulla natura umana secondo Hume (1953), tr. it. di M. Cavazza, Napoli 2000; N. DEPRAZ, Lucidité du corps: de l’empirisme transcendental en phénoménologie, Dordrecht 2001; G. BONINO, Thomas Hill Green e

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il mito dell’empirismo britannico, Firenze 2003; A. CHARRAK, Empirisme et métaphysique: l’«Essai sur l’origine des connaissances humaines» de Condillac, Paris 2003. Sul neo-empirismo: O. NEURATH, Le developpement du Cercle de Vienne et l’avenir de l’empirisme logique, tr. fr., Paris 1935; J.R. WEINBERG, Introduzione al positivismo logico (1936), tr. it. di L. Geymonat, Torino 1950; F. BARONE, Il neopositivismo logico, Torino 1953 (Roma-Bari 19863); H. FEIGL, The «Wiener Kreis» in America, in D. FLEMING - B. BAILYN (a cura di), The Intellectual Migration. Europe and America 1930-1960, Cambridge (Massachusetts) 1969, pp. 630-673, tr. it. di D. Antiseri, Il Circolo di Vienna in America, Roma 1980; L. VAX, L’empirisme logique: de Bertrand Russell à Nelson Goodman, Paris 1970; P. JACOB, L’empirisme logique. Ses antécédents, ses critiques, Paris 1980; P. PARRINI, Una filosofia senza dogmi. Materiali per un bilancio dell’empirismo contemporaneo, Bologna 1980; O. HANFLING, Logical Positivism, Oxford 1981; P. PARRINI, Empirismo logico e convenzionalismo. Saggio di storia della filosofia della scienza, Milano 1983; P. PARRINI - A.G. GARGANI (a cura di), Il Circolo di Vienna, Ravenna 1984; N. RESCHER (a cura di), The Heritage of Logical Positivism, Lanham-New YorkLondon 1985; M. GEIER - R. HALLER, Neopositivismus: eine historische Einführung in die Philosophie des Wiener Kreises, Darmstadt 1993; M. GEIER, Der Wiener Kreis, mit Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Hamburg 19983; F. STADLER, The Vienna Circle, Wien 2001. ➨ EMPIRIOCRITICISMO; EMPIRISMO LOGICO; ESPERIENZA; NEOEMPIRISMO; NEOPOSITIVISMO; PRAGMATISMO; .

EMPIRISMO LOGICO (logical empiricism; Empirismo logico logischer Empirismus; empirisme logique; empirismo lógico). – Denominato anche «neo-empirismo» o «positivismo logico», rappresenta uno dei più importanti orientamenti di pensiero della filosofia novecentesca. Esso si ispira agli ideali della modernità, dell’Illuminismo e dello spirito scientifico e positivo. Viene alla ribalta nel decennio 1925-35 per opera dei principali membri dei circoli di Vienna e di Berlino, i quali mirano al rinnovamento della filosofia attraverso il superamento della metafisica e all’elaborazione di una concezione del mondo che tenga conto delle grandi trasformazioni scientifiche realizzatesi nei campi della logica, della matematica e delle scienze empiriche tra la prima metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Con l’affermarsi del nazismo la maggior parte degli esponenti dell’empirismo logico emigrò

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negli Stati Uniti d’America. Qui per circa un ventennio il movimento conoscerà una prosecuzione e una ramificazione rigogliose. La sua dissoluzione, avvenuta tra gli anni cinquanta e sessanta, dipenderà sia da difficoltà interne legate al cosiddetto «processo di liberalizzazione dell’empirismo», sia dall’imporsi di impostazioni epistemologiche orientate in senso più naturalistico e/o storico-sociologico che logico-formale. SOMMARIO: I. Caratteri generali. - II. Origini e formazione del movimento. - III. La concezione scientifica del mondo e la svolta linguistica della filosofia: 1. La «dottrina linguistica dell’a priori» e la distinzione analitico/sintetico. - 2. Il principio di verificazione e il carattere strutturale della conoscenza. - 3. Il rifiuto della metafisica, la filosofia come analisi del linguaggio e il programma di unificazione delle scienze. - IV. la diffusione internazionale del movimento: la «liberalizzazione» dell’empirismo e la concezione standard delle teorie scientifiche. I. CARATTERI GENERALI. – Tra gli scopi principali dell’empirismo logico compare la promozione di una «filosofia scientifica» basata sui risultati delle scienze e condotta mediante metodi logicamente rigorosi. Gli appartenenti al movimento sono accomunati dall’aspirazione ad affrontare le questioni filosofiche con un atteggiamento non dogmatico e critico-costruttivo, analogo a quello riscontrabile nelle scienze mature. Essi intendono promuovere una discussione condotta secondo criteri il più possibile oggettivi o oggettivabili, tali da consentire quella collaborazione fra studiosi basata su stimoli e critiche reciproche che è tipica delle discipline scientifiche. Da qui l’«aria di famiglia» avvertibile non solo tra i neo-empiristi in senso stretto, ma anche tra molti pensatori che, pur provenendo da sponde filosofiche diverse, o avendo maturato un atteggiamento critico nei confronti dell’empirismo logico, hanno subito l’influsso del movimento (si pensi, per esempio, a Sellars, a Quine, a Goodman e ai vari protagonisti del dibattito epistemologico postneopositivista). L’empirismo logico non va confuso con l’orientamento filosofico novecentesco noto come «filosofia analitica», di cui va piuttosto considerato uno dei principali indirizzi impegnati a realizzare la cosiddetta «svolta linguistica» in filosofia. Sotto il nome «filosofia analitica», infatti, rientrano anche numerosi importanti pensatori e indirizzi filosofici che, pur

Empirismo logico facendo proprio il metodo dell’analisi e pur accettando molte tesi di matrice empiristica, non possono essere inclusi tra gli empiristi logici in senso stretto (ne sono esempi particolarmente significativi Wittgenstein, Moore, Russell e gli esponenti della cosiddetta «filosofia del linguaggio ordinario»). Gli aspetti che distinguono gli empiristi logici da altri «analitici» sono soprattutto l’interesse per l’analisi critica della conoscenza scientifica (ciò che li accomuna a un critico della «svolta linguistica» come Popper), l’intento di costruire su tale base una «filosofia scientifica» e la tendenza (assente in Neurath, ma particolarmente marcata in Carnap) a condurre le loro analisi facendo riferimento a intelaiature linguistico-concettuali di tipo ideale logicamente rigorose in modo da realizzare il passaggio dalla teoria della conoscenza (Erkenntnistheorie) alla logica della scienza (Wissenschaftslogik). Talvolta ci si riferisce all’empirismo logico anche con i nomi di «neo-empirismo», «positivismo logico» e «neo-positivismo». Alcuni studiosi tendono a distinguere in modo più o meno sistematico fra tali denominazioni designando con «empirismo logico» (o «neo-empirismo») gli sviluppi internazionali del movimento (soprattutto statunitensi) e con «positivismo logico» (o «neo-positivismo») le sue fasi iniziali, quelle caratterizzate da una maggiore rigidità di formulazioni per quanto riguarda la critica alla metafisica, la base empirica della conoscenza e la riducibilità all’esperienza delle componenti teoriche del discorso scientifico. Tuttavia questa scelta terminologica non pare nel complesso felice perché nella storia del movimento motivi positivistici e motivi empiristici si sono quasi sempre intrecciati e sovrapposti. Tra le denominazioni citate la più adeguata è quella che pone l’accento sull’aspetto empiristico. Essa si applica meglio delle altre agli sviluppi internazionali di questo indirizzo di pensiero e consente di dare il giusto rilievo alla continuità riscontrabile tra gli empiristi logici in senso stretto e l’ampia e variegata gamma di filosofi (da Quine a Grünbaum, da Salmon a van Fraassen) che, dopo la dissoluzione del movimento, ne hanno mantenuto in vita alcuni dei principali motivi ispiratori. II. ORIGINI E FORMAZIONE DEL MOVIMENTO. – Il processo di formazione dell’empirismo logico comincia a Vienna intorno al 1907 e giunge a piena maturazione nella seconda metà degli anni 3361

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Empirismo logico venti con la costituzione ufficiale dei circoli di Vienna e di Berlino, la pubblicazione dell’opuscolo Die wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis (apparso a Vienna nel 1929, dedicato a Schlick e siglato da Carnap, Hahn e Neurath, sebbene materialmente redatto da quest’ultimo) e la creazione della rivista Erkenntnis» (1930-31). Questa gestazione lunga e complessa è dovuta in gran parte a due ragioni per molto tempo non adeguatamente riconosciute. Innanzitutto l’empirismo logico è stato un movimento meno monolitico di quanto sia apparso all’inizio e di quanto i suoi stessi esponenti lo abbiano fatto apparire. La comune aspirazione a realizzare una filosofia di tipo «scientifico» è convissuta con importanti divergenze interne tanto su questioni specifiche, come il modo di intendere il principio causale, le leggi di natura e la meccanica quantistica, quanto su questioni generali, come il futuro della filosofia, il principio di verificazione, il fisicalismo. Lo studio del materiale di archivio ha messo in luce che l’unità d’intenti con cui gli empiristi logici si sono presentati sulla scena filosofica è stata spesso più «propagandistica» che di sostanza. Almeno in parte, aveva lo scopo di favorire la penetrazione delle loro concezioni in ambienti culturali poco simpatetici verso una filosofia come quella che essi auspicavano, segnata da numerosi motivi di «rottura» con la tradizione. La seconda ragione dipende dal fatto che nell’assetto maturo dell’empirismo logico sono confluite, attraverso un processo di stratificazione progressiva, idee e dottrine che i suoi maggiori rappresentanti avevano cominciato a mettere a punto ben prima della costituzione dei circoli di Vienna e di Berlino. Tale insieme di concezioni può essere ricondotto a quattro componenti teoriche principali. La prima componente è legata al clima culturale dominante nella Vienna dei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Un clima culturale caratterizzato dall’interesse di molti scienziati (primi fra tutti Mach e Boltzmann) per la «filosofia delle scienze induttive», dall’atteggiamento antikantiano e antidealistico di Brentano che aveva favorito la conoscenza non solo della filosofia scolastica ma anche dell’oggettivismo logico-semantico di Bolzano, dal predominio di un orientamento politico liberale nutrito di idee illuministiche, empiristiche e utilitaristiche e, infine, dalla forte 3362

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presenza di una corrente di opinione volta a promuovere un’educazione popolare di tipo scientifico. Quest’ultima idea troverà un seguito specie in quei neopositivisti (in particolare Neurath, Reichenbach e Carnap) i quali, a differenza di Schlick, annovereranno tra gli interessi del movimento l’assetto unitario dell’umanità e una nuova organizzazione economico-sociale. Da qui le affinità dell’empirismo logico e dello spirito in senso lato razionalistico che lo anima con altri orientamenti della cultura del tempo, in particolare con la corrente architettonica nota come Bauhaus. La seconda componente è costituita dall’adesione all’antiassolutismo dello scienziato e filosofo moravo Mach. I primi esponenti di origine austriaca dell’empirismo logico – il fisico Frank, il matematico Hahn e il sociologo ed economista Neurath, i quali erano soliti incontrarsi in una caffè della vecchia Vienna fin dal 1907 – intendevano contrastare la rinascita di tendenze antiscientifiche e irrazionalistiche che aveva fatto seguito alla crisi della fisica meccanicistica col diffondersi dell’idea della «bancarotta della scienza». A tale scopo volevano mostrare che il superamento del meccanicismo, indebitamente elevato a teoria di natura ontologica costituente la verità sull’universo materiale, non comportava affatto la rinuncia al valore oggettivo delle affermazioni della scienza e a una concezione scientifica del mondo libera da pregiudizi. Tuttavia, l’accettazione di questi aspetti «illuministici» del pensiero machiano non impediva loro di rendersi conto dei limiti di una visione dell’attività scientifica che, come quella di Mach, finiva per pendere troppo dalla parte dell’empirismo. La critica all’ipostatizzazione assolutizzante dei concetti scientifici e il programma machiano di unificazione della scienza dovevano essere corretti e arricchiti con l’idea, derivante da Kant e soprattutto dal convenzionalismo di Poincaré, che nella scienza, oltre ai principi logici e matematici, sono all’opera libere creazioni della mente umana le quali non dicono nulla sulla realtà e mutano con il mutare della conoscenza stessa. La terza componente teorica dipende dalla critica all’apriorismo kantiano. Essa si sviluppa dalla riflessione sulle implicazioni filosofiche delle nuove acquisizioni fisiche, in particolare della teoria della relatività, ed è dovuta soprattutto all’opera di tre studiosi di origine e formazione tedesca (Schlick, Reichenbach e Car-

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nap) variamente influenzati dalle idee epistemologiche di von Helmholtz e destinati a divenire, insieme a Neurath, gli esponenti di maggiore spicco del movimento. Nel dibattito sullo spazio, sul tempo, sull’euclideismo e sul principio causale svoltosi a cavallo degli anni dieci e venti del secolo scorso, essi non assumeranno al momento (e per certi versi neppure in seguito) delle posizioni coincidenti, ma fin da allora – a parte alcune differenze nella loro evoluzione intellettuale e nei punti di approdo finali – convergeranno sulla negazione del sintetico a priori e in questa negazione indicheranno ripetutamente il nucleo essenziale della loro presa di posizione empiristica. Secondo i neo-empiristi, nella conoscenza non vi è posto per i giudizi sintetici a priori di cui Kant aveva parlato e di cui in forma diversa (ossia nella forma degli «ultimi invarianti logici dell’esperienza») continuava a parlare Cassirer. Non esistono principi che, pur avendo un contenuto conoscitivo-informativo, godano di validità universale e necessaria. Con questo, essi non intendono sottoscrivere un empirismo ingenuo che ignora il problema della concettualizzazione. Al contrario: sono talmente convinti del ruolo giocato nella scienza da assunzioni generali storicamente mutevoli di natura non sperimentale che all’inizio discutono approfonditamente se queste assunzioni debbano essere intese come convenzioni alla Poincaré (Schlick) oppure come principi costitutivi (Reichenbach, il quale negli anni successivi finirà per convergere sulla posizione schlickiana). Il senso della negazione neoempiristica è un altro: i neopositivisti pensano che non ci sia modo di mostrare la validità e la necessità oggettiva delle assunzioni citate attraverso processi argomentativi simili a quello tentato da Kant con la deduzione trascendentale delle categorie. L’indubbia circostanza che tutte le teorie scientifiche fin qui elaborate abbiano mostrato la validità di assunzioni generalissime come l’unitarietà della natura, oppure l’uniformità dell’esperienza o la possibilità di una coordinazione univoca fra i concetti e l’esperienza, legittima solo la validità de facto (ossia contingente) e non de jure (ossia necessaria) di tali assunzioni. Nella sostanza, non si può andare oltre il punto di vista stabilito da Hume e garantire a priori la possibilità della sintesi conoscitiva. La quarta e ultima componente teorica emerge alla fine del processo di formazione dell’empi-

Empirismo logico rismo logico e fa da «amalgama» a tutte le altre. Tale componente dà al movimento la sua veste matura ossia quella valenza logico-linguistica che ne fa una delle principali espressioni della «svolta linguistica» effettuata dalla filosofia analitica del Novecento. Essa scaturisce da una profonda assimilazione di alcuni fondamentali sviluppi ottocenteschi delle discipline logico-matematiche: la creazione delle geometrie non-euclidee, l’aritmetizzazione dell’analisi, la teoria cantoriana degli insiemi, lo sviluppo della moderna logica simbolica o matematica in quegli anni chiamata «logistica» e infine la discussione sui fondamenti della matematica che tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX aveva visto il costituirsi di tre diversi orientamenti di pensiero: il formalismo hilbertiano, l’intuizionismo brouweriano e il logicismo fregeano-russelliano. Gli empiristi logici ben conoscono queste innovazioni e attraverso Carnap partecipano alla discussione fondazionale. Essi focalizzano la loro attenzione su due concezioni di particolare rilevanza filosofica: la prima è costituita dalla tesi logicista, sistematicamente formulata nei tre poderosi volumi dei Principia Mathematica di Russell e Whitehead (Cambridge 19252 [1910-13]), in base alla quale la matematica sarebbe riducibile alla logica attraverso l’utilizzazione della teoria delle classi; la seconda è rappresentata dalle vedute logico-semantiche contenute nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein (ed. ted. Leipzig 1921; ed. ingl. London 1922) e in svariati scritti di Russell, tra i quali On Denoting (in «Mind», 14, 1905), Our Knowledge of the External World (London-Chicago 1914) e Lectures on Logical Atomism (Minneapolis 1918). È con l’interpretazione e l’utilizzazione di questo complesso di idee che gli empiristi logici si impegnano a realizzare una «svolta della filosofia» (cfr. M. Schlick, Die Wende der Philosophie, in «Erkenntnis», 1, 193031) basata su due tesi particolarmente dirompenti e «vistose»: la teoria verificazionale del significato e la dottrina linguistica dell’a priori in generale e della verità logica in particolare. III. LA CONCEZIONE SCIENTIFICA DEL MONDO E LA SVOLTA LINGUISTICA DELLA FILOSOFIA. – Un anno importante per il movimento fu il 1922, quando il matematico Hahn, che già da qualche tempo si occupava di logica simbolica e teneva seminari sui fondamenti della matematica, scelse come base di discussione il Tractatus di Wittgenstein e fece nominare Schlick professore 3363

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Empirismo logico all’università di Vienna sulla cattedra di Filosofia delle Scienze Induttive tenuta in precedenza da Mach e da Boltzmann. Quattro anni dopo, nel 1926, Schlick rafforzò la presenza della filosofia scientifica nell’ateneo viennese chiamandovi come assistente Carnap, il quale stava già lavorando a un’opera che segnerà profondamente tutta la successiva filosofia neoempiristica: Der logische Aufbau der Welt, pubblicata a Berlino nel 1928 insieme a Scheinprobleme in der Philosophie. Nonostante alcune rilevanti divergenze, destinate a emergere in tutta la loro forza tra il 1932 e il 1936 durante la cosiddetta polemica sui protocolli, il nuovo gruppo in breve tempo si consolidò a tal punto che nel 1929 Carnap, Hahn e Neurath decisero di pubblicare un «manifesto», la celebre Wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis, per presentare il movimento al più vasto pubblico possibile. Sempre nel 1929 si tenne a Praga un convegno sull’epistemologia delle scienze esatte, organizzato da Frank nel contesto di un più vasto congresso di fisici e matematici delle regioni di lingua tedesca dell’Europa centrale. Oltre che dall’Ernst Mach Verein (l’organizzazione legale del circolo di Vienna), il convegno venne patrocinato dal circolo di Berlino, un analogo cenacolo di scienziati e filosofi tedeschi fondato nel 1928 da Reichenbach e chiamatosi all’inizio Gesellschaft für empirische Philosophie, e poi, su proposta di D. Hilbert, Gesellschaft für wissenschaftliche Philosophie. Da questa «alleanza» fra le due associazioni, ricercata anche per conquistarsi meglio uno spazio in ambienti accademici poco favorevoli a una filosofia di tipo scientifico, maturò la decisione di dar vita a un giornale ufficiale di entrambi i circoli, la rivista «Erkenntnis». A «Erkenntnis» vennero affiancate due collezioni di testi: la prima intitolata Schriften zur wissenschaftlichen Weltauffassung, la seconda Einheitswissenschaft. Le tesi portanti della concezione neoempiristica matura, quelle sulle quali esisteva un accordo di massima, o che quantomeno costituivano i principali argomenti di discussione, possono essere raccolte in tre gruppi principali. 1. La «dottrina linguistica dell’a priori» e la distinzione analitico/sintetico. – Nella fase propriamente viennese del movimento e negli sviluppi successivi, la negazione dei giudizi sintetici a priori kantiani viene a integrarsi con le idee sui fondamenti della matematica e sulla natura della logica desunte da Frege, da Russell e 3364

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da Wittgenstein. Gli empiristi logici si appellano alla posizione logicista per sostenere che i concetti e i principi della matematica sono riconducibili a quelli dell’aritmetica e che questi ultimi, a loro volta, sono riducibili a (o costruibili a partire da) i concetti e i principi della logica. Inoltre, accettano la tesi del Tractatus wittgensteiniano secondo la quale le verità logiche del calcolo proposizionale sono delle pure tautologie prive di contenuto empiricofattuale, che quindi non dicono nulla intorno alla realtà. Anzi, essi mirano a estendere tale tesi a tutti i principi della logica e anche – attraverso il logicismo – a tutte le proposizioni della matematica. Con ciò perfezionano la critica all’apriorismo kantiano dandole una veste conforme alla «svolta linguistica della filosofia». Possono ora affermare, infatti, che la classe dei pretesi giudizi sintetici a priori è vuota in quanto i giudizi da Kant considerati sintetici (cioè informativi) e a priori (cioè indipendenti dall’esperienza e pertanto universalmente e necessariamente validi) si sono rivelati essere o giudizi sintetici a posteriori o giudizi analitici privi di contenuto informativo. Nelle intenzioni dei neoempiristi, la tesi del carattere tautologico-analitico delle verità logiche dovrebbe anche consentire di rescindere il legame tra la spiegazione della natura della logica e della matematica da una parte e l’ontologia dall’altra. Stando a tale tesi, infatti, la logica (e con essa la matematica) non parla affatto dell’essere. Lungi dal descrivere le proprietà universali delle cose, essa tratta unicamente del modo in cui intendiamo parlare della realtà. Per esempio, un asserto del tipo «Piove o non piove», che rappresenta un caso particolare del principio logico del terzo escluso («p o non p», dove «p» sta per un’asserzione qualsiasi), non dice assolutamente nulla sul mondo, ma fissa in modo implicito il significato delle parole logiche «o» e «non». E secondo Schlick una tesi analoga può venir sostenuta sugli a priori materiali di cui parlava E. Husserl. Ciò non significa, però, che la concezione neopositivistica della logica e della matematica segni il ritorno a forme di empirismo e di psicologismo come quelle variamente criticate da Bolzano, Frege e Husserl. Le verità della logica e della matematica (come le più generali asserzioni analitiche del tipo che sarà reso celebre da Quine, «Gli scapoli sono uomini non sposati») non vengono equiparate né a generalizzazioni empirico-induttive né a descrizioni

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di processi di pensiero concreti; esse vengono piuttosto concepite, soprattutto da parte di Carnap, come verità relativamente a priori la cui validità dipende dalle convenzioni che governano l’uso dei simboli della intelaiatura linguistica di riferimento (convenzionalismo logico-matematico e teoria dell’«a priori relativizzato»). Attraverso l’affermazione del carattere tautologico della logica e della matematica e la riconduzione di certi principi generali della scienza (per esempio il principio causale) a requisiti di natura metodologica oppure a convenzioni prive di contenuto fattuale, gli empiristi logici giungono a una partizione dicotomica delle asserzioni. Questa partizione, che suddivide gli enunciati apofantici nelle due sole categorie dell’analitico e del sintetico, vuole rappresentare un perfezionamento (formulato in termini linguistici) di distinzioni tradizionali (formulate per lo più in termini mentalistici) come quella leibniziana fra verità di ragione e verità di fatto, quella humeana fra relations of ideas e matters of fact e infine quelle kantiane fra giudizi analitici e giudizi sintetici e fra giudizi a priori e giudizi a posteriori. Ciò che ne risulta, oltre all’esclusione della categoria kantiana del sintetico a priori e di quella husserliana dell’a priori materiale, è l’identificazione dell’analitico con l’a priori e il necessario, e del sintetico con l’a posteriori e il contingente. 2. Il principio di verificazione e il carattere strutturale della conoscenza. – Nell’empirismo logico l’esigenza antimetafisica machiana di espungere dalla scienza tutte le istanze non riconducibili all’esperienza (esigenza che in forma più o meno forte costituisce un carattere essenziale del metodo scientifico, esemplificato anche dall’analisi einsteiniana della simultaneità) viene a essere formulata attraverso il principio di verificazione. Questo principio, per certi versi affine ad aspetti dell’operazionismo di P. W. Bridgman e del pragmatismo di W. James e Ch. S. Peirce, deriva da alcune idee sostenute da Wittgenstein nel Tractatus e da Russell nelle Lectures on Logical Atomism e in altri scritti coevi. Reinterpretando tali idee in chiave empiristica, i neopositivisti affermano che gli enunciati di principio non verificabili sulla base dell’esperienza sono privi di contenuto empirico-fattuale e non possiedono alcun significato (conoscitivo). Enunciati di questo tipo sem-

Empirismo logico brano affermare qualcosa, ma in realtà non affermano nulla di effettivamente intelligibile. La congiunzione fra il principio di verificazione e la distinzione tra asserzioni analitiche e asserzioni sintetiche conduce gli empiristi logici alla conclusione che in due soli casi le forme linguistiche enunciative possono essere provviste di significato: quando sono analiticamente vere o false (e allora vanno considerate asserzioni sui generis, perché si tratta di enunciati privi di contenuto fattuale, veri unicamente in virtù delle regole linguistiche); oppure quando sono asserzioni sintetiche la cui validità, almeno in linea di principio, può essere determinata attraverso l’esperienza sensibile: in maniera diretta, se si tratta dei cosiddetti asserti di base, in maniera indiretta, ossia mediante riconduzione alle asserzioni basiche, se si tratta di affermazioni dal contenuto più astratto e teorico. Nella maggior parte dei neo-empiristi questa concezione del significato si accompagna a una peculiare teoria della conoscenza e dell’oggettività conoscitiva. Sia pure attraverso percorsi diversi, pensatori quali Schlick, Carnap e Neurath giungono a sostenere la tesi (già intravista da Poincaré) che la conoscenza scientifica può aspirare a una validità oggettiva solo in quanto si occupa dei rapporti formali, strutturali, che vigono fra i contenuti dell’esperienza sensibile e non di questi contenuti stessi. I contenuti di coscienza sono puramente privati e soggettivi. Essi possono essere esperiti tramite un processo intuitivo, ma non sono conoscibili e obbiettivabili. Carnap in particolare cercherà di dare veste articolata a questa idea nella sua grande opera Der logische Aufbau der Welt: la scienza tratta non dei contenuti di coscienza, ma esclusivamente delle proprietà strutturali concernenti i rapporti fra tali contenuti. Solo innalzandosi a un simile livello di astrazione, che rappresenta il massimo grado della formalizzazione e della smaterializzazione, è possibile conseguire il principale obiettivo perseguito dalla scienza: l’oggettività conoscitiva intesa come validità intersoggettiva delle affermazioni scientifiche. 3. Il rifiuto della metafisica, la filosofia come analisi del linguaggio e il programma di unificazione delle scienze. – Sulla base del principio di verificazione, del rifiuto del valore conoscitivo dell’intuizione e della classificazione di tutti gli enunciati apofantici in analitici e in sintetici, i neoempiristi sviluppano una critica radicale della 3365

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Empirismo logico filosofia tradizionale, in particolare della metafisica. A loro parere, l’analisi logico-linguistica delle questioni speculative tradizionali o consente di trasformarle in problemi scientifici genuini di principio risolvibili (non si danno enigmi insolubili) oppure mostra che costituiscono degli pseudoproblemi privi di reale valore conoscitivo. Più precisamente, una metafisica basata sull’intuizione è impossibile perché l’intuizione non può essere considerata una forma di conoscenza. Una metafisica deduttiva (o dialettica) non è realizzabile, perché il carattere puramente tautologico, e quindi vacuo, della deduzione logica impedisce di stabilire conclusioni che non siano già analiticamente contenute nei principi di partenza. D’altro canto, se questi principi comportano la violazione della grammatica logica del linguaggio e/o l’impiego di espressioni linguistiche non collegabili a esperienze di controllo, allora ne risulta solo un discorso empiricamente inverificabile e quindi privo di significato conoscitivo. Comunque sia, resta in ogni caso esclusa la possibilità di un discorso metafisico che possa rivaleggiare sul piano conoscitivo con quello scientifico. Naturalmente si può sempre cercare di dare un senso al discorso metafisico reinterpretandolo come un complesso di enunciazioni empiricamente controllabili. In questo modo, però, si ottiene un risultato che, da un lato, pone le nuove formulazioni in continuità con le affermazioni più generali del discorso scientifico, e, dall’altro, le priva di ogni contenuto emotivo, ossia di una delle principali ragion d’essere della metafisica. Essa nasce infatti, tra le altre cose, dal bisogno di unire in un medesimo genere di discorso contenuti di tipo emotivo e valutativo e contenuti di tipo conoscitivo e oggettivo, finendo per realizzare una sorta di ibrido fra espressione artistica ed elaborazione scientifica. Come dice Carnap, la metafisica, al pari dell’arte, mira all’espressione del «sentimento della vita», ma cerca di conseguire questo risultato non nella forma (appropriata) della creazione artistica, bensì in quella (inappropriata) del discorso di natura teorica. I metafisici sono dei musicisti privi di talento musicale. La grandezza di un pensatore quale Nietzsche andrebbe vista proprio nel fatto che è stato un metafisico al quale l’eccezionale «temperamento artistico» ha impedito assai più che ad altri di cadere nell’errore dell’indebita «commistione» fra arte e scienza (cfr. Überwindung der Me3366

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taphysik durch logische Analyse der Sprache, in «Erkenntnis», 2, 1932, § 7). In considerazione delle tesi appena esposte, nel citato manifesto del 1929 la wissenschaftliche Weltauffassung viene caratterizzata ricorrendo «a due attributi. Primo, essa è empirica e positivistica: si dà solo conoscenza empirica, basata sui dati immediati [...] Secondo, la concezione scientifica del mondo è contraddistinta dall’applicazione di un preciso metodo, quello, cioè, dell’analisi logica» (Die wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis, Wien 1929, tr. it. a cura di A. Pasquinelli, La concezione scientifica del mondo, Bari 1979, p. 80). IV. LA DIFFUSIONE INTERNAZIONALE DEL MOVIMENTO: LA «LIBERALIZZAZIONE» DELL’EMPIRISMO E LA CONCEZIONE STANDARD DELLE TEORIE SCIENTIFICHE. – Dopo il convegno di Praga del 1929, si ebbero altri incontri ai quali parteciparono molti studiosi provenienti dalle più diverse aree geografiche. La più importante di tali manifestazioni fu il Congrès International de Philosophie Scientifique che si tenne a Parigi nel 1935 e i cui Actes verranno prontamente pubblicati dall’editore parigino Hermann nel 1936. Esso vide la partecipazione dei maggiori esponenti della «filosofia scientifica» mondiale, tra i quali l’italiano F. Enriques. Sebbene non tutti i congressisti concordassero con le posizioni dei neopositivisti, questi ultimi vi fecero la «parte del leone» e il convegno sancì il pieno riconoscimento internazionale del movimento. L’internazionalizzazione venne ulteriormente favorita dal fatto che nel frattempo, negli anni immediatamente precedenti all’assassinio di Schlick (1936), era cominciata la diaspora dei rappresentanti più significativi dell’empirismo logico prima in direzione di altri paesi europei (Cecoslovacchia e Turchia), e poi verso gli Stati Uniti d’America, dove nel giro di pochi anni finirono per ritrovarsi sia i più maturi von Mises, Frank, Carnap e Reichenbach, sia i più giovani Hempel e Feigl (Neurath invece resterà in Europa, prima a L’Aia e poi a Oxford dove morirà nel 1945). L’emigrazione nel nuovo continente eserciterà un notevole influsso sulla filosofia americana; al tempo stesso condurrà a una accentuazione dei motivi di derivazione pragmatista e comportamentistica già presenti nelle originarie concezioni neopositivistiche. L’emigrazione ebbe inizio subito dopo una polemica di grande importanza sviluppatasi all’interno del circolo di Vienna sulla natura degli enunciati basici o protocollari. La pole-

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mica aveva visto la divisione del circolo in due ali, quella di «sinistra» capeggiata da Neurath e quella di «destra» capeggiata da Schlick. In seguito si intensificarono gli sforzi di Neurath per la realizzazione del programma di unificazione delle scienze. E questi sforzi trovarono il loro coronamento proprio in America dove nel 1938 vide la luce il primo fascicolo della International Encyclopedia of Unified Science alla cui realizzazione dette un contributo determinante il filosofo americano di orientamento comportamentista Ch. Morris. Inoltre è sempre a far data da quella polemica e dall’uscita del saggio di Carnap Testability and Meaning, in «Philosophy of Science» (Baltimore), 3, 1936, pp. 419471 e 4, 1937, pp.1-40 (anticipato dall’intervento Wahrheit und Bewährung al convegno parigino sopra ricordato) che inizia il cosiddetto «processo di liberalizzazione dell’empirismo». Questo processo – che sarà molto influenzato dal confronto con il falsificazionismo popperiano e con le vedute di Quine sull’analiticità e sul riduzionismo – va a investire le principali tesi neoempiristiche, in particolare il principio di verificazione o criterio empiristico di significanza conoscitiva. Esso si svolge all’incirca dalla seconda metà degli anni trenta fino ai primi anni sessanta, quando il divario fra Carnap e Hempel sull’analiticità e sul principio di verificazione nonché l’irrompere sulla scena filosofica delle idee dei cosiddetti «nuovi filosofi della scienza» (N.R. Hanson, Th.S. Kuhn, P.K. Feyerabend) segnano la fine del movimento vero e proprio. Parte del processo di liberalizzazione ruoterà attorno alla prima delle principali tesi neoempiristiche qui indicate, quella che asserisce la riconducibilità di tutti gli asserti significanti alle due sole categorie dell’analitico e del sintetico. In questo senso è possibile affermare che la storia dell’empirismo logico è costituita in buona parte dai molteplici tentativi compiuti in particolare da Carnap per difendere tale classificazione. Egli cerca di far fronte alle grosse difficoltà incontrate fin dall’inizio dalla tesi logicista e, soprattutto, di mettere a punto formulazioni della concezione linguistica dell’a priori capaci di sfuggire alle obiezioni dei filosofi statunitensi Quine, Goodman e M. White, tutti e tre variamente orientati a respingere il dualismo analitico/sintetico in nome di forme radicali di empirismo, pragmatismo e nominalismo. È affaticandosi intorno a tale problema che Carnap passa da una caratteriz-

Empirismo logico zazione dei principi della logica in termini sintattici e convenzionalistici all’elaborazione di concezioni dell’analiticità basate su semantiche estensionali e intensionali e corredate di chiarificazioni di natura pragmatica. Ma la parte più importante e vitale del processo di liberalizzazione è costituito dai tentativi (anche questi compiuti soprattutto da Carnap) di giungere a formulazioni sempre più adeguate e «permissive» del criterio empiristico di significanza conoscitiva e quindi della distinzione fra scienza e metafisica. Nessuna tesi neoempiristica, infatti, ha subito più critiche del principio di verificazione. Le principali discussioni e modifiche a cui esso è stato sottoposto possono essere raggruppate sotto quattro punti principali. (i) Il primo punto riguarda il suo ambito di applicazione. Subito dopo la formulazione originaria, fortemente influenzata dal Tractatus wittgensteiniano, si precisò che il principio di verificazione andava inteso come un criterio non di significato tout court, bensì di significato conoscitivo. Ciò equivaleva a riconoscere che formazioni linguistiche prive di valore conoscitivo possono nondimeno contenere componenti di significato di diversa natura, per esempio emotive o motivazionali, le quali sono comunque in grado di esercitare forti effetti psicologici. Pare questo il caso, per esempio, degli enunciati della morale contenenti termini valutativi come «buono», rispetto ai quali la maggior parte degli empiristi logici tende ad assumere una posizione riconducibile al cosiddetto «emotivismo etico». (ii) Il secondo punto riguarda il suo statuto: il principio di verificazione va considerato un asserto descrittivo che cade sotto il suo stesso raggio d’azione, oppure un principio di natura non descrittiva come per esempio una definizione o una regola del metodo? Per evitare che venisse giudicato un asserto privo di significato conoscitivo in quanto esso stesso non verificabile, Carnap e Hempel lo hanno trattato come una definizione esplicativa della significanza conoscitiva; in Italia, invece, G. Preti ne ha difeso l’adozione come una regola del metodo legata a doppio filo ai valori della scienza e della democrazia. (iii) Il terzo punto riguarda il modo di intendere le asserzioni di esperienza o, meglio, gli enunciati protocollari, sulla cui base giudicare della significanza conoscitiva degli altri enunciati. È su questa questione che si svolse la già 3367

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Empirismo logico ricordata polemica sui protocolli (con Neurath, Carnap e Hempel uniti contro Schlick nella difesa di posizioni radicalmente antifondazionaliste), che si consumò il passaggio dal fenomenismo dell’Aufbau al fisicalismo neurathiano e che si giunse all’introduzione di quella distinzione fra linguaggio teorico e linguaggio osservativo che verrà criticata dai nuovi filosofi della scienza. (iv) Il quarto punto concerne l’individuazione di forme di interconnessione sempre più adeguate fra gli asserti di base e le altre asserzioni del discorso scientifico – sempre più adeguate nel senso di sempre più capaci di far rientrare nell’ambito del discorso conoscitivamente significante tutte le componenti più astratte della costruzione scientifica (concetti metrici e disposizionali, leggi, termini e asserti teorici) pur continuando a tenerne fuori gli esempi paradigmatici di speculazione metafisica (i sistemi dell’idealismo ottocentesco, le contrapposizioni tra realismo e idealismo o tra materialismo e spiritualismo, le costruzioni speculative alla Bergson e alla Heidegger, il vitalismo di Driesch). La serrata e spregiudicata discussione su questi quattro punti condurrà gli ultimi esponenti dell’empirismo logico (in particolare Carnap, Hempel e Feigl) a recuperare la concezione olistica del controllo sperimentale a suo tempo difesa da P. Duhem e a conseguire due risultati di grande importanza epistemologica. Il primo di essi riguarda la distinzione fra scienza e metafisica. Alla fine del processo di liberalizzazione conclusosi intorno alla metà degli anni cinquanta, Hempel rinuncerà al tentativo di tracciare una linea di demarcazione netta fra significanza e non significanza conoscitive. Prendendo le distanze dal non rassegnato Carnap, sosterrà l’esistenza di una semplice differenza di grado fra la metafisica da una parte e le componenti più astrattamente teoriche del discorso scientifico dall’altra. Il secondo risultato concerne invece la natura e la formazione dei concetti e delle teorie nelle scienze empiriche. Nel corso del processo di liberalizzazione, Carnap e Hempel mettono a punto una sofisticata concezione che mira a una ricostruzione logico-razionale delle teorie scientifiche. Sul modello di certe branche della fisica, le teorie sono viste come sistemi formali assiomatico-deduttivi empiricamente interpretati attraverso l’introduzione di regole di corrispondenza aventi il compito di connettere il piano dei termini teorici («elettrone», 3368

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«neutrino», «virus» ecc.) con il piano dei termini osservativi («rosso», «duro», «tavolo» ecc.). Tale ricostruzione – nota come «concezione standard delle teorie scientifiche» – ha dato un enorme contributo al consolidarsi della filosofia della scienza come disciplina autonoma e può vantare tra i suoi principali meriti quello di aver messo in luce, con strumentazioni logiche rigorose, il carattere aperto e multicriteriale dei concetti scientifici. La «concezione standard» presuppone una visione assiomatico-deduttiva «a due piani» delle teorie: il piano del linguaggio teorico e il piano del linguaggio osservativo. Proprio per questo, a partire dai primi anni cinquanta, è stata criticata dai nuovi filosofi della scienza in nome di resoconti della conoscenza scientifica (anticipati da vicino da Neurath nelle discussioni interne al circolo di Vienna) orientati in senso storico-sociologico e fortemente critici nei confronti sia della possibilità di ricostruzioni logico-formali, sia della distinzione fra vocabolario teorico e vocabolario osservativo. Tali critiche, unite a quelle quiniane tese al rifiuto della distinzione fra enunciati analitici e enunciati sintetici e al recupero di una forma accentuata di «epistemologia naturalizzata», chiuderanno la parabola di un movimento secondo il quale proprio nel metodo dell’analisi logica si sarebbe dovuto vedere «ciò che distingue essenzialmente il nuovo empirismo e positivismo da quello anteriore, che era orientato in senso più biologico-psicologico» (R. Carnap, H. Hahn, O. Neurath, Wissenschaftliche Weltauffassung, tr. cit., pp. 75-76). P. Parrini BIBL.: Principali raccolte di opere di empiristi logici: AA.VV., Neopositivismo e unità della scienza, Milano 1958; A.J. AYER (a cura di), Logical Positivism, New York 1959; A. PASQUINELLI (a cura di), Il neoempirismo, Torino 1969; H. SCHLEICHERT (a cura di), Logischer Empirismus - der Wiener Kreis, München 1975; S. SARKAR (a cura di), Basic Works of Logical Empiricism, New York - London 1996. Vanno inoltre segnalate la «Vienna Circle Collection», diretta da H.L. MULDER R.S. COHEN - B. MC GUINNESS, che pubblica in lingua inglese, per i tipi della Kluwer Academic Press di Dordrecht, le opere degli empiristi logici, e la collana Full Circle. Publications of the Archive of Scientific Philosophy, Hilman Library, University of Pittsburgh curata da S. AWODEY. Tra le principali monografie di impianto tradizionale, oltre al libro di J. JOERGENSEN, Origini e sviluppi dell’empirismo logico, in AA.VV., Neopositivismo e unità della scienza, tr. it. di O. Peduzzi, Milano 1958, vanno segnalati i seguenti volumi:

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J.R. WEINBERG, An Examination of Logical Positivism, London 19502 (1935), tr. it. di L. Geymonat, Introduzione al positivismo logico, Torino 1950; V. KRAFT, Der Wiener Kreis. Der Ursprung des Neopositivismus. Ein Kapitel der jüngsten Philosophiegeschichte, Wien - New York 19672 (1950), tr. it. di N. De Domenico, Il circolo di Vienna, Messina 1969; F. BARONE, Il neopositivismo logico, Roma 19863 (1953). Tra le opere improntate alle ultime acquisizioni interpretative cfr. P. PARRINI, Una filosofia senza dogmi. Materiali per un bilancio dell’empirismo contemporaneo, Bologna 1980; A. COFFA, The Semantic Tradition from Kant to Carnap: to the Vienna Station, Cambridge 1991, tr. it. di G. Farabegoli, La tradizione semantica da Kant a Carnap, Bologna 1998; R. HALLER - F. STADLER (a cura di), WienBerlin-Prag. Der Aufstieg der wissenschaftlichen Philosophie, Wien 1993; R. HALLER, Neopositivismus. Eine historische Einführung in die Philosophie des Wiener Kreises, Darmstad 1993 (con ampia bibliografia); R.N. GIERE - A.W. RICHARDSON, Origins of Logical Empiricism, Minneapolis 1996; F. STADLER, Studien zum Wiener Kreis. Ursprung, Entwicklung und Wirkung des Logischen Empirismus im Kontext, Frankfurt am Main 1997 (con notizie bio-bibliografiche sugli esponenti del circolo di Vienna); M. FRIEDMAN, Reconsidering Logical Positivism, Cambridge 1999; M. FRIEDMAN, A Parting of the Ways. Carnap, Cassirer, and Heidegger, Chicago - La Salle 2000; P. PARRINI, L’empirismo logico. Aspetti storici e prospettive teoriche, Roma 2002 (con la traduzione italiana di alcuni materiali di archivio); P. PARRINI - M. SALMON - W.SALMON (a cura di), Logical Empiricism. Historical and Contemporary Perspectives, Pittsburgh 2003; G.L. HARDCASTLE - A.W. RICHARDSON (a cura di), Logical Empiricism in North America, Minneapolis 2003; F. STADLER (a cura di), The Vienna Circle and Logical Empiricism. Re-evaluation and Future Perspectives, Dordrecht 2003. ➨ CIRCOLO DI VIENNA; CIRCOLO DI BERLINO; EPISTEMOLOGIA POSITIVISTICA; ERKENNTNIS; POSITIVISMO LOGICO.

EMPIRISMO / RAZIONALISMO (aspetti Empirismo / razionalismo epistemologici). – SOMMARIO: I. Dal sorgere della scienza moderna al dibattito fra Mill e Whewell. - II. Il riduzionismo empiristico: Mach, l’empirismo logico, van Fraassen. - III. Convenzionalismo e razionalismo critico. - IV. La svolta relativistica. - V. La sociologia della conoscenza scientifica e il nuovo sperimentalismo. I. DAL SORGERE DELLA SCIENZA MODERNA AL DIBATTITO FRA MILL E WHEWELL. – La riflessione epistemologica sulla scienza sperimentale ha riconosciuto sin dal principio la necessità di mediare ragione ed esperienza. Bacone usa l’espressione «experimentum» per caratteriz-

Empirismo / razionalismo zare un’esperienza perseguita in modo consapevole e per distinguerla da un’esperienza meramente cieca e casuale (cfr. F. Bacone, Novum Organum, I, § 82 e inoltre I, §§ 70, 100). Il nuovo sapere dev’essere frutto sia di un’attenta osservazione dei fenomeni sia d’un processo di elaborazione razionale: lo scienziato non deve ammassare fatti, come le formiche, né ricavarli da se stesso, rimanendo sul piano della mera ragione – simile in ciò ai ragni, che traggono da sé il filo della loro tela –, ma deve raccogliere i fatti ed elaborarli alla luce del nuovo metodo, imitando piuttosto le api, che dapprima raccolgono la materia da fuori, ma poi la lavorano e l’assimilano, trasformandola in miele (cfr. ibi, § 95). Galileo supererà il principale limite dell’induzione baconiana, dovuto al fatto che la «forma» dei fenomeni a cui essa doveva condurre era separata dalla sua espressione matematica (cfr. ibi, §§ 7, 9). Secondo Galileo, invece, il dominio tecnico della natura passa necessariamente attraverso l’interpretazione matematica della natura stessa. Nonostante la vexata quaestio su quale fosse il ruolo che, in qualità di epistemologo e metodologo, Galileo attribuiva all’esperimento reale rispetto a quello mentale (cfr. A. Koyré, Études galiléennes, Paris 1939; S. Drake, Galileo at Work, Chicago 1978), è difficile sottovalutare l’importanza dell’affermazione di Galileo, secondo cui la scienza deve fondarsi sull’unione di «sensata esperienza» e «dimostrazioni necessarie» (G. Galilei, Opere, V, p. 316). Più tardi, cercando di superare la contrapposizione fra corrente empiristica e corrente razionalistica, Kant tornerà a ribadire la tesi già baconiana e galileiana della necessità di coniugare esperienza e ragione, anche se, conformemente alla sua rivoluzione copernicana, ciò che la ragione trova nella natura mediante l’esperimento sono le condizioni che essa stessa ha imposto a priori al materiale del conoscere. L’esperimento è secondo Kant una «Frage an die Natur», che pone in condizione il ricercatore di seguire e comprendere i processi naturali non nella posizione di uno scolaro, ma d’un giudice, che costringe i testimoni a rispondere alle sue domande (cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Riga 1787, pp. 13-14). La contrapposizione fra empirismo e razionalismo si ritrova al centro d’un importante dibattito in età positivistica fra John Stuart Mill e William Whewell, nel quale Mill ripropone e radicalizza il punto di vista empiristico di Hu3369

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Empirismo / razionalismo me, ma svolgendolo in senso induttivistico e non scettico. Mentre la deduzione sillogistica aristotelica si muove in un circolo vizioso, poiché non può assicurare i suoi punti di partenza senza ricorrere all’induzione, le regole del metodo induttivo sono garantite dalla verità del principio dell’uniformità della natura. Le generalizzazioni induttive di basso livello possono certamente risultare false, ma la precarietà e l’incertezza del metodo induttivo è inversamente proporzionale all’ampiezza delle generalizzazioni eseguite. Le verità più universali, cioè quelle che sono di vastissima applicazione e per le quali non s’è mai dato alcun caso in cui siano state violate, come ad es. la legge di causalità (oltre che i principi aritmetici e geometrici, anch’essi interpretati da Mill in modo rigorosamente empiristico), sono provate in modo soddisfacente mediante il metodo induttivo (cfr. J.S. Mill, Collected Works, 40, London 1973-74, pp. 311-312). Mill ammette invero la legittimità di quello che egli denomina «metodo deduttivo», anticipando il modello nomologico-deduttivo della spiegazione scientifica formulato in seguito da Popper e sviluppato da Hempel, ma ne restringe l’impiego ai soli casi in cui è impossibile usare i metodi diretti dell’osservazione e dell’esperimento (cfr. ibi, pp. 454-463). Ora, contro l’empirismo integrale di Mill, Whewell si appella a Kant, del quale fa valere soprattutto il tema dell’irriducibilità dei principi a priori della ragione alla mera esperienza. Il sapere scientifico non si basa soltanto sull’esperienza sensibile, ma anzitutto su «idee fondamentali» – spazio, tempo, causa, numero ecc. –, le quali governano le operazioni attive della nostra mente, e senza di cui le sensazioni non diventerebbero conoscenza (cfr. W. Whewell, The Philosophy of the Inductive Sciences, London 1840, vol. I, pp. 63-64). Secondo Whewell non esistono «fatti» puri e non è dunque possibile alcuna mera «descrizione» di fatti: la distinzione tra teorie e fatti è soltanto relativa e psicologica, e la stessa induzione richiede un atto inventivo o creativo, e non è riducibile a regole (cfr. W. Whewell, Of Induction. With Especial Reference to Mr. J. Stuart Mill’s System of Logic, London 1849, p. 58; W. Whewell, Novum Organum Renovatum, London 1858, pp. 59-71). II. IL RIDUZIONISMO EMPIRISTICO: MACH, L’EMPIRISMO LOGICO, VAN FRAASSEN. – Alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del secolo seguente, l’epistemologia nasce come disciplina relativa3370

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mente autonoma all’insegna della contrapposizione fra empirismo e convenzionalismo: da un lato, la tendenza machiano-wittgensteiniana, riduzionistica, che cerca di ricondurre ogni elemento teorico a un’esperienza interpretata in senso atomistico, dall’altro lato il convenzionalismo, soprattutto francese, che sottolinea invece l’irriducibilità del momento teorico-razionale all’esperienza. Dopo aver risolto il concetto di «fatto» in un insieme di elementi semplici o «sensazioni» che si pongono al di qua della stessa distinzione di fisico e psichico (cfr. E. Mach, Beiträge zur Analyse der Empfindungen, Jena 1886, tr. it. di L. Sosio, L'analisi delle sensazioni e il rapporto fra fisico e psichico, Milano 1975), Mach riduce il contenuto teorico delle ipotesi scientifiche a una funzione «economica»: esso consente di sostituire ed economizzare esperienze mediante la riproduzione e l’anticipazione di fatti nel pensiero (cfr. E. Mach, Die Mechanik in ihrer Entwickelung. Historisch-kritisch dargestellt, Leipzig 19339 [1883], cap. IV, §§ 1-6, tr. it. a cura di A. D'Elia, La meccanica nel suo sviluppo storicocritico, Torino 1992). Le teorie non sono dunque vere o false, ma soltanto più o meno utili ed economiche. Di qui la tipica soluzione empiristico-strumentalistica del problema degli enti teorici: se le teorie scientifiche non rappresentano cause realmente esistenti dietro i fenomeni (non «spiegano»), ma soltanto esprimono matematicamente le somiglianze e le differenze tra fatti diversi (rendendo possibile la «previsione»), non si può attribuire alcuna esistenza reale agli enti teorici, i quali, al pari delle teorie scientifiche, sono soltanto finzioni concettuali più o meno utili per ordinare i dati sperimentali accessibili all’osservazione diretta. Da Mach si diparte il fondamentale filone epistemologico rappresentato dall’empirismo logico (designato anche come «neoempirismo», «positivismo logico» o «neopositivismo»). Esso riprende la tesi centrale d’ogni empirismo: non vi è sapere autentico che non sia fondato sull’esperienza. Più precisamente, secondo l’empirismo logico tutti gli enunciati aventi valore conoscitivo sono analitici o sintetici: i primi propri della logica e della matematica, i secondi invece tipici delle scienze empiriche. Sulla base di questo presupposto, gli empiristi logici forniscono una versione linguistica della tradizionale critica empiristica della metafisica. Secondo il «principio di verificabilità», un enunciato è «dotato di senso», e quindi è pro-

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priamente intelligibile, soltanto se è verificabile empiricamente, cioè se è possibile indicare con esattezza le condizioni o «le circostanze effettive che debbono darsi affinché l’asserzione sia vera» (M. Schlick, Positivismus und Realismus, in «Erkenntnis», 3, 1933, p. 6). Da questo punto di vista, le proposizioni della metafisica non sono false, ma prive di senso o, meglio, insensate e inintelligibili (cfr. R. Carnap, Überwindung der Metaphysik durch die logische Analyse der Sprache, in «Erkenntnis», 2, 193233, pp. 219-241) e la filosofia è ridotta ad «attività» chiarificatrice dei problemi o dei concetti scientifici oppure a «logica della scienza» (cfr. R. Carnap, Die Aufgabe der Wissenschaftslogik, Wien 1934). Dal rifiuto dei giudizi sintetici a priori e dal principio di verificabilità deriva fra l’altro il modo neopositivistico di concepire le teorie scientifiche, che presenta due caratteristiche essenziali, tipiche d’ogni tendenza empiristica in epistemologia: 1) una teoria scientifica è costituita da due livelli o linguaggi, quello delle proposizioni teoriche, contenenti i termini teorici (es.: «Ha un’energia cinetica media E»), e quello delle proposizioni osservative, contenente i termini osservativi (es.: «È rosso»); 2) il livello o linguaggio delle proposizioni teoriche ha significato empirico soltanto nella misura in cui può essere ricondotto, mediante opportune regole di corrispondenza, al livello o linguaggio osservativo. Il diverso modo d’intendere il secondo punto ha determinato il cosiddetto processo di «liberalizzazione» dell’empirismo, che è consistito nel passaggio, dall’iniziale richiesta d’una riduzione completa dei termini teorici a quelli osservativi, alla richiesta d’una «riduzione» o «interpretazione» soltanto «parziale» (cfr. R. Carnap, Testability and Meaning, in «Philosophy of Science», 3, 1936, pp. 419-471 e 4, 1937, pp. 1-40). Ma anche quest’indebolimento dei primitivi requisiti posti alla riduzione in termini d’osservabili non fu sufficiente, soprattutto a causa d’un presupposto fondamentale, d’ascendenza humeana (cfr. Treatise on Human Nature, l. I, parte I, sez. VII), che gli empiristi logici avevano desunto da Mach, e cioè l’atomismo dei dati percettivi, e che anzi i neopositivisti avevano ritrovato ribadito in chiave ontologica nel Tractatus wittgensteiniano: gli unici fatti di cui si possono avere immagini sono fatti atomici indipendenti l’uno dall'altro (cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logicophilosophicus, prop. 2.1), e dal sussistere o dal

Empirismo / razionalismo non sussistere d’uno stato di cose non si può trarre alcuna conclusione circa il sussistere o il non sussistere d’un altro stato di cose (cfr. ibi, propp. 2.062; 5.134; 5.135). In questo modo Wittgenstein aveva implicitamente fatto propria la critica humeana dell’induzione: dopo averla definita come il procedimento che consiste «nell’assumere la più semplice legge che possa accordarsi con le nostre esperienze» (ibi, prop. 6.363), le aveva potuto accordare un valore solo psicologico (cfr. ibi, prop. 6.3631; si vedano anche propp. 6.31, 6.36, 6.37). Posta l’assunzione atomistica, in effetti, l’ascensione induttiva non può più raggiungere l’universalità della legge. Di qui lo stesso Schlick, prima di Popper, dopo aver notato il carattere logicamente invalido dell’inferenza induttiva – appunto perché non v’è modo di passare da una somma, non importa quanto grande, di dati percettivi o di fatti atomici irrelati alla forma universale che, secondo i neopositivisti, caratterizza la forma logica delle teorie scientifiche – dovette concludere che una verifica completa delle leggi scientifiche è impossibile. Per non condannare le stesse leggi scientifiche all’insensatezza, egli aveva dovuto proporre di non considerarle proposizioni autentiche, ma soltanto «istruzioni» (Anweisungen) per la formazione di proposizioni, queste sì compiutamente verificabili (cfr. M. Schlick, Die Kausalität in der gegenwärtigen Physik, in «Die Naturwissenschaften», 19, 1931, pp. 145-193). L’empirismo logico, dopo aver dominato la scena epistemologica in modo quasi incontrastato, negli anni cinquanta va incontro a un rapido declino (peraltro preparato da una crisi interna, iniziata con lo stesso processo di «liberalizzazione» dell’empirismo), prima sotto le critiche radicali di Popper e poi, negli anni sessanta, sotto gli attacchi della svolta relativistica. Non sono certamente mancati autori che hanno continuato a sostenere posizioni simili a quelle dell’empirismo logico, ma sono rimasti ai margini del dibattito epistemologico. Una delle poche eccezioni di rilievo è l’«empirismo costruttivo» di Bas van Fraassen, che segue sia la tendenza degli empiristi logici – condivisa però in misura diversa dai vari autori – a sostenere la posizione strumentalistica di Mach circa l’esistenza degli enti teorici (cfr. R. Carnap, The Methodological Character of Theoretical Concepts, in «Minnesota Studies in the Philosophy of Science», 1, 1956, Minneapolis, pp. 38-76), sia la fiducia in un linguaggio os3371

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Empirismo / razionalismo servativo neutrale. Contro la tesi di Grover Maxwell d’una differenza soltanto graduale fra termini teorici e termini osservativi (cfr. G. Maxwell, The Ontological Status of Theoretical Entities, in «Minnesota Studies in the Philosophy of Science», 3, 1962, Minneapolis, p. 7), van Fraassen afferma l’esistenza d’una distinzione di principio e, con essa, l’indipendenza del livello osservativo da quello teorico: confrontando la scia di vapori lasciata da un aereo a reazione e le tracce di ionizzazione lasciate da un elettrone in una camera a bolle, egli nota che, mentre si può indicare la cima della scia e individuare l’aereo (o attendere che esso atterri, per poterlo osservare direttamente), non si osserva propriamente una particella in una camera a nebbia, ma soltanto le sue tracce – o, potremmo anche dire, non si può mai attendere l’atterraggio di un elettrone per osservarlo direttamente (cfr. B. van Fraassen, The Scientific Image, Oxford 1980, cap. II, § 2). III. CONVENZIONALISMO E RAZIONALISMO CRITICO. – Sin dal sorgere dell’epistemologia come disciplina autonoma e relativamente ben definita, la tendenza riduzionistica machiana è accompagnata da una tendenza convenzionalistica che, di là da alcune ovvie somiglianze, si contrapponeva nettamente ad essa. Henri Poincaré, in particolare, sosteneva sia per i cosiddetti assiomi della geometria sia per i principi e le teorie più generali della fisica una tesi assai simile a quella dello strumentalismo machiano: si tratta soltanto di «convenzioni», nel senso di «definizioni mascherate», create liberamente dallo spirito umano alla sola condizione di evitare la contraddizione, e quindi non si può parlare né della loro verità né della loro falsità, ma soltanto della loro maggiore o minore semplicità e comodità. Ma sotto questa convergenza si cela un’importante differenza: il convenzionalismo di Poincaré asserisce l’irriducibilità del contenuto teorico delle ipotesi scientifiche all’esperienza non sulla base del fatto che la loro universalità non può essere ricondotta a un’esperienza pensata in modo atomistico, ma – in modo parzialmente simile a quanto aveva già tentato Whewell – sulla base d’una capacità creativa e inventiva della mente umana, che va inevitabilmente oltre il dato empirico. Anche Poincaré, come Mach e i neopositivisti, rifiuta il sintetico a priori, ma sulla base d’una motivazione in un certo senso diametralmente opposta: il sintetico a priori non è stato confutato dall’esperienza empirica, bensì, proprio al contrario, le sue 3372

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pretese sono state vanificate dalla libera creazione o invenzione della mente umana di sistemi ipotetico-deduttivi, costruiti a partire da postulati liberamente scelti. In questo modo, mediante il concetto di «convenzione», Poincaré metteva in discussione sia la tradizionale dicotomia fra giudizi analitici e sintetici sia la proposta kantiana per sottrarsi a questa dicotomia, e cioè il concetto stesso di sintetico a priori. Ma nell’estensione di queste tesi alla conoscenza del mondo fisico, il fatto d’intendere il momento teorico-convenzionale come un insieme di schemi concettuali liberamente creati dalla mente doveva necessariamente condurre, nonostante la polemica con il convenzionalismo estremo di Le Roy (cfr. H. Poincaré, La valeur de la science, Paris 1905, cap. X, § 3), a conclusioni relativistiche e irrazionalistiche. In questo modo, infatti, l’essenziale mediazione teorica dell’esperienza era intesa come schermo posto fra noi e le cose: non come ciò mediante cui conosciamo la realtà, ma come ciò che conosciamo, un contenuto insomma che non si saprebbe come ricondurre alla realtà d’esperienza. E in effetti, secondo Poincaré, principi come quello della conservazione dell’energia hanno una generalità tale che rende impossibile il loro controllo empirico (cfr. H. Poincaré, La Science et l’Hypothèse, Paris 1902, cap. X, § 1). Non è dunque un caso che sia possibile rinvenire in Poincaré una formulazione quasi esplicita della tesi quineana della «sottodeterminazione delle teorie da parte dell’esperienza», secondo cui due o più teorie fisiche possono essere in reciproco conflitto ed essere nondimeno compatibili con la totalità di tutte le osservazioni possibili (cfr. W.v.O. Quine, Word and Object, New York 1960, pp. 21-22). Scrive infatti Poincaré che, quando lo scienziato traccia una curva che collega i risultati d’un esperimento, egli non è forzato in modo univoco dall’esperienza, perché sono infinite le curve che possono collegare gli stessi dati (cfr. H. Poincaré, La Science..., cit., cap. IX, § 1). Considerazioni simili valgono anche per Pierre Duhem. La sua celebre tesi, secondo cui l’esperimento cruciale in fisica è impossibile, poggia fra l’altro sul fatto che il fisico non può mai essere sicuro di aver formulato tutte le ipotesi immaginabili che spiegano il risultato dell’esperimento (cfr. P. Duhem, La théorie physique, Paris 1914, X, §§ 2 e 3), poggia cioè sull’irriducibile libertà e creatività della mente

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nel suo sforzo di spiegare non importa quale insieme dato di fenomeni. Al convenzionalismo francese si ricollegherà l’operazionismo di Hugo Dingler nella sua critica dell’epistemologia machiana prima e neopositivistica dopo. Anche Dingler usa in un certo senso il concetto di «convenzione» per superare la contrapposizione fra analitico e sintetico, ma fa ciò ripensando in modo originale la nozione kantiana di «sintetico a priori», alla luce del nesso intrinseco fra scienza e tecnica. Secondo Dingler, l’epistemologia neopositivistica ha semplicemente presupposto l’esistenza di dati empirici, senza interrogarsi sulle loro condizioni di possibilità e, in particolare, senza fornire una teoria degli strumenti di misura mediante cui i dati stessi sono ottenuti. Ma se le condizioni di possibilità dell’esperienza non possono derivare dall’esperienza, non sono neppure date a priori come forme dell’intelletto, nel senso dei giudizi sintetici a priori kantiani. Esse – che secondo Dingler coincidono con le «forme elementari» precisate dalla geometria euclidea e dalla meccanica newtoniana – sono piuttosto convenzioni, scelte anzitutto sulla base del principio della massima semplicità, ma riscattate poi operazionalmente, nella misura in cui si rivelano istruzioni per la costruzione di strumenti che forniscono risultati univocamente riproducibili: in questo senso Dingler parla di un «a priori produttivo» – Herstellungsapriori – (cfr. H. Dingler, Das Experiment, München 1928 e H. Dingler, Methodik statt Erkenntnistheorie und Wissenschaftslehre, in «Kant-Studien», 41, 1936, pp. 346-379, rist. in Aufsätze zur Methodik, Hamburg, 1987, pp. 1-59). Come Dingler, anche Popper criticherà l’empirismo logico facendo leva su motivi sia convenzionalistici sia kantiani. Ma la fiducia dingleriana nella possibilità d’una fondazione assoluta del sapere scientifico è sostituita in Popper dalla tesi – suggerita anche dalla rivoluzione einsteiniana – del carattere sempre congetturale del sapere scientifico («fallibilismo»). Contro l’empirismo e il razionalismo dell’età classica, egli sostiene che né l’esperienza né la ragione costituiscono un fondamento assolutamente certo. Popper non vuole certo abbandonare quello che egli definisce il «principio dell’empirismo», secondo cui «soltanto l’«esperienza» può aiutarci a decidere la verità o la falsità delle asserzioni di fatto» (cfr. K.R. Popper, Objective Knowledge, Oxford 1972, p. 12), ma fa valere contro l’empirismo logico la medesima creatività della mente di fronte al

Empirismo / razionalismo dato che era stata sottolineata dal convenzionalismo francese e che era stata ripresa da quello dingleriano. Egli definisce la propria posizione come un «razionalismo critico»: «razionalismo» non nel senso d’un primato della ragione sull’esperienza, ma piuttosto nel senso della «disponibilità a prestare ascolto ad argomenti critici e a imparare dall’esperienza», giacché «la scienza fa uso sia di esperimenti che di pensiero» (K.R. Popper, The Open Society and Its Enemies. vol. II: The High Tide of Prophecy: Hegel, Marx and the aftermath, London 19665 [1945], cap. XXIV, § 1); «critico», perché si tratta d’un razionalismo che, a differenza del «razionalismo acritico» o «radicale», riconosce i limiti della ragione ed è consapevole del fatto di reggersi da ultimo su una «decisione morale» fondamentale (cfr. K.R. Popper, op. cit., p. 305). Lo sforzo popperiano di conciliare razionalismo, convenzionalismo ed empirismo si riflette anche nella tesi fondamentale del falsificazionismo, secondo cui lo scienziato deve in un primo momento («psicologia della ricerca») formulare delle ipotesi ardite, nient’affatto giustificate dall’esperienza, anche se poi, in un secondo momento («logica della ricerca»), egli deve cercare in ogni modo di controllare, anzi confutare quelle ipotesi, mostrando che esse sono in conflitto con l’esperienza. Sennonché il «principio dell’empirismo» si trova in conflitto con la tesi, desunta dal convenzionalismo, secondo cui non v’è osservazione o esperimento a prescindere da qualche assunzione di tipo teorico (cfr. K.R. Popper, Logic of Scientific Discovery, London 1959, § 30). Questa tesi, che in seguito sarà denominata theory ladenness, è in conflitto – almeno nel senso in cui Popper solitamente la intende – col pilastro fondamentale del falsificazionismo: una volta accolta la tesi del carattere teoricamente mediato di tutte le osservazioni, rimane assai difficile precisare in quale modo possano mai emergere quei controesempi falsificanti su cui si fonda la tesi popperiana dell’asimmetria fra verificabilità e falsificabilità e che rappresentano il nocciolo irrinunciabile dell'epistemologia popperiana. IV. LA SVOLTA RELATIVISTICA. – Che le osservazioni non possiedono alcun senso determinato a prescindere da qualche punto di vista teorico, è del resto un punto su cui anche Wittgenstein aveva insistito nelle Philosophische Untersuchungen, non soltanto col celebre esempio della figura che si può alternativamente, ma con egua3373

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Empirismo / razionalismo le diritto, interpretare come la testa di un’anatra oppure come la testa di una lepre (cfr. Philosophische Untersuchungen, Oxford 1953, II, § 11), ma soprattutto sottolineando che l’uso di qualunque termine, e quindi (per la sostanziale equazione wittgensteiniana fra uso e significato) il suo stesso significato, non è precisabile se non all’interno del più ampio contesto di un particolare gioco linguistico (cfr. ibi, II, § 30). Ora, è appunto soprattutto da Popper e da Wittgenstein che Hanson, Kuhn, Toulmin, Feyerabend e Hübner, per citare gli esponenti più noti della svolta relativistica, riprendono la tesi della theory ladenness. Ma a differenza di Popper, gli esponenti della svolta relativistica non cercano più di conciliare l’empirismo col razionalismo kantiano e/o col convenzionalismo, ma sviluppano piuttosto quest’ultimo (con l’unica e a ben vedere soltanto parziale eccezione di Feyerabend) in senso storicistico e sociologistico. Né la ragione né l’esperimento (e l’esperienza in generale) sembrano più giocare alcun ruolo significativo nella scelta fra teorie rivali, che invece dipende da presupposti generali, che il singolo scienziato non può mettere direttamente in discussione, e di cui anzi non è neppure consapevole. Come nota ad es. Kuhn, gli avversari di Copernico, per i quali era pazzia sostenere che la Terra si muovesse, non avevano a rigore torto, perché per essi faceva parte del significato del termine «Terra» anche la sua posizione immobile (T.S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago 19702 [1962], p. 149). Kuhn si spinge sino ad affermare che, in un certo senso, scienziati aderenti a paradigmi rivali vivono in «mondi differenti» e «vedono cose differenti quando guardano dallo stesso punto nella stessa direzione» (ibi, p. 150). Secondo la tesi dell’incommensurabilità fra teorie successive, ogni teoria contiene infatti i propri criteri metodologici, semantici e ontologici, e non esiste un tertium comparationis, un punto, sottratto alla relatività dei contesti teorici o pratici, da cui poter valutare in modo oggettivo e vincolante il valore delle singole teorie. Sennonché, le lunghe discussioni che sono sorte intorno alla tesi dell’incommensurabilità hanno mostrato che essa comporta almeno una conseguenza ben difficilmente accettabile, e cioè che presupposti teorici fra loro incommensurabili non possono trovarsi in una situazione di conflitto reciproco. Se invece si accetta la possibilità del loro conflitto, si assume implicitamente l’esistenza d’un dominio co3374

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mune rispetto al quale essi risultano in linea di principio confrontabili, e ciò equivale ad assumere, contro le premesse, proprio la loro «commensurabilità» (cfr. I. Scheffler, Science and Subjectivity, Indianapolis [Indiana] 1967, pp. 51-52). Nonostante il merito di aver tolto la scienza dall’artificiale isolamento in cui l’avevano posta gli empiristi logici e lo stesso Popper, con la tesi dell’incommensurabilità, che ne è tratto irrinunciabile, la svolta relativistica si è rivelata non meno incoerente dell’epistemologia neopositivistica e popperiana. V. LA SOCIOLOGIA DELLA CONOSCENZA SCIENTIFICA E IL NUOVO SPERIMENTALISMO. – La «svolta sociologica» della seconda metà degli anni settanta riprenderà il forte accento posto da Kuhn sulla condizionatezza sociale della scienza, sviluppando alcuni aspetti dell’epistemologia kuhniana e cercandone una conferma in indagini di tipo sociologico. La «svolta sociologica» insiste in particolare sul fatto che anche la scienza è un «costrutto sociale», condizionato da molteplici fattori umani e culturali, risultato di negoziazioni che avvengono tra i membri di una data comunità di ricercatori. Dopo aver compiuto le loro scelte per ogni genere di ragioni, gli scienziati eseguono una «razionalizzazione retrospettiva», cristallizzando nei manuali un’immagine di scienza astratta e stilizzata, che non corrisponde affatto al modo in cui essa si è davvero sviluppata. Ciò vale in particolare per le nozioni di «fatto», di «realtà» o di «natura», anch’esse il risultato di un complesso processo di deliberazione e di «negoziazione sociale» (B. Latour, Science in Action, Cambridge 1987, p. 87; A. Pickering, Constructing Quarks, Chicago 1984, pp. 7-8;). Se si cerca di prescindere dai processi di negoziazione sociale interni alla comunità dei ricercatori, s’incorre secondo Harry Collins in un experimenters’ regress. La correttezza di un certo risultato sperimentale, infatti, può essere valutata soltanto in base a un buon apparato sperimentale, ma a sua volta la bontà di un apparato sperimentale dev’essere giudicata sulla base dei risultati cui esso consente di pervenire. L’unico modo per sottrarsi a questo circolo vizioso sembra dunque quello di spiegare la decisione degli scienziati di accettare la bontà d’un apparato sperimentale – e insieme i risultati cui esso conduce – ricorrendo a elementi di tipo sociologico (cfr. H.M. Collins, Changing Order: Replication and Induction in Scientific Practice, London 1985, p. 84).

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Ora, l’argomento di Collins non dimostra affatto, ma semplicemente presuppone, che la scienza sia completamente riducibile a convenzioni o relazioni di tipo sociale. La dimensione sociale e convenzionale dell’indagine scientifica è certo una condizione necessaria, ma non ancora sufficiente, per spiegare l’impresa scientifica. Anche se è impossibile ridurre l’interpretazione d’un esperimento a come le cose stanno in se stesse, è altrettanto impossibile ridurla a fattori di tipo esclusivamente sociologico: anch’essi, di per sé presi, possono soltanto costituire la condizione necessaria affinché la natura abbia per noi un senso, non possono invece determinare il modo particolare in cui di fatto, sia pure alle condizioni imposte dall’apparato sperimentale e dalla sua interpretazione teorica, il reale si manifesta. La dimensione sociale e convenzionale dell’indagine scientifica, insomma, richiede come suo indispensabile complemento il momento del riferimento empirico. La necessità di questo riferimento empirico è rivendicata dal «nuovo sperimentalismo», che, a partire dagli anni ottanta, ha difeso l’indipendenza delle pratiche sperimentali dal momento teorico: come s’è espresso il corifeo di questa tendenza, a differenza delle teorie, la sperimentazione «has a life of its own» (I. Hacking, Representing and Intervening, Cambridge 1983, p. XIII) La tesi dell’indipendenza delle pratiche sperimentali dal momento teorico significa anzitutto la difesa d’un «realismo delle entità» (contrapposto a un «realismo delle teorie», per il quale non si potrebbe argomentare in modo persuasivo): possiamo affermare fondatamente la realtà di enti teorici come gli elettroni, perché sia li possiamo manipolare nello stesso modo in cui manipoliamo oggetti della vita di tutti i giorni sia perché li possiamo usare come strumenti «per manipolare altre parti della natura in modo sistematico» (ibi, p. 265). In questo modo il nuovo sperimentalismo ha ripreso una vecchia distinzione, diffusa anche fra gli empiristi logici, fra teorie di alto livello e leggi fenomenologiche di basso livello di generalità, su cui si fonda la stabilità dei risultati sperimentali (abbiamo per esempio già incontrato questa distinzione, espressa dal punto di vista del principio di verificabilità, in Moritz Schlick). Queste leggi di basso livello possono costituire la pietra di saggio dei confronti interteorici perché mutano assai più lentamente delle teorie generali.

Emulazione Ora, l’istanza di concedere alla sperimentazione una certa autonomia rispetto al momento teorico è in sé certamente legittima, sia a livello di storia della scienza sia a livello propriamente epistemologico, ma ricade in forme di empirismo e realismo ingenuo, se non riesce a conciliare questa istanza con il motivo di vero della tesi della theory ladenness. In primo luogo, è insostenibile la contrapposizione fra un «realismo delle entità» e un «realismo delle teorie»: l’evidenza in favore dell’esistenza di certe particelle e l’evidenza in favore della teoria che ne tratta in ultima istanza coincidono, poiché il contenuto della teoria consiste proprio nell’asserire l’esistenza di certe particelle e delle loro proprietà. E più in generale, non è possibile né separare in linea di principio teorie di alto livello e leggi di basso livello di generalità né, soprattutto, contrapporre semplicemente la teoria all’esperimento: l’esperimento non avrebbe alcun senso, e neppure un’identità, a prescindere da un momento di concettualizzazione teorica (che racchiude anche sempre un riferimento a qualche interesse o valore). M. Buzzoni ➨ EMPIRISMO; ESPERIMENTO; RAGIONE; RAZIONALISMO.

EMULAZIONE (emulation; Emulation; émulaEmulazione tion; emulación). – Il termine, di dubbia origine etimologica, esprime il desiderio e la ricerca effettiva di mezzi per adeguarsi, imitare o superare una persona, presa o come modello o come rivale o come oppositore nei riguardi di un determinato fine. L’emulazione rappresenta, in quanto azione dell’uomo dotato di intelligenza e volontà, un grado superiore rispetto alla pura e semplice imitazione di carattere animale; presuppone una capacità di confronto e una scelta di mezzi che siano idonei al raggiungimento di un fine. Il quale, se per natura dovrebbe essere essenzialmente positivo e tendente al vero bene (emulazione del proprio genitore, del proprio maestro, di un santo, di un eroe), molte volte si traduce, specialmente nell’attuazione pratica, in una pretesa e in un atteggiamento egoistico e quindi interessato contro la persona stessa che è oggetto di emulazione (emulazione per la conquista di un posto, per il raggiungimento di una vittoria che, in sede di competizione, viene proprio sottratta a colui che è oggetto di emulazione). Un aspetto dell’emulazione nella vita contemporanea si ha attraverso le scelte professionali, i concorsi per 3375

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Enade

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il raggiungimento di un posto nella società, l’imitazione di forme propagandate da un tipo di pubblicità che riesce a creare un abito mentale alla ricerca di un benessere e di una tranquillità economica della vita. L’emulazione pertanto, nel suo significato migliore, non deve confondersi con la gelosia, che si prova quando si ritiene di meritare un bene che si teme di perdere o che è già fruito da un altro, né con l’invidia, che si prova quando si soffre egoisticamente dell’altrui bene, anche se questo è dovuto con giustizia a chi lo possiede. Nella pedagogia dei romani era particolarmente sentita la forza dell’esempio: ne derivava un sentimento di emulazione: Cicerone perciò esortava a ricordare al popolo le azioni degne di lode degli uomini illustri. Nell’età moderna Locke pone nel sentimento dell’onore una delle forze più efficaci per l’educazione del gentiluomo, e consiglia di rendere pubbliche le lodi e segreti i rimproveri. Nei collegi dei gesuiti l’emulazione era stimolata per ottenere il massimo rendimento degli scolari (premiazione in pubblico, gare di recitazione, cariche interne agli allievi più bravi ecc.): veniva così sempre più intelligentemente applicato un aspetto importante del metodo pedagogico umanista e rinascimentale. Rousseau, temendo il pericolo dell’invidia, condannò l’emulazione. Replicò a lui Marchesini: l’emulazione deve emergere dall’onore puro (sentimento naturale) e non dalla vanità (sua degenerazione). Di uguale avviso fu Calò, nel precisare come il sentimento dell’onore, accompagnandosi con il desiderio di valere nell’altrui opinione, obblighi il fanciullo a superare l’interessato giudizio soggettivo che egli può dare su se stesso. M. Montessori tratta dell’emulazione a proposito del gioco, allorché dichiara di preferire al «gioco insensato» i giochi ginnici che «suscitano sentimenti di gara e animano verso lo sforzo della competizione»; ma a questi preferisce ancora, dal punto di vista morale e sociale, quegli esercizi di vita pratica che sono suggeriti dall’amore dei bambini verso l’ambiente che li circonda. Sebbene la tradizione pedagogica sia in genere favorevole a incoraggiare il sentimento dell’emulazione rettamente inteso, si deve porre un’estrema cautela onde evitare i pericolosi complessi psichici inerenti alle rivalità infantili tra fratelli che si disputano l’affetto dei genitori o degli educatori in genere (Isaacs). M. Sancipriano

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BIBL.: G. MARCHESINI, s. v. in Dizionario di scienze pedagogiche, vol. I, Milano 1929; S.S. ISAACS, Intellectual Growth in Young Children, London 1930; S.S. ISAACS, Social Development of Young Children, London 1933; G. CALÒ, Corso di pedagogia, vol. I, Milano 1946; M. MONTESSORI, La scoperta del bambino, Milano 1950; G.M. BERTIN, Etica e pedagogia dell’impegno, Milano 1953; E. HURLOCK, Child Development, New York 1964, tr. it. di G. Moretti e M. Cannao, Lo sviluppo del bambino, Padova 1982; R.M. GAGNÉ - L.J. BRIGGS, Principles of Instructional Design, New York 1974, tr. it. di G. Munari, Fondamenti di progettazione didattica, Torino 1990; V. GARCIA HOZ, Educazione personalizzata: individualizzazione e socializzazione nell’insegnamento, Firenze 1981.

ENADE (dal gr. eJnav" «unità»). – Termine che Enade ricorre una sola volta in Platone (Phil., 15 A) dove si alterna, due righe dopo, con monav", per indicare l’uno che è. Nel neoplatonismo tardo e principalmente nel pensiero di Proclo il termine, usato al plurale (eJnavde"), sta a indicare le realtà intermedie tra l’uno e i molti e trova il suo fondamento nel principio secondo cui ciò che è più vicino all’uno è maggiormente simile ad esso. Le enadi infatti – pur non identificandosi con l’uno – si configurano come una molteplicità di unità e hanno gli stessi caratteri dell’uno, il quale, nella Teologia platonica, III, 7, è definito da Proclo «enade di tutte le enadi». Come l’uno le enadi sono al di sopra dell’essere, della vita e del pensiero; hanno i caratteri dell’unicità, della bontà, della divinità; sono immateriali, immutabili, ineffabili e inconoscibili. Le loro proprietà tuttavia si possono dedurre dalle cose che da esse dipendono per cui da una parte sono inconoscibili al pari dell’uno di cui sono determinazioni, e, dall’altra, sono intelligibili attraverso i loro prodotti. Dal punto di vista metafisico le enadi danno nesso, coesione e continuità alla realtà e svolgono una funzione di raccordo e di mediazione in quanto costituiscono il tramite attraverso cui l’unità del primo principio si comunica ai molti, cosicché tutta la realtà risulta unificata e convergente verso un unico centro. Dal punto di vista teologico le enadi sono ipostasi a cui corrispondono gli dei della tradizione politeistica che comunicano il loro carattere divino a tutti i generi inferiori, estendono la loro azione benefica su tutta la realtà, esercitano la loro provvidenza in favore dei loro derivati. Questa presenza del divino nell’intera realtà, supportata dalle categorie della sumpavqeia e

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Enciclopedia / dizionario

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della somiglianza, inoltre, porta a una certa rivalutazione della materia e offre una via di comunicazione con la divinità che non è esclusivamente filosofica ma implica una forma di religiosità esteriore, misterica e rituale. Così la dottrina delle enadi offre a Proclo la giustificazione teorica di tutte quelle pratiche catartiche e magiche applicate al divino che fanno parte della teurgia da lui stesso praticata. M. Barbanti

ENANTIOTROPIA. – Termine usato da Enantiotropia Eraclito per designare il reciproco trasformarsi degli elementi nell’eterna vicenda del tutto: «tutto accade secondo il destino e per giri contrari» (ejnantiotropiva; cfr. H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di W. Kranz, Berlin 1961-64, 22 A 1 [7]). Red.

ENARGHEIA (ejnav rgeia, «evidenza»). – È Enargheia l’evidenza sensibile, in cui risiede il criterio di verità secondo Epicuro. Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, X, 52. Red.

ENCICLOPEDIA / DIZIONARIO (encyclopeEnciclopedia / dizionario dia / dictionary; Enzyklopädie / Wörterbuch; encyclopédie / dictionnaire; enciclopedia / diccionario). – Le nozioni di dizionario ed enciclopedia sono da tempo usate in semiotica, linguistica, filosofia del linguaggio, scienze cognitive e computer sciences per individuare due modelli e due concezioni della rappresentazione semantica, modelli che coinvolgono (in una visione filosofica più ampia) la questione di una rappresentazione generale del sapere e del mondo. Un modello a dizionario dovrebbe contemplare per la definizione di un termine (e del concetto corrispondente) solo quelle proprietà necessarie e sufficienti a distinguere quel concetto da altri; in altri termini dovrebbe contenere solo quelle proprietà che già Kant definiva come analitiche (analitico essendo quel giudizio a priori in cui il concetto che funge da predicato si può ricavare dalla definizione del soggetto). Proprietà analitiche di cane sarebbero allora essere «animale», «mammifero» e «canide» (in base alle quali un cane è distinguibile da un gatto e pertanto è logicamente scorretto e semanticamente improprio asserire di un essere che è un cane ma non è un animale). Questa definizione non assegna al cane le proprietà di abbaiare o di essere domestici (non necessarie

perché possono esserci cani incapaci di abbaiare e ostili all’uomo), proprietà che farebbero parte non della conoscenza di una lingua ma di una conoscenza del mondo e sarebbero pertanto materia di enciclopedia. In tal senso il dizionario e l’enciclopedia semiotici non sono direttamente equiparabili ai dizionari ed enciclopedie detti «in carne e ossa», e cioè ai prodotti editoriali di tale nome. Infatti, di solito i dizionari in carne e ossa non sono fatti a dizionario: per es. un vocabolario comune può definire il gatto come mammifero felino, ma di solito aggiunge specificazioni di carattere enciclopedico che riguardano il pelo, la forma degli occhi, i costumi o altro. Tuttavia è stato proprio ai prodotti editoriali che i modelli semiotici si sono ispirati e occorre partire dalla storia dei primi per comprendere i secondi. Il termine enciclopedia viene da ejgkukliopaideiv a , che nella tradizione greca significava un’educazione completa. ÆEgkuvklio" non significa tanto, come si suole ora tradurre, educazione circolare, nel senso di armonicamente completa, in quanto ejgkuvklio" significa «nel circolo». Aristotele, nell’Etica Nicomachea e in De coelo usa questo aggettivo per dire «usuale, ordinario», nel senso di «ricorrente». Ma secondo alcuni l’aggettivo si riferisce alla forma del coro: imparare a cantare certi inni era parte essenziale dell’educazione di un ragazzo, e pertanto ejgkuvklio" vorrebbe dire «la forma di educazione che un ragazzo dovrebbe aver ricevuto». E infatti in tal senso lo interpretano Vitruvio (De architectura, VI) come «doctrinarum omnium disciplina», e Quintiliano in Institutio oratoria (I, 10). Però nell’antichità classica non appare il termine di enciclopedia, cha fa invece la sua apparizione nel XVI secolo, prima in altra forma in Fleming Joachim Stergk, Lucubrationes vel potius absolutissima kuklopaideia (Basileæ 1529), e poi nel The Boke named The Governour (London 1531) di Sir Thomas Elyot, che nel capitolo XIII, su alcune ragioni della decadenza dell’educazione tra i gentiluomini inglesi, cita l’enciclopedia come e totalità del sapere, ovvero «the worlde of science», o «the circle of doctrine». Questa stessa totalità del sapere come educazione completa viene descritta nel libro II del Gargantua et Pantagruel di Rabelais (Lyon 1532), ed esplicitamente nominata nel capitolo 20 dello stesso libro, quando Thaumastes loda la cultura del giovane Pantagruel e dice: «Mi ha dischiuso il vero pozzo e 3377

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Enciclopedia / dizionario l’abisso dell’Enciclopedia». Nel 1536 ritroviamo il termine nel De Disciplinis in Ludovico Vives, dove egli chiama enciclopedia le varie cose che l’educando deve conoscere, con esplicito riferimento a Plinio e ad altri enciclopedisti classici. Come parte del titolo di un libro la parola appare poi in Paul Skalic de Lika, Encyclopediae seu orbis disciplinarum tam sacrarum quam profanarum epistemon (Basileæ 1559). Non ci sono enciclopedie greche. I greci sono più interessati a costituire un nuovo sapere che a sintetizzare quello precedente. Certamente l’opera di Aristotele è un’enciclopedia che spazia dalla logica all’astronomia, dallo studio degli animali alla psicologia, però non si presenta come collezione di un sapere compartecipato bensì come nuova proposta. Il mondo ellenistico assegna la funzione che i romani e i medievali assegneranno all’enciclopedia non a un volume che parla di tutte le cose ma a una raccolta di tutti i volumi esistenti, la biblioteca, e a una raccolta di tutte le cose possibili, il museo. Museo e libreria (circa 700.000 volumi) furono costituiti ad Alessandria da Tolomeo I, ed erano il nucleo di una vera e propria università, centro di raccolta, di ricerca e di trasmissione del sapere. L’atteggiamento enciclopedico si sviluppa in ambiente romano dove si raccoglie tutto il sapere greco, come in un’operazione di appropriazione del patrimonio di quella Graecia capta che ferum victorem cepit. Un primo esempio è quello del Rerum divinarum et humanarum antiquitates di Varrone (I secolo a. C.), di cui ci sono rimasti solo frammenti, e che si occupava di storia, grammatica, matematica, filosofia, astronomia, geografia, agricoltura, diritto, retorica, arti, letteratura, biografia di grandi uomini greci e romani, storia degli dei. Ci sono invece pervenuti i 37 libri della Historia Naturalis di Plinio il Vecchio (I secolo d. C., circa 20.000 fatti citati e 500 autori consultati), dedicati a cielo e universo in generale, le varie terre del mondo, parti prodigiosi e sepolture, animali terrestri, animali acquatici, uccelli, insetti, vegetali, medicine tratte da vegetali e animali, metalli, pittura, pietre e gemme. Apparentemente questa enciclopedia manca di struttura, ma in effetti Plinio parte dai cieli, poi si occupa di geografia, demografia ed etnografia, quindi di antropologia e fisiologia umana, di zoologia, botanica, agricoltura, giardinaggio, farmacopea naturale, medicina e magia, 3378

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per poi passare a mineralogia, architettura e arti plastiche – istituendo una sorta di gerarchia dall’originale al derivato, dal naturale all’artificiale. Plinio non parla di cose conosciute per esperienza bensì per tradizione, e non c’è in lui il minimo sforzo di sceverare le informazioni attendibili da quelle leggendarie (egli dà uguale spazio al coccodrillo e al basilisco). Questo punto è molto importante anche per definire l’enciclopedia come modello teorico: l’enciclopedia non intende registrare ciò che realmente c’è, ma ciò che la gente tradizionalmente ritiene che ci sia – e pertanto tutto ciò che una persona educata dovrebbe sapere, non solo per conoscere il mondo ma anche per comprendere i discorsi sul mondo. Le enciclopedie medievali hanno invece un’altra origine. Agostino si pone il problema della retta interpretazione delle Scritture e considera non solo i segni prodotti dall’uomo per significare intenzionalmente e i fenomeni naturali che possono essere interpretati come segni (De doctrina Christiana, II.1.1) ma anche, poiché la Scrittura non parla solo in verbis, ma anche in factis (ibi, II.10.15), cose ed eventi della storia sacra che sono stati soprannaturalmente disposti affinché fossero letti come segni. Egli insegna a dirimere la questione se un segno debba essere inteso in senso proprio o in senso traslato (aliud dicitur et aliud significatur), e dice che dobbiamo subodorare il senso figurato ogni qual volta la Scrittura, anche se parla di cose che letteralmente hanno senso, pare contraddire le verità di fede o i buoni costumi, oppure si perde in superfluitates e mette in gioco espressioni letteralmente povere (nomi propri, numeri e termini tecnici, descrizioni insistite di fiori, prodigi di natura, pietre, vestimenti o cerimonie, oggetti o eventi irrilevanti dal punto di vista spirituale). Per interpretare il senso traslato di questi fatti bisogna ricorrere a una conoscenza enciclopedica. Su questa base si organizzano le enciclopedie medievali che si distinguono da quella romana perché non sono tanto interessate a spiegare come capire il mondo quanto come capire i testi sacri. Per fare un solo esempio, Bartolomeo Anglico (De proprietatibus rerum, XIII secolo) dirà che egli parla della natura delle cose «ad intelligenda enigmata scripturarum, que sub symbolis et figuris proprietatum rerum naturalium et artificialium a Spiritu Sancto sunt tradita et velata».

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La prima enciclopedia di questo tipo è peraltro anteriore ad Agostino: è il primo bestiario «moralizzato», il Physiologus, un’opera in greco di autore anonimo composta nel II o III secolo d. C., anche se le prime traduzioni latine, che tra l’altro arricchiscono sempre più il testo, appaiono solo verso il VII secolo. Quest’operetta trae da Plinio e da altri autori antichi (come il Polyhistor di Solino, o il Romanzo di Alessandro) le notizie sui vari animali, ma alla descrizione di ciascuno aggiunge un’interpretazione allegorica o morale. Si descrivono per esempio forma e comportamenti della vipera per mostrare come essa sia figura dei farisei oppure, nel dire che il riccio si arrampica sulla vite e va dove c’è l’uva, getta per terra i chicchi e vi si rotola sopra, i chicchi si conficcano nei suoi aculei ed esso li porta ai figli lasciando il tralcio spoglio, si intende rappresentare il fedele che deve rimanere aggrappato alla vite spirituale senza permettere che lo spirito del male vi si arrampichi e lo renda spoglio di ogni grappolo. Sul modello del Physiologus saranno, tranne poche eccezioni, bestiari, erbari e lapidari medievali, e le varie imagines mundi, dalle Etimologie di Isidoro di Siviglia (Etymologiarum sive originum libri, VII secolo), al Liber monstruorum scritto tra VI e VIII secolo, ai vari bestiari ed enciclopedie del XII secolo, a L’Acerba di Cecco d’Ascoli (XIII secolo). Tutti partiranno da Plinio e ciascuno da quelli che l’hanno preceduto, offrendo quindi un repertorio di informazioni abbastanza ripetitivo. Sembra che le enciclopedie medievali abbiano criteri classificatori assai vaghi (perché Isidoro parla del coccodrillo tra i pesci? solo perché sta nell’acqua?) e che pertanto rappresentino un mero cumulo di informazioni sconnesse. Tuttavia il solo esempio di cumulo quasi casuale è dato dal Physiologus, dato che gli animali che esso elenca (leone, lucertola solare, pellicano, nottola, aquila, fenice, upupa, vipera, formica, sirene, riccio, volpe, pantera, balena eccetera) sembrano essere scelti a caso. Evidentemente questo bestiario era interessato solo agli animali a cui la tradizione aveva assegnato proprietà che permettessero un’interpretazione allegorica o morale. Però se si esaminano meglio gli indici di molte enciclopedie medievali si vede che la cumulatività casuale è solo apparente. Isidoro considera le sette arti liberali, grammatica, retorica, dialettica, musica, aritmetica, geometria, astronomia, e poi medicina, le leggi, i libri e gli uffici ecclesiastici, le lin-

Enciclopedia / dizionario gue le genti e gli eserciti, i vocaboli, l’uomo, gli animali, il mondo, gli edifici, le pietre e i metalli, l’agricoltura, le guerre, giochi, teatro, navi, edifici, vesti, casa e lavori domestici – e ci si chiede quale ordine sia sotteso a questo elenco, dove per esempio la parte sugli animali si divide in «Bestie», «Animali Piccoli», «Serpenti», «Vermi», «Pesci», «Uccelli e Piccoli Animali Alati». Ma già ai tempi di Isidoro l’educazione primaria si articolava in Trivio e Quadrivio, e infatti Isidoro dedica i primi libri a questi argomenti, inserendovi anche la medicina. I capitoli che seguono, dedicati alle leggi e agli uffici ecclesiastici, sono presenti per il fatto che egli scriveva anche per dotti, giureconsulti e monaci. Subito dopo appare un altro ordine: si parte col libro VII da Dio, gli angeli e i santi per passare agli uomini, quindi agli animali e dal libro XIII si passa a considerare il mondo e le sue parti, venti, acque, montagne. Infine col libro XV si arriva alle cose inanimate ma artificiali e cioè alle varie arti. Sia pure giustapponendo sincretisticamente due criteri, Isidoro non accumula a caso e nella seconda parte segue un ordine di dignità decrescente, da Dio agli strumenti domestici. Anche il De rerum naturis di Rabano Mauro sembra ispirato a un ordine casuale, ma di fatto giustappone vari ordini tradizionali: inizia secondo l’ordine della dignità delle creature, per cui si parte da Dio per passare agli uomini, agli animali e quindi alle cose inanimate, per poi arrivare alle cose artificiali come gli edifici, poi si parla delle varie arti, probabilmente nell’ordine in cui venivano insegnate nella scuola palatina carolingia, quindi dalle arti si passa ai filosofi, alle lingue, alle gemme, ai pesi e alle misure, alla cultura dei campi, alle cose militari, ai giochi e al teatro, alla pittura e ai colori e a vari strumenti dalla cucina ai campi. Nel XIII secolo Bartolomeo Anglico nel suo De proprietatibus rerum inizia con un ordine misto, sia secondo dignità (dagli angeli agli uomini) sia secondo i sei giorni della creazione (ordine examerale) poi torna indietro e riparte secondo un ordine che sembra bizzarro a noi, ma evidentemente non lo era per lui, perché egli spiega che, dopo aver parlato del mondo invisibile e dell’uomo, completata la trattazione sulla creazione del mondo e del tempo, si deve parlare delle cose inferiori e delle creature materiali. Ed ecco dunque che si susseguono le trattazioni su aria, uccelli, acque, monti e regioni, pietre, erbe e animali, e infine vari accidenti come sen3379

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Enciclopedia / dizionario si, colori, suoni, odori, pesi e misure, liquidi. Bartolomeo sta attenendosi a un ordine filosofico di origine aristotelica, in quanto prima parla delle sostanze e poi degli accidenti. Peraltro i lettori medievali dovevano avvertire un ordine là dove a noi appare soltanto un accumulo di notizie perché, come spiegherà Ugo di san Vittore (Didascalicon, XII secolo), l’organizzazione di un’enciclopedia aveva funzione mnemonica: un dato ordine delle cose serviva a ricordarle, a ricordare il posto che esse assumevano nell’immagine del mondo. In ogni caso, come in Plinio, le enciclopedie medievali raccoglievano tutti i dati, prendendo per buona ogni notizia che fosse stata tramandata, registrando tutto ciò che i destinatari erano presunti sapere. Se per capire un messaggio mistico era necessario conoscere le proprietà dell’unicorno, era irrilevante per l’autore medievale che l’unicorno (alla cui esistenza peraltro egli credeva fermamente) fosse o meno leggendario. Gradatamente le enciclopedie tendono a rendere più evidente l’ordine che le governa: nel XIII secolo, lo Speculum Majus di Vincenzo di Beauvais, coi suoi 80 libri divisi in 9885 capitoli, ha già l’organizzazione di una summa scolastica. Lo Speculum naturale è ispirato a un criterio rigorosamente examerale (il creatore, il mondo sensibile, la luce, il firmamento e i cieli, e così via, per arrivare agli animali, alla formazione del corpo umano e alla storia dell’uomo). Lo Speculum Dottrinale si occupa del mondo umano e comprende le lettere (filosofia, grammatica, logica, retorica, poetica), la morale, la meccanica e le tecniche. Mentre lo Speculum morale rappresenta una sorta di parentesi di carattere etico, lo Speculum historiale si occupa della storia umana ovvero della storia della salvezza e ha una struttura cronologica. L’ordine assume una funzione preponderante, tra XIII e XIV secolo, con gli alberi della scienza di Raimundo Lullo che contemplano un Arbor elementalis (oggetti del mondo sublunare composti dei quattro elementi, fuoco, aria, acqua e terra, con pietre, alberi, animali), Arbor vegetalis, arbor sensualis, arbor imaginalis (le immagini mentali che sono le similitudini delle cose rappresentate negli altri alberi), Arbor humanalis (memoria, intelletto, volontà e le varie scienze e arti), Arbor moralis (virtu e vizi), Arbor imperialis (governo), Arbor apostolicalis (la chiesa), Arbor caelestialis (astrologia e astronomia), Arbor angelicalis (angelologia), 3380

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Arbor aeviternitalis (i regni dell’oltretomba), Arbor maternalis (mariologia), Arbor christianalis (cristologia), Arbor divinalis (degnità divine), Arbor exemplificalis (i contenuti del sapere), Arbor quaestionalis (quattromila quesiti sulle varie arti). Con l’umanesimo e il Rinascimento può accadere che ci si ponga solo il problema dell’ordine, senza arrivare a «riempire» i tasselli di un indice arborescente, come accade nel 1491 con Poliziano che propone il suo Panepistemon come un indice rigorosamente strutturato sotto l’egida di una Filosofia quale mater artium; progetto che troviamo ripreso anche nella Margarita philosophica di Gregor Reisch (Basileæ 1503), dove però l’indice (che appare come schema iniziale, a orientare la consultazione) dà origine a seicento pagine di notizie. Sotto un’influenza lulliana, le Dialecticae Institutiones (Parisiis 1543) e la Dialectique (Paris 1555) di Pierre de la Ramée (Pietro Ramo) propongono un metodo rigoroso per enumerare in ordine, senza ripetizioni od omissioni, tutte le parti del sapere – e il progetto verrà ripreso nella Encyclopaedia septem tomis distinta di Johann Heinrich Alsted (Herbornae Nassoviorum 1620). Qui, partendo da una serie di Praecognita disciplinarum, si passa agli strumenti di indagine (lexica, grammatica, retorica, logica, oratoria e poetica) per affrontare i temi delle maggiori questioni della cosiddetta «Filosofia teoretica» (metafisica, pneumatica, fisica, aritmetica, geometria, cosmografia, uranometria, geografia, ottica, musica), e quindi della «Filosofia pratica» (etica, economica, politica, scolastica), per passare alla teologia, alla giurisprudenza, alla medicina, alle arti meccaniche e a una serie di discipline non meglio organizzate (farragines disciplinarum) come mnemonica, storia, cronologia, architettonica, sino a questioni come eutanasia, ginnastica, tabaccologia. Su ispirazione alstediana nel 1587 Christophe de Savigny presenta un Tableaux accomplis de tous les arts libéraux, dove i rapporti tra discipline sono visti non più secondo una struttura arborescente e fortemente gerarchizzata, ma secondo un primo accenno di struttura a rete. In questo clima culturale si fa strada il progetto di una «Pansofia», forma di sapienza universale che comprendesse l’intera enciclopedia del sapere, prefigurato nei cosiddetti «Teatri del Mondo», architetture ideali che mirano a costituire una silloge di ogni cosa memorabile, a metà strada tra una mnemotecnica

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e un’enciclopedia, di cui il modello più celebre, anche se mai effettivamente realizzato, è quello prefigurato ne L’Idea del theatro di Giulio Camillo (Fiorenza 1550). In periodo barocco il grande apostolo della pansofia è Jan Amos Komenský (Comenio) il quale, mirando a una riforma generale della società e studiando nuovissime forme pedagogiche, in Didactica magna (Amstelodami 1657, tr. lat. dello stesso Comenius della precedente Ceská didaktika del 1628) e in Janua linguarum (Londini 1631), nel preoccuparsi che il discente avesse una apprensione immediatamente visiva delle cose che apprendeva, cerca di raggruppare le nozioni elementari secondo una logica delle idee (creazione del mondo, elementi, regni minerale, vegetale ed animale, nell’Orbis sensualium pictus quadrilinguis (Leutschoviae 1658) elabora una nomenclatura figurata di tutte le cose fondamentali del mondo e delle azioni umane, e in Via lucis (Amsterodami 1668), propone una «lingua perfetta» universale, la «Panglossia» (che peraltro non elaborerà mai in modo definitivo) e progetta un lessico che rispecchi la composizione del reale. Tutti questi progetti enciclopedici si sviluppano in particolare nel mondo protestante, come aspirazione a una ricomposizione della frattura religiosa e politica conseguita allo scisma di Occidente attraverso una riorganizzazione universale del sapere. Se sin da Ramo si inizia a concepire una enciclopedia che possa considerare anche la costituzione di discipline non ancora note e definite, è solo con Francis Bacon che si fa strada l’idea di una enciclopedia basata su dati derivati dall’esperienza scientifica e su una critica delle false opinioni del passato (gli idola), regesto aperto e in continuo sviluppo. Nel Novum Organum baconiano (London 1620) appare un’appendice intitolata Parasceve ad historiam naturalem et experimentalem dove, dopo aver chiarito che si tratta di evitare il ricorso all’autorità degli antichi per evitare informazioni dubbie, si traccia un indice ideale che contempla, secondo un ordine abbastanza logico, corpi celesti, fenomeni atmosferici, terra, i quattro elementi, le specie naturali (minerali, vegetali e animali), l’uomo, le malattie e le medicine, le arti, ivi comprese la culinaria, l’ippica e i giochi – e d’altra parte un museo enciclopedico è la «casa di Salomone» vagheggiata nel New Atlantis (London 1627). Per comprendere come, in opposizione all’idea di enciclopedia, nasca un’idea di dizio-

Enciclopedia / dizionario nario, occorre fare un passo indietro ed esaminare il primo modello di dizionario che ancora oggi viene preso come punto di riferimento da molte discussioni contemporanee sulla rappresentazione del significato. Si tratta dall’Arbor Porphyriana. Nelle Categorie e nei Secondi analitici (An. post., 90 b, 30) Aristotele stabiliva che ogni espressione definitoria doveva tendere a circoscrivere l’essenza in modo che il definiens fosse coestensivo al definiendum. Per definire bisogna ricorrere ai predicabili (cfr. Top., I, 101 b, 17-24), come genere, proprio, definizione e accidente. Nel III secolo d. C. il neoplatonico Porfirio riprenderà questi problemi nella sua Isagoge, un commento alle Categorie che costituirà per tutto il Medioevo, e anche oltre, un testo di riferimento costante. Porfirio aggiungerà ai predicabili di Aristotele anche la specie e delineerà una teoria della definizione in base alla quale, dalla sostanza, in sé indefinibile, si passa agli individui attraverso una gerarchia di generi e specie, ogni specie essendo il genere della specie successiva e ogni genere essendo la specie del genere sovraordinato. Se si limitasse a questi criteri, l’albero porfiriano sarebbe di questo tipo:

Questo tipo di incassamento permette certamente di definire la specie uomo come animale e vivente, ma non permette di distinguere l’uomo da qualsiasi altro animale. Per questo Aristotele aveva stabilito che la definizione di una specie dovesse comprendere anche la differenza specifica – un accidente del tutto particolare che serve a distinguere in modo non equivocabile una data specie di un genere da tutte le altre specie dello stesso genere. Pertanto nella sua forma canonica l’Arbor Porphyriana assume questa struttura, dove le determinazioni laterali costituiscono la differenza specifica che, ad esempio, dato il genere «animale razionale», si fa seguire «mortale» per costituire la specie uomo in quanto animale razionale mortale (si noti che il dio di questa classificazione 3381

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Enciclopedia / dizionario non è per Porfirio il Dio cristiano ma una divinità pagana di cui è possibile predicare animalità, in quanto vivente e sensitivo):

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Si dovrebbe dire che, dal punto di vista odierno di una distinzione tra dizionario ed enciclopedia, l’albero di Porfirio inserisce con le differenze delle proprietà enciclopediche (essere

sensitivo, animato, razionale o mortale sono accidenti rilevabili in termini di conoscenza del mondo ed è in base al comportamento di un essere che si comprende se è animato o razionale, se cioè esprime capacità raziocinative attraverso il linguaggio), ma in ogni caso le sue finalità sono quelle di un dizionario, dove le differenze sono condizioni necessarie e sufficienti per distinguere un essere da un altro e rendere il definiens coestensivo al definiendum, così che, «se animale razionale mortale, allora necessariamente uomo», e viceversa. Tuttavia, nella sua forma canonica, questo albero distingue in modo logicamente soddisfacente dio dall’uomo ma non, poniamo, l’uomo dal cavallo. Se si dovesse definire il cavallo, l’albero dovrebbe essere arricchito da disgiunzioni successive: per esempio si dovrebbe dividere gli animali in mortali e immortali, e la specie sottostante degli animali mortali in razionali (uomini) e irrazionali (cavalli – anche se sfortunatamente questa suddivisione non permette di definire asini, gatti o cani). Ma a questo punto non si potrebbe reintrodurre nell’albero il dio. La sola soluzione sarebbe quella di porre due volte (almeno) la stessa differenza sotto due generi diversi:

Ora, che la stessa differenza possa ricorrere due volte sotto due generi diversi (purché non subordinati) lo ammetteva anche Aristotele in Topici (I, 6, 144 b): «L’animale terrestre e l’animale volatile sono infatti generi non contenuti l’uno nell’altro, eppure la nozione di bipede è differenza di entrambi». Ma se la stessa differenza può ricorrere più volte viene compromessa la finitezza e la purezza logica dell’albero, che può esplodere in un pulviscolo di differenze. Anzi, se si considera che le specie sono una congiunzione di genere e differenza, e il genere superiore è a propria volta congiunzione di altro genere più differenza (e pertanto generi e specie sono astrazioni, finzioni intellettuali che servono a riassumere diverse organizzazioni di differenze, ovvero di accidenti), la

soluzione più logica sarebbe che l’albero fosse costituito da sole differenze, proprietà che possono articolarsi in alberi diversi a seconda delle cose da definire, e abolendo la distinzione tra sostanze e accidenti. Ora un reticolo di sole differenze che possono essere organizzate in modi diversi (e secondo gerarchie diverse a seconda dei contesti) è appunto quello che si definisce come modello a enciclopedia. Infatti Boezio in De divisione (VI, 7) suggeriva che sostanze come la perla, l’ebano, il latte e alcuni accidenti come bianco e liquido, possano dare origine ad alberi alternativi. In uno, per esempio, dato un genere «cose liquide», di cui sarebbero differenze «bianco/nero», avremmo le due specie del «latte» e dell’«inchiostro»; nell’altro il genere «cose bianche», attraverso

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la differenza «liquido/duro», genererebbe le due specie del «latte» e della «perla». Come si vede in queste differenti organizzazioni definizionali non solo generi e specie, ma anche generi/specie e differenze scambierebbero la loro funzione a seconda del contesto. D’altro canto Aristotele (interessato a definire non solo le sostanze ma anche gli accidenti) nell’asserire (An. post., I, 83 a,15) che le definizioni debbono attenersi a un numero di determinazioni che sia finito, in serie tanto ascendente che discendente, non sembra affatto suggerire che il loro numero e la loro funzione siano già stabiliti da una struttura categoriale precedente. Infatti nelle sue varie ricerche su fenomeni naturali, dall’eclisse alla definizione dei ruminanti, egli mostra molta flessibilità nel costituire suddivisioni e suggerire alberi dove generi, specie e differenze si scambiano di ruolo a seconda del problema che si intende risolvere. Questa flessibilità è dovuta al fatto che, quando affronta fenomeni concreti, il filosofo intende definirli, mentre un albero a gerarchia fissa e con un numero di determinazioni finite serve solo a classificare. Un semplice artificio classificatorio è quello che appunto incassa generi, specie e differenze senza spiegare la natura del definiendum. Questo modello è quello della tassonomia delle scienze naturali odierne dove per esempio si stabilisce che un cane appartiene al genere «canis», della famiglia dei «canidi», del subordine dei «fissipedi», dell’ordine dei «carnivori», della sottoclasse dei «placentalia», della classe «mammiferi». Però questa classificazione non ci dice (e non intende dire) né quali siano le proprietà del cane né come riconoscere un cane o riferirsi a cani. Infatti ogni nodo della classificazione è per così dire un puntatore che rinvia a un altro capitolo della zoologia dove si specificano le proprietà dei mammiferi, dei placentalia, dei carnivori, dei fissipedi e così via. Una classificazione è pertanto un modello di dizionario, che come tale non serve a definire un termine ma soltanto a permettere di usarlo in modo logicamente corretto. Posto che, poniamo, l’immaginaria specie dei «prissidi» sia classificata come appartenente al genere dei «prosidi» e i «prosidi» siano specie del genere «proceidi», non è necessario sapere che proprietà abbiano un proceide o un proside per poter trarre inferenze (verissime) del tipo: «se questo è un prisside allora è certamente un proside, e non

Enciclopedia / dizionario è possibile che qualcosa sia un prisside e non sia un procede». Questo problema si ripropone nell’Inghilterra del Seicento, intorno all’ambiente della Royal Society, quando nascono diversi progetti di lingua filosofica a priori (come A common Writing di Lodwick, The Universal Character di Beck, l’Ars signorum di Dalgarno, o lo Essay Toward a Real Character di Wilkins) in cui «caratteri» comprensibili a gente di lingua diversa, possano rappresentare una struttura globale del mondo. In questi sistemi si dibatte la possibilità di rappresentare i significati di ogni termine attraverso un sistema gerarchico di incassamenti da genere a specie (puntigliosamente esibito), ma nel contempo si vuole rendere conto della molteplicità non-irreggimentabile di nozioni di cui un parlante comune dispone. Limitiamoci al progetto di Wilkins (del 1668) che tra tutti appare come il più completo e articolato. Wilkins procede una sorta di colossale recensione del sapere e stabilisce una tavola di 40 generi maggiori per poi suddividerli in 251 differenze peculiari e derivarne 2030 specie (che si presentano in coppie). La tavola dei 40 generi parte da concetti generalissimi come «creatore» e «mondo» e, attraverso una divisione tra sostanze e accidenti, sostanze animate e inanimate, creature vegetative e sensitive, perviene a «pietre, metalli, alberi, uccelli», oppure accidenti come «grandezza, spazio, qualità sensibili, relazioni economiche». Più articolate sono le tavole che permettono di arrivare alle singole specie, dove Wilkins pretende di classificare, per esempio, anche bevande come la birra, in modo da rappresentare l’intero universo nozionale di un cittadino inglese del XVII secolo. Rispetto a questo sistema di idee (che Wilkins presume comuni a tutti gli uomini, peccando ovviamente di etnocentrismo) i «caratteri reali» che egli propone sono segni (che assumono sia una forma scritta, quasi geroglifica, sia una forma pronunciata) così che, come egli spiega, «Se De significa Elemento, allora Deb deve significare la prima differenza; la quale (secondo le Tavole) è Fuoco: e Deba denoterà la prima Specie, che è Fiamma». Com’è evidente questa mera classificazione non consente di riconoscere una fiamma, né di asserire che essa bruci. Anche arrivando alla definizione delle singole specie si hanno divisioni per cui, date le «bestie vivipare dotate di zampa», che si distinguono in «rapaci» e «non rapaci», tra i rapaci si hanno il 3383

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Enciclopedia / dizionario cat-kind e il dog-kind, quest’ultimo dividendosi in «europei» ed «esotici», gli europei in «anfibi» e «terrestri», i terrestri in «più grandi» (cane/lupo) e «più piccoli» (volpe/tasso). Non solo rimane impossibile distinguere il cane dal lupo ma anche l’informazione che i «caratteri» dell’alfabeto wilkinsiano trasmettono è soltanto che il cane (Zita nella lingua universale), è «primo membro della prima coppia specifica della quinta differenza del genere Bestie». È solo andando a leggere le densissime tavole enciclopediche che Wilkins fa seguire alle classificazioni che si apprende che i vivipari con le zampe hanno piedi con dita, i rapaci hanno usualmente sei incisivi aguzzi e due lunghe zanne per trattenere la preda, i dog-kind hanno la testa rotonda e per questo si distinguono dai cat-kind che l’hanno invece più oblunga, i più grandi tra i canidi si suddividono in «domestico-docili» e «selvaggi-ostili alle pecore»: e solo così si comprende la differenza tra cane e lupo. La lingua filosofica di Wilkins tassonomizza ma non definisce. Per definire, il sistema deve fare ricorso a una raccolta di informazioni espresse in linguaggio naturale che hanno appunto il formato di una enciclopedia Sin dal XVII secolo s’inizia a intravedere quale fosse il tarlo segreto che minava quei progetti e il primo ad avvertirlo è Leibniz. Leibniz a vent’anni scrive una Dissertatio de arte combinatoria (Lipsiae 1666) di esplicita ispirazione lulliana e perseguirà per tutta la vita l’ideale di una characteristica universalis, una lingua razionale, basata su un numero ridotto di primitivi e regole logiche, che permetta ai saggi di sedere intorno a un tavolo e pervenire alla verità all’insegna di un «calculemus». Ma si convince ben presto che non c’è alcuna certezza che i termini primitivi cui si perviene non siano ulteriormente scomponibili e che al massimo essi possono essere postulati come tali per la comodità del calcolo. In effetti egli è maggiormente interessato alla forma delle proposizioni che il calcolo può generare che non ai significati dei termini. Egli paragona infatti la sua characteristica a un’algebra che possa esercitarsi, con rigore quantitativo, su nozioni qualitative. La characteristica, come l’algebra, dovrebbe essere una forma di «pensiero cieco» (cogitatio caeca) che permetta di condurre calcoli, pervenendo a risultati esatti, su simboli del cui significato non si riesce ad avere una idea chiara e distinta. Così facendo Leibniz ha dato avvio agli sviluppi di una logica formale dove i 3384

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simboli non stanno al posto di un’idea ma invece di essa. Quando poi pensa in termini di recensione del sapere universale Leibniz assume una posizione nettamente diversa, e in vari scritti paragona un’enciclopedia a una biblioteca come inventario generale di tutte le conoscenze. Nel Consilium de Encyclopaedia nova conscribenda methodo inventoria del 1679 propone un’enciclopedia che consideri grammatica razionale, logica, arti della memoria, matematica universale e sue applicazioni tecniche (geodesia, architettura, ottica), meccanica, scienza delle proprietà fisiche e chimiche dei corpi, cosmografia, mineralogia, botanica e agronomia, biologia e medicina animale, morale, geopolitica e teologia naturale. Ma l’enciclopedia deve rimanere, come per Bacon, aperta: il suo ordine sarà scoperto a mano a mano che la scienza progredisce, ed essa deve comprendere anche le conoscenze non scritte che si trovano disperse tra uomini di diverse professioni. In Nouveaux essais sur l’entendement humain del 1703 si ricorda che essa dovrebbe avere «molti rinvii da un luogo all’altro, dato che la maggior parte delle cose può essere vista da diverse prospettive, e una verità può avere collocazioni diverse secondo i suoi diversi rapporti: coloro che sistemano una Biblioteca non sanno sovente dove porre certi libri, rimanendo indecisi tra due o tre collocazioni egualmente convenienti». Leibniz sta pensando a un’enciclopedia che diremmo polidimensionale, dove si stabiliscono interconnessioni multiple e trasversali. In effetti Leibniz anticipa il progetto che sarà poi teorizzato da D’Alembert a inizio dell’Encyclopédie ed è su suggestioni leibniziane che con l’illuminismo si delineano i presupposti per una critica a qualsiasi tentativo di fondare un sistema a priori delle idee. L’enciclopedia illuminista si vuole critica e scientifica: non rinuncia a registrare tutte le credenze, anche quelle ritenute erronee, ma le denuncia come tali (si veda per esempio la voce «Licorne», che sembra descrivere l’animale secondo la tradizione, ma sottolineandone la natura leggendaria), e sul modello di quelle antiche intende rendere ragione di tutti i saperi umani, anche quelli popolari connessi alle arti e ai mestieri. Si regge su una classificazione preliminare dei saperi ma essendo in ordine alfabetico non la rivela, se non in un piano iniziale. In effetti nelle pagine introduttive, dovute a D’Alembert, si dice che «il sistema generale

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delle scienze e delle arti è una specie di labirinto, di cammino tortuoso che lo spirito affronta senza troppo conoscere la strada da seguire. [...] Questo disordine, per quanto filosofico per la mente, sfigurerebbe, o almeno annienterebbe del tutto un albero enciclopedico nel quale lo si volesse rappresentare. [...] Il sistema delle nostre conoscenze è composto di diverse branche, di cui molte hanno uno stesso punto di riunione; e poiché partendo da questo punto non è possibile imboccare contemporaneamente tutte le vie, la determinazione della scelta risale alla natura dei diversi spiriti». Peraltro l’enciclopedia tende a riunire queste conoscenze nel più breve spazio possibile, e nel porre, per così dire, il filosofo al di sopra di questo vasto labirinto, in un punto di vista molto elevato da dove gli sia possibile scorgere contemporaneamente le scienze e le arti principali; vedere con un sol colpo d’occhio gli oggetti delle sue speculazioni e le operazioni che può fare su questi oggetti; distinguere le branche generali delle conoscenze umane, i punti che le separano o le accomunano, e intravedere persino, a volte, le vie segrete che le riuniscono. Essa è come una specie di mappamondo dove gli oggetti sono più o meno ravvicinati e presentano diversi aspetti secondo la prospetttiva scelta dal geografo. Si possono dunque immaginare tanti diversi sistemi della conoscenza umana quanti sono i mappamondi che si possono costruire secondo diverse proiezioni, e «spesso un oggetto, posto in una certa classe a causa di una o più delle sue proprietà, rientra in un’altre classe per certe altre proprietà». L’immagine del mappamondo, su cui è possibile disegnare di-

versi percorsi e raccordi, ci farebbe pensare oggi a una rete ferroviaria (che è poi una delle incarnazioni moderne del labirinto), ed è in effetti è sul modello della rete che si sono sviluppate le teorie contemporanee del modello enciclopedico. Un ritorno al modello del dizionario si ha nella linguistica della seconda metà del XX secolo, quando appaiono i primi tentativi di postulare o riconoscere, per l’ordine dei contenuti che possono essere espressi dai termini e dagli enunciati di una lingua naturale, un sistema finito di figure che possegga le stesse caratteristiche di un sistema fonologico (basato su un numero limitato di fonemi e sulle loro opposizioni sistematiche). Si è così postulata una semantica a tratti (atomi semantici o primitivi) che intende stabilire condizioni necessarie e sufficienti per la definizione del significato, a esclusione della conoscenza del mondo. In tal senso è necessario che perché qualcosa sia gatto abbia un tratto «animale», ma non che sia capace di miagolare. Questi tratti necessari e sufficienti sarebbero «marche» dizionariali. Tale concezione era stata anticipata da Louis Hjelmslev (Omkring sprogteoriens grundlæggelse, in Festskrift udgivet af Københavns universitet i anledning af universitetets årsfest november 1943, København 1943, pp. 5-112, tr. ingl. di F.J. Whitfield, Prolegomena to a Theory of Language, Ann Arbor [Michigan] 1959; tr. it. di G.C. Lepschy, I fondamenti della teoria del linguaggio, Torino 1968) quando proponeva di analizzare i concetti corrispondenti a dodici termini attraverso sei primitivi semantici, e considerando l’opposizione maschio/femmina, in tal modo:

Questa tipica rappresentazione a dizionario consentirebbero di risolvere i seguenti problemi: sinonimia e parafrasi (una pecora è un ovino femmina); similarità e differenza (ci sono tratti in comune tra pecora e giumenta, o tra giumenta e stallone, mentre si può stabilire in base a quali altri tratti essi si distinguono); antonimia (stallone è antonimo di giumenta); iponimia e iperonimia (equino è l’iperonimo di cui stallone è l’iponimo); sensatezza e anomalia se-

mantica (gli stalloni sono maschi è dotato di senso mentre uno stallone femmina è semanticamente anomalo ); ridondanza (stallone maschio è ridondante); ambiguità (il fatto che un toro sia un bovino esclude i sensi del termine omonimo che rinvia a una figura della topologia); verità analitica (gli stalloni sono maschi è analiticamente vero, perché la definizione del soggetto contiene il predicato); contraddittorietà (non ci sono giumente maschi); sinteticità (che 3385

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Enciclopedia / dizionario le pecore producano lana non dipende dal dizionario bensì dalla conoscenza del mondo); inconsistenza (questa è una pecora e questo è un montone non possono essere egualmente veri se riferiti allo stesso individuo); contenimento e implicitazione semantica (se montone allora ovino). Se tuttavia «ovino» o «equino» fossero primitivi, essi servirebbero a definire solo una porzione molto ristretta di termini concernenti parte del regno animale. Quanti tratti sarebbero necessari per definire tutti i termini di un qualsiasi lessico? E come definire un tratto «primitivo»? Si è detto che i primitivi sono idee innate di stampo platonico, ma neppure Platone è riuscito a stabilire in modo soddisfacente quali e quante siano le idee universali innate (o c’è una idea per ogni genere naturale, come la cavallinità, e allora la lista è aperta, o ci sono poche idee molto più astratte, come l’«uno», i «molti», il «bene», i concetti matematici, che non bastano a distinguere il significato dei termini lessicali). Si è detto che i primitivi sono elementi di un insieme tale che, per virtù della relazione sistematica tra i suoi termini, esso non possa che essere finito: ma questo sarebbe un albero di Porfirio semplificato ovvero un albero di generi e specie buono solo per la classificazione. È difficile stabilire la primitività distinguendo tra proprietà analitiche e proprietà sintetiche, da che la distinzione è stata severamente criticata da Quine, anche perché la nozione di analiticità è del tutto circolare (se è analitica una proprietà contenuta nella definizione di un termine essa non può essere criterio per stabilire la appropriatezza di una definizione di dizionario). È anche escluso che la differenza sia posta tra proprietà necessarie e contingenti, perché se fosse necessario che un gatto sia mammifero e contingente che miagoli, allora «necessario» altro non vorrebbe dire che «analitico». Si è proposto che un requisito per un pacchetto di primitivi sia la finitezza (i primitivi dovrebbero essere in numero limitato, visto che sarebbe antieconomico avere tanti primitivi quanto i lemmi da definire) ma è proprio il regesto di questo numero finito di atomi semantici che si è rivelato sinora problematico. Si è suggerito che i primitivi siano concetti semplici, ma è difficile definire un concetto semplice (sembra più semplice e immediato il concetto di topo che non quello di mammifero, ed è più semplice definire termini come infarto che verbi come fare). Si è suggeri3386

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to che essi dipendano dalla nostra esperienza del mondo, ovvero che vi siano (come suggeriva Russell) «parole-oggetto» il cui significato noi apprendiamo direttamente per ostensione, e «parole di dizionario» che possono essere definite attraverso altre parole di dizionario – ma Russell è stato il primo a riconoscere che pentagramma sia per la maggioranza dei parlanti una parola di dizionario, mentre sarebbe una parola-oggetto per un bambino cresciuto in una stanza la cui tappezzeria riproduce dei pentagrammi. Si è proposto il requisito dell’adeguatezza (i primitivi dovrebbero servire a definire tutte le parole) ma, se si considerano come primitivi sufficienti a definire il concetto di scapolo tratti come «umano maschio adulto non sposato», perché pare inadeguato chiamare scapolo il Papa, un omosessuale, un vedovo o un enuco? Occorrerebbe aggiungere altre costrizioni (per es., uno scapolo è un umano adulto non sposato che non abbia fatto voto di castità), ed ecco che avremmo introdotto nella definizione elementi enciclopedici. Si sono proposti i requisiti della indipendenza (i primitivi non devono dipendere per la loro definizione da altri primitivi) e della non ulteriore interpretabilità, ma neppure «umano» sembra essere non ulteriormente definibile se si considera tutto il dibattito su aborto e clonazione che si svolge proprio intorno alla definizione di essere umano. In realtà in un lessico ogni termine è potenzialmente interpretabile attraverso altri termini dello stesso lessico, o altri artifici semiotici, secondo il criterio di interpretanza e semiosi illimitata stabilito da Ch.S. Peirce. Infine, se i primitivi sono radicati nel nostro modo di pensare, si è suggerito il criterio della universalità. Certamente è possibile che siano universali certe esperienze legate al nostro corpo, come sopra/sotto, mangiare/dormire, nascere/morire, ma anzitutto non è pensabile che attraverso queste idee si possano definire tutti gli oggetti ed eventi dell’universo, e in secondo luogo universale non significa primitivo, dato che un concetto universale come morire richiede di essere ulteriormente definito, come mostra il dibattito sull’ostinazione terapeutica e l’espianto di organi. Di fronte a queste critiche, verso la metà del secolo scorso si è fatta sempre più strada, specie nell’ambito delle semantiche cognitiviste, la persuasione che la competenza linguistica sia sempre enciclopedica e che nella rappresentazione semantica non si possano porre (se non

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in modo provvisorio e ai fini di determinate analisi) distinzioni tra conoscenze linguistiche e conoscenza del mondo. I modelli enciclopedici hanno assunto vari formati, tra cui: 1) modelli a selezioni contestuali (si specificano i sensi che un dato lessema assume in diversi contesti); 2) modelli per casi che contemplano agenti, oggetti, strumenti, scopi (per esempio il verbo accusare viene definito come azione in cui un agente umano comunica a un oggetto umano per mezzo dello strumento verbale allo scopo di rivelargli che una azione di altro oggetto umano è male, mentre criticare viene spiegato come azione di un agente umano che attraverso lo strumento verbale parla a un oggetto umano allo scopo di dimostrare che l’azione di altro oggetto umano è argomento di censura; oppure si analizza to kill come azione di agente umano che causa il cambiamento di stato, da vivente a morto, di un X animato – specificando per il verbo inglese to assassinate che lo X in questione deve essere personaggio politico); 3) rappresentazioni che considerano per esempio per un termine come acqua le proprietà che determinano l’estensione ovvero il riferimento (l’essere H2O), marche di tipo quasi dizionariale come «genere naturale» e «liquido», e nozioni stereotipe come «incolore, trasparente, insapore, inodore, dissetante»; 4) rappresentazioni che contemplano tutte le possibili proprietà di un termine e per esempio di un elemento chimico specificano odore, colore, stato naturale, numero atomico, effetti, storia eccetera; 5) rappresentazioni a frames e scripts o sceneggiature, che registrano ogni stadio di una sequenza di eventi tipici (per es., che cosa significa andare al ristorante: entrare, sedersi al tavolo, ordinare dal menu, mangiare, chiedere il conto ecc.) – tutti modelli che hanno avuto fortuna nell’ambito dell’intelligenza artificiale dove, per permettere a un computer di comprendere un testo e trarne inferenze occorre fornirgli tutte le competenze di cui (anche senza rendersene conto) è fornito un essere umano medio. Particolare fortuna specie in intelligenza artificiale hanno avuto e hanno le reti semantiche, che si strutturano come un labirinto di nodi interconnessi, in cui ogni nodo può diventare il «capostipite» o type di una serie di altri nodi (tokens) che lo definiscono, e i termini definienti possono divenire a loro volta type di un’altra serie di tokens. Un modello a rete prevede la definizione di ogni concetto (rappre-

Enciclopedia / dizionario sentato da un lessema) grazie all’interconnessione con l’universo di tutti gli altri concetti che lo interpretano, ciascuno di essi pronto a diventare il concetto interpretato da tutti gli altri. Il modello nella sua complessità si basa su un processo di semiosi illimitata. Allargando idealmente all’infinito la rete dei nodi interconnessi, da un concetto assunto come type è possibile ripercorrere, dal centro alla periferia più estrema, tutto l’universo degli altri concetti, ciascuno dei quali può diventare a sua volta centro e generare infinite periferie. Un simile modello può ancora ricevere una configurazione grafica bidimensionale quando se ne esamina una porzione locale (e nella sua simulazione informatica, grazie al numero limitato di tokens assunti, è possibile conferirgli una struttura descrivibile). Ma di fatto non è possibile rappresentarlo nella sua complessità. Esso dovrebbe apparire come una sorta di rete polidimensionale, dotata di proprietà topologiche, dove i percorsi si accorciano e si allungano e ogni termine acquista vicinanze con altri, attraverso scorciatoie e contatti immediati, rimanendo nel contempo legato a tutti gli altri secondo relazioni storicamente mutevoli. Naturalmente un’enciclopedia come reticolo dalle dimensioni indefinite rimane un postulato ideale, e dovrebbe offrire un’immagine di tutto il sapere, compresi anche i principi dimostrati falsi, le creature leggendarie, le creazioni romanzesche accanto ai dati della scienza e alle nozioni di vita quotidiana – in quanto numerosi contesti richiedono, per essere compresi, il ricorso ai più svariati tipi di informazione. È stato detto che, se si assume una nozione massimale di competenza intorno al mondo, allora il significato di un termine sarebbe costituito da tutti gli enunciati veri in cui esso è apparso o potrebbe apparire. Ma l’enciclopedia non viene chiamata globalmente in causa da ogni enunciato ed è il contesto che seleziona le zone locali di competenza che dobbiamo attivare (oppure risulta incomprensibile perché dovrebbe attivare zone di competenza enciclopedica che il destinatario non possiede). Si possono assumere due criteri flessibili: (i) fanno potenzialmente parte della competenza enciclopedica media quelle informazioni che si suppongono sufficientemente compartecipate da una collettività (una collettività può essere anche «regionale» e in tal senso la definizione di neutrino farebbe parte solo della competenza regionale di una comunità di fisici nucleari); 3387

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Enciclopedia / dizionario (ii) il formato della rete da attivare è prescritto dai contesti e dalle circostanze di enunciazione (per cui se qualcuno usa la parola toro discutendo di topologia si costituisce una rete che concerne oggetti matematici e si escludono tutti i concetti che riguardano il regno animale). In tal senso, anche se in un’enciclopedia ideale non vi sono più differenze tra proprietà necessarie e proprietà contingenti, si deve tuttavia concedere che in una data cultura certe proprietà appaiano più resistenti alla negazione di altre, perché più salienti (sino a una modificazione di usi e costumi rimane difficile dire che qualcosa sia una scatola negando che possa contenere oggetti). Nelle più recenti ricerche di intelligenza artificale e scienze cognitive il tema delle reti semantiche ha dato origine a una teoria delle ontologie. Malgrado l’uso improprio di un concetto come ontologia, che ha ben altra valenza filosofica, si parla in tal senso dell’organizzazione categoriale di una porzione di universo che può assumere la forma di un qualsiasi tipo di albero classificatorio o di rete semantica. In un’ontologia la relazione semantica più comune è la relazione di sussunzione (che ha riconosciutamene come suo capostipite l’Arbor Porphyriana), ma vi sono ontologie della forma «partedi», e si considerano varie forme di grafi, sia quelli in cui ogni nodo ha un singolo superordinato sia altri più complessi, che prevedono eredità multiple, dove un nodo può derivare proprietà da ciascun nodo superordinato o da tutti. Si discute se le ontologie debbono essere adeguatiste, e cioè massimali, o riduzioniste, e cioè riferite a un solo universo di discorso. Di solito si concede che il dominio di un’ontologia non debba essere completo ma soltanto coprire l’area d’interesse di chi la produce, ma in genere un’ontologia si presenta sempre come una porzione, sia pure ristretta, di enciclopedia. Nell’immensa letteratura in argomento talora le cosiddette ontologie sono solo ingenui diagrammi per evidenziare legami o differenze assolutamente intuitive, oppure mere stenografie o artifici mnemonici. Ma la varietà dei modelli suggerisce che, se essi riflettessero stati e strutture della nostra mente, questo vorrebbe dire che il nostro cervello articola la sua competenza attraverso strutture di vario genere a seconda del problema da risolvere o memorizzare. La tematica delle ontologie suggerisce alcune riflessioni sulle proprietà creative del linguag3388

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gio. Sembra che per comprendere un testo, o il significato di una parola, si abbia bisogno di un’ontologia soggiacente. Ma ci sono casi in cui è l’inatteso uso di una parola o di una serie di enunciati che, per dare senso al testo in cui essa appare, impone di ipotizzare un’ontologia inedita. Tale è il caso delle metafore che sovente, per essere comprese, richiedono che si individui una nuova organizzazione categoriale. Come diceva Black, «alcune metafore ci rendono capaci di vedere aspetti della realtà che la stessa produzione di metafore aiuta a costituire. Ma non c’è nulla da stupirsi se si pensa che il mondo è certamente il mondo sotto una certa descrizione – o un mondo visto da una certa prospettiva. Certe metafore possono creare tale prospettiva». Aristotele diceva che l’invenzione di una bella metafora «mette sotto gli occhi» per la prima volta un rapporto inedito tra due cose: questo significa che la metafora impone una riorganizzazione del nostro sapere e delle nostre opinioni. Per es. in Retorica (1405 a) si cita la metafora per cui i pirati vengono detti provveditori o fornitori. Ora, prima dell’apparizione di questa metafora non c’era nulla che accomunasse un onesto mercante che acquista, trasporta per mare e poi rivende le sue mercanzie, e un pirata che le mercanzie altrui le ruba. L’arguzia metaforica consiste nel costringere a individuare un’organizzazione gerarchica di proprietà che al livello inferiore distingua un’azione violenta da una pacifica, ma ai livelli superiori accomuna genere e specie di coloro che operano una traslazione di mercanzie via mare. Così la metafora suggerisce inopinatamente una funzione socialmente utile del pirata, facendoci al tempo stesso sospettare che vi sia qualcosa di truffaldino nell’operazione del venditore. In tal modo il campo categoriale si riorganizza non più intorno a considerazioni morali o legali bensì intorno a operazioni economiche. Tutte queste possibilità non erano contemplate dalle rappresentazioni a dizionario, sempre basate su un’ontologia minimale e prefissata. Pertanto è il concetto di enciclopedia che rende meglio ragione delle nostre operazioni cognitive e del modo in cui comprendiamo sia termini isolati che testi, e siamo in grado di trarne inferenze. U. Eco BIBL.: storia – M. FOUCAULT, Les Mots et les Choses, Paris 1966, tr. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose, Milano 1967; A. PONS, L’avventura dell’Enciclopedia, in

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Enciclopedia, Milano 1966; L. FORMIGARI, Linguistica ed empirismo nel seicento inglese, Bari 1970; A. SALSANO, s. v. Enciclopedia, in Enciclopedia Einaudi, vol. 1, Torino 1977, pp. 3-62; T. FRANK, Segno e significato, John Wilkins e la lingua filosofica, Napoli 1979; M.T. BEONIO BROCCHIERI (a cura di), Le enciclopedie dell’occidente medievale, Torino 1981; U. ECO, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino 1984; S. GENSINI (a cura di), G.W. Leibniz. Dal segno alle lingue, Casale Monferrato 1990; R. PELLEREY, Le lingue perfette nel secolo dell’utopia, Roma-Bari 1992; U. ECO, La ricerca della lingua perfetta, Roma-Bari 1993; R. SCHAER (a cura di), Tous les savoirs du monde, Paris 1996; P. BINKLEY (a cura di), Pre-Modern Encyclopedic Texts, Leiden 1997; W. TEGA, Architettura del sapere, Firenze 2006. Teoria – W.v.O. QUINE, Two Dogmas of Empiricism, in From a Logical Point of View, Cambridge 1953, tr. it. a cura di P. Valore, Due dogmi dell’empirismo, in Da un punto di vista logico, Milano 2004; M. BLACK, Metaphor, in «Proceedings of the Aritotelian Society», 55 (1955), pp. 273-294 (poi in Models and Metaphors, Ithaca [New York] 1962), tr. it. di E. Paradisi, Modelli, archetipi, metafore, Parma 1983; J. KATZ - J.A. FODOR, The Structure of a Semantic Theory, in «Language», 39 (1963); N. WILSON, Linguistical Butter and Philosophical Parsnips, in «Journal of Philosophy», 64 (1967); M. MINSKY (a cura di), Semantic Information Processing, Cambridge 1968; U. ECO, Semantica della metafora, in Le forme del contenuto, Milano 1971; U. ECO, Trattato di semiotica generale, Milano 1975; J. PETITOT, s. v. Locale/globale, in Enciclopedia Einaudi, vol. 8, Torino 1979, pp. 429-490; J. HAIMAN, Dictionaries and Encyclopedias, in «Lingua», 50 (1980); F. GIL, s. v. Sistematica e classificazione, in Enciclopedia Einaudi, vol. 12, Torino 1981, pp. 1024-1044; G. LAKOFF, Women, Fire and Dangerous Things, Chicago 1987; J. SOWA, Lexical Structures and Conceptual Structures, in J. PUSTEJOVSKY (a cura di), Semantics and the Lexicon, Dordrecht 1993; U. ECO, Kant e l’ornitorinco, Milano 1997; P. VIOLI, Significato e esperienza, Milano 1997; D. MARCONI, La competenza lessicale, Roma-Bari 1999; B. PEETERS, Setting the Scene. Recent Milestones in the Lexicon-Encyclopedia Debate, in B. PEETERS (a cura di), The Lexicon-Encyclopedia Interface, Oxford 2000. ➨ ALBERO DI PORFIRIO; CHARACTERISTICA UNIVERSALIS; CLASSIFICAZIONE; CONOSCENZA; INTELLIGENZA ARTIFICIALE; ISTRUZIONE; LABIRINTO; LINGUA PERFETTA; METAFORA; MNEMOTECNICA; MODELLO; PARADIGMA; PAROLA; SAPERE; SEGNO; SEMANTICA; SIGNIFICATO; SISTEMA; SISTEMATICA; TEORIA; TESTO.

ENCICLOPEDIA GIURIDICA. – L’encicloEnciclopedia giuridica pedia giuridica, intesa come scienza giuridica positiva con pretese antifilosofiche, è una disciplina moderna, sviluppatasi particolarmen-

Enciclopedia giuridica te in Germania sul terreno del positivismo giuridico del sec. XIX (Merkel, Arndts, Gareis e altri): si proponeva infatti la sintesi del sapere giuridico sulla base del diritto positivo, considerandone il lato puramente formale (enciclopedia formale o esterna) oppure il contenuto (enciclopedia interna o materiale). Va notato però che, se da un lato l’idea di una tale sintesi ha sempre esercitato un potente fascino nella civiltà giuridica occidentale, fin dalla speculazione greca sul diritto naturale (basti pensare, nel Medioevo, allo Speculum doctrinale di Vincenzo di Beauvais [m. dopo il 1260], e allo Speculum iuris di Guglielmo Durante [1237-1296]), dall’altro le basi per lo studio enciclopedico del diritto, nello svolgimento storico anteriore al positivismo, sono state poste su presupposti filosofici (Leibniz, Thomasius, Hunnio). D’altronde lo stesso sec. XIX ci offre numerosi esempi di enciclopedia giuridica, ispirate a concezioni filosofiche, di derivazione sia kantiana (Tafinger, Eisenhart, Zachariae), sia hegeliana (Pütter), sia ricollegantisi alla scuola storica (Falck). Filomusi Guelfi ha messo in evidenza (Prime linee di una enciclopedia e metodologia del diritto, 1865; Enciclopedia giuridica, Napoli 1873; 7a ed. 1917) la contraddizione fra la finalità sistematica della enciclopedia giuridica e la sua pretesa antifilosofica: «la vera verità non può svolgersi se non nel pensiero filosofico»; la filosofia del diritto viene strettamente connessa da Guelfi all’enciclopedia giuridica e fornisce a quest’ultima «le basi su cui è possibile sviluppare i vari rami e le varie discipline del diritto». Tale disciplina, penetrata negli insegnamenti universitari italiani, sotto l’influsso della scienza tedesca, fin dal 1859 con la denominazione di «Introduzione allo studio delle scienze giuridiche» (ricordiamo fra i cultori Pepere, Del Giudice, Brugi), è stata sostituita dalla filosofia del diritto come conseguenza della critica al positivismo. A. Giuliani BIBL.: Per una storia dell’enciclopdia giuridica, cfr.: F. FILOMUSI GUELFI, Del concetto della enciclopedia giuridica, in Lezioni e saggi di filosofia del diritto, a cura di G. DEL VECCHIO, Milano 1949; con particolare riferimento alla storia di questa disciplina in Germania, cfr.: A. FRIEDLÄNDER, Juristische Encyclopädie, I, Heidelberg 1874. Per una moderna interpretazione dell’opera di Filomusi Guelfi, cfr.: P. PIOVANI, L’enciclopedia giuridica di Filomusi Guelfi, in «Scritti giuridici per il centenario della Casa Editrice Jovene»,

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Encratismo Napoli 1954; AA.VV., Enciclopedia e sapere scientifico. Il diritto e le scienze sociali nell’Enciclopedia giuridica italiana, a cura di A. Mazzacane - P. Schiera, Bologna 1990. ➨ DIRITTO, FILOSOFIA DEL.

ENCRATISMO. – Termine che designa un feEncratismo nomeno manifestatosi all’interno del cristianesimo a partire dai primi decenni del II secolo in una varietà di forme, accomunate dal rifiuto delle nozze, e talora anche dei cibi carnei, come premessa indispensabile alla pratica della vita cristiana. Essa deriva dal sostantivo greco enkrateia che, con l’aggettivo enkratés e il verbo enkrateuein, nella sua accezione originaria esprime l’idea di un «potere-forza» (kratos) esercitato su qualcuno o qualcosa. In particolare, l’aggettivo enkratés definisce la capacità di dominio dell’individuo sulla realtà circostante o su se stesso. Da questa accezione, a opera della riflessione filosofica e soprattutto nell’ambito dell’etica socratico-platonica, aristotelica e stoica, si svilupparono le nozioni di «padronanza» e «dominio» esercitati dal saggio sulla sfera passionale, e l’enkrateia assunse il significato di «temperanza», senza tuttavia implicare rigorose forme di astensionismo né rifiuto dell’esercizio della sessualità. In tal senso l’enkrateia occupa una posizione di rilievo all’interno della sfera dei valori etici secondo Filone Alessandrino, in cui la matrice giudaica si compone con elementi filosofici ellenici, di marca soprattutto platonica e stoica, e viene recepita dai primi scrittori cristiani quale «temperanza» da esercitare nell’intero spettro dei comportamenti umani. Tuttavia in alcuni ambienti cristiani, con motivazioni diverse (di radicale ascetismo, spesso a intensa carica escatologica nella certezza dell’imminenza della parousia di Cristo e della fine dei tempi, ovvero su base ontologica, nella prospettiva dualistica di condanna della materia e della corporeità come realtà negative contrapposte all’anima o allo spirito) si constata, già a partire dalla 1 Tim 4, 1-5, l’esistenza di atteggiamenti di rifiuto totale delle nozze e talora anche delle carni, qualificati dall’autore «paolino» come ispirati dagli «spiriti dell’errore». Si configura pertanto una tensione assai forte fra quanti sostengono siffatta posizione e quanti invece la respingono, assumendo presto il confronto le forme di un conflitto tra «eresia» e «ortodossia», poiché la maggioranza delle comunità cristiane e i loro rappresentanti uffi3390

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ciali, in continuità con l’insegnamento veterotestamentario ed evangelico, mantengono saldo il principio della bontà di tutta la creazione e della liceità delle nozze e della generazione. Ireneo di Lione (Adversus haereses, I, 28, 1) e Clemente Alessandrino (Stromata, III, 6, 45, 155, 5; III, 9, 63, 1-67, 2) confutano le posizioni di «eretici» denominati «encratiti» (enkrateis), di cui antesignani sarebbero stati il siro Taziano (Stromata, III, 3, 12, 81, 1-90, 5), che definiva le nozze «corruzione e fornicazione», e Giulio Cassiano (Stromata, III, 13, 91, 1-93, 3). Entrambi fondavano il precetto dell’astensione dal matrimonio sull’identificazione di esso con il peccato adamico. Si configura pertanto una motivazione protologica dell’enkrateia, una volta che l’unione fisica è considerata oggetto della trasgressione dei protoplasti e l’azione del Salvatore è rivolta all’abolizione di tale pratica, al fine di restaurare l’uomo nella condizione paradisiaca, anteriore al peccato. Gli stessi eresiologi, peraltro, denunziano un medesimo atteggiamento in altri ambienti che ugualmente si definivano cristiani ma stabilivano una frattura radicale fra l’economia veterotestamentaria, il cui dio creatore era considerato un demiurgo inferiore, spesso francamente malvagio, e quella evangelica, implicante la manifestazione di un Salvatore tutto spirituale, solo in apparenza dotato di un corpo (docetismo), proveniente da una divinità somma, trascendente e sconosciuta. Secondo la formulazione più comune, in questa prospettiva l’uomo, creatura del demiurgo per la sua componente somatica, racchiude in sé una parte spirituale (anima o spirito) consustanziale alla divinità somma e allo stesso Salvatore, solitamente identificato con il Gesù dei Vangeli. La liberazione di tale sostanza si realizza attraverso la «gnosi», ossia attraverso il riconoscimento di tale situazione ontologica rivelata da Gesù, alla quale in molti casi si accompagna un rigoroso astensionismo da ogni attività sessuale. In questi ambienti, che il comune riferimento alla «gnosi» dualisticamente intesa permette di accomunare nella denominazione convenzionale di «gnosticismo», l’enkrateia ha dunque una precisa motivazione ontologica (negatività radicale della materia e di tutte le connesse attività) che peraltro talora si accompagna a quella protologica, indicandosi nelle nozze praticate dai protoplasti l’inizio del decadimento dell’umanità e di una sua sempre più forte soggezione alle leggi ti-

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ranniche del demiurgo, inteso a perpetuare – con nozze e generazione – la prigionia della sostanza divina nella materia. Si segnala, infine, che nel quadro ideologico encratita si delinea una più o meno forte tendenza anti-femminile, sia perché – secondo il dettato biblico – si attribuisce a Eva l’iniziativa nella trasgressione al precetto divino, sia soprattutto perché, sulla base di una lunga tradizione, di marca filosofica greca, ma profondamente radicata nel comune sentire delle culture antiche, alla donna si riconosceva, insieme con una connaturale «debolezza» morale oltre che fisica, una forte omologia con la sfera della passionalità e della materialità. La femminilità pertanto era percepita come connessa, in maniera privilegiata, con il ciclo di passione-corruzione-morte innescato dalla pratica della sessualità. G. Sfameni Gasparro BIBL.: R. CANTALAMESSA (a cura di), Etica sessuale e matrimonio nel cristianesimo delle origini, Milano 1976; G. SFAMENI GASPARRO, Enkrateia e antropologia. Le motivazioni protologiche della continenza e della verginità nel cristianesimo dei primi secoli e nello gnosticismo, Roma 1984; U. BIANCHI (a cura di), La tradizione dell’enkrateia. Motivazioni ontologiche e protologiche, «Atti del Colloquio internazionale, Milano 20-23 aprile 1982», Roma 1985; E.A. CLARK, Ascetic Piety and Women’s Faith. Essays on Late Ancient Christianity, New York-Toronto 1986; CH. MUNIER, Mariage et virginité dans l’Eglise ancienne (I-III siècles), Bern Frankfurt am Main - New York - Paris 1987, ed. it. a cura di G. Ramella, Matrimonio e verginità nella chiesa antica, Torino 1990; P. BROWN, The Body and the Society. Men, Women, and Sexual Renunciation in Early Christianity, New York 1988, tr. it. di I. Legati, Il corpo e la società: uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, Torino 1992; E. PAGELS, Adam, Eve, and the Serpent, New York 1988, tr. it. a cura di D. Guglielmino, Adamo, Eva e il serpente, Milano 1990; V.L. WINBUSH - R. VALANTASIS (a cura di), Asceticism, «Proceedings of the International Conference on The Ascetic Dimension in Religions Life and Culture, New York 25-29 April 1993», New York 1995. ➨ ASCESI; CARNE; CORPO; DUALISMO; TEMPERANZA.

ENCYCLOPEDIA Enc. Uni. Science OF UNIFIED SCIENCE. – L’International Encyclopedia of Unified Science è stata progettata dal neopositivista viennese O. Neurath come punto di incontro e di collaborazione dei pensatori contemporanei fautori di una filosofia scientifica, intesa come integrazione dei risultati delle varie scienze e volta

Enc. Uni. Science a incrementare l’educazione scientifica dell’uomo moderno contro la metafisica e la filosofia tradizionali. La nuova Encyclopedia si ricollega idealmente agli scopi dell’Encyclopédie francese, mirando a una più vasta realizzazione di essi per mezzo degli strumenti offerti dalla metodologia empirica e dalla logica formale contemporanee. Dopo una lunga discussione del progetto svolto nei congressi di filosofia scientifica (a partire da quello di Parigi del 1935), la pubblicazione fu iniziata nel 1938 dall’università di Chicago. L’Encyclopédie fu pensata inizialmente come serie di monografie indipendenti, di cui 20 raggruppate nei 2 voll. delle «Foundations of Unity of Science» (Chicago 1939), e altre 60 (di argomento non specificato) raggruppate in 6 voll. e concernenti, genericamente, i problemi affioranti dalla progressiva sistemazione della scienza. La realizzazione si è poi fermata alle monografie assegnate alle «Foundations». A partire dal 1949, anno di fondazione in Boston dell’Institute for the Unity of Science, il possesso e la direzione dell’Encyclopédie furono assegnati all’istituto stesso; sino alla morte (1945) Neurath era stato «editor-in-chief» con la collaborazione di R. Carnap e Ch. Morris. Tra i collaboratori ricordiamo: Ch. Morris (Foundations of Theory of Signs, ivi 1938), R. Carnap (Foundations of Logic and Mathematics, ivi 1939), V. Bloomfield, V.F. Lenzen, E. Nagel, Ph. Frank (Foundations of Physics, ivi 1946), E. Finlay-Freundlich, E. Brunswik, O. Neurath (Foundations of the Social Sciences, ivi 1939), J. Dewey (Theory of Valuation, ivi 1939), J.H. Woodger, C.G. Hempel, G. De Santillana, E. Zilsel, J. Joergensen. Assai significativo è il primo fascicolo pubblicato: Encyclopedia and Unified Science (con scritti di Neurath, N. Bohr, Dewey, B. Russell, R. Carnap e Ch. Morris, tr. it. di O. Peduzzi, in Neopositivismo e unità della scienza, Milano 1958), che contiene anche la traduzione del fascicolo di Joergensen, The Development of Logical Empiricism, ivi 1951), da cui traspaiono, nonostante l’unità del programma, la diversità dei presupposti da cui partono i collaboratori dell’Encyclopédie, e la molteplicità delle concezioni filosofiche preliminari, che essa vorrebbe, utopisticamente, sostituire con la concezione della scienza unificata. L’interesse più vivo dell’Encyclopédie, più che negli orientamenti neopositivistici di fondo e nelle soluzioni «fisicalistiche», è nelle analisi specifiche e nell’impostazione del problema dell’unità del 3391

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Encyclopédie sapere senza, tendenzialmente, preclusioni sistematiche. F. Barone BIBL.: D. ZOLO, Scienza e politica in Otto Neurath, Milano 1986; F. HOFMANN-GRÜNEBERG, Radikal-empiristische Wahrheitstheorie. Eine Studie über Otto Neurath, den Wiener Kreis und das Wahrheitsproblem, Wien 1988; N. CARTWRIGHT - J. CAT et al., Otto Neurath. Phylosophy between Science and Politics, Cambridge 1996; F. STADLER, Studien zum Wiener Kreis. Ursprung, Entwicklung und Wirkung des logischen Empirismus im Kontext, Frankfurt am Main 1997.

ENCYCLOPÉDIE. – L’Encyclopédie, ou DicEncyclopédie tionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, par une Société de gens de lettres. Mis en ordre et publié par M. Diderot, et, quant à la partie mathématique, par M. d’Alembert, è l’opera più significativa dell’illuminismo francese (Paris 1751-72, 28 voll.; supplementi in 5 voll., Amsterdam 1776-77; tavola analitica, 2 voll., a cura di F. Mouchon, ivi 1780; edizioni successive: Lucca 1758-76, Livorno 1770-78, Genève 1771-76, Genève-Neuchâtel 1777-79, Lausanne-Berne 1778-82; riproduzione della I edizione: Stuttgart - Bad Cannstatt 1967; Parma-Milano 1970-79; edizione elettronica: Encyclopédie de Diderot et d’Alembert: tous les savoirs et les lumières du XVIIIe siècle sur cd-rom, Marsanne 2000, 4 cd-rom). Nelle intenzioni dei primi ideatori ed editori l’Encyclopédie non doveva esser altro che la traduzione e l’aggiornamento della Cyclopaedia: or, an Universal Dictionary of the Art and Sciences (London 1728, 2 voll.) di E. Chambers. Così pure costituiva un precedente importante il Dictionnaire historique et critique (Rotterdam 1697) di P. Bayle, che fu più volte riedito nei primi decenni del XVIII secolo e contribuì a diffondere l’esigenza di raccogliere in una «summa» tutto lo scibile del tempo. Nel 1746 l’editore parigino Le Breton, dopo due vani tentativi fatti dapprima con l’inglese John Mills e il tedesco Gottfried Sellius e poi con l’abate De Gua de Malves, si associò con tre altri editori (Briasson, Durant e David) e, ottenuto il privilegio e l’approvazione reali, offrì a D. Diderot la direzione dell’opera. Fu appunto Diderot a consigliare all’editore un’impresa originale e più ampia. Egli non era nuovo a questo genere di lavoro, essendo impegnato nella traduzione del Dictionnaire universel de médecine (Paris 1746-48, 6 voll.) di R. James, ed era abbastanza conosciuto per una Histoire de la Grèce (ivi 3392

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1743, 3 voll.) e per l’Essai sur le mérite et la vertu (ivi 1745); ma l’iniziativa editoriale ottenne sicuro successo quando d’Alembert, membro dell’Accademia reale delle scienze, assunse la condirezione per la parte scientifica, assicurando così la collaborazione dei colleghi delle accademie di medicina e di belle lettere e delle accademie delle province, in particolare di Montpellier. Avviata con il primo volume nel 1751, interrotta nel 1752 dopo la comparsa del volume II e poi nel 1759 dopo il VII, l’Encyclopédie prese ad essere pubblicata clandestinamente nonostante che il re avesse tolto il privilegio di stampa e l’opera fosse stata condannata dal pontefice Clemente XIII. Ma la crisi più grave si ebbe a causa dei dissidi interni, soprattutto dopo il ritiro di d’Alembert (1758), che si rifiutò di «servire alla ragione» in uno stato di perpetua apprensione; così pure per dissensi interni ritirarono la loro collaborazione Rousseau, Quesnay e Turgot. Solo la tenace fiducia di Diderot riuscì ad assicurare la continuazione dell’impresa, favorita anche da circostanze quali il volgersi della pubblica opinione a favore degli enciclopedisti sotto l’influsso del movimento antigesuitico e la protezione accordata da Mme de Pompadour, dal ministro Choiseul e da Malesherbes, nonché l’effettiva riconosciuta utilità dell’opera; così nel 1765 fu completata la pubblicazione di tutti i 17 volumi del testo; i volumi delle tavole erano allora solo quattro, ma entro il 1772 si aggiunsero anche gli altri sette. Queste vicende incisero assai sul valore dell’opera: particolarmente gli ultimi volumi riuscirono piuttosto affrettati e molti manoscritti – anche di Diderot – furono mutilati e rimaneggiati dagli editori, preoccupati di non suscitare reazioni che avrebbero compromesso l’esito dell’impresa. Decisi avversari dell’Encyclopédie furono i Gesuiti, editori dei «Mémoires de Trévoux», che in essa vedevano la tendenza a inoculare lo spirito irreligioso nelle forme più sottili. Che Diderot fosse ateo era noto a tutti, tanto che Grimm nella sua Correspondance littéraire (V, p. 135) gli attribuiva l’affermazione che non avrebbe esitato a sacrificare la vita se ciò fosse valso a togliere dalla vita dell’uomo l’idea di Dio; eppure gli articoli di carattere teologico e religioso dell’Encyclopédie non avevano nulla o quasi di eterodosso, sicché Voltaire non nascose il suo fastidio per la piattezza e l’ortodossia con cui vi si trattava-

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no le questioni religiose. Ciò indispettì d’Alembert, che non esitò a rispondergli in una lettera del 1757, sfidandolo «a farli migliori» con i censori teologi sempre alle calcagna; e soggiungeva: «Vi sono altri articoli, più inosservati, dove tutto è riparato. Il tempo farà distinguere ciò che abbiamo pensato da ciò che abbiamo detto» (A. Cazes, Grimm et les Encyclopédistes, Paris 1933 [ripr. Genève 1970], p. 94). In realtà, al di là delle polemiche su singole voci, circolava in tutta l’opera lo spirito dei nuovi tempi, e in essa era chiara la lezione di metodo offerta da Cartesio e Locke. Il significato interno dell’Encyclopédie è nello «spirito sistematico», che coordina e unifica le sue parti vincendo la dispersione dell’ordine alfabetico delle voci. Nell’esporre il piano dell’opera nel suo Discours préliminaire, d’Alembert dichiara che essa mira a un duplice scopo: «in quanto “enciclopedia”, deve esporre nel modo più esatto possibile l’ordine e la connessione delle conoscenze umane; in quanto “dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri”, deve spiegare i principi generali su cui si fonda ogni scienza e arte, liberale o meccanica, e i più notevoli particolari che ne costituiscono il corpo e l’essenza» (Enciclopedia, tr. it. di P. Casini, Bari 1968, p. 4). Dal canto suo Diderot nell’articolo Encyclopédie riconosce l’arditezza dell’impresa, la cui attuazione dev’essere compito di un «secolo filosofico» qual è il Settecento: «Bisogna esaminare ogni cosa, rovistare ogni cosa senza eccezione e senza riguardo [...]. Bisogna calpestare tutte queste vecchie puerilità, capovolgere tutte le barriere non imposte dalla ragione, restituire alle scienze e alle arti la libertà, per loro così preziosa [...]» (ibi, p. 518). Così d’Alembert dopo la pubblicazione dei primi due volumi sente l’opportunità di far precedere al terzo un’«avvertenza», ove ripropone e chiarisce i criteri che lo hanno guidato nella scelta e nella organizzazione delle voci: ridurre la pura erudizione, escludendo quasi tutti i nomi propri, e dare invece larga ospitalità ai movimenti storici e alle idee filosofiche; eliminare le noiose rassegne di genealogie delle grandi casate per meglio sviluppare la «genealogia delle scienze»; tacere sui casi personali degli scienziati e degli artisti per soffermarsi più a lungo sui frutti del loro lavoro; trascurare del tutto le gesta dei condottieri per narrare quelle dei benefattori dell’umanità: solo così l’Encyclopédie po-

Encyclopédie teva rappresentare la «storia dello spirito umano» e non quella delle vanità degli uomini. È opportuno, a questo punto, passare in rapida rassegna le principali sezioni dell’Encyclopédie, cercando di individuare i principi che hanno guidato i collaboratori nella stesura degli articoli che riguardano le scienze morali. Anzitutto è bene precisare che la collaborazione diretta dei grandi dell’illuminismo fu del tutto marginale: Montesquieu moriva quando ancora non aveva ultimato il suo primo articolo (Goût); Rousseau, oltre ad alcune voci sulla musica, scrisse un solo articolo di un certo rilievo (Économie politique), e anche Voltaire compilò voci di secondaria importanza. Maggior coerenza allo spirito dell’Encyclopédie si trova nelle voci di carattere scientifico, perché erano quelle che più facilmente si sottraevano all’attenzione dei censori, per lo più versati solo nella storia o nella teologia o nella politica. Le scienze naturali trovano in Buffon un valido illustratore; d’Holbach si occupò di chimica e di mineralogia, mentre d’Alembert, coadiuvato da Helvétius e Condillac, si occupò delle voci di matematica e di fisica. Le scienze morali invece ebbero una trattazione più discontinua, dovuta al frequente cambio di redazione. I vari abati Yvon, de Prades, Mallet si avvicendarono dopo brevi periodi di collaborazione, seguiti da Dumarsais, Toussaint, Raynal e Morellet, finché non si arrivò a Louis de Jaucourt, che si assunse il compito gravoso di portare a termine quasi da solo circa un terzo dell’intera opera. Le voci di carattere filosofico sono di diversa intonazione: si va dalla voce Certitude di JeanMartin de Prades (che non esita a porsi in polemica con lo stesso Diderot contro le posizioni sostanzialmente scettiche dei deisti) e dalla voce Immatérialisme (in cui Claude Yvon sostiene la creatività dello spirito) alla voce Raison di Diderot, che è un inno alla razionalità universale immanente nella natura e nell’uomo, e alla voce Cosmologie di d’Alembert, in cui si riecheggia la concezione leibniziana del continuum universale. Va segnalato il fatto che anche personaggi come Quesnay e Turgot furono chiamati a compilare voci di carattere strettamente filosofico, il che mostra come nelle scienze morali non fossero ancora chiari i limiti di specializzazione. Quesnay compilò addirittura la voce Evidence, così importante nella prospettiva illuministica, e diede a tale concetto una interpretazione sensistica, in polemica con le posizioni di Malebranche e in so3393

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Encyclopédie stanziale accordo con Condillac. Nella filosofia morale appare predominante il motivo pratico-utilitaristico, per cui il bene viene rapportato all’utile: Diderot plaude alle affermazioni di de Prades, scrivendo che la certezza morale riposa sui fatti al pari di ogni scienza e sottolinea la considerazione che «i libri di morale non dovrebbero essere che una raccolta di esperienze sullo spirito umano» (art. Certitude); nella voce Charité si esaltano i valori dell’amore operoso e fattivo contro le posizioni quietistiche e contemplative, mentre nella voce Christianisme si sottolinea la fondamentale funzione sociale della religione cristiana come prova decisiva della sua veridicità. Quanto alle numerose voci storico-filosofiche, esse furono in gran parte redatte da Diderot mediante un sistematico quanto abile impiego della Historia critica philosophiae di Brucker: la mentalità fortemente critica del philosophe francese e le sue idee irreligiose vengono così a sovrapporsi al blando razionalismo wolffiano dell’erudito tedesco, facendo di certe voci – come Eclectisme e Epicuréisme – il manifesto di una spregiudicata libertà di pensiero e di un aperto materialismo. Nel campo del diritto e della politica gli articoli furono per lo più redatti da de Jaucourt e appaiono come la volgarizzazione delle dottrine di Pufendorf, Barbeyrac e Burlamaqui. Basti qualche esempio: la voce Souveraineté è tolta da Pufendorf (Droit de la nature, I. VII, capp. 38), così pure la voce Sociabilité (ibi, I. II, capp. 2, 4), mentre la voce État de nature è copiata testualmente dal capitolo II del Governo civile di Locke. Rousseau nell’articolo Économie politique fa delle considerazioni interessanti sui rapporti tra politica e morale, anticipando la tesi sostenuta nel Contrat social per cui la morale nasce col formarsi della società. Non mancano anche in questo settore collaboratori legati alla dottrina tradizionale, come Boucher d’Argis: l’uomo nell’ordine provvidenziale è stato destinato «a coltivare la terra e ad aspirare al bene supremo» (art. Droit public); esiste una legge naturale assoluta anteriore a ogni costituzione politica, istituita per decreto divino, «sorgente del bene e del male» (art. Naturelle [loi]). Nel settore dell’economia prevale l’influenza delle teorie fisiocratiche: si pensi alla collaborazione di Quesnay e di Turgot e alle lodi che Diderot rivolge alla dottrina del «prodotto netto» (art. Agricolture, Hommes, Laboureur), mentre altre voci (come Impôt, In3394

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térêt de l’argent) sono in contrasto con i principi dell’economia fisiocratica e i rispettivi autori si mantengono su una posizione eclettica. D. Fiorot - G. Piaia BIBL.: traduzioni: La filosofia dell’Enciclopedia, a cura di P. Casini, Bari 1966 (contiene il Discours di d’Alembert, il Prospectus di Diderot e le voci Art e Encyclopédie); L’Enciclopedia, a cura di A. Pons, Milano 1966, 2 voll.; Antologia di articoli e tavole dall’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, a cura di M. Bonfantini - M. Bonfantini, Novara 1977; L’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, a cura di K.H. Manegold, Legnano 1989; Enciclopedia, o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, a cura di P. Casini, Roma-Bari 2003 (contiene il Discours di d’Alembert e un’ampia scelta di articoli). Studi generali sull’Encyclopédie: F. VENTURI, Le origini dell’Enciclopedia, Firenze 1946 (Torino 19773); J. PROUST, Diderot et l’Encyclopédie, Paris 1962 (Genève 1982); J. LOUGH, Essays on the Encyclopédie of Diderot and d’Alembert, London 1968; J. LOUGH, The Contributors to the Encyclopédie, London 1973; J. PROUST, L’Enciclopédie: storia, scienza, ideologia (1965), Bologna 1978; A. CALZOLARI - S. DELASSUS (a cura di), Essais et notes sur l’Encyclopédie de Diderot et d’Alembert, Parma-Milano 1979; R. DARNTON, The Business of Enlightenment. A Publishing History of the Encyclopédie, 1775-1800, Cambridge (Massachusetts) - London 1979; AA.VV., Notables Encyclopedias of the Seventeenth and Eighteenth Centuries: Nine Predecessors of the Encyclopédie, Oxford 1981; W. TEGA, Arbor scientiarum. Enciclopedie e sistemi in Francia da Diderot a Comte, Bologna 1984; E. MASS - P.-E. KNABE (a cura di), L’Encyclopédie et Diderot, Köln 1985; F.A. KAFKER, The Encyclopedists as a Group. A Collective Biography of the Authors of the Encyclopédie, Oxford 1996; E. VITALE (a cura di), Ragione e civiltà: la visione illuministica del mondo nell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, Milano 1998; P. QUINTILI, Illuminismo ed Enciclopedia: Diderot, d’Alembert, Roma 2003. Su singoli aspetti e temi: R. HUBERT, Les sciences sociales dans l’Encyclopédie, Paris 1923; J.E. BARKER, Diderot’s Treatement of the Christian Religion in the Encyclopédie, New York 1941; N.N. SCHARGO, History in the Encyclopédie, New York 1947; P. CASINI, Gli enciclopedisti e le antinomie del progresso, in «Rivista di Filosofia», 66 (1975), pp. 236-256; A. BUCK, Der Renaissance-Humanismus aus der Sicht von Alemberts «Discours préliminaire de l’Encyclopédie» (1974), ristampa in A. BUCK, Studia humanitatis. Gesammelte Aufsätze 1973-1980, Wiesbaden 1981, pp. 124-132; P. SWIGGERS, Les conceptions linguistiques des Encyclopédistes, Heidelberg-Leuven 1984; S. SUPPA, Città e cittadino nell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, Firenze 1993; O.W. HOLMES, Principles of Nature, Human Association and the Politics of Equality. Systemic

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

Thought in «L’Encyclopédie», in «Analecta Husserliana», 54 (1998), pp. 219-258; M. MALHERBE, D’Alembert: encyclopédie et histoire, in «Kairos», 14 (1999), pp. 113-130; T. CAVALLO, «Le droit de commander en dernier ressort». La conception de la souveraineté dans l’Encyclopédie entre volontarisme et rationalisme, in G. CAZZANIGA - Y.CH. ZARKA (a cura di), Penser la souveraineté à l’époque moderne et contemporaine, Pisa-Paris 2001, vol. I, pp. 317-328; C. DUFLO P. WAGNER, La science dans l’Encyclopédie, in P. WAGNER (a cura di), Les philosophes et la science, Paris 2002, pp. 205-245. Sulla prospettiva filosofica e storico-filosofica dell’Encyclopédie: J. PROUST, Raison, déraison, dans les articles philosophiques de l’Encyclopédie, in «Saggi e ricerche di letteratura francese», nuova serie, 18 (1979), pp. 423-48; G. BENREKASSA, La pratique philosophique de Diderot dans l’article «Encyclopédie» de l’Encyclopédie, in «Stanford French Review», 8 (1984), pp. 189-212; P. CASINI, Diderot et le portrait du philosophe éclectique, in Diderot et l’Encyclopédie (1784-1984), in «Revue internationale de philosophie», 148-149 (1984), pp. 35-45; P. CASINI, Diderot e i filosofi antichi: Democrito, Epicuro Lucrezio, in A. MANGO (a cura di), Diderot. Il politico, il filosofo, lo scrittore, Milano 1986, pp. 99-111; R. MORTIER, L’article «Philosophie antédiluvienne» et la critique des préjugés, in «Les Cahiers rationalistes», 54 (1984), pp. 229-235; G. PIAIA, La storia della filosofia nell’«Encyclopédie», in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. III: Il secondo illuminismo e l’età kantiana, Padova 1988, pp. 3-51; P. QUINTILI, Matérialisme et fonctionnalisme dans les articles «industriels» de l’Encyclopédie, in «Il cannocchiale», 1 (1995), pp. 63-92; S. ALBERTAN COPPOLA - A.-M. CHOUILLET (a cura di), La matière et l’homme dans l’Encyclopédie, Paris 1998; M. GROULT, D’Alembert et la mécanique de la vérité dans l’Encyclopédie, Paris 1999; É. MARTIN-HAAG (a cura di), Ordre et production des savoirs dans l’Encyclopédie de Diderot et d’Alembert, Toulouse 2001. ➨ MÉMOIRES DE TRÉVOUX.

ENDOCOSMICO: V. Endocosmico

IPERCOSMICO ED ENDOCO-

SMICO.

ENDOXON - ENDOXA (e[ndoxon, e[ndoxa). – Endoxon - endoxa Opinione notevole, degna di stima. Gli endoxa sono introdotti da Aristotele come premesse del sillogismo dialettico e sono da lui definiti «le opinioni accettate da tutti, dai più o dai sapienti e, tra questi, o da tutti o dai più o dai più noti e stimati» (Top., I). In queste righe gli endoxa sono le opinioni che godono di un consenso diffuso, cioè che sono effettivamente condivise; per questo, per lungo tempo, si è ri-

Endres tenuto di dover definire la nozione di endoxon tramite quella di consenso. In tempi più recenti si è constatato che Aristotele considera endossali anche asserzioni che, pur non essendo attualmente condivise, sono condivisibili o addirittura da condividersi: sono perciò endossali le asserzioni su cui si può presumere un riconoscimento obbligato da parte degli interlocutori. Tale concezione dell’endoxon ha come elemento fondamentale quell’ottimismo epistemologico tipicamente aristotelico, per cui l’uomo tende naturalmente piuttosto al vero che al falso. Gli endoxa sono punti di riferimento fondamentali e imprescindibili nell’ambito della scienza pratica, dove l’accordo di una tesi con la maggior parte e con i più importanti degli endoxa costituisce il criterio necessario e sufficiente per la determinazione della sua verità. Ci si è chiesti se vi siano oggi, e quali sono, asserzioni che possiamo considerare endoxa della scienza pratica, premesse valide non solo per la disputa processuale, ma per l’attività del legislatore stesso: essi sono stati indicati nel diritto alla libertà, alla proprietà, alla salute, al lavoro e all’istruzione. L. Seminara BIBL.: E. BERTI, Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Reggio Emilia 1993; E. BERTI, L’uso scientifico della dialettica in Aristotele, in «Giornale di Metafisica», 17 (1995), pp. 169-190; E. BERTI, Il valore epistemologico degli endoxa secondo Aristotele, in Dialéctica y Ontología, «Coloquio Internacional sobre Aristóteles», «Seminarios de Filosofía», 14-15 (2001-02), pp. 111-128; C. RAPP, Endoxa, in Rhetorik, Aristoteles, Berlin 2002, pp. 257-261 e 300-308; L. SEMINARA, Carattere e funzione degli endoxa in Aristotele, Napoli 2002.

ENDRES, JOSEPH ANTON. – Studioso della fiEndres losofia medievale, n. a Untermeitingen (Lechfeld) il 12 magg. 1863, m. a Bidingen (Kaufbeuren) il 19 genn. 1924. Opere principali: Honorius Augustodunensis. Beiträge zur Geschichte des geistigen Lebens im XII. Jahrhundert, Kempten-München 1906; Geschichte der mittelalterlichen Philosophie, Kempten 1908; Thomas von Aquin, Mainz 1914 2 (1910); Petrus Damiani und die Weltliche Wissenschaft, Münster i.W. 1910, opera in cui Endres riesce a darci un quadro preciso della filosofia e del movimento di idee dell’XI secolo, soprattutto attorno alla figura di Pier Damiani; Forschungen zur Geschichte der frühmittelalterlichen Philosophie, ivi 1915; Beiträge zur Kunst3395

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Enea di Gaza und Kulturgeschichte des mittelalterlichen Regenburgs, Regensburg 1924. A. Tognolo BIBL.: G. HAGEMANN, Metaphysik: ein Leitfaden für akademische Vorlesungen sowie zum Selbstunterrichte, Freiburg i.W. 19147; J. LISTL, s. v., in W. KASPER (a cura di), Lexikon für Theologie und Kirche, Freiburg i.W. 1993-20013, vol. III, col. 641.

ENEA DIGaza GAZA. – Retore e filosofo cristiano, Enea di vissuto tra il sec. V e il VI d. C. Su tutte le sue notizie biografiche grava l’incertezza, ma pare che abbia compiuto gli studi di retorica in Alessandria, dove avrebbe seguito anche lezioni di filosofia del neoplatonico Ierocle, e che, tornato in patria, vi abbia aperto una scuola di retorica e forse anche di filosofia. Lasciò venticinque lettere dal contenuto vario e occasionale, non filosofico (in R. Hercher, Epistolographi graeci, Paris 1873; e, più recentemente, in Enea di Gaza, Epistole, a cura di L. Massa Napolitano, Napoli 19622). Il suo scritto filosoficamente più significativo è il Teofrasto, composto con ogni probabilità tra il 485 e il 490 d. C.; si tratta di un dialogo fra tre personaggi: Egitto (che non interviene quasi mai), Teofrasto (l’interlocutore pagano) ed Eussiteo (il portavoce delle opinioni dell’autore) su tre argomenti: l’anima, il mondo, la risurrezione del corpo. Quanto all’anima, Eussiteo sostiene, tra le altre cose, che l’anima è creata immediatamente da Dio all’atto di unirsi con il corpo. Intorno all’origine e fine del mondo, viene confutata l’opinione che vuole il mondo increato e senza inizio: esso è stato creato da Dio e ha avuto un inizio nel tempo. La dimostrazione di ciò si fonda su una prova divenuta tradizionale, almeno dai tempi della Stoa di mezzo: il mondo finirà perché è composto di parti eterogenee e sottoposto al divenire. Quanto alla risurrezione del corpo, l’anima, dice Enea, risorgerà con un corpo luminoso che sarà identico a quello posseduto durante la vita, perché risponde a giustizia che lo stesso corpo, che ha meritato o demeritato, partecipi al premio o al castigo. La ricomposizione del corpo al momento della risurrezione avverrà in virtù di un elemento formale, che Enea chiama il principio della forma (tou' ei[dou" oJ lovgo"), il quale non va soggetto alla corruzione e, a guisa di un seme, ricomporrà il corpo, ricostituendo infallibilmente gli elementi originari. 3396

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

Nella filosofia di Enea l’influsso neoplatonico è evidente nell’uso e abuso di terminologia misterica, nell’importanza attribuita agli oracoli (lovgia) caldaici ed egiziani, nella definizione di Dio come bene, uno, principio, perfetto, re ecc., nella struttura gerarchica del reale. Enea tuttavia non esita a respingere parecchie tesi fondamentali del neoplatonismo: così, oltre la tradizionale tendenza a conciliare Aristotele con Platone, la preesistenza delle anime, la metempsicosi, l’eternità del mondo, la preesistenza della materia: correzioni queste al sistema neoplatonico, che derivano con tutta evidenza dal cristianesimo, benché in Enea manchino menzioni dirette delle fonti cristiane. Il Teofrasto fu pubblicato (con un’introduzione critica di D.C. Wernsdorf, commento di Barth e tr. lat. di A. Traversari) da Boissonade, Paris 1836; quindi in J.-P. Migne Patrologiae cursus completus, Series I,: [Patres] Ecclesiae Graecae, 161 voll. in 167 tomi, Paris 1857-66, 85, coll. 871-1004 (che probabilmente non fa che riprodurre la vecchia ediz. di F. du Duc); e, più recentemente, da M.E. Colonna, Napoli 1958 (sul lavoro critico che resta da fare, confronta le indicazioni di Alain Segonds, art. n. 64 Ainéas de Gaza, in R. Goulet [a cura di], Dictionnaire des philosophes antiques, vol. I, Paris 1989, pp. 82-87, p. 86). Come è noto da tempo, l’Ammonio di Zaccaria contiene, oltre a due citazioni testuali, una cospicua serie di allusioni, imitazioni e riprese del Teofrasto (cfr. soprattutto Zaccaria Scolastico, Ammonio, a cura di M. Minniti Colonna, Napoli 1973, p. 237). E. Corsini BIBL.: M. WACHT, Aeneas als Apologet. Seine Kosmologie im Verhältnis zum Platonismus, in «Theophania», 21 (1969).

ENERGETISMO (energetism; Energetismus; Energetismo énergétisme; energetismo). – È un indirizzo filosofico, che, partendo da una dottrina scientifica (l’«energetica»), riduce a energia la sostanza di tutto il reale. Il suo maggiore rappresentante è W. Ostwald, secondo il quale l’energetismo si oppone al materialismo, perché, mentre una materia a sé sarebbe semplicemente inerte, e perciò impercepibile e inesistente, i nostri sensi, invece, sono sempre stimolati da energie (acustiche, luminose, tattili ecc.); la realtà è tutta energia, attuantesi in centri e campi di forza. L’energetismo si oppone al meccanicismo, in quanto sostiene che il solo moto locale non può dare la spiegazione e la

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Energia

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ragione fisica dello svolgimento effettivo dei fenomeni, ed è vicino all’empiriocriticismo (anche se teoreticamente e criticamente meno provveduto), perché vuole ridurre le teorie scientifiche a semplici previsioni di eventi, con leggi e sistemi di leggi (mediante la generalizzazione dei concetti), che statisticamente riassumono e conservano i caratteri costanti e generici di ogni passata esperienza. In base ai concetti dell’energetismo le scienze vengono classificate in tre gruppi: a) formali (logica, matematica, geometria), il cui concetto generale è quello di funzione o coordinazione; b) fisiche (meccanica, fisica, chimica), col concetto generale di energia; c) biologiche (fisiologia, psicologia, sociologia), col concetto generale di vita, che è, poi, quello di energia libera. Nell’unico concetto fondamentale di energia vengono risolti i problemi della sostanza e dell’accidente, della causa e dell’effetto ecc., e secondo esso sono determinati, come sue variazioni nel tempo e nello spazio (e misurati in funzione della sua grandezza e intensità), tutti i fenomeni, fisici e umani, materiali e psichici, sensitivi, intellettivi e volitivi, individuali e sociali, concludendosi in una forma di metafisica naturalistica ed empiristica. C. Ferro BIBL.: D. NYS, Cosmologie ou étude philosophique du monde inorganique, vol. I: Le mécanisme, le néo-mécanisme, le mécanisme dynamique, le dynamisme, l’énergétisme, Louvain-Paris19284; J. BARRIO, El energetismo de W. Ostwald, in «Revista de Filosofía», 22 (1963), pp. 63-98; S.L. JAKI, s.v., in S. AUROUX (a cura di), Encyclopédie Philosophique Universelle - Les Notions Philosophiques, vol. II, Paris 1990.

ENERGHEIA (ej n ev r geia) . – In Aristotele Energheia l’energheia indica l’essere in atto di una realtà, ossia la sua realizzazione, il suo essere realtà compiuta (cfr. Metaph., 1048 a ss.). In quanto tale, energheia si contrappone a dynamis (duvnami"), che indica invece l’essere di una cosa nella sua potenzialità o capacità di trasformarsi in altro. Atto si può considerare sinonimo di entelechia (ejntelevceia), di eidos (ei\do") e di forma (morfhv). L’atto precede la potenza in senso cronologico, metafisico e gnoseologico; infatti, l’atto è la regola e il fine della potenza, e la potenza è potenza dell’atto (cfr. Metaph., 1049 b ss.). L’atto sussiste sia nel movimento, sia nella dimensione dell’immobile, come ad esempio in Dio. In tal senso, Dio è il motore

Immobile, perché è atto puro (cfr. Metaph., 1071 b ss.; Et. Nic., 1154 b 26-28). E. Vimercati ➨ ATTO; DYNAMIS; ENTELECHIA.

ENERGIA (energy; Energie; énergie; energía). – Energia Nella sua accezione più ampia indica qualsiasi capacità o forza in grado di produrre un effetto o di compiere un lavoro. In questo senso è sinonimo di attività e di forza, sicché si parla di energie fisiche come di energie di volontà, di energia materiale come di energia spirituale. Nella storia della filosofia il termine energia (dal gr. ejnevrgeia) è stato usato talvolta in senso equivalente e talvolta in senso distinto dai termini di attività, atto, entelechia, forza; nella terminologia scolastica, p. es., era indicato dalle espressioni: virtus e vis. È soprattutto in epoca moderna che la nozione di energia, sottoposta a una rigorosa elaborazione concettuale da parte delle scienze naturali, ha assunto il significato generale di grandezza fisica definita come capacità di compiere lavoro, dove per lavoro s’intende lo spostamento del punto di applicazione di una forza (L = Fl). Mentre il concetto di forza è per noi intuitivo, perché direttamente collegato all’esperienza dello sforzo muscolare, il concetto di lavoro è più riposto e fu, per tutta l’antichità e il Medioevo, e lo è tuttora nel linguaggio comune, confuso col primo. Si deve a Keplero (Harmonices mundi, Linz 1619, pp. 122, 163-164) la prima distinzione, ancora nebulosa, tra forza e lavoro nonché l’introduzione del vocabolo energia (ibi, p. 163); il concetto è più chiaro in Galileo, che lo designa con la parola momento. Poiché l’energia si presenta sotto forme notevolmente diverse e può passare da una forma all’altra, emerse presto l’esigenza di distinguere e di definire esattamente i diversi tipi di energia. Fin dalla seconda metà del XVII secolo venne chiaramente formulata la distinzione fra energia potenziale (o di posizione) ed energia cinetica (o di movimento). Poiché il lavoro, nel caso di un semplice spostamento che avviene nella direzione della forza applicata, è misurato dal prodotto dell’intensità della forza per la lunghezza dello spostamento, sollevando un peso P a un’altezza h, si compirà un lavoro pari a Ph. Inversamente, se lo stesso corpo si trova già all’altezza h, esso, cadendo, è capace di compiere lo stesso lavoro Ph. Sicché, soltanto per la posizione che ha, il corpo ha capacità di compiere lavoro, cioè ha energia. Questa for3397

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Energia ma di energia, che si manifesta soltanto quando si verificano opportune condizioni fisiche, si chiama appunto energia potenziale o di posizione. L’energia cinetica è invece quella forma di energia meccanica associata al movimento di un corpo, la quale è talvolta chiamata forza viva. La misura di questa forma di energia fu oggetto di una lunga controversia tra i cartesiani e Leibniz. Nella celebre memoria del 1686, intitolata Demonstratio erroris memorabilis Cartesii, Leibniz stabilì che la forza viva era uguale al prodotto del corpo (cioè della massa) per il quadrato della velocità. Correzioni successive della formula leibniziana mostrarono che in realtà l’energia cinetica è uguale al semiprodotto della massa per il quadrato della velocità: un corpo di massa m che si muove con velocità v possiede infatti un’energia cinetica pari a mv2/2. Alla fine del Settecento e nella prima metà dell’Ottocento, i problemi sollevati dai primi sistemi di sfruttamento industriale della macchina a vapore favorirono un’importante svolta concettuale nello sviluppo delle nozioni correlate di energia e di lavoro. La loro importanza venne chiaramente evidenziata da J. Watt nei suoi studi sul miglioramento delle macchine a vapore. Ma bisogna arrivare all’opera di Poncelet (Introduction à la méchanique industrielle, Paris 1829) per trovare una raffinata definizione moderna del concetto di energia e una sua sistematica utilizzazione in senso rigorosamente tecnico. Tuttavia fu solo con la scoperta dell’equivalenza tra energia meccanica e calore, a opera di J.R. Mayer (1842) e di J.P. Joule (1843), che si evidenziò la portata universale del principio di conservazione dell’energia o primo principio della termodinamica. Tale equivalenza, attestando che il calore è una forma di energia, ne estendeva il dominio del concetto oltre il ristretto ambito della meccanica. Non a caso, con l’opera di H. von Helmholtz (Über die Erhaltung der Kraft del 1847) si assiste a una nitida generalizzazione del principio di conservazione dell’energia. L’equivalenza tra energia meccanica e calore permise altresì di superare alcuni aspetti problematici manifestati dai sistemi meccanici conservativi. Era noto che in un sistema meccanico isolato (su cui non agiscono forze esterne) la somma delle energie cinetiche e potenziali del sistema restava costante e perciò questi sistemi venivano chiamati conservativi. Questa proprietà dei sistemi conservativi si3398

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gnifica, come aveva intuito Leibniz, che la facultas agendi non va perduta: quando in un sistema conservativo diminuisce l’energia potenziale, aumenta di altrettanto l’energia cinetica e viceversa. Un esempio meccanico di continua trasformazione reciproca di energia potenziale in cinetica si ha nel pendolo: la sua energia è tutta potenziale quando esso si trova in una posizione estrema, tutta cinetica quando passa per la posizione d’equilibrio; si va continuamente mutando da cinetica in potenziale nei tratti ascendenti, da potenziale in cinetica nei tratti discendenti. Ma ben presto ci si accorse che il precedente principio di conservazione cadeva in difetto in tutti i fenomeni meccanici reali, a eccezione dei moti planetari. P. es., qualunque pendolo, dopo aver oscillato per qualche tempo, si ferma; la sua energia meccanica è scomparsa: questo sistema, in cui si calcolano solo le energie meccaniche, non sembra dunque conservativo, ma dissipativo. La scoperta che il calore è una forma di energia e che l’energia meccanica si può trasformare in calore e viceversa, consentì di riaffermare che il pendolo rappresenta un sistema conservativo, perché nella serie delle sue trasformazioni la somma dell’energia meccanica e termica rimane costante. Nel caso del pendolo, infatti, l’energia meccanica esistente all’inizio delle oscillazioni si è trasformata, alla fine del moto, in un’equivalente quantità di calore, sviluppato dall’attrito nei perni e dalla resistenza del mezzo. Se, tuttavia, si tende un filo metallico sino a deformarlo permanentemente (non ritornando quindi nello stato fisico primitivo) e si misura la quantità di calore prodotta durante la deformazione, si trova che essa è minore del lavoro fatto per allungare il filo: il principio di conservazione dell’energia sembra cadere nuovamente in difetto. In realtà, il principio di conservazione resta valido, perché la differenza tra il lavoro occorso per allungare il filo e il calore prodotto si è trasformata in energia interna del filo: nella sua nuova sistemazione molecolare il filo ha incorporato una maggiore energia. La scoperta che il calore può convertirsi in lavoro, e viceversa, secondo un rapporto fisso, non solo decretò il tramonto delle vecchie teorie del calorico, che concepivano il calore come una sostanza materiale fluida, ma portò anche a distinguere le diverse forme di energia e a studiarne modalità di scambio e rapporti di

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conversione di una forma nell’altra. Vennero così individuate e definite le varie forme di energia: energia magnetica, elettrica, gravitazionale, elastica, chimica raggiante, nucleare, energia di legame e di scambio. Il fatto che l’energia meccanica può convertirsi integralmente in calore, ma non viceversa, rese evidente in tutta la sua universalità il processo irreversibile di degradazione dell’energia, che si traduce in un progressivo aumento dell’entropia fino alla finale morte termica dell’universo. L’energia divenne insomma la seconda sostanza della fisica che si collocava allo stesso livello della prima: la materia. Tutto ciò si tradusse ben presto in un programma di ricerca – chiamato energetismo e difeso soprattutto da F.W. Ostwald, il fondatore della chimica-fisica – che tentava di ridurre ogni sostanza materiale a energia. Il superamento della crisi della fisica classica di fine Ottocento mediante la meccanica quantistica, la teoria della relatività e la nascita della fisica nucleare e subnucleare determinò dei poderosi slittamenti semantici nel modo di intendere l’energia. La nozione fisica di campo e la successiva quantizzazione del campo stesso furono i principali veicoli di questa importante svolta concettuale. Nel 1900 M. Planck ipotizzò che emissione e assorbimento di energia elettromagnetica possono effettuarsi soltanto per granuli o quanti finiti di energia di valore proporzionale alla frequenza (E = hv). La riduzione della materia a densità di campo fa venir meno ogni distinzione qualitativa tra materia ed energia e trova la sua canonica espressione nella nota equazione E = mc2, che Einstein dedusse, ancor prima che vi fosse una qualsiasi prova sperimentale, dalla sua rivoluzionaria teoria della relatività ristretta o speciale (1905). Cessava così il dualismo tra massa ed energia, e in luogo di due principi di conservazione, uno per la materia e l’altro per l’energia, se ne aveva uno solo di conservazione della massa-energia. Tutto ciò vuol dire che ogni particella deve essere concepita come una sorta di energia congelata, di valore uguale al prodotto della sua massa per il quadrato della velocità della luce (mc2), la quale, in opportune condizioni, può essere liberata e sfruttata per produrre lavoro. Gli sviluppi della fisica nucleare confermarono in molti modi questa equivalenza della massa con l’energia: una particella, p. es., può annichilarsi fornendo energia (raggiante, termica, cinetica di altre

Energie specifiche particelle) pari a mc2. La quantità di energia prodotta da reazioni nucleari, principalmente da fissione e fusione, è calcolabile mediante questa equazione. La scoperta della reazione a catena a opera di E. Fermi (1942) dimostrò che enormi quantità di energia possono essere ricavate da piccole quantità di uranio: in 450 grammi di uranio si trova tanta energia quanto in migliaia di tonnellate carbone. Un maggior sfruttamento dell’energia nucleare appare attualmente la strategia più conveniente e meno inquinante per tentare di risolvere la crisi energetica o il problema delle risorse energetiche, determinato dal fatto che l’attuale produzione di energia non riesce a soddisfare il fabbisogno energetico mondiale necessario per alimentare le attività produttive dell’uomo e, in particolar modo, quello delle popolazioni in via di sviluppo. Esistono numerose fonti di energia, ma attualmente la maggior parte dell’energia mondiale sfruttata dall’uomo per soddisfare i suoi bisogni fondamentali è fornita da combustibili fossili, carbone e petrolio. Le riserve di quest’ultimo, però, si stanno rapidamente esaurendo e le centrali a carbone risultano altamente inquinanti. Confrontate con l’energia ricavabile dal nucleo dell’atomo, le sorgenti di energia rinnovabili, come il sole, il vento le maree ecc., non risultano molto competitive sia per capacità limitate sia per costi. L. Conti BIBL.: F. STRITTER, Energie. Eine Darstellung des Energie-Begriffes, München 1940; J. MANDELKER, Matter, Energy, Mechanics, New York 1954; M. RESTIGLIAN, L’energia nella sua definizione meccanica e l’evoluzione storica del vocabolo e del concetto, «Studia Patavina», 1959, pp. 450-490; Y. ELKANA, The Discovery of the Conservation of Energy, London 1972; G. TORALDO DI FRANCIA, L’indagine del mondo fisico, Torino 1976; T.S. KUHN, The Essential Tension, Chicago 1977, pp. 66104; P.H. HARMAN, Energy, Force, and Matter. The Conceptual Development of Nineteenth-Century Physics, Cambridge 1982; P.E. HODGSON, Nuclear Power, Energy and the Environment, London 1999. ➨ ATTIVITÀ; ATTO; ENTELECHIA; FORZA; TERMODINAMICA; RELATIVITÀ, TEORIA DELLA.

ENERGIE SPECIFICHE, LEGGE DELLE (law Energie specifiche of specific [nerve] energy; Gesetz der spezifischen Sinnesenergien; loi de l’énergie spécifique; ley de las energías especifícas). – Formulata nel 1826 dal grande fisiologo tedesco J.P. Müller (18011858), stabilisce che ciascun sistema sensoria3399

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Energismo le risponde ai vari stimoli in un modo caratteristico e fisso, cioè con una propria «energia specifica». A ciascun nervo sensoriale viene attribuita infatti una sua energia specifica: «Così la sensazione del suono è l’energia propria del nervo acustico, quella della luce e dei colori è l’energia particolare del nervo ottico ecc.». Una medesima causa, o stimolo esterno o interno, produce sensazioni differenti nei diversi sensi proprio in ragione della loro specifica natura: una corrente elettrica, p. es., causerà delle sensazioni tattili, visive, uditive, gustative a seconda che agisca sui nervi del tatto, della vista, dell’occhio, del gusto. Tutti gli stimoli – siano essi di tipo meccanico, chimico, termico o galvanoelettrico – che agiscono sui nervi hanno lo stesso tipo di effetto, nel senso che ciascun nervo reagisce sempre e solo con la sua peculiare «energia specifica». Si possono ottenere, p. es., sensazioni luminose, stimolando il nervo ottico tanto con la luce quanto con stimoli meccanici o elettrici. Ne consegue che le sensazioni dei diversi sensi derivano la loro qualità particolare dall’organo stimolato e non dalla qualità dello stimolo. La legge delle energie specifiche ha importanti implicazioni epistemologiche, perché porta ad affermare la tesi che l’uomo non percepisce i processi reali del mondo esterno, ma solo le alterazioni che questi producono nel suo sistema sensoriale. La legge delle energie specifiche riflette il quadro culturale del meccanicismo associazionistico del sec. XIX. Nonostante che molte teorie sensorie si siano sviluppate a partire dai suoi presupposti, evidenzia vistose carenze (Morgan). Essa, del resto, accorda troppo scopertamente all’organismo il potere di trasformare il mondo fisico conosciuto e attribuisce ai sistemi sensoriali la capacità di creare le differenti strutture della nostra esperienza, per cui la visione, il tatto e l’udito non ci forniscono altro che qualità prodotte dagli organi messi in gioco. Ma è soprattutto sul terreno morfologico, neurologico e su quello funzionale che la sua versione originaria mostra i suoi limiti maggiori. Le indagini elettrofisiologiche più recenti, oltre che mettere in dubbio la specificità dei recettori periferici, evidenziano che la conduzione degli stimoli non segue vie semplici: gli impulsi provenienti da diversi recettori si possono accoppiare, sottrarre o comunque modificare. La neuropatologia dimostra poi che le lesioni dei centri e anche dei con3400

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duttori non produce una perdita delle «qualità sensibili», ma una decomposizione: p. es., prima i colori sono modificati nella loro tonalità, poi lo spettro si semplifica fino a una monocromasia in grigio. Perciò, piuttosto che una perdita di qualità, si ha una minore reattività dei conduttori o, meglio, un livellamento delle eccitazioni che non vengono più organizzate in quell’insieme stabile che è la sensazione specifica. Così pure l’eccitazione di una regione della pelle con un capello produce progressivamente una gamma di sensazioni, che vanno da una sensazione tattile puntuale a una sensazione termica, a un’impressione di movimento circolare dell’eccitante; infine si annullano, non avvertendosi più nulla. È dunque l’azione totale, olistica, dell’organismo che specifica l’eccitazione in questa o quella qualità sensibile, e l’organo sensoriale vi entra a seconda del modo in cui l’organismo lo accorda alla sua funzione totale. L. Conti BIBL.: J.P. MÜLLER, Zur vergleichenden Physiologie des Gesichtssinnes, Leipzig 1926; M. MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, Paris 1945; E.D. ADRIAN, The Physical Background of Perception, Oxford 1947, tr. it. di G. Moruzzi, I fondamenti fisiologici della percezione, Torino 1952; C.T. MORGAN, Some Structural Factors in Perception, in R.R. BLAKE - G.V. RAMSEY (a cura di), Perception, New York 1951, pp. 25-55; R.W. SPERRY, Science and Moral Priority, New York 1983; A.R. DAMASIO, The Feeling of What Happens, New York 1999, tr. it. di S. Frediani, Emozione e coscienza, Milano 2000.

ENERGISMO Energismo (energism; Energismus; énergisme; energismo). – Dottrina etica, che ha avuto il suo teorico in F. Paulsen, per il quale l’ideale etico consiste nella pienezza delle manifestazioni vitali, cioè nel completo e armonico sviluppo delle forze fisiche e spirituali e nella totale partecipazione alle forme storicamente e spiritualmente più evolute della vita associata (System der Ethik, I, Berlin 19005). Influenzato dallo scientismo positivistico, Paulsen mette in risalto lo stretto rapporto che esiste tra etica e biologia, in quanto scienze che studiano, sia pure sotto due prospettive diverse, le forme dello sviluppo delle energie vitali dell’uomo. Natura ed etica si sviluppano teleologicamente, giungendo a pienezza nell’unità psichica suprema che è un dio, panteisticamente inteso come forza operante nella natura e nella

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cultura (cfr. Einleitung in die Philosophie, Berlin 1892). D. Fiorot - M. D’Avenia

ENESIDEMO Enesidemo (Aijnhsivdhmo"). – Filosofo scettico, fondatore del movimento neo-pirroniano, vissuto probabilmente nella seconda metà del sec. I a. C., nativo di Cnosso (Creta, anche se Fozio lo dice «di Egea»). SOMMARIO: I. I tropi e il loro significato - II. Il bene; l’eraclitismo di Enesidemo. Poche notizie soltanto si hanno sulla sua vita; forse insegnò ad Alessandria. Volle combattere il presunto scetticismo dell’Accademia del suo tempo, soprattutto il fallibilismo di Filone di Larissa, deviato a suo avviso verso una forma di dogmatismo pericolosamente vicina allo stoicismo, per ritornare invece, in modo indubbiamente originale e non senza forzature interpretative, a Pirrone assunto come «bandiera» del suo nuovo movimento filosofico. La sua opera principale, perduta, s’intitolava Discorsi pirroniani (Purrwvneioi lovgoi) in 8 libri. Fozio (Myriobiblon, cod. 212) la espone sinteticamente libro per libro e ci attesta che essa era dedicata al romano L. Elio Tuberone, di stirpe illustre, con importanti cariche pubbliche e a lungo ritenuto suo condiscepolo nell’Accademia, anche se tale appartenenza di scuola per Enesidemo è stata di recente messa in discussione con argomenti di peso. Autorevoli studiosi hanno identificato il dedicatario dei Discorsi pirroniani col Tuberone amico di gioventù di Cicerone (cfr. Ad Quintum fratrem, I, I, 3, 10; Pro Ligario, 7, 21; 9, 27); e appunto questa è la ragione principale per cui la vita di Enesidemo sarebbe da collocare nel periodo di tempo indicato. Altre opere attribuitegli da diversi autori: Contro la sapienza (Kata; sofiva"); Intorno alla ricerca (Peri; zhthvsew"); Schizzo introduttivo al pirronismo (ÔUpotupwvsi" eij" ta; Purrwvneia); Elementi (Stoiceiwvsei"); Prima introduzione (Prwvth eijsagwghv). Ma non si sa se questi titoli designino opere particolari o parti di una stessa opera o di più opere. I. I TROPI E IL LORO SIGNIFICATO. – La dottrina di Enesidemo non è agevole da ricostruire, anche per l’assenza a tutt’oggi di un’edizione critica delle testimonianze che lo riguardano. Difficilissimo, dunque, è il compito di chi voglia individuare con esattezza quanto debba essere con certezza ricondotto a lui, in particolare dietro le pagine della fonte pirroniana che più verosimilmente ne fece largo uso, Sesto Empi-

Enesidemo rico, il quale non può tuttavia essere ridotto al rango di mero copista del pensiero enesidemeo. Al di là di tali problemi ermeneutici, possiamo forse raggiungere alcuni punti fermi. Appare in primo luogo innegabile che Enesidemo fu il primo a raccogliere e formulare sistematicamente gli argomenti con cui gli scettici sostenevano la necessità di sospendere l’assenso e quindi il giudizio. Il suo intento era di classificare in maniera organica le opposizioni possibili fra il modo in cui un oggetto appare (senza distinguere pregiudizialmente se alla percezione sensibile o intellettuale) e ciò che esso è in realtà o secondo natura. La parola trovpoi («modi»), invece della quale si adoperano anche i termini tovpoi («schemi o figure argomentative») o lovgoi («argomenti» o «ragioni»), indica appunto l’insieme delle varie argomentazioni specifiche e degli strumenti tecnici che la tradizione scettica ha elaborato nel corso della sua storia per raggiungere la ejpochv. Benché essi sopravvivano in fonti e versioni diverse, la presentazione più completa appare proprio quella offerta da Sesto. I «modi» sono dieci, senza che questo possa in alcun modo legittimare un parallelismo con le categorie di Aristotele, e riguardano nell’ordine (sestano): 1) differenze di «rappresentazioni» che si riscontrano fra gli animali; 2) differenze fra gli uomini, i quali non solo giudicano le medesime cose chi in un modo, chi in un altro, ma provano piacere o disgusto in maniera differente per le stesse cose; 3) indirimibili conflitti di apparenze che si ricavano dalla molteplicità e varietà delle sensazioni; 4) opposizioni o discrepanze, riscontrabili entro il medesimo senso, rispetto alle «circostanze» (peristaseis) o «disposizioni» (diatheseis, come per esempio, salute, malattia; sonno, veglia; gioia, dolore; giovinezza, vecchiaia; coraggio, paura; caldo, freddo ecc.); 5) varietà delle rappresentazioni per effetto delle distanze, dei luoghi e delle posizioni, per cui le cose che sembrano grandi si mostrano piccole, le quadrate rotonde, le lisce ruvide, le diritte spezzate ecc.; 6) mescolanze interne o esterne, che impediscono una percezione sensibile pura e assoluta degli oggetti e costringono a limitare le proprie affermazioni al modo in cui ci appaiono le varie commistioni; 7) tipi di composizione diversi che entrano in gioco nella formazione di un oggetto e che danno origine a rappresentazioni sensoriali discordi; 8) relazione (tutto es3401

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Enesidemo sendo relativo, dobbiamo sospendere il giudizio sulla reale natura delle cose); 9) opposte rappresentazioni prodotte a seconda della quantità di occorrenze (frequenti - rare) di un determinato evento nel corso cumulativo della nostra esperienza; 10) i cinque fattori (diversità di scelte di vita, costumi, leggi, credenze mitiche e presupposizioni dogmatiche), generatori di conflitti di rappresentazioni, accuratamente ricostruiti in tutti i loro possibili incroci (ben quindici), e dunque capaci di indurre alla ejpoch sulla reale natura degli oggetti o comportamenti presi in considerazione. Sesto Empirico (Lineamenti pirroniani, I, 3839), forse in modo alquanto originale, raggruppa poi i tropi in tre gruppi, a seconda che essi abbiano a che fare solo con il soggetto giudicante (i primi quattro); solo con l’oggetto giudicato (il settimo e il decimo); o infine con entrambi (il quinto, il sesto, l’ottavo e il nono). Quindi propone una sorta di struttura piramidale: al vertice troviamo, quale genere sommo, il tropo della relazione, cui sono subordinati rispettivamente, quali sue specie, i tre raggruppamenti appena menzionati e quali sue infimae species i dieci modi nella loro totalità. Se le percezioni sensoriali non danno nessuna certezza, anche la ragione è infida; la dimostrazione di Enesidemo doveva riguardare tre punti: la verità, le cause, i segni. In particolare, mostrato che non ci può essere verità e quindi scienza (cfr.: Sesto Empirico, Adversus mathematicos, VIII, 40-48; Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 92-96), e giacché i dogmatici, che credono nella possibilità della scienza, considerano questa come la scoperta delle cause o come un sistema di dimostrazioni, Enesidemo mostra che non ci sono e non ci possono essere cause né relazioni necessarie fra le nostre idee, né quindi dimostrazioni. Oltre a una batteria di argomenti o tropi contro gli «aitiologisti», che mostrano l’infondatezza o meglio la non giustificabilità delle singole spiegazioni causali (cfr.: Sesto Empirico, Lineamenti pirroniani, I, 180-186), Enesidemo formulò verosimilmente anche un altro tipo di attacco, molto più radicale, contro il concetto e l’esistenza della causa e dunque contro la possibilità stessa di considerare qualcosa causa di qualcos’altro, anticipando quindi in qualche modo le sottili critiche di Hume (cfr.: Sesto Empirico, Adversus mathematicos, IX, 218227; Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 97-99). 3402

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Dimostrata impossibile la conoscenza diretta delle cause, Enesidemo passa a mostrare come sia impossibile anche la loro conoscenza indiretta attraverso i segni, ossia attraverso i fenomeni o effetti, dai quali, secondo gli stoici e gli epicurei, mediante il ragionamento si risalirebbe a ciò che essi significano, ossia alle cause significate (cfr.: Fozio, Myriobiblon; Sesto Empirico, Adversus mathematicos, VIII, 215-222 e 234-236; cfr.: Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 96). Sesto Empirico sviluppò questa dottrina dei segni, legandola anche a una più tecnica distinzione fra segni rammemorativi e indicativi. Può darsi che, come suppone Robin, Enesidemo abbia contribuito indirettamente anche alla critica (che troviamo esposta nelle opere di Sesto Empirico) mossa dagli scettici alla sillogistica aristotelica e alla dialettica stoica. II. IL BENE; L’ERACLITISMO DI ENESIDEMO. – Pare che anche nella morale Enesidemo rinnovasse l’insegnamento di Pirrone. Per conciliare le varie testimonianze che abbiamo al riguardo (Fozio, Myriobiblos, 212, 22, 26, 30; Sesto Empirico, Adversus mathematicos, Xl, 42; Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 107; Aristocle presso Eusebio, Praeparatio evangelica, XIV, 19, 4), si può supporre che egli, al pari di Pirrone e di Timone, facesse consistere il sommo bene nella sospensione dell’assenso e nella conseguente imperturbabilità dell’animo. Dibattutissima è la questione dell’eraclitismo di Enesidemo. Dice Sesto Empirico (Lineamenti pirroniani, I, 210): «Enesidemo sosteneva che l’indirizzo scettico è una via verso la filosofia eraclitea (perché il fatto che appaiono aspetti contrari riguardo alla medesima cosa spiana la strada al fatto che aspetti contrari riguardo alla medesima cosa sussistono effettivamente) e gli scettici affermano che aspetti contrari riguardo alla medesima cosa appaiono, mentre gli eraclitei da ciò arrivano all’effettiva sussistenza di quegli aspetti» (cfr. Adversus mathematicos, VII, 349 e 350; VIII, 8; IX, 337; X, 38, 216, 233; Lineamenti pirroniani, III, 138; Tertulliano, De anima, cap. 25). Senza voler qui riproporre tutte le possibili risposte e una volta scartata la facile, ma improduttiva strada di un grave errore o di una imperdonabile disattenzione dossografica di Sesto, basterà forse riassumere in generale il ventaglio delle ipotesi più rilevanti. Secondo alcuni interpreti Enesidemo passò dallo scetticismo all’eraclitismo, e, affermando il coesistere dei contrari

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nell’essere e non nei fenomeni soltanto, non solo non credette di divenire, ma in realtà non divenne dogmatico (contrariamente all’opinione di Brochard). Secondo un altro punto di vista (cfr. già Saisset, nonché poi Dal Pra e Rist) Enesidemo passò invece dall’eraclitismo, sostenuto in una fase iniziale e dogmatica della sua formazione filosofica, al pirronismo, ultimo approdo di una considerazione della filosofia ormai compiutamente scettica. Tenendo sempre fermo il carattere non dogmatico di Enesidemo, altri autori (cfr. soprattutto Burkhard) hanno accreditato per lui un uso esclusivamente dialettico (ed essenzialmente anti-stoico) dell’eraclitismo. Nonostante la plausibilità di quest’ultima ipotesi, cui si affianca l’altra, sostenuta da Pérez, che vede nell’eraclitismo enesidemeo «una utilizzazione filosofica della dossografia», appare infine legittimo avanzare un’altra possibilità: che sia lo stesso Sesto, per i suoi scopi compositivi, a usare alcuni spunti dell’interpretazione eraclitea fornita da Enesidemo per classificarlo – come del resto fa apertamente in altri punti dei suoi scritti – fra i dogmatici, allo scopo di far meglio risaltare la purezza e la forte originalità del proprio pirronismo. G. Capone Braga - E. Spinelli BIBL.: manca una raccolta delle testimonianze: cfr. F. DECLEVA CAIZZI, Per un’edizione delle testimonianze sullo scettico Enesidemo, in «Annuario Ginnasio Liceo “A. Volta” di Como», 5 (1990-1992), pp. 183-200; si veda anche: H. DIELS, Doxographi Graeci, Berlin 1879, pp. 210 ss., tr. it. di F. Torraca, Padova 1961; H. VON ARNIM, Philo und Aenesidemos, in Quellenstudien zu Philo von Alexandria, Berlin 1888, pp. 53-100. Su Enesidemo: oltre a E. ZELLER, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Leipzig 1919-23, rist. Hildesheim - Zürich - New York 1990 (Tübingen 1844-52), III, 2, pp. 23-46, e alle ricostruzioni complessive dedicate allo scetticismo antico (v., con relativi rinvii bibliografici), si vedano più in dettaglio E. SAISSET, Le scepticisme antique, Aenésidème, Pascal, Kant, Paris 18652, pp. 209 ss.; A. D’ORAZIO, Enesidemo e lo scetticismo greco, Roma 1901; G. CAPONE BRAGA, L’eraclitismo di Enesidemo, in «Rivista di Filosofia», 22 (1931), pp. 33-47; E. CHATZILYSANDROS, Geschichte der skeptischen Tropen ausgehend von Diogenes Laertius und Sextus Empiricus, München 1970; J. RIST, The Heracliteanism of Aenesidemus, in «Phoenix», 24 (1970), pp. 309-319; U. BURKHARD, Die angebliche Heraklit-Nachfolge des Skeptikers Aenesidem, Bonn 1973; K. JANÁCEK, Zur Interpretation des Photios Abschnittes über Ainesidemos, in «Eirene», 14 (1976), pp. 93-100; K. JANÁCEK, Philon von Alexandria

Enfantin und die skeptischen Tropen, in «Eirene», 19 (1981), pp. 83-97; G. STRIKER, The Ten Tropes of Aenesidemus, in M. BURNYEAT (a cura di), The Skeptical Tradition, Berkeley - Los Angeles - London 1983, pp. 95-115; J. ANNAS-J. BARNES, The Modes of Scepticism. Ancient Texts and Modern Interpretations, Cambridge 1985; F. DECLEVA CAIZZI, Aenesidemus and the Academy, in «Classical Quarterly», 42 (1992), pp. 176-189; J. MANSFELD, Aenesidemus and the Academics, in L. AYERS (a cura di), The Passionate Intellect. Essays for I. Kidd, New Brunswick - London 1995, pp. 235-248; E. SPINELLI, Enesidemo e la corporeità del tempo, in G. CASERTANO (a cura di), Il concetto di tempo, Napoli 1997, pp. 159-171; B. PÉREZ, s. v., in R. GOULET (a cura di), Dictionnaire des philosophes antiques III, Paris 2000, pp. 90-99; C. VIANO, «Enésidème selon Héraclite»: la substance corporelle du temps, in «Revue philosophique de la France et de l’étranger», 192 (2002), pp. 141-158; M.L. CHIESARA, Storia dello scetticismo greco, Torino 2003, pp. 112-153; R. POLITO, The Sceptical Road: Aenesidemus’ Appropriation of Heraclitus, Leiden-Boston 2004; B. PÉREZ-JEAN, Dogmatisme et scepticisme: L’héraclitisme d’Enésidème, Villeneuve d’Ascq 2006.

ENFANTIN, BARTHELÉMY PROSPER. – SocioEnfantin logo francese, n. a Parigi nel 1796, m. ivi nel 1864. Nel 1823 sottoscrisse il Catéchisme des industriels, ma non fece parte degli intimi di H. de Saint-Simon; solo nel 1825, alla morte di quest’ultimo, si unì a O. Rodriguez e agli altri fondatori del «Producteur», divenendo ben presto Père suprème della famiglia sansimoniana. Oltre agli articoli sul «Producteur», sul «Globe», sull’«Organisateur» e sul «Crédit», pubblicò: La colonisation de l’Algérie, Paris 1843; Correspondance philosophique et religieuse, ivi 1847-49; La science de l’homme, ivi 1858; La vie éternelle, ivi 1861. Secondo Enfantin la vita individuale è un aspetto della vita sociale e la società un’individualità psicologica. L’amore, che Enfantin chiamerà religione, costituisce il legame della società, nella quale ogni individuo deve integrarsi. L’organizzazione politico-sociale assume così le forme di una vaga teocrazia, il cui equilibrio è assicurato dalla presenza del sacerdote, anzi della «coppia sacerdotale». F. Gentile BIBL.: C. LIBERT, Enfantin, in «Les contemporains», 1899, n. 366; S. CHARLÉTY, Histoire du Saint-Simonisme, Paris 1931; G. SANTONASTASO, Il socialismo francese, Firenze 1954.

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Enfield ENFIELD, WILLIAM. – Poligrafo e storico delEnfield la filosofia, n. a Sudbury (Suffolk) il 29 mar. 1741, m. a Norwich il 3 nov. 1797. Di famiglia presbiteriana, studiò teologia nell’accademia per dissidenti di Daventry; ordinato ministro, insegnò fino al 1783 all’accademia di Warrington e fu poi ministro della congregazione unitariana di Norwich. Razionalista e unitariano sul piano teologico, in campo politico si schierò con i sostenitori di radicali riforme. Oltre a raccolte di sermoni e a lavori di carattere letterario e storico, scrisse un manuale di fisica newtoniana (Institutes of Natural Philosophy, London 1785, più volte riedito), un manuale di filosofia (Principles of Mental and Moral Philosophy, to which is prefixed, Elements of Logic, ivi 1809) e, soprattutto, un fortunato compendio di Brucker: The History of Philosophy from the Earliest Times to the Beginnings of the Present Century (London 1791, 2 voll.; riedito nel 1792, 1819, 1837, 1839, 1840; rist. con introduzione di K. Haakonssen, Bristol 2001). A partire dal 1774 collaborò con recensioni alle principali riviste letterarie; fra l’altro recensì il saggio di F.A. Nitsch sulla filosofia di Kant («The Monthly Review», 22, 1797, pp. 15-18). G. Micheli BIBL.: F. BOTTIN, William Enfield (1741-1797), in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. III: Il secondo Illuminismo e l’età kantiana, Padova 1988, pp. 573-581, G. MICHELI, The Early Reception of Kant’s Thought in England: 1785-1805, in G. MACDONALD ROSS - T. MCWALTER (a cura di), Kant and His Influence, Bristol 1990, pp. 269-272; M. FITZPATRICK, s. v., in J.W. YOLTON - J.V. PRICE - J. STEPHENS (a cura di), Dictionary of 18th-Century British Philosophers, Bristol 1999, pp. 313-316.

ENGEL, JOHANN JACOB. – Illuminista tedesco, Engel n. a Parchim (Meclemburgo) l’11 sett. 1741, m. a Berlino il 28 giu. 1802. Critico, studioso d’estetica e drammaturgo, fu precettore del futuro re di Prussia Federico Guglielmo III. Dopo aver studiato a Lipsia filosofia e teologia dal 1757 al 1770, insegnò filosofia al ginnasio di Joachimsthal (Brandeburgo) e fu direttore a Berlino, con il poeta Ramler, del nuovo teatro tedesco. Nella capitale si legò d’amicizia con i principali esponenti dell’illuminismo. La raccolta completa dei suoi scritti, in 12 volumi, è in Sämtliche Schriften, Berlin 1801-06. Tra le sue opere: Anfangsgründe einer Theorie der Dichtungskunst aus deut3404

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schen Mustern entwickelt (Berlin-Stettin 1783, rist. Hildesheim 1977); Ideen zu einer Mimik, (Berlin 1785-86, 2 voll.). Sul piano filosofico Engel appartiene all’indirizzo della «filosofia popolare»: eclettismo d’impronta wolffiana, aperto alle istanze dell’empirismo; interesse per i temi antropologici e psicologici; interpretazione etica del cristianesimo; intento pedagogico e divulgativo (cfr. la raccolta curata da Engel, Der Philosoph für die Welt, Leipzig-Berlin 1775-1803, 4 voll.). In linea con queste tendenze va considerato il suo impegno nel dibattito, assai vivo nell’ambiente berlinese, sulla natura e i limiti dell’illuminismo. Membro della «Mittwochgesellschaft» (fondata nel 1783), prese infatti parte attiva alle discussioni in seno alla società. Fu lui, ancora, ad assumere la difesa di Mendelssohn e dell’illuminismo di fronte all’attacco di Jacobi, pubblicando postumo (Berlin 1786) l’appello del filosofo ebreo An die Freunde Lessings con una propria prefazione. B. Bianco BIBL.: F. HOFFMANN, Johann Jacob Engel als Aesthetiker und Kritiker, Breslau 1922; E.A. PAEPKE, Johann Jacob Engel als Kritiker, Freiburg im Breisgau 1929; J.-L VIEILLARD-BARON, Johann Jacob Engel «modernisateur» de Platon, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 80 (1975), pp. 346-350; A. KOSENINA - M. WEHRHAHN (a cura di), Johann Jacob Engel (17411802), Berlin 1991.

ENGEL, PASCAL. – Filosofo francese, n. il 17 Engel genn. 1954 a Aix en Provence. Attualmente insegna alla Sorbona. È uno dei principali esponenti della filosofia analitica europea. Ha studiato con J. Bouveresse, addottorandosi con una tesi su Frege e Kripke. La Norme du vrai (Paris 1989) è un ampio trattato di logica filosofica, concepito secondo i canoni della tradizione analitica, ma aperto al linguaggio e alle problematiche filosofiche tradizionali. Tra il 1992 e il 1996 ha scritto saggi sulla filosofia della mente, su D. Davidson, sui rapporti tra psicologia e filosofia (Philosophie et psychologie, ivi 1996). Negli ultimi anni Engel si è occupato principalmente dei problemi connessi all’affermazione della filosofia analitica in Europa e della verità. In riferimento al primo tema, ha compiuto un’importante opera di mediazione culturale, anzitutto con La dispute, une introduction à la philosophie analytique (ivi 1997), ma anche intervenendo nel dibattito su filosofia analitica e continentale. Alla verità ha dedica-

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to un breve saggio, La vérité (ivi 1998, tr. it. di G. Tuzet, Verità, Genova 2004) , in cui dimostra come sia ingiustificata la tendenza relativistica a dedurre il valore della nozione di verità dai suoi tratti concettuali. Su questo ha discusso con R. Rorty (A quoi bon la vérité?, Paris 2004). F. D’Agostini

ENGELBERTO. – Abate benedettino di AdEngelberto mont, n. nel 1250 ca., m. nel 1331. Commentatore di Aristotele, studiò nelle università di Praga e di Padova e scrisse, oltre che di teologia, anche di politica: De regimine principum (ed. a cura di I.G. Hufnagel, Ratisbonae 1725), e De ortu et fine Romani Imperii (Basileae 1553). Pur seguendo Aristotele nella concezione dello stato, egli ne accentua il carattere morale; lo stato non è subordinato alla chiesa, perché entrambi sono egualmente necessari per attuare la felicità dell’uomo. A. Tognolo BIBL.: Vom Ursprung und Ende des Reiches und andere Schriften, ed. a cura di W. Baum, F. Kucher e R. Senoner, Grazer Beiträge zur Theologiegeschichte und kirchlichen Zeitgeschichte, vol. XI, Graz 1998. Su Engelberto: A. POSCH, Die staats- und kirchenpolitische Stellung Engelberts von Admont, Paderborn 1920; M. GRABMANN, Studien über Kirche und Staat, in «Sitzungsberichte der Münchener Akademie der Wissenschaften», 2 (1934), pp. ; E. SCHULTZ, Zur Beurteilung E.s von A., in «Arch. f. Kulturgesch.», 1939, pp. 51-63; O. MENZEL, Bemerkungen zur Staatslehre E.s von A. und ihre Wirkung, in Corona quernea, Festgabe K. Strecker, Leipzig 1941, pp. 390-408; G.B. FOWLER, Intellectual Interests of E. of A., New York 1947; G.B. FOWLER, Manusript Admont 603 and E. of A. (c, 1250-1331). Appendix 14, Summa Alexandrinorum, in «Arch. d’H. Doct. et Litt. du M. Age» 24 (1982), pp. 69-89; J.M. BLYTHE, Family, Government and the Medieval Aristotelians, in «History of Political Thought» 10 (1989), pp. 1-16; W. BAUM, E. v. A. und der padovanische Aristotelismus, in «Medioevo» 22 (1996), pp. 463-478; K. UBL, E. v. A.: ein Gelehrter im Spannungsfeld von Aristotelismus und christlicher Uberlieferung, in «Freib. Zeitsc. f. Philos. u. Theol.», 50 (2003), pp. 211-215.

ENGELHARDT, HUGO TRISTRAM. – A Hugo Engelhardt Tristram Engelhardt va riconosciuto un duplice ruolo: promotore culturale di un approfondito confronto della filosofia con la medicina e divulgatore di successo di un approccio alla bioetica di natura «contrattuale». Subentrato nel 1984 a Edmund Pellegrino nella direzione

della rivista «Journal of Medicine and Philosophy», ha contribuito a promuovere un’esplorazione sistematica di vari aspetti delle cure sanitarie rilevanti per la filosofia. Anche tramite la collana «Philosophy and Medicine» dell’editore Kluwer – che Engelhardt dirige fin dalla fondazione nel 1975 – ha incrementato la riflessione filosofica contemporanea applicata alla medicina. I temi trattati vanno dalle questioni di tipo epistemologico (valutazione e sperimentazione nelle scienze biomediche; conoscenza, valore e credenza; il giudizio clinico; come si risolvono le dispute relative alla scienza e alla tecnologia nelle controversie scientifiche), fino agli interrogativi che nella cultura contemporanea sono diventati sinonimo di bioetica: l’uso degli esseri umani nella ricerca; malattie e salute nell’ambito della psichiatria; l’aborto e lo statuto del feto; l’ethos contraccettivo; il trattamento dei neonati gravemente malformati; suicidio ed eutanasia; i costi della salute; equità e sistemi sanitari. Il ruolo che Engelhardt attribuisce alla filosofia è quello di aiutare la medicina a definire il suo ruolo nella società contemporanea e la società a intendere il senso della professione sanitaria. La proposta bioetica alla quale Engelhardt ha legato il proprio nome si riassume nell’immagine dell’«isola per stranieri morali». Vivendo nel post-moderno, siamo diventati consapevoli che è tramontata non solo la sintesi religiosa che ha dato unità alla società fino all’epoca moderna, ma anche la speranza illuministica di scoprire mediante la sola ragione il carattere della vita moralmente buona. In particolare la discussione sui problemi della bioetica si svolge entro l’orizzonte di società laiche pluralistiche. In un’epoca di incertezza, la bioetica ha il compito di offrire la possibilità di condurre discussioni aperte, pacifiche, tra gruppi in disaccordo. Si presenta come la lingua franca di un mondo che, pur senza possedere una concezione etica comune, vuol risolvere pacificamente i conflitti che crescono attorno alla salute e alle cure sanitarie. La speranza è la soluzione tramite accordo. Il mondo morale può essere costruito con la libera volontà, anche se non sulla base di solidi argomenti razionali aventi contenuto morale. Questa è l’essenza del «contrattualismo» proposto da Engelhardt come base per la bioetica. La posizione di Engelhardt non va equivocata come una forma di «laicismo». A suo avviso, la 3405

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Engelken vita morale va vissuta a due livelli: quello di un’etica laica povera di contenuto, che ha la capacità di tenere insieme numerose comunità morali divergenti, e quello delle comunità morali particolari, entro le quali è possibile conseguire una concezione fornita di contenuto della vita moralmente buona. È solo nell’ambito di una comunità particolare che si impara se sia giusto o sbagliato, se valga o no la pena di fare le cose che si ha il diritto laico di fare, quali beni devono essere perseguiti, a quali costi e per quali fini. Engelhardt stesso sul piano privato si professa cristiano ortodosso e fedele all’insegnamento tradizionale. La bioetica che propone, se è incapace di fornire una giustificazione razionale generale ai comportamenti più cari al sentimento morale comune, lascia però ai cittadini la possibilità di coltivare la religione e la morale che preferiscono. S. Spinsanti BIBL.: H. TRISTRAM ENGELHARDT JR, Manuale di bioetica, Milano 1999.

ENGELKEN, HEINRICH ASKAN. – Pensatore Engelken tedesco vissuto a cavallo del 1700; fu rettore dell’università di Rostock. Difensore dell’aristotelismo, diresse alcuni suoi allievi in dissertazioni polemiche su Gassendi e i calvinisti. Tra queste: Exercitatio Antigassendiana, Rostochii 1697; Censor censura dignus, ivi 1698; Philosophus defensus, ivi 1698; Dissertatio ex philosophia rationali, Lipsiae 1699; Usus logicae, Rostochii 1702. A. Tognolo BIBL.: G. SORTAIS, La philosophie moderne dépuis Bacon jusqu’à Leibniz. Etudes historiques, Paris 1922, vol. II, pp. 268-269, 378.

ENGELS, FRIEDRICH. – Teorico del socialiEngels smo, n. a Barmen il 28 nov. 1820, m. a Londra il 5 ag. 1895. Figlio di un ricco industriale tessile ed educato in un ambiente rigorosamente pietistico, perdette ben presto la fede della sua giovinezza in seguito alla conoscenza della problematica filosofica contemporanea e, particolarmente, dell’opera Das Leben Jesu di Strauss (1835), da lui conosciuta attraverso la lettura dei saggi di Karl Gutzkow, direttore del «Telegraph für Deutschland». Durante il servizio militare a Berlino nel 1842 fu in contatto con il circolo accademico dei giovani hegeliani (Bund der 3406

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Freien), accostandosi alla concezione della storia universale come sviluppo del concetto della libertà. Alla fine dello stesso anno pubblicò anonima l’opera Schelling und die Offenbarung (Leipzig 1842), in cui sostiene l’inconciliabilità della rivelazione con la filosofia, e celebra l’autocrazia dell’uomo come il nuovo Graal, al cui trono i popoli si riuniscono esultanti. Anche nell’altra opera pubblicata nello stesso anno, Der Triumph des Glaubens (Neumünster bei Zürich 1842), Engels interpreta il pensiero hegeliano in chiave di filosofia della storia, come rappresentazione del cammino dell’umanità verso il regno della ragione e la libertà. La conoscenza dell’opera di Feuerbach, Das Wesen des Christentums (1841) suscitò in lui un primo mutamento dalla Weltanschauung idealistica verso il materialismo. Recatosi a Manchester per curare lo stabilimento tessile paterno, entrò in contatto con la sezione inglese della Lega dei Giusti, dando poi alle stampe i risultati del suo primo approccio ai problemi dell’economia politica, in due saggi (Die Lage Englands e Umrisse zu einer Kritik der Nationalökonomie), comparsi nella rivista «Annali franco-tedeschi». Da notare che l’esigenza di una comprensione teorica generale delle leggi di sviluppo della società capitalistica, alla quale si orienterà di lì a poco lo stesso Marx con la stesura dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, trova una prima espressione sufficientemente organica proprio nello Schizzo redatto da Engels nel 1843. Nel corso di un successivo soggiorno a Parigi (1844), strinse amicizia con Marx accostandosi alle dottrine comunistiche e iniziando quella collaborazione umana e di pensiero con Marx, che doveva durare sino alla morte di questo (1883) e che costituisce uno dei tratti più nobili della sua vita. Risale a questo periodo la redazione di uno fra i più importanti scritti engelsiani, quel Die Lage der arbeitenden Klasse in England (Leipzig 1845), che può essere considerato il primo grande documento del socialismo scientifico. Con numerosi viaggi, tra il 1845 e il 1848, a Bruxelles a Londra a Parigi, Engels si tenne in contatto con i movimenti iniziali del socialismo e del comunismo. Dopo l’adesione, condivisa con Marx, alla Lega dei Giusti, dalla quale trasse origine successivamente la lega comunista internazionale, Engels per questa scrisse con Marx, nell’inverno 1847-48, il Manifesto del partito comunista. Scoppiata la rivolu-

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zione di marzo, ritornò con Marx in Germania e fondò la «Neue Rheinische Zeitung» a Colonia. Dopo il fallimento della rivoluzione nel 1849 abbandonò definitivamente la Germania, recandosi in Svizzera, in Francia e in Inghilterra. Dal 1850 riprese qui la sua attività nell’industria paterna, per poter assicurare l’indipendenza economica a Marx che aveva intanto intrapreso gli studi preparatori alla stesura del Capitale. Dopo il 1870, ritiratosi dall’attività industriale, si dedicò interamente all’opera di scrittore e dirigente della Prima e della Seconda (1889) Internazionale e condusse a termine, sui manoscritti di Marx, i volumi II e III del Capitale (1885 e 1894), occupandosi anche di questioni militari (con una serie di scritti che fissano la politica militare del marxismo) e mantenendo una amplissima corrispondenza con gli esponenti comunisti di tutto il mondo. A partire dal 1844 i tratti originali del pensiero di Engels non sono nettamente distinguibili da quelli di Marx, specie nella produzione in comune. Lo stesso Engels fu del resto troppo modesto nel valutare il suo apporto alla concezione marxistica. Agli inizi della collaborazione è tuttavia certo che egli fu il maestro nel campo della economia politica, in virtù della sua conoscenza della vita commerciale e industriale inglese e in quanto si accostava al comunismo dopo l’esperienza del cartismo: ed egli fors’anche rivelò a Marx la necessità del generarsi del comunismo dalla stessa evoluzione capitalistica. Nell’opera, scritta in collaborazione con Marx, Die heilige Familie, oder Kritik der kritischen Kritik (Leipzig 1845; e in collaborazione con Marx è pure la composizione tra il 1845-46 della Deutsche Ideologie, pubblicata solo nel 1932), Engels delinea i tratti del suo materialismo dialettico in contrapposizione alla filosofia speculativa ed alla pura critica astratta di Bruno Bauer e dei suoi fratelli Edgardo ed Egberto. Engels, contro l’umanesimo individualistico di L.A. Feuerbach (cfr. Ludwig Feuerbach and der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie, Stuttgart 1888), insiste sulla determinazione della coscienza da parte dell’essere sociale ed economico dell’uomo. Mentre Marx era intento all’elaborazione del sistema economico nel Capitale, Engels, la cui formazione filosofica era tuttavia più superficiale di quella di Marx, si dedicava alla popolarizzazione del materialismo dialettico nei

Engels suoi aspetti filosofici e scientifici; la situazione iniziale veniva così capovolta: l’«economista» Engels subentrava al «filosofo» Marx nella divulgazione filosofica. Tra gli scritti di Engels si possono ricordare a questo proposito: Herrn Eugen Dührings Umwälzung der Wissenschaft (Antidühring), Leipzig 1878; Die Entwicklung des Sozialismus von der Utopie zur Wissenschaft, Zürich 1883; Der Ursprung der Familie, des Privateigentums und des Staates, ivi 1884. In quest’ultima opera Engels, con riferimento alle ricerche sulla preistoria dell’americano L.H. Morgan, vuole completare la storia dell’evoluzione sociale prospettata da Marx con lo studio della storia primitiva e delle epoche preistoriche. In Engels l’interpretazione della dialettica hegeliana ha un accento più naturalistico che in Marx: per Engels vale l’identificazione hegeliana di natura e materia, ma la natura non è per lui la negazione dell’idea, bensì l’unica realtà; essa non è quindi momento della dialettica, ma la dialettica è il momento fondamentale del divenire naturale. Le leggi della dialettica non sono «pure leggi del pensiero», come nella filosofia idealistica: vanno ricavate dalla natura e dalla storia. «Esse non sono altro che le leggi più generali di entrambe queste fasi dell’evoluzione e del pensiero stesso, [...] e si riducono fondamentalmente a tre: la legge della conversione della quantità in qualità e viceversa; la legge della compenetrazione degli opposti; la legge della negazione della negazione» (Dialettica della natura, pubblicata postuma solo nel 1927, ed elaborata tra il 1873-76 e il 1881-82). Il materialismo storico (di cui Engels in Die Entwicklung des Sozialismus indica le fonti, che lo caratterizzano come socialismo scientifico, nella filosofia classica tedesca, nella scienza economica borghese e nel socialismo francese) è la teoria dell’evoluzione della realtà per ciò che concerne i processi storici, il riconoscimento del peso preponderante del fattore economico nella loro costituzione: anche se nelle pagine engelsiane questo appare spesso dogmaticamente come l’unico criterio storiografico valido, il carattere dialettico dell’evoluzione escluderebbe però per Engels il determinismo storico e il fatalismo materialistico. Il momento della tesi, rappresentato dalle condizioni storico-economiche, e quello dell’antitesi, la coscienza del bisogno e la volontà determinante la prassi, so3407

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Engels no sintetizzati in una nuova realtà che si «rovescia» sulla stessa prassi. L’antieticità della borghesia e delle sue ideologie dipende dalla sua stasi di fronte al processo dialettico e dal conseguente impedimento al salto dell’umanità «dal regno della necessità al regno della libertà». In termini generali, il contributo peculiare recato da Engels a quello che fu definito il «socialismo scientifico» (in dichiarata opposizione al socialismo «umanitario» o «utopistico» di autori come C.-H. Saint-Simon, R. Owen o Ch. Fourier) è stato spesso ignorato o travisato. Per tutta la prima metà del XX secolo, è prevalsa l’immagine del sodale di Marx, tanto generoso nel sostenere economicamente l’amico, quanto rispetto a lui inadeguato sul piano politico e intellettuale. Neppure la valorizzazione promossa soprattutto in Italia da Ludovico Geymonat e dalla sua scuola, lungo il corso degli anni settanta, è servita a consolidare un giudizio critico più equilibrato. Al contrario, l’indebita sopravvalutazione del «materialismo dialettico», come concezione filosofica ed epistemologica generale, antitetica a visioni del mondo di ispirazione idealistica o spiritualistica, ha finito per accreditare la fuorviante convinzione che Engels potesse essere considerato il profeta di una nuova metafisica di stampo materialistico, quale sostegno filosofico del comunismo in campo politico. Per ristabilire col necessario rigore alcuni dati di ordine storico, si deve invece riconoscere che ad Engels risale una iniziativa che sarà decisiva per l’affermazione del marxismo teorico fra Otto e Novecento, vale a dire la trasformazione della ricerca marxiana – costantemente concepita e realizzata da Marx non come Weltanschauung, ma come critica dell’economia politica – in una vera e propria «filosofia del proletariato». In questo progetto, attuato soprattutto curando la pubblicazione postuma dei libri II e III del Capitale e la riedizione di molti saggi marxiani (primo fra tutti Le lotte di classe in Francia, uscito in Germania con una Prefazione di Engels nel 1885, a due anni dalla morte di Marx), Engels introdurrà per la prima volta, e poi generalizzerà nell’uso, l’espressione «materialismo storico» per compendiare i risultati della ricerca marxiana. Insomma, Engels trasforma uno stile di lavoro e di indagine, programmaticamente libero da impegni filosofici generali, in una concezione della storia, 3408

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alla cui base egli pone alcuni «fattori» di carattere economico. Per buona parte del Novecento, in Europa ma anche in altre parti del mondo, il cosiddetto marxismo altro non sarà che un engelsismo, una visione filosofica di impronta dogmatica e di ispirazione materialistica. F. Barone - U. Curi. BIBL.: la pubblicazione generale (Historisch-kritische Gesamtausgabe) delle opere di Engels e Marx (in tedesco e in russo) è curata, dal 1926, dal «Marx-Engels-Institut» di Mosca. Su di esse è stata condotta la tr. it. di tutte le opere di Engels in MARX- ENGELS, Opere, Roma 1960 e ss. A Milano tra il 1911 e il 1914 era uscita un’edizione italiana di Opere di Marx, Engels e Lassalle. Altra edizione completa delle Werke di Marx e Engels è quella presso Dietz, Berlin 1957 ss. L. FIRPO - A. ZANARDO (a cura di), Scritti politici (Marx ed Engels), Torino 1967, 3 voll. Su Engels: G. MAYER, Friedrich Engels, Berlin 1920 ss., 2 voll.; 19342; K. VORLAENDER, Marx, Engels und Lassalle als Philosophen, Berlin 19263; R. SEEGER, Friedrich Engels, Halle 1935; D. RIAZANOV, Marx ed Engels, tr. it. Milano 1945; R. MONDOLFO, Il materialismo storico in Friedrich Engels, Firenze 1952; G. COGNOT, La dialectique de la nature, Paris 1953: G. LUKÁCS, Marx und Engels als Literaturhistoriker, Berlin 1948, tr. it. di C. Cases, Il marxismo e la critica letteraria, Torino 1953; A. CORNU, Karl Marx und Friedrich Engels Leben und Werke, Berlin 1954-62, 2 voll., (Paris 1955-58); AA.VV., L’origine de la famille, de la propriété privée et de l’état de Friedrich Engels, n. mon. «Pensée», 1956, n. 66; S.W. MOORE, The Critique of Capitalist Democracy. An Introduction to the Theory of the State in Marx, Engels and Lenin, New York 1957; E.A. STEPANOWA, Friedrich Engels. Sein Leben und Werk, Berlin 1958; H. DESROCHE, Athéisme et socialisme dans le marxisme classique. Karl Marx, Friedrich Engels, in «Archives de Sociologie des Religions», 5 (1960), pp. 71-108; N. LAPI, Engels contro Marx alle radici dell’ortodossia marxista, in «Civitas», 11 (1961), nn. 6-7, pp. 31-48; B. ANDREAS, Le manifeste communiste de Marx et Engels. Histoire et bibliographie 18481918, Paris 1963; H. HIRSCH, Engels, Hamburg 1968; H. GEMKOV (a cura di), Friedrich Engels: eine Biographie, Berlin 1970; H. PELGER (a cura di), Friedrich Engels 1820-1970: Referate, Diskussionen, Dokumente, Hannover 1971; S. TIMPANARO, Sul materialismo, Pisa 1971; L. GEYMONAT, Engels e la dialettica della natura in AA.VV., Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. V: Dall’Ottocento al Novecento, Milano 1971, pp. 332-371; E. FIORANI, Friedrich Engels e il materialismo dialettico, Milano 1971; L. COLLETTI, Il marxismo e Hegel, Bari 1973; G. PRESTIPINO, Natura e società. Per una nuova lettura di Engels, Roma 1973; R.N. HUNT, The Political Ideas of Marx and Engels, Pittsburgh 1974; S. MARCUS, Engels, Manchester and the

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Working class, London 1974, tr. it. di L. Fontana, Engels, Manchester e la classe lavoratrice, Torino 1980; G. STEDMAN JONES, Ritratto di Engels, in AA.VV., Storia del marxismo, vol. I: Il marxismo ai tempi di Marx, Torino 1978, pp. 318-354; F. DE ALOISIO, Engels senza Marx, Napoli 1979; F. NEUBAUER, Marx-Engels Bibliographie, Boppard am Rhein 1979; E. RAGIONIERI, Sul Risorgimento italiano: Karl Marx, Friedrich Engels, Roma 1979; B. BIANCHI - A. LOTTO - S. ORTAGGI, Economia, guerra e società nel pensiero di Friedrich Engels, Milano 1997; T. CARVER, Engels, Oxford - New York 2003; H. TOUBOUL, Marx, Engels et la question de l'individu, Paris 2004.

ENGERT, JOSEPH. – Pensatore tedesco, n. a Engert Ochsenfurt am Main il 25 genn. 1882, m. a Ratisbona nel 1964; sacerdote. Studiò a Würzburg e Lovanio; dal 1923 insegnò nel seminario maggiore di Ratisbona. Si è occupato principalmente di filosofia della religione. Il suo pensiero si svolge alla luce del dogma come regola esteriore e interno impulso della metafisica; in gnoseologia, discostandosi dallo psicologismo, si avvicina piuttosto al realismo critico di Külpe e della scuola di Lovanio. M. Rossi BIBL.: Hermann Samuel Reimarus als Metaphysiker, Paderborn 1908; Zur Psychologie und Pädagogik der religiösen Begriffe, Berlin 1923; Studien zur theologhischen Erkenntnislehre, Regensburg 1925; Der Gottesgedanke im modernen Denken, Augsburg 1932; Hegel e i problemi fondamentali del pensiero filosofico, in AA.VV., Hegel nel centenario della sua morte, Milano 1932, pp. 198-226; Der Begriff der Geschichte als Wissenschaft, Köln 1934; Die Erschliessung des Seins: eine Einführung in Erkenntnistheorie und Logik, Bonn 1935; Wege zu Gott, Paderborn 1937; Naturwissenschaft und Religion, Bamberg 1947.

EGINARDO FULDA. – Autore della più Enginardo diDIFulda celebre biografia di Carlo Magno, Eginardo, vissuto nella prima metà del sec. IX, aveva fatto parte in gioventù del circolo di intellettuali raccolti attorno ad Alcuino. Poco prima di morire, nell’836, compose una Quaestio de adoranda cruce, dedicata al giovane Lupo di Ferrières, dove affrontò il tema dell’adorazione dovuta al simbolo della passione di Cristo, e alle sue riproduzioni iconiche. Eginardo distingue, nella Quaestio, tra l’adoratio, che è l’insieme delle pratiche e dei riti che uniscono il credente ai simboli esteriori della fede, come le icone, e l’oratio, che è invece lo spazio interiore di meditazione e preghiera nel quale il credente entra in relazione con il divino, e che non può in

Engisch alcun modo riguardare gli oggetti del culto. Come Dungal di Saint-Denis, anche Eginardo tenta dunque di proporre nuovi percorsi per risolvere la questione del culto delle immagini, che aveva occupato il dibattito teologico carolingio già alla fine dell’VIII secolo con la composizione dei Libri Carolini, indirizzati contro il pronunciamento iconodulo del secondo Concilio di Nicea (787). A. Bisogno BIBL.: Opera, ed. completa con tr. fr. a cura di A. Teule, Paris 1840-43, 2 voll.; Vita Karoli Magni, ed. a cura di O. Holder-Egger, «Monumenta Germaniae Historica. Scriptores rerum Germanicarum», vol. XXV, Hannoverae 1911; Quaestio de adoranda cruce (ed altre epistolae), ed. a cura di K. Hampe, Monumenta Germaniae Historica, Epistolae karolini aevi, vol. V3, Berlin 1899, pp. 146-149; Passio Marcellini et Petri, ed a cura di E. Dümmler, Monumenta Germaniae Historica, Poetae, vol. II, Berlin 1884, pp. 125-135; Translatio et miracula sanctissimi Marcellini et Petri, ed. a cura di G. Waitz, «Monumenta Germaniae Historica. Scriptores», vol. XV, Hannoverae 1887, pp. 239-264. Su Eginardo: G. D’ONOFRIO, La teologia carolingia, in G. D’ONOFRIO (a cura di), Storia della teologia nel Medioevo, vol. I: I principi, Casale Monferrato 1996, pp. 155-156 (bibl., pp. 186-187); H. SCHEFERS (a cura di), Einhard: Studien zu Leben und Werk; dem Gedenken an Helmut Beumann gewidmet, Damstadt 1997; P.E. DUTTON, Charlemagne’s Courtier: The Complete Einhard, Readings in medieval civilizations and cultures, vol. III, Peterborough (Ontario) 1998.

ENGISCH, KARL. – N. nel 1899 e m. nel 1990. Engisch Tra i maggiori teorici del diritto tedeschi del Novecento, insegnò presso le università di Gießen, Friburgo, Heidelberg e Monaco. I suoi interessi spaziarono dal diritto penale alla metodologia giuridica, dalla logica alla teoria della giustizia e alla bioetica. Engisch sottopose a critica serrata la concezione vetero-positivista del metodo giuridico, evidenziando come l’applicazione dei testi normativi sia condizionata dalle scelte operative e dalle valutazioni del giudice, necessarie per realizzare un’equiparazione semantica tra norme e fatti, e dunque per «concretizzare» il diritto in seno alla società. Engisch attribuisce alla scienza giuridica il compito di esplicitare le diverse opzioni metodologiche e assiologiche che si offrono all’interprete in un contesto sociale determinato, opzioni che definiscono il «senso possibile» di 3409

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Enkekalymmenos

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un testo normativo, e con esso i confini di giustezza della decisione giudiziale. D. Canale BIBL.: Logische Studien zur Gesetzesanwendung, Heidelberg 1943; Die Idee der Konkretisierung in Recht und Rechtswissen unserer Zeit, Heidelberg 1953; Einführung in das juristische Denken, Stuttgart 19684, tr. it. a cura di A. Baratta, Introduzione al pensiero giuridico, Milano 1970; Auf der Suche nach der Gerechtigkeit. Hauptthemen der Rechtsphilosophie, München 1971. Su Engisch: P. BOCKELMANN - A. KAUFMANN - U. KLUG (a cura di), Festschrift für Karl Engisch zum 70. Geburtstag, Frankfurt am Main 1969; K. LARENZ, Methodenlehre der Rechtswissenschaft, Berlin 19794, pp. 255265; A. MASCHKE, Gerechtigkeit durch Methode: zu Karl Engischs Theorie des juristischen Denkens, Heidelberg 1993.

ENKEKALYMMENOS («velato»). – SofiEnkekalymmenos sma, attribuito a Eubulide (Diogene Laerzio,Vite dei Filosofi, II, 108) e simile a quello di Elettra. Colui che dicesse di conoscere Corisco e tuttavia negasse di conoscere il medesimo che gli sta velato dinanzi, sarebbe in contraddizione con se stesso: conosce e, nello stesso tempo, non conosce la stessa persona. Questo argomento fu discusso da Aristotele (Confutazioni sofistiche, 24, 179 a 33) e dagli stoici. La soluzione aristotelica consiste nell’analizzare il tipo di identità che c’è tra il velato e Corisco: non si tratta della stessa cosa, ma di due cose tra le quali sussiste solo un’identità accidentale, cioè l’identità dell’oggetto sottostante. La vera e propria identità richiederebbe che l’essenza di Corisco e l’essenza del velato fossero la stessa essenza, il che non è. Per questo il paralogismo si iscrive nella classe di quelli che dipendono dall’accidente. Secondo un’altra possibile soluzione, criticata però da Aristotele, l’apparente contraddizione fra le due affermazioni è provocata dai due diversi aspetti con cui il medesimo oggetto viene presentato. Crisippo dedicò un trattato alla soluzione dell’enkekalymmenos, ma non ne conosciamo il contenuto. Cfr. anche Luciano, Vitarum auctio, 22. A.M. Moschetti - P. Fait

ENKRATEIA (gr. ejgkravteia). – PropriamenEnkrateia te, dominio di sé: virtù caratteristica del popolo greco; e fondamento della vita morale, specialmente nella dottrina socratica. Equivalente latino: continenza. L’enkrateia è la virtù socratica per eccellenza secondo il ritratto che di 3410

Socrate fa Senofonte. L’enkrateia è la perfetta padronanza di sé di cui Socrate dà prova nei confronti dei cibi, delle bevande e dei piaceri sessuali. Essa è distinta e complementare della karteriva, che è la capacità di resistere alle influenze che il corpo subisce dall’esterno, come il freddo, il caldo, la fatica. L’enkrateia è per Senofonte il fondamento della virtù (Memorabili, I, 5, 4) perché permette di acquisire tutte le altre ed è anche sinonimo di temperanza (sofrwsuvnh). Il concetto senofonteo di enkrateia risente dell’influenza di Antistene, che sottolineava nella virtù la presenza della forza d’animo più che del sapere (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 11). L’enkrateia è invece assente nei dialoghi socratici di Platone, in quanto l’elemento intellettualistico della virtù-scienza elimina per il Socrate platonico il problema dell’ajkrasiva. Lo stoico Cleante fa dell’enkrateia la virtù principale, sostituendola alla frovnhsi". Egli infatti definisce le quattro virtù cardinali come manifestazioni diverse della tensione vitale dell’anima, accentuando l’elemento di forza morale presente nel concetto socratico-cinico di virtù. A.M. Ioppolo BIBL.: SENOFONTE, Memorabili, a cura di A. Santoni, Milano 1997, I-II. ➨ CONTINENZA.

ENOMAO (Oijnovmao"). – Nativo di Gadara e Enomao attivo nella prima metà del II secolo d. C., Enomao promosse un energico ritorno al cinismo e una vivace polemica con gli stoici. A fronte di molte opere non pervenute, sono stati identificati due notevoli frammenti di un suo Smascheramento dei ciarlatani (Gohvtwn fwrav). Passione polemica ed estremismo nella critica di svariate componenti della religione olimpica suscitarono le vivaci critiche di Giuliano imperatore, per il quale Enomao fu un cinico ignorante, fautore di una disumana «condizione ferina dell’anima che non crede più a nulla di bello, di serio e di buono». L. Rossetti BIBL.: J. HAMMERSTAEDT, Die Orakelkritik des Kynikers Oenomaus, Frankfurt am Main 1988; J. HAMMERSTAEDT, Le Cynisme littéraire à l'époque impériale, in M.-O. GOULET-CAZÉ - R. GOULET (a cura di), Le Cynisme Ancien et ses Prolongements, Paris 1993, pp. 399-418.

ENOTEISMO Enoteismo (henotheism; Henotheismus; hénothéisme; henoteísmo). – Termine coniato da F.W.J. Schelling (Philosophische Einleitung in die

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Philosophie der Mythologie, 1846-54, in Sämmtliche Werke, a cura di K.F.A. Schelling, StuttgartAugsburg 1856-61, vol. XI, tr. it. a cura di L. Lotito, Introduzione filosofica alla filosofia della mitologia, Milano 2002) e usato come sinonimo di «monoteismo relativo», per indicare la prima forma di religione dell’umanità, in cui la coscienza venera un solo dio perché non ha ancora avvertito la possibilità dell’esistenza di altri dei. Per Fr.M. Müller (cfr. Henotheism, Polytheism, Monotheism, and Atheism. Lectures on the Origin and Growth of Religion as Illustred by the Religion of India, New York 1879) l’enoteismo è la credenza – tipica dell’antica religione vedica – in numerose divinità, ciascuna delle quali di volta in volta viene assunta come divinità unica e suprema. Sulla scorta di R. Pettazzoni (s. v., in Enciclopedia Italiana, Roma 1934, vol. XIV), la moderna ricerca storico-religiosa intende l’enoteismo come una modalità di culto interna al politeismo, in cui una delle divinità, senza escludere le altre, riassume in sé le caratteristiche di quelle. Le forme più chiare di enoteismo si incontrano nelle fasi ellenistica e imperiale del paganesimo greco-romano, quando il pensiero filosofico e gli sviluppi di certi culti locali (specialmente Iside) portarono a concepire una divinità, tra le altre, come suprema, onnipotente e onnisciente. D.M. Cosi BIBL.: H.S. VERSNEL, Ter Unus. Isis, Dionysos, Hermes. Three Studies in Henotheism, Leiden 1990. ➨ ATEISMO; CULTO; ESSERE SUPREMO; MONOTEISMO; POLITEISMO; TEISMO; VEDA.

ENRICO BRUXELLES. – Maestro delle Enrico diDI Bruxelles arti di Parigi, vissuto nel XIII secolo. Appartiene al gruppo dei commentatori parigini delle opere aristoteliche. I suoi commenti a Topici, Metafisica, Analitici posteriori, Historia animalium, trattano di filosofia della natura, sotto forma di questioni (a volte per noi piuttosto ridicole, come nell’Historia animalium: «Utrum monachi debeant esse pinguiores quam alii»). Si oppone spesso alle tesi averroistiche, ad esempio a proposito dell’eternità del mondo; è evidente il suo influsso su Alberto Magno, dal quale è spesso citato. A. Tognolo BIBL.: i manoscritti in codex latinus 16089 della Biblioteca Nazionale di Parigi, su cui cfr.: B. HAURÉAU, Notices et extraits de quelques manuscrits latins de la Bibliothèque Nationale, Paris 1890-93, vol. XXXV, pp. 1209 ss.

Enrico di Gand Su Enrico di Bruxelles: M. GRABMANN, Mittelalterliches Geistesleben: Abhandlungen zur Geschichte der Scholastik und Mystik, München 1926-56, vol. I., pp. 35, 256, 275; vol. II, pp. 249, 361, 402 (ripr. Hildesheim - Zürich - New York 1984); M. GRABMANN, Der lateinische Averroismus des XIII. Jahrhunderts und seine Stellung zur christlichen Weltanschauung, München 1931; M. GRABMANN, Die Aristoteleskommentare des Heinrich von Brüssel und der Einfluss Albert des Grossen auf die mittelalterliche Aristoteleserklärung, München 1943.

ENRICO GAND (Henricus de Gandavo). – Enrico diDI Gand Teologo e filosofo n. con ogni probabilità prima del 1240 (forse tra il 1217 e 1223); è certamente a Parigi nel 1265 e dal 1267 comincia a comparire nei documenti come magister, anche se non si conosce nulla della sua presumibile attività di insegnamento alla Facoltà delle Arti. A partire dal 1276, anno in cui determina il suo primo Quodlibet, e fino alla morte (avvenuta il 23 giu. 1293), Enrico è maestro reggente presso la Facoltà di Teologia. Durante questo periodo, si trova coinvolto in prima persona in quasi tutti i più importanti avvenimenti della vita universitaria ed ecclesiale. Nel 1277 fa parte della commissione di teologi riunita dal vescovo Tempier al fine di censire le proposizioni insegnate alla Facoltà delle Arti che saranno oggetto della condanna del 7 marzo: tuttavia, Enrico non solo afferma, in qualche occasione, di non comprendere o condividere il senso della condanna, ma ricorda di essere stato egli stesso minacciato da Tempier e dal legato pontificio Simone di Brion perché prendesse più nettamente le distanze dalla tesi dell’unicità della forma sostanziale nell’uomo. A partire dal 1281, anno di pubblicazione della bolla Ad fructus uberes di Martino IV, Enrico rappresenta il principale punto di riferimento teologico della fazione dei prelati (clero secolare) nel durissimo confronto con gli ordini Mendicanti sulla questione della reiterazione della confessione, ovvero – nell’interpretazione dei prelati – sull’obbligo, per tutti i fedeli, di ripetere al proprio parroco, almeno una volta all’anno, anche i peccati già confessati a un frate. Questa violenta controversia sembra aver determinato anche una temporanea sospensione di Enrico dall’insegnamento per non aver accolto il monito dei legati pontifici a non tenere dispute sull’interpretazione dei privilegi concessi dal papa. 3411

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Enrico di Gand Ultimo grande maestro secolare a Parigi nella seconda metà del XIII secolo (insieme a Goffredo di Fontaines), Enrico è l’autore di una monumentale ma incompiuta Summa (manca totalmente la parte de creaturis, che pure faceva parte del piano dell’opera); di 15 Quodlibeta, disputati e pubblicati in parallelo alla stesura della Summa; di un breve commento al Genesi (Lectura ordinaria super sacram Scripturam), e di un lungo trattato sulla questione del privilegio delle confessioni (il Tractatus super facto praelatorum et fratrum), oltre che di alcuni sermoni. Per quanto riguarda la produzione non strettamente teologica, nessuna attribuzione è assolutamente certa: quelle più probabili riguardano un trattato sui Syncategoremata (ms. Brugge, Stadsbibl., 510, ff. 227ra-237va), un commento per questioni alla Fisica (ms. Erfurt, Amplon. F. 349), e un commento incompleto, anch’esso per questioni, alla Metafisica (ms. Escorial, h.II.1). La Summa di Enrico di Gand, caso piuttosto inconsueto nella produzione scolastica, non si apre con la trattazione diretta dell’esistenza e degli attributi divini, ma con una lunga analisi dedicata al problema della conoscenza umana. Enrico opera qui una singolare saldatura tra la teoria aristotelica dell’astrazione e la dottrina agostiniana dell’illuminazione divina: la verità risulta sempre dal confronto/adeguazione tra due esemplari, uno dei quali è appunto l’universale aristotelico ottenuto per astrazione a partire dalla conoscenza sensibile, mentre l’altro è l’archetipo presente nella mente divina, che non è solo causa dell’esistenza delle cose, ma funge anche, per così dire, da garanzia epistemica. L’illuminazione, in questo senso, non sembra alludere ad altro se non alla certificazione del nostro exemplar creato a opera di quello increato. Nel corso degli anni, Enrico di Gand sembra progressivamente accantonare questa teoria del doppio exemplar, a vantaggio da una parte di una rielaborazione del processo definitorio delle essenze descritto da Aristotele negli Analitici posteriori e, dall’altra, di una reinterpretazione dell’illuminazione come presenza costante e sempre in atto, in un recesso della nostra mente (abditum mentis), dell’immagine di Dio (Quodlibeta, IX, q. 15), secondo un tema destinato a trovare ampia eco nella dottrina del «fondo dell’intelletto» di Teodorico di Freiberg e Meister Eckhart. Questa presenza – a cui la mente è continuamente indirizzata sen3412

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za alcuna mediazione, anche se attraverso un’operazione di cui non siamo quasi mai consapevoli (intelligere abditum) – è ciò che dispone e dirige la mente stessa verso l’acquisizione della verità. Di rilievo, in questa evoluzione, è anche la rinuncia, almeno parziale, alla funzione delle specie intelligibili nel processo conoscitivo (cfr. p. es. Quodlibeta, III, q. 1 e Quodlibeta, IV, q. 7), una scelta che di fatto anticipa di almeno un paio di decenni l’analoga soluzione nominalista. Il procedimento di definizione e riconoscimento delle essenze mira a stabilire se queste ultime siano dei puri contenuti mentali (res a reor reris) o siano invece «ratificate» (res ratae, res a ratitudine), siano cioè dotate della possibilità di esistere in atto. Questa «ratificazione» deriva alle essenze dal fatto di essere pensate, per quanto in modo mediato, dall’intelletto divino. Quest’ultimo ha infatti due oggetti (Quodlibeta, IX, q. 2): uno primario, che coincide con Dio stesso considerato in senso assoluto, e uno secondario, e cioè la stessa essenza divina considerata in quanto diversamente imitabile dalle creature (in tal modo, conoscendo se stesso, Dio può conoscere anche tutto ciò che egli crea). Enrico suddivide ulteriormente la conoscenza di tale oggetto secondario in due distinti momenti: nel primo, ogni essenza creaturale viene considerata come coincidente con la stessa essenza divina; nel secondo, essa viene invece considerata come dotata di un suo specifico modo di essere – l’esse essentiae – che coincide con la possibilità stessa delle creature, e si distingue tanto dalla loro esistenza attuale quanto dall’essere conoscitivo con cui invece esse sussistono, come universali, nella mente umana. Per questo stesso motivo, la distinzione che si dà tra l’esse essentiae (o l’essenza in quanto tale) e l’esse existentiae non è né reale, né soltanto logica o di ragione, ma qualcosa di intermedio, che Enrico chiama distinzione intenzionale (Quodlibeta, I, q. 9; Quodlibeta, X, q. 7; Quodlibeta, XI, q. 3): intentiones sono per Enrico tutte quelle note o quei principi che appartengono a una medesima cosa e che non possono essere separati realmente, ma solo a opera dell’intelletto, dando così origine a concetti diversi (nella distinzione di sola ragione, invece, i concetti sono sostanzialmente equivalenti tra loro; cfr. Quodlibeta, V, q. 12). La tesi della distinzione intenzionale tra essenza ed essere sarà al centro di una lunga polemica con Egidio Romano,

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e attirerà su Enrico le critiche di buona parte dei seguaci di Tommaso d’Aquino. Tanto l’esse essentiae quanto l’esse existentiae esprimono relazioni (respectus) nei confronti di Dio, ma sotto aspetti diversi: il primo si rapporta infatti all’intelletto divino, che funge da causa formale o esemplare; il secondo alla volontà divina, che funge da causa efficiente. Quest’ultima relazione è temporale e contingente, perché la volontà divina può scegliere in piena libertà, tra le varie essenze possibili, quelle da porre in essere e il momento in cui porle in essere; la prima relazione è invece eterna e immodificabile, come la scienza divina. Ciò significa che l’impalcatura del mondo è data da una serie ordinata e gerarchica di essenze possibili che neppure Dio può più modificare: una tesi che comporta come inevitabile ma ardita conseguenza il fatto che le idee divine (a cui le essenze possibili corrispondono) siano necessariamente di numero finito (Quodlibeta, V, q. 3; Quodlibeta, VIII, q. 8). Enrico può così difendere al tempo stesso tanto la temporalità della creazione (Quodlibeta, I, qq. 7-8) quanto, in forma attenuata, il necessitarismo essenzialistico tipico della tradizione peripatetica, specie araba. Anche relativamente alla dottrina dell’analogia dell’essere Enrico assume una posizione assolutamente originale (Summa, art. 21, q. 2): essa si fonda da una parte, in senso più tradizionale, sulla reale dipendenza della creatura dall’essere divino; dall’altra, su una specie di errore strutturale del nostro intelletto, incapace di distinguere, almeno in prima istanza, l’essere privativamente indeterminato – e cioè l’essere nel suo massimo livello di generalità, considerato anteriormente a tutte le sue possibili determinazioni (l’ente come concetto massimamente comune, ovvero come trascendentale) – da quello negativamente indeterminato, e cioè l’essere puro che di per sé si sottrae a ogni possibile determinazione (Dio). Questa singolare confusione offre in positivo l’unico punto di partenza possibile per una dimostrazione metafisica dell’esistenza di Dio – una dimostrazione che, facendo leva sulla lezione avicenniana, procede scavando all’interno di questo concetto falsamente univoco di ente per isolare la nozione di Dio come puro e necessario essere sussistente (Summa, art. 22, q. 5; art. 24, q. 6). Enrico può anche affermare in tal senso che Dio è il primum cognitum, ciò che è conosciuto per primo dalla nostra mente, perché è compreso nel concetto

Enrico di Gand più generale e confuso di ente da cui muove sempre ogni nostra conoscenza (Summa, art. 24, q. 7). Altri elementi caratteristici dell’impianto teologico e filosofico di Enrico di Gand sono la teoria del dimorfismo umano (solo l’uomo ha due forme sostanziali, una delle quali è l’anima razionale; cfr. Quodlibeta, II, q. 2, dopo le esitazioni di Quodlibeta, I, q. 4 e il successivo intervento di Tempier e Simone di Brion); la tesi dell’automovimento della volontà, che rende quest’ultima – nell’uomo – in qualche modo superiore all’intelletto (cfr. ad es. Quodlibeta, I, q. 14 e IX, q. 5); l’identità essenziale di grazia e gloria (Quodlibeta, IX, q. 13); la superiorità della vita attiva, limitatamente almeno all’uso nella vita presente, rispetto a quella contemplativa (Quodlibeta, XII, q. 28); la dottrina del lumen supernaturale che solo i teologi possiedono, e che fa sì che il loro abito scientifico sia superiore a quello di tutti gli altri sapienti (Quodlibeta, XII, q. 2). Una delle preoccupazioni centrali dell’intero percorso di Enrico è in effetti la rivendicazione del carattere di assoluta scientificità della teologia. D’altra parte, il maestro di teologia ha il dovere di dare la sua autorevole opinione, se richiesta, su qualsiasi argomento: da qui le numerose questioni di carattere pastorale, sociale, politico e perfino economico che rendono i Quodlibeta di Enrico di Gand una delle opere teologiche più ricche e vivaci nell’ambito dell’intera produzione scolastica. P. Porro BIBL.: Summae quaestionum ordinariarum, Parisiis 1518, rist. anast. St. Bonaventure - New York 1953; Quodlibeta, Parisiis 1518, rist. anast. Louvain 1961. Dal 1979 è in corso l’ed. critica promossa dal De Wulf-Mansioncentrum della Katholieke Universiteit Leuven. Oltre ai due volumi di catalogo dei manoscritti (R. MACKEN, Bibliotheca manuscripta Henrici de Gandavo, Leuven-Leiden 1979), sono finora apparsi i seguenti volumi: Quodlibet I, ed. a cura di R. Macken, Leuven-Leiden 1979; Quodlibet II, ed. a cura di R. Wielockx, Leuven 1983; Quodlibet VI, ed. a cura di G.A. Wilson, Leuven 1987; Quodlibet VII, ed. a cura di G.A. Wilson, Leuven 1991; Quodlibet IX, ed. a cura di R. Macken, Leuven-Leiden 1981; Quodlibet XII, qq. 1-30, ed. a cura di J. Decorte, Leuven 1987; Tractatus super facto praelatorum et fratrum (Quodlibet XII, quaestio 31), ed. a cura di L. Hödl - M. Haverals, Leuven 1989; Quodlibet XIII, ed. a cura di J. Decorte, Leuven 1985; Summa (Quaestiones ordinariae), artt. I-V, ed. a cura di G.A. Wilson, Leuven 2005; Summa (Quaestiones ordinariae), artt. XXXI-XXXIV, ed. a cura di R. Macken, introd. di L.

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Enrico di Harclay Hödl, Leuven 1991; Summa (Quaestiones ordinariae), artt. XXXV-XL, ed. a cura di G.A. Wilson, Leuven 1994; Summa (Quaestiones ordinariae), artt. I-V, ed. a cura di L. Hödl, Leuven 1998; Lectura ordinaria super S. Scripturam (attributed), ed. a cura di R. Macken, Leuven-Leiden 1980. Per un’ed. parziale delle Quaestiones super Metaphysicam attribuite a Enrico (con l’esame della questione della loro autenticità) cfr. P. PORRO, Le «Quaestiones super Metaphysicam» attribuite a Enrico di Gand: elementi per un sondaggio dottrinale, in «Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale», 13 (2002), pp. 507-602. Per una bibliografia dettagliata degli studi su Enrico di Gand cfr.: P. PORRO, Enrico di Gand. La via delle proposizioni universali, Bari 1990, in particolare pp. 175-210; P. PORRO, Bibliography, in W. VANHAMEL (a cura di), Henry of Ghent. Proceedings of the International Colloquium on the Occasion of the 700th Anniversary of His Death, Leuven 1996, pp. 405-434; P. PORRO, Bibliography on Henry of Ghent (19942002), in G. GULDENTOPS - C. STEEL (a cura di), Henry of Ghent and the Transformation of Scholastic Thought, Leuven 2003, pp. 408-426.

ENRICO HARCLAY (Henricus de HarEnrico di DI Harclay clay). – Teologo e filosofo n. intorno al 1270 in Inghilterra, commenta le Sentenze di Pietro Lombardo a Parigi presumibilmente nel 1300, per poi figurare come maestro di teologia a Oxford nel 1310-11. Nel 1312 è eletto cancelliere di quest’ultima università, carica che ricoprirà fino alla morte, avvenuta nel 1317 ad Avignone. Oltre al commento alle Sentenze, gli vengono attribuite 29 questioni composte dopo il 1310. In quanto appartenente al clero secolare, Enrico di Harclay è affrancato da quei vincoli di fedeltà alla dottrina ufficiale del proprio ordine che cominciano a condizionare domenicani e francescani e si lascia difficilmente collocare entro schemi dottrinali predefiniti. Se ad esempio ammette, con Tommaso d’Aquino ed Enrico di Gand, che le idee divine non sono altro se non l’essenza divina sotto l’aspetto della sua imitabilità, si allontana da entrambi per il suo sostanziale rifiuto della dottrina dell’analogia. D’altra parte, la sua interpretazione dell’univocità dell’ente è difficilmente assimilabile a quella scotista, e si fonda piuttosto sulla propria originale concezione degli universali. Secondo Enrico di Harclay, ogni cosa esistente è sempre di per sé singolare e non partecipa di ipotetiche nature comuni, come invece postulato da Scoto: di conseguenza, 3414

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non c’è neppure bisogno, a differenza ancora di Scoto, di introdurre un ulteriore elemento formale (l’ecceità) in grado di contrarre la stessa natura comune e giustificare l’individuazione. Gli universali non trovano pertanto il loro fondamento in qualcosa di comune realmente presente nelle cose, ma solo nella similitudine che si dà tra esse. Così, una medesima cosa può essere concepita in maniera distinta come singolare, o in modo confuso e vago come universale, sulla base del suo grado di somiglianza con altre cose, senza che a tali diverse considerazioni della mente debbano corrispondere diverse realtà extramentali. Quando si concepisce qualcosa semplicemente come «ente» si raggiunge il massimo grado di vaghezza e indistinzione, ed è questo il senso in cui il concetto di ente può predicarsi univocamente di tutto. Curiosamente, la posizione di Enrico di Harclay sugli universali sarà criticata tanto da Ockham quanto da un «realista» come Walter Burley, che gli rimprovereranno, da prospettive diverse, di porre che una stessa cosa possa essere a un tempo universale e singolare. Anche su altri punti le soluzioni proposte da Enrico di Harclay si caratterizzano insieme per la loro autonomia e il complesso equilibrio su cui si reggono: ad es., egli contesta a Tommaso di aver ammesso l’esistenza di creature formalmente necessarie, sostenendo che l’immortalità delle sostanze spirituali dipende dalla grazia divina e non dalla loro natura, ma sembra d’altra parte concedere la possibilità teorica dell’eternità del mondo. Per quel che concerne il ruolo della stessa grazia nell’ambito umano, egli rigetta la teoria scotista (pur adottata in una prima fase) della predestinazione assoluta alla gloria, difendendo l’importanza dell’uso del libero arbitrio da parte dell’uomo. Anche a proposito della teoria delle relazioni, Enrico di Harclay sembra progressivamente prendere le distanze da Scoto, attenuandone almeno in parte la posizione realistica: la relazione non è un accidente che inerisce (come terza cosa aggiuntiva e distinta) ai due termini della relazione stessa, ma una semplice condizione o disposizione (habitudo) di una cosa verso all’altra, che tuttavia non è prodotta dalla mente. Una conseguenza inusuale di questa impostazione è che la creazione può così essere intesa come l’avvento di una relazione reale non solo dalla parte delle creature, ma anche dalla parte di Dio: tale ha-

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bitudo è infatti reale nella misura in cui non è un mero prodotto mentale, e tuttavia, non essendo nemmeno un accidente inerente, non produce alcun mutamento effettivo in Dio. Infine, Enrico di Harclay assume una posizione decisamente originale (destinata a influenzare ad esempio Walter Chatton e Geraldo di Odone) per quel che riguarda la dottrina aristotelica dell’infinito, ammettendo non solo la composizione delle quantità continue da parte di unità indivisibili, ma anche l’ineguaglianza degli infiniti e, entro certi limiti, la possibilità di infiniti attuali. P. Porro BIBL.: G. GÁL, Henricus de Harclay: Quaestio de significato conceptus universalis, in «Franciscan Studies», 31 (1971), pp. 178-234; M. HENNINGER, Henry of Harclay’s Questions on Divine Prescience and Predestination, in «Franciscan Studies», 40 (1980), pp. 167243; J.E. MURDOCH, Henry of Harclay and the Infinite, in A. MAIERÙ - A. PARAVICINI BAGLIANI (a cura di), Studi sul XIV secolo in onore di Anneliese Maier, Roma 1981, pp. 219-261; R.C. DALES, Henricus de Harclay: Quaestio «Utrum mundus potuit fuisse ab aeterno», in «Archives d’Histoire Doctrinale et Littéraire du Moyen Âge», 50 (1983), pp. 223-255; M. HENNINGER, Henry of Harclay’s Questions on Relations, in «Mediaeval Studies», 49 (1987), pp. 76-123; A. MAURER, Being and Knowing, Toronto 1990, pp. 203-271.

ENRICO LUBECCA. – Teologo e filosofo, Enrico diDI Lubecca vissuto nei primi decenni del XIV secolo. Fu provinciale dell’ordine domenicano per la Sassonia dal 1325 al 1336; esercitò l’insegnamento già prima del 1323, probabilmente a Colonia. Ci restano 3 Quodlibeta (cfr. elenco delle questioni in: M. Grabmann, Mittelalterliches Geistesleben: Abhandlungen zur Geschichte der Scholastik und Mystik, München 1926-56, vol. I, pp. 425-428; ripr. Hildesheim - Zürich New York 1984), in cui vengono trattati non soltanto problemi teologici e filosofici, ma anche questioni di fisica, astronomia e medicina. Enrico di Lubecca sostiene, con Tommaso, la dottrina della distinzione reale tra l’essenza e l’esistenza: quanto all’origine, la causa dell’individuazione è la materia; quanto alla perfezione è la forma; quanto alla totalità è tutta l’essenza. Sono state pubblicate le Quaestiones de motu creaturarum et de concursu divino (ed. a cura di F. Mitzka, Monasterii 1932): Enrico vi sostiene che il concorso si estende anche alla «talificazione» dell’essere. I Quodlibeta si trovano in due codici: cod. lat. 1382 della Hofbi-

Enrico Heinbuche di Langenstein bliothek di Vienna; cod. 838 della Universitätsbibliothek di Münster. A. Tognolo BIBL.: per le scarse notizie biografiche, cfr.: P. VON LOE, Statistiches über die Ordensprovinz Teutonia, Leipzig 1910, p. 27; P. GLORIEUX, La littérature quodlibétique, Paris 1935, vol. II, pp. 234-237.

ENRICO HEINBUCHE DI LANGENEnrico Heinbuche di Langenstein STEIN (de Hassia). – Scolastico tedesco, n. nel 1325, m. a Vienna nel 1397. Insegnò dapprima a Parigi filosofia e teologia; quindi, in seguito allo scisma d’Occidente e alla guerra dei Cento anni, lasciò Parigi (1384), come fecero molti altri maestri tedeschi, e si trasferì a Vienna, di cui riorganizzò l’università. Scrisse moltissimo; ricordiamo, fra le opere di fisica: De reductione effectuum specialium in virtutes communes; De habitudine causarum; Contra astrologos, in cui sostiene le idee della fisica nuova di Buridano; due commenti alle Sentenze; opere di economia: Tractatus de contractibus emptionis et venditionis; Epistola de contractibus ad consules Viennenses; le Epistola pacis e Epistola concilii pacis, ispirate allo scisma; opere di ascetica: Speculum animae (Argentoraci 1507, tr. fr. a cura di E. Mistiaen, Le miroir de l’âme, Museum Iessianum, Section ascétique et mystique, vol. IX, Bruges-Paris 1923); De contemptu mundi. Occamista negli anni dell’insegnamento parigino, successivamente mitiga le proprie idee e s’avvicina al tomismo. Le opere sono rimaste in gran parte inedite. Fu chiamato Doctor conscientiosus. A. Tognolo BIBL.: D. TRAPP, J. Langs «Christologie bei Heinrich von Langenstein»: Eine dogmengeschichtliche Untersuchung?, in «Augustinianum», 7 (1967), pp. 525-532; P. PIRZIO, Le prospettive filosofiche del trattato di Enrico di Langenstein «De habitudine causarum», in «Rivista Critica di Storia della Filosofia» 24 (1969), pp. 363-373; T. HOHMANN, Discretio spirituum. Texte und Untersuchungen z. «Unterscheidung der Geister» bei Heinrich von Langenstein, Würzburg 1975; N.H. STENECK, Science and Creation in the Middle Ages: Henry of Langenstein, London 1976; G. KREUZER, Heinrich von Langenstein: Studien zur Biographie und zu Schismatraktaten unter besonderer Berücksichtigung der «Epistola Pacis» und der «Epistola Concilii Pacis», in «Quellen und Forschungen aus dem Gebiet der Geschichte», 6 (1987); A. MORISI GUERRA, Il silenzio di Dio e la voce dell’anima. Da Enrico di Langenstein a Gerson, «Cristianesimo nella Storia», 17 (1996), pp. 393-413; F. ALESSIO, Causalità naturale e causalità divina nel «De habitudine causarum» di Enrico di Lan-

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Enrico il Tedesco

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genstein, in Studi di storia della filosofia naturale, Memorie e atti di convegni, vol. XIX, Pisa 2003, pp. 27-34.

ENRICO IL TEDESCO. – Agostiniano, visEnrico il Tedesco suto fra il XIII e il XIV secolo. Scrisse un compendio dei 24 Quodlibeta di Goffredo di Fontaines (cfr. A. Pelzer, Godefroid de Fontaines. Les manuscrits de ses Quolibets conservés à la Vaticane et dans quelques autres bibliothèques, in «Revue Néoscolastique Philosophie», 20 [1913], pp. 365-388, 491-532 [pp. 369, 383]); forse è quello stesso Meister Heinrich Augustiniensis citato da Eckhart (cfr. F. Pfeiffer [a cura di], Deutsche Mystiker des 14. Jahrhunderts, Leipzig 1845-57, vol. II, p. 244; rist. Aalen 1962). Red.

ENRICO (TOTTING) DI OYTA. – Occamista e Enrico nominalista, n. in Westfalia nel 1330 ca., m. a Vienna nel 1396. Insegnò a Praga dal 1355; accusato di eresia, ma assolto (1373), completò gli studi teologici a Parigi nel 1382. Dopo un triennio di insegnamento a Praga, nel 1384 fu chiamato a Vienna assieme al collega e amico Enrico di Langenstein, col quale riorganizzò l’università. Le opere, quasi tutte manoscritte e alcune d’incerta attribuzione (talvolta egli venne confuso con Enrico Pape di Oyta), sono: un Commentario alle Sentenze (cfr. C. Michalski, Le criticisme et le scepticisme dans la philosophie du XIVe siècle, in «Bulletin de l’Académie Polonaise des Sciences et des Lettres», 11, 1925, pp. 41-122 [p. 7]); Tractatus moralis de contractibus reddituum annuorum (Parisiis 1506); Abbreviatio del commento alle Sentenze di Adamo Whodam (ivi 1512); Quaestiones logicae super Porphyrium; Tres libri philosophici de anima ovvero Magistrales tractatus de anima et potentiis eius. Una Quaestio (la terza delle Quaestiones in Sententiarum) è stata edita a cura di J. Koch - F. Pelster, Opuscula et textus, series scholastica, vol. XII, Monasterii 19532. Mentre a Parigi e a Praga si era dimostrato seguace di un certo aristotelismo agostiniano, a Vienna propagò il nominalismo occamistico, rivelandolo specialmente nella trattazione dei problemi dell’origine del mondo, della spiritualità dell’anima, dell’unicità di Dio. Questi sono, per Enrico Totting, problemi neutri, perché nessuna risposta, convincente e probante 3416

dal punto di vista razionale, può essere loro data. G. Santinello BIBL.: B. DECKER, Ein fundamentaltheologisches Traktat des Mittelalters, in « Wissenschaft und Weisheit», 18 (1955), pp. 227-229; W. KOLMEL, Von Ockham zu Gabriel Biel. Zur Naturrechtslehre des 14. und 15. Jahrhunderts, in «Franziskanische Studien», 37 (1955), pp. 218-259; A. MAIERÙ, Logique et théologie trinitarie dans le moyen-âge tardif: deux solutions en présence, in M. ASZATALOS (a cura di), The Edition of Theological and Philosophical Texts from the Middle Ages, «Acts of the Conference Arranged by the Department of Classical Languages, University of Stockholm, 29-31 August 1984», Acta Universitatis Stockholmiensis, Studia Latina Stockholmiensia, vol. XXX, Stockholm 1986; A. SLOMCZYNSKA (a cura di), Ab Henrico de Oyta usque Georgium Libanum Lignicensem Quinque commentariorum in Aristotelis «Economica» conscriptorum editio, in «Mediaevalia Philosophica Polonorum», 28 (1986), pp. 167-200; M. GORMAN, Henry of Oyta’s Nominalism and the Principle of Individuation, in «The Modern Schoolman», 69 (1991-92), pp. 135-148.

ENRIQUES, FEDERIGO. – Matematico e filoEnriques sofo della scienza, n. il 5 genn. 1871 a Livorno, m. il 14 giu. 1946 a Roma. Studiò all’università di Pisa, dove si laureò in matematica nel 1892; nel 1896 ottenne la cattedra di geometria descrittiva e proiettiva presso l’università di Bologna e dal 1922 insegnò Geometria superiore all’università di Roma. Oltre che per le ricerche matematiche – la teoria degli invarianti delle superfici algebriche – e per le ricerche logico-matematiche sui fondamenti della geometria, Enriques nutrì grande interesse per la filosofia e la storia della ricerca scientifica, tanto da arrivare a promuovere varie iniziative organizzative rivolte agli ambienti filosofici, che suscitarono la dura reazione di Croce e Gentile. Si ispirò al positivismo ottocentesco e alle dottrine di Poincaré e di Mach per sviluppare una propria originale «filosofia scientifica», che si poneva come obiettivo la «preparazione di una scienza gnoseologica che possa divenire oggetto d’intesa degli studiosi, e che porti a unificare i vari domini del sapere in una veduta sintetica del procedimento conoscitivo» (Problemi della scienza, Bologna 19082 [1906], rist. 1927, p. 5). È con questo intento che scrisse, oltre ai Problemi (tradotti anche in francese, tedesco e inglese), gli studi Scienza e razionalismo (Bologna 1912) e Per la storia della Logica. I principii e l’or-

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dine della scienza nel concetto dei pensatori matematici (Bologna 1922). Insieme con G. De Santillana scrisse un Compendio di storia del pensiero scientifico dall’antichità fino ai tempi moderni (Bologna 1937; rist. anast. con premessa di P. Casini, 1974). Nella visione di Enriques, il positivismo e il pragmatismo hanno il proprio limite rispettivamente nella concezione della realtà genuina come dato puro della sensazione e nella considerazione della realtà scientifica come costruzione arbitraria dello spirito. Il superamento di positivismo e pragmatismo si basa sul recupero di un «concetto pieno del reale, come sintesi di due elementi (passivo e attivo) che l’analisi ha separato» (Scienza e razionalismo, cit., p. 18). L’autentico criterio positivo della realtà è per lui il «rapporto invariante di successione o di concomitanza fra certe sensazioni e certe condizioni volontariamente disposte, in breve un rapporto tra volontà e sensazione» (ibi, p. 19). I termini irriducibili della conoscenza scientifica vengono così individuati nell’elemento soggettivo e in quello oggettivo, sopprimendo i quali si corre il rischio di cadere nell’astrazione di considerare la scienza come già formata, o di abbandonarsi alle poetiche costruzioni della metafisica. «La scienza» dunque «riguardata nel suo aspetto genetico, non sale soltanto a un’obiettività sempre maggiore, ma per contrasto spinge a vette più eccelse la subiettività delle rappresentazioni, che sono il suo modo di conquista» (Problemi, cit., p. 32). La scienza è un processo di approssimazioni mai chiuso, ma sempre più vasto e più preciso che non rinvia il relativo a un assoluto trascendente. La posizione di Enriques all’interno della lotta tra razionalismo ed empirismo è di mediazione; il suo «razionalismo sperimentale» è teso a superare questo dualismo per adeguarsi al processo a spirale della scienza, che comprende una fase induttiva (partendo da un sapere acquisito si promuovono nuovi concetti, attraverso l’associazione di dati e l’assunzione di ipotesi) e una fase deduttiva che chiarisce le ipotesi svolgendone le conseguenze da verificarsi nell’esperienza. «La scienza non è dato puro, ma coordinazione razionale di dati, che implica una scelta tra infinite verità possibili. Perciò la ricerca scientifica è effettivamente una costruzione, opera dello spirito umano, che vi riflette qualcosa di sé, manifestando i criteri di valore che lo dirigono» (Scienza e razionalità, p. 286).

Enriques Rifiutando il realismo logico sostenuto da Russell, Enriques affermò che la logica «è l’insieme delle leggi che regolano un processo mentale, che solo per finzione può essere rappresentato nella forma statica d’un simbolismo: spiegare i rapporti logici significa dunque riconoscere le operazioni della mente che valgono a significare» (Per la storia della logica, cit., pp. 193-194). Nonostante ammetta che l’esigenza sintetica della filosofia debba realizzarsi nell’ambito della scienza (superando il particolarismo delle specializzazioni), egli condanna senza mezzi termini lo «scientismo» contemporaneo di stampo neopositivistico, che per lui ondeggia tra il dogmatismo e il nominalismo. L’influenza di Enriques in questo senso è riconosciuta dallo stesso F. Gonseth, l’iniziatore del movimento di reazione all’empirismo logico. Anche Piaget ammise la presenza nelle proprie opere di influssi dovuti a Enriques. In Italia, invece, l’influenza del matematico livornese fu meno evidente, sia per l’accentuato disinteresse, in clima idealistico, per il problema della scienza, sia per l’avversione di numerosi scienziati italiani a un ampliamento non meramente tecnico della loro prospettiva. Enriques ebbe dell’evoluzione storica della scienza una visione continuistica, considerando sempre le teorie nuove come estensione senza fratture delle teorie precedenti. Da questo punto di vista egli non apprezzò nel loro valore rivoluzionario, dirompente, le due grandi teorie fisiche del Novecento, relatività e meccanica quantistica, cercando di interpretarle come filiazioni dirette e lineari della scienza classica. F. Barone BIBL.: A. FRAJÈSE (a cura di), Le matematiche nella storia e nella cultura, Bologna 1938, rist. anast. 1971; AA.VV. Storia, pedagogia e filosofia della scienza: atti del Convegno Internazionale sul tema: storia, pedagogia e filosofia della scienza a celebrazione del centenario della nascita di Federico Enriques, Pisa-Bologna-Roma 1973; O. POMPEO FARACOVI (a cura di), Federico Enriques. Approssimazione e verità, Livorno 1982; O. POMPEO FARACOVI, Il caso Enriques. Tradizione nazionale e cultura scientifica, Livorno 1984; O. POMPEO FARACOVI (a cura di), Scienza e razionalismo, Bologna 1990; O. POMPEO FARACOVI - F. SPERANZA (a cura di), Federico Enriques. Filosofia e storia del pensiero scientifico, Livorno 1998; L.M. SCARANTINO (a cura di), Intorno a Enriques. Cinque conferenze, Sarzana 2004.

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’En sof ’EN SOF ( ). – Letteralmente «non fi’En sof ne» ossia «infinito». Il termine è stato utilizzato dai qabbalisti dell’area provenzale-catalana agli inizi del sec. XIII per esprimere l’assoluta trascendenza di Dio e l’impossibilità umana di coglierlo adeguatamente per via speculativa o mistica. Si tratta di quello che Gershom Scholem definisce un «agnosticismo mistico» di stampo neoplatonico. Il concetto non ha un antecedente biblico e neppure filosofico, ma nasce come ipostatizzazione degli attributi divini come il suo pensiero, di cui si afferma che si estende le-’en sof «in modo infinito». ’En sof è il Deus absconditus che, secondo alcuni qabbalisti, è rivelato solo tramite la verità esoterica, mentre di esso la rivelazione biblica non dice nulla. La manifestazione dell’infinito nella creazione non è un processo necessario, ma è frutto di una sua libera scelta, senza la quale l’uomo non avrebbe potuto conoscere nulla dell’intima essenza divina. M. Perani BIBL.: G. SCHOLEM, Ursprung und Anfänge der Kabbala, Berlin 1962, tr. it. di A. Segre, Le origini della Kabbalà, Bologna 1973, rist. 1990, pp. 533-561; G. SCHOLEM, Kabbalah, Jerusalem 1972, tr. it. di R. Rambelli, La Cabala, Roma 1982, pp. 93-111. ➨ QABBALAH.

ENTE (being; Seiendes; être; ente). – Il significaEnte to fondamentale del termine ente è di «essere qualcosa», in qualunque modo il qualcosa possa essere preso. Si oppone a nulla. Può essere sostituito dai termini cosa, realtà, reale, nel senso però, appunto, di opposizione a nulla. Quindi è ente, in senso generale, non solo ogni ente esistente di fatto, ma anche ogni ente semplicemente possibile, in quanto è qualche cosa di intelligibile, e perciò non identico al nulla; quindi ha una positività, una realtà anche se soltanto intelligibile; il nulla invece non ha nessuna propria intelligibilità, è intelligibile soltanto indirettamente, per rapporto all’ente di cui è negazione. Ente si identifica con essere quando quest’ultimo è preso in concreto, come un essere particolare, esistente o possibile: non significa cioè essere in generale. Quando Aristotele dice che la metafisica studia «l’essere in quanto essere», to; o]n h|/ o]n (Metaph. IV, 1, 1003 a 20), intende affermare che essa studia ogni cosa o realtà in quanto appunto ente, e non secondo le determinazioni particolari proprie di ciascuna cosa o realtà; in conseguenza di ciò ogni cosa o realtà può es3418

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sere studiata dalla metafisica anche in quanto una, perché l’ente e l’uno sono la stessa cosa, si implicano reciprocamente (Metaph. IV, 2, 1003 b 22-23). La stessa ampiezza di significato ha il termine e il concetto di ente in Tommaso, il quale, riprendendo i testi di Boezio, distingue l’«id quod est» dall’«esse», l’ente da ciò che ne è il costitutivo come atto: come l’umanità costituisce uomo ogni uomo, così l’essere costituisce ente ogni ente; nelle creature, l’«id quod est», o l’ente, in quanto distinto dall’«esse», è la potenza o essenza o sostrato dell’atto dell’essere, e, in Dio, l’«id quod est», o l’ente, è l’atto assoluto e puro dell’essere (cfr. De ente et ess., cap. 6, ed. it. con testo lat. a fronte a cura di P. Porro, L’ente e l’essenza, Milano 2002). Il significato fondamentale di ente rimane immodificato nella scolastica postmedievale; è oggetto di particolare studio da parte di filosofi moderni e contemporanei. Un significato particolare si ha presso Gioberti, con la formula «l’ente crea l’esistente» (cfr. Introduzione allo studio della filosofia, vol. II, Milano 1941, pp. 175-183). Qui l’ente è Dio, oggetto dell’intuito intellettuale, fondamento della conoscenza, e fondamento delle cose: infatti l’ente è, e le cose ex-sistono, ossia hanno il loro essere fuori di se stesse, prodotto dall’ente che è. Onde l’ente giobertiano comprende tanto l’idealità o essenza quanto l’esistenza. Altro significato ha l’ente, in relazione all’essere, in Heidegger: l’ontico, l’ente (ontisch, Seiendes) è inteso in modo partecipiale: trova perciò senso solo ove ci si riferisca non all’ente per sé ma all’essere dell’ente, ove il genitivo ha una valenza propriamente oggettiva. Da questa posizione e dal successivo rovesciamento della metafisica (l’ente non parla, è l’essere che parla nell’ente, per mezzo dell’ente, lovgo" zovon e[con: cfr. Einführung in die Metaphysik, Tübingen 1953, § 49, pp. 134 ss., tr. it. di G. Masi, Introduzione alla metafisica, Milano 1968, pp. 134 ss.) si riapre il problema medievale del quod est e dell’esse, e quindi il problema della capacità della finitudine alla partecipazione. Secondo la metafisica classica, oggetto proprio della metafisica stessa è l’ens communissimum, ossia id cui competit esse, significante l’essenza e connotante l’esistenza (comprende quindi anche l’ente possibile), detto pure ens nominaliter sumptum, che si distingue dall’ens participialiter sumptum, ossia l’ente attualmente esistente, significante l’esistenza e conno-

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tante l’essenza. Nell’accezione di id cui competit esse, l’ente si divide «secondo le forme delle categorie» (Aristotele, Metaph., X, 10, 1051 a 35; Top., I, 9, 103 b 27 ss.). Ens a se è l’ente che non richiede nessuna causa per esistere (Dio), ens ab alio l’ente che la richiede (ogni effetto). Ens per se ha tre diversi significati: ora significa lo stesso che a se; ora ciò che non esiste in altro, in cui inerisca, e quindi ha il proprio essere di per sé (la sostanza e non gli accidenti), ora ciò che dipende dal principio e dalla natura di una cosa. In quest’ultimo significato si contrappone a per accidens (cfr. Tommaso, Quaestiones disputatae De potentia, q. 10, art. 4), che indica ciò che si predica di una cosa non sostanzialmente: p. es. l’uomo è per se animale, e per accidens può essere bianco. Ens rationis è quello il cui essere è soltanto nel pensiero, che lo conosce a modo di ente (cfr. Giovanni Duns Scotus, Quastiones Quodlibetales, q. 3); p. es., le privazioni (la cecità), che in sé non sono essere, sono ente rispetto alla mente che le considera. L’ens rationis si oppone all’ens reale o ens naturae che, in potenza o in atto, esiste fuori della nostra mente. La metafisica scolastica definisce il concetto di ente «trascendente» e, in relazione, chiama «trascendentali» i concetti di uno, vero, buono. Questa denominazione, caratteristica del concetto di ente, significa che esso non è un concetto generico o specifico, come tutti gli altri concetti che possediamo (cfr. Tommaso, C. Gent. l. I, cap. 25; Sum. theol. I, q. 3, art. 5; In III Metaph. lectio VIII). Il concetto di vivente è un concetto generico perché può essere differenziato da razionale o irrazionale, avendosi così le specie: uomo e tutti gli animati (irragionevoli); il concetto di uomo è un concetto specifico perché può essere differenziato da tutte le individuazioni, una diversa dall’altra. I concetti generici e specifici, per poter essere tali, non possono essere determinati da differenze che siano già contenute in atto nei medesimi; se infatti ne contenessero in atto una, non ne potrebbero contenere l’opposta: se il concetto di vivente dicesse già il concetto di razionale, non potrebbe più dire quello di irrazionale; il vivente può essere razionale o irrazionale, ma non è solo razionale o solo irrazionale; le differenze sono contenute «in potenza», non «in atto». Il concetto di ente invece è del tutto diverso e singolare. Dato che, se qualche cosa non è ente, è nulla, qualunque possibile differenza del

Ente concetto di ente (essere «a se» o «ab alio», cioè assoluto o relativo, essere sostanza o accidente, essere uomo o cane, essere Pietro o Paolo), per non essere o significare il nulla, dev’essere e significare essa stessa un ente. Nessuna differenza dell’ente può essere nonente. Il concetto di ente dice perciò anche tutte le sue differenze, non solo specifiche ma anche individualizzanti, poiché se le individuazioni non fossero ente ma nulla, non individuerebbero nulla e non si avrebbero individui diversi e distinti. Mentre le nozioni generiche non contengono in atto le differenze specifiche, e, quindi, in un certo senso non vanno al di là del genere medesimo, la nozione di ente va al di là di tutte le nozioni generiche, specifiche, e anche individualizzanti, le trascende tutte, è «trascendente». Esso le contiene tutte «in atto» e non soltanto «in potenza»; però, pur contenendole in atto, non le esprime tutte e singole in modo esplicito; ci sono tutte, ma espresse in modo implicito. Il concetto di ente, essendo il più semplice di tutti, è necessariamente il più indeterminato di tutti, non però perché prescinda da ogni determinazione, ma perché le contiene tutte, benché in modo inespresso; è il più pieno e il più ricco di tutti i concetti. Ne segue che o le differenze sono un nulla-diessere e, dunque, irreali, e si ha il monismo dell’essere e dell’ente, o, se le differenze sono reali, è necessario concludere che, essendo le differenze dell’essere contenute in atto nel concetto di ente, questo concetto non ha un’unità uguale a quella dei concetti generici e specifici; mentre cioè questi sono tali che, importando un contenuto di note e di determinazioni assolutamente identico, e rimanendo quindi assolutamente identici nel loro significato, vengono differenziati da specificazioni del tutto estranee, benché non contrastanti, dal medesimo contenuto, il concetto di ente, avendo in sé in atto tutte le sue differenze, non ha un contenuto semplice ed omogeneo. Per esprimere questa conseguenza della «trascendenza» dell’ente, conseguenza imposta dalla reale esistenza della molteplicità e diversità degli enti (ma che sarebbe stata anche semplicemente intelligibile e possibile, data la non necessità concettuale del monismo parmenideo, fondato su una unità dell’ente come se fosse generica o specifica), la filosofia scolastica ha affermato e afferma che l’unità dei concetti generici e specifici è una unità univoca, e 3419

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Entelechia quella dell’ente è una unità analoga; afferma, in altri termini, che i concetti generici e specifici sono univoci, e che il concetto di ente è analogo, e analogo sia secondo un’analogia di attribuzione sia secondo un’analogia di proporzionalità. Se poi si considera, non più il concetto di ente, ma la sua realtà, e quindi la sua costituzione ontologica, la metafisica scolastica ne dà spiegazione ricorrendo alle dottrine dell’atto e della potenza, dell’essenza e dell’esistenza, della materia e della forma, della sostanza e dell’accidente. A. Franchi - L. Pagello BIBL.: A. GHISALBERTI, L’Essere e l’Uno in Tommaso d’Aquino, Milano 1990, pp. 227-247; S. VANNI ROVIGHI, Introduzione a Tommaso d’Aquino, Roma-Bari 1999; A. GHISALBERTI (a cura di), Dalla prima alla seconda scolastica: paradigmi e percorsi storiografici, Bologna 2000; C. BIANCHI - A. BOTTANI (a cura di), Significato e ontologia, Milano 2003; M. GIANNASI, Ontologia e intenzionalità: idee per una semantica dell’essere, Padova 2003; E. BERTI (a cura di), Guida ad Aristotele, Roma-Bari 20043; E. BERTI et al., Platone e l’ontologia: Il Parmenide e il Sofista, Milano 2004; P. VALORE, Ontologia: bibliografie ragionate, Milano 2004; A.C. VARZI, Ontologia, Roma-Bari 2005; F. VOLPI (a cura di), Guida a Heidegger, Roma-Bari 20052. ➨ ACCIDENTE; ANALOGIA; ASEITÀ; ATTO; ESISTENZA; ESSENZA; ESSERE; FORMA; MATERIA; ONTOLOGIA; ONTOLOGIA ANALITICA; PERSEITÀ; POTENZA; SO STANZA; TRASCENDENTALI, NOZIONI.

ENTELECHIA (ejntelevceia - entelechy; EnteleEntelechia chie; entéléchie; entelequía). – Termine foggiato da Aristotele per indicare in genere la perfezione propria dell’atto giunto alla completa e definitiva realizzazione: ad es., il calore raggiunto e mantenuto in un metallo al termine del processo di riscaldamento, la statua al termine del processo di scultura. Deriva da ejntelev" «perfetto, compiuto, finito» (ejn «in», tevloß «fine») e[cein «avere, possedere»; per cui fu reso letteralmente da Ermolao Barbaro col bizzarro neologismo perfectihabia (cfr. G.W. Leibniz, Essais de théodicée, I, n. 87, in Philosophische Schriften, ed. C.I. Gerhardt, VI, p. 150). SOMMARIO: I. Distinzioni. - II. L’entelechia come forma e come atto di esistere. - III. Interpretazioni moderne dell’entelechia. I. DISTINZIONI. – Giova tener conto di una certa sfumatura di significato, e quindi del rapporto che passa, tra ejnevrgeia e ejntelevceia, rapporto che Aristotele esprime così: tou[noma ejnevrgeia 3420

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levgetai kata; to; e[rgon, kai; sunteivnei pro;" th;n ejntelevceian (Metaph., IX, 8, 1050 a 23; cfr. 3, 1047 a 30). Su di ciò nota Bonitz: «Inde ita videtur Ar(istoteles) ejntelevceian a ejnevrgeia distinguere, ut ejnevrgeia actionem, qua quid ex possibilitate ad plenam et perfectam perducitur essentiam, ejntelevceia ipsam hanc perfectionem significet [...]; non teneri tamen hoc discrimine, sed promiscue utrumque nomen usurpari ex constanti Aristotelis usu intelligitur et fortasse ex ipsa notionis th'" ejnergeiva" ambiguitate explicari potest» (Index Aristotelicus, Berolini 1870 [rist. 1961], 293 b 39 ss.). Possiamo quindi ritenere che, in genere, Aristotele usi i due termini, ejnevrgeia e ejntelevceia, come sinonimi (cfr.: W.D. Ross, Aristotle’s Metaphysics, II, Oxford 1948, p. 245). Più accuratamente esprime il significato dei due termini A. Trendelenburg (Aristotelis de anima libri tres, Berlin 18772, p. 243): «Si vocabulorum rationem et conditionem consulueris, ejnevrgeia magis ipsum rei actum, ejntelevceia statum ex actu exortum significat: ejnevrgeia in ipsa adhuc actione versatur, ejntelevceia contra ex actione in statu quodam acquievit, ut ejntelevceia aliquando ulterius processerit, quam ejnevrgeia. Ita actio differt ab eo, quod agendo effeceris» (cfr.: M. Kappes, Aristoteles-Lexicon, Paderborn 1894, p. 27). In altri termini: mentre ejnevrgeia indica piuttosto la stessa attività movente (o attuazione), ejntelevceia indica invece il possesso della perfezione che costituisce il termine dell’attività movente (o attualità); ejntelevceia è quindi l’attualità che rappresenta il punto d’arrivo dell’attuazione dovuta all’ejnevrgeia (cfr.: Filopono, In libros Aristotelis De anima, Berlin 1897, pp. 208, 37-209, 1). Forse in tal senso spiega Aristotele che il nome atto (ejnevrgeia) si pone per indicare perfezione (ejntelevceia; Metaph., IX, 3, 1047 a 30: hJ ejnevrgeia, hJ pro;" th;n ejntelevceian suntiqemevnh). Da notare anche che Dio è chiamato da Aristotele ejnevrgeia come primo motore (Aristotele, op. cit., XII, 6-7), e ejntelevceia come sommamente perfetto e immateriale (ibi, 8, 1074 a 36). D’altro canto va tenuto conto del rilievo di Bonitz, che cioè Aristotele usa costantemente in modo indiscriminato i due termini, tanto da passare dall’uno all’altro anche nello stesso contesto (cfr., ad es.: De an., III, 7, 431 a 1, 3; Gen. an., II, 1, 734 a 30, b 21; l’anima è chiamata ora ejntelevceia, nella celebre definizione di De an., II, 1, 412 a 27, b 5, ora ejnevrgeia in Metaph., VIII, 3,

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1043 a 35; il moto è chiamato ejntelevceia in Phys., VIII, 1, 251 a 9; 5, 257 b 8, e ejnevrgeia in Metaph., VIII, 3, 1047 a 30, 32; Phys., III, 2, 201 b 31; De an., II, 5, 417 a 16). I due termini hanno lo stesso opposto (duvnamiß) e gli stessi sinonimi (ei\do", oujsiva, fuvsiß, lovgo", to; tiv h\n ei\nai). Il termine ejndelevceia conservatoci da Cicerone (Tuscolanae disputationes, I, 10, 22), che lo riferisce alla nozione aristotelica di anima, traducendolo «motio quaedam continuata et perennis», sembra appartenere al periodo platonico di Aristotele; né rappresenta quella posizione che viene espressa dal termine ejntelevceia, indicante la relazione di atto a potenza che passa tra l’anima (forma) e il corpo (materia; cfr. E. Bignone, L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, I, Firenze 1936, pp. 227-272; Postilla aristotelica sulla dottrina dell’«entelécheia», in «Atene e Roma», 1940, pp. 460-508). II. L’ENTELECHIA COME FORMA E COME ATTO DI ESISTERE. – Il concetto fondamentale, che presiede alla trattazione aristotelica dell’atto, è che l’atto è la perfezione di cui la potenza è capacità (cfr. Metaph., IX, 6, 1048 a-b), per cui l’atto ha priorità sulla potenza (ibi, 8, 1049 b 1-29; 1050 a 1-9; XII, 6, 1071 b 25-32), in quanto la potenza non può passare all’atto suo proprio se non per l’influsso di un ente che possiede già tale atto. L’entelechia come atto indica quindi nell’ente una sua perfezione, una sua forma. Aristotele perciò considera l’entelechia soltanto nell’ordine essenziale, non in quello esistenziale. Entelechia è nella sostanza corporea la forma sostanziale riguardo alla materia prima; entelechia è ogni accidente di una sostanza. La non considerazione dell’entelechia nell’ordine esistenziale è dovuta all’assenza in Aristotele del problema dell’origine del mondo, ammessa, come egli ha, l’eternità del mondo. L’atto di essere esistenziale, che nella filosofia cristiana è l’effetto proprio della creazione divina, viene presupposto nella considerazione della sostanza; e solo di questa, data appunto come esistente e approfondita quindi filosoficamente soltanto nel suo aspetto essenziale, si cercano le condizioni di possibilità. Per Aristotele, chiedersi perché una cosa esiste equivale a chiedersi perché essa è sostanza; e si risponde assegnandone i due comprincipi essenziali: la materia prima e la forma sostanziale.

Entelechia Tommaso invece, elaborando la nozione aristotelica sotto il diretto influsso del concetto di creazione, parla esplicitamente dell’atto di essere esistenziale (cfr. In I Sent., distinctio 33, q. 1, art. 1 ad 1um) e ne afferma il carattere di ultima perfezione, vale a dire di entelechia, rispetto agli altri principi della realtà: «Esse autem est illud quod est magis intimum cuilibet, et quod profundius omnibus inest; cum sit formale respectu omnium quae in re sunt» (Sum. theol., I, q. 8, art. 1); «esse est actualitas omnium actuum et propter hoc perfectio omnium perfectionum» (De potentia, q. 7, art. 2, ad 9um, e Sum. theol., I, q. 4, art. 1 ad 3um). Viene così impostata la duplice considerazione dell’ente nell’ordine dell’essere e nell’ordine dell’essenza, la quale rivela l’effettiva estensione della teoria dell’atto e della potenza e fonda metafisicamente le relazioni trascendentali espresse dalle diadi essenza-essere, materia-forma. L’actus essendi si realizza come entelechia in quanto perfettamente commisurato all’essenza, come fa vedere Tommaso confutando l’opinione di Avicenna, che concepiva l’essere come aggiunto all’essenza a modo di accidente: «Esse enim rei quamvis sit aliud ab eius essentia, non tamen est intelligendum quod sit aliquod superadditum ad modum accidentis, sed quasi constituitur (= mensuratur) per principia essentiae» (In IV Metaph., lectio II, n. 558; cfr. Sum. theol., I, q. 3, art. 4; De potentia, q. 5, art. 4 ad 3um; C. Gent., I, 26). Tale dottrina ha la sua applicazione più completa nella posizione tomistica circa il costitutivo formale della persona, il quale, secondo l’interpretazione che sembra più aderente ai testi, è l’essere sostanziale commisurato alla natura intellettuale individua completa (cfr. i testi tomistici più importanti e un’ottima trattazione della questione in L. Billot, De Verbo incarnato, Roma 19499, pp. 57-86). Storicamente la nozione di entelechia-forma e di entelechia-atto di esistere ha dato luogo a molteplici divergenze dottrinali e malintesi, anche da parte di coloro che hanno sinceramente desiderato restituirla a nuova vita, piegandone il significato a nuove concezioni, ispirate a una visione organico-dinamica della realtà (Leibniz, Driesch). La difficoltà principale che tale nozione presenta è costituita dal fatto che l’entelechia-forma, se si tratta di forma corporea, non è ente in senso proprio (ens quod), ma principio, o 3421

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Entelechia meglio, comprincipio (ens quo) dell’ente: propriamente non esiste la forma o entelechia, ma il composto di materia e forma, per cui la forma non sussiste da sola, ma soltanto insieme alla materia con la quale costituisce il composto (sinolo). Aristotele rende intuitiva questa dottrina con l’esempio della sfera di bronzo: la rotondità della sfera (che rappresenta la forma) non esiste separatamente dal bronzo sferico; conseguentemente l’artefice non fa la rotondità separata dal bronzo (ciò che è assurdo), ma fa la rotondità nel bronzo, e quindi in tanto fa la rotondità in quanto fa il bronzo rotondo o sferico (Metaph., VII, 8, 1033 a 24-b 13; cfr. XII, 3, 1069 b 35 - 1070 a 4): ciò che, propriamente, è fatto o generato è il composto (Phys., I, 9, 192 a 31 ss.; Metaph., VII, 7, 1032 a 12-22; 8, 1033 b 12-13). Donde la formula: le forme sono e non sono senza generazione e corruzione (ajnavgkh dh; tauvthn[= la forma] h] aji?dion ei\nai h] fqarth;n a[neu tou' fqeivresqai kai; gegonevnai a[neu tou' givgnesqai: Metaph., VIII, 3, 1043 b 14-23; cfr. 5, 1044 b 21-29; VII, 8, 1033 b 5-8; Phys., VIII, 6, 258 b 16-22), la quale significa: non essendo le forme enti in senso proprio (ente in senso proprio è soltanto il composto di materia e forma), in tanto si generano e si corrompono in quanto si genera e si corrompe il composto. Tommaso, che ha penetrato in modo molto profondo questa tesi aristotelica e ne ha dato un’esposizione lucidissima, confuta energicamente le false concezioni dell’entelechia e ne indica l’origine: «Multis error accidit circa formas ex hoc quod de eis iudicant sicut de substantiis iudicatur; quod quidem ex hoc contingere videtur, quod formae per modum substantiarum signantur in abstracto, ut albedo, vel virtus, aut aliquid huiusmodi; unde aliqui modum loquendi sequentes, sic de eis iudicant ac si essent substantiae. Et ex hinc processit error tam eorum qui posuerunt latitationem formarum, quam eorum qui posuerunt formas esse a creatione. Aestimaverunt enim quod formis competeret fieri sicut competit substantiis; et ideo non invenientes ex quo formae generentur, posuerunt eas vel creari, vel praeexistere in materia; non attendentes, quod sicut esse non est formae, sed subiecti per formam; ita nec fieri, quod terminatur ad esse, est formae, sed subiecti. Sicut enim forma ens dicitur, non quia ipsa sit, si proprie loquamur, sed quia aliquid ea est; ita et forma fieri dicitur, non quia ipsa fiat, sed quia ea ali3422

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quid fit; dum scilicet subiectum reducitur de potentia ad actum» (De virtutibus in communi, art. 11; cfr. C. Gent., III, 69; De pot., q. 3, art. 8 ad 6um; per il commento ad Aristotele, cfr. In VII Metaph., lectio VII, nn. 1417-23, 1430 ss.; In VIII Metaph., lectio III, n. 1715 ss.; lectio IV, n. 1746 ss.; In XII Metaph., lectio II, n. 2432 ss.; lectio III, nn. 2442 ss., 2450 ss.; In VI Phys., lectio VII, n. 4). III. INTERPRETAZIONI MODERNE DELL’ENTELECHIA. – La successiva evoluzione storica ha confermato in pieno l’esattezza di questo giudizio di Tommaso, dando la chiave per intendere l’atteggiamento della filosofia moderna in genere verso l’entelechia aristotelica. Ci limitiamo ad accennare agli esempi più significativi. Cartesio intende l’entelechia come ente in senso proprio, cioè come sostanza completa. Scrive infatti: «Hic est notandum nomine formae substantialis, cum eam negamus, intelligi substantiam quandam materiae adiunctam, et cum ipsa totum aliquod mere corporeum componentem, quaeque non minus aut etiam magis quam materia, sit vere substantia sive res per se subsistens, quia nempe dicitur actus, illa vero potentia» (Epistola ad Regium, in Oeuvres, ed. C. Adam - P. Tannery, III, Paris 1899, p. 502). Similmente Leibniz, che non ammette alcuna mutazione intrinseca appunto perché non possiede il concetto di ens quo, ritiene che «si potrebbe dare il nome di entelechia a tutte le sostanze semplici o monadi create, poiché esse hanno in sé una certa perfezione (e[cousi to; ejntelev"); c’è una sufficienza (aujtavrkeia) che le rende cause delle loro azioni interne, e per così dire automi incorporei» (Monadologie, n. 18: ed. C.I. Gerhardt, VI, pp. 609-610), per cui I’entelechia «essendo permanente, porta con sé non solo una semplice facoltà attiva, ma anche ciò che si può chiamare forza, sforzo, conatus, da cui l’azione stessa deve seguire se niente lo impedisce» (Essais de théodicée, n. 87: ed. C.I. Gerhardt, VI, p. 150). Secondo Leibniz l’entelechia è innanzi tutto un principio d’azione, immanente a colui che agisce, ma la sua nozione, anche quando è esposta secondo il significato attribuitole da Aristotele per quanto riguarda il mondo dell’esperienza, non è posta in connessione col problema del divenire, per cui rimane preclusa l’unica via che permetterebbe di intenderla come comprincipio dell’ente. Dalla stessa confusione non è immune nemmeno H. Driesch, il quale, sebbene non sia riu-

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scito a cogliere il vero significato della nozione aristotelica di entelechia, si è tuttavia molto avvicinato al concetto aristotelico di forma o atto, nell’ultima elaborazione del suo pensiero. Nella quarta edizione della sua opera Die Philosophie des Organischen (Leipzig 1928), dopo aver mantenuto l’opinione, già espressa nell’edizione del 1921, secondo la quale l’entelechia sarebbe un fattore vitale autonomo, aggiunge alcune determinazioni ulteriori che denotano un’evoluzione innegabile, ad esempio: «L’entelechia è priva di qualsiasi caratteristica di ordine quantitativo: la sua funzione si riduce alla realizzazione di un ordine e a nient’altro» (p. 298). «Lo ripeto ancora una volta, l’entelechia non si può assolutamente rappresentare sotto forma di immagine [in einer bildartigen Weise]; ciò che non ha nulla di spaziale non si lascia rappresentare mediante immagini spaziali. Ciò può dispiacere, ma è cosi» (pp. 347-348). E già nel 1921 dava dell’entelechia questa descrizione negativa: «L’entelechia non è né energia, né forza, né intensità, né costante, ma entelechia» (p. 460). Tuttavia anche nell’edizione del 1928 si incontrano affermazioni certamente aliene dal concetto aristotelico, come, per esempio, questa: l’entelechia «è in ogni momento in un punto in stato di atto, in un altro in stato di potenza» (p. 379). Lo stesso fraintendimento, causato soprattutto dal non aver compreso il concetto di ens quo, ha motivato delle gravi riserve da parte di alcuni storici moderni riguardo alla nozione di entelechia, specialmente in rapporto alla validità della soluzione aristotelica del problema del divenire. Così E. Zeller (Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Leipzig, 1892-1923, II, 2, p. 347) trova per lo meno «difficile pensare che non divengano le forme di ciò che diviene (so ist es doch schwer, sich die Formen des Gewordenen ungeworden zu denken), se esse né esistono come idee sussistenti, né sono unite originariamente alla materia». Per C. Baeumker (Das Problem der Materie in der griechischen Philosophie, Münster 1890, p. 288), è contraddittorio affermare, come farebbe Aristotele, che la forma non sia generata, quando poi si ammette che è generato l’individuo di cui la forma stessa è parte: non per questo la generazione cessa di essere tale. Per la medesima incomprensione già von Hertling (Materie und Form und die Definition der Seele bei Aristoteles, Bonn 1871, p. 101) aveva sentenziato che l’entelechia, sebbene si debba pen-

Entelechia sare a priori come una realtà, di fatto non è che un ente di ragione astratto. A questi e simili attacchi la nozione di entelechia ha peraltro resistito, dimostrandosi la più adatta a garantire quella visione teleologica della realtà che trova sempre nuove conferme negli ultimi sviluppi delle scienze. È innegabile che Driesch, ad es., nonostante l’inesattezza di interpretazione a cui abbiamo accennato, ha lasciato intravedere come la nozione aristotelica possegga un valore tutto suo, indipendentemente dal significato che può attribuirle uno scienziato, preoccupato soprattutto di individuare la causa prossima di un fenomeno, e indifferente riguardo all’atteggiamento filosofico da assumere nei suoi confronti. Questo valore è espresso dal fatto, scientificamente accertato, che ai processi di organizzazione, relativi allo sviluppo ontogenetico dei viventi, presiede una legge immanente determinantesi come l’estrinsecazione in atto di quel nucleo fondamentale di realtà che è precisamente l’entelechia. Nessuna meraviglia che uno scienziato non arrivi a concepirla come ens quo, dal momento che questa determinazione appartiene all’elaborazione concettuale propria del filosofo. L’essenziale è che se ne riconosca l’esistenza, e questo è fuori discussione. Una conferma, non meno autorevole, al punto di vista aristotelico è data dalla moderna «teoria della forma» (Gestalttheorie), teoria dapprima psicologica, ma estesa in seguito a una concezione filosofica generale dei fatti fisici, e biologici in particolare (Köhler, Wertheimer, Koffka). Secondo essa, i fenomeni devono essere considerati come altrettanti complessi costituenti delle unità autonome, organicamente strutturate e rette da leggi proprie; tramonterebbe quindi (o, per lo meno, si manifesterebbe scientificamente meno efficiente) la concezione atomistica, che considerava invece gli stessi fenomeni come somma di elementi da isolare e da analizzare a parte. Non è difficile accorgersi come, in questa teoria, l’entelechia, in quanto forma e atto, trovi agevolmente il posto che le compete nel rendere ragione della costituzione intrinseca di ciascun complesso, e nel definire la struttura organica a cui ogni elemento appartiene. G. Giannini BIBL.: G. TEICHMÜLLER, Begriff und Arten der Entelechie, in Aristotelische Forschungen, III, Halle 1873; R. HIRZEL, Ueber Entelechie und Endelechie, in «Rheinisches Museum für Philologie», 39 (1884), pp. 169-

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Entimema 208; H. DIELS, Etymologica, 3, Entelecheia, in «Zeitschrift für Vergleichende Sprachforschung», 47 (1916), pp. 200-203; H. BURCHARD, Der Entelechiebegriff bei Aristoteles und Driesch, Quatenbrück 1928; A. MITTASCH, Entelechie, Basel 1952; C.-H. CHEN, The Relation between the Terms «energeia» and «entelecheia» in the Philosophy of Aristotle, in «Classical Quarterly», 52 (1958), pp. 12-17; G. BRUNI, Note di polemica neoplatonica contro l’uso e il significato del termine ejntelevceia, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1960, pp. 205-236; G. REALE, La dottrina aristotelica della potenza, dell’atto e dell’entelechia nella «Metafisica», in AA.VV., Studi di filosofia e di storia della filosofia in onore di F. Olgiati, Milano 1962, pp. 145207; U. ARNOLD, Die Entelechie. Systematik bei Plato und Aristoteles, Wien-München 1965; V. CAPPELLETTI, Entelechia. Saggi sulle dottrine biologiche del secolo decimonono, Firenze 1965; G.A. BLAIR, The Meaning of «Energeia» and «Entelecheia» in Aristotle, in «International Philosophical Quarterly», 7 (1967), pp. 101-117; L. COULOUBARITSIS, La notion d’«entelecheia» dans la «Métaphysique», in AA.VV., Aristotelica. Mélanges offerts à M. De Corte, Bruxelles-Liège 1985, pp. 128-156; M. SÁNCHEZ SORONDO (a cura di), L’atto aristotelico e le sue ermeneutiche, Roma 1990. ➨ ATTO; DYNAMIS; ENERGHEIA; PERFEZIONE; TELOS.

ENTIMEMA (dal gr. ejnquvmhma, «ciò che si ha Entimema nell’animo; pensiero» - enthymme; Enthymem; enthymème; entimema). – È, secondo Aristotele, «un sillogismo imperfetto che trae la conclusione da affermazioni probabili o da segni» (An. pr., II, 27, 70 a 10). Poiché in tale sillogismo, si tace spesso la premessa maggiore, perché contenente una verità notissima, è invalso poi l’uso (forse a partire da Quintiliano) di chiamare entimema un sillogismo abbreviato (Aristotele, per eccezione, usa una volta il termine in quest’ultimo senso: Rhet., I, 2, 1357 a 16). Quintiliano volle distinguere tre significati nel termine entimema: 1) ciò che uno ha nello spirito; e in tal senso non ha nulla di tecnico; 2) un’affermazione appoggiata dalla ragione che la giustifica («sententia cum ratione»); 3) un argomento non rigoroso tratto o da conseguenti o da contrari («vel ex consequentibus vel ex repugnantibus»: Institutio oratoria, X, 1). Quando si tace la premessa maggiore, l’entimema dicesi di primo grado; se la minore, di secondo grado. Un esempio del primo tipo: i dotti sono uomini, dunque i dotti sono fallibili (sottinteso: tutti gli uomini sono fallibili); del secondo tipo: il sommo bene deve essere amato, dunque Dio deve essere amato (sottin3424

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teso: Dio è il sommo bene). Le due proposizioni dell’entimema possono anche essere ridotte a una sola proposizione o sentenza entimematica; es.: mortale, non serbare odio immortale. Giudizi entimematici sono quei giudizi categorici contratti in cui si tace il soggetto e che si concentrano nel verbo; p. es.: nevica. Da ciò le proposizioni ellittiche. U. Redanò BIBL.: A. ROSMINI, Logica, l. II, cap. 9, art. 1, a cura di E. Troilo, Milano 1942; E.H. MADDEN, The Enthymeme: Crossroads of Logic, Rhetoric and Metaphysics, in «The Philosophical Review», 1952, pp. 368-376; S. TARDINI, L’entimema nella struttura logica del linguaggio, in «L’analisi linguistica e letteraria», 5, 2 (1997), pp. 420-440; F. PIAZZA, Il corpo della persuasione. L’entimema nella retorica greca, Palermo 2000. ➨ GIUDIZIO; PROPOSIZIONE; SILLOGISMO.

ENTITÀ (lat. entitas - entity; Entität; entité; enEntità tidad). – Letteralmente designa l’essenza dell’ente, l’entitas, ciò che fa che un ente sia ente, oppure ciò per cui un determinato ente è quello che è: p. es., la cavallinità è l’entità dell’entecavallo. Entità sono i «principi dell’ente», se per ente si intende l’ente completo: quindi in questo senso la materia e la forma o l’atto e la potenza sono detti entità, e non enti. Il termine è stato introdotto da Duns Scoto che se ne serve per distinguere il modo d’essere dell’individuo (entitas positiva o hecceitas), dal modo d’essere della natura o della specie (entitas quidditativa). Rispetto a questa declinazione, entitas positiva è, p. es., Socrate, ed entitas quidditativa la specie uomo. L’uso moderno accentua, invece, il senso di astrazione della parola, per cui essa designa un oggetto concepito come privo di determinazioni e di riferimenti particolari, oppure, più astrattamente, un prodotto dell’immaginazione o del pensiero che non abbia alcun riferimento alla realtà. Nella logica contemporanea il termine è adoperato per indicare ogni oggetto del quale si possa definire lo statuto esistenziale ma che non risulta comunque riducibile a un dato sensibile. A. Franchi - F. Mazzini BIBL.: O. TODISCO, G. Duns Scoto e Guglielmo d’Occam: dall’ontologia alla filosofia del linguaggio, Cassino 1989; A. GHISALBERTI (a cura di), Giovanni Duns Scoto: filosofia e teologia, Milano 1995; A. GHISALBERTI, Guglielmo di Ockham, Milano 1996. ➨ ECCEITÀ; ENTE; ESSENZA; ESSERE; QUIDDITÀ.

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ENTROPIA. (dal gr. ejn «in» e trevpw «volgeEntropia re», quindi «involuzione», «in-trasformazione», «conversione» - entropy; Entropie; entropie; entropía ). – Il concetto di entropia è una misura della disorganizzazione di un sistema. L’idea fu introdotta nell’ambito della termodinamica, ma la nozione può essere associata con distribuzioni probabilistiche di qualsiasi genere. SOMMARIO: I. L’origine termodinamica. - II. L’interpretazione statistica dell’entropia. - III. L’entropia dell’universo. - IV. Entropia e informazione. I. L’ORIGINE TERMODINAMICA. – Alla metà dell’Ottocento furono accolti due principi per la teoria del calore: in ogni sistema chiuso la quantità di energia è costante, principio che fissa la quantità di energia presente, e un secondo principio che concerne la qualità dell’energia, cioè l’ammontare dell’energia disponibile nel sistema per produrre lavoro utile. Il secondo principio, formulato da Rudolf Clausius e da William Thomson (poi Lord Kelvin) determina la direzione in cui avvengono i processi termodinamici ed esprime il fatto che, anche se l’energia non va mai distrutta, essa può diventare inutilizzabile per la produzione di lavoro; esso è la forma raffinata e generalizzata dell’ipotesi che il calore non può passare spontaneamente da un corpo più freddo a uno più caldo e dunque non è possibile ottenere lavoro da un corpo che è più freddo dei corpi che lo circondano. Nel 1854 Clausius riformulò il secondo principio con il concetto di entropia, termine che egli derivò dal greco ejn «in» e trevpw «in-trasformazione», trasformazione interna a un sistema, con il quale egli intendeva indicare il senso naturale dei fenomeni, una specie di ripiegamento su se stesso e di diminuzione delle ineguaglianze. Egli definì l’entropia in modo differenziale: l’incremento di entropia di un sistema è uguale alla quantità di calore assorbita diviso per la temperatura alla quale l’assorbimento è avvenuto, nell’ipotesi che la temperatura rimanga costante. Il secondo principio della termodinamica assume la forma seguente: l’entropia di un sistema isolato non può mai diminuire. Ogni trasformazione reversibile che avviene in un sistema chiuso lascia l’entropia totale inalterata, poiché il guadagno di entropia in una parte del sistema sarà controbilanciata dalla perdita in un’altra parte. Ma ogni trasformazione irreversibile porterà a un

Entropia aumento di entropia. Cambiamenti irreversibili avvengono quando del calore passa spontaneamente da una parte del sistema a un’altra che è a più bassa temperatura. In generale, qualsiasi cambiamento fisico o chimico spontaneo di un sistema provocherà un aumento della sua entropia. Quando l’entropia è massima, non avverrà alcun cambiamento spontaneo e il sistema sarà allora in uno stato di equilibrio termodinamico. II. L’INTERPRETAZIONE STATISTICA DELL’ENTROPIA. – All’interno della termodinamica l’entropia fu definita in termini di grandezze fenomeniche, ma, proprio a opera di Clausius, nella seconda metà dell’Ottocento si sviluppò una interpretazione delle proprietà del calore fondata su una modellizzazione meccanica. La teoria cinetica dei gas, progressivamente elaborata da W. Maxwell e da L. Boltzmann, rappresenta un gas come composto da un enorme numero di molecole, dotate di massa e soggette alle leggi della meccanica, e spiega le proprietà fenomeniche del gas, quali pressione e temperatura, riconducendole a proprietà meccaniche del modello macroscopico, quali energia e velocità. Dato l’elevato numero di oggetti componenti il modello, è necessario ricorrere a una trattazione statistica. La legge di distribuzione di probabilità delle velocità delle molecole in un gas fu ottenuta nel 1860 da Maxwell e alcuni anni dopo Boltzmann mostrò che da questa distribuzione di probabilità si può derivare una funzione che ha proprietà simili all’entropia e che può essere considerata come il suo analogo statistico. A un dato stato macroscopico di un gas corrispondono un grande numero di stati microscopici, stati in cui ogni molecola ha velocità e posizione determinate. Il numero di stati microscopici che corrispondono al medesimo stato macroscopico determina la probabilità di quest’ultimo. Boltzmann trovò che l’entropia di un sistema in uno stato macroscopico dato è proporzionale al logaritmo della probabilità dello stato (la presenza della funzione logaritmica dipende dalla circostanza che le entropie sono additive, mentre le probabilità sono moltiplicative). Il secondo principio fu allora interpretato da Boltzmann come segue: ogni sistema chiuso tende verso uno stato di equilibrio di probabilità massima, che è associato con l’egualizzazione di temperature, pressioni ecc. Poiché le probabilità che accadano disposizioni ordinate di molecole (per esempio, la presenza in una parte del sistema 3425

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Entropia di molecole che sono a una determinata temperatura, mentre in un’altra parte vi sono molecole a un’altra temperatura) sono molto più piccole di quelle di disposizioni disordinate, la legge significa che le disposizioni ordinate tendono a degenerare in disposizioni disordinate. Entropia crescente significa disordine crescente. Nell’interpretazione di Boltzmann il principio di crescita dell’entropia, ora considerata come la misura del disordine di un sistema termodinamico, cessa di essere una legge deterministica della natura e diventa una legge statistica. Da questo punto di vista, il ritorno di una trasformazione termodinamica a uno stato di entropia minore, proibito dal secondo principio, non appare più impossibile ma solo estremamente improbabile. Tutti i fenomeni più bizzarri, quale il congelamento dell’acqua per mezzo di una stufa rovente, appaiono possibili. La teoria di Boltzmann, nonostante il suo indubbio valore, fu ampiamente criticata. Già nel 1876 Josef Loschmidt osservò che la simmetria delle leggi della meccanica rispetto al passato e al futuro dovrebbe implicare una corrispondente reversibilità dei processi molecolari, contraddicendo la legge della crescita dell’entropia; i processi di separazione dovrebbero pertanto avvenire altrettanto frequentemente dei processi di rimescolamento e l’entropia di un sistema dovrebbe decrescere altrettanto spesso di quanto essa tenda a crescere. Un’altra importante obiezione fu formulata da E. Zermelo. Riallacciandosi a un teorema di Poincaré relativo ai sistemi dinamici secondo cui, sotto opportune condizioni, lo stato iniziale di un sistema tenderà a ripresentarsi un numero infinito di volte, Zermelo sostenne che i processi molecolari devono essere ciclici, ancora in contraddizione con il secondo principio della termodinamica. Queste obiezioni furono invalidate nel 1907 da Paul e Tatiana Ehrenfest. Essi sottolinearono che la dimostrazione statistica del secondo principio di Boltzmann riguardava solo la variazione media dell’entropia di un sistema isolato e non precludeva la possibilità di aumenti e diminuzioni del suo valore che accadano con eguale frequenza. Una successione di incrementi e decrementi non è incompatibile con l’esistenza di un’alta probabilità di un incremento che avvenga a partire da una stato a entropia bassa, a patto che questo stato iniziale sia nel punto più basso di una fluttuazione 3426

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dall’equilibrio termodinamico. Il comportamento sul lungo periodo di un sistema chiuso è dunque caratterizzato da una successione di fluttuazioni nel valore della sua entropia, con un pressoché certo ritorno in alto da ogni valore basso raggiunto. Di conseguenza l’apparente irreversibilità nel comportamento entropico di un sistema chiuso si presenta come una fortissima tendenza, per un sistema che si trovi in una situazione di non equilibrio, a muoversi verso l’equilibrio termodinamico. III. L’ENTROPIA DELL’UNIVERSO. – Clausius riteneva che il secondo principio fosse non solo una legge universale, ma anche una legge dell’universo come un tutto. Da questo ricavò la conclusione che l’universo tende verso uno stato di «morte termica» in cui la temperatura (e anche gli altri parametri fisici) sarà ovunque la stessa e, non essendoci più alcun salto termico da sfruttare per produrre lavoro, tutti i processi fisici cesseranno. Questo tema sollevò grandi discussioni anche nella cultura extrascientifica, ma il ragionamento di Clausius venne generalmente accettato, anche se non mancarono le critiche dei contemporanei. Boltzmann non accettò l’idea della morte termica in base alla propria interpretazione statistica del secondo principio: ci saranno sempre regioni relativamente piccole (che potrebbero essere delle dimensioni della nostra galassia) entro le quali si producono spontaneamente significative fluttuazioni dallo stato di equilibrio. La «morte termica» dell’universo si basa su due ipotesi: a) che esso sia un sistema isolato, cioè che non riceva nuova energia o nuova materia, per esempio con un intervento divino; b) che le leggi fisiche da noi osservate siano valide ovunque e per sempre. A partire da queste considerazioni è stato proposto un «argomento entropologico» per l’esistenza di Dio. IV. ENTROPIA E INFORMAZIONE. – Nel XX secolo il concetto di entropia è stato associato al moderno concetto di informazione e in questo modo ha travalicato i confini della fisica. L’origine di questo sviluppo si trova nell’ipotesi del «diavoletto» formulata da Maxwell nel 1871. Maxwell considera quel che accadrebbe in un recipiente riempito di gas e diviso in due parti A e B da una parete con una piccola apertura, se vi fosse un essere capace di seguire le singole molecole e potesse chiudere il foro in modo da lasciar passare solo le molecole più veloci da A a B e solo le più lente da B ad A. In questo modo, senza spendere lavoro, la tem-

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peratura in B salirebbe e quella in A scenderebbe, contro il secondo principio. Nel 1929 L. Szilard mostrò che questa contraddizione non sussiste se si tiene conto che il «demone» agisce sulla base di informazioni relative al moto molecolare e converte informazioni in entropia negativa. L’anno successivo G.N. Lewis considerò il problema della separazione e della diffusione dei gas e concluse che la crescita di entropia significa sempre perdita di informazione. L’idea fu sviluppata in un’articolata teoria dell’informazione da Claude Shannon nel 1948. Divenne così chiaro che non solo l’entropia può essere interpretata come una misura del disordine di un sistema fisico, ma anche, più precisamente, che l’entropia misura la perdita di informazioni circa la struttura di un sistema; entropia e informazione sono espresse dalla stessa funzione matematica (quella di Boltzmann). L’evoluzione di un sistema secondo un disordine crescente fa perdere informazioni sugli stati precedenti (una pila di libri che si rovescia fa perdere informazioni sull’ordine secondo cui i libri erano stati impilati) e l’entropia misura la progressiva diminuzione di informazioni. Lo sviluppo della teoria dell’informazione ha mostrato che il concetto di entropia può essere separato dalla termodinamica e associato con qualsiasi distribuzione di probabilità. In particolare, può essere applicato allo studio della struttura statistica del linguaggio, applicazione che ha dato luogo a interessanti risultati nella caratterizzazione statistica del linguaggio letterario. R. Maiocchi BIBL.: C.E. SHANNON - W. WEAVER, The Mathematical Theory of Communication, Urbana (Illinois) 1949, tr. it. di P. Cappelli, La teoria matematica delle comunicazioni, Milano 1971; R. MASI, Religione, scienza e filosofia, Brescia 1958; O. COSTA DE BEAUREGARD, Le second principe de la science. Entropie-Information-Irréversibilité, Paris 1963; L. KUBÀT - J. ZEMAN (a cura di), Entropy and Information in Science and Philosophy, Amsterdam 1975; J. TONNELAT, Thermodynamique et biologie, Paris 1978; M. AGENO, Le origini dell’irreversibilità, Torino 1992; I. PRIGOGINE - I. STENGERS, La nuova alleanza, Torino 1993.

ENTUSIASMO (dal gr. ejnqousiavzw «sono inEntusiasmo vaso dalla divinità» - enthusiasm; Begeisterung; enthousiasme; entusiasmo). – Sentimento di eccitazione e di esaltazione, congiunto all’idea di un possesso della verità.

Entusiasmo Platone distingue vari tipi di entusiasmo (mania) generati da altrettante divinità: profetico (Apollo), orgiastico (Dioniso), poetico (Muse), amoroso (Afrodite ed Eros). Di tali tipi di entusiasmo possono dunque considerarsi dotati indovini e vati, poeti e amanti, il filosofo, che per suo mezzo giunge alla reminiscenza del vero e persino gli uomini politici, quando «ispirati e posseduti dalla divinità riescono a dire molte grandi cose senza sapere quello che dicono» (Phaedr., 249 e, 265 b; Men., 99 c). In quanto prodotta dagli dei la mania non va considerata come forma di pazzia: «Vi sono due generi di delirio, uno prodotto dall’umana debolezza, l’altro da un divino straniarsi dalle normali regole di condotta» (Phaedr., 265 a). Tuttavia, nonostante «i più grandi doni ci provengono proprio da quello stato di delirio, datoci per dono divino» (Phaedr., 244 a), nel caso dell’arte almeno ciò non può considerarsi un’autentica conoscenza, proprio perché il rapsodo parla esclusivamente per ispirazione divina (Ion., 534 c-d, 538; Leg., 719 c). Se anche Aristotele riconosce che «la poesia è propria di chi è invasato» (Poet. 1455 a 35), il neoplatonismo accentuerà l’aspetto religioso dell’entusiasmo. Per Plotino è per mezzo dell’entusiasmo che l’anima, come ogni essere, «abbraccia Dio non per riflessione, ma per necessità naturale» (Enn., II 2, 2). Esso non è nient’altro che «lo stupore, la meraviglia gioiosa, il desiderio, l’amore, e lo spavento accompagnato da piacere» (ibi, I 6, 4), ed è tutt’uno con l’intuizione mistica preparatoria dell’estasi (ibi, VI 9, 11): è quell’«intelligenza amante» (ibi, VI 7, 36) ripresa da Baruch Spinoza con l’amor Dei intellectualis (Ethica, V, propp. 33 ss.). Nel Rinascimento Giordano Bruno, accogliendo il termine dalla tradizione platonica e neoplatonica, distingue l’entusiasmo proprio degli spiriti filosofici («eroico furore») da uno più propriamente religioso: questo «è un calor acceso dal sole intelligenziale ne l’anima e impeto divino che gli impronta gli atti; onde più e più avvicinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine de le umane cure, dovien un oro provato e puro, ha sentimento della divina e interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte le cose» (Degli eroici furori, dialogo III, ed. a cura di A. Guzzo, Milano 1946, p. 592). In seguito l’entusiasmo diventa sinonimo di dogmatismo, pretendendo di fondarsi su 3427

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Entusiasmo un’intuizione immediata e di poter fare a meno della ragione (G.W. Leibniz, Nouveaux essais sur l’entendement humain, 1703, IV, 29, § 16). Con ciò è proprio del fanatismo e dell’intolleranza, in quanto procede «dall’immaginazione di uno spirito riscaldato e pieno di se stesso» e culmina nella pretesa di essere in contatto con la divinità (Locke, Essay on Human Understanding (London 1690), Saggio sull’intelletto umano, tr. it. a cura di M. e N. Abbagnano, Torino 1971, libro IV, cap. 19, § 7). Sull’entusiasmo si fonda inoltre la stolta presunzione dei veggenti (Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, Koenigsbeg 1798, Antropologia pragmatica, tr. it. di G. Vidari, rivista da A. Guerra, Roma-Bari 1985, §§ 36, 45). Ora, se esso è tollerabile solo nei poeti (F.M.A. Voltaire, s. v. enthousiasme in Dictionnaire Philosophique), risulta conciliabile solo in modo contraddittorio con la ragione, come avviene nel genio (S. Bettinelli, Dell’entusiasmo delle belle arti, Milano 1769). E proprio al nesso tra genio ed entusiasmo sono dedicate le riflessioni di G.V. Gravina (Della ragion poetica, a cura di G. Izzi, Roma 1991) e di L.A. Muratori (Della forza della fantasia umana, Venezia 1745). Nel panorama settecentesco solo A.A.C. Shaftesbury proporrà una valutazione positiva dell’entusiasmo, ponendolo alla base di tutte le manifestazioni più sublimi dell’animo umano e della cultura (The Moralists, III, sezione II, tr. it. a cura di P. Casini in Saggi morali, Bari 1962, p. 327), nonché della stessa virtù, in quanto essa è «null’altro che un nobile entusiasmo rettamente orientato e regolato» (Miscellaneous Reflections, London 1711, vol. II, cap. I, tr. it. in Saggi morali, Bari 1962, p. 364). L’entusiasmo è una «passione assai naturale e onesta e non ha per oggetto se non ciò che è buono e onesto», per cui si deve distinguere dal fanatismo e dalla superstizione che ne esprimono soltanto l’aspetto degenerativo, quando cioè questa passione tende «più al mirabile e al pauroso che all’amabile e al piacevole» (ibi, pp. 367-368): in questo caso ha come correttivi la «libera ironia» e il good humour. L’entusiasmo per Shaftesbury si desta inoltre al cospetto delle cose «eccessivamente grandi», sia reali che immaginate, a causa della limitata comprensione dell’essere umano (A Letter concerning Enthusiasm, London 1708, Lettera sull’entusiasmo, sezione VII, tr. it. in Saggi morali, Bari 1962, p. 34). In questo signi3428

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ficato l’entusiasmo confluirà nel «sentimento del sublime» di Kant, secondo il quale «considerato esteticamente l’entusiasmo è sublime, perché è una tensione delle forze prodotta da idee, le quali danno all’animo uno slancio di gran lunga più potente e durevole dell’impulso che deriva da rappresentazioni sensibili» (Kritik der Urteilskraft, Berlin 1790, tr. it. di A. Gargiulo riveduta da V. Verra, Critica del Giudizio, Roma-Bari 1992, p. 100). Esso si distingue tuttavia dal sublime in quanto questo «deve sempre riferirsi alla maniera di pensare, cioè a massime dirette a imporre il dominio dell’elemento intellettuale e delle idee della ragione sulla sensibilità», mentre «nell’entusiasmo, in quanto affetto, l’immaginazione è senza freno; nel fantasticare in quanto passione radicata e coltivata, è senza regola» (ibi, pp. 102-103). Occorre attendere l’epoca romantica per assistere a una piena rivalutazione dell’entusiasmo: Mme de Staël fa riferimento ad esso per designare una forma di vita morale più intensa del normale (De l’Allemagne, a cura di S. Balayé, Paris 1985, V, capp. 10, 11, 12). Per F. Schiller l’entusiasmo è un libero moto del cuore corrispondente all’«esaltazione del sentimento», ma distinto dalla semplice «esaltazione della rappresentazione» che presuppone un cuore freddo, così come dal «selvatico fuoco dell’immaginazione». In quanto oltrepassa ogni limite è un indice del temperamento idealista (contrapposto al realista), il quale è portato a «esaltare la sua natura» e «non può invero far nulla se non in quanto è esaltato e entusiasmato» (Über naive und sentimentalische Dichtung, in Sämtliche Werke, XII, Leipzig 1913, pp. 130-132 e 144, tr. it. a cura di C. Baseggio, Sulla poesia ingenua e sentimentale, in Saggi estetici, Torino 1951, pp. 449 ss. e 459 ss.). L’entusiasmo si trova così strettamente congiunto al carattere «sentimentale» del genio (ibid.). Inoltre anche per Schiller l’entusiasmo compare nel sentimento del sublime (Über das Erhabene, in Sämtliche Werke, XVIII, p. 4, tr. it. Del sublime, in Saggi estetici, ed. cit., p. 90). F.D.E. Schleiermacher accenna a una «comunicabilità dell’entusiasmo religioso» (Reden über die Religion an die Gebildeten unter ihren Verächtern, Berlin 1799, tr. it. a cura di G. Durante, Discorsi sulla religione, Firenze 1947), mentre F. Schlegel parla di un «meraviglioso ed eterno avvicendarsi di entusiasmo e ironia», analogo al Witz della poesia romantica

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(Gespräch über die Poesie, in Kritische-FriedrichSchlegel-Ausgabe, a cura di E. Behler, München-Paderborn-Wien 1958 ss., vol. II, pp. 284352, tr. it. a cura di A. Lavagetto, Dialogo sulla poesia, Torino 1991, p. 42). Nella filosofia contemporanea l’atteggiamento entusiastico è stato rivalutato da K. Jaspers, il quale lo distingue dal sentimento mistico di cui pure è una manifestazione, ma da cui va tuttavia separato poiché alla pienezza mistica oppone solo un eterno aspirare (Psychologie der Weltanschauungen, Berlin 1925, pp. 118 ss., tr. it. di V. Loriga, Psicologia delle visioni del mondo, Roma 1950, pp. 138 ss.). L’entusiasmo è un atto di dedizione piena e assoluta a qualcosa di incondizionato, è un’aspirazione fondamentale all’unità, che tuttavia pur nel suo rapimento resta consapevole. L’entusiasmo può estrinsecarsi tanto in atteggiamenti attivi che contemplativi: in ogni caso «è dote sua propria e generale il fondamento metafisico, l’incommensurabilità a categorie razionali, utilità, successo, pura e semplice realtà» (ibi, pp. 118-119, tr. cit., p. 139). Infatti «nell’entusiasmo l’uomo si sacrifica pur senza uno scopo chiaramente determinabile (non però senza la viva esperienza di un senso); egli compie, a giudicarlo con formule usate, azioni “insensate”» (ibid.). Per E. Fink l’entusiasmo, come esperienza del divino, si pone a fondamento dell’arte, della religione e della filosofia (Vom Wesen des Enthusiasmus, Freiburg 1947, tr. it. a cura di R. Cristin, Sull’entusiasmo, Ferrara 2003), mentre per J.-F. Lyotard l’entusiasmo anima l’interesse delle avanguardie artistiche per l’irrappresentabile (L’enthousiasme. La critique kantienne de l’histoire, Paris 1986, tr. it. di F. Mariani Zini, L’entusiasmo, Milano 1989). L. Lotito BIBL.: G. GIRALDI, L’entusiasmo nella morale e nell’arte, Torino 1955; CH. LE CHEVALIER, L’enthousiasme et la ferveur, Paris 1964; F.-J. MEISSNER, Wortgeschichtliche Untersuchungen im Umkreis von französischen Enthousiasme und Genie, Genève 1979; K. SAUERLAND, Melancholie und Enthusiasmus, Frankfurt am Main 1988; A. GELLHAUS, Enthusiasmus und Kalkül, München 1995. ➨ ISPIRAZIONE; MANIA.

ENUMERAZIONE (enumeration; Aufzählung; Enumerazione énumération; enumeración). – È noto che l’induzione è il procedimento logico col quale si passa dal particolare al generale, o meglio,

Enumerazione dall’osservazione dei fatti alla conoscenza delle leggi che li reggono. Già Aristotele aveva considerato l’induzione come un sillogismo nel quale il termine medio è costituito dall’enumerazione completa o incompleta delle specie che formano l’estensione dell’estremo minore di detto sillogismo. Se l’enumerazione non esaurisce l’estensione del concetto, essa è incompleta e la conclusione puramente probabile. Lo schema del sillogismo induttivo è: A, B, C, D... hanno il predicato P, ma a loro volta si predicano di M, dunque ogni M è P. Nell’età moderna, con la prevalenza del metodo sperimentale, l’inductio per enumerationem simplicem di Aristotele (la definizione è di Bacone) venne criticata e abbandonata, poiché la validità di tale sillogismo basato sull’enumerazione completa dipende dalla presupposizione che le specie entro al genere preso in esame non possano essere in numero maggiore a quello accertato, presupposizione che non può essere sensatamente assunta nell’ambito delle scienze sperimentali (salvo che l’incompleta riesca a far cogliere l’essenza universale dei fatti osservati). Francesco Bacone osserva che essa «è puerile, conclude in modo precario ed è esposta al pericolo dalla istanza contraddittoria» (Novum Organum, Londini 1620, l. I, aforisma 105). Stuart Mill ribadisce che per raggiungere l’universalità non è sufficiente l’osservazione dei fatti già esistiti, ma anche dei possibili, e il possibile non è oggetto di esperienza se non per analogia. Le dottrine moderne e contemporanee dell’induzione, superando le «tavole» baconiane e integrando il «metodo delle concordanze» di Mill, intendono l’enumerazione semplice come un procedimento induttivo per il quale la probabilità iniziale di una generalizzazione è aumentata da altri esempi, che sono esattamente identici a quelli osservati in precedenza. L’enumerazione semplice è la forma più elementare di ragionamento induttivo, ed è stata raffinata nella cosiddetta «induzione elaborata», che comprende informazioni supplementari relative al modo in cui vengono selezionati gli individui nominati nelle premesse. V. Agosti BIBL.: J.P. DAY, Inductive Probability, London 1961; H.E. KYBURG - E. NAGEL, Induction: Some Current Issues, Middletown (Connecticut) 1963; L.J. COHEN, The Implications of Induction, London 1970; R. CARNAP - R.C. JEFFREY, Studies in Inductive Logic and Pro-

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Enunciato condizionale bability, Berkeley (California) 1971; R. BLANCHÉ, L’induction scientifique et les lois naturelles, Paris 1975; L.J. COHEN, The Probable and the Provable, Oxford 1977; C.G. HEMPEL, Turns in the Evolution of the Problem of Induction, in «Synthèse», 46 (1981), pp. 389-404. ➨ INDUZIONE; LOGICA.

ENUNCIATO Enunciato condizionale CONDIZIONALE CONTRAFFATTUALE: V. CONTRAFFATTUALE O ENUNCIATO CONDIZIONALE CONTRAFFATTUALE.

ENUNCIAZIONE (enunciation; Aussage; Enunciazione énunciation; enunciación). – È un dire, un parlare che manifesta un giudizio affermativo o negativo della mente (cfr. anche Aristotele, De interpretatione, 5, 17 a 15). Essa non impegna ancora la validità o meno del giudizio espresso (o proposizione); questo passaggio successivo viene detto, seguendo B. Russell, «asserzione». I logico-analisti, inoltre, distinguono l’enunciazione in materiale e in formale, a seconda che comprenda o non comprenda un contenuto reale; inoltre l’enunciazione dicesi semplice, se pronunzia (attraverso il verbo come predicato) qualche cosa di qualche cosa in un semplice giudizio espresso; composta, quando connette più affermazioni nel discorso (pronunciato). U. Redanò - M. Franchella BIBL.: E. RIONDATO, La teoria aristotelica della enunciazioni, Padova 1957. ➨ ASSERTORIO, GIUDIZIO.

EONE (dal gr. aijwvn «eterno»). – Termine in Eone origine puramente temporale – Aristotele dice che la sua etimologia è «dall’essere sempre»: ajpo; tou' ajei; ei\nai (De caelo, I, 9, 279 a 27) – subisce già nella religione pregnostica una forma di ipostatizzazione e di personificazione e sta a indicare la stessa essenza divina che diviene oggetto di adorazione e, in un certo senso, di timore: nell’antica religione greca Aijwvn era considerato figlio di Crovno". Questa ipostatizzazione sfocia nella concezione di una molteplicità di eoni quali emanazioni intermedie tra Dio e il mondo sensibile; concezione propria della dottrina gnostica, nella quale il concetto di eone si carica di nuovi e più pregnanti significati, in quanto si applica a tutte le categorie di esseri, sia divini, che semidivini che demoniaci disposti gerarchicamente e riproducentesi per emanazione in coppie o sizigie. 3430

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Nella gnosi valentiniana gli eoni sono emanati da un essere supremo intemporale, incorporeo, ingenerato e incorruttibile (il gran silenzio e abisso), e, nel loro insieme, formano la pienezza o pleroma. La perfezione degli eoni va degradando man mano che essi si allontanano da Dio e si avvicinano alla materia, fonte di imperfezione e di male. Uno di questi eoni, il demiurgo, prevarica e da lui hanno origine altri eoni contrari ai precedenti; insieme con essi poi il mondo e l’uomo. Ma dal pleroma scende l’eone Cristo, che salva l’uomo, rivelandogli la gnosi del sommo Dio: gnosi di gran lunga differente dalla fede. Il termine, caduto in disuso nel Medioevo e nell’età moderna, è ripreso da scrittori esoterici contemporanei, teosofi e spiritualisti. Lo ha adoperato anche E. d’Ors, nel senso di sistemi o tipi che ricorrono nella storia, come per esempio, rispetto all’arte, il barocco (cfr. E. d’Ors, Lo barroco, Madrid 1944, parte II, cap. 2). A.M. Moschetti - M. Barbanti ➨ AION; EMANATISMO; GNOSI; PLEROMA.

EPAGOGE (ejpagwghv). – Nei Topici Aristotele Epagoge riconosce due tipi di argomenti dialettici: il sillogismo e l’epagoge. Aristotele definisce quest’ultima come «il passaggio dal particolare all’universale» (Top., 105 a 13-14), e aggiunge il seguente esempio: «se il pilota e l’auriga esperto sono i migliori, in generale chi è esperto in ciascun ambito è il migliore» (ibi, 105 a 14-17). L’epagoge è raccomandata in ambito dialettico perché più persuasiva e chiara del sillogismo, e più nota ai sensi e per questo motivo anche più accessibile ai molti. Aristotele si attribuisce la scoperta del sillogismo, ma non quella dell’epagoge: nella Metafisica egli infatti attribuisce a Socrate la scoperta e l’uso degli argomenti epagogici (ejpaktikoi; lovgoi: Metaph., 1078 b 27-30). Non ci sono dubbi che per Aristotele esiste continuità tra la sua epagoge e alcune delle tecniche argomentative seguite da Socrate nei dialoghi platonici. L’epagoge aristotelica non è invece la stessa cosa dell’induzione logica, anche se ne è un parente stretto. L’epagoge svolge un ruolo importante nella scienza aristotelica. La scienza aristotelica è scienza dimostrativa e come tale non può prescindere dalla dimostrazione. Ma la dimostrazione procede dall’universale, e per arrivare all’universale è necessaria l’epagoge (An.

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Epicureismo

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Post., 81 b 2, 7-8). Nella polemica contro l’innatismo Aristotele offre uno schizzo di come la conoscenza degli universali sia acquisita e del ruolo che l’epagoge svolge in questo contesto (ibi, 100 b 4). Ma è importante insistere sul fatto che la scienza aristotelica non è solo conoscenza dell’universale, ma anche capacità di articolare tale conoscenza in esplicite dimostrazioni. Da sola l’induzione non è sufficiente per fare scienza così intesa. È solo alla luce di questa idiosincratica concezione della scienza che si capisce perché Aristotele elabori una teoria del sillogismo e della dimostrazione, ma non senta il bisogno di elaborare una vera e propria teoria dell’epagoge. In un secondo significato, che forse è l’originario, l’epagoge è l’evocazione della prassi teurgica, il cui risultato è l’apparizione di un demone o di un dio all’ierofante (Luciano, Alexander, V. 68; Scolii ad Euripidis Hippolytum, 317). A. Falcon BIBL.: K. VON FRITZ, Die Epagoge bei Aristoteles, München 1964 (rist. in Grundprobleme der Geschichte der antiken Wissenschaft, Berlin 1971); D.W. HAMLYN, Aristotelian Epagoge, in «Phronesis», 21 (1976), pp. 167184; T. ENGBERG-PEDERSEN, More on Aristotle’s Epagoge, in «Phronesis», 24 (1979), pp. 301-319; TH. VON UPTON, A Note on Aristotelian Epagoge, in «Phronesis», 26 (1981), pp. 170-176. Sull’uso degli argomenti epagogici e dell’epagoge da parte di Socrate, v. R. ROBINSON, Plato’s Earlier Dialectics, Oxford 1953, pp. 33-48; G. VLASTOS, Socrates: Ironist and Moral Philosopher, Ithaca (New York) 1991, in particolare pp. 267-269. ➨ INDUZIONE LOGICA; SILLOGISMO.

EPHEMERIDES THEOLOGICAE LOVAEphem. theol. Lovan. NIENSES. – Rivista teologica edita e diretta da un gruppo di professori della facoltà di teologia dell’Università Cattolica di Lovanio. Fu fondata nel 1924 da J. Bittremieux, J. de Becker, J. Forget, A. Jansse, C. Van Crombrugghe e A. Van Hove. Esce quattro volte ogni anno e, oltre gli articoli, alle note e alle recensioni, due volte almeno entro l’anno pubblica un importante supplemento bibliografico, che si riferisce alle varie discipline teologiche. Sebbene d’indole teologica, si interessa anche di filosofia: filosofia della religione, filosofia morale, questioni riguardanti i rapporti fra ragione e fede ecc. G. Thils

EPICUREISMO. – Scuola filosofica fondata Epicureismo ad Atene da Epicuro nel 307-06 o 305-04 a. C., che sopravvisse come istituzione fino al I secolo a. C. Dopo un periodo oscuro, ne ritroviamo traccia nel II secolo d. C. Tra il IV e il I secolo a. C. la scuola mantenne la propria forza e vitalità sviluppandosi e rinnovandosi attraverso una serie ininterrotta di scolarchi: Epicuro, Ermarco, Polistrato, Basilide di Lamptre, Basilide di Tiro, Apollodoro, Zenone di Sidone, Fedro e Patrone. Alla fine degli anni cinquanta del I secolo a. C., il Giardino di Atene era ridotto ormai alla rovina. La fortuna dell’epicureismo rifiorisce in Italia. Dopo un primo tentativo infruttuoso da parte di Alcio e Filisco nel 155 a. C. e la rozza attività propagandistica di divulgatori quali C. Amafinio, Catio e Rabirio, si assiste a una nuova fase storica dell’epicureismo che trova, nel I secolo a. C., un largo numero di proseliti. Il merito di questa rinascita romana va attribuito all’opera dei circoli epicurei di lingua greca della Campania rappresentati da Sirone e, più in particolare, da Filodemo e al contributo, in lingua latina, del De rerum natura di Lucrezio. La vivace battaglia antiepicurea condotta, negli stessi anni, da Cicerone è sintomatica di questa diffusione crescente delle dottrine del Giardino nel mondo romano alla fine del I secolo a. C. Tracce della diffusione a Roma sono rilevabili anche in Orazio, Virgilio e perfino nello stoico Seneca. Durante i secoli dell’impero fino al tardoantico, sia in Occidente sia in Oriente, l’epicureismo continua a diffondersi e lascia tracce evidenti della sua vitalità. La lettera della vedova di Traiano Pompeia Plotina del 121 d. C. indirizzata ad Adriano con la quale richiedeva e otteneva dall’imperatore che lo scolarca del Giardino potesse scegliere come successore uno che non fosse cittadino romano ed esprimere le sue ultime volontà in greco, dimostra l’esistenza nell’Atene del II secolo d. C. di una scuola istituzionalizzata e soprattutto la sopravvivenza dell’epicureismo. Un altro esempio sicuro della diffusione dell’epicureismo in epoca imperiale è l’iscrizione filosofica di Diogene di Enoanda. È difficile sostenere, comunque, che questa scuola continuasse in linea diretta l’istituzione fondata da Epicuro. L’organizzazione interna del Giardino si fondò sui principi dell’emulazione, della commemorazione e della imitazione. Uno dei fini e degli scopi primari predicati dall’epicureismo fu l’imitazione della divinità in quanto essere 3431

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Epicuro beato e imperturbabile di fronte ai mali del mondo, il che portò come conseguenza, per i membri della scuola, la costante ricerca di emulazione di coloro che avevano raggiunto uno stadio di massima perfezione nella loro imitazione della beatitudine degli dei. La scuola venne organizzata sul tipo di un modello ideale di «contubernium». Nel Giardino non si raggiunse mai una meticolosa struttura gerarchica; vi prevaleva, invece, l’ideale di libertà di parola fra maestri e discepoli a fondamento della vita in comune. Significativa è anche l’apertura a discepoli di sesso femminile. La vita in comune dei membri della scuola era fondata sulla pratica di celebrare insieme le ricorrenze del culto di Epicuro e degli altri amici e familiari morti anzitempo. Resta testimonianza di ben cinque culti. Per procurarsi i mezzi per il sostentamento della scuola, si ricorse al sistema di libere donazioni devolute da potenti personaggi a favore del Giardino. La vita della scuola non fu sempre pacifica. Al suo interno si verificarono ben presto gravi episodi di scissione: ancora vivo Epicuro, Timocrate non solo aveva lasciato il Giardino, ma aveva dato avvio anche a una campagna diffamatoria. Sarebbe erroneo credere che in una scuola come quella epicurea così puntualmente organizzata e soprattutto legata al culto della figura e della personalità del fondatore, quasi come in una istituzione religiosa, i capisaldi filosofici si fossero cristallizzati in un canone di rigida fedeltà ai principi basilari dettati da Epicuro. Al contrario, a partire dalle generazioni successive al fondatore e ai suoi immediati discepoli, la dottrina subì un originale sviluppo, che investì singoli aspetti e problemi affatto marginali. Gli epicurei considerarono una empietà l’introduzione di elementi nuovi all’interno delle strutture basilari della dottrina del Maestro, ma non di meno le mutate situazioni storiche e le esigenze culturali li videro impegnati in un processo di revisione e di reinterpretazione dei dogmi di scuola a partire da criteri che apparivano loro mezzi leciti per intendere in maniera genuina la parola di Epicuro. Alla luce di queste considerazioni si riesce a spiegare il contrasto che vide opposti fra loro epicurei «ortodossi» ed epicurei «dissidenti» entrambi convinti, a livello teorico, di leggere l’insegnamento di Epicuro secondo i principi di Epicuro stesso, ma che, in pratica, lo interpretavano con diversi gradi di sensibilità e 3432

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ognuno secondo le proprie esigenze e le istanze del momento. Il grave fenomeno della dissidenza gioca un ruolo importante nell’epicureismo. Fondamentale per la comprensione e delimitazione storica della dissidenza è la demarcazione che si venne a creare con la morte di Ermarco, all’interno della scuola, tra la prima generazione di epicurei, allievi diretti di Epicuro, che furono ritenuti i depositari della genuina tradizione del suo insegnamento e le generazioni successive (da Polistrato in poi) impegnate nell’interpretazione di quelli che venivano ormai considerati i principi canonici della dottrina. La fede, comune a entrambe le categorie di epicurei, nella genuinità della propria interpretazione della tradizione scolare, consentì all’epicureismo di rinnovarsi e di sopravvivere al di là delle altre scuole filosofiche, proprio perché lo condusse a una progressiva e costante evoluzione in accordo con le mutate esigenze storico-culturali. Con questa interpretazione si riesce anche a scagionare dall’infondata accusa di dissidenza personaggi di spicco quali Demetrio Lacone, Zenone Sidonio e Filodemo. In tempi moderni si ebbe una debole restaurazione dell’epicureismo a opera di Lorenzo Valla e Pietro Gassendi, che su una dottrina edonistica tentano di innestare con esili tramiti le esigenze dell’etica cristiana. Più sensibile fu l’influsso del materialismo epicureo sulla filosofia politica di Hobbes. Anche i sistemi che fondano il principio della morale nell’utile, fino al marxismo, non possono disconoscere la parentela con l’epicureismo, con il quale hanno in comune la negazione del principio ideale e dell’immortalità. T. Dorandi BIBL.: M. ERLER, Die Philosophie der Antike, in F. ÜBERWEG, Grundriss der Geschichte der Philosophie, vol. 4: Die hellenistische Philosophie, a cura di H. Flashar, nuova ed. completamente rifatta, Basel-Stuttgart 1994, pp. 29-490; T. DORANDI, Epikureische Schule, in H. CANCIK - H. SCHNEIDER (a cura di), Der Neue Pauly, vol. III, Stuttgart 1997, coll. 1126-1130.

EPICURO (´Epiv k ouro") . – Filosofo greco Epicuro (341-270 a. C.), fondatore dell’indirizzo di pensiero (epicureismo) che da lui prese il nome. SOMMARIO: I. Vita e scuola. - II. Opere e stile. III. Dottrina: 1. Canonica. - 2. Fisica e cosmologia. - 3. Psicologia ed etica. I. VITA E SCUOLA. – Le fonti principali della vita di Epicuro sono rappresentate da Diogene Laer-

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zio (Vite dei filosofi, l. X, 1-34) e dalle lettere dello stesso Epicuro e dei suoi primi discepoli. L’esistenza di un ricco epistolario dei primi maestri del Giardino, nota dalla tradizione manoscritta, emerge soprattutto dalle opere conservate nei papiri ercolanesi – provenienti dalla biblioteca dell’epicureo Filodemo di Gadara del I secolo a. C., ritrovata nella Villa dei Papiri a Ercolano –, il cui approfondimento critico ha permesso di chiarire molti aspetti della personalità di Epicuro e dell’organizzazione della sua scuola, nonché di dipanare una tradizione biografica fortemente contaminata dalle accuse fatte circolare dagli avversari mentre Epicuro era ancora in vita. Di questa tradizione, a lungo accreditata – per la quale cfr. almeno Diogene Laerzio, op. cit., l. X, 7-8 –, che avvalorava l’immagine di un Epicuro gratuitamente polemico, sdegnosamente superbo nel rivendicare la propria originalità, pronto a ricoprire gli avversari di ingiurie e di epiteti offensivi, ignorante e incline al plagio delle dottrine altrui, è stata dimostrata la genesi polemica, a partire dall’apostasia del discepolo Timocrate. È stata rivalutata, invece, la tradizione presto delineatasi nell’ambito del Giardino – confermata in Diogene Laerzio, op. cit., l. X, 9-12 – sulla bontà e la magnanimità di Epicuro e sul suo comportamento misurato nelle dispute filosofiche. È stato dato, inoltre, spessore storico all’immagine di un Epicuro tutt’altro che ignorante, il quale, pur nella polemica più aspra, si mostra legato ai suoi rivali, nel riconoscimento del retroterra culturale in cui il suo insegnamento viene a porsi e nel recupero consapevole, pur nella convinzione di proporre un sistema autenticamente rivoluzionario, di un patrimonio di pensiero con il quale è inevitabile confrontarsi e dal quale è lecito attingere, purché in assoluta coerenza con la propria dottrina. Epicuro nacque il 20 Gamelione (settimo mese del calendario ateniese che cadeva tra dicembre e gennaio) – come la critica ha potuto stabilire, risolvendo alcune apparenti contraddizioni nella tradizione – del 341 a. C. a Samo, dove il padre, l’ateniese Neocle, maestro di scuola, risiedeva come colono; secondo una tradizione ostile la madre Cherestrata avrebbe esercitato le arti magiche; Epicuro avviò alla filosofia, da lui presto abbracciata dopo gli studi di grammatica, i fratelli Neocle, Cheredemo e Aristobulo. La notizia secondo la quale egli avrebbe frequentato la scuola di Prassifane, al-

Epicuro lievo di Teofrasto, appare inverosimile per ragioni cronologiche; più attendibili sembrano le fonti che lo dicono allievo a Samo del platonico Panfilo e a Teo del democriteo Nausifane, dal quale avrebbe appreso i principi atomistici e che lo stesso Epicuro, nella lettera Ai filosofi di Mitilene, ammetteva di avere ascoltato in mezzo a giovani dissoluti. Con Nausifane, esperto nell’arte retorica, Epicuro polemizzò sia per avere quegli assegnato al saggio un ruolo nella vita politica, da lui condannata, sia per avere indicato nella scienza della natura, che per Epicuro è invece guida nelle scelte e nei rifiuti in vista della felicità, la guida del sapiente nell’esercizio della politica e dell’arte oratoria. Secondo Demetrio di Magnesia, Epicuro fu allievo di Senocrate. In ogni caso, più fonti concordano nel riferire che egli rinnegò questi maestri, fino a proclamare di essere stato autodidatta. Nel 321, dopo aver prestato l’efebia ad Atene nel 323-21, Epicuro passò a Colofone, dove la famiglia si era rifugiata in seguito all’ordine di Perdicca ai coloni ateniesi di lasciare Samo. Nel 310 si trasferì a Mitilene, dove probabilmente conobbe Ermarco, designato a succedergli nello scolarcato, e subito dopo a Lampsaco, dove riunì una cerchia di discepoli tra i più nobili di quella città: Metrodoro, a lui assai caro, chiamato in causa dal Maestro nel XXVIII libro Sulla natura per il suo contributo all’elaborazione della dottrina del linguaggio; Polieno, guadagnato alla filosofia da Epicuro dopo che gli era stata dimostrata l’infondatezza degli studi matematici e astronomici da lui professati presso la scuola eudossiana di Cizico; e ancora Leonteo e sua moglie Temista, con cui Epicuro intrecciò una fitta corrispondenza epistolare; Colote, che scrisse contro alcuni dialoghi di Platone e contro il modo di vita predicato dalle dottrine degli altri filosofi; Idomeneo, di nobili natali, verso il quale la tradizione malevola sottolinea l’atteggiamento adulatorio di Epicuro per soddisfare i piaceri del ventre; dal Maestro, invece, Idomeneo viene ricordato per la generosa disposizione dimostrata verso di lui sin da giovinetto e per la sollecitudine per compagni e discepoli; a lui, sposo di Batide, sorella di Metrodoro, Epicuro scrisse una celebre epistola nell’ultimo giorno della sua vita, affidandogli i figli dell’allievo scomparso. Ministro di Antigono Monoftalmo subito dopo la partenza di Epicuro da Lampsaco, Idomeneo, esortato dal Maestro a ritirarsi 3433

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Epicuro dalla vita politica e a ritornare all’esercizio della filosofia, rinunziò al suo incarico politico per affiancarsi a Leonteo nella guida della scuola di Lampsaco. Nel 307-06 (Diogene Laerzio, op. cit., l. X, 2) Epicuro si trasferì ad Atene, dove lo seguirono Metrodoro ed Ermarco e dove forse più tardi lo raggiunse Polieno: qui fondò la sua scuola, il Giardino (Kh'po"), dal nome del luogo in cui viveva frugalmente con gli allievi nel culto dell’amicizia e teneva le sue lezioni in un clima di ricerca comune. Sin dall’inizio la comunità epicurea dovette avere un carattere semireligioso, nella venerazione del fondatore. I discepoli erano tenuti a offerte annuali in natura o in denaro, sollecitate da Epicuro con molta parsimonia. Nella sua organizzazione la scuola dovette rappresentare un modello di comunità, una sorta di società ideale contrapposta alla deludente società esterna, da cui Epicuro esortava a tenersi lontani e delle cui leggi prescriveva l’osservanza per non vivere nel timore della punizione susseguente alla violazione (Ratae Sententiae, XXXIV-XXXV), ma alle quali rifiutava ogni forma di asservimento. Ad Atene Epicuro rimase sino alla fine della vita, continuando a guidare le succursali microasiatiche della scuola attraverso contatti epistolari con i discepoli. Alcuni brevi soggiorni nella Ionia furono forse resi necessari da alcuni episodi di dissenso, di cui il più grave fu rappresentato, tra il 305 e il 301, dall’apostasia di Timocrate, fratello di Metrodoro, probabilmente per un contrasto sulla concezione del piacere quale fine della vita beata. Dopo che Epicuro tentò vanamente di riportarlo in seno alla scuola, Timocrate si unì ad alcuni «sofisti», in cui vanno forse riconosciuti esponenti della scuola eudossiana di Cizico. Nel suo allontanamento dalla scuola si è riconosciuto l’avvio, oltre che, come si è detto, della tradizione malevola sull’ignoranza di Epicuro e sul suo plagio delle dottrine altrui, anche di quella campagna di diffamazione del pensiero e del modo di vita degli epicurei da cui nascono l’identificazione dell’etica di Epicuro con la ricerca sfrenata dei piaceri del ventre e la raffigurazione dell’epicureismo come filosofia di uomini dissoluti, dediti al concubinaggio con etére – di cui Leonzio fu la più celebre. Come attestano molte lettere agli amici di Lampsaco sul tema della ricchezza, di cui Epicuro fissava un limite secondo natura, gli ultimi anni della vita lo videro alla guida della 3434

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scuola in un periodo di grande crisi politica ed economica per Atene. Morì nel 271-70 di calcoli alla vescica. Nel testamento si preoccupò di garantire la continuità della scuola affidandone la direzione a Ermarco, raccomandando di provvedere a offerte funebri per i suoi familiari, di continuare a celebrare, come consuetudine, il suo genetliaco e altre ricorrenze in memoria dei fratelli e degli allievi scomparsi, e, soprattutto, di provvedere agli orfani di Metrodoro e di Polieno e a quanti avevano filosofato con lui e lo avevano aiutato con le loro sostanze. Dopo la sua morte si consolidò quel culto di Epicuro (sebasmov"), salutato dai discepoli come «salvatore» (swthvrio" ajnhvr) e «divino» (qei'o"), che già si era manifestato durante la sua vita e che dovette non poco contribuire alla continuità della scuola nel tempo. II. OPERE E STILE. – Epicuro scrisse circa trecento volumi, di cui Diogene Laerzio ha trasmesso una quarantina di titoli; solo di alcuni si può ricostruire il contenuto; titoli non citati da Diogene si ricavano da fonti diverse e dai testi dello stesso Epicuro. Di questi, pochi sono conservati, per lo più frammentari o sotto forma di citazioni presso altri autori. Oltre a estratti epistolari, Diogene Laerzio ha trasmesso integralmente il già citato testamento, tre epistole di Epicuro, che costituiscono i compendi dei fondamenti della dottrina, Ad Erodoto sulla fisica e sulla gnoseologia, A Pitocle sull’astronomia e sui fenomeni celesti, A Meneceo sull’etica, e quaranta Massime capitali. Ottantuno massime epicuree, di cui la maggior parte può essere attribuita a Epicuro, sono conservate in un manoscritto vaticano del XIV secolo pubblicato nel 1888 da Wotke (Sentenze vaticane). Dell’opera capitale Sulla natura (Peri; fuvsew"), in trentasette libri, i papiri ercolanesi hanno restituito resti cospicui dei libri II (su problemi di cosmogonia e sulle immagini), XI (su problemi astronomici, in polemica contro i ciziceni), XIV (contro le dottrine degli elementi di filosofi monisti e pluralisti, tra cui Platone; il libro è datato al 301-300), XV (contro la dottrina anassagorea delle omeomerie, datato al 300-299), XXV (sulla costituzione psichica dell’individuo e sui suoi sviluppi che garantiscono la libertà del volere, contro il determinismo democriteo), XXVIII (sul linguaggio e sui criteri che ne verificano la correttezza, contro filosofi megarici, nella prospettiva antiscettica della difesa delle sensazioni: il libro è datato al 296-95), XXXIV (sulle

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false paure che derivano da un approccio conoscitivo scorretto alle realtà impercettibili e dall’ignoranza della natura atomica dei sogni, ancora in chiave antiscettica), oltre a libri di incerta collocazione, tra cui è notevole quello sul tempo; citazioni o riferimenti ad altri libri dell’opera compaiono nei papiri filodemei; in alcuni casi soccorrono gli scolii alle epistole laerziane. Dopo i progressi segnati dalla ricerca su questo testo negli ultimi decenni, dell’opera Sulla natura non si può non affermare la centralità come fonte per la ricostruzione del pensiero, del metodo e dello stile di Epicuro, pur senza togliere valore ai testi di tradizione laerziana e alle testimonianze indirette – tra cui vanno privilegiati, sul fronte epicureo, il De rerum natura di Lucrezio e i testi ercolanesi, oltre alla monumentale iscrizione di Diogene di Enoanda, e, sul fronte non epicureo, alcune opere di Cicerone, Seneca, Plutarco, Sesto Empirico. La lingua di Epicuro riflette il passaggio dall’attico alla koinè; ionismi ed eolismi sono dovuti alla sua permanenza in Asia Minore e all’eredità del linguaggio tecnico atomistico; neologismi, coniati per esprimere concetti «nuovi», e termini tecnici propri di altri indirizzi di pensiero, spie ora di consenso ora di dissenso, vanno a innestarsi sul linguaggio ordinario, che per Epicuro, sostenitore di una dottrina naturalistica dell’origine prima del linguaggio – elementi convenzionali furono introdotti solo in una fase successiva dell’evoluzione sociale (Epistola ad Erodoto, 76) –, può essere adoperato dal filosofo senza incorrere nell’ambiguità in esso implicita, purché di ciascun termine si abbia chiaro il significato naturale che lo sottende e si adoperino gli opportuni criteri di verifica (Sulla Natura, XXVIII; Epistola ad Erodoto, 37-38). In questo senso si spiega anche il rifiuto della dialettica da parte di Epicuro, il quale, pur non rinunciando a procedimenti logici come l’inferenza e l’analogia, ritiene superflua una dialettica tutta formale, fatta di assiomi e di vuoti sillogismi, colpevole di aver perso di vista «le voci delle cose» (Sulla Natura, XXXIV; Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, l. X, 31). L’esigenza di conservare nell’espressione la relazione res-verba, più che l’intento di una generale comunicazione, è probabilmente alla base anche della ricerca di chiarezza (safhvneia) che Epicuro, scrittore egli stesso «perspicuo» (safhv"), raccomandava nell’opera Sulla retorica (Diogene Laerzio,

Epicuro op. cit., l. X, 13). Epicuro condannava la retorica in quanto inutile alla conquista della felicità e riconosceva come tevcnh solo quella epidittica, utile in quanto offre al saggio adeguati strumenti espressivi. La sua ripulsa di ogni ornamento retorico è sottolineata da più fonti, tuttavia, in alcuni suoi scritti, come la lettera A Meneceo o alcune epistole destinate a personaggi di rango, Epicuro mostra di possedere un buon bagaglio di nozioni tecniche, derivatogli forse dalla scuola di Nausifane; in altre lettere, invece, la prosa appare semplice e familiare. Ancora diverso si presenta lo stile dell’opera Sulla natura, informale e colloquiale, con ripetizioni di concetti, richiami interni, espressioni tipiche del parlato, parentesi intercalate nel discorso, che tradiscono l’impronta didattica dell’opera, nata all’interno della scuola – alcuni libri hanno carattere dialogico con interlocutori muti – ma destinata oltre la scuola. Ciò dice della capacità di Epicuro di adoperare registri stilistici diversi a seconda dei destinatari e dello scopo della comunicazione, senza che si renda necessario operare una rigida distinzione nei suoi scritti tra esoterici ed essoterici, come è invalso tra gli studiosi a partire da Usener. III. DOTTRINA. – Il riconoscimento del carattere sistematico della filosofia epicurea, spesso ridotta a una serie di norme «pratiche» per vivere felicemente, il suo legittimo inserimento nella tradizione filosofica antica e, in particolare, nel panorama delle filosofie ellenistiche rivalutate dopo la condanna hegeliana, la necessità di inquadrarla storicamente per intenderne le spinte iniziali e i successivi sviluppi, sono conquiste recenti della storiografia filosofica. Si è sottolineato, ad esempio, come la dottrina di Epicuro abbia sin dal primo momento coscienza di «scuola» (ai{{resi") e non rinunci né alla tradizionale ripartizione in logica (canonica), fisica ed etica, considerate in unità inscindibile, né alla speculazione teoretica su base empirica né a una precisa metodologia scientifica, grazie alla quale raggiunse risultati originali nel campo della meccanica, della chimica e della biologia, anticipando posizioni moderne e guadagnandosi un posto di rilievo nella storia della scienza – per altri versi, il ritorno di Epicuro su posizioni superate dal pensiero scientifico del suo tempo (piattezza della terra, molteplici spiegazioni dei fenomeni celesti ecc.) è stato spiegato come risposta alle criti3435

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Epicuro che di Aristotele all’atomismo democriteo e nel rifiuto dell’astronomia teleologica contemporanea. È anche vero, tuttavia, che nel suo sistema Epicuro assegna un ruolo privilegiato all’etica, nel proposito di offrire, attraverso una corretta indagine scientifica della natura (fusiologiva, peri; fuvsew" qewriva), un rimedio terapeutico di liberazione da ogni turbamento, un vero e proprio favrmakon (cfr. Sulla Natura, XIV) per l’individuo travolto dalla crisi di valori e di certezze all’indomani del crollo della polis e dell’affermazione delle monarchie ellenistiche. A questa crisi, secondo Epicuro, non possono soccorrere né i grandi sistemi metafisici né la religione tradizionale con le sue superstizioni, né tanto meno la nuova religione astrale; né nuove certezze possono venire dalla partecipazione alla vita politica, da lui ritenuta perturbatrice dell’animo e non pertinente al saggio (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, l. X, 119); né esse possono richiedersi a un sistema paideutico, quale quello isocrateo tradizionale, che privilegia discipline, come retorica, poetica, musica, ritenute da Epicuro inutili, se non dannose, al raggiungimento della felicità (cfr. Sentenze Vaticane 45, 58, Epistola a Pitocle, 85, frr. 117, 163, in H. Usener [a cura di], Epicurea, Lipsiae 1887,). Per Epicuro solo un ritorno alla natura, di cui l’uomo è parte e che perciò può conoscere, che gli insegna i limiti dei piaceri e dei dolori e cosa ricercare e cosa evitare, può sciogliere ogni aporia ed essere fonte delle certezze necessarie a vivere; solo lo studio delle cause dei fenomeni può dissolvere le vane paure che derivano da false opinioni e permettere di conseguire il fine secondo natura, quella felicità che per Epicuro si identifica nel piacere, in un perfetto equilibrio di atarassia (assenza di turbamento nell’animo) e di aponia (assenza di dolore fisico) (cfr. specialmente Sulla Natura, XXXIV; Epistola ad Erodoto, 8082; Epistola a Pitocle, 85, 87, 116; Epistola a Meneceo, 128, 131-132; Ratae Sententiae, XI-XII). È stato notato come si sia ricomposto, con Epicuro, il divorzio tra uomo e natura attuato dall’umanesimo socratico dopo le ricerche peri; fuvsew" dei filosofi ionici naturalisti, con il recupero, in opposizione alla fisica idealisticofinalistica di stampo platonico, del modello di fisica tutto meccanico e «laico» offerto dall’atomismo democriteo, che Epicuro, tuttavia, libera da ogni determinismo e connette indissolubilmente all’etica. Nello stesso tempo, è 3436

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stata superata la posizione critica di Bignone, che considerava l’epicureismo nato esclusivamente dalla lotta contro il platonismo che Epicuro avrebbe conosciuto dalle opere giovanili di Aristotele: è stato dimostrato, infatti, che Epicuro leggeva anche le opere della maturità dello Stagirita, ed è stata ipotizzata la sua ripresa, pur se attraverso la mediazione di Aristotele, di teorie dell’antica Accademia. Le ricerche recenti, inoltre, hanno rivalutato e chiarito la matrice antiscettica del messaggio del dogmatico Epicuro, convinto che si debbano possedere punti fermi di riferimento per ogni quesito o dubbio o opinione e saldi criteri di giudizio per distinguere il vero dal falso e per evitare l’errore, fonte di turbamento (cfr. Sulla natura, XXV e Ratae Sententiae, XXIII-XXIV). La polemica antiscettica di Epicuro sarebbe rivolta non solo contro quei germi dello scetticismo che rinveniva già in Platone e nel Socrate platonico, per la svalutazione dei sensi e per la negazione della conoscibilità del reale, ma anche contro lo stesso Democrito, per il quale le qualità sensibili sono prive di verità e la verità stessa è inconoscibile; Epicuro avrebbe polemizzato, inoltre, contro lo scetticismo contemporaneo che Pirrone, maestro di Nausifane e a sua volta allievo dei democritei Metrodoro di Chio e Anassarco, aveva rinverdito, e che fioriva anche nel megarismo, ugualmente presente nell’orizzonte polemico di Epicuro. 1. Canonica. – «Scienza del criterio», «propedeutica al sistema dottrinario», costituiva l’argomento del Canone perduto (Diogene Laerzio, op. cit., l. X, 30-34); di fatto, in tutti i testi di Epicuro, deciso ad affermare la conoscibilità del reale contro ogni forma di scetticismo, le indicazioni metodologiche sui criteri da seguire nei processi gnoseologici si intrecciano all’esposizione della dottrina fisica su cui si basano, e appaiono finalizzate, in prospettiva etica, a un corretto modo di agire in vista del fine secondo natura. Epicuro pone due criteri di verità nell’approccio conoscitivo alla realtà: le affezioni (pavqh), e cioè il piacere e il dolore, che determinano le scelte e i rifiuti nelle azioni e nelle decisioni morali, e, in primo luogo, la sensazione (ai[sqhsi"), irrazionale e non partecipe di memoria, inconfutabile. Essa è sempre vera – sul significato di ajlhqhv" i critici oscillano tra «fede degna, autentica» o «ontologicamente vera, reale» – in quanto si produce dal contatto tra gli organi di senso e le immagini degli oggetti provenienti dal mondo esterno

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(ei[dwla); queste sono involucri atomici internamente vuoti, di straordinaria sottigliezza, che in virtù della vibrazione atomica interna agli aggregati (pavlsi") si staccano con la velocità del pensiero dalla superficie dei corpi, di cui riproducono fedelmente forma e colore, e con insuperabile velocità e continuità di flusso si muovono nello spazio, senza incontrare intoppi, o quasi, fino a colpire gli organi di senso o a penetrare nella mente attraverso i pori disseminati nel corpo, facendola muovere (Sulla natura, II e XXXIV; Epistola ad Erodoto, 46-50 e 52-53). Dalla diversa disposizione degli atomi e dei pori (summetriva) degli organi sensitivi e della mente dipende la diversità delle sensazioni da individuo a individuo o nel medesimo individuo in diverse circostanze. In quanto muovono la mente, sono vere anche le visioni dei pazzi o quelle che appaiono nei sogni (Sulla natura, XXXIV; Epistola ad Erodoto, 51; Sentenze Vaticane, 24, Diogene Laerzio, op. cit., l. X, 32), attraverso le quali l’uomo ricava la nozione degli dei (Sulla natura XXXIV; Lucrezio, De rerum natura, V, 1168 ss.), o anche le raffigurazioni bizzarre, che derivano dalla combinazione di più immagini e che si formano spontaneamente nell’ambiente (Lucrezio, op. cit., IV, 724-744). Le rappresentazioni (fantasiv a i, fantavsmata) del mondo esterno fornite dalle immagini sono vere, hanno il carattere dell’evidenza immediata (ejnavrgeia) e costituiscono, per così dire, i dati empirici su cui gli organi di senso e la mente possono esercitare un atto di deliberata concentrazione o apprensione (ejpibolhv): la fantastikh; ejpibolh; th'" dianoiva", annoverata da Epicuro tra i criteri di verità (Epistola ad Erodoto, 38, 51, 62 e Ratae Sententiae, XXIV), permette alla mente di selezionare nella disordinata incursione delle immagini quelle conformi al suo volere e di visualizzare il mondo esterno in ogni momento. L’errore non risiede nelle rappresentazioni, ma nell’opinione che noi stessi aggiungiamo a causa di un movimento interno, connesso all’atto di apprensione ma distinto da esso, che ci fa interpretare in modo scorretto i dati delle nostre percezioni mentali (Sulla natura, XXVIII, XXXIV; Epistola ad Erodoto, 50-51). L’opinione, che si può esprimere sia su ciò che attiene al percettibile e che attende conferma (to; prosmevnon) sia sulle realtà impercettibili (ta; a[dhla), su cui è possibile inferire per analogia a partire dai fenomeni, può essere vera o falsa, e deve essere perciò testata da criteri di

Epicuro verifica basati sull’evidenza delle sensazioni. Epicuro indica tali criteri nell’attestazione (ejpimartuvrhsi") e nella non-controattestazione (oujk ajntimartuvrhsi"), che giudicano la verità di un’opinione rispettivamente sul percettibile e sull’impercettibile; nella non-attestazione (oujk ejpimartuvrhsi") e nella controattestazione (ajntimartuvrhsi"), che ne giudicano la falsità (Epistola ad Erodoto, 51; Sesto Empirico, Contro i logici, I, 210-216); nel calcolo empirico (ejpilogismov"), che misura la verità o la falsità delle opinioni in base alle conseguenze pratiche delle azioni che da esse sono dettate (Sulla natura, XXVIII e XXXIV). Diogene Laerzio e altre fonti, infine, annoverano tra i criteri di verità le prolessi o anticipazioni (prolhvyei"), che nei testi superstiti di Epicuro appaiono come una nozione importante, ma non meglio definita: si tratta di una sorta di concetti generali che si sono formati in seguito a innumerevoli percezioni ripetute dello stesso oggetto e che anticipano le sensazioni future, permettendo di riconoscere immediatamente a cosa esse si riferiscono; anche le prolessi hanno il carattere dell’evidenza immediata e rivestono un ruolo fondamentale nella dottrina epicurea del linguaggio: è grazie alla prolessi che ne abbiamo, infatti, che un oggetto è evocato immediatamente in noi dal suo nome, senza che vi sia la necessità di ulteriori definizioni. L’elaborazione dei concetti di ejpilogismov" e di provlhyi" sembrerebbe appartenere a una fase avanzata, da collocare tra il 301 e il 296-295, della riflessione di Epicuro sulla canonica, stimolata probabilmente da una polemica con filosofi megarici. 2. Fisica e cosmologia. – La dipendenza della fisica e della cosmologia di Epicuro dall’atomismo democriteo è sottolineata, talora non senza malanimo, dalle fonti antiche. Se è vero, però, che lo stesso Epicuro ammetteva i propri debiti di riconoscenza verso l’Abderita, riconosciuto come colui che per primo nell’indagine naturalistica si era imbattuto negli esatti principi (Plutarco, Contro Colote 1108 e) e che su molti problemi aveva alleviato grandi errori (Sulla natura, XXV), è anche vero che non mancavano tra i due motivi di inconciliabile dissenso – trattati probabilmente nei libri Contro Democrito – e che Epicuro, anche in risposta alle critiche di Aristotele, sottopose l’atomismo antico a modifiche sostanziali per risolverne le aporie lasciate aperte e per reintegrarlo coerentemente nella propria dottrina. Inoltre, per 3437

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Epicuro alcuni aspetti della sua fisica e della sua cosmologia, Epicuro, in evidente polemica con le scuole filosofiche contemporanee, non disdegnò di recuperare dottrine di altri filosofi preplatonici, come Eraclito, Empedocle, Anassagora, attingendo probabilmente al materiale dossografico che rinveniva nelle Opinioni dei fisici di Teofrasto. Nell’Epistola ad Erodoto, partendo dal principio che nulla nasce dal non essere o si risolve nel non essere, Epicuro afferma che il tutto, immutabile, infinito e illimitato, consiste di corpi e vuoto. Il vuoto, la cui esistenza è dimostrata dal movimento dei corpi, è infinito per estensione (sulla denominazione del vuoto Epicuro si sofferma nel XXVIII libro Sulla natura, facendo riferimento a una propria opera in cui l’argomento doveva essere affrontato in chiave sociologica). Dei corpi alcuni sono composti, altri sono gli elementi che li compongono. Questi sono atomi, indivisibili e immutabili, infiniti per numero, di numero inconcepibile, ma non infinito per varietà di figure – Epicuro correggeva così la tesi democritea del numero infinito di figure atomiche criticata da Aristotele. Oltre alla figura, essi posseggono peso e grandezza, qualità sufficienti a produrre le differenze nei composti – ma non ogni grandezza: è inconcepibile, infatti, un atomo visibile. Gli atomi si muovono incessantemente, anche quando sono compresi in aggregati; per analogia con il minimo percepito dai sensi, bisogna ammettere anche negli atomi, in quanto dotati di grandezza, parti minime di materia, da ritenere anche minimi teoretici, di cui niente di più piccolo è concepibile. Pur negando il principio di divisibilità all’infinito, Epicuro mostrava di avere accolto la lezione di Aristotele, che aveva dimostrato l’impossibilità della indivisibilità dei corpi. Nel vuoto gli atomi si muovono dall’alto verso il basso, in virtù del peso, con uguale velocità – anche su questo punto Epicuro teneva conto di argomentazioni aristoteliche. Non così gli aggregati, la cui velocità dipende dagli urti esterni, ma anche e soprattutto da quelli interni. Se, inoltre, per Democrito la determinazione del movimento atomico proviene unicamente dagli urti tra gli atomi nel vortice originario, Epicuro, muovendo probabilmente dalle osservazioni di Aristotele sul movimento spontaneo nell’universo nella Fisica, e sulla volontarietà, nell’Etica Nicomachea, sfugge alla meccanica necessità del determinismo democriteo e introduce un prin3438

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cipio di libertà, ammettendo negli atomi, accanto al movimento verso il basso causato dal peso e a quello a seguito di collisioni, un movimento dovuto a una minima deviazione, spontanea e indeterminata nello spazio e nel tempo, nella caduta verso il basso (parevgklisi", clinamen: il termine, che si rinviene in Lucrezio, Cicerone, Filodemo e Plutarco, non compare nei testi di Epicuro, tuttavia della nozione che esso esprime si possono rintracciare tutti i presupposti nel XXV libro Sulla natura), che nell’anima giustifica il nostro volere e la nostra responsabilità, nel vuoto giustifica le collisioni atomiche, altrimenti impossibili, da cui si originano i corpi visibili. Nascono in tal modo anche i mondi, che, come Democrito, Epicuro ritiene infiniti in numero perché infiniti sono gli atomi che vagano nello spazio. I mondi sono simili o diversi dal nostro: tuttavia, accogliendo anche in questo caso argomentazioni aristoteliche, Epicuro limita il concetto di diversità dei mondi che ereditava da Democrito, giacché, a differenza dell’Abderita, non ritiene che si possa pensare a mondi strutturati in maniera completamente diversa dal nostro, privi di semi «appropriati» a formare animali, piante e tutte le altre cose che vediamo. Per Epicuro i mondi non hanno necessariamente un’unica forma, anche se non hanno una qualsiasi forma. Come tutti gli aggregati essi sono soggetti a crescita fino a un certo limite, a decadenza e a dissoluzione, in tempi e per cause diversi. Contro l’approccio di tipo matematico proprio dell’astronomia teleologica contemporanea, Epicuro, che ritiene compito dell’indagine astronomica confutare la natura divina dei corpi celesti e ogni rapporto dei fenomeni celesti con la divinità (Epistola ad Erodoto, 76-77, 81), recupera la tradizione presocratica di speculazione preminentemente fisica sulla natura di tali fenomeni. Nell’XI libro Sulla natura, contro i ciziceni che facevano uso di planetari meccanici (o[rgana) nel tentativo di conciliare le evidenti irregolarità delle orbite del sole, della luna e dei pianeti con il perfetto moto circolare da essi attribuito ai corpi celesti e sul quale Platone ne aveva basato la deificazione, Epicuro nega che da un punto di osservazione terrestre si possano prendere misure oggettivamente valide di orbite celesti, di levate e tramonti del sole, della distanza di quest’ultimo da noi. Partendo dal medesimo presupposto, forse attingendo alla dottrina eraclitea, egli

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giunge anche ad affermare che il sole è grande tanto quanto appare (Epistola a Pitocle, 91), dal momento che la sua grandezza dalla terra appare la stessa a qualunque distanza. Poiché non abbiamo, secondo Epicuro, i mezzi per conoscere le vere nature dei corpi celesti lontani, non possiamo decidere se le qualità che ne percepiamo ne siano qualità essenziali (sumbebhkovta, quelle qualità, cioè, che per Epicuro caratterizzano un oggetto dato e sono implicite nella sua definizione, su cui cfr. Epistola ad Erodoto, 68-71) o qualità accidentali (sumptwvmata, quelle la cui assenza non intacca l’essenza né la definizione di un oggetto dato). Inoltre, nell’indagine dei fenomeni celesti lontani non è possibile provare la correttezza di un’unica particolare spiegazione, ma possiamo appellarci all’analogia con i fenomeni che si verificano presso di noi per accogliere come possibili tutte quelle spiegazioni che non sono in contrasto con essi: ciò basta a conservare la nostra tranquillità d’animo, senza farci piombare nel mito (Epistola a Pitocle, 86-87). Connessa alla dottrina delle qualità è la dottrina del tempo, che per Epicuro è un tipo particolare di qualità accidentale, da mettere in rapporto non con la realtà dei corpi, ma con l’alternanza dei giorni e delle notti, con l’assenza o la presenza in noi di affezioni, con il movimento o la quiete (Epistola ad Erodoto, 7273; Papiro Ercolanense 1413), ed è perciò accidente di accidenti (suvmptwma sumptwmavtwn in Sesto Empirico, Contro i fisici, l. II, 219). 3. Psicologia ed etica. – L’anima è corporea, composta di atomi sottili e minuti e diffusa per tutto l’organismo, al quale è legata da uno stretto rapporto di vicinanza e di consenso. Come tutti i composti, è soggetta a disgregazione e dunque è mortale. Essa comprende quattro elementi, di cui tre, assimilabili all’aria, al vento e al fuoco, danno conto delle reazioni emotive e della diversità dei temperamenti a seconda della prevalenza dell’uno o dell’altro; il quarto, privo di nome, estremamente sottile e mobile, è generatore dei moti sensiferi che trasmette agli altri tre e di qui al corpo (Lucrezio, op. cit., III, 231-251). L’anima, nel suo complesso, è divisa tra parte vegetativa, sparsa in tutto il corpo, e parte intellettiva, posta in mezzo al petto, che presiede ai sentimenti e a tutte le attività psichiche e a cui competono l’attività speculativa sui concetti scientifici e l’attività volitiva: la purezza di questa parte dell’anima, immune da ogni mesco-

Epicuro lanza con gli atomi del corpo, permette all’individuo di ignorare il dolore fisico anche nei più grandi tormenti, nel grato ricordo dei beni passati. Se dunque è l’anima, contenuta e protetta come da un vaso dal resto dell’organismo, a produrre con i suoi moti la sensazione e a renderne partecipe il corpo, ne consegue che il corpo, con la perdita dell’anima, perde anche la facoltà di sentire; a sua volta l’anima, nel momento in cui si disgrega l’intero organismo, si disgrega anch’essa, perde la sua mobilità e non possiede più la facoltà di sentire (Epistola ad Erodoto, 63-68). Questa mancanza di sensibilità è alla base del principio che la morte, causa per i più dei più terribili timori che impediscono di godere a pieno la vita, non è nulla per noi (Epistola a Meneceo, 124-125 e Ratae Sententiae, II); non lo è nel momento in cui moriamo, perché l’exitus non è doloroso, né dopo la morte, per la perdita della coscienza, per cui vane sono la preoccupazione della sepoltura e le paure dell’oltretomba. Naturale è, invece, il dolore dei vivi per la morte dei propri cari, reso sopportabile dal dolce ricordo dei defunti e dei beni condivisi; nella gratitudine per i beni presenti (cavri") trovano, poi, giustificazione gli onori funebri e i culti commemorativi resi agli oijkei'oi scomparsi. L’ammissione di un apparato cultuale per i defunti, raccomandato da Epicuro anche per gli dei in forme pubbliche e private e per certi versi confrontabile con quello della religione popolare, prestò facilmente il fianco alle accuse degli avversari di incoerenza con la negazione dell’immortalità dell’anima e della provvidenzialità divina, nonché di ipocrisia per guadagnarsi il favore popolare, determinando col tempo nella scuola l’esigenza di più di una puntualizzazione: la venerazione degli dei da parte della moltitudine è da condannare, secondo Epicuro, perché dettata dal falso pregiudizio, fonte di timori e sospetti, che benefici e calamità discendano dalla divinità; la partecipazione alle cerimonie di culto da parte degli epicurei si fonda, invece, su ragioni di consuetudine sociale e sul naturale comportamento del saggio in conformità alla sua concezione della divinità, nella cui contemplazione egli realizza la sua perfetta beatitudine. Della divinità Epicuro, diversamente da quanto gli fu volgarmente imputato, non nega l’esistenza – dimostrata dalla prolessi che ne abbiamo come di un essere beato e immortale e dalle vi3439

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Epicuro sioni che ce ne appaiono nei sogni, cfr. Sulla Natura, XXXIV e Epistola a Meneceo, 123-124 – ma esclude ogni interferenza nella vita dell’individuo, al quale viene così restituita la piena libertà e la responsabilità del suo destino. Gli dei, formati da atomi sottilissimi e rarefatti, immortali o per la continua accessione di immagini simili in risarcimento di quelle che da essi continuamente si dipartono, o per la loro capacità di riconoscere e di evitare gli atomi loro nocivi, o perché gli urti atomici nulla possono sulla loro natura tenue, o ancora per la deviazione atomica regolata dalla loro volontà – le diverse ipotesi nascono da diverse interpretazioni delle fonti – sono confinati negli intermundia in un’esistenza di perfetta beatitudine, alla quale l’uomo deve aspirare e che il saggio può raggiungere, assimilandosi al dio in una oJmoivwsi" qew'/ (cfr. Epistola a Meneceo, 135 e Diogene di Enoanda, fr. 125 Smith). A questa interpretazione della teologia epicurea, che presuppone l’esistenza degli dei come autonoma e reale nel mondo fisico, generalmente accolta dalla critica e suffragata da molte fonti, tra cui gli epicurei Demetrio Lacone e Filodemo, è stata recentemente contrapposta una lettura diversa e tuttora controversa delle testimonianze (soprattutto dello scolio a Ratae Sententiae, I e di Cicerone, De Natura deorum, I, 19, 49), che fa degli dei una sorta di costruzioni mentali idealizzate a partire da flussi di immagini di forma umana, privi, perciò, di esistenza autonoma e immortali solo in quanto concetti paradigmatici eterni. Dalla negazione dei più grandi timori che affliggono l’umanità, della morte e degli dei, sul fondamento della propria dottrina fisico-gnoseologica, Epicuro passa alla parte propositiva del suo sistema etico, basata sui medesimi presupposti. Il piacere è principio e fine della vita beata; da esso muoviamo per ogni scelta e ogni rifiuto, nella consapevolezza che non ogni piacere è da ricercare, se a esso può seguire maggiore turbamento, né ogni dolore è da fuggire, se a esso consegua maggior piacere dall’averlo sopportato (Epistola a Meneceo, 128-129). Epicuro, tuttavia, prende le distanze dall’edonismo cirenaico al quale la sua dottrina era assimilata dai detrattori, e puntualizza che per piacere egli non intende quello dei dissoluti o i godimenti sensuali, ma un perfetto equilibrio che si realizza nell’assenza di turbamento nell’animo (ajtaraxiva) e nell’assenza di dolore nel corpo (ajponiva) (ibi, 131-132). In 3440

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quanto ripristina la perfezione e la pienezza dell’essere nella stabilità dei suoi componenti atomici, questo piacere può essere definito catastematico – cinetico è invece quello che muove i sensi, il solo ammesso dai cirenaici, cfr. Diogene, op. cit., l. X, 136 – e non conosce gradazione in intensità e durata, ma solo variazione, ed è facile da acquistarsi. D’altra parte, un dolore fisico intenso dura poco, quello che dura nel tempo ha minore intensità ed è sopportabile (Sentenze Vaticane, 4). In funzione del piacere Epicuro procede a una classificazione dei desideri (Epistola a Meneceo, 127-128; Ratae Sententiae, XXIX e Sentenze Vaticane, 21) in naturali e necessari, che liberano dai dolori del corpo e devono essere soddisfatti, come bere quando si ha sete; naturali ma non necessari, che variano il piacere ma non fanno sparire il dolore, come i cibi sontuosi; non naturali e non necessari, come quelli di onori e di ricchezze, che nascono da vane opinioni e sono fonte di grande turbamento. La prudenza (frovnhsi") ci aiuta nella scelta, insegnandoci che non è possibile vivere piacevolmente se non si vive anche saggiamente, moderatamente e giustamente. Come tutte le virtù, che da essa hanno origine, per Epicuro la prudenza è un mezzo in vista del fine; le si affiancano la temperanza, che fa sì che ci accontentiamo del poco; la fortezza, che ci aiuta a sopportare i dolori; la giustizia, che ci procura la sicurezza esterna e che, come lo stato, è nata da un accordo tra gli uomini per un puro scopo utilitaristico (Ratae Sententiae, XXXI). Anche l’amicizia nasce in origine da un calcolo utilitaristico, in quanto rafforza il sentimento di sicurezza esterna, allevia la solitudine, moltiplica il piacere individuale (Ratae Sententiae, XXVIII, Sentenze vaticane, 23, 34, 39). Come la fusiologiva libera l’uomo dalle grandi paure degli dei, della morte e dei tormenti fisici, così la filiva libera dalle paure del vivere quotidiano: nella natura sono i fondamenti dell’amicizia, che è a sua volta un fondamento della vita umana e che «danza intorno alle creature che abitano la terra e a tutti noi trasmette il certo messaggio: destiamoci a lodare la vita beata» (Sentenze Vaticane 52, tr. it. di M. Gigante). G. Leone BIBL.: edizioni generali: H. USENER, Epicurea, Lipsiae 1887, di cui cfr. la tr. it., con testo greco e latino a fronte, a cura di I. Ramelli, con presentazione di G. Reale, Milano 2002, da tenere presente anche per la vastissima e aggiornata bibliografia; è fondamenta-

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le anche H. USENER, Glossarium Epicureum, a cura di M. Gigante - W. Schmid, Roma 1977; E. BIGNONE, Epicuro. Opere, frammenti, testimonianze, Bari 1920; C. BAILEY, Epicurus. The Extant Remains, Oxford 1926; A. VOGLIANO, Epicuri et Epicureorum Scripta in Herculanensibus Papyris servata, Berlin 1928; G. ARRIGHETTI, Epicuro. Opere, Torino 19732 (1960); C. DIANO, Epicuri ethica, Firenze 19742 (1946). Testi particolari: P. VON DER MUEHLL, Epicurus, Epistulae tres et Ratae Sententiae, Stuttgart 1922; A. VOGLIANO, I resti dell’XI libro del Peri; fuvsew" di Epicuro, Il Cairo 1940; A. VOGLIANO, I resti del II libro del Peri; fuvsew" di Epicuro, in «Prolegomena» 2 (1953), pp. 59-98; J. BOLLACK - M. BOLLACK - H. WISMANN, La lettre d’Epicure, Paris 1971; J. BOLLACK - A. LAKS, Epicure à Pythoclès, in «Cahiers de Philologie», 3 (1978); M. CONCHE, Epicure. Lettres et maximes, Paris 19872; nuove edizioni dei libri XIV, XV, XXV, XXVIII e XXXIV Sulla natura di Epicuro, edizioni e contributi su testi nei papiri ercolanesi in genere sono apparsi in «Cronache Ercolanesi», Bollettino del Centro Internazionale per lo Studio dei Papiri Ercolanesi «Marcello Gigante», voll. 1-35, Napoli 1971-2005; cfr., inoltre, le edizioni in «La Scuola di Epicuro». Collezione di testi ercolanesi fondata da M. Gigante e diretta da G. Arrighetti - F. Longo Auricchio, voll. I-XVII, Napoli 1978-2000, con Supplementi, Napoli 1993, 2002, 2003, 2004; delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio cfr. l’edizione più recente di M. Marcovich, Leipzig 1999, e la tr. it. a cura di M. Gigante, Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, Roma-Bari 1997 (cfr. anche M. GIGANTE, Das zehnte Buch des Diogenes Laertios: Epikur und der Epikureismus, in «Aufstieg und Niedergang der römischen Welt», parte II: Prinzipat, vol. 36. 6: Philosophie, Wissenschaften, Technik (Doxographica), a cura di W. Haase, Berlin - New York 1992, pp. 43024307). Studi: la bibliografia su Epicuro è vastissima: ci limitiamo perciò a segnalare repertori bibliografici o opere di carattere generale che contengono indicazioni bibliografiche esaurienti: C. BAILEY, The Greek Atomists and Epicurus, Oxford 1928; W. SCHMID, Epikur, in «Reallexikon für Antike und Christentum» 5 (1961), pp. 681-819; H. STECKEL, Epikuros, in A. PAULY, Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, a cura di G. Wissowa, suppl. XI, Stuttgart 1968, coll. 579-652; E. BIGNONE, L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, Firenze 19732 (1936); H.J. METTE, Epikuros 1963-1978, in «Lustrum», 21 (1978), pp. 45-116; H.J. METTE, Epikuros 1963-1978. Nachtrag zu, «Lustrum», 21 (1978), pp.45-116 (e sempre in «Lustrum», 22 [1979-1980], pp. 109-114); H.J. METTE, Epikuros 1980-1983. Zweiter Nachtrag zu, «Lustrum», 21 (1978) in «Lustrum», 26 [1984], pp. 5-6); M. ISNARDI PARENTE, Opere di Epicuro, Torino 19832 (1974); C. DIANO, Scritti epicurei, Firenze 1974; J. BOLLACK - A. LAKS (a cura di), Etudes

Epieikeia sur l’épicurisme antique, in «Cahiers de Philologie», 1 (1976); AA.VV., Catalogo dei Papiri Ercolanesi, sotto la direzione di M. Gigante, Napoli 1979, con il Primo Supplemento, a cura di M. Capasso, in «Cronache Ercolanesi» 19 (1989), pp. 193-264, e il Secondo Supplemento, a cura di G. Del Mastro, in «Cronache Ercolanesi», 30 (2000), pp. 157-242; F. ROMANO (a cura di), «Atti del Convegno internazionale Democrito e l’atomismo antico», in «Siculorum Gymnasium», nuova serie, 33 (1980); M. GIGANTE, Scetticismo e Epicureismo, Napoli 1981; M. CAPASSO, Trattato etico epicureo: PHerc. 346, Napoli 1982; AA.VV., Syzetesis, Studi sull’epicureismo greco e romano offerti a Marcello Gigante, voll. I-II e indici, Napoli 1983: nel vol. II cfr. G. INDELLI, Studi su Epicuro: parte I, pp. 393-445, e M. CAPASSO, Studi su Epicuro: parte II, pp. 459-464; E. ASMIS, Epicurus’ Scientific Method, Ithaca-London 1984; A.A. LONG - D.N. SEDLEY, The Hellenistic Philosophers, vol. I: Translation of the Principal Sources with Philosophical Commentary; vol. II: Greek and Latin Texts with Notes and Bibliography, Cambridge 1987; M. ERLER, Erstes Kapitel: Epikur, Zweites Kapitel: Die Schule Epikurs, Drittes Kapitel: Lukrez, in Grundriss der Geschichte der Philosophie. Die Philosophie der Antike 4., a cura di H. Flashar, Basel 1994, pp. 29-490; J. BRUNSCHWIG, Etudes sur les philosophies hellénistiques: épicurisme, stoicisme, scepticisme, Paris 1995, bibliografia pp. 343-351; G. GIANNANTONI - M. GIGANTE (a cura di), «Atti del Congresso internazionale L’Epicureismo greco e romano», voll. I-III, Napoli 1996, con bibliografia nel vol. III, pp. 1005-1056; PHILODEMUS, On piety. Part 1. Critical Text with Commentary, ed. a cura di D. Obbink, Oxford 1996; M. GIGANTE, Physis. La natura nell’Epicureismo, in «Atti del Convegno Nazionale L’uomo antico e la natura», Torino 1998, pp. 39-92; D. SEDLEY, Lucretius and the Transformation of Greek Wisdom, Cambridge 1998; M. GIGANTE, Kepos e Peripatos. Contributo alla storia dell’aristotelismo antico, Napoli 1999; A. MONET (a cura di), Le Jardin Romain: épicurisme et poésie à Rome: mélanges offerts à Mayotte Bollack, Lille 2003, bibliografia pp. 335-357.

EPIEIKEIA (gr. ejpieivkeia; lat. clementia, «cleEpieikeia menza, mitezza d’animo»). – In Omero l’espressione hos epieikos indica un atto compiuto «come si conviene». L’epieikeia nel linguaggio corrente nella Grecia antica indicava sia la virtù della ragionevolezza, sia l’abilità, la correttezza. L’aggettivo sostantivato ho epieikes può servire a indicare l’uomo dabbene. L’avverbio epieikos a volte indica la probabilità logica. L’epieikeia indica la clemenza già in Gorgia (fr. B 6, H. Diels [a cura di], Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1903, 3 voll; poi a cura di H. Diels e W. Kranz, Berlin 1934-37 5, 1951-526 3441

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Epifane [rist. Zürich 1996], tr. it. di G. Giannantoni et al., I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Roma-Bari 20048 [Bari 1969], 2 voll.); si trova genericamente definita dallo Pseudo Platone (Definizioni, 412b: «disposizione a cedere i propri diritti e i propri interessi, giusta misura nelle relazioni, giusto atteggiamento dell’anima razionale di fronte al bene e al male»). Applicata al diritto, l’epieikeia è per Platone nelle Leggi (757b), e per Erodoto (Storie, III, 53, 4), una necessaria concessione alla debolezza umana e quindi una deviazione dalla perfetta giustizia. Assimilata in tal modo alla misericordia, l’epieikeia è posta fuori del campo del diritto, e viene valutata in modo parzialmente negativo. Diverso, e molto più positivo, è il concetto che ne ha Aristotele: «Correzione della legge nella misura in cui essa viene meno a causa della sua formulazione universale» (Et. Nic., 1137 b 26-72). «L’epieikeia è il giusto, quello che va contro la legge [...] perché non basterebbe una vita a elencare tutti casi» (Rhet., 1374 a 27-34). L’epieikeia viene anteposta alla giustizia legale, perché più precisa e comprensiva della legge scritta. Come il regolo plumbeo di Lesbo si piega secondo le irregolarità della pietra, così l’epieikeia si attaglia ai singoli casi. Essa corrisponde all’equità, che, a cominciare dal sec. XIII, è designata indifferentemente anche col vocabolo di epieikeia. In età ellenistica questa concezione positiva venne ripresa nei trattati Peri basileias. Nella filosofia stoica il termine passò a indicare semplicemente la «clemenza nell’amministrazione della giustizia» e come tale l’epieikeia fu giudicata in modo del tutto negativo. Fu vista come un vizio, in contrapposizione all’ideale del perfetto sapiente: «Dicono che l’uomo buono non deve essere indulgente (epieikes) perché l’uomo indulgente è sensibile alle preghiera di non applicare la punizione che a ciascuno spetta» (Ario Didimo, Commentario alle Ecloghe di Stobeo, II, 7, 95, 24); «L’indulgenza, la compassione e la condiscendenza sono segno di un’anima debole» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 123). Notevole importanza l’epieikeia ebbe poi, col nome latino di clementia, in Seneca, che ne trattò in una sua opera (De clementia), in cui la descrisse come dote fondamentale al rex e al princeps, allargandone il significato dal ristretto senso stoico a quello di «clemenza» in senso politico, e facendone la caratteristica di un 3442

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regime assolutistico illuminato, ispirato vagamente allo stoicismo. In tal modo Seneca sperava di superare le divisioni rigide provocate dalle guerre civili del sec. I a. C. La clementia di cui egli parla è diversa dalla misericordia, considerata come vizio e non come virtù, in quanto pavqo", debolezza eccessiva e contraria a giustizia (II, 1-6). G. Garuti - C. Natali BIBL.: J.H. MACURDY, The Quality of Mercy, New Haven 1940; J. LUCCIONI, La pensée politique de Platon, Paris 1958; T. ADAM, Clementia principis, Stuttgart 1970; A. BORGO, Clementia: studio di un campo semantico, in «Vichiana», 17 (1985), pp. 28-50; J. BRUNSCHWIG, Rule and Exception: on the Aristotelian Theory of Equity, in M. FREDE - G. STRIKER, Rationality in Greek Thought, Oxford 1996, pp. 115-155. ➨ EQUITÀ.

EPIFANE. – Gnostico del II secolo d. C. Della Epifane setta dei carpocraziani, viene presentato come figlio di Carpocrate. Ne parlano sovente Ireneo, Clemente Alessandrino ed Epifanio di Cipro, presentandolo come un giovane precocissimo che, pur morto sul fiore dell’età, lasciò una traccia nella scuola gnostica. Nella spiegazione del mondo Epifane segue Valentino. Di lui si conserva una parte di un discorso in cui sostiene la promiscuità dei sessi in una concezione politica comunistica ispirata a Platone (Clemente, Stromata, III, 2). Red. BIBL.: H. JULDNER, De Carpocratianis, Leipzig 1824; H. LEISEGANG, La gnose, tr. fr. a cura di J. Gouillard, Paris 1951, pp. 176 ss.

EPIFANIO SALAMINA (santo). – Padre Epifanio diDI Salamina della chiesa greca, del IV secolo, n. presso Eleuteropoli in Palestina verso il 315, m. nel 403. Condusse vita monastica in Egitto; tornato in patria, fondò un monastero. Dal 367 fu vescovo di Costanza (Salamina) nell’isola di Cipro. Nel 382 a Roma ebbe parte decisiva nel determinare l’atteggiamento antiorigenista di Girolamo. Due sono le sue opere principali. La prima è l’´Agkurwtov, di intonazione polemica, che presenta un’esposizione generale della fede a cui deve essere «ancorato» il cristiano; ne esiste un’edizione italiana a cura di C. Riggi (L’ancora della fede, Roma 1977). La seconda è più ampia (3 ll.) e può essere considerata uno sviluppo della precedente: si tratta del Panavrion, ossia dell’«antidoto contro le eresie». In

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essa, Epifanio di Salamina espone e confuta ben 80 dottrine eretiche: per questo motivo, talora, l’opera è citata come Haereses. Il termine eresia è da intendersi con una certa larghezza, in quanto include anche filosofie e forme religiose non cristiane. C. Tibiletti BIBL.: J.-P. MIGNE, Patrologiae cursus completus, Series I: [Patres] Ecclesiae Grecae, Paris 1857-66, voll. XLIXLIII, ed. a cura di K. Holl, Deutsche griechischen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte, vol. XXVXXXI, Berlin 1915-33. Estratti relativi alle scuole filosofiche greche in H. DIELS, Doxographi Graeci, Berlin 19583, tr. it. di F. Torraca, Padova 1961, pp. 585593 (alle pp. 175-177 sono messe in luce le inesattezze di Epifanio). Su Epifanio di Salamina: A. PUECH, Histoire de la littérature grecque chrétienne, Paris 1930, vol. III, pp. 643-667; C. RIGGI, «Dialogé» come «figura sententiae» nel Panarion (haer. 20, 3; 48, 3; 76, 9; 77, 18), in «Augustinianum», 14 (1974), pp. 549-558; M. MEES, Textformen und Interpretation von Jn 6 bei Epiphanius, in «Augustinianum», 21 (1981), pp. 339-364; M. MEES, Die antihäretische Polemik des Epiphanius von Salamis und ihr Gebrauch von Jn 4, in «Augustinianum», 22 (1982), pp. 405-425; F. DE CAPITANI, Studi su Sant’Ambrogio e i Manichei: I. Occasioni di un incontro, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 74 (1982), pp. 593-610; J. IRMSCHER, L’edizione di Epifanio nei «Griechische Christliche Schriftsteller», in «Augustinianum», 24 (1984), pp. 573-579.

EPIGENESI / PREFORMISMO. – La diEpigenesi / preformismo sputa sulla generazione costituisce uno dei nuclei problematici più rilevanti nella storia delle scienze del vivente, che si ripropone in versioni diverse ed emblematiche degli avanzamenti teorici e metodologici via via conseguiti negli studi sullo sviluppo dell’embrione (in relazione ai quali si è articolata secondo i due modelli distinti dell’epigenesi e del preformismo) e sul diverso ruolo attribuito all’apparato genitale maschile o a quello femminile (presentandosi nelle opposte versioni dell’animalculismo e dell’ovismo). Tale disputa ha assunto una posizione centrale nel corso dei secoli XVII e XVIII, ma risale in realtà alle origini stesse del pensiero occidentale, laddove andò radicandosi l’egemonia di quel modello epigenetico che, nella versione aristotelico-galenica, giungerà appunto, pressoché incontrastato, fino alla metà del XVII secolo, per poi orientarsi in direzione preformistica in seguito al decisivo cambiamento di prospettive sulla generazione, e

Epigenesi / preformismo infine aprire, dopo un ulteriore e profondo rinnovamento concettuale e teorico, alle teorie sulla trasformazione ed evoluzione del vivente. Fu disputa scientifica non meno che filosofica. Banco di prova della contrastata ma progressiva rottura con il principio di autorità, di cui già Vesalio (1514-64) aveva decretato la decadenza, rappresentò un contesto esemplare per l’affermarsi del metodo dell’osservazione diretta – che, con l’introduzione della microscopia, avrebbe valicato i confini stessi dell’«invisibile» – nonché della sperimentazione e della quantificazione applicate anche allo studio del vivente. Fu pure, tuttavia, e non meno, terreno di confronto e di scontro tra ideologie e metafisiche profondamente radicate e apparentemente non coniugabili, ma qui, di fatto, inestricabilmente intrecciate tra loro, potentemente influenti e a loro volta influenzate da quanto il mondo della ricerca sperimentale e naturalistica andava progressivamente acquisendo. Il termine epigenesi deriva dal greco ejpiv (dopo) e gevnesi" (generazione) – ovvero, prodursi successivo di parti – e la trattazione del problema potrebbe farsi risalire fino al pensiero dei presocratici e al Corpus Ippocraticum; ma trova formulazione sistematica in Aristotele (384-322 a. C.), il quale, in particolare nel De generatione animalium, affrontò il tema dell’embriogenesi animale, sostenendo che nel corso dello sviluppo gli organi si formano l’uno dopo l’altro a partire dal seme sul quale agisce una vis o principio formativo (entelechia) che costituisce la causa formale e finale dello sviluppo. È il principio maschile a garantire l’apporto dell’anima sensitiva e ad attivare quello femminile, rappresentato dal sangue mestruale. Nessuna parte dell’embrione risulta assolutamente delineata prima dell’incontro del seme maschile con il fluido femminile; e il primo organo a differenziarsi, ovvero a passare dalla potenza all’atto, è il cuore, individuando così quella priorità epigenetica della funzione cardiaca alla quale si sarebbe ancora esplicitamente richiamato Harvey nella conclusione della sua Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus (1628) – il testo che sigla la scoperta della circolazione sanguigna – per poi sviluppare le sue osservazioni embriologiche, oltre venti anni dopo, in Exercitationes de generatione animalium (1651), sul 3443

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Epigenesi / preformismo cui frontespizio figura la celebre formula «ex ovo omnia». Il medico e fisiologo inglese William Harvey (1578-1657) si era formato a Cambridge e poi a Padova sotto la guida di Fabrizio di Acquapendente (1537-1619), a sua volta allievo di Gabriele Falloppio (1523-62) che, per un certo tempo, era stato allievo di Andrea Vesalio (1514-64). Sono i nomi ben noti di alcuni dei grandi studiosi cinquecenteschi di anatomia, tutti succedutisi sulla cattedra di anatomia di Padova e protagonisti del dibattito che, in parallelo con quello sulla circolazione del sangue, si condusse sulla struttura anatomica degli organi genitali femminili e sulla generazione. Le vescicole ovariche, solo successivamente interpretate come le uova dei vivipari, erano già state osservate da Vesalio e, dopo di lui, da Falloppio (Observationes anatomicae, 1561), il cui nome è inscindibilmente connesso all’individuazione anatomica delle tube uterine, da lui considerate quali dotti seminali per la trasmissione del seme femminile. Come organo di secrezione le avrebbe interpretate Fabrizio di Acquapendente che, nella sua dettagliatissima descrizione dell’utero e delle ovaie, condotta secondo i criteri e i metodi della anatomia comparata – disciplina allora nascente e la cui denominazione fu introdotta, nel 1675, dal botanico inglese Nehemiah Grew (16411712) –, avrebbe tra l’altro individuato l’esistenza di tipi differenti di placenta in specie diverse di mammiferi (De formato foetu, 1604) e avrebbe fornito un così accurato resoconto dello sviluppo del pulcino nell’uovo (De formatione ovi et pulli, 1621) da essere considerato uno dei fondatori dell’embriologia moderna. Nessuno di questi studiosi, tuttavia, avrebbe davvero preso le distanze dalla teoria tradizionale del mescolamento del seme e del sangue mestruale. Se ne discostò, invece, Harvey, sia pur senza operare una rottura definitiva col pensiero classico, così come, per altro, era accaduto per la scoperta che gli dette fama, la circolazione sanguigna. Nonostante l’impatto rivoluzionario della sua scoperta e l’indubbio rigore con cui procedette alla dimostrazione scientifica della sua tesi, dando così il via alla moderna fisiologia sperimentale con l’introduzione dei metodi della scienza galileiana all’interno delle scienze del vivente – si basò su pratiche di vivisezione, ovvero sull’osservazione diretta dell’animale (per autopsiam) «e 3444

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non su libri di altri» («non per libros aliorum scripta»), sull’uso di metodi sperimentali (legature vascolari), e di procedure quantitative (misurazione della quantità di sangue pompata dal cuore a ogni pulsazione) –, all’origine della sua intuizione fu, infatti, il principio aristotelico della centralità del cuore e della perfezione del moto circolare, e dunque il parallelismo tra macrocosmo e microcosmo, tra cosmologia aristotelica e fisiologia animale. E non meno aristotelica fu, all’interno del dibattito sulla generazione e la formazione del feto, la sua epigenesi vitalistica, a cominciare proprio da quella priorità di sviluppo del cuore che, per altro, sarebbe stata di lì a breve smentita. Medico del re Carlo I, Harvey poté effettuare osservazioni e dissezioni su femmine di cervo e daino uccise durante le battute di caccia. Sulla base di quanto risultava visibile, non poté individuare né uova né alcuna evidenza di mescolamento di semi maschili e femminili; quel che osservò in una cerva gravida, e chiamò «uovo», fu probabilmente il sacco amniotico. La generazione si realizza a partire da un primordium, l’«uovo» appunto, attraverso una sorta di «contagio» – uno spirito volatile che agisce a distanza – dando luogo «gradualmente, parte dopo parte» alla formazione dell’embrione, cioè all’epigenesi: termine introdotto proprio da Harvey a intendere la produzione sequenziale di parti attraverso cui si sviluppa ex novo l’embrione. «Ovum», dunque, ha in Harvey, così come d’altra parte in Aristotele, un significato del tutto diverso da quello che noi oggi attribuiamo a questo termine e che solo successivamente – circa duecento anni dopo – sarebbe stato conseguito. L’ovum è materia informe e indifferenziata da cui, solo dopo che la matrice femminile è stata «infettata» dal liquido seminale, prende il via il progressivo sviluppo del feto. L’epigenesi seicentesca, comunque, non fu necessariamente vitalistica. Descartes (15691650), nell’ambito della sua visione della materia come estensione e dei corpi come macchine, ne avrebbe fornito una versione di tipo puramente meccanicistico. Così come l’origine stessa della vita trova spiegazione nell’azione del calore sulla materia in putrefazione, anche la generazione degli organismi superiori si produce attraverso la mescolanza del seme maschile e femminile su cui agisce non una

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forza vitale bensì, appunto, il calore, che dirige e organizza la materia dando luogo allo sviluppo dell’embrione. Il modello meccanicistico cartesiano e l’idea di uniformità della natura, per cui anche il vivente – fatto salvo il dualismo mente-corpo relativamente all’uomo – è sottoposto alle medesime leggi e regolarità di tipo fisico-meccanico che governano la materia in generale, avrebbero aperto alle scienze del vivente la prospettiva di spiegazioni esenti dal ricorso a forze vitali occulte e inesplicabili. Ma fu proprio sul terreno della generazione e dello sviluppo embrionale che il paradigma cartesiano si sarebbe mostrato particolarmente inadeguato a far fronte a quanto il microscopio cominciava a svelare e che – scalzando l’epigenesi come interpretazione dominante – avrebbe determinato, verso la seconda metà del Seicento, con la teoria della preformazione e della preesistenza dei geni, un radicale riorientamento paradigmatico. Le osservazioni dei microscopisti, tra cui Nicola Stenone (1638-86), Marcello Malpighi (1628-94), Jan Swammerdam (1637-80), Reinier de Graaf (1641-73), avvalorarono, infatti, la tesi dell’esistenza di germi già completamente preformati, in cui l’individuo adulto è contenuto in miniatura. L’embriogenesi, a questo punto, sarà semplice sviluppo, accrescimento quantitativo; e, in relazione al vivente, il termine latino evolutio – etimologicamente «svolgimento», nel senso di srotolamento delle pergamene – andrà progressivamente ad affermarsi, come nelle opere di Albrecht von Haller (1708-77) e Charles Bonnet (1720-93), in relazione al dispiegarsi di parti preesistenti. All’interno del preformismo si configurarono, comunque, due diverse scuole di pensiero: l’ovismo e lo spermismo o animalculismo. La scoperta delle uova nei vivipari con la dimostrazione dell’analogia tra i cosiddetti «testicoli» femminili dei vivipari e le ovaie degli ovipari – che andò a intrecciarsi anche con gli studi di Francesco Redi (1626-98) sulla generazione spontanea e con la dimostrazione che tutti gli insetti nascono da uova – fu realizzata da Stenone nel 1667 e confermata dagli anatomisti olandesi Johann van Horne (1621-70) e Reinier de Graaf. All’attribuzione di un ruolo attivo dell’uovo nella generazione, si sarebbe però subito contrapposta, nel 1677, la scoperta di Anthony van Leeuwenhoek (1632-1723) degli spermatozoi (animalculi o vermi spermatici)

Epigenesi / preformismo nel liquido seminale maschile, aprendo così la divaricazione tra le opposte interpretazioni sulla collocazione nell’uovo o nello sperma del germe del nuovo organismo. Ovismo e spermismo, inoltre, si sarebbero ulteriormente e variamente coniugati con la teoria della «preesistenza» e con la conseguente tesi degli «inviluppi» o dell’«inscatolamento» (emboîtement), secondo cui i germi sarebbero tutti il frutto di una originaria creazione e gli esseri viventi deriverebbero dai germi preesistenti che contengono fin dall’inizio tutti i germi futuri, incapsulati appunto gli uni negli altri, nell’uovo o nello sperma a seconda delle teorie. Non tutti i preformisti, tuttavia, aderirono alla teoria della preesistenza dei germi e alla metafisica soluzione proposta per la loro origine, eludendo però, di fatto, la questione e riducendo la generazione a mero sviluppo, in funzione comunque reattiva verso la tesi dell’origine graduale degli organismi a partire da una materia indifferenziata, che era propria dell’epigenesi, dottrina materialistica quanto a questo, ma in realtà a sua volta niente affatto avulsa, come si è visto, dal ricorso a forze occulte e vitalistiche. Dopo una lunga fase, tra la fine del Seicento e per buona parte del Settecento, in cui la visione dominante fu rappresentata dal preformismo ovista, l’epigenesi avrebbe trovato nuovi spazi nelle teorie, tra gli altri, di Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759), di John Turberville Needham (1713-81) – laddove si coniugò con la teoria sulla generazione spontanea degli infusori, certamente contraria al preformismo e fermamente contestata da Lazzaro Spallanzani (1729-99) – e di George Buffon (1707-88), a cui si deve l’uso del termine «riproduzione» nel suo significato attuale: non più semplice rigenerazione di parti amputate, come per esempio nel caso delle membra del gambero, ma – come appunto scrive Buffon nella Histoire naturelle des animaux – «proprietà comune agli animali e vegetali, [...] capacità di generare il proprio simile, [...] catena di successive esistenze individuali che costituisce l’esistenza reale della specie». Radicalmente avverso alla preesistenza dei germi, Buffon avrebbe fornito della riproduzione una versione ecletticamente meccanicistica, sostenendo l’esistenza diffusa di particelle di materia vivente – le molecole organiche – che, assunte con gli alimenti, attraverso l’azione di forze fisico-chimiche si modellano in stampi interni 3445

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Epigenesi / preformismo (moules interieures) delle singole parti del corpo per poi convergere negli organi genitali maschili e femminili e produrre i liquidi seminali, sia maschili sia femminili, dalla cui mescolanza e per aggiunzione e assimilazione di parti si produce l’embrione. Alternative a una versione meccanicista furono invece le teorie epigenetiche di Caspar Friedrich Wolff (1733-94), considerato il fondatore della embriologia descrittiva, e di Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840), inizialmente preformista, nelle quali, rispettivamente, una «vis essentialis» e un impulso direttivo o «nisus formativus» presiedono allo sviluppo embrionale nel quadro di interpretazioni «vitalisticomaterialistiche» della generazione, ovvero in termini di forze intese non come metafisiche, ma immanenti alla materia vivente e connesse alle dinamiche, alle regolarità e all’organizzazione dell’organismo stesso, così superando sia la rigidità e fissità di sviluppo del meccanicismo preformista sia l’indeterminatezza e la casualità delle teorie epigenetiche precedenti. La crescita dell’embrione è ormai concepita come un processo di produzione di una struttura complessa e l’attenzione si sposta dalla preesistenza di un progetto all’organizzazione del processo stesso. L’epigenesi si colloca, inoltre, in un orizzonte problematico più ampio, che coinvolge questioni come quelle della trasmissione dei caratteri, della dinamica dei processi di sviluppo nell’interazione tra gli organismi e l’ambiente, dei fenomeni dell’ibridazione, della teratologia, alle quali il preformismo si era sostanzialmente sottratto. Al volgere del secolo, la nozione stessa di «evoluzione» viene a trovarsi applicata sia allo sviluppo embrionale sia allo sviluppo delle serie animali, aprendo a un parallelismo tra i due sviluppi che solo successivamente sfocerà in concezioni schiettamente evoluzionistiche delle specie, come nel caso della «legge biogenetica fondamentale» di Ernst Haeckel (18341919), in cui sarà esplicita l’interpretazione per cui l’ontogenesi (lo sviluppo individuale) ricapitola la filogenesi (l’«evoluzione» della specie), secondo la terminologia introdotta dallo stesso Haeckel. Solo con Louis Prévost (1790-1850) e JeanBaptiste Dumas (1800-84), negli anni venti dell’Ottocento, sarebbe stato definitivamente dimostrato il potere fecondante del liquido seminale maschile; mentre, sempre negli anni 3446

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venti, Karl Ernst von Baer (1792-1876), dai cui studi ebbe origine l’embriologia comparata, avrebbe individuato l’uovo nei mammiferi, fino ad allora confuso con il follicolo ovarico, e avrebbe dimostrato la diffusione in tutto il mondo animale di un medesimo meccanismo riproduttivo. Con la teoria cellulare formulata alla metà del XIX secolo, la contrapposizione tra preformismo ed epigenesi sarebbe stata superata dalla considerazione dei corpi come insiemi organizzati di cellule. Nel 1841, Rudolf Albert von Kolliker (1817-1905) avrebbe stabilito la natura cellulare sia dell’uovo sia dello spermatozoo e, nel 1875, Oscar Hertwig (1849-1922) avrebbe per la prima volta osservato la penetrazione dello spermatozoo nell’uovo di riccio di mare risolvendo così il problema del ruolo dei due gameti nella riproduzione e avrebbe individuato la presenza di due nuclei, maschile e femminile, nella cellula uovo fecondata, i quali poi si ricompongono in unico nucleo da cui prende il via lo sviluppo embrionale. La fecondazione è ormai il risultato dell’unione di due cellule, l’una materna e l’altra paterna, e l’embriogenesi è una successione di processi complessi di divisione e differenziazione cellulare che conducono alla riproduzione di un organismo pienamente sviluppato. Ancora tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il dibattito tra Wilhelm Roux (1850-1924) e Hans Driesch (1867-1941) avrebbe però riportato in auge l’antica contrapposizione tra preformismo e epigenesi nel contesto ormai della cosiddetta «meccanica dello sviluppo» (Entwicklungsmechanik) e di un approccio sperimentale alla embriologia realizzato attraverso perturbazioni dello sviluppo embrionale. I risultati degli esperimenti del «neo-vitalista» Driesch, per cui separando le due cellule (blastomeri) risultanti dalla prima divisione dello zigote (la cellula formata dall’unione della cellula germinale maschile con quella femminile all’atto della fecondazione) non si ottengono due mezzi embrioni – come aveva invece ritenuto Roux, interpretando i propri dati sperimentali sulla base di un rigido pre-determinismo del differenziamento cellulare – bensì embrioni interi più piccoli, avrebbero infatti condotto, seppure attraverso il riemergere dell’idea stessa di «entelechia» aristotelica, alla individuazione della equipotenzialità dei nuclei e delle capacità regolative

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Epimenide

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del citoplasma dell’uovo. Sarebbe stato Edmund Beecher Wilson (1856-1939), nel primo Novecento, a ricomporre in uno schema epigenetico l’apparente preformismo di Roux delle determinanti ereditarie presenti nel nucleo con la plasticità del processo ontogenetico e delle influenze ambientali. «L’eredità – scrisse, negli anni venti – è influenzata dalla trasmissione di una preformazione nucleare che nel corso dello sviluppo trova espressione in un processo di epigenesi citoplasmatica». La nascita della genetica, agli inizi del Novecento, aveva determinato una profonda trasformazione del dibattito su preformismo ed epigenesi, e proprio gli sviluppi della genetica avrebbero indotto una separazione teorica e disciplinare, ratificata dall’embriologo e genetista Thomas Hunt Morgan (1866-1945), tra il piano dell’eredità, ovvero della trasmissione dei tratti ereditari (la genetica), e quello dello sviluppo relativo all’espressione di tali tratti (l’embriologia). L’impegno a ricomporre questa frattura coniugando di nuovo genetica, sviluppo ed evoluzione si deve, a partire dagli anni quaranta del Novecento, a studiosi come Richard Goldschmidt (1878-1958), Ivan I. Schmalhausen (1884-1963), Conrad Hal Waddington (1905-75). Negli anni quaranta, Waddington avrebbe coniato l’espressione «epigenetica», «derivata dal termine di Aristotele “epigenesi”, che era più o meno caduto in disuso, per indicare la branca della biologia che studia le interazioni tra i geni e i loro prodotti che danno luogo al fenotipo». Ed è su questa linea di ricerca che si collocano i recenti sviluppi di una emergente disciplina, la biologia evoluzionistica dello sviluppo (Evo-Devo) quale nuova sintesi tra biologia molecolare ed embriologia, eredità genetica ed epigenetica. B. Continenza BIBL.: E. GUYENOT, Les sciences de la vie aux XVII et XVIII siècles, Paris 1957; V. CAPPELLETTI, Entelechia. Saggi sulle dottrine biologiche del secolo decimonono, Firenze 1965; P. TORT, Theratologie, in P. TORT (a cura di), Dictionnaire du Darwinisme et de l’èvolution, Paris 1966, pp. 4234-4250; G. SOLINAS, Il microscopio e le metafisiche. Epigenesi e preesistenza da Cartesio a Kant, Milano 1967; F. JACOB, La logique du vivant. Une histoire de l’hérédité, Paris 1970, tr. it. di A. Serafini - S. Serafini, La logica del vivente: storia dell’eredità, Torino 1971; J. ROGER, Les sciences de la vie dans la pensée française du XVIII siècle, Paris 1971; P. BOWLER, The Changing Meaning of «Evolution», in «Journal of the History of Ideas», 36 (1975), pp. 95-114; W. BER-

NARDI,

Le metafisiche dell’embrione. Scienze della vita e filosofia da Malpighi a Spallanzani (1672-1793), Firenze 1986; W. BERNARDI, Il problema della generazione, in P. ROSSI (a cura di), Storia della scienza moderna e contemporanea, vol. I, Torino 1988, pp. 591-622; B. FANTINI, L’embriologia sperimentale, in P. ROSSI (a cura di), Storia della scienza moderna e contemporanea, vol. III, Torino 1988, pp. 107-126; R.J. RICHARDS, The Meaning of Evolution, Chicago-London 1992; V. VERRA (a cura di), Il problema del vivente tra Settecento e Ottocento. Aspetti filosofici, biologici e medici, Roma 1992; P. DURIS - G. GOHAU, Histoire des sciences de la vie, Paris 1997, tr. it. di P.D. Napolitani, Storia della biologia, Torino 1999; B. FANTINI, Preformismo, in A. FASOLO (a cura di), Dizionario di Biologia, Torino 2003, pp. 749-756; G. BARSANTI, Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo, Torino 2005.

EPIMENIDE (´Epimenivdh"). – Poeta, sacerEpimenide dote e indovino greco, vissuto fra il VII-VI secolo a. C., il cui nome figura a volte nell’elenco dei Sette Sapienti. Secondo la leggenda, Epimenide ebbe origine cretese, essendo nato a Cnosso, e vita straordinariamente lunga. Per la sua fama, oltre che di sapiente, di persona cara agli dei ed esperto nell’arte divinatoria e misterica (Plutarco Vita di Solone 12; H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di W. Kranz, Berlin 1961-64, 3, A 4), fu chiamato da Solone ad Atene per liberare la città dalla peste che l’aveva colpita dopo l’uccisione dei seguaci di Cilone (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 110: A 1). A episodi della sua vita accenna anche Platone (Leg., I, 642 d, e III, 677 d ; A 5), mentre Diogene Laerzio, il biografo antico di Epimenide (v. M. Gigante, Il bios laerziano di Epimenide, in E. Federico - A. Visconti [a cura di], Epimenide cretese, Napoli 2001), ne ricorda gli scritti: è discussa l’autenticità della Teogonia (detta anche i Vaticinii) a lui attribuita (cfr. A. Bernabé, La Teogonia di Epimenide. Saggio di ricostruzione, in E. Federico - A. Visconti [a cura di], Epimenide cretese, Napoli 2001, pp. 195-216), di cui rimangono alcuni frammenti; è probabile, invece, che la citazione di san Paolo (Tt, I, 12; cfr. Giovanni Crisostomo, Commentario alla lettera a Tito, I, 12) riporti il verso di un suo scritto (B 1), da cui, forse, prese spunto Eubulide di Mileto per formulare il paradosso del «mentitore». Mentre risulta difficile stabilire se Epimenide abbia esercitato influenza sul pensiero di Anassimene, o viceversa, testi e testimonianze ci dicono che la rappresentazione che egli si fece del mondo – nonostante qualche spunto tematico 3447

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Epinay di indubbia originalità (v. A 2 e 3) – rimane in sostanziale consonanza con le idee del mito religioso presente in Esiodo e nell’orfismo: dall’aria e dalla notte si sarebbe generato il tartaro, da cui, per successive generazioni, deriverebbe tutta quanta la realtà. G.F. Pagallo BIBL.: H. DIELS, Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di W. Kranz, Berlin 1961-64, 3, tr. it. di G. Giannantoni, I Presocratici. Testimonianze e frammenti, vol. I, Roma-Bari 19752, pp. 32-43 (rist.1981); G. COLLI, La sapienza greca, vol. II, Milano 1978 (rist. 1992), pp.15-20, 43-75, 263-273. Studi: O. KERN, s. v., in C. WISSOWA - A. PAULY, Paulys Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, Stuttgart 1893-1963, vol. VI, coII. 173-178; H. DEMOULIN, Epimenide de Crète, Bruxelles 1901, rist. New York 1979; E. ZELLER, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, a cura di R. Mondolfo, vol. I, parte 1, Firenze 19324, pp. 203 ss.; A. KOYRÉ, Epimenide le menteur: ensemble et catégorie, Paris 1947; J. PRIOR, Epimenides the Cretan, in «Journal of Symbolic Logic», 1959, pp. 261-266; P. COURCELLE, Un vers d’Epimenide, dans le «Discours sur l'Aréopage», in «Revue des etudes grecques», 1963, pp. 404-413; H. DIELS, Über Epimenides von Kreta, rist. in Kleine Schriften der klassischen Philosophien, Hildesheim 1969 (1897), pp. 36-52; R.B. MARTINEZ NIETO, La aurora del pensamiento griego: las cosmogonías prefilosóficas de Hesíodo, Alcmán, Ferecides, Epiménides, Museo y la Teogonía órfica antigua, Madrid 2000.

EPINAY, LOUISE-FLORENCE-PÉTRONILLE TAREpinay DIEU D’ESCLAVELLES, DE. – Letterata francese, n. a Valenciennes l’11 mar. 1726, m. a Parigi il 17 apr. 1783. Fu in contatto con molti intellettuali del suo tempo, tra cui Rousseau. Pubblicò nel 1774 (e molto accresciute nel 1781) le Conversations d’Émilie, scritte per l’educazione della nipote. Épinay si ispirò a Rousseau, discostandosene però in alcuni punti qualificanti. Non approva la divisione dell’educazione in fasi, ritenendola invece un processo unitario; si affida al sentimento del fanciullo, negando che in lui possa già agire la razionalità. G. Bianca BIBL.: G.T. MORETTA, Madame d’Épinay: una pagina di pedagogia del secolo XVIII, Roma 1914; A. MOHR, Madame d’Epinays Konzeption der Mädchenerziehung, St. Ingbert 1997; A. KLEIHUES, Der Dialog als Form. Analysen zu Shaftesbury, Diderot, Madame d'Épinay und Voltaire, Würzburg 2002.

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EPINOMIDE (´Epinomivdhß). – Breve dialogo, Epinomide di cui si discute se sia da attribuire a Platone o a Filippo di Opunte, suo discepolo dell’Accademia ed editore delle Leggi, come vuole un’antica tradizione riportata da Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, III, 37). Generalmente sottratta a Platone dai grandi storici del pensiero antico dell’Ottocento, tra cui Zeller, l’opera ha visto invece bilanciarsi le avverse opinioni nel Novecento, quando all’attribuzione a Platone si sono pronunciati favorevoli, fra gli altri, Gomperz, Burnet, Taylor, mentre avversi Wilamowitz, Jaeger, Robin, Friedländer. Per l’attribuzione a Platone sono i due editori des Places (1956) e Novotny (1960), mentre l’editore più recente, L. Tarán (1975), rappresenta la tendenza a contestare la paternità platonica, oggi condivisa dai più: incompatibile con Platone è apparsa soprattutto l’esclusione di altre specie di esseri, oltre ai corpi e alle anime (Epinomide, 981 B 5-7). Dell’Epinomide è stato anche studiato il rapporto con il Protrettico di Aristotele, da cui alcuni lo ritengono dipendente, e con il De philosophia, specie in riferimento alla questione di un quinto elemento, la cui ammissione nell’Epinomide è uno degli argomenti connessi alla negazione della paternità platonica. Nel suo complesso, il dialogo si presenta, come già dice il titolo, quale un’appendice alle Leggi (Novmoi), proponendosi di determinare il contenuto della sapienza richiesta ai componenti del consiglio notturno, di cui si parla nelle Leggi. La risposta è che si tratta della teologia astrale, presentata come una sorta di conciliazione di esatta scienza matematica e di mito religioso, sintesi di cultura greca e tradizione orientale, tale perciò da poter costituire un solido fondamento dello stato. Il perfetto (immutabile e calcolabile) ordine celeste deve cioè presentarsi come modello per una società bene ordinata. Da un punto di vista strettamente filosofico, quindi, la questione dell’appartenenza o meno dell’Epinomide a Platone si risolve nell’altra di decidere se in esso la teologia astrale veramente sostituisca la filosofia, la matematica soppianti la dialettica, gli astri divinizzati prendano il posto delle idee, o se non si tratti piuttosto di una sorta di volgarizzazione della dottrina, a uso dei politici. È d’altra parte innegabile che il tono religioso imparenti l’opera con circoli della prima Accademia, con Eraclide per la teologia astrale, con Senocrate per la demonologia.

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Episteme

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Di un certo interesse viene considerata, infine, la sezione matematica dell’Epinomide (990 C991 B), incentrata sul problema dei rapporti irrazionali fra grandezze incommensurabili e sulla possibilità di darne sia un’illustrazione planimetrica e stereometrica, sia un’espressione attraverso rapporti di proporzione indicati da serie di coppie di numeri interi, che sono poste in relazione anche con alcuni intervalli musicali. D. Pesce - E. Cattanei BIBL.: L. TARÁN, Academica: Plato, Philip of Opus and the Pseudo-Platonic «Epinomis», Philadephia 1975 (con commentario e bibliografia); H.J. KRÄMER, Philippos von Opús und die «Epinomis», in H. FLASHAR (a cura di), Die Philosophie der Antike, 3: Ältere Akademie, Aristoteles, Peripatos, Basel 1987, pp. 103-120.

EPISILLOGISMO (episyllogism; EpisyllogiEpisillogismo smus; épisyllogisme; episilogismo). – In una serie sillogistica è quel sillogismo, di cui la premessa maggiore è conclusione di un prosillogismo, o sillogismo antecedente. Red. ➨ POLISILLOGISMO.

EPISTEME (gr. ejpisthvmh). – È il termine, Episteme normalmente tradotto con «scienza» e «conoscenza», con cui nella filosofia greca, e più consapevolmente a partire da Platone, si suole indicare la forma più completa e sistematica di sapere. Le suddette traduzioni moderne, tuttavia, sono potenzialmente fuorvianti, perché episteme non equivale esattamente a ciò che oggi chiamiamo scienza né indica qualsiasi tipo di conoscenza. La più antica riflessione greca sulla conoscenza prende come caso paradigmatico quello in cui l’oggetto è presente alla vista di chi lo conosce: finché un oggetto visibile è fermo sotto gli occhi dell’osservatore, è chiaramente conosciuto, ma appena esce dal suo campo visivo, non è più sotto il suo controllo. Di qui il problema del divenire, la cui conoscibilità non è in questo quadro garantita. Sotto la profonda influenza di Parmenide, si diffonde l’idea che solo di ciò che è immobile e immutabile si possa ottenere vera conoscenza, mentre di ciò che è contingente o in qualche modo mutevole si possa avere solo opinione. Se poi si accetta l’idea di Eraclito, secondo il quale tutta la realtà non è immobile ma in incessante flusso, la conclusione non è lo scetticismo, ma un relativismo come quello di Protagora: la conoscenza non è impossibile,

ma dipende interamente dal punto di vista e dalla situazione del soggetto conoscente. Platone cerca di definire l’episteme all’interno di questo quadro problematico. Ciò che è oggetto adeguato di conoscenza non può mutare nel tempo e quindi non può essere il mondo sensibile che percepiamo. L’episteme non può essere nemmeno una semplice opinione, anche se vera. L’oggetto di opinione infatti è incostante e va in qualche modo «legato». Come emerge nel Menone e soprattutto nel Teeteto, le opinioni diventano stabili quando sono legate da argomentazioni (lovgoi). Platone introduce così la definizione canonica di conoscenza accettata ancora oggi dai filosofi: «L’episteme è opinione vera con un’argomentazione» (Theaet., 201 d). Questa definizione – non chiarita nel Teeteto, che si conclude abbandonandola alle sue aporie – non è però così moderna come potrebbe sembrare: per i moderni il compito dell’argomentazione è solo quello di giustificare l’opinione, perché chi conosce deve essere in grado di mostrare che non crede il vero per puro caso. Per Platone invece non ogni giustificazione è adeguata, ma solo quella che sappia legare l’opinione al mondo veramente conoscibile, che è il mondo delle idee. Inoltre l’argomentazione che produce vera episteme deve mettere il soggetto in grado di capire pienamente la propria opinione. Platone si occupa anche del problema dell’acquisizione dell’episteme. Nel Menone discute una celebre aporia, ripresa anche da Aristotele, che sembra minare la possibilità di acquistare intenzionalmente il sapere: se si cerca qualcosa, lo si conosce già e se non lo si conosce non si sa che cosa cercare. È per affrontare questa difficoltà che Platone introduce il tema della reminiscenza. La dottrina dell’episteme elaborata da Aristotele negli Analitici secondi si muove nel solco tracciato da Platone. Anche Aristotele tende a restringere l’episteme alla realtà immutabile escludendo il contingente; egli nega la conoscibilità (nel senso dell’episteme) dei particolari sensibili e la restringe agli universali, senza per questo accettare la teoria delle idee. Va ricordato, tuttavia, che sembra disposto a riconoscere la conoscibilità (nel senso dell’episteme) anche a regolarità naturali che ammettono eccezioni (per esempio che gli anziani incanutiscono o che le pecore hanno quattro zampe). Aristotele rielabora il nesso tra episteme e argomentazione interpretando la dimostrazione 3449

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Epistemologia

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scientifica come uno o più sillogismi la cui conclusione è spiegata dalle premesse. Per Aristotele l’episteme oscilla tra due significati: ora è una scienza, cioè un corpo oggettivo di proposizioni vere organizzate in una struttura, ora invece è lo stato cognitivo di chi conosce quelle proposizioni. I due significati sono oggi completamente separati, ma Aristotele li tiene insieme. P. Fait

EPISTEMOLOGIA (philosophy of science, epiEpistemologia stemology; Wissenschaftsphilosophie, Wissenschaftstheorie, Epistemologie; philosophie des sciences, épistémologie; epistemología). – SOMMARIO: I. Introduzione. - II. Dall’età antica al positivismo. - III. Strumentalismo e convenzionalismo. - IV. Il neopositivismo: 1. Il principio di verificabilità e lo statuto dell’epistemologia. - 2. Il concetto di teoria, il modello deduttivo di spiegazione e il concetto di progresso scientifico. - V. Popper e Lakatos: 1. Il principio di falsificabilità. - 2. Il problema del progresso scientifico: Popper e Lakatos. - VI. La svolta relativistica: 1. Epistemologia e storia della scienza: il rifiuto della separazione fra scoperta e giustificazione. - 2. Theory ladenness e incommensurabilità. - VII. La sociologia della conoscenza scientifica. - VIII. Epistemologia evoluzionistica e costruttivismo radicale. - IX. Il nuovo sperimentalismo. I. INTRODUZIONE. – Col termine epistemologia si intende la riflessione filosofica sulla natura, le condizioni e i limiti di validità dei principi, del metodo e dei risultati della scienza. Il termine è usato di solito come sinonimo di «filosofia della scienza», anche se talvolta quest’ultima espressione ha un significato più ampio, che abbraccia il problema dei rapporti fra la scienza e le altre sfere della cultura, come politica, morale, religione, arte ecc. (una distinzione analoga, e altrettanto poco comune, s’incontra sia in francese fra «épistémologie» e «philosophie des sciences» sia in tedesco fra «Wissenschaftstheorie» e «Wissenschaftsphilosophie»). In alcuni casi, inoltre, il termine – così come pure quello corrispondente francese e spagnolo – è usato al posto di «teoria della conoscenza» o «gnoseologia». Ciò accade per lo più per interferenza con l’inglese, dove il termine «epistemology» ha quasi sempre questo senso (in parte ciò vale anche per il tedesco «Epistemologie», che tuttavia, essendo calco sia sull’inglese sia sul francese, significa sia gnoseologia sia epistemologia), ma può anche 3450

dipendere dal fatto che si neghi qualunque differenza, anche di grado, fra scienza e sapere comune. Frequente è invece la distinzione fra epistemologia, intesa come disciplina propriamente filosofica, e «metodologia», intesa o come studio dei metodi usati in una o più scienze particolari o come l’insieme di questi stessi metodi. Questa distinzione si fonda sulla differenza di principio tra filosofia e scienza e viene meno ogni volta che questa differenza sia negata, come nel neopositivismo e nell’epistemologia naturalizzata. Altra importante distinzione è quella fra epistemologia generale e speciale. La prima riflette su concetti e problemi comuni a tutte le discipline scientifiche, come il concetto di teoria scientifica, la natura degli enti teorici o il criterio distintivo dello stesso discorso scientifico. La seconda invece riguarda soltanto una o alcune discipline. Nell’ambito dell’epistemologia speciale si distingue per esempio l’epistemologia delle scienze empiriche da quella delle scienze formali, e all’interno della prima si può distinguere fra l’epistemologia delle scienze naturali e quella delle scienze umane, e così via, sino a giungere all’epistemologia di scienze particolari, come l’epistemologia della chimica o della psicoanalisi, o a quella di aspetti o temi particolari d’una singola disciplina, come l’epistemologia della fisica quantistica. II. DALL’ETÀ ANTICA AL POSITIVISMO. – Alcuni concetti e problemi dell’epistemologia s’incontrano già nell’antica Grecia, culla al tempo stesso della filosofia occidentale e di scienze come la matematica, l’astronomia, la fisica, la zoologia. Platone, per esempio, pose il problema fondamentale dell’epistemologia, quello della distinzione fra vera scienza o epistêmê e mera opinione o dóxa, anche se il suo concetto di scienza è lontano dal nostro per la sostanziale svalutazione della conoscenza sensibile (Repubblica, VII, 534). Più vicino a noi è il concetto di scienza di Aristotele, che, nella tripartizione delle scienze teoretiche, accanto alla teologia pone anche matematica e fisica (Metafisica, E, 1, 1026 ss.). Ma anche se Aristotele contrappone la technê – come conoscenza dell’universale (De anima, VI, 3, 1139 b 16 ss.), delle cause e dei principi (Metafisica, I, 1, 981 b 25 ss.) – alla mera esperienza casuale, attività teoretica e scienze dimostrative hanno in lui un chiaro primato su attività pratica e scienze induttive.

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Il problema di un metodo capace di garantire vera conoscenza e accordo fra i ricercatori è centrale in età moderna. Sia Bacone sia Galilei comprendono che esso richiede di coniugare esperienza e ragione, ma l’induzione baconiana, priva dello strumento matematico, consente di cogliere una «forma» dei fenomeni che non è del tutto svincolata dal corrispondente concetto aristotelico (Novum Organum, II, §§ 7, 9). Soltanto Galilei, essendone l’artefice, dispone per la prima volta d’un corpus di sapere ben distinto, sia per il metodo sia per i contenuti, da quello aristotelico, ma ben più importante fu che egli, per difendere il proprio modello di scienza, fondato sull’unione di «sensata esperienza» e «dimostrazioni necessarie» (Opere, V, p. 316), fosse in un certo senso costretto a riflettere criticamente non soltanto sulla natura di questo sapere, ma anche sui suoi limiti. La consapevolezza del carattere limitato della scienza si esprime, fra l’altro, nella distinzione fra la sua verità e quella delle sacre scritture (ibi, V, pp. 282-285, 315-343), nell’ammonimento a non «tentar le essenze», cioè a evitare le qualità occulte poste dietro i fenomeni (ibi, pp. 187-188), e nella restrizione del campo scientifico d’indagine soltanto ad «alcune» affezioni della realtà – forma, movimento, quiete, numero ecc. – (ibi, VI, pp. 347-352). Il positivismo ha contribuito in modo piuttosto limitato all’epistemologia. Comte ridusse la scienza alla formulazione di leggi invariabili dei fenomeni, le quali, tramite la previsione, consentono il dominio dell’uomo sulla natura («science, d’où prévoyance; prévoyance, d’où action», Cours de philosophie positive, 2-II, § 2). J.S. Mill, invece, precisò uno specifico insieme di regole in grado di giustificare induttivamente le imputazioni causali (cfr. A System of Logic Ratiocinative and Inductive, London 1904 8 [1843]). Nonostante l’importanza di questo o quel contributo, l’attribuzione d’un valore assoluto alla scienza ha in generale fortemente limitato la riflessione epistemologica in età posititivistica. Soltanto alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, grazie alla crisi che le scienze matematiche e fisiche attraversarono (difficoltà del programma meccanicistico in fisica, nascita delle geometrie non euclidee, sorgere della fisica relativistica e quantistica ecc.), numerosi scienziati tornarono a riflettere criticamente sulla natura e i limiti di validità del proprio sapere, e l’epistemologia poté così acquisire maggiore impor-

Epistemologia tanza, divenendo una disciplina relativamente autonoma e ben definita. III. STRUMENTALISMO E CONVENZIONALISMO. – Soltanto a partire da E. Mach (1838-1916), che ricoprì a Vienna la prima cattedra di «Filosofia delle scienze induttive», sorge una tradizione epistemologica che non s’interromperà più sino ai nostri giorni. Dopo aver risolto il «fatto» in un insieme d’elementi semplici posti al di qua della distinzione di fisico e psichico, Mach interpreta l’intera scienza alla luce del «principio di economia» e formula la concezione delle teorie scientifiche propria d’ogni strumentalismo: esse sono soltanto strumenti per orientarci praticamente nel reale e, come tali, non sono vere o false, ma più o meno utili ed economiche. Di qui anche il concetto di progresso scientifico tipico d’ogni strumentalismo, che consiste nell’elaborazione di teorie sempre più economiche o semplici (cfr. Die Mechanik in ihrer Entwicklung, Leipzig 1883, IV, § 4). Di qui, infine, la tipica soluzione strumentalistica del problema degli enti teorici: se le teorie scientifiche non possono risalire a cause realmente esistenti dietro i fenomeni, ma soltanto esprimono in una formula più economica i fatti, non si può attribuire alcuna esistenza reale agli enti teorici, che, al pari delle teorie scientifiche, sono soltanto finzioni concettuali più o meno utili per ordinare i dati sperimentali accessibili all’osservazione diretta (una posizione simile è stata ripresa in seguito dall’«empirismo costruttivo» di B.C. van Fraassen secondo cui una teoria dev’essere soltanto «empiricamente adeguata», tale cioè da «salvare» i fenomeni; cfr. The Scientific Image, Oxford 1980). Più o meno negli stessi anni, in Francia, s’incontrano tesi che se, da un lato, sono assai simili a quelle di Mach, d’altro lato se ne distinguono e pongono problemi nuovi. Anche per J.H. Poincaré (1854-1912) non si può parlare di verità o falsità, ma solo di maggiore o minore «semplicità» e «comodità» sia degli assiomi della geometria sia dei principi e delle teorie più generali della fisica, che sono soltanto «convenzioni» (cfr. La Science et l'Hypothèse, Paris 1902, capp. V-VI). Ma a differenza di Mach egli ha un senso assai acuto del carattere problematico delle osservazioni, che non hanno rilevanza scientifica se non sono effettuate dal punto di vista di qualche teoria. E lo stesso vale per P. Duhem (1861-1916), che formula due note tesi: 1) non si controlla mai un’ipotesi isolata, ma soltanto un complesso d’ipotesi, 3451

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Epistemologia sicché non si sa mai con certezza quale ipotesi sia verificata o confutata da un certo esperimento («olismo metodologico»); 2) l’esperimento cruciale in fisica è impossibile, perché non è possibile enumerare tutte le ipotesi in grado di spiegare un certo risultato sperimentale (cfr. La théorie physique, Paris 1914, X, §§ 2-3). Queste tesi hanno notevolmente influito sull’epistemologia successiva. Oltre alla tesi della theory ladenness, occorre almeno menzionare la «tesi della sottodeterminazione delle teorie da parte dell’esperienza» di W.v.O. Quine, secondo cui due teorie logicamente incompatibili possono nondimeno essere empiricamente equivalenti (cfr. Word and Object, New York 1960, pp. 21-22). Altrettanto numerose sono state le critiche alle tesi strumentalistiche. Secondo K.R. Popper, per esempio, le teorie scientifiche non sono soltanto strumenti, perché possono essere sottoposte a controllo ed essere falsificate (cfr. Conjectures & Refutations, London 1963, p. 195). Ma l’obiezione più spesso sollevata è che sarebbe impossibile spiegare il successo empirico e previsionale delle teorie scientifiche senza presupporre implicitamente sia che esse siano in qualche misura vere sia che i loro termini teorici colgano qualche aspetto della realtà. IV. IL NEOPOSITIVISMO. – 1. Il principio di verificabilità e lo statuto dell’epistemologia. – Il neopositivismo (detto anche positivismo o empirismo logico) dominerà l’epistemologia dalla fine degli anni venti sino alla metà degli anni cinquanta. In esso è fondamentale il rifiuto dei giudizi sintetici a priori, la cui esistenza sarebbe stata smentita dagli stessi sviluppi scientifici e, in particolare, dalla rivoluzione einsteiniana. Oltre agli enunciati analitici della logica e della matematica, gli empiristi logici ammettono soltanto enunciati sintetici, per i quali vale il «principio di verificabilità»: una proposizione è dotata di significato, soltanto se si possono indicare le circostanze in cui essa è vera o falsa. La filosofia è ridotta ad «attività» chiarificatrice dei problemi o concetti scientifici o a «logica della scienza» (cfr. R. Carnap, Die Aufgabe der Wissenschaftslogik, Wien 1934). Non molto distante da queste tesi è anche l’operazionismo di P.W. Bridgman, secondo il quale un concetto scientifico «è sinonimo del corrispondente gruppo d’operazioni» (cfr. The Logic of Modern Physics, New York 1927, cap. I). Anche dal punto di vista dell’analisi operazionale le proposizioni della metafisica non sono 3452

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false, ma prive di senso. Questa condanna d’insensatezza, tuttavia, si ritorce sia sul principio di verificabilità sia su quello dell’analisi operazionale. Né l’uno né l’altra possono infatti essere controllati empiricamente, né sono enunciati della logica o della matematica, sicché a rigore essi hanno il medesimo statuto di quegli enunciati metafisici che avrebbero dovuto scalzare. 2. Il concetto di teoria, il modello deduttivo di spiegazione e il concetto di progresso scientifico. – La concezione neopositivistica delle teorie scientifiche deriva direttamente dal rifiuto dei giudizi sintetici a priori e dal principio di verificabilità. Una teoria scientifica è costituita da due livelli o linguaggi, quello delle proposizioni teoriche, contenenti i termini teorici, e quello delle proposizioni osservative, contenente i termini osservativi (standard view). Il principio di verificabilità esige inoltre che i termini teorici siano completamente riducibili a quelli osservativi. Sennonché, sia la richiesta iniziale d’una riduzione completa sia quella, che caratterizza il cosiddetto processo di «liberalizzazione» dell’empirismo, d’una riduzione soltanto parziale dei concetti teorici, andarono incontro a insuperabili difficoltà. Sarà in particolare la tesi della theory ladenness a revocare in dubbio il presupposto fondamentale della concezione neopositivistica delle teorie scientifiche, e cioè la netta distinzione fra livello teorico e osservativo. Il modello nomologico-deduttivo di spiegazione, formulato per primo da Popper (cfr. Logik der Forschung, Wien 1935), divenne presto un altro ingrediente essenziale dell’epistemologia neopositivistica. Un certo evento o processo E è spiegato se è dedotto da alcune condizioni iniziali C1,C2,...,Cn e da una o più leggi generali L1,L2,...,Lm:

Questa struttura è comune sia alle spiegazioni sia alle previsioni, che differiscono soltanto da un punto di vista pragmatico: mentre nel caso

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della spiegazione è già dato l’evento E (explanandum) e si tratta di cercare le leggi universali e le condizioni iniziali da cui dedurlo (explanans), nel caso della previsione sono già date le leggi universali e le condizioni iniziali, e si deduce un evento di cui si dovrà controllare in futuro il darsi o meno. Le leggi generali possono anche avere natura probabilistica. Hempel ha usato questo modello per sostenere un radicale monismo metodologico, che ha suscitato un vasto dibattito (si vedano per esempio: C.G. Hempel, Aspects of Scientific Explanation, New York 1965; W. Dray, Laws and Explanations in History, Oxford 1957; G.H. von Wright, Explanation and Understanding, London 1971). Lo schema nomologico-deduttivo spiega anche il passaggio da una teoria a quella successiva, fondando una concezione continuista o cumulativa del progresso scientifico. In questo caso, alcune leggi più generali, insieme a certe condizioni iniziali, consentono di dedurre leggi meno generali. Dalla fisica newtoniana, per esempio, si deduce l’equazione galileiana d’un corpo in caduta libera, se si assume che il valore dell’accelerazione di gravità sia costante. Popper obietterà a questa concezione che si può certamente correggere una teoria alla luce della teoria successiva, in modo da rendere deducibile la prima dalla seconda, ma proprio questa correzione o, meglio, falsificazione, dimostra che a rigore le due teorie si contraddicono e dunque è impossibile ogni deduzione dell’una dall’altra (cfr. K.R. Popper, Objective Knowledge, Oxford 1972, pp. 201-202). In alternativa al modello nomologico-deduttivo di spiegazione sono stati proposti alla fine degli anni settanta e negli anni ottanta almeno tre modelli: secondo la teoria pragmatica della spiegazione, le spiegazioni sono risposte a delle domande-perché, il cui senso è a sua volta dipendente da un contesto (cfr. B.C. van Fraassen, The Scientific Image, Oxford 1980); secondo la «teoria dell’unificazione», la spiegazione è un processo di riduzione delle assunzioni teoriche indipendenti (cfr. M. Friedman, Explanation and Scientific Understanding, in «Journal of Philosophy», 71, 1974, pp. 5-19; P. Kitcher, Explanatory Unification, in «Philosophy of Science», 48, 1981, pp. 507-531; J.L. Aronson, A Realist Philosophy of Science, London 1984); secondo la teoria causale, una spiegazione adeguata deve basarsi su processi causali, che è possibile identificare mediante criteri forniti dalla teoria stessa (cfr. W.S. Sal-

Epistemologia mon, Four Decades of Scientific Explanation, Minneapolis 1990). V. POPPER E LAKATOS. – 1. Il principio di falsificabilità. – Contro il principio di verificabilità, Popper fa valere la lezione di Hume: il passaggio da un insieme finito di enunciati singolari (descriventi i casi particolari accertati) a un enunciato universale (nel quale sono solitamente espresse le teorie scientifiche) non è logicamente valido. Poiché un solo controesempio può invece «falsificare» un’affermazione universale, al principio di verificabilità Popper contrappone quello di falsificabilità: una proposizione o una teoria è scientifica soltanto se può essere smentita dall’esperienza. Questo principio è però soltanto un criterio di senso empirico: esso precisa il tratto distintivo delle proposizioni scientifiche, ma non dice nulla contro la metafisica, che ha per definizione statuto metempirico. Invece di andare in cerca di conferme, lo scienziato deve proporre delle ipotesi audaci e cercare poi di falsificarle, deducendo da esse conseguenze che possano confutarle. Se il tentativo di falsificazione fallisce e l’ipotesi supera il controllo, essa è stata «corroborata», ma ciò non esclude in alcun modo la possibilità d’una sua successiva falsificazione («fallibilismo»). Neppure le asserzioni di base, cioè le proposizioni particolari mediante cui si falsificano o si corroborano le teorie scientifiche, sono proposizioni assolutamente certe: anche per esse vale sempre la possibilità di controlli futuri che le smentiscano (cfr. K.R. Popper, Logik der Forschung, Wien 1935, §§ 7-8). Le asserzioni di base non sono proposizioni assolutamente certe anche perché non esiste alcuna osservazione pura, priva di qualche componente teorica: tesi che, già presente nella Logik der Forschung, diviene fondamentale in una successiva fase dell’epistemologia popperiana (cfr. K.R. Popper, Conjectures & Refutations, London 1963, I, § 4). Questa tesi, almeno nel modo in cui viene da Popper solitamente intesa, procura però al falsificazionismo gravissime difficoltà: essa revoca in dubbio l’asimmetria fra verificabilità e falsificabilità, poiché toglie ogni differenza di statuto fra proposizioni universali e proposizioni singolari. 2. Il problema del progresso scientifico: Popper e Lakatos. – La Logik der Forschung contiene una nozione meramente negativa di progresso scientifico: anche la semplice falsificazione d’una teoria rappresenta un progresso. A par3453

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Epistemologia tire dagli anni quaranta, dopo l’incontro con la teoria semantica della verità di Tarski, Popper, pur non abbandonando mai la tesi d’un progresso che ha luogo mediante falsificazioni e rivoluzioni, ammette che una successione di teorie tutte subito falsificate ci lascerebbe disorientati e che occorre perciò che l’ipotesi incontri almeno qualche corroborazione prima d’essere falsificata (cfr. K.R. Popper, Conjectures & Refutations, London 1963, cap. 10, § 20). Lakatos si spingerà ancora oltre, accogliendo la tesi (già sostenuta da Hanson, Kuhn, Feyerabend ecc.) che una falsificazione è possibile soltanto dal punto di vista di una teoria rivale, di cui già si dispone e che ne risulta corroborata. La falsificazione avviene soltanto con uno «sguardo retrospettivo»: «Una teoria scientifica T è falsificata se, e soltanto se, è stata proposta un’altra teoria T' che ha le seguenti caratteristiche: (1) T' ha eccedenza di contenuto empirico rispetto a T, ossia essa prevede fatti nuovi, cioè fatti che sono improbabili alla luce di T o che sono da essa addirittura vietati; (2) T' spiega il successo precedente di T, cioè tutto il contenuto non confutato di T è incluso (entro i limiti dell’errore osservativo) nel contenuto di T'; e (3) parte dell’eccedenza di contenuto di T' è corroborata». (I. Lakatos, Falsification and the Methodology of Scientific Research Programmes, in I. Lakatos - A.E. Musgrave [a cura di], Criticism and the Growth of Knowledge, Cambridge 1970, p. 116). In questo caso la nuova teoria, o meglio il nuovo «programma di ricerca» – cioè una successione di teorie che hanno in comune certe assunzioni di fondo (o «nucleo interno») rese immuni dalla falsificazione mediante una decisione metodologica – rappresenta un progresso teorico ed empirico rispetto al programma di ricerca precedente, in caso contrario siamo dinanzi a un programma di ricerca o soltanto teoricamente progressivo oppure addirittura «regressivo». Lakatos ammette tuttavia che uno scienziato non è mai costretto ad abbandonare un programma di ricerca «regressivo», poiché può sempre legittimamente nutrire la speranza che in futuro esso ridivenga progressivo, ma non deve disconoscere l’eventuale superiorità metodologica del programma rivale. VI. LA SVOLTA RELATIVISTICA. – A partire dagli anni sessanta ha luogo in epistemologia una svolta relativistica, rappresentata da una serie di opere che, apparse nello spazio di pochi anni, mostrano alcuni evidenti tratti comuni (cfr. S. 3454

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Toulmin, The Philosophy of Science, London 1953; N.R. Hanson, Patterns of Discovery, Cambridge 1958; M. Polanyi, Personal Knowledge, London 1958; T.S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago 19702 [1962]; P. Feyerabend, Against Method, in M. Radner - S. Winokur [a cura di], Analyses of Theories and Methods of Physics and Psychology, «Minnesota Studies in the Philosophy of Science», vol. 4, Minneapolis 1970, pp. 17-130; K. Hübner, Kritik der wissenschaftlichen Vernunft, FreiburgMünchen 1978). 1. Epistemologia e storia della scienza: il rifiuto della separazione fra scoperta e giustificazione. – Un tratto comune alle opere della svolta relativistica è la necessità di ricorrere alla storia della scienza per fornire un’immagine attendibile della scienza stessa. Alla tesi popperiana dello statuto normativo della metodologia, che precisa come gli scienziati dovrebbero comportarsi a partire dal valore supremo della ricerca della verità, le epistemologie relativistiche contrappongono lo statuto storico-descrittivo che esige un’accurata ricostruzione del modo in cui, di fatto, gli scienziati si sono storicamente comportati, includendo tutti i condizionamenti di vario genere (sociali, pratici, psicologici ecc.) che li hanno influenzati. Il necessario ricorso alla storia della scienza discende d’altro canto dal rifiuto – anch’esso caratteristico della svolta relativistica degli anni sessanta – della separazione neopositivistica fra «scoperta» e «giustificazione». Secondo i neopositivisti e secondo Popper, la genesi empirica (storica, psicologica o sociologica) d’una teoria scientifica non è di pertinenza dell’epistemologia, che s’interessa soltanto alla «giustificazione» o alla «logica» della ricerca scientifica, per esempio alla coerenza d’una teoria, alla sua verificabilità o falsificabilità in linea di principio. Mentre Hanson si limiterà a rivendicare una razionalità anche per il momento della scoperta, altri hanno negato la distinzione in quanto tale, notando per es. che il progresso scientifico è stato favorito da fattori provenienti da entrambi i contesti – sia cioè da esperimenti e argomentazioni cogenti sia da pregiudizi e idiosincrasie dei singoli scienziati –, per cui non si può a rigore parlare di un’alternativa, e neppure di una distinzione, fra questi fattori: essi sono tutti egualmente legittimi (cfr. P. Feyerabend, Against Method, cit., § 14; T.S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago 19702 [1962], pp. 151-156).

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Quest’ultima tesi, tuttavia, getta via il bambino con l’acqua sporca. Che non sia possibile stabilire a priori e una volta per tutte un insieme determinato di regole metodologiche di cui lo scienziato dovrebbe necessariamente servirsi nel corso della propria ricerca non significa ancora che sia possibile togliere la distinzione stessa fra razionalità e irrazionalità, riducendo il piano della razionalità a fattori empirici reali (psicologici, sociologici ecc.). Anzi, ogni rivendicazione del ruolo effettivo di questi fattori reali nella storia della scienza avanza essa stessa una pretesa di verità e una richiesta di riconoscimento che va oltre ogni fattore reale. 2. Theory ladenness e incommensurabilità. – La cosiddetta tesi della theory ladenness, secondo cui il significato d’ogni osservazione dipende da presupposti teorici, è un altro tratto comune alla svolta relativistica, che conduce al rifiuto della stessa distinzione fra linguaggio teorico e linguaggio osservativo. La maggiore radicalità con cui gli autori della svolta relativistica sviluppano le conseguenze implicite in questa tesi – di per sé già sottolineata dal convenzionalismo classico e da Popper – dipende dal fatto che l’unità minima della dinamica scientifica non è più costituita da teorie particolari, ma da presupposti generali – di natura ontologica, semantica e metodologica – che non sono a rigore né veri né falsi, perché sono essi stessi che determinano, per ogni teoria particolare, quale tipo di esistenza hanno gli oggetti di cui essa parla, quale significato dev’essere attribuito ai suoi termini, quali problemi sia importante affrontare e mediante quali metodi sia legittimo usare per risolverli (cfr. T.S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago 19702 [1962], pp. 37-38, 76, 144-145). I singoli autori usano espressioni diverse per indicare questi presupposti generali: «paradigmi» (Kuhn), «modelli della scoperta» (Hanson), «interpretazioni naturali» (Feyerabend), «categorie epistemologiche» (Hübner) ecc. Dalla tesi della theory ladenness così intesa deriva non soltanto l’impossibilità sia della verifica sia della falsificazione d’una teoria ma, più in generale, la tesi dell’incommensurabilità: è circolare cercare di controllare i presupposti generali che determinano l’ontologia, la semantica e la metodologia d’una teoria scientifica mediante conseguenze che dipendono da questi stessi presupposti. La generalità di questi ultimi è tale che essi risultano «incom-

Epistemologia mensurabili», nel senso che le comunità scientifiche (Kuhn) o addirittura i singoli scienziati (Feyerabend) che muovono da presupposti generali diversi non dispongono di criteri superiori che possano servire da tertium comparationis per dirimere le loro dispute. La tesi dell’incommensurabilità dissolve così il concetto tradizionale di progresso scientifico, che si riduce al passaggio, simile a quello che ha luogo nel caso delle rivoluzioni politiche, da un insieme di presupposti generali all’altro, per es. da quelli della fisica newtoniana a quelli della fisica relativistica (cfr. T.S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago 19702 [1962], p. 94). Al massimo si potrà ammettere un progresso fra teorie che condividono tutte i medesimi presupposti generali (è il caso della «scienza normale» di Kuhn), ma non fra teorie che muovono da presupposti generali diversi. Queste conclusioni sono poi state estese da Feyerabend e Hübner al rapporto fra la razionalità scientifica e altre forme di razionalità, come ad esempio quella mitica (cfr. K. Hübner, Die Wahrheit des Mythos, München 1985). Le lunghe discussioni che sono sorte intorno alla tesi dell’incommensurabilità hanno tuttavia mostrato che essa comporta almeno una conseguenza ben difficilmente accettabile, e cioè che presupposti teorici fra loro incommensurabili non si possono contraddire e quindi non possono essere rivali. Se invece si accetta la possibilità della loro contraddizione, si assume implicitamente l’esistenza d’un dominio comune rispetto al quale essi risultano in linea di principio confrontabili, e ciò equivale ad assumere tacitamente, contro le premesse, proprio la loro «commensurabilità» (cfr. I. Scheffler, Science and Subjectivity, Indianapolis [Indiana] 1967, pp. 51-52; C.R. Kordig, The Justification of Scientific Change, Dordrecht 1971, passim). VII. LA SOCIOLOGIA DELLA CONOSCENZA SCIENTIFICA. – L’influsso delle epistemologie relativistiche giunge sino ai giorni nostri con la «svolta sociologica» degli anni settanta, le cui tesi di fondo sono già quasi tutte presenti, almeno in nuce, nell’epistemologia kuhniana. Secondo la «sociologia della conoscenza scientifica», anche la scienza è un «costrutto sociale», risultato di negoziazioni che avvengono tra i membri di una data comunità di ricercatori e che stabiliscono per esempio cosa debba essere considerato un «fatto» (cfr. D. Bloor, Knowledge and 3455

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Epistemologia Social Imagery, London-Boston 1976; B. Latour - S. Woolgar, Laboratory Life, Beverly Hills [California] 1979; K.D. Knorr Cetina, The Manufacture of Knowledge, Oxford 1981; A. Pickering, Constructing Quarks, Chicago 1984; H.M. Collins, Changing Order, London 1985). Occorre distinguere la scienza prima e dopo una disputa: nella prima la natura appare come causa delle ipotesi, ma nella «scienza in azione» essa è il risultato d’una deliberazione (B. Latour, Science in Action, Cambridge 1987, p. 87; A. Pickering, Constructing Quarks, Chicago 1984, pp. 7-8). Il «programma forte» di Bloor estende la tesi della condizionatezza sociale del sapere scientifico anche alla matematica e alla logica e pone una fondamentale simmetria fra conoscenze vere e conoscenze false: non solo queste ultime, ma anche le prime hanno bisogno d’una spiegazione di tipo sociologico (cfr. D. Bloor, Knowledge and Social Imagery, LondonBoston 1976; D. Bloor, Wittgenstein: A Social Theory of Knowledge, London 1983). La costruzione delle nozioni di «fatto» e di «realtà» ha tuttavia il suo luogo più importante nel laboratorio. Per questa via Latour, e con lui gran parte del costruttivismo sociale, ha in qualche modo riscoperto l’importanza dell’esperimento. Se i fatti scientifici sono costruiti in laboratorio, nel corso di complessi esperimenti che utilizzano numerose apparecchiature, occorre riconoscere all’esperimento e agli apparecchi scientifici che esso implica un ruolo prioritario nella costituzione degli «oggetti» o dei «fatti» scientifici (B. Latour - S. Woolgar, Laboratory Life, Beverly Hills [California] 1979, p. 64; si veda però anche B. Latour, Pandora’s Hope, Cambridge [Massachusetts] London 1999, dove molte delle affermazioni più radicali sono assai attenuate). VIII. EPISTEMOLOGIA EVOLUZIONISTICA E COSTRUTTIVISMO RADICALE. – L’epistemologia odierna, soprattutto quella anglosassone, è pervasa da un diffuso naturalismo, condiviso persino da molti costruttivisti sociali (cfr. K.D. Knorr Cetina, The Manufacture of Knowledge, Oxford 1981). Il programma del naturalismo quineano, che intende risolvere i tradizionali problemi gnoseologici ed epistemologici con i mezzi forniti dalle scienze empiriche, era basato sulle ricerche neurofisiologiche e di psicologia cognitiva (cfr. W.v.O. Quine, Epistemology Naturalized, in Ontological Relativity, New York 1969, pp. 69-90), ma in seguito ci si è appellati anche ad altre discipline, inclusa appunto la 3456

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sociologia. Fra le forme che il naturalismo ha assunto nell’epistemologia odierna ci limitiamo all’epistemologia evoluzionistica e al costruttivismo radicale. Sia nel caso in cui la mente umana sia direttamente considerata il risultato d’un lungo processo di evoluzione guidato dal fine della sopravvivenza (dopo Darwin e Spencer, cfr. K. Lorenz, Kants Lehre vom Apriorischen im Lichte gegenwärtiger Biologie, in «Blätter für deutsche Philosophie», 15 [1941], pp. 94-125; K. Lorenz, Die Rückseite des Spiegels, München 1973; G. Vollmer, Evolutionäre Erkenntnistheorie, Stuttgart 1975; R. Riedl, Biologie der Erkenntnis, Berlin 1979; M. Ruse, Taking Darwin Seriously, Oxford 1986; N. Rescher, A Useful Inheritance, Bollman Place 1990) sia nel caso in cui siano le idee che, in modo analogo agli organismi biologici, lottano per la vita (cfr. D.T. Campbell, Evolutionary Epistemology, in P.A. Schilpp [a cura di], The Philosophy of Karl Popper, La Salle 19743, pp. 413-463; K.R. Popper, Objective Knowledge, Oxford 1972; S. Toulmin, Human Understanding, Princeton 1972), in entrambi i casi si attribuisce un valore di sopravvivenza alle credenze o teorie vere, di solito inteso in modo realistico: l’adattamento evolutivo mediante selezione ha condotto a una corrispondenza, che giustifica il realismo scientifico, fra le strutture della mente e il mondo esterno. Antirealista è invece il «costruttivismo radicale», che, affermatosi negli anni settanta e ottanta, ha ripreso posizioni strumentalistiche. La conoscenza non è la raffigurazione passiva d’una realtà esterna obiettiva, ma un processo di costruzione dell’oggetto cognitivo (cfr. H. von Foerster et al. [a cura di], Einführung in den Konstruktivismus, München 1992, pp. 9-39; P. Watzlawick - P. Krieg [a cura di], Das Auge des Betrachters, München 1991). Ora, contro le varie forme di epistemologia naturalizzata si deve notare che, a causa del disconoscimento della distinzione tra filosofia e scienza, esse si muovono in un circolo vizioso: per un verso esse intendono risolvere i tradizionali quesiti epistemologici ricorrendo soltanto alle scienze empiriche, ma per altro verso non possiedono una definizione soddisfacente di «empirico», che – come già s’è accennato circa l’epistemologia neopositivistica – non può essere ottenuta per via essa stessa empirica o sperimentale. IX. IL NUOVO SPERIMENTALISMO. – Dopo il lungo predominio delle epistemologie relativistiche

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e più o meno contemporaneamente ai loro sviluppi nel costruttivismo sociale, a partire dagli anni ottanta inizia, da parte sia di filosofi sia di storici della scienza, un movimento di reazione, solitamente designato come new experimentalism, che sottolinea l’importanza dello sperimentare e, più in generale, dell’agire e dell’operare nella scienza. Corifeo ne è I. Hacking (cfr. Representing and Intervening, Cambridge 1983), che difende l’indipendenza delle pratiche sperimentali dalle pratiche linguistico-teoriche: a differenza delle teorie, «experiment has a life of its own», frase che è divenuta l’insegna del nuovo sperimentalismo. Occorre inoltre distinguere nettamente fra teorie di alto livello e leggi fenomenologiche di basso livello di generalità, che mostrano una grande stabilità e possono servire da pietra di saggio per il confronto fra teorie generali. Connessa a questa tesi è la difesa d’un «realismo delle entità», basato anch’esso sulla nostra possibilità d’intervenire sul reale: nel momento in cui possiamo usare un elettrone per manipolare altre parti della natura in modo sistematico, esso non è più qualcosa di ipotetico e se ne può assumere la realtà (I. Hacking, Representing and Intervening, Cambridge 1983, p. 265; cfr. anche N. Cartwright, How the Laws of Physics Lie, Oxford 1989 [1983]; R.N. Giere, Explaining Science, Chicago 1988). In senso ampio rientrano in questa tendenza anche: R.J. Ackermann, Data, Instruments, and Theory, Princeton 1985; A. Franklin, The Neglect of Experiment, Cambridge 1986; A. Franklin, Can That be Right, Dordrecht-Boston-London 1999; R. Harré, Varieties of Realism, Oxford New York 1986; P. Galison, How Experiments End, Chicago 1987; H. Radder, In and About the World, New York 1996; D. Gooding, Experiment and the Making of Meaning, Dordrecht 1990. Il limite più grave del «nuovo sperimentalismo» sta nella tentazione di contrapporre semplicemente l’esperimento alla teoria. In realtà, l’esperimento non avrebbe alcun senso, e neppure un’identità, a prescindere e da un momento di concettualizzazione teorica e dal riferimento a qualche interesse o valore, e la distinzione fra teorie di alto livello e leggi fenomenologiche di basso livello di generalità non può che essere una mera differenza di grado. Anche se vi è qualcosa di vero nello stereotipo che assume Hacking come lo scopritore dell’esperimento, non bisogna trascurare autori e tendenze che prima di lui hanno contri-

Epistemologia buito a creare il terreno favorevole al diffondersi del nuovo sperimentalismo e, talvolta, hanno espresso in modo più convincente le sue ragioni. Occorre in primo luogo ricordare l’intera tradizione pragmatistica e, in particolare, l’approfondita analisi a cui Dewey sottopose proprio il concetto di esperimento, nel contesto d’una riflessione che lega strettamente scienza e tecnica (cfr. J. Dewey, The Later Works [1925-1953], vol. IV: The quest for certainty, Southern [Illinois] 1929). Occorre poi menzionare l’épistémologie génétique di Piaget, che aveva scorto la radice ultima dei concetti scientifici fondamentali (numero, spazio, tempo, causalità ecc.) nell’azione del soggetto, attraverso la quale questo entra in contatto col mondo esterno (cfr. J. Piaget, Introduction à l’épistémologie génétique, Paris 1950). Anche Bachelard (1884-1962) aveva sostenuto un nesso intrinseco di scienza e tecnica che poneva in rilievo la funzione dell’esperimento (cfr. G. Bachelard, Le rationalisme appliqué, Paris 1949; G. Bachelard, Le matérialisme rationnel, Paris 1953). Fondamentale è poi l’operazionismo di Dingler, che pure aveva posto un nesso strettissimo fra scienza e agire umano e che dedicò per primo un intero libro al tema dell’esperimento. La costruzione degli strumenti di misura, senza i quali non v’è scienza fisica, si basa sulla realizzazione tecnica di forme geometriche fondamentali (come superfici piane, spigoli rettilinei e angoli retti), che a sua volta si fonda su un insieme di norme di costruzione che debbono obbedire al «principio dell’ordine metodico», ricorrendo di volta in volta soltanto a mezzi per i quali è già stato indicato il procedimento di costruzione (cfr. H. Dingler, Das Experiment, München 1928; H. Dingler, Die Methode der Physik, München 1938) L’operazionismo di Dingler è stato ripreso e sviluppato nel «costruttivismo metodico», sorto a Erlangen e sviluppatosi poi soprattutto nei centri di Konstanz e di Marburg. Il costruttivismo metodico dev’essere ben distinto dal costruttivismo radicale, sia per la centralità che possiede in esso la fondazione metodica del sapere – che deve risalire sino a esperienze elementari del «mondo della vita» e soltanto a partire di qui iniziare la costruzione metodica delle teorie fisiche – sia per l’antinaturalismo: la costruzione e l’uso degli strumenti scientifici non è possibile senza norme e prescrizioni (cfr. P. Lorenzen, Methodisches Denken, Frankfurt am Main 1968; P. Lorenzen, Lehrbuch der Konstruk3457

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Epistemologia evoluzionistica tiven Wissenschaftstheorie, Mannheim 1983; J. Mittelstrass, Die Möglichkeit der Wissenschaft, Frankfurt am Main 1974; P. Janich, Protophysik der Zeit, Frankfurt am Main 1980; P. Janich, Konstruktivismus und Naturerkenntnis, München 1996). Restringendo infine l’attenzione al panorama italiano, dopo Ceccato e la sua scuola operazionistica (che intrattenne rapporti assai stretti con Dingler), occorre ricordare l’operazionismo di Evandro Agazzi. Modificando e volgendo in senso realistico l’intuizione sottesa alla critica wittgensteiniana d’un linguaggio privato, Agazzi ha notato che le stesse operazioni mediante cui una certa disciplina scientifica si riferisce a un certo universo di oggetti sono al tempo stesso la condizione di possibilità dell’accordo intersoggettivo fra i ricercatori, che non verte mai sui loro dati «privati», bensì appunto su operazioni determinate (cfr. E. Agazzi, Temi e problemi di filosofia della fisica, Roma 1969; E. Agazzi, Il bene, il male e la scienza, Milano 1992). L’operazionismo di Agazzi, almeno nelle sue prime formulazioni, aveva trascurato la necessità del nesso fra la teoria e le sue applicazioni tecniche, ma è implicita nella sua stessa impostazione una prospettiva che, conservando la portata veritativa della scienza, asserisce la funzione costitutiva che il momento tecnico possiede per la determinazione della verità scientifica. È certamente legittimo distinguere scienza pura e applicata sulla base della diversa intenzionalità pratica di chi le esercita, ma ciò non esclude in alcun modo che, da un punto di vista epistemologico, la scienza possa perseguire il suo scopo di sapere soltanto facendo tecnicamente, e nel contempo la tecnica possa perseguire il suo scopo di padroneggiamento del reale solo sulla base della conoscenza di leggi di natura (cfr. M. Buzzoni, Scienza e tecnica, Roma 1995). M. Buzzoni ➨ EPISTEMOLOGIA NATURALIZZATA; EPISTEMOLOGIA POPPERIANA; GNOSEOLOGIA; PSICANALISI, EPISTEMOLOGIA DELLA.

EPISTEMOLOGIA EVOLUZIONISTICA. Epistemologia evoluzionistica – Il termine «epistemologia evoluzionistica» (coniato da Campbell nel 1974, D.T. Campbell, Evolutionary Epistemology, in P.A. Schilpp [a cura di], The Philosophy of Karl R. Popper, La Salle [Illinois] 1974, pp. 412-463) viene usualmente inteso secondo due accezioni diverse, sebbene correlate. 3458

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In base alla prima accezione, l’epistemologia evoluzionistica è un sottosettore dell’epistemologia naturalizzata e concerne la genesi e lo sviluppo degli organi e apparati che costituiscono i sostrati biologici dei processi cognitivi (EE1). Seguendo invece la seconda accezione, l’epistemologia evoluzionistica è un sottosettore dell’epistemologia tradizionale e si occupa della dinamica delle teorie scientifiche, a cui applica in maniera analogica alcune categorie evoluzionistiche come quella di selezione (EE2). Nel seguito esemplificheremo ciascuna delle due accezioni richiamandoci a un autore che ne è un esponente significativo. L’atto di fondazione di EE1 si fa risalire a Lorenz (K. Lorenz, Kants Lehre vom Apriorischen im Lichte gegenwärtiger Biologie, in «Blätter für Deutsche Philosophie» 15, 1941-42, pp. 94125, in Das Wirkungsgefüge der Natur und das Schicksal des Menschen. Gesammelte Arbeiten, edito e introdotto da I. Eibl-Eibensfeldt, München-Zürich 1978, pp. 82-109). Come si evince dal titolo stesso del saggio di Lorenz, questi intraprende «il tentativo di una spiegazione naturale» dell’apriori conoscitivo kantiano (ibi, p. 83). Tale spiegazione consiste nel riconoscere che «l’apriori che determina le forme fenomeniche delle cose reali del nostro mondo è [...] un organo o, più precisamente, la funzione di un organo», nei confronti della quale si pone, come per qualsiasi funzione biologica, la questione della sua capacità adattiva e della sua origine filogenetica (ibi, p. 85). Il soggetto conoscente diventa il possessore di un apparato e la teoria della conoscenza una scienza degli apparati (ibi, p. 100). Ebbene, tale scienza degli apparati interpreta come aposteriori filogenetico ciò che a livello ontogenetico si presenta come un apriori. Le forme dell’intuizione e le categorie dell’intelletto, infatti, null’altro sono che strumenti che nella storia della specie si sono rivelati utili alla sopravvivenza dell’organismo. Il progetto di una naturalizzazione della conoscenza spinge peraltro Lorenz ad abbandonare la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé e a sviluppare una forma di realismo fondato sulla corrispondenza tra il mondo esterno e quella parte della natura rappresentata dagli apparati conoscitivi. «Le nostre forme dell’intuizione e categorie dell’intelletto, precedenti ogni esperienza individuale, si adattano al mondo esterno per le stesse ragioni per le quali lo zoccolo del cavallo è adatto alla step-

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pa prima ancora che il cavallo nasca e la pinna del pesce è adatta all’acqua prima ancora che questo esca dall’uovo» (ibi, p. 86). La conoscenza è così una sorta di rispecchiamento del reale fuori di noi nel reale dentro di noi. La scienza degli apparati ha il compito di appurare empiricamente con quale grado di precisione avvenga il rispecchiamento della realtà; non vi è dubbio, tuttavia, che qualsiasi immagine della realtà, per quanto imprecisa, sia in linea di principio affidabile, perché causata dalla realtà stessa che rispecchia. Nel più noto «L’altra faccia dello specchio» (K. Lorenz, Die Rückseite des Spiegels. Versuch einer Naturgeschichte menschlichen Erkennens, München 1973, tr. it. di C. Beltramo Ceppi, L’altra faccia dello specchio, Milano 1974), sebbene ripudi esplicitamente il tentativo compiuto in precedenza di identificare l’«apparato immagine del mondo» con l’apriori kantiano, Lorenz persegue il medesimo intento metodologico di concepire la conoscenza come un processo interattivo tra componenti ugualmente reali del mondo. Lorenz mutua da D. Campbell il termine realismo ipotetico per designare questo approccio gnoseologico (ibi, p. 29). Si tratta di una posizione realistica perché assume in linea di principio il darsi di una concordanza tra la realtà e i diversi apparati immagine del mondo; il realismo è tuttavia ipotetico, perché la tesi della corrispondenza con il mondo esterno rimane pur sempre un’ipotesi da testare empiricamente. L’uomo, da questo punto di vista, è «uno specchio in cui e da cui viene riprodotta la realtà» (ibi, p. 39). Come ogni specchio, anche lo specchio della conoscenza ha «un rovescio, una faccia non riflettente, che lo pone sullo stesso piano degli elementi reali che esso riflette» (ibi, p. 46). La faccia non riflettente è in ultima analisi l’apparato fisiologico, che, pur essendo deputato a conoscere il mondo reale, non è meno reale del mondo stesso. Tra i sostenitori di EE2 citiamo qui Popper 1972 (K.R. Popper, Objective Knowledge: an Evolutionary Approach, Oxford 1972, tr. it. di A. Rossi, Conoscenza oggettiva, Roma 1975). Secondo questo autore, «lo sviluppo della nostra conoscenza è il risultato di un processo strettamente rassomigliante a quello chiamato da Darwin “selezione naturale”; cioè, la selezione naturale delle ipotesi» (ibi, pp. 346-347). Di fronte a un problema, lo scienziato, ma anche l’uomo comune, formula una congettura per risolverlo.

Epistemologia evoluzionistica In un momento successivo, tale congettura viene sottoposta al vaglio critico, nel tentativo di confutarla. Se la confutazione ha successo, la congettura sarà abbandonata e si dovranno trovare altri modi per affrontare il problema in cui ci si è imbattuti; se la confutazione fallisce, la nostra congettura, almeno provvisoriamente, sopravvive. Il metodo popperiano per congetture e confutazioni è dunque nell’evoluzione delle teorie scientifiche l’analogo del processo darwiniano della selezione naturale nell’evoluzione biologica. Se ci si pone ora la domanda di quale rapporto intercorra tra questa accezione dell’epistemologia evoluzionistica e la precedente, sarà bene ricordare che Popper non intende limitarsi a un uso metaforico del concetto di selezione. «La teoria della conoscenza che desidero proporre è una teoria largamente darwiniana dello sviluppo della conoscenza. Dall’ameba a Einstein, lo sviluppo della conoscenza è sempre il medesimo: tentiamo di risolvere i nostri problemi, e di ottenere, con un processo di eliminazione, qualcosa che appaia più adeguato nei nostri tentativi di soluzione» (ibi, p. 347). D’altro lato, la nota tesi di Popper della priorità della teoria sull’osservazione si traduce, negli ultimi anni della sua riflessione, nell’accettazione di uno dei capisaldi del pensiero di Lorenz, ossia l’idea che l’apriori ontogenetico non sia nient’altro che un aposteriori filogenetico. Ogni animale, razionale e non, nasce con aspettative o anticipazioni che, se deluse, sono all’origine dei primi problemi e in seguito dell’intero sviluppo della conoscenza. Tali aspettative rappresentano una sorta di conoscenza innata, ma solo dal punto di vista del singolo individuo: esse sono in realtà radicate nella filogenesi delle singole specie, tanto nel caso dello scienziato geniale, quanto in quello dell’organismo unicellulare. È dunque possibile sostenere che in Popper i due programmi dell’epistemologia evoluzionistica si fondano insieme? Rispondere a questa domanda ci permetterà di introdurre qualche considerazione critica sulla natura e il significato metodologico dell’epistemologia evoluzionistica. Nel proseguio del discorso sosterrò che Popper, nonostante il suo aperto tributo a «una teoria largamente darwiniana dello sviluppo della conoscenza» si allontana dai presupposti della teoria darwiniana in alcuni punti cruciali. 3459

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Epistemologia genetica

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In primo luogo, EE1 è una forma particolare di epistemologia naturalizzata. Come tale, si basa su un approccio descrittivo all’origine e allo sviluppo della conoscenza. Il metodo per congetture e confutazioni, al centro dell’interpretazione popperiana di EE2, si muove invece sul tradizionale terreno normativo proprio dell’epistemologia non naturalizzata. In secondo luogo, è emerso chiaramente dall’illustrazione della teoria di Lorenz che il processo conoscitivo è equiparato in EE1 al processo di adattamento dell’organismo all’ambiente. La funzione del processo conoscitivo è la sopravvivenza. Ora, Popper rifiuta esplicitamente questa teoria, almeno per quanto riguarda la conoscenza pura, sostituendola con la tesi che il fine della conoscenza è l’avvicinamento alla verità. «[...] non ho stabilito che l’ipotesi più adatta è sempre quella che agevola la nostra sopravvivenza. Ho detto piuttosto che l’ipotesi più adatta è quella che meglio risolve il problema che era designata a risolvere, e che resiste alle critiche meglio delle ipotesi concorrenti. Se il nostro problema è puramente teorico [...] allora le critiche saranno regolate dall’idea di verità, o di avvicinamento alla verità, piuttosto che dall’idea di aiutarci a sopravvivere» (ibi, p. 350). Dalla lettura di questo passo si evince in terzo luogo che Popper rifiuta il gradualismo di impronta darwiniana e che introduce una differenziazione netta tra la conoscenza animale e strumentale da una parte e la conoscenza umana non applicata dall’altra. Egli non si perita ad esempio di affermare che «[...] la struttura evoluzionistica dello sviluppo della conoscenza pura è quasi l’opposto di quella dell’albero evoluzionistico degli organismi viventi, o degli strumenti umani o della conoscenza applicata» (ibi, p. 348). Il programma di EE1, al contrario, ha un ambito di applicazione universale e questo nonostante il riconoscimento da parte di Lorenz che il processo evolutivo si snoda in una sequenza di stadi di sempre maggiore complessità, in cui lo stadio inferiore non prefigura quello superiore (K. Lorenz, Die Rückseite des Spiegels. Versuch einer Naturgeschichte menschlichen Erkennens, tr. cit., p. 64). Si può forse concludere che, nella prospettiva di Popper, il passo che separa l’ameba da Einstein è più lungo di quanto egli stesso sia disposto ad ammettere. A. Corradini

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BIBL.: K. LORENZ, Kants Lehre vom Apriorischen im Lichte gegenwärtiger Biologie, in «Blätter für Deutsche Philosophie», 15 (1941-42), pp. 94-125, in Das Wirkungsgefüge der Natur und das Schicksal des Menschen. Gesammelte Arbeiten, edito e introdotto da I. Eibl-Eibensfeldt, München-Zürich 1978, pp. 82109; S. TOULMIN, Human Understanding: the Collective Use and Evolution of Concepts, Princeton 1972; K.R. POPPER, Evolutionary Epistemology, in J.W. POLLARD (a cura di), Evolutionary Theory: Paths into the Future, London 1984; D. HULL, Science as a Process: An Evolutionary Account of the Social and Conceptual Development of Science, Chicago 1988; R. RIEDL, Biologie der Erkenntnis, Berlin 19904; GÜNTHER PÖLTNER, Evolutionäre Vernunft. Eine Auseinandersetzung mit der Evolutionären Erkenntnistheorie, Stuttgart 1993; G. VOLLMER, Evolutionäre Erkenntnistheorie, Stuttgart 19946.

EPISTEMOLOGIA GENETICA (genetic episEpistemologia genetica temology, genetische Epistemologie; épistémologie génétique; epistemología genètica). – È il programma di ricerca epistemologica avanzato da Jean Piaget a partire dall’opera del 1950 in tre volumi, Introduction à l’épistémologie génétique: I. La pensée mathématique; II. La pensée physique; III. La pensée biologique, la pensée psychologique et la pensée sociologique, e sviluppato in modo interdisciplinare e sistematico presso il Centre d’Épistémologie Génétique da lui fondato nel 1955 e diretto con la collaborazione di matematici, logici, psicologi, epistemologi e filosofi di tutto il mondo. Esito di queste collaborazioni sono gli oltre 37 volumi pubblicati dal Centre. L’epistemologia genetica tratta la conoscenza scientifica in funzione della sua socio-genesi e, soprattutto, dell’origine psicologica delle nozioni e delle operazioni su cui essa si fonda. Il problema comune all’epistemologia genetica e alla psicologia è spiegare come sia possibile la transizione da un livello di conoscenza inferiore a un livello di conoscenza superiore. Per Piaget questa transizione è un problema di fatto che trova origine nell’«adattamento», per cui le strutture che sono funzionalmente positive si sviluppano e si riproducono a livelli di complessità sempre maggiore. L’ipotesi fondamentale dell’epistemologia genetica è che ci sia un parallelismo tra lo sviluppo dei processi psicologici dell’ontogenesi e quelli dell’organizzazione logica e razionale della conoscenza. In entrambi i casi le strutture non sono precostituite nella mente o nel mondo

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esterno, ma vengono costruite a partire da quei vincoli da cui prende avvio la costruzione delle strutture logico-matematiche sottese all’«adattamento». Compito dell’epistemologia genetica è ricostruire le strutture sottostanti la conoscenza scientifica quale si è venuta determinando in quanto modo storicamente dato di organizzare l’esperienza. La conoscenza scientifica, infatti, consiste nell’assimilare la realtà a quei sistemi di trasformazioni che consentono di comprendere come si sia determinato un certo stato e che forniscono dei possibili modelli isomorfi della realtà. In questa epistemologia la conoscenza non è commisurata ad una realtà data, presunta oggetto di conoscenza in funzione di criteri di verità o di adeguatezza, bensì è il prodotto di un organismo che attivamente costruisce e ri-organizza il suo pensiero in funzione dei vincoli posti dall’esperienza. L’epistemologia, per rendere conto di come il pensiero umano è in grado di produrre la conoscenza scientifica, deve fare appello non solo alla logica ma anche alla psicologia per poter affrontarne gli aspetti sia formali che empirici. Per Piaget c’è corrispondenza tra la «formazione» psicologica e la «formalizzazione» logica. Infatti, il carattere astratto della matematica e della logica non deriva, come assumono gli empiristi, dalle caratteristiche fisiche degli oggetti per astrazione, ma dalle stesse azioni compiute direttamente sugli oggetti e dalle operazioni quando tali azioni sono eseguite solo mentalmente. Le caratteristiche fisiche degli oggetti danno luogo alla conoscenza fisica, sperimentale o empirica per un processo di «astrazione semplice», come quando il bambino compie azioni singole sugli oggetti, per esempio li solleva o li afferra e, così, ne conosce il peso o la forma. Le azioni coordinate compiute dal bambino sugli oggetti danno luogo al carattere astratto della conoscenza matematica e logica per un processo di «astrazione riflettente». Le azioni, infatti possono essere organizzate in diversi modi: in coordinazioni additive, sequenziali, in corrispondenza l’una all’altra ecc. I tipi di coordinazione tra le azioni che i bambini compiono sugli oggetti hanno un parallelo nelle strutture logiche e stanno alla base delle strutture logiche che successivamente si svilupperanno grazie al processo di «astrazione riflettente», che ne comporta una riorganizzazione sul piano del pensiero. In questa

Epistemologia giuridica prospettiva, il ricorso alla psicologia non implica alcuna forma di psicologismo in quanto Piaget fa riferimento agli «aspetti operativi dell’intelligenza», a ciò che ha definito «soggetto epistemico». N. Caramelli BIBL.: J. PIAGET, Introduction à l'épistémologie génétique, Paris 1950 3 voll., tr. it. di P. Guidoni, Introduzione all'epistemologia genetica, Milano 1982 3 voll.; Biologie et connaissance: essai sur les relations entre les régulations organiques et les processus cognitifs, Paris 1967, tr. it. di F. Bianchi Bandinelli, Biologia e conoscenza: saggio sui rapporti fra le regolazioni organiche e i processi cognitivi, Torino 1983; Logique et connaissance scientifique, «Encyclopédie de la Pléiade» vol. 22, Paris 1967; L'épistémologie génétique, Paris 1970, tr. it. di M. Ceruti, L'epistemologia genetica, Bari 1971; L'équilibration des structures cognitives: problème central du développement, in «Etudes d'épistémologie génétique», vol. 33, Paris 1975, tr. it. di G. Di Stefano, L'equilibrazione delle strutture cognitive: problema centrale dello sviluppo, Torino 1981.

EPISTEMOLOGIA GIURIDICA. – Con la Epistemologia giuridica locuzione «epistemologia giuridica» s’intende quella disciplina filosofica che assume come suo proprio oggetto di riflessione i temi e i problemi della «conoscenza giuridica», e che dunque si preoccupa di esaminare, in modo particolare, la questione se, ed eventualmente entro quali limiti, sia possibile attribuire, quantomeno in parte, una «valenza conoscitiva» alle svariate attività poste in essere dai teorici del diritto, dai giuristi e dagli operatori all’interno di un campo di esperienza giuridica o di più campi tra loro omogenei. L’epistemologia giuridica può avere una funzione ricostruttiva, qualora il suo compito sia quello di esaminare concretamente gli eventuali profili conoscitivi di determinate attività giuridiche, svolte all’interno di uno specifico contesto istituzionale. In questo senso l’intende Norberto Bobbio quando ricostruisce il lavoro di analisi del linguaggio del legislatore svolto dai giuristi. Ovvero può avere una funzione prescrittiva, qualora si proponga il compito di suggerire agli studiosi come dovrebbero comportarsi se volessero per davvero produrre conoscenze sul diritto. In questo senso l’intende Alf Ross quando prescrive ai giuristi l’adozione del principio di verificazione. La soluzione da dare alla questione della «valenza conoscitiva» delle attività di cui sopra dipende in modo rilevante dall’immagine di co3461

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Epistemologia naturalizzata noscenza che viene presupposta sullo sfondo, più o meno esplicitamente. Ebbene, sin dal sorgere della scienza giuridica moderna, agli inizi del sec. XIX, gli studiosi del diritto hanno sempre cercato di utilizzare le immagini di conoscenza prevalenti all’interno del loro contesto storico-culturale. Talvolta questi tentativi vengono posti in essere all’interno di concezioni monistiche della conoscenza, per le quali esiste un solo tipo di conoscenza scientifica, quella delle scienze naturali, e un solo tipo di metodo, quello empirico (è il caso, ad esempio, del positivismo filosofico ottocentesco, e del neopositivismo novecentesco); altre volte questi tentativi sono esperiti sulla base di concezioni dualistiche, per le quali la scienza giuridica fa parte di un gruppo di scienze variamente configurato (ad es., scienze dello spirito, scienze storiche, scienze comprendenti, scienze umane), ma che comunque viene considerato come irriducibile alle scienze naturali, per profili sostanziali e/o metodologici. In entrambi i versanti, tuttavia, il problema viene quasi sempre affrontato sulla base del presupposto della identità fra «conoscenza» e «scienza» (di qualunque tipo di scienza si tratti). Raramente, in ogni caso, questi tentativi conseguono risultati soddisfacenti, per la ragione principale che il diritto è un «oggetto» dotato di una sua radicale peculiarità, che fa contestualmente parte sia del mondo della natura che del mondo della cultura, e che in più possiede la singolare caratteristica della «normatività». Oggi, tuttavia, la crisi delle concezioni neopositivistiche consente di affrontare su basi diverse il problema in questione, cioè all’interno di un contesto epistemologico che rifiuta l’equazione «conoscenza = scienza» e che aderisce sino in fondo alla tesi del pluralismo metodologico (metodi diversi per campi di indagine diversi). In tale tipo di situazione il problema non è più quello di assegnare «patenti di scientificità», ma di accertare a quali affermazioni dei giuristi, degli operatori, ma anche dei membri «laici» della comunità, possa essere attribuito lo status di acquisizioni conoscitive, in grado, cioè, di veicolare informazioni sul diritto. Da questo punto di vista, anche la conoscenza di senso comune può avere un ruolo importante, come è mostrato dall’analisi hartiana del punto di vista interno come requisito necessario per l’esistenza di una regola sociale, analisi che mostra come la conoscenza del modello di 3462

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comportamento previsto della regola, da parte dei rule followers, sia una condizione necessaria per l’esistenza della regola stessa. V. Villa BIBL.: N. BOBBIO, Teoria della scienza giuridica, Torino 1950; A. ROSS, On Law and Justice, London 1958, tr. it. di G. Gavazzi, Diritto e giustizia, Torino 1990 (1965); V. VILLA, Teorie della scienza giuridica e teorie delle scienze naturali. Modelli e analogie, Milano 1984; H.L.A. HART, The Concept of Law, with a Postscript, ed. a cura di P.A. Bulloch - J. Raz, Oxford 19942 (1961), tr. it. di M. Cattaneo, Il concetto di diritto, Torino 2002. ➨ NORMATIVISMO; SCIENZA GIURIDICA.

EPISTEMOLOGIA NATURALIZZATA. – Il Epistemologia naturalizzata naturalismo epistemologico si oppone al sistema tradizionale di fare epistemologia. I suoi sostenitori di punta, Quine e Goldman, propongono due diversi modi di attuare la naturalizzazione, il primo radicale, il secondo moderato. Il progetto radicale non riesce a presentare una vera e propria epistemologia, mentre è possibile che il progetto moderato non sia ancora in grado di proporre una sincera naturalizzazione. Se a ogni modo occorre naturalizzare l’epistemologia, l’unica mossa possibile è verso una soluzione moderata: questo a meno di non falsare il significato tradizionale del termine «epistemologia». SOMMARIO: I. Naturalismo versus anti-naturalismo. - II. Epistemologia quineana versus epistemologia goldmaniana. - III. Quale epistemologia naturalizzata? I. NATURALISMO VERSUS ANTI-NATURALISMO. – Considerata il programma naturalista più sviluppato, l’epistemologia naturalizzata, o teoria naturalizzata della conoscenza, intende rigettare tutte le prerogative della tradizione non naturalista (atteggiamento radicale) o rivederne alcuni assunti (atteggiamento moderato). Questa tradizione cerca di rispondere allo scetticismo, di definire che cos’è la conoscenza, di analizzare la nozione di giustificazione e di stabilire le fonti conoscitive. Il concetto di giustificazione è un concetto chiave dell’epistemologia tradizionale, che le diverse teorie (fondazionalismo, coerentismo, fondecoerentismo, evidenzialismo, affidabilismo, funzionalismo proprio, contestualismo) definiscono in diversi modi, salvaguardando il fatto che la giustificazione è una proprietà normativa, o valutativa: quando diciamo che una credenza è

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giustificata, la valutiamo positivamente, quando diciamo che essa è invece ingiustificata, la valutiamo negativamente, cosicché l’epistemologia tradizionale solleva la domanda normativa «come dovremmo conseguire le nostre credenze affinché risultino giustificate?», e non quella descrittiva «come conseguiamo di fatto le nostre credenze?». A causa del suo carattere normativo, l’epistemologia si distingue quindi da tutte quelle imprese il cui carattere è eminentemente descrittivo, come, per esempio, la psicologia e, più in generale, le scienze cognitive. Questa visione è stata sottoscritta (più o meno esplicitamente) da diversi filosofi del passato, come per esempio, Gottfried W. Leibniz, Immanuel Kant, Gottlob Frege, Ludwig Wittgenstein, per raggiungere uno dei suoi apici in Hans Reichenbach che dichiara: «L’epistemologia non concerne il processo del pensare nel suo svolgimento effettivo; questo compito è interamente affidato alla psicologia. Ciò che l’epistemologia fa è costruire i processi del pensiero nel modo in cui essi devono svolgersi» (H. Reichenbach, Experience and Prediction. An Analysis of the Foundations and the Structure of Knowledge, Chicago 1938, p. 5). Alla tradizione antinaturalista si oppongono molteplici progetti naturalistici. I più noti e dibattuti si devono rispettivamente a Willard v.O. Quine e ad Alvin I. Goldman, che giungono alla naturalizzazione percorrendo due diverse vie. Quine constata la morte di un progetto epistemologico (del fondazionalismo forte), ed evita quindi di proporre una qualsiasi teoria della conoscenza, incitandoci ad abbandonare l’epistemologia in favore delle descrizioni della psicologia; Goldman sviluppa invece teorie normative della conoscenza (la teoria causale e quella affidabilista), ma sostiene che lo studio delle questioni relative alle cause e all’affidabilità vanno affidate alle scienze cognitive. Per naturalizzare l’epistemologia ci sono così due modi: l’uno radicale, stando al quale tutte le questioni epistemologiche sono rimpiazzabili da quelle scientifiche, e l’altro moderato, stando al quale solo alcune questioni epistemologiche sono demandabili alle scienze. Nel primo caso l’epistemologia viene rimpiazzata dalla scienza e la sua forza normativa viene appiattita sulla forza descrittiva della scienza; nel secondo caso, l’epistemologia continua a ritenere parte della sua forza normativa, ma viene ristrutturata grazie

Epistemologia naturalizzata ai contributi scientifici. È ovvio che nel progetto radicale, a differenza di quello moderato, non sono ammesse questioni, riguardo alla natura della conoscenza, che non siano affrontabili grazie ai metodi scientifici: non vi possono cioè comparire analisi della conoscenza o analisi della giustificazione, bensì solo descrizioni empiriche e spiegazioni scientifiche del modo in cui formiamo, conserviamo e rigettiamo le nostre credenze. Sorgono due problemi immediati: uno riguarda l’autonomia dell’epistemologia, l’altro il ruolo delle questioni normative. Circa il primo problema, tutti i naturalisti concordano sulla necessità di rigettare la visione tradizionale, stando alla quale l’epistemologia deve essere integralmente separata dalla scienza. Resta però da capire quale grado di autonomia può venire ancora assegnato all’epistemologia; su questo Quine è drastico: «La vecchia epistemologia aspirava a contenere, in un certo senso, la scienza naturale; la voleva costruire in qualche modo a partire dai dati sensoriali. L’epistemologia del nuovo scenario, viceversa, è contenuta nella scienza naturale come un capitolo della psicologia» (cfr. Epistemology Naturalized, in Ontological Relativity and Other Essays, New York 1969, tr. it. di M. Leonelli, Epistemologia Naturalizzata, in La relatività ontologica e altri saggi, Roma 1986, p. 106). Ci si deve allora arrendere alla psicologia, rinunciare a giustificare le affermazioni scientifiche, e limitarsi a comprendere la scienza come istituzione o processo nel mondo e, in particolare, a comprendere le relazioni tra l’osservazione e la teoria scientifica. A tal fine possiamo «usare qualunque informazione disponibile, inclusa quella fornita dalla scienza stessa il cui legame con l’osservazione stiamo cercando di comprendere» (cfr. ibi, Epistemology Naturalized, tr. cit., p. 100). Questa prospettiva, che nega all’epistemologia qualsiasi tipo di autonomia, risulta inaccettabile non solo per l’antinaturalista, ma anche per il naturalista moderato. La ragione principale è in sostanza la seguente: la scienza non è in grado di assolvere il compito di definire le principali nozioni epistemiche; queste, infatti, sono normative e la scienza è incapace di trattarle. Di conseguenza, il naturalista moderato, come Goldman, ne conclude che l’epistemologia deve rimanere una disciplina con una qualche autonomia: non si tratta ovviamente di un’autonomia totale, così co3463

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Epistemologia naturalizzata me vuole l’antinaturalista, ma comunque sufficiente a garantire all’epistemologia compiti specifici. Il problema del ruolo delle questioni normative è piuttosto serio. Dato che la scienza risulta inadeguata a offrire prescrizioni, il naturalista radicale può giungere ad affermare che le questioni normative non hanno alcuna importanza. Si tratta però di un’affermazione implausibile e soggetta a un’ovvia obiezione da parte dell’antinaturalista: non vi è alcuna ragione valida per abbandonare una sfera concettuale e linguistica che è normativa e che appartiene intrinsecamente agli esseri umani. Il naturalista radicale ha allora una prima opzione a sua disposizione: sostenere che la scienza è in grado di dirci come dovremmo conseguire le nostre credenze, perché il modo con cui conseguiamo di fatto le nostre credenze corrisponde più o meno al modo con cui dovremmo conseguirle. Tuttavia, diversi studi psicologici, come quelli condotti da Richard Nisbett e Lee Ross, dimostrano che i processi cognitivi umani sono assai carenti e rispettano raramente i principi normativi della logica deduttiva, della logica induttiva e della logica della probabilità. Occorre di conseguenza concludere con l’antinaturalista che, attraverso questi processi, non possiamo conseguire credenze capaci di aspirare allo status di conoscenze. Al naturalista radicale rimane una seconda opzione: appellarsi all’epistemologia evoluzionistica (lo ha fatto lo stesso Quine) per sostenere che i principi attraverso cui occorre valutare le nostre credenze sono quelli privilegiati dalla selezione naturale, in quanto principi adatti alla sopravvivenza della specie migliore. Anche quest’opzione presenta problemi: per esempio, dato che c’è una considerevole evidenza a supporto del fatto che alcuni casi paradigmatici di irrazionalità costituiscono comportamenti adattivi, l’antinaturalista rileva opportunamente che non si possono privilegiare principi sottesi all’irrazionalità, in luogo di principi sottesi alla razionalità, perché i principi sottesi all’irrazionalità non sono affatto in grado di condurci alla conoscenza. Abbiamo visto alcune delle difficoltà cui va incontro la naturalizzazione radicale dell’epistemologia. Esse sono ben più ardue rispetto a quelle della naturalizzazione moderata, così come diventerà palese qui di seguito confron3464

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tando la posizione di Quine con quella di Goldman. II. EPISTEMOLOGIA QUINEANA VERSUS EPISTEMOLOGIA GOLDMANIANA. – Proviamo a mettere alla prova l’epistemologia quineana su due questioni essenziali: lo scetticismo e la giustificazione. Per Quine tutti i dubbi scettici sono dubbi scientifici; devono quindi essere ipotesi empiriche trattabili con i soli mezzi scientifici. Quest’idea, tipica di una forma radicale di naturalismo epistemologico, è ovviamente insostenibile. Considerando le ipotesi dello scetticismo globale (l’ipotesi del sogno, l’ipotesi del genio maligno, l’ipotesi del cervello in una vasca), stando alle quali non possiamo conoscere quasi nulla, è palese che non vi sia alcun modo empirico per sapere che non stiamo sognando, che non siamo ingannati da un genio maligno, o che non siamo cervelli in una vasca: ogni esperimento empirico potrebbe essere sempre il frutto di un sogno, o di un inganno a opera di un genio maligno, o della nostra condizione di cervelli in una vasca. L’epistemologia quineana risulta quindi impotente nei confronti dello scetticismo. Venendo alla giustificazione, è ovvio che un’epistemologia radicalmente naturalizzata deve lasciare cadere tale nozione, peculiarmente normativa e del tutto refrattaria a farsi ricondurre entro il quadro descrittivo delle scienze naturali. E non è lecito obiettare che Quine sta proponendo comunque una teoria della giustificazione nel momento in cui afferma che, al fine di modificare una credenza piuttosto che un’altra alla luce di una certa esperienza contraria, siamo guidati da due considerazioni: il conservatorismo e il desiderio di massimizzare la semplicità del nostro sistema globale di credenze. Queste considerazioni non sono infatti normative, ma semplicemente descrittive, poiché si limitano a spiegare il meccanismo causale grazie al quale modifichiamo una credenza piuttosto che un’altra. Il punto è che non sono lecite considerazioni normative in un’epistemologia ridotta a capitolo di una psicologia che è alla sola ricerca del meccanismo causale della nostra conoscenza del mondo esterno: quando l’epistemologo «liberato» finisce con l’essere uno psicologo empirico, termina anche il compito normativo dell’epistemologia. Ma perché l’epistemologia deve essere rimpiazzata dalla psicologia? Secondo Quine, per-

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ché è risultato fallimentare il fondazionalismo di stampo cartesiano, sia nella sua versione razionalista, quando applicato alla nostra conoscenza matematica, sia nella sua versione empirista, quando applicato alla nostra conoscenza del mondo esterno. Occorre però rilevare che il fondazionalismo non può dirsi tout court un programma sepolto: se Quine ha ragione a sostenere la disfatta del fondazionalismo alla ricerca della certezza cartesiana, non ha invece ragione nel pretendere che ogni tipo di fondazionalismo sia giunto a un punto morto. Il fondazionalismo contemporaneo, infatti, pur rinunciando alla ricerca della certezza, continua a mantenere saldi i suoi principi: le credenze sono o di base o derivate da queste in modo inferenziale. Inoltre, anche se ogni forma di fondazionalismo fosse insostenibile, possiamo sempre appellarci ad altre teorie della giustificazione per fare valere un tipo di epistemologia normativa che non può essere appiattita sulla descrittività della scienza. Rispetto al progetto cartesiano, la proposta quineana intende opporsi anche all’epistemologia intesa come filosofia prima. Per il naturalismo, è all’interno della scienza stessa, e non in qualche filosofia prima, che la realtà può e deve essere identificata e descritta, perché non esiste nessun esilio cosmico né nessun punto privilegiato al di fuori del nostro schema concettuale, da cui trascendere al fine di valutare la scienza da un’ottica ontologica neutrale. Il rifiuto della filosofia prima si deve quindi al rifiuto del trascendentalismo. Occorre tuttavia precisare che, a differenza di quanto vuole Quine, non esiste un solo tipo di trascendentalismo. Se è infatti impossibile trascendere tutti gli schemi concettuali, non è altrettanto impossibile trascendere qualche schema concettuale particolare per adottarne, magari provvisoriamente, qualche altro. Ne consegue che l’assenza di un esilio cosmico non impedisce di indagare lo status epistemico della scienza da un punto di vista non scientifico. In termini più espliciti, se non si avanza l’assurda pretesa che tutti i nostri schemi concettuali siano rappresentati dalla nostra attuale teoria scientifica, allora, anche se ci è impossibile trascendere tutti questi nostri schemi, possiamo trascendere qualche schema concettuale particolare, incluso lo schema concettuale particolare della nostra teoria scientifica attuale, al fine di poter indagare lo

Epistemologia naturalizzata status epistemico di questa teoria in modo non circolare. Per valutare le pretese conoscitive della scienza senza pagare lo scotto della circolarità, non possiamo infatti avvalerci della scienza stessa: dobbiamo ricorrere all’epistemologia. Dato però che in un’ottica radicale l’epistemologia viene rimpiazzata dalla scienza, Quine è costretto a decretare inutili gli scrupoli nei confronti della circolarità, e di conseguenza a sottostimare la questione dello status epistemico della scienza. Nessuna ragione cogente ci obbliga a seguirlo su questa strada: non è infatti lecito sostenere né che l’epistemologia tradizionale è fallimentare né che il rifiuto del trascendentalismo comporti di necessità la naturalizzazione radicale dell’epistemologia. La strategia di Goldman è differente. Prende avvio dalla constatazione che, per il problema sollevato da Edmund L. Gettier, la credenza vera e giustificata è necessaria, ma non sufficiente per la conoscenza. In risposta al problema, Goldman (cfr. A Causal Theory of Knowing, in «The Journal of Philosophy», 64, 1967, pp. 357-372) propone la seguente analisi causale: il soggetto cognitivo S sa che la proposizione p è vera se e solo se: (1) p è vera, (2) S crede che p, (3) la credenza di S in p è giustificata, e (4) il fatto p è causalmente connesso in un modo «appropriato» con la credenza di S in p. Quest’analisi considera il soggetto cognitivo come un sistema fisico in un’interazione causale con l’ambiente e risulta carente sotto più di un profilo. Lo stesso Goldman è convinto che essa debba essere rivista e, comunque, integrata con la seguente condizione: «Una credenza vera non è conoscenza se vi sono situazioni alternative rilevanti in cui la proposizione p sarebbe falsa, ma il processo impiegato causerebbe in ogni caso in S la credenza che p. Se vi sono tali alternative rilevanti, allora il processo utilizzato non può discriminare tra loro e la verità di p; così S non sa» (cfr. Epistemology and Cognition, Cambridge [Massachusetts] 1986, p. 46). Una più ampia revisione dell’analisi causale ha portato all’analisi affidabilista, che possiamo esprimere come segue: S sa che p se e solo se: (1) p è vera, (2) S crede che p, 3465

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Epistemologia naturalizzata (3) la credenza di S in p è il risultato (causale) di un processo cognitivo generalmente affidabile di formazione della credenza, e non solo di uno che è (controfattualmente) affidabile per il caso in questione, e (4) la credenza di S in p è giustificata, e ciò vale se e solo se essa è frutto di un processo cognitivo affidabile, ovvero di un processo che produce molte credenze vere. È ovvio che, a differenza di Quine, Goldman si pone il compito di proporre condizioni necessarie e sufficienti per la conoscenza e per la giustificazione, grazie a un’analisi filosofica che rispetta la tradizione normativa. Al contempo, l’analisi non disdegna un approccio naturalistico moderato, stando al quale occorre connettere l’epistemologia alla psicologia: la prima ci dice che, al fine di conoscere o di avere credenze giustificate, dobbiamo possedere processi cognitivi affidabili, mentre la seconda deve stabilire se noi esseri umani possediamo di fatto tali processi. Veniamo ora alla questione dello scetticismo. Secondo Goldman, si può replicare alle varie ipotesi sostenendo che possiamo sapere, per es., che vi è una tastiera di un computer di fronte a noi perché non dobbiamo discriminare tra questo stato di cose e la possibilità di stare sognando, o di venire ingannati da un genio maligno o di essere un cervello in una vasca: queste possibilità alternative non sono infatti alternative rilevanti. Occorre, però, notare che al momento non esiste una buona teoria della rilevanza e Goldman stesso ammette di non averne una. Ci troviamo, allora, di fronte a una soluzione che, per quanto non funzioni – in mancanza di una teoria della rilevanza, non disponiamo di alcuna valida ragione per decretare che le ipotesi scettiche non sono alternative rilevanti –, si propone come una risposta filosofica: infatti, il problema dello scetticismo vi viene trattato come un’ipotesi filosofica, e non, al modo di Quine, come un’ipotesi empirica. Se fosse valida, in quanto risposta filosofica garantirebbe però a noi esseri umani la possibilità teorica di conoscere, mentre toccherebbe poi alle scienze cognitive stabilire se disponiamo anche della possibilità empirica – effettiva – di conoscere: a queste scienze viene infatti delegato il compito di indagare l’affidabilità dei nostri processi cognitivi. III. QUALE EPISTEMOLOGIA NATURALIZZATA? – L’epistemologia quineana rifiuta tutto l’impianto 3466

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epistemologico tradizionale: nega il carattere normativo dell’epistemologia; non presenta condizioni necessarie e sufficienti per la conoscenza; non conferisce alcun ruolo al concetto di giustificazione; riduce i dubbi scettici a dubbi scientifici. Ne dobbiamo concludere che la proposta radicale di naturalizzazione può forse rappresentare un’impresa scientifica, ma non può considerarsi un’impresa epistemologica. L’approccio moderato di Goldman si esplicita invece in una teoria affidabilista che presenta tutte le caratteristiche di una vera e propria epistemologia: non si rinuncia alla normatività, si definiscono la conoscenza e la giustificazione, si presenta un tentativo di replicare filosoficamente allo scetticismo. Rimane però da capire se la proposta goldmaniana, oltre a una vera epistemologia, rappresenti anche una vera naturalizzazione. Ammettere la normatività e la giustificazione può infatti comportare ammettere qualcosa di prettamente sovrannaturale, il che è incompatibile con un’ottica sinceramente naturalistica. A una prima occhiata, la normatività sembra sopravvenire su, o dipendere, dalla non normatività, nel senso che pare essere uno standard fattuale – lo standard dell’affidabilità – a determinare la giustificazione. Un’indagine accurata conduce allora a chiedere se lo standard dell’affidabilità sia completamente fattuale. Dato che un processo è considerato affidabile se è in grado di produrre molte credenze vere, occorre pronunciarsi sulla natura della proprietà dell’essere vero. Secondo alcuni, la proprietà dell’essere vero non è una proprietà fattuale, non è un argomento di nessuna corrente o prospettiva della scienza empirica; quindi, l’impiego primitivo di un predicato di verità squalificherebbe l’affidabilismo quale proposta naturalistica. Secondo altri, invece, la proprietà dell’essere vero non presenta alcuna delle caratteristiche di una proprietà normativa (per esempio, dire che una proposizione è vera non implica affermare ciò che deve essere, ma soltanto ciò che è) e, di conseguenza, dobbiamo riconoscere che è una proprietà fattuale; in quest’ottica l’affidabilismo riesce a presentare una sincera naturalizzazione dell’epistemologia. Abbiamo affrontato due soluzioni: quella radicale di Quine, che pur essendo naturalistica, non costituisce una proposta epistemologica, e quella di Goldman che è epistemologica e

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che può risultare pienamente naturalistica. Abbiamo così compreso la direzione da imboccare se desideriamo naturalizzare l’epistemologia: essa non può che essere moderata. Solo la naturalizzazione moderata presenta infatti la capacità di salvaguardare la normatività dell’impresa epistemologica, normatività necessaria per ottenere una vera e propria epistemologia, e non una mera impresa scientifica che, per quanto forse legittima, non può dirsi epistemologica. Dovremmo altrimenti attribuire a «epistemologia» un significato completamente diverso da quello tradizionale. Rimane però ancora da confrontare la proposta moderata con proposte di tipo antinaturalistico: vediamo brevemente perché. La maggior parte degli antinaturalisti sposa una teoria della giustificazione fondazionalista o coerentista e si dichiara internista, mentre la maggior parte dei naturalisti moderati sposa l’affidabilismo e si dichiara esternista. Per gli internisti, il soggetto cognitivo deve essere capace di determinare se le sue credenze sono giustificate e, quindi, le giustificazioni devono essere in suo possesso. Per gli esternisti, invece, l’affidabilità dei processi cognitivi dipende, in parte, dalle condizioni dell’ambiente in cui tali processi si trovano a operare, e da ciò consegue che la giustificazione è questione della giusta combinazione dei processi con l’ambiente esterno. Tra gli internisti e antinaturalisti più convinti c’è Laurence Bonjour, stando al quale la giustificazione deriva dalla consapevolezza del soggetto e da una serie di ragionamenti condotti a priori, cosicché le giustificazioni a favore delle credenze sono possibili, in quanto internamente accessibili al soggetto cognitivo. Bonjour si mostra molto critico nei confronti degli esternisti: se il soggetto cognitivo non possiede giustificazioni interne a favore delle proprie credenze, allora, almeno per quanto può dire il soggetto, le giustificazioni sono arbitrarie, ed è implausibile accettare giustificazioni arbitrarie per conseguire l’obiettivo epistemico della verità. Di fronte a quest’obiezione, l’esternista può vedersi costretto ad ammettere che l’affibabilità dei processi cognitivi, pur necessaria, è insufficiente ai fini della giustificazione e, quindi, ad accettare la richiesta dell’accessibilità interna. La mossa, però, rappresenta una concessione non solo all’internismo, ma anche a teorie come il fondazio-

Epistemologia pedagogica nalismo o il coerentismo e al loro antinaturalismo, il che pone qualche difficoltà all’affidabilismo se vogliamo che esso si presenti come un’epistemologia naturalizzata. N. Vassallo BIBL.: W.V.O. QUINE, From a Logical Point of View, Cambridge (Massachussets) 1953, trad. it. di E. Mistretta, Il problema del significato, Roma 1966; W.V.O. QUINE, The Nature of Natural Knowledge, in S. GUTTENPLAN (a cura di), Mind and Language, Oxford 1975; R. NISBETT - L. ROSS, Human Inference: Strategies and Shortcomings of Social Judgment, Englewood Cliffs (New Jersey) 1980, tr. it. di M.T. Fenoglio, L’inferenza umana. Strategie e lacune del giudizio sociale, Bologna 1989; W.V.O. QUINE, Pursuit of Truth, Cambridge (Massachusetts) 1990; D. PAPINEAU, Philosophical Naturalism, Oxford 1993; H. KORNBLITH (a cura di), Naturalizing Epistemology, Cambridge (Massachusetts) 19942; P. ENGEL, Philosophie et psychologie, Paris 1996, tr. it. di E. Paganini, Filosofia e psicologia, Torino 2000; N. VASSALLO, La naturalizzazione dell’epistemologia. Contro una soluzione quineana, Milano 1997; A. PAGNINI, Il naturalismo in epistemologia, in E. AGAZZI - N. VASSALLO (a cura di), Introduzione al naturalismo filosofico contemporaneo, Milano 1998; N. VASSALLO, Teorie della conoscenza filosoficonaturalistiche, Milano 1999; H. KORNBLITH (a cura di), Epistemology: Internalism and Externalism, Oxford 2001; A.I. GOLDMAN, The Sciences and Epistemology, in P.K. MOSER (a cura di), The Oxford Handbook of Epistemology, Oxford 2002, pp. 144-176; L. BONJOUR - E. SOSA, Epistemic Justification. Internalism vs. Externalism. Foundations vs. Virtues, Oxford 2003; N. VASSALLO, Teoria della conoscenza, Roma-Bari 2003. ➨ CONOSCENZA, TEORIA DELLA; GIUSTIFICAZIONE, TEORIA DELLA; NATURALISMO FILOSOFICO.

EPISTEMOLOGIA PEDAGOGICA (pedaEpistemologia pedagogica gogic epistemology; pädagogische Epistemologie; épistémologie pédagogique; epistemología pedagógica). – Designa una modalità di riflessione critica, problematica e metateorica propria della pedagogia generale, finalizzata a dare rigore allo statuto scientifico di questo sapere. Il termine «epistemologia» deriva dalle parole greche epistéme e lógos, significanti, rispettivamente, «sapere» e «discorso», ma anche «pensiero». SOMMARIO: I. Il delinearsi del problema epistemologico in pedagogia. - II. L’identità dell’epistemologia pedagogica - III. Le questioni aperte del dibattito epistemologico in pedagogia negli ultimi decenni. I. IL DELINEARSI DEL PROBLEMA EPISTEMOLOGICO IN PEDAGOGIA. – La riflessione epistemologica in pedagogia inizia a profilarsi con chiarezza in3467

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Epistemologia pedagogica torno alla seconda metà degli anni sessanta e i primi anni settanta del Novecento, quando accanto a una rinnovata attenzione per l’educazione e la formazione si affianca il bisogno di riorganizzare e reinterpretare la struttura conoscitiva della pedagogia in modo più rigoroso. Già nel 1806, Johann Friedrich Herbart poneva, nella sua Allgemeine Pädagogik aus dem Zweck der Erziehung abgeleitet (Göttingen 1806, tr.it. di I. Volpicelli, Pedagogia generale derivata dal fine dell’educazione, Firenze 1997), la questione relativa a una fondazione scientifica della pedagogia, ma quella teorizzazione, nell’edificare la scientificità della pedagogia sulla base della scienza psicologica, non restituiva ancora una nitida consapevolezza epistemologica né la specificità del discorso pedagogico. Anche Giovanni Gentile ha affrontato, in Del concetto scientifico della pedagogia (in «Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei», 9, 1900) e, poi, in Sommario di pedagogia come scienza filosofica (Firenze 1912), il problema inerente la scientificità della pedagogia, ma solo per decretare la subordinazione della pedagogia al sapere filosofico. Bisogna, così, attendere la fine degli anni sessanta del Novecento affinché la questione epistemologica in pedagogia cominci a profilarsi con maggior nitore, per poi fiorire durante gli anni settanta e ottanta. In questo periodo, in Italia, i nomi di Aldo Agazzi, Giovanni Maria Bertin, Sergio De Giacinto, Giuseppe Flores d’Arcais, Alberto Granese, Mauro Laeng, Raffaele Laporta, Carmela Metalli di Lallo, Aldo Visalberghi si segnalano come alcune delle voci pedagogiche impegnate a rielaborare e a costruire lo statuto epistemologico della pedagogia in quanto scienza. In particolare, Analisi del discorso pedagogico (Padova 1966), di Carmela Metalli di Lallo, e Filosofia analitica e problemi educativi (Firenze 1968), di Alberto Granese, emergono quali testi di rilievo problematico ed epistemologico. Tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta, si sviluppa, sia in Italia che in Europa, un ampio numero di ricerche a sfondo epistemologico. In Italia ne sono interpreti, tra gli altri, Giuseppe Acone, Piero Bertolini, Franco Cambi, Riccardo Massa. Questi ultimi – insieme ad altri studiosi di area pedagogica – prenderanno parte al dibattito apertosi con la pubblicazione, nel 1986, del cosiddetto «documento Granese-Bertin», intitolato Che cos’è la pedagogia? Un dibattito tra studiosi italiani, pub3468

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blicato sulle pagine della rivista fiorentina «Scuola e città» (7, 1986, pp. 273-286). Anche in Germania, in Francia, Inghilterra e Spagna il problema epistemologico della pedagogia prende forma attraverso una rilettura critica della struttura euristica, logica, contenutistica e linguistica di questo sapere. Logic and Language of Education (New York 1966, tr. it. di N. Ponzanelli, Logica e linguaggio della pedagogia, Brescia 1975) di George Kneller, The Logic of Education (London 1970) di Richard Stanley Peters, Metatheorie der Erziehung (München 1978, tr. it di L. Pusci, Metateoria dell’educazione, Roma 1980) di Wolfgang Brezinka e Introduction aux sciences des l’éducation (Paris 1985, tr. it. di B. Schettini, Introduzione alle scienze dell’educazione, Roma-Bari 1989) a cura di Gaston Mialaret sono alcuni dei volumi che, insieme ai lavori firmati da autori come Winfried Böhm, Maurice Debesse, Niklas Luhmann, Olivier Reboul, Israel Scheffler attestano la presenza di una riflessione di matrice epistemologica nella pedagogia europea. L’incremento in pedagogia di studi a sfondo critico-epistemologico si fa testimone di un preciso bisogno gnoseologico: la pedagogia, affinché possa essere riconosciuta in quanto scienza, abbisogna di uno statuto epistemologico capace di formalizzare e sistematizzare il suo discorso alla luce di criteriologie di ricerca e paradigmi euristici più rigorosi. II. L’IDENTITÀ DELL’EPISTEMOLOGIA PEDAGOGICA. – Oltre ad essere una scienza pedagogica, l’epistemologia pedagogica si configura quale metateoria della conoscenza propria della pedagogia generale, nonché quale filosofia del suo essere. Finalizzata a costruire un’architettura scientifica rigorosa della pedagogia, l’epistemologia pedagogica non è tuttavia una modalità di pensiero in grado di elaborare risposte «certe» agli interrogativi che animano la pedagogia stessa. Ciò in quanto l’epistemologia pedagogica riflette la natura anfibolica e poliedrica della pedagogia: sapere deputato a studiare il problema della formazione e dell’educazione dell’uomo. L’epistemologia pedagogica prende forma all’interno della riflessione pedagogica, allorché questo sapere assume consapevolezza critico-problematica delle proprie logiche, dei propri contenuti e dei propri linguaggi, nonché quando si interroga sui livelli della conoscenza – prassi, teoria, metateoria e teoresi – che la

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strutturano e la contraddistinguono. Essa, inoltre, compie un’indagine metariflessiva sui paradigmi della ricerca pedagogica, sulle metodologie conoscitive, sulle teleologie e le axiologie che orientano l’agire educativo e formativo all’interno delle prassi. Pur essendo una riflessione deputata a regolare e a formalizzare la ricerca pedagogica, l’epistemologia pedagogica non cristallizza la pedagogia entro criteri gnoseologici rigidi, bensì apre i confini di questa scienza all’incontro con altri saperi, preservandone l’identità e la specificità speculativa. Così, uno dei compiti dell’epistemologia pedagogica coincide con il governare le logiche interdisciplinari, intradisciplinari e transdisciplinari che collocano la pedagogia all’interno di un panorama scientifico dove il dialogo con altri saperi si rivela essere decisivo. In quanto pensiero erotematico – cioè volto a elaborare domande – l’epistemologia pedagogica pone la pedagogia di fronte a interrogativi fondamentali, interpretando i quali la scienza generale della formazione e dell’educazione dell’uomo ha la possibilità di pervenire a una più chiara enucleazione del proprio discorso. Compito precipuo della riflessione epistemologica in pedagogia è porre tale scienza di fronte a se stessa, elaborando e dando forma a interrogativi capaci di portare in emersione la problematicità che anima questo sapere. Tra le domande a cui l’epistemologia pedagogica dà voce si segnalano: «quale significato assume, per la pedagogia, il termine scienza?», «quando la pedagogia può essere definita scienza?», «quali sono le logiche che strutturano la ricerca pedagogica?», «come si rapporta la pedagogia ai propri oggetti di studio?», «quale fondamento hanno le teorie pedagogiche?», «come avviene la morte di una teoria?», «come conosce la pedagogia?», «le dimensioni conoscitive della prassi, della teoria, della metateoria e della teoresi, come si relazionano fra loro?», «che rapporto sussiste tra teoria pedagogica e prassi educative?», «in quale orizzonte si radicano i princìpi che orientano il sapere pedagogico?», «quali sono le teorie delle idee, le teorie della conoscenza e le teorie della cultura che sostanziano la pedagogia?». Nel formulare interrogativi, l’epistemologia pedagogica pone alla pedagogia il problema della sua essenza, ossia interroga il sapere pedagogico sulla legittimità e il rigore delle proprie conoscenze. Con ciò, l’epistemologia pedago-

Epistemologia pedagogica gica sospinge la riflessione pedagogica sino alla dimensione poietica, nella quale le conoscenze non vengono dedotte, bensì create. Proprio in quest’ultimo significato, l’epistemologia pedagogica contribuisce a far sì che la pedagogia possa essere un «laboratorio eidetico» (cfr. M. Gennari - A. Kaiser, Prolegomeni alla pedagogia generale, Milano 2000) capace di generare fertili mappe euristiche. Riflettendo sul «congegno» della pedagogia (cfr. F. Cambi, Il congegno del discorso pedagogico. Metateoria ermeneutica e modernità, Bologna 1986), l’epistemologia pedagogica sospinge il discorso pedagogico verso l’acquisizione di una problematicità speculativa e di una criticità euristica che forniscono alla pedagogia il rigore di scienza. III. LE QUESTIONI APERTE DEL DIBATTITO EPISTEMOLOGICO IN PEDAGOGIA NEGLI ULTIMI DECENNI. – Gli ultimi decenni del Novecento vedono la pedagogia impegnata a ridefinire il proprio statuto di scienza. La progressiva presa di coscienza della poliedrica problematicità che innerva la pedagogia generale ha sospinto le voci più accreditate del panorama pedagogico contemporaneo a interrogarsi su aspetti fondamentali di questo sapere, dando forma a un articolato dibattito pedagogico-epistemologico tutt’ora in corso. All’interno di tale dibattito, sono riconoscibili alcune prospettive di ricerca, rispetto alle quali, tuttavia, gli studiosi di pedagogia non sempre mostrano pareri concordanti. Tra le questioni che animano la controversia epistemologica in pedagogia si segnalano: a) la presa di coscienza delle interconnessioni fra epistemologia pedagogica ed epistemologia generale; b) il riconoscimento di una struttura sia teorica che pratica della scienza pedagogia; c) una rilettura del rapporto storico tra pedagogia e filosofia alla luce di più solide conoscenze epistemologiche; d) il rilievo del paradigma ermeneutico in pedagogia e il ruolo del metodo empirico-sperimentale; e) l’analisi delle forme della conoscenza pedagogica: prassi, teoria, metateoria e teoresi; f) il rapportarsi della pedagogia con le scienze dell’educazione, le scienze pedagogiche e le scienze della formazione, quindi il problema dell’interdisciplinarità, dell’intradisciplinarità e della transdisciplinarità; g) la possibilità di riconoscere legittimità al livello teoretico di riflessione in pedagogia; h) la fecondità del dialogo tra pedagogia generale e filosofia dell’educazio3469

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Epistemologia popperiana ne; i) i sensi e i significati dei concetti di «educazione» e «formazione»; l) l’identità della figura culturale, deontologica e professionale del pedagogista. Rispetto a tali questioni, in cui viene configurandosi l’identità della pedagogia come scienza, gli studiosi non sono ancora pervenuti a conclusioni unanimi, e ciò attesta sia come la riflessione epistemologica rappresenti un problema ancora aperto in pedagogia, sia come l’epistemologia pedagogica implichi continue decostruzioni e ricostruzioni del discorso pedagogico finalizzate a istituire, attraverso un pensare dialettico, problematico, critico e interpretativo, lo statuto scientifico della pedagogia. G. Sola BIBL.: S. DE GIACINTO (a cura di), Epistemologia pedagogica tedesca contemporanea, Brescia 1974; R. MASSA, La scienza pedagogica. Epistemologia e metodo educativo, Firenze 1975; AA.VV., Letture di epistemologia tedesca, Brescia 1986; S. DE GIACINTO (a cura di), Letture di epistemologia pedagogica tedesca, Brescia 1986; A. GRANESE, Al termine di un dibattito, in «Scuola e città», 4 (1988), pp. 183-190; M. GENNARI, Interpretare l’educazione. Pedagogia, semiotica e ermeneutica, Brescia 1992; F. CAMBI, Manuale di filosofia dell’educazione, Roma-Bari 2000; F. CAMBI - E. COLICCHI - M. MUZI - G. SPADAFORA, Pedagogia generale. Identità, modelli, problemi, Milano 2001; G. SOLA (a cura di), Epistemologia pedagogica. Il dibattito contemporaneo in Italia, Milano 2002. ➨ DISCORSO PEDAGOGICO; EDUCAZIONE; EPISTEMOLOGIA; FORMAZIONE; PEDAGOGIA GENERALE; RICERCA PEDAGOGICA; SCIENZA PEDAGOGICA.

EPISTEMOLOGIA POPPERIANA. – SOMEpistemologia popperiana MARIO: I. Opere «epistemologiche».

- II. Il «problema di Hume». - III. Il «problema di Kant». IV. Problemi logici e metodologici connessi alla controllabilità di una teoria. - V. Un unico metodo per la ricerca scientifica. - VI. Problemi logici connessi allo sviluppo della scienza. VII. La razionalità delle teorie filosofiche. - VIII. Un’ulteriore difesa del realismo e dell’indeterminismo. - IX. «L’io e il suo cervello»: una posizione antiriduzionistica. - X. Le ragioni della insostenibilità dello storicismo e dell’olismo. XI. Individualismo metodologico e autonomia della sociologia. - XII. L’analisi situazionale. I. OPERE «EPISTEMOLOGICHE». – Karl R. Popper (Vienna 1902 - Londra 1994) ha esposto la sua concezione epistemologica soprattutto nelle seguenti opere: Logik der Forschung, Wien 1934

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(ma con data di stampa 1935), tr. ingl. The Logic of Scientific Discovery, London 1959, tr. it. di M. Trinchero, Logica della scoperta scientifica, Torino 1970; Conjectures and Refutations. The Growth of Scientific Knowledge, London 1963, tr. it. di G. Pancaldi, Congetture e confutazioni, Bologna 1972; Objective Knowledge. An Evolutionary Approach, Oxford 19732 (1972), tr. it. di A. Rossi, Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico, Roma 1975; Postscript to the Logic of Scientific Discovery, vol. I: Realism and the Aim of Science; vol. II: The Open Universe; vol. III: Quantum Theory and the Scism in Physics (in bozze sin dal 1959), London 1982-83, tr. it. a cura di W.W. Bartley, Poscritto alla Logica della scoperta scientifica, vol I: Il realismo e lo scopo della scienza, tr. it. di M. Benzi - S. Mancini; vol. II: L’universo aperto: un argomento per l’indeterminismo, tr. it. di R. Festa; vol. III: La teoria dei quanti e lo scisma della fisica, tr. it. di A. Artosi, Milano 1984; Scienza e filosofia: cinque saggi, ed. it. a cura di M. Trinchero, Torino 1969; Die beiden Grundprobleme der Erkenntnistheorie, Tübingen 1979, tr. it. di M. Trinchero, I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza, Milano 1987; in collaborazione con J.C. Eccles, The Self and Its Brain, Berlin - Heidelberg London - New York 1977, tr. it. di G. Mininni B. Continenza, L’io e il suo cervello, Roma 1981; A World of Propensities, Bristol 1990, tr. it. di A. Benini, Un universo di propensioni, Firenze 1991, nuova ed. con Introduzione di M. Baldini, Roma 1996; Alles Leben est Problemlösen, München 1994, tr. it. di D. Antiseri, Tutta la vita è risolvere problemi, Milano 2001 (1996); Replies to My Critics, in P.A. Schilpp (a cura di), The Philosophy of Karl Popper, vol. II, La Salle (Illinois) 1974; Unended Quest, in P.A. Schilpp (a cura di), The Philosophy of Karl Popper, vol. II, La Salle (Illinois) 1974, tr. it. di D. Antiseri, La ricerca non ha fine, Roma 19973 (1977). II. IL «PROBLEMA DI HUME». – Già nelle prime pagine della Logica della scoperta scientifica Popper faceva presente che, secondo un punto di vista largamente accettato, le scienze empiriche sarebbero caratterizzate dal fatto di usare metodi induttivi – vale a dire inferenze che procederebbero da asserzioni singolari ad asserzioni universali. Sennonché, egli osserva, «da un punto di vista logico, è tutt’altro che ovvio che si sia giustificati nell’inferire asserzioni universali da asserzioni singolari, per quanto numerose siano queste ultime; infatti qualsiasi conclusione

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tratta in questo modo può sempre rivelarsi falsa: per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver osservato, ciò non significa la conclusione che tutti i cigni sono bianchi» (Logik der Forschung, Wien 1934 [ma con data di stampa 1935], tr. it. di M. Trinchero, Logica della scoperta scientifica, Torino 1970, pp. 5-6). Per Popper, in breve, la credenza che noi facciamo uso dell’induzione è semplicemente un errore, una specie di illusione ottica: «L’induzione non esiste, e la concezione opposta è un errore bell’e buono» (The Problem of Induction, in Replies to My Critics, in P.A. Schilpp [a cura di], The Philosophy of Karl Popper, vol. II, La Salle [Illinois] 1974, qui p. 1015). Nel passato il termine «induzione» è stato usato in due accezioni principali: a) induzione per enumerazione e b) induzione per eliminazione. La mancanza di validità dell’induzione per enumerazione, dice Popper, è ovvia: «Nessun numero di cigni bianchi riesce a stabilire che tutti i cigni sono bianchi (o che la probabilità di trovare un cigno che non sia bianco è piccola). Allo stesso modo, per quanti spettri di atomi d’idrogeno osserviamo non potremo mai stabilire che tutti gli atomi d’idrogeno emettono spettri dello stesso genere [...]. Dunque l’induzione per enumerazione è fuori causa: non può fondare nulla» (Problemi, scopi e responsabilità della scienza, in Scienza e filosofia: cinque saggi, ed. it. a cura di M. Trinchero, Torino 1969, qui p. 151). D’altro canto i sostenitori dell’induzione per eliminazione, come Bacone e Mill, credevano che, eliminando tutte le teorie false, si potesse far valere quella vera; ma essi «non si rendevano conto che il numero delle teorie rivali è sempre infinito, anche se, di regola, in ogni momento particolare possiamo prendere in considerazione un numero finito di teorie» (ibi, pp. 151-152). È per ragioni logiche, pertanto, che Popper dichiara fuori causa sia l’induzione per ripetizione che l’induzione per eliminazione. Il problema dell’induzione è «il problema di Hume». E fu proprio attraverso Hume, che Popper si accostò alla questione dell’induzione accettando prontamente la tesi di Hume secondo la quale l’induzione non può essere giustificata logicamente. «La critica humiana dell’inferenza induttiva – afferma Popper – mi parve chiara e decisiva» (La scienza: congetture e confutazioni, in Congetture e confutazioni, tr. it di G Pancaldi, Bologna 1972, qui p. 77). E, tut-

Epistemologia popperiana tavia, egli respinge la spiegazione psicologica che Hume offre dell’induzione in termini di abitudine. Per Hume, la nostra abitudine di credere in leggi è il prodotto della frequente ripetizione. Le cose, però, stanno ben diversamente, ad avviso di Popper, giacché la ripetizione non è che generi una aspettativa consapevole: essa prende piuttosto l’avvio da una credenza consapevole. In breve, la soluzione di Hume è errata perché le abitudini non traggono origine dalla ripetizione: «L’abitudine stessa di camminare, di parlare, o di mangiare a certe ore, ha inizio prima che la ripetizione possa svolgervi qualsiasi parte» (ibi, pp. 78-79). Inoltre, l’idea centrale della dottrina di Hume consiste nella ripetizione, basata sulla similarità o somiglianza di cose di una certa specie. Ma questo sta a dirci a chiare lettere che, «per ragioni logiche, deve esserci sempre un punto di vista – un sistema di aspettazioni, anticipazioni, assunzioni, o interessi – prima che possa darsi una qualsiasi ripetizione; e questo punto di vista, di conseguenza, non può essere semplicemente il risultato della ripetizione» (ibi, p. 81). Legata alla teoria induttivistica è la credenza che sia possibile partire da delle osservazioni pure, incontaminate dalla teoria, che si presenterebbero, dunque, a una mente priva di pregiudizi. Le osservazioni pure, cioè libere da teorie, e la mente come tabula rasa, simile a una lavagna vuota o a un foglio bianco sono «miti, false storie, invenzioni di filosofi». Sbagliano coloro che pensano che le osservazioni debbano precedere le aspettazioni. Idea, questa, che Popper cerca di illustrare usando i suoi uditori (o lettori) come cavie: «Il mio esperimento – egli specifica – consiste nel chiedervi di osservare, qui, e ora. Spero che voi tutti stiate cooperando, e osserviate! Ma temo che qualcuno di voi, invece di osservare, provi il forte impulso a chiedermi: “Che cosa vuoi che osservi?”». Commenta Popper: «Se questa è la vostra risposta, allora il mio esperimento è riuscito. Infatti, quello che sto tentando di mettere in chiaro è che, allo scopo di osservare, dobbiamo avere in mente una questione ben definita, che possiamo essere in grado di decidere mediante l’osservazione. Charles Darwin lo sapeva, quando scrisse: “Com’è strano che nessuno veda che ogni osservazione non può non essere che pro o contro qualche teoria”» (Problemi, scopi e responsabilità della scienza, cit., p. 141). Ogni nostra osservazione è imbrattata di teo3471

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Epistemologia popperiana ria» (ibi, p. 128). Le osservazioni e gli esperimenti sono il tribunale dell’immaginazione teorica. La mente purgata da ogni teoria, così come voleva Bacone, «non sarà una mente pura: sarà solo una mente vuota» (ibi, p. 127). III. I L « PROBLEMA DI KANT». – Se il problema dell’induzione è il «problema di Hume», il problema della demarcazione è, per Popper, il «problema di Kant». Problema così formulabile: «Quale procedimento caratterizza la scienza della natura, a fronte della metafisica?» (Die beiden Grundprobleme der Erkenntnistheorie, Tübingen 1979, tr. it. di M. Trinchero, I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza, Milano 1987, p. 299). I neopositivisti, tramite il loro principio di verificazione, tentarono di demarcare tra linguaggio sensato (delle scienze empiriche) e linguaggio insensato (della metafisica). Sennonché, afferma Popper, «i positivisti, nella loro ansia di distruggere la metafisica, distruggono, con essa, la scienza della natura. Infatti le leggi scientifiche non possono, a loro volta, essere ridotte a osservazioni empiriche elementari» (Logik der Forschung, Wien 1934 [ma con data di stampa 1935], tr. it. di M. Trinchero, Logica della scoperta scientifica, Torino 1970, pp. 16-17). In breve, quel che i neopositivisti vogliono non è tanto una efficace demarcazione quanto piuttosto lo scalzamento e l’annichilimento della metafisica (ibi, p. 16). In fondo, essi non fanno altro che tentare di eliminare la metafisica lanciandole improperi (ibi, p. 19). Diversamente dai neopositivisti, Popper prese un’altra strada: volle distinguere non tra linguaggio sensato e linguaggio insensato, ma tra scienza empirica e non-scienza. In realtà, come risulta da una lettera inviata al direttore della rivista «Erkenntnis», risulta che Popper non appena sentì parlare del nuovo criterio di verificabilità del significato elaborato dal Circolo gli contrappose il suo criterio di falsificabilità: «Un criterio di demarcazione destinato a demarcare sistemi di asserzioni scientifici da sistemi perfettamente significanti di asserzioni metafisiche» (cfr. Ein Kriterium des empirischen Charakters theoretischer Systeme, in «Erkenntnis», 3, 1932-33, pp. 426-427; rist. in Logik der Forschung, tr. cit., pp. 345-348). E che le asserzioni metafisiche siano significanti (e non cumuli di rumori o semplici gridi dell’anima) si può vedere – annotava Popper – considerando la questione da un punto di vista sto3472

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rico, giacché la metafisica «è la fonte da cui rampollano le teorie delle scienze empiriche» (ibi, p. 348). Stabilita l’inconsistenza del principio di verificazione e appurato che le teorie metafisiche sono perfettamente significanti, Popper avanza l’idea di falsificabilità di una teoria quale criterio di demarcazione tra scienza e non-scienza, come «una proposta per un accordo o convenzione» (Logik der Forschung, tr. cit., p. 18), la quale sarà valutata in base alla fertilità delle sue conseguenze. Ecco, dunque, la sua proposta: «Io ammetterò certamente come empirico, o scientifico, soltanto un sistema che possa essere controllato dall’esperienza. Queste considerazioni suggeriscono che, come criterio di demarcazione, non si deve prendere la verificabilità, ma la falsificabilità di un sistema. In altre parole: da un sistema scientifico non esigerò che sia capace di essere scelto, in senso positivo, una volta per tutte; ma esigerò che la sua forma logica sia tale che possa essere messo in evidenza, per mezzo di controlli empirici, in senso negativo: un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza. Così l’asserzione: “Domani qui pioverà o non pioverà” non sarà considerata un’asserzione empirica, semplicemente perché non può essere confutata, mentre l’asserzione “Qui domani pioverà” sarà considerata empirica» (ibi, p. 22). A questo punto va sottolineato che la falsificabilità, in quanto criterio di demarcazione, è una questione puramente logica: «Ha a che fare soltanto con la struttura logica delle asserzioni e delle classi di asserzioni. E non ha niente a che fare con la questione della possibilità che certi possibili risultati sperimentali vengano o meno accettati come falsificazioni» (Introduction [1982] a Postscript to the Logic of Scientific Discovery, vol. I: Realism and the Aim of Science, London 1983, tr. it. di M. Benzi - S. Mancini, Introduzione a Poscritto alla Logica della scoperta scientifica, vol. I: Il realismo e lo scopo della scienza, Milano 1984, qui p. 9). Ciò nel senso che «un’asserzione o una teoria è [...] falsificabile se e solo se esiste un falsificatore potenziale, almeno un possibile asserto di base che entri logicamente in conflitto con essa. È importante non pretendere che l’asserto di base in questione sia vero. La classe degli asserti di base è intesa in modo che un asserto di base descriva un evento logicamente possibile la cui osservabilità sia logicamente possibile» (ibi, pp. 9-10). In termini meno tecnici:

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quando parliamo di falsificabilità di un sistema stiamo parlando di un sistema o di una teoria che è possibile controllare, cioè falsificare, a opera di esperimenti e osservazioni. E la falsificabilità di una teoria – quale criterio di demarcazione tra scienza e non-scienza – è una proposta che si basa sull’asimmetria tra verificabilità e falsificabilità, asimmetria che risulta dalla forma logica delle asserzioni universali: «Queste, infatti, non possono mai essere derivate da asserzioni singolari, ma possono venir contraddette da asserzioni singolari» (Logik der Forschung, tr. cit., p. 23). Da ciò consegue che «è possibile, per mezzo di inferenze puramente deduttive (con l’aiuto del modus tollens della logica classica), concludere dalla verità di asserzioni singolari alla falsità di asserzioni universali. Un tale ragionamento, che conclude alla falsità di asserzioni universali, è il solo tipo di inferenza strettamente deduttiva che proceda, per così dire, nella “direzione induttiva”; cioè da asserzioni singolari ad asserzioni universali» (ibid.). Una teoria universale, quindi, non può venir verificata, mentre è possibile falsificarla: «Un insieme di asserti osservativi singolari (“asserti di base” [...]) può falsificare o confutare a volte una legge universale; ma non può assolutamente verificare una legge, nel senso di dimostrarla» (Postscript to the Logic of Scientific Discovery, vol. I: Realism and the Aim of Science, tr. cit., pp. 197-198). IV. PROBLEMI LOGICI E METODOLOGICI CONNESSI ALLA CONTROLLABILITÀ DI UNA TEORIA. – Nell’orizzonte della soluzione sia del «problema di Hume» che del «problema di Kant» diventano comprensibili le seguenti considerazioni: a) la falsificazione logica di una teoria va distinta dalla falsificazione metodologica: la prima è un processo ingenuo e definitivo; la seconda, invece, è un procedimento sofisticato e non definitivo; b) non è definitivo, poiché potrebbe essere falsa non tanto la teoria sotto controllo, quanto piuttosto una ipotesi ausiliaria o qualche condizione iniziale o qualche asserto-di-base; c) quindi anche la falsificazione di una teoria resta fallibile; d) come non incontrovertibile è la base empirica della scienza – in quanto ogni asserzionebase può venire a sua volta controllata con l’aiuto di altre asserzioni e teorie (Logik der Forschung, tr. cit., p. 98);

Epistemologia popperiana e) ciò per la ragione che non sono possibili asserzioni in grado di ridarci in termini neutrali e definitivi un’esperienza: «Tutti i termini sono in qualche misura teorici, anche se alcuni sono più teorici di altri», talché «l’usuale distinzione tra “termini osservativi” (o “termini non-teorici”) e termini teorici è erronea» (Tre differenti concezioni della conoscenza umana, in Congetture e confutazioni, tr. cit., p. 205). Quel che va detto è che «non c’è un linguaggio libero da teorie (theory-free) per descrivere i dati, poiché i miti (vale a dire le teorie primitive) affiorano assieme al linguaggio (cfr. Epistemologia senza soggetto conoscente, in Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico, tr. it. di A. Rossi, Roma 1975, qui p. 198); e ciò equivale a dire che «non ci sono cose come le percezioni o dati di senso che non siano costruiti su delle teorie (o su delle aspettazioni, che sono i precedenti biologici delle teorie formulate linguisticamente). I “dati”, pertanto, non sono la base delle teorie, né garantiscono per le teorie: essi non sono più sicuri di qualsiasi altra delle nostre teorie o “pregiudizi”, ma, se mai, lo sono ancor meno [...]» (ibi, pp. 197-198); f) i controlli di una teoria seguono, afferma Popper, quattro differenti linee: si controlla la coerenza interna della teoria; si guarda se la teoria ha carattere empirico o è di natura tautologica; si confronta la nuova teoria con le altre teorie, allo scopo «di determinare se la teoria costituisce un progresso scientifico, nel caso sopravviva ai vari controlli a cui l’abbiamo sottoposta»; infine «c’è il controllo della teoria mediante le applicazioni empiriche delle conclusioni che possono essere derivate da essa» (Logik der Forschung, tr. cit., pp. 11-12); g) Quine ha ragione quando sostiene che «nessuna proposizione è immune da correzione»; ma ha torto, ad avviso di Popper, allorché afferma che «le nostre proposizioni sul mondo esterno si sottopongono al tribunale dell’esperienza sensibile non individualmente, ma solo in modo solidale» (W.v.O. Quine, Due dogmi dell’empirismo, in Il problema del significato, tr. it. di E. Mistretta, Roma 1966, qui p. 39). È questa l’idea di controllo olistico a cui sarebbe connessa l’altra idea relativa all’impossibilità degli experimenta crucis. Sennonché, una rivoluzione totale del nostro sapere non è logicamente possibile, perché per falsificare l’intero sistema del sapere avremmo in ogni caso bisogno di un seppur minimo pezzo di sapere ac3473

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Epistemologia popperiana cettato momentaneamente per buono e indipendente dal sistema sotto controllo: «La critica non parte mai da nulla, anche se tutti i pezzi di partenza possono essere messi in discussione, uno per volta, nel corso del dibattito critico. Ma anche se ciascuno dei presupposti può essere messo in discussione, è assolutamente impossibile metterli in discussione tutti in una volta. Ogni critica, dunque, deve essere condotta pezzo per pezzo (contrariamente a quanto sostiene la concezione olistica di Duhem e Quine)» (K.R. Popper, Verità, razionalità e accrescersi della conoscenza scientifica, in Congetture e confutazioni, tr. cit., p. 408); h) il criterio di demarcazione costituito dall’idea di falsificabilità fattuale di una teoria non è un’ipotesi empirico-scientifica, quindi non è confutabile empiricamente: si tratta «di una tesi filosofica, ossia d’una tesi della metascienza»; ma non è neppure un dogma; è una proposta criticabile (e che è stata criticata da più parti) – «una proposta che ha dato buona prova di sé nella discussione seria» (Die beiden Grundprobleme der Erkenntnistheorie, tr. cit., p. XXVII). È un criterio che «non è stato ricavato dall’osservazione del fare e disfare degli scienziati» e nemmeno dallo studio della storia della scienza; e, tuttavia, «ci aiuta a far storia della scienza, perché ci dice che cosa dobbiamo considerare e che cosa non dobbiamo considerare come appartenente alla storia della scienza empirica» (ibid.; cfr. anche Logik der Forschung, tr. cit., cap. 10); i) Il criterio di falsificabilità trova la sua genesi nella soluzione che il giovane Popper cercò di dare, nel 1919, al problema di «stabilire una distinzione fra scienza e pseudoscienza, pur sapendo bene che la scienza spesso sbaglia e che la pseudoscienza può talora, per caso, trovare la verità» (La scienza: congetture e confutazioni [1953], rist. in Congetture e confutazioni, tr. cit., p. 61). E fu il confronto tra la teoria della relatività di Einstein da una parte e la teoria marxista della storia, la psicanalisi di Freud e la psicologia individuale di Adler dall’altra che indusse Popper a constatare che mentre le teorie di Marx, Freud e Adler erano inconfutabili, non essendo concepibile nessun fatto che le potesse contraddire, la teoria di Einstein, confermata proprio nel 1919 dai risultati della spedizione di Eddington, aveva invece rischiato di venir smentita, era cioè falsificabile. Da qui, una serie di considerazioni: 1) è facile ot3474

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tenere conferme o verifiche, se quel che cerchiamo sono conferme; 2) le conferme hanno valore solo se sono il risultato di previsioni rischiose; 3) ogni teoria scientifica è una «proibizione»; e, più preclude, migliore è; 4) «l’inconfutabilità di una teoria non è (come spesso si crede) un pregio, bensì un difetto» (ibi, p. 66); 5) «la controllabilità coincide con la falsificabilità» (ibi, pp. 66-67) e vi sono gradi di controllabilità; 6) le ipotesi ad hoc o le reinterpretazioni ad hoc della teoria sono sempre possibili: salvano la teoria dalla confutazione distruggendone, o almeno pregiudicandone, lo status scientifico. In estrema sintesi: «Il criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità, confutabilità, o controllabilità» (ibi, p. 67). V. UN UNICO METODO PER LA RICERCA SCIENTIFICA. – Nella Prefazione (1956) al Poscritto alla logica della ricerca scientifica Popper fa presente che non esiste alcun metodo scientifico in nessuno di questi tre sensi: «1. Non c’è alcun metodo per scoprire una teoria scientifica. 2. Non c’è alcun metodo per accertare la verità di una ipotesi scientifica, cioè nessun metodo di verificazione. 3. Non c’è alcun metodo per accertare se un’ipotesi è “probabile” o “probabilmente vera”» (Postscript to the Logic of Scientific Discovery, vol. I: Realism and the Aim of Science, tr. cit., p. 37). Non esiste un metodo per scoprire una teoria scientifica, nel senso che non c’è una procedura di routine o meccanica per scoprire una nuova teoria. È netta la distinzione tracciata da Popper tra la psicologia e la logica della ricerca: «Ogni scoperta contiene un “elemento irrazionale” o “un’intuizione creativa” nel senso di Bergson» (Logik der Forschung, tr. cit., p. 11). D’altra parte, non c’è neppure nessun metodo di verificazione, se per veri-ficazione si intende una procedura capace di accertare, dimostrare la verità di una teoria, in grado, cioè, di farla vera, di stabilirne la certa verità. Non siamo in possesso di un criterio di verità – un punto, questo, su cui Popper si dichiara completamente d’accordo con Alfred Tarski: «Tutta la conoscenza umana – egli scrive – rimane fallibile, congetturale. Non esiste nessuna giustificazione, compresa, beninteso, nessuna giustificazione definitiva di una confutazione» (Postscript to the Logic of Scientific Discovery, vol. I: Realism and the Aim of Science, tr. cit., p. 24). E, da ultimo, non c’è un metodo per accertare se una teoria è «probabile» o «pro-

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babilmente vera». E ciò perché «considerando che ogni ipotesi universale h va talmente al di là di qualunque evidenza empirica e, la sua probabilità p (h, e) rimarrà sempre pari a zero, perché l’ipotesi universale afferma qualcosa relativamente a un numero infinito di casi, mentre il numero dei casi osservati non può che essere finito» (ibi, p. 234). Che nei tre sensi ora precisati non esista nessun metodo scientifico, non significa, per Popper, che non esista metodo scientifico. Ed ecco la sua proposta: «La mia concezione del metodo della scienza è semplicemente questa: esso sistematizza il metodo prescientifico dell’imparare dai nostri errori: lo sistematizza grazie allo strumento che si chiama discussione critica. Tutta la mia concezione del metodo scientifico si può riassumere dicendo che esso consiste di questi tre passi: 1) inciampiamo in qualche problema; 2) tentiamo di risolverlo, ad esempio proponendo qualche nuova teoria; 3) impariamo dai nostri sbagli, specialmente da quelli che ci sono resi presenti dalla discussione critica dei nostri tentativi di risoluzione. O, per dirla in tre parole: problemi – teorie – critiche. Credo che in queste tre parole, problemi – teorie – critiche, si possa riassumere tutto quanto il metodo di procedere della scienza razionale» (Problemi, scopi e responsabilità della scienza, cit., p. 146). La ricerca scientifica avanza per congetture e confutazioni e «progredisce da problemi ad altri problemi di profondità sempre crescente» (Verità, razionalità e accrescersi della conoscenza scientifica, in Congetture e confutazioni, cit., p. 380). E il metodo della ricerca è unico, vale per tutta la scienza razionale. Per cui dal punto di vista metodologico la distinzione tra scienze fisico-naturali e discipline umanistiche è un errore: «Elaborare la differenza tra scienza e discipline umanistiche è stato a lungo una moda ed è diventato noioso. Il metodo di risoluzione dei problemi, il metodo delle congetture e confutazioni sono praticati da entrambe. È praticato nella ricostruzione di un testo danneggiato, come nella costruzione di una teoria della radioattività» (La teoria del pensiero oggettivo, in Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico, tr. it. di A. Rossi, Roma 1975, qui p. 242). Parlando di Gadamer, Popper ha sostenuto: «Io ho mostrato che l’interpretazione dei testi (ermeneutica) lavora con metodi schiettamente scientifici» (Autointerpretazione filosofica e polemica

Epistemologia popperiana contro i dialettici, in C. Grossner, I filosofi tedeschi contemporanei: tra neomarxismo, ermeneutica e razionalismo critico, tr. it. di F. Volpi, Roma 1977, qui p. 353). E da ultimo: «Il metodo delle scienze sociali, come anche quello delle scienze naturali, consiste nella sperimentazione di tentativi di soluzione per i loro problemi [...]» (La logica delle scienze sociali, in AA.VV., Dialettica e positivismo in sociologia, tr. it. di A. Marietti Solmi, Torino 1972, qui p. 102). VI. PROBLEMI LOGICI CONNESSI ALLO SVILUPPO DELLA SCIENZA. – a) Le nostre teorie sono e restano fallibili. Di conseguenza l’individuazione dell’errore e la sua eliminazione è un punto cardine della ricerca scientifica. «Evitare errori è un ideale meschino: se non osiamo affrontare problemi che siano così difficili da rendere l’errore quasi inevitabile, non vi sarà allora sviluppo della conoscenza. In effetti, è dalle nostre teorie più ardite, incluse quelle che sono erronee, che noi impariamo di più. Nessuno può evitare di fare errori; la cosa grande è imparare da essi» (La teoria del pensiero oggettivo, in Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico, tr. it. di A. Rossi, Roma 1975, qui p. 242). Siffatta fondamentale considerazione «ci insegna, molto semplicemente, che dobbiamo andare alla ricerca dei nostri errori o, in altri termini, che dobbiamo cercare di criticare le nostre teorie. La critica è ovviamente il solo mezzo che abbiamo per scoprire i nostri errori e imparare da essi in maniera sistematica» (Fatti, standard e verità. Un’ulteriore critica del relativismo, in Addenda a La società aperta e i suoi nemici, vol. II, qui p. 474; cfr. anche p. 489); b) noi discutiamo criticamente le nostre teorie: «Le sottoponiamo a controlli ed eliminiamo quelle teorie che giudichiamo essere meno valide per risolvere i problemi che desideriamo risolvere: in questo modo solo le teorie migliori, quelle che sono le più idonee, sopravvivono nella lotta. Questo è il modo in cui cresce la scienza» (Epistemologia evoluzionistica, tr. it. di S. Corato, in «Paradigmi», 2, 1984, qui p. 5). Ciò equivale a dire che lo sviluppo della nostra conoscenza è il risultato di un processo strettamente rassomigliante a quello chiamato da Darwin «selezione naturale» – vale a dire: la selezione naturale delle ipotesi. «La nostra conoscenza consiste, in ogni momento, di quelle ipotesi che hanno dimostrato il loro (relativo) adattamento sopravvivendo fino a ora nella lotta per l’esistenza; una lotta concorrenziale 3475

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Epistemologia popperiana che elimina quelle ipotesi che sono inadatte» (Evolution and the Tree of Knowledge, in Objective Knowledge. An Evolutionary Approach, Oxford 19732 [1972], tr. it. di A. Rossi, L’evoluzione e l’albero della conoscenza, in Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico, Roma 1975, qui p. 346; si veda anche Alles Leben est Problemlösen, München 1994, tr. it. di D. Antiseri, Tutta la vita è risolvere problemi, Milano 2001 [1996], p. 126). In breve: lo sviluppo della nostra conoscenza è, ad avviso di Popper, uno «sviluppo darwiniano» delle idee. È questo il nucleo teorico dell’epistemologia evoluzionistica. Usando «P» per problema; «TS» per tentativo di soluzione; «EE» per eliminazione dell’errore, è possibile raffigurare lo sviluppo della scienza tramite il seguente schema: P, TS, EE, P2, dove il secondo problema P2 è diverso dal primo problema P1. Tuttavia, data, in linea generale, la molteplicità dei tentativi di soluzione, uno schema più adeguato risulta essere il seguente:

c) per congetture e confutazioni si avanza verso teorie migliori, più potenti, più ricche di contenuto informativo. Da simile, quasi ovvia, constatazione Popper fa discendere una conclusione in qualche modo «paradossale», in quanto se una teoria è migliore di un’altra qualora abbia maggiore contenuto informativo, allora, migliore di un’altra è una teoria meno probabile. Sia a l’assunto «Venerdì pioverà»; b l’assunto «Sabato sarà bello»; e ab l’assunto «Venerdì pioverà e sabato sarà bello». È ovvio che il contenuto informativo dell’asserto costituito dalla congiunzione ab eccederà quello delle singole componenti a e b. Ma è anche evidente che la probabilità di ab (cioè la probabilità che ab sia vera) sarà inferiore a quella di ciascuna delle sue componenti. In breve: «Se [...] il nostro scopo è l’avanzamento, o l’accrescersi, della scienza, un’alta probabilità (nel senso del calcolo delle probabilità) non può essere parimenti il nostro proposito: questi due propositi sono incompatibili» (Verità, razionalità e accrescersi della conoscenza scientifica, in Congetture e confutazioni, cit. p. 373); 3476

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d) Alfred Tarski ha riabilitato l’idea di verità come accordo tra teorie e fatti, ma insieme ha affermato che noi non possediamo un criterio di verità. Questo per la ragione che le teorie alternative a una teoria T sono in linea di principio infinite e per la ragione che, date le infinite conseguenze di una teoria e dato il numero comunque sempre limitato dei controlli effettivi, noi non potremmo mai sapere se i controlli successivi (a quelli di volta in volta eseguiti) confermeranno o no la teoria: «Non conosciamo e abbiamo molto poche possibilità di scoprire un criterio di verità che ci consenta di dimostrare che nessun enunciato di una teoria è falso» (A. Tarski, The semantic Conception of Truth and the Foundations of Semantics [1944], tr. it. di A. Meotti, La concezione semantica della verità e i fondamenti della semantica, in A. Linsky [a cura di], Semantica e filosofia del linguaggio, Milano 1969, qui p. 62). Tali risultati insieme alla consapevolezza dello sterminato numero di teorie falsificate offertoci dalla storia della scienza hanno fatto sì che Popper affrontasse, da una prospettiva logica, il problema del progresso della scienza con la proposta dell’idea di verosimiglianza o verisimilitudine al fine di valutare la progressività di una teoria T2 (falsa) nei confronti di un’altra teoria T1 (anch’essa falsa). Assumendo che il contenuto di verità e il contenuto di falsità di due teorie t1 e t2 siano paragonabili, possiamo dire che t2 è più verosimile, più vicina alla verità, di t1, se e solo se: a) il contenuto di verità, ma non il contenuto di falsità, di t2 supera quello di t1, b) il contenuto di falsità di t1, ma non il suo contenuto di verità, supera quello di t2 (Verità, razionalità e accrescersi della conoscenza scientifica, cit., pp. 398 ss.). Con ciò Popper ha risposto alla domanda su che cosa si intenda allorché si dice che una teoria t2 è più verosimile di una teoria t1. Domanda, questa, diversa dall’altro interrogativo: «Come sai che t2 è più verosimile di t1?», interrogativo che comporta una risposta di tipo congetturale relativa all’eventuale effettiva maggior verosimiglianza di una teoria t2 nei confronti di una teoria t1. Nel 1974 Pavel Tichý, John Harris e David Miller dimostrano l’inconsistenza delle definizioni popperiane di verisimilitudine, in quanto tra due teorie false una non può essere più vera di un’altra. Questo per la ragione che se in una teoria falsificata aumentano le conse-

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guenze vere, allora aumentano anche le conseguenze false; e se, sempre in una teoria falsificata, diminuiscono le conseguenze false, in essa diminuiscono anche le conseguenze vere. Risultati, questi, che mostrano l’inconsistenza della proposta di Popper, stando alla quale una teoria (falsificata) diventa più verosimile se aumentano le conseguenze vere e non quelle false, ovvero se diminuiscono le conseguenze false e non quelle vere (cfr. sull’intera questione: A. O’Hear, Karl Popper, London 1980, tr. it. di S. Sacchitella - G. Boniolo, Karl Popper, Roma 1984, pp. 76-90). Popper riconobbe subito il suo errore: «[...] accettai la critica della mia definizione, pochi minuti dopo che mi fu presentata»; aggiunse, però, che tale errore non scuoteva minimamente la propria teoria della conoscenza, la quale dal 1933 in avanti «è gagliardamente cresciuta ed è molto usata dagli scienziati di mestiere» (Introduction [1982] a Postscript to the Logic of Scientific Discovery, vol. I: Realism and the Aim of Science, tr. cit., p. 25). L’obiezione, sostiene Popper, viene superata non parlando più di tutti i problemi che l’una o l’altra teoria potrebbe risolvere, ma relativizzando il contenuto della teoria «ai nostri problemi rilevanti – quei problemi che lo scienziato militante considererebbe come rilevanti» (Supplementary Remarks [1978], in Objective Knowledge. An Evolutionary Approach, ed. riveduta, Oxford 1979, qui p. 368); e) cerchiamo teorie, aneliamo alla scoperta di teorie universali, per la ragione che senza teorie non sono possibili né la spiegazione né la previsione. «Dare una spiegazione causale di un evento significa dedurre un’asserzione che lo descrive, usando come premesse una o più leggi generali, insieme con alcune asserzioni singolari dette condizioni iniziali» (Logik der Forschung, tr. cit., p. 44). In realtà, non possiamo mai parlare di causa ed effetto in modo assoluto, in quanto «un evento è causa di un altro evento, che ne è l’effetto, solo in relazione a qualche legge universale» (La società aperta e i suoi nemici, vol. II, p. 311). Siamo qui dinanzi al modello di spiegazione nomologico-deduttivo (detto anche «modello Popper-Hempel»), modello che rende conto anche della natura della previsione: date le leggi e individuate le cause, si potrà predire il fenomeno che ci interessa. E sempre in base al modello è possibile distinguere le scienze in: 1) scienze teoretiche o generalizzanti, se abbiamo interesse a controlla-

Epistemologia popperiana re una teoria per vedere se regge agli urti della critica; 2) scienze storiche, se intendiamo spiegare, con l’aiuto di leggi generali, fatti accaduti; 3) scienze applicate, qualora, sempre con l’aiuto di teorie universali, prevediamo fatti. VII. LA RAZIONALITÀ DELLE TEORIE FILOSOFICHE. – Con il criterio della falsificabilità Popper non propone un criterio di significanza, quanto piuttosto un criterio per «distinguere tra scienze empiriche da un lato e la matematica e la logica, e così pure i sistemi “metafisici”, dall’altro» (Logik der Forschung, tr. cit., p. 14). Le idee metafisiche sono del tutto significanti; idee un tempo empiricamente incontrollabili sono diventate in seguito, con la crescita del sapere di fondo, empiricamente controllabili – ma la questione di maggior peso, riguardo alle idee filosofiche o metafisiche, è se esse siano razionali. In più d’uno scritto Popper è tornato esplicitamente sul problema: La natura dei problemi filosofici e le loro radici nella scienza (1952); La critica kantiana e la cosmologia (1954); Lo status della scienza e della metafisica (1958); La demarcazione tra scienza e metafisica (1955, ma pubblicato nel 1984) – scritti rinvenibili in Congetture e confutazioni, cit.; Come io vedo la filosofia (1978), rist. in Auf der Suche nach einer besseren Welt. Vorträge und Aufsätze aus dreissig Jahren, München 1984, tr. it. di B. Di Noi, in Alla ricerca di un mondo migliore. Conferenze e saggi di trent'anni di attività, Roma 1989. Noto è lo scontro, che ebbe luogo al Moral Sciences Club di Cambridge all’inizio dell’anno accademico 1946-47, tra Wittgenstein e Popper sulla natura dei problemi e delle teorie filosofiche (cfr. Unended Quest, in P.A. Schilpp [a cura di], The Philosophy of Karl Popper, vol. II, La Salle [Illinois] 1974, tr. it. di D. Antiseri, La ricerca non ha fine, Roma 19973 [1977], pp. 139140). Per Wittgenstein i problemi filosofici non erano altro che «perplessità linguistiche» bisognose di una «terapia linguistica» in grado di risolverli dissolvendoli, cioè riducendoli a problemi di altri ambiti, come quello logico, o quello matematico, o scientifico ecc. Per Popper, invece, si danno autentici problemi filosofici e genuine teorie filosofiche. Genuini problemi filosofici che «sono radicati in urgenti problemi esterni alla filosofia, come, per esempio, in matematica, nella cosmologia, in politica o in religione» (La natura dei problemi filosofici e le loro radici nella scienza, in Congetture e confutazioni, cit., p. 126). Problemi filosofici 3477

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Epistemologia popperiana (su questo o quel senso della storia o su nessun senso della storia; sulla conoscenza scientifica; sulla verità; sull’unico o su più diversi metodi di ricerca; sullo stato; sulla possibilità o meno di una giustificazione razionale delle norme etiche; sul determinismo o l’indeterminismo e così via) che reclamano soluzioni filosofiche irriducibili alle teorie scientifiche e di fronte alle quali l’unico atteggiamento razionale è l’atteggiamento critico, consistente nel «tentare col massimo accanimento possibile di scalzare la nostra soluzione, anziché di tentare di difenderla» (Logik der Forschung, tr. cit., p. XXII). Ma come è possibile scalzare teorie filosofiche se esse non sono fattualmente controllabili, cioè falsificabili? Di fatti, se fossero falsificabili sarebbero scientifiche e non filosofiche. A questo nevralgico interrogativo ne L’epilogo metafisico del Poscritto alla logica della scoperta scientifica Popper risponde: «Non penso più, come un tempo, che ci sia una differenza fra scienza e metafisica su questo importantissimo punto. Ritengo che una teoria metafisica sia simile a una teoria scientifica. È senz’altro più vaga e inferiore sotto molti altri aspetti, e la sua non confutabilità, o mancanza di controllabilità, è il suo maggior difetto. Ma, nella misura in cui una teoria metafisica può venir razionalmente criticata, dovrei essere disposto a prendere sul serio la sua implicita rivendicazione ad essere considerata, almeno provvisoriamente, come vera. E, soprattutto, dovrei essere disposto a valutarla attraverso una stima di questa rivendicazione – considerando dapprima il suo interesse teorico e solo secondariamente la sua utilità pratica (in quanto distinta dalla sua fecondità come programma di ricerca). L’utilità o inutilità pratiche si possono ritenere importanti soprattutto perché assomigliano a un controllo della verità – come può spesso darsi in connessione con una teoria scientifica» (Postscript to the Logic of Scientific Discovery, vol. III: Quantum Theory and the Scism in Physics, London 1982, tr. it. di A. Artosi, Poscritto alla logica della scoperta scientifica, vol. III: La teoria dei quanti e lo scisma della fisica, Milano 1984, p. 203). La stima della rivendicazione di una teoria filosofica o metafisica ad essere considerata vera, va effettuata «in rapporto alla situazione problematica con cui è collegata» (ibid.). E ogni discussione critica di una teoria metafisica «consisterà, soprattutto, nell’esaminare in che misura lo faccia meglio 3478

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di altre teorie rivali; se non crei delle difficoltà maggiori di quelle che intende dissipare; se la soluzione sia semplice; quanto feconda nel suggerire nuovi problemi e nuove soluzioni, e se non sarebbe eventualmente possibile confutarla mediante controlli empirici. Quest’ultimo metodo non è, beninteso, applicabile se la teoria è metafisica. Ma gli altri metodi possono ben essere applicabili. Ecco perché è possibile la discussione razionale o critica di alcune teorie metafisiche. Beninteso, possono esserci altre teorie metafisiche che non sono suscettibili di discussione razionale» (ibi, pp. 203-204). Dunque: si danno teorie metafisiche che sono razionali; razionali perché criticabili; e criticabili qualora sia possibile che si scontrino con qualche pezzo di Mondo 3 all’epoca consolidato e al quale non siamo disposti, all’epoca, a rinunciare – per esempio, una teoria scientifica, un teorema matematico, un risultato di logica, un’altra teoria metafisica ecc. In tal modo, come ha sottolineato anche W.W. Bartley (in The retreat to commitment, New York 1962, tr. it. di A. Rainone, Ecologia della razionalità, Roma 1990), la confutabilità o falsificabilità fattuale delle teorie scientifiche è solo un caso della più ampia razionalità – la quale, appunto, consiste nella falsificabilità delle teorie scientifiche e nella criticabilità delle teorie metafisiche. E qui va fatto presente che gran parte del lavoro di Popper è consistito proprio nell’argomentare a supporto di alcune teorie filosofiche (fallibilismo, realismo, indeterminismo ecc.) e nel criticarne altre (induttivismo, determinismo, essenzialismo, idealismo, storicismo, marxismo, teoria cospiratoria della società, olismo, utopismo ecc.). VIII. UN’ULTERIORE DIFESA DEL REALISMO E DELL’INDETERMINISMO. – Il realismo e lo scopo della scienza è il titolo del primo volume del Poscritto. In una indagine articolata in quattro fasi (logica, metodologica, epistemologica e metafisica) Popper sottopone di nuovo a una critica serrata l’induttivismo, visto come la fonte principale del soggettivismo e dell’idealismo (cfr. Postscript to the Logic of Scientific Discovery, vol. I: Realism and the Aim of Science, London 1983, cit., pp. 115 ss.); argomenta contro l’interpretazione soggettiva della probabilità, quando questa viene intesa come uno stato soggettivo di conoscenza insufficiente; propone la sua interpretazione propensionale della probabilità, il cui assunto di fondo è che «le propensioni

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non sono semplici possibilità, bensì realtà fisiche, reali come le forze o i campi di forze. E viceversa: le forze sono propensioni» (A World of Propensities, Bristol 1990, tr. it. di A. Benini, Un universo di propensioni, Firenze 1991, nuova ed. con Introduzione di M. Baldini, Roma 1996, p. 20). E non va dimenticato che «le propensioni non dovrebbero venir considerate come una proprietà inerente all’oggetto, come un dato o una moneta da un penny, bensì come inerenti a una situazione (della quale naturalmente l’oggetto fa parte)» (ibid.; cfr. Postscript to the Logic of Scientific Discovery, vol. I: Realism and the Aim of Science, tr. cit., pp. 358-369). L’universo aperto. Un argomento per l’indeterminismo è il secondo volume del Poscritto, dove Popper respinge sia il determinismo «metafisico» che quello «scientifico» e mostra come la fisica classica non presupponga né implichi il determinismo; e dove espone le sue ragioni a favore dell’indeterminismo. «La ragione principale della mia convinzione è l’argomento intuitivo [...] che la creazione di una nuova opera, come la sinfonia in sol minore di Mozart, non può essere prevista, in tutti i suoi dettagli, da un fisico, o da un fisiologo, che studi minuziosamente il corpo di Mozart – specialmente il suo cervello – e il suo ambiente fisico. La concezione opposta sembra intuitivamente assurda; in ogni caso, sembra ovvio che sarebbe estremamente difficile produrre argomenti ragionevoli a suo favore, e che attualmente non esiste nulla a suo sostegno, all’infuori di un pregiudizio semi-religioso, o del pregiudizio che l’onniscienza della scienza si avvicini in un certo qual modo, anche se soltanto in teoria, all’onniscienza divina» (Postscript to the Logic of Scientific Discovery, vol. II: The Open Universe, London 1982, tr. it. di R. Festa, Poscritto alla Logica della scoperta scientifica, vol. II: L’universo aperto: un argomento per l’indeterminismo, Milano 1984, p. 55). Più in particolare: il carattere approssimato di tutta la conoscenza umana; l’asimmetria tra passato e futuro («il passato è completamente determinato da ciò che è accaduto», mentre «tutta la vita, tutte le nostre attività, sono assorbite dai tentativi di influenzare il futuro» (ibi, pp. 6768); l’imprevedibile crescita della conoscenza umana (ibi, p. 74): sono questi alcuni degli argomenti con cui Popper sottopone a critica il determinismo – teoria che, peraltro, risulta inconsistente giacché se il determinismo fosse

Epistemologia popperiana vero noi non potremmo sapere in modo razionale che è vero; saremmo semplicemente costretti ad accettarlo (ibi, p. 93). La sua critica al determinismo viene considerata da Popper come «una sorta di prolegomeno al problema della libertà e creatività umana e lo legittima fisicamente e cosmologicamente in un modo che non dipende da analisi verbali» (ibi, p. 17). La teoria dei quanti e lo scisma della fisica costituisce il terzo volume del Poscritto. In esso «Popper porta il proprio attacco giusto al cuore del dibattito in corso nella fisica quantistica. In un periodo in cui molti fisici di provata serietà sono induttivisti, soggettivisti, positivisti, strumentalisti – e tentano di fondare tali posizioni nella fisica – Popper propone un’interpretazione della fisica, e in verità un’intera cosmologia, che è deduttivistica, realistica, antipositivistica e antistrumentalistica» (W.W. Bartley, Prefazione a K.R. Popper, La teoria dei quanti e lo scisma della fisica, tr. it. di A. Artosi, in K.R. Popper, Poscritto alla Logica della scoperta scientifica, a cura di W.W. Bartley, vol. III: La teoria dei quanti e lo scisma della fisica, Milano 1984, qui p. 11). In realtà, in questo terzo volume del Poscritto, Popper riesamina e di nuovo critica le tesi utilizzate dai sostenitori della concezione idealistica della fisica quantitativa; e, nella persuasione che i problemi di interpretazione della meccanica quantistica siano da ricondurre a problemi connessi all’interpretazione del calcolo delle probabilità, ripropone l’interpretazione propensionale della probabilità, in una esauriente articolazione delle sue critiche alle interpretazioni dominanti della teoria dei quanti. «Il messaggio di questo libro – egli scrive – è il realismo. Esso ha un legame con l’oggettività, anche nella teoria della probabilità. Questo legame produce l’interpretazione propensionale. Il realismo è connesso con il razionalismo, con la realtà della mente umana, della creatività e della sofferenza umana» (Postscript to the Logic of Scientific Discovery, vol. III: Quantum Theory and the Scism in Physics, London 1982, tr. cit., p. 16). IX. «L’IO E IL SUO CERVELLO»: UNA POSIZIONE ANTIRIDUZIONISTICA. – Popper pubblica, nel 1977, insieme a John C. Eccles, L’io e il suo cervello, dove contro la posizione riduzionistica e materialistica difende una concezione interazionistica, stando alla quale esistono sia gli stati mentali che quelli fisici che interagiscono. Ripropone, insomma, una specie di dualismo cartesiano, 3479

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Epistemologia popperiana ristabilendo, all’interno di una concezione evolutiva, l’esistenza della coscienza e dell’autocoscienza. Per Popper, l’universo o, meglio, la sua evoluzione è creativa o emergente (The Self and Its Brain, Berlin - Heidelberg - London New York 1977, tr. it. di G. Mininni - B. Continenza, L’io e il suo cervello, Roma 1981, vol. I, p. 28). E riassumendo, in uno schema ipersemplificato, quelli che possono essere alcuni dei più significativi eventi di tale evoluzione creativa, Popper distingue tre mondi: il Mondo 1, il Mondo 2 e il Mondo 3.

C’è, dunque, il Mondo 1, l’universo delle entità fisiche. Ed esiste, per Popper, il Mondo 2, il mondo degli stati mentali, comprendenti gli stati di coscienza, le disposizioni psicologiche e gli stati inconsci. Ma c’è anche un terzo mondo: «Per Mondo 3 – egli scrive – intendo il mondo dei prodotti della mente umana, come i racconti, i miti esplicativi, gli strumenti, le teorie scientifiche (sia vere che false), i problemi scientifici, le istituzioni sociali e le opere d’arte» (ibi, vol. I, p. 55). E i prodotti del Mondo 3, come le teorie, sono in un certo grado autonomi dagli individui che li hanno creati. Così, per esempio, la successione dei numeri naturali è una costruzione umana, tuttavia, sebbene siamo stati noi a creare questa successione, essa crea i suoi propri problemi: «La distinzione tra numeri pari e numeri dispari non è creata da noi; essa è piuttosto una non intenzionale e 3480

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inevitabile conseguenza della nostra creazione. I numeri primi, ovviamente, sono in maniera analoga, fatti autonomi non intenzionali e oggettivi; e nel loro caso è ovvio che ci sono molti fatti per noi da scoprire: ci sono congetture come quella di Goldbach» (Epistemologia senza soggetto conoscente, in Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico, cit., p. 165). Considerazioni del genere portano Popper ad affermare l’esistenza di oggetti incorporei del Mondo 3. E se il comprendere, l’afferrare un oggetto del Mondo 3 è un processo attivo, «un atto di produzione di quell’oggetto, la sua ricreazione» (The Self and Its Brain, tr. cit., vol. I, p. 62), questo vuol dire che c’è interazione tra Mondo 2 e Mondo 3. D’altra parte, se è chiara l’influenza del Mondo 1 sul Mondo 2, è lampante l’influenza del Mondo 3, per esempio delle teorie scientifiche, sul Mondo 1, pur se occorre badare che gli oggetti del Mondo 3 hanno un effetto sul Mondo 1 solo attraverso l’intervento umano, vale a dire il Mondo 2 (ibi, vol. I, p. 66). Tra i prodotti del Mondo 3 fondamentale, nella prospettiva di Popper, è il linguaggio. Il suo maestro Karl Bühler aveva distinto tre funzioni del linguaggio: 1) la funzione espressiva; 2) la funzione segnaletica; 3) la funzione descrittiva. Le prime due funzioni sono comuni agli animali e agli uomini, mentre quella descrittiva è la funzione che, secondo Bühler, è specifica del linguaggio umano. Tale funzione presuppone le altre due e centrale è il fatto che con essa si fanno asserzioni che possono essere vere o false. «L’invenzione della lingua umana descrittiva, con la libertà fondamentale di descrivere la realtà scrupolosamente, oppure di inventare una storia, è [...] la base della mente umana, ed è ciò che ci divide sostanzialmente dai nostri predecessori» (Il posto della mente umana nella natura, in Tre saggi sulla mente umana, ed. it. a cura di A. Benini, Roma, qui p. 43). Alle tre funzioni (espressiva, segnaletica, descrittiva) Popper ha aggiunto la funzione argomentativa, la quale presuppone quella descrittiva, giacché gli argomenti «criticano le descrizioni dal punto di vista delle idee regolative della verità, del contenuto e della verisimilitudine» (Epistemologia senza soggetto conoscente, cit., p. 167). E se il linguaggio umano è un prodotto dell’inventiva della mente umana, «la mente umana è, a sua volta, il prodotto dei

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suoi stessi prodotti» (Il posto della mente umana nella natura, cit., p. 47). Inoltre, diversamente da Hume, Popper è persuaso che gli io esistono: «Le persone ovviamente esistono e ognuna di esse è un io individuale, con sentimenti, speranze e timori, dolori e gioie, paure e sogni, che noi possiamo soltanto supporre, poiché sono noti solo a colui o a colei che li prova» (The Self and Its Brain, tr. cit., vol. I, p. 128). Esistono gli io; noi però non nasciamo come io: «Dobbiamo imparare ad essere degli io» (ibi, vol. I, p. 136). E imparare a diventare persone implica non soltanto uno stretto contatto con il Mondo 2 delle altre persone, ma anche con il Mondo 3 del linguaggio e delle teorie» (ibi, p. 139). L’io è ancorato al Mondo 3 (ibi, p. 178). Questo per la ragione che il linguaggio umano «ci dà la possibilità di essere non soltanto soggetti, ma anche oggetti del nostro stesso pensiero critico, del nostro giudizio critico» (ibi, pp. 178-179). Noi, ad avviso di Popper, dobbiamo la nostra umanità e la nostra razionalità – e dunque il nostro status di io – al linguaggio umano, e quindi agli altri: «Come io, come esseri umani, noi tutti siamo prodotti del Mondo 3, il quale è a sua volta, un prodotto di innumerevoli menti umane» (ibi, p. 179). L’idea di Mondo 3 è un punto di forza per la concezione popperiana di evoluzione creativa. Infatti, la convinzione di Popper è che «con la comparsa dell’uomo la creatività dell’universo è diventata evidente» – e questo perché l’uomo «ha creato un nuovo mondo oggettivo, il mondo dei prodotti della mente umana [...]. L’esistenza di grandi opere d’arte e di scienza indiscutibilmente creative rivela la creatività dell’uomo e con essa quella dell’universo che ha creato l’uomo» (ibi, p. 28). X. LE RAGIONI DELLA INSOSTENIBILITÀ DELLO STORICISMO E DELL’OLISMO. – Indeterminista in fisica, Popper lo è anche in ambito storico-sociale, dove, prima nel saggio Che cos’è la dialettica? del 1937, e successivamente in Miseria dello storicismo e nei due volumi de La società aperta e i suoi nemici, ha preso di mira quelle concezioni della storia da lui chiamate «storicismo». «Per storicismo – egli precisa – intendo una interpretazione del metodo delle scienze sociali che aspiri alla previsione storica mediante la scoperta dei “ritmi” o dei “patterns”, delle “leggi”, delle “tendenze” che sottostanno all’evoluzione storica» (The Poverty of Historicism, Lon-

Epistemologia popperiana don 1957, tr. it. Miseria dello storicismo, p. 28). Sotto il termine storicismo Popper raggruppa, dunque, tutte quelle concezioni della storia o filosofie della storia – come, per esempio, la dialettica hegeliana o il materialismo storicodialettico di Marx ed Engels – nelle quali si presume di aver colto la legge (o le leggi) che guida (o che guidano) lo sviluppo della storia umana nella sua interezza. Le tesi proposte dagli storicismi vengono distinte da Popper in due differenti gruppi: tesi antinaturalistiche e tesi pronaturalistiche. Con le prime si sostiene che metodi tipici della fisica (come la generalizzazione, la sperimentazione, la spiegazione in termini quantitativi, l’approccio nominalistico) non funzionerebbero nelle scienze sociali, a motivo della variabilità nel tempo e nello spazio dei fatti sociali, della loro novità intrinseca, della loro complessità, della divisione in periodi della vita sociale e di un inevitabile approccio olistico alla comprensione della storia e delle società: «La fisica mira a una spiegazione causale; la sociologia a comprendere le intenzioni e i significati» (ibi, p. 32). Questo insieme di tesi antinaturalistiche non ha tuttavia impedito la proposta di tesi pronaturalistiche, nel preciso senso che, comunque, non si rinuncia affatto all’ipotesi di un elemento comune tra il metodo della fisica e quello delle scienze sociali. Abbagliati dall’enorme potere predittivo della teoria di Newton, influenti storicisti hanno sostenuto che, come per l’astronomia, anche nelle scienze sociali è possibile fare previsioni di lunga scadenza e ad ampio raggio (ibi, pp. 46-47). E, siccome sono possibili uniformità sociali valide al di fuori di periodi limitati nello spazio e nel tempo, le sole leggi della società valide universalmente debbono essere leggi che fanno da anello fra un periodo e l’altro: «Debbono essere leggi di sviluppo storico che determinano la transizione da un periodo all’altro: ecco ciò che gli storicisti intendono quando dicono che le sole leggi della sociologia sono leggi storiche» (ibi, p. 50). E dinnanzi alla scoperta di leggi o forze responsabili del mutamento, lo storicista afferma che «la sola attività perfettamente ragionevole che ci è aperta è quella della levatrice, l’unica che possa essere basata sulla previsione scientifica» (ibi, p. 56). Datti da fare perché accada l’inevitabile: è questo l’insegnamento dello storicista. Una resa ai fatti. 3481

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Epistemologia popperiana Alla tesi di fondo dello storicismo Popper oppone la tesi centrale di Miseria dello storicismo, e cioè che «la credenza diffusa nel determinismo storico e nella possibilità di predire il corso storico razionalmente o “scientificamente” è una credenza errata» (ibi, p. 7). È errata per la ragione che quelle filosofie che ci vengono incontro con la proposta di profezie storiche totalizzanti «sono completamente al di fuori della portata del metodo scientifico» (The Open Society and Its Enemies, vol. I: The Spell of Plato, London 1945, tr. it. La società aperta e i suoi nemici, vol. I: Platone totalitario, p. 21). Più in particolare lo storicismo è insostenibile: 1) perché in esso viene trascurata la distinzione tra predizione scientifica e profezia storica (ibid.): una previsione scientifica è un’asserzione condizionata; una profezia storica è un asserto incondizionato (The Poverty of Historicism, tr. cit., p. 116; si veda anche Previsione e profezia nelle scienze sociali, in Congetture e confutazioni, cit., pp. 575-578); 2) perché i suoi sostenitori non si rendono conto del fatto che una tendenza non è una legge: una tendenza (aumento della popolazione, diminuzione della disoccupazione ecc.) è un’asserzione singolare spiegabile con delle leggi (The Poverty of Historicism, tr. cit., pp. 99-101); 3) perché indissolubilmente collegato con l’olismo – ed è un grave errore metodologico pensare di capire la totalità anche del più piccolo e insignificante pezzo di mondo (ibi, pp. 77 ss.): le teorie scientifiche ci ridanno e non possono non ridarci se non aspetti selettivi della realtà – una descrizione scientifica «è sempre necessariamente selettiva» (ibi, p. 77); 4) perché cade nell’abbaglio del collettivismo consistente nella reificazione di concetti quali «classe», «società» ecc.: non dobbiamo scambiare le nostre costruzioni teoriche con realtà sociali – esistono solo individui (The Open Society and Its Enemies, vol. I: The Spell of Plato, tr. cit., p. 29); 5) perché è del tutto infondata la pretesa dei suoi sostenitori di poter prevedere il futuro della società. Tesi quest’ultima di cui Popper offre la seguente dimostrazione: «a) Il corso della storia umana è fortemente influenzato dal sorgere della conoscenza umana [...]; b) noi non possiamo predire, mediante metodi razionali o scientifici, lo sviluppo futuro della conoscenza scientifica [...]; c) perciò, non possiamo predire il corso futuro della storia umana; d) ciò significa che dobbiamo escludere la possibilità di una storia teorica; cioè di una 3482

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scienza sociale storica che corrisponda alla fisica teorica. Non vi può essere alcuna teoria scientifica dello sviluppo storico che possa servire di base per la previsione storica; e) lo scopo fondamentale dello storicismo [...] è, quindi, infondato. E lo storicismo crolla» (The Poverty of Historicism, tr. cit., pp. 13-14). La storia, per Popper, non ha alcun senso, a eccezione di quello che le diamo noi; di conseguenza, la storia non ci giustifica, ci giudica (cfr. The Open Society and Its Enemies, vol. II: The High Tide of Prophecy: Hegel, Marx and the Aftermath, London 1945, tr. it. La società aperta e i suoi nemici, vol. II: Hegel e Marx falsi profeti, cap. 25, pp. 307-310). «In memoria degli innumerevoli uomini, donne e bambini di tutte le credenze, nazioni o razze che caddero vittime della fede fascista e comunista nelle Inesorabili Leggi del Destino storico». È questa la dedica che Popper prepone a Miseria dello storicismo. Lo storicismo è una concezione errata carica di danni etici e di orrori politici. Il danno etico, prodotto da filosofie della storia dove si presume di aver scoperto l’ineluttabile senso della storia, consiste nella deresponsabilizzazione delle persone (The Open Society and Its Enemies, vol. I: The Spell of Plato, tr. cit., p. 23). E al danno etico segue il disastro politico, vale a dire il totalitarismo (ibi, pp. 29-30). XI. INDIVIDUALISMO METODOLOGICO E AUTONOMIA DELLA SOCIOLOGIA. – «[...] Parlare di società è estremamente fuorviante. Naturalmente si può usare un concetto come la società o l’ordine sociale, ma non dobbiamo dimenticare che si tratta solo di concetti ausiliari. Ciò che esiste veramente sono gli uomini, quelli buoni e quelli cattivi – speriamo non siano troppi questi ultimi – comunque gli esseri umani, in parte dogmatici, critici, pigri, diligenti o altro. Questo è ciò che esiste davvero» (La scienza e la storia sul filo dei ricordi, Bellinzona 1990, pp. 24-25). Esistono gli uomini, i quali agiscono in base alle loro idee; e queste loro azioni producono conseguenze intenzionali e conseguenze inintenzionali. Sono gli uomini che esistono, «ma ciò che non esiste è la società. La gente crede invece alla sua esistenza e di conseguenza dà la colpa di tutto alla società o all’ordine sociale» (ibi, p. 25). E «uno dei peggiori errori è credere che una cosa astratta sia concreta. Si tratta della peggiore ideologia» (ibid.). Considerazioni, queste, che pongono Popper in li-

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nea con la tradizione individualistica dei marginalisti austriaci (Carl Menger, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek), oltre che con la Scuola dei moralisti scozzesi (David Hume, Adam Ferguson, Adam Smith) e con pensatori come Georg Simmel e Max Weber. L’individualismo non si contrappone ad altruismo, bensì a collettivismo, cioè a quelle concezioni che, nullificando la realtà dell’individuo, danno sostanza a concetti collettivi come «partito», «stato», «classe», «nazione» ecc. (The Open Society and Its Enemies, vol. II: The High Tide of Prophecy: Hegel, Marx and the Aftermath, London 1945, tr. cit., p. 269). Per Popper, «la maggior parte degli oggetti della scienza sociale, se non tutti, sono astratti: sono costruzioni teoretiche. Ad alcuni sembrerà strano, ma perfino la “guerra” o “l’esercito” sono costrutti astratti. Uomini uccisi, uomini in divisa ecc., sono ciò che è concreto» (The Poverty of Historicism, London 1957, tr. it. Miseria dello storicismo, p. 121; cfr. anche The Open Society and Its Enemies, vol. I: The Spell of Plato, London 1945, tr. cit., p. 133; Previsione e profezia nelle scienze sociali, in Congetture e confutazioni, tr. cit., p. 579). È un errore comunissimo credere che ai nostri modelli astratti corrispondano «cose» (The Poverty of Historicism, tr. cit., p. 122). E ad esso sfugge il ricercatore che assume come compito di una teoria sociale quello «di costruire e analizzare i nostri modelli sociologici attentamente in termini descrittivi o nominalisti, cioè in termini di individui, dei loro atteggiamenti, delle loro speranze, dei loro rapporti ecc. – postulato che possiamo chiamare “individualismo metodologico”» (ibi, p. 132; e pp. 39-43). Ad agire non sono le istituzioni; agiscono sempre e soltanto gli individui. E le azioni intenzionali comportano conseguenze inintenzionali. E anche qui, in accordo con la Scuola austriaca di economia, Popper sostiene che «il compito principale delle scienze sociali teoriche [...] consiste nel delineare le ripercussioni sociali, non intenzionali, che seguono dalle azioni umane intenzionali» (Previsione e profezia nelle scienze sociali, cit., p. 580). Non tutte le conseguenze delle nostre azioni sono «conseguenze intenzionali, per cui è “compito essenziale delle scienze sociali” cercare e analizzare e, per quanto possibile, prevedere tali conseguenze inintenzionali» (The Open Society and Its Enemies, vol. II: The High Tide of Prophecy:

Epistemologia popperiana Hegel, Marx and the Aftermath, tr. cit., p. 114). Nasce per via non intenzionale un sentiero presso gli animali, e anche presso gli uomini; e questo è «il modo in cui il linguaggio e forse qualsiasi altra istituzione può sorgere [...]. Tali cose non sono né pianificate né volute, e forse di esse non c’era necessità prima che venissero all’esistenza. Ma esse possono creare un nuovo bisogno e un nuovo insieme di fini» (Epistemologia senza soggetto conoscente, in Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico, tr. cit., p. 164). E occorre considerare il fatto che pure dalle azioni intenzionali che vanno a buon porto, scaturiscono non di rado aspetti inattesi, come quando da un giardino ben programmato verranno fuori «alcune impreviste interrelazioni fra gli oggetti pianificati [...]» (ibid.). Dalla consapevolezza che le azioni umane intenzionali comportano conseguenze inintenzionali (prevedibili o all’epoca imprevedibili, gradite o sgradite) seguono conclusioni di grande rilievo per la metodologia delle scienze sociali – conclusioni riguardanti: 1) la genesi e il mutamento delle istituzioni sociali; 2) lo scardinamento della teoria «cospiratoria» della società; 3) l’autonomia della sociologia. 1) Le istituzioni e le tradizioni «non sono il lavoro né di Dio né della natura; esse sono i risultati di azioni e decisioni umane, ed alterabili da azioni e decisioni umane» (The Open Society and Its Enemies, vol. II: The High Tide of Prophecy: Hegel, Marx and the Aftermath, tr. cit., p. 112); tuttavia ciò non vuol dire che queste istituzioni e tradizioni siano tutte coscientemente progettate e spiegabili in termini di progetti intenzionali. In realtà, «solo una minoranza delle istituzioni sociali sono volutamente progettate, mentre la gran maggioranza di esse sono semplicemente venute su, “cresciute” come risultato non premeditato di azioni umane» (The Poverty of Historicism, tr. it. cit., p. 68; e cfr. The Open Society and Its Enemies, vol. II: The High Tide of Prophecy: Hegel, Marx and the Aftermath, tr. cit., p. 112); 2) la teoria cospiratoria della società consiste «nell’opinione secondo cui tutto quel che accade nella società – comprese le cose che la gente, di regola, non ama, come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie – sono il risultato di un preciso proposito perseguito da alcuni individui o gruppi potenti» – come i Saggi di Sion, i monopolisti, i capitalisti, gli 3483

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Epistemologia popperiana imperialisti (Previsione e profezia nelle scienze sociali, cit., p. 580; e anche Per una teoria razionale della tradizione, in Congetture e confutazioni, tr. cit., pp. 212-218). Ora, però, sebbene diffusa e ampiamente accettata, la teoria cospiratoria è acritica, non regge. Cospirazioni si sono avute nel passato, congiure si hanno nel presente e le avremo nel futuro. Ma, in ogni caso, c’è da prendere atto che «i cospiratori raramente riescono ad attuare la loro cospirazione»; che «poche di queste cospirazioni alla fine hanno successo» (The Open Society and Its Enemies, vol. II: The High Tide of Prophecy: Hegel, Marx and the Aftermath, tr. cit., p. 114). Ed è esattamente l’insorgenza delle conseguenze inintenzionali a rendere comprensibile l’inconsistenza della teoria cospiratoria della società: non tutti gli eventi sociali sono frutto di piani intenzionali e, quindi, non tutti gli eventi sociali negativi sono frutto di piani intenzionali. Né va dimenticato che «sotto forma della ricerca di capri espiatori la teoria cospiratoria ha ispirato molti conflitti politici procurando molte sofferenze evitabili» (Come io vedo la filosofia, rist. in Auf der Suche nach einer besseren Welt. Vorträge und Aufsätze aus dreissig Jahren, München 1984, tr. it. di B. Di Noi, in Alla ricerca di un mondo migliore. Conferenze e saggi di trent'anni di attività, Roma 1989, qui p. 396); 3) lo psicologismo è la concezione stando alla quale tutte le istituzioni e tutti i fatti sociali sarebbero da ridurre a sentimenti, ambizioni, aspirazioni, bisogni, paure dell’animo umano – vale a dire a un universo di intenzioni esplorabili dalla psicologia. Con ciò le scienze sociali dovrebbero ridursi a psicologia. Sennonché, è proprio l’emergenza delle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali a mostrare con tutta chiarezza l’autonomia delle scienze sociali dalla psicologia: alla psicologia sfugge il mondo estraneo alle «intenzioni», sfuggono cioè le conseguenze inintenzionali – oggetto specifico delle scienze sociali. «Forse la più importante critica allo psicologismo è che esso non riesce a comprendere il compito fondamentale delle scienze sociali esplicative» (The Open Society and Its Enemies, vol. II: The High Tide of Prophecy: Hegel, Marx and the Aftermath, tr. cit., p 113). Le critiche allo psicologismo non comportano, tuttavia, una critica alla psicologia: la psicologia «è una delle scienze sociali anche se non è la base 3484

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della scienza sociale» (ibi, p. 116; e cfr. The Poverty of Historicism, tr. cit., p. 126). XII. L’ANALISI SITUAZIONALE. – Solo gli individui agiscono. Sono, dunque, le azioni umane l’oggetto delle scienze sociali. E la comprensione delle azioni umane Popper l’affida all’analisi situazionale – e per analisi situazionale egli intende «un certo tipo di spiegazione tentativa o congetturale di qualche azione umana che si riferisce alla situazione in cui l’agente si trova» (Il recipiente e il faro: due teorie della conoscenza, in Congetture e confutazioni, tr. cit., pp. 462463). Quel che è possibile fare è «tentare, congetturalmente, di dare una ricostruzione idealizzata della situazione problematica in cui l’agente si è trovato, e rendere in qualche misura l’azione “comprensibile” (o “razionalmente comprensibile”) cioè adeguata alla situazione come egli la vedeva» (La teoria del pensiero oggettivo, in Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico, tr. cit., p. 235). In altri termini, se è vero che leggi e generalizzazioni sono necessarie allorché vogliamo rispondere al perché di un dato evento, quel che interessa specificatamente lo storico è il come degli avvenimenti, lo specifico modo in cui si sono intrecciate le condizioni che, nei singoli casi, hanno portato all’evento accaduto – come, per esempio, un regicidio, una rivolta, la proposta di una legge ecc. La comprensione di un’azione umana diventa allora un tentativo di ricostruzione congetturale della situazione problematica – il problema con il suo sfondo teorico e pratico – che l’agente si trovò a fronteggiare. Dunque: lo storico – e più ampiamente lo scienziato sociale – allorché spiega le azioni, non fa altro che porsi problemi (cioè metaproblemi) sui problemi degli agenti; avanzare congetture (vale a dire metacongetture) sulle congetture, progetti e piani degli agenti. Lo storico, insomma, ricostruisce una situazione problematica tramite congetture controllabili a opera della documentazione oggettiva costituita dagli «ingredienti della situazione» – carattere e conoscenze dell’agente, interessi da salvaguardare, ideali da realizzare, regole istituzionali accettate e diffuse, ostacoli da superare ecc. Un simile tipo di approccio è possibile applicarlo all’opera di un artista, all’azione di un politico o all’impresa di un condottiero, alla decisione di un industriale o a quella di un venditore. L’azione umana è la risposta a un problema; e può, dunque, venir compresa unicamente se si

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Epistemologia positivistica

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sarà capaci di ricostruire il problema affrontato dall’agente e il tipo di risposta data da costui. Di conseguenza, quel che uno storico deve fare proprio in quanto storico «non è rivivere esperienze passate, ma mettere in ordine argomenti oggettivi pro e contro la sua analisi situazionale congetturale» (ibi, p. 244). D. Antiseri

EPISTEMOLOGIA POSITIVISTICA (CirEpistemologia positivistica colo di Vienna). – SOMMARIO: I. La Vienna «preneopositivista». - II. E. Mach: «precursore» del Wiener Kreis. - III. M. Schlick: fondatore del Circolo di Vienna. - IV. Teoria ed esperienza in H. Feigl. - V. M. Schlick e le «Konstatierungen» come fondamento della scienza. - VI. Il manifesto programmatico del Circolo di Vienna. - VII. Il decollo internazionale del neopositivismo. VIII. L’International Encyclopedia of Unified Science. - IX. Il principio di verificazione. - X. Dalla fase «semantica» alla fase «sintattica»: il fisicalismo. - XI. Dalla verità come «corrispondenza» alla verità come «coerenza». - XII. Lo scontro Schlick-Neurath sul rapporto tra linguaggio ed esperienza. - XIII. Il contributo neopositivista alla filosofia della scienza. - XIV. Wittgenstein e Popper: due prospettive non «positiviste». - XV. Carnap e la «liberalizzazione» dell’empirismo logico. I. LA VIENNA «PRENEOPOSITIVISTA». – Il neopositivismo o positivismo logico è la filosofia del Wiener Kreis. Il Circolo di Vienna prese l’avvio allorché Moritz Schlick (1882-1936) venne chiamato da Kiel all’università di Vienna per ricoprirvi la cattedra di Filosofia delle scienze induttive, cattedra che era già stata di Ernst Mach, al quale erano poi succeduti Ludwig Boltzmann e Adolf Stöhr (un pensatore di tendenza antimetafisica). Vienna costituiva un terreno particolarmente adatto per lo sviluppo delle idee neopositiviste, a motivo del fatto che qui, durante la seconda metà del XIX secolo, il liberalismo rappresentò l’orientamento politico preminente. Per di più, l’università di Vienna, diversamente dalla maggior parte delle università tedesche, si era mantenuta – data l’influenza della chiesa cattolica – sostanzialmente immune dall’idealismo; e fu così la mentalità scolastica, come ricorda lo stesso O. Neurath, a preparare la base per l’approccio logico alle questioni filosofiche. Schlick, dunque, nel 1922 viene chiamato a Vienna. Ma ancor prima della guerra ’14-18, «un gruppo di giovani dottori in filosofia, i

quali avevano soprattutto studiato fisica, matematica o scienze sociali – e tra questi spiccavano Philipp Frank, Hans Hahn, Richard von Mises, Otto Neurath – si incontravano, il giovedì sera, in un caffè della vecchia Vienna, per discutere soprattutto di questioni di filosofia della scienza. In quei giorni era principalmente il positivismo di Ernst Mach a ispirare questo piccolo gruppo di studiosi» (H. Feigl, The Wiener Kreis in America, in AA.VV., Perspectives in American History, Harvard 1968, p. 630). II. E. MACH: «PRECURSORE» DEL WIENER KREIS. – Tra i precursori del Wiener Kreis il più rappresentativo e influente è stato sicuramente Ernst Mach (1838-1916). «L’incongruenza tra pensieri e fatti, e dei pensieri tra di loro è la fonte dei problemi» (E. Mach, Erkenntnis und Irrtum, Leipzig 1905, tr. it. di S. Barbera, Conoscenza ed errore, Torino 1982, p. 246; cfr. anche Die Analyse der Empfindungen und das Verhaltnis des Physischen zum Psychischen, Jena 19229, tr. it di L. Sosio, L’analisi delle sensazioni e il rapporto fra fisico e psichico, Milano 1975, pp. 58-59). E la via giusta per risolvere i problemi non è, ad avviso di Mach, quella del metodo induttivo, bensì quella dell’invenzione di ipotesi e del controllo di queste sulla base delle loro conseguenze osservative. La scienza in divenire «si muove per congetture e confronti», per «congetture e correzioni» (Erkenntnis und Irrtum, p. 243), laddove è necessario ricordare che «la funzione essenziale dell’ipotesi consiste nel condurre a nuove osservazioni ed esperimenti che consentono di confermare, respingere o modificare la nostra congettura; in breve, di ampliare l’esperienza» (ibi, p. 236). Ma, ampliando l’esperienza, dicendo appunto di più di quanto si è osservato, istituendo connessioni funzionali (rapporti causali, univoci, dove non c’erano che infinite possibili successioni temporali di fatti dislocati nello spazio), «un’ipotesi [...] in alcuni casi si avvererà, in altri certamente no. L’ipotesi, quindi, già per sua natura, è destinata a trasformarsi nel corso dell’indagine, ad adeguarsi alle nuove esperienze o addirittura a cadere [...]» (ibi, p. 239). Da ciò segue che «gli scienziati [...] non debbono essere eccessivamente timorosi nell’istituire un’ipotesi: è anzi richiesto un certo coraggio» (ibid.). E se è necessario il coraggio nel proporre ipotesi varie e azzardate, occorre anche prontezza nello scartare quelle che non reggono alla prova dei fatti. La prova dei fatti, il controllo di una ipotesi o teoria si effettua deducendone le conseguenze 3485

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Epistemologia positivistica per mezzo della logica e andando a vedere se tali conseguenze si danno o no nei fatti. Ed è chiaro, precisa Mach, che non sono le forme logiche a darci la conoscenza della realtà. «Anzi, qualunque esempio particolare si scelga [...], può chiarire quanto poco serva la conoscenza di queste forme soltanto. Può servire a saggiare un itinerario mentale, non a scoprirne uno nuovo. Il pensiero non si compie in forme vuote; gli occorre un contenuto immediatamente o concettualmente rappresentato in modo vivo [...]. Le vuote forme logiche non possono sostituire la conoscenza della cosa» (ibi, p. 178). Per effettuare una prova o impiantare un esperimento, si deve avere qualcosa da provare o da sperimentare – e questo qualcosa sono, esattamente, le ipotesi o congetture o le supposte leggi esplicative dei fatti problematici. D’accordo con Duhem, Mach, a questo proposito, afferma: a) che in fisica «l’esperimento senza la teoria è assolutamente inconcepibile» (ibi, p. 198), che «l’esperimento guidato dal pensiero fonda la scienza» (ibi, p. 183), e «di fatto, non si può che raccomandare di fare attenzione se l’esito dell’esperimento si concilia in generale con la teoria adottata» (ibi, p. 198); b) che «l’estensione intenzionale e autonoma dell’esperienza con l’esperimento fisico e l’osservazione conforme a un piano [...] è sempre guidata dalle idee e non è mai possibile delimitarla e separarla dall’esperimento mentale» (ibid.); c) che «osservazione e teoria non sono separabili in modo netto, perché quasi tutte le osservazioni sono già influenzate dalla teoria e, se hanno sufficiente importanza, influenzano a loro volta la teoria» (ibi, pp. 161-162). D’altro canto, Mach insiste sull’idea che le leggi di natura sono «limitazioni alla nostra aspettativa»: «una legge consiste sempre in una limitazione delle possibilità [...]» (ibi, p. 444) e «il progresso della scienza in effetti produce una crescente restrizione dell’aspettativa, una sua strutturazione sempre più determinata» (ibi, p. 446). Ora, però, restringere le aspettative, significa far dire di più alle nostre leggi o ipotesi: «Il raffinamento progressivo delle leggi naturali, la restrizione crescente dell’aspettativa corrisponde a un adattamento più preciso delle idee ai fatti» (ibi, p. 449). Ma – si affretta a specificare Mach – non è detto che i fatti si orientino necessariamente secondo le nostre idee» (ibid.). Dunque: restringere le aspettative significa far dire di più alle nostre ipotesi, e queste più dicono, più rischiano 3486

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di scontrarsi con i fatti e, conseguentemente, di venir da questi smentite. In realtà, «non siamo mai garantiti contro gli errori» (ibi, p. 443). «Conoscenza ed errore discendono dalle stesse fonti psichiche; solo il risultato permette di distinguerli. L’errore riconosciuto con chiarezza è, come correttivo, altrettanto utile cognitivamente della conoscenza positiva» (ibi, p. 115). La storia della scienza testimonia e la logica dell’ipotesi prova, dunque, che non esistono ipotesi o congetture o teorie definitive, certe, non smentibili. «Il modo di pensare e di lavorare dello scienziato è molto diverso da quello del filosofo. Poiché non ha la fortuna di possedere principi incrollabili, ha assunto l’abitudine di considerare provvisorie, e suscettibili di modifica attraverso nuove esperienze, anche le più sicure e meglio fondate delle sue vedute e dei suoi principi. Di fatto, i maggiori progressi e scoperte sono stati resi possibili solo da questo atteggiamento» (ibi, p. 16). Così, per esempio, Newton (che diceva che non bisogna mai costruire ipotesi che oltrepassino l’osservazione e il quale, però, «in ogni pagina dei suoi scritti [...] contraddice questa interpretazione, [giacché] egli spicca proprio per la ricchezza di congetture») «sa anche escludere molto rapidamente, con esperimenti, quelle inutilizzabili, che non resistono alla verifica» (ibi, p. 235). L’infallibilità non è un attributo delle teorie scientifiche, «al contrario, lo scienziato deve attendersi sempre di essere smentito. Non sa se ha tenuto conto di tutte le dipendenze presenti in un caso: la sua esperienza è limitata nello spazio e nel tempo, non ha a disposizione che una piccola porzione dell’accadere universale. Nessun fatto dell’esperienza si ripete esattamente. Ogni nuova scoperta rivela lacune e un residuo di dipendenze di cui fino allora non si era tenuto conto» (ibi, p. 277). Il processo della ricerca non è mai concluso, e nemmeno è concludibile: difatti, «gli sviluppi scientifici [...] cominciano perlopiù in una preistoria remotissima, con rappresentazioni molto primitive, ma non sono conclusi con il presente. Al posto dei problemi già risolti o riconosciuti come insussistenti sono comparsi problemi nuovi, più numerosi e in genere più difficili» (ibi, p. 282). In una prospettiva del genere si comprende il senso per cui da una parte la scienza si configura come economia del pensiero e dall’altra si sviluppa in un processo di «natura darwiniana». «Tutta la scienza ha lo scopo di sostituire,

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ossia di economizzare esperienze mediante la riproduzione e l’anticipazione di fatti nel pensiero. Queste riproduzioni sono più maneggevoli dell’esperienza diretta e sotto certi aspetti la sostituiscono. Non occorrono riflessioni molto profonde per rendersi conto che la funzione economica della scienza coincide con la sua stessa essenza» (E. Mach, Die Mechanik in ihrer Entwickelung historisch-kritisch dargestellt, Leipzig 1883, tr. it. a cura di A. D’Elia, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, Torino 1977, p. 470). D’altro canto, «quantunque il modo di essere dei pensieri non possa essere in tutto simile a quello delle forme viventi, e si debba evitare qualsiasi forzata comparazione, tuttavia la legge generale dell’evoluzione e della trasformazione, se Darwin ha visto giusto, deve aver valore anche per essi» (Sulla trasformazione e adattamento nel pensiero scientifico, in Lezioni scientifiche popolari, tr. it. [Populärwissenschaftliche Vorlesungen, Leipzig 18972] di A. Bongiovanni, Torino 1900, p. 171). Per Mach, in altre parole, «i pensieri, soprattutto quelli delle scienze naturali, sono soggetti alla trasformazione e all’adattamento in maniera analoga a quanto Darwin sostiene per gli organismi» (Prinzipien der Wärmelehre historisch-kritisch entwickelt, Leipzig 19002, p. 380). In breve, lo sviluppo delle idee è «solo un caso speciale di un processo biologico generale» (ibi, p. 386); ciò vuol dire che «tutta la nostra vita scientifica ci appare soltanto come una parte del nostro sviluppo organico» (ibi, p. 390). Per Mach l’uomo è parte della natura: il linguaggio, la coscienza e la ragione sono risultati dell’evoluzione trasformatisi successivamente in strumenti dell’evoluzione, come dimostra lo sviluppo storico della scienza. E sull’importanza, per lo scienziato militante, della consapevolezza di tale sviluppo storico Mach è ben chiaro: «Chi conosce l’intero corso dello svolgimento della scienza valuterà l’importanza di un qualsiasi movimento scientifico odierno in modo più libero e corretto di quanto possa fare colui che, limitato nel suo giudizio al periodo di tempo che egli stesso ha vissuto, vede solo la direzione che la scienza ha preso momentaneamente» (ibi, p. 40). III. M. SCHLICK: FONDATORE DEL CIRCOLO DI VIENNA. – Le riunioni, precedenti il periodo della prima guerra mondiale, più tardi, all’interno del Circolo di Vienna, verranno ricordate – con simpatia e rispetto – come l’epoca «preistorica» del neopositivismo, la cui storia vera e propria

Epistemologia positivistica inizia nel 1924, quando H. Feigl e F. Waismann andarono a parlare a Schlick con l’idea di formare un gruppo di discussione. Schlick acconsentì, e come risultato si ebbero i colloqui del venerdì sera. Tale fu l’inizio del Circolo di Vienna, che contò tra i suoi primi membri il matematico Hans Hahn, il sociologo ed economista Otto Neurath e sua moglie Olga (sorella di Hahn, e lei stessa matematica e logica), Felix Kaufmann (allora docente di Filosofia del Diritto), Victor Kraft (filosofo versato in storia e interessato alla metodologia scientifica) e il matematico Kurt Reidemeister, il quale nel 1924 (o forse nel 1925) propose di leggere e di discutere il Tractatus Logico-Philosophicus di L. Wittgenstein. Nel 1926 anche R. Carnap fu chiamato all’università di Vienna. Hahn e Schlick lo preferirono ad Hans Reichenbach che, da parte sua, a Berlino, aveva formato la Società per la filosofia scientifica (Gesellschaft für empirische – poi wissenschaftliche-Philosophie) tra i cui membri di rilievo occorre ricordare Richard von Mises (di origine viennese), Kurt Grelling, Walter Dubislav, Alexander Herzberg e, più tardi, i discepoli di Reichenbach: Carl G. Hempel e Olaf Helmer. Gli scopi e le attività della Società berlinese erano analoghi a quelli del Circolo viennese. E stretti legami tra i due gruppi vennero intessuti fin dagli inizi, anche sulla base dei rapporti personali esistenti tra Carnap e Reichenbach e tra von Mises e Philipp Frank, all’epoca professore di fisica a Praga. Frank, che non fu un membro effettivo del Circolo, ma che ne fu frequente visitatore (essendo tra l’altro amico di Hahn e di Schlick) divenne, insieme a quest’ultimo, direttore della collana «Schriften zur wissenscaftliche Weltauffassung» (Scritti per una concezione scientifica del mondo), in cui, tra gli altri, apparvero testi di rilievo quali: Das Kausalgesetz und seine Grenzen, Wien 1932 (La legge di causalità e i suoi limiti) di P. Frank; Abriss der Logistik, Wien 1932 (Compendio di logica) di Carnap; Logische Syntax der Sprache, Wien 1934, tr. it. a cura di A. Pasquinelli, Sintassi logica del linguaggio, Milano 1961 sempre di Carnap; Logik der Forschung, Wien 1935, tr. it. a cura di M. Trinchero, Logica della scoperta scientifica, Torino 1970, di Karl Popper. IV. TEORIA ED ESPERIENZA IN H. FEIGL. – Fu soprattutto Herbert Feigl (1902-88) a convincere Schlick, sin dal 1924, a riunire quel gruppo di studiosi e colleghi da cui ebbe origine il Circolo di Vienna. Feigl emigrò negli Stati Uniti nel 3487

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Epistemologia positivistica 1930, e sino al 1939 fu attivo all’università dello Iowa; dal 1940 ha insegnato filosofia all’università del Minnesota, dove ha fondato e diretto il Minnesota Center for the Philosophy of Science. In The Logical Character of the Principle of Induction (in «Philosophy of Science», 1, 1934, tr. it. di M. Pera, in Induzione e empirismo, Roma 1979) Feigl scrive: «L’induzione è essenzialmente diversa dall’inferenza deduttiva. Essa non può mai raggiungere la certezza [...]. Hume ha mostrato che l’induzione non può risultare certa né sulla base della logica né su quella del suo stesso successo» (H. Feigl, tr. cit., p. 46). E a p. 47: «[...] Le scienze empiriche più avanzate non procedono per generalizzazione induttiva. Il loro metodo consiste piuttosto nella costruzione di sistemi ipotetico-deduttivi». Si veda al riguardo anche l’altro scritto di Feigl, On the Vindication of Induction (in «Philosophy of Science», 27, 1961, pp. 212-216, tr. it. La legittimazione dell’induzione, in Induzione e empirismo, cit.). Nel volume Theorie und Erfahrung in der Physik (Karlsruhe 1929) Feigl precisava di intendere sotto il nome di teoria «un sistema di ipotesi o, più precisamente, un sistema ipotetico-deduttivo» (ibi, p. 13). Le teorie sono sistemi di ipotesi generali, la cui verità – o, meglio, la cui probabilità – scrive Feigl – «viene decisa dall’esperienza» (ibi, p. 17). In linea generale, «le teorie precedono l’esperienza» e vengono controllate tramite osservazioni (ibi, pp. 30 ss.). E più avanti: «Le teorie fisiche sono sistemi ipotetico-deduttivi» (ibi, p. 111). C’è, inoltre, da distinguere tra il punto di vista storico-psicologico e il punto di vista logico-sistematico – oggi, diremmo, tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione. E se teorie come quella di Newton «non si conseguono affatto tramite induzione dall’esperienza, la loro validità tuttavia si può fondare soltanto induttivamente» (ibi, p. 115). E allorché ci chiediamo le ragioni per cui accettiamo o respingiamo una teoria, vediamo subito che «ciò dipende unicamente dalla sua forza induttiva, vale a dire dalla sua capacità di abbracciare un determinato materiale fattuale» (ibid.). Pertanto: le teorie non vengono scoperte tramite induzione; ma la loro validità viene controllata induttivamente (ibi, p. 116); dove c’è da sottolineare che «le verificazioni non possono venire decise in modo definitivo» (ibi, p. 117). «Decisioni assolutamente definitive circa la validità delle teorie non esistono. Le teorie vanno 3488

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considerate sempre e soltanto come approssimazioni» (ibi, p. 128). V. M. SCHLICK E LE «KONSTATIERUNGEN» COME FONDAMENTO DELLA SCIENZA. – Moritz Schlick n. a Berlino il 14 apr. 1882. Frequentò il Louisenstädtisches Realgymnasium e nel 1900 si iscrisse all’università, dove studiò fisica sotto la guida di Max Planck. E con Planck si addottora in fisica nel 1904. Ottenuta l’abilitazione con la dissertazione Das Wesen der Wahrheit nach modernen Logik, insegna dal 1911 al 1917 all’università di Rostock, tenendosi in contatto con Planck, Einstein e Hilbert, e impegnandosi soprattutto nello studio delle implicazioni filosofiche della teoria della relatività. Esiti significativi di queste sue indagini sono Die philosophische Bedeutung des Relativitätsprinzips, in «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», 159, 1915, pp. 129-175; Kritizistische oder empiristiche Deutung der neueren Physik, in «Kantstudien», 26, 1924, pp. 96-111 e soprattutto le due più grandi opere: Raum und Zeit in der gegenwärtigen Physik, Berlin 19222 (1917) e Allgemeine Erkenntnislehre, Berlin 19252 (1918), Frankfurt am Main 1979, tr. ingl. con introduzione di A.E. Blumberg e H. Feigl, Wien - New York 1974 (tr. it. a cura di E. Palombi, Teoria generale della conoscenza, Milano 1986). «Tutte le nostre conoscenze di realtà – scrive Schlick – sono, a rigore, delle ipotesi. Non fa eccezione nessuna verità scientifica, sia essa di tipo storico oppure appartenente alla più esatta delle discipline che studiano la natura. Nessuna verità scientifica è di principio sicura di fronte al pericolo di essere un giorno confutata e di diventare quindi non valida. Se anche vi sono innumerevoli verità sul mondo reale delle quali nessun uomo che le conosca dubita, nessuna di esse può mai liberarsi completamente del carattere ipotetico» (Teoria generale della conoscenza, p. 422; si vedano anche le pp. 373-380). Tre lezioni tenute da Schlick all’università di Londra, nel novembre del 1932, sono state raccolte in Form and Content. An Introduction to Phylosophical Thinking, rist. nei Gesammelte Aufsätze, Hildesheim 1969, pp. 151-249, tr. it. di P. Parrini - S. Ciolli Parrini, Forma e contenuto, Torino 1987. Qui Schlick afferma che «l’induzione non è certamente un processo logico. La sua validità non si può dimostrare [...]. Sarà sempre impossibile giustificare logicamente l’induzione [...]. Non esiste una logica dell’induzione» (Forma e contenuto,

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p. 130). Questa è la ragione per cui le teorie scientifiche sono e restano ipotetiche. «La scienza moderna [...] si è completamente riconciliata con l’idea che tutte le sue asserzioni generali, tutte le sue formulazioni di leggi naturali si debbano considerare ipotetiche e forse, un giorno o l’altro, si dovranno riesaminare» (ibi, p. 131). Ed è a siffatto atteggiamento che Schlick vede legato il progresso della conoscenza, giacché si tratta di un atteggiamento che «aiuta lo scienziato a non essere dogmatico e a tenere aperta la sua mente alle nuove idee» (ibid.). Le proposizioni della scienza sono e restano, pertanto, ipotetiche: «Proposizioni su un futuro storico, o perfino su un fatto passato, o su “tutti” i fatti di un certo genere (le cosiddette “implicazioni generali”) debbono in certo modo considerarsi come ipotesi» (ibi, p. 130). Nel 1934, sul quarto fascicolo della rivista «Erkenntnis», Schlick pubblica il saggio Ueber das Fundament der Erkenntnis (in «Erkenntnis», 4, 1934, pp. 79-93; rist. nei Gesammelte Aufsätze, pp. 289-310, tr. it. di A. Pasquinelli, Il fondamento gnoseologico, in A. Pasquinelli [a cura di], Il neoempirismo, Torino 1969). Qui, al pari di Otto Neurath – e anche di Popper – egli sostiene «il diritto di apportare delle correzioni agli stessi protocolli; e, in realtà, tali correzioni vengono effettuate abbastanza di frequente, ogni volta che si escludono certi protocolli, affermando che debbono essere il risultato di qualche errore» (Il fondamento gnoseologico, in A. Pasquinelli, op. cit., p. 304). E ancora due brevi annotazioni. Sempre nel saggio Ueber das Fundament der Erkenntnis, Schlick usa il termine «falsificazione» (ibi, pp. 316-317) esattamente per indicare la smentita di una ipotesi tramite quelle che egli chiama «constatazioni» («le uniche proposizioni sintetiche che non siano ipotesi» (ibi, p. 322), e che sono sempre della forma «qui, ora, così e così» – per esempio: «qui, ora, coincidono due punti neri»; oppure: «qui, ora, del giallo combacia con del blu»; o anche: «qui, ora dolore» (ibi, p. 320). Va notato che in Form and Content viene richiamata l’opera di C.I. Lewis: Mind and the World Order, del 1929 – un’opera centrale nella costruzione di una immagine fallibilista del sapere scientifico (M. Schlick, Forma e contenuto, pp. 108-109). I più ampi interessi di Schlick sono testimoniati, tra l’altro, dallo scritto giovanile, relativo a problemi etici, Lebensweisheit. Versuch einer Glückseligkeitslehre (München 1908); come anche dal lavoro Fragen der Ethik,

Epistemologia positivistica Wien 1930, tr. it. di A. Ioly Piutti, Problemi di etica ed aforismi, Bologna 1970. Schlick venne assassinato a colpi di pistola da uno studente il 22 giugno 1936, sulle scale dell’università di Vienna. VI. IL MANIFESTO PROGRAMMATICO DEL CIRCOLO DI VIENNA. – È nel 1929 che viene pubblicato il «manifesto» del Circolo viennese: Wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis, Wien 1929, tr. it. a cura di A. Pasquinelli, La concezione scientifica del mondo. Il Circolo di Vienna, Bari 1979. Così, uno dei protagonisti, Frank, ne rievoca l’elaborazione come le principali iniziative: «Verso il 1939, avevamo sentore che, dalla collaborazione in atto a Vienna, stesse emergendo una filosofia nuova. Tutti i genitori amano mostrare le fotografie dei propri bambini; anche noi, perciò, ricercavamo i mezzi di comunicazione per presentare al mondo il parto del nostro cervello, scoprirne le reazioni e riceverne nuovi stimoli. Decidemmo, quindi, anzitutto, di pubblicare una monografia sul nostro movimento; poi, di procedere all’organizzazione di un dibattito; infine, di fondare una rivista filosofica per diffondere i lavori del gruppo. Mentre preparavamo la monografia, ci accorgemmo che il nostro movimento e la nostra filosofia non avevano nomi: parecchi di noi osteggiavano i termini “filosofia” e “positivismo”; altri non gradivano comunque gli “ismi” nostrani o stranieri. Finalmente, scegliemmo la denominazione “Wissenschaftliche Weltauffassung” (cioè “concezione scientifica del mondo”) [...] Carnap, Hahn, Neurath, collaborando strettamente fra loro, curarono la stesura del testo monografico» (P. Frank, Modern Science and Its philosophy, New York 1961, tr. it. di G. Picca, La scienza moderna e la sua filosofia, Bologna 1973, p. 53). Le tre seguenti iniziative ebbero presto attuazione. Nel settembre del 1929 si tenne, a Praga, un convegno, promosso dai cenacoli viennese e berlinese sulla «Gnoseologia delle scienze esatte». A questo fecero seguito, sempre organizzati dagli epistemologi viennesi e berlinesi, altri congressi: a Könisberg nel 1930, a Praga nel 1934, a Parigi nel 1935, a Copenaghen nel 1936, a Parigi nel 1937, a Cambridge nel 1938, all’università di Harvard, negli Stati Uniti, nel 1939. L’anno dopo, nel 1930, col titolo «Erkenntnis», cominciò ad apparire la prestigiosa rivista filosofica del movimento, diretta da Carnap e da Reichenbach. Nel 1929 furono edite le ormai storiche pagine della mono3489

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Epistemologia positivistica grafia Wissenschaftliche Weltauffassung. Qui leggiamo che all’interno del Circolo vennero soprattutto trattati problemi gnoseologici e metodologici: «Per esempio, il convenzionalismo di Poincaré, la concezione dello scopo e della struttura delle teorie scientifiche di Duhem [...]; come pure questioni riguardanti i fondamenti della matematica, l’assiomatica, la logistica e simili» (Wissenschaftliche Weltauffassung, p. 68). Convergenze «tendenziali o tematiche» i circolisti le trovarono con tutta una serie di pensatori, le cui opere venivano lette e discusse: «1. Positivismo ed empirismo: Hume, Illuminismo, Comte, Mill, Richard Avenarius, Mach. 2. Fondamenti, scopi e metodi della scienza empirica (ipotesi in fisica, geometria ecc.): Helmholtz, Riemann, Mach, Poincaré, Enriques, Duhem, Boltzmann, Einstein. 3. Logistica e sua applicazione alla realtà: Leibniz, Peano, Frege, Schröder, Russell, Whitehead, Wittgenstein. 4. Assiomatica: Pasch, Peano, Vailati, Pieri, Hilbert. 5. Eudemonismo e sociologia positivistica: Epicuro, Hume, Bentham, Mill, Comte, Feuerbach, Marx, Spencer, Müller-Lyer, Popper-Lynkeus, Karl Menger (padre)» (ibi, p. 69). La concezione scientifica del mondo – scrivono Hahn, Neurath e Carnap – «è caratterizzata non tanto da tesi peculiari, quanto, piuttosto, dall’orientamento di fondo, dall’indirizzo di ricerca» (ibi, p. 74). E, in un lavoro collettivo teso all’unificazione della scienza, «precisione e chiarezza vengono perseguite, le oscure lontananze e le profondità impenetrabili respinte. Nella scienza non si dà “profondità” alcuna; ovunque è superficie [...]. La concezione scientifica del mondo non conosce enigmi insolubili. Il chiarimento delle questioni filosofiche tradizionali conduce, in parte, a smascherarle quali pseudo-problemi; in parte, a convertirle in questioni empiriche, soggette, quindi, al giudizio della scienza sperimentale» (ibi, p. 75). In altri termini, «la concezione scientifica del mondo respinge la metafisica» (ibi, p. 77). E a quanti affermano «esiste un dio», «il fondamento assoluto del mondo è l’inconscio», «nell’essere vivente vi è un’entelechia come principio motore», i neopositivisti non replicano dicendo che tali affermazioni sono false, ma insistono sul fatto che esse «non dicono nulla, esprimendo solo atteggiamenti emotivi» (ibi, p. 76). Nel Tractatus logico-philosophycus (proposizione 3490

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4.007) Wittgenstein aveva scritto: «La maggior parte delle proposizioni e delle questioni che sono state scritte in materia di filosofia, non sono false ma prive di senso. A questioni di questo genere perciò non possiamo affatto rispondere, ma soltanto stabilire la loro mancanza di senso». Per Schlick, «asserzioni quali “realtà assoluta” o “essere trascendente” o altre del medesimo genere non significano nient’altro che alcuni determinati stati d’animo» (Positivismus und Realismus, nei Gesammelte Aufsätze, Wien 1938, p. 112). E Carnap, da parte sua, sentenzia che «né Iddio né alcun diavolo potranno mai darci una metafisica» (Ueberwiudung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache, in «Erkenntnis», 2, 1932, p. 238). VII. IL DECOLLO INTERNAZIONALE DEL NEOPOSITIVISMO. – Se dagli inizi al 1929 si è trattato di gestazione e di organica attivazione, con il consolidamento dei suoi aspetti formali, con la crescente consapevolezza dell’originalità della filosofia via via elaborata in termini collaborativi, dal 1929-30 fino al 1938, quando ha luogo l’annessione nazista dell’Austria, si assiste alla fase del decollo internazionale. Questa fase è contraddistinta da autorevoli riconoscimenti e da rilevanti acquisizioni dottrinali, nonché dalla morte di Schlick nel 1936 – due anni dopo quella di Hahn – e dalla progressiva diaspora del gruppo originario, col conseguente «trapianto» del movimento di pensiero, ormai noto come «neopositivismo» o «positivismo logico» o «empirismo logico», soprattutto oltre Atlantico, cioè negli Stati Uniti. Così Carnap rievoca il tempestivo credito accordato in America al neopositivismo da alcuni giovani studiosi sia filosofi che scienziati: «Nel 1934 conobbi due filosofi americani che, dopo aver visitato i miei amici a Vienna, vennero a trovarmi a Praga: C.W. Morris, dell’università di Chicago, W.v.O. Quine, dell’università di Harvard. Già attratti dal nostro modo di filosofare, contribuirono poi a renderlo noto negli Stati Uniti, adoprandosi affinché io stesso potessi mettervi piede. Venni allora invitato dall’università di Harvard a partecipare alle celebrazioni del suo terzo centenario, nel settembre 1936, mentre l’università di Chicago mi offrì un posto d’insegnamento a partire dal medesimo anno, posto che in seguito occupai ininterrottamente fino al 1952 [...]. Così, fui lieto non solo di sottrarmi alla soffocante atmosfera politico-culturale europea e all’incubo della guerra, ma anche di

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constatare che in America, specialmente fra i pensatori più giovani, vi era un vivo interesse, accentuato di anno in anno, per lo sviluppo della filosofia sulla base del metodo scientifico e della logica moderna» (R. Carnap, Autobiografia intellettuale, in P.A. Schilpp [a cura di], tr. it. [The Philosophy of Rudolf Carnap, La Salle, Illinois, 1978] di F. Bercelli, La filosofia di Rudolf Carnap, Milano 1974, vol. I, pp. 34-35). Il bilancio relativo all’accoglimento del neopositivismo negli Stati Uniti che Herbert Feigl abbozzò poco dopo il 1940 è senz’altro suggestivo, poiché include i nomi di non pochi protagonisti della cultura americana, sia «filosofi, logici e metodologi», quali A. Cornelius Benjamin, Nelson Goodman, Sidney Hook, Henry Margenau, Charles W. Morris, Ernst Nagel; sia «scienziati», quali L. Bloomfield, Percy W. Bridgman, Haskell B. Stevens (H. Feigl, Logical Empiricism, in D.D. Runes [a cura di], Twentieth Century Philosophy: Living Schools of Thought, New York 1943, pp. 373-416). L’ingresso del neopositivismo in America per un verso consentì ai filosofi statunitensi di affinare analiticamente il proprio orientamento scientifico, concentrandosi su problemi metodologici ben circoscritti, per l’altro indusse i pensatori d’origine europea ad arricchire, con considerazioni di carattere semantico-pragmatico, la loro prospettiva filosofica, smorzandone l’iniziale enfasi formalistica in materia di linguaggio. VII. L’INTERNATIONAL ENCYCLOPEDIA OF UNIFIED SCIENCE. – Un accenno, infine, a quell’impresa che dal punto di vista della collaborazione organica fra i suddetti studiosi, rappresenta il documento più significativo: l’International Encyclopedia of Unified Science. L’idea di una silloge enciclopedica delle scienze fu di Otto Neurath che, a partire dal 1920, la coltivò con tenacia. L’incontro di alcuni esponenti del Circolo di Vienna con pensatori americani, come Morris, Nagel, Lenzen, Bloomfield gli consentirono di preparare un valido programma di lavoro e, a partire dal 1938, di avviarlo a realizzazione sotto la direzione sua, di Carnap e Morris. Il sopraggiungere della guerra, l’attenuarsi, soprattutto dopo la morte dello stesso Neurath nel 1945, dello slancio unitario di vari collaboratori, pregiudicarono il pieno sviluppo dell’iniziativa (C.W. Morris, On the History of the International Encyclopedia of Unified Science, in «Syntese», 12, 1960, pp. 571-621). Sul più vasto piano internazionale, oltre che statunitense, possiamo dire che «il movimen-

Epistemologia positivistica to di pensiero noto come positivismo logico, e rappresentato durante gli anni venti dal Circolo di Vienna, dopo il 1929-30 si è diffuso nel mondo quale corrente rivoluzionaria, volta a sconfessare le formulazioni metafisiche, teologiche ed etiche, in quanto destituite di significato conoscitivo, nonché a promuovere una radicale ricostruzione della filosofia attraverso l’opportuno apprezzamento dei metodi della scienza fisica e della logica matematica. Esso ha esplicato un’azione dinamica su tutte le discipline filosofiche, specialmente sulla filosofia della scienza, ritenuta suo dominio peculiare. Ormai, il positivismo logico non sussiste più come movimento a sé, sebbene i suoi effetti, tanto diretti, quanto indiretti, consapevoli oppure no, continuino ad avvertirsi» (P. Achinstein - S.F. Barker [a cura di], The Legacy of Logical Positivism, Baltimore [Maryland] 1969, p. 5). IX. IL PRINCIPIO DI VERIFICAZIONE. – I membri del Circolo di Vienna lessero e commentarono il Tractatus logico-philosophicus di L. Wittgenstein. Ebbene, costui aveva scritto che «comprendere una proposizione vuol dire sapere come stiano le cose nel caso che sia vera» (proposizione 4.024). Ciò per Schlick voleva dire che «il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica» (Meaning and Verification, nei Gesammelte Aufsätze, a cura di F. Waismann, Wien 1938, p. 340). «Compito specifico della filosofia – secondo il fondatore del Circolo – è quello di cercare e chiarificare il senso delle asserzioni e delle questioni» (Positivismus und Realismus, nei Gesammelte Aufsätze, p. 89). E «il senso di una proposizione consiste unicamente nel fatto che la proposizione esprime un determinato stato di cose» (ibid.), che quindi occorre mostrare se si vuole indicare il senso di una proposizione. Pertanto, «qualora vogliamo trovare il senso di una proposizione, dobbiamo trasformarla attraverso l’introduzione di definizioni successive, finché, da ultimo, ci troveremo di fronte a parole che non potranno venir ulteriormente definite con parole, cioè il cui significato potrà soltanto venir direttamente mostrato. Il criterio per la verità o la falsità di una proposizione consiste dunque nel fatto che, sotto determinate condizioni, alcuni eventi si danno oppure no. Se si è stabilito ciò, si è stabilito tutto quello di cui nella proposizione si parla, e con ciò si conosce il suo senso» (ibi, p. 90). È ovvio che la verificabilità in questione non è una verificabilità 3491

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Epistemologia positivistica di fatto ma di principio, «poiché il senso di una proposizione non dipende naturalmente dal fatto che le circostanze in cui noi direttamente ci troviamo in un dato tempo, permettono o impediscono la sua fattuale verificazione. La proposizione “sull’altra faccia della Luna ci sono montagne alte 3000 metri” è senza dubbio assolutamente sensata, sebbene ci manchino i mezzi tecnici per verificarla» (ibi, p. 91). Questa era la linea anche di Carnap, del Carnap del Logischer Aufbau der Welt, in cui la riduzione di tutte le proposizioni delle scienze, attuata a opera del Konstitutionssystem, faceva sì che l’intero edificio del linguaggio sensato, per essere significante, dovesse poggiare sugli Elementarerlebnisse, vale a dire sui dati di esperienza immediata. «Il senso di una proposizione consiste nel suo esprimere uno stato di fatto (pensabile e non necessariamente esistente). Se una (presunta) proposizione non esprime alcun (pensabile) stato di fatto, non ha senso, e perciò è solo apparentemente un’asserzione. Se una proposizione esprime uno stato di fatto, ha sempre significato; ed è vera quando questo stato di fatto esiste, falsa quando non esiste» (Scheinprobleme in der Philosophie, Wien 1928, rist. insieme al volume Der logische Aufbau der Welt, Hamburg 19612, p. 317). Carnap è estremamente chiaro: al di fuori delle espressioni di logica e matematica che sono soltanto delle trasformazioni tautologiche, non si dà fonte di conoscenza oltre l’esperienza; non c’è nessun giudizio sintetico apriori, nessuna intuizione, nessuna visione eidetica. Le parole hanno significato solo quando indicano qualche cosa, gli asserti hanno un senso solo se esprimono un possibile stato di cose; altrimenti nel primo caso si ha uno Scheinbegriff (pseudoconcetto), nel secondo uno Scheinsatz (pseudoproposizione). E solo se saremo in grado di decidere in base ai dati dell’esperienza, sarà possibile trarci fuori da «quell’inestricabile groviglio di problemi che è noto sotto il nome di filosofia» (The Logical Syntax of Language, London 1937, tr. it. di A. Pasquinelli, Sintassi logica del linguaggio, Milano 1961, p. 378). X. DALLA FASE «SEMANTICA» ALLA FASE «SINTATTICA»: IL FISICALISMO. – Contro tale criterio di significanza vennero mosse obiezioni più o meno radicali. In primo luogo col criterio di verificazione la scienza non pareva trovare una sistemazione capace di salvarla, dato che la scienza veniva fondata su esperienze del tutto 3492

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soggettive e inficiate di solipsismo come gli Erlebnisse. Questi Erlebnisse erano piuttosto, come notò Kraft, delle esperienze che delle asserzioni, qualcosa di psicologico anziché di logico. E poi, formulato il principio di verificazione, ci si trovò subito dinnanzi a questo dilemma: o il criterio è un’asserzione fattuale, e allora non è più una norma tramite cui giudicare il linguaggio come significante o insignificante; ovvero si afferma come norma e allora si cade in un’impasse, in quanto la norma, per il suddetto principio, non ha senso. Ebbene, nel tentativo di superare questa situazione difficoltosa della prima fase del Circolo, Neurath, seguito da Carnap, ne capovolge l’orientamento semantico nella direzione sintattica, o, come si dice, fisicalista. Per scongiurare ogni perplessità, Neurath afferma la necessità di porsi in un linguaggio dove tutte le proposizioni debbono già dall’inizio risultare intersoggettive (Einheitswissenschaft und Psychologie, Wien 1933, p. 12). E per questo, non bisogna partire dalla concezione irrimediabilmente viziata di metafisica, secondo cui si assume il linguaggio nella sua funzione simbolica. Il linguaggio deve essere preso come un fatto fisico, come un insieme di suoni e di segni. La scienza non è altro che la totalità delle asserzioni pronunciate o scritte ed esse – tracce d’inchiostro o sistemi di onde sonore – sono allo stesso tempo ciò cui la scienza parla e ciò con cui essa si esprime. «La teoria del linguaggio, scrive Neurath, può essere del tutto assimilata alla teoria dei processi fisici, siamo sempre nello stesso ambito» (Physikalismus, in «Scientia», 1931, pp. 296-303, qui p. 298). In breve, noi non possiamo uscire dal linguaggio ed essere al medesimo tempo accusatori, accusati e giudici; noi facciamo crescere la scienza aumentando la quantità delle sue proposizioni, confrontando le nuove proposizioni con quelle già in uso e creando un sistema privo di contraddizioni adatto a fare con successo delle predizioni. «Noi possiamo soltanto affermare, precisa Neurath, che oggi operiamo con il sistema spazio-temporale che corrisponde alla fisica» (Soziologie im Physikalismus, in «Erkenntnis», 2, 1931-32, pp. 394-431, qui p. 397). XI. DALLA VERITÀ COME «CORRISPONDENZA» ALLA VERITÀ COME «COERENZA» – L’assunzione del linguaggio come fatto fisico e l’eliminazione della sua funzione simbolica portano al seguente mutamento radicale: la teoria della verità come «corrispondenza» tra una proposizione e

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un fatto è sostituita da quella della verità come «coerenza» tra proposizioni. «Le proposizioni vanno confrontate con proposizioni – afferma Neurath – e non con “esperienze”, né con un “mondo”, né con “qualcos’altro”. Tutte queste duplicazioni senza senso appartengono a una più o meno raffinata metafisica e devono perciò venire eliminate. Ogni nuova proposizione viene confrontata con la totalità delle proposizioni presenti, già accordate le une con le altre. Pertanto si dirà che una proposizione è corretta solo se può essere inserita entro tale sistema. Ciò che non può essere inserito in esso viene rifiutato come scorretto. Invece di rifiutare le nuove proposizioni, si può alterare l’intero sistema – cosa a cui ci si decide molto difficilmente – fino a che le nostre proposizioni possano venire inserite in esso [...]. La definizione di “corretto” e “non corretto” data qui, è molto lontana da quelle abituali nel Circolo di Vienna, le quali ricorrono al “significato” e alla “verificazione”. Nella presente teoria noi restiamo sempre nell’ambito del pensiero parlato» (Soziologie im Physikalismus, p. 403). Dunque, una proposizione è falsa se non si accorda con l’insieme delle altre proposizioni riconosciute, altrimenti è vera. Questo è l’unico criterio su cui progettare una enciclopedia della scienza unificata, utilizzando l’unico linguaggio sensato che è quello delle scienze fisiche (Empirische Soziologie, Wien 1931, pp. 411). Neurath parla di enciclopedia e non di sistema, per l’apertura e l’incompletezza che contraddistinguono la prima, dove è possibile far confluire i risultati anonimi delle diverse scienze positive o, per dirla con Nietzsche, «le verità senza pretese», le quali, al contrario degli affascinanti errori delle età metafisiche, evitano di diventare un mausoleo e rimangono una forza intellettuale viva e utile all’umanità. XII. LO SCONTRO SCHLICK-NEURATH SUL RAPPORTO TRA LINGUAGGIO ED ESPERIENZA. – Le idee radicali sul fisicalismo, proposte da Neurath, portarono nel Circolo potentissimi germi di discussione. Carnap fu colui che più di ogni altro subì gli influssi neurathiani. Dato però che le formulazioni di Neurath erano «tutt’altro che ineccepibili» (R. Carnap, Sintassi logica del linguaggio, p. 428), fu proprio Carnap a tentarne un ripensamento per una più adatta fondazione del fisicalismo. Due, come si è detto, erano i nuclei del fisicalismo in Neurath, e cioè la concezione del linguaggio come fatto fisico (concezione che metteva da parte il grosso

Epistemologia positivistica problema del confronto realtà-pensiero) e l’esigenza della scienza unificata su base fisicalista. Carnap accetta senz’altro la tesi dell’universalità della lingua fisicalista, senza però insistere sulla riduzione del linguaggio a fatto fisico e quindi senza rigettare la funzione simbolica dei segni. Infatti, i saggi Die physikalische Sprache als Universalsprache der Wissenschaft, in «Erkenntnis», 2 (1931), pp. 432-65 e Die Psychologie in physikalischer Sprache in «Erkenntnis», 1 (1932), pp. 432-465, scritti a difesa del fisicalismo, concernono quasi esclusivamente il tema dell’universalità della lingua fisicalista. «Noi – scrive Carnap – nelle discussioni al Circolo di Vienna, siamo giunti alla concezione che il linguaggio fisico è il linguaggio-base di tutta la scienza, un linguaggio universale che abbraccia i contenuti di ogni altro linguaggio scientifico» (Philosophy and Logical Syntax, London 1935, p. 89). E secondo lui il linguaggio fisico deve essere assunto come linguaggio della scienza unificata (in cui rientrano pure la psicologia e la sociologia, vale a dire le cosiddette «scienze dello spirito»), perché ha le tre caratteristiche dell’intersensualità, dell’intersoggettività e dell’universalità. Certo, possiamo facilmente ammettere con Carnap che il fisicalismo è una tesi logica, che non parla di cose ma di parole. Ma queste parole di che cosa parlano? Come possiamo determinare il rapporto linguaggio-realtà? Su questo rapporto è divampata la polemica Schlick-Neurath. A Carnap, in fondo, la questione non interessava molto, intento, in questo periodo, alla Sintassi logica del linguaggio e quindi alla determinazione delle strutture formali, della sintassi logica, dei linguaggi. Ma se non interessava Carnap il problema era scottante per Schlick, il quale non si poteva rassegnare alla proposta dei «convenzionalisti» di considerare valido ogni linguaggio non contraddittorio. Un linguaggio non contraddittorio, infatti, non è sufficiente a rendere ragione della scienza: anche una favola ben congegnata può essere non contraddittoria, ma senza che per questo sia ritenuta scientifica. Comunque, Schlick, pur non trovando formulazioni adeguate per il suo criterio («il nostro principio è una trivialità su cui non si può nemmeno discutere») ha avuto nel Circolo la funzione dialettica del continuo richiamo ai fatti, richiamo che, come dice Russell, fa vera ogni asserzione (Logic and Knowledge, London - New York 1956, tr. it. di L. Pavolini, Logica e 3493

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Epistemologia positivistica conoscenza, Milano 1961, p. 345). Ciò contro i convenzionalisti (Neurath, Carnap ecc.) i quali, esterrefatti da un supposto e temuto infiltrarsi della metafisica nel pensiero di Schlick, finivano quasi per abbandonare l’empirismo. I convenzionalisti parvero dimenticare che lo scopo delle parole è di occuparsi di cose diverse dalle parole. Per loro la scienza è più o meno come una favola ben strutturata: si tratta sempre di giochi di segni. Schlick però insiste sul fatto che la scienza è sì un gioco di segni, ma è un gioco che viene giocato sulla scacchiera della natura. I convenzionalisti sembrano dire: «In principio era il verbo»; e Schlick ha voluto affermare che «in principio era ciò che il verbo significa» (B. Russell, An Inquiry into Meaning and Truth, London 1940, tr. it. di L. Pavolini, Significato e verità, Milano 1963, p. 190). XIII. IL CONTRIBUTO NEOPOSITIVISTA ALLA FILOSOFIA DELLA SCIENZA. – La controversia su di una adeguata formulazione del principio di verificazione coinvolse i circolisti (soprattutto Schlick, Carnap e Neurath) sullo statuto dei protocolli, cioè di quegli asserti di osservazione costituenti la base empirica della scienza (cfr. F. Barone, Il fisicalismo e la polemica sui protocolli, in «Filosofia», 4, 1953; F. Barone, Il neopositivismo logico, Torino 1953, ed. rivista, Roma-Bari 1977, pp. 305-345). Ed è ovvio che l’accettazione del principio di verificazione da parte dei filosofi viennesi implicò come una delle sue conseguenze più vistose, il rigido rifiuto degli asserti metafisici, considerati come semplici nonsensi (Carnap, Schlick, Neurath, R. von Mises). (Sull’antimetafisica dei Viennesi si consulti: D. Antiseri, Il destino della metafisica nell’analisi linguistica: dal rifiuto viennese al recupero oxoniense, in «Proteus», 2, 1970). E fu sempre l’accettazione del principio di verificazione che portò i Viennesi a insistere, insieme a Wittgenstein, sulla filosofia concepita come attività (attività chiarificatrice del linguaggio) e non come dottrina (cfr. D. Antiseri, Dopo Wittgenstein: dove va la filosofia analitica, Roma 1967, pp. 102-110). Da tali presupposti risulta facile comprendere come l’attività filosofica dei Viennesi si esercitasse quasi esclusivamente su quell’unico linguaggio significativo costituito dal linguaggio della scienza. E fu così che a Vienna ebbe un grande impulso la filosofia della scienza intesa in senso contemporaneo come analisi delle teorie e degli asserti inventati e provati, respinti o accettati dagli uomini di scienza. La causalità, l’induzione, il rapporto tra termini 3494

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teorici e termini osservativi, i protocolli, la probabilità, la natura degli asserti logico-matematici e la loro relazione con le teorie fisiche, le limitazioni interne dei formalismi (si pensi a K. Gödel), la eventuale riducibilità di scienze come la psicologia, la biologia, la chimica alla fisica, sono solo tra i temi più importanti su cui i circolisti spesero le loro energie. XIV. WITTGENSTEIN E POPPER: DUE PROSPETTIVE NON «POSITIVISTE». – Intanto, però, nel gennaio 1929, Wittgenstein torna a Cambridge e riprende il suo lavoro in filosofia, stendendo una gran quantità di osservazioni. Le note scritte dal gennaio del 1929 al settembre del 1930, Wittgenstein le raccolse in un manoscritto dal titolo Philosophische Bemerkungen, che costituiscono il documento da cui è possibile controllare lo staccarsi dalle sue concezioni filosofiche del Tractatus logico-philosophicus, da cui il Circolo di Vienna aveva in parte tratto ispirazione, e l’aprirsi verso prospettive più liberali. Se nel Tractatus Wittgenstein aveva affermato che «il senso di una proposizione è il metodo della sua verifica», ora nelle Philosophische Bemerkungen, egli scrive che «cosa una parola significhi, si apprende mentre si vede come essa viene usata. E se uno ha conosciuto il suo uso, allora si è appreso anche che cosa significhi». Se la filosofia del primo Wittgenstein aveva spronato i circolisti a costruire un linguaggio perfetto, ora l’introduzione, da parte dello stesso Wittgenstein, del principio di uso spinge i seguaci del neopositivismo a riesaminare il loro atteggiamento intransigente e soprattutto il loro programma di costruzione di un linguaggio privilegiato. Al passaggio di Wittgenstein dalla fase del Tractatus alla fase delle Philosophische Bemerkungen bisogna aggiungere le critiche che Karl Popper, a partire dalla Logik der Forschung del 1934, muoveva al principio di verificazione. Questo gli appariva autocontraddittorio, cripto-metafisico e incapace di render conto delle leggi universali delle scienze empiriche. Nell’autobiografia La ricerca non ha fine Popper si chiede, a proposito del dissolversi del Circolo: «Chi ne è responsabile?» e risponde: «Credo di dover ammettere la mia responsabilità» (K.R. Popper, Unended Quest: an Intellectual Autobiography, Glasgow 1986, tr. it. di D. Antiseri, La ricerca non ha fine, Roma 19973, p. 103). XV. CARNAP E LA «LIBERALIZZAZIONE» DELL’EMPIRISMO LOGICO. – Chi più e prima degli altri circolisti avviò la liberalizzazione dell’empirismo fu

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R. Carnap, a partire dagli anni trenta, mentre insegnava a Praga. Egli stesso nell’Autobiografia ne ricostruisce le tappe: «La semplicità e la coerenza del sistema delle conoscenze come la maggior parte di noi al Circolo di Vienna lo concepiva, gli forniva una certa attrattiva e forza di fronte alle critiche; d’altra parte, queste caratteristiche causavano una certa rigidità, cosicché fummo costretti a operare alcuni radicali cambiamenti per rendere giustizia al carattere aperto e all’inevitabile mancanza di certezze di ogni conoscenza fattuale» (Autobiografia, p. 57). Secondo la concezione originaria del Wiener Kreis, il sistema di conoscenza, pur divenendo costantemente più comprensivo, era considerato un sistema chiuso nel senso seguente: secondo i circolisti vi era un minimo di conoscenza, la conoscenza dell’immediatamente dato, che era indubitabile; supponevano che ogni altro tipo di conoscenza poggiasse saldamente su questa base e che si potesse perciò stabilire con altrettanta certezza. Questa era l’immagine che Carnap stesso aveva fornito in Logischer Aufbau der Welt, sotto l’influenza della dottrina machiana delle sensazioni quali elementi di tutta la conoscenza, dell’atomismo logico di Russell e infine della tesi di Wittgenstein secondo cui tutte le proposizioni sono funzioni di verità delle proposizioni elementari. «Questa concezione conduceva al principio wittgensteiniano della verificabilità che dice che in teoria è possibile ottenere o una verifica definitiva o una definitiva confutazione di ogni enunciato dotato di senso» (Autobiografia, p. 57). «Rivedendo questo punto di vista dalla nostra posizione attuale, devo ammettere – soggiunge Carnap – che era difficile conciliarlo con certe altre concezioni che avevamo allora specialmente sulla metodologia della scienza. Perciò lo sviluppo e la chiarificazione delle nostre concezioni metodologiche condussero inevitabilmente a un abbandono della struttura rigida della nostra teoria della conoscenza. La caratteristica importante della nostra posizione metodologica era l’accentuazione del carattere ipotetico delle leggi di natura, in particolare delle teorie fisiche: tale punto di vista era influenzato da uomini come Poincarè e Duhem, e dal nostro studio del metodo assiomatico e della sua applicazione alle scienze empiriche con l’aiuto di definizioni o regole coordinative. Era chiaro che le leggi della fisi-

Epistemologia positivistica ca non potevano essere del tutto verificate. Tale conclusione condusse Schlick, sotto l’influenza di Wittgenstein, alla concezione che le leggi fisiche non dovessero più essere considerate enunciati generali, ma piuttosto regole per la derivazione di enunciati singolari. Altri comunque cominciano a mettere in dubbio l’adeguatezza del principio di verificabilità» (ibi, pp. 57-58). E tra questi altri ci fu, naturalmente, lo stesso Carnap, il quale, durante gli anni trenta, mentre insegnava a Praga, iniziò una ricerca sistematica sulle relazioni logiche tra concetti teorici e concetti di base, cioè quelli relativi alle proprietà osservabili delle cose materiali, i cui risultati furono pubblicati nel saggio Testability and Meaning (1936, in R. Carnap, Analiticità, significanza, induzione, tr. it. a cura di A. Meotti M. Mondadori, Bologna 1971, pp. 151-261). Ed ecco come Carnap stesso spiega questa sua prospettiva liberalizzatrice: «Le ipotesi intorno agli eventi non osservati del mondo fisico non possono mai essere verificate completamente dall’evidenza osservativa: suggerii perciò che noi abbandonassimo il concetto di verificazione e dicessimo invece che l’ipotesi è più o meno confermata o infirmata dall’evidenza. A quel punto lasciai aperta la questione della possibile definizione di una misura quantitativa di conferma; successivamente introdussi il concetto quantitativo di grado di conferma o probabilità logica. Proposi di parlare di confermabilità invece di verificabilità, in modo che un enunciato è considerato confermabile se gli enunciati osservativi possono contribuire positivamente o negativamente alla sua conferma» (Autobiografia, pp. 58-59). Carnap, insomma, abbandona, «oltre al requisito di una completa verificabilità, il precedente punto di vista secondo cui i concetti della scienza sono esplicitamente definibili sulla base di concetti osservativi», in quanto «devono essere usati i metodi più indiretti di riduzione». A tal fine Carnap propose una particolare forma di enunciati di riduzione; «ma nel corso di ulteriori ricerche venne in chiaro che uno schema di questa semplice forma non può bastare a introdurre i concetti della scienza teorica. Tuttavia, la forma semplice di enunciati di riduzione allora proposta fu utile per il fatto che mostrò chiaramente il carattere aperto dei concetti scientifici, cioè che i loro significati non sono completamente fissati» (ibi, p. 59). 3495

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Epistemologia post-positivistica Inoltre, sempre sulla via della «liberalizzazione dell’empirismo», Carnap fece una distinzione tra confermabilità e un concetto in qualche modo più forte, per il quale propose il termine di «controllabilità» (testability): un enunciato che è confermabile da possibili eventi osservabili è inoltre controllabile se si può specificare un metodo per produrre a piacimento tali eventi; questo metodo è una procedura di controllo per l’enunciato. Considerando la questione dell’assunzione a criterio empiristico di significanza della controllabilità o solo della confermabilità, Carnap propose di assumere il più liberale requisito di confermabilità; il requisito più forte di controllabilità corrisponde approssimativamente al principio operazionistico di Bridgman. D. Antiseri ➨ EMPIRISMO; EMPIRISMO LOGICO; ENCYCLOPEDIA OF UNIFIED SCIENCE.

EPISTEMOLOGIA Epistemologia post-positivistica POST-POSITIVISTICA (post-popperiana). – SOMMARIO: I. I primi critici del razionalismo critico: Reichenbach, Carnap, Neurath, Hempel e Geymonat. - II. Thomas S. Kuhn e lo sviluppo «ateleologico» della scienza. - III. Il falsificazionismo metodologico sofisticato di Imre Lakatos. - IV. L’epistemologia anarchica di Paul K. Feyerabend. - V. Larry Laudan e le «tradizioni di ricerca». - VI. Joseph Agassi e le radici metafisiche dei problemi scientifici. - VII. William Bartley: come demarcare tra ciò che è «razionale» e ciò che è «irrazionale». - VIII. John Watkins e la metafisica influente e confermabile. - IX. Critiche logiche alla teoria della verisimilitudine. I. I PRIMI CRITICI DEL RAZIONALISMO CRITICO: REICHENBACH, CARNAP, NEURATH, HEMPEL E GEYMONAT. – Gli approfondimenti, gli sviluppi e le critiche del razionalismo critico costituiscono quella parte consistente dell’epistemologia contemporanea che è l’epistemologia post-popperiana. Subito dopo la pubblicazione della Logik der Forschung (Wien 1935), Hans Reichenbach contestò la posizione antiinduttivistica di Popper. «Non comprendo come Popper possa asserire che il suo lavoro rappresenta un progresso, sia pure minimo, riguardo al problema dell’induzione [...]. Quale aiuto può arrecare, ai nostri giorni, una teoria della conoscenza che dice di non far uso del principio di induzione e che, al suo posto, postula una credenza metafisica? Non riesco a vedere in che modo una filosofia del genere possa ancora definirsi 3496

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concezione scientifica» (H. Reichenbach, Ueber Induktion und Wahrscheinlichkeit, in «Erkenntnis», 5, 1935, [pp. 267-284], p. 283). Da parte sua, Rudolf Carnap fece presente che «allorché vediamo che Popper parla molto severamente del convenzionalismo e del positivismo, anzi anche dell’empirismo, mentre Kant, ad esempio, non viene trattato così duramente e addirittura anche la metafisica se la passa abbastanza bene, si potrebbe essere indotti a pensare, a una lettura affrettata, che Popper sia se non esattamente un metafisico, almeno un apriorista e un antiempirista. Ben al contrario, però, la sue proposte positive mostrano che egli è un empirista e un avversario dell’apriorismo [...]. Popper è davvero molto vicino alle concezioni del Circolo di Vienna» (R. Carnap, rec. a K.R. Popper, Logik der Forschung, in «Erkenntnis», 5, 1935, [pp. 290-294], p. 293). Diversamente da Carnap, Otto Neurath credette di individuare in Popper «l’opposizione ufficiale» del Circolo di Vienna. Se una teoria è minacciata, Popper – annotava Neurath – «sta per principio, per così dire, dalla parte dell’aggressore», ma «l’incondizionata preferenza per la falsificazione non va fruttuosamente a fondo nel quadro di una dottrina della ricerca» (O. Neurath, Pseudorationalismus der Falsifikation, in «Erkenntnis», 5, 1935, [pp. 353-365], p. 357). La posizione di Popper non riuscirebbe, insomma, a render conto dell’effettiva storia della scienza. E quella di Neurath intende essere «una critica dell’assolutismo della falsificazione che, in qualche modo, fa da contrappeso all’assolutismo della verificazione combattuto da Popper» (ibi, p. 365). Neurath, inoltre, fece notare che «Popper si comporta in sostanza più amichevolmente nei riguardi di Kant e di altri metafisici che nei confronti di pensatori che egli definisce come “i positivisti”» (ibi, p. 357). Un tratto, questo, posto in evidenza anche da Carl Gustav Hempel il quale annotava che Popper «ha messo fortemente in evidenza certe caratteristiche del suo approccio che sono comuni all’approccio dei pensatori inclini alla metafisica» (C.G. Hempel, rec. a K.R. Popper, Logik der Forschung, in «Deutsche Literaturanzeitung», 1937, pp. 309-314). Nel 1936, recensendo la Logik der Forschung, Ludovico Geymonat, il quale aveva seguito a Vienna le lezioni di Moritz Schlick, scriveva che «è chiaro che la tesi contrapposta dal Popper ai neo-positivisti è essa stessa non priva di un certo radicale dogmatismo, rivelandosi il suo criterio di falsifica-

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bilità logicamente non più sicuro dei criteri ai quali intende sostituirsi» (L. Geymonat, Logica e filosofia delle scienze, in «Rivista di filosofia», 1936, p. 264). II. THOMAS S. KUHN E LO SVILUPPO «ATELEOLOGICO» DELLA SCIENZA. – Approfondimenti e critiche della concezione fallibilistica della scienza attraversano gli scritti di quegli autori che hanno dato origine a una epistemologia «storicamente orientata» – autori come Thomas S. Kuhn, Imre Lakatos, Paul K. Feyerabend e Larry Laudan. Se per Popper la scienza è in uno stato di «rivoluzione permanente», per Kuhn, invece, la «rivoluzione scientifica» è un evento eccezionale. E siamo in presenza di una rivoluzione scientifica allorché la comunità di ricercatori, sotto la pressione delle anomalie, è indotta ad abbracciare un nuovo paradigma, all’interno del quale gli studiosi di nuovo praticheranno la scienza normale. È il paradigma (per esempio: l’astronomia tolemaica o quella copernicana; la dinamica aristotelica o quella newtoniana ecc.) che istituisce la comunità scientifica; e la scienza normale è «uno strenuo e devoto tentativo» di forzare la natura entro le caselle concettuali fornite dal paradigma: è una prassi con cui si tenta di realizzare le promesse del paradigma (Th.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, tr. it. di A. Carugo, Torino 1969, p. 40). Lo scienziato normale non cerca la novità, e tuttavia la novità apparirà di necessità, se non altro per la ragione che l’articolazione teorica ed empirica del paradigma aumenta il contenuto informativo della teoria esponendola al rischio della smentita. È in questo modo che emergono le anomalie – problemi che, resistendo ai reiterati assalti della comunità scientifica, determinano la crisi del paradigma, dando origine a un periodo di scienza straordinaria, periodo di «ricerca sgangherata», che cessa allorché riesce a emergere un nuovo paradigma in grado di conquistare la fiducia della comunità scientifica. È nel passaggio da un paradigma a un altro che si ha una rivoluzione scientifica, la quale è una specie di riorientamento gestaltico, in quanto «paradigmi successivi ci dicono cose differenti sugli oggetti che popolano l’universo e sul comportamento di tali oggetti» (ibi, p. 131). E se per Popper si passa da una teoria a un’altra per ragioni logiche ed evidenze fattuali, per Kuhn i ricercatori «abbracciano un nuovo paradigma per ogni genere di ragioni, e di solito per parecchie ragioni allo stesso tempo» (ibi, p. 185).

Epistemologia post-positivistica Ovviamente, nei periodi di scienza normale, il progresso scientifico è un progresso cumulativo, mentre è uno sviluppo ateleologico il passaggio da un paradigma a un altro, giacché i paradigmi, ad avviso di Kuhn, sono spesso incommensurabili. Kuhn vede nello sviluppo della scienza un processo di evoluzione a partire da stadi primitivi, ma questo non significa che tale processo porti la ricerca sempre più vicina alla verità, come pretende Popper. Al pari che nell’evoluzione biologica, l’evoluzione della scienza – sostiene Kuhn – si sviluppa costantemente a partire, appunto, da stadi primitivi, ma tende verso nessuno scopo (ibi, p. 206). III. IL FALSIFICAZIONISMO METODOLOGICO SOFISTICATO DI IMRE LAKATOS. – Imre Lakatos distingue tre tipi di falsificazionismo: il falsificazionismo dogmatico (secondo cui la scienza si svilupperebbe attraverso congetture ardite e falsificazioni infallibili. Fatta propria da alcuni scienziati e da filosofi come, per esempio, A.J. Ayer, questa concezione, precisa Lakatos, non è la posizione di Popper); il falsificazionismo metodologico ingenuo (che almeno corregge l’errore dei falsificazionisti dogmatici e sostiene, come Popper aveva già messo in luce nella Logica della scoperta scientifica, che la base empirica della scienza non è infallibile – un motivo questo per cui non si danno falsificazioni infallibili); il falsificazionismo metodologico sofisticato (che, diversamente dal falsificazionismo metodologico ingenuo, non concepisce lo sviluppo della scienza come una serie di successivi duelli tra una teoria e i fatti; ma che piuttosto vede la lotta tra il teorico e i fattuale aver luogo sempre per lo meno a tre: tra due teorie in competizione e i fatti. E questo porterebbe a capire la ragione per cui una teoria viene scartata non semplicemente quando qualche fatto la contraddice, ma unicamente allorquando la comunità scientifica ha a disposizione una teoria migliore della precedente). Il falsificazionismo metodologico sofisticato è la posizione che Lakatos fa propria, mentre giudica la posizione di Popper oscillante tra questo tipo di falsificazionismo e quello metodologico ingenuo. Il falsificazionismo metodologico sofisticato si incentra sull’idea di programma di ricerca scientifico, inteso come una serie di teorie T1,T2,...,Tn, le quali si sviluppano da un nucleo centrale che per decisione metodologica viene reso infalsificabile in modo che possa mostrare il suo valore, la sua fecondità e la sua progressività nei confronti di un programma in com3497

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Epistemologia post-positivistica petizione – e che non viene abbandonato finché risulta progressivo, vale a dire finché anticipa teoricamente fatti che, almeno in parte, ricevono conferma empirica. Ed è proprio l’idea di programma di ricerca (e Lakatos pensa a programmi come il copernicanesimo, l’atomismo o l’evoluzionismo) e l’idea che la storia della scienza è stata, è e dovrebbe essere una storia di programmi di ricerca in competizione a distinguere, ad avviso di Lakatos, la propria posizione sia da quella di Kuhn che da quella di Popper. Difatti, «la Logik der Forschung, nel suo insieme, è aridamente astratta e altamente astorica. Là dove Popper si arrischia a fare osservazioni sulla falsificabilità delle maggiori teorie scientifiche, o cade in qualche madornale equivoco logico o distorce la storia in modo che si adatti alla sua teoria della razionalità» (I. Lakatos, La storia della scienza e le sue ricostruzioni razionali, in AA.VV., Critica e crescita della conoscenza, tr. it. di G. Giorello, Milano 1976, p. 393). D’altro canto, «secondo la concezione di Kuhn la rivoluzione scientifica è irrazionale, è materiale adatto per la psicologia della folla» (I. Lakatos, La falsificazione e i programmi di ricerca scientifici, in ibi, p. 256). IV. L’EPISTEMOLOGIA ANARCHICA DI PAUL K. FEYERABEND . – Un pensatore ammirato da Paul K. Feyerabend è Lessing. Ed egli lo ammira per la sua indipendenza, la sua disponibilità a mutare opinione, la sua onestà, il suo senso dello humour. «Gli uomini hanno imparato da lui perché le sue parole risvegliavano il loro intelletto, il loro sentimento e perché notavano che qui parlava loro un amico degli uomini e non un educatore dell’umanità. “Verità”, “ragione” e altre astrazioni sono state le clave con cui Kant e i suoi seguaci nani nel ventesimo secolo hanno fatto piegare sulle ginocchia il pubblico, e costoro ammettono apertamente che quello che sta loro soprattutto a cuore non è la vita degli uomini, ma sono gli avvenimenti in un “mondo 3” di idee [...]. Di tutto ciò non c’è traccia in Lessing; [...] non è, per l’appunto, un maestro di scuola, un professore, e tanto meno un professore tedesco. Come una torre si eleva al di sopra degli ansiosi-tirannici nani razionalisti, incluso Sir Karl Popper, il nano capo» (cfr. P.K. Feyerabend, Sul metodo. Un dialogo, in AA. VV., Presupposti e limiti della scienza, tr. it. di G. De Martino, A. Bizzotto, C. Gagliardi, Roma 1985, p. 270). Il suo libro Against Method (London 1975, tr. it. di L. Sosio, Contro il metodo, Milano 1973), Feyerabend lo 3498

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ha scritto nella convinzione che «l’anarchismo, pur non essendo forse la filosofia politica più attraente, è senza dubbio una eccellente medicina per l’epistemologia e per la filosofia della scienza» (ibi, tr. cit., p. 15). E lo è perché «la storia in generale, la storia delle rivoluzioni in particolare, è sempre più ricca di contenuto, più varia, più multilaterale, più viva, più “astuta”, di quanto possano immaginare anche il migliore storico e il migliore metodologo» (ibidem). È su presupposti del genere che Feyerabend propone la sua metodologia anarchica. Secondo lui, «l’idea di un metodo che contenga principi fermi, immutabili e assolutamente vincolanti come guida nell’attività scientifica si imbatte in difficoltà considerevoli quando viene messa a confronto con i risultati della ricerca storica. Troviamo infatti che non c’è una singola norma, per quanto plausibile e per quanto saldamente radicata nell’epistemologia, che non sia stata violata in qualche circostanza. Diviene evidente anche che tali violazioni non sono eventi accidentali, che non sono il risultato di un sapere insufficiente o di disattenzioni che avrebbero potuto essere evitate. Al contrario, vediamo che tali violazioni sono necessarie per il progresso scientifico» (ibi, tr. cit., p. 21). Così, afferma Feyerabend, eventi e sviluppi come l’invenzione dell’atomismo nell’antichità, la rivoluzione copernicana, l’avvento della teoria atomica moderna (teoria cinetica, teoria della dispersione, stereochimica, teoria quantistica), il graduale emergere della teoria ondulatoria della luce «si verificarono solo perché alcuni pensatori o decisero di non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche “ovvie” o perché involontariamente le violarono» (ibid.). E una simile libertà di azione non è, ad avviso di Feyerabend, soltanto un fatto della storia della scienza: «Essa è sia ragionevole sia assolutamente necessaria per la crescita del sapere. Più specificatamente, si può dimostrare quanto segue: data una norma qualsiasi, per quanto “fondamentale” o “necessaria” essa sia per la scienza, ci sono sempre circostanze nelle quali è opportuno non solo ignorare la norma, ma adottare il suo opposto. Per esempio, ci sono circostanze nelle quali è consigliabile introdurre, elaborare e difendere ipotesi ad hoc, o ipotesi che contraddicano risultati sperimentali ben stabiliti e universalmente accettati, o ipotesi il cui contenuto sia minore rispetto a quello delle ipotesi alternative esistenti e adeguate empiricamente,

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oppure ancora ipotesi autocontraddittorie ecc. Ci sono addirittura circostanze – le quali si verificano anzi piuttosto spesso – in cui il ragionamento perde il suo aspetto orientato verso il futuro diventando addirittura un impaccio al progresso» (ibi, tr. cit., pp. 21-22). A supporto della sua immagine di scienza Feyerabend adduce il caso storico dello sviluppo del copernicanesimo da Galileo al XX secolo. Ed ecco la sua conclusione: «È chiaro, quindi, che l’idea di un metodo fisso, o di una teoria fissa della razionalità, poggia su una versione troppo ingenua dell’uomo e del suo ambiente sociale. Per coloro che non vogliono ignorare il ricco materiale fornito dalla storia, e che non si propongono di impoverirlo per compiacere ai loro istinti più bassi, alla loro brama di sicurezza intellettuale nella forma della chiarezza, della precisione, dell’“obiettività”, della “verità”, diventerà chiaro che c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene» (ibi, tr. cit., p. 25). V. LARRY LAUDAN E LE «TRADIZIONI DI RICERCA». – Sempre nel quadro dell’epistemologia postpositivistica presenta tratti originali la concezione che della scienza e del suo progresso è stata avanzata da Larry Laudan, il quale nel suo Progress and its Problems: Towards a Theory of Scientific Growth (London 1977, tr. it. di E. Riverso, Il progresso scientifico, Roma 1979) ha inteso delineare «le implicazioni, per la storia e la filosofia della scienza, del punto di vista che concepisce la scienza soprattutto come una attività impegnata nella soluzione dei problemi» (ibi, tr. cit., p. 30). Prima di ogni altra cosa, Laudan distingue i problemi empirici dai problemi concettuali. Un problema empirico può essere definito, in linea generale, come «qualunque cosa riguardi il mondo naturale e ci colpisca come strano o comunque bisognoso di spiegazione» (ibi, tr. cit., p. 33). Certo, non esistono problemi se non all’interno di un contesto teorico, ma ciò non toglie che noi con essi intendiamo problemi di primo ordine, domande cioè «sugli oggetti che costituiscono il dominio di ogni data scienza» (ibi, tr. cit., p. 34). I problemi empirici possono distinguersi in: «1) Problemi insoluti, cioè quei problemi empirici che non ancora sono stati risolti adeguatamente da alcuna teoria; 2) Problemi risolti, cioè quei problemi empirici che sono stati adeguatamente risolti da una teoria; 3) Problemi ano-

Epistemologia post-positivistica mali, cioè quei problemi empirici che non sono stati risolti da una particolare teoria, ma che sono stati risolti da una o più teorie in competizione con questa» (ibi, tr. cit., p. 36). Questi son dunque i tipi di problemi empirici. E «una delle caratteristiche del progresso scientifico è quella di trasformare problemi empirici anomali e non risolti in problemi risolti» (ibidem). D’altra parte, per una teoria T i problemi concettuali nascono in uno dei due modi: «1) Quando T presenta alcune incoerenze interne, o quando le sue categorie fondamentali di analisi sono incerte e poco chiare; questi sono problemi concettuali interni; 2) Quando T è in conflitto con un’altra teoria o dottrina T1, che i sostenitori di T ritengono razionalmente ben fondata; questi sono problemi concettuali esterni» (ibi, tr. cit., p. 70). Stabilite siffatte distinzioni, Laudan propone gli assunti di base del suo modello di sviluppo della scienza: «1) Il problema risolto, empirico o concettuale, è l’unità di base del progresso scientifico. 2) Scopo della scienza è quello di massimizzare la portata dei problemi empirici risolti e di ridurre la portata dei problemi empirici anomali e di quelli concettuali non risolti» (ibi, tr. cit., p. 87). E i problemi, empirici o concettuali, si trovano inseriti in tradizioni di ricerca. Una tradizione di ricerca è «un insieme di assunti generali riguardanti le entità e i processi presenti in un certo dominio di studio, e i metodi appropriati che si devono usare, per indagare su problemi e costruire le teorie in tale dominio» (ibi, tr. cit., pp. 203-204): direttive, dunque, di natura ontologica e direttive di natura metodologica. Classiche tradizioni di ricerca sono «il darwinismo, la teoria dei quanti, la teoria elettromagnetica della luce» (ibi, tr. cit., p. 101). In realtà, però, «ogni disciplina intellettuale, scientifica o non scientifica, ha una storia ricca di tradizioni di ricerca: empirismo e nominalismo in filosofia, volontarismo e necessitarismo in teologia, behaviorismo e freudismo in psicologia, utilitarismo e intuizionismo in etica, marxismo e capitalismo in economia, meccanicismo e vitalismo in fisiologia [...]» (ibid.). E allo scopo di identificare, almeno in un primo approccio, una tradizione di ricerca, Laudan esplicita alcune caratteristiche comuni alle varie tradizioni: «1) Ogni tradizione di ricerca ha un certo numero di teorie specifiche, che l’esemplificano e parzialmente la costituiscono; alcune di queste teorie sono contemporanee fra loro, altre si succedono nel tempo. 2) Ciascuna tradizione di ricerca appare caratterizzata da alcuni 3499

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Epistemologia post-positivistica impegni metafisici e metodologici che, nel loro insieme, individuano la tradizione stessa e la distinguono dalle altre. 3) Ciascuna tradizione di ricerca (a differenza delle singole specifiche teorie) passa attraverso un certo numero di diverse e dettagliate (e spesso reciprocamente contraddittorie) formulazioni; in genere ha una lunga storia, che si svolge attraverso un notevole periodo di tempo (a differenza delle teorie, che spesso hanno una vita breve)» (ibidem). Con ciò le tradizioni di ricerca di Laudan si distinguono dai programmi di ricerca di Lakatos e dai paradigmi di Kuhn, giacché gli uni e gli altri «hanno una tale rigidità nella loro struttura centrale, da non ammettere alcuna trasformazione fondamentale» (ibi, tr. cit., p. 100). Una tradizione di ricerca ottiene successo allorché, «attraverso le sue componenti, porta alla soluzione adeguata di un numero sempre maggiore di problemi empirici e concettuali» (ibi, tr. cit., p. 105). Nella prospettiva di Laudan manca, come si vede, il riferimento alla verità, alla probabilità e alla verosimiglianza. La verità non è mai un possesso dimostrato, non abbiamo un criterio di verità (Tarski), e sono state dimostrate inconsistenti le definizioni popperiane di verosimiglianza: sotto la pressione di tali risultati Laudan ha scelto una via pragmatica, stando alla quale «fare una scelta razionale è fare delle scelte che realizzano progresso, cioè che accrescono la capacità di risolvere problemi, posseduta dalle teorie che noi accettiamo» (ibi, tr. cit., p. 152). Talché, «collegando in questo modo la razionalità al progresso, sostengo – afferma Laudan – che possiamo avere una teoria della razionalità, senza presupporre niente sulla verità o verosimiglianza delle teorie che giudichiamo razionali o irrazionali» (ibidem). Alla obiezione che la sua concezione della scienza scivolerebbe in una specie di strumentalismo, Laudan risponde che simile critica non coglie nel segno: «Nel modello da me presentato – egli scrive – non c’è niente che escluda la possibilità che, per tutto quello che sappiamo, le teorie scientifiche siano vere; esso non esclude la possibilità che la conoscenza scientifica, col passare del tempo, si sia avvicinata sempre di più alla verità. Neppure c’è niente, in quanto ho detto, che escluda un’interpretazione “realistica” dell’impresa scientifica. Ma la mia tesi – insiste Laudan – è che noi, a quanto ci risulta, non abbiamo alcun modo di sapere con certezza (o almeno con una buona speranza di non sbagliare), che la scienza è vera o probabi3500

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le o si stia avvicinando alla verità. Il raggiungimento di una tale certezza o un tale accostamento alla verità sono utopistici nel senso letterale che non possiamo mai costatare il loro raggiungimento. Proporsi cose del genere come fini della ricerca scientifica, può essere qualcosa di nobile e di edificante per coloro che trovano diletto nella frustrazione di aspirare a ciò a cui non possono mai pervenire, pur sapendolo bene; ma questi fini non sono molto utili se il nostro intento è quello di spiegare come le teorie scientifiche vengono o debbano essere valutate» (ibi, tr. cit., p. 154). VI. JOSEPH AGASSI E LE RADICI METAFISICHE DEI PROBLEMI SCIENTIFICI. – Popper ha scritto un saggio sulla natura dei problemi filosofici e le loro radici nella scienza (K.R. Popper, La natura dei problemi filosofici e le loro radici nella scienza [1952], in Congetture e confutazioni, tr. it. di G. Pancaldi, Bologna 1972, pp. 117-167); Joseph Agassi ha scritto, invece, un saggio sulla natura dei problemi scientifici e le loro radici nella metafisica (J. Agassi, La natura dei problemi scientifici e le loro radici metafisiche, in Le radici metafisiche delle teorie scientifiche, ed. it. a cura di E. Riverso, Roma 1983). Qui Agassi confessa che il suo interesse per la fisica trova origine in un suo molto precedente interesse per la metafisica. All’università, ricorda Agassi, i professori si beffavano di tutta la metafisica come fisica del passato, «ma io – egli dice – presento alcune metafisiche come fisiche del futuro» (ibi, p. 39). E sottolinea che è facile vedere come i problemi scientifici considerati importanti sono di grande rilevanza per la metafisica del loro tempo (ibi, p. 40). Agassi intende riabilitare la metafisica come un quadro per la scienza (ibi, p. 39). Un esempio di tali metafisiche è, per Agassi, la teoria di Faraday dell’universo come campo di forze (cfr. J. Agassi, Faraday as a Natural Philosopher, Chicago-London 1971). E se è vero che le dottrine metafisiche non sono controllabili così come lo sono le teorie scientifiche, tuttavia – egli sostiene – qualcosa di simile a un esperimento cruciale è possibile anche nell’ambito delle teorie metafisiche: «Due diverse prospettive metafisiche presentano due diverse interpretazioni di un insieme di fatti conosciuti. Ciascuna di queste interpretazioni viene sviluppata fino a dare una teoria scientifica e una delle teorie scientifiche viene sconfitta in sede di esperimento cruciale. La metafisica che è alle spalle della teoria scientifica che è stata

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sconfitta, perde il suo potere interpretativo e viene così abbandonata. È in questo modo che alcuni problemi scientifici sono rilevanti per la metafisica; in genere vengono scelti per essere studiati proprio quei problemi scientifici che presentano questa rilevanza» (J. Agassi, La natura dei problemi scientifici e le loro radici metafisiche, p. 39). Popper – fa presente Agassi – direbbe che la ricerca mira a scoprire e a controllare ipotesi altamente controllabili. Agassi non è affatto d’accordo su questa tesi popperiana e precisa che «la ricerca è molto spesso portata verso la scoperta e il controllo di ipotesi metafisicamente rilevanti e la ricerca tende a cominciare con ipotesi che hanno un basso grado di controllabilità, o non sono affatto controllabili» (ibi, p. 38). Si cerca, insomma, di catturare nell’ambito del fattualmente controllabile teorie che ancora non lo sono, ma che rivestono il più grande interesse. Di conseguenza, il ricercatore «deve spesso far uso di una grande ingegnosità, per controllare un’ipotesi appena controllabile [...]» (ibid.). La metafisica, inoltre, va attentamente distinta dalla superstizione e dalla pseudo-scienza. La superstizione è una teoria accettata senza che venga fronteggiata da un atteggiamento critico (ibi, p. 52). D’altra parte, la caratteristica della pseudo-scienza è l’uso metodologicamente sconsiderato di casi confermanti: «Una metafisica può essere considerata come un programma di ricerca e le false pretese della pseudo-scienza possono essere considerate come risultato di una confusione tra un programma e un prodotto finito» (ibi, p. 57). E ancora una importante considerazione: la metafisica offre quadri concettuali per la scienza; ma può capitare che alcuni di questi quadri vengono a risultare troppo stretti; e, allorché si avverte che questo è il caso, emerge la richiesta di un nuovo quadro metafisico: «La metafisica è stagnante in una cultura priva di scienza o di spirito critico; invece fa progressi nelle culture scientifiche» (ibi, p. 59). VII. WILLIAM BARTLEY: COME DEMARCARE TRA CIÒ CHE È « RAZIONALE » E CIÒ CHE È « IRRAZIONALE ». – «Quantunque Popper non sia mai stato un positivista, è chiaro che negli anni trenta aveva un orientamento più positivistico e anti-metafisico che non ora» (W.W. Bartley, Come demarcare la scienza dalla metafisica, tr. it. di E. Prodi, Roma 1983, p. 19) – questo scriveva nel 1966 W. Bartley, il quale, sulla questione della me-

Epistemologia post-positivistica tafisica, si sente vicino al Popper dell’Epilogo metafisico del Poscritto. L’inconfutabilità empirica di una teoria non è, per Bartley, necessariamente un vizio (W.W. Bartley, Come demarcare la scienza dalla metafisica, p. 19). E vi sono, a suo avviso, molti contesti in cui teorie empiricamente inconfutabili sono altamente desiderabili, più desiderabili dei controlli empirici. Difatti, «se il nostro scopo è quello di massimizzare la critica alle concezioni esistenti, il possesso di qualche teoria o spiegazione alternativa, scientifica o meno, che entri in conflitto con i resoconti al momento più popolari della questione che deve essere spiegata è sostanzialmente più importante del possesso di ciò che sembra essere una confutazione o un controesempio empirico della teoria in auge» (ibidem). Va da sé che quanto detto – precisa Bartley – non significa che, ogniqualvolta sorga un conflitto tra una teoria metafisica e una teoria scientifica, debba essere la teoria scientifica a venir eliminata; o, viceversa, che debba sempre essere la teoria metafisica a venire abbandonata (ibi, p. 21). Per queste decisioni Bartley suggerisce una «regola da praticoni», stando alla quale «una nuova teoria, severamente controllata e dotata di un alto contenuto dovrebbe generalmente scalzare un vecchio e molto elaborato quadro metafisico in conflitto con essa, mentre a una vecchia teoria scientifica assai controllata non dovrebbe essere consentito di precludere una seria considerazione di una nuova, e non ancora sviluppata, metafisica» (ibidem). Bartley è in netto disaccordo con quanti pensano che le teorie metafisiche siano un male necessario o che l’inconfutabilità di siffatte teorie sia un vizio. Una posizione del genere, fa egli presente, ridurrebbe anziché aumentare la critica: «(1) Scoraggiando l’invenzione di tali teorie e (2) facendo sì che queste nuove e vaghe teorie siano messe fuori combattimento prima di aver raggiunto un grado di sviluppo sufficiente per esibire il loro potere, o la mancanza di esso» (ibi, p. 22). Quello di cui si ha bisogno non è tanto un criterio per demarcare quello che è scientifico da quanto scientifico non è; si avverte piuttosto il bisogno di criteri più generali, applicabili all’intero ambito delle asserzioni – metafisiche, scientifiche, teologiche, etiche – logicamente interrelate, criteri i quali «aiutino a separare le teorie di dubbio interesse da quelle che meritano un’ulteriore discussione» (ibidem). Lo sviluppo del pensie3501

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Epistemologia post-positivistica ro di Popper circa la questione della natura, razionalità e funzioni delle teorie metafisiche ha reso obsoleta – ad avviso di Bartley – la sua discussione sulla demarcazione. «Popper suggerì ai positivisti che il problema non risiede nella demarcazione fra ciò che è dotato di significato e ciò che ne è privo, ma nella demarcazione fra ciò che è scientifico e ciò che non è scientifico. Io – afferma Bartley – suggerisco che il problema non risiede nella demarcazione fra ciò che è scientifico e ciò che non lo è, ma nella demarcazione fra ciò che è razionale e ciò che è irrazionale, fra ciò che è critico e ciò che non è critico» (ibidem). Ed ecco la critica di Popper a Bartley: «[...] Posso solo dire che questo è un suggerimento che ho sempre dato (sin dal 1937) ai miei lettori e ai miei studenti (anche e specialmente a Bartley); l’ho presentato come il tema principale del “razionalismo critico” nel cap. 24 de La società aperta, ed è un punto che ho messo in rilievo in innumerevoli conferenze, solo in parte pubblicate, alle quali Bartley presenziò [...]. In innumerevoli occasioni ho suggerito ai miei studenti come sia assai chiarificante identificare “ciò che è razionale” (preferisco il termine “atteggiamento di razionalità”) con l’attitudine critica, con l’approccio critico alla scienza e alla filosofia» (K.R. Popper, Replica a Bartley, in W. Bartley, Come demarcare la scienza della metafisica, pp. 74-75). VIII. JOHN WATKINS E LA METAFISICA INFLUENTE E CONFERMABILE. – Idee extra-scientifiche, teorie metafisiche, hanno influito e influiscono sia sullo sviluppo della scienza sia su concezioni politiche e morali (cfr. J. Watkins, Metafisica confermabile e influente [1958], in Tre saggi su «Scienza e metafisica», tr. it. di E. Prodi, Roma 1983, pp. 31, 33-36). E proprio al fine di offrire un ragionevole resoconto di siffatto influsso, John Watkins propone, di contro alla dicotomia analitico-sintetico, una tricotomia, stando alla quale tra il regno delle verità analitiche e il regno degli asserti sintetici c’è la terra di nessuno di quelle dottrine metafisiche che egli chiama dottrine dell’universo misterioso che hanno una quantificazione sia universale che esistenziale («tutti-e-alcuni»), come, per esempio: «Per tutti i metalli esiste un certo acido che li dissolve» (ibi, p. 19). Il determinismo, lo storicismo, il meccanicismo, l’atomismo, dottrine a priori della conservazione, concezioni del campo, idee metafisiche connesse alla psicologia (come la teoria della corrispondenza psi3502

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co-fisica, il freudismo ecc.) sono alcune di queste dottrine dell’universo misterioso (ibi, pp. 22-30). Gli empiristi affrontano il problema della metafisica – della sua sensatezza, significato, funzioni ed eventuale razionalità – equipaggiati con la dicotomia analitico-sintetico; Watkins, invece, affronta la questione della metafisica attrezzato con la tricotomia: «analitico»-«sintetico»-«a priori non necessario». Gli asserti metafisici a priori (indipendenti dall’esperienza, a motivo della loro infalsificabilità) e non necessari (non necessari logicamente, nel senso di non-tautologici) sono esattamente quegli asserti che stanno nella terra di nessuno tra l’impero analitico e l’impero sintetico (ibi, p. 41). Da ciò segue immediatamente che tali teorie, esulando dall’analiticità e dalla controllabilità, non è possibile deciderle né tramite procedure analitiche né attraverso controlli empirici e in effetti «né le regole della logica né gli esami empirici possono esercitare alcun controllo su di una coerente dottrina dell’universo misterioso» (ibi, p. 41). Ma, allora, come è che queste teorie potranno venire razionalmente criticate e valutate? È ben vero che la classe delle dottrine dell’universo misterioso annovera dei membri malfamati, ma non per questo – si affretta a precisare Watkins – possiamo mettere al bando l’intera classe. Anche perché «per un verso i suoi membri sono cugini e nipoti logici di rispettabili asserti empirici, e per un altro verso alcuni di loro hanno dimostrato di possedere una stupenda fecondità (ibi, p. 42). Io penso – prosegue Watkins – che la scienza teorica finirebbe per fermarsi se gli scienziati dovessero considerare il mondo come un luogo non misterioso, dove niente è velato e ogni cosa è ciò che appare essere» (ibidem). Dunque: come valutare una teoria metafisica? Si è supposto che il più forte argomento a favore di una metafisica sia il fatto che essa è implicata da un’ipotesi scientifica che abbia riscosso successo. Tuttavia – a parte il fatto che una metafisica che appare appropriata per la fisica potrebbe, per esempio, collidere con la metafisica che appare appropriata con la biologia (o con l’etica) –, non è soddisfacente trarre la conclusione che una dottrina metafisica implicata da una teoria scientifica predominante possegga «un’autorità assoluta»: «Come una fiorente comunità di affari che abbia devoluto una percentuale dei suoi profitti ai fondi del partito protezionista, la teoria

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scientifica potrebbe avere finanziato una teoria scientifica che ne scoraggi la concorrenza» (ibi, p. 43). A ogni modo, dal punto di vista storico – afferma Watkins – le dottrine metafisiche hanno svolto un ruolo creativo all’interno della scienza, allorché «hanno sfidato le teorie esistenti, ed hanno prefigurato con l’immaginazione un nuovo genere di teoria» (ibid.). Per Watkins, in conclusione, non esiste un qualche criterio singolo per valutare una teoria metafisica – un criterio singolo come la conformità con la scienza esistente (ibid.). «La conformità con la scienza esistente è un fattore favorevole, ma può essere superato in importanza da una stima pragmatica della possibile influenza della dottrina sul futuro della scienza. Bisogna inoltre esplorare e soppesare nel loro complesso le ripercussioni che essa può avere sulla psicologia, sulla storia, sulle scienze sociali, sulla morale e sulla politica» (ibi, p. 43). IX. CRITICHE LOGICHE ALLA TEORIA DELLA VERISIMILITUDINE. – Critiche logiche alla teoria della verisimilitudine sono state apportate da Pavel Tichý (cfr. On Popper’s Definition of Verisimilitude, in «British Journal for the Philosophy of Science», 25, 1974, pp. 155-160 e Verisimilitudine Redefined, in «British Journal for the Philosophy of Science» 27, 1976, pp. 25-42), David Miller (cfr. Popper’s Qualitative Theory of Verisimilitude, in «British Journal for the Philosophy of Science», 25, 1974, pp. 166-177 e On the Comparison of False Theories with their Bases, in «British Journal for the Philosophy of Science» 25, 1974, pp. 178-188) e John Harris (cfr. Popper’s Definitions of Verisimilitude, in «British Journal for the Philosophy of Science», 25, 1974, pp. 160-166). Per Popper, tra due teorie falsificate, una teoria T2 è migliore di una teoria T1 qualora T2 sia più verosimile di T1; e T2 è più verosimile di T1 quando tutte le conseguenze vere di T1 sono vere in T2, quando tutte le conseguenze false di T1 sono vere in T2, e quando da T2 sono estraibili conseguenze non deducibili da T1. Un tale criterio avrebbe dovuto permettere la scelta, ovviamente congetturale, della teoria più verosimile tra due teorie false – la scelta cioè della teoria più simile al vero, più vicina alla verità, come sarebbe il caso della teoria di Newton, falsa alla luce della teoria di Einstein ma progressiva nei confronti di quella di Copernico. Possiamo pertanto asserire che, data una teoria falsa A (per esempio, la meccanica di Newton), la sua verisimilitudine (con-

Epistemologia post-positivistica cetto comparativo di verosimilitudine) aumenta in ciascuno di questi due casi: (1) se aumenta il suo contenuto di verità AV (cioè le sue conseguenze vere) e contemporaneamente non aumenta il suo contenuto di falsità AF (cioè le sue conseguenze false); (2) se diminuisce il suo contenuto di falsità AF e contemporaneamente non diminuisce il suo contenuto di verità AV. Queste definizioni, però, sono inconsistenti, giacché si può dimostrare che, se aumenta il contenuto di verità di una teoria falsa, aumenta anche il contenuto di falsità – contro quanto si dice in (1); e che se, sempre in una teoria falsa, diminuisce il contenuto di falsità, diminuisce pure il suo contenuto di verità – contrariamente a quanto stabilito da (2). Risultati del genere rendono evidente il fallimento della proposta di Popper tendente a stabilire un criterio di progresso tramite definizioni logiche. Il verdetto distillabile dalle critiche simultanee e convergenti di Tichý, Miller e Harris è che: tra due teorie false una non può essere più verosimile di un’altra. D’accordo con Tarski che noi non abbiamo un criterio di verità, Popper aveva cercato un criterio di verisimilitudine. La sua proposta si è, però, rivelata un insuccesso. A questo proposito Popper scrive: «[...] Accettai la critica della mia definizione pochi minuti dopo che mi fu presentata, chiedendomi come mai non avessi visto prima l’errore; ma nessuno ha mai dimostrato che la mia teoria della conoscenza, che ho sviluppato a partire dal 1933, e che da allora è gagliardamente cresciuta ed è molto usata dagli scienziati di mestiere, sia minimamente scossa da questa definizione sfortunatamente errata. E non è mai stato dimostrato nemmeno per quale motivo l’idea di verisimilitudine (che non è una parte essenziale della mia teoria) non dovrebbe venire ancora usata nell’ambito della mia teoria come concetto non definito» (K.R. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica, vol. I: Il realismo e lo scopo, tr. it. a cura di A. Artosi e R. Festa, Milano 1984, p. 23). Altre difficoltà di tipo logico sono le difficoltà sollevate da David Miller (cfr. The Accuracy of Predictions, in «Synthese», 30, 1975, pp. 159191) e Adolf Grünbaum (cfr. Can a Theory Answer more Questions than one of its Rivals?, in «British Journal for the Philosophy of Science», 27, 1976, pp. 1-23) circa il confronto del contenuto, o potere esplicativo, di due teorie in competizione. Il confronto, per Popper, do3503

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Epistemologia riformata vrebbe avvenire sulla base dei problemi ai quali le due teorie sono in grado di dare risposta. Sennonché, Popper ammette di aver sfortunatamente parlato di «tutti» i problemi cui l’una o l’altra teoria dovrebbero rispondere (K.R. Popper, Supplementary Remarks [1978], in Objective Knowledge: An Evolutionary Approach, Oxford 19792, p. 387). Ma non è difficile dimostrare che se due teorie si contraddicono, non tutti i problemi risolti dalla teoria precedente potranno essere risolti dalla successiva (cfr. A. Grünbaum, Can a Theory..., cit., pp. 11 ss.). Per cui, Popper – dopo questa critica – ha proposto che, nel confronto di teorie contrastanti dovremmo parlare non di tutti i problemi, ma dobbiamo relativizzare il confronto ai problemi scientificamente rilevanti, a quei problemi che lo scienziato praticante considererebbe rilevanti in una data situazione problematica (si veda, al riguardo, K.R. Popper, La ricerca non ha fine, cit., pp. 40-41 e, soprattutto, la nota 20 alle pp. 219-220). Una terza obiezione di tipo «logico» – fatta presente da Kuhn e, soprattutto, da Feyerabend (cfr. P.K. Feyerabend, Against Method, tr. cit., pp. 185-237. Cfr. sull’argomento G. Giorello, Filosofia della scienza e storia della scienza nella cultura di lingua inglese, cit., pp. 252-257) – è quella per cui paradigmi differenti o le teorie più ampie e fondamentali sarebbero incommensurabili – con la conseguenza che la scienza non progredirebbe, nel senso inteso da Popper, verso le teorie più verosimili. «L’incommensurabilità – replica Popper – è molto più radicale dell’incompatibilità; mentre l’incompatibilità è una relazione logica e perciò fa riferimento a un’unica cornice logica, l’incommensurabilità suggerisce la non esistenza di una cornice logica comune» (K.R. Popper, Il mito della cornice, in M. Pera - J. Pitt [a cura di], I modi del progresso, tr. it. di P. Barrotta, Milano 1985, p. 41). E, tuttavia, l’astronomia di Tolomeo è ben lungi dall’essere incommensurabile con quella di Aristarco e di Copernico: «non c’è dubbio – annota Popper – che la differenza tra queste due concezioni dell’universo e l’abisso che le divide possono farci tremare. Ma non esiste alcuna difficoltà seria a confrontarle» (ibid. Cfr. anche K.R. Popper, La conoscenza e il problema corpo-mente, tr. it. di F. Laudisa, Bologna 1996, pp. 181-184). E, più in generale, egli afferma che un confronto di questo tipo tra sistemi diversi è sempre possibile e che «teorie che offrono soluzioni 3504

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agli stessi problemi o a problemi analoghi sono di regola confrontabili, che le discussioni su di esse sono sempre possibili e feconde, e che non sono solo possibili, ma che hanno realmente luogo» (K.R. Popper, Il mito della cornice, p. 41). Il mito della cornice è una teoria da Popper giudicata «falsa e immorale» - una teoria «che, se largamente accettata, deve per forza minare l’unità del genere umano e incrementare la probabilità di violenza e di guerra» (ibi, p. 121). D. Antiseri

EPISTEMOLOGIA RIFORMATA (reformed Epistemologia riformata epistemology; reformierte Erkenntnistheorie; épistémologie réformée). – L’epistemologia riformata fu presentata da Alvin Plantinga, Nicholas Wolterstorff e William Alston nel volume Faith and Rationality. Reason and Belief in God (Notre Dâme 1983). Questa posizione teoretica nasce e si sviluppa nell’ambito della filosofia analitica della religione, contemporaneamente alla rinascita dell’epistemologia analitica. L’epistemologia riformata, infatti, almeno nel suo stadio iniziale, non si interessa alla natura della credenza e del linguaggio religiosi, e al ruolo che questi hanno nella vita del credente, ma è una posizione squisitamente epistemologica. La sua origine rimanda a due precisi riferimenti storico-teoretici. In primo luogo, soprattutto Plantinga e Wolterstorff, si rifanno alla tradizione teologica riformata, e in particolare al neocalvinismo olandese nel quale alcuni pensatori, filosofi e teologi, davano grande risalto a una conoscenza di Dio di tipo intuitivo e non inferenziale. A questo risalto era associata una visione antropologica nella quale spiccava la ripresa del tema calviniano del sensus divinitatis. In un tale scenario il rapporto tra fede e ragione acquistava una valenza fortemente epistemologica giungendo a indicare il ruolo che la ragione svolge nel credere e, per converso, il ruolo che svolge il credere, e la fede, nell’argomentazione razionale. L’idea di Wolterstorff e di Plantinga nello sviluppo della seconda alternativa era che la dimensione religiosa dell’esistenza condiziona l’indagine condotta in tutti gli ambiti del sapere al pari di una proposizione ipotetico inferenziale dove la fede, ciò che è conosciuto per fede, agendo come premessa insieme a ciò che è conosciuto per mezzo di altre fonti produce sapere, sapere storico, sociologico, teologico ecc. Il secondo

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riferimento storico-teoretico dell’epistemologia riformata è indicato da Plantinga e Wolterstorff nella nascita, alla fine degli anni settanta dello scorso secolo, della metaepistemologia, vale a dire di quell’analisi delle opzioni strutturali che gli epistemologi hanno a disposizione per costruire le loro teorie epistemologiche. Nell’ambito degli studi di metaepistemologia essi si accorgono che il paradigma strutturale che ha dominato la gnoseologia occidentale, almeno a partire dall’Illuminismo, e all’interno del quale la credenza e la conoscenza religiose sono state valutate, è stato il fondazionalismo. L’epistemologia riformata nasce sulla scorta dell’indagine metaepistemologica e in particolare in concomitanza alla concettualizzazione del fondazionalismo e in opposizione a questo. Del fondazionalismo i nostri autori segnalavano la grande importanza assegnata all’evidenzialismo quale strategia di giustificazione delle credenze. A partire dall’illuminismo (questa è la tesi degli epistemologi riformati) è prevalsa la ricerca di una religione fondata razionalmente, all’interno della quale convinzioni e credenze espresse in proposizioni dovevano esibire o il loro grado di evidenza proposizionale o la loro relazione a proposizioni esprimenti convinzioni e credenze evidenti. L’epistemologia riformata respinge questo approccio riconoscendolo peraltro anche all’interno della tradizione di teologia naturale presente nella modernità. È infatti complementare all’epistemologia riformata un’obiezione riformata alla teologia naturale, obiezione che pur non disdegnando l’uso di argomentazioni tese a indicare la plausibilità delle convinzioni teistiche, nega che queste argomentazioni possano essere un fondamento per l’atto del credere del singolo credente. L’epistemologia riformata, nella elaborazione per mano dei suoi proponenti, ha conosciuto un suo sviluppo interno che è possibile fissare in fasi, pur mantenendo alcune costanti di fondo in grado di assicurarne la continuità, prima fra tutte l’indagine sul senso della razionalità della credenza teistica. La prima grande fase dell’epistemologia riformata è quella che fa perno sul volume del 1983 in cui gli epistemologi riformati contestano la necessità di rinvenire una base evidenziale per le credenze teistiche sostenendo, da un lato, la legittimità della loro ingiustificabilità fino a prova contraria, cioè fino a quando non le si dimostra irra-

Epistemologia riformata zionali (Wolterstorff), dall’altro lato (Plantinga) segnalando la natura immediata e di fondo (basic belief) della proposizione che esprime la credenza teistica per eccellenza (Dio esiste) o di credenze teistiche più contingenti (Dio mi ama; Dio mi sta parlando ecc.). In pratica, nell’ambito dello schema fondazionalistico che permetteva la divisione della struttura noetica umana in due piani (quello per le credenze derivate o fondate e il piano delle credenze basilari o di fondo), gli epistemologi riformati sostenevano che le credenze teistiche dovevano essere tolte dal primo e poste sul secondo. Nel vocabolario di Plantinga la credenza teistica è di fondo (properly basic). Ciò non depone contro la sua razionalità, in quanto molte delle nostre credenze comuni sono intrattenute in tal modo, e in secondo luogo perché è possibile se non giustificarle, quanto meno indicare la loro razionalità ricorrendo a un metodo induttivo e particolaristico per mezzo del quale è possibile sostenere che una convinzione sull’esistenza di Dio, qui e ora, pur se mancante di fondamenti proposizionali evidenti, non è comunque priva di riferimenti a circostanze generali che ne indicano la plausibilità logicorazionale: pur se di fondo (basic) essa non è senza alcuna base (groundless). L’epistemologia riformata a questo punto usciva leggermente dal campo prettamente epistemologico e faceva riferimento a uno scenario antropologico e a un’ontologia del senso comune nelle quali si faceva spazio a una capacità umana innata, il sensus divinitatis, in grado di attivarsi in determinate circostanze e produrre la credenza che afferma l’esistenza di Dio, oltre a manifestare un quadro ontologico in cui le credenze e le proposizioni teistiche presupponevano un correlato realistico. La seconda grande fase dell’epistemologia riformata riproporrà, a un livello diverso, questo scenario antropologico insieme ai conseguenti problemi metafisici che esso comporta. A partire dalle critiche mosse alla prima fase dell’epistemologia riformata, colpevole secondo alcuni di prestare il fianco a obiezioni di tipo relativistico e fideistico, gli epistemologi riformati, soprattutto Plantinga, mediante l’analisi della giustificazione epistemica, dei suoi limiti (internismo) e delle sue alternative (affidabilismo ed esternismo), concentrano la loro attenzione sui meccanismi che producono le credenze umane; in particolare cercano 3505

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Epistemologia riformata quella circostanza in cui un meccanismo epistemico, data la verità della credenza che produce, e data la sua giustificabilità, permette di aggirare le critiche di Edmund Gettier per il quale si può arrivare a credere proposizioni che solo accidentalmente sono vere o che lo sono solo in apparenza. Già Wolterstorff nel 1983 aveva indicato la necessità di tener conto di tali meccanismi di produzione epistemica, in particolare aveva parlato della loro preliminare affidabilità, fino a prova contraria, e della loro pluralità, relativizzando la facoltà della ragione che fa inferenze. Wolterstorff amplierà l’analisi dei meccanismi epistemici con le sue indagini storiche, soprattutto su un pensatore come Thomas Reid, che in questa fase farà sentire la sua influenza su tutti gli epistemologi riformati. William Alston nel suo Perceiving God (Ithaca [New York] 1991) sosterrà la validità delle credenze religiose nell’ambito di una esperienza religiosa, sulla base di una equiparazione di queste credenze con quelle percettive. I meccanismi epistemici (doxastici è il termine utilizzato da Alston) in entrambi i casi sono affidabili in quanto anche la loro valutazione esige che essi preventivamente siano all’opera. Plantinga, nella sua trilogia dedicata alla garanzia epistemica (Warrant: The Current Debate, New York 1993; Warrant and Proper Function, New York 1993; Warranted Christian Belief, New York 2000), concentrerà la sua attenzione sul funzionamento appropriato dei meccanismi che producono le credenze umane, istituendo una relazione tra un tale funzionamento appropriato e il grado di garanzia che le credenze da essi prodotte manifestano. Una credenza garantita è una credenza prodotta da un meccanismo epistemico umano (autocoscienza, memoria, testimonianza, credenza intersoggettiva, percezione, conoscenza a priori, induzione, probabilità epistemica) che sta funzionando appropriatamente in un ambiente a lui congeniale, secondo le specificazioni di un progetto dettagliato e la cui verità, a cui mirano i meccanismi sotto esame, è altamente probabile. L’istanza originaria dell’epistemologia riformata, la razionalità della credenza teistica, è recuperata dunque dall’interrogazione sulla garantibilità di tale credenza e ciò pone le basi per una differenziazione del progetto originario dell’epistemologia riformata: è possibile infatti analizzare direttamente la garanzia delle credenze teistiche e cristiane, 3506

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ma è possibile, d’altro canto, indagare la visione antropologica in cui si rinvengono meccanismi epistemici che producono credenze morali e teistiche da poter valutare da un punto di vista funzionalistico. Questa seconda indagine incrocia il dibattito interno all’epistemologia analitica sulla naturalizzazione dell’epistemologia, e conduce a problematiche ontologiche alle quali gli epistemologi riformati hanno sempre fatto cenno, senza tuttavia confrontarsi direttamente. La garanzia delle credenze teistiche è presentata dopo aver rilevato come tutte le analisi di tali credenze abbiano risentito di una confusione tra un piano di indagine de jure e un piano di indagine de facto. Nelle obiezioni moderne rivolte alle credenze religiose gli epistemologi riformati hanno distinto quelle contro la verità delle credenze stesse (per esempio l’obiezione che parte dalla constatazione della presenza del male nel mondo) e quelle rivolte alla giustificabilità o razionalità, ma anche ragionevolezza delle credenze e dei credenti. Tutta l’epistemologia riformata si è concentrata sul piano de jure dell’indagine, prima ponendo sotto esame le stesse obiezioni (evidenzialistiche, fondazionalistiche, naturalistiche) poi attaccando questa distinzione e facendo notare che l’indagine e la valutazione della razionalità della credenza teistica, della sua giustificabilità o garantibilità, non è esente da presupposti sulla verità o falsità de facto di tale credenza. Se infatti ci fossero meccanismi epistemici che producono credenze teistiche, per esempio il sensus divinitatis, sarebbe facile sottoporli a un’indagine funzionalistica e accertarsi del loro grado di garanzia. Esistono tali meccanismi? Producono essi credenze orientate alla ricerca della verità? Sono tali credenze vere? Qui, teismo e naturalismo evoluzionistico nell’ultimo pensiero degli epistemologi riformati si confrontano come due spiegazioni della realtà all’interno delle quali l’indagine epistemologica assume direzioni completamente diverse. G.C. Di Gaetano BIBL.: A. PLANTINGA, Reformed Epistemology, in P.L. QUINN - C. TALIAFERRO, A Companion to Philosophy of Religion, Oxford 1997, pp. 383-389; N. WOLTERSTORFF, The Reformed Tradition, in P.L. QUINN - C. TALIAFERRO, A Companion to Philosophy of Religion, Oxford 1997, pp. 165-169; G.C. DI GAETANO, L’epistemologia «riformata» di Alvin Plantinga, in «Archivio di filosofia», LXVIII (2000), pp. 329-347; M. MICHELETTI, Filosofia analitica della religione, un’introduzione storica, Bre-

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Epitteto

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scia 2002; N. WOLTERSTORFF, Epistemologia riformata., in «Protestantesimo», 59 (2004), pp. 119-136; G.C. DI GAETANO, Plantinga. La razionalità della credenza teistica, Brescia 2006.

EPISTEMOLOGIA. Epist. Riv. Fil. ScienzaRIVISTA ITALIANA DI FILOSOFIA DELLA SCIENZA (An Italian Journal for the Philosophy of Science). – Rivista semestrale edita da Tilgher (Genova), fondata nel 1978, è attualmente diretta da E. Agazzi. Vuole essere una rivista di filosofia della scienza nel senso più ampio del termine. Pur dando, infatti, ampio spazio a ricerche di carattere analitico, riguardanti aspetti specifici sia dei metodi che dei contenuti della scienza, essa intende aprire un orizzonte di discussione in cui la scienza diviene oggetto di problematizzazione filosofica, non solo come modello di conoscenza, ma anche come fatto storico, implicato in un contesto di valori di vario genere, e come espressione di una forma della razionalità umana comparabile con altre forme. Si propone inoltre di costituire un possibile spazio d’incontro e discussione per le diverse tendenze in cui si articola la filosofia della scienza in Italia e, nel contempo, si apre a contributi di studiosi internazionali. Di ciò è espressione il carattere bilingue degli articoli pubblicati (italiano e inglese, con riassunto nella lingua alternativa). In alcuni casi sono usciti fascicoli monografici contenenti atti di convegni significativi. C. Palermo

EPITTETO. – Filosofo greco stoico, n. nella Epitteto città di Ierapoli, nella Frigia meridionale, tra il 50 e il 60 d. C. Fu schiavo, forse dalla nascita, e servì Epafrodito, anch’egli un ex-schiavo che era giunto a ricoprire importanti incarichi presso Nerone (cfr. Svetonio Nerone, XLIX 5; Domiziano, XIV 9); probabilmente dopo la morte dell’imperatore, avvenuta nel 68 d. C., Epitteto fu emancipato dal suo padrone, il quale, stando al platonico Celso, la cui testimonianza è accolta da Origene e da altre fonti cristiane (cfr. Origene, Contra Caelsum, VII 53 = test. 17 Schenkl, cfr. anche test. 31-35 Schenkl), ma non avallate dalla Suda (test. 21 Schenkl), avrebbe in un primo tempo maltrattato il giovane schiavo ma poi ne avrebbe ammirato le attitudini morali e intellettuali, al punto di consentirgli di frequentare l’insegnamento dello stoico Musonio Rufo (che Epitteto più volte ricorda nella sua opera, cfr. Dissertazioni,

I 1, 27; I 7, 32; III 6, 10; III 23, 29) e poi di rendergli la libertà. A Roma Epitteto iniziò egli stesso ad avere discepoli fino al 95, anno cui risale l’editto con cui l’imperatore Domiziano bandiva i filosofi da Roma e dal territorio della penisola. Epitteto si trasferì a Nicopoli, importante centro commerciale e culturale dell’Epiro, dove rimase fino alla sua morte, avvenuta in tarda età, anche se è improbabile che, come sostiene la Suda, Epitteto sia giunto a vedere l’ascesa di Marco Aurelio, nell’anno 161, mentre più verosimile appare l’ipotesi che sia scomparso sotto Adriano, forse tra il 125 e il 135. Tra i suoi discepoli vi fu Arriano di Nicomedia, che fu console nel 130. Arriano, che amava considerare se stesso un «nuovo Senofonte» (cfr. test 17 Schenkl), indicando dunque implicitamente nel maestro un nuovo Socrate, compose una redazione scritta delle lezioni del maestro in una serie cospicua di libri (almeno otto) di diatribaiv, cioè di conversazioni, dissertazioni, di cui solo quattro giunti a noi, e in un enchiridion, un manuale in cui è condensata l’esposizione delle dissertazioni (cfr. Aulo Gellio, Noctes Acticae 2 = test. 8 S.). Si possiedono anche alcuni frammenti, derivati probabilmente dalle dissertazioni perdute o da altre redazioni. La filosofia di Epitteto raccoglie in prevalenza l’eredità dell’antico stoicismo, sia in ambito fisico-teologico che in quello morale e non pare aver subito l’influenza della media Stoa, dato che egli non cita mai né Panezio né Posidonio né altri rappresentanti della stoa del II e I secolo a. C. Si deve tuttavia ricordare che quello che noi possediamo è solo una parte della redazione delle sue lezioni. Questo stoico sembra comunque accettare l’idea di un cosmo unico e coeso, soggetto a distruzioni periodiche (cfr. ad es. Dissertazioni, III 24, 9); ma soprattutto crede nell’assetto provvidenziale della natura e nella presenza diffusa, in essa, della razionalità divina (a cui dedica ben tre diatribe, I 6, I 16 e III 17; cfr. inoltre Dissertazioni, I 9, 13-15; III 26, 28). L’uomo, in questo assetto, occupa un posto eminente per via della sua superiorità razionale; ma, d’altra parte, è anche soggetto alla sequenza necessaria e fatale degli eventi (cfr. Dissertazioni, II 5, 13; II 8, 11; IV 7, 7). Tale visione del mondo induce Epitteto a definire il comportamento saggio come un’adesione al destino e una accettazione degli accadimenti che non deve essere scambiata per un’attitudine passiva e pessimi3507

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Epoca stica, né per una deplorazione della debolezza e fragilità umane. Al centro dell’educazione filosofica e morale, infatti, Epitteto pone il concetto di «indifferenza» che già la Stoa antica aveva ereditato dalla tradizione socratico-cinica, e che consiste nel rifiuto di conferire un valore, positivo o negativo, ai beni materiali e a tutto quanto non si identifichi con il bene e il male morale. L’indifferenza, però, si coniuga, nel pensiero di Epitteto, con la corretta individuazione delle cose «in nostro potere» (ta; ejf´ hJmi'n), nel cui riconoscimento consiste la massima libertà e autonomia dell’uomo. Nell’attenersi alle cose in nostro potere e nel perseguire solo queste, l’uomo esprime la sua volontà libera, pur vivendo all’interno di un ordine reale sul quale non può esercitare il suo controllo (cfr. ad es. Dissertazioni, I 1, 17; II 13, 10; Manuale, 1, 5). Massimi esempi di questa autonomia della volontà sono Socrate e Diogene cinico. Queste due personalità debbono per quanto possibile essere imitate. Di Socrate, infatti, Epitteto intende recuperare il modo di educare i giovani per mezzo dell’elenchos, cioè attraverso una sollecitazione continua al ragionamento con l’interrogazione e con il dialogo (cfr. ad es. Dissertazioni, I 9, 1); di Diogene Epitteto vuole ricordare il costume di vita e la capacità di dominare intellettualmente anche l’interlocutore più potente (cfr. Dissertazioni, I 24, 6). Senza dunque negare l’idea di destino, caposaldo della teodicea stoica, Epitteto ritiene che tutta la filosofia debba perseguire tre obiettivi: il controllo dei desideri, che debbono pertanto essere commisurati alla nozione di indifferenza e adeguati solo a quanto è in nostro potere; la capacità di orientare e correggere le nostre propensioni e le nostre repulsioni (oJrmaiv, ajformaiv) verso obiettivi che siano conformi a natura anche se privi di intrinseco valore morale, come gli atti convenienti verso la famiglia, verso i concittadini, verso lo stato ecc.; infine, il raggiungimento della saldezza del giudizio, che, sola, conferisce un indirizzo coerente e costante alle azioni nel corso dell’intera vita. Da questo schema si comprende che, sebbene Epitteto abbia espresso ammirazione per il cinismo, e non a caso una dissertazione è dedicata appunto al modo di vita cinico (cfr. Dissertazioni, III 22: Peri; Kunismou'), egli non abbia ripristinato i tratti più rigidi e talora urtanti del cinismo antico e di una particolare corrente dello stoicismo 3508

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delle origini, facente capo ad Aristone di Chio, e abbia preferito rinforzare il tema dell’autonomia corredandolo di quel senso di umanità e di partecipazione alle vicende umane che hanno reso il suo insegnamento un modello e una fonte di ispirazione per molti secoli. F. Alesse BIBL.: H. SCHENKL, Epicteti Dissertationes ab Arriano Digestae, Lipsiae 19162, rist. Stuttgart 1965; W.A. OLDFATHER, Epictetus: the Discourses as Reported by Arrian, the Manual, and Fragments, voll. I-II, LondonCambridge (Massachusetts) 1925-1928; J. SOUILHÉ, Epictète. Entretiens, voll. I-IV, Paris 1948-65; R. DOBBIN, Epictetus Discourses, l. I, Oxford 1998; P. HADOT, Arrien: Manuel d’Epictète, Paris 2000. Studi: H. V. ARNIM, s. v., in A. PAULY - G. WISSOWA et al., Paulys Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, Stuttgart 1893-1963, vol. VI, colI. 126-131; A. BONHÖFFER, Epiktet und die Stoa, Stuttgart 1890; A. BONHÖFFER, Die Ethik der Stoikers Epiktet, Stuttgart 1894; M. BILLERBECK, Epiktet: vom Kynismus, Leiden 1978; J. HERSHBELL, The Stoicism of Epictetus, in «Aufstieg und Niedergang der römischen Welt», 36.3 (1989), pp. 2148-2163; R. DOBBIN, Prohairesis in Epictetus, in «Ancient Philosophy», 11 (1991) pp. 111-135; R. KAMTEKAR, Aijdwv" in Epictetus, in «Classical Philology», 93 (1998), pp. 136-160; G. BOTER, The Encheiridion of Epictetus and Its Three Christian Adaptations, Leiden 1999; J.B. GOURINAT, Premières leçons sur le Manuel d’Epictète, Paris 2000; A.A. LONG, Epictetus. A Stoic and Socratic Guide to Life, Oxford 2002.

EPOCA (epoch; Epoche, Zeitabschnitt; époque; Epoca época). – SOMMARIO: I. Epoca, evo e periodo. - II. Diversi modi di esprimere la durata. - III. Epoca e fenomenologia. I. EPOCA, EVO E PERIODO. – Termine derivato dal greco (ejpoch/v) indicante «sospensione, fermata, interruzione, punto di arresto» (da ejpevcw «trattenere»). In filosofia, sotto la forma trasliterata di epoché, è usato nello scetticismo antico (sospensione di giudizio, e quindi di ogni genere di affermazione o negazione intorno all’essenza degli esseri) e nella fenomenologia husserliana (riduzione fenomenologica, mettere tra parentesi). Riferito alla storia, epoca è spesso sinonimo di periodo, età, era, indicando genericamente uno spazio di tempo, più o meno lungo. Nel suo significato più proprio e ristretto, conserva l’originario senso di «interruzione», e indica uno spazio di tempo sufficientemente caratterizzato, o un periodo storico compreso tra due punti storici (intendendo per punto storico un momento della storia se-

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gnato da qualche avvenimento memorabile, da cui si comincia a contare una serie di anni): per esempio, epoca delle grandi scoperte, epoca moderna. Talora un solo evento storico può assurgere a valore di epoca: si dice, per esempio, che la scoperta della bomba atomica ha fatto epoca, così un libro, uno stile ecc. Nelle scienze geologiche, pur non essendovi stretta uniformità nella terminologia, spesso epoca è una suddivisione del periodo, suddivisione a sua volta dell’era. Cercando di distinguere da epoca gli altri termini indicanti spazi di tempo, si può parlare di periodo (dal greco periodov") per indicare l’intervallo di tempo che ritorna a essere il medesimo in un ciclo: p. es., periodo di rivoluzione o di rotazione di un corpo celeste; per estensione, un intervallo di tempo che, per determinati caratteri, si distingue in un ciclo qualsiasi: per esempio, i quattro periodi del sogno spiegato da Daniele a Nabucodonosor, i periodi della letteratura latina; con maggiore estensione, qualsiasi spazio di tempo, fuori di ogni concezione ciclica: per esempio, periodo della democrazia. Inoltre ricordiamo il termine età con un significato più ristretto, indicando, propriamente, i periodi della vita umana; l’espressione «età del mondo», per analogia, significa gli anni di esistenza del mondo (l’età della terra). Nelle scienze geologiche, età è sinonimo di epoca (p. es., età glaciale o epoca glaciale). Però, in generale, età sembra avere uno spettro semantico più ristretto di epoca, per cui si dice: nell’epoca moderna si ebbe l’età del barocco. Era, rispetto a epoca e a età, indica una divisione di tempo che prende inizio da un avvenimento storico in genere senza riferimento alla fine (era della libertà) o che ha iniziato una nuova cronologia (era cristiana). II. DIVERSI MODI DI ESPRIMERE LA DURATA. – Per indicare i diversi tipi di durata, si usano anche i termini: tempo, che è la durata di un essere subordinato a una forma di divenire successivo e continuo; evo, che deriva, come età, dal greco aijwvn (in latino aevum, donde aevitas, aetas), e spesso è sinonimo appunto di età, sebbene ne accentui la lunghezza (p. es., nelle espressioni: evo cristiano, evo medio o medioevo): nel suo significato tecnico, evo esprime, comunque, la durata di un essere subordinato a una forma di divenire successivo ma non continuo. Altro termine è quello di eternità, che indica o un tempo senza inizio e senza fine, o la perseveranza nell’esistere di quell’essere che è tutte le

Epoca perfezioni, con una durata che è tutta, insieme e sempre, al di fuori e al di sopra del tempo. In particolare, per quanto attiene al termine epoca, si è usata l’espressione al plurale, epoche della civiltà, che significa le fasi storiche in cui la civiltà ha assunto forma e figura distinta secondo il predominio di un’idea o di un popolo: la loro serie si presenta iniziata da una fase primitiva o di precedenza, e conclusa da una fase culminante e contemporanea alla storica. È tradizionale la classificazione delle grandi epoche: orientale, greco-romana, medievale e moderna, che G.B. Vico nei Principi di una scienza nuova dintorno alla natura delle nazioni (Napoli 1725; 17443) caratterizzò come: eroica, giuridica, neoeroica e scientifica. Per Hegel l’epoca cristiana e moderna si fondono in una sola, l’epoca germanica; l’orientale rappresenta l’Idea divina dell’umanità ancora rinchiusa in sé, nel suo mistero; la classica rappresenta lo svolgimento di quest’idea per sé, nelle istituzioni e nel diritto; la germanica il trionfo dell’autocoscienza religiosa e filosofica. In Schelling (cfr. Die Weltalter, München 1811-15) esse sono unificate come conseguenti alla formazione del sistema solare e alla genesi della vita spirituale. I filosofi positivisti (Comte, Buckle) ripresentarono il sistema trifasico (legge dei tre stadi; sociologia tribale, barbarica, ed evoluta), ammettendo (come già Fichte) una duplicazione o moltiplicazione di tipi storici in ciascuna fase. La filosofia del secolo XX ha ampliato questo criterio, fino a riconoscere in ciascuna delle tre grandi epoche una pluralità di singole civiltà non assimilabili tra loro e con diverso decorso (A.J. Toynbee, A Study of History, London-Oxford 1934, Abridgment di D.C. Somervell, tr. it. di C.P. e Charis de Bosis, Le civiltà nella storia, Torino 1950), ma lo ha pure rinnovato. S. Caramella - L. Pagello

III. EPOCA E FENOMENOLOGIA. – Oggi, infatti, si connette strettamente il concetto di epoca alla fenomenologia e si parla più diffusamente di cronometria, cronologia, cronografia, cronosofia. Quest’ordine dipende essenzialmente da un pensabile, che supera quello del conoscibile (per riprendere la distinzione kantiana fra il Denken e l’Erkennen) nei cui limiti si tiene prudentemente il concetto di epoca utilizzato dagli storici. In realtà, non è sufficiente ipotizzare che il concetto di epoca debba riferirsi soltanto alla memoria collettiva. Essa deve anche conquistare il suo spazio di descrizione e 3509

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Epoché di spiegazione su un fondo speculativo tanto ricco quanto quello dispiegato dalle problematiche del male, dell’amore e della morte. Per questo motivo l’idea di epoca, intesa fenomenologicamente, si staglia sul fondo della quadruplice membratura dell’ordine del tempo. È possibile, per esempio, riconoscere il tempo del calendario o cronologico nel tempo della cronometria e della cronologia. Il primo designa i cicli brevi o lunghi del tempo che ritorna, che gira in tondo: giorno settimana, mese, anno; il secondo designa il tempo lineare dei periodi lunghi: secolo, millennio ecc., la cui scansione è diversamente punteggiata da eventi fondamentali e fondatori; cicli pluriennali vi si inscrivono, quali le olimpiadi greche. Sono due specie di tempo che orologi e calendari misurano con la riserva per cui gli intervalli della cronologia – quali le epoche – hanno una significazione sia qualitativa che quantitativa. Così, la cronologia misurata in una determinata epoca, quella più vicina all’intenzione storica, sa ordinare gli avvenimenti, in funzione di una serie di dati e di nomi, e sa ordinare la sequenza delle epoche e delle loro suddivisioni; ma essa ignora la separazione fra la natura e la storia: autorizza a parlare di storia cosmica, di storia della terra, di storia della vita; la storia umana non ne è che un segmento. Con la cronografia, invece, entriamo nei sistemi di notazione che possono fare a meno del calendario. Gli episodi registrati vengono definiti dalla loro posizione rispetto agli altri: successione di eventi unici, buoni oppure cattivi, gioiosi o rattristanti. Il tempo contenuto in questa «epoca» non è ciclico né lineare, bensì amorfo: esso riferisce la cronaca reperita sulla posizione del narratore, prima che il racconto stacchi la storia raccontata dal suo autore. Quanto alla cronosofia, la sua intenzione eccede il progetto di storia ragionata implicato dall’accezione classica del concetto di epoca. Essa è stata coltivata da molte famiglie di pensiero che mescolano i tempi, a seconda di ricche tipologie, che oppongono il tempo stazionario al tempo reversibile, il quale può essere sia ciclico sia lineare. La storia che si può fare con queste grandi rappresentazioni equivale a una «storia della storia», da cui gli storici di mestiere non riescono forse mai a liberarsi, dal momento che si tratta di assegnare una significazione ai fatti: continuità in opposizione a discontinuità, ciclo in opposizione a linearità, distinzione in periodi o in epoche. Ancora 3510

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una volta, il concetto di epoca non viene qui messo a confronto principalmente con la fenomenologia del tempo vissuto e con gli esercizi di narratività popolare o dotta, bensì con un ordine del pensabile che ignora il senso dei limiti. Ora, le categorie che ne scaturiscono, non hanno cessato di costruire l’«architettura» temporale della nostra civiltà, ovvero la nostra epoca. A questo proposito, l’epoca attuale, alla pari di ogni epoca, procede sia per limitazione di questo immenso ordine del pensabile, che per superamento dell’ordine del vissuto. G. Pasquale BIBL.: V. MELCHIORRE, Il sapere storico, Brescia 1963; W. WEISCHEDEL, Der Gott der Philosophen. Grundlegung einer philosophischen Theologie im Zeitalter des Nihilismus, München 19852, tr. it. a cura di L. Mauro, Il Dio dei filosofi: fondamenti di una teologia filosofica nell’epoca del nichilismo, Genova 1988; E.J. HOBSBAWM, Age of Extremes, London 1994, tr. it. di B. Lotti, Il secolo breve, Milano 1995 (rist. 2002); U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano 20004; P. RICOEUR, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Paris 2000, tr. it. a cura di D. Iannotta, La memoria, la storia, l’oblio, Milano 2003; M. MARASSI, Forma d’epoca, in «Oltrecorrente», 4 (2001), pp. 119-129; M. PASOTTI, Il concetto-epoca, in «Oltrecorrente», 4 (2001), pp. 131-148; M. SALVIOLI, Il senso della storia secondo Ricoeur e Derrida, in «Sapienza», 56 (2003), pp. 181200; G. PASQUALE, Oltre la fine della storia. La coscienza cristiana dell’Occidente, Milano 2004. ➨ AION; CHRONOS; DURATA; MEMORIA; STORIA, FILOSOFIA DELLA; STORIA E STORIOGRAFIA; TEMPO.

EPOCHÉ. – Il termine deriva dal verbo «epéEpoché chein» che indicava, nell’ambito dello scetticismo antico, l’«arrestarsi» del saggio nella ricerca della verità una volta appurata l’inaffidabilità delle credenze fondate sulla percezione sensibile. Il sostantivo «epoché» assume in seguito il significato tecnico di «sospensione dell’assenso», che Zenone di Cizio limita ai soli giudizi la cui verità non è dimostrabile in modo adeguato, e che invece l’accademico Arcesilao, in esplicita polemica con lo stoicismo, ritiene necessario estendere a qualsivoglia affermazione (cfr. Sextus Empiricus, Pyrrhoniarum Hypotyposeon libri tres, l. I, 220 e ss.). Con intenzionale richiamo allo scetticismo, inteso come componente «immortale» del pensiero in quanto tale, Edmund Husserl fa dell’epoché il metodo in virtù di cui è possibile guadagnare lo sguardo fenomenologico. Assu-

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Equazione dell’infinito

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mere l’atteggiamento trascendentale richiede infatti la sospensione della «tesi generale» dell’atteggiamento naturale, per cui «il mondo, che c’è sempre, è» (Ideen I, in Hua, vol. III, 1, Den Haag 1976, p. 61) ed «è» tutto ciò che in esso è «presente», cose e persone. A differenza dell’epoché scettica e del dubbio cartesiano, l’esercizio dell’epoché fenomenologica non consiste nel «capovolgimento della tesi [dell’atteggiamento naturale] in antitesi» (ibi, p. 63), né nella sua trasformazione nel «giudizio problematico: “forse il mondo non è”» (Zur Phänomenologie der Reduktion, in Hua, vol. XXXIV, Dordrecht - Boston - London 2002, p. 405), ma semplicemente nel non farne uso, nella sua «messa in parentesi» (Einklammerung), nell’«interruzione» (Ausschaltung) della sua validità e di tutte le teorie che su questa si fondano. Nel «preclude[re] ogni giudizio sull’esistenza spazio-temporale» (Ideen I, p. 65), l’epoché rivela per contraccolpo la correlazione intenzionale come inaggirabilità del punto di vista soggettivo al quale originariamente si mostra tutto ciò di cui, su un piano derivato, si dice che è. In questo senso la nozione di «epoché» dell’atteggiamento naturale è a tal punto intrecciata a quella di «riduzione» alla soggettività trascendentale, che non stupisce che a lungo Husserl utilizzi i due termini come sinonimi. La sospensione-di e la riconduzione-a sono tuttavia operazioni distinguibili in linea di principio, e di fatto ben distinte dall’ultimo Husserl, secondo il quale per il raggiungimento del piano trascendentale «di contro al primo momento dell’epoché, ne è necessario un secondo, quello di una consapevole trasformazione della medesima mediante riduzione all’ego assoluto quale ultimo e unico centro di funzione di ogni costituzione» (Krisis, in Hua, vol. VI, Den Haag 1962, p. 190). L’epoché si configura qui come momento preliminare alla vera e propria riduzione, in quanto non sospende più la validità della tesi dell’atteggiamento naturale tout court, ma quella sua alterazione storica, e tutt’altro che naturale, rappresentata dall’imporsi dell’oggettivismo delle scienze come dominio esclusivo del senso: essa è dunque «epoché da ogni attuazione delle conoscenze delle scienze oggettive» (ibi, p. 138). Con questa più articolata descrizione del movimento di accesso alla fenomenologia, Husserl intende, tra l’altro, sottrarsi alle difficoltà derivanti dalla cosiddetta «via cartesiana» alla riduzione, che scava

un’opposizione eccessivamente radicale tra atteggiamento naturale e trascendentale. S. Bancalari BIBL.: I. KERN, Die drei Wege zur transzendental-phänomenologischen Reduktion in der Philosophie Edmund Husserls, in «Tijdschrift voor Filosofie», 24 (1962), pp. 303-349. ➨ SCETTICISMO.

EPOPTICO (gr. ejpoptikov", «riguardante la Epoptico ejpopteiva», cioè la «visione» o «contemplazione»). – Il termine si riferisce alla condizione di coloro («epopti») i quali, attraverso la visione, hanno raggiunto il più alto grado dell’iniziazione ai misteri eleusini e che perciò sono ammessi alla conoscenza delle cose più segrete. In questo senso epoptico risulta affine a esoterico. Tra i pitagorici erano egualmente chiamati epopti coloro che, entrando in possesso della dottrina del maestro, potevano essere accolti nella schiera più eletta della scuola. Viene infine detta «epoptica» anche quella parte della filosofia di Platone e di Aristotele riservata ai migliori tra i discepoli. A.M. Moschetti ➨ ESOTERICO; INIZIAZIONE; VISIONE.

EQUAZIONE DELL’INFINITO (infinity Equazione dell’infinito equation; Unendlichkeitsgleichung; équation de l’infini; ecuación del infinito) . – Equazione dell’infinito è ogni fenomeno od ogni avvenimento che sprigionandosi dall’infinito rappresenta e realizza un numero infinito di possibilità, e perciò tutto ciò che accade si presenta come indeterminabile e imprevedibile, sempre originale. Cadrebbe così la presunzione intellettualistico-deterministica di ricostruire a priori, attraverso la conoscenza attuale, il passato e l’avvenire (E. Bergson, L’évolution créatrice, Paris 190710, pp. 41 ss.; C. Renouvier, Histoire et solution des problèmes métaphysiques, ivi 1901, pp. 168 ss.). L’espressione ha avuto origine, per ragioni polemiche, dall’equazione del mondo, usata da alcuni evoluzionisti, fautori del determinismo rigoroso che vede tutto il divenire della realtà così predeterminato in ogni suo momento o fase, che passato e futuro sono perfettamente conoscibili e valutabili in base al presente. Un’intelligenza che, in un dato istante, conoscesse tutte le forze di cui la natura è animata, nonché l’efficienza di tutti gli esseri che la compongono, e tutto potesse analizzare, nulla ignorerebbe, sia del passato sia del futuro (cfr. 3511

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Equicola P.S. de Laplace, Introduction à la théorie analytique des probabilités, parte VI, in Oeuvres complètes, vol. VII, Paris 1886). In senso alquanto diverso usa l’espressione equazione dell’infinito Ardigò, che con essa definisce il caso. Se ogni fenomeno è la risultante di una somma di condizioni infinitamente variabili, il suo realizzarsi è insieme necessario e contingente o causale. Infatti, ammesse l’infinità dell’essere e la profonda solidarietà e coerenza dei suoi elementi, come condizioni che determinano in ogni istante il fenomeno nel suo essere attuale, in cui confluisce insieme al presente tutto il passato, non sarà possibile constatare sperimentalmente che le cause prossime, e lo si vedrà, in rapporto a queste, come necessario; ma non essendo sperimentalmente attingibili le innumerevoli, reali e possibili cause che remotamente agirono o poterono agire in ordine alla sua realizzazione, tale fenomeno apparirà anche come contingente o causale (R. Ardigò, La formazione naturale nel fatto del sistema solare, Mantova 1877, pp. 130 ss.). Le tre diverse concezioni sono tre tentativi di giustificare metafisicamente il contingente. F. Borgato BIBL.: F. KAUFMANN, Das Unendliche in der Mathematik und seine Ausschaltung, Darmstadt 1968, tr. it. a cura di L. Albertazzi, L’infinito in matematica, Gardolo (Trento) 1990; G. GIORELLO, Il pensiero matematico e l’infinito, Milano 1982; L. LOMBARDO RADICE, L’infinito, Roma 1983; R. RUCKER, Infinity and the Mind, London 1984, tr. it. di M. Negri, La mente e l’infinito: scienza e filosofia dell’infinito, Padova 1991; C. MIGLIACCIO, Invito al pensiero di Henri Bergson, Milano 1994; T. GILBERT - N. ROUCHE, La notion d’infini: l’infini mathématique entre mystere et raison, Paris 2001, tr. it. a cura di S. Gregori, L’infinito matematico tra mistero e ragione: intuizioni, paradossi, rigore, Bologna 2004. ➨ CASO; DETERMINISMO FISICO; INFINITO MATEMATICO; PROBABILITÀ; PROBABILITÀ, CALCOLO DELLE.

EQUICOLA, MARIO. – Letterato e pensatore, Equicola n. ad Alvito (presso Caserta) probabilmente nel 1470, m. nel 1525. Da un punto di vista filosofico ha una certa importanza il suo De natura de amore (Vinegia 1525); elogiato da Nifo nel suo De pulchro et amore), opera erudita e non priva di equilibrio valutativo. Ciò che invece lascia a desiderare è il contributo speculativo originale, perché Equicola si limita a considerazioni generiche e 3512

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retoriche: si nota comunque in esse la presenza di un certo sensualismo e di una mondanizzazione dell’amore, ormai lontano dall’accezione mistica e metafisica tipica di Ficino (cui Equicola si collega). Non si può tuttavia interpretare questo atteggiamento come una forma di vero e proprio epicureismo o di edonismo. M. Schiavone BIBL.: M. ROSI, Saggio sui trattati d’amore del Cinquecento, Recanati 1889; M. ROSI, Scienza d’amore. Idealismo e vita pratica nei trattati amorosi del Cinquecento, Milano 1904; D. SANTORO, Della vita e delle opere di Mario Equicola, Chieti 1906; P. LORENZETTI, La bellezza e l’amore nei trattati del Cinquecento, Pisa 1920; L. TONELLI, L’amore nella poesia e nel pensiero del Rinascimento, Firenze 1933; D. DE ROBERTIS, La composizione del «De natura de amore» e i canzonieri antichi maneggiati da Mario Equicola, in «Studi di Filologia Italiana», 17 (1959), pp. 189-220; S.C. VIAL, Equicola and the School of Lyons, in «Comparative Literature», 12 (1960); G. SAITTA, Il pensiero italiano nell’Umanesimo e nel Rinascimento, vol. II: Il Rinascimento, Firenze 19612, pp. 115-118; G. CASTAGNO, L’autografo del «Libro de natura de amore» di Mario Equicola, in «Lingua nostra», 23 (1962), pp. 74-77; I. ROCCHI, Per una nuova cronologia e valutazione del «Libro de natura de amore» di Mario Equicola, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana », 153 (1976), pp. 566-585; S.D. KOLSKY, Did Mario Equicola write «Il novo corteggiano»?, in «Aevum», 57 (1983), pp. 416-427; L. RICCI, La redazione manoscritta del «Libro de natura de amore» di Mario Equicola, Roma 1999.

EQUILIBRIO DI NASH (Nash equilibrium; Equilibrio di Nash Nash-Gleichgewicht; équilibre de Nash; equilibrio de Nash). – La teoria dei giochi cerca di prevedere l’esito di una interazione strategica tra più individui (il gioco, appunto) attraverso il concetto di «equilibrio». Un equilibrio è una combinazione di strategie (una per ciascun giocatore) che è plausibile i giocatori adottino. Il concetto di equilibrio fondamentale per i giochi non cooperativi è quello proposto da John Nash all’inizio degli anni cinquanta. Nell’equilibrio di Nash ciascun giocatore adotta la strategia per lui ottima, quella cioè che gli permette di ottenere il massimo beneficio, date le strategie degli altri giocatori. Ciò significa che se tutti gli altri giocatori si attengono alle strategie individuate dall’equilibrio di Nash, nessuno di essi ha interesse a deviare dalla strategia specificata per lui dall’equilibrio di Nash stesso, perché ciò diminuirebbe i suoi benefici.

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Varie motivazioni sono state addotte per spiegare perché un gioco dovrebbe concludersi con un esito che è un equilibrio di Nash. Innanzitutto si osserva che se i giocatori si accordassero su una certa soluzione (l’accordo è un modo di concludere il gioco), tale soluzione dovrebbe necessariamente essere un equilibrio di Nash. Altrimenti almeno un giocatore avrebbe interesse a violare l’accordo, che perciò non risulterebbe credibile. Si sostiene poi che se giocatori razionali individuassero un modo ovvio di giocare, tale modo non potrebbe che essere un equilibrio di Nash. In caso contrario, almeno un giocatore sarebbe incentivato a comportarsi diversamente da quanto previsto dal modo ovvio, che dunque non sarebbe più tale. Tali motivazioni risultano problematiche quando un gioco presenta una molteplicità di equilibri di Nash. Sono stati proposti allora svariati «raffinamenti» del concetto, che mirano a escludere quegli equilibri di Nash che in determinati tipi di giochi appaiono inverosimili. Il più importante di questi raffinamenti è l’equilibrio di Nash «perfetto nei sottogiochi» che si applica nei giochi cosiddetti «dinamici». I. Moscati BIBL.: D. KREPS, Nash equilibrium, in J. EATWELL - M. MILGATE - P. NEWMAN (a cura di), New Palgrave: A Dictionary of Economics, London 1987, vol. III, pp. 584-588; P. BATTIGALLI, Giochi, teoria dei, in Enciclopedia del Novecento Treccani, Roma 2004, vol. suppl. Dal XX al XXI secolo: problemi e prospettive, pp. 538552. ➨ GIOCHI NON COOPERATIVI.

EQUILIBRIO ECONOMICO GENERALE Equilibrio economico generale (general equilibrium theory; allgemeines ökonomisches Gleichgewicht; théorie de l’équilibre général; teoría del equilibrio económico). – Si può dare facilmente uno sguardo d’insieme alla teoria dell’equilibrio economico generale. Nella sua formulazione più semplice, gli acquirenti si sforzano di massimizzare i loro guadagni nell’ottenere beni, e lo fanno aumentando i loro acquisti del bene finché ciò che guadagnano dalle unità aggiuntive equivale a ciò a cui devono rinunciare per ottenere le unità aggiuntive. In tal modo l’utilità, o la soddisfazione legata al consumo di beni, è massimizzata. In modo simile, gli individui forniscono servizi (ad esempio lavoro) alle aziende che desiderano impiegarli confrontando i guadagni derivanti dall’offrire l’unità marginale dei loro ser-

Equilibrio economico generale vizi, il pagamento di un fattore produttivo che riceveranno, con la disutilità del lavoro stesso, ovvero la perdita di tempo libero. Le scelte individuali sono compiute al margine. Ciò risulta in una teoria della domanda di beni e dell’offerta di fattori produttivi. In modo simile i produttori si sforzano di produrre unità del bene in modo tale che il costo di produrre l’unità aggiuntiva o marginale equivale al guadagno che deriva dal produrre quell’unità. In tal modo i profitti vengono massimizzati. Le aziende inoltre impiegano fattori produttivi fino al punto in cui il costo dell’impiego addizionale è equivalente al valore del prodotto che l’impiego addizionale frutterà. L’impiego di fattori è legato alla minimizzazione marginale dei costi. Le aziende generano, con le loro azioni, offerta di beni e domanda di servizi che costituiscano fattori produttivi. Questo quadro d’insieme quindi implica agenti economici, siano essi famiglie o aziende, che ottimizzano (cercando di essere il più possibile efficienti) sotto vincoli rilevanti. Il valore è legato a desideri e bisogni illimitati che si scontrano con i vincoli o la scarsità. Le tensioni, i problemi di decisione, vengono risolti nei mercati. I prezzi sono dei segnali che dicono a famiglie e aziende se i loro desideri in conflitto possono essere potenzialmente riconciliati. La teoria dell’equilibrio economico generale è quindi uno schema teorico quadro, o una «meta-teoria», o il nucleo di un programma di ricerca scientifica lakatosiano. È un insieme di regole o convenzioni implicite per costruire teorie economiche soddisfacenti. Le sue idee fondamentali non sono aperte alla discussione in quanto definiscono le convenzioni condivise di coloro che si definiscono economisti neoclassici (o ortodossi). Gli economisti neoclassici concettualizzavano gli agenti, famiglie e aziende, come agenti razionali, le cui scelte ottimizzanti portavano a risultati «migliori». L’equilibrio risultante era «migliore» nel senso che ogni altra allocazione di beni e servizi lascerebbe qualcuno in condizioni peggiori. Quindi il sistema sociale rappresentato dalla concezione neoclassica era scevro da conflitti irrisolvibili oltre che da irrrazionalità e passione. Lo stesso termine «sistema sociale» esprime il successo dell’economia neoclassica, perché l’idea di sistema, con le sue componenti interagenti, i suoi massimi e minimi ed equilibri stabili, le sue variabili e parametri e vincoli e posizioni iniziali appartiene al linguaggio 3513

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Equilibrio riflessivo della fisica di metà Ottocento. Il campo della meccanica razionale costituiva il modello o la metafora soggiacente dello schema neoclassico. Questo insieme di idee può venire fatto risalire ad Adam Smith, e, anche se si possono trovare affermazioni simili in Cournot e altri nell’Ottocento, Leon Walras è generalmente considerato colui che elaborò questa concezione dell’economia, che fu ulteriormente elaborata dal suo successore sulla cattedra di Losanna, Vilfredo Pareto. Le prime dimostrazioni matematiche moderne di questi risultati come teoremi sono da attribuire ad Abraham Wald e John von Neumann, anche se la moderna struttura della teoria è attribuita a Kenneth Arrow, Gerard Debreu, e Lionel McKenzie. E.R. Weintraub BIBL.: E.R. WEINTRAUB, General Equilibrium Analysis: Studies in Appraisal, New York 1985; B. INGRAO - G. ISRAEL, La mano invisibile. L’equilibrio economico nella storia della scienza, Roma-Bari 1987; L. WALRAS, Eléments d’économie politique pure ou théorie de la richesse sociale (1889), a cura di P. Dockes et al., Paris 1988, tr. it. di A. Biagiotti, Elementi di economia politica pura, Milano 2006; PH. MIROWSKI, More Heat Than Light, New York 1999. ➨ EFFICIENZA.

EQUILIBRIO RIFLESSIVO (reflective equiliEquilibrio riflessivo brium; Überlegungsgleichgewicht; équilibre réflexif; equilibrio reflexivo). – Il metodo denominato «dell’equilibrio riflessivo» può essere definito come un processo di giustificazione di un insieme di giudizi o di carattere assertivo (credenze) o di carattere normativo (giudizi di valore) di un individuo, cioè un processo diretto a verificare la correttezza o l’accettabilità razionale di un insieme di giudizi. Il processo consta di più fasi. Esso inizia con l’individuazione di uno stock di giudizi che un individuo considera, intuitivamente, accettabili o corretti. In seguito, il processo prevede la costruzione di un insieme di principi che meglio giustificano lo stock iniziale di giudizi, nonché la revisione dei giudizi che risultano incoerenti con i principi in tal modo ricostruiti. Questa prima fase viene denominata da John Rawls e Norman Daniels «equilibrio riflessivo ristretto» (narrow reflective equilibrium). La fase successiva consiste nell’elaborare e analizzare criticamente le teorie di sfondo (filosofiche, empiriche, normative ecc.) e, in generale, gli argomenti che storicamente sono 3514

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stati sostenuti, o che possono logicamente essere sostenuti, in favore e contro i giudizi e i principi maturati in equilibrio riflessivo ristretto. Il risultato è un processo di reciproco adattamento, dove, in uno scambio continuo, i giudizi iniziali vengono rivisti e modificati sulla base dei principi e delle teorie elaborate e, a loro volta, il contenuto dei principi e delle teorie viene modificato e adattato sulla base dei giudizi iniziali che il soggetto considera irrinunciabili. Fase finale che John Rawls e Norman Daniels chiamano «equilibrio riflessivo ampliato» (wide reflective equilibrium). Il metodo dell’equilibrio riflessivo ha un carattere antifondazionalista e razionalista. Nessuno degli elementi in equilibrio riflessivo (giudizi, principi, teorie) ha il valore di base ultima o ha un «fondamento indipendente». Ciascun giudizio o principio è giustificato se e in quanto risulti coerente o razionalmente accettabile all’interno del sistema in equilibrio. In tal modo la giustificazione consiste nella coerenza o nel mutuo sostegno di elementi ciascuno dei quali può, se preso isolatamente, essere messo in dubbio. G. Maniaci BIBL.: N. GOODMAN, Fact, Fiction and Forecast, Cambridge (Massachusetts) 1955, tr. it. di C. Marletti, Fatti, ipotesi e previsioni, Roma-Bari 1985; J. RAWLS, A Theory of Justice, Cambridge (Massachusetts) 1971, tr. it. di U. Santini, Una teoria della giustizia, Milano 1984; S.P. STICH, The Fragmentation of Reason: Preface to a Pragmatic Theory of Cognitive Evalutation, Cambridge (Massachusetts) 1991, tr. it. di M. Margiacchi, La frammentazione della ragione, Bologna 1996; F. TERSMAN, Reflective Equilibrium. An Essay in Moral Epistemology, Stockholm 1993; N. DANIELS, Justice and Justification. Reflective Equilibrium in Theory and Practice, Cambridge 1996; J. RAWLS, Collected Papers, ed. a cura di S. Freeman, Cambridge (Massachusetts) 1999.

EQUIPROBABILISMO (equiprobabilism; Equiprobabilismo Äquiprobabilismus; équiprobabilisme; equiprobabilismo). – Nel caso di una controversia di due opinioni probabili e opposte sull’esistenza o meno di una legge morale, l’equiprobabilismo sostiene che la legge non obbliga il soggetto, quando i motivi a favore della libertà risultino egualmente, o quasi egualmente, probabili quanto quelli favorevoli alla legge stessa. Se invece la controversia non riguarda l’esistenza della legge, ma la possibilità che essa nel frattempo sia cessata, allora si deve seguire l’opi-

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nione più severa in favore della legge. L’equiprobabilismo è uno dei cosiddetti «sistemi morali» elaborati dalla teologia morale cattolica post-tridentina e che concernono la formazione del giudizio di coscienza del soggetto, quando questi si trovi di fronte a leggi oggettivamente incerte. Si ritiene che il primo assertore dell’equiprobabilismo sia stato il gesuita Christof Rassler (m. 1723), anche se esso venne poi perfezionato verso il 1870 da alcuni moralisti della congregazione dei Redentoristi, fondata da sant’Alfonso de’ Liguori. Questi nel 1760 aveva difeso la liceità dell’«opinione ugualmente probabile» a favore della libertà, contrastando le rigidità del «probabiliorismo», come pure del resto i rischi soggettivistici del «probabilismo» (cfr. G. Angelini, Teologia morale fondamentale, Milano 1999, pp. 183-186). A.M. Moschetti - A. Da Re

EQUITÀ (gr. ejpieivkeia; lat. aequitas - equity; Equità Billigkeit; équité; equidad). – Equità è concetto polisemico, che allude a una soluzione ottimale delle controversie interpersonali, a un atteggiamento di mitezza e di indulgenza, ma anche all’idea, sia pur diversamente intesa, dell’uguaglianza e dell’equilibrio che devono regnare nel mondo degli uomini e che difficilmente possono essere determinati in modo soddisfacente dalla legge positiva. Nella tradizione occidentale, a una tematizzazione morale dell’equità si è venuta affiancando, senza però sostituirla, una tematizzazione di carattere più strettamente giuridico e in particolare processuale. Una prima definizione dell’equità la colloca nell’ambito dell’etica e della politica e ne fa una virtù che tempera l’inesorabilità, la dura freddezza della legge positiva e dell’esercizio del potere. In questa prospettiva l’equità è molto spesso percepita come una delle dimensioni della legge naturale, come legge non scritta o comunque come un criterio di giustizia ideale, a cui si deve fare doverosamente riferimento (soprattutto da parte di chi gestisce il potere o deve amministrare la giustizia) per evitare che l’applicazione meccanica della legge scritta (summum jus) realizzi intollerabili torti (summa iniuria). Il tema è sviluppato da Platone nelle Leggi (in cui l’equità appare come l’espressione dell’arte reggitrice del superior) e viene costantemente ripreso da giuristi, filosofi e teologi: la ritroviamo ad esempio in

Equità Ulpiano (l’aequitas naturalis è l’indulgenza del pretore), in Crisostomo (l’equità come misericordia in assenza della quale il diritto diventa crudeltà), in Lutero (l’equità è la coscienza del principe). All’equità può essere ricondotta la grazia ai condannati penali, tradizionale attributo di chi sia titolare della sovranità. Possiede invece un carattere più specificamente giuridico una seconda definizione dell’equità, quella che l’intende come il criterio ottimale per procedere giuridicamente alla ripartizione dei beni e dei compiti sociali, all’interno di un processo di individuazione del diritto – non in senso legalistico e formale, ma sostanziale – di cui non si può scientificamente rendere compiutamente conto. Tematizzata per la prima volta da Aristotele – che esprime il concetto utilizzando il termine greco ejpieivkeia, che andrebbe letteralmente tradotto con convenienza o con adattamento –, l’equità ha come obiettivo quello di produrre un assetto armonioso all’interno dei rapporti sociali. Come parte della giustizia particolare l’equità va considerata come l’elemento dinamico della giurisdizione, una fonte del diritto sottile, mobile, attenta all’ordine sempre mutevole delle cose, e che non può mai essere formalizzata, ma richiede l’intelligenza vigile e personale del giudice. Nella famosissima esemplificazione aristotelica, l’equità non si contrappone alla legge scritta (che può essere paragonata a un metro di metallo utilissimo sì, ma rigido, non in grado di misurare con assoluta esattezza i contorni di un oggetto sinuoso), ma ne rende duttile l’applicazione con lo studio della natura di ogni singolo caso controverso; essa è paragonabile al regolo di piombo utilizzato per l’edilizia nell’isola di Lesbo, capace nella sua malleabilità di sposare i contorni della cosa misurata. In questo senso, l’equità non ha nulla dell’argomento retorico, non è un metodo di persuasione che mira a produrre certe disposizioni d’animo nell’uditore facendo leva sui suoi sentimenti personali, ma è invece un prezioso argomento dialettico per realizzare operativamente la giustizia. Tale definizione dell’equità corrisponde all’aequitas civilis di Ulpiano, quando, citando Celso, egli dice che il diritto è ars boni et aequi. La concezione aristotelica dell’ejpieivkeia viene ripresa dalla cultura medievale e fusa col concetto romano di aequitas, dando sostanza a molte pratiche giurisdizionali del diritto comune. A partire dal XVI secolo, in Inghilterra, 3515

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Equivalenza / bicondizionale essa si impone come un contrappeso alla rigidità del common law (di qui adagi come «equity will not suffer a wrong to be without a remedy» o «equity regards the balance of convenience») e il riferimento ad essa viene a costituire la spina dorsale di un’apposita giurisdizione, peraltro mai concepita come assolutamente separata («equity follows the law»). Il rapporto tra common law e equity non è verticale (non c’è un primato di una giurisdizione sull’altra) ma orizzontale; il common law tratta del diritto penale e della responsabilità (torts), mentre l’equity si occupa del diritto commerciale (trust) e del diritto delle successioni. Diversamente rispetto alla tradizione anglosassone, nei sistemi giuridici di matrice romanistica, grazie anche al processo di statualizzazione del diritto, che trova il suo culmine nell’Ottocento, il ricorso all’equità è rigidamente limitato a livello processual-civilistico a controversie di minimo rilievo economico ed è praticamente assente a livello penalistico: esso mantiene un suo spazio essenzialmente nell’ambito delle decisioni arbitrali extra-giudiziarie, concordemente promosse dalle parti confliggenti. L’equità è invece significativamente presente nel diritto internazionale pubblico: la corte internazionale di giustizia può infatti emanare decisioni ex aequo et bono (art. 38 del suo statuto) e ha diverse volte affermato che «una regola di diritto richiama l’applicazione di principi equi». L’ostilità della tradizione giuridica romanistica nei confronti dell’equità è giustificata dal rischio che un suo uso incontrollato fomenti alterazioni arbitrarie del diritto da parte dei giudici, compromettendone la certezza e introducendo in esso elementi di irrazionalità (ben espressi dal motto, nato nella Francia dell’ancien régime, «Dio ci guardi dall’equità dei parlamenti»). Avversa all’equità è in genere la dottrina del giuspositivismo. Per Kelsen non è possibile dare consistenza scientifica al principio di equità: a suo avviso non esistono né criteri logici né criteri ideali o metafisici (come appunto quelli cui dovrebbe rifarsi l’equità) per vincolare o ottimizzare l’applicazione concreta da parte degli operatori giuridici delle norme dell’ordinamento positivo. Il termine equità è in genere anche utilizzato per rendere in italiano la valenza profonda del termine inglese fairness, troppo debolmente traducibile con correttezza. Nel pensiero di John Rawls, pienamente comprensibile solo 3516

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all’interno della più recente rivalutazione anglosassone della ragion pratica, la giustizia è presentata come equità (fairness), con riferimento a quell’insieme di valutazioni razionali, caratterizzate da imparzialità e da disinteresse, che dovrebbero costituire il fondamento dei moderni ordinamenti sociali. S. Bauzon BIBL.: V. SCIALOJA, Del diritto positivo e l’equità, Camerino 1880; H. KELSEN, Reine Rechtslehre, Wien 1934, tr. it. di R. Treves, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino 1967; F. D’AGOSTINO, Epieikeia, Milano 1973; F. D’AGOSTINO, La tradizione dell’Epieikeia nel Medioevo latino, Milano 1976; F. D’AGOSTINO, Dimensioni dell’equità, Torino 1977; R. DWORKIN, Taking Rights Seriously, Cambridge (Massachusetts) 19782, tr. it. parziale di F. Oriana, I diritti presi sul serio, Bologna 1982; M. VILLEY, Philosophie du droit, Paris 19842, vol. II: Les moyens du droit; J. RAWLS, La giustizia come equità: saggi 1951-1969, ed. it. a cura di G. Ferranti, Napoli 1995; H. PALLARD, La common law et ses institutions 1066-1875, Toronto 1997; F. ROSSI, Approximación a la justicia y a la equidad, Buenos Aires 2000; S. BAUZON, Il mestiere del giurista, Milano 2001; A. BURROWS, We Do This at Common Law but That in Equity, in «Oxford Journal of Legal Studies», 22 (2002), pp. 1-16; M.-L. PAVIA (a cura di), L'équité dans le jugement, Paris 2003. ➨ COMMON LAW; GIURISDIZIONE; GIUSPOSITIVISMO; GIUSTIZIA ; RAGION PRATICA ; SOVRANITÀ ; UGUA GLIANZA.

EQUIVALENZA Equivalenza / bicondizionale / BICONDIZIONALE: V. LOGICA PROPOSIZIONALE.

EQUIVALENZA RICARDIANA (Ricardian Equivalenza ricardiana equivalence; ricardische Äquivalenz; équivalence ricardienne; equivalencia ricardiana). – In periodi caratterizzati da incrementi nella spesa pubblica, gli economisti si sono chiesti quali fossero i metodi più efficienti per finanziare il fabbisogno statale: una maggiore imposizione diretta o l’aumento del disavanzo. Il concetto di equivalenza ricardiana richiama questa esigenza di ottimalità affermando che, in presenza di soggetti razionali, il metodo adottato per finanziare incrementi di spesa pubblica è irrilevante in quanto sono in ogni caso identiche le conseguenze su reddito, consumo, investimenti. Questa idea è affermata in numerosi scritti di David Ricardo, e più compiutamente in On the Principles of Political Economy and Taxation, London 1817 (in The Works and Correspondence, a cura di P. Sraffa, 11 voll., Cambridge 1951-73,

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vol. I, tr. it. di A. Bagiotti, Principi di economia politica e dell’imposta, in Opere, a cura di P.L. Porta, 2 voll., Torino 1986-87, vol. I). Tuttavia Ricardo intravide l’esistenza di eccezioni, dimostrando la non equivalenza in presenza di illusione monetaria, egoismo inter-generazionale o incompletezza informativa, casi in cui il ricorso all’aumento delle imposte è preferibile in quanto maggiormente in grado di frenare gli eccessi di spese; un aumento del debito, spostando nel futuro i carichi fiscali necessari alla sua liquidazione, inganna i soggetti economici sull’effettiva dinamica della spesa. Ricardo affermò che se le guerre fossero finanziate esclusivamente con imposte i cittadini sarebbero meno disposti a combatterle. Successivamente la teoria economica ha precisato che l’equivalenza ricardiana dipende da come i soggetti economici reagiscono alla modifica intertemporale dei loro piani tributari. La validità del principio è stata circoscritta al caso in cui gli agenti sono dotati di una perfetta conoscenza del futuro e sono sufficientemente altruisti da considerare le esigenze economiche delle generazioni future. La scelta del metodo di finanziamento della spesa apre la questione se lo stock di titoli pubblici detenuto dai soggetti economici vada considerato parte della ricchezza aggregata. Se i detentori non riconoscono che le obbligazioni rappresentano passività fiscali future o si disinteressano degli oneri a carico delle generazioni future, allora una quota di titoli pubblici entrerà a far parte della ricchezza e contribuirà a produrre conseguenze sul consumo e sulla formazione del capitale. Per questi motivi gli studi sull’equivalenza ricardiana hanno contribuito ad approfondire i risvolti di giustizia distributiva delle decisioni di politica economica. P.F. Asso BIBL.: R.J. BARRO, Are Government Bonds Net Wealth?, in «Journal of Political Economy», 82 (1974), pp. 1095-1117; F. ASSO - E. BARUCCI, Ricardo on the National Debt and Its Redemption: Some Notes on an Unpublished Manuscript, in «Economic Notes», 2 (1988), pp. 5-36; N. CHURCHMAN, David Ricardo on Public Debt, New York 2001. ➨ EFFICIENZA; ETICA ECONOMICA; GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA.

ERACLEONE (ÔHraklewvn). – Gnostico, disceEracleone polo di Valentino, vissuto nel sec. II d. C.; fu insieme a Marco e a Tolomeo uno dei capi della

Eraclide Lembo scuola valentiniana italica di tendenze più moderate. La sua meditazione è tutta accentrata sul tipico tema valentiniano dello spirito caduto che riprende consapevolezza della sua dignità e della sua origine trascendente nella figura di Cristo; e questa dottrina Eracleone svolge e approfondisce nelle sue interpretazioni allegoriche dei Vangeli. Frammenti del suo Commento al Vangelo di Giovanni (scritto intorno al 195), nei quali Eracleone mostra larga conoscenza della filosofia greca e degli scrittori cristiani contemporanei, ci sono tramandati da Origene e da Clemente Alessandrino. C. Vasoli BIBL.: V.E. BROOKE, The Fragments of Heracleon, Cambridge 1891; G. BAREILLE, s. v., in A. VACANT - E. MANGENOT - E. AMANN (a cura di), Dictionnaire de Théologie Catholique, Paris 1923-50, VI, coll. 2198-2205; W. FOERSTER, Von Valentin zum Herakleon, Giessen 1928; F.-M. SAGNARD, La gnose valentinienne, Paris 1947, pp. 26-31; J. MOUSON, La théologie de Héracléon, Louvain 1949.

ERACLIDE LEMBO (´Hrakleivdh" Levmbo"). Eraclide Lembo – Erudito e storico del II secolo a. C., vissuto al tempo di Tolomeo VI Filometore (186-145 a. C.). Incerto è il luogo dove nacque, come pure la scuola filosofica cui appartenne: sembra probabile che Eraclide seguisse l’indirizzo della filosofia peripatetica. Esercitarono notevole influenza sulla dossografia posteriore gli scritti che compose sulle biografie e dottrine di filosofi, rifacendosi alle Vite di Satiro e la Diadoché di Sozione – l’autore che per primo ordina le notizie sui filosofi in base al criterio della «successione»: di essi, tuttavia, rimangono scarsi frammenti (v. C.F.W. Müller, Fragmenta Historicorum graecorum, Paris 1841-70, 5 voll, vol. III, 167-171). Gli vengono attribuite numerose opere di erudizione storica (Storie, in 37 libri) e raccolte di documentazione politica (una di queste conserva la Costituzione degli ateniesi, altrimenti perduta). G.F. Pagallo BIBL.: H. DAEBRITZ, s. v., in A. PAULY - C. WISSOWA, Paulys Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, Stuttgart 1893-1963, vol. XV (1912), coll. 488-491; E. ZELLER, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, a cura di R. Mondolfo, voll. II, VI, a cura di A. Plebe, Firenze 1966, pp. 531-532; M.R. DILTS (a cura di), Heraclidis Lembi Excerpta politiarum, tr. ingl. Durham 1971; M. MARCOVICH, Heraclidis Lembi Excerpta politiarum, in «American Journal of Philosophy», 96 (1975), pp. 16-18; N. CONOMIS, Notes cri-

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Eraclide Pontico tiques, in «Hellenica», 38 (1987), pp. 138-143; N. LOMOURI, A propos de la Constitution des Phasiens d’Héraclide, in «Revue d’Histoire ancienne», 186 (1988), pp. 123-134; M. POLITO (a cura di), Dagli scritti di Eraclide sulle costituzioni, Napoli 2001.

ERACLIDE PONTICO (ÔHrakleivdh" oJ PonEraclide Pontico tikov"). – Filosofo dell’antica Accademia. Nato a Eraclea sul Ponto nei primi anni del IV secolo a. C., divenne un membro influente dell’Accademia platonica, tanto da essere scelto come scolarca durante il terzo viaggio di Platone a Siracusa (361-60). Abbandonò l’Accademia e Atene dopo la morte di Speusippo e l’elezione di Senocrate allo scolarcato (339-38). Sopravvisse alcuni anni alla morte di Aristotele (322). Eraclide è una figura filosoficamente alquanto sfuggente. Ci sono tramandati numerosi titoli di suoi scritti, che appaiono spaziare su molti campi del sapere (logica e dialettica, fisica e cosmologia, psicologia, etica e politica, poetica, retorica ecc.), nessuno dei quali però ci è conservato. La sua biografia sembra farne piuttosto un accademico; tuttavia Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, V, 86-94) lo colloca con i peripatetici. I suoi scritti erano almeno in parte in forma dialogata; di conseguenza le nostre testimonianze possono riferirsi anche a dottrine da Eraclide esposte, ma non condivise. L’incertezza permane a tutt’oggi: l’edizione delle sue testimonianze è stata inserita da F. Wehrli nella serie Die Schule des Aristoteles, ma nella recente (1983) autorevole opera collettiva Grundriss der Geschichte der Philosophie nel volume sul IV secolo a. C. (curato da H. Flashar) Eraclide è trattato due volte: nel capitolo sull’Accademia (da H.J. Krämer) e nel capitolo sul Peripato (da F. Wehrli). Tra le dottrine di Eraclide delle quali abbiamo notizia la più notevole sembra quella, secondo la quale i corpi naturali sono composti da particelle chiamate a[narmoi o[gkoi. Secondo Krämer l’espressione significa «moli non internamente connesse»; si tratterebbe di una sorta di molecole, scomponibili in parti; Eraclide si sarebbe qui ispirato alla dottrina dei solidi elementari del Timeo, i quali erano ulteriormente scomponibili in triangoli elementari. Wehrli interpreta invece l’espressione piuttosto nel senso di «moli non connesse l’una con l’altra»; si tratterebbe allora di parti indivisibili, di atomi. È attestata una polemica antidemocritea di Eraclide, la quale, se vale l’interpretazione 3518

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di Wehrli, dovrebbe aver riguardato la dinamica delle parti atomiche. A Eraclide è attribuita la dottrina astronomica, secondo la quale la Terra occupa costantemente la posizione centrale dell’universo, ma compie un moto rotatorio su se stessa (da occidente a oriente), il cosiddetto moto quotidiano; di conseguenza il cielo delle stelle fisse resta fermo, mentre il Sole compie soltanto il moto annuale. Questa stessa dottrina è attribuita anche a due pitagorici, Iceta ed Ecfanto; le nostre informazioni non ci consentono di stabilire, a chi sia dovuta la prima formulazione. Non sappiamo se Eraclide sfruttasse filosoficamente in qualche misura la possibilità, che questa dottrina astronomica manifesta, di salvare i fenomeni celesti in due modi differenti. Certamente non si trattò di un’anticipazione dell’eliocentrismo; in essa non si dice nulla circa i moti planetari. Ed è certamente falsa l’attribuzione a Eraclide (fondata su una lettura erronea – come ha dimostrato O. Neugebauer – di un passo di Calcidio) di un’anticipazione del sistema di Tycho Brahe, secondo la quale Venere ruoterebbe su un epiciclo avente il Sole al centro. Molti degli scritti di Eraclide devono essere stati pensati per una diffusione larga, e aver avuto contenuti etico-religiosi e un carattere protrettico-moralistico. Un loro tema ricorrente fu quello dell’esperienza nell’aldilà dell’anima, dopo la sua separazione dal corpo all’atto della morte. In uno scritto – Peri; th'" a[pnou (Sull’assenza di respirazione) – sembra aver sostenuto l’idea di una separabilità dell’anima dal corpo di tipo sciamanistico. F. Franco Repellini BIBL.: O. NEUGEBAUER, On the Allegedly Heliocentric Theory of Venus by Heraclides Ponticus, in «American Journal of Philology», 93 (1972), pp. 600-601; H.B. GOTTSCHALK, Heraclides of Pontus, Oxford 1980; H.G. KRAEMER, Herakleides Pontikos, in H. FLASHAR (a cura di), Die Philosophie der Antike, vol. III: Ältere Akademie, Aristoteles, Peripatos, Basel-Stuttgart 1983, pp. 88-102; F. WEHRLI, Herakleides Pontikos, in H. FLASHAR (a cura di), Die Philosophie der Antike, vol. III: Ältere Akademie, Aristoteles, Peripatos, Basel-Stuttgart 1983, pp. 523-529.

ERACLITISMO. – Dottrina filosofica che, Eraclitismo nella prima formulazione di Eraclito (fine del VI secolo a. C.), afferma l’esistenza del perenne divenire delle cose, a conseguenza dell’urto o «guerra» dei contrari, riconducibile alla natura

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ambivalente del logos-fuoco, principio universale della realtà. Più tardi, con Cratilo e gli eraclitei di seconda generazione, va smarrita l’idea centrale dell’eraclitismo, vale a dire della legge universale che rende intelligibile l’ordine degli eventi che, succedendosi, compongono l’universo; in questo modo, la dottrina originaria del «principio» che regola la realtà che cambia, si trasforma nell’asserzione del mobilismo universale; donde deriva la negazione di ogni forma di conoscenza, che si pretenda superiore a quella fornita dalle percezioni sensibili, ciascuna delle quali è puntualmente valida per il momento in cui si realizza e relativamente a un singolo oggetto. Questo è almeno lo sviluppo storico dell’eraclitismo, quale è delineato da Platone (Theaet., 151 d ss.), il quale poi ricollega alla filosofia eraclitiana dell’incessante mutazione del reale (Crat., 439 b ss.), gli esiti relativistici cui approda la teoria della conoscenza insegnata dai sofisti, in particolare, la tesi dell’homo mensura di Protagora. D’altra parte, lo stesso tema della problematicità dell’esperienza, così importante nella filosofia di Eraclito e nell’eraclitismo, condiziona l’impostazione della metafisica platonica e ne è momento costituivo essenziale, prospettando la necessità di superare i limiti della rappresentazione sensibile, se si aspira a conseguire scienza certa della realtà: di qui prende origine il procedimento dialettico che, attraverso gradi sempre più perfetti di conoscenza, conduce all’intuizione delle «idee», forme immutabili dell’essere. Nelle scuole postaristoteliche gli scettici, e particolarmente Enesidemo, sottolineano i rapporti almeno parzialmente positivi, che legano le dottrine della scuola all’eraclitismo (per quanto Sesto Empirico indirizzi contro i seguaci dell’eraclitismo la medesima accusa di dogmatismo rivolta a tutti gli altri indirizzi filosofici: Ipotiposi, I, 210); ma, dal punto di vista storico e dottrinale, più significativa è la precedente adesione dello stoicismo alla dottrina eraclitiana del «fuoco», origine e causa incessante di tutte le cose. In versione più marcatamente materialistica, al cui interno vengono accolte nozioni di ascendenza aristotelica (quale ad es. la distinzione del principio attivo, o anima del mondo, dal principio passivo), la concezione dell’elemento igneo primordiale costituisce il cardine della «fisica» stoica.

Eraclitismo Grazie soprattutto al sincretismo dottrinale dello stoicismo, gli aspetti caratteristici dell’eraclitismo si sono trasmessi ai filosofi dell’era cristiana e agli apologisti (cfr. Giustino, Apologia seconda), con influsso sulle posizioni di certo gnosticismo. Questa stessa mediazione faciliterà la circolazione delle idee dell’eraclitismo nell’ambito del naturalismo rinascimentale, confluendo nell’immagine panteistica dell’infinito principio divino che agisce nell’universo (cfr. G. Bruno, De la causa, principio et uno, V). Ma il richiamo di Marsilio Ficino alla figura tradizionale del filosofo che piange sulla miseria degli uomini, mentre Democrito ride sulla loro stoltezza, non significa ritorno al pensiero autentico di Eraclito e alle ragioni dell’eraclitismo: entrambi i personaggi, infatti, al di là della loro misura storica, vengono ricordati come «manifestazioni opposte di una stessa intuizione con cui il savio si eleva sopra il mondo esteriore e gli uomini legati a esso» (P.O. Kristeller, Il pensiero filosofico di M. Ficino, Firenze 1953, p. 317). Nella cultura filosofica moderna e contemporanea, si è fatto spesso riferimento, oltre che al ruolo storico dell’eraclitismo, all’ancora attuale valore speculativo della filosofia di Eraclito. A cominciare, nella prima metà del XIX secolo, dall’interpretazione che ne diede Hegel: «La verità di Eraclito è d’aver compreso l’essenza della natura, rappresentata come in sé infinita, come processo che si svolge in essa medesima» (Lezioni sulla storia della filosofia, tr. it. Firenze 1964, vol. I, p. 316), nel quale «il momento della negatività è immanente» (ibi, p. 213). Assimilata l’«armonia» dei contrari, proclamata da Eraclito, all’identità dialettica degli opposti, l’affermazione che nella realtà «tutto scorre» rappresenta, rispetto alle determinazioni astratte dell’essere e del nulla, «il più alto concetto totale del divenire» (G.W.F. Hegel, La scienza della logica, tr. it. Bari 1925, p. 75) ed «è conquistato così il concetto dell’intera filosofia» (G.W.F. Hegel, Lezioni, cit., p. 312). Nella seconda metà del XIX secolo, il Nietzsche della Filosofia greca nell’età tragica (1870) privilegia la dimensione «estetica» del pensiero di Eraclito, il cui logos ha sperimentato nel «giuoco» dell’artista divino l’autentica possibilità per l’uomo di sottrarsi al dominio delle convenzioni morali e della moderna razionalità scientifica e calcolatrice. Di particolare intensità teoretica – che a momenti sopravanza la cautela esegetica – la lettura dei frammenti 3519

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Eraclito di Efeso

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eraclitei condotta da M. Heidegger verso la metà del Novecento: nell’interpretazione del filosofo esistenzialista Eraclito è il pensatore «primitivo» che ha saputo cogliere la profondità ancora intatta dell’«essere», fonte inesausta dell’esistente; per cui, nell’«armonia discorde» che lo lega a Parmenide, il «principio» eracliteo viene prima dell’oggettualità metafisica che, con Socrate e Platone, ha segnato la «crisi» e il destino del pensiero occidentale. G.F. Pagallo

ERACLITO Eraclito di Efeso (ÔHravkleito") DI EFESO. – Filosofo presocratico, la cui concezione del divenire incessante della realtà rappresenta l’antitesi più diretta alla teoria dell’immutabilità dell’essere sostenuta da Parmenide; opposizione che nei sistemi posteriori, sino a Platone e Aristotele, sarà motivo per una nuova e più elaborata formulazione della metafisica e della teoria della conoscenza. SOMMARIO: I. Vita e opere di Eraclito: tradizione dossografica e interpretazioni moderne - II. Significato e valore della «sapienza». - III. Il divenire della realtà e i contrari; il fuoco e il logos. IV. Il significato del «discorso» di Eraclito. I. VITA E OPERE DI ERACLITO: TRADIZIONE DOSSOGRAFICA E INTERPRETAZIONI MODERNE – Poco sappiamo della sua vita; figlio di Blysone, è probabile che le notizie riportate dalla dossografia – che lo dice attivo negli anni della sesta olimpiade, cioè nel 504-501 a. C. (Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, IX, 1-17; H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, ed. a cura di W. Kranz, Berlin 1961-64, 22 A I) – siano rielaborazioni di quanto, nei suoi scritti, sembrava riferirsi al carattere del filosofo. Erede del re di Efeso, al cui titolo rinunciò a favore del fratello, e di portamento orgoglioso (Strabone, Commentari Storici, XIV, 3, A 2; Diogene Laerzio, op. cit.), Eraclito avrebbe avuto uno scambio di lettere con Dario, re di Persia dal 522 al 486 a. C., del quale tuttavia non accolse l’invito di recarsi a corte (ibid.; Clemente Alessandrino, Stromata, I, 65, A 3). Per quanto Eraclito dichiarasse di non aver avuto altro maestro che se stesso (A, I a), la cronologia della sua vita, e più ancora l’analisi del suo pensiero, consentono di situare la sua filosofia all’interno dello sviluppo della filosofia presocratica, fra Pitagora e Senofane da un lato, e Parmenide dall’altro. Contro i primi, il filosofo di Efeso indirizza esplicitamente le parole polemiche di un frammento (B 40); mentre, per consenso pressoché unanime de3520

gli interpreti, l’opera di Parmenide, fondatore dell’eleatismo, contiene un giudizio molto severo nei confronti dell’intuizione filosofica centrale di Eraclito, «da cui l’essere e il non essere sono ritenuti identici e non identici, per cui di tutte le cose il cammino è reversibile» (H. Diels, op. cit., 28 B 6). La tesi contraria, secondo la quale Eraclito, più giovane di Parmenide, avrebbe invece conosciuto l’opera dell’eleate e si sarebbe riferito al monismo ontologico parmenideo, per affermare più risolutamente il principio opposto della «guerra» dei contrari e dell’universale fluire delle cose, è stata sostenuta con sottigliezza non convincente da Karl Reinhardt, in un libro giustamente famoso del 1916. In effetti, la critica eraclitiana, con maggior cautela, ha preferito muoversi in due diverse direzioni: da un lato, si è tentato di sostituire all’ordine esteriore assegnato per scrupolo filologico ai frammenti da Hermann Diels nella sua grande raccolta, una disposizione che rispecchiasse, nei limiti del possibile, se non il «sistema», almeno la successione degli argomenti via via affrontati nello scritto originale; altri studiosi, invece, si sono volti a ricostruire il significato autentico della speculazione di Eraclito, puntando a riesaminare, sulla base dei frammenti conservati, le testimonianze di Platone e Aristotele; e di qui, risalire al nucleo originario della dottrina, liberato dal peso delle assimilazioni operate successivamente dallo stoicismo e scetticismo. In questo senso, per esempio, è stata sollevata la questione se le tesi eraclitiane del «tutto scorre» e del «fuoco» produttore di tutte le cose vadano giudicate come indizi rilevanti del rapporto di continuità che l’indagine di Eraclito manterrebbe, nonostante tutto, con le cosmologie delle «scuole» anteriori, specialmente con quella di Mileto; o se, al contrario, testimonino l’avvenuto distacco del filosofo dalle dottrine tradizionali, in quanto egli non mirerebbe tanto a scoprire l’«origineprincipio» della natura, quanto a rivelare la «verità» della «legge» immutabile che regola, nel profondo, l’eterno divenire degli eventi. Documento intensamente teoretico di questa prospettiva interpretativa appare la lettura dei frammento condotta da Martin Heidegger, nel quadro di una suggestiva quanto discussa «ripetizione» dell’intera filosofia dei «presocratici»: la presunta «oscurità» di Eraclito deve essere intesa come espressione genuina del pensiero «originario», non ancora prigioniero

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della metafisica che ama rappresentarsi l’«essere» come «sostanza», dimenticandone la dimensione autentica; perciò all’«oscuro» di Efeso è aperta la possibilità di pensare l’«essere» nella «natura» (fuvsi"), e cioè il manifestarsi dell’«ente» e il suo venire alla luce (del fuoco) e alla «verità», fuori dall’«occultamento» (aj - lhv q eia). Come è noto, anche il filosofo dell’idealismo G.W.F. Hegel, nel corso delle Lezioni sulla storia della filosofia, si era soffermato, all’inizio del XIX secolo, sull’«oscurità» di Eraclito, che, contrariamente alla valutazione stilistica e a quella del deliberato proposito (secondo il giudizio di Cicerone), ritenne espressione della profondità speculativa del pensatore, il quale per primo aveva saputo attingere il «principio» dialettico della realtà, consistente nell’«universale concreto» della sintesi degli opposti. Gli studi più recenti, pur raccogliendo l’indicazione di un Eraclito «dialettico», hanno badato a precisare la questione, soprattutto contestualizzando in modi più precisi la pluralità delle strutture oppositive che si riscontrano nei frammenti. II. S IGNIFICATO E VALORE DELLA « SAPIENZA ». – Dell’unica opera Sulla Natura (Peri; fuvsew") composta da Eraclito conserviamo un centinaio di frammenti in prosa ionica, il cui stile, sin dall’antichità, è stato giudicato enigmatico e forse rispondente a una scelta consapevole del loro autore. In realtà, il tono oracolare e il linguaggio fortemente simbolico usati da Eraclito mirano a porre in guardia chi legge o ascolta, predisponendolo alla rivelazione del «logos», o «parola» autentica, che, in quanto tale, è insieme «verità» e «realtà» universale: «Di questo logos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benché infatti tutte le cose accadano sempre secondo questo logos, essi assomigliano a persone inesperte» (B 1). Tuttavia, proprio di questo si tratta, giacché «vi è una sola sapienza: conoscere la mente che tutto governa penetrando in tutto» (pavnta dia; pavntwn). Ma a questo sapere superiore non si accosta chi rimane chiuso nelle pratiche rozze e deliranti dei riti magici e delle credenze religiose: «rimedi» (B 68) che a nulla conducono, se è vero che gli iniziati ebbri non riescono a nascondere la loro ignoranza (B 95), e gli adepti non ricavano dai sacrifici cruenti alcuna regola che li aiuti a vivere (B 117; cfr. B 71). Anche ciò che dicono i poeti è condannato da Eraclito, poichè i loro versi si

Eraclito di Efeso limitano spesso a riflettere le superstizioni religiose più diffuse nel popolo, nei confronti delle quali attuano semplicemente una tecnica sistematrice e purificatrice (Erodoto, Historiae, II, 53). Anche Omero ed Esiodo pretendono di comunicare l’intelligenza delle cose divine e umane, e proclamano il principio che «tutto è uno»; eppure, a loro sfugge l’essenziale, l’unità profonda delle cose visibili (cfr. B 56, 57). Il canto degli aedi, in realtà, perpetua nella pigra coscienza dei più massime e precetti che non hanno verità né fondamento: contro la loro vanagloria, Eraclito rinnova la sentenza di Biante, l’antico sapiente (H. Diels, op. cit. 10 A, 3): «I molti sono cattivi, i buoni pochi» (B 104). L’aristocratico disprezzo per ciò che i poeti e le sette religiose presumono di insegnare nasce dalla consapevolezza che il filosofo ha di non poter ripetere da altri, se non dal proprio impegno razionale e dall’osservazione personale, la soddisfazione della inesauribile domanda filosofica: «I limiti dell’anima forse non potrai mai trovarli, qualsiasi via tu percorra: così ha profonda la sua ragione» (lovgon, B 45). Eraclito «diceva di aver ricercato da sé e da sé tutto aver appreso» (A 1; cfr. B 101); ma questa che il dossografo chiama «stranezza» racchiude il segreto e la ricchezza della sua e di ogni altra filosofia, per la quale, sempre, «uno vale diecimila» (B 49). In questa presa di coscienza è dato cogliere un’ulteriore testimonianza di quell’appello alla indagine personale e diretta delle cose (iJs toriva ), presente, oltre che in Eraclito, in tutta la tradizione filosofica e scientifica ionica, i cui rappresentanti, mentre procedono alla razionalizzazione delle teogonie e cosmogonie tradizionali, danno alle proprie parole il tono della critica e del distacco individuale. Non diversa, apparentemente, la proposizione eraclitea: «Io ho cercato in me stesso» (B 101); ma in questo caso, l’individuo non è il singolo (i[dio"), poiché egli riconosce se stesso negli altri, in quanto «a tutti è comune la facoltà di pensare» (B 113) e «a tutti gli uomini è possibile conoscere se stessi ed essere saggi» (B 116). La partecipazione degli uomini alla «sapienza», è esperienza di verità e realtà: essa induce a seguire «ciò che è comune», vale a dire «questo logos comune» (B 2), perché chi «parla con intelligenza deve appoggiarsi su ciò che è comune a tutti, come una città sulla legge, anzi molto più saldamente. Poiché tutte le leggi umane sono nutrite dall’unica legge divina, in quanto essa domina 3521

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Eraclito di Efeso tanto quanto vuole, e basta a tutti e trionfa» (B 114). L’universalità del «principio» di per sé non è sufficiente a garantirne il possesso da parte di tutti: proprio per attingere il piano dell’auspicata partecipazione, a ciascuno è imposto, infatti, di superare i limiti del punto di vista personale (B 2); e al sonno delle opinioni è contrapposta la veglia del vero sapere (B 1). La polarità dei termini usati dà risalto alla condizione aporetica in cui viene a trovarsi inizialmente la ricerca della verità, dopo che sono stati revocati in dubbio non solo i dati dell’esperienza sensibile, ma anche le certezze trasmesse dalla tradizione e dal costume. A segnalare l’altezza della meta prefissata, Eraclito può dire che «di quanti intesi la parola, nessuno giunse a questo, a conoscere, cioè, che la sapienza è una cosa separata da tutte le altre» (B 108); in questo senso, la critica rivolta alle dottrine degli altri scrutatori della natura, i fusiolovgoi, più che tradire la polemica invidiosa, ha il carattere del superiore inveramento, operato da chi è finalmente giunto al logos comune e osserva quanti vivono nel mondo illusorio della loro privata intelligenza (B 89; cfr. 2). Questa si nutre delle certezze sensibili; ma colui che, allontanandosene, riesce a riflettere sul mutare continuo delle percezioni, capisce quanto le loro attestazioni siano problematiche: esse, infatti, non solo si susseguono incessantemente, ma sono, a ben vedere, discontinue e, a causa dell’assolutezza cui ciascuna pretende, reciprocamente antitetiche. Da un lato, dunque, il «fluire di tutte le cose», allorché viene affermato nella sua più perentoria immediatezza, rende impossibile la conoscenza: «Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume» (B 91), perché «sopraggiungono sempre altre e altre acque» (B 12); e noi stessi «scendiamo e non scendiamo in uno stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo» (49). D’altra parte, la difficoltà – che nasce all’interno di quell’orizzonte d’indagine che Eraclito ha in comune con quanti prima di lui hanno ricercato l’origine (ajrchv) del mondo – non si risolve traducendo la molteplicità cangiante degli enti in quella non meno caotica dei «nomi». In questo caso, l’intelligenza «privata» del singolo crede di poter dominare la realtà attraverso il linguaggio; ma è un’illusione, perché i nomi dicono solo aspetti parziali delle cose; anzi, tendono a fissarne i fluidi rapporti in separazioni o esclusioni insormontabili. C’è chi ha cura di accumulare notizie e rac3522

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cogliere dati: «nomi» appunto; ma «sapere tante cose (polumaqivh) non insegna ad avere intelligenza», cioè quel sapere vero che né Esiodo né Pitagora, né Senofane né Ecateo ebbero mai (B 40; cfr. 129). Anche loro «anime barbare», in un certo senso, come quelli che credono, non guidati dalla ragione, alla testimonianza degli occhi e delle orecchie (Sesto Empirico, Contro i Matematici, VII, 126 ss.), e non riescono a cogliere «l’armonia nascosta che è migliore dell’apparente» (B 54): insomma, anche di quei personaggi può dirsi che sebbene «presenti, sono assenti» (B 36) all’intuizione dell’unità del logos (50). III. IL DIVENIRE DELLA REALTÀ E I CONTRARI; IL FUOCO E IL LOGOS. – A questa unità occorre ritornare sempre di nuovo, se si vuole penetrare a fondo il divenire e la molteplicità dell’esperienza, disponendone la ricchezza sterminata secondo la trama intelligibile del «discorso» razionale. La distinzione fra i molti «nomi» e l’unità del «principio» reale, che Eraclito ha stabilito polemicamente nei confronti dei filosofi ionici e italici, serve a introdurre l’ulteriore approfondimento della ricerca: gli enti che i «nomi» mostrano, conservano in sé, in certa misura, la «ragione», o natura, del logos immutabile che produce le cose e le governa in ogni punto. «Prendere nome» (ojnomavzesqai) equivale, da questo punto di vista, al «trasformarsi» (ajlloiou'sqai) del logos (B 67) nelle realtà che vengono all’esistenza, manifestando in ciascuna di esse e nel loro insieme la potenza autonoma e infinita che gli è propria, come l’anima che cresce su se stessa, in virtù della ragione che le appartiene (B 115). Ora che Eraclito procede sulla via costruttiva del sistema, la frammentazione derivante dall’imposizione dei «nomi» appare sotto una nuova luce: la natura particolare di ciascuna cosa si concilia il continuo reale, dato che nelle «parole» in cui il «logos che è sempre» si manifesta, è possibile leggere la vera legge del principio comune (B I). Solamente in questo modo l’indagine sui «nomi» evita di essere esercizio superficiale e il confronto fra i diversi loro significati fa emergere assonanze concettuali e reali, ciascuna delle quali reca ulteriore conferma dell’unità del tutto. Le due vie «all’in su» e «all’in giù» – per cui, da un lato, le cose molteplici sono ricondotte all’«origine» unica da cui provengono; e, in senso contrario, dal «principio» dipende necessariamente l’esistenza di ogni ente – sono, in realtà, figure di uno stesso cammino, poiché

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esse riflettono la natura peculiare del logos, che contiene in sé i momenti inscindibili dell’unità e della distinzione (B 10; 60). Del logos si dice, inoltre, che si comunica a tutto e di tutto partecipa, per cui esso è la «misura» dell’ordine che regna nel cosmo, cui nulla si sottrae. In ognuna di queste note è ribadita la natura profondamente ambivalente del «principio», che può essere detto «comune» solo in quanto è in sé unificazione del molteplice e dell’uno: la sua natura più vera consiste, infatti, nell’essere legge di «armonia reciprocamente tesa» (B 51). All’opinione che ritiene che i contrari si escludano reciprocamente, Eraclito obietta che gli stessi devono essere pensati, invece, come specularmente integrati; nel senso che le cose che compongono la realtà possiedono una comune struttura oppositiva, che risulterebbe descritta in modo del tutto insufficiente, ove si facesse riferimento unicamente al contrasto che mantiene separato l’un contrario dall’altro. Anche la cosmologia di Anassimandro, in effetti, prevede la lotta dei contrari in seno all’«infinito»; e Anassimene fa ricorso al processo di condensazione e di rarefazione dell’«aria»; più tardi, Empedocle escogiterà la contrapposizione fra amore e contesa. Ma proprio sul ruolo dell’opposizione e la diversità che separa, a questo proposito, il pensiero di Eraclito da quello empedocleo, si sofferma Platone (Soph., 242 d), il quale osserva come per il filosofo di Efeso ogni momento dell’essere riproduca in sé la natura ambivalente del «principio». Uno e molteplice, esso è sempre, secondo Eraclito, «tutto e non tutto, connesso e separato, concorde e discorde» (B 10); e «il dio è giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace, carestia e abbondanza» (B 67; cfr. 65), tanto che «vuole e non vuole essere chiamato Zeus» (B 32): il «tutto», perciò, non può evidentemente coincidere con uno dei contrari, preso separatamente. Questione importante, e altrettanto difficile, è, invece, capire il significato profondo di ciò che Eraclito chiama l’«opposto concorde», che sa trarre «dai discordi bellissima armonia» (B 8); ed è quella verità che il filosofo, come «il signore il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma segnala» (shmaivnei: B 93), e che nessuno finora è riuscito a comprendere. Essa è l’armonia che scaturisce dalla struttura oppositiva «comune» a ogni ente; per cui, tutto ciò che esiste, «pur discordando in se stesso, è concorde: ar-

Eraclito di Efeso monia contrastante, come quella dell’arco e della lira» (B 51), e quella per cui «nel circolo principio e fine fanno uno» (B 103); essa è il vincolo della giustizia superiore che tiene uniti i contendenti e fa della contesa la «misura» stessa di ogni esistenza, a cui niente e nessuno potrà mai sottrarsi (B 80; cfr. B 94). Dando credito a opinioni ed esperienze ingannevoli, nel loro dire e fare gli uomini si comportano come se enti separati e fra loro estranei costituissero il mondo; occorre invece tener fermo il principio che «il dio è giorno e notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come [il fuoco], quando si mescola ai profumi e prende nome dall’aroma di ognuno di essi» (B 67); che, dunque, «unico e comune è il mondo» (B 89) e che «la stessa cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli e quelli di nuovo mutando son questi» (B 88; cfr. B 126). Allo stesso modo, «gli uomini hanno considerato alcune cose ingiuste, altre giuste», quando invece «per Dio tutte le cose sono belle, buone e giuste» (B 102). Nessun giudizio di valore che isoli il positivo dal negativo, pertanto, accede all’intelligenza della natura dell’intero, dato che l’essenza stessa dell’«uno-tutto» si dispiega nelle «connessioni» (sullavvyei") che tengono insieme «intero non intero, concorde discorde, armonico disarmonico e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose» (B 10). Coincidenza dei due processi, per cui il logos tanto più esercita la sua funzione coesiva, quanto più si distingue e oppone nella varietà delle esistenze; così come queste ultime di quanto si divaricano nell’opposizione, di tanto rientrano nella struttura razionale dell’unica legge. È necessario, tuttavia, conservare la «misura» storica del «logos» di Eraclito, e interpretare l’originalità del «principio» dialettico che il filosofo annuncia, senza trascurare le suggestioni poetiche e religiose che ne condizionano il concreto manifestarsi, e i collegamenti che esso conserva con le teogonie e cosmogonie precedenti. In questo senso, il pensatore «oscuro» eredita la tradizione dei «fisiologi», e prosegue il processo di razionalizzazione del mito genealogico. Anche per Eraclito, infatti, la teoria generale della realtà si risolve, in larga parte, nei temi dell’«origine-principio» del mondo, e il «logos» può essere legge immanente del divenire, perché ne è, insieme, la causa materiale. L’interpretazione trova con3523

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Eraclito di Efeso ferma dall’analisi del frammento 30, dove l’universalità dell’ordine cosmico, che è il medesimo per tutti (kovsmon tovnde, to;n aujto;n aJpavntwn), vale quanto la sua durata infinita nel tempo (h\n ajei; kai; e[stin kai; e[stai), e coincide con il «fuoco vivente in eterno» (pu'r ajeivzwon), il quale «con misura si accende e con misura si spegne» (aJptovmenon mevtra kai ajposbennuvmenon mevtra), e, così facendo, produce da sé tutte le cose. Se si tiene conto che di «ciò che è» ingenerato e imperituro, Parmenide dirà che «non era mai, né mai sarà, poiché è ora insieme come totalità» (oujdev pot´ h\n oujd´ e{stai, ejpei; nu'n oJmou' pa'n: 28 B 8, 5), il contrasto puntuale tra le due concezioni dell’essere in rapporto al tempo, illumina la dimensione autentica della filosofia eraclitea. In questa prospettiva, la dottrina di Eraclito appare come l’ultimo tentativo, prima della «crisi» aperta dall’eleatismo, di pensare in termini rigorosi il nucleo centrale del mito e delle cosmogonie antiche, vale a dire il rapporto fra il «principio» originario divino e il tempo. Il «fuoco» di cui parla Eraclito, per l’ambivalenza che gli deriva dall’essere «connessione» di opposti, viene idealmente prima dell’antinomia fra essere e non essere, sollevata dalla logica eleatica; la sua «misura» non è l’«ora» (nu'n) del presente senza fine, ma l’indeterminatezza temporale dell’ajeiv, la cui progressione non conosce termine. Di qui deriva la rappresentazione cosmologica del «fuoco», inteso come principio delle sue proprie «mutazioni» (puro;" tropaiv), che scandiscono la successione e durata delle realtà prodotte (B 31); la cui molteplicità, peraltro, è così intrinsecamente connessa alla natura del principio, da non potersi considerare prolungamento «esterno» e posteriore di quello: «Mutamento scambievole di tutte le cose col fuoco e del fuoco con tutte le cose, allo stesso modo dell’oro con tutte le cose e di tutte le cose con l’oro» (B 90). Mutano senza fine le forme concrete in cui il «fuoco» si manifesta; e il ciclo incessante di vita e morte degli individui, che rappresenta il «mutamento» originario ed essenziale del «principio», riflette in se stesso l’armonia discorde dell’«uno-tutto» che manifesta. La complessità delle questioni introdotte da Eraclito emerge pienamente allorché il tema cruciale dell’unificazione degli opposti viene formulato nel linguaggio della rappresentazione cosmologica. Nel passaggio, il profilo logico della struttura oppositiva perde in precisio3524

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ne e subentrano coppie di contrari empiricamente esemplificate, formalmente dissimili, ma tutte riferite al «fuoco» sostanza universale. Tutto questo è certamente conferma di un’ancora insufficiente distinzione fra descrizione e definizione, giudizio d’esistenza e predicazione; occorre, comunque, prendere atto di come la dottrina del «fuoco», pur rimanendo all’interno della mentalità ionica, cerchi di dar risposta anticipata alla difficoltà che Aristotele avanzerà nei confronti del modello cosmologico usato dai presocratici: «Infatti, quando pure ogni generazione e corruzione fosse da uno solo, ovvero anche da molti elementi, perché poi ha luogo e quale ne è la causa?» (Aristotele, Metaph., A, 984 a). Da un lato, infatti, avendo trasferito nella mobilità materiale del «fuoco» la legge logica dell’unificazione dei contrari, quest’ultima si risolve nel sistema delle «connessioni» empiricamente descrivibili; le quali, peraltro, conformemente alla «via all’in su», trovano fondamento nella sostanza primigenia, sottratta all’indeterminatezza dell’apeiron di Anassimandro. D’altro canto, la permanente mobilità della natura ignea, meglio dell’«acqua» o dell’«aria» dei «fisiologi» milesii, è «segnale» adeguato degli aspetti costitutivi della natura e della loro intrinseca connessione: non semplice simbolo, il «fuoco» dà volto, in primo luogo, alla legge che regola dal profondo e rende intelligibile la vicenda perpetua della vita e della morte; secondariamente, è materia che si trasforma (ibi, A, 984 a 18), e che «discorrendo» nelle sue varie trasformazioni, le mantiene ordinate «secondo quella stessa legge (eij" to;n aujtovn lovgon)» che esisteva prima che ciascuna di esse si manifestasse, divenendo l’una o l’altra cosa (B 31); logos che non è diverso dal «fuoco» eterno che si accende e si spegne «con misura» (cfr. B 30). Le fasi della produzione cosmica si susseguono circolarmente e per antitesi: in un caso, «l’anima muore in acqua e l’acqua muore in terra; ma dalla terra nasce l’acqua e dall’acqua l’anima» (B 36). Pertanto, analogamente al punto geometrico, la cui unità contiene in sé perfettamente coincidenti il principio e la fine della circonferenza, il «fuoco», che è «uno-tutto», unifica in se stesso i termini che nell’esperienza appaiono separati, senza mai sostare presso l’una o l’altra delle singole determinazioni (B 50; 10). Proteso fra gli estremi della produttività più intensa (diakovsmhsi"), o della

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più raccolta pienezza (ejkpuvrwsi"), fra lo stato di indigenza e quello di abbondanza, il «fuoco» si scambia mutuamente con le sue produzioni (B 90), e su tutte imprime il suggello dell’ambivalenza formale e materiale che appartiene al «principio». La concezione radicale che Eraclito ha del movimento incessante del reale, come fiume dalle «acque sempre diverse» (B 12), in cui è impossibile bagnarsi due volte (B 49 a; 91), e per cui «il sole è ogni giorno nuovo» (B 6), nulla ha a che vedere con quanto l’eraclitismo posteriore sembra abbia sostenuto, concependo il mondo come mera successione di eventi-percezioni assolutamente irrelati, in nessun modo riconducibili a un qualche disegno unitario. Al contrario, nelle acque del fiume eracliteo che scorrono sempre nuove, si specchiano nitidi i profili dell’identico e del contrario, della guerra e della pace, nel cui costante richiamo si manifesta «la ragione per la quale tutto è governato attraverso tutto» (gnwvmhn, oJtevh ejkubevrnhse pavnta dia; pavntwn: 41), la quale sottopone le molte forme dell’esperienza ad una sempre uguale «misura», così come dall’unica legge divina traggono alimento tutte le leggi umane (B 114). IV. IL SIGNIFICATO DEL «DISCORSO» DI ERACLITO. – Concordemente alla visione mitico-religiosa del mondo, la «guerra» (povlemo") dei contrari che è «comune» a tutte le cose e per la quale «tutto accade secondo contesa e necessità» (kat´ e[rin kai; crewvn: B 80), assume valore di legge etica. Le letture moderne più avvedute di Eraclito – salvo adottare qualche rubrica di pratica utilità – non hanno imitato i commentatori antichi, separando i testi presuntamente «fisici», da quelli di argomento teologico ed etico-politico. In verità, non esiste discontinuità alcuna nel «discorso» del filosofo di Efeso: l’invito che egli rivolge agli uomini, di prestare ascolto alla ragione, riguarda indistintamente il loro impegno conoscitivo e pratico. Allargare il campo della propria particolare esperienza e riconoscere il logos, impone il dovere di «seguire ciò che è comune» (B 2), per non «agire e parlare come se si stesse dormendo» (B 73). Due momenti indissociabili: la sapienza (sofivh) che «consiste nel dire e fare cose vere, comprendendole secondo la loro natura» (B 112) – altrimenti anche il mondo più bello non sarebbe che un mucchio di polvere raccolto alla rinfusa (B 124) – nel mentre consente di capire che ogni cosa vive «secondo

Eraclito di Efeso giusta misura» (B 30), insegna anche a «spegnere la superbia (u{bri") ancor più dell’incendio» (B 43) e a realizzare la virtù della moderazione. Criterio di condotta suggerito, in primo luogo, dall’ininterrotto trasformarsi del «fuoco», che ordina il destino di ogni essere sensibile; ma che, in ultima istanza, deriva dai significati etici e giuridicamente normativi che quel medesimo «ordine» porta con sé. Infatti, alla luce della «contesa» universale che la pone in essere, la diversità delle cose, oltre a rispondere alla necessità «fisica», ubbidisce a una precisa norma di diritto naturale: «La guerra è padre di tutte le cose e di tutte re: e gli uni fece che apparissero dei, gli altri uomini; gli uni fece servi, gli altri liberi» (B 53). In questo modo, l’opposizione, che come logos divino trascina ogni ente ed è condizione indispensabile delle cose («le cose esistono secondo contesa e necessità»: 80), diventa, alla fine, valore e strumento di superiore giustizia (ibid.). La vita dell’uomo, come di ogni altro vivente, è inscritta nel fiume dell’esistenza, le cui acque – osserva Aristotele –, non prima si allentano e poi di nuovo si raccolgono, ma insieme si concentrano e si separano, simultaneamente (B 91); ma da questa vicenda cosmica, che non avviene a caso, dato che è lo stesso «logos» divino che la governa per sì e per no, come in un doppio discorso, ogni individuo e ogni città ha l’obbligo di desumere l’insegnamento morale più importante. Perché se la guerra è ovunque presente – nelle conflagrazioni mondiali, come là dove più ostile ferve la lotta delle passioni nello stato e nell’animo dell’individuo – e se la lacerante contesa vive essa medesima in uno con la pace, virtù suprema è la moderazione. Che è poi la saggezza di chi sa riconoscere l’alternanza necessaria dei contrari, e perciò si fa interprete dell’armonia nascosta e bellissima che nutre e rende perfetta ogni cosa. Non dunque la vita del singolo in quanto tale è male; bensì il gesto di chi non tiene lontana da sé la tentazione dell’isolamento caparbio, l’illusione di poter fermare, dentro e fuori di sé, la trasformazione incessante. Ritornando, in un certo senso, al detto famoso di Anassimandro, Eraclito condanna colui che, credendosi unicamente «figlio dei propri genitori» (B 74), «ha dimenticato dove porta la strada» (B 71) del «fuoco sapiente e causa del governo di tutte le cose», il quale, «sopraggiungendo, giudicherà e condannerà» (B 63) quanti avranno preteso di vivere come singoli, oltre la «mi3525

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Eraclito Stoico sura» che a tutti è stata assegnata: perfino «il sole non andrà oltre la sua misura: altrimenti, le Erinni, ministre della giustizia, lo scopriranno» (B 94). Tale è la «superbia», il peccato di tracotanza (u{bri") di coloro i quali, colpevolmente ignari del calcolo perfettissimo che regola ogni evento, si lasciano guidare dalla propria intelligenza «privata», che non sa vedere oltre se stessa e giudica «estranee le cose in cui ogni giorno si imbattono» (B 72), e verso le quali spesso agiscono con violenza sopraffatrice. «Di fronte alla divinità» (B 79), le opinioni umane si rivelano per quello che sono: «giuochi di fanciulli» (B 70), e gesti scomposti di scimmia (B 72). Eppure, «a tutti gli uomini è dato conoscere se stessi ed essere saggi» (B 116), non andando oltre la giusta «misura». G.F. Pagallo BIBL.: frammenti e testimonianze: G.S. KIRK (a cura di), Cosmic Fragments, New York 1954, tr. it. di R. Walzer, Frammenti, Firenze 1939, rist. Hildesheim 1964; H. DIELS, Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di W. Kranz, Berlin 1961-64, 22; R. MONDOLFO - L. TARÀN (a cura di), Eraclito. Testimonianze e imitazioni, Firenze 1972; CH.H. KAHN, The Art and Thought of Heraclitus. An Edition of the Fragments with Translation and Commentary, Cambridge 1979; C. DIANO - G. SERRA (a cura di), Eraclito. I frammenti e le testimonianze, Milano 1980; G. GIANNANTONI, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, vol. I, Bari 1981, pp. 179221; E.M. CONCHE (a cura di), Heraclitus, Fragments: Texte établi, traduit, commenté, Paris 1986; cfr. anche E.N. ROUSSOS, Heraklit-Bibliographie, Darmstadt 1971; R. MONDOLFO- L. TARÁN (a cura di), Eraclito. Testimonianze e imitazioni, Firenze 1972, pp. IX-XXXIX; F. DE MARTINO - L. ROSSETTI - P. ROSATI, Eraclito. Bibliografia 1970-1984 e complementi 1621-1969, Napoli 1986; W. TOTOK, Handbuch der Geschichte der Philosophie, vol. 1: Altertum, Frankfurt am Main 1997, pp. 170-178; M. MARCOVICH, Heraclitus. Greek Text with a Short Commentary, Sankt Augustin 2001 (bibliografia 1967-2000), tr. it. e commento a cura di M. Marcovich, Eraclito, Frammenti, Introduzione, Firenze 1978; B. SIJAKOVIC, Bibliographia Praesocratica, Paris 2001, pp. 468-518. Studi: M. MARCOVICH, s. v., in A. PAULY - C. WISSOWA, Paulys Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, suppl. X, coll. 246-320, Stuttgart 18931963; O. GIGON, Untersuchungen zu Heraklit, Leipzig 1935; K. REINHARDT, Heraclitea, in «Hermes», 77 (1942), pp. 225-248 (rist. a cura di H.-G. Gadamer, Um die Begriffswelt der Vorsokratiker, Darmstadt 1968, pp.177-208); K. REINHARDT, Heraklit. Lehre vom Feuer, in «Hermes», 77 (1942), pp. 1-27; G.S. KIRK, Natural Change in Heraclitus, «Mind», 60 (1951), pp. 35-42 (rist. pp. 189-196); G. VLASTOS, On Heraclitus,

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in «American Journal of Philology», 76 (1955), pp. 337-368, (rist. a cura di D.J. Furley - R.E. Allen, in Studies in Presocratic Philosophy, vol. I: The Beginnings of Philosophy, London - New York 1970, pp. 413-429); E. ZELLER - R. MONDOLFO, La filosofia dei Greci, parte I, cap. IV, Firenze 1962 (note d’integrazione e commento di R. Mondolfo); G. CALOGERO, Storia della logica antica, Bari 1967, pp. 63-107; M. HEIDEGGER - E. FINK, Heraklit, Franfurt am Main 1970; R. LAURENTI, Eraclito, Bari 1974; W.J. VERDENIUS, Heraclitus’ Conception of Fire, in J. MANSFELD - L.M. DE RIJK (a cura di), Kephalaion: Studies in Greek Philosophy and Its Continuation Offered to Prof. C.J de Vogel, Assen 1975, pp.1-8 (rist. W. LESZL (a cura di), I presocratici, Bologna 1982, pp. 315-322); A. CAPIZZI, Eraclito e la sua leggenda. Proposta di una diversa lettura dei frammenti, Roma 1979; L. ROSSETTI (a cura di), «Atti del Symposium Heracliteum 1981», Roma 1983-1984, 2 voll.; D. O’BRIEN, Héraclite et l’unité des opposés, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 95 (1990), pp. 147-171; TH. HAMMER, Einheit und Vielheit bei Heraklit von Ephesus, Würzburg 1991; M. HEIDEGGER, Eraclito. L’inizio del pensiero occidentale. Logica. La dottrina eraclitea del Logos, tr. it. Torino 1993; U. HÖLSCHER, Paradox, Simile, and Gnomic Utterance in Heraklit, in A. MOURELATOS (a cura di), The Pre-Socratics. A Collection of Critical Essays, Princeton 1993, pp. 229-238; D.W. GRAHAM, Heraclitus’ Criticism of Ionian Philosophy, in «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 15 (1997); R. MONDOLFO, Heràclito. Textos y problemas de su interpretación, tr. sp. Madrid 199810 (1966); E. HUSSEY, Heraclitus, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, in A.A. LONG (a cura di), Cambridge 1999, pp. 88-112; S.N. MOURAVIEV, Heraclitea, Sankt Augustin 1999-2002; M. THURNER, Der Ursprung des Denkens bei Heraklit, Stuttgart 2001; A. NEHAMAS, Parmenidean being - Heraclitean fire, in V. CASTON - D.W. GRAHAM (a cura di), Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander Mourelatos, Aldershot 2002.

ERACLITO STOICO. – Noto anche come Eraclito Stoico Eraclito Grammatico o pseudo-Eraclito è considerato un pensatore dell’età imperiale del III secolo d. C. anche se i più recenti studi (Lucchetta, sotto citato) tenderebbero a posticiparne l’attività di circa un secolo. Si dedicò allo studio dei poemi omerici, avanzando originali interpretazioni dei miti in essi contenuti e riunendole in uno scritto intitolato ´Omhrika; problhvmata (Problemi omerici). È un personaggio di un certo interesse se viene collocato nella linea di tradizione che gli spetta, ossia nella storia dell’allegoria, piuttosto che in quella della filosofia, anche se l’una

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e l’altra storia in età imperiale tendono, per più di un aspetto, a sovrapporsi. In questo ambito rivela una spiccata personalità, che lo pone nella schiera degli apologisti dei poeti (e quindi in posizione anti-platonica), a difendere la capacità dei poeti nel cogliere e diffondere la verità in forme simboliche. La sua allegoresi esprime un grado di maturità elevato, in primo luogo perché nell’interpretazione degli scritti riconosce la superiorità del contesto sulla parte; in secondo luogo perché concede scarso rilievo alle etimologie, le quali caratterizzano soprattutto la prima fase dell’allegoria (quella frammentaria e con un basso grado di strutturazione); in terzo luogo perché mostra un costante impegno nel mondare di ogni forma di antropomorfismo le figure divine. Per tutti questi motivi sembrerebbe riflettere alcune tecniche proprie dell’esegesi giudaico-alessandrina. R. Radice BIBL.: T. GOMPERZ, Heraklit der Stoiker, in «Wiener Studien», 1880; K. RHEINHARDT, s. v., in A. PAULY - C. WISSOWA, Paulys Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, Stuttgart 1893-1963, vol. VIII, coll. 508-510; HÉRACLITE, Allégories d’Homère, a cura di F. Buffière, Paris 1962; D. RUSSELL, The Rhetoric of the «Homeric Problems», in G.R. BOYS-STONES (a cura di), Metaphor, Allegory, and the Classical Tradition. Ancient Thought and Modern Revisions, Oxford 2003, pp. 217-234; I. RAMELLI - G. LUCCHETTA, Allegoria, vol. I., L’età classica, introduzione e cura di R. Radice, Milano 2004 (in particolare cap. VIII di G. Lucchetta. Vasta bibliografia a cura di I. Ramelli a conclusione dell’opera).

ERASMO DA ROTTERDAM. – N. a RotterErasmo da Rotterdam dam il 28 ott. 1469, m. a Basilea il 12 lug. 1536. Sommo umanista, la sua vastissima produzione copre i campi della filologia, dell’esegesi biblica, della teologia, della grammatica e della retorica, della pedagogia e di una pubblicistica di alto livello letterario, che lo rende protagonista del dibattito culturale, religioso e politico del suo tempo. Per quanto concerne la filosofia, egli non si proclamò seguace di alcuna scuola o tradizione costituita, ma unicamente cultore della philosophia Christi, il cui concetto è in grado di fornire sia il senso unitario della sua opera sia il filo conduttore di una formazione e di tutta una vita dedicata alla ricerca erudita e al rinnovamento della cultura e dei costumi.

Erasmo da Rotterdam La sua formazione si svolge nelle scuole di Gouda, di Deventer, di Bois-le-Duc, dove apprende le nozioni della cultura scolastica e ha i primi contatti con le correnti umanistiche. Rimasto orfano di entrambi i genitori nel 1483, cinque anni dopo pronuncia i voti nel monastero dei canonici regolari di Sant’Agostino a Steyn. Ed è proprio qui che comincia a prendere forma il concetto di philosophia Christi, attraverso lo studio intenso dei classici greco-latini, la scoperta entusiastica di Valla retore e umanista e una decisa fortissima ripulsa della cultura scolastica globalmente tacciata di barbarie. Ne dà testimonianza uno scritto giovanile iniziato in questi anni e poi più volte rielaborato (verrà pubblicato soltanto nel 1520), che nel titolo stesso esprime la carica polemica nei confronti del passato, con la quale Erasmo si accinge a dar vita a un programma culturale di amplissimo respiro: il dialogo Antibarbari. La passione per lo studio delle bonae litterae, considerate quale strumento essenziale della battaglia per il rinnovamento della cultura e dei costumi, espressa con profonda convinzione dai protagonisti del dialogo, fa sì che venga a porsi un nesso inscindibile tra cristianesimo e cultura classica e che Cristo sia presentato come il maestro di ogni forma di sapienza. Nel 1493 lascia il convento di Steyn per diventare segretario del vescovo di Cambrai e di lì a poco inizia la stagione dei viaggi, che di fatto saranno una caratteristica costante di tutta la sua vita. A un periodo di studio a Parigi nel 1495-96 segue un’attività di precettore, che lo conduce nel 1499-1500 a un primo soggiorno in Inghilterra straordinariamente felice e importante per la sua maturazione. Qui diventa amico di Tommaso Moro, ma soprattutto importante, per la storia del concetto di philosophia Christi, è la frequentazione a Oxford del teologo John Colet, che gli fa conoscere la filosofia platonica degli umanisti fiorentini. Tornato sul continente, tra Francia e Paesi Bassi, inizia la serie di pubblicazioni erudite (è del 1500 la prima edizione degli Adagia, la raccolta di detti classici commentati alla quale lavorerà per tutta la vita) e filologiche, alle quali segue nel 1503 un testo fondamentale per la formulazione del concetto di philosophia Christi: l’Enchiridion militis christiani. Come nell’Antibarbari, cultura classica e scoperta dell’evangelo si sostengono a vicenda, ma un nuovo tratto si aggiunge alla delineazione della philosophia 3527

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Erasmo da Rotterdam Christi, che reca netto il segno della riscoperta, avvenuta in Inghilterra tramite Colet, del platonismo. L’opposizione tra carne e spirito e l’assoluta superiorità del secondo sulla prima è il fondamento sul quale poggia la battaglia del credente per la verità e, se di certo è indicata la radice evangelica di questa contrapposizione nel Vangelo di Giovanni e nelle lettere dell’apostolo Paolo, non mancano espliciti e ricorrenti richiami alla filosofia platonica per confermarne la portata universale. Dall’esaltazione della dimensione spirituale dell’uomo discende così per la philosophia Christi una sorta di misticismo. Negli anni che seguono Erasmo tenderà più volte a trovare rifugio dalle difficoltà e turpitudini del tempo presente in una dimensione mistica, spesso però letterariamente venata di paradossalità e ironia. A un nuovo soggiorno londinese fa seguito, tra il 1506 e il 1509, un viaggio in Italia e le esperienze compiute tra Torino, Bologna, Venezia e Roma incidono profondamente nella sua biografia: in senso positivo, come il soggiorno presso il celebre stampatore Aldo Manuzio, dal quale pubblica una nuova grande edizione degli Adagia, ma anche in senso negativo, come i contatti con la corte papale di Giulio II che suscitano nel suo animo profonda desolazione e sdegno per la corruzione dei costumi cristiani imperante nella chiesa. E non è certo un caso che proprio nel viaggio di ritorno dall’Italia in Inghilterra egli concepisca una delle sue opere più significative e certamente la più famosa: l’Elogio della follia, portato a termine a Londra in casa di Tommaso Moro al quale è dedicato e al cui nome allude scherzosamente il titolo originale, Moriae encomium. In quest’opera, pubblicata a Parigi nel 1511, la philosophia Christi assume una veste di straordinaria eleganza letteraria, intrisa di paradossalità e ironia: alla follia degli uomini, bene espressa dal lusso e dalla corruzione degli ambienti ecclesiastici e dotti frequentati in Italia, fa riscontro la follia della croce esaltata dall’apostolo Paolo nella prima lettera ai Corinzi, succo e sostanza di un sapere destinato a sconvolgere e rinnovare nel profondo costumi e tradizioni acquisite. Ed è un cristianesimo altamente spirituale e mistico quello al quale approda l’Elogio, nel quale trova rifugio chi, come Erasmo, all’evangelo tende a ricondurre ogni esperienza intellettuale e pratica. 3528

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Nel frattempo Erasmo andava consolidando sempre più le competenze che lo avrebbero condotto a diventare uno dei maggiori biblisti dell’epoca e a fornire al concetto di philosophia Christi, emerso dall’esigenza di coniugare cultura classica e dottrina cristiana, il suo fondamento essenziale. Già durante il primo soggiorno londinese aveva iniziato lo studio del greco, del quale acquisisce ben presto una padronanza tale da pubblicare raffinate traduzioni latine di testi classici. Particolarmente importante per il suo futuro di biblista è la scoperta, avvenuta nel 1504 nella biblioteca norbertina di Parc vicino a Lovanio, di un manoscritto di Valla di annotazioni al Nuovo Testamento. Lo pubblicherà l’anno successivo e sarà per lui il modello dell’opera da perseguire al fine di porre la cultura filologica dell’umanesimo al servizio del cristianesimo, riscoprendo l’autenticità e la ricchezza delle fonti originarie: in primo luogo la Bibbia e contestualmente le opere dei padri della chiesa, da Origene e Basilio a Crisostomo, da Ambrogio e Agostino a Gerolamo. Lo sbocco del lungo lavoro di perfezionamento della conoscenza del greco completato durante il viaggio in Italia e del confronto di vari manoscritti giunti dall’Oriente in Europa e custoditi nelle biblioteche si avrà nel 1516, anno in cui esce da Froben a Basilea il Novum Instrumentum, l’edizione del Nuovo Testamento che affianca al testo greco una traduzione latina che in più punti rivede e corregge la Vulgata di Gerolamo. La risonanza e la fortuna di questa pubblicazione è enorme, ma soprattutto importanti per la storia del concetto di philosophia Christi sono le pubblicazioni che fanno corona a questo testo: la prefazione, significativamente intitolata Paraclesis, id est, adhortatio ad christianae philosophiae studium; l’apparato di annotazioni che verrà facendosi sempre più ricco col succedersi delle ristampe; l’introduzione metodologica complessiva che a causa della sua ampiezza finirà per essere pubblicata come opera a sé stante nel 1519 col titolo Ratio seu methodus compendio perveniendi ad veram Theologiam; le Parafrasi ai quattro vangeli, che Erasmo pubblica tra il 1522 e il 1523; infine le stesse edizioni dei padri della chiesa, a partire dal prediletto Gerolamo, la pubblicazione delle cui opere, coordinata da Erasmo e in parte da lui direttamente curata, esce da Froben nel 1516 in contemporanea al Novum Instrumentum. La philosophia Christi viene ormai posta

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esplicitamente al centro dell’attenzione e connotata di tutti quei tratti che a buon diritto inducono a considerarla chiave di lettura unitaria di tutta l’opera di Erasmo. Permane, evidentissimo, il suo ruolo di sintesi tra evangelo e cultura classica perseguito sin dal dialogo Antibarbari: la Paraclesis lo ribadisce con la massima chiarezza e lo connette indissolubilmente alla restaurazione, dovuta al sacrificio di Cristo, della natura umana così come era stata creata e voluta da Dio prima del peccato di Adamo. Lo stesso concetto impronta da cima a fondo la Ratio Theologiae, configurando un processo di formazione del teologo che attraversa per intero la cultura classica per culminare nell’insegnamento di Cristo. Più fortemente che mai la philosophia Christi si caratterizza come una teologia biblica in grado di introdurre nell’approccio al testo sacro tutta la carica di novità dovuta alla filologia umanistica e si presenta non come astratta teoria, ma prima di tutto come pratica giacché non vi è autentica comprensione dei testi che la trasmettono senza una trasformazione interiore che investe direttamente l’etica. Proprio a questo carattere pratico essa deve la sua universalità, il suo essere accessibile a tutti a prescindere da qualunque differenza individuale. Attraverso la conversione a Cristo si restaura la natura originariamente buona dell’uomo, si ritorna alla giustizia naturale e grazie alla vittoria sul peccato si è in grado di apprezzare quanto grande sia la dignità dell’uomo. Dal 1516 il concetto di philosophia Christi è dunque pienamente formato e costituirà il fondamento essenziale di tutte le altre grandi opere che da qui alla morte, nel 1536, Erasmo verrà pubblicando: dall’Institutio principis Christiani, scritto nel 1516 (Basileae) per il futuro imperatore Carlo V, alla splendida Querela pacis del 1517 (Basileae); dalla raccolta dei Colloquia (ivi), di straordinario valore letterario, pubblicata e continuamente arricchita dal 1522 al 1533, al bellissimo dialogo della vecchiaia Ciceronianus (ivi) del 1527. Questo concetto ispira le opere pedagogiche di Erasmo (tra le quali vanno almeno menzionate il De pueris statim ac liberaliter instituendis, Basileae 1529, e il De civilitate morum puerilium, ivi 1530) volte a formare individui liberi, razionali e dotati di tutti gli strumenti culturali e religiosi atti a operare il bene per sé e per il prossimo. Ed è sempre questa visione di un cristianesimo profondamente integrato con la cultura classi-

Erasmo da Rotterdam ca, di un Cristo essenzialmente maestro di saggezza e di un uomo che nella propria ragione trova lo strumento per avvicinarsi a Dio ed esprimere nelle opere buone la propria fede, a spiegare il rapporto di Erasmo con la Riforma protestante. Se da un lato lo avvicinano a Lutero il comune e centrale riferimento alla Bibbia e l’impegno per un profondo rinnovamento dei costumi e della cultura cristiana, non ne poté peraltro condividere né lo stile profetico e irruentemente assertorio di intervento, che doveva condurlo alla rottura con la chiesa di Roma, né soprattutto il senso schiacciante dell’onnipotenza divina dalla quale soltanto discende la libertà dell’uomo, di per sé schiavo del peccato. Costretto da pressioni autorevolissime, del papa e del re d’Inghilterra tra gli altri, a scendere in campo contro Lutero, Erasmo scelse appunto di contrapporre alla visione drammatica della teologia della croce l’immagine più rassicurante dettata dalla philosophia Christi di un uomo che, nonostante il peccato, serba in sé ragione e libera volontà e può, con l’aiuto di Dio, essere operatore di bene e di pace e conseguire la salvezza. Fu così che pubblicò nel 1524 (Basileae) il De libero arbitrio e, dopo l’uscita del De servo arbitrio di Lutero nel 1525 (Wittembergae), un ulteriore ampio trattato Hyperaspistes (Basileae 1526-27). Il rapporto con Lutero si ruppe irrimediabilmente, ma non per questo venne meno il legame con i tanti movimenti ereticali sorti in seno alla Riforma, che da Erasmo e dalla sua philosophia Christi trassero ispirazione e che alimentarono un erasmismo profondamente vitale sino alle soglie dell’illuminismo. F. De Michelis Pintacuda BIBL.: Opera omnia, ed. a cura di J. Clericus, Lugduni-Batavorum 1703-06, 10 voll., ripr. Hildesheim 1961; Opus epistolarum, ed. a cura di P.S. Allen et al., Oxford 1906-58, 12 voll.; Opera omnia recognita et adnotatione critica instructa notisque illustrata, Amsterdam 1969- (ed. ancora incompleta: 33 voll. al 2004).Principali tr. it. di: Il Ciceroniano, A. Gambaro, Brescia 1965; Adagia, S. Seidel Menchi, Torino 1980; La formazione cristiana dell’uomo, E. Orlandini Traverso, Milano 1989; Elogio della follia, L. D’Ascia, Milano 1989; Il lamento della pace, C. Carena, Torino 1990; Antibarbari, L. D’Ascia, Torino 2002; Colloquia, C. Asso, Torino 2002; Il libero arbitrio, R. Jouvenal, Torino 20043. Su Erasmo da Rotterdam: J.-C. MARGOLIN, Douze années de bibliographie érasmienne (1950-1961), Paris 1963; J.-C. MARGOLIN, Quatorze années de bibliographie érasmienne (1936-1949), Paris 1969; J.-C. MARGOLIN,

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Erasto Neuf années de bibliographie érasmienne (19621970), Paris-Toronto 1977; J.-C. MARGOLIN, Erasme et Luther libre et serf arbitre: étude théologique et historique, Paris-Namur 1981; J. CHOMARAT, Grammaire et rhétorique chez Erasme, Paris 1981; C. AUGUSTJIN, Erasmus von Rotterdam: Leben, Werk, Wirkung, München 1986, tr. it. di I. Perini Bianchi, Erasmo da Rotterdam, Brescia 1989; L.E. HALKIN, Erasme parmi nous, Paris 1987, tr. it. di M. Garin, Erasmo, RomaBari 1989; M. HOFFMANN, Rhetoric and Theology: The Hermeneutic of Erasmus, Erasmus Studies, vol. XII, Toronto-Buffalo-London 1994; J.-C. MARGOLIN, Cinq années de bibliographie érasmienne (1971-1975), Paris 1997;J.-C. MARGOLIN, Érasme précepteur de l’Europe, Paris 1999; R. TORZINI, I labirinti del libero arbitrio: la discussione tra Erasmo e Lutero, Firenze 2000; F. DE MICHELIS PINTACUDA, Tra Erasmo e Lutero, Roma 2001.

ERASTO (“Erasto"). – Discepolo di Platone Erasto (che lo nomina nella VI lettera) e quindi membro dell’Antica Accademia. Egli apprezzava del maestro l’interesse per i problemi politici; conseguentemente preferì, alla dialettica delle idee, la concreta azione, dandosi all’attività politica. Il suo nome è citato nell’Indice dei filosofi di Filodemo di Gadara. Red. BIBL.: F. LASSERRE, De Léodamas de Thasos à Philippe d’Oponte. Témoignages et fragments. Edition, traduction et commentaire, Napoli 1987, pp. 103-110, 317322, 539-542.

ERASTUS - ERASTIANISMO. – Thomas Erastus - erastianismo Lüber (latinizzato Erastus), n. a Basilea nel 1524 e ivi m. nel 1583, medico di corte e professore di medicina nelle università di Heidelberg e Basilea. Si adoperò a Heidelberg per l’abolizione della scomunica e discusse la funzione e l’esercizio della «disciplina» nella chiesa. Gli scritti furono pubblicati postumi a Londra. Erastianismo si dice la tendenza ad affidare allo stato la formulazione e l’esecutività delle leggi che riguardino le coscienze o il credo, riservando alla chiesa compiti spirituali. Esso apre quindi la strada alla tolleranza. Tuttavia l’indipendenza della chiesa è resa pericolante dal suo modello. Uno sviluppo si ebbe in Inghilterra specialmente (v. Hobbes). S. Rostagno BIBL.: T. ERASTUS, Explicatio gravissimæ Quæstionis, utrum excommunicatio, [...] mandato nitatur Divino, an excogitata sit ab hominibus ... Adjectæ sunt clarissimorum aliquot Theologorum Epistolæ ... de hac re,

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Londini 1589; T. BEZA, Tractatus pius et moderatus de vera excommunicatione et christiano presbyterio jampridem pacis conciliandae causa, Cl. V. Ioan. Erasti [...] centum manuscriptis thesibus oppositus, et nunc primum [...] editus, Genevae 1590; J. WAYNE BAKER, Erastus, in H. HILLERBRAND (a cura di), The Oxford Encyclopedia of Reformation, New York - Oxford 1996, vol. II, pp. 59-61.

ERATH, AUGUSTIN. – Teologo tedesco, canoErath nico regolare di sant’Agostino, n. a Buchloe (Svevia) il 28 febbr. 1648, m. a Passau il 5 sett. 1719. Insegnò a Reichersberg, a Klosterneuburg e altrove. Nel 1698 fu eletto abate di Sant’Andrea a Wattenhausen. Si sforzò di rimettere in onore nell’ordine agostiniano la dottrina di Agostino (Philosophia S. Augustini, Dillingen 1678). Degno di nota il suo tentativo di conciliare il molinismo e il tomismo ortodosso in merito alla dottrina sulla grazia (Unio theologica seu conciliatio praedeterminationis physicae [...] et decreti divini extrinseci efficacis, Augsburg 1689). L. Bogliolo BIBL.: A. PALMIERI, s. v., in A. VACANT - E. MANGENOT (a cura di), Dictionnaire de Théologie Catholique, Paris 1939, vol. V, coll. 398-399.

ERATOSTENE ( jEratosqevnh"). – Scienziato Eratostene greco, n. a Cirene nel 275 ca. a. C., m. ad Alessandria nel 195 ca. a. C. Alunno del poeta Callimaco e dei filosofi Aristone di Chio peripatetico e Arcesilao accademico, famoso per la vastissima dottrina, usò per primo il termine «filologo» (filovlogo") per potersi presentare come «cultore di molte discipline». Successore di Apollonio Rodio nella direzione della biblioteca di Alessandria, grazie alla sua poliedrica preparazione esercitò grande influenza in numerosi campi della ricerca scientifica. Di straordinaria importanza i suoi lavori di argomento geografico (Geografia s’intitola la sua opera maggiore, in tre libri), collegati all’astronomia e al calcolo matematico che coltivò con grande ingegno (misurazione della circonferenza terrestre, ammissione degli antipodi); si occupò anche di storia letteraria e politica, la cui cronologia intese fondare (mediante il riferimento al calendario delle olimpiadi) su basi scientificamente accertate (ed. dei frammenti e testimonianze delle Cronologie, in Fragmente der Griechischen Historiker, a cura di F. Jacoby, Berlin-Leiden 1923-58, II, B, n. 241, pp. 10101021). Di filosofia scrisse durante il non breve

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soggiorno in Atene (Sul bene e il male, Sulla ricchezza e la povertà, Sull’assenza di dolore, Sulle scuole filosofiche), anche se dai pochi frammenti rimastici (v. G. Bernhardy, Eratosthenica, Berlin 1822, rist. Osnabrück 1968) è difficile precisare l’orientamento filosofico seguito da Eratostene, che s’ispirò probabilmente a un certo eclettismo di fondo, con qualche riflesso di moderato scetticismo. G.F. Pagallo BIBL.: G. KNAACK, s. v., in A. PAULY, Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, a cura di G. Wissowa, Stuttgart 1893-1963, VI, col. 357 (sugli scritti filosofici); W. SCHMID - O. STÄHLIN, Geschichte der griechischen Literatur, II, I, München 19206, pp. 146-253; L. ALFONSI, Ricerche sull’Aristotele perduto, I: L’Hermes di Eratostene e il Perì Philosophias di Aristotele, in «Rivista di Storia della Filosofia», 1946, 1; G. DRAGONI, Introduzione allo studio della vita e delle opere di Eratostene, in «Physis», 17 (1975), pp. 41-70; J. PÁMAS MASSANA, Eratosthène contra Aristóteles: los origenes rituales de la tragedia, in «Kernos» (Liège), 14 (2001), pp. 51-59. Su Eratostene matematico, cfr. M. CANTOR, Vorlesungen über Geschichte der Mathematik, I, Leipzig 19224; M. GEYMONAT, Nota critica a Eratostene, in «Rendiconti Istituto Lombardo», 1962, pp. 96-100; TH. HEATH, A History of Greek Mathematics, II, Oxford 1965 (1921), pp. 105 ss., 369 ss. Su Eratostene geografo: F.-A. THALAMAS La géographie d’Eratosthène, Versailles 1921; O. THOMSON, History of Ancient Geography, Cambridge 1948; G. AUJAC, Eratosthène de Cyrène, le pionnier de la géographie. Sa mesure de la circonférence terrestre, Paris 2001. Su altri aspetti, P.P. FUENTES GONZÁLEZ, s. v., in R. GOULET (a cura di), Dictionnaire des Philosophes Antiques, III, Paris 2000, pp. 188-236; D. LEIGEMANN, Eratostenes von Kyrene und die Messtechnik der alten Kulturen, Wiesbaden 2001; K. GEUS, Eratostenes Kyrene. Studien zu hellenistischen Kultur- und Wirtschaftsgeschichte, München 2002.

ERDÉLYI, JÁNOS. – Filosofo ungherese hegeErdélyi liano, n. a Kapos nel 1814, m. a Sárospatak nel 1868. Professore a Sárospatak dal 1860. Polemizza con la «filosofia dell’armonia» di Krug e dei suoi seguaci (Köteles, Hetényi, Szontágh), allora diffusissima in Ungheria. Alla tendenza nazionalistica di questi filosofi (che presentano la loro dottrina come la vera filosofia ungherese) oppone che la filosofia non tollera limitazioni nazionali (A hazai bölcsészet jelene [La situazione presente della filosofia nazionale], Sárospatak 1857); cerca però di dimostrare che

Erdmann la filosofia hegeliana si accorda con la mentalità ungherese. Più importante è l'altra sua opera: A bölcsészet Magyarországon (La filosofia in Ungheria); Budapest 1885, fondamentale storia della filosofia ungherese. T. Hanak BIBL.: Aesthetikai tanulmányok (Studi di estetica), Budapest 1888; Válogatott esztétikai tanulmányok (Studi scelti di estetica), Budapest 1953. Su Erdélyi: G. BARTÓK, Erdélyi János gondolkozása (Il pensiero di János Erdélyi), in «Erdélyi Múzeum», 23 (1915), pp. 7-25; M. SCHÖNER, Erdélyi János élete és müvei (Vita e opere di János Erdélyi), Budapest 1931; A. HELLER, Erdélyi János, in «Filozófiai Évkönyv», 1 (1952), pp. 403-476; I.T. ERDÉLYI, Erdélyi János, Budapest 1981.

ERDMANN, BENNO. – Logico e storico della Erdmann filosofia, n. il 30 magg. 1851 a Guhrau bei Glogau, m. il 7 genn. 1921 a Berlino. Studiò a Berlino e Heidelberg con Helmholtz, Bonitz e Zeller. Addottoratosi in filosofia nel 1876 a Berlino, insegnò successivamente nelle università di Kiel (1878), Breslavia (1884), Halle (1890), Bonn (1898) e Berlino (1909). Erdmann, con Sigwart e Jerusalem, appartiene a quel gruppo di filosofi tedeschi che sostenne un’interpretazione «psicologica» della logica (come scienza normativa del pensiero) e contro cui si rivolsero polemicamente la reazione «oggettivistica» e la fenomenologia husserliana. Erdmann diede importanti contributi alla storiografia filosofica e fu uno degli editori dell’Archiv für Geschichte der Philosophie; tra i suoi scritti in questo campo: Martin Knutzen und seine Zeit, Leipzig 1876; Kants Kritizismus, ivi 1878; Gedächtnisworte auf Leibniz, in «Sitzungsberichte der Berliner Akademie der Wissenschaften» 1916; Orientierende Bemerkungen über die Quellen zur Leibnizischen Philosophie, ibid., 1917; Die Idee von Kants Kritik der reinen Vernunft, in «Abhandlungen der Berliner Akademie der Wissenschaften», 1917; Berkeleys Philosophie im Lichte seines wissenschaftlichen Tagebuches, ibid., 1919. Dopo la morte di Dilthey, egli fu l’organizzatore delle edizioni di Kant e di Leibniz preparate dall’accademia di Berlino; e per lo studio del pensiero kantiano sono importanti le introduzioni alle opere di Kant da lui curate: Erdmann per primo progettò di risolvere le controversie sulle interpretazioni kantiane mediante la ricostruzione dello sviluppo del pensiero di Kant, orientando storicamente la «Kantphilologie», sebbene egli ab3531

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Erdmann

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bia insistito unilateralmente, per tale sviluppo, sul problema della conoscibilità della cosa in sé. L’opera di Erdmann Die Axiome der Geometrie. Eine philosophische Untersuchung der Riemann-Helmholtzschen Raumtheorie (Leipzig 1876), è uno dei primi tentativi di interpretazione filosofica degli sviluppi della metageometria: per Erdmann, questa mostra che l’intuizione spaziale è di carattere empirico e non ha un’unica forma necessaria. Tra i lavori teoretici: Logische Studien, in «Vierteljahrschrift für wissenschaftliche Philosophie und Soziologie», 1878; Zur Theorie der Apperzeption, ibid., 1886; Logik, I: Logische Elementarlehre, Halle 1892 (19233; a cura di E. Becher, con bibl. degli scritti); Umrisse zur Psychologie des Denkens, in «Festschrift für Siegwart», Tübingen 1900; Die Psychologie des Kindes, Bonn 1901; Über Inhalt und Geltung des Kausalgesetzes, Halle 1905; Wissenschaftliche Hypothesen über Leib und Seele, Köln 1907; Erkennen und Verstehen, in «Sitzungsberichte der Berliner Akademie der Wissenschaften», 1912; Reproduktionspsychologie, Berlin 1920. Erdmann conciliò una concezione metafisicopsicologica fenomenalistica con una teoria psicologico-scientifica sostenente il parallelismo psico-fisico. Idea centrale della sua psicologia della coscienza è la distinzione di varie specie di pensiero: quella del pensiero espresso linguisticamente e quella del pensiero intuitivo, che si distingue ancora, a sua volta, nel pensiero ipologico dei bambini e degli animali e nel pensiero iperlogico della più alta attività spirituale. La vita della coscienza contiene sempre residui inconsci. Nei confronti della psicologia, la logica è caratterizzata dal fatto che il suo oggetto è parte dell’oggetto della psicologia, benché la logica si distingua da questa per non essere scienza di fatti, ma «scienza universale, formale e normativa, dei presupposti metodici del pensiero scientifico» (Logik, p. 25). Nonostante la logica studi il pensiero espresso, si distingue tuttavia dalla «grammatica generale» che si occupa degli aspetti fattuali della lingua. Per Erdmann, lo studio logico dei principi normativi del pensiero deve evitare l’assolutizzazione metafisica di tali principi, la cui normatività è sempre colta nell’esperienza che abbiamo del nostro pensiero. Il centro della logica è per Erdmann la teoria del giudizio, nel quale sono unificati i contenuti dei significati. F. Barone

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BIBL.: J. JACOBSON, Die Axiome der Geometrie und ihr «philosophischer Untersucher» Herr B. Erdmann, Könisberg 1884; E. BECHER; B. Erdmann, in «Archiv für Geschichte der Psychologie», 42 (1921); C. STUMPF, Gedächtnisrede auf B. Erdmann, in «Sitzungsberichte der Berliner Akademie der Wissenschaften» (Philosophisch-historische Klasse), 1921; E. WENTSCHER, B. Erdmann als Historiker der Philosophie, in «Kantstudien», 1921; E. WENTSCHER, B. Erdmanns Stellung zu Kants Ethik, in «Kantstudien», 1927; A. ROSENTHAL, Die Theorie des Syllogismus und der Induktion bei Sigwart und Erdmann (dissertazione), Berlin 1928; E. KRAEMER, B. Erdmanns Wahrheitsaufassung und ihre Kritik durch Husserl, München 1930 (dissertazione); J.B. RIEFFERT, B. Erdmann, in «Kantstudien», 1932; L. GABE, s.v. in Neue deutsche Biographie, vol. IV, Berlin 1959, pp. 570-571.

ERDMANN, JOHANN EDUARD. – Storico della Erdmann filosofia, hegeliano, n. a Wolmar (Lettonia) il 13 giu. 1805, m. a Halle il 12 giu. 1892. Opere: Versuch einer wissenschaftlichen Darstellung der Geschichte der neueren Philosophie, Leipzig 1834-53, 3 parti in 6 voll. (rist. in facsimile a cura di H. Glockner, Stuttgart 1931 ss., 7 voll.); Grundriss der Geschichte der Philosophie, Berlin 1865, 2 voll. (ripr. del II, Stuttgart - Bad Cannstatt 1964; rielaborato da Clemens, Berlin 1930); Psychologische Briefe, Leipzig 1851; Ernste Spiele, Berlin 1855 (18914). Studioso soprattutto della logica hegeliana, tentò di inquadrarla nel processo storico della filosofia postkantiana e insieme di snellirla, eliminandone le parti che meno organicamente s’inquadravano nel sistema logico. Nel 1836 fu chiamato quale professore straordinario all’università di Halle, la prima università convertitasi (1824) ufficialmente allo hegelismo, e nel 1838 divenne ordinario. In quest’ambiente decisamente idealistico e ricco di stimoli speculativi, Erdmann attese alla sua storia della filosofia moderna, in cui egli si propose di sistemare il pensiero dei filosofi moderni negli schemi da Hegel precostituiti. L’opera conserva ancora valore notevole per ricchezza ed esattezza di dati e per vigore speculativo. L’ultimo periodo della produzione di Erdmann è caratterizzato dall’interesse per i problemi psicologici, ch’egli intese risolvere nell’ambito di una psicologia razionale, ricalcata sulla filosofia dello spirito soggettivo di Hegel. A. Plebe BIBL.: W. MOOG, Hegel und die hegelsche Schule, München 1930; H. GLOCKNER, Introduzione alla ristampa

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Ereditarietà

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di Versuch einer wissenschaftlichen Darstellung der Geschichte der neueren Philosophie, Stuttgart 1932.

EREDITÀ (inheritance; Erbschaft; hèritage; heEredità rencia). – Il termine eredità definisce il complesso dei rapporti patrimoniali che si trasmettono mortis causa dal defunto ai suoi successori, scelti secondo un complesso sistema di norme orientato a favorire i familiari, ovvero, in loro mancanza, i parenti anche lontani del defunto, rispetto agli estranei, e che salvano, in ultima e residuale istanza (cioè in assenza di ogni altro successore) la devoluzione della eredità allo stato. Per l’attuazione di questo disegno il legislatore riconosce al soggetto privato la facoltà di scegliere i suoi successori indicandoli in un atto, denominato testamento, inefficace fino alla morte del testatore e da lui sempre revocabile. La devoluzione dell’eredità ai cosiddetti eredi testamentari non può, tuttavia, pregiudicare le aspettative dei familiari (coniuge, discendenti) del defunto ai quali la legge riserva, in quanto eredi cosiddetti necessari, una quota aritmetica dell’eredità che può, pertanto, essere reclamata nei confronti di altri eventuali beneficiari; peraltro, in mancanza di testamento, l’eredità viene devoluta ai parenti (entro il sesto grado) del defunto secondo un ordine prestabilito che definisce il grado e la quota dei cosiddetti eredi legittimi. La tecnica di trasmissione mortis causa dei rapporti patrimoniali prevede o una chiamata (per testamento o per legge) a titolo universale in forza della quale l’erede, che accetti l’eredità, acquista (in tutto o in parte se concorre con altri coeredi) i diritti (reali e di credito) e i debiti del defunto, oppure una chiamata (per testamento) a titolo particolare in forza della quale il soggetto designato, chiamato legatario, subentra nella titolarità di un determinato rapporto e non risponde dei debiti del defunto. La valutazione «politica» del sistema successorio mortis causa, così sinteticamente descritto, ne evidenzia la subordinazione a un modello di sviluppo sociale fondato sulla sostanziale conservazione nell’ambito delle famiglie delle fortune patrimoniali delle persone, riconoscendo in questa certezza il fondamento di un ordine rispettoso della proprietà e del risparmio. Tutto ciò a discapito di un contrapposto modello che, ravvisando nel progresso il risultato di una gara, di una competizione ad armi pari, guarda all’acquisizione senza merito del-

le fortune da altri conquistate come a un fattore, per un verso, diseducativo della formazione etica della persona (che non viene invogliata a scommettere sul suo futuro accettandone i rischi) e, d’altro canto, come a una spinta, non sempre provvidenziale, al rafforzamento di un capitalismo familiare in conflitto con l’esigenza di modernizzazione, cioè di apertura, del sistema economico, delle imprese e del mercato. A. Liserre BIBL.: A. LISERRE, Evoluzione storica e rilievo costituzionale del diritto ereditario, in «Jus», 26 (1979), pp. 204231; A. PALAZZO, Le successioni, Milano 20002, 2 voll. ➨ FAMIGLIA.

EREDITARIETÀ (heredity; Vererblichkeit; Ereditarietà hérédité; herencia). – Da quando Gregor Mendel era riuscito a dimostrare inequivocabilmente che, nel campo vegetale, determinati caratteri passano, con leggi ben definite, da una generazione all’altra, era apparso evidente che, anche in campo animale, dati caratteri sono trasmessi dai genitori ai figli trasportati da «unità particellari», cioè si ereditano. Fu introdotto allora nella terminologia biologica il termine di ereditarietà per esprimere questo fenomeno. Si era aperto, in realtà, un nuovo campo di ricerca, la genetica, che avrebbe portato alle grandi conquiste del secolo XX. La prima tappa da raggiungere doveva essere l’individuazione di queste «unità particellari» e la loro natura. Nel 1902 W.S. Sutton, conosciuta l’ipotesi del Mendel, postula che le «unità particellari distinte» di cui questi parlava dovevano trovarsi nei cromosomi; e ad esse nel 1909 W. Johansen dava il nome di «geni». Dal 1910 al 1913 T.H. Morgan e da A.H. Sturtevant confermano sperimentalmente l’ipotesi di Sutton. Tra il 1940 e il 1952 si definisce la natura della sostanza portatrice della «informazione genetica»: l’acido desossiribonucleico (DNA); e nel 1953 D. Watson e F.H. Crick ne ipotizzano il modello strutturale a doppia elica, sottolineando che la specificità informativa di ogni gene doveva essere attribuita a una ben definita e limitata successione delle quattro molecole AGCT di cui era costituito il suo DNA. Negli anni sessanta segue la decifrazione del codice genetico, dalla quale emerse la struttura funzionale del gene e il suo compito essenziale, cioè la produzione delle proteine, molecole che costituiscono l’impalcatura essenziale e funzionale di ogni singola cellula. Intorno al 1970 inizia la «rivoluzione genomica». L’attenzione doveva essere rivol3533

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Ereditarietà ta ai geni stessi: scoprirli, localizzarli, studiarne l’attività specifica, le alterazioni, le conseguenze patologiche; conoscere la rete delle loro interconnessioni; averli, infine, nelle mani per poterne disporre in modo creativo. Per la specie umana attuale il primo traguardo principale, cioè la distribuzione ordinata dei geni nei singoli cromosomi, fu raggiunto per due vie diverse, e i rispettivi risultati furono pubblicati il 15 febbraio 2001 su «Nature» e il 16 febbraio 2001 su «Science» e completati nel 2003. Ne era risultato che nel genoma umano sono presenti circa 30-40.000 «geni». Di questi, fino a oggi, ne sono stati individuati per la specifica «informazione» e localizzati nei singoli cromosomi circa 19.500, dei quali 1663, presenti anche nella forma mutata, sono causa di serie patologie. Si erano, così, poste le basi per comprendere a pieno i meccanismi della ereditarietà e le vie per agire su di essi. Per quanto riguarda la specie umana, fu soprattutto lo studio delle malattie ereditarie che permise di definire i modelli generali della trasmissione dei geni dai genitori ai figli e, quindi, della ereditarietà di dati caratteri. Si riconoscono oggi quattro «modelli di ereditarietà»: 1) Modello monofattoriale autosomico dominante. Un dato carattere appare in un soggetto sotto l’influenza di un solo gene, il gene dominante. Sia, ad esempio, un soggetto affetto dalla «chorea di Huntington», dovuta a un gene mutato (D) localizzato nella porzione terminale di uno dei due cromosomi 4 presenti: il soggetto ha cioè genotipo Dd, dove d indica il gene normale, presente sull’altro cromosoma 4. Si supponga che egli sposi una persona con genotipo «dd», che ha cioè ambedue i geni corrispondenti sui due crosomi 4 non mutati e, quindi, sana. Dalla combinazione casuale dei rispettivi gameti della coppia Dd x dd, al concepimento si attenderebbero allora soggetti di cui il 50% avrebbe genotipo Dd e svilupperebbe la malattia, e il 50% avrebbe genotipo dd e sarebbe perfettamente sano. 2) Modello monofattoriale autosomico recessivo. Un dato carattere può apparire soltanto in un soggetto nel quale i due geni omologhi portano la stessa informazione. Si abbia, ad esempio, un soggetto affetto da «anemia mediterranea», nato da genitori sani: egli porta in ambedue i cromosomi 11 il gene mutato (r), a cui segue la mancata produzione delle catene b dell’emoglobina. Egli deve aver ricevuto i due 3534

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geni r dai due genitori sani con genotipo Rr, «portatori» ciascuno di un gene mutato r, ma non malati per la presenza del gene normale R, che permette la produzione di emoglobina. La legge della segregazione è evidente: dalla combinazione matrimoniale Rr x Rr, la probabilità dei figli affetti rr è del 25%. 3) Modello monofattoriale eterosomico recessivo. Un dato carattere può apparire soltanto nei maschi quando la madre porta il gene mutato in uno dei suoi due cromosomi X. Si abbia ad esempio una donna che ha in uno dei due cromosomi X (indicato con X') – il gene della «distrofia muscolare di Duchenne», ma è sana per la presenza del secondo cromosoma X che porta il gene normale per la produzione di distrofina. Il rischio per i figli maschi di ricevere il cromosoma X', e conseguentemente che si manifesti in essi la malattia, è sempre del 50%; mentre il 50% delle figlie che ricevesse lo stesso gene con il cromosoma X', saranno «portatrici sane», supplendo a sufficienza il gene omologo normale X in esse presente. 4) Il modello polifattoriale. A questi modelli ne è da aggiungere un altro detto modello «polifattoriale». La manifestazione di un dato carattere è qui dovuta all’azione combinata di uno o più «geni», a cui si associano assai spesso anche altri fattori non genetici. Basti ricordare, tra quelli patologici: a) molte «malformazioni congenite» che si riscontrano nel 3-5% dei neonati, quali: anencefalia, spina bifida, mielomeningocele, idrocefalia, gravi cardiopatie, labio-palatoschisi e onfalocele; e b) molte patologie «tumorali». Non si può concludere questa brevissima nota sui «geni», che sono i fattori responsabili della ereditarietà dei caratteri, e sulle modalità della loro trasmissione, senza ricordare che proprio su queste conoscenze si sta sempre più ampliando, nel campo della scienza, nella società e nella politica, una prospettiva eugenistica. Questa pretende che i progressi raggiunti esigono una selezione genetica, preceduta da diagnosi prenatale, e oggi anche pre-impianto, che deve mirare alla eliminazione di ogni soggetto debole o difettoso. È, in realtà, un grave e delittuoso abuso della scienza e della medicina, avallato dalla società e dalla politica. Si impone quindi l’esigenza di un forte contributo del pensiero filosofico per approfondire gli aspetti etici che stabiliscono limiti insuperabili di fronte a un soggetto umano qualunque sia il suo stato di salute, e di un forte impegno di

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una medicina responsabile che «previene» e si apre alla «gene-terapia». A. Serra BIBL.: V.A. MCKUSICK, Mendelian Inheritance in Man. Catalogs of Autosomal Dominant, Autosomal Recessive and X-linked Phenotypes, Baltimore 19888; TH. FRIEDMAN, The Origins, Evolution, and Directions of Human Gene Therapy, in TH. FRIEDMAN (a cura di), The Development of Human Gene Therapy, Cold Spring Harbor (New York) 1998, pp. 1-20; INTERNATIONAL HUMAN GENOME SEQUENCING CONSORTIUM, Initial Sequencing and Analysis of the Human Genome, in «Nature», 409 (2001), pp. 860-921; J.C. VENTER et al., The Sequence of the Human Genome, in «Science», 291 (2001), pp. 1304-1351; D. DONNAI, Congenital Disorders, in S. BRENNER - J.H. MILLER (a cura di), Encyclopedia of Genetics, London 2001, vol. 1, pp. 448-449; C. CALDAS - A.R. VENKITARAMAN, Tumor Suppressor Genes, in S. BRENNER - J.H. MILLER (a cura di), Encyclopedia of Genetics, London 2001, vol. 4, pp. 2081-2088; A. SERRA, Genetica, in G. TANZANELLA-NITTI - A. STRUMIA (a cura di), Dizionario interdisciplinare di scienza e fede, Roma 2002, vol. 1, pp. 669-674; J. HABERMAS, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, ed. it. a cura di L. Ceppa, Torino 2002; AA.VV., Chromosome 1 - Chromosome Y, in D.N. COOPER (a cura di), Nature Encyclopedia of Human Genome, London 2003, pp. 550-739; M. GENUARDI (a cura di), Inherited Cancer Predisposition, n. mon. «American Journal of Medical Genetics. Part C: Seminars in Medical Genetics», 129C (2004); Y.-H. WEI - H.-M. LEE - C.Y. HSU (a cura di), The Role of the Mitochondria in Human Aging and Disease: From Genes to Cell Signaling, «Annals of the New York Academy of Sciences», vol. 1042, New York 2005. ➨ GENETICA.

EREIGNIS (evento). – Nel tedesco comune siEreignis gnifica «avvenimento» o «accadimento» (Vorkommnis, Geschehnis) di carattere straordinario e in alcuni casi anche improvviso. A partire dalla metà degli anni trenta diventa la parola chiave del pensiero di Heidegger, il quale se ne serve per esprimere l’essere nel suo accadere, in quanto non è qualcosa di prodotto soltanto dall’uomo. In virtù di questo coappartenersi di essere e uomo, Heidegger – vedendo in Ereignis un legame etimologicamente non provato con eigen («proprio») e sviluppando un rigoroso vocabolario di termini correlati –, si serve occasionalmente anche della grafia Er-eignis conferendo alla parola il senso di «evento d’appropriazione». Il termine assume una rilevanza filosofica, se pur non sistematica, per la prima volta col

Ereignis «nuovo pensiero» presentato da F. Rosenzweig in Der Stern der Erlösung, opera redatta tra l’agosto 1918 e l’estate 1919 ma pubblicata due anni dopo (Frankfurt am Main 1921, cfr. ora in Gesammelte Schriften, vol. 2, Den Haag 1979). In una prospettiva segnata dalla tradizione ebraico-cristiana, ma confrontandosi anche con lo storicismo e l’idealismo, Rosenzweig elabora una peculiare nozione di temporalità e di storicità, ricorrendo all’espressione «ereignetes Ereignis», «evento fatto avvenire» (ibi, p. 178). La forma participiale passiva dell’aggettivo era a quel tempo inedita, rievocava tuttavia il duplice significato attribuito nella tradizione teologica cristiana al termine factum, si tratti dell’essere creato o della dimensione storica di ciò che è accaduto come rivelazione e redenzione. Tale espressione indica il rinnovantesi «accadere scaturito dall’attimo» (augenblicksentsprungenes Geschehen) che è l’«essere» (esistere) dell’uomo (venuto dal nulla, creaturale e mortale) nel mondo da redimere: un accadere che è la sempre nuova rivelazione (Offenbarung) della potenza creatrice di Dio. Ereignis diventa un concetto filosofico solo con Heidegger, che già agli inizi del 1919 lo impiega per caratterizzare l’essenza dell’Erlebnis («esperienza vissuta») – termine quest’ultimo assai diffuso all’epoca (neokantismo, Dilthey e Husserl) e che aveva trovato fortuna nelle correnti irrazionalistiche e «vitalistiche». Contro la cosiddetta deriva soggettivistica a cui Husserl portò il «principio di tutti i principi» da lui stesso formulato, secondo cui «tutto ciò che si offre originariamente nell’intuizione è da accogliere così come esso si dà», Heidegger rivendicò il significato di Erlebnis, grazie al quale è possibile «vedere» in maniera diretta la vita (Leben): si doveva assumere un atteggiamento rigorosamente filosofico per preservare la peculiare dinamica originaria del Leben, senza «devitalizzarla» (Entleben) scadendo in oggettivazioni, «visioni del mondo» o «sistemi». L’Erlebnis non è un oggetto che mi sta davanti, bensì va inteso come un «vivere la vita» o «esperire la vita vivendola» (Er-leben): è qualcosa di assolutamente nuovo, è un Ereignis vissuto da me e non un processo oggettivabile (Vorgang). L’Erlebnis è qualcosa a cui io partecipo, è un’esperienza che vivo accadendo con essa, «io stesso avvengo ap-propriandomene, ed essa avviene, secondo la sua essenza, facendosi ap-propriare» (ich selbst er-eigne 3535

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Ereignis es mir, und es er-eignet sich seinem Wesen nach). L’Erlebnis è un Er-eignis, un «evento d’appropriazione», in quanto delle esperienze vissute non ci si impossessa (an-eignen) dall’esterno o da qualche altra parte, ma «esse vivono di ciò che è proprio (aus dem Eigenen leben) ed è soltanto così che vive la vita». Se l’osservazione di un Erlebnis non solo si fonda su un’evidenza che vale esclusivamente per me, ma risulta già oggettivato dal momento che per osservarlo devo isolarlo da un altro, allora una «scienza» degli Erlebnisse spoglia quest’ultimi proprio del loro «carattere di Er-lebnis e di Ereignis». In tal senso il carattere di Ereignis non è qui ancora completamente determinato, ma Heidegger non ritornerà ad approfondirlo esplicitamente in seguito, lasciando progressivamente cadere anche l’uso di Erlebnis in quanto gravato da presupposti riconducibili al dualismo cartesiano. Ma se già H. Lotze, in alcuni passi del suo Mikrokosmos (1856-64, 3 voll.), aveva indicato l’Erlebnis come un «Ereignis della vita interiore», secondo Heidegger qui non si tratta affatto di qualcosa di soggettivo, giacché in quanto Ereignis esso rimanda al mondo stesso che è la vita esperita da me (cfr. GA, voll. 56-57, Frankfurt am Main 1987, pp. 75-76). Un’accezione particolare il termine riveste nelle lezioni Einführung in die Phänomenologie der Religion (1920-21) in cui Heidegger indica l’accadere della parousiv a (cfr. in GA, vol. 60, Frankfurt am Main 1993, p. 112), ma è solo a partire dal 1936 che Ereignis diventerà la parola fondamentale del pensiero di Heidegger, come documentano i Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) (1936-38), la sua seconda opera fondamentale apparsa postuma (ora in GA, vol. 65, Frankfurt am Main 1989). Se la questione dell’essere elaborata in Sein und Zeit (1927) prendeva le mosse dalla comprensione che l’«esserci» ha dell’essere (Sein) nel progettare la propria esistenza al fine di ottenere il senso dell’essere in generale, a partire dagli anni trenta si assiste al tentativo di approfondire il fondamento del progettarsi dell’esserci, vale a dire di cogliere la provenienza della sua gettatezza, prendendo le mosse dall’accadere dell’essere stesso pensato come un essenziarsi (Wesung) storico della verità (ajlhvqeia) dell’essere (Seyn) in quanto Ereignis. Da questa prospettiva della «storia dell’essere», chi getta il «progetto» fa esperienza di sé come gettato, ossia come «fatto avvenire e appropriato» (ereignet) dall’essere – in senso verbale –, ed è in 3536

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questa esperienza (Erfahrung) dell’appartenenza all’essere che l’uomo riconosce la propria gettatezza come scaturita dal «getto dell’essere», ossia come qualcosa di cui non dispone perché non è lui stesso a gettarla. Pensare l’essere come Ereignis significa pensarlo come qualcosa che nel suo accadere riguarda l’uomo, come un far parte del suo accadere: come un «evento d’appropriazione» (Ereignis). Quest’ultimo va pensato dunque nella sua dinamica di donazione e sottrazione, di svelamento e velamento, alla quale l’uomo può solo «corrispondere»: l’essere non si esaurisce nella comprensione che l’uomo ha di esso, e quindi del suo svelamento fa parte un costitutivo negarsi, un sottrarsi che si mostra come un Enteignis («espropriazione»). L’Ereignis va pensato pertanto sia 1) rispetto alla «presenza» (Anwesenheit) che, legata alla «differenza ontologica», si mostra nella «radura» (Lichtung) costitutiva dell’esser-ci (il «rapporto» dell’esserci all’essere), sia 2) rispetto al destinarsi dell’essere come «storia» e alle rispettive «epoche» (il «riferimento» dell’essere all’esserci). Una radicalizzazione della problematica dell’Ereignis è offerta da Heidegger intorno agli anni cinquanta col concetto di Geviert, mentre nella conferenza Zeit und Sein (1962, in Zur Sache des Denkens, Tübingen 1969) compendierà il suo tentativo di pensare la temporalità dell’essere, che in quanto Ereignis semplicemente «si dà» (es gibt), ricordando gli scritti fondamentali in cui l’ha trattato, ovvero il Brief über den «Humanismus» (1947), il ciclo di conferenze Einblick in das, was ist (1949) e la prima parte di Identität und Differenz (1957), dove Ereignis è fatto derivare dal verbo eräugen, «adocchiare» (cfr. inoltre le precisazioni date durante un seminario del 1966, in GA, vol. 15, Frankfurt am Main 1986, pp. 362 ss.). C. Badocco BIBL.: O. PÖGGELER, Heidegger und die hermeneutische Philosophie, Freiburg-München 1983, pp. 71-138; A. MAGRIS, Pensiero dell’evento e avvento del divino in Heidegger, in «Annuario filosofico», 5 (1989), pp. 31-83; B. CASPER, La concezione dell’«evento» nella Stella della Redenzione di F. Rosenzweig e nel pensiero di M. Heidegger, in «Teoria», 9 (1991), pp. 47-64; F.-W. von HERRMANN, Wege ins Ereignis. Zu Heideggers «Beiträgen zur Philosophie», Frankfurt am Main 1994; W. ULLRICH, Der Garten der Wildnis. Zu Martin Heideggers Ereignis-Denken, München 1996; S.-K. LEE, Existenz und Ereignis. Eine Untersuchung zur Entwicklung der Philosophie Heideggers, Würzburg 2001; R. POLT, Ereig-

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nis, in H.L. DREYFUSS (a cura di), A Companion to Heidegger, Malden (Massachusetts) 2005, pp. 357-391. ➨ ERLEBNIS; GEVIERT; LICHTUNG; PROGETTO.

ERENNIO (´Erevnnio"). – Neoplatonico del Erennio sec. III d. C., – o forse soltanto uno pseudonimo: v. E. Zeller, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, a cura di R. Mondolfo, III, VI; Giamblico e la scuola di Atene, a cura di G. Martano, Firenze 1961, pp. 220 ss.) – avrebbe divulgato per primo le dottrine del maestro Ammonio Sacca, rompendo così il patto che aveva stretto con Plotino e Origene (v. Porfirio, Vita di Plotino, 3, 24.29.30). L’Introduzione alla metafisica (´Exhvghsi" eij" ta; meta; ta; fusikav) che gli viene attribuita, comunemente detta Metafisica di Erennio (A. Mai, Classici auctores e codicibus Vaticanis edita, 5 voll.,Roma 1833-38, IX, pp. 513-593; E. Heitz, Die angebliche Metaphysik des Herrenios, in «Sitzungsberichte der Preußischen Akademie der Wissenschaften», 1889, pp. 1167-1190), non è certamente opera sua; forse nemmeno antica, ma del noto copista di manoscritti greci ed eccellente falsario del sec. XVI, lo spagnolo Andres Darmario (v. L.A. Muratori, Antichità italiane. Dissertazione XLIV; P.P. Fuentes Gonzales, Andres Darmario copista en Granada de Alejandro de Afrodisia, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», LXI, 1999, pp. 719-728), che raccolse sotto quel titolo vari scritti di Alessandro d’Afrodisia, Filone di Alessandria e, soprattutto, di Damascio (cfr. L. Brisson - A.-Ph. Segonds, in Porphyre, La vie de Plotin, t. II, Paris 1992, pp. 212-213). G.F. Pagallo BIBL.: G. PASQUALI, Parerga. III: La così detta Metafisica di Erennio e Andrea Darmario, in AA.VV., Xenia Romana, Roma-Milano 1907, pp. 23-27; K. PRAECHTER, s. v., in A. PAULY, Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, a cura di G. Wissowa, XV, 1, Stuttgart 1912, coll. 649-650; L. BRISSON, s. v., in R. GOULET (a cura di), Dictionnaire des Philosophes Antiques, III, Paris 2000, p. 236.

ERESIA (dal greco ai{resi", scelta - heresy; Eresia Häresie; hérésie; herejía). – L’eresia è un fenomeno che riguarda il corpo ecclesiale, e consiste nella separazione di una sua parte a motivo di persistenti divergenze rispetto ad alcuni valori coesivi del corpo stesso: con l’eresia il cristallizzarsi di una mancata condivisione della verità assume i tratti di una frattura dell’unità. Per la chiesa cattolica «viene detta eresia l’ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo,

Eresia di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa» (dal canone 751 del Codice di Diritto Canonico, Roma 1983): un’indicazione che chiede di essere inserita nel contesto della riflessione sul servizio del Magistero, in quanto rimanda alla presenza di un’istanza autorevole che riconosca l’effettivo rifiuto di qualcosa a cui è impossibile rinunciare senza minare l’integrità della fede. D’altro canto, il problema dell’eresia colto sotto il profilo della verità negata non può essere disgiunto dalla considerazione relativa al carattere intrinsecamente dialettico dell’umano procedere verso un più maturo riconoscimento della verità stessa. Ciò che viene consegnato alla storia come inesauribile dono di rivelazione chiede di essere incarnato e dispiegato in essa attraverso il continuo confronto con le concrete possibilità di ricezione da parte dell’uomo, e dunque con i moduli elaborati dalla ragione nel suo autonomo (e doveroso) impegno per la ricerca del vero. La negazione di una verità di fede è spesso l’altro versante del desiderio di comprendere, l’altra faccia del tentativo di rileggere la rivelazione divina secondo i canoni del pensiero umano, magari cercando di inquadrare il dato ricevuto nelle categorie della filosofia. E la filosofia che si ritrova impegnata in questa sfida, da una parte corre il rischio di scartare unilateralmente quegli aspetti della rivelazione che, se conservati, finirebbero per minare la coerenza logica della sua sintesi; dall’altra si attesta spesso capace di evidenziare verità altrimenti destinate a rimanere inespresse nella stessa autocoscienza ecclesiale: non è certo un caso che, nello sviluppo della storia del dogma, la maturazione della riflessione credente riguardo importanti contenuti di fede sia passata attraverso lo snodo cruciale e doloroso della lotta all’eresia. S. Bonanni BIBL.: A. MICHEL, Hérésie, hérétique, in A. VACANT - E. MANGENOT - E. AMANN (a cura di), Dictionnaire de Théologie catholique, vol. VI, Paris 1920, coll. 22072257; A. BORST, Häresie, in J. RITTER (a cura di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, vol. III, Basel-Stuttgart 1974, coll. 999-1001; H. HEINEMANN, Eresia, eretico, in K. RAHNER (a cura di), Sacramentum Mundi. Enciclopedia teologica, redazione it. a cura di A. Bellini, vol. III, Brescia 1975, coll. 504-509; K. RAHNER, Eresie, storia delle, in K. RAHNER (a cura di), Sacramentum Mundi. Enciclopedia teologica, redazione it. a cura di A. Bellini, vol. III, Brescia 1975, coll. 509-520;

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Eresiologi C. GIANOTTO, Eresiologi, in A. DI BERARDINO (a cura di), Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, vol. I, Casale Monferrato 1983, coll. 1194-1197; V. GROSSI, Eresia, eretico, in A. DI BERARDINO (a cura di), Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, vol. I, Casale Monferrato 1983, coll. 1187-1191; H.D. BETZ - A. SCHINDLER - W. HUBER, Häresie, in G. KRAUSE - G. MÜLLER (a cura di), Theologische Realenzyklopädie, vol. XIV, Berlin - New York 1994, pp. 313-348; R. KAMPLING - W. BEINERT - H. HEINEMANN, Häresie, in W. KASPER et al. (a cura di), Lexikon für Theologie und Kirche, vol. IV, Freiburg im Breisgau 19953, coll. 11891193. ➨ ERESIOLOGI.

ERESIOLOGI. – Nella premessa al De controEresiologi versiis christianae fidei adversus hujus temporis haereticos, Roberto Bellarmino partecipa al suo lettore i motivi che lo hanno spinto a porre mano all’opera. Egli afferma di voler seguire l’esempio degli antichi padri, i quali, per difendere l’autentica dottrina, si erano preoccupati di mettere a punto armi adeguate, dedicando molte energie allo studio dell’eresia, con lo scopo di coglierne il quadro globale e di elaborare argomenti efficaci da opporre all’errore. Per il professore del Collegio Romano, farsi erede nel XVI secolo della consegna ricevuta dai maestri del passato, vorrà dire impegnarsi a raccogliere secondo le linee di un progetto unitario, i molti argomenti di disputa legati ai contrasti con i nuovi eretici, affinché – come precisa egli stesso – coloro che lo desiderano possano attingere senza grande fatica «a un unico armamentario per procurarsi le armi che cercano». Le dichiarazioni d’intento che precedono il De controversiis, ci consentono di definire l’eresiologo come colui che non si limita a replicare ai singoli errori (questo è piuttosto l’approccio del controversista), ma considera il fenomeno dell’eresia nella sua globalità, cercando di comprenderne radici e sviluppi: solo in questo modo, chi intende tutelare la fede, sarà posto nelle condizioni di rielaborare il quadro della vera dottrina, articolandolo in modo tale da non lasciare più spazio alle false opinioni. Non deve dunque stupire che fra le ragioni sottese ai tentativi di sintesi sempre riemergenti nella storia della teologia, quelle maturate con l’opera di discernimento degli eresiologi abbiano avuto, in molti casi, un ruolo decisivo. E neppure può stupire che il lavoro degli eresiologi, generalmente avviato proprio 3538

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per superare i limiti di un confronto episodico e parziale, abbia spesso assunto i toni di un dialogo critico e differenziato con i modelli di pensiero e le filosofie eventualmente legate al punto di vista degli avversari. Già nel II secolo, di fronte al pericolo rappresentato dallo gnosticismo, Ireneo, nel suo Adversus haereses, elabora una sintesi attenta a evitare l’omologazione del paradosso della fede alle esigenze della filosofia, e polemizza contro il discusso platonismo gnostico che rischia di sottrarre alla salvezza cristiana il suo carattere integrale ed ecclesiale. Anche Clemente di Alessandria (cfr. in particolare gli Excerpta ex Theodoto) sentirà il bisogno di rispondere alla falsa gnosi degli gnostici, ma rispetto alla proposta di Ireneo, la vera gnosi della fede di cui parla l’alessandrino, appare molto più preoccupata di recuperare quanto poteva esserci di valido nel bagaglio della filosofia. Nel Medioevo, all’interno di un dibattito teologico che gradualmente assumerà i connotati di una ricerca strutturata secondo i dinamismi della quaestio scolastica, il bisogno di opporsi alle opinioni devianti funzionerà ancora da stimolo per la sintesi: nella Theologia Scholarium di Pietro Abelardo (antesignana, nel XII, delle grandi somme del secolo successivo) la confutazione delle «eresie e gli errori del tempo presente» (Theologia Scholarium II, 62) rimane uno degli obiettivi centrali. Inoltre, diventerà sempre più evidente che per tutelare efficacemente la verità, si rende necessaria una disamina delle eventuali istanze filosofiche che l’eresia, più o meno consapevolmente, spesso finisce per veicolare, con la conseguenza che le repliche, per essere efficaci, difficilmente potranno trascurare il piano della dialettica filosofica. Ma accanto a queste considerazioni, dobbiamo anche rilevare che in un contesto come quello del Medioevo cristiano, non si sentirà l’esigenza di un’eresiologia codificata in termini analoghi a quella dei padri. Per i medievali stessi, resteranno di riferimento opere come quelle di Tertulliano (De praescriptione haereticorum, in J.-P. Migne, Patrologiae cursus completus, Series II: [Patres] Ecclesiae Latinae, vol. II, 10-74, Paris 1845-55), Ippolito (Contre les hérésies, ed. fr. a cura di P. Nautin, Paris 1949), Epifanio di Salamina (Panarion, in J.-P. Migne, Patrologiae cursus completus, Series I: [Patres] Ecclesiae Grecae, vol. XLI, 173-1200, vol. XLII, 9773, Paris 1857-66), Filastrio di Brescia (Diversarum haereseon liber, in J.-P. Migne, Patrologiae

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cursus completus, Series II: [Patres] Ecclesiae Latinae, vol XII, 1111-1302, Paris 1845-55) e Vincenzo di Lérins: il quale afferma (cfr. Commonitorium, in J.-P. Migne, op. cit., vol. L, 637-686) che la chiesa deve custodire «quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est» (ibi, 640); universalità, antichità e unanimità costituiscono dunque il canone, recepito nel Medioevo e oltre, che permette di distinguere la vera fede dall’errore. È sintomatico che nell’elenco presentato da Bellarmino nella ricordata premessa al suo De controversiis, non compaiano autori scolastici; egli richiama piuttosto Atanasio, Basilio, Ilario, Cirillo, Agostino... ossia i padri chiamati a fronteggiare le grandi eresie dei primi secoli: evidentemente le sole, per gravità e diffusione, a cui il professore del Collegio Romano riteneva di poter associare i problemi causati dalla Riforma. S. Bonanni BIBL.: F. OEHLER, Corpus haereseologicum, Berlin 1856-61, 3 voll.; C. CANTÙ, Gli eretici d’Italia, Torino 1865-67, 3 voll.; A. MICHEL, Hérésie, hérétique, in A. VACANT - E. MANGENOT - E. AMANN (a cura di), Dictionnaire de Théologie catholique, vol. VI, coll. 2207-2257, Paris 1909-47; G. WELTER, Histoire des sectes chrétiennes des origines à nos jours, Paris 1950; R. KAMPLING W. BEINERT - H. HEINEMANN, Häresie, in J. HÖFER - K. RAHNER (a cura di), Lexikon für Theologie und Kirche, Freiburg im Breisgau 1960, vol IV, coll. 1189-1193; A. BORST, Häresie, in J. RITTER el al. (a cura di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, Basel-Stuttgart 1974, vol. III, coll. 999-1001; H. HEINEMANN, Eresia, eretico, in K. RAHNER (a cura di), Sacramentum Mundi. Enciclopedia teologica, Brescia 1975, vol. III, coll. 504-509; K. RAHNER, Eresie, storia delle, in K. RAHNER (a cura di), Sacramentum Mundi. Enciclopedia teologica, Brescia 1975, vol. III, coll. 509-520; H.D. BETZ A. SCHINDLER - W. HUBER, Häresie, in Theologische Realenzyklopädie, Berlin - New York, 1976 ss., vol. XIV, pp. 313-348; V. GROSSI, Eresia, eretico, in A DI BERARDINO (a cura di), Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, Casale Monferrato 1983-1984, vol. I, coll. 1187-1191; C. GIANOTTO, Eresiologi, in A DI BERARDINO (a cura di), Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, Casale Monferrato 1983-1984, vol. I, coll. 1194-1197. ➨ ERESIA.

ERETRIA, SCUOLA DI: V. SCUOLA DI ERETRIA. Eretria ERHARDT, FRANZ. – N. il 4 nov. 1864 a NieErhardt dertreha, m. il 6 apr. 1930 a Rostock. Fu scolaro dell’Eucken, di cui tuttavia non subì l’influsso; si abilitò nel 1891 con O. Liebmann e divenne professore di filosofia a Rostock nel

Erigerio di Lobbes 1899. Alcune tra le sue opere più notevoli sono studi critici sulla filosofia moderna: Kritik der kantischen Antinomienlehre, Leipzig 1888; Die Philosophie des Spinoza im Lichte der Kritik, ivi 1908; Die Grundgedanken der Kritik der reinen Vernunft, ivi 1924; Bleibendes und Vergängliches in der Philosophie Kants, ivi 1926. I suoi studi critici, e particolarmente quelli su Kant, preludono tuttavia all’elaborazione della propria originale concezione filosofica. Egli si oppone alle interpretazioni metodologiche del kantismo e all’idealismo «critico», in nome di una concezione metafisica realistica che riprende dottrine di Eduard von Hartmann e di Schopenhauer. Per Erhardt, la ricostruzione di una metafisica scientifica, positiva e autonoma è il compito della filosofia contemporanea. La parte imperitura del kantismo è per Erhardt l’estetica trascendentale; egli critica invece la dottrina delle categorie: la categoria della causalità permette per lui l’inferimento di un mondo di cose in sé a partire dal mondo fenomenico spazio-temporale. Il mondo metafisico è un complesso dinamico di forze immateriali, manifestantisi nei fenomeni meccanici, alle quali appartiene anche l’anima. Tra le sue opere teoretiche: Mechanismus und Theologie, Leipzig 1890; Metaphysik, I: Erkenntnistheorie, ivi 1894 (la II parte, completa, Naturphilosophie, e la III, incompleta, Psychologie, sono conservate manoscritte nella biblioteca universitaria di Rostock); Psychophysischer Parallelismus und erkenntnistheoretischer Idealismus, ivi 1901; Tatsachen, Gesetze, Ursachen, ivi 1912. F. Barone BIBL.: W. BURKAMP, F. Erhardt, in «Kantstudien», 1930, pp. 291-92; M. GOLDMUND, Die Philosophie F. Erhardts, Leipzig 1937; E. SELOW, s. v. in Neue deutsche Biographie, IV, Berlin 1959, pp. 581-82.

ERIGERIO LOBBES. – Erudito e abate Erigerio di DI Lobbes d’età ottoniana, n. nel 942 ca., m. il 31 ott. 1007. Formatosi forse presso la scuola cattedrale di Liegi, divenne monaco nell’abbazia di Saint Pierre de Lobbes probabilmente già adolescente. Al seguito dell’abate Folcuino di Lobbes, potrebbe essere entrato in contatto a Reims con Adalberone di Liegi e Gerberto di Aurillac. Divenuto stretto collaboratore di Notkero, vescovo di Liegi e consigliere degli Ottoni, prese parte alla sua attività diplomatica. Abate di Lobbes nel 990, ampliò e arricchì il suo monastero. Dotato di una cultura enciclopedica, fu autore di opere agiografiche, storiche, cronografiche, 3539

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Erikson aritmetiche, teologiche e poetiche, oltre che di florilegi di autori pagani e cristiani. Le sue opere storiche e agiografiche non mancano di senso critico. Nei Dicta de corpore et sanguine Domini tenta di conciliare realismo e simbolismo fondendo la prospettiva epistemologica di Eriugena con quella di Gerberto e Abbone. Erigerio sostiene che la natura dell’eucaristia è comprensibile solamente alla luce di quelle scienze che permettono all’uomo di comprendere l’ordine della natura. Ebbene, tali scienze sono la dialettica e la matematica, di cui egli fa uso congiuntamente. Parimenti, nei Gesta episcoporum Tungrensium, Trajectensium et Leodensium, Erigerio spiega la generazione e la conservazione del mondo sulla base di un simbolismo matematico. M. Forlivesi BIBL.: G. D’ONOFRIO, «Sapientia terrena» e «philosophia coelestis» tra decadenza e «renovatio» dell’impero (875-1030 ca.), in Storia della teologia nel Medioevo, vol. I: I principi, Casale Monferrato 1996, pp. 339405; P. VERBIST, Heriger van Lobbes (ca. 942-1007) een laat-karolinger of een vroeg-scholasticus? Een historisch onderzoek naar de religieus-culturele wereld van Luik en Lobbes in de late tiende eeuw, Leuven 1996-97 (dissertazione).

ERIKSON, ERIK. – N. il 15 giu. 1902 a FrancoErikson forte e m. il 12 magg. 1994 a Harwich (Massachusetts). Conobbe il «metodo Montessori» in una scuola privata di Vienna e completò la sua formazione alla psicoanalisi con Anna Freud. Nel 1933 si trasferì a Boston, insegnando nelle università di Harvard, Yale e Berkeley. La sua ricerca è tuttora di grande rilievo nell’ambito della psicoanalisi di orientamento socioculturale; Erikson appartiene a quell’insieme di studiosi che tendono all’estensione delle teorie freudiane ad altri ambiti, nel suo caso quello pedagogico. Interessanti sono le analisi da lui condotte sui modelli pedagogici riscontrabili in un gruppo di indiani Sioux del South Dakota e messi poi a confronto con quelli utilizzati nella tradizione occidentale. Con tali studi evidenzia la stretta relazione che sussiste fra sviluppo individuale e gruppo sociale di appartenenza. Giunge così alla formulazione di una teoria psicosociale dello sviluppo che scandisce l’intero corso della vita in otto fasi, in ognuna delle quali è possibile definire i compiti di sviluppo specifici in relazione alle istituzioni sociali e culturali. In tal modo si pone all’origine di un nuovo modo di guardare 3540

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allo sviluppo psicologico, che coinvolge l’intero corso della vita. Altra ricerca di notevole interesse riguarda uno studio psicostorico su personalità di rilievo e sulla strutturazione della loro individualità, con un interesse particolare per il giovane Lutero (1958), nonché per Freud e Gandhi (1975). P. Nicolini BIBL.: A. QUADRIO ARISTARCHI, Lo sviluppo emotivo secondo la teoria di E. Erikson, Milano 1962; H.W. MAIER, Three Theories of Child Development: the Contributions of E.H. Erikson, Jean Piaget and Robert Sears and Their Applications, New York 1965, tr. it. di A. Bottini, L’età infantile, Milano 1971; R.I. EVANS, Dialogue with E. Erikson, New York 1967; P. ROAZEN, E.H. Erikson, New York 1976, tr. it. di F. d’Agostino - C. Bellucci, Erik H. Erikson, Roma 1982; R. COLES, E.H. Erikson, New York 1987; F.L. GROSS, Introducing E. Erikson, Lanham 1987; R.S. WALLERSTEIN - L. GOLDBERGER, Ideas and Identities: the Life and Work of E. Erikson, Madison 1998; L.J. FRIEDMAN, Identity’s Architect: A Biography of E.H. Erikson, London 1999.

ERILLO (“Erillo") DI CARTAGINE. – FiloErillo sofo stoico del sec. III a. C., più probabilmente originario di Calcedonia che di Cartagine, venne giovanissimo ad Atene, entrando nella scuola di Zenone di Cizio. L’interpretazione con cui accolse l’insegnamento del maestro non sembra priva di originalità ed è certamente difforme da quella sviluppata da Cleante e Crisippo, che la sottoposero a critica. Accentuando i motivi intellettualistici presenti nell’etica stoica, Erillo riponeva il fine supremo della vita, più che nel carattere virtuoso dell’agire pratico, nella conoscenza superiore (ejpisthvmh) che solo il sapiente può conseguire; cosicché per lui la virtù si eguaglia alla scienza. Erillo si discosta da Zenone anche per quanto riguarda la dottrina delle «cose indifferenti» o ajdiavfora (Diogene Laerzio,Vite dei Filosofi, VII, 102 e 104): per l’uomo comune (non per il sapiente) essi costituiscono un fine, sia pure subordinato. In Diogene Laerzio (ibi, VII, 166), la lista dei titoli di dodici sue opere; i frammenti rimastici in Hans von Arnim, I, pp. 91 ss. (Stoici antichi. Tutti i frammenti, tr. it. a cura di R. Radice, Milano 1998, pp. 176-180); e in N. Festa, I frammenti degli Stoici antichi, II, Bari 1935. G.F. Pagallo BIBL.: H. VON ARNIM, s. v., in A. PAULY, Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, a cura di G. Wissowa, Stuttgart 1893-1963, VIII, coll. 683-

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684; N. FESTA, Il filosofo Erillo e la sua produzione letteraria, in «Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e Filologiche dell’Accademia dei Lincei», 6 (1933), 9, pp. 220-226; P. VON DER MÜHLL, Zwei alte Stoiker: Zunahme und Herkunft, in «Museum Helveticum», 20 (1963), pp. 1-9; M. POHLENZ, Die Stoa, Göttingen 19643, tr. it. di L. Bandini, Firenze 1967, I, pp. 37-38; A.M. IOPPOLO, Lo stoicismo di Erillo, in «Phronesis», 30 (1985), pp. 58-78; P. STEINMETZ, Die Stoa, in F. UEBERWEG - H. FLASHAR, Grundriss der Geschichte der Philosophie. Die Philosophie der Antike, B.4: Die Hellenistische Philosophie, II, Basel 1994, pp. 562 ss. (con bibl.).

ERISTICA (gr. ejristikhv [tevcnh]: «arte di diEristica sputare»). – Secondo la presentazione di Platone, l’eristica consiste nell’abilità di disputare su qualsiasi argomento (Soph., 225 c), confutando ogni risposta data (Euthyd., 278 d), indipendentemente dalla verità o falsità della medesima (ibi, 272 a-b). Coloro che la esercitano, sono chiamati «mercenari di parole» (Teaet., 165 d), perché abituati a spacciare per scienza le loro sottili distinzioni e astuzie verbali, grazie alle quali amano irretire l’interlocutore (Soph., 233 c ss.). Nella storia della filosofia e della logica (da Aristotele e l’analisi formale del «sillogismo eristico» [El. soph., 11, 171 b ss., e Top. VIII, 11, 161 a 33-34], al saggio di A. Schopenhauer, Die eristische Dialektik, tr. it. a cura di F. Volpi, L’arte di ottenere ragione, Milano 1992, fino al Traité de l’argumentation di Ch. Perelman e L. Olbrechts-Tyteca, Paris 1958, tr. it. Torino 1966), il termine è invalso a indicare l’attitudine di chi si dedica alla disputa per la disputa, e, attraverso argomentazioni ingannevoli, tende a sorprendere la buona fede altrui e a imporre la propria tesi. Dal punto di vista storico, è verosimile che, nell’ultima fase della prima sofistica, alcuni maldestri ripetitori dell’insegnamento di Protagora (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 52, ricorda come egli fosse il primo «a istituire gare dialettiche [...], creando così quel genere di discorsi eristici ora tanto in voga»; H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di W. Kranz, Berlin 1961-64, 80, A 1) e di Gorgia (Aristotele, El. soph., 33, 183 b 36: «coloro che guadagnavano insegnando a fare i discorsi eristici usavano un metodo d’insegnamento più o meno simile alla trattazione di Gorgia»: Diels, op. cit., 82, B 14), abbiano trasformato la discussione «dialettica» genuina in controversia «eristica». Platone ha ritratto nell’Eutidemo il

Erkenntnis verbalismo capzioso e arrogante di questi sofisti minori, attraverso la caricatura dei due personaggi principali del dialogo, Eutidemo e Dionisodoro. La polemica antisofistica, per quanto magistralmente condotta, non autorizza certo a confondere due aspetti teoreticamente molto diversi: la «tecnica» con cui i sofisti del dialogo platonico mirano a imporre artificiosamente il proprio punto di vista, non va confusa, infatti, con la riflessione avviata dai maggiori fra i sofisti intorno all’«opinione vera» e la possibilità dei «doppi discorsi». L’interesse filosofico, oltreché storico, che accompagna l’insegnamento della retorica da parte di Protagora, Gorgia e Prodico, per citare solo le figure maggiori, acquista giusto rilievo se si tiene conto della crisi profonda provocata nella storia del naturalismo presocratico dall’«ontologia» di Parmenide e dell’eleatismo; la quale obbligò la riflessione filosofica a rivedere i concetti di «verità» e «errore», e, paradossalmente, a inquisire sulla possibilità di più discorsi «veri», purché logicamente coerenti e linguisticamente «corretti» (cfr. Platone, Teaet., 167 d-168 b; 188 ss.; Crat., 429 e). Più tardi, con la scuola cinica di Antistene, lo stile dialogico adottato da Socrate nella ricerca della definizione «universale» si sviluppa nella direzione di una «eristica» d’intonazione scettica e protrettica. Nello stesso periodo, Euclide e i seguaci della scuola megarica, a fronte delle contraddizioni che riescono abilmente a ricavare dalla pratica del linguaggio quotidiano, ribadiscono la validità del principio d’identità, nella versione datane dall’eleatismo; furono chiamati «eristici», o «dialettici», perché nelle loro argomentazioni amavano procedere per domanda e risposta; e perché, facendo ricorso a sofismi di varia figura, utilizzavano con destrezza la tecnica della reductio ad absurdum, applicandola anche a quei giudizi che sembravano rifarsi a esperienze certe e opinioni ampiamente condivise. G.F. Pagallo

ERKENNTNIS. – Rivista della Società per la Erkenntnis filosofia empirica e del Circolo E. Mach, a cura di R. Carnap e H. Reichenbach, Leipzig - Den Haag 1930-38; il vol. VIII (1939-40), uscito sotto il titolo «The Journal of Unified Science (Erkenntnis)» è stato l’ultimo prima di una lunga interruzione. La rivista, con il vecchio titolo, ha ripreso le pubblicazioni con il vol. IX 3541

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Erklären nel 1975, sotto l’iniziativa di W. Essler e W. Stegmüller, inizialmente sostenuti da Carnap e, dopo la morte di questi nel 1970, da C.G. Hempel. Attualmente sono editors della rivista, oltre Essler, W. Spohn e P. Suppes. «Erkenntnis» nella sua prima serie aveva l’intento di raggiungere una visione unitaria strettamente scientifica di tutti i campi della scienza e un «linguaggio unitario della scienza», allo scopo di superare la scissione tra le scienze naturali e dello spirito e tra le singole scienze e la filosofia. La nuova serie, pur riallacciandosi al progetto fondativo, non ha inteso proporre tesi ormai sottoposte a revisione critica all’interno dello stesso campo filosofico-analitico e si è aperta alle scienze sociali e storiografiche, oltre che a nuovi campi quali la filosofia della mente. «Erkenntnis» esce dal 1986 con due volumi all’anno, ciascuno di tre fascicoli, spesso a carattere monografico. Tra le collaborazioni più rilevanti nella vecchia e nuova serie: R. Carnap, D. Davidson, N. Goodman, J. Hintikka, B. Juhos, F. von Kutschera, Ch.W. Morris, O. Neurath, H. Putnam, W.v.O. Quine, H. Reichenbach, M. Schlick, L.S. Stebbing. W. Henckmann BIBL.: C.G. HEMPEL, The Old and the New «Erkenntnis», in «Erkenntnis», 9 (1975), pp. 1-4; R. HEGSELMANN - G. SIEGWART, Zur Geschichte der «Erkenntnis», in «Erkenntnis», 35 (1991), pp. 461-471.

ERKLÄREN (spiegare; to explain; expliquer; Erklären explicar). – Erklären, secondo l'utilizzo che ne fa Dilthey, è l'operazione propria delle Naturwissenschaften contrapposta al Verstehen, l’operazione propria delle Geisteswissenschaften. L'Erklären è il termine adatto per designare quel modo di conoscere che avviene «quando coscientemente e metodicamente vengono applicati i punti di vista generali per giungere ad una completa conoscenza del singolare» (W. Dilthey, Ermeneutica e religione, Bologna, 1970, p. 89) . Il procedimento dell'Erklären presuppone che la conoscenza si ottenga e si esprima attraverso 1) concetti chiari e distinti derivati dalla scomposizione e dall'analisi di situazioni empiriche complesse in elementi semplici e 2) rapporti di causalità tra oggetti o eventi esprimibili sotto forma di legge. Spiegare in questo senso significa mostrare i nessi causali mediante leggi immutabili e uniformi 3542

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che possano descrivere le relazioni misurabili e numerabili tra gli oggetti del mondo. M. Sgarbi BIBL.: W. DILTHEY, Die Enststehung der Hermeneutik, 1900, tr. it. di G. Morra, in Ermeneutica e religione, Bologna, 1970; G.H. VON WRIGHT, Explanation and Understanding, New York 1971, tr.it. di G. Di Bernardo, Spiegazione e comprensione, Bologna 1977; M. RIEDEL, Verstehen oder Erklären?, Stuttgart 1978, tr. it. di G. Di Costanzo, Comprendere o spiegare?, Napoli 1989; K-O. APEL, Die Erklaren-Verstehen Kontroverse in transzendentalpragmatischer Sicht, Frankfurt am Main 1979. ➨ GEISTESWISSENSCHAFTEN; TEN; VERSTEHEN.

NATURWISSENSCHAF-

ERLEBNIS (esperienza vissuta). – Il termine, le Erlebnis cui prime occorrenze risalgono al linguaggio letterario tedesco dei primi decenni del XIX secolo, svolge un ruolo importante nella filosofia e nella psicologia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, diventando nei primi decenni del Novecento addirittura una parola alla moda, grazie all’influenza della «filosofia della vita» dapprima di Dilthey e poi di Nietzsche e Bergson, ma anche Simmel. Trovata ampia applicazione in vari ambiti del pensiero – specialmente nelle riflessioni sull’esperienza estetica, religiosa e sulla guerra –, già col finire della prima guerra mondiale fu progressivamente accantonato dal linguaggio filosofico in seguito all’imporsi della «filosofia dell’esistenza». Nel linguaggio filosofico italiano si preferisce per lo più lasciare il termine non tradotto o ricorrere all’espressione «esperienza vissuta». Erlebnis deriva da Erleben, forma sostantivata ovvero nominale del verbo erleben (da Leben: la «vita», il «vivere») che significa «vivere» qualcosa che accade realmente, averne un’«esperienza» diretta, conoscere per esperienza propria, immediata, e non per mezzo di altri o per vie indirette. Ma in Erlebnis risuona anche il participio passato del verbo, vale a dire erlebte: «vissuto», e quindi allude a un’esperienza che nella sua puntualità e singolarità, acquista una certa «durata» (la durée di Bergson) e un significato all’interno del fluire continuo della vita stessa, costituita per lo più dal susseguirsi di anonimi vissuti. Un Erlebnis si distingue dagli altri vissuti perché: 1) presuppone la scissione tra mondo esterno e mondo interno; 2) è determinato da un evento che non ha lasciato

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indifferenti, bensì che ha fortemente impressionato, diventando indelebile; 3) forma un’unità a sé, isolata, giacché rispetto agli altri vissuti è significativo per l’intera esistenza; 4) in questa sua puntualità, richiede una certa consapevolezza, necessaria per distinguerlo da ciò che è semplicemente vissuto in maniera immediata e inconsapevole (non è un semplice sentimento o una passione), ma non è nemmeno intaccato da alcuna mediazione concettuale o razionale. Nella riflessione sull’Erlebnis non si trattava semplicemente di un vivere la propria vita, che facilmente scade in un irrazionale essere vissuti da essa, ma di assicurarsi questa vita. Quest’ultimo aspetto costituì il principale nodo aporetico individuato dalle diverse posizioni filosofiche che impiegarono il concetto, in quanto risultava problematica la modalità in cui il soggetto potesse conoscere ciò che è da lui stesso vissuto, e in tal senso Erlebnis compare anche nelle più recenti trattazioni del problema dell’autocoscienza. In ogni singolo Erlebnis si mostra pertanto un aspetto «oggettivo», un contenuto che è l’evento da me esperito, ma propriamente il suo contenuto è il «processo» stesso dell’interiorizzazione dell’evento, giacché è in tale processo che un evento è appunto «vissuto» – e quindi l’Erlebnis non è semplicemente qualcosa di «soggettivo», di interno al soggetto, non è cioè una mera esperienza di stati psicologici soggettivi. Col concetto di Erlebnis si cercava un accesso alla peculiarità della vita umana, all’individualità di chi vive, e l’ampia applicazione che questo concetto trovò tradizionalmente si spiega con le diverse interpretazioni date al suo «contenuto», e quindi all’accento posto ora sul suo aspetto «oggettivo» (l’evento reale che lo ha provocato) ovvero «soggettivo» (il contenuto dell’esperienza interna), ora su quello più originario che lo mostra caratterizzato da una sorta di «intenzionalità». La fortuna del termine in ambito filosofico a partire dalla seconda metà dell’Ottocento va senz’altro ricondotta ai tentativi di cogliere la vita del singolo uomo nella sua ricchezza e immediatezza, di contro alle tendenze materialistiche (positivismo, ateismo, naturalismo) da un lato, e razionalistiche (illuminismo, kantismo, idealismo) dall’altro. A tale fortuna contribuì inoltre l’uso fatto, specialmente negli ultimi decenni dell’Ottocento, nei tentativi di rivendicare la psi-

Erlebnis cologia come «scienza fondamentale» (in quanto disciplina che si occupa dell’«essenza» dell’uomo). Quest’ultima, in quanto scienza, doveva avere un proprio «oggetto», e così l’Erlebnis fu inteso come il processo «psichico» mediante il quale l’io diventa consapevole di qualcosa. Ma determinare il carattere di questo processo dipendeva dall’impostazione data alla psicologia, che non necessariamente doveva essere analoga alle scienze della natura (psicologia sperimentale o esplicativa). Importanti furono le caratterizzazioni del «contenuto» dell’Erlebnis offerte da H. Lotze in più luoghi del suo Mikrokosmos (Leipzig 185664, 3 voll.), sulle quali gravava però il paradigma dell’immediatezza di ciò che è dato nella percezione sensibile. Pertanto non veniva ancora approfondito in maniera sufficiente il peculiare «essere vissuto» dell’Erlebnis, ossia il suo legame esistenziale con chi lo vive – il quale era proprio il senso rivendicato dai tentativi filosofici nati come critica al sistema hegeliano. Il concetto di Erlebnis diventa decisivo per la distinzione delle scienze della natura dalle scienze dello spirito in generale teorizzata già in seno al neokantismo, dove fu in particolare P. Natorp a richiamarsi all’Erleben per sviluppare dapprima una psicologia trascendentale, che superando l’opposizione soggetto-oggetto, si rivolse alla loro «relazione», facendola coincidere con la coscienza, e definendo così l’Erleben come «il più originario di tutti i concetti» o «l’elemento più concreto di tutti, l’originariamente concreto» (cfr. Allgemeine Psychologie nach kritischer Methode, Tübingen 1912, pp. 32 e 38). Questa prospettiva sarà ripresa anche dal tardo Natorp, che cercherà di risalire all’«origine» di tale relazione individuando nel «processo» (Prozeß, fieri) del pensiero la datità ultima a cui si può pervenire. Fu tuttavia W. Dilthey il primo a impiegare in maniera sistematica il concetto, facendolo diventare l’organon per dare una fondazione rigorosa alle «scienze dello spirito». Prendendo posizione nella disputa circa la determinazione della psicologia come scienza fondamentale e rifacendosi a Lotze, egli ritiene che la «connessione» (Zusammenhang) della vita psichica sia a fondamento della conoscenza, e così – sulla base della distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, fondata sul diverso modo di datità dell’oggetto, ossia sul diverso rapporto che l’uomo ha con l’oggetto in3543

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Erlebnis dagato – nello scritto Ideen über eine beschreibende und zergliedernde Psychologie (1894) – oppose alla psicologia «esplicativa», che intendeva «spiegare» i fenomeni psichici formulando ipotesi sul loro nesso causale in maniera analoga a quanto avviene coi processi di natura dati nell’esperienza esterna, una psicologia «descrittiva e analitica» con l’intento di «interpretare» tali fenomeni in quanto si mostrano all’esperienza interna come «realtà e connessione vivente». L’Erlebnis è quell’esperienza in cui la realtà oggettiva si presenta in un determinato stato d’animo soggettivo, e quindi soggetto conoscente e oggetto conosciuto si coappartengono: ogni Erlebnis esprime una peculiare «immediatezza consapevole» in quanto è costituito dall’unità di rappresentazione, volontà e sentimento. Fondando le scienze dello spirito sull’Erlebnis, esse risultano legate a un’individualità e comunque a una determinata epoca storica: considerata a partire dall’uomo nella sua interezza, non v’è mai una conoscenza disinteressata, bensì ogni conoscenza nasce da un determinato stato d’animo, e quindi dalla sua struttura teleologica dell’uomo che pone fini e significati. Se alle scienze dello spirito spetta di trattare, sulla base dell’Erlebnis, l’individualità (il «tipo») nella sua interezza (Ganze) in riferimento alla totalità della vita spirituale, allora un contributo potrà arrivare anche dalle oggettivazioni di quest’ultima nel mondo storico-sociale. In tal senso, negli scritti del suo periodo più tardo, approfondendo la «storicità» dell’Erlebnis, Dilthey sembrerà preferire a quest’ultimo l’Erleben: l’immediato fluire della vita, che è alla base del singolo Erlebnis. L’Erleben non è qualcosa di semplicemente immanente al soggetto, giacché presenta sempre un contenuto che può avere diversi gradi di oggettivazione: costitutivo dell’Erleben è l’oggettivarsi nell’«espressione» (Ausdruck), e solo mediante quest’ultima (in quanto dotata di «significato») è possibile «comprenderlo». Tanto nella conoscenza di se stessi quanto nella conoscenza degli altri – quest’ultima resa possibile da un processo «simpatetico» mediante un Nacherleben («rivivere») e un Nachbilden («riprodurre») l’Erleben degli altri –, il «comprendere» (Verstehen) si rivolge all’espressione per risalire da essa (in quanto «segno esteriore») all’interiorità, all’Erleben proprio e altrui, ossia a ciò da cui trae origine la comprensione stessa. Questa 3544

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circolarità data dall’intrecciarsi di Erleben, Ausdruck e Verstehen è proprio ciò che dà fondamento al comprendere stesso e quindi validità alle scienze dello spirito: esse non si fondano direttamente sull’Erleben, bensì sul processo di comprensione dell’espressione, mostrandosi pertanto come il tentativo da parte dell’uomo di comprendere il mondo umano elevandosi al di sopra dell’immediatezza dell’Erleben e rimanendo tuttavia radicato in esso. L’impostazione che Dilthey diede inizialmente alla problematica dell’Erlebnis fu influenzata senz’altro dalla lettura delle Logische Untersuchungen (Halle an der Saale 1900-01) di E. Husserl, in particolare della Quinta ricerca, dove la coscienza è spiegata in termini di «intenzionalità» della coscienza: essa è sempre coscienza di qualcosa, è per essenza diretta a un oggetto materiale o ideale che le rimane però trascendente. La coscienza è costituita da un succedersi di Erlebnisse, ma non ogni Erlebnis è intenzionale: nella percezione di un libro, ad esempio, l’oggetto percepito (il libro) mi si mostra sempre in maniera parziale a seconda della prospettiva da cui lo guardo. E però, malgrado il contenuto della percezione sia cambiato, ciò che intendo di volta in volta è sempre il medesimo oggetto. L’Erlebnis intenzionale, che Husserl chiama anche «atto», si distingue da ogni concreto Erlebnis in quanto prescinde dall’effettivo contenuto sensibile, ma si rivolge esclusivamente al «senso» dell’atto (p. es. alla percezione in generale). Nel primo volume delle Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie (Halle an der Saale 1913), Husserl farà cadere queste distinzioni concettuali (cfr. in Hua, vol. III, t. 1, Den Haag 1976, pp. 170 ss.), radicalizzando tuttavia la struttura intenzionale della coscienza, distinguendo in ogni Erlebnis un aspetto soggettivo (noesis) e uno oggettivo (noema): l’atto di coscienza (p. es. il percepire) e ciò che da questo atto è intenzionato (il percepito). Il noema non è l’oggetto attualmente presente «in carne e ossa», bensì l’«essenza» (Wesen) di ciò che è di volta in volta intuito, il polo intenzionato dai predicati e dei modi d’essere che si danno di volta in volta nell’esperienza. Ciò significa che il noema può anche non avere un corrispondente oggetto materiale attualmente presente, ovvero ad esso può anche non corrispondere un’intuizione,

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giacché l’intenzionalità si costituisce propriamente come «orizzonte» dei possibili predicati e modi d’essere che possono anche non trovare riempimento. Husserl definirà iletici gli Erlebnisse non intenzionali e tuttavia si chiede se la morfhv intenzionale (il noema) non si radichi in fin dei conti nella u[lh sensoriale. Applicando il metodo fenomenologico della «riduzione», ogni Erlebnis intenzionale è dunque espressione della percezione interna che la coscienza ha di se stessa, dove ciò che percepisce e ciò che è percepito formano un’unità originaria e immediata che è la vita di coscienza. Quest’ultima è intesa come una «corrente di Erlebnisse» (Erlebnisstrom), e ogni Erlebnis costituisce quell’«ora» che, determinato dalla combinazione di protensioni e ritenzioni, si succede a un altro nell’incessante fluire temporale della vita di coscienza. Con la problematica del «mondo-della-vita» (Lebenswelt) introdotta dal tardo Husserl sviluppando una fenomenologia «genetica», l’intenzionalità definita dapprima in termini cartesiani troverà una decisiva radicalizzazione in relazione al problema dell’intersoggettività: la struttura intenzionale della coscienza non sarà più ricondotta esclusivamente all’individuale corrente di Erlebnisse e tuttavia quest’ultimi rimandano ugualmente a un soggetto, all’«io» che nella sua immediatezza si mostrerà comunque come l’unica realtà indubitabile e necessaria su cui fondare la fenomenologia come scienza rigorosa. Con l’imporsi della «filosofia dell’esistenza» a partire dagli anni trenta, il termine Erlebnis fu progressivamente sostituito nel linguaggio filosofico tedesco da espressioni quali «esistenza» (Existenz) e «decisione» (Entscheidung). A questi sviluppi contribuirono senz’altro le critiche mosse da M. Heidegger al concetto: pur impiegandolo durante i primissimi anni venti, per lui il concetto di Erlebnis si mostrerà non solo gravato dal teoreticistico dualismo cartesiano di res cogitas/res extensa, ma anche inadatto a esprimere il peculiare ripercuotersi del contenuto dell’esperienza che si ha della vita effettiva sull’esistenza stessa. La posizione di Heidegger è stata radicalizzata dall’ermeneutica filosofica di H.-G. Gadamer, che per primo offrì una ricostruzione del termine in connessione con la sua critica all’impostazione moderna dell’estetica.

Erma Il concetto ha trovato ampia eco in seguito anche allo scoppio del primo conflitto mondiale, come testimoniano i tre volumi curati da E. Jäckh, Der große Krieg als Erlebnis und Erfahrung (1916) – che raccoglievano le riflessioni di importanti intellettuali tra cui F. Meinecke, M. Scheler e H. Hesse –, ma anche lo scritto giovanile di E. Jünger, Der Kampf als inneres Erlebnis (1922), dove la guerra era spiegata come un’esperienza che plasma interiormente l’uomo disincantato, sviluppando così le sue virtù più elevate, ma facendogli anche prendere coscienza delle sue ignote dimensioni psichiche segnate dall’esperienza della possibilità di morire. Una significativa applicazione ha trovato il concetto di Erlebnis anche negli sviluppi della psicologia di impostazione fenomenologica (E. Minkowski), nella pedagogia di ispirazione diltheyana (M. Frischeiser-Köhler, H. Nohl), nell’arte (O. Kokoschka) e nella teoria estetica (G. Lukács, O. Becker). C. Badocco BIBL.: E. STRAUSS, Geschehnis und Erlebnis, Berlin 1930; M. VON DER GROEBEN, Konstruktive Psychologie und Erlebnis, Stuttgart-Berlin 1934; K. CRAMER, Erlebnis. Das aporetische Resultat der systematischen Diskussion eines nachhegelschen Grundbegriffs und das Problem des Rückgang auf Hegel als Theoretiker der Subjektivität, Stuttgart 1971; K. CRAMER, s. v. Erleben, Erlebnis, in J. Ritter et al. (a cura di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, vol. 2, Basel-Stuttgart 1972; K. SAUERLAND, Diltheys Erlebnisbegriff, Berlin - New York 1972; M. SOMMER, Leben aus Erlebnissen. Dilthey und Mach, in «Phänomenologische Forschungen», 16 (1984), pp. 55-79; H.-G. GADAMER, Gesammelte Werke, vol. 1: Wahrheit und Methode, Tübingen 19906, pp. 66 ss., tr. it. Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Milano 1983, pp. 86 ss.; H. SEGEBERG, Kriegserlebnis und Moderne-Kritik in Ernst Jüngers Frühwerk, in H. SEGEBERG (a cura di), Vom Wert der Arbeit. Zur literarischen Konstitution des Wertkomplexes «Arbeit» in der deutschen Literatur (17701930), Tübingen 1991, pp. 335-378. ➨ COMPRENDERE; COMPRENSIONE; COSCIENZA; EIDOS; ESPERIENZA; NOEMA; NOESI; RIDUZIONE; SPIRITO, SCIENZE DELLO; VITA, FILOSOFIA DELLA.

ERMA. – Considerato generalmente autore Erma del Pastore (Il Pastore d’Erma), non è però certo che Erma sia veramente esistito. È controversa la questione sull’attendibilità dei dati autobiografici riportati nel Pastore, ma almeno alcuni dati non vanno senz’altro assunti come fittizi. 3545

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Ermanno di Carinzia Il Pastore non è opera omogenea; ivi si distinguono tre scritti: Visioni; IX Parabola; Precetti e Parabole I-VIII e X, che differiscono per dottrina, terminologia e contesto storico. Sono tra loro legati da passaggi che tradiscono discontinuità e sovrapposizioni. Le Visioni sono un appello alla penitenza, lanciato a nome della chiesa. Questo è anche il tema centrale del Pastore: la possibilità della penitenza per i peccati compiuti dopo il battesimo, affermata contro i rigoristi e contro la pratica corrente all’epoca per cui la penitenza era valida solo una volta. Nelle Visioni però rimane nell’ombra la figura del figlio di Dio: a ciò provvede la IX Parabola, riprendendo l’allegoria della torre esposta nella III Visione. La dottrina intorno al figlio di Dio, esposta nella IX Parabola, viene però ancora modificata dal terzo gruppo di scritti, il cui autore si dichiara tuttavia discepolo del Pastore. Vi si distinguono qui due figli di Dio, quello preesistente che è lo Spirito, e il figlio adottivo, che ha meritato l’adozione divina. È difficile assegnare una data esatta a ciascuna parte del Pastore. L’indicazione contenuta nel Frammento Muratoriano, linee 73-77, per la quale il Pastore propriamente detto, ossia la IX Parabola, avrebbe avuto come autore il fratello di papa Pio I (ca. 140-155) non è attendibile. In ogni caso, non si sbaglia attribuendo l’insieme dell’opera ai primi due terzi del II secolo d. C. S. Giet - P. Valenza BIBL: R. JOLY (a cura di), Hermas, le Pasteur, Paris 1958 (introduzione, testo critico, traduzione e note); A. VEZZONI (a cura di), Il pastore di Erma. Versione palatina, Firenze 1994. Su Erma: M. DIBELIUS, Der Hirt des Hermas, Tübingen 1923; M. WHITTAKER, Der Hirt des Hermas, Berlin 1956; E. PETERSON, Frühkirche, Judentum und Gnosis, Roma-Freiburg-Wien 1959; S. GIET, Hermas et les Pasteurs, Paris 1963; L. PERNVEDEN, The Concept of the Church in the Sheperd of Hermas, Lund 1966; A. HILHORST, Sémitismes et latinismes dans le Pasteur d’Hermas, Nijmegen 1976; M. LENTZSCH, Die Wahrnehmung sozialer Wirklichkeit im «Hirten des Hermas», Göttingen 1989; N. BROX, Der Hirt des Hermas, Göttingen 1991.

ERMANNO Ermanno di Carinzia DI CARINZIA (detto anche Ermanno Secondo o il Dalmata). – Scolastico della Scuola di Chartres, vissuto verso la metà del XII secolo. Ebbe il merito d’aver fatto conoscere la cultura araba mediante le sue traduzioni in latino; prima del 1138 si trasferì in Spagna e tradusse: 3546

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Zaelis Fatidica (De revolutionibus) dell’ebreo Saul ben Birshr; Alchorismus; Maius introductorium di Albumasar (Abu Ma’shar); due trattati contro i maomettani e, con Roberto di Ketene, il Corano e soprattutto il Planisfero di Tolomeo, compiuto a Tolosa il 1 giugno 1143 e dedicato al suo maestro Teodorico di Chartres. Compose anche un’opera originale, il De essentiis (1143), che, ispirata alla Scuola di Chartres, manifesta conoscenza della filosofia araba ed aristotelica (ed. critica a cura di C. Burnett, Studien und Texte zur Geistesgeschichte des Mittelalters, vol. XV, Leiden-Köln 1982). A. Tognolo BIBL.: J.B. ALLEN, Hermann the German’s Averroistic Aristotle and Medieval Poetic Theory, in «Mosaic», 9 (1976), pp. 67-81; M.L. COLKER, A Newly Discovered Manuscript of Hermann of Carinthia’s «De essentiis», in «Revue d’Histoire des Textes», 16 (1986), pp. 213-218; C. BURNETT, Hermann of Carinthia, in P. DRONKE (a cura di), A History of Twelfth-Century Western Philosophy, Cambridge 1988, pp. 386-404; F. ŠANJEC, Herman le Dalmate et la connaissance de l’islam dans l’occident médiéval, in «Revue d’Histoire Ecclésiastique», 88 (1993), pp. 492-501; Z. DADIC, The Natural Philosophy Views of Hermann the Dalmatian, in «Prilozi za istrazivanje hrvatske filozofske baštine», 39-40 (1994), pp. 23-35; S. PAUSEK BAZDAR, The Natural Philosophy Views of Hermann the Dalmatian on the Harmony of Planets and the Nature of Matter, in «Prilozi za istrazivanje hrvatske filozofske baštine», 39-40 (1994), pp. 47-54; J. SUMRADA, Quelches recherches récentes en Slovénie sur Herman de Carinthia, in AA.VV, Le temps de Fulbert: enseigner le Moyen âge à partir d’un monument, la cathédrale de Chartres, «Actes de l’Université d’été du 8 au 10 juillet 1996», Chartres 1996, pp. 115-119.

ERMANNO IL TEDESCO. – Celebre tradutErmanno il Tedesco tore del XIII secolo, oriundo tedesco, fissatosi nella Spagna, dove fu vescovo di Astorga dal 1266 al 1272, anno in cui morì. Si formò alla famosa scuola dei traduttori di Toledo, che esercitò grande influsso sulla cultura filosofica e scientifica occidentale nel Medioevo. Con la sua opera contribuì all’introduzione nell’occidente latino di Averroè, traducendone dall’arabo il Commentario medio all’Etica a Nicomaco (1241), e quello alla Poetica (1256). Rese accessibile anche la Retorica (1256 ca.), accompagnata da parti del commento di Averroè e da brani tratti da Avicenna e al-Farabi, nonché un compendio arabo dell’Etica a Nicomaco, noto con il nome di Summa Alexandrinorum (1243-44), cui attinsero poi

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Brunetto Latini e Ruggero Bacone. Compose inoltre un originale trattato di retorica. G. Bonafede - G. Feltrin BIBL.: G.H. LUCQUET, Hermann l’Allemand, in «Revue de l’Histoire des religions», 44 (1901), pp. 407-422; W.F. BOGGES, Hermannus Alemannus’ Rethorical Translations, in «Viator», 2 (1971), pp. 227-250; B.G. DOD, Aristoteles latinus, in N. KRETZMANN - A. KENNY J. PINBORG (a cura di), The Cambridge History of Later Medieval Philosophy, Cambridge 1982, pp. 45-79.

ERMARCO Ermarco di Mitilene (”Ermarco") DI MITILENE. – Forma con Epicuro, Metrodoro e Polieno il gruppo detto dei maestri del Giardino. Epicuro gli confidò la direzione del Giardino. Diogene Laerzio (Vite dei Filosofi, X, 25) ricorda di lui vari scritti, tra cui quelli indirizzati contro Empedocle, Platone e Aristotele. Per i frammenti, cfr. F. Longo Auricchio, Ermarco. Frammenti, Napoli 1988. Conosciamo ancora due sentenze (frr. 23-24), qualche lettera (frr. 40-42) e alcune testimonianze su soggetti etici (frr. 43-48). Poco si sa della sua speculazione filosofica. In un frammento del Contro Empedocle (fr. 34), Ermarco discute dell’origine del diritto nella società primitiva. In altri, affronta questioni teologiche (frr. 27, 29-32), tratta dei daivmone" (fr. 50) e dei teravmata (fr. 51) di Empedocle e della trasmigrazione delle anime (fr. 52). Filodemo conserva una lettera di Ermarco contro il megarico Alessino (frr. 35-36, cfr. 37-39). Si tramandano testimonianze sul pensiero di Ermarco relativo all’ira (fr. 43), l’adulazione (fr. 44), l’amicizia (fr. 45) e la necessità di una vita frugale (fr. 47). L’attribuzione a Ermarco delle Massime Capitali 31-40 è priva di fondamento. T. Dorandi BIBL.: T. DORANDI, s. v., in H. CANCIK - H. SCHNEIDER (a cura di), Der Neue Pauly: Enzyklopädie der Antike, vol. V, Stuttgart 1998, coll. 419-420.

ERMATINGER, EMIL. – Storico svizzero delErmatinger la letteratura, n. a Sciaffusa il 21 magg. 1873, m. a Zurigo il 17 sett. 1953. Dottore in filosofia, professore di storia della letteratura a Zurigo. Con la pubblicazione di una Philosophie der Literaturwissenschaft (Berlin 1930) Ermatinger si inserisce nella discussione sui rapporti fra scienza della cultura e scienza della natura. Anche le individualità letterarie, opera, personalità, ambiente sono, secondo Ermatinger, determinate da leggi. La determinazione dei rapporti fra individuo e ti-

Ermeneutica po, la loro reciprocità e polarità, la dimostrazione della continuità nel passaggio di un’unità artistica viva da forma a forma sono il campo in cui può essere ricercata l’originalità letteraria (Das Gesetz in der Literaturwissenschaft, in «Philosophie der Literaturwissenschaften», Berlin 1930). W. Schleicher BIBL.: Das dichterische Kunstwerk, Leipzig 19393; Richte des Lebens; Jahre des Wirkens, Frauenfeld-Leipzig 1943-45; Gottfried Keller. Eine Biographie, Zürich 1990. Su Ermatinger: W. MUSCHG - R. HUNZIKER (a cura di), Dichtung und Forschung, Festschrift für E. Ermatinger, Frauenfeld-Leipzig 1933, pp. 201-297; W. PAULSEN, recensione a Richte des Lebens, in «Monatshefte», (1947), pp. 413-415; J.H. SCHOLTE, in «Erasmus», (1947), pp. 87-90; T.C. VAN STOCKOM, in «Neophilologus», (1948), pp. 91-92; M. ENZYKLO, in Padisches Lexikon, Germany 1980.

ERMENEUTICA (dal gr. eJrmeneuvw, «interErmeneutica preto, spiego» - hermeneutics; Hermeneutik; herméneutique; herméneutica). – L’ermeneutica è la disciplina che si occupa dell’interpretazione dei testi e in generale del problema della comprensione. L’evoluzione storica del suo campo problematico ne ha segnato il passaggio da disciplina metodica, strettamente imparentata con la filologia, a disciplina filosofica, la quale nasce sostanzialmente in epoca post-kantiana, a partire da F.D.E. Schleiermacher e poi con W. Dilthey, come riflessione sulle condizioni di possibilità della comprensione, e acquisisce una inflessione ontologica con la filosofia di M. Heidegger. Questa evoluzione storica è parallela al processo di progressiva universalizzazione del compito dell’ermeneutica, il cui ambito è inizialmente limitato all’esegesi dei testi scritti, e in particolare del testo sacro, la Bibbia, ma che poi si estende fino a riguardare ogni fenomeno di comprensione (dal dialogo interpersonale alla comprensione dei fatti sociali e delle produzioni storiche). SOMMARIO: I. Dall’antichità greca al Medioevo. II. La Riforma e la scoperta dell’individuo. - III. Il soggetto dell’interpretazione. - IV. L’ermeneutica nelle scienze umane. - V. L’ermeneutica post-heideggeriana. I. DALL’ANTICHITÀ GRECA AL MEDIOEVO. – Il termine «ermeneutica» deriva – come s’è detto – dal greco eJrmeneuvw, eJrmeneiva ovvero «espressione, traduzione, interpretazione, spiegazione, dichiarazione». La sua occorrenza nel titolo di 3547

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Ermeneutica una delle più importanti opere aristoteliche, il Peri; eJrmeneiva" (sebbene poi nel corso del testo stesso non compaia praticamente più) ne delimita in qualche modo l’ambito di applicazione: il Peri; eJrmeneiva" è un trattato che riguarda il discorso apofantico, ovvero l’unità linguistica minima suscettibile di essere vera o falsa. Più sfumato e meno tecnico appare invece l’uso di questo termine in Platone. Nel Cratilo viene istituita una parentela, da alcuni ritenuta plausibile per quanto non del tutto confermata, e comunque utile per comprendere la posizione platonica nei confronti dell’eJrmeneiva, tra l’ejrmeneuvein e il nome del dio JErmh''" : Hermes sarebbe infatti chiamato così perché è eJrmeneuv", «interprete e messaggero e ladro e ingannatore nei discorsi e commerciante; tutta questa attività riguarda il potere del discorso» (Crat., 408 a). L’ejrmeneuv" è colui che esplicita dei messaggi reconditi, che rende intelligibile ciò che è oscuro, che mette in comunicazione sensibile e sovrasensibile, ma che nel far questo si serve anche in maniera impropria del potere delle parole e quindi inganna. Si spiega così l’aspetto svalutativo che Platone annette all’eJrmeneiva, vicina alla poesia, alla mantica, alla divinazione, se non alla mistificazione (Io., 535 a; Pol., 260 d). Se dunque appare chiaro che l’eJrmeneiva riguarda i discorsi, e quindi il linguaggio, meno univoca è la caratterizzazione del suo compito che, nel caso di Aristotele, è più simile a quello di una «grammatica logica» (come ha osservato H.-G. Gadamer), mentre nel caso di Platone risente della sua generale diffidenza nei confronti del linguaggio. Nel concetto greco di eJ r meneiv a possiamo comunque rintracciare due momenti che si ritrovano, con maggiore o minore prevalenza, nella storia successiva, e nei quali è possibile intravedere il senso della differenza che separa l’ermeneutica pre-heideggeriana da quella heideggeriana: da una parte il momento «metodico-riproduttivo», per cui interpretare è il tentativo di rendere comprensibile qualcosa di già dato che è a prima vista oscuro, e dall’altro quello «espressivo-produttivo», per cui l’interpretazione è la formazione stessa di significati, la loro esplicitazione e comunicazione. Una riflessione più sistematica sull’interpretazione si ha a partire dall’età ellenistica, cioè nell’epoca che va dalla morte di Alessandro Magno alla battaglia di Azio (323 - 31 a. C.). Tale riflessione si fa strada in seguito all’esigenza 3548

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di rendere nuovamente attuali i testi dell’epoca classica di cui ormai si sentiva in qualche modo la distanza o l’estraneità, sia da un punto di vista linguistico sia da un punto di vista culturale. Questo compito di attualizzazione è sorretto da una vasta fioritura di studi filologici e letterari, che vedono coinvolte soprattutto le scuole di Alessandria e di Pergamo. La scuola di Alessandria, nota per due grandi istituzioni come il Museo e la Biblioteca, in cui venne raccolto il patrimonio letterario greco, si distingue per la sua attenzione agli aspetti linguistici e filologici, che indirizzano il lavoro interpretativo verso l’analisi dei testi allo scopo di delucidarne il senso letterale: le difficoltà di comprensione di un testo dipendono dal confrontarsi con una lingua arcaica che si tratta di rendere nuovamente intelligibile, attraverso un lavoro di interpretazione che è per lo più vicino alla traduzione. Al contrario, la scuola di Pergamo inaugura quello che sarà uno dei metodi destinati ad avere maggiore fortuna nella successiva storia dell’ermeneutica, ovvero il metodo dell’interpretazione allegorica: le difficoltà nella comprensione dei testi dell’antichità (in primo luogo i poemi omerici) non sono solo di ordine linguistico ma anche semantico, concernono cioè il loro significato, che non risulta più immediatamente trasparente a un mondo ormai profondamente mutato per sensibilità e cultura. Il metodo allegorico consiste nel cercare significati nascosti sotto il significato letterale, allo scopo di rendere compatibili i racconti mitici con la nuova sensibilità etica, fortemente influenzata dallo stoicismo. Se quindi il metodo filologico della scuola di Alessandria tendeva a risolvere i problemi di opacità interpretativa sul piano esclusivamente linguistico, quello analogico della scuola di Pergamo adotta una strategia semantica, volta a esplicitare un secondo significato, non evidente ma più vero di quello letterale. La distinzione significato letterale/significato allegorico è centrale nelle prime esegesi del testo biblico: ma se inizialmente l’interpretazione allegorica si limita a quei luoghi, come il Cantico dei Cantici, il cui senso letterale sembrava confliggere con i contenuti morali della nuova fede, Filone di Alessandria (30 a. C. - 40 d. C.) ne fa un uso praticamente generale, affermando che ogni passo delle Scritture è suscettibile di una doppia interpretazione, una più immediata e letterale, l’altra più nascosta e allegorica. Mentre la prima è accessibile a

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tutti, la seconda, più importante, è accessibile solo a coloro che sono davvero interessati alle realtà dello spirito. Lo schema interpretativo bipartito di Filone si complica con Origene (IV secolo a. C.), che distingue un senso materiale (letterale), un senso psichico (morale) e un senso pneumatico (spirituale), secondo lo schema tradizionale della tripartizione dell’uomo in corpo, anima e spirito. Questi tre gradi di comprensione del testo sacro sono anche gradi dell’evoluzione spirituale del fedele: il senso letterale è accessibile a tutti, quello psichico a chi è già sulla via della fede, quello spirituale si manifesta solo ai perfetti. La distinzione tra senso letterale e senso allegorico si applica anche al rapporto tra Vecchio e Nuovo Testamento: gli eventi raccontati nel Vecchio Testamento trovano corrispondenza in quelli del Nuovo Testamento, di cui sono un’anticipazione secondo il modello promessa/adempimento, segno/significato, provvisorio/definitivo (schema tipologico). Intorno al XIII secolo questa schematizzazione dei significati della Scrittura trova un’efficace sintesi nel distico littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quo tendas anagogia, attribuito a Nicola di Lira, in cui vengono ormai distinti un senso letterale (riferito alla narrazione storica), allegorico (riferito ai contenuti di fede), morale (riguardante l’insegnamento etico) e anagogico (riferito al fine ultimo cui tendere). In ambito cristiano la «prima ermeneutica in grande stile», secondo le parole di Heidegger, che da essa ha tratto ispirazione, è però quella di Agostino (354-430). Le riflessioni di Agostino sul rapporto tra lettera e significato inaugurano un modello che infrange gli schemi precedenti di tipo convenzionalistico o naturalistico e si configura invece come la trasposizione a questo problema linguistico dello schema teologico dell’incarnazione e più in generale trinitario: la produzione della parola concreta o «verbo esteriore» è paragonabile all’incarnazione del Figlio di Dio, è il «farsi carne» della Parola. Comprendere è comprendere il «verbo interiore» che è manifestato ma pur sempre distinto dal verbo esteriore. La corretta comprensione del testo sacro deve essere perciò guidata dallo stesso atteggiamento che si ha nei confronti del Cristo, che per fede è riconosciuto Figlio di Dio: essa cioè non può prescindere dalla corretta disposizione dell’esegeta, ispirata alle virtù della fede, della

Ermeneutica speranza e della carità. Di particolare importanza è però la carità: il testo è compreso correttamente a condizione che l’esegeta sia caritativamente disposto nei suoi confronti e se il suo effetto è quello di confermare e incrementare l’amore per Dio (De doctrina Christiana). Si tratta qui chiaramente di un principio non metodico ma esistenziale (il che spiega la valutazione di Heidegger prima citata), tramite il quale Agostino cerca di limitare il proliferare delle interpretazioni figurali (necessarie solo laddove il senso letterale sia palesemente oscuro), e che si presenta come una prima formulazione di quel principio di benevolenza interpretativa che nella moderna filosofia del linguaggio va appunto sotto il nome di «principio di carità». II. LA RIFORMA E LA SCOPERTA DELL’INDIVIDUO. – L’età moderna è caratterizzata da un generale ridimensionamento dell’interpretazione figurale, favorito dalla ripresa degli studi filologici nell’umanesimo. Ma è con la Riforma protestante – che non a caso presenta vari elementi di continuità con la tradizione agostiniana – che si registra una nuova consapevolezza teorica nel campo dell’esegesi biblica, al punto che W. Dilthey vi ha individuato la nascita dell’ermeneutica come scienza. Il principio luterano sola scriptura afferma l’immediata intelligibilità delle Scritture senza bisogno di alcuna mediazione esterna. La Scrittura è sufficiente a se stessa: ciò rende superflua ogni interpretazione che per la sua validità si appelli a un magistero esterno o alla tradizione. In tal modo M. Lutero (1483-1546) tende a sottrarre alla chiesa il monopolio esegetico e a porre al centro dell’atto interpretativo il singolo individuo. La dottrina ermeneutica luterana si fonda quindi su questi due presupposti correlativi: la perfezione e immanenza a sé del testo sacro e la sufficienza dell’interprete per la sua comprensione. In forza di questa concezione profondamente democratica del rapporto con il testo sacro, come è stato notato (K.O. Apel), la Riforma protestante ne ha favorito la traduzione nelle nuove lingue volgari e ha incentivato l’alfabetizzazione, allo scopo di garantirne la maggiore accessibilità possibile. Quelli che in Lutero si presentano per lo più come principi impliciti della sua prassi esegetica trovano una sistematizzazione esplicita in Flacio Illirico (1520-75): nel suo Clavis Scripturae Sacrae, o Clavis aurea del 1567, è possibile ritrovare la formulazione di un principio che, benché già 3549

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Ermeneutica noto alla retorica classica, è destinato a grande fortuna, quello del «circolo ermeneutico». Esso discende direttamente dall’idea dell’immanenza della Scrittura, della sua intelligibilità autosufficiente, la quale implica che la Scrittura sia dotata di una rete di relazioni di interdipendenza tra le sue varie parti, che perciò si illuminano a vicenda, che la rende simile a un organismo, ovvero a un sistema nel quale la parte è in funzione del tutto e il tutto è in funzione della parte. Il circolo ermeneutico consiste perciò nel concepire la comprensione come un atto circolare, in cui il tutto è comprensibile a partire dalle parti e le parti a partire dal tutto: ogni comprensione muove da un’anticipazione del senso totale che illumina le comprensioni parziali, le quali a loro volta correggono e integrano la comprensione totale. Contro il principio luterano dell’autosufficienza della Scrittura, che ritengono scientificamente insostenibile, gli autori della Controriforma (Bellarmino, Simon) ribadiscono la necessità di un richiamo alla tradizione per la sua intelligibilità, richiamo che non può essere evitato, nella prassi concreta, neanche dai suoi più strenui sostenitori come Lutero e Flacio Illirico. Un tentativo di razionalizzazione dell’ermeneutica teologica, corrispondente al generale clima razionalistico della modernità, è quello di B. Spinoza (1632-77), secondo il quale nei confronti del testo sacro bisogna usare gli stessi procedimenti che si usano nei confronti della comprensione della natura. Nel VII libro del Tractatus theologico-politicus (Amsterdam 1670) Spinoza afferma che unica guida in tale comprensione è il lume naturale: la ragione non è certo sufficiente a far comprendere tutti i luoghi della Bibbia, la cui oscurità però non dipende da un contenuto dottrinario ad essa inaccessibile, quanto piuttosto dalla scarsità di conoscenze che abbiamo riguardo al contesto, alla lingua, alla recezione del testo, in generale alla sua storia. Nella maggior parte dei casi queste oscurità possono essere superate per mezzo di una sistematica indagine storica o con il ricorso al metodo dei «luoghi paralleli», cioè con il confronto di passi simili al fine di trarne un reciproco chiarimento, e in ogni caso nel suo contenuto fondamentale, che è di carattere etico, il testo sacro è pienamente intelligibile da chiunque. Accanto all’hermeneutica sacra, confinata all’ambito teologico, il XVII e il XVIII secolo vedono comunque affermarsi una linea di rifles3550

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sione alternativa, che si presenta come un primo tentativo di «ermeneutica generale», cui ha dato impulso l’interesse sempre più diffuso per i problemi linguistici, dovuto da una parte al frantumarsi dell’unità linguistica in Europa e dall’altra all’incontro con altre civiltà. Segno di questo ampliamento della problematica ermeneutica è il farsi strada della metafora del mondo come testo da leggere, da cui non è esente neanche la nascente scienza sperimentale: in tal senso F. Bacone parla di interpretatio naturae e Galileo, distinguendo il «Libro della Natura» dal «Libro Sacro» in cui sono contenute le verità rivelate, parla nel secondo caso dell’esigenza di conoscere la lingua in cui è scritto al fine di comprenderlo correttamente. In questo movimento si collocano personaggi come J.K. Dannhauer (1603-66), cui si deve l’introduzione del termine hermeneutica, J.M. Chladenius (1710-59) e G.F. Meier (1718-77). Chladenius, nella sua Introduzione all’interpretazione corretta di discorsi e scritti razionali (Einleitung zur richtigen Auslegung vernünftiger Reden und Schriften, Leipzig 1742), afferma il carattere prospettico del comprendere: ogni descrizione di un evento storico avviene da un particolare «punto di vista», è cioè condizionata dalla situazione emotiva, spaziale e temporale del nostro corpo e della nostra persona, in base alla quale un oggetto ci si dà in un certo modo e non altrimenti. L’«oggettività» dell’interpretazione si misura dalla sua capacità di tener conto di questa modalità prospettica (si può notare la derivazione di questa concezione dalla dottrina leibniziana delle monadi). Molto vicina a una «semiotica generale» è invece la teoria di Meier, esposta nel Saggio di un’arte universale dell’interpretazione (Versuch einer allgemeinen Auslegungskunst, Halle im Magdeburgischen 1757). Per Meier l’arte interpretativa è la scienza che ci consente di riconoscere un significato a partire da un segno: essa non si limita ai segni linguistici ma si estende anche ai segni naturali, poiché ogni cosa può essere intesa come segno di qualcos’altro. Dio è l’autore dei segni naturali, l’uomo dei segni culturali o arbitrari. A far da argine a questo pansemiotismo è il principio dell’«equità ermeneutica», il quale impone di considerare veri quei significati che massimizzano il contenuto di bontà, fecondità, chiarezza, certezza di un dato testo, almeno fino a prova contraria. Con la sua ermeneutica universale Meier ha anticipato contenuti e temi dell’ermeneutica

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contemporanea: l’idea che ogni relazione al mondo ha per l’uomo una dimensione originariamente semiotica è ad esempio rinvenibile in Heidegger, mentre il principio di equità ermeneutica può essere considerato un antesignano del principio gadameriano di perfezione. In epoca romantica, la novità più importante nell’ambito delle teorie ermeneutiche (che del resto è riflesso di un clima culturale più generale) è la centralità dell’individuo nel processo interpretativo. Questa novità è preparata dall’accento posto in ambito protestante sul coinvolgimento personale nel rapporto con il testo sacro (di cui l’ermeneutica degli affetti di J.J. Rambach, volta a sottolineare l’importanza delle emozioni da cui l’autore è animato per la comprensione di un testo, è un tipico esempio), nonché dall’importanza conferita al soggetto individuale nella creazione artistica che caratterizza l’estetica del genio. Poiché ogni opera d’arte si configura come una mediazione di finito e infinito (Schelling), anche il testo da interpretare costituisce l’attualizzazione di un elemento potenzialmente infinito (la lingua) in un particolare individuo e in una particolare opera: il lavoro interpretativo deve quindi tener conto di questo doppio movimento dal finito all’infinito e viceversa. Questo tema è particolarmente evidente in quello che è considerato il padre dell’ermeneutica moderna, F.D.E. Schleiermacher (1768-1834). Per Schleiermacher il compito dell’interprete è quello di comprendere il discorso allo stesso tempo come un elemento emergente dalla lingua e come un fatto in chi pensa: interpretazione grammaticale e interpretazione psicologica (o tecnica) si integrano e si richiamano vicendevolmente, proprio perché l’unico presupposto dell’interpretazione è il linguaggio, il quale, secondo la fortunata definizione di W. v. Humboldt, è energia dotata di potere formativo che si attualizza in formazioni concrete e particolari. Ogni testo e ogni discorso devono perciò essere collocati sullo sfondo della lingua dello scrittore o del parlante e del suo vissuto individuale. La circolarità dell’interpretazione è per Schleiermacher un movimento a spirale, mai definitivamente chiuso ma sempre provvisorio, di progressivo ampliamento, che colloca il dato individuale rispetto al tutto della lingua e della vita dell’autore e da questo tutto riceve lume per la sua comprensione. Esso si configura altresì come un processo «ricostruttivo», che ripercorre il movimento genetico

Ermeneutica dell’opera, il quale ha per l’autore sempre anche un momento di inconsapevolezza, che invece è accessibile all’interprete: si spiega così la massima schleiermacheriana secondo cui interpretare significa comprendere un autore meglio di quanto lui stesso si sia compreso. Poiché però l’individuo è in sé ineffabile, la sua comprensione non può che avvenire attraverso un atto intuitivo, una sorta di trasposizione empatica che è possibile solo grazie a una congenialità tra l’autore e l’interprete: è questo l’aspetto più psicologistico e romantico dell’ermeneutica schleiermacheriana, su cui si è spesso, in maniera troppo unilaterale, posto l’accento, soprattutto da parte di W. Dilthey, che però, all’epoca in cui scrisse la sua Vita di Schleiermacher, non aveva avuto modo di consultare compiutamente i testi schleiermacheriani. Ma l’aspetto più significativo dell’ermeneutica di Schleiermacher è l’estensione che egli opera del campo d’indagine dell’ermeneutica dal testo scritto al rapporto interpersonale: anzi, il rapporto dialogico finisce con il costituire il modello in base al quale si costituisce ogni rapporto ermeneutico. In quanto «arte di evitare il fraintendimento», l’ermeneutica riguarda tutti i fenomeni di comprensione, siano essi scritti od orali. L’estraneità del testo è così paragonabile all’estraneità del «tu», proprio perché il testo rimanda costitutivamente a un «tu» di cui è espressione. Il problema della comprensione incontra qui per la prima volta, in linea con la svolta soggettivistica della filosofia cartesiana e kantiana, un soggetto al quale si annoda la possibilità stessa della comprensione. III. IL SOGGETTO DELL’INTERPRETAZIONE. – Sulla natura di questa soggettività si interroga la successiva storia dell’ermeneutica, seguendo un percorso che, da Dilthey a Gadamer, attraverso Heidegger, tende sempre più verso un superamento del «soggettivismo» che ha improntato gran parte della filosofia moderna. Dilthey (1833-1911), che si muove esplicitamente entro un orizzonte kantiano, nella sua Introduzione alle scienze dello spirito (Einleitung in die Geisteswissenschaften, Leipzig 1883) conduce una critica serrata proprio al modo in cui Kant (e insieme a lui Locke e Hume) aveva concepito il soggetto, nelle cui vene «non scorre sangue». Lo sfondo culturale entro cui si colloca la riflessione diltheyana è quello del positivismo e della crescente contrapposizione tra scienze della natura (che hanno come metodo 3551

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Ermeneutica esplicativo la spiegazione causale) e scienze dello spirito (che invece tendono alla comprensione del caso singolo nella sua storicità), che animò il dibattito di fine Ottocento, e a cui parteciparono autori come W. Windelband e H. Rickert. Se da una parte Dilthey cerca positivamente di fondare, sul piano epistemologico, le scienze dello spirito, individuando per esse un oggetto (la realtà storica) e un metodo (la comprensione) appropriati, dall’altra il ricorso che egli fa al concetto di vita in questa fondazione si presenta implicitamente come un tentativo di superamento della loro contrapposizione alle scienze della natura (su questa linea si muoverà l’ermeneutica successiva a partire da Heidegger, come risposta al duplice compito di fondare razionalmente la conoscenza storica e allo stesso tempo di riconoscere il carattere storico della ragione): la vita ha infatti un carattere olistico, poiché non è mera teoresi ma anche volizione e desiderio. Ma proprio la centralità che acquista il concetto di vita in questa comprensione della realtà umana porta Dilthey, fortemente influenzato da Schleiermacher, a individuare inizialmente nella psicologia l’organon di tali scienze. La comprensione è rivolta all’individualità, e la sua condizione di possibilità è in quella sorta di empatia che porta a «rivivere» il vissuto (Erlebnis) di una vita estranea. Questa deriva psicologistica viene ridimensionata nel momento in cui l’oggetto da comprendere non è più l’individualità di un tu ma le produzioni oggettive dello spirito, quel che Hegel riassumeva sotto il titolo di «spirito oggettivo» e che per Dilthey include anche le manifestazioni culturali dell’arte, della religione e della filosofia: in una parola, le produzioni storiche. Esse sono segni che chiedono di essere compresi e interpretati: la comprensione è infatti per Dilthey quel processo mediante il quale noi conosciamo un’interiorità per mezzo di segni che ci sono dati dall’esterno. L’ermeneutica si candida allora a diventare l’organon delle scienze dello spirito per la sua capacità di mediare tra le oggettualità tramandate (il dato storico) e la soggettività dell’autore, tra l’esterno dei simboli e l’interno della soggettività che in essi si esprime: l’interpretazione è l’incontro tra individualità e universalità, un processo che contribuisce alla formazione di un «terreno comune», di intersoggettività e di oggettività condivisa, che è l’essenza stessa della nozione hegeliana di «spirito». 3552

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La linea di sviluppo ormai assunta dalla storia dell’ermeneutica porta sempre più in secondo piano le questioni strettamente metodologiche per interrogarsi sulle condizioni di possibilità della comprensione: contrariamente a quello che si è spesso sostenuto, questa abdicazione dalla dimensione metodica non ne è una negazione, ma un approfondimento in chiave trascendentale, che corrisponde alla domanda con cui Kant si chiedeva: quali sono le condizioni di possibilità che giustificano il metodo sperimentale della scienza della natura? Con M. Heidegger (1889-1976) l’ermeneutica giunge a porsi una domanda analoga: quali sono le condizioni che giustificano il carattere circolare e storico della comprensione? L’opera maggiore di Heidegger, Essere e tempo (Sein und Zeit, Halle 1927), non è esplicitamente un trattato di ermeneutica, ma è l’opera che ad essa ha impresso una svolta ontologica: muovendo dalla domanda sul senso dell’essere, Heidegger è portato a indagare le condizioni di possibilità del senso, e cioè della sua comprensione, identificate con l’esistenza stessa dell’uomo («Esserci»). Tale esistenza è immancabilmente storica, e quindi la comprensione, che è la modalità fondamentale dell’Esserci, quella che gli consente l’apertura di un mondo di significati (all’interno del quale soltanto sono possibili la conoscenza e il comportamento morale), è essa stessa storicamente determinata. Se il rapporto con il dato storico è di tipo interpretativo, è perché orginariamente il rapporto dell’Esserci con il mondo è comprendente-interpretante. L’ermeneutica «riproduttiva» o ricostruttiva trova il suo fondamento in un’ermeneutica «produttiva», al punto che per Heidegger non si interpreta per comprendere ma perché si è compreso: l’interpretazione è l’articolazione di una comprensione implicita, di una pre-comprensione, che sempre guida ogni comportamento dell’Esserci. La comprensione ha per Heidegger un carattere intrinsecamente progettuale: è apertura di possibilità, la cui determinazione avviene grazie a un atto interpretativo. Esso si svolge già a livello pragmatico e pre-linguistico, in una dimensione antepredicativa, ed è costitutivo di ciò che Heidegger chiama l’«in quanto ermeneutico»: la comprensione (non necessariamente verbale) di qualcosa in quanto qualcosa. Ermeneutica è così per Heidegger la dimensione stessa della vita in quanto creazione di significati, posizione, questa, che se-

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gna il distacco dalla fenomenologia husserliana, da cui comunque Heidegger aveva preso le mosse, poiché fa dell’interpretazione (intesa nel senso prima specificato) e non dell’intuizione la modalità originaria di accesso alle «cose stesse». A differenza dell’intuizione, che, soprattutto nell’accezione husserliana, è un atto immediato realizzato attraverso un’epoché del mondo, e in particolare della realtà storica in cui il soggetto è immerso, l’interpretazione è espressione della storicità dell’Esserci: essa è articolazione e ripresa delle sue possibilità, che sono sempre «gettate», cioè definite dalla situazione concreta perché in essa ereditate. È a questo punto che la dimensione in qualche modo «soggettiva» in cui sembrava confinata l’ermeneutica al livello dell’analisi esistenziale viene superata: l’accento posto successivamente da Heidegger sulla «storia dell’essere» consegue alla presa d’atto che la temporalità non è qualcosa di meramente «soggettivo», connesso all’esistenzialità dell’Esserci, ma è l’orizzonte intrascendibile del senso stesso dell’essere, e dunque di ogni comprensione, ovvero, kantianamente, il suo limite e la sua condizione di possibilità. H.-G. Gadamer riprende il discorso heideggeriano, che si collocava su un terreno ontologico, facendolo retroagire sulla problematica diltheyana della fondazione delle scienze dello spirito. Il problema da cui infatti muove nella sua opera principale, Verità e metodo (Wahrheit und Methode, Tübingen 1960), che può essere considerata l’opera fondamentale dell’ermeneutica filosofica contemporanea, è quello della portata veritativa delle scienze dello spirito, di cui vengono presi come casi esemplari l’arte e la storia. La deprivazione del contenuto veritativo di tali scienze va di pari passo nella modernità con l’affermazione del loro carattere meramente soggettivo, di cui l’estetica kantiana e romantica del genio può essere considerata il momento aurorale. Si tratta allora di superare questa concezione soggettivistica per ritrovare il fondo di «oggettività» (nel senso hegeliano del termine) che in esse si presenta. Questa oggettività ha la forma di una partecipazione a un orizzonte di senso comune, che Gadamer illustra attraverso il concetto di gioco e che comporta la rivalutazione di concetti tipici della tradizione umanistica che hanno un carattere eminentemente formativo, ovvero che elevano l’individuo all’uni-

Ermeneutica versalità: i concetti di cultura, di senso comune, di giudizio e di gusto. In tal modo Gadamer supera definitivamente l’elemento soggettivo e coscienzialistico che aveva caratterizzato la storia dell’ermeneutica a partire da Schleiermacher e che in Dilthey si condensa nella nozione di Erlebnis. Questo superamento comporta altresì l’abbandono della prospettiva ricostruttiva dell’ermeneutica schleiermacheriana – la quale presupponeva di poter superare, attraverso una sorta di empatia traspositiva nella psiche dell’autore, la distanza storica – a favore di una concezione più hegeliana, e cioè integrativa. Questa viene elaborata partendo da una critica allo storicismo ottocentesco che concepiva il rapporto con il passato sul modello del sapere assoluto hegeliano, e quindi nella forma di un sapere sovra- o extra-storico: il soggetto del sapere è invece sempre storico e il suo rapporto con il passato non può che assumere la forma di un’integrazione, di una «fusione di orizzonti» nella quale il portato della storia è insieme superato e conservato. Essere storico significa essere consapevoli della propria determinazione storica, ovvero che non ci si può mai risolvere in autotrasparenza. Anzi, quel che per l’ermeneutica classica era un impedimento alla corretta comprensione storica, la distanza temporale, diventa per Gadamer la condizione di possibilità della comprensione: solo la continuità della tradizione assicura la possibilità della comprensione, la quale non è un atto soggettivo, ma consiste propriamente nell’inserirsi nel vivo di un processo di trasmissione storica, nel quale passato e presente continuamente si sintetizzano. Il carattere universale dell’ermeneutica discende direttamente, per Gadamer, da due condizioni della comprensione: la sua storicità e la sua linguisticità. Ogni mediazione storica è una mediazione linguistica, avviene cioè tramite segni: in tal senso l’ontologia ermeneutica è un’ontologia del linguaggio («l’essere, che può essere compreso, è linguaggio»). IV. L’ERMENEUTICA NELLE SCIENZE UMANE. – Gran parte della riflessione sull’ermeneutica nel Novecento confluisce nell’alveo di quella che, con Heidegger e Gadamer, è stata chiamata «ermeneutica filosofica»: essa si caratterizza per un’attenzione particolare, non tanto per gli aspetti metodici, quanto per la dimensione filosofica e ontologica connessa al problema dell’interpretazione e della comprensione. La prova della grande fortuna che il termine «in3553

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Ermeneutica terpretazione» ha conosciuto a partire dall’Ottocento (fortuna che, come ha sottolineato Gadamer, comincia con Nietzsche) è però nella sua diffusione, non solo nella filosofia, ma in vari campi delle scienze umane, dalla psicologia alla sociologia e alla letteratura. Significativo, soprattutto per le sue ricadute sull’ermeneutica post-heideggeriana, è il suo uso nella psicoanalisi. Con la sua Interpretazione dei sogni (Die Traumdeutung, Wien 1900 [recte 1899]), S. Freud (1856-1939) apre una nuova prospettiva nel campo dell’analisi della psiche. Dal punto di vista della storia dell’ermeneutica, quel che è interessante è che Freud parta dall’assunto che i sogni, che fino ad allora erano stati ritenuti delle mere stranezze o positivisticamente dei fenomeni fisici del tutto privi di significato, siano invece qualcosa di dotato di senso. Essi sono insomma simili a dei testi che presentano varie cancellature e manomissioni, e che perciò chiedono di essere decifrati e interpretati. L’idea freudiana della psiche nasce da questa caratterizzazione del sogno (considerato perciò la «via regia» verso l’inconscio): in esso c’è un senso nascosto (inconscio) che viene rielaborato (censura) e reso manifesto (conscio). Come per i geroglifici – e cioè nel caso di una lingua di cui ignora o si è per tanto tempo ignorato il codice di traduzione (Freud si considerava lo Champollion della psiche) –, si tratta allora di trovare un modo per tradurre quel che è manifesto nella lingua dell’inconscio, che è la lingua del desiderio. La maggiore difficoltà in quest’opera di interpretazione è la grande idiomaticità della lingua del sogno, la quale è legata strettamente alle esperienze del paziente, per cui è solo da queste esperienze che può venire un aiuto alla ricostruzione della sua sintassi e della sua semantica: il metodo delle associazioni libere ha appunto questo scopo, lasciar emergere quali connessioni assolutamente idiomatiche si siano stabilite nella vita del paziente e abbiano quindi condizionato o strutturato la dinamica del suo desiderio. In tal modo Freud inaugura un tipo di ermeneutica del profondo che si distacca da quella classica che ha in Schleiermacher il suo maggiore rappresentante: la comprensione dell’altro deve qui far fronte a delle resistenze, deve aggirare delle censure, deve anzi supporre l’autoinganno dell’autore, portare avanti un’operazione di smascheramento, e il suo scopo non è tanto la ricostruzione del testo nascosto quanto la comprensione dei 3554

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motivi della sua rielaborazione mascherante, della sua deformazione. È questo l’aspetto critico della teoria psicoanalitica che sarà sfruttato soprattutto dai teorici della Scuola di Francoforte, come K.O. Apel e J. Habermas, che, in polemica con il tendenziale tradizionalismo di Gadamer, intenderanno il lavoro interpretativo come volto a metter in luce i meccanismi e i pregiudizi che impediscono una libera comunicazione. L’ermeneutica critica sarebbe quindi una sorta di «critica dell’ideologia» rivolta contro le costruzioni illusorie del soggetto e della società, che celano i motivi di disagio e di alienazione: la sua funzione è emancipante nella misura in cui svela e denuncia tali costruzioni. Naturalmente, per perseguire questo scopo l’ermeneutica dovrà farsi carico di esplicitare le condizioni della comunicazione libera dal dominio, condizioni che non sono solo di ordine linguistico ma anche pragmatico, e perciò si configura come una «pragmatica trascendentale» (Apel): di fronte all’atteggiamento fenomenologico di Gadamer, il quale cercava non le condizioni metodiche della comprensione (quel che si deve fare per comprendere) ma quelle ontologiche (che cosa di fatto accade quando comprendiamo, nel dialogo reale), per Apel e Habermas diventa invece prioritaria l’idea di un’anticipazione del dialogo ideale che faccia da modello per denunciarne le distorsioni reali. Il modo in cui Apel e, soprattutto, Habermas intendono l’ermeneutica si inscrive molto chiaramente all’interno di una prospettiva di tipo marxista. Già M. Weber (1864-1920), però, aveva tentato di introdurre l’impostazione ermeneutica nelle scienze sociali e aveva perciò parlato di «sociologia comprendente». Con questa espressione Weber intendeva un approccio alle problematiche sociologiche che cercasse di mettere in luce gli aspetti motivazionali dell’agire, di comprendere cioè i comportamenti e le azioni degli uomini nel loro carattere teleologico, di comprendere il loro senso. I comportamenti umani possono certo essere spiegati anche in base a leggi naturali, ma restano in gran parte inspiegabili, e addirittura irrazionali, se non possono essere ricondotti a motivi o tendenze che ne esplicitano il senso. La sociologia comprendente di Weber costituisce insomma l’estensione del metodo ermeneutico al piano della prassi: Weber intende integrare così spiegazione e comprensione in un unico metodo, elaborando il concetto di

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«spiegazione comprendente» con cui spiegare quelle connessioni dell’agire umano che non sono del tutto idiografiche ma nelle quali si riconoscono delle regolarità, sebbene non di tipo fisico. È su questo terreno intermedio che la sociologia comprendente di Weber si esercita: un terreno, quello dei comportamenti umani, non però dei singoli ma delle società, il cui divenire manifesta delle costanti, delle universalità, non spiegabili ricorrendo a leggi naturali ma appunto a sensi, cioè a motivazioni o a finalità. Nel caso di E. Betti (1890-1968) la rivendicazione della portata metodica dell’ermeneutica contro la sua ontologizzazione esistenzialistica è particolarmente marcata. Nella sua Teoria generale dell’interpretazione (Milano 1955, 2 voll.) Betti difende questa prospettiva negando all’interpretazione qualsiasi carattere «creativo», e quindi contestando l’idea heideggeriana che la comprensione possa considerarsi come una modalità d’essere dell’uomo, che apre un ambito di senso di cui l’interpretazione è l’articolazione. Questo caposaldo dell’ermeneutica heideggeriana – che consente a Heidegger di far coincidere esistenza e comprensione, ovvero di fare dell’esistenza un’apertura di senso – appare a Betti come un abuso, un tentativo d’introdurre il senso dall’esterno, laddove il senso dev’essere fatto emergere in maniera immanente dal testo («Sensus non est inferendus, sed efferendus»). Il presupposto dell’autonomia e dell’immanenza del testo è per Betti il primo e più importante dei quattro canoni che egli pone a fondamento dell’oggettività del suo metodo ermeneutico: il senso è qualcosa di oggettivo, che nel tentativo di esplicitarlo risente della prospettiva soggettiva dell’interprete, ma che nondimeno resta da essa indipendente e autonomo. Nel suo dibattito con Gadamer, Betti continua a ritenere perciò una machevolezza dell’interpretazione questa inevitabile commistione del senso con elementi soggettivi, mentre Gadamer la difende, in nome del fatto che nessuna considerazione metodica riuscirà a cancellare ciò che di fatto accade quando comprendiamo e che questo, lungi dall’essere una manchevolezza, è la condizione perché si dia realmente comprensione, in quanto mediazione tra un io e un tu, tra soggetto e oggetto, tra interprete e testo. Anche in campo letterario la difesa di un’ermeneutica metodica, e in generale di criteri in ba-

Ermeneutica se ai quali valutare l’oggettività di un’interpretazione, si fa strada in opposizione all’ermeneutica di matrice heideggeriana, sia rivendicando la preminenza dell’intentio auctoris (E.D. Hirsch) contro la deriva a cui viene esposto il senso quando venga agganciato unicamente alla mente del lettore, sia riportando la filologia al centro degli studi estetici (come nel caso dell’ermeneutica letteraria di P. Szondi). Le prospettive ermeneutiche di H.R. Jauss e di W. Iser, che a Costanza hanno dato luogo a una scuola ispirata all’estetica della ricezione, insistono invece sul rapporto tra il testo e il lettore: è in questo rapporto infatti che si costituisce un sensus communis, poiché l’opera, attraverso la sua presa o il suo effetto sul lettore, acquisisce un intrinseco valore comunicativo e rappresenta un momento fondamentale nella costituzione di un orizzonte di partecipazione umana. Su questo, l’ermeneutica della ricezione concorda con uno dei punti qualificanti dell’ermeneutica gadameriana, quel principio della Wirkungsgeschichte (storia degli effetti) in cui Gadamer faceva consistere la sostanzialità e l’oggettività del senso deposto nella tradizione e che è a un tempo il contenuto e il mezzo di ogni interpretazione: quel che si comprende non è altro che il sedimentarsi storico delle interpretazioni di un testo, le quali a loro volta, nella loro continuità, cioè nella loro tradizione, costituiscono l’unica, insormontabile via d’accesso al testo e al suo significato. V. L’ERMENEUTICA POST-HEIDEGGERIANA. – L’ermeneutica post-heideggeriana presenta un variegato ventaglio di prospettive e ha conosciuto una tale diffusione da potersi proporre, intorno agli anni ottanta del secolo scorso, quasi come una koiné filosofica. Muovendo dall’esistenzialismo heideggeriano, riletto alla luce di temi e problemi dell’idealismo tedesco e del personalismo, L. Pareyson (1918-91) concepisce l’interpretazione come una «conoscenza di forme da parte di persone». Anzi, per Pareyson la persona è intrinsecamente interpretante: essa infatti è definita come unità di autorelazione ed eterorelazione, e quindi essenzialmente portata a trascendersi. L’interpretazione è quel movimento di trascendenza che nella particolarità storica della persona porta a espressione la verità e allo stesso tempo nella verità rivela la persona. L’interpretazione è perciò, scrive Pareyson, «quella forma di conoscenza che è insieme e inseparabilmente veritativa e storica, ontologica e personale, rivelati3555

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Ermeneutica va ed espressiva» (Verità e interpretazione, Milano 19823 [1971]). Questa teoria dell’interpretazione è volta in definitiva a mediare le istanze soggettivistiche (cercando di sfuggire alle loro degenerazioni relativistiche) e quelle oggettivistiche (che viceversa negano l’importanza dell’elemento personale nella manifestazione della verità): la verità è tale solo se personalmente posseduta, il che significa anche che l’interpretazione è la forma eminente di rivelazione della verità. Non c’è interpretazione che della verità e non c’è verità che dell’interpretazione. La teoria di Pareyson costituisce il nucleo centrale di una vasta prospettiva filosofica che investe temi estetici (la sua estetica della formatività è un’estetica di forte impianto ermeneutico), religiosi (incentrati intorno al tema del male e della sofferenza inutile, oggetto di un’ermeneutica dell’esperienza religiosa o del «mito») e ontologici (la teoria dell’interpretazione presuppone un’ontologia della libertà). Allievo di Pareyson, Gianni Vattimo (1936) compone l’idea heideggeriana del carattere interpretativo (cioè storico) della verità con il nichilismo nietzscheano: l’ermeneutica filosofica è da questo punto di vista la teoria filosofica che corrisponde all’epoca storica della post-modernità, in cui le istanze fondative della modernità hanno perso la loro cogenza e perentorietà. La difesa del carattere ermeneutico dell’esistenza ha per Vattimo un significato etico, come emancipazione e liberazione dalla violenza fondazionale, intesa anche come estraneità e lontananza del fondamento (Dio, la verità) dal mondo umano (Etica dell’interpretazione, Torino 1989). Da questo punto di vista torna centrale per Vattimo il paradigma cristiano dell’incarnazione, a cui anche Gadamer si era ispirato, ma di cui accentua la dimensione chenotica, di svuotamento: l’interpretazione è un processo di riduzione, di mediazione, di partecipazione, che, come nel modello evangelico, tende ad avvicinare Dio agli uomini e a sostituire la legge (la trascendenza) con la carità (la relazione intersoggettiva). L’ermeneutica filosofica è quindi l’espressione più matura di quel processo di secolarizzazione che per Vattimo è l’inevitabile conseguenza dell’incarnazione. Un ritorno all’ermeneutica del testo nella sua dimensione anche metodica caratterizza la proposta di P. Ricoeur (1913-2005). Per Ricoeur la deriva psicologista innescata da Schleierma3556

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cher è responsabile di una sempre maggiore soggettivizzazione dell’interpretazione, e cioè di una perdita di oggettività: privata del lavoro lungo e paziente dell’esegesi, l’interpretazione diventa così la «via breve» per giungere all’ontologia, come accade nel caso di Heidegger. Si tratta invece di riportare al centro del lavoro ermeneutico la «via lunga» dell’interpretazione testuale, e cioè dei simboli, di quei particolari segni nei quali un senso diretto, primario, letterale, designa un senso indiretto, secondario, figurato, il quale non può essere espresso se non tramite il primo. L’interpretazione è il lavoro di decifrazione dei simboli allo scopo di svelarne i sensi nascosti. Tuttavia il testo presenta per Ricoeur un doppio ordine di rimandi: in quanto staccato dalla vita del suo autore è dotato di un’autonomia che consente di spiegarlo per mezzo dei suoi rapporti immanenti, strutturali; in quanto riferito al suo autore, esso rimanda a un mondo che si tratta di interpretare attraverso i suoi simboli. Strutturalismo ed ermeneutica, spiegazione e interpretazione, sono perciò approcci correlativi e complementari che contribuiscono a formare quel che Ricoeur chiama «arco ermeneutico»: più che una sconfessione dell’ermeneutica schleiermacheriana, che aveva in fondo già affermato una tale complementarietà parlando a un tempo di interpretazione grammaticale e di interpretazione psicologica, obiettivo di Ricoeur sembra essere Dilthey, il cui psicologismo va di pari passo con la teorizzazione di uno iato incolmabile tra scienze della natura e scienze dello spirito, spiegazione e comprensione: psicologismo che aveva già subito i duri colpi della contestazione husserliana nelle Ricerche logiche. La teoria ermeneutica di Ricoeur costituisce il tentativo di «fenomenologizzare» l’ermeneutica facendo del testo il fenomeno, nel senso husserliano del termine, da cui procede il lavoro interpretativo. Al paradigma coscienzialistico della fenomenologia husserliana Ricoeur sostituisce però l’ermeneutica del sospetto di matrice freudiana: la psicoanalisi si presenta come una vera e propria «archeologica del soggetto» che apre su una dimensione della psiche che è accessibile soltanto attraverso le sue formazioni fenomeniche (i sogni, i sintomi, altrettanti «testi» nell’accezione ricoeuriana), e che quindi richiede non l’intuizione ma appunto l’interpretazione. È questa natura ancipite del testo che genera il «conflitto delle interpretazioni» che si origina

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sul margine della sua immanenza, come conflitto tra il detto e il non detto, l’esplicito e l’implicito, tra il significato letterale e il significato simbolico o figurale, tra l’approccio strutturale e l’approccio archeologico-interpretativo (Le conflit des interprétations, Paris 1969). In ogni caso, il testo è il fulcro di tutta la riflessione ricoeuriana, il crocevia da cui partono le varie direttrici da cui solo è possibile, secondo Ricoeur, riconsiderare i temi dell’ontologia, della prassi, dell’identità personale e della temporalità. Profonde ripercussioni sulle teorie dell’interpretazione contemporanee, soprattutto per quel che concerne la critica letteraria e in generale le scienze umane, ha avuto la prospettiva filosofica di J. Derrida (1930-2004), per quanto non del tutto riconducibile alla storia dell’ermeneutica. Quel che costituisce il maggior punto di contatto con l’ermeneutica è una riflessione originale quanto sovversiva sul ruolo e sullo statuto della scrittura nella formazione del senso: la scrittura è pensata da Derrida, in controtendenza rispetto al logocentrismo della filosofia occidentale, come un primus costitutivamente segnato dalla differenza (nella doppia accezione del termine: differenza come movimento diacritico dei segni, secondo l’insegnamento saussuriano che ne fa l’origine della significazione, e differenza come differimento, e cioè come non attualità e non presenzialità del significato) e quindi esposto alla perdita di senso, alla disseminazione (De la grammatologie, Paris 1967). «Non c’è significato trascendentale»: questa affermazione viene intesa da Derrida come la traduzione sul piano testuale dell’annuncio nietzscheano della morte di Dio e come l’affermazione di una deriva del senso senza approdi definitivi, un sorta di «nichilismo semantico». Niente può fermare il rinvio differenziale costitutivo della scrittura: poiché «non c’è nulla fuori del testo», la testualità è un fenomeno generale. L’interpretazione non è pertanto un’operazione volta a svelare un senso altrimenti oscuro o nascosto, ma un lavoro di trasformazione o di traduzione di un testo in un altro testo, lavoro nel quale consiste propriamente la sua carica decostruttiva: infatti, ciò facendo, essa effettua degli spostamenti semantici che, per quanto minimali, contribuiscono a riordinare un certo campo di forze, contribuendo alla sua ridefinizione e riconfigurazione sistemica. Queste considerazioni

Ermeneutica giuridica hanno animato un vasto dibattito che ha coinvolto anche l’ermeneutica filosofica, in particolare riguardo al problema dei presupposti del senso, che, in un confronto con Gadamer, Derrida individuava nietzscheanamente in una sorta di «volontarismo», e alla portata critica dell’interpretazione, sempre in difficile equilibrio (e anzi esplicitamente volta alla ricerca di un tale difficile equilibrio) tra appartenenza e distanziazione, tradizione e rottura, rimemorazione ed emancipazione. G. Chiurazzi - G. Vattimo BIBL.: W. DILTHEY, Die Entstehung der Hermeneutik (1900), in Gesammelte Schriften, Leipzig-Berlin 1924, vol. V; R. MARLÉ, Le problème théologique de l’herméneutique. Les grandes axes de la recherche contemporaine, Paris 1963; P. BARTHEI, Interprétation du langage mythique et théologie biblique, Leida 1967 (1963); J.M. ROBINSON - E. FUCHS, La nuova ermeneutica, Brescia 1967; H. JAEGER - E. HASSO, Studien zur Frühgeschichte der Hermeneutik, in «Archiv für Begriffsgeschichte», 18 (1974), pp. 35-84; M. RAVERA (a cura di), Il pensiero ermeneutico, Genova 1986; G. VATTIMO, Schleiermacher filosofo dell’interpretazione, Milano 19862 (1967); M. FERRARIS, Storia dell’ermeneutica, Milano 1988; G. GUSDORF, Les origines de l’herméneutique, Paris 1988; E. BIANCO, Introduzione all’ermeneutica, Roma-Bari 1998; J. GRONDIN, Einführung in die philosophische Hermeneutik, Darmstadt 20012 (1991); M. JUNG, Hermeneutik zur Einführung, Hamburg 2001; C. BERTOLOTTI - S. NATOLI - C. SINI - G. VATTIMO - V. VITIELLO, Ermeneutica, Milano 2003; A. ORTIZ-OSÉS - P. LANCEROS (a cura di), Diccionario interdisciplinar de Hermenenéutica, Bilbao 2004. ➨ ALLEGORIA; ANALOGIA; CARITÀ, PRINCIPIO DI; CIRCOLO ERMENEUTICO; COMPRENSIONE, ASSIOMA O PRINCIPIO DI; DECOSTRUZIONE; DIFFERANCE; ESEGESI; FILOLOGIA; INTERPRETAZIONE; METAFOROLOGIA; POSTMODERNO; RICEZIONE, ESTETICA DELLA; SCIENZE DELLO SPIRITO; SCUOLA DI ALESSANDRIA; SENSO; SOGGETTIVITÀ; SOGNO; SPIEGAZIONE; SPIRITO; TESTO; TRADUZIONE.

ERMENEUTICA GIURIDICA. – Fino alla Ermeneutica giuridica metà del Novecento, e in particolare alla summa costituita dalla teoria generale dell’interpretazione del romanista e filosofo del diritto Emilio Betti, la riflessione sulle tecniche interpretative dei testi giuridici prosegue un’antica tradizione metodologica, peculiare soprattutto nella scienza giuridica tedesca, per cui ermeneutica giuridica si definisce come arte dell’interpretazione. Ispirata alla tradizionale concezione romantica, la prospettiva di Betti conduce al più alto grado di realizzazione il 3557

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Ermenrico di Ellwangen progetto di un’ermeneutica metodica delle scienze umane che vuol coprire l’intero spettro delle scienze dello spirito. Ma il risveglio dei giuristi da un certo «sopore dogmatico» – risveglio che si fa tutt’uno con una nuova concezione della pratica ermeneutica – avviene soprattutto grazie all’influsso di Wahrheit und Methode (Tübingen 1960, tr. it. a cura di G. Vattimo, Verità e metodo, Milano 19832) di HansGeorg Gadamer e alle tesi in esso contenute di un «significato esemplare dell’ermeneutica giuridica», nel senso che interpretare un testo significa «applicarlo» alla situazione presente. Due fondamentali nozioni gadameriane, quelle di «precomprensione» e di «circolo ermeneutico», vengono fruttuosamente trasferite da una serie di autorevoli giuristi tedeschi, di cui il più rappresentativo è Josef Esser, alla teoria dell’interpretazione giudiziale: sottolineando che il giudice partecipa creativamente al processo di produzione del diritto, ma insieme ribadendo che tale produzione deve comunque sottomettersi a dei vincoli razionali. Negli ultimi anni la teoria ermeneutica del diritto, concentrandosi sull’analisi del rapporto tra questioni di fatto e di diritto e sviluppando la riflessione sul diritto come pratica sociale, ha fornito un apporto originale ai fini della descrizione e della definizione del diritto: essa ha colto l’esigenza fondamentale di ripristinare il legame del diritto con la ragion pratica guidandone le pratiche verso obiettivi di giustizia. G. Zaccaria BIBL.: J. ESSER, Vorverständnis und Methodenwahl in der Rechtsfindung, Frankfurt am Main 1970, tr. it. di S. Patti - G. Zaccaria, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, Napoli 1983; E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, ed. a cura di G. Crifò, Milano 1990 (1955), 2 voll.; F. VIOLA, Il diritto come pratica sociale, Milano 1990; L. MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano 1996; F. VIOLA - G. ZACCARIA, Diritto e interpretazione, Roma-Bari 2004. ➨ CIRCOLO ERMENEUTICO; GIURISDIZIONE; INTERPRETAZIONE, GIURIDICA; PRECOMPRENSIONE.

ERMENRICO DI ELLWANGEN. – Erudito Ermenrico di Ellwangen e vescovo carolingio, n. nel 814 ca., m. nel 874. Appartenente alla nobiltà sveva, divenne monaco a Ellwangen, abbazia di recente ma fortunata fondazione nel Württemberg. Allievo a Fulda di Rabano e a Reichenau di Valafrido, fu legato a Grimaldo, abate di San Gallo e stretto consigliere di Ludovico il Germanico. Divenne 3558

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vescovo di Passau e si oppose a Metodio. È autore di una Vita Sualonis, caratterizzata da spirito di fedeltà al papato e apprezzamento per l’eremitismo, e di una Vita Hariolfi, dedicata al fondatore dell’abbazia di Ellwangen. La sua opera più nota è la Epistola ad Grimaldum abbatem. Essa si presenta come un affastellamento di excerpta tramite i quali l’autore tratta un insieme eterogeneo di argomenti: dall’esegesi del comandamento dell’amore di Dio e del prossimo a questioni grammaticali, dal rapporto del cristiano con i testi profani fino alla Trinità. Essa possiede certamente un’unità estrinseca: esibire a Grimaldo la vasta cultura dell’autore così da renderlo gradito al potente abate. Nondimeno, possiede anche un’unità intrinseca. La cultura di Ermenrico è la medesima che egli rinviene ed esalta in Grimaldo e che coincide con un preciso ideale di santità: l’inabissarsi in un contatto con Dio sempre più alto, sorretto ed espresso dall’intreccio delle parole della Bibbia e delle auctoritates sacre e profane, guidato dalle arti, generatore di affinità amicali e alleanze politiche. M. Forlivesi BIBL.: G. D’ONOFRIO, La teologia carolingia, in Storia della teologia nel Medioevo, vol. I: I princìpi, Casale Monferrato 1996, pp. 107-197; F. MOSETTI CASARETTO, «Intuere cælum apertum». L’esordio dell’«Epistola ad Grimaldum abbatem» di Ermenrico di Ellwangen fra Ilduino di Saint-Denis e Giovanni Scoto, in J. MCEVOY - M. DUNNE (a cura di), History and Eschatology in John Scottus Eriugena and His Time, in Ancient and Medieval Philosophy, Serie 1, vol. XXX, Leuven 2002, pp. 203-225.

ERMETE TRISMEGISTO (ÔErmh'" TrismevErmete Trismegisto gisto", Hermes Trismegistus). – Ermete è il dio greco del lovgo" (parola, ragione), interprete e messaggero di Zeus. Nell’allegoresi del mito soprattutto stoica, come in ambito gnostico, è identificato con il lovgo": Platone, Crat., 407; Cornuto, 16 (I. Ramelli, Cornuto, Compendio di teologia greca, Milano 2003; I. Ramelli, Allegoria, I, Milano 2004, cap. VI). In età ellenistica, con l’assimilazione delle divinità greche a quelle egizie, Ermete fu sovrapposto a Thoth, dio delle lettere e dei numeri (Platone, Phaedr., 274c; Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, I, 16, 1). Gli egizi iteravano l’aggettivo «grande» davanti ai nomi degli dei: Ermete-Thoth, unico tra gli dèi, fu chiamato Trismegisto, «tre volte grandissimo». Considerato talora dio, talora uomo, spesso entro un’intera

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dinastia di Ermeti, Ermete Trismegisto era rivelatore della verità e mediatore tra divino e umano. Gli furono attribuiti scritti filosofici, raccolti in età bizantina nel Corpus Hermeticum e in parte trovati anche nella biblioteca copta di Nag Hammadi, oltre a una ricca produzione di tipo magico e astrologico. Ermete Trismegisto ebbe fortuna anche in età cristiana. I. Ramelli BIBL.: A.J. FESTUGIÈRE, La révélation d’Hermès Trismégiste, I-IV, Paris 1950-54; G. V. MOORSEL, The Mysteries of Hermes Trismegistus, Utrecht 1955; A.J. FESTUGIÈRE, Hermétisme et mystique païenne, Paris 1967, tr. it. Genova 1991; J.P. MAHÉ, Hermès en Haute-Egypte, I-II, Québec 1978-82; A. GONZÁLEZ BLANCO, Hermetism, in H. TEMPORINI - W. HAASE (a cura di), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, parte II, vol. XVII, 4, Berlin - New York 1984, pp. 2240-2281; E. IVERSEN, Egyptian and Hermetic Doctrine, Copenhagen 1984; G. FOWDEN, The Egyptian Hermes, Cambridge 1986; A. FAIVRE, D’Hermès-Mercure à Hermès Trismégiste, in AA.VV., Présence de l’Hermétisme, Paris 1988, pp. 2428; H.J. SHEPPARD - A. KEHL - R. MCL. WILSON, s. v. Hermetik, in T. KLAUSER et al. (a cura di), Reallexikon für Antike und Christentum, XIV, Stuttgart 1988, coll. 780-807; L. FÓTI, Hermès Trismégiste et la mythologie égyptienne, in Z. VANEK (a cura di), Studia in honorem L. Fóti, Budapest 1989, pp. 9-27; G. QUISPEL (a cura di), De Hermetische Gnosis in de loop der eeuwen, Barn 1992, pp. 97-174; L. KÁKOSY, Hermes and Egypt, in A.B. LLOYD (a cura di), Studies in Pharaonic Religion and Society, London 1992, pp. 258-261; A. FAIVRE, The Eternal Hermes, Grand Rapids (Michigan) 1995; A. PROTO, Ermete Trismegisto, Milano 1995; R. LIEDTKE, Die Hermetik, Paderborn 1996; R. V.D. BROEK - C. V. HERRTUM (a cura di), From «Poimandres» to Böhme, Amsterdam 2000; D. PORRECA, Hermes Trismegistus, in «Les Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age», 67 (2000), pp. 143-158; C. MORESCHINI, Origini e autenticità dell’Ermetismo, in «Annali dell’Istituto universitario orientale di Napoli», 22 (2000), pp. 327-357; C. MORESCHINI, Storia dell’Ermetismo cristiano, Brescia 2000; G. BOS, Hermes Trismegistus, Astrologica et divinatoria, Turnhout 2001; A. LÖW, Hermes Trismegistos als Zeuge der Wahrheit, Berlin 2002; J. PESTE, The Poimandres Group, Göteborg 2002; I. RAMELLI, Corpus Hermeticum, tr. it. e aggiornamenti, Milano 2005.

ERMETICI, SCRITTI (Hermetica). – Sono testi Ermetici attribuiti a Ermete Trismegisto, risalenti al IIIII sec. d. C. e di ispirazione egizia. Di presunta origine divina, gli scritti ermetici riflettono un clima di sincretismo tardo-ellenistico – diver-

Ermetici gono i critici sulla presenza di circoli ermetici dotati anche di riti iniziatici e specifiche liturgie – e sono contemporanei agli Oracoli Caldaici, con cui hanno in comune molti elementi cosmologici. Abbiamo: un Corpus Hermeticum in diciassette trattati raccolti in età bizantina (il titolo Poimandres o Pastore di uomini del primo trattato è passato all’intera raccolta, per un errore del traduttore Marsilio Ficino [1471]); un dialogo Asclepius (tr. lat. di un perduto Lovgo" tevleio" o Discorso perfetto, greco, di cui sopravvivono frammenti nel papiro Mimaut, in Lattanzio, Giovanni Lido, Cirillo d’Alessandria, Stobeo; una versione egiziana proveniente dalla regione di Tebe fu scoperta a Khenoboskion in un manoscritto del sec. IV); ventisei estratti in Stobeo, tra cui quattro lunghi passi della Kovrh kovsmou o Pupilla del mondo. Ulteriori testi, in copto, traduzione di originali greci, sono stati trovati a Nag Hammadi, in Egitto: il più interessante, perché non conservato altrimenti né in greco né in latino, è il dialogo Sull’Ogdoade e l’Enneade. Questi testi fanno parte del cosiddetto ermetismo filosofico, cui se ne accosta uno più popolare, orientato verso la magia, l’astrologia, l’alchimia. Nella storia dell’alchimia è importante il breve scritto La tavola smeraldina, di cui possediamo le redazioni araba e latina (Tabula smaragdina): fu considerata una rivelazione di Trismegisto e come tale commentata da alchimisti medievali e moderni. La dottrina filosofica ermetica recupera la psicologia orfico-platonico-pitagorica, la cosmologia stoica, la fisica aristotelica, le dottrine caldaiche. Non mancano discrepanze fra trattato e trattato, specialmente nella concezione ottimistica o pessimisica dell’uomo e del mondo: già W. Bousset in Göttingische Gelehrte Anzeigen, Göttingen 1914, p. 749, individuava una concezione monistico-panteistica in Corpus Hermeticum, II, V, VIII, XIV e nell’Asclepius, e un dualismo pessimistico in Corpus Hermeticum, I, IV, VI, VII, XIII. Ma lo schema metafisico di fondo è abbastanza unitario. Le dottrine ermetiche costituiscono una forma di gnosi, che si affianca alle sette gnostiche contemporanee, di cui condivide l’orientamento filosoficoreligioso: la verità di cui gli scritti ermetici si fanno portavoce, in quanto procedono da una rivelazione, è dono divino (Asclepius, 41: «tua enim gratia tantum sumus cognitionis tuae lumen consecuti»; ci sono preghiere anche nei 3559

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Ermia di Alessandria testi greci e copti); la gnosi raccomandata negli scritti ermetici è un culto religioso che arreca salvezza e gioia (Corpus Hermeticum, XIII, 8). Al culmine del reale è Dio, inconoscibile e ineffabile, che ora è il cosmo stesso, ora è il padre, il creatore, il bene (Corpus Hermeticum, II, 12-17; IV, 9-11); il mondo, per converso, ora è Dio, ora è figlio di Dio, secondo dio, vivente immortale (Corpus Hermeticum, VIII, 1; X, 2223); l’uomo è il terzo essere, compendio dell’universo: «magnum miraculum est homo, animal adorandum atque honorandum. Hoc enim in naturam dei transit, quasi ipse sit deus» (Asclepius, 6: è intuizione cara al nostro Rinascimento, che vide nell’ermetismo una tradizione sacra). La materia è la pienezza del male (Corpus Hermeticum, VI, 4) e le realtà sensibili sono dominate dal fato. L’anima umana, discesa dalle sfere celesti, può tornarvi, non con riti teurgici né grazie a un salvatore, ma in virtù della sua conoscenza. L’interesse soteriologico si inserisce nel quadro dell’intellettualismo classico, conforme allo spirito gnostico; la gnw'si", la mistica del logos che l’ermetismo celebra, è il punto di sutura fra l’esigenza teoretica e l’aspirazione religiosa alla salvezza. La tradizione platonica che condurrà al neoplatonismo si respira in passi come questi: «Quanti possono attingere [...] a questa visione, spesso si addormentano, distaccandosi dal corpo, e si imbattono nella visione più bella [...] contemplare la bellezza incorruttibile e incomprensibile di quel bene. Lo vedrai quando non avrai più da dire nulla riguardo ad esso. Infatti, la conoscenza di esso e la sua contemplazione sono silenzio e inattività di tutti i sensi. Chi ha avuto una volta questa intuizione non può più intuire null’altro [...] e nemmeno muovere il proprio corpo, in quanto perde coscienza di tutte le sensazioni corporee e di tutti i movimenti fisici, e rimane in uno stato di quiete; quando questa bellezza ha illuminato tutto l’intelletto e l’intera anima [...] trasforma l’uomo intero nella sua essenza. È impossibile [...] che l’anima che ha contemplato la bellezza del bene sia divinizzata finché rimane in un corpo umano» (Corpus Hermeticum, X, 5-6). G. Faggin - I. Ramelli BIBL.: A.D. NOCK - A.J. FESTUGIÈRE (a cura di), Hermès Trismégiste, 4 voll., Paris 1945-54, con tr. fr.; T. SILVERSTEIN (a cura di), Liber Hermetis Mercurii Triplicis de sex rerum principiis, in «Archives d’Histoire doctrinale littéraire du Moyen Age», 1955, pp. 217-302, tr.

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it. di R. Fedi, Il Pimandro, Milano 1942; T. BURKHARDT, L’alchimia, Torino 1961, pp. 168-173; B.M. TORDINI PORTOGALLI (a cura di), Tavola smeraldina; Discorsi, Corpo ermetico e Asclepio, Torino 1966, tr. it. e commento; A. CAMPLANI (a cura di), Scritti ermetici in copto, Brescia 2000; I. RAMELLI (a cura di), Corpus Hermeticum, tr. dell’ed. Nock-Festugière e del trattato copto Sull’Ogdoade e l’Enneade, Milano 2005. Sugli scritti ermetici: W. KROLL, s. v., in A. PAULY, RealEncyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, a cura di G. Wissowa, Stuttgart 1893-1963, VIII, coll. 792-823; H. REITZENSTEIN, Poimandres, Leipzig 1904; W. KROLL, Die Lehren des Hermes Trismegistos, Leipzig 1914; A.J. FESTUGIÈRE, La révélation d’Hermès Trismegiste, 4 voll., Paris 1944-54; G. V. MOORSEL, The Mysteries of Hermes Trismegistus, Utrecht 1955; F. KLEIN, Die Lichtterminologie bei Philon von Alexandria und in den hermetischen Schriften, Leiden 1962; F.A. YATES, G. Bruno and the Hermetic Tradition, Chicago 1964; A.J. FESTUGIÈRE, Hermetisme et mystique païenne, Paris 1967, tr. it. Genova 1991; J.P. MAHÉ, Hermès en Haute-Égypte, I-II, Québec 1978-82; A. GONZÁLEZ BLANCO, Hermetism, in H. TEMPORINI - W. HAASE (a cura di), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, parte II, vol. XVII, 4, Berlin - New York 1984, pp. 2240-2281; E. IVERSEN, Egyptian and Hermetic Doctrine, Copenhagen 1984; G. FOWDEN, The Egyptian Hermes, Cambridge 1986; H.J. SHEPPARD - A. KEHL - R. MCL. WILSON, s. v. Hermetik, in T. KLAUSER et al. (a cura di), Reallexicon für Antike und Christentum, XIV, Stuttgart 1988, coll. 780-807; G. QUISPEL (a cura di), De Hermetische Gnosis in de loop der eeuwen, Barn 1992; R. LIEDTKE, Die Hermetik, Paderborn 1996; C. MORESCHINI, Origini e autenticità dell’Ermetismo, in «Annali dell’istituto universitario orientale di Napoli», 22 (2000), pp. 327-357; C. MORESCHINI, Storia dell’Ermetismo cristiano, Brescia 2000; G. BOS, Hermes Trismegistus, Astrologica et divinatoria, Turnhout 2001; A. LÖW, Hermes Trismegistos als Zeuge der Wahrheit, Berlin 2002; I. RAMELLI, Corpus Hermeticum, Milano 2005 (saggio integrativo, per le linee recenti della critica e ampia bibliografia).

ERMIA (ÔErmeiva") DI ALESSANDRIA. – Ermia di Alessandria Neoplatonico del sec. V d. C. Fu condiscepolo di Proclo ad Atene alla scuola di Siriano il Grande, ma visse e insegnò ad Alessandria. Sposò Edesia, una parente di Siriano; i loro figli, Eliodoro e Ammonio, frequentarono la scuola di Proclo ad Atene e furono maestri di Damascio. Fonti in Damascio, Vita Isidori, il quale ne ammira la correttezza morale e l’impegno nello studio, pur segnalandone lo scarso acume filosofico e l’esigua abilità dialettica. È autore di un Commentario al Fedro platonico, consistente in una serie di note prese, ajpo;

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fwnh'", alle lezioni di Siriano (cfr. M. Richard, ´Apo; fwnh'", in «Byzantion», 20, 1950, pp. 191222). Lo scritto rivela l’influenza del metodo esegetico di Giamblico, del cui perduto commentario omonimo rappresenta una fonte considerevole. Il figlio Ammonio, Commentario agli Analitici Priori, 31, 24-25 (in Commentaria in Aristotelem graeca, IV, 6, ed. Wallies 1899) ne ricorda anche un’interpretazione dei sillogismi di seconda e terza figura. Una rivalutazione del pensiero di Ermia, in polemica con il giudizio negativo di Damascio, divenuto un locus communis per la critica, secondo il quale Ermia si sarebbe limitato, per sua incapacità, ad annotare e a riferire con diligenza l’interpretazione del Fedro data da Siriano, è stata tentata recentemente da C. Moreschini (Alcuni aspetti degli Scholia in Phaedrum di Ermia Alessandrino, in M.-O. Goulet-Cazé - G. Madec - D. O’Brien, SOFIHS MAIHTORES. Hommage à J. Pépin, Paris 1992, pp. 451-460), il quale ha messo in evidenza che negli Scholia in Phaedrum c’è anche la presenza di altre auctoritates (filosofiche e poetico-teologiche), che attesterebbero un certo apporto personale di Ermia nell’elaborazione del commentario. G. Faggin - R.L. Cardullo Hermiae Alexandrini in Platonis Phaedrum Scholia, a cura di P. Couvreur, Paris 1901, rist. con intr. e index verborum di C. Zintzen, Hildesheim 1971, tr. ted. di H. Bernard, Hermeias von Alexandrien. Kommentar zu Platons Phaidros, Tübingen 1997. Su Ermia di Alessandria: H. DÖRRIE, s. v., in K. ZIEGLER et al. (a cura di), Der kleine Pauly, Stuttgart 1975, vol. II, col. 1069; M.W. DICKIE, Hermeias on Plato Phaedrus 238d and Synesius Dion 14.2, in «American Journal of Philology», 114 (1993), pp. 421-440; C. MORESCHINI, Motivi esegetici e filosofici negli Scholia in Phaedrum di Ermia Alessandrino, in «Cassiodorus», 2 (1996), pp. 99-117; R. GOULET, s. v., in R. GOULET (a cura di), Dictionnaire des philosophes antiques, III, Paris 2000, pp. 639-641. BIBL.:

ERMIA (ÔErmiva") DI ATARNEO. – Filosofo e Ermia di Atarneo uomo politico del sec. IV a. C. La tradizione biografica su Ermia è controversa, perché mescola fonti sfavorevoli (Teopompo) e fonti favorevoli (Aristotele e Callistene). Entrambi sono citati in un papiro contenente un frammento di Didimo Calcentero (I secolo a. C.; Papyri graeci Berolinienses, 9780). Secondo Teopompo, Ermia era eunuco ed era stato schiavo di Eubulo, tiranno di Atarneo e Asso. Secondo i

Ermia l’Apologeta peripatetici fu un governate illuminato e moderato. Probabilmente frequentò l’Accademia (ca. 360-350) quando Platone era assente. Dopo la morte di Eubulo (ca. 350), gli successe. Ospitò vari discepoli di Platone, primi fra tutti Erasto e Corisco con cui studiò le discipline che formavano il corso di studi dell’Accademia; ai tre è diretta la VI lettera di Platone. In Asso si recò anche Aristotele alla morte di Platone (348-47); vi si trattenne per tre anni e sposò una giovane parente di Ermia, di nome Pizia. Ermia diede ai filosofi la città di Asso come luogo di residenza; ivi fu fondata una comunità di studio (peripatos), di cui entrò a far parte anche Teofrasto. Ermia si alleò con Filippo di Macedonia contro i persiani; per questo il satrapo Mentore di Rodi lo catturò e lo trascinò prigioniero a Susa, dove fu crocifisso, nel 341. A memoria dell’amico ucciso Aristotele compose un’epigrafe (fr. 674 Rose3) e un inno alla virtù (fr. 675 Rose3, tr. it. in C. Natali, Bios theoretikos, Bologna 1991, pp. 37-46, pp. 39-40). G.F. Pagallo - C. Natali BIBL.: P. NATORP, s. v., in A. PAULY, Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, a cura di G. Wissowa, Stuttgart 1893-1963, VIII, col. 831; W. JAEGER, Aristoteles, Berlin 1923, tr. it. Firenze 1935, 19642, pp. 144 ss.; I. DÜRING, Aristotle in the Ancient Biographical Tradition, Göteborg 1957, pp. 272-279; T. DORANDI, s. v., in R. GOULET (a cura di), Dictionnaire des philosophes antiques, III, Paris 2000, pp. 650-651.

ERMIA (ÔErmeiva") L’APOLOGETA. – ScritErmia l’Apologeta tore cristiano, vissuto probabilmente tra il II e il III sec. d. C., noto soltanto quale autore di un’opera satirica, breve ma pregevole dal punto di vista letterario e unica nel suo genere, intitolata Diasurmo;" tw'n e[xw filosovfwn (Irrisio gentilium philosophorum), indirizzata agli intellettuali cristiani, con la quale egli denuncia le contraddizioni della filosofia pagana in nome della fede rivelata. Somiglianze teoriche e linguistiche con Massimo di Tiro e Clemente di Alessandria fanno propendere gli studiosi per una datazione alta dell’opera (altra datazione proposta, ma ritenuta inattendibile: V-VI sec.). La tesi di fondo dello scritto è la convinzione, basata su Genesi 6, 1-4 e comune agli ambienti cristiani del II e III secolo, che la filosofia abbia trovato la sua origine nell’apostasia degli angeli (ajpo; th'" tw'n ajggevlwn ajpostasiva": cap. 1, ll. 4-5). Altri temi trattati sono quelli dell’anima, dell’universo e dei princìpi della natura. 3561

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Ermino Tra i filosofi pagani citati, Platone occupa un posto irrilevante e nessuna menzione è fatta di medioplatonici o di neoplatonici (motivo in più per rifiutare la datazione bassa); a parte il titolo e l’introduzione, lo scritto non contiene riferimenti a dottrine cristiane; piuttosto, mostra evidenti influenze ciniche e scettiche. Secondo Kindstrand l’autore apparterrebbe al movimento classicista, dominante a partire dal I sec. d. C. Modelli letterari dell’Irrisio sono Taziano e la tradizione diatribica, comica, della satira menippea, e dossografica; sicuramente Luciano, anche sul piano artistico. L. Alfonsi - R.L. Cardullo BIBL.: H. DIELS, Doxografi Graeci, Berlin 1879, pp. 649-656, tr. it. di L. Torraca, Dossografi greci, Padova 1961, pp. 429-437; HERMIAS, Satire des philosophes païens, tr. fr. a cura di R.P. Hanson - D. Joussot, Paris 1993. Su Ermia l’Apologeta: J.F. KINDSTRAND, The Date and Character of Hermias’ Irrisio, in «Vigiliae Christianae», 34 (1980), pp. 341-350; R. BAUCKHAM, The Fall of the Angels as the Source of Philosophy in Hermias and Clement of Alexandreia, in «Vigiliae Christianae», 39 (1985), pp. 313-330; J.H. WASZINK, s. v., in T. KLAUSER et al. (a cura di), Reallexikon für Antike und Christentum, XIV-110, Stuttgart 1988, coll. 808-815; J.F. KINDSTRAND, s. v., in R. GOULET (a cura di), Dictionnaire des Philosophes Antiques III, Paris 2000, pp. 637639.

ERMINO (´Ermivno"). – Filosofo peripatetico, Ermino originario di Pergamo, vissuto intorno alla metà del sec. II d. C. Maestro di Alessandro di Afrodisia (Simplicio, Commentario al de caelo, p. 430, ed. Heiberg), intrattenne rapporti epistolari con il famoso medico Galeno, conosciuto forse in occasione del comune discepolato presso Aspasio il Peripatetico. È rimasta notizia dei suoi commenti ad alcune parti dell’Organo aristotelico, tra cui le Categorie, il De interpretatione, gli Analitici primi e i Topici; ma di questi scritti rimangono soltanto scarsi frammenti e le testimonianze lasciate specialmente da Simplicio e Porfirio. A proposito della causa prima del movimento celeste, sembra che Ermino si allontanasse dalla dottrina aristotelica, preferendo accogliere quella platonica, perché, a suo giudizio, la concezione accademica dell’anima spiegava meglio il rapporto proporzionale che intercorre fra l’azione del motore e il suo effetto. Alla presenza di Alessandro d’Afrodisia – secondo quanto ricorda Simplicio (ibi, p. 380-383) – Er3562

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minio avrebbe affermato che principio del movimento astrale non è il motore immobile, bensì l’«anima del mondo», dato che «nessun corpo finito ha per propria natura la forza di muoversi perennemente». G.F. Pagallo BIBL.: SIMPLICIO, De caelo, ed. J.L. Heiberg, Berlin 1894, pp. 380, 383 ss.; H. SCHMIDT, De Hermino peripatetico, Marburg 1907; P. MORAUX, Der Aristotelismus bei den Griechen. II: Der Aristotelismus im I. und II. Jh. n. Chr., Berlin 1984, pp. 361-398, tr. it. L’Aristotelismo presso i Greci, II 1: Gli Aristotelici nei secoli I e II d.C., intr. di G. Reale, Milano 2000, pp. 347-381.

ERMIPPO Ermippo di Smirne (“Ermippo") DI SMIRNE. – Erudito e biografo di orientamento peripatetico, vissuto nel sec. III-II a. C.; fu chiamato anche «callimacheo», in quanto scolaro di Callimaco di Cirene, di cui proseguì l’insegnamento erudito, mettendo a profitto le risorse della biblioteca di Alessandria, città in cui visse a lungo. Compose probabilmente un poemetto intitolato Fenomeni, ma la sua attività maggiore, non priva di importanza (a lui ricorre di frequente Diogene Laerzio nelle Vite dei Filosofi), si diresse a raccogliere notizie sulla vita, oltre che di filosofi (sono attestate, fra le altre, le biografie di Pitagora, Gorgia, Aristotele), di personaggi a vario titolo illustri (è più volte citato da Plutarco per la vita di Licurgo); e a redigere cataloghi delle opere scritte da esponenti della scuola peripatetica (ad es. Teofrasto). Nelle sue scritture amò far uso di aneddoti inverosimili e falsificazioni, con grave pregiudizio della dossografia posteriore che ne subì l’influsso. G.F. Pagallo BIBL.: testi e frammenti: F. WEHRLI, Hermippos der Kallimacheer, Basel-Stuttgart 1974; F. JACOBY, «Die Fragmente der griechischen Historiker» Continued, IV A 3: Hermippus of Smyrna, a cura di J. Bollansée, Leiden 1999. Su Ermippo di Smirne: H. HEIBGES, s. v., in A. PAULY, Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, a cura di G. Wissowa, VIII, Stuttgart 1913, coll. 845-854; I. DÜRING, Ariston or Hermippus? A Note on the Catalogue of Aristotle’s Writings, Diog. L. V 22, in «Classica et mediaevalia», 1956, pp. 11-21; E. ZELLER, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, a cura di R. Mondolfo, II, VI, a cura di A. Plebe, Firenze 1966, pp. 530-531; J.-P. SCHNEIDER, Hermippe de Smyrne, in R. GOULET (a cura di), Dictionnaire des Philosophes Antiques, III, Paris 2000, pp. 655-658. Su Ermippo come biografo: F. LEO, Die griechisch-römische Biographie nach ihrer literarischen Form, Leipzig

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1901; O. GIGON, s. v., in C. ANDRESEN et al. (a cura di), Lexikon der alten Welt, Zürich-Stuttgart 1965; A. MOMIGLIANO, The Development of Greek Biography, Cambridge (Massachusetts) 1971, tr. it. Torino 1974.

ERMODORO Ermodoro di Siracusa (ÔErmovdwro") DI SIRACUSA. – Accademico, incontrato da Platone durante la visita in Sicilia. Nell’antichità si diffuse la storia del commercio che avrebbe fatto dei libri di Platone – da cui il verso comico lovgoisin ÔErmovdwro" ejmporeuvetai: la notizia (Filodemo, Academicorum Historia, col. 6, 6-10; Cicerone, Ad Attico, XIII, 21, 4; Suda, III, 281, A. Adler, Suidae Lexicon, Lipsiae 1928-38, 5 voll.) risale forse a una fonte antiaccademica. Compose una biografia di Platone: vi si riferiscono Diogene Laerzio (Vite dei Filosofi, II, 106 e III, 6), per la fuga di Platone a Megara dopo la morte di Socrate; e Simplicio (Commentario alla Fisica, 247, 30), per la famosa lezione platonica «Sul bene», e per una riduzione degli opposti in «per sé» e «relativi» e, di questi, ancora, in «determinati» e «indeterminati» (Testimonia Platonica, 13 Krämer, in H. Krämer, Platone e i fondamenti della metafisica, Milano 1982, appendice III). La teoria è una divisione categoriale dell’essere, più complessa, ma simile a quella attestata per Senocrate (F 95 Isnardi) ed è talora avvicinata a quella di Sesto Empirico (Contro i Fisici, X, 248-83, in Testimonia Platonica, 12 Krämer). Essa attesta il passaggio accademico dalla teoria delle idee a quella dei principi, benché Ermodoro neghi all’indeterminato (cui rimontano i «relativi») lo statuto di principio, ascrivibile solo all’uno (cui rimontano i «per sé»). Scrisse una storia delle scienze (o della matematica) da Zoroastro in poi, di cui restano frammenti (Diogene Laerzio, op. cit., I, 2 e 8; Plutarco, Iside e Osiride, 46, 369 e) connessi alla credenza che Platone fosse Zoroastro redivivo e alla religione astrale: forse lo scritto fu redatto da Platone stesso durante il soggiorno siracusano e da lui poi rigettato (Epistola VII, 341 b-c). L. Napolitano BIBL.: P. NATORP, in A. PAULY, Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, a cura di G. Wissowa, VIII, 1, Stuttgart 1912, col. 861; M. ISNARDI PARENTE, Studi sull’Accademia platonica antica, Firenze 1979, pp. 123-132, e Senocrate-Ermodoro. Frammenti, La scuola di Platone III, Napoli 1982; H.J. KRÄMER, Platone e i fondamenti della metafisica, Milano 1982, pp. 400-403; H.J. KRÄMER, Die Ältere Akademie, in F.

Ernesti UEBERWEG - H. FLASHAR, Grundriss der Geschichte der Philosophie. Die Antike, III, Basel 1983, pp. 121, 128, 148; H. DÖRRIE, Der Platonismus in der Antike, Stuttgart - Bad Cannstatt 1987, pp. 80-89, 294-308; F. LASSERRE, De Léodamas de Thasos à Philippe d’Oponte. Témoignages et fragments, Napoli 1987, pp. 215-223, 425-430 e 667-680; M. ISNARDI PARENTE, Addendum a Ermodoro, in «Parola del Passato: rivista di studi antichi», 42 (1987), pp. 292-294; M. ISNARDI PARENTE, Supplementum Academicum: per l’integrazione e la revisione di Speusippo, «Frammenti», e Senocrate-Ermodoro, «Frammenti», in «Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei», 392 (1995), pp. 249-309.

ERN, VLADIMIR FRANCEVIC. – Pensatore russo, Ern n. nel 1881, m. nel 1917. Opere: Bor’ba za Logos (Lotta per il Logos), Moskva 1911; G.S. Skovoroda. Zizn’ i ucenie (G.S.Skovorod. Vita e dottrina), ivi 1912; Priroda mysli (La natura del pensiero), ivi 1914; Rosmini i ego teoria poznanija (Rosmini e la sua teoria della conoscenza), ivi 1914; Filosofija Gioberti, ivi 1916. Sul piano teoretico combatte appassionatamente la tendenza razionalistica del pensiero occidentale contemporaneo, poiché gli sembra che questo, nel processo d’una sempre più radicale soggettivazione trascendentale abbia disperso il contenuto prezioso dell’esperienza spirituale. A tale «logicismo» formale e astratto Ern contrappone la sua «lotta per il Logos», ossia per «la ragione considerata fuori d’ogni sua astrazione dalla viva e concreta realtà». Soltanto sul piano di essa si può, secondo Ern, giungere a una visione ontologicamente comprensiva della vita, che gli si prospetterebbe in termini d’una concezione realistica, personalistica e cristiana. Il contributo più valido a tale concezione fu dato, pensa Ern, dal pensiero filosofico russo e in modo particolare dalla metafisica di V. Solov’ëv. L. Gancikov BIBL.: B. SCHULTZE, Pensatori russi di fronte a Cristo, Firenze 1949, vol. II, pp. 149-152.

ERNESTI, Ernesti JOHANN AUGUST. – Pedagogista, filologo e teologo, n. a Tennstedt presso Erfurt il 4 ag. 1707, m. a Lipsia l’11 sett. 1781. Iscrittosi nel 1726 all’università di Wittenberg e nel 1728 a quella di Lipsia compì studi filologici, teologici, filosofici e matematici. Dopo aver ottenuto nel 1730 il titolo di magister, venne nominato nel 1731 co-rettore della Thomasschule di Lipsia e, nel 1734, come successore di J.M. Gessner, rettore. Nel 1742 fu chiamato, 3563

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Ernst come straordinario litterarum humaniorum, all’università di Lipsia dove, nel 1756, ottenne la qualifica di ordinario di Eloquenza. Conseguito il titolo di dottore in Teologia, ricoprì dal 1759 tale insegnamento presso la facoltà teologica. Considerato, con Gessner, il riformatore della formazione umanistica in Germania e unanimemente additato all’epoca come Germanorum Cicero, Ernesti esaltò lo studio dei classici, soprattutto latini, quale sorgente primigenia di una vera autentica formazione spirituale. Mens, animus, ingenium, ratio, intelligentia, sensus, virtus, prudentia, cognitio: questo il contenuto e l’oggetto della formazione umanistica il cui obiettivo veniva da Ernesti identificato nella promozione di un’autonoma capacità di giudizio. Sostenitore della preminenza della lettura dei classici della letteratura latina, concepiti, segnatamente dal punto di vista del loro contenuto, come strumento, mezzo inesauribile di educazione, rispetto allo studio delle opere della letteratura greca, Ernesti è stato considerato il padre di un’ermeneutica biblica a carattere profano incentrata sulla esegesi filologico-storica del Nuovo Testamento concepito come un testo suscettibile, al pari di ogni altro testo, di analisi critica rigorosa. La sua Institutio interpretis Novi Testamenti pubblicata a Lipsia nel 1761 ha di fatto costituito in ambito protestante il termine a quo della piena emancipazione esegetica dei testi sacri da una interpretazione di tipo dogmatico-allegorico, al tempo ancora dominante nel luteranesimo tedesco. I. Volpicelli BIBL.: F.C. ILGNER, Die neutestamentliche Auslegungslehre des Johann August Ernesti (1707-1781): ein Beitrag zur Erforschung der Aufklärungshermeneutik, Leipzig 2002.

ERNST, OTTO (Otto Ernst Schmidt). – PedaErnst gogista tedesco, n. a Ottensen (Amburgo) il 7 ott. 1862, m. a Grossflottbeck il 5 mar. 1926. Decisamente antiherbartiano, combatte, sulla scorta di P. Natorp, la disciplina implacabile e sistematica e, appassionatamente, difende la spontaneità e libertà del fanciullo. In Ernst l’ispirazione romantica e idealistica prende prevalentemente le forme dell’arte: del dramma, della commedia, piuttosto che quella del trattato e dell’opera sistematica. I caratteri, in particolare la figura del maestro Flemming (il protagonista del suo capolavoro: Flachsmann 3564

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als Erzieher: eine Komödie in drei Aufzügen, Leipzig 1907, tr. it. di A. Mozzinelli, Flachsmann l’educatore: commedia in tre atti, Catania 1914) e quella di Appelschnut (dell’omonima fantasticheria dialogata: Appelschnut, Leipzig 1909) rivelano il pensiero dell’autore: solo l’educazione estetica può creare l’equilibrio tra la sensibilità e lo spirito, tra la natura e la legge e risolvere l’obbligatorietà del dovere in libertà, in felicità (cfr. Die Feinde der künstlerischen Erziehung, Hamburg 1902). N. Ruspantini BIBL.: O. ERNST, Gesammelte Werke, Leipzig 1922-23. Su Ernst: F. CAMBI, Storia della Pedagogia, Roma 2002; W. BÖHM, Geschichte der Pädagogik: von Platon bis zur Gegenwart, München 2004.

ERNST, PAUL. – Saggista e scrittore tedesco, Ernst n. a Elbingerode (Harz) il 7 mar. 1866, m. a St. Georgen il 13 magg. 1933. Si dedicò dapprima a studi di teologia, che poi abbandonò insoddisfatto per occuparsi invece di estetica. In particolare, divenne teorico ed esponente del movimento neoclassico, cui in un primo momento aderì anche per il fascino esercitato su di lui dai novellieri italiani del Trecento (cfr. la raccolta di saggi Völker und Zeiten im Spiegel ihrer Dichtung. Aufsätze zur Weltliteratur, München 1940, postumo). Si avvicinò alle concezioni di Schiller sul dramma e polemizzò con gli impressionisti, venendosi a trovare su posizioni non lontane da quelle dell’espressionismo. Red. BIBL.: Gesammelte Schriften, München 1928-392, 19 voll. (1916-22, 15 voll.). Singole opere: Der Weg zur Form, Berlin 1906; Ein Credo. Essays, Berlin 1912, 2 voll.; Der Zusammenbruch des deutschen Idealismus, Berlin 1918; Der Zusammenbruch des Marxismus, München 1919; Erdachte Gespräche, München 1921; Grundlagen der neuen Gesellschaft, München 1930. Su Ernst: R. FAESI, Paul Ernst und die neuklassischen Bestrebungen im Drama, Leipzig 1912; M. WACHLER, Der Denker Paul Ernst. Ein Weltbild in Sprüchen aus seinen Werken, München 1931; E. MATASSI, Lukács, P. Ernst e il dibattito sulla tragedia, in «Bollettino bibliografico per le scienze morali e sociali», 37-40 (1977), pp. 203-222; K.K. POHLHEIM, Paul Ernst und die Novell, in «Zeitschrift für deutsche Philologie», 103 (1984), pp. 520-538; J. BUCQUET-RADCZEWSKI, Die neuklassische Tragödie bei Paul Ernst (1900-1910), Würzburg 1993 (bibliografia pp. 159-173); H. CHÂTELLIER, Verwerfung der Bürgerlichkeit. Wandlun-

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gen des Konservatismus am Beispiel Paul Ernsts, Würzburg 2002.

ERODE ATTICO (ÔHrw/vdh" ´Attikov"). – RetoErode Attico re, n. a Maratona nel 101 d. C. e m. nel 177. Fu a Roma maestro di Marco Aurelio e console; tornato ad Atene, vi aprì una scuola, da cui uscirono i più rinomati rappresentanti della neosofistica di quell’epoca. Per lui la filosofia si fondeva con la filologia. Discussa è l’autenticità dell’orazione Peri; politeiva", tramandata col suo nome. Red. BIBL.: T. MUNSCHER, s. v., in A. PAULY, Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, a cura di G. Wissowa, VIII, Stuttgart 1893-1963, coll. 921954; W. AMELING, Herodes Atticus, I. Biographie; II. Inschriftenkatalog, Hildesheim 1983.

ERODOTO (ÔHrovdoto"). – Storico greco, n. Erodoto ad Alicarnasso, colonia dorica dell’Asia minore, negli anni delle guerre persiane, forse tra il 490 e il 480 a. C., m. non si sa dove (a Turi, secondo la testimonianza della Suda oppure, più verosimilmente, ad Atene), forse tra il 430 e il 425. Compì viaggi in quasi tutto il mondo allora conosciuto, e fu a lungo in Atene; con gli ateniesi partecipò alla colonizzazione di Turi nella Magna Grecia e ne diventò cittadino. Nella sua opera storica, convenzionalmente intitolata Storie e suddivisa in età ellenistica in 9 libri, Erodoto, pur avendo come obiettivo principale la narrazione delle guerre combattute tra greci e barbari (in particolare quella contro i persiani a cui dedicò specificamente gli ultimi tre libri), raccontò, spesso servendosi di ampie digressioni, pressoché tutta la storia che gli appariva non mitica, ampliando la prospettiva a tutte le popolazioni che erano entrate in contatto con i greci. Dichiarò d’aver avuto, nel comporre la sua opera (che propriamente definisce «indagine», «iJstorivh» termine che in greco indica propriamente la ricerca compiuta principalmente mediante l’osservazione diretta), il duplice intento di sottrarre all’oblio le imprese compiute tanto dai greci quanto dai barbari, e di discernere, tra le opere degli uomini, quelle che si distaccavano dalle altre come grandi e meravigliose, degne di gloria. L’ampia prospettiva storiografica, non ellenicocentrica ma aperta all’analisi culturale degli altri popoli, e il metodo d’indagine, fonda-

Erodoto mentalmente basato sull’autopsia e sulla ricerca delle fonti primarie, fanno attualmente di Erodoto un precursore della storiografia geografico-etnografica che si integra con quella storica. A una prima lettura il pensiero erodoteo potrebbe apparire intriso di contraddizioni: ad esempio Erodoto talora considera la polis democratica, in particolare quella ateniese, come la forma di governo migliore, altre volte pare consideri tale la monarchia; contraddittorio sembra anche il ruolo che Erodoto assegna agli uomini: a volte considera le loro brame come motrici della storia stessa, altrove giudica tutti gli eventi come già determinati in maniera ineluttabile. A risolvere le aporie, fu tentata da Jacoby la strada di giudicare le Storie come una giustapposizione di monografie separate, scritte in momenti diversi: attualmente, pur rilevando nell’opera diversi piani narrativi, si ritiene, grazie all’apporto dell’antropologia, che il pensiero di Erodoto si strutturi secondo categorie giustapposte proprie del pensiero «arcaico», quindi non ancora revisionate dal razionalismo critico del V secolo, che si ricollegano direttamente all’epos omerico col quale sono evidenti numerosi punti di contatto, sia dal punto di vista della tecnica compositiva e della modalità di comunicazione (Erodoto, come Omero, aveva un approccio «globale» e non analitico della realtà e privilegiava la trasmissione orale della sua opera attraverso pubbliche letture come testimoniano numerose fonti antiche) sia per l’intento, comune anche all’epica, di costituire mediante la narrazione storica una «memoria» collettiva ampiamente condivisa e capace di superare i tempi. Ne consegue, quindi, che, se la composizione delle Storie è stratificata ma nel complesso omogenea, non si può dire che il pensiero erodoteo sia contraddittorio. Se di contraddizione si deve parlare, questa è propria del vivere storico, ed Erodoto la riscontra, senza tuttavia formulare delle teorizzazioni esplicite. Un esempio significativo è l’atteggiamento verso il mito: se talora accoglie le versioni offerte dalla tradizione, quando appaiono verosimili, Erodoto è spesso polemico nei confronti delle vicende mitologiche (p. es. come nel libro II, 113, si dimostra scettico verso l’affidabilità del mito riguardo la storia di Elena), cercando in questo modo di trasformare in storia la tradizione. 3565

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Erodoto Epicureo Particolare rilievo è assegnato al ruolo del singolo uomo, sia esso greco o barbaro, il quale aspira a qualcosa di ben fermo e certo, la propria felicità, che prende da un lato forma del desiderio di ottenerla e dall’altro paura di non conseguirla; d’altra parte, dallo squilibrio inevitabile ch’è tra queste opposte conseguenze, nasce il dolore dell’uomo (sul cui destino Erodoto tiene fermo lo sguardo, anche per suggestione della contemporanea esperienza della tragedia attica, in particolare di quella di Sofocle). Qui sta la contraddizione della storia, ed Erodoto ebbe l’ardire di assumerla a sostanza del suo racconto. A raffigurare lo squilibrio che genera l’infelicità umana, lo storico si servì a volte del concetto di «invidia degli dei» («fqovno" qew'n») intendendo con questa espressione la volontà divina che contrasta, o sempre o alla fine, con l’anelito dell’uomo a durevole felicità mediante l’azione degli dei invidiosi e sovvertitori, che rovesciano le fortune dei mortali. Pessimistica apparve la filosofia d’Erodoto per questa sua limpida certezza della contraddizione storica; ma Erodoto ebbe ancora un’altra certezza: è dato all’uomo teoreta di placare l’ansia del cuore nell’accettazione della legge del mondo, nella consapevolezza della contraddizione che s’origina dalla brama e dalla paura; di vivere nell’energia della sapienza teoretica. La valutazione, che trasforma in opera storica il racconto dei fatti accaduti, ebbe qui, nella duplice certezza della contraddizione necessaria e della libera teoresi, il suo criterio univoco. A. Maddalena BIBL.: edizioni: H.B. ROSÉN, Herodotus. Historiae, Stutgardiae - Lipsiae 1987-97; praticamente completa l’edizione dei singoli libri presso la «Fondazione Valla» (con tr. it. e commento). Studi: F. JACOBY, s. v., in A. PAULY - C. WISSOWA, Paulys Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, suppl. IV, Stuttgart 1893-1963, (ora in Griechische Historiker, Stuttgart 1956); G. DE SANCTIS, La composizione della storia di Erodoto, in «Rivista di Filologia e di Istruzione classica», 1926 (ora in Studi di storia della storiografia greca, Firenze 1951); K.A. PAGEL, Die Bedeutung des aitiologischen Moments für Herodotos Geschichtsschreibung, Leipzig 1927; F. FOCKE, Herodotos als Historiker, Stuttgart 1929; O. REGENBOGEN, Herodotos und sein Werk, in «Die Antike», 1930 (ora in Kleine Schriften, Monaco 1961); F. HELLMANN, Herodotos Kroisos - Logos, Berlin 1934; G. DE SANCTIS, Il «logos» di Creso e il proemio della storia erodotea, in «Rivista di Filologia e di Istruzione classi-

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ca», 1936 (ora in Studi di storia della storiografia greca, Firenze 1951); K. WÜST, Politisches Denken bei Herodotos, Würzburg 1936; M. POHLENZ, Herodotos, der erste Geschichtsschreiber des Abendlandes, Leipzig 1937, ripr. Hildesheim 1961; F. EGERMANN, Das Geschichtswerk des Herodotos. Sein Plan, in «Neue Jahrbücher», 1938; A. MADDALENA, Interpretazioni erodotee, Padova 1942; E. HOWALD, Vom Geist antiker Geschichtsschreibung, München 1944; F. EGERMANN, L’umano e il divino in Erodoto, in «Studi di filosofia greca in onore di R. Mondolfo», Bari 1950; J.L. MYRES, Herodotus, the Father of History, Oxford 1953; A. MOMIGLIANO, Erodoto e la storiografia moderna, in «Aevum», 1957 (ora in Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960); A. MOMIGLIANO, The Place of Herodotus in the History of Historiography, in «History», 1958 (ora in Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960); S.H. ROSEN, Herodotus Reconsidered, in «Giornale di Metafisica», 1963, pp. 194-218; H.R. IMMERWAHR, Form and Thought in Herodotus, Cleveland 1966; C.W. FORNARA, Herodotus. An Interpretative Essay, Oxford 1971; H. VERDIN, De historisch-kritische methode van Herodotos, Bruxelles 1971; A. MASARACCHIA, Studi erodotei, Roma 1976; V. HUNTER, Past and Process in Herodotus and Thucydides, Princeton 1982; A. CORCELLA, Erodoto e l’analogia, Palermo 1984; A. BELTRAMETTI, Erodoto: una storia governata dal discorso, Firenze 1986; J. GOULD, Herodotus, London 1990; J. ROMM, Herodotus, New Haven - London 1998; R. BICHLER - R. ROLLINGER, Herodotos, Darmstadt 2000; M. DORATI, Le Storie di Erodoto: etnografia e racconto, Pisa-Roma 2000; TH. HARRISON, Divinity and History. The Religion of Herodotus, Oxford 2000; R. THOMAS, Herodotus in Context: Ethnography, Science and the Art of Persuasion, Cambridge 2000; J. SCHULTE-ALTEDORNEBURG, Geschichtliches Handeln und tragisches Scheitern. Herodotos Konzept historiographischer Mimesis, Berlin-Bern 2001.

ERODOTO Erodoto Epicureo EPICUREO. – Amico e scolaro di Epicuro, destinatario di una importante lettera del maestro, l’Epistola ad Erodoto (una delle tre che ci sono state conservate), in cui è riassunta la fisica epicurea contenuta nel Peri; fuvsew" e pure la dottrina dell’anima. Erodoto scrisse con Timocrate un libro Sull’efebia di Epicuro (Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, X, 4). Altre notizie in Diogene Laerzio, op. cit., X, 85 (cfr. anche X, 35). T. Dorandi

EROE (h{rw", heros; - hero; Held; héros; héroe). – Eroe L’eroe è espresso più pienamente nella Grecia antica, dove ha valore di modello etico, benché sia comune a tutte le mitologie e rifletta

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l’istanza di vedere attuate in un essere semidivino le proprie aspirazioni di grandezza e la propria storia. In Omero l’eroe è il più valente in guerra o saggio nel consiglio (S.L. Schein, The Mortal Hero [Iliade], Berkeley 1984; G. Nagy, The Best of the Achaeans: Concepts of the Hero in Archaic Greek Poetry, Baltimore-London 1986; D.A. Miller, The Epic Hero, Baltimore-London 2000): tale idea, arricchendosi nell’evoluzione della coscienza greca, permane nei secoli successivi. Il concetto che Platone e Aristotele hanno dell’uomo nobile (A. Hobbs, Plato and the Hero, Cambridge 2000) risente dell’etica aristocratica, dell’areté eroica dell’arcaismo: l’eroe epico deve avere la virtù appunto eroica, che eleva l’uomo e lo assimila al divino (Plotino, Enn., VII 1, 1145 a 20). Accanto all’eroe mitico (e tragico: B. Knox, Oedipus at Thebes: Sophocles’ Tragic Hero, New Haven - London 1998), di cui è caratteristica la partecipazione all’umano e al divino in un processo di ascesa o discesa dall’una all’altra condizione, il mondo greco presenta l’eroe nel culto: C. Antonaccio, An Archaeology of Ancestors. Tomb Cult and Hero Cult in Early Greece, Lanham 1995; L. Farnell, Greek Hero Cults, Chicago 1995 rist., originale 1921; R. Hägg (a cura di), Ancient Greek Hero Cult, Stockholm 1999. Nel mondo romano eroe è un cittadino che ha servito la patria, per lo più condottiero e/o politico (O. Stoll, Römisches Heer und Gesellschaft, Stuttgart 2001); alcuni eroi sono venerati da una fazione, ad es. Catone Uticense dai repubblicani. Nel cristianesimo eroe è chi imita Cristo: il martire, poi l’asceta (I.S. Kozik, The First Desert Hero: St. Jerome’s Vita Pauli, Mount Vernon 1968); la scolastica elabora il concetto di virtù «eroica» in termini di filosofia classica. Nel Medioevo eroe è il cavaliere che difende la cristianità: il paladino di Carlo Magno, il crociato ridestano l’esaltazione della valentia unita all’alto ideale religioso. L’eroismo è meno sentito nel Rinascimento e spesso se ne afferma la caricatura: il valoroso condottiero o sagace statista sembra preoccupato innanzitutto della propria fortuna particolare. Il romanticismo riscopre una condizione eroica superumana: in reazione all’illuminismo, aspirando all’infinito scorge nell’eroe la presenza del divino nel mondo, nesso tra contingente ed eterno. Per contrasto con la cultura empiristica inglese e la democrazia parlamentare, Th. Carlyle si richiama a un’etica indivi-

Eroe dualistica ed esalta gli uomini più dotati di power of insight, in grado di attuare i valori più elevati, in una concezione della storia guidata dai supremi condottieri dell’umanità, gli eroi (On Heroes and Hero-Worship and the Heroic in History, tr. it. Torino 1936; K. Momm, Der Begriff des Helden in Th. Carlyle, Freiburg im Breisgau 1986). La testimonianza più drammatica dell’eroe moderno è di Nietzsche, in Also sprach Zarathustra. Decretata la morte del Dio cristiano e invocato il superamento della morale tradizionale, l’uomo resta unico arbitro della sua grandezza. Le varie figure di eroi in Nietzsche corrispondono ai momenti della sua speculazione; il seguace di Dioniso opposto all’uomo socratico, lo spirito libero che elimina i pregiudizi della società, l’essere invincibile del mito tedesco scoperto nell’opera wagneriana. Ma queste figure sono superate da quella del superuomo, il cui avvento Zarathustra promette al popolo nel primo discorso (Gesammelte Werke, München 1923-29, XIII, pp. 8-9). Nietzsche celebra l’ultimo trionfo dell’individuo d’eccezione. M. Scheler, pur legato a temi romantici, pone l’eroe al primo posto dei valori vitali, ma vi scopre atteggiamenti diversi dalla volontà di potenza: autodominio, liberalità, perizia legislativa ecc. (Vorbilder und Führer, tr. fr. Le Saint, le Génie, le Héros, Lyon-Paris 1958). Oggi, dopo la caduta del mito nazista e di altre ideologie, la cultura sembra poco incline a riconoscere l’eroe, la cui esaltazione romantica spesso aveva significato la vittoria dell’irrazionale. I. Ramelli BIBL.: R. HÖISTAD, Cynic Hero and Cynic King, Uppsala 1948; M. PRAZ, La crisi dell’eroe nel romanzo vittoriano, Firenze 1952; P. HÄGIN, The Epic Hero and the Decline of Heroic Poetry, Solothurn 1964; J. STEADMAN, Milton and the Renaissance Hero, Oxford 1967; PH. SELLIER, Le mythe du héros, Paris-Montréal 1970; R.A. BROWER, Hero and Saint: Shakespeare and the GraecoRoman Heroic Tradition, Oxford 1971; R. TORRANCE, The Comic Hero, Cambridge-London 1978; P. PUCCI (a cura di), Language and the Tragic Hero, Atlanta 1988; F. FAJARDO, The Hero’s Failure in the Tragedy of Odysseus, Lewiston (New York) 1990; D. FOX, Refiguring the Hero: From Peasant to Noble in Lope de Vega and Calderón, University Park (Pennsylvania) 1991; J. CLAUSS, The Best of the Argonauts: the Redefinition of the Epic Hero, Berkeley 1993; S. MACKEY-KALLIS, The Hero and the Perennial Journey Home in American Film, Philadelphia 2001; S. SOCCI, Miti ed eroi nel cinema, Firenze 2001; I. LUZZANA CARACI, The Puzzling

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Erone Hero: C. Columbus, Roma 2002; W. JAEGER, Paideia, Berlin 1934, tr. it. Milano 2003.

ERONE (”Hrwn). – Matematico greco, la cui Erone cronologia, discussa fra gli storici, si tende a collocare oggi nella seconda metà del sec. I d. C. Direttore della scuola meccanica di Alessandria, fu inventore di varie macchine e dispositivi meccanici, che meritarono alle sue numerose opere, a partire dal Rinascimento, larga fortuna di traduzioni. Tra i suoi scritti di geometria, che costituiscono una delle principali fonti per ricostruire la storia della matematica antica, sono significativi alcuni frammenti di un Commento agli Elementi di Euclide, dove Erone sviluppa un metodo semi-algebrico per la dimostrazione delle proposizioni Elementi, II, 2.10, mostrando che non possono essere dimostrate senza ricorrere al disegno di almeno di una linea. Nelle Definizioni, un’opera composita e rimaneggiata, di cui è stata recentemente contestata la paternità, attribuendola a Diofanto, si è riconosciuto il tentativo di collegare strettamente le nozioni della geometria e della matematica a problemi e procedimenti empirici. Rientrano negli interessi di tale ricerca ad es. lo studio del piano inclinato e la composizione dei moti nel parallelogramma delle forze (nella Meccanica), e soprattutto la trattazione dei problemi legati alla misurazione, cui Erone dedica un gruppo di opere, fra le quali spicca la Metrica; in essa, tuttavia, la soluzione di problemi di geometria applicata, che ricorre anche all’uso di valori calcolati approssimativamente, si accompagna a uno sforzo teorico, espresso ad es. dall’adozione non di misure concrete, ma solo di numeri o unità. G.F. Pagallo - E. Cattanei BIBL.: H.J. WASCHKIES, Mathematische Schriftsteller, in H. FLASHAR (a cura di), Die Philosophie der Antike, 2/1: Sophistik, Sokrates, Sokratik, Mathematik, Medizin, Basel 1998, pp. 367-453, specialmente 396, 411, 426.

EROS (e[rw"). – Dopo alcune intuizioni di Eros Esiodo, di Parmenide e di Empedocle, il primo vero approfondimento del concetto di eros si ha con Platone, che considera l’amore come una mania, una tendenza non pienamente razionale (cfr. Phaedr. 250 a). Figlio di Poros (Povro" espediente) e di Penia (Peniva, indigenza; cfr. Conv., 203 c-d), eros è un demone, una forza mediatrice tra il sensibile e il soprasensibile, che consente all’anima umana di elevarsi fi3568

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no alla visione del mondo delle idee e del bello in sé. In tal senso, eros è nostalgia dell’eterno e dell’assoluto, e quindi ha un carattere acquisitivo, più che donativo. Platone distingue l’amore volgare (quello fisico) da quello celeste (spirituale, che ha di mira la bellezza in sé; cfr. Conv., 80 ss., 210-211). Aristotele ricorre al concetto di amore soprattutto per spiegare il ruolo di causa finale del motore immobile: in quanto è il meglio in sé, Dio muove l’universo come oggetto d’amore, cioè per attrazione. In tal senso, Dio può essere solo oggetto, ma non soggetto d’amore, perché l’amore implica sempre la mancanza di ciò a cui si tende. In età ellenistica questo concetto perde rilevanza (ma cfr. H. von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, Lipsiae 1903-24, vol. III, 716 ss., sull’agape, ajgavph), mentre viene rivalutato da Plotino (cfr. Enn., III, 5), che lo considera al contempo un dio, un demone e una passione dell’anima. Va infine rilevata la concezione dell’amore il Filone di Alessandria, che lo intende come dono e come grazia. E. Vimercati ➨ AGAPE; AMORE; MANIA.

ERRORE (error; Irrtum; erreur; error). – ConsiErrore ste nel ritenere vero ciò che è falso o falso ciò che è vero, sia in ambito cognitivo che pragmatico. O anche, atto cognitivo o pragmatico che viene successivamente riconosciuto come fallace. In senso cognitivo «erroneo» si differenzia da «falso» in quanto non tutte le affermazioni false sono riconosciute come erronee, così come possono non essere false le affermazioni riconosciute come erronee. Si danno numerosi ambiti sia teorici che pragmatici nei quali è riconosciuta la presenza dell’errore: etica, estetica, politica, economia, logica ecc. Il significato ordinario di «errore» così come quello di termini considerati intercambiabili – quali ingiusto, scorretto, sbagliato, inadeguato, inaccettabile, incoerente, inammissibile, falso, inesatto – subisce notevoli oscillazioni in funzione dell’ambito storico-culturale nel quale viene utilizzato e del contesto filosofico nel quale si trova. L’errore prevalentemente preso in considerazione in filosofia è l’errore teoretico, del giudizio, con il quale si assente a una proposizione falsa o si dissente da una vera; l’errore del giudizio è stato sfruttato da varie correnti scettiche come prova dell’inattendibilità della conoscenza umana, in quanto tutte le affermazioni che sono ritenute vere – sia sulla base

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dell’evidenza che per prova argomentata – potrebbero in realtà essere false, cioè erronee. E che la conoscenza possa essere tutta falsa è appunto ciò che lo scettico sostiene. Per quanto lo scetticismo come posizione filosofica non sia sostenibile, in quanto è contraddittorio (la sua affermazione che la conoscenza sia falsa pretende di essere vera), certamente agisce come potente monito alla valutazione dell’attendibilità della conoscenza, alla quale la filosofia, che si pone come conoscenza vera e giustificata, deve dare un’adeguata risposta. La soluzione del problema dell’errore è dunque di vitale importanza per l’ambito cognitivo e di grande rilevanza per quello pragmatico; si può dire che non ci sia pensatore che direttamente o indirettamente non l’abbia preso in considerazione. Va osservato che vengono messe in scacco dall’errore esclusivamente le posizioni epistemologiche forti, che pretendono di stabilire regole di conoscenza certe, vere e giustificate; tali posizioni per salvare la conoscenza si trovano nella necessità o di negare l’errore o di escluderlo dall’ambito cognitivo. Le epistemologie fallibiliste o non fondazioniste non subiscono la stessa smentita dall’errore, anche se resta loro l’onere di spiegare in che modo l’errore possa entrare nel percorso cognitivo senza trascinarlo nella deriva scettica. SOMMARIO: I. Il problema. - II. Pensiero antico. III. Pensiero medievale. - IV. Pensiero moderno. - V. Pensiero contemporaneo. - VI. Conclusione. I. IL PROBLEMA. – Accertata con un’ampia casistica fenomenologica la presenza dell’errore nei più diversi ambiti del pensiero e dell’azione umana, la domanda che dall’antichità greca i filosofi si sono posti è: come è possibile l’errore? A che cosa è dovuto? Così formulata la domanda implica una presupposizione unificante, dando per scontato che sia possibile trovare una risposta univoca e inducendo alla ricerca di una soluzione che valga per rendere conto dell’errore a prescindere dai diversi ambiti in cui lo si trova (errore sensoriale, del giudizio, dell’argomentazione, morale, estetico, diagnostico, scientifico, di valutazione, di comprensione, di categoria, di memoria ecc.). Si presuppone implicitamente che l’errore sia qualcosa di essenzialmente identico che si trova accidentalmente in contesti diversi e che compito del filosofo sia di analizzarlo e descriverlo in tale sua identità.

Errore Un approccio alternativo è quello di trovare spiegazioni proprie di ogni ambito e diverse una dall’altra a seconda dei diversi contesti di reperimento dell’errore, per cui si sostiene che gli errori dei sensi vanno spiegati dalla fisiologia, quelli cognitivi dalla psicologia o dall’epistemologia, quelli morali entro l’ambito eticoantropologico ecc. Da tale punto di vista non è possibile parlare di «errore» se non in modo equivoco; la filosofia deve assumersi il compito di mettere in luce e sciogliere l’equivocità; le resterà l’onere proprio di costruire una teoria dell’errore per l’ambito logico-epistemologico e cognitivo in genere, un’altra per quello etico, un’altra ancora per quello estetico, lasciando alle diverse discipline di spiegare gli errori loro propri, evitando l’assunzione di compiti e di presunzioni unificanti indebite. Sia chi considera l’errore come fenomeno identico reperibile in ambiti diversi, sia chi lo considera come diverso a seconda degli ambiti in cui compare, prende in considerazione l’errore come risultato oggettivo da spiegare, come dato di fatto; l’oggettività dell’errore non deve mettere in ombra la sua inscindibile soggettività, che accompagna qualunque tipologia di errore, sulla quale occorre riflettere adeguatamente. L’errore è sempre compiuto da un soggetto (non necessariamente esclusivamente umano e non necessariamente ed esclusivamente consapevole) che, per ragioni da chiarire, riconosce di non avere raggiunto un obiettivo che si era prefisso: «commettere un errore» e «riconoscere un errore» sono attività che non possono che essere compiute da un soggetto. La dipendenza da un soggetto consente di capire come mai la teoria della conoscenza sia l’ambito privilegiato per lo studio dell’errore; è la teoria della conoscenza che specificamente mette a tema il rapporto tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto; da tale punto di vista si può dire che una spiegazione adeguata dell’errore costituisce il banco di prova di una teoria della conoscenza. Riprendendo e meglio precisando i termini generali del problema, si può dire che l’errore ha un aspetto soggettivo e uno oggettivo che possono essere studiati separatamente, ma che esistono insieme; l’aspetto soggettivo dell’errore è il suo inerire a un soggetto, quello oggettivo è il suo essere relativo a qualcosa. I due aspetti devono coesistere perché ci sia errore. Il soggetto non può commettere un errore se non impegna la propria soggettività in un 3569

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Errore atto cognitivo, o pragmatico, relativo a qualcosa, che crede, asserisce, vuole, preferisce ecc., il che vuol dire che non si dà errore senza soggetto errante. Peraltro non si dà errore senza oggetto, cioè senza che ci sia qualcosa che può essere descritto come errato. Il soggetto per errare deve riferirsi a qualcosa; così come non ci sono errori indipendenti dai soggetti, neppure ci sono soggetti che errano senza che si possa dire in che cosa. L’imprescindibile aspetto soggettivo rende conto del fatto che ogni errore ha un’identità comune con qualunque altro, quello oggettivo spiega la differenza tra i vari errori, da riportarsi alle differenti occasioni nelle quali l’errore emerge. In tale ottica resta di competenza della filosofia l’esame dell’inerenza dell’errore al soggetto, da inserire in una cornice cognitiva, o antropologica, mentre possono passare di campo ed essere studiati dalle appropriate e diverse discipline gli ambiti di reperimento oggettivo dell’errore, quali la psicologia, l’economia, la logica, la fisiologia, la diagnostica ecc. Un carattere dell’errore messo in evidenza soprattutto dalle teorie idealistiche è la sua inattualità; dell’errore non si parla mai al presente, dicendo: «Sto commettendo un errore», ma sempre al passato: «Ho commesso un errore». Infatti, nel momento in cui l’errore è riconosciuto come tale, la sua erroneità è già superata. Ciò è vero, se, come sostiene l’idealismo, si considera lo spirito come il positivo che supera incessantemente il negativo, ma la teoria andrebbe precisata in modo da spiegare i casi in cui si afferma: «Mi sembra vero, ma può darsi che mi stia sbagliando», oppure: «Scelgo di fare così, ma può darsi che commetta un errore», nei quali la possibilità dell’errore è attualmente presente alla coscienza. Va tenuto presente che la tesi dell’inattualità dell’errore non è la tesi della negazione dell’esistenza dell’errore: il fatto che commettiamo errori di ogni genere resta, e resta l’onere per la teoria della conoscenza di renderne ragione. In sede storica nessuna teoria dell’errore è risultata accettata o preferita; nessuna delle numerose e divergenti proposte teoriche si è imposta sulle altre e tutte risultano funzionali rispetto al contesto teoretico nel quale sono state formulate, né ciò stupisce, vista la dipendenza delle teorie dell’errore da più generali prospettive gnoseologiche, epistemologiche, antropologiche, etiche. È perciò opportuno rintracciare almeno nelle linee storiche gene3570

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rali e nei pensatori più significativi le diverse proposte teoriche per la soluzione del problema dell’errore. Per agevolare la lettura va premesso, almeno in via di indicazione generale, che nella storia del pensiero filosofico gli orientamenti principali sull’errore sono stati di due tipi fondamentali. Entro un primo gruppo vanno comprese le teorie che hanno considerato l’errore come teoretico, cioè come possibilità costantemente in agguato di prendere il vero per falso – o il falso per vero – nel corso del procedimento conoscitivo; per un altro gruppo l’errore è invece ateoretico, va cioè imputato alla volontà o alle interferenze emozionali o all’ingerenza della sensibilità nel processo del conoscere. Chi ritiene che l’errore sia teoretico o propone correttivi o abbandona la conoscenza umana all’incertezza (esito scettico); chi propende per la ateoreticità dell’errore salva la conoscenza e propone un’antropologia nella quale gli ambiti di volontà e ragione, senso e intelletto non sempre sono sintonizzati. II. PENSIERO ANTICO. – In greco non c’è una parola per «errore». Il termine yeu'do" significa «bugia», «inganno», «impostura», ajmartiva ha il senso etico di «colpa», «trasgressione» e ajpavth è «inganno», «raggiro»; il diverso uso ne precisa di volta in volta il significato, che in taluni casi coincide con il latino error e con l’italiano «errore». La corrente sofistica respinse l’idea che si dia verità oggettiva e conoscenza vera, ma, paradossalmente e in un certo senso contraddittoriamente, si prefisse lo scopo di addestrare così bene all’argomentazione da rendere sostenibile qualunque tesi; in tal modo insegnava a evitare l’errore, inteso come risultato contrario alle intenzioni di chi discuteva. Il caso della sofistica mostra chiaramente che il campo dell’errore è diverso da quello di vero e di falso: mentre vero e falso sono esclusivamente proposizionali, l’errore può essere tale rispetto a intenzioni, propositi, scopi di chi discute. La paradossalità della sofistica consiste proprio nel contrasto tra l’ambito argomentativo, capace di sostenere sia una tesi che il suo contrario, e le intenzioni di chi argomenta, che hanno chiaramente in vista una tesi, fosse anche di dimostrare che non c’è la verità. La sofistica stessa, pur negando che ci sia la verità, o che ci sia qualcosa, o che il linguaggio esprima la realtà, ha ben presente lo scopo di addestrare i discepoli a evitare gli errori nel corso di

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una argomentazione o di una discussione, mostrando così che non tutto è uguale, sbagliare o non sbagliare, ma che non errare è preferibile a errare. Gli insegnamenti della sofistica sono utilizzati da Socrate come metodo per far emergere verità filosofiche; Socrate, nella testimonianza platonica, (Platone, Sofista, 230 be in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano 2001) confutava l’interlocutore richiedendogli di precisare con una definizione il tema in discussione e successivamente analizzava la definizione in modo da metterne in luce contraddizioni, conseguenze inaccettabili, mancanze. In tal modo l’interlocutore finiva per riconoscere la propria ignoranza e i propri errori. La confutazione costituiva una vera purificazione dalle opinioni infondate e superficiali, che erano dimostrate erronee; l’anima, così liberata dal fardello delle false certezze, poteva intraprendere la via della verità (Platone, Teeteto, 148 e - 151 d in Tutti gli scritti, cit.). Lo scopo che Socrate ha in vista con il suo metodo, detto maieutico, è quello di eliminare gli errori, sia nel senso di falsità che di oscuramenti della verità. Va notato che nel lessico platonicosocratico i termini «errore», «falsità», «opinione», «oscuramento della verità», «ignoranza», sono pressoché sinonimi. Platone mette a tema nel Sofista la questione dell’errore, inteso come sapere apparente, o falsa enunciazione; osserva che se la tesi parmenidea secondo la quale «l’essere è, il non essere non è» viene intesa in modo univoco come l’affermazione che il non essere non può essere né pensato, né detto, allora ne consegue l’impossibilità dell’errore, in quanto ogni affermazione rifletterà necessariamente l’essere. In tal caso non ci sarà distinzione tra sofista e filosofo, tra verità ed errore. È necessario allora che essere e non essere non siano intesi in necessaria reciproca esclusione, ma come capaci di partecipare l’uno dell’altro (con tale affermazione Platone compie il celebre «parricidio di Parmenide»), per cui, relativamente a qualcosa, sarà possibile che l’essere non sia o che il non-essere sia. Così ricontestualizzato, l’errore risulta comprensibile come un non essere rispetto alle determinazioni del soggetto, cioè un non essere relativo, e di conseguenza sarà possibile distinguere tra sofista e filosofo: il sofista è colui che produce «immagini», «imitazioni» non vere, e in tal modo inganna l’interlocutore, mentre il filosofo cerca di superare gli errori e di giungere alla

Errore verità. Platone ha così spiegato che cosa è l’errore da un punto di vista ontologico; resta da capire l’errore da un punto di vista antropologico, cioè come mai sia possibile che l’uomo sbagli. Platone osserva una discrepanza tra i dati della sensibilità e le conoscenze intellettuali; i primi sono mutevoli, instabili, incerti e producono dovxa, cioè opinione, mentre le conoscenze intellettuali, in particolare quelle matematiche, sono certe, vere, perfette, cioè ejpisthvmh. Per Platone dunque l’errore dipende dalla costituzione antropologica dell’essere umano, che è un composto di corporeità e di conoscenza intellettuale; gli errori, o inganni, o illusioni, provengono dalla fisicità, mentre la verità è possesso innato dell’uomo che va semplicemente recuperato come conoscenza esplicita e consapevole mediante l’anamnesi (Platone, Menone, Fedone, Repubblica, in Tutti gli scritti, cit.). Nella conoscenza intellettuale l’uomo, in particolare il filosofo, si libera dai sensi e giunge al mondo delle idee; quest’ultimo è colto intellettualmente, e in tale apprensione conoscitiva suprema, o novhsi", non c’è possibilità di errore. Aristotele condivide l’orizzonte lessicale platonico e utilizza senza una precisa differenziazione i termini yeu'do" e ajpavth, che rendono sia errore che falso, ingannevole, fallace. La messa a fuoco semantica delle singole occorrenze va chiarita di volta in volta in funzione del contesto. Dal punto di vista concettuale la questione dominante nel pensiero aristotelico è quella del vero e del falso, rispetto alla quale il tema specifico dell’errore è secondario. Aristotele dà una soluzione generale al problema del vero e del falso: «Il vero e il falso non sono nelle cose (quasi che il bene fosse il vero e il male fosse senz’altro il falso), ma solo nel pensiero; anzi, per quanto concerne gli esseri semplici e le essenze, non sono neppure nel pensiero», (Metaph., VI, 1027 b 25-29 tr. it. a cura di G. Reale, Milano 2000) che vale come indicazione generale da sottoporre a successive precisazioni. Da questo passo appare con chiarezza che anche il vero e il falso, come quasi tutti i concetti della filosofia aristotelica, non hanno un significato univoco, ma significati diversi a seconda dei piani di attribuzione, che in questo caso sono tre: piano della logica, della metafisica e dell’etica. In logica il vero e il falso sono una proprietà del pensiero. Si danno qui due casi. Nel primo il vero è dato dalla corrispondenza tra una co3571

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Errore sa reale e ciò che di essa viene affermato e il falso dalla mancanza della corrispondenza: «Sarà nel vero chi ritiene essere separate le cose che effettivamente sono separate ed essere unite le cose che effettivamente sono unite; sarà, invece, nel falso colui che ritiene che le cose stiano in modo contrario a come effettivamente stanno» (Metaph., IX, 1051 b 4-8). Nel secondo caso vero e falso si trovano nel ragionamento, che consiste nella connessione delle premesse alle conclusioni e che può essere compiuta correttamente o in modo erroneo; anche le premesse possono essere erronee, in quanto assunte dall’incerto ambito dell’opinione. Il campo dei possibili errori è molto vasto, e Aristotele ne dà un elenco dettagliato in Sofistici elenchi (tr. it. a cura di M. Zanatta, Milano 1995). Il pensiero posteriore chiamerà più precisamente tali errori di ragionamento «fallacie». In ambito metafisico c’è quella che il pensiero medievale chiamerà «verità ontologica» delle cose per intendere il livello di essere che ogni cosa ha, della quale Aristotele dice: «Ogni cosa possiede tanto di verità quanto possiede di essere» (Metaph., II, 993 b 30-31). Propriamente parlando, dal punto di vista ontologico possono esserci diverse gradazioni di essere, e dunque di verità, ma non si dà errore; può succedere che tale verità non sia colta, avverte Aristotele in De anima (430 a 27-28 tr. it. a cura di G. Movia, Milano 2001), ma non c’è errore, c’è semplicemente un «non pensare». Se non c’è falso ontologico, c’è però un senso ontologico di falso, per il quale è possibile dire che delle cose sono false «o perché esse stesse non esistono, ovvero perché l’immagine che da esse deriva è di una cosa che non esiste» (Metaph., V, 1024 b 24-26). Aristotele prende in considerazione anche il caso speciale degli esseri semplici, cioè non composti, relativamente ai quali non ci sono affermazioni vere o false nel senso di corrispondenza tra giudizio e realtà; relativamente a tali esseri «il vero è l’intuire e l’enunciare [...] mentre non coglierli significa non conoscerli» (Metaph., IX, 1051 b 25); è qui confermata la regola generale per la quale dove non c’è composizione non c’è errore, ma al più ignoranza. L’errore è impossibile anche relativamente ai sensibili propri, che sono le percezioni proprie di ciascun senso, come il colore per la vista o il suono per l’udito; ogni senso «non s’inganna sul fatto che un colore o un suono ci sia, ma su che cosa e dove sia l’oggetto colorato o sonoro» (De an., 418 a 15-17); 3572

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in tal caso l’errore è dovuto alla mancata corrispondenza tra pensiero e realtà, dunque rientra tra gli errori logici. In etica Aristotele affronta il problema del rapporto tra intelletto e volontà per spiegare gli errori etici. La soluzione aristotelica oscilla tra intellettualismo e volontarismo: da un lato sostiene la supremazia dell’intelletto rispetto alla volontà, supremazia codificata nel sillogismo pratico, ma afferma anche, dall’altro, una certa influenza della volontà sull’intelletto, che in qualche modo riflette la correlazione metafisica tra vero e bene. Il buono e il cattivo stanno all’intelletto pratico come il vero e il falso stanno a quello speculativo; da ciò sembra discendere la tesi, effettivamente sostenuta da Aristotele, che sia in nostro potere seguire il vizio e la virtù (De an.,1113 b 6). Ma tale affermazione va presa nel senso molto ampio per cui essere virtuosi o viziosi dipende da noi, e non nel senso ristretto per cui necessariamente seguiamo le conclusioni del giudizio pratico. In effetti Aristotele dichiara esplicitamente in più luoghi che è possibile agire contrariamente al miglior giudizio (ad esempio in De an., 433 a 1-10, o in Et. Nic., 111 a 8-11), riconoscendo che il giudizio pratico può diventare erroneo in quanto è influenzato da fattori non cognitivi. In particolare non è esclusivamente cognitivo quel carattere buono, con il quale si stabilisce quali azioni sono buone, che per Aristotele è determinante nella costituzione del giudizio pratico (Et. Nic., 1113 a 29-35). In conclusione l’errore, considerato nel suo significato focale, che è quello cognitivo, consiste nella mancata corrispondenza tra un giudizio e la realtà; a tale significato Aristotele ne affianca numerosi altri, in funzione del tema esaminato, che intrattengono rapporti di somiglianza più o meni stretti con quello principale, e che vanno rintracciati di volta in volta. La corrente scettica fondata da Pirrone volle raccogliere prove che dimostrassero l’inconsistenza della conoscenza umana e la sua incapacità di raggiungere la verità, sia a livello sensoriale che a livello concettuale, allo scopo di dimostrare che il saggio può raggiungere la felicità grazie alla sospensione del giudizio. In un’ottica in cui il vero e il falso non sono distinguibili, il tema dell’errore diventa rilevante come sussidio retorico per destabilizzare del tutto la conoscenza. Enesidemo raccoglierà dieci tropi per provare che né le cose, né la conoscenza, né la sensazione rappresentano ter-

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reni stabili e affidabili per il giudizio, in quanto ogni caso di presunta conoscenza vera può essere dimostrato erroneo opponendogliene uno che lo neghi e che risulti anch’esso vero. La conclusione è che per raggiungere una vita quieta e imperturbabile occorre sospendere il giudizio. Sesto Empirico, ancora più esplicitamente, dichiara «a ogni ragione si oppone una ragione di uguale valore» (Schizzi pirroniani, tr. it. a cura di A. Russo, Bari 1988, I, 12). Gran parte della produzione di Sesto è concentrata su una critica radicale e completa della filosofia precedente, con la quale egli prova che tutte le soluzioni filosofiche dogmatiche tradizionali sono tali da elidersi a vicenda. Altre correnti del pensiero tardo-antico, quali stoicismo, cinismo, epicureismo, eclettismo, affrontarono il problema dell’errore in modo marginale e non furono in grado di offrirne soluzioni soddisfacenti in quanto non elaborarono teorie della conoscenza e antropologie adeguate e complete. III. PENSIERO MEDIEVALE. – Nel pensiero medievale, volto a riconsiderare molti problemi filosofici alla luce della sapienza spirituale proveniente dalla religione, l’errore è spesso imputato all’uso della ragione naturale, allorché pretende di progredire prescindendo dalle conoscenze che solo la fede può darle; l’errore acquista in tal modo spesso anche le valenze di colpa e di peccato. Agostino fece della ricerca della verità l’impegno fondamentale della vita di ogni essere umano, mettendovi in gioco non solo la comprensione filosofica, ma, soprattutto, la salvezza eterna. Nel contesto agostiniano il concetto di errore non resta limitato all’ambito cognitivo o antropologico, ma è intriso del senso etico e religioso di peccato e di male. Non trovare la verità, per Agostino, non implica semplicemente un errore intellettuale, ma porta con sé l’impossibilità di raggiungere la salvezza cristiana. Mettere a fuoco il tema dell’errore, scandagliarne l’origine, trovare le vie per evitarlo diventano impegni ricorrenti della riflessione agostiniana. L’errore è generalmente definito da Agostino come «assentiri falsis», (Soliloquia, tr. it. a cura di D. Gentili, Soliloqui, in Opere, III/1, Roma 1970, II, 3.3, p. 436) o, con espressioni equivalenti, «falsi pro veri approbatio», (Contra Academicos, tr. it. a cura di D. Gentili, La controversia accademica, in Opere, III/1, Roma 1970, I, 4.11, p. 40), «putare esse quod non est», (Confessiones, tr. it. a cura di C.

Errore Carena, Confessioni, in Opere, I, Roma 1965, VII, 15.21, p. 204), «non solum rem falsam, sed etiam dubiam, quamvis vera sit, approbare» (Contra Academicos, cit., III, 14.32, p. 148). Agostino con queste espressioni distingue con precisione l’errore dal falso e dal dubbio: l’errore è assenso al falso o al dubbio, al punto che per il santo si è in errore anche quando l’assenso è dato a qualcosa di vero che però al momento sia conosciuto solamente come dubbio. L’accento è posto sull’adesione soggettiva come condizione dell’errore. Ma allora come vanno intesi il falso, e, il suo opposto, il vero? La risposta è netta: le cose, le percezioni, le sensazioni, le immagini, la visione intellettuale sono sempre vere; possono essere false nella misura in cui assomigliano in modo imperfetto a qualcosa di superiore, come lo stagno all’argento, o, nel caso delle immagini, se hanno una somiglianza imperfetta con gli oggetti reali da cui derivano. Si tratta di vero e falso intesi in senso ontologico, non logico. L’errore si differenzia dal falso così inteso in quanto comporta un’attività di assenso o approvazione da parte del soggetto a qualcosa di ontologicamente falso; e in tal caso l’assenso non produce conoscenza in quanto mancano la condizione della conoscenza autentica, che è assenso al vero. A conferma Agostino sovente ripete «nemo potest scire falsa», salvaguardando così le facoltà superiori di intelligenza e ragione dalla possibilità di errare. Dove si colloca allora l’assenso dal quale può derivare l’errore? Agostino non è molto chiaro su tale punto; in alcuni testi sembra attribuire l’errore alla volontà, in altri alla conoscenza sensibile – lapidariamente condannata con l’espressione «nulla falsitas sine sensu» – riferendosi a entrambe in quanto inclinazioni erranti dell’anima umana. Allora la celebre espressione agostiniana «fallor, ergo sum» va intesa non come l’agguato dell’errore alle capacità cognitive naturali dell’uomo, ma come la debolezza intrinseca dell’uomo, decaduto con il peccato, a raggiungere quella conoscenza intellettuale che non può sbagliare perché dipende in ultima analisi dall’illuminazione divina. Il tema dell’errore viene intrecciandosi con quello del male e della caduta dell’uomo nel peccato, che mette a repentaglio sia la sua comprensione sia la sua salvezza. L’errore è sempre un male, ma quando è relativo a cose del mondo non è un peccato, o lo è solo leggermente; è invece peccato in materia di fede. Appare dun3573

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Errore que chiaro che ciò che interessa Agostino non è tanto la spiegazione logica o psicologica dell’errore, tutto sommato non portata a un compiuto approfondimento, quanto la sua radice ontologica: l’errore è un’ulteriore prova, con il male e il peccato, della natura lapsa dell’uomo che, distolto dalla corporeità dalla pura visione intellettuale, è inclinato a quell’assenza di bene che è il male. Tommaso che pure ha a cuore il problema della verità, cui dedica il trattato De veritate, (Quaestiones disputatae de veritate, 1256-1259, Colonia 1475, tr. it. a cura di F. Fiorentino, Sulla verità, Milano 2005) non percepisce l’errore come un tema degno di speciale attenzione e lo tratta come corollario secondario nell’ambito della teoria della conoscenza. Per Tommaso l’uomo conosce in quanto il suo intelletto riceve intenzionalmente, cioè secondo le sue capacità e i suoi modi, le cose materiali non nella loro materialità, ma nella loro forma. La conoscenza è dunque un’adeguazione dell’intelletto e della cosa, e, più precisamente, la conoscenza è vera quando c’è adeguazione tra l’intelletto e la cosa, è falsa nel caso di una inadeguazione (De veritate, q. 1, art. 10, cit., p. 175). Vero e falso propriamente si trovano solo nel giudizio, con il quale l’intelletto e la cosa sono posti in relazione; non può esserci falsità quando una singola facoltà apprende un suo oggetto semplice e proprio, come quando la vista vede qualcosa o l’intelletto apprende i concetti. Come sorge l’errore? Come si distingue dal falso? Tommaso risponde con chiarezza a tali domande distinguendo l’errore non solo dal falso, ma anche dall’ignoranza. L’errore è approvare cose false invece che vere, dunque chi erra aggiunge all’ignoranza uno specifico atto di affermazione o di assenso; se si limitasse a restare nell’ignoranza non errerebbe. L’accento è posto su approbare, actum addere, assentire, rispetto ai quali sorge il problema: sono atti dell’intelletto o di altra facoltà? Il che vuol dire: l’errore va imputato all’intelligenza o alla volontà? Per chiarire questo punto occorre esaminare brevemente in quale relazione siano l’errare e il credere: l’errore può insinuarsi in ciò che si crede? Possiamo credere cose errate? Che cosa è propriamente «credere»? Chiarire che cosa sia il credere e quali relazioni abbia con l’errore è particolarmente importante per il teologo, che riflette sulla fede. Per Tommaso anche il credere, come il vero e il falso, si trova propriamente solo nel giudi3574

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zio; ma mentre è possibile formulare giudizi falsi, non è possibile credere cose false sapendo che sono false: crediamo il vero e non crediamo il falso (De veritate, q. 14, art. 1). Crediamo quanto l’intelletto riceve da una sollecitazione o da una ragione forte dalla parte dell’oggetto oppure da un moto deciso della volontà, che valuta conveniente o buono credere in qualcosa; il primo caso è quello della scienza, il secondo è quello della fede. Sia nella scienza che nella fede troviamo in azione gli stessi componenti: rappresentazioni intellettuali e assenso, che deriva dalla volontà. Assenso e volontà intervengono però in misura diversa nei due casi: nella scienza la rappresentazione intellettuale del processo razionale dimostrativo è forte al punto da determinare l’assenso; nella fede l’assenso non è determinato dalla rappresentazione intellettuale, che è insufficiente, ma dalla volontà. Dunque mentre nella scienza c’è conoscenza forte e assenso debole, nella fede c’è conoscenza debole e assenso volontario forte. Tommaso ammette in tal modo che il credente possa formulare perplessità puramente razionali circa l’oggetto di fede, in quanto in esso l’intelletto non ha soddisfatto le sue esigenze conoscitive. Ne consegue che non è possibile escludere, da un punto di vista intellettuale, di credere in cose false o, in altri termini, non è possibile escludere che l’errore – che è l’assenso al falso – entri in quanto crediamo. Possiamo ora tornare al problema di che cosa propriamente sia l’assenso, o l’approvazione, e da quale facoltà discenda. Tommaso è molto chiaro: l’assenso è un atto dell’intelletto determinato dalla volontà, e lo si trova in tutti i giudizi; è diverso dalla apprehensio, in quanto mentre l’assenso è in nostro potere, l’apprensione non lo è (o si capisce o non si capisce); l’assenso è un’attività. Dunque nell’assenso l’intelletto e la volontà cooperano, dando apporti che possono essere diversi. La posizione di Tommaso non è propriamente né intellettualistica, né volontaristica, ma deriva in modo coerente dalla considerazione unitaria dell’uomo, nel quale l’intelletto e la volontà non sono separati e indipendenti, ma sono attività del concreto uomo che è il soggetto unitario che agisce e opera nel mondo: la volontà in qualche modo agisce sull’intelletto, e l’intelletto sulla volontà. Così contestualizzato si può capire meglio che cosa intenda Tommaso dicendo che l’errore è l’assenso dato a una

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proposizione falsa (o negato a una vera): perché un giudizio venga formulato non è sufficiente l’intervento della sola capacità cognitiva, è necessario che la volontà aderisca al giudizio, cioè dia l’assenso; l’errore è reso possibile dallo sbilancio tra intelletto e volontà, in particolare da una conoscenza intellettuale debole e da un atto di volontà sproporzionato, eccessivo, che impegna il soggetto a sottoscrivere un giudizio non sufficientemente motivato. L’errore dunque capita, è un fatto, ma non mette a repentaglio l’intera conoscenza umana, allo stesso modo in cui in natura capitano le nascite mostruose, che non indeboliscono la specie: «Falsa opinio ita se habet in conoscibilibus sicut monstrum in natura corporali» (De veritate, q. 18, art. 6, cit., p. 1305). Nella scolastica post-tommasiana il problema dell’errore non ha dignità autonoma e viene preso in considerazione come corollario rispetto ai due problemi relativi alla natura del giudizio e alla natura dell’atto di fede. In modo approssimativo si possono distinguere due orientamenti, uno dei quali valorizza l’apporto dell’intelletto, l’altro quello della volontà. Gli appartenenti al primo gruppo si sforzano di spiegare l’errore rimanendo nell’ambito del giudizio e riportando l’assenso che caratterizza il giudizio a motivi intellettuali. Tra questi Duns Scoto, per il quale l’assenso è un atto dell’intelletto e la responsabilità dell’errore va attribuita al senso, che presenta all’intelletto cose false. Duns Scoto sottopone a sottile analisi anche l’atto di fede, chiedendosi come possa essere certo e libero insieme. La sua soluzione è che la volontà interviene perché la mente si applichi a determinati oggetti e per rimuovere ostacoli all’acquisizione di un habitus a credere, ma che l’intelletto, una volta posto di fronte all’oggetto, non può che assentire a esso. I secondi distinguono più nettamente tra le apprensioni intellettuali e l’assenso, che è svincolato dall’intelligenza e discende da un atto della volontà. Tra questi ultimi Ockham, per il quale l’errore dipende dalla volontà in quanto deriva da un assenso ingiustificato della volontà a una proposizione (Scriptum in librum primum sententiarum / Ordinatio, 13171319, Strasburgo 1483, ed. parziale in Scritti filosofici, a cura di A. Ghisalberti, Firenze 1991, II, q. 25). Per quel che concerne l’atto di fede Ockham distingue accuratamente tra ciò che può essere conosciuto con il contrassegno dell’evidenza, sia per ragione come per espe-

Errore rienza, e ciò che invece va accettato per fede; tra i due possono non darsi tangenze. IV. PENSIERO MODERNO. – Il pensiero moderno ai suoi inizi è segnato dallo sforzo di trovare una risposta ai numerosi filoni scettici presenti nella cultura cinquecentesca e dall’urgente bisogno socio-culturale, oltre che filosofico, di esprimere una filosofia capace di certezza e verità, in grado di dialogare con la nuova scienza post-galileiana e di porsi come punto di aggregazione e convergenza abile nel contrastare le numerose forze centripete presenti nella koiné colta. Montaigne aveva tratto i motivi decisivi a sostegno del suo scetticismo dall’osservazione dei numerosi errori in cui incorre la conoscenza umana (Essais, 1572-92, Bordeaux 1580, 2 voll.; Paris 1588, 3 voll.; tr. it. a cura di S. Garavini, Saggi, Milano 1970), e le sue riflessioni, per quanto non sistematicamente organizzate, s’imponevano come una sfida cui rispondere. Le osservazioni di Galileo mettevano in luce i vistosi errori della fisica scolastica, dando un’ulteriore spallata a quel costrutto sempre più chiaramente incapace di rendere conto dei dati di osservazione e di esperimento che si venivano accumulando in più campi del sapere. Una risposta filosofica al problema dell’errore era quanto mai urgente. Bacone nel suo progetto di rifondazione del sapere scientifico aveva cercato un rimedio agli errori, che egli chiama idola, cioè immagini della fantasia che turbano l’intelletto, (Novum Organum, London 1620, tr. it. a cura di P. Rossi, Nuovo organo, in Scritti filosofici, Torino 1975) per evitare i quali egli ritiene sufficiente proporre all’attenzione dello scienziato e del filosofo una nomenclatura degli errori tratta dall’osservazione. Gli errori per Bacone sono fondamentalmente di quattro tipi: idola tribus, che sorgono per una sorta di pigrizia spirituale che ci fa vedere conferme non adeguatamente sostenute dall’esperienza o dal ragionamento; idola specus, che sorgono in quanto siamo preda dell’abitudine e dell’educazione; idola fori, che sono inganni tesi dal linguaggio e idola theatri, dovuti al consenso che tributiamo a dottrine prestigiose. Si deve a Descartes lo sforzo teoretico più deciso per eliminare l’errore dalla filosofia. Per Descartes il modello che la filosofia deve assumere è quello delle discipline matematiche, che costituiscono l’unico campo del sapere esente da errore, cioè dotato di verità e di certezza. Partito dall’osservazione che la cono3575

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Errore scenza ordinaria, prevalentemente derivata dai sensi, è afflitta da errori di ogni genere, egli giunse alla conclusione che era necessario considerare falso tutto ciò su cui potesse avere il minimo dubbio, in quanto avrebbe potuto risultare erroneo (tale argomento è particolarmente sviluppato nella prima Meditazione, significativamente intitolata Delle cose che si possono revocare in dubbio [De iis quae in dubium revocari possunt], in Meditationes de prima philosophia, Paris 1641, tr. it. a cura di L. Urbani Ulivi, Meditazioni metafisiche, Milano 2001). Dagli errori dei sensi Descartes trae motivo per respingere tutta la conoscenza sensoriale, dall’avere a volte confuso tra sonno e veglia fa conseguire l’inaffidabilità di tale distinzione e dalla possibilità che un genio maligno ci inganni sempre trae la conclusione scettica che ogni conoscenza umana possa essere erronea. Descartes ricostruisce l’edificio della filosofia fondandolo sulla presunta certezza dei dati introspettivi (cogito); gli resta però comunque da spiegare il fatto dell’errore. Egli propone una soluzione originale, che espunge l’errore dall’ambito epistemologico e lo fa ricadere in quello della volontà: l’errore è ateoretico, ed è reso possibile dalla diversa estensione dell’intelletto e della volontà. L’intelletto è limitato, la volontà è illimitata: cadiamo in errore quando estendiamo la volontà a cose che l’intelletto non comprende, che gli appaiono come non evidenti, oppure non chiare o non distinte, sulle quali vuole comunque giudicare (Principia philosophiae, Amsterdam 1644, tr. it. a cura di C. Lojacono, I principi della filosofia, in Opere filosofiche, Torino 1994). La pretesa di certezza che contraddistingue la filosofia cartesiana è così messa al riparo dall’invasione destabilizzante dell’errore e lo scetticismo non costituisce più un esito mortale per la conoscenza. Descartes consegna ai posteri l’esigenza che la ragione filosofica esprima un sistema del conoscere immune da errori: di qui la frattura tra conoscenza intellettuale e volontà. La volontà, sede del giudizio, ma anche degli affetti e delle emozioni, verrà guardata con sospetto come la fonte dell’errore, ma anche del male morale, della sofferenza, del peccato. I pensatori del razionalismo, da Malebranche a Kant, accolgono sia il programma cartesiano di una comprensione razionale completa della realtà sia la frattura tra ragione e volontà, intelletto e sensibilità; volontà e sensibilità sono considerate come il luogo ideale in cui col3576

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locare gli aspetti non razionalizzabili del mondo e dell’uomo, e in particolare l’errore. Malebranche, entusiasta della filosofia cartesiana, condivide in pieno la teoria dell’errore di Descartes cui apporta alcune precisazioni (De la Recherche de la verité, Paris 1674-75, 2 voll.; Paris 1678, 3 voll.; Paris 1712, 4 voll.; tr. it. a cura di M. Garin, La ricerca della verità, Roma-Bari 1983). L’intelletto è la facoltà, totalmente passiva, di ricevere idee, e in esso non può esserci errore, in quanto l’errore è la conseguenza di un’attività; la facoltà che nell’anima è attiva è la volontà, dalla quale l’errore viene fatto dipendere: esso è sempre conseguenza dell’attività del giudicare, in particolare di quell’attività che è l’assenso. Per quanto ci siano svariate fonti di errore (senso, immaginazione, intelletto, passioni), la loro origine va comunque rintracciata nella volontà, che ci inganna con giudizi precipitati. Spinoza considera la volontà, non diversamente dal libero arbitrio, come un vocabolo privo di reale significato, il che gli preclude la spiegazione volontaristica dell’errore. Il sistema spinoziano è caratterizzato dalla stretta correlazione tra piano metafisico e piano gnoseologico: le idee e le cose si corrispondono e hanno il loro fondamento in Dio (Ethica ordine geometrico demonstrata, Amsterdam 1677, tr. it. a cura di E. Giancotti, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, Roma 1988). L’errore si pone come elemento di rottura della rete razionale della realtà e per spiegarlo Spinoza ricorre alla distinzione tra conoscenze chiare, adeguate e complete da un lato e conoscenze confuse, inadeguate e incomplete dall’altro. Le prime sussistono in Dio e sono ricevute dalla mente umana e in esse non può darsi errore o falsità (i due termini sono usati da Spinoza come sinonimi), le seconde sono conoscenze imperfette che le menti umane, particolari e incomplete, concepiscono in modo inadeguato e confuso. L’errore dipende dunque dai gradi relativi di attività e passività di chi conosce: il grado massimo di attività va riconosciuto a Dio, gradi inferiori alla mente umana a seconda dei generi di conoscenza che mette in atto. Leibniz tenta una via mediana tra teoreticità e ateoreticità dell’errore; nel capitolo Dell’errore, in Nouveaux Essais sur l’entendement humain, 1703-05 (cfr. in Oeuvres philosophiques et francoises, Amsterdam-Leipzig 1765, tr. it. a cura di D.O. Bianca, Nuovi saggi sull’intelletto umano, in Scritti filosofici, vol. II, pp. 652-666) riconosce sia errori della ragione,

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in particolare nella valutazione delle probabilità, che sviamenti imputabili alla volontà, quali distrazione, fretta, negligenza. Pascal si pone in netto antagonismo rispetto all’ottimismo razionale contemporaneo: parte infinitesima di un universo che gli sfugge, l’uomo per Pascal arriva al più a riconoscere l’impotenza della sua capacità conoscitiva. La conoscenza umana è votata all’errore e all’ignoranza: «L’uomo non è che un soggetto pieno d’errore naturale e ineliminabile senza la grazia. Nulla gli mostra la verità. Tutto lo inganna» (Pensées, Paris 1669-70, tr. it. a cura di A. Bausola e R. Tapella, Pensieri, opuscoli, lettere, Milano 1978, p. 436). La fonte principale dell’errore per Pascal è l’eterogeneità tra le due principali facoltà conoscitive dell’uomo, cioè i sensi e la ragione: «Essi mentono e si ingannano a gara» (ibi, p. 437). Va però riconosciuto che «gli apprendimenti dei sensi sono sempre veri» (ibid.), mentre l’immaginazione è maestra d’errore e di falsità in quanto non si lascia dominare dalla ragione e la inganna con false apparenze; altri principi d’errore sono le malattie, che alterano le sensazioni, come pure il giudizio, il nostro interesse, che ci rende parziali, le consuetudini, che ci fanno ritenere vero quanto dipende semplicemente dall’abitudine, l’amor proprio, la vanità. L’ampia casistica degli errori umani non fa che accumulare prove all’assunto pascaliano, che appunto dice della generale debolezza dell’uomo e della conoscenza, riscattabili solo dalla imperscrutabile grazia divina. Gli empiristi, che pure polemizzano con i razionalisti, ne condividono la premessa fondamentale per la quale ciò che è presente alla conoscenza sono le idee: in quanto semplice presenza, nelle idee non c’è errore. Entro tale contesto gli empiristi condividono sovente anche la soluzione razionalista della ateoreticità dell’errore, imputandolo non alla conoscenza, ma all’assenso, che è extra-teoretico. Non stupisce dunque che la soluzione di Locke al problema dell’errore sia stata ripresa quasi alla lettera da Leibniz, che pure è critico e polemico nei confronti di Locke. Dice Locke: «L’errore non è un fatto della nostra conoscenza, ma è un inganno del nostro giudizio, che assente a ciò che non è vero» (An Essay Concerning Human Understanding, London 1690, tr. it. a cura di C. Pellizzi e C. Farina, Saggio sull’intelligenza umana, Roma-Bari 1988, II, p. 804) e, poco oltre, elenca quattro ragioni fondamentali del-

Errore l’errore, pure riprese da Leibniz: mancanza di prove, mancanza della capacità di usarle, mancanza della volontà di vederle, errate misure della probabilità. Anche per Hobbes la filosofia è «conoscenza acquisita con il ragionamento» (Leviathan, London 1651, tr. it. a cura di A. Pacchi e A. Lupoli, Leviatano, Roma-Bari 1989, p. 538) e il ragionamento corretto non può mai essere erroneo: «Colui che ragiona correttamente su parole che comprende non può mai giungere a una conclusione erronea» (ibid.). L’errore deriva dall’esperienza rozza, non adeguatamente compresa grazie a un metodo razionale, e da congetture non pienamente dominate e, più in generale, dal contrasto tra facoltà della mente o tra passioni. Berkeley condivide l’assunto dominante per il quale abbiamo presenti le idee, e dichiara esplicitamente che se ci limitiamo a considerare le idee «nella loro nudità e schiettezza» (A Treatise Concerning the Principles of Human Knowledge, Dublin 1710, tr. it. a cura di S. Parigi, Trattato sui principi della conoscenza umana, in Opere filosofiche, Torino 1996, p. 197) non c’è nessun rischio di incorrere in errori; questi derivano dal fatto che, siccome le idee vengono espresse con parole, si consolida una connessione tra idee e parole dalla quale siamo indotti a ritenere che ogni volta che c’è una parola ci sia anche un’idea che le corrisponde; l’errore s’insinua nei casi in cui le parole sono vuote, cioè prive di idee corrispondenti. Lo scopo dell’impegno filosofico di Berkeley è proprio quello di indagare e dissolvere le principali cause dell’errore nella conoscenza umana. Hume accetta l’assunto filosofico a lui contemporaneo per il quale «tutti i materiali del pensiero sono ricavati o dal nostro sentire esterno o da quello interno; mescolarli e comporli è compito esclusivo della mente e della volontà» (An Enquiry Concerning Human Understanding, London 1748, tr. it. a cura di R. Gilardi, Ricerca sull’intelletto umano, in Ricerche sull’intelletto umano e sui principi della morale, Milano 1980, p. 147). Gli errori, anche quelli dei sensi, possono essere corretti dalla ragione, che spesso li dissolverà mostrando che un certo termine viene usato senza il minimo significato, cioè senza nessuna idea corrispondente (con ciò Hume riprende la soluzione di Berkeley), oppure mettendo in luce il fatto che sono state fatte connessioni erronee, come avviene quando c’è discrepanza tra mente e volontà. 3577

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Errore Kant si assume il compito filosofico, indicato dal motto di Bacone posto all’inizio della Critica della ragione pura, di porre il dovuto termine e fine all’infinito errore del pensiero («infiniti erroris finis et terminus legitimus», in Kritik der reinen Vernunft, Riga 1781, 17872, tr. it. a cura di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, riveduta da V. Mathieu, Critica della ragion pura, Bari 1959, p. 2). Lo scopo che Kant si prefigge è di dare un criterio che renda possibile distinguere infallibilmente la conoscenza dalla pseudoconoscenza; rispetto a tale scopo generale diventa fondamentale spiegare che cosa sia l’errore e come sia possibile che avvenga. Kant dà al problema dell’errore un soluzione generale, per molti versi insoddisfacente. L’errore, egli dice, si trova solo nel giudizio; non può essere dovuto al senso, che, preso da solo, non erra, e neppure all’intelletto, che segue le proprie leggi necessarie. Peraltro nel giudizio l’errore non si trova formalmente, in quanto il giudizio dal punto di vista formale segue necessariamente i principi conoscitivi; non resta che imputarlo a un altro ambito, e precisamente a un’influenza nascosta del senso sull’intelletto, che provoca una deviazione dell’intelletto, indotto a formulare un giudizio oggettivo sulla base di apparenze soggettive. In modo generale l’errore consiste dunque in una confusione del soggettivo con l’oggettivo; così inteso si può capire che l’errore non sia limitato alla confusione tra soggettivo e oggettivo derivante dal senso, ma alla stessa confusione che si produce nel funzionamento del pensiero: è quel che avviene nella Dialettica, allorché un predicato logico è confuso con un predicato reale. Resta però pericolosamente nell’ombra una domanda: ammettendo pure che l’errore sia un fatto, e che tale fatto sia spiegabile per lo più come una confusione tra soggettivo e oggettivo, come è possibile che tale confusione avvenga? È vero che Kant dedica ampio spazio agli errori, o paralogismi, della ragione, dei quali dice che avvengono a causa dell’uso della ragione oltre i limiti dell’esperienza, allorché la ragione vuole arrivare a qualcosa di assoluto o incondizionato – come la libertà, l’immortalità dell’anima o Dio – in cui la ragione prende per logica della realtà quella che non è altro che una logica dell’apparenza illusoria, però in tal modo Kant dà una spiegazione di alcuni specifici, determinati, errori della ragione, ma non risponde alla domanda generale: perché la ragione commette errori? Se ci 3578

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si mette dal punto di vista della teoria della conoscenza di Kant, per la quale conoscere è sottoporre il conosciuto alla legislazione dell’istanza a priori del soggetto conoscente, per l’errore non resta nessuno spazio possibile; rimane dunque nel sistema kantiano un contrasto inevaso tra il fatto dell’errore e la giustificazione della sua possibilità. Dal punto di vista del sistema hegeliano, che afferma l’identità di pensiero ed essere e che vede lo svolgimento della storia come lo svolgimento del pensiero, non è difficile ammettere il fatto dell’errore e neppure è difficile giustificarne la possibilità. L’errore non va respinto, ma va riconosciuto come una tappa storica e ideale nello svolgimento dello spirito; è possibile, e reale, in quanto momento del processo dialettico che viene superato e ricompreso entro la successiva sintesi. Anche filosofie erronee, quali, per Hegel, quella di Anselmo, di Cartesio, di Spinoza, che commettono l’errore di contrapporre l’infinito al finito in modo astratto, sono superate mostrando la superiore identità in cui l’opposizione finito-infinito è ricompresa (Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, Heidelberg 1817, 18272, Berlin 18383, tr. it. a cura di V. Verra, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Torino 1981). L’errore per Hegel non solo è comprensibile, diventa anzi un elemento di propulsione necessario per lo svolgimento dinamico del pensiero, acquistando così una valenza positiva che non aveva mai avuto in precedenza. V. PENSIERO CONTEMPORANEO. – Nel Novecento l’attenzione nei confronti del problema dell’errore viene smorzandosi fin quasi a scomparire dall’ambito filosofico; il tema passa per lo più di competenza della psicologia, che lo studia e lo descrive nella sua fatticità, come comportamento tra i comportamenti umani. Né ciò stupisce, in quanto è la stessa teoria della conoscenza, di cui l’errore è un corollario, a risultare decentrata rispetto ad alcune grandi correnti del pensiero novecentesco, quali il neo-positivismo e la filosofia del linguaggio. E questo anche nel caso della fenomenologia, che invece riflette su coscienza e conoscenza: ciò che uno dei suoi maggiori rappresentanti, Husserl, intende descrivere è la coscienza come condizione del conosciuto e non come stato psichico. La teoria della conoscenza, quando rimane, si trasforma in epistemologia, cioè in teoria della giustificazione logico-linguistica della

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conoscenza proposizionale, nella quale l’errore non è ovviamente preso in considerazione perché ritenuto non pertinente. L’eccezione in tale panorama è rappresentata dall’idealismo e dagli autori che a esso si ispirano, in quanto, tenendo ferma l’identità di pensiero ed essere, pensiero e storia, diventa quanto meno opportuno spiegare come mai il pensiero possa produrre errori. La soluzione suggerita da Hegel, per la quale l’errore è un momento da superare attraverso la sintesi, viene seguita dai seguaci e successori come linea ispiratrice che ognuno precisa a suo modo. In Italia i neo-idealisti Croce e Gentile affrontano esplicitamente il problema dell’errore. Per Croce il concetto è sia universale che concreto; è universale in quanto dà l’essenza delle cose, ed è concreto in quanto in esso l’essenza include l’esistenza. Il concetto così inteso è l’unica autentica categoria della logica (Logica come scienza del concetto puro, Bari 1909) e il pensiero che lo pensa non può che pensare la verità. L’errore non può che essere collocato fuori dell’identità pensiero-essere: Croce lo dichiara ateoretico e lo fa dipendere dalla volontà che interferisce con il procedimento logico-discorsivo introducendo in esso interferenze pratiche. Gentile affermando la perfetta identità di soggetto e oggetto nell’atto del pensare nega la possibilità che l’errore sia attuale: quando si conosce, e nell’atto del conoscere, il pensiero attualizza l’essere, cioè sceglie il vero; ciò avviene secondo uno svolgimento processuale e storico nel quale realtà e pensiero sono intimamente uniti. Gentile non nega l’errore come fatto empirico, nega solo che si possa affermare come erroneo l’attuale pensare, cioè sostiene la tesi dell’inattualità dell’errore (Sistema di logica come teoria del conoscere, vol. I, Pisa 1917, vol. II, Pisa 1922). Resta da spiegare come mai pensieri veri siano poi rivisti e considerati falsi, cioè riconosciuti erronei. Gentile afferma che l’errore, non diversamente dal male, dal dolore, dalla colpa, non va considerato in astratto isolamento rispetto allo svolgimento del pensiero, ma entro la sua processualità: «Lo spirito si trova sempre innanzi a sé come alla negazione di se stesso» (Teoria generale dello spirito come atto puro, Pisa 1916, p. 210). Dunque l’errore, il dolore, il male, sono provvidenziali, in quanto costituiscono «l’interna molla per cui lo spirito progredisce» (ibid.). Come si vede, la soluzione di Gentile non è diversa da quella hegeliana. Bontadini, (Saggio di una metafisica

Errore dell’esperienza, Milano 1935, 19953 ) interloquendo con Croce e con Gentile, riprende sia la tesi gentiliana dell’inattualità dell’errore, ricordando che l’errore è superato nel momento in cui è riconosciuto, sia la tesi crociana della extrateoreticità dell’errore, per la quale l’errore è fuori del pensiero (ad esempio nell’opinione soggettiva) e deriva dalla volontà o dalle emozioni. Però, a differenza di Croce e di Gentile, l’inattualità e la extrateoreticità dell’errore non sembrano sufficienti a Bontadini a risolvere radicalmente il problema dell’errore e a parare il rischio scettico; contro l’ottimismo idealistico egli osserva: «L’errore [...] è riconosciuto come tale solo quando non è più attuale. Appunto per questo nasce il dubbio che il pensiero attuale possa essere errato, anche riconoscendosi vero» (ibi, p. 202). La soluzione indicata da Bontadini, in linea con la sua ripresa della metafisica classica, è che l’ultima garanzia di ciò che l’uomo conosce è data in una corretta relazione con il principio dell’«unità dell’esperienza»: «Se la certezza è solo nell’autocoscienza e la verità solo in Dio, occorre, per non restare con una certezza senza verità, e con una verità senza certezza, fare uno di Dio e dell’autocoscienza» (ibi, p. 210). Heidegger interrogandosi sull’essenza della verità affronta anche il problema dell’essenza della non verità (Vom Wesen der Wahrheit, 1931-32, a cura di H. Mörchen, Frankfurt am Main 1988, tr. it. a cura di F. Volpi, L’essenza della verità, Milano 1997). Premesso che per Heidegger la verità è svelatezza dell’ente, nel senso di «ciò che non è più velato», la domanda sulla non verità nel senso di «ciò che era velato» è essenziale al fine di una compiuta comprensione della svelatezza, cioè della verità stessa. Il significato di «non verità» non può consistere nella mera negazione, ma deve avere un valore proprio, indagando sul quale Heidegger mette in luce l’ambiguità della non verità intesa come velatezza. Si è velati in molti modi, il termine «velatezza» è polisemico: velatezza è falso, ma anche inesatto, nullo, ignoranza, cioè yeu'do", lhvqh, a[gnoia. Yeu'do" è la menzogna, la distorsione che fa apparire l’oggetto in modo diverso da come è, o fa di un non ente qualcosa, dietro cui però non c’è niente; nella sua valenza proposizionale, nel discorso, yeu'do" è la non correttezza dell’asserzione, in cui un predicato non è correttamente attribuito, cioè il falso logico. Lhvqh non è la dimenticanza soggettiva, esperienziale, 3579

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Errore ma è l’essere velato come un accadere di velatezza, un sottrarsi, un essere via. La conseguenza di tale assenza dell’ente dall’uomo è a[gnoia, che è un non sapere più qualcosa che si sapeva, una perdita di orientamento soggettiva che consegue a lhvqh, all’esser via dell’ente. L’analisi che Heidegger fa, seguendo il filo del Teeteto platonico, conduce alla precisazione del concetto di verità attraverso quello della non verità mediante il consueto procedimento heideggeriano di approfondimento linguistico, etimologico, concettuale; il problema dell’errore non è semantizzato in quanto tale, cioè come Irrtum, ma è dissolto tra menzogna, falso logico, nulla, ignoranza. Alcuni filosofi di area analitica mostrano un certo interesse nei confronti del tema dell’errore. Tra questi troviamo Moore e Russell, sensibili al problema della conoscenza, e Ryle, più orientato a una risoluzione linguistica. Moore distingue con chiarezza errore e falso: «L’errore consiste sempre nel credere a una proposizione falsa» (Some Main Problems of Philosophy, 1910-11, London 1953). Sottoponendo ad analisi linguistica e concettuale i termini presenti in tale definizione Moore afferma che una credenza è detta vera quando c’è un fatto che le corrisponde, falsa nel caso in cui tale riferimento manchi. Con ciò Moore aderisce a una teoria corrispondentistica della verità. Si vorrebbe a questo punto che egli chiarisse in che modo una «proposizione» si differenzi da una «credenza», visto che l’errore consiste nel credere a una proposizione falsa. Ma Moore finisce per negare che ci siano proposizioni e per rinunciare ad analizzare le credenze. Di conseguenza la promettente indicazione iniziale relativa all’errore resta sospesa a tali rinunce e non trova una soluzione. Russell riprende il problema nei termini indicati da Moore, ma, più direttamente impegnato in una teoria della conoscenza, parte dall’ipotesi che «conoscere possa essere definito come “credere il vero”» (The Problems of Philosophy, London 1912, tr. it. di E. Spagnol, I problemi della filosofia, Milano 1959, p. 155). Russell osserva che è possibile credere il vero senza perciò avere una conoscenza, perché si può avere una credenza casualmente vera, ma non giustificata, o una credenza vera alla quale si è pervenuti addirittura con un ragionamento fallace, e, osserva Russell, non siamo disposti a chiamare «conoscenza» nessuno dei due casi. In realtà tutto ciò che chiamiamo «cono3580

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scenza» non è esente dal dubbio e non solo ogni giudizio è esposto all’errore, ma lo è anche la conoscenza evidente. Infatti, dice Russell, l’errore è proprio l’esser falso di una conoscenza che crediamo fermamente vera. A tale conclusione scettica fa eccezione l’evidenza in prima persona di fatti mentali e sensibili, che per Russell rende immune da errore solo la posizione solipsistica. Ryle ritiene che il compito della filosofia sia esclusivamente semantico: essa deve dissipare i problemi che vengono generati da usi linguistici fuorvianti, cioè non aderenti allo stato di cose che registrano, come quando viene attribuito uno status ontologico a dei nomi semplicemente perché compaiono in una proposizione in posizione di soggetto grammaticale, e non perché si riferiscono a qualcosa di reale. Oltre a queste, chiamate «espressioni sistematicamente fuorvianti», Ryle denuncia l’esistenza di un altro gruppo di mistificazioni linguistiche, i cosiddetti «errori categoriali». Siamo in presenza di un errore categoriale quando fattori proposizionali che appartengono a tipi diversi sono considerati dello stesso tipo; un vistoso esempio di errore categoriale in filosofia è per Ryle il dualismo cartesiano mente-corpo, nel quale «corporeo» e «mentale» sono compresi nella stessa categoria di «cosa», o «oggetto», mentre, obietta Ryle, la mente non va categorizzata tra gli oggetti in quanto non è un oggetto a sé stante, ma solo un comportamento o una disposizione del corpo (The Concept of Mind, London 1949, tr. it. di F. Rossi-Landi, Lo spirito come comportamento, Roma-Bari 1982). VI. CONCLUSIONE. – In conclusione e in generale si può osservare che danno una spiegazione soddisfacente dell’errore quei pensatori che non impongono alla conoscenza un criterio di certezza o infallibilità e che considerano la conoscenza come derivante da un complesso antropologico non dipendente in modo esclusivo da aspetti cognitivi (tra i più significativi, Aristotele e Tommaso); non possono dare una giustificazione soddisfacente dell’errore quei pensatori (tra cui Platone, Agostino, Spinoza, Kant, Russell) per i quali la conoscenza è presenza di un oggetto alla mente (ognuno precisando e declinando tale modo generale secondo il proprio contesto filosofico) e per alcuni anche manipolazione degli oggetti mentali secondo regole logiche. L’uscita proposta da alcuni autori del secondo gruppo consiste nell’imputazione dell’errore all’interferenza tra

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Erudizione

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intelletto e volontà (tesi della ateoreticità dell’errore), sostenuta da Descartes, o nell’ammissione di una confusione tra soggettivo e oggettivo, sostenuta da Kant. Tali soluzioni non sono pienamente soddisfacenti in quanto non spiegano come mai la facoltà cognitiva possa essere obnubilata da tali interferenze, perdendo in qualche modo la certezza che le era stata attribuita. Fanno gruppo a sé gli idealisti, che considerano l’errore da un punto di vista ontologico, più che gnoseologico, e ne evidenziano la positiva funzionalità al processo di dispiegamento storico dello spirito. Il problema dell’errore, comunque lo si intenda, attende a tutt’oggi una soluzione soddisfacente e propria del contesto filosofico contemporaneo. In proposito si possono ritenere particolarmente promettenti per il filosofo alcune indicazioni offerte dalle neuroscienze, che mutano la descrizione antropologica di riferimento per il problema dell’errore. In primo luogo viene oggi sfumata dalle neuroscienze la tradizionale distinzione tra ambito cognitivo e ambito pragmatico, in quanto sia le conoscenze che le azioni sono intese come strategie di azione, teorica le prime, pratiche le seconde, unificate però dall’essere tutte attività umane. Le azioni (sia teoriche che pratiche) sono intraprese in relazione a uno scopo (anch’esso indifferentemente teorico o pratico, implicito o esplicito, cosciente o inconscio ecc.). Così contestualizzato l’errore non è altro che un non raggiungere lo scopo. Interessante osservare la particolare sintonia di tale posizione con quella aristotelico-tomistica, per la quale l’uomo è anzitutto un principio di attività, che si esprime in varie modalità e sfere d’azione e comunque in riferimento a un fine (omne agens agit propter finem). In secondo luogo le neuroscienze offrono un suggerimento preciso per raccordare volontà e conoscenza, sensibilità e intelletto, dalla cui discrasia molti pensatori hanno fatto derivare l’errore. Nell’uomo, ha dimostrato Damasio, le facoltà cognitive superiori funzionano in sinergia con il corpo e con le emozioni; sensibilità e volontà non solo non ostacolano le attività di pensiero, ma collaborano con il loro funzionamento e le rendono possibili. La ragione non è mai pura, ma è sempre intrecciata agli stati corporei ed emozionali. Gli errori, in particolare quelli decisionali, derivano dall’esclusione o dall’indebolimento di un elemento del sistema. La terapia rispetto all’errore non potrà essere un rafforza-

mento della sola ragione computazionale, o l’esclusione della sensibilità o delle emozioni dal processo razionale, tutte mosse, queste, che portano a un indebolimento del sistema nella sua complessità e unicità, ma sarà orientata a rafforzare la cooperazione tra le componenti del sistema-uomo, in modo che ne risulti una strategia pratica e cognitiva che rispetti e valorizzi le esigenze del corpo, delle emozioni e della ragione alta. L’errore non è esorcizzato, né esorcizzabile, dal piano cognitivo perché non nasce esclusivamente in quel livello, ma è meglio capito, e dunque meglio corretto, come uno squilibrio di un sistema complesso, che può essere di volta in volta risolto solo grazie a un riequilibrio generale. L. Urbani Ulivi BIBL.: A. PRICHARD, Kant’s Theory of Knowledge, Oxford 1909; L.W. KEELER, The Problem of Error from Plato to Kant, Roma 1934; B. SCHWARZ, Der Irrtum in der Philosophie, Münster 1934; A.R. DAMASIO, Descartes’ Error. Emotion, Reason, and the Human Brain, New York 1994, tr. it. di F. Macaluso, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Milano 1994; M. UNTERSTEINER, I sofisti, Milano 1996; ARISTOTELE, Etica nicomachea, tr. it. a cura di C. Mazzarelli, Milano 2000. ➨ FALLACIA; FALSITÀ; VERITÀ.

ERRORE, Errore

TEORIA DELLO: V. GIUSTIFICAZIONE,

TEORIA DELLA.

ERUDIZIONE (erudition; Gelehrsamkeit; éruErudizione dition; erudición). – Contrapposta a cultura, indica un insieme di conoscenze fondato prevalentemente su un’assimilazione passiva, priva di selettività (che è sinonimo di autentica capacità giudicativa e creativa), e quindi incompleta. Contro siffatto genere di polimazia metteva in guardia Eraclito (cfr. H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, ed. a cura di W. Kranz, Berlin 1961-6411, 22 B 9, 17, 22, 29, 40, 127 ecc.), ed Epicuro esclamava: «Fuggi, beato, ogni genere di erudizione» (cfr. H. Usener, Epicurea, Leipzig 1887, rist. Roma 1963, fr. 82). Quanto a Platone, può ben dirsi che per lui il limite che segna la differenza tra cultura ed erudizione è costituito da quel «sapere di non sapere» che segna altresì il limite tra sapere e perfetta ignoranza (cfr. Alcib. I, Euthyd., Gor. ecc.). Contro la cultura enciclopedica, sinonimo di erudizione, metteva altresì in guardia Matteo Palmieri, richiamandosi al carattere «selettivo» della cultura, che differisce appunto in ciò dalla mera 3581

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Erveo di Nédellec

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erudizione (cfr. Della vita civile, Bologna 1944, p. 35). Per Locke l’erudizione consiste più che altro nel «riempire la mente di ritagli di ogni genere, affinché colui che possiede simile bagaglio possa gareggiare con quelli con i quali s’imbatterà, come per dimostrare che egli è completamente in regola, e la sua testa è ben fornita come un emporio; che nulla gli si può domandare che egli non conosca da maestro e sia fornita di tutto ciò che possa dar piacere agli altri» (Of the Conduct of the Understanding, London 1706, tr. it. di T. Vallese, Guida dell’intelligenza, Milano s. d., cap. 19, p. 62). Psicologicamente, si può dire che mentre l’ignoranza, quando non sia consapevole di sé, genera una falsa presunzione di sapere che dà luogo all’atteggiamento dogmatico, l’erudizione genera invece l’atteggiamento cattedratico. G. Masi

L’erudizione richiama, dunque, non tanto la conoscenza e la cultura, bensì l’istruirsi fine a se stesso utile solo per uno sfoggio di dottrina altrui. Il verbo latino erudire deriva da rudis: «rozzo». Uscire da questo stato attraverso il mero ammaestrarsi con abbondanza di informazioni è del tutto vano. L’erudizione allora si presenta tuttalpiù come uno strumento retorico con cui imporsi nelle dispute, pubbliche o private, per il tramite di nozioni acquisite, la cui conoscenza, autentica e profonda, rischia di non appartenere al soggetto. L’erudito può anche trovarsi in possesso di ampi corredi di cognizioni, relativamente a cospicui settori del sapere, ma non possiede la capacità di far sì che la vita, le esperienze della vita e i mondi della vita diventino in lui «cultura». Sicché, il suo pensare apparirà povero di autentico «sapere» sebbene saturo di contenuti mandati a memoria. Nell’erudizione la conoscenza non si salda con la formazione dell’uomo e con le culture dell’umano, per cui il pensare teoretico, filosofico, le rimane estraneo. Alla sua radice vi è un calcolo, mai il pensiero. L’istruzione, se è costituita soltanto da informazioni, sia pure articolate e cognitivamente solide, ma non nasce dall’educazione culturale – la quale è ricerca, scoperta, invenzione – permane come arido contenuto incapace di vivificare la formazione dell’uomo attraverso il «conoscere», inteso anche come coscienza del limite di se stesso. M. Gennari

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ERVEO NÉDELLEC (Hervaeus Natalis). – Erveo diDINédellec Filosofo domenicano, n. nel 1260 ca., m. nel 1309. Famoso teologo domenicano, rappresentante della prima scuola tomista. Baccelliere al convento di Saint Jacques a Parigi nel 1302, maestro reggente tra il 1307 e il 1308, nel 1309 è eletto priore provinciale di Francia, carica che esercita fino al 1318, quando viene eletto generale dell’ordine. Scrisse una trentina di opere, soprattutto teologiche, tra cui un commento alle Sentenze (ed. Venetiis 1505, Parisiis 1647; ripr. Ridgewood 1966; Frankfurt 1989) di cui sono edite alcune quaestiones, e numerosi testi polemici: una Defensio doctrinae fratri Thomae, uno scritto polemico contro Giacomo di Metz, delle Quaestiones quodlibetales, in cui sono discusse alcune tesi di maestri contemporanei e altre questioni su problematiche allora oggetto di controversie dottrinali in rapporto a temi teologici. Contro Durando di San Porziano ha scritto: Reprobationes (1314-1315); De articulis pertinentibus ad I libros Sententiarum Durandi (1314-16), Evidentia contra Durandum super quartum Sententiarum (1317). Il significato più profondo dello sforzo speculativo di Erveo di Nédellec, soprattutto negli scritti teologici e in quelli a difesa dell’epistemologia tommasiana, è da rinvenire nell’ambito di una profonda razionalizzazione dei contenuti di fede, sulla linea appunto di Tommaso e, nell’ambito della logica, di un’evidente propensione per il formalismo e il terminismo (Wéber, 1984). Non si può, d’altra parte, considerare Erveo un pedissequo sostenitore della metafisica di Tommaso, di cui rifiutava peraltro la distinzione reale di essenza e di esistenza, attribuendo anzi il primato all’essenza. Nel De verbo, in particolare, egli analizza la problematica del quid nominis a partire dalla teoria avicenniana dell’indifferenza dell’essenza. V. Sorge BIBL.: E.B. ALLEN, Hervaeus Natalis: An Early «Thomist» on the Notion of Being, in «Mediaeval Studies», 22 (1960), pp. 1-14; E. WÉBER, La demonstration de l’existence de Dieu chez Hervé de Nédellec et ses confreres Prêcheurs de Paris, in Z. KALUZA - P. VIGNAUX (a cura di), Preuve et raison a l’Université de Paris. Logique, ontologie et théologie au XIVe siècle, Paris 1984, pp. 2541; E. WEBER, L’ordine domenicano dal dibattito sul tomismo a Eckhart, in G. D’ONOFRIO (a cura di), Storia della teologia nel Medioevo, vol. III: La teologia delle scuole, Casale Monferrato 1996, pp. 400-401; P. CONFORTI, Hervé de Nédellec et les questions ordinaires «De

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cognitione primi principii», in «Revue Thomiste», 105 (1997), pp. 63-82; C. TROTTMANN, Verbe mentale et noétique thomiste dans le «De Verbo» d’Hervé de Nédellec, in «Revue Thomiste», 105 (1997), pp. 4762; Per le notizie biografiche cfr. W. SENNER, s. v. in W. KASPER (a cura di), Lexicon für Theologie und Kirche, Freiburg i.B. 20013 (1993), vol. V, coll. 47-48.

ES (Id; Es; Ça; Ello). – In tedesco, pronome Es neutro di terza persona singolare. In psicoanalisi indica una delle istanze psichiche, accanto all’io e al super-io: rappresenta il polo pulsionale della personalità (Sigmund Freud, Das Ich und das Es, 1923, in FGW, vol. XIII, tr. it. di C. L. Musatti, L’Io e l’Es, in OSF, vol. IX, pp. 475520). Freud mutuò la nozione di es dal medico tedesco Georg W. Groddeck (1866-1934), che, sulla scorta di Nietzsche, impiegava il termine per indicare l’insieme delle forze sconosciute da cui l’individuo è vissuto, ovvero quanto nel nostro essere vi è di impersonale e, per così dire, di naturalisticamente necessitato. L’es, serbatoio delle pulsioni, è in contatto, ad una sua estremità, con il corpo. Benché la coppia io-es sia sovrapponibile alla distinzione preconscioinconscio, per Freud l’es è più esteso di quest’ultimo e lo si può descrivere solo negativamente, per via della sua «estraneità all’io» (Ichfremdheit). Geneticamente, tutte le istanze psichiche derivano per differenziazione dall’es. Costituito da tendenze opposte, in conflitto con le altre istanze psichiche e indifferente alle richieste della realtà esterna, in esso l’energia si trova in uno stato di libera mobilità e obbedisce solo al principio di piacere. Dopo Freud, lo studio dell’es è stato in genere trascurato sia per la natura speculativa delle ipotesi al proposito, sia per la crescente importanza attribuita all’io e più tardi al sé. Da segnalare la critica antibiologista di Lacan all’es freudiano in nome di una concezione linguistica dell’inconscio («l’inconscio è strutturato come un linguaggio»): Lacan ne valorizza piuttosto il significato grammaticale di soggetto impersonale (che agisce sull’io a sua insaputa: «Ça parle [es parla]»), attribuendogli, al di là di desideri e pulsioni, una «domanda» di riconoscimento intersoggettivo. D. Cavagna BIBL.: G. GRODDECK, Das Buch vom Es. Psychoanalytische Briefe an eine Freundin, Wien 1923, tr. it. di L. Schwarz, Il libro dell’Es: lettere di psicoanalisi a un’amica, Milano 199212; M. SCHUR, The Id and the

Escatologia Regulatory of Principles of Mental Functioning, London 1967; H. NAGERA (a cura di), Basic Psychoanalytic Concepts on Metapsychology, Conflicts, Anxiety and Other Subjects, London 1970, tr. it. di C. Jannelli e A. Guglielmi, I concetti fondamentali della psicoanalisi, Torino 19792. ➨ INCONSCIO; IO; PRINCIPIO DI PIACERE; PSICOANALISI; PULSIONE; SUPER-IO.

ESAMERONE (greco e}x hJmevrai, lat. hexaemeEsamerone ron). – Termine usato nella tradizione esegetica cristiana, patristica e medievale, per indicare i sei giorni in cui avvenne l’opera della creazione da parte di Dio secondo il libro del Genesi (Gn 1-2). Diversi padri e autori medievali hanno utilizzato il termine nel titolo delle loro opere, dedicate appunto all’ermeneutica dei primi capitoli del Genesi: da Basilio di Cesarea ad Ambrogio, da Beda il Venerabile ad Aelfric di Canterbury, da Arnaldo di Bonneval a Ugo di Rouen (Ambienensis). Bonaventura da Bagnoregio dedicò al commento del racconto della creazione una serie di conferenze conventuali (Collationes in Hexaemeron). R. Quinto

ESCATOLOGIA (dal gr. e[scato" «ultimo» Escatologia eschatology; Eschatologie; eschatologie; escatología). – Il termine è usato per la prima volta nella trattatistica teologica protestante, nei Loci theologici (Jena 1610-29) di Johann Gerhard, nel trattato De novissimis; è ormai impiegato come titolo di questo trattato nel Systema locorum theologicorum (t. XII, Wittenberg 1677) di Abraham Calov e, dopo un periodo di scarsa fortuna, viene riabilitato e rimesso in circolazione da Friedrich Schleiermacher (Der christliche Glaube, vol. II, Berlin 18312, § 159, tr. it. di S. Sorrentino, La fede cristiana, Brescia 198185, vol. II, p. 561). Il concetto invece è presente in tutta la teologia cristiana come discorso «sulle cose ultime», sul destino finale dell’uomo e del mondo. Il tema in questione è altresì, in un modo o nell’altro, indisgiungibile da qualsiasi religione; lo specifico orientamento verso una conclusione unica e definitiva trova la sua prima espressione univoca nello zoroastrismo, che influenza tra l’altro l’ebraismo post-esilico e i movimenti apocalittici. La dizione «cose ultime» risale a un’espressione biblica che indica qualcosa che avviene «negli ultimi giorni» o «alla fine dei giorni» (be-aharit ha-yamim), riferendosi a un futuro non meglio determinato, e che viene poi usata 3583

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Escatologia alternativamente con altre espressioni bibliche come «fine dei giorni» (qez ha-yamim) o «tempo della fine» (et qez) che impiegano un termine (qez) di valore ben diverso, riferito alla fine in senso di taglio netto o rottura, interruzione, termine definitivo, anche se poi viene a indicare anche il «tempo determinato» (da Dio), e quindi anche ogni «periodo» della storia sacra. I problemi escatologici investono la dimensione temporale del futuro decisivo della vita di ogni singolo, della comunità religiosa, del popolo, dell’umanità e del mondo; di un futuro di salvezza che diventa possibile solo dopo una svolta, una rottura o una trasformazione radicale; per questo hanno a che fare con ciò che avviene alla fine degli eventi (almeno di una serie o di un ciclo di eventi). Filosoficamente l’escatologia è connessa alla teleologia, che è discorso sui fini (téle) che innervano e si compiono nella natura e nella storia, ma soprattutto sul loro possibile o necessario convergere nel fine ultimo dell’uomo e del mondo e sul compimento finale di questo come la fine (télos) dei fini, che può essere espressa come éschaton, termine che però accentua il carattere di discontinuità dell’esito rispetto al processo precedente. La sfera escatologica infatti ha un doppio aspetto: uno negativo, che comporta la conclusione di un modo di essere (morte, scomparsa), e uno positivo, che comporta adempimento e nuovo essere («vita eterna»); e ciò riguarda sia l’individuo, sia la collettività, sia il mondo intero: si parla perciò, soprattutto nella tradizione ebraico-cristiana, di escatologia personale (immortalità, vita futura), comunitaria (città futura o regno di Dio) e universale («cieli nuovi e terra nuova», «mondo futuro»). Nella filosofia le «cose ultime» in senso lato sono oggetto di riflessione da sempre: nella filosofia indiana sono temi centrali il destino delle anime umane dopo la morte, il ciclo delle rinascite e la liberazione finale da questo; nella filosofia greca antica si trovano temi analoghi, soprattutto in Platone (Gorgia, Fedone, Repubblica, X), anche se prevale una visione circolare del tempo culminante nella concezione stoica del grande anno cosmico e dell’eterno ritorno; una considerazione diretta del tema dell’«ultimo» e della fine si trova soprattutto nei pensatori influenzati dall’ebraismo, dal cristianesimo e dall’Islam, sui quali incide (a partire da Filone e Clemente) anche l’eredi3584

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tà platonica della questione filosofica dell’immortalità dell’anima. Tuttavia, se la filosofia greca contiene elementi escatologici, il suo interesse è primariamente «archeologico» o «protologico» (in quanto rivolto alle cause e ai principi primi); mentre la teologia ebraica, cristiana e islamica, se contiene elementi decisamente «protologici» (dottrina di Dio, della creazione e della provvidenza), è orientata prevalentemente in senso escatologico (perché interessata soprattutto alla salvezza finale). In queste tradizioni culturali, però, i temi escatologici sono stati dominio quasi esclusivo della dottrina religiosa (oltre che della speculazione fantastica e poetico-artistica), mentre scarso si può considerare l’apporto della riflessione propriamente filosofica, che peraltro è ben difficilmente isolabile nella cultura patristica e medioevale. A parte le formidabili ed enigmatiche intuizioni di Origene (De principiis, I, 6; II, 3, 5; III, 5, 7; 6, 26: apokatástasis), di Agostino (De civitate Dei, XXII, 30: dies septimus, dies octavus) e di Gioacchino da Fiore (Concordia Veteris ac Novi Testamenti, V, 84: tertius status), questo apporto è in fondo limitabile alle diverse tesi circa la destinazione di ogni uomo e dell’umanità intera al sommo bene inteso come unità (cognitiva e volitiva) con Dio. Un’elaborazione filosofica originale e più approfondita pare emergere solo nell’epoca moderna, connessa con il concetto di religione naturale, che contiene fin dall’inizio elementi escatologici come la convinzione che vi sia per gli uomini una vita dopo la morte caratterizzata da ricompense o punizioni a seconda della qualità morale raggiunta in questa vita e che si debba formare, proprio in vista dell’unificazione con Dio e sulla base delle credenze comuni, un’unica chiesa universale (Herbert of Cherbury, De veritate [1619], London 16453; R. Cudworth, The True Intellectual System of Universe, London 1678). Vanno peraltro registrati anche momenti di decisa contestazione delle dottrine escatologiche tradizionali: Spinoza (come altri autori che si ricollegano allo stoicismo antico) contesta che il premio della virtù possa stare al di fuori di essa (Ethica, Amsterdam 1677, parte V, prop. 42); altri autori moderni (per lo più anonimi fino all’Ottocento) riprendono invece le antiche critiche degli epicurei alle rappresentazioni di una vita oltre la morte. Un impulso decisivo alla riproposizione e rielaborazione filosofica del tema escatologico

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viene da Leibniz, e dal suo progetto di un sistema unitario inglobante regno della natura e regno della grazia, con la visione di un regno futuro ed eterno in continuo processo di perfezionamento (Principes de la nature et de la grâce, [1714], Den Haag 1718). Da questo momento sintetico si dipartono idealmente due movimenti, l’uno che accentua o esalta unilateralmente il progresso cognitivo, tecnico, economico, civile e sociale come fatto e come bene supremo dell’umanità; l’altro che punta a un progresso inclusivo, capace di ricomprendere in sé le istanze dell’escatologia etico-religiosa, come si vede nei filosofi innovativi dell’illuminismo tedesco (Spalding, Lessing, Herder), fino a Kant, che ha offerto la più autorevole legittimazione, nell’ambito della riflessione filosofico-razionale, anzitutto alla domanda «che cosa mi è lecito sperare?» (Kritik der reinen Vernunft, Riga 17872 [1781], p. 833, tr. it. di P. Chiodi, Critica della ragion pura, Torino 1967) e poi all’autonoma trattazione dell’escatologia, come dottrina moralmente motivata della «fine di tutte le cose», sia pure correlata a un progresso temporalmente infinito (Das Ende aller Dinge, 1794, in Gesammelte Schriften, vol. VIII, Berlin 1923, pp. 325-339, tr. it. di G. Riconda, in Scritti di filosofia della religione, Milano 1989, pp. 219-228). A lui si richiamano le successive speculazioni degli idealisti tedeschi, anche quando, soprattutto con Hegel e Schelling, ma anche con Schleiermacher, si allontanano decisamente dalle sue premesse etiche e teistiche. La rilevanza del tema escatologico nella filosofia è fondata, però, più che su enunciazioni di contenuto, sulla direzione escatologica del pensare radicale, sul legame intrinseco tra domanda centrale (sul perché dell’essere di ciò che è) e orizzonte ultimo dell’interrogare: l’anticipazione almeno problematica di un essere capace di contenere una risposta appagante in quanto superamento del male e dei mali, in quanto liberato dall’interna lacerazione e infondatezza, in quanto realizzazione del bene e portatore di senso e di quiete. Questa direzione e questo legame non emergono in primo piano in ogni epoca e in ogni autore, e certo ricevono articolazioni diverse, anche attestazioni negative, di ripulsa o di indifferenza. Può apparire paradossale che la filosofia riscopra e tratti anche esplicitamente tale orizzonte proprio quando si attenua o si interrompe o comunque diventa problematico il suo vincolo di fedeltà al credo (cristiano o ebraico) orto-

Escatologia dosso. Ma è un fatto che la questione escatologica non tanto ritorna quanto entra in discussione proprio negli ultimi due secoli, e proprio quando la congiunzione tra sfondo ontologico neutro-necessitaristico e quadro evolutivo-progressivo della natura e della storia sembrava averla messa definitivamente fuori gioco. Vanno viste in questa prospettiva anche le decise messe in questione di Marx, Schopenhauer e Nietzsche, che ripropongono il problema sotto la figura del rifiuto delle concettualizzazioni tramandate, e così pure le teorie (sorte all’inizio e rifiorite alla fine del Novecento) della decadenza della cultura e del «tramonto dell’Occidente» (Spengler), che evocano lo spettro di una fine culturale del mondo, di un collasso dello spirito, ovvero la necessità di una palingenesi in una nuova barbarie. La ripresa del tema escatologico nel Novecento è legata però anche e soprattutto ad altri motivi: la rivalutazione di Kant e il suo collegamento con la tradizione profetica biblica (Cohen); la messa in luce di un significato non fisico-quantitativo (spazializzato), ma qualitativo-spirituale del tempo (Bergson); la riscoperta del carattere messianico-apocalittico del messaggio di Gesù e del protocristianesimo (Weiss, Schweitzer) e della sua radicale antitesi rispetto alla religione moderna adattata al mondo secolare. Il tema dell’«ultimo» si riaffaccia prima nella forma del continuismo di Cohen e di Bergson, poi nella forma della rottura o terminazione (Barth, Benjamin), ma anche nella forma del compimento finale (Bloch, Berdjaev, Teilhard de Chardin) e in quella, non necessariamente alternativa, della presenza o irruzione verticale dell’eterno nel tempo vissuto dell’attimo, quale si afferma nella teologia e nella filosofia esistenziale (Barth, Bultmann, Jaspers, Heidegger, Marcel). In Heidegger (Beiträge zur Philosophie, Frankfurt am Main 1989) si trova in particolare la figura dell’attesa e preparazione dell’avvento dell’«ultimo Dio», che non segna né fine né compimento in assoluto, ma fine del Dio o degli dei precedenti e «nuovo inizio», cioè nuovo rapporto con l’essere, che però è sovranamente indifferente rispetto alle questioni del bene e del giusto. In Bloch (Das Prinzip Hoffnung, Frankfurt am Main 1959, tr. it. di E. De Angelis e T. Cavallo, Il principio speranza, Milano 1994) si esprime invece paradigmaticamente la figura misticoatea, così come in Berdjaev (Essai de métaphysique eschatologique, Paris 1946) la figura misti3585

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Eschenburg co-cristiana, della speranza dell’eschaton come compimento finale o regno del sommo bene compiuto, coronante e oltrepassante ogni sperimentazione evolutiva e ogni sforzo di autoredenzione e automiglioramento umano; la prima prospettiva si differenzia dalla seconda in quanto non considera la conclusione positiva garantita da un essere originario. Va comunque ricordato che è proprio da questi autori, e specialmente da Bloch, che è stata provocata, anzitutto in ambito protestante (J. Moltmann, Theologie der Hoffnung, München 1964, tr. it. di A. Comba, Teologia della speranza, Brescia 1970; Id., Das Kommen Gottes. Christliche Eschatologie, Gutersloh 1995, tr. it. di D. Pezzetta, L’avvento di Dio. Escatologia cristiana, Brescia 1998), la riscoperta teologica più efficace e conseguente della centralità dell’escatologia nel messaggio religioso cristiano. G. Cunico BIBL.: N. SÖDERBLOM, La vie future d’après le mazdéisme, Paris 1901; C. CLEMEN, Religionsgeschichtliche Erklärung des Neuen Testaments, Giessen 1909; R. LAZZARINI, Il male nel pensiero moderno, Napoli 1936; R. GUARDINI, Die letzten Dinge, Würzburg 1940, tr. it. di G. De’ Grandi, Le cose ultime, Milano 19972; R. LAZZARINI, L’intenzione, Roma 1940; M. SCHMAUS, Von den letzten Dingen, Münster 1948, tr. it. di T. Mabritto, Le ultime realtà, Alba 1960; K. LÖWITH, Meaning in History, Chicago 1949, tr. it. di F. Tedeschi Negri, Significato e fine della storia, Milano 1979; J. PIEPER, Über das Ende der Zeit, München 1950, tr. it. di M. Perotti Caracciolo, Sulla fine del tempo, Brescia 1954; R. BULTMANN, History and Eschatology, Edinburgh 1957, tr. it. di E. Spagnol, Storia ed escatologia, Milano 1962; K. JASPERS, Die Atombombe und die Zukunft des Menschen, München 1958, tr. it. di L. Quattrocchi, La bomba atomica e il destino dell’uomo, Milano 1960; M. SCHMAUS, Katholische Dogmatik, vol. IV, t. II: Von den letzten Dingen, München 19595, tr. it. a cura di N. Bussi, Dogmatica cattolica, vol. IV, t. II: I novissimi, Torino 1964; R. LAZZARINI, Situazione umana e il senso della storia e del tempo, Milano 1960; K. RAHNER, Schriften zur Theologie, vol. IV, Zürich-EinsiedelnKöln 1960, tr. it. a cura di A. Marranzini, Saggi sui sacramenti e sull’escatologia, Roma 1965; E. CASTELLI (a cura di), Il problema della demitizzazione, Roma 1961; O. CULLMANN, Christus und die Zeit, Zürich 19623 (1946), tr. it. di B. Ulianich, Cristo e il tempo, Bologna 20053; R.H. CHARLES, Eschatology, New York 1963 (London 1899); P. ALTHAUS, Die letzten Dinge, Gütersloh 19649 (1922); J. WEISS, Die Predigt Jesu von dem Reiche Gottes, Göttingen 19643 (1892; 19002); W. KAMLAH, Utopie, Eschatologie, Geschichtsteleologie, Mannheim 1969; E. CASTELLI (a cura di), La teologia della storia: ermeneutica e escatologia, Roma 1971; P.

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CORNEHL, Die Zukunft der Versöhnung, Göttingen 1971; AA.VV., Mondo storico ed escatologia, Brescia 1972; S. ZEDDA, L’escatologia biblica, Brescia, 197275; D. WIEDERKEHR, Perspektiven der Eschatologie, Zürich 1974, tr. it. di D. Pezzetta, Prospettive dell’escatologia, Brescia 1978; W. JAESCHKE, Die Suche nach den eschatologischen Wurzeln der Geschichtsphilosophie, München 1976; H. DE LUBAC, La posterité spirituelle de Joachim de Flore, Paris 1979-81, tr. it. di F. Di Ciaccia e G. Cattaneo, La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore, Milano 1981-84, 2 voll. (fa parte dell’Opera Omnia di H. de Lubac, a cura di E. Guerriero); G. H. KÜNG, Ewiges Leben?, München 1982, tr. it. di G. Moretto, Vita eterna?, Milano 1983; A. SCHWEITZER, Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, Tübingen, 19849 (1906, 19132); G. FERRETTI (a cura di), Temporalità ed escatologia, Casale Monferrato 1986; R. GUARDINI, Das Ende der Neuzeit, Mainz-Paderborn 1986 (Basel 1950), tr. it. di M. Paronetto Valier, La fine dell’epoca moderna, Brescia 1994; S. HJELDE, Das Eschaton und die Eschata, München 1987; J. RATZINGER, Eschatologie. Tod und ewiges Leben, Regensburg 19906 (1977), tr. it. di B. Deslex Muff, Escatologia: morte e vita eterna, Assisi 19852; J. TAUBES, Abendländische Eschatologie, München 1991 (Bern 1947), tr. it. di G. Valent, Escatologia occidentale, Milano 1997; I. HÖLLHUBER, Philosophie als Prä-Eschatologie, Stein am Rhein 1992; F.-W. MARQUARDT, Was dürfen wir hoffen, wenn wir hoffen dürften?, München 1993-96, 3 voll.; M. NALDINI (a cura di), La fine dei tempi, Fiesole 1994; K. STOCK (a cura di), Die Zukunft der Erlösung, Gütersloh 1994; G. SAUTER, Einführung in die Eschatologie, Darmstadt 1995; T. SCHMIDT, Das Ende der Zeit, Bodenheim 1996; F. BATTAGLIA, Mondo storico ed escatologia, Bologna 1997; H.U. VON BALTHASAR, Apokalypse der deutschen Seele, Freiburg im Breisgau 1998 (Salzburg-Leipzig 1937-39, 3 voll.); F. TOMATIS, Escatologia della negazione, Roma 1999; R. FABER (a cura di), Abendländische Eschatologie. Ad Jacob Taubes, Würzburg 2001; G. ANCONA, Escatologia cristiana, Brescia 2003; F. MINAZZI, Teleologia della conoscenza ed escatologia della speranza, Napoli 2004; H.U. VON BALTHASAR, Eschatologie in unserer Zeit, Freiburg im Breisgau 2005. ➨ ETERNITÀ; FUTURO; MESIA - MESSIANISMO; PROTOLOGIA / ESCATOLOGIA; SPERANZA; STORIA, FILOSOFIA DELLA; TELEOLOGIA; TEMPO.

ESCHENBURG, JOHANN JOACHIM. – Poeta, Eschenburg letterato e studioso di estetica, n. ad Amburgo il 7 dic. 1743, m. a Brunswick il 29 febbr. 1820. Scolaro di Baumgarten e amico di Lessing, fu docente e direttore del Collegio carolino di Brunswick. Dotato di vastissima cultura letteraria, promosse la conoscenza dell’antica poesia tedesca (Denkmäler altdeutscher Dichtkunst,

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Bern 1799) e, fra gli autori moderni, diffuse il culto di Shakespeare, completando la traduzione di Wieland (Shakespeare’s theatralische Werke, Zürich 1775-82, 13 voll.; Shakespeare’s Schauspiele, ivi 1798-1806). Espose le sue idee estetiche in Entwurf einer Theorie und Literatur der schönen Wissenschaften (Berlin 1783, rist. Hildesheim 1976), sostenendo che la bellezza è «unità sensibile del molteplice» (ibi, p. 22), e che il sentimento del bello è suggerito da rappresentazioni «confuse». G. Santinello BIBL.: SPEHR, s. v., in Allgemeine Deutsche Biographie, vol. VI, pp. 346-347; H. SCHRADER, Eschenburg und Shakespeare, Marburg 1911.

ESCHENMAYER, ADAM KARL AUGUST. – MeEschenmayer dico e filosofo tedesco, n. a Neuenburg il 4 lug. 1770, m. a Kirchheim il 17 nov. 1852. Fu professore di filosofia e medicina a Tubinga. Il suo pensiero è legato a Schelling e a F.H. Jacobi. Al primo lo collegano l’impegno in una deduzione speculativa della natura nelle sue forze animatrici (sulla scia dei Metaphysischen Anfangsgründe der Naturwissenschaft kantiani) e, in un secondo tempo, l’interesse per i fenomeni parapsicologici (per esempio l’occultismo); Eschenmayer ebbe influenza sulla maturazione dell’orientamento religioso dell’ultimo Schelling. Da Jacobi Eschenmayer ricevette lo stimolo al rifiuto del sapere razionale a vantaggio della fede. Tra le sue opere, contengono il suo pensiero sulla metafisica e la religione: Die Philosophie in ihrem Uebergang zur Nichtphilosophie, Erlangen 1803; Religionsphilosophie, Tübingen 181824, 3 voll.; Die Hegelsche Religionsphilosophie verglichen mit dem christlichen Prinzip, ivi 1834. I risultati delle indagini di psicologia sono esposti in Psychologie (ivi 1817; 18222) e Mysterien des inneren Lebens, erlaütert aus der Geschichte der Scherin von Prevorst (ivi 1830). Relativamente ai problemi religiosi, è da ricordare lo scritto contro Strauss: Der Iscariotismus unserer Tage (ivi 1835). La filosofia di Eschenmayer emerge attraverso la polemica con quella schellinghiana dell’identità (e più ampiamente con l’idealismo) in precedenza accettata. In Die Philosophie in ihrem..., rivolge a Schelling due critiche fondamentali: la filosofia dell’identità non è in grado di affermare il vero Dio, ma soltanto un assoluto che si svolge necessariamente e non è persona; l’assoluto, posto come identità, non

Eschenmayer può produrre enti finiti, che implicano differenziazione ed esclusione reciproca: l’identità originaria infatti è pura indifferenza, mentre per ottenere una differenza occorre un differenziante; questo deve essere, «poiché fuori dell’assoluto non deve esserci nulla, un ente autodifferenziantesi, e quindi una assoluta opposizione». Schelling, con il suo assolutoidentità rende impossibile un discorso sia su Dio sia sul finito; ma questo è l’esito fatale di ogni speculazione chiusa in se stessa; per uscire a contatto con l’essere nella sua concretezza occorre un salto oltre la ragione speculativa, nella «non filosofia». La filosofia speculativa o «dialettica» è incapace di cogliere Dio e tutto ciò che è frutto di libertà. Il sapere dell’uomo non è in grado di pervenire a una comprensione assoluta di un oggetto, a un sapere, perciò, di tipo teologico. L’uomo relativizza a sé ogni oggetto (e perciò lo finitizza): Dio di conseguenza non può essere colto con una conoscenza solo umana, perché questa lo finitizzerebbe; in generale il sapere dell’uomo non coglie l’esistenza in sé. Per avere una conoscenza di Dio occorre dunque la fede (che sarebbe innata nella nostra anima; ma in qualche momento Eschenmayer la dice presente in noi in virtù della tradizione); sarà poi solo la rivelazione storica a farci sapere qualcosa sulla natura di Dio. La filosofia ha solo un compito negativo: dirci che cosa Dio non è; positivamente, solo Dio può farci sapere che Egli è, e cosa Egli è; Dio, infatti, è ciò che vuole essere, Egli costruisce la sua stessa natura e nessuna deduzione umana potrebbe sapere ciò che dipende dal libero volere divino. Questa dottrina è tratto tipico di Eschenmayer, che lasciò un’impronta su Schelling, il quale, se rifiutò la sostituzione della fede al sapere, sostenne nelle ultime opere il carattere negativo del sapere puramente razionale relativo a Dio; Eschenmayer anticipò tesi dell’ultimo Schelling, riconoscendo peraltro che il sistema razionale riguardante il finito è quello proposto da Schelling con la filosofia dell’identità. Schelling derivò da Eschenmayer la spinta a cercare il tipo di sapere non razionale (ma neppure ridotto a mera fede) in grado di aprirci a un Dio libero creatore. A. Bausola BIBL.: R. MARKS, Konzeption einer dynamischen Naturphilosophie bei Schelling und Eschenmayer, München 1985; J. JANTZEN, Eschenmayer und Schelling: die Philosophie in ihrem Übergang zur Nichtphilosophie, in W.

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Eschilo di Atene

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JAESCHKE (a cura di), Religionsphilosophie und spekulative Theologie. Der streit um die göttlichen Dinge, Hamburg 1994, pp. 74-97.

anarchia né dispotismo, ma con una giusta dose, garantita da specifici organi politici, di timore e reverenza (Eumenidi, 696-699, sul ruolo civico dell’Areopago).

ESCHILO Eschilo di Atene (Aijscuvlo") DI ATENE. – Nato a Eleusi nel 525 a. C., morto a Gela nel 456 a. C. Padre del genere tragico, da lui portato, dopo Tespi e Frinico, a piena maturità formale. Restano 7 opere: Persiani (472); Sette a Tebe (467); Supplici (463); Prometeo incatenato, la trilogia Orestea (458) con Agamennone, Coefore, Eumenidi, e vari frammenti. Combattente a Maratona e Salamina contro i persiani invasori, Eschilo esprime l’inevitabilità cosmica dell’irrazionale e l’irredimibilità temporale della violenza (Agamennone, 764767; 1019-1021; Coefore, 66-67; 72; 646-652), pur reputando la guerra mezzo legittimo di difesa, se giustificato nelle motivazioni e limitato nei mezzi (Agamennone, 62-64; 802-803). La sua religiosità e la sua fiducia nella giustizia divina non è mostrabile che derivino (nonostante la nascita a Eleusi) da suoi rapporti con la tradizione misterico-orfica, come non sono attestabili contatti, pure probabili, con pitagorici, Eraclito e Senofane. Il tratto filosofico della poesia eschilea – che rappresenta con solennità, semplicità e concretezza, più di quanto rifletta tramite astrazioni intellettuali – riposa su tale ricerca della giustizia divina capace di ordinare un mondo pure ab origine violento e irrazionale. La divinità va riconosciuta nella sua potente maestà (cfr. inni a Zeus; Supplici, 86; Agamennone, 160): se il male che essa invia è imperscrutabile (Persiani, 98, 345, 724-725; Supplici, 95), pure è l’uomo, con l’agire arrogante, a cooperare al proprio danno (Persiani, 742: Agamennone, 923). Egli si pone allora con la hybris (ne è emblema il titano Prometeo) a strumento stesso della giustizia divina e causa una punizione che ricadrà sulla sua stirpe (così per Eteocle e Agamennone) e sulla sua città (così per Serse). Arduo configurare, in tale quadro, la responsabilità morale e quanto di essa rimonti all’accecamento (a[th) indotto dal dio o all’errore (aJmartiva) dell’uomo stesso. Comunque colui che, agendo, non può che soffrire (Coefore, 313), capirà, tramite il dolore (pàthei màthos, Agamennone, 177), l’ordine del tutto ed il posto, non valicabile, che in questo gli spetta. Riflette l’autorità di Zeus la personalità di re illuminati (come Eteocle e Pelasgo), solleciti e protettori del popolo, non privi di tratti democratici e convinti che la città si regga senza

L. Napolitano BIBL.: editio princeps Venezia 1518; editio maior a cura di U. von Wilamowitz, Berlin 1914; G. MURRAY (a cura di), Oxford 1937, D. PAGE (a cura di), 1972; P. MAZON (a cura di), Paris 1920-25; M.L. WEST (a cura di), Stuttgart 1990 e 19982. Frammenti: H.J. METTE (a cura di), Berlin 1959 e 1963. Lessico: G. DINDORF (a cura di), Leipzig 1873; G. ITALIE - S.L. RADT (a cura di), Leiden 1964; H.G. EDINGER (a cura di), Hildesheim New York 1981. Traduzioni italiane: L. TRAVERSO, Firenze 19612; M. UNTERSTEINER, Milano 1946-47; C. CARENA, Torino 1980 (1956); G. MORANI - M. MORANI, Torino 1987. Orestea: P.P. PASOLINI, Torino 1960, M. VALGIMIGLI, Torino 1980 (Firenze 1948); E. SEVERINO, Milano 1985 (con appendice filosofica). Commenti: H.J. ROSE, A Commentary on the Surviving Plays of Aeschylus, Amsterdam 1957-58; per l’Agamennone, E. FRAENKEL, Oxford 19622. Studi: U. VON WILAMOWITZ, Aischylos: Interpretationen, Berlin 1914; G. PERROTTA, I tragici greci, Bari 1931 (rist. Firenze 1966), pp. 13-111; K. REINHARDT, Aischylos als Regisseur and Theologe, Bern 1949; J. DE ROMILLY, La crainte et l’angoisse dans le théâtre d’Eschyle, Paris 1958; A.J. PODLECKI, The Political Background of Aeschylean Tragedy, Ann Arbor 1966; B. SNELL, Eschilo e l’azione drammatica, trad. it. a cura di D. Del Corno, Milano 1969 (1928); H. LLOYD-JONES, The Justice of Zeus, Berkeley - Los Angeles - London 1971; V. DI BENEDETTO, L’ideologia del potere e la tragedia greca, Torino 1978; B. OTIS, Cosmos and Tragedy: an Essay on the Meaning of Aeschylus, Chapel Hill 1981; T.G. ROSENMEYER, The Art of Aeschylus, Berkeley - Los Angeles 1983; R.P. WINNINGTON-INGRAM, Studies in Aeschylus, Cambridge 1983; J. HERINGTON, Aeschylus, New Haven, 1986; A.H. SOMMERSTEIN, Aeschylean Tragedy, Bari 1996; M.J. LOSSAN, Aeschylus, Hildesheim - Zürich - New York 1998. Bibliogr.: I. WARTELLE, Paris 1974; A. LESKY, La poesia tragica dei Greci, tr. it. a cura di V. Citti, Bologna 1996 (ed. or. Göttingen 1972), pp. 93-247, 811-812.

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ESCHINE Eschine di Napoli (Aijscivnh") DI NAPOLI. – Filosofo accademico del sec. II a. C.; discepolo di Carneade e di Melanzio di Rodi (cfr. Plutarco, An seni respublica gerenda sit, 13; Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, II, 64); secondo Cicerone (De oratione, I, 45) fu uno dei più insigni rappresentanti della scuola accademica di Atene. Red. BIBL.: W. GÖRLER, Ältere Pyrrhonismus - Jüngere Akademie - Antiochos aus Askalon, in F. UEBERWEG, Grundriß der Geschichte der Philosophie, Berlin 1863-66, 3

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voll.; 1923-2812, 5 voll.; nuova ed. completamente rifatta a cura di H. FLASHAR, Basel-Stuttgart 1983 ss., vol. 4/2, 1994, p. 910.

ESCHINE Eschine di Sfetto DI SFETTO. – Detto «socratico» per distinguerlo dall’oratore e dall’omonimo filosofo menzionato in Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, 2.64, visse ca. fra il 430 e il 360 a. C. e fu discepolo di Socrate (cfr. Platone, Apol. Socr., 33 e, e Phaed., 59 b), di cui venne considerato uno dei seguaci più fedeli e affezionati. Di famiglia povera, si trasferì dapprima presso Dionigi di Siracusa, e poi, tornato ad Atene, diede lezioni a pagamento e scrisse discorsi giudiziari. A lui furono attribuiti quattordici dialoghi, sette cosiddetti «acefali» (di paternità contestata) e sette socratici (cfr. Diogene Laerzio, op. cit., 2.61), molto lodati nell’antichità per la fedeltà allo spirito di Socrate, ma poco originali. Restano frammenti dell’Alcibiade, dell’Aspasia e del Milziade (The Oxyrhincus Papyri, London 1898, coll. 2889 e 2890), che trattano per lo più problemi di morale pratica. W. Lapini BIBL.: H. KRAUSS, Aeschinis Socratici reliquiae, Leipzig 1911; H. DITTMAR, Aischines von Sphettos, Berlin 1912; E.G. BERRY, The Oxyrhynchus Fragment of Aischines of Sphettus, in «Transactions and Proceedings of the American Philological Association», 81 (1950), pp. 1-8; B. EHLERS, Eine vorplatonische Deutung des sokratischen Eros. Der Dialog Aspasia des Sokratischen Aischines, München 1966; K. DÖRING, Der Sokrates des Aischines von Sphettos und die Frage nach dem historischen Sokrates, in «Hermes», 112 (1984), pp. 16-30; G. GIANNANTONI, L’Alcibiade di Eschine e la letteratura socratica su Alcibiade, in G. GIANNANTONI - M. NARCY (a cura di), Lezioni socratiche, Napoli 1997, pp. 349-373.

ESCOBAR Y MENDOZA, ANTONIO DE. – TeEscobar y Mendoza ologo e moralista, n. a Valladolid nel 1589, m. ivi il 4 lug. 1699; gesuita. Autore di un Liber theologiae moralis (Lugduni 1644; rimaneggiamento dell’Examen y práctica de confessores y penitentes [Pamplonae 1627], allora alla 37a ed.), che ebbe numerose edizioni e trovò sviluppo nei 7 voll. delle Universae theologiae moralis receptiores absque lite sententiae (Lugduni 1652-63). Il lassismo di alcune opinioni suscitò la critica di B. Pascal nelle Lettres Provinciales (Paris 1656) V-XIV, ad esempio sulla dispensa dal digiuno (VI), sul valore delle opinioni probabili (VIII), la liceità di rubare in necessità (VIII) e soprattutto contro l’affermazione della legittimità di uccidere per difendere il proprio onore, persino a titolo preventivo

Esegesi biblica (VII, XIII e XIV). Alcune proposizioni furono condannate con Decreto 2.3.1679 (H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, nn. 2102, 2106, 2129-2130, 2142, 2146, 2153). P. Palmeri - A. Peratoner BIBL.: altre opere: Summula Casuum conscientiae, 1626; De Justitia et de legibus, 1663; De Triplici Statu Ecclesiastico, 1663. Su Escobar y Mendoza: C. SOMMERVOGEL, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, Bruxelles-Paris 1890-1909 (ripr. con un vol. XII di Supplément, Louvain 1960); rist. Mansfield Centre 1998, vol. III, coll. 436-45; J. BRUCKER, s. v. in A. VACANT - E. MANGENOT E. AMANN (a cura di), Dictionnaire de Théologie catholique, Paris 1899-1950, 15 voll., vol. V, coll. 520-522; K. WEISS, P. Antonio de Escobar y Mendoza als Moraltheologe in Pascals Beleuchtung und in Lichte der Wahrheit, Freiburg im Breisgau 19112; A. GAZIER, Blaise Pascal et Antoine Escobar, Paris 1912.

ESECUZIONE: V. COMPETENZA / ESECUZIONE. Esecuzione ESEGESI BIBLICA. – Il termine esegesi deriEsegesi biblica va dal greco ejxhgevomai, e indica il «tirar fuori», lo sviluppare e il commentare ciò che vi è nel testo. Per molti secoli è stato usato come equivalente di ermeneutica, cioè di «interpretazione»; oggi è riservato all’indicazione dell’attuazione effettiva dell’interpretazione mediante appositi metodi. Fino all’umanesimo, le metodologie esegetiche delle comunità cristiane si sono avvalse o delle tecniche esegetiche rabbiniche o in misura assai maggiore dei procedimenti ispirati all’allegorismo alessandrino e alla retorica latina, in connessione con la teoria patristica dei sensi biblici, nata con Origene e formalizzata nel Medioevo nella teoria dei quattro sensi: (letterale - allegorico - morale - anagogico). L’umanesimo sollecita l’introduzione di metodologie più attente allo studio critico dei testi, segnalando come per una lettura della Bibbia sia necessario un adeguato bagaglio scientifico e culturale, costituito dalla conoscenza delle lingue bibliche, delle scienze della natura, della retorica e degli scritti dell’antichità. È però con l’illuminismo che prende l’avvio la moderna critica biblica e si costituisce il cosiddetto metodo storico-critico, che si è progressivamente imposto nelle ricerche esegetiche, fungendo quasi da unico metodo, almeno fino agli inizi degli anni settanta del XX secolo, quando hanno cominciato ad emergere metodologie diverse, perlopiù sincroniche. 3589

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Esegesi biblica Proprio per questo panorama in forte mutazione, verso la fine del secolo, la Pontificia Commissione Biblica ha ritenuto di dover elaborare un documento che ritrae le varie metodologie esegetiche applicate alla Bibbia e ne valuta limiti ed efficacia (Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Città del Vaticano 1993). Visto il vasto consenso ottenuto da tale documento in ambienti scientifici e non solo confessionali, ci si può riferire ad esso come a un utile canovaccio per una puntualizzazione dello stato dell’esegesi biblica e delle sue articolate metodologie all’inizio del XXI secolo. SOMMARIO: I. La metodologia storico-critica. II. Le metodologie sincroniche. - III. Approcci basati sulla tradizione. - IV. Esegesi interdisciplinare secondo le scienze umane. I. LA METODOLOGIA STORICO-CRITICA. – Per capire il metodo storico-critico bisogna considerare la sua concezione del testo biblico, visto come documento di un mondo reale, che apre su un passato ricostruibile. Per esso contano la storia e la vita sottostanti al testo, pertanto ci si avvicina ad esso smontandolo nel suo stadio finale e ricostruendolo in quello più antico e originario. L’esegesi dovrebbe individuare perciò lo sviluppo diacronico (ricostruito ipoteticamente) del testo biblico, da un elemento più semplice e antico a uno più complesso; per questo si parla di metodologie diacroniche. Peraltro, per i concreti passaggi nell’esecuzione del metodo, varie pratiche di analisi non sono meramente diacroniche, ma presentano anche un debito verso la sincronia, cioè l’attenzione al testo come sta ora, e non soltanto a come si è formato. Descrivendo il procedimento concreto del metodo storico-critico, si possono individuare i seguenti nuclei costitutivi: critica testuale, analisi linguistica, critica letteraria, dei generi, delle tradizioni, della redazione, e infine la critica storica. Il primo momento, necessario anche per ogni altro approccio esegetico, è la critica testuale, raffinata tecnica per stabilire il testo originario, mediante l’esame e la comparazione dei manoscritti in cui quel testo ci è pervenuto. Altro passaggio molto significativo del metodo storico-critico è l’analisi linguistica, ossia la ricerca filologica sui termini e sul linguaggio dei testi biblici; essa ha prodotto il suo frutto più maturo nell’esegesi tedesca del XIX secolo e 3590

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della prima metà del XX. All’analisi linguistica segue la critica letteraria, che analizza i valori letterari tipici o individuali di un testo; essa si avvale sia della critica delle fonti che dei generi letterari, cioè dello studio dell’origine e dell’evoluzione di una determinata forma letteraria. La critica delle tradizioni è l’analisi del processo con cui è giunto a formarsi il testo attuale. Questa metodologia è applicata in particolare ai testi del Primo Testamento e agli evangeli sinottici. Segnaliamo qui in particolare la ricerca sulle tradizioni del Pentateuco, con la famosa ipotesi documentaria (cfr. J. Wellhausen), che però oggi è in profonda crisi e revisione. L’analisi delle tradizioni è spesso combinata con la critica della redazione e cioè con lo studio dei testi in ciò che essi hanno di proprio, dovuto alla prospettiva dell’autore finale; i suoi risultati più convincenti sono quelli riguardanti gli evangeli canonici, che offrono così una ricchezza di teologie, concepite per bisogni e comunità diverse. La concezione del testo come «documento» porta inevitabilmente il metodo storico-critico alla critica storica come al suo approdo ultimo, e cioè alla domanda se un testo sia o no in rapporto con gli eventi della storia: preoccupazione legittima, ma che in definitiva riflette un certo disinteresse al testo in se stesso, e il suo uso strumentale per la ricostruzione di avvenimenti e di processi storici del passato. Ora, se vari momenti che scandiscono la metodologia storico-critica appaiono irrinunciabili per qualsiasi lettura del testo biblico che voglia essere scientificamente consapevole, essa non può però essere considerata «il metodo» in quanto tale ed essere preclusiva di altri approcci e metodiche di analisi. II. LE METODOLOGIE SINCRONICHE. – Le metodologie sincroniche procedono da un’altra idea di testo, dove l’accento è posto sulla forma finale (e non su quella primitiva come per il metodo storico-critico), postulata come maggiormente coerente e coesa. Inoltre la ricerca del senso del testo non è più quella della intentio auctoris, ma l’intentio operis, cioè di quanto oggettivamente l’opera è in grado di dire attraverso i suoi infiniti giochi di senso. Infine, anche la figura del lettore è maggiormente valorizzata, poiché il testo è apprezzato non più solo come documento o fonte di informazione, ma come evento di comunicazione.

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Con tale concezione di testo sono venuti sviluppandosi recentemente nuovi metodi esegetici, in particolare le analisi di tipo retorico, stilistico, narratologico, semiotico e pragmatico; ma l’elenco è qui solo per difetto. Queste pratiche esegetiche mettono a frutto gli odierni progressi degli studi linguistici e letterari, e favoriscono un’attenzione al testo e al suo funzionamento nella comunicazione con il lettore, che erano abbastanza trascurati dalle metodologie diacroniche. Così, ad esempio, le analisi retoriche danno una nuova intelligenza di una determinata pagina biblica, e consentono di cogliere la capacità persuasiva e convincente del linguaggio usato. Ciò è ancora più evidente per le analisi narratologiche, particolarmente adatte ai tanti testi narrativi presenti nella Bibbia. D’altra parte queste metodologie sincroniche presentano anche alcuni rischi, e dannose contrazioni: si segnala allora il pericolo di un formalismo o di un estetismo, per cui si elude l’incontro con il senso del testo. Radicalizzando tale atteggiamento, viene meno ogni riferimento del testo alla realtà e alla storia, ed esso diventa una sorta di specchio da cui il lettore non può uscire, nella deriva di un’interpretazione infinita. III. APPROCCI BASATI SULLA TRADIZIONE. – Un’altra idea di testo opera in approcci esegetici (nonché ermeneutici) che si sono delineati verso la fine del XX secolo, e cioè quelli basati sulla tradizione: approccio con le metodologie delle tradizioni giudaiche, approccio attraverso la storia degli effetti del testo, approccio canonico. In questi approcci il testo è visto come un ponte, per cui il suo senso non sta più soltanto a monte, o all’interno di esso, ma anche a valle: si considerano allora gli effetti che esso provoca entro la vita dei lettori, nella storia delle sue interpretazioni, nelle forme canoniche in cui è venuto a consolidarsi. Il già citato documento della Pontificia Commissione Biblica preferisce parlare, a tale proposito, di «approcci», poiché, più che di nuove tecniche esegetiche, si tratta di nuovi punti di osservazione, con interessi diversi, del testo biblico di cui si presuppone l’analisi anzitutto con le metodologie diacroniche e poi sincroniche. La lettura biblica mediante il ricorso alle tradizioni interpretative giudaiche appare particolarmente promettente e capace di rivelare aspetti del testo finora trascurati. Quello mediante la storia degli effetti è un tipo di studio del testo bi-

Esegesi biblica blico che presuppone le metodiche più classiche, per dedicarsi poi all’indagine sulla fecondità del testo nelle letture che esso genera ad ogni livello e nei più svariati campi. Infine quando si considera la Bibbia nel suo insieme e nei rapporti che vengono ad istituirsi tra i vari libri che la compongono, si rende necessario un altro approccio, il quale più che avvalersi di nuove metodiche, considera il testo biblico nella sua unità «canonica». Tale lettura ha una sua identità precisa, poiché procede per interpretazione a partire dalla cornice esplicita della fede, che individua nella Bibbia un testo canonico, e canonico proprio in una determinata forma. È questo il cosiddetto approccio (o lettura) canonico, che consente di valorizzare la Bibbia non solo come opera «plurale», ma come realtà unitaria. D’altra parte l’approccio canonico riconosce anche l’esistenza di una molteplicità di forme canoniche, che studia appunto nella loro specificità. IV. ESEGESI INTERDISCIPLINARE SECONDO LE SCIENZE UMANE. – Anche qui si tratta, più che di nuove tecniche di analisi del testo, di sguardi su di esso prodotti a partire dalle attuali scienze dell’uomo, e specialmente delle scienze sociologiche, psicologiche e antropologiche. In definitiva, si tratta di approcci interdisciplinari, in cui vengono applicati alla lettura del testo biblico i risultati delle discipline in questione. Certamente si intuiscono già le potenzialità di questi approcci, anche se l’elaborazione epistemologico-metodologica appare a tutt’oggi ancora piuttosto acerba. P. Rota-Scalabrini BIBL.: H. CAZELLES, L'exégèse scientifique au XXe siècle: l'Ancien Testament, in C. SAVART - J. N. ALETTI (a cura di), Le monde contemporaine et la Bible, (Bible de Tous les Temps. 8), Paris 1985, pp. 441-471; W.G. KÜMMEL, L'exégèse scientifique au XXe siècle: le Nouveau Testament, in C. SAVART - J. N. ALETTI (a cura di), Le monde contemporain et la Bible (Bible de Tous les Temps 8), Paris 1985, pp. 473-515; L. ALONSO SCHÖKEL, Modelos y métodos, in Hermenéutica de la Palabra; I. Hermenéutica bíblica (Academia Christiana 37), Madrid 1986, pp. 177-194; M. PESCE, L'esegesi storica nella chiesa oggi, in «La Rivista del Clero Italiano», 69 (1988), pp. 256-267; W. EGGER, Metodologia del Nuovo Testamento; Introduzione allo studio scientifico del Nuovo Testamento, tr. it. di G. Forza (Studi Biblici [Dehoniane] 16), Bologna 1989; J.L. SKA, Narrativa ed esegesi biblica, in «La Civiltà Cattolica», 142, III (1991), 219-230; L. PACOMIO et al., L'esegesi cristiana oggi, Casale Monferrato 1991; AA.VV., La Bibbia

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Esempio nell'epoca moderna e contemporanea, a cura di R. FABRIS (La Bibbia nella Storia 17), Bologna 1992; R. MEYNET, L'analisi retorica, Introduzione di P. BEAUCHAMP, tr. it. a cura di L. Sembrano (Biblioteca Biblica 8), Brescia 1992; Cento anni di studi biblici (18931993). «L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa (Convegno di studio: Padova 17-18 febbraio 1994)», in «Studia Patavina» 41 (1994) 307-490; H. SIMIAN YOFRE, Ana-cronia e sincronia: Ermeneutica e pragmatica, in H. SIMIAN YOFRE (a cura di), Metodologia dell'Antico Testamento, (Studi Biblici [Dehoniane] 25), Bologna 1995, pp. 171-195; J.L. SKA, Sincronia: L'analisi narrativa», H. SIMIAN YOFRE (a cura di), Metodologia dell'Antico Testamento, Bologna 1995, pp. 139-170; G. ANGELINI (a cura di), La rivelazione attestata; La Bibbia fra testo e teologia; Raccolta di studi in onore del Cardinale Carlo Maria Martini Arcivescovo di Milano per il suo LXX compleanno, (Quodlibet 7), Milano 1998; H.G. VON REVENTLOW, Storia dell’interpretazione biblica; I. Dall’Antico Testamento a Origene; II. Dalla tarda antichità alla fine del Medioevo; III. Rinascimento, Riforma, Umanesimo, tr. it. a cura di E. Gatti, Casale Monferrato 1999; AA.VV., L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. «Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Roma, settembre 1999» (Atti e Documenti 11), Città del Vaticano 2001.

ESEMPIO (example; Beispiel, Exempel; exemple; Esempio ejemplo). – Nozione d’impiego comune all’epistemologia, alla retorica, alla didattica, alla morale, indica, in via generale, un caso individuale in quanto connesso a una proposizione dotata di validità universale o generale, secondo varie funzioni: dimostrativa/euristica (se la proposizione non è data e l’esempio – più precisamente: un consistente numero di esempi – ambisce a stabilirla; modalità argomentativa simile al ragionamento induttivo); retoricopersuasiva (se la proposizione è già data e l’esempio, declinandola in forma favolistica, la rende maggiormente appetibile per l’uditorio); esplicativa (proposizione già posta, che l’esempio chiarisce nel suo significato); educativa/morale (si tratta del buon esempio, che induce alla pratica della virtù, e del cattivo esempio con funzione d’ammonimento). Aristotele, in Retorica 1393 a-b, definisce l’esempio «simile all’induzione» e ne distingue due tipi fondamentali: l’esempio storico, che si basa su fatti realmente avvenuti in passato, e l’esempio fittizio (la favola). Un numero comunque grande di esempi storici, attestanti l’accadimento regolare e costan3592

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te in passato di un certo fatto o situazione, non è sufficiente a provare apoditticamente che tale fatto si ripeterà ceteris paribus anche in futuro (cioè: che esso ha validità universale). A livello logico, infatti, lo statuto dell’esempio (con funzione euristica) è quello della probabilità: benché molti esempi storici relativi a un certo fatto determinino l’attesa (psicologicamente comune) dell’accadimento futuro di questo stesso fatto, tale accadimento è (secondo vari gradi) solo probabile. Le favole (esempi fittizi) si producono in retorica: fondate sul ragionamento analogico e simili alle comparazioni, esse declinano in forma fantastica il principio universale (o generale) che si vuol trasmettere, perché meglio riesca ad avvincere l’uditorio (funzione persuasiva). Funzione esplicativa ha invece l’esempio che traspone in caso individuale e in contesto noto un discorso generale, concorrendo a chiarirlo all’uditorio. Così Aristotele, Topici VIII, 1-2, 157 a: «Per dare chiarezza al discorso, bisogna poi addurre esempi e paragoni, per altro esempi appropriati e tratti da oggetti noti [...]. In tal modo risulterà certo più chiaro quanto si vuole proporre». In ambito educativo/morale, l’esempio – buono o cattivo – vale da illustrazione (esemplare, appunto) della legge morale o da ammonimento rispetto ad una sua eventuale infrazione. Imprescindibile è la distinzione kantiana in Die Metaphysik der Sitten, Königsberg 1797, parte seconda, II, sez. I, § 52 [tr. it. di G. Vidari, La Metafisica dei costumi, Torino 1973, p. 358] tra i termini tedeschi Beispiel e Exempel: il Beispiel è «il particolare (concretum) rappresentato come contenuto nell’universale secondo concetti (abstractum), e l’esposizione puramente teorica di un concetto»; si tratta, per intenderci, dell’esempio con funzione esplicativa. L’Exempel ha invece, mutuando Austin, valore «perlocutorio», nel senso che intende suscitare nell’uditorio un’azione, nello specifico d’imitazione. Esso è «un caso particolare di una regola pratica, in quanto questa rappresenta un’azione come praticabile o impraticabile». Com’è noto, Kant non ammette che l’esempio fornitoci da altri uomini possa per noi valere da massima di virtù, giacché la virtù si fonda sull’autonomia della ragione pratica di ogni uomo. L’esempio ha però in Kant un importante valore tipologico, nel senso che

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Esemplarismo

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esso, dimostrando in individuo la concreta realizzabilità della legge morale, opera come essenziale elemento di mediazione tra l’assolutezza della legge e la sua effettiva declinazione in un tempo e luogo determinati (giacché proprio in un tempo e in un luogo, com’è chiaro, ha da giocarsi l’ab-soluta virtù). Ancora circa la funzione dell’esempio in morale ma con una presa di posizione alternativa a Kant, si veda Bergson, in Les deux sources de la morale et de la religion (Paris 1932, tr. it. di M. Vinciguerra, Le due fonti della morale e della religione, Milano 1950). Elaborando un’etica a base intuizionista, Bergson ritiene che la moralità perfetta (distinta dalla moralità sociale in quanto aperta all’intera umanità), non possa esser «pienamente se stessa» se non incarnandosi in una «personalità privilegiata che diviene un esempio» (tr. cit., p. 32). M. Portera

ESEMPLARISMO (exemplarism; ExemplariEsemplarismo smus; exemplarisme; ejemplarismo). – Concezione metafisica che interpreta il mondo sensibile in funzione di una realtà ideale, che ne è il modello e l’esemplare; in quanto subordina la vita e le manifestazioni fenomeniche all’intelligenza e alla sua funzione unificatrice, l’esemplarismo è una visione teleologica e spirituale della realtà, la celebrazione del primato dell’intelligenza. Nato da un ragionamento analogico, l’esemplarismo implica, come l’atto dell’artista che è il suo paradigma umano, un modello ideale, un atto operante e un termine concreto dell’atto. La dottrina platonica del demiurgo (Tim., 29 a - 30 d) è, nella sua forma mitico-estetica, l’espressione più scoperta di tale analogismo: il mondo è simile a un’opera d’arte (a[galma: Tim., 37 c; Charm., 154 c); e come l’artista non crea né il suo archetipo ideale, né la materia, così il demiurgo plasma una materia che gli è «data», guardando ai modelli eterni (le idee), ch’egli non crea. L’esemplarismo mitico-estetico di Platone si conserva in Plotino (Enn., III, 8), il quale identifica il demiurgo con l’anima universale e attribuisce a questa l’atto operante (poivhsi"); il «fare» non è dell’uno, ma dell’anima che opera guardando al nou'", suo modello superiore: ricevendo da esso, «nel silenzio», le immagini delle cose da farsi, diviene loro artefice. Quella che era infatti l’azione generatrice del demiurgo platonico è in Plotino

distribuita alla seconda e terza ipostasi. L’intelletto conserva al proprio interno i modelli ideali, i quali, esseri e intelligenze allo stesso tempo, sono già potenze attive in quanto costituenti un’ipostasi caratterizzata dalla medesima infinita potenza dell’uno. È però l’anima a dispiegare tali archetipi infondendo forma e vita alla materia, facendosi anima del mondo o natura. L’esemplarismo teologico del pensiero cristiano, di cui sono innegabili i rapporti con le premesse platoniche, si svincola tuttavia dall’analogismo mitico-estetico di esse e s’inserisce nella dottrina della creazione assoluta (Agostino, Octoginta tres quaestiones, q. 46, in J.-P. Migne, Patrologiae cursus completus, Series II: [Patres] Ecclesiae Latinae, Paris 1845-55, vol. XL, col. 30; cfr. Conf., XII, 15, 20 e 20, 25; Tommaso, Sum. theol., I, q. 84, a. 5; C. Gent., III, 47): il «creare» è distinto dal «generare» e l’esemplare eterno dell’atto creativo è il Verbo o la sapienza del Padre. Ambedue poi, la creatio e la generatio, caratterizzano le «processioni» divine: la processione ad extra, per la quale la creatura procede da Dio come effetto da causa; e la processione ad intra per la quale il Verbo procede dal Padre, come principiato dal suo principio, rimanendo nell’unità dell’essenza divina. Al fine di superare il carattere necessitato che nella tradizione pagana legava il mondo al suo principio, in ambito cristiano il nou'", intermediario nello schema caro al neoplatonismo, si trasforma nel lovgo" del Prologo del Vangelo di Giovanni. I modelli (archetipi) risultano di conseguenza essere le idee in mente Dei. Questo ripensamento della dottrina platonica determina l’impossibilità di pensare alle cose come frutto di una necessaria e inconsapevole emanazione e la necessità di rileggerle come liberamente scelte, quindi volute. Il mondo diviene così un secondo libro, donato all’uomo, in cui riluce l’artefice addirittura con il suo carattere trinitario. Si pensi a tal proposito alla visione gerarchica del reale che spinge un autore come Bonaventura a cogliere distinzioni ternarie in ogni manifestazione del creato. L’esemplarismo platonico concepiva l’opera demiurgica ex analogia hominis; l’esemplarismo cristiano rovescia le posizioni e concepisce l’opera umana ex analogia Dei. G. Faggin - G. Feltrin BIBL.: E. DUBOIS, De exemplarismo divino seu de trino ordine exemplari et de trino rerum omnium ordine

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Esicasmo exemplato, Roma 1899-1900, 4 voll.; J.M. BISSEN, L’exemplarisme divin selon Saint Bonaventure, Paris 1929, p. 304; É. GILSON, La philosophie de Saint Bonaventure, Paris 1953, p. 417; G. GIRARDI, Metafisica della causa esemplare in san Tommaso d’Aquino, Torino 1954, p. 108; V. GOLDSCHMIDT, Le paradigme dans la dialectique platonicienne, Paris 1985, p. 135. ➨ ARCHETIPO; IDEA ARCHETIPA; IMMAGINISMO; SIMBOLISMO.

ESICASMO. – Pratica ascetica diffusasi tra i Esicasmo monaci dell’Athos nel secolo XIII e di lì nell’intero mondo ortodosso. Seduto in un ambiente oscuro, col mento chino sul petto e gli occhi rivolti all’ombelico, trattenendo il più possibile l’aria inspirata, il monaco ripete incessantemente una breve invocazione (del tipo «Signore Gesù, figlio di Dio, abbi pietà di me»). Trasportata dalla preghiera e superando la tentazione di distrarsi, la mente ritorna nel suo luogo d’elezione, che è il cuore. Allora una piacevole percezione dell’olfatto o del gusto precede l’apparire sensibile di una luce sfolgorante unita a uno stato di beatitudine spirituale. Così il mistico raggiunge l’unione con Dio e la propria divinizzazione. I fondamenti teologici di questa esperienza, dichiarata lecita dopo aver incontrato fieri contrasti, furono definiti da Gregorio Palamas. C.M. Mazzucchi BIBL.: I. HAUSHERR, La méthode d’oraison hésychaste, «Orientalia Christiana», vol. 36, Roma 1927; J. MEYENDORFF, Introduction à l’ètude de Grégoire Palamas, Paris 1959; I. HAUSHERR, Hésycasme et prière, «Orientalia Christiana Analecta», vol. CLXXVI, Roma 1966.

ESIGENZA (need, exigency; Bedürfnis, ErforEsigenza dernis; exigence; exigencia). – Il termine exigentia compare solo nel tardo latino e, passando nelle lingue moderne, incorpora una doppia catena semantica. Da una parte quella dell’ex-agere, che al significato della pretesa aggiunge l’idea del compimento, del conformarsi a un certo modello o norma, del giudizio valutativo e della decisione. Dall’altra il desiderio che nasce dalla mancanza, dalla privazione dell’egere, tanto che nel linguaggio ordinario, fermo restando che l’esigente non è l’indigente, l’esigenza viene talvolta utilizzata come sinonimo di bisogno. Questa polisemia risulta particolarmente adatta a esprimere l’attività di superamento e trascendimento di una situazione data. Si può così parlare di esigenza della ra3594

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gione davanti a una contraddizione che deve essere risolta, così come di esigenza dello spirito come stato che implica, a un tempo, l’assenza di ciò che viene appunto esigito e la sua presenza come presentimento e capacità di orientamento. Il bisogno chiede di essere soddisfatto, l’esigenza sottende una tensione che proprio nel suo mantenersi come tale dispiega l’orizzonte specificamente umano della libertà. L’esigenza è entrata in questo modo nei vocabolari del pragmatismo, dell’esistenzialismo e del personalismo di matrice spiritualista, là dove la filosofia viene sollecitata a valorizzare la dimensione interiore della ricerca della verità. Siamo sulla linea del mito platonico di eros. Solo gli uomini – e non gli dei – possono essere filosofi, perché solo per loro l’assenza dell’idea è insieme presenza di essa come ricordo, che s’accende alla visione della bellezza e fa sì che l’anima, amando le cose belle, esiga qualcosa di più e ascenda gradualmente alla bellezza in sé (Symp., 210 a-212 c; Phaedr., 249 d-253 c). L’esigenza di Dio, come presenza e richiamo all’interno dell’anima, costituisce il senso più profondo delle Confessioni di Agostino («et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te»: Conf., I, 1). Le ragioni del cuore, che Pascal afferma essere talora ignote alla ragione (Pensées, 3, 277), tendono a una forma di conoscenza che sempre in questa prospettiva può dirsi esigenziale e che, pur non negando quella razionale, tuttavia si sovrappone ad essa. Il ventesimo secolo, infine, troverà nella dialettica della volontà di Blondel una sintesi esemplare di questo motivo dinamico: l’idea di Dio si manifesta come l’esigenza più profonda della nostra natura, portata a passare dall’immanenza alla trascendenza reale (L’action, vol. II: L’action humaine et les conditions de son aboutissement, Paris 1936-372, pp. 340-67). Anche la ragion pura di Kant contiene principi che esigono (gebieten) un’unità maggiore di quella conseguibile dal solo intelletto e di conseguenza la sua ultima esigenza (Forderung) è l’incondizionato (cfr. Anhang zur transzendentalen Dialektik, in AA, voll. III-IV: Kritik der reinen Vernunft e KU, in AA, vol. V, § 76, nota). Nella lingua tedesca manca però un preciso equivalente lessicale dell’esigenza. C’è una naturale propensione (Hang) della ragione a oltrepassare i suoi limiti, ma l’unico uso legittimo delle sue idee resta quello regolativo. Sarà di un bisogno (Bedürfnis) come «postulato nel rispetto pratico» che Kant parlerà a propo-

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sito del dovere di fare del sommo bene l’oggetto della volontà e di promuoverlo con tutte le proprie forze: l’uomo onesto può ben dire di volere che vi sia un Dio (KpV, parte I, libro II, cap. II, 8). G. Santinello - S. Semplici

ESIODO (ÔHsivodo"). – Poeta greco. A seguire Esiodo le «vite» che di lui ci sono giunte, fu di Ascra, in Beozia, anche se un’antica tradizione lo fa originario di Cuma eolica in Asia Minore e da lì sarebbe emigrato ad Ascra, forse a causa della povertà. Sull’Elicona, secondo quanto afferma egli stesso, gli si mostrarono le Muse e gli fecero dono d’ispirazione, perché fosse aedo dedito a cantare non le glorie degli eroi, ma le comunità ordinate e pacifiche, il lavoro e soprattutto gli dei. Tuttavia della vita di Esiodo s’impadronì la leggenda, e quanto si narra circa la sua morte è derivazione da poemetti ellenistici, segnatamente dall’Esiodo di Euforione, dall’Anterinys di Eratostene, e da altri per noi perduti. I termini della vita di Esiodo ci sono ignoti. Già in antico alcuni lo ponevano una generazione prima d’Omero (aver egli cantato gli dei, non gli eroi, portava a considerarlo della cerchia dei cantori preomerici), altri dopo. Del tutto da respingere è l’ipotesi che i due poeti fossero contemporanei. L’esame dell’opera esiodea, per le idee che difende, ci porta a considerare l’autore come vissuto in età subomerica, tra gli ultimi anni dell’VIII secolo e il VII secolo, a voler difendere una datazione alta; a voler essere più prudenti, bisogna ritenerlo della prima metà del VII secolo: in ogni caso è oramai accertato, sulla base di elementi di natura linguistica e di tecnica compositiva, che conoscesse i poemi omerici. Come a Omero una tradizione assegnò, oltre l’Iliade e l’Odissea, la quasi totalità dei poemi ciclici, così a Esiodo fu assegnata tutta una serie d’opere di natura religiosa e misterica, e altre di carattere tra didascalico e gnomico. Contribuì all’attribuzione delle prime una certa opinione diffusa tra il VI secolo e il V, che Esiodo fosse da considerare scrittore della cerchia orfica: tesi da respingere. Criticamente la rosa possibile delle opere genuine va ristretta a quattro lavori: il Catalogo delle donne, l’Aspís, la Teogonia, gli Erga. Dei primi abbiamo soltanto frammenti; le altre tre ci sono pervenute integre.

Esiodo Il Catalogo delle donne (Gunaikw'n Katavlogo"), detto anche «Eoiai» dalla formula stereotipa «h] oi{h» con cui veniva introdotta ogni eroina, narrava le genealogie di donne mortali famose, amate da dei e madri di eroi, rovesciando lo schema della Teogonia, di cui probabilmente costituiva il seguito, dove erano elencate le dee che ebbero figli da uomini mortali. L’opera, di cui sono stati letti nuovi brani in papiri, rivela uno stadio di leggende antiche, formatesi in età di matriarcato, e soltanto in seguito elaborate per una società divenuta patriarcale. Le narrazioni erano organizzate in rapporto all’importanza del dio amatore; così prima le eroine amate da Zeus, poi quelle amate da Posidone, e via di seguito. L’Aspís (ajspiv") o «Scudo» di Eracle, in 480 versi, che secondo alcuni studiosi costituirebbe una sezione autonoma del Catalogo, narra la nascita di questo eroe e poi una delle sue imprese, la lotta contro Cicno, figlio di Ares; il più della composizione descrive lo scudo imbracciato dal vincitore. Tra le opere giunteci, è quella d’autenticità più dubbia. La Teogonia (Qeogoniva) in 1022 versi informa sulle origini degli dei e del mondo, e va considerata ultima sintesi d’un lavoro teologico durato secoli, da parte di adepti e cerchie di famiglie sacerdotali. Per Esiodo in principio era il caos; dal caos emersero Gaia, la Terra, ed Eros, l’amore; di poi nacquero l’Erebo e la notte, dalla notte l’etere e il giorno, e da Gaia Urano, cioè il cielo. Si stabilisce così una prima generazione di dei. Da Urano nascono gli uranidi, con Crono e i titani, che formano la seconda generazione celeste; da Crono nascono i cronidi, con Zeus: terza generazione divina che vince le potenze uranidi, indisciplinate e violente, e attua l’ordine in cielo e in terra. Tale successione mitologica, come si è avvertito di recente, risente da presso di sviluppi di miti ittiti, soprattutto delle successive generazioni divine facenti capo al dio Kumarbi. Col v. 885, narrato come si determinasse il potere di Zeus, la Teogonia si chiude. Tutto il resto è una Heroogonia, cioè racconto della nascita degli eroi, e si affianca ai Cataloghi per quello ch’è valore di genealogia. Tuttavia Esiodo riporta schemi sui quali già aveva operato l’attività degli aedi nel foggiare la prima pseudostoria dell’Ellade, ricorrendo in particolare alla tecnica catalogica già utilizzata nei poemi omerici. Esiodo insiste sulla verità del proprio racconto poetico con la narrazione nel proemio della sua investitura 3595

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Esiodo poetica da parte delle Muse che si pongono come garanti dell’autenticità delle sue parole: a differenza dell’epos omerico, in cui ogni elemento era di per sé vero in quanto inserito all’interno di una tradizione di cui il poeta non era altro che il cantore anonimo, Esiodo, primo nella civiltà greca, vuole rimarcare la propria individualità ponendo la verità come una dichiarazione di poetica. Dalla Teogonia esiodea è chiaro il principio che il mondo non è creato da un dio o dagli dei. Il mondo, come natura naturans, si crea da sé, per forza spontanea. Quindi, Physis, la «natura», precede gli dei, gli uomini, e ogni possibile «legge» degli uni e degli altri. Poema distintivo di Esiodo restano comunque le Opere (“Erga), spesso citati come Opere e giorni (“Erga kai; hJmevrai): tra gli 828 esametri di cui consta, non mancano frequenti sentenze di carattere morale che derivano da un ricco patrimonio tradizionale, probabilmente originato da una più antica letteratura sapienziale. L’accettazione dell’autenticità e della genuinità degli Erga è conquista della filologia dell’ultimo Ottocento e del Novecento, anche se sostenuta già da Ranke, sin dal 1832: attualmente la critica è orientata a ricercarne le modalità di composizione e di comunicazione che molto probabilmente si sono attuate oralmente con la rielaborazione dell’ampio patrimonio della letteratura popolare e sapienziale attraverso la mediazione delle tecniche poetiche proprie dell’epica. Dall’origine, avverte il poeta, se gli dei possedevano immortalità e potenza, gli uomini vivevano una vita di riflesso, contenti e longevi, se non immortali, anch’essi; ma quando Prometeo, proprio per favorire gli uomini, tentò di defraudare Zeus dei suoi diritti, questi corse ai ripari: inviò tra essi Pandora, donna colma di bellezza, esperta d’arti domestiche, ma con mente di cagna e costume bugiardo. Gli uomini non seppero rifiutarla: aprirono il doglio ch’ella recava – dal quale uscirono guai, malattie e morte – e s’affezionarono a questo malanno. D’altra parte, qual è, in sintesi, la storia umana? Il poeta la espone miticamente, mirando a passato, presente e futuro, anzi a quest’ultimo in tono di apocalissi; né mancano posizioni parallele a motivi della letteratura ebraica, dal Genesi al libro apocrifo di Enoc. Cinque stirpi si sono susseguite: la prima, degli uomini della razza d’oro, vissuti in gioia, fuori di malattia e vecchiaia, 3596

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non soggetti alla legge del lavoro. La terra dava frutti spontaneamente, e quegli uomini si dividevano i beni amichevolmente, senza liti. Quando vennero meno, Zeus li fece «demoni sovraterreni», e li incaricò d’osservare il genere umano seguente e di riferirne agli dei. Seguì la razza argentea, già macchiata d’hybris; e le liti reciproche furono tali che Zeus la distrusse, anche onorandone le anime come di demoni ctoni. La terza stirpe fu di bronzo. Gli uomini di essa non pensavano che a fabbricare armi per ammazzarsi reciprocamente. Zeus rovesciò su di loro il diluvio e ne raccolse l’anime nell’Ade, senza onore. La quarta stirpe fu degli eroi: v’era in essi tracotanza, ma anche areté; morirono quasi tutti in guerra, soprattutto intorno a Troia. Quasi in continuità di vita, Zeus ne radunò le anime nelle isole dei beati, sotto il governo di Crono. Ed ecco la quinta stirpe, di uomini di frode. Il poeta avverte che se in tale stirpe, ai suoi tempi, una certa salvezza era ancora possibile, già si manifestavano i prodromi della decadenza totale. Maturatosi il tempo della rovina Aidos e Nemesi, pudore e giustizia punitrice voleranno al cielo e sulla terra incomberà la distruzione totale. Quadro apocalittico; e tuttavia possibilità di vita serena per chi lavora. La legge del lavoro, imposta da Zeus insieme col dono di Pandora, in pena del peccato di connivenza con Prometeo, pone chi l’accetta in posizione di benessere e di felicità portatori di gioia, seppur travagliati e conquistati duramente. In Esiodo risulta dunque fondamentale la difesa del principio di giustizia, che si porrà come uno degli elementi essenziali del pensiero greco, influenzando sensibilmente la riflessione filosofica fino a Socrate. Per lui Zeus ha portato nel mondo la disciplina e l’ordine, con la conseguente possibilità d’una organizzazione sociale positiva. Se tra le bestie vale la legge naturale del più forte (cfr. la favola dello sparviero e dell’usignolo: Erga, 202-212), tra gli uomini vige Dike. «Tu» ammonisce il poeta a Perse «ascolta la giustizia e non seguire l’hybris, ch’è nemica al povero; e anche un ricco non riesce a sopportarla a lungo, e ne è aggravato. Meglio percorrere la strada della giustizia» (vv. 213-217). E ancora: «La ricchezza non è cosa che va arraffata; stabile è quella concessa da un dio. Se qualcuno di forza, con violenza, acquisti grandi mezzi, o ne fa preda con la lingua (cioè, in professione liberale o nella mercatu-

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ra), cose che accadono, quando il guadagno inganni la mente degli uomini e la svergognatezza metta da parte l’onestà; gli dei in breve annullano quei mezzi, assottigliando la casa del colpevole» (vv. 320-340). Per altro del malvagio penano anche i figli, mentre «la stirpe dell’uomo fedele al giuramento s’accresce e prospera» (v. 285). Quindi, lavoro: «II lavoro non è vergogna; l’ozio sì ch’è vergogna. Se uno lavora, presto l’ozioso lo invidierà, vedendolo ricco. Alla ricchezza conseguita giustamente s’accompagna virtù e onore» (vv. 311-313). C. Del Grande BIBL.: edizioni: A. RZACH, Lipsia 1902; P. MAZON, Paris 1928; F. SOLMSEN, Oxford 1970; A. COLONNA, Torino 1977 e Milano 1993 (con tr. it.); G. ARRIGHETTI, Esiodo, opere, Torino 1998 (con tr. it. e commento). H. RZACH, s. v., in A. PAULY - C. WISSOWA, Paulys RealEncyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, Stuttgart 1893-1963, vol. VIII, coll. 1167-1240; E. LISCO, Quaestiones Hesiodeae, Göttingen 1903; G. SETTI, Esiodo, Modena 1909; H. WALTZ, Hésiode et son poème moral, Bordeaux 1916; M. FAGGELLA, Esiodo, Roma 1927; F. JACOBY, Hesiodi Teogonia, Berlin 1930; V. LAPICCIRELLA, Studio sulla Teogonia, Roma 1930; R. CANTARELLA, Elementi primitivi nella poesia esiodea, in «Rivista Indo-Greca-Italica di Filologia, lingua, antichità», 3-4 (1931); H. FRANKEL, Drei Interpretationen aus Hesiodos, in «Festschrift für R. Reitzenstein», Leipzig-Berlin 1931; L. PHILIPPSON, Origini e forme del mito greco, tr. it. Torino 1941 (importante per la genealogia in Esiodo e la Teogonia e il suo valore); C. LOCKQUELL, Hésiode, poète théologien, in «Laval Théologique et Philosophique», 1945, pp. 182-193; H. DILLER, Hesiodos und die Anfänge der griechischen Philosophie, Hamburg 1946; A. RÜEGG, Kunst und Menschlichkeit Hesiodos, Zürich 1946; G. SARTON, Introduction to the History of Science, vol. I, Baltimore 1946; C. DEL GRANDE, Hybris, Napoli 1947; C.H. GORDON, Ugaritic Literature, Roma 1949; FR. SOLMSEN, Hesiodus and Aeschylus, Ithaca (New York) 1949; F.M. CORNFORD, Greek Religious Thought: from Hesiodus to the Age of Alexander, Boston 1950; L. MOULINIER, Le pur et l’impur dans la pensée des Grecs d’Hésiode à Aristote, Paris 1952; H. SCHRADE, Götter und Menschen: Hesiodos, Stuttgart-Köln 1952; A.J. TOYNBEE, Greek Historical Thought from Hesiodus to the Age of Heraclitus, New York 1952; F. BUFFIÉRE, La notion de «logos» dans l’exégèse d’Hésiode, in «Bulletin de Littérature Ecclésiastique», 1953, pp. 55-60; H. KEIN, Hesiodos Theogonie als phoinikische Kosmologie, Hamburg-Othmarschen 1956; O. LENDLE, Die «Pandorasage» bei Hesiodos, Würzburg 1957; U. BIANCHI, Prometheus, in «Paideuma», 7 (1961), 8, pp. 414-437; H. SCHWALB, Hesiodos und Parmenides. Zur Formung des parmenidei-

Esistentivo schen Prooimions, in «Rheinisches Museum für Philosophie», 1963, pp. 134-142; M.C. STOKES, Hesiodic and Milesian Cosmogonies, in «Phronesis», 1962-63, pp. 1-37, 1-34. Per il problema dei rapporti di Esiodo con l’Oriente e le cosmogonie orientali cfr. J. DUCHESNE-GUILLEMIN, Weltschöpfung, in C. WISSOWA - A. PAULY, Paulys Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, Stuttgart 1893-1963, suppl. IX, in particolare coll. 1439-1456; J. DUCHESNE-GUILLEMIN, Eléments orientaux dans la religion grecque ancienne, Paris 1960. Inoltre cfr. O. GIGON, Der Ursprung der griechischen Philosophie von Herodotos bis Parmenides, Basel 1945; AA.VV., Herodotus et son influence, Genève 1962; R. LAURENTI, Erodoto maestro di morale e di economia, in «Sophia: rassegna critica di filosofia e storia della filosofia», 1965, pp. 84-104. Per un più recente inquadramento generale: G. ARRIGHETTI, Esiodo. Letture critiche, Milano 1975; B. EFFE, Dichtung und Lehre. Untersuchungen zur Typologie des antiken Lehrgedichts, München 1977; P. MUREDDU, Formula e tradizione nella poesia di Esiodo, Roma 1983; R. LAMBERTON, Hesiodus, New Haven - London 1988.

ESISTENTIVO. – Termine introdotto nel linEsistentivo guaggio filosofico italiano da A. Pastore per rendere il tedesco existenziell, tipico del vocabolario filosofico di Heidegger durante gli anni venti, ma che nella sua accezione filosofica ordinaria legata al pensiero kierkegaardiano e alla cosiddetta «filosofia dell’esistenza», ricorre anche in altri pensatori di lingua tedesca, specialmente in Jaspers, nel qual caso è reso solitamente con «esistenziale» (cfr. al riguardo L. Pareyson, Note sulla filosofia dell’esistenza, in «Giornale critico della filosofia italiana», 6, 1938, pp. 407-438). Nella variante «existentiell», – registrata anche nell’assai diffuso dizionario della lingua tedesca Duden –, il termine compare in più luoghi della celebre traduzione tedesca delle opere di Kierkegaard curata dal pastore luterano C. Schrempf in collaborazione con H. Gottsched, grazie alla quale si diffuse il suo pensiero in Germania dai primi decenni del Novecento, ma grazie soprattutto a Heidegger, nei tardi anni venti – come ricorda H.G. Gadamer – «era addirittura una parola alla moda. Ciò che non era esistentivo non contava nulla» (cfr. Existentialismus und Existenzphilosophie [1981], in Gesammelte Werke, vol. 3, Tübingen 1987, pp. 175-176). In ambito giuridico, inoltre, si è di recente iniziato a disciplinare il cosiddetto «danno esistenziale», ossia i danni non patrimoniali. 3597

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Esistentivo Rispetto alla tradizione filosofica tedesca, il termine Existenz – e quindi existentiell – non era più riferito da Kierkegaard a qualsiasi ente, ma esclusivamente all’uomo, per caratterizzare in prospettiva cristiana il fatto che l’uomo certamente esiste, ma in maniera diversa rispetto alla vera realtà che è Dio. Secondo Heidegger, l’esserci (Dasein) è quell’ente che può interrogarsi sul proprio essere, ovvero sulla propria esistenza (Existenz), e lo può fare in due modi: 1) comprendendo se stesso come quell’ente che esiste e che, in quanto aver-da-essere, deve decidere di volta in volta che fare della propria esistenza individuale, oppure 2) rapportandosi al proprio essere per rendere trasparenti a se stesso le strutture costitutive del proprio essere e che complessivamente formano la sua «esistenzialità» (Existenzialität). «Esistentivo» è tutto ciò che rientra nel primo caso e che si riferisce quindi al piano «ontico», vale a dire ai caratteri dell’ente in quanto tale, contrapponendosi pertanto al piano propriamente «ontologico» costituito da ciò che è «esistenziale». Solo in Sein und Zeit (1927) Heidegger giungerà a fare un uso sistematico del termine, sottolineando che l’«analitica esistenziale» ha in fondo radici esistentive, ovvero è radicata nell’esserci stesso che si interroga sulla propria esistenza (e a livello esistentivo si porrà dunque anche la «risolutezza»). Successivamente lo impiegherà in modo occasionale nelle sue lezioni su Nietzsche della seconda metà degli anni trenta, e in modo polemico il termine ricorrerà nell’accezione divenuta comune in quegli anni nelle interpretazioni «esistenzialistiche» di Nietzsche inaugurate da Jaspers. Nel clima della Existenzphilosophie (termine introdotto nel 1929 da F. Heinemann, cfr. il Nachwort aggiunto da Jaspers alla II ed. [1956] del suo Existenzphilosophie, 1937), alcuni interpreti del pensiero nietzscheano avevano rivalutato in particolare la dottrina dell’«eterno ritorno» vedendo nella formulazione della Gaia scienza (cfr. Die fröhliche Wissenschaft, Leipzig 1887, af. 341) una sorta di «imperativo esistenziale», di contro all’imperativo categorico dell’etica kantiana (cfr. al riguardo B. Magnus, Nietzsche’s existential Imperative, Bloomington-London 1978). Contro questa lettura «kierkegaardiana», altri interpreti di Nietzsche rivendicarono come sua dottrina fondamentale la «volontà di potenza», trovando poi piena legittimazione nell’in3598

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troduzione aggiunta da G. Lehmann alla riedizione dei Werke di Nietzsche nel 1939, dove Heidegger e Jaspers furono esplicitamente accusati di aver inaugurato le interpretazioni di Nietzsche come un «pensatore esistenziale (existenzieller)» – accusando così in parte anche A. Baeumler, che coniò questa espressione nell’introduzione ai Werke di Nietzsche (1930) da lui curati e la ripubblicò poi nella sua raccolta Studien zur deutschen Geistesgeschichte (1937). Con tale espressione Baeumler sottolineava la portata «etica» e «storica» (politica) della filosofia nietzscheana nel suo confronto col cristianesimo che plasmò l’Europa, di contro alle interpretazioni psicologiche e letterarie avute prima, ma anche a certe correnti nazionalsocialiste che cercavano una continuità con l’imperialismo romano giustificato storicamente in prospettiva hegeliana, mentre in Nietzsche si assisteva alla feconda ripresa dell’antichità classica greca iniziata con Winckelmann e testimoniata tragicamente poi da Hölderlin. Quest’ultimo aspetto suggestionò Heidegger, come in seguito mostrerà anche la Lettera sull’umanismo (1947), rifiutando però le tesi sostenute da Baeumler nella sua interpretazione di Nietzsche (cfr. la lettera di Heidegger a Baeumler del 19 agosto 1932, in «Margini», 44, 2003, p. 5). In tal senso, durante le sue lezioni degli anni trenta poi pubblicate nel Nietzsche (Pfullingen 1961, 2 voll.), Heidegger distinguerà nella dottrina dell’eterno ritorno un senso «metafisico» e uno «esistentivo», giacché essa si rivolgerebbe da un lato alla dimensione cosmologica e ontologica, dall’altro al suo ripercuotersi sull’esistenza (cfr. GA, vol. 6, t. 1, Frankfurt am Main 1996, pp. 295 ss.). Pur prendendo le distanze dall’uso che si era venuto diffondendo al tempo, Heidegger impiegò occasionalmente ancora existentiell nel senso generico di «esistenziale», rilevando in alcuni abbozzi inclusi sempre nel Nietzsche, come già in Kierkegaard, in Schelling e in Nietzsche si trovino considerazioni di carattere «esistentivo», e precisando altresì che «esistentivo vuol dire questo: l’uomo, nel suo essere uomo, è riferito mediante modi di comportamento non solo al reale, ma in quanto esistente è preoccupato di se stesso, di questi riferimenti e del reale» (cfr. GA, vol. 6, t. 2, Frankfurt am Main 1997, p. 437). Di fronte alla confusione spirituale tedesca della seconda metà degli anni trenta, Jaspers matura invece la necessità di ri-

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Esistenza

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definire l’unilaterale riferimento all’aspetto esistenziale della vita, cercando di responsabilizzare pertanto la sua filosofia dell’esistenza con l’introduzione del concetto di «ragione». C. Badocco ➨ ANALITICA ESISTENZIALE; DASEIN; ESISTENZA; ESISTENZIALE; ESISTENZIALISMO; ETERNO RITORNO, TEORIA DELLO.

ESISTENZA (lat. existentia, esse, exsistere - exiEsistenza stence; Existenz; existence; existencia). – Il significato di esistenza rientra tra i significati del termine essere, quando questo verbo sia preso non come copula del giudizio, né come infinito sostantivato, sinonimo di ente, ma come vero predicato verbale, indicante che una cosa è o esiste di fatto. Però esistenza ed esistere possono dirsi in senso lato di qualunque ente che comunque esista di fatto, oppure in senso stretto e rigoroso, di quegli enti che esistono dipendentemente da altro da sé: esistere allora è un modo particolare di essere: p. es., l’uomo esiste, non è; Dio è, non esiste. Esistere, da ex-sistere, significa stare (sistere), mantenersi nell’essere procedendo da (ex) qualcosa; implica dipendenza, e quindi relatività e finitezza; ma anche una relativa attività e autonomia, in quanto capacità di stare nell’essere ricevuto. Un concetto analogo è implicito nel termine tedesco Da-sein, ove da = «qui» è determinazione spaziale, simboleggiante ogni tipo di determinazione, e Sein indica l’attività di essere. Esistenza è il termine astratto che indica il fatto dell’esistere e, principalmente, quello della sostanza: «sistere “da” [ex] qualcuno, cioè aver ricevuto il proprio essere sostanziale da qualcuno» (Riccardo di san Vittore, De Trinitate, IV, 12, ed. it. a cura di M. Spinelli, La Trinità, Roma 1990, p. 164). Esistenza è dunque principalmente (poiché anche gli accidenti, o modi della sostanza, hanno una loro esistenza che è quella di inerire nella sostanza) l’atto di una sostanza finita per il quale, se è anche corporea, essa è realmente nello spazio e nel tempo, e persevera in esso avendo avuto un principio da cui ha ricevuto quest’atto. SOMMARIO: I. I problemi dell’esistenza. - II. Esame storico: 1. Il pensiero greco. - 2. Il pensiero medievale. - 3. Il pensiero moderno. - 4. Il pensiero contemporaneo. - III. Conclusione. I. I PROBLEMI DELL’ESISTENZA. – L’esistenza in quanto categoria, cioè determinazione concettuale di un particolare modo di essere, implica una serie di problemi metafisici. La relatività e

la finitezza con cui si presenta a noi l’esistente di fatto, richiamano il problema della sua origine (nascita) e della sua fine (morte), e perciò del suo rapporto con il principio (problema del divenire); la sua consistenza, il durare e mantenersi nell’essere implicano il problema del rapporto con l’essenza. Tali questioni, che la metafisica risolve, in generale, nell’ambito di una dottrina dell’essere in quanto essere, si ripresentano, in concreto, quando si consideri quel tipo di esistenza che è l’umana, ove l’esistere è un esistere che ha la coscienza di esistere. La questione diviene allora problema dell’uomo di fronte a se stesso, anzi l’esistenza tende a coincidere con la sua stessa problematica, la quale si anima di un calore e una passionalità ignote alla freddezza scientifica della metafisica (cfr. l’esistenzialismo contemporaneo). Sorge così, dalla considerazione dell’esistenza umana concreta, una tematica ricchissima, che investe tutti i problemi della vita e del destino individuale, in quanto l’esistere è sentito dall’uomo come il proprio personale esistere, e si presta quindi ad esser variamente descritto secondo l’infinita molteplicità di strutture che la vita umana assume. Di qui una fenomenologia dell’esistenza che presuppone però la fondazione metafisica dell’esistenza in quando tale. II. ESAME STORICO. – 1. Il pensiero greco. – La filosofia greca non ebbe una vera e propria fenomenologia dell’esistenza; fu soprattutto essenzialista, vide I’esistenza nel suo perpetuo rapporto con l’essenza, eterna e immutabile. In Parmenide, Platone, Plotino l’esistenza, con la sua individualità, il suo divenire, la sua nascita e morte, è relegata nella sfera del non-essere, dell’ombra, dell’illusione, oggetto d’opinioni ingannevoli (Parmenide, in DIELS FVS, 28 B 2; Platone, Resp., VI, 509 d - 511 e; VII, 515 a - 517 a; Plotino, Enn. III, passim). Tuttavia a Platone, nella vecchiaia, s’impone il problema dell’esistenza: «che cos’è quello che sempre è e non ha nascimento, e che cos’è quello che nasce sempre e mai non è?» (Tim., 27 d). E questo non-essere, cioè l’esistente che nasce e muore, ha la consistenza della copia sensibile modellata dal demiurgo sul «tipo» dell’idea. Data però l’eternità della materia prima, essenziale all’atto plasmatore, ma ad esso estranea, l’esistenza viene a oscillare tra l’atto che non sa totalmente porla e la materia che impedisce che sia pienamente. 3599

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Esistenza Per Aristotele l’esistenza è sostanza (oujsiva), nel senso di individuo che nasce e perisce (Metaph., VII, 15, 1039 b), di un essere particolare che non è predicabile di altro da sé, ma di cui tutto si predica, che cioè non appartiene ad altro da sé, ma cui appartiene quant’altro è (Cat., 5, 2 a 10; Metaph., V, 8, 1017 b). L’esistenza è attualità, l’esistere effettivo della cosa (e[sti d´ hJ ejnevrgeia to; uJpavrcein to; pravgma; Metaph., IX, 6, 1048 a). Per Aristotele, dell’esistente, che è nel divenire reale e concreto, non c’è e non ci può essere scienza propriamente detta, cioè universalmente valida; «non c’è definizione né dimostrazione delle sostanze sensibili particolari» (Metaph., VII, 15, 1039 b). Il termine u{parxi" (esistenza) assume, infine, il suo significato filosofico presso la tradizione stoica, in una netta distinzione dall’oujsiva e dall’uJpovstasi". Per gli stoici oujsiva e uJpovstasi" indicavano il soggetto concreto e materiale, provvisto di piena realtà ontologica, mentre u{p arxi" significava un predicato attuale di questo soggetto concreto, avente solo realtà immateriale di enunciato, o significato (lektovn) (Sesto Empirico, Adversus logicos, I, 38-45). 2. Il pensiero medievale. – La parola existentia fa il suo ingresso nella lingua latina grazie all’opera teologica di Marius Victorinus (attorno al 360 d. C.), pur facendo leva sulle precedenti occorrenze di existentia/existentialitas in Candido l’Ariano e di existentia (come sostantivo neutro plurale) in Calcidio. Essa viene introdotta come traduzione di u{parxi", differenziandola da substantia, che rende oujsiva, e da substinentia, che traduce uJpovstasi". «Tra l’esistenza (existentia) e la sostanza (substantia) vi è una differenza molto più grande, poiché l’esistenza è l’essere stesso il solo ; non è non-essere in altro, ma è lo stesso ed unico essere; la sostanza, invece, non soltanto possiede l’essere, ma è anche qualche cosa di qualificato» (Marius Victorinus, Candidi Epistola ad Victorinum, I, 2, 18-22). In Marius Victorinus si distinguono tre accezioni di esistenza: 1) nella prima l’esistenza si oppone alla substantia, come il puro essere, che non è soggetto né predicato, e al soggetto concreto, in quanto determinato mediante i suoi predicati; 2) nella seconda accezione, invece, esistenza si riferisce all’essere determinato, che ha ricevuto una forma, mentre substantia all’essere ancora indeterminato; 3) nella terza, esistenza diviene semplice sinonimo di substantia, e indica, in 3600

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maniera imprecisa, l’«aliquid esse», l’essere qualcosa. Con il cristianesimo entrano nella speculazione i concetti di creazione, quale productio ex nihilo, di creatore-persona e di creature-persone. È caratteristica in genere della spiritualità cristiana l’esaltazione dell’opera creatrice di Dio, come frutto d’amore e di bontà, per cui anche quel minus esse, che è l’esistenza finita, è bene, perché anzi l’essere tutto, in ogni suo grado, coincide col bene. Alla radice dell’esistenza individuale sta dunque non una degradazione, una caduta dal mondo intelligibile, come per i greci, ma un atto di donazione amorosa, un vero e proprio incremento dell’essere. Il male viene, successivamente, dalla libera volontà dell’uomo; di qui il dramma dell’esistenza umana fatta da Dio responsabile del suo destino. Questi concetti hanno la loro espressione più compiuta e drammatica in Agostino (Confessiones, VII; De vera religione, 1123). Il problema dell’esistenza ha però la sua trattazione tecnica nella tradizione aristotelica, sia tra gli arabi che tra i cristiani, ed è impostato come questione dei rapporti tra essenza individua e la sua esistenza. Si delineano due correnti: l’una, che ha il suo massimo esponente in Averroè e l’epigono in Sigieri di Brabante, e non ammette la distinzione tra essenza ed esistenza; l’altra, annunciatasi con Avicenna e svolta soprattutto da Tommaso, che ammette la distinzione e concepisce la relazione tra l’essenza e l’esistenza come relazione tra potenza e atto, considerando Dio come l’ipsum Esse subsistens. Averroè affronta la questione dei rapporti tra essenza ed esistenza commentando il IV libro della Metafisica e polemizza contro Avicenna che sosteneva la distinzione reale tra essenza ed esistenza, facendo dell’esistenza e dell’unicità dell’ente che ne consegue due «dispositiones additae essentiae rei» (In Librum IV Metaphysicorum Aristotelis Commentarius, cap. 3); egli invece affermava: «substantia cuiuslibet unius, per quam est unum, est suum esse, per quod est ens» (ibid.). Pure Sigieri non ammetterà la distinzione dell’essenza dall’esistenza e, polemizzando con Alberto e Tommaso, sosterrà che l’esistenza è l’essenza stessa nella sua attualità suprema. A questa dottrina si oppone l’altra, che distingue realmente l’esistenza dall’essenza e fa della prima l’atto dell’essenza, l’atto dovuto propriamente all’azione di Dio; l’essenza che è o

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ha un atto nell’ordine della sostanza o degli accidenti, è a sua volta potenza nei riguardi dell’ulteriore actus essendi, nell’ordine ultimo dell’essere. Questa posizione, già in parte annunciatasi in Avicenna, che definiva l’esistenza come accidens adveniens quidditati (cfr. Logica, I, 2; Metaphysica, II, 1, 2; V, 2, 87; in Avicennae perhypatetici philosophi opera, Venezia 1508), diviene esplicita in Tommaso. C’è però disparità di vedute tra gli interpreti a questo proposito: tutti concordano nel ritenere che Tommaso ha ammesso una distinzione reale tra un’essenza possibile, allo stato di mera possibilità, e la stessa essenza attualmente esistente; ma alcuni, e sono la maggioranza, ritengono che Tommaso ha ammessa anche una distinzione reale tra essenza ed esistenza in ogni ente creato attualmente esistente. Ci sono molti passi in cui egli evidentemente concepisce l’esistenza come atto inerente a una forma o essenza come sua potenza: «Tutto ciò che è del genere della sostanza è composto, d’una composizione reale, e cioè ex esse et quod est» (De veritate, q. 27, art. 1); «nella sostanza composta di materia e di forma si trova un ordine duplice: l’uno della materia alla forma, l’altro della cosa già composta all’esistenza di cui partecipa» (De substantiis separatis, cap. 6; cfr. inoltre De ente et essentia, cap. 3). La composizione essenza-esistenza non è della stessa natura della composizione materia-forma, sebbene anch’essa sia composizione di potenza e atto (Summa contra Gentiles, II, 54); cioè l’esistenza non è una nuova forma che s’aggiunga alla forma della materia, ma è un atto rispetto al quale la forma, che è atto per la materia, è potenza. Perciò l’esistenza è definita come «attualità di tutti gli atti, e quindi perfezione di tutte le perfezioni» (Quaestiones disputatae de potentia Dei, q. 7, a. 2; cfr. anche: Summa theologiae, I, q. 4, art. 1). In tutti gli esseri creati c’è dunque composizione: in quelli materiali, tra materia e forma, e poi, tra essenza così formata ed esistenza; nelle sostanze separate invece solo tra forma o essenza ed esistenza. Dio solamente è l’essere semplice, la cui essenza è l’essere nel suo modo assoluto di atto puro: «è il suo stesso essere; per cui alcuni filosofi sostengono che Dio non ha quiddità o essenza, essendo la sua essenza nient’altro che il suo stesso essere» (De ente et essentia, cap. 6). La distinzione dell’esistenza dall’essenza, posta da Tommaso, ripresa poi da Gaetano (In De

Esistenza ente et essentia Divus Thomae Aquinatis Commentaria, cap. 5, q. 11) e sostenuta da molti tomisti fino a oggi, è importante in quanto distingue la metafisica tomistica da ogni altra metafisica. Duns Scoto combatté la distinzione reale, sostenendo che l’esistenza è la determinazione ultima dell’essenza, e che è falso che l’essere sia altro dall’essenza (Opus Oxoniense, l. IV, dist. 13, q. 1, n. 38). Suárez pure definì l’esistenza come semplice stato di attualità dell’essenza; dopo aver distinto l’ente possibile dall’ente reale, egli sostenne che nell’ente, una volta realizzato, non c’è più alcuna distinzione reale tra essenza ed esistenza; c’è soltanto una distinzione di ragione, ma null’altro, perché «ens in actu idem est quod existens» (Disputationes metaphysicae, Hildesheim 1988, d. 31, sez. 4, n. 4, 6; per tutta la questione cfr.: ibi, d. 2, sez. 4, n. 4, 8; d. 31). 3. Il pensiero moderno. – Si giunge così a ridurre l’esistenza a una nota o modo o attributo dell’essenza, per cui la ragione pretende dedurla a priori dall’idea o essenza: posizione propria di tutto il moderno razionalismo, con la nota preferenza per la prova ontologica, che di questa posizione è l’indice più caratteristico. In Cartesio, che non ritiene di dover definire la nozione di esistenza perché la giudica evidente di per sé (cfr. Principia philosophiae, I, 10), tutta la metafisica è una giustificazione a priori dell’esistenza: dell’io, di Dio e del mondo (dall’idea di estensione). Permane la classica distinzione tra l’esistenza divina, inclusa nell’essenza, e l’esistenza finita, che non è inclusa nelle essenze finite (si veda la V delle Meditazioni metafisiche); però, come in Suárez, una volta posta ad essere un’essenza, l’esistenza non vi si può più distinguere (Correspondance, in AT, vol. IV, pp. 349-350). Spinoza è l’espressione più coerente del razionalismo dissolvitore dell’esistenza nell’essenza razionale. «Intendo per eternità l’esistenza stessa, in quanto è concepita come di necessità conseguente dalla semplice definizione della cosa eterna» (Ethica, I, def. 8); perciò «l’esistenza di Dio e la sua essenza sono una sola e medesima cosa» (ibi, prop. 20). E anche fuori di Dio, nella natura naturata, «nulla v’ha di contingente nelle cose; ma tutto è dalla necessità della divina natura determinato in certo modo ad esistere ed operare» (ibi, prop. 29). Il problema in Leibniz è più complesso. Per certi aspetti egli mantiene la posizione razionalistica, facendo dell’esistenza una perfezio3601

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Esistenza ne dell’essenza, per cui «ciascun possibile ha diritto di pretendere all’esistenza in proporzione della perfezione che implica» (Monadologie, 54; cfr, anche: De rerum originatione radicali, in Philosophische Schriften, ed. Gerhardt, Berlin 1875-90, vol. VII, p. 303); cosicché l’esistenza, con tutti i suoi aspetti contingenti, viene ad essere quasi un predicato che analiticamente inest subiecto, perciò da questo deducibile (cfr. Discours de Métaphysique, 8). Il principio di ragion sufficiente, da cui dipendono le verità di fatto, e quindi l’esistenza, è riconducibile al principio di non-contraddizione, almeno nella mente infinita di Dio (cfr.: Opuscules et fragments, ed. Couturat, Paris 1903 [ripr. Hildesheim 1961], pp. 16-19). Alcuni interpreti hanno perciò visto un persistente spinozismo, e quindi panteismo, in Leibniz (cfr.: B. Russell, A Critical Exposition of the Philosophy of Leibniz, Cambridge 1900; L. Couturat, La logique de Leibniz, Paris 1903, rist., Hildesheim 1961). Ma d’altra parte, nella maturità, pur sempre ritenendo l’esistenza una perfezione dell’essenza, Leibniz tiene distinti i due principi, di non contraddizione e di ragione sufficiente (Monadologie, 36-38), e quindi non riduce le verità di fatto a verità di ragione; egli altresì ammette il passaggio dal possibile all’esistente come dovuto a fulgurazione divina (ibi, 47), in base non a necessità logica, ma a libera scelta secondo il principio del meglio (ibi, 55). In seno al razionalismo una forte reazione in senso esistenziale è rappresentata dal pensiero di Pascal. Riconoscere i limiti dell’esprit de géométrie e appellarsi all’esprit de finesse a proposito di quel mistero che è l’uomo, termine medio tra il nulla e il tutto, significa affermare l’eccedenza dell’esistenza rispetto ai nostri concetti (cfr. Pensées, 21, in L’oeuvre de Pascal, a cura di J. Chevalier, Paris 1937); preludio allo scacco esistenzialistico della ragione. Così pure lo sviluppo dell’esistenza umana nella sua storia non si deduce a priori dalla natura umana; miseria e grandezza di questo re spodestato non si chiariscono e si giustificano se non mediante una teologia della storia che poggia tutta sulle figure di Adamo e Cristo (ibi, 483). Mentre il razionalismo ha tentato la concettualizzazione dell’esistenza, per l’empirismo l’esistenza è un dato di fatto empirico: indica l’esserci delle cose in rapporto all’idea, loro rappresentazione mentale. L’empirismo sfocia progressivamente nello scetticismo, in quanto si dimostrerà impossibile l’affermazione 3602

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dell’esistenza come altra dalla sua rappresentazione mentale o fenomeno. Dopo le conclusioni di Locke che, pur potendo intuire l’esistenza dell’io e dimostrare quella di Dio (cfr. Saggio sull’intelletto umano, IV, capp. 9, 10), limita la certezza dell’esistenza del mondo all’attualità della sensazione (ibi, cap. 11), e dopo la più radicale critica di Berkeley che riduce l’esistenza del mondo corporeo al percipi (Trattato sui principi della conoscenza umana, 3-24), Hume analizza l’idea di esistenza in generale, e conclude osservando che essa non aggiunge nulla all’idea dell’oggetto. Perciò mediante essa non possiamo affermare alcunché fuori e indipendente dalle nostre percezioni (Trattato sulla natura umana, I, parte II, sez. VI); l’idea di esistenza è una finzione prodotta dalla credenza (ibi, parte IV, sez. II). L’esistenza è quindi ridotta a mero fenomeno. Christian Wolff fa coincidere completamente ciò, che si dice essente, con il pensabile senza contraddizione, con ciò che è possibile secondo essenza: l’ens è identico al possibile (Logica [1732], Discursus praeliminaris de philosophia in genere, cap. 2, § 29). «Chiamiamo ente (Ding) tutto ciò che può essere, sia reale o no» (Metafisica tedesca, § 16), laddove per realtà (ibi, §14) si intenda il compimento della possibilità in grazia di quell’essere necessario e indipendente, Dio, che «ha in sé la ragione per cui gli altri enti esistono» (ibi, §§ 928-929). Wolff distingue tra essenza (Wesen), «ciò in cui deve trovarsi la ragione del rimanente» (ibi, § 33), sostanza, «un ente esistente di per sé, che abbia in sé la fonte delle sue variazioni» ed «ente esistente (bestehendes Ding) per mezzo di un altro ente», in quanto limitazione del caso precedente (ibi, § 114). Si definisce stato di un ente «il modo di limitazione» di quell’ente (ibi, § 121). La posizione di Kant è diametralmente opposta a quella del razionalismo; prosegue la critica empiristica, ma giunge a una conclusione molto diversa. Criticando l’argomento ontologico dell’esistenza di Dio, Kant osserva che la nozione di una cosa, la sua essenza, può esser completa senza includere affatto l’esistenza (Der einzige mögliche Beweisgrund einer Demonstration des Daseins Gottes, sez. I, oss. 1, 1); «essere, evidentemente, non è un predicato reale, ossia non è un concetto di qualcosa che possa aggiungersi al concetto di una cosa. Essere è semplicemente la posizione di una cosa, o di certe determinazioni in se stesse» (Critica della ragione pura, Dial. trasc., l. II, cap. III, sez. IV:

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Dell’impossibilità di una prova ontologica dell’esistenza di Dio). L’esistenza è quindi per Kant un fatto, indeterminabile a priori. Essa è però anche una delle categorie della modalità (Dasein); questa sua natura concettuale dovrebbe riportarla sul piano logico, tra i predicati di un concetto. A questo proposito però Kant osserva che le categorie della modalità «non aumentano per nulla il concetto al quale sono applicate come predicati, quasi fossero una determinazione dell’oggetto, ma esprimono solo il rapporto con la nostra facoltà conoscitiva»; perciò i principi della modalità non sono oggettivo-sintetici, ma soggettivo-sintetici (cfr. ibi, Anal. trasc., l. II, cap. II, sez. III, 4: I postulati del pensiero empirico in generale. Chiarimento). Nel nostro caso la categoria dell’esistenza significa solo il modo con cui la facoltà conoscitiva può affermare l’esistenza di un oggetto, e si esprime nel postulato per cui «è reale ciò che s’accorda con le condizioni materiali dell’esperienza (della sensazione)» (ibi, 2). Ora, poiché la condizione materiale della sensazione è il dato materiale bruto, non ancora assunto sotto le intuizioni pure, si può concludere che il giudizio di esistenza dipende da questo dato; il quale, poi, è di natura noumenica. L’esistenza è quindi per Kant un puro fatto, presupposto della nostra conoscenza fenomenica, e perciò puramente affermabile come tale, né conoscibile o concettualizzabile in alcun modo. 4. Il pensiero contemporaneo. – Si ripresentano, in un’opposizione irriducibile, le due posizioni: razionalistica, nel panlogismo idealistico; empiristico-kantiana, nell’esistenzialismo. Nel panlogismo di Hegel l’esistenza è completamente risolta nell’essenza; non in un’essenza astratta, ma in quell’universale concreto di cui l’esistente individuale è un momento inverato. Nella sua logica Hegel deduce la categoria dell’esistenza (Existenz, da non confondere con il Dasein, momento ancora astratto del divenire: Enciclopedia, 89). Essa rientra nelle categorie dell’essenza, ed è precisamente il momento in cui l’essenza, come ragion d’essere (Grund: cfr. il principio di ragion sufficiente in Leibniz), è unità dell’identità e della differenza; perciò l’esistenza è l’unità immediata della riflessione in sé (essenza) e della riflessione in altro (fenomeno). L’esistenza è un momento necessario dell’essenza, deducibile da questa che ne è la ragione sufficiente (ibi, 115, 121124). La formulazione logica del problema tro-

Esistenza va applicazione nella metafisica, ove il mondo degli esistenti, il mondo della natura, appare quale un momento di decadenza dell’idea da se stessa (ibi, 248), momento di alienazione e obliterazione dell’essere, necessario alla sintesi risolutrice. Il senso doloroso dell’esistenza come caduta, frattura, esilio e aspirazione nostalgica alla mediazione riparatrice si esprime maggiormente fuori della sistematica hegeliana, nelle opere della giovinezza, con l’interpretazione del giudaismo e del cristianesimo quali categorie storiche, in cui la coscienza umana appare infelice per l’invincibile trascendenza che separa l’esistente da Dio, il finito dall’infinito; categorie contrapposte al momento storico della grecità, espressione invece dell’armonia e dell’equilibrio tra l’individuale e l’universale, l’umano e il divino (cfr. Der Geist des Christentums, in Theologische Jugendschriften, a cura di H. Nohl, Tübingen 1907; v. anche la ripresa e lo sviluppo del tema della coscienza infelice nella Phänomenologie, tr. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, Firenze 1963, pp. 185-203). Questo stesso tema, con intonazione più pessimistica, dell’esistenza cioè come caduta dalla perfezione dell’essere, come espressione di peccato, di irrazionalità o di obiettivazione illusoria dell’assoluto si ritrova nella filosofia della libertà di Schelling e in Schopenhauer, preludio diretto dell’esistenzialismo contemporaneo. Nella seconda fase del suo pensiero Schelling tenta una deduzione dell’esistenza finita dall’assoluto. Non c’è passaggio continuo, ma rottura, salto (Abbrechen von der Absolutheit; Sprung; cfr. Philosophie und Religion, in Werke, Stuttgart 1856 ss., vol. VI, p. 38). Questo salto è frutto della libertà, per cui l’anima, chiudendosi nel proprio egoismo, si stacca dal divino e dà luogo al mondo dell’esistenza finita e temporale (ibi, pp. 42-52). La radice della libertà, da cui trae origine l’orgogliosa negazione dell’esistenza, è in Dio stesso, nel fondo oscuro della sua natura (Grund), che è lotta drammatica fra egoismo (Egoität) e volontà razionale, ira (Zorn) e amore (cfr. Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit, in Werke, cit., VII, p. 352 ss.). In Schopenhauer l’esistenza è ombra e fenomeno, obiettivazione della volontà metafisica. «Nascita e morte toccano appunto al fenomeno della volontà ossia alla vita: e di questa è proprio manifestarsi in individui, i quali nascono 3603

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Esistenza e periscono come effimere apparenze, palesantisi nella forma del tempo, di ciò che in sé nessun tempo conosce» (Die Welt als Wille und Vorstellung, tr. it. di P. Savj-Lopez - G. De Lorenzo, Il mondo come volontà e rappresentazione, Bari 1928, p. 324; cfr. anche nei Supplementi: Della nullità e del dolore della vita). Questo stesso tema dell’esistenza, trattato senza alcuna pretesa di ricavare l’esistente dall’assoluto, anzi rovesciando il sistema idealistico, caratterizza l’esistenzialismo. Il rovesciamento di posizione risulta evidente non soltanto da tutto il complesso della polemica condotta da Kierkegaard contro Hegel, ma anche dalle ultime posizioni assunte dall’esistenzialismo nei confronti del rapporto essenza-esistenza. La fenomenologia husserliana guadagna il suo statuto di scienza di visioni d’essenza (Wesenschau), mediante la messa tra parentesi, nella riduzione, della posizione o tesi di esistenza, non al fine di distanziare la determinatezza concreta del reale, né di rimuovere la consistenza dell’effettualità o anche solo di neutralizzare l’eccedenza dell’esistenza, ma di riuscire a cogliere la sua propria datità. «Assoluta datità nell’originale non è certo una parola vuota. Noi abbiamo una tale datità anche se, nella riduzione fenomenologica, mettiamo fuori gioco ogni esistenza empirica dell’io» (Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins: 1893-1917, ed. it. a cura di A. Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo [1893-1917], Milano 20045, p. 335). Atei o teisti, gli esistenzialisti sono concordi nel dichiarare la priorità dell’esistenza sull’essenza. J.-P. Sartre la fa dipendere dalla negazione radicale di Dio: «non c’è natura umana, dato che non c’è Dio per concepirla; l’uomo non è nient’altro che ciò che egli si fa» (L’existentialisme est un humanisme, Paris 1946, p. 22); Lavelle, pur teista, rifiuta di concepire l’anima come un’essenza chiamata all’esistenza, e la definisce invece come possibilità delle possibilità, cioè atto o capacità di darsi un’essenza (De l’âme humaine, Paris 1951, pp. 146-150, 210-234). Negare che a fondamento dell’esistenza stia un’essenza universale significa per l’esistenzialismo definire l’esistenza come singolo (cfr. S. Kierkegaard, Diario, ed. it. a cura di C. Fabro, Brescia 1949, vol. II, pp. 303-304), come eccezione (cfr. K. Jaspers, Existenzphilosophie, Berlin-Leipzig 1938, pp. 37-39); di qui l’impossibilità di tradurla in concetti, e lo scacco e il 3604

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naufragio della ragione, quando essa pretenda assumere l’esistere concreto sotto i suoi concetti astratti (cfr. Philosophie, III, Berlin 1932, pp. 233-237); naufragio colpevole di tradimento, consumato ai danni della singolarità intima della persona che risulta falsata nell’oggettivazione, nell’esteriorizzazione (cfr. N. Berdjaev, Essais de métaphysique eschatologique, Paris 1946, p. 241, passim), e nelle categorie impersonali dell’avere, del vedere, del problematizzare (cfr. G. Marcel, Être et avoir, Paris 1935, passim). Molteplici sono gli strati semantici riconducibili, in M. Heidegger, sotto il termine esistenza. Nell’analisi esistenziale, con la quale principia Essere e Tempo, l’esistenza (Existenz) è intesa come l’essere dell’esserci (Dasein), in quanto apertura all’essere: «quell’essere stesso verso cui l’Esserci può comportarsi in un modo o nell’altro e verso cui sempre in qualche modo si comporta noi lo chiamiamo esistenza» (Sein und Zeit, Tübingen 19609 [1927], tr. it. di P. Chiodi, Essere e Tempo, Milano 19763, § 4, p. 28). «L’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza» (ibi, § 9, p. 64), tuttavia essenza ed esistenza non ricorrono nelle loro consuete accezioni metafisiche. Quella frase «dice piuttosto che l’uomo è essenzialmente in modo da essere il ci, cioè la radura dell’essere. Questo essere del ci ha il carattere fondamentale dell’e-sistenza, cioè dell’ek-statico stare-dentro nella verità dell’essere. L’essenza e-statica dell’uomo riposa nell’esistenza» (Brief über den «Humanismus», in Wegmarken, Frankfurt am Main 1967, ed. it. a cura di F. Volpi, Lettera sull’«umanismo», Milano 1995, p. 48). L’esistenza, pensata estaticamente, non coincide con la nozione di existentia, poiché, mentre quest’ultima significa «l’actualitas, realtà in contrapposizione alla mera possibilità come idea» (essentia), la prima intende «lo stare-fuori nella verità dell’essere» (ibi, p. 50). In seguito, nel tentativo di allontanare il fraintendimento della filosofia dell’esistenza, Heidegger tenta di chiarire ulteriormente che l’esser-ci come exsistere indica «l’essere-chiamato e lo stare-fuori nell’apertura dell’essere (Seyn)», distinguendo l’esistenza metafisica, intesa quale «presenza, manifestazione», e l’esistenza, secondo la storia dell’essere, che accenna invece all’«insistente estasi nel ci» (Beiträge zur Philosophie, § 179). L’impossibilità di una giustificazione razionale dell’esistenza e, quindi, della sua fondazione

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metafisica, induce molta parte dell’esistenzialismo alla descrizione fenomenologica dell’esistere (cfr.: M. Heidegger, Sein und Zeit, cit., J.-P. Sartre, L’être et le néant, Paris 1949, tr. it. di G. Del Bo, L’essere e il nulla, Milano 1964). Si notano così la sua finitezza nello spazio e nel tempo (Heidegger, op. cit., §§ 22-24, pp. 101-113, § 45, pp. 235-237); il suo incessante trascendere, come continuo esser per la morte che dà luogo alla storicità (ibi, §§ 72-77, pp. 372 ss.); la gratuità assurda della situazione, in cui l’esistenza è stata gettata a vivere, e che l’autorizza all’esercizio altrettanto assurdo e vano della libertà (Sartre, op. cit., p. 560); la finitudine, il rischio, l’instabilità che la rendono strutturalmente problematica (N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, Milano 1942, p. 101). L’impossibilità della giustificazione razionale dell’esistenza non vieta tuttavia all’uomo una qualche rivelazione del mistero della sua vita; tale rivelazione si traduce sempre in un impegno morale: assumere coraggiosamente il proprio destino. Destino di morte, per Heidegger; ma proprio dall’angoscia che sorge innanzi al nulla si distingue l’esistenza autentica da quella banale (Heidegger, op. cit., §§ 5460, pp. 252-267); naufragio per Jaspers, che ha però un magico potere chiarificante, per cui solo nell’atto del naufragare l’esistenza diviene veramente se stessa, e approda all’essere, come al termine della sua tensione (Philosophie, cit., III, pp. 219 ss.); problematicità, per Abbagnano, assunta come struttura tale che si rivela normativa per l’esistenza, fondandola quale possibilità delle possibilità (Filosofia religione scienza, Torino 1947, pp. 25, 50, 83-84). Nell’esistenzialismo teistico, invece, la soluzione del mistero avviene attraverso le vie della fede (K. Barth, Römerbrief, München 19222, passim; L. Chestov, Kierkegaard et la philosophie existentielle, Paris 1948, pp. 271-272, 373), o di un’ineffabile partecipazione alla vita divina (Berdjaev, Marcel). Ma anche in questo caso l’esistenza non riceve consistenza se non nella misura in cui essa nega la propria sostanza singolare. III. CONCLUSIONE. – Riassumendo schematicamente le posizioni circa il problema dell’esistenza risulta: 1) Riduzione dell’esistenza all’essenza: o qualificando l’esistenza come illusione, non essere, e assegnando totalmente l’essere all’essenza (Parmenide, Platone), oppure facendo dell’esistenza un attributo o determinazione dell’essenza (razionalismo mo-

Esistenza derno, Hegel). 2) Esistenza come dato di fatto, posizione indeducibile e ingiustificabile razionalmente (empirismo, Kant, esistenzialismo). Nel primo caso abbiamo priorità dell’essenza sull’esistenza (essenzialismo); nel secondo caso la posizione opposta (esistenzialismo). Sia nell’uno che nell’altro caso il primo termine tende ad annullare il secondo; si hanno, come conclusioni estreme, il panlogismo da una parte, l’irrazionalismo dall’altra. Però sia il panlogismo sia l’irrazionalismo urtano contro opposte difficoltà insuperabili: l’uno non può mai render conto dell’errore, del male, della contingenza che caratterizzano l’esistente, non come note illusorie, ma come realtà di fatto ineliminabili; l’altro nega, arbitrariamente, l’innegabile razionalità dell’essere, quella razionalità che anche nel finito esistente costituisce un aspetto essenziale della sua struttura. Panlogismo e irrazionalismo vanificano l’esistenza, perché l’umano esistere risulta distrutto non soltanto se viene dissolto nell’assoluto (panlogismo immanentistico), ma anche se affermato, esistenzialisticamente, nella sua incoerente relatività, in una contraddittoria assolutizzazione del relativo. In questo caso la conclusione più esatta è quella di Heidegger, per il quale l’esistenza è un essere per la morte; è soltanto nell’atto in cui muore, nell’atto in cui non è: essere e non essere coincidono. Ma tutto ciò è contraddittorio, e il problema risorge, come mostra Heidegger stesso, là dove appariva chiuso: «perché infine l’essente e non piuttosto il nulla?» (Was ist Metaphysik?, Bonn 1929, tr. it. di E. Paci, Che cos’è la metafisica?, Milano 1942, p. 106; Einführung in die Metaphysik, Tübingen 1953, p. 1). Rimane la terza soluzione, quella creazionistica del pensiero cristiano: l’esistenza, cioè l’esistente individuo concreto, viene dal nulla per un atto di libera volontà dell’essere assoluto. In quanto dal nulla, l’esistenza non è una caduta dell’essere, né una sua temporale trasformazione, ma un vero e proprio incremento dell’essere, il sorgere di un essere che prima assolutamente non era. In quanto però dall’essere, da Dio, l’esistente ha una sua struttura razionale, realizza un’idea divina; ha dunque un’essenza. Né l’essenza precede l’esistenza, né questa quella; impensabile l’esistenza che non sia l’esistenza di qualcosa; ma egualmente impensabile, se non per via di astrazione, l’essenza che non sia l’essenza di un esistente. V’è nell’esistente una sua interna razionalità, do3605

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Esistenza vuta all’essenza, ma non tale da giustificare da se stessa la sua posizione nell’essere. Fondamento della sua razionalità e della sua esistenza è Dio, dal quale derivano, in modo necessario, l’intelligibilità degli esistenti, e, liberamente, la loro esistenza di fatto. L’essenza stessa di Dio si risolve nel suo essere (in quel modo di esistere che è unico per Dio), non viceversa, come sostiene l’argomento ontologico. Nell’atto semplicissimo di Dio non è disgiunto il pensiero di un’essenza dalla sua creazione, dalla sua posizione all’esistenza. In quanto però l’atto creatore è frutto di libertà, e non di necessità logica, l’esistenza è contingente, e, pur non essendo né precedente né seguente l’essenza, ne è per questo realmente separabile e distinta. L’esperienza più viva dell’esistenza è quella della persona umana, ove il problema metafisico dell’esistenza raggiunge la più consapevole e meno inadeguata comprensione, in quanto problema di noi a noi stessi (cfr.: L. Stefanini, Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico, Padova 1952, pp. 96-142, 292-336). L’identità della persona, per cui essa sempre si riconosce nella molteplicità e successione dei suoi atti, esprime, a un tempo, l’aspetto statico ed essenziale come l’aspetto dinamico ed esistenziale dell’essere, l’esistenza di un’essenza. Tale identità è presenza cosciente della persona a se stessa, atto di espressione interiore con cui la persona a sé si dice e si rivela; dunque, razionalità dell’esistente personale. Ma d’altra parte, in questa presenza cosciente, la persona esperimenta il proprio limite: l’atto espressivo non esaurisce il suo essere; rimane sempre in noi un dato che non si risolve nell’atto; cioè non riusciamo a porre il nostro essere, ma ci riconosciamo posti nell’essere. Di qui il duplice aspetto dell’esistenza, che consiste e si mantiene nell’essere per il proprio atto (sistit), ma nello stesso tempo dipende e viene da altro (ex): l’esistente è dato all’essere come impegno di darsi incessantemente l’essere. Finitezza dell’esistenza, che postula l’assoluto e l’infinito come sua ultima ragion d’essere. G. Santinello - E. Mazzarella BIBL.: Per la trattazione storica nei singoli autori citati si rimanda anzitutto alle specifiche bibliografie; per la storia del concetto: E. NICOLETTI, «Existentia» e «actus essendi» in s. Tommaso, in «Aquinas», 1958, pp. 241-267; K. BAIER, Existence, in «Aristotelian So-

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➨ DASEIN; ENTE; ESISTENZIALISMO; ESSENZA; ESSERE; FINITUDINE; ONTOLOGIA; OUSIA; QUIDDITÀ.

ESISTENZA, Esistenza

PREDICATO DI: V. LOGICA LIBERA;

LOGICA MODALE PREDICATIVA.

ESISTENZIALE. – Termine che traduce il teEsistenziale desco existenzial coniato da Heidegger e impiegato pressoché solo in Sein und Zeit (1927) in opposizione a «esistentivo», benché ricorra già nei testi pubblicati postumi dei corsi universitari degli anni venti (per le questioni filologiche legate alla decifrazione dei manoscritti, cfr. T. Kisiel, Edition und Übersetzung. Unterwegs von Tatsachen zu Gedanken, von Werken zu Wegen, in Zur philosophischen Aktualität Heideggers, a cura di D. Papenfuss e O. Pöggeler, vol. 3, Frankfurt am Main 1992, pp. 89-107). Nella grafia existential si trova registrato già nel Wörterbuch di R. Eisler (Berlin 19103), rinviando però al concetto di «essere» e ricordandone l’uso da parte di R. Avenarius per indicare una modalità della Heimhaftigkeit, ossia di ciò che è noto e familiare (cfr. Kritik der reinen Erfahrung, vol. II, Leipzig 1890, pp. 483 ss.), ma soprattutto l’uso fattone da A. Dyroff per spiegare la nozione di «esistenza», che nello scritto Über den Existentialbegriff (Freiburg im Breisgau 1902) – studiato a fondo dal giovane Heidegger – è ricondotta all’esperienza ed è quindi definita come qualcosa che spetta all’oggetto indipendentemente dal riconoscimento da parte del pensiero (giudizio): un giudizio che si riferisce al puro esserci (Dasein) nella forma di «A è», mentre si differenzia dal Soseinurteil, cioè che determina l’esistenza dal punto di vista qualitativo: «A è P». Pur richiamandosi al pensiero e alla terminologia di Heidegger, alla grafia tradizionale existential – registrata anche nel dizionario della lingua tedesca Duden – si atterrà anche il teologo R. Bultmann nella sua «interpretazione esistenziale» (existentiale Interpretation) del fenomeno della fede. Il termine distingue tutte le determinazioni relative ai caratteri dell’essere dell’esserci, determinazioni che l’esserci stesso ricava interrogandosi sulla propria esistenza (Existenz) e

Esistenziale attuando quella specifica analisi del proprio essere che è l’«analitica esistenziale». L’esserci può rapportarsi alla propria esistenza anche per metterne a nudo le strutture (gli «esistenziali», che nella loro unità formano l’«esistenzialità») e averne così una comprensione esplicita, filosofica, e non solo per decidere sul che fare del proprio essere comprendendosi come quel singolo ente che, esistendo come un «aver-da-essere» e un «poter-essere», deve scegliere di volta in volta questa o quella possibilità effettiva. Tale autocomprensione che l’esserci ha di sé è articolata linguisticamente, e sarà «esistenziale» quando accade a livello concettuale, oppure «esistentiva» quando è motivata dalla situazione in cui ci si trova. L’analitica esistenziale è guidata pertanto da una comprensione esistenziale, non esistentiva, ovvero considera l’aspetto ontologico e non quello ontico dell’esserci, pur avendo radici esistentive. Muovendo dall’ente che è capace di porsi la questione dell’essere – del proprio essere (l’esistenza) e di quello dell’ente difforme da sé –, e adottando come metodo d’indagine quello fenomenologico, l’analitica esistenziale non può ricavare fenomeni esistenziali che non siano anche possibilità esistentive dell’esserci, giacché essa stessa è una possibilità di comprensione di sé che appartiene all’esserci stesso. In tal senso, il fenomeno fondamentale della «risolutezza» – che, nel suo anticipare o precorrere la morte, è quella possibilità che permette all’esserci di riprendersi dalla dispersione nell’inautenticità del «si» impersonale e di assumersi così la responsabilità per il proprio essere – non è affatto una possibilità esistenziale, ma una possibilità effettiva, ossia si pone a livello esistentivo. Autenticità (Eigentlichkeit) e inautenticità (Uneigentlichkeit) – da intendersi nel senso letterale di ciò che è «proprio» (eigen) e «improprio» – sono i due modi d’essere che l’esistenza può assumere perché l’esserci, in quanto è un poter-essere, si trova a decidere del proprio essere inteso come l’«essere-sempre-mio» (Jemeinigkeit). Anticipando la sua possibilità più propria, l’essere-per-la-morte, all’esserci si mostrano le sue autentiche possibilità esistentive, ossia non già decise dalla quotidianità media del «si». La distinzione tra «esistenziale» ed «esistentivo», se da un lato è in parte parallela a quella tra «ontico» e «ontologico», dall’altro non lo è a quella tra «autentico» (ei3607

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Esistenziali

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gentlich) e «inautentico» (uneigentlich), giacché quest’ultimi si riferiscono entrambi all’esistenza effettiva dell’esserci, ossia al piano esistentivo. C. Badocco ➨ ANALITICA ESISTENZIALE; ESISTENTIVO; ESISTENZA; ONTICO; ONTOLOGICO.

ESISTENZIALI (Existenzialien). – Termine Esistenziali con cui Heidegger definisce, nell’analitica dell’esserci esposta in Sein und Zeit (1927), tutti i caratteri costitutivi dell’esistenza intesa come l’essere dell’esserci (Dasein). L’analitica dell’esserci determinò l’essere di quest’ultimo in riferimento alle strutture costitutive della sua esistenza (che nel loro insieme formano l’«esistenzialità»). Tali caratteri ontologici dell’ente che esiste sono pertanto diversi da quelli di un ente semplicemente presente: non sono «categorie», ma «esistenziali». Esistenziali e categorie sono pertanto le due possibilità fondamentali dei caratteri d’essere: i primi si riferiscono all’esserci, le seconde all’ente non conforme all’esserci. Impiegata sistematicamente solo in Sein und Zeit, questa distinzione – influenzata sia da Aristotele, sia dal tardo Dilthey (che aveva opposto alle «categorie formali» delle scienze della natura, le «categorie della vita» delle scienze dello spirito), e in parte anche dalla «comunicazione indiretta» di Kierkegaard – fu introdotta da Heidegger sin dai primi anni venti, rilevando la necessità di elaborare concetti adatti a preservare la peculiare dinamica dell’esistenza umana, al fine di evitare quindi di reificarla e oggettivarla mediante rigide determinazioni di carattere naturalistico. Gli esistenziali sono infatti «indicazioni formali», ossia concetti che non esprimono determinati contenuti ontici, ma preservano la dinamica dell’esistenza nella sua «attuazione» (Vollzug). L’elaborazione dell’indicazione formale – che è presupposta e non tematizzata in Sein und Zeit –, risale ai primi anni venti, e in particolare all’inizio delle lezioni del semestre estivo 1921 in confronto al metodo della «generalizzazione» e della «formalizzazione» esposto da Husserl nel primo volume delle sue Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie (Halle 1913, ora in Hua, vol. 3, t. 1, Den Haag 1976, § 13). Proprio in queste lezioni si trova una prima definizione degli esistenziali come «categorie ermeneutiche nel senso della storia dell’attuazione» insieme all’uso di Exis3608

tenz, dell’«esistenza» in quanto esserci del sé (cfr. in GA, vol. 60, Frankfurt am Main 1995, p. 232), mentre ancora nelle lezioni del 1920 definiva i concetti riferiti all’«esperienza effettiva della vita» come «concetti esistenziali» (existenzielle Begriffe; cfr. GA, vol. 59, Frankfurt am Main 1993, p. 37). Durante l’elaborazione dell’«ermeneutica della fatticità», invece, gli esistenziali compaiono, in termini che anticipano quelli dell’analitica esistenziale, anche nelle lezioni dei semestri successivi, benché nel trattato apparso postumo Der Begriff der Zeit (1924, ora in GA, vol. 64, Frankfurt am Main 2004) – che rappresenta una prima stesura di Sein und Zeit – ricorrano in alcune glosse manoscritte. Una loro chiara definizione in riferimento al problema della temporalità dell’esserci si trova a conclusione delle lezioni dell’inverno 1925-26, durante il quale Heidegger propose però l’espressione Temporalien («caratteri temporali», ma comune nel linguaggio religioso cattolico di lingua tedesca, dove significa «temporalità») per distinguere i fenomeni concernenti l’esistenza (cfr. in GA, vol. 21, Frankfurt am Main 1976, pp. 402 ss.), mentre all’indomani della pubblicazione di Sein und Zeit Heidegger non se ne servirà più. La nozione di «esistenziali» ha poi trovato particolare applicazione nella riflessione teologica di R. Bultmann. C. Badocco BIBL.: R. BRANDOM, Heidegger’s Categories in «Being and Time», in H.L. Dreyfus - H. Hall (a cura di), Heidegger. A Critical Reader, Oxford 1992, pp. 45-64, tr. ted. Heideggers Kategorien in «Sein und Zeit», in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», 45 (1997), pp. 531-549; F. VOLPI, Der Status der Existenzialen Analytik («Sein und Zeit», §§ 9-13), in T. Rentsch (a cura di), Martin Heidegger: «Sein und Zeit», Berlin 2001, pp. 29-50. ➨ ANALITICA ESISTENZIALE; VOLLZUG.

ESISTENZIALI, GIUDIZI: V. GIUDIZI ESISTENZIALI. Esistenziali ESISTENZIALISMO (existentialism; ExistenEsistenzialismo tialismus; existentialisme; existencialismo). – Corrente di pensiero, fiorita nei decenni centrali del XX secolo, che pone al centro della riflessione filosofica l’esistenza, in particolare l’esistenza umana, l’atto di esistere nella sua irripetibile singolarità, prescindendo da un suo costitutivo rapporto con la realtà oggettiva. L’esistenzialismo, oltre che sul piano filosofi-

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co, diede vita a espressioni culturali letterarie, teatrali e cinematografiche. SOMMARIO: I. L’identità speculativa.- II. Pluralità di metodi e di linguaggi.- III. Lontane premesse e anticipazioni ravvicinate.- IV. Contesto storico e articolazioni per aree linguistiche.- V. Il problema del senso. Modelli di percorso.- VI. Conclusione. I. L’IDENTITÀ SPECULATIVA. – Ricorrendo a una espressione della filosofia tradizionale, potremmo dire che il nucleo speculativo centrale dell’esistenzialismo si riassuma nel primato dell’esistenza sull’essenza. L’esistenza, appunto perché sciolta da vincoli ontologici e metafisici con l’essenza, si sporge senza garanzie sullo scenario fenomenico del mondo. Il termine esistenza, infatti, indica l’atto del consistere, dell’esserci, che procede da altro (sistere - ex). Ma mentre l’esistenza è ineffabile, l’essenza è definibile concettualmente. Il prescindere dal loro rapporto o il rilevarne la inevitabile anomalia, rende l’esistenza radicalmente precaria e il suo consistere si disegna su un abnorme livello di ontologia fenomenologica. Ciò la espone sull’abisso del nulla, oppure la rende capace di un’esaltante (o allucinante) esperienza di libertà. L’esistenza, che si sporge oltre la rassicurante disciplina che discende dalla connessione con l’essenza, è l’oggetto tematico dell’esistenzialismo, la sua identità, il suo più proprio. Da questa posizione discendono orientamenti diversi e talvolta contrapposti: da un lato una visione nichilistica, un’analisi della perdita di senso, dall’altro lato si va oltre la contestazione di concezioni filosofiche sistematiche e si ipotizza una libera progettualità, in un clima speculativo e morale di completa autonomia. Questa seconda posizione ha dato origine a un superamento positivo in una trascendenza che salvi, oppure perviene, nel rischio e nell’attesa, al panico approdo in una ontologia eventuale (da evento, Ereignis). È opportuno distinguere esistenzialismo da filosofia dell’esistenza, per quanto in alcuni autori, soprattutto di lingua tedesca, Existenzphilosophie sia termine equivalente a esistenzialismo. Filosofia dell’esistenza di per sé significa una riflessione speculativa in cui l’esistenza riveste un ruolo centrale, senza tuttavia comportare necessariamente la scissione tra esistenza ed essenza, o comunque senza considerarla nota trascendentale della stessa condizione umana. Filosofia dell’esistenza sarebbe quindi un concetto più esteso di esistenzialismo e meno

Esistenzialismo comprensivo. Agostino, Pascal, Kierkegaard, ad esempio, sono filosofi dell’esistenza senza per questo appartenere all’esistenzialismo, fenomeno successivo, di cui comunque anticipano aspetti non secondari. II. PLURALITÀ DI METODI E DI LINGUAGGI. – In quanto al metodo l’esistenzialismo ricorre a una pluralità di metodologie. Un elemento comune va tuttavia individuato nel metodo fenomenologico, inteso in senso lato. Sia la fenomenologia che l’esistenzialismo operano una radicale contestazione del modo tradizionale di porre le questioni, entrambi si propongono di accedere alla realtà nell’immediatezza del suo darsi, rifiutando quindi la mediazione di una razionalità astratta, formale. Il primato dell’esistenza sull’essenza e l’approccio immediato all’emergenza fenomenica fanno sì che l’esistenzialismo trovi nell’uso del metodo fenomenologico una pratica preliminare. La descrizione esistenziale tuttavia non si mantiene al livello neutrale della fenomenologia, ma, essendo essa stessa una radicale contestazione, perviene a un dato originario che presenta qualche affinità con il mondo della vita. A questo punto però avviene il distacco dalla fenomenologia poiché il mondo della vita, la Lebenswelt husserliana, è una «riserva di senso». Il diverso modo di intendere l’originario rinvia a un’altra prospettiva metodologica, ossia all’ermeneutica. L’esistenzialismo, come filosofia della crisi, è comunque pure esso una interpretazione e l’accennata sconnessione tra esistenza ed essenza è il suo criterio ermeneutico. La lucida descrizione della pura emergenza esistenziale non è un neutrale referto, è interpretazione del darsi dell’esistenza dinanzi a uno sguardo che ne coglie l’anomalia, cioè la sconnessione e il dramma che ne deriva, e ne dà una interpretazione. Non esiste un metodo esistenzialistico, ma un iter metodologico che si giova dell’apporto di una pluralità di metodiche dedotte da metodi diversi. L’iter accennato potrebbe riassumersi in questi termini: dalla contestazione fenomenologica della vita inautentica alla interpretazione di un vissuto originario. Tale interpretazione può compiersi attraverso una analitica esistenziale (Heidegger e Sartre), oppure mediante un approccio concreto (Marcel). L’esito finale del metodo, nel primo caso, è un’interpretazione dei nessi analitici (portati allo scoperto da una contestazione-riduzione radicale) impliciti nel vissuto (ossia l’esistenza nella sua pura pre3609

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Esistenzialismo senzialità). Il risultato di tale ermeneutica è la presa di coscienza dell’esistenza colta nell’estenuarsi della soggettività in una esaustiva rete di connessioni formali. La figura emblematica di questo esito è l’uomo «passione inutile» di cui parla Sartre. Il carattere di discorso al limite di tutto il processo, la neutralità del referto fenomenologico e soprattutto la natura opzionale della scelta del criterio ermeneutico permettono il rovesciarsi dell’esito finale del discorso nel suo contrario: dall’intrascendibile immanenza alle aperture sulla trascendenza (esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico). Il metodo seguito da un esistenzialismo teistico compie lo stesso itinerario fino al momento dell’interpretazione del vissuto che per l’esistenzialismo ateo avviene attraverso l’analitica esistenziale e per l’esistenzialismo teistico mediante un approccio concreto. L’approccio non ha il lucido rigore logico di una analitica, ma è un avvicinarsi per tentativi a un complesso contesto, nel calore della ricerca e della simpatia (un cercare platonico o agostiniano all’interno di una verità presagita: «la speranza è la memoria del futuro» – Marcel). La fenomenologia che individua un contesto analitico è scienza rigorosa, la fenomenologia dell’approccio è analisi di situazioni concrete, di espressioni linguistiche, di attestazioni interiori. Mentre l’interpretazione dell’esistenza che discende da un’analitica esistenziale avviene al termine dell’analisi, nell’interpretazione mediante l’approccio è già presagita, precompresa lungo l’itinerario. Significativo, in proposito, è il titolo di un’opera di Marcel: Posizione e approcci concreti al mistero ontologico, un atteggiamento che diviene quasi emblematico del metodo, o piuttosto dei metodi dell’esistenzialismo efficacemente indicato da P. Prini, in un saggio su Marcel, come metodologia dell’inverificabile. La distinzione tra le due forme di interpretazione (quella dell’immanenza e quella della trascendenza), nel loro concreto esercizio, non è così rigorosa per quanto concerne il linguaggio. Il discorso sul metodo coinvolge anche quello sul linguaggio ed è interessante notare come, sia nell’interpretazione atea che in quella teistica, gli esistenzialisti si allontanino dal linguaggio filosofico tradizionale per affidare, anche all’uso di espressioni inconsuete tipiche di altri contesti culturali, il compito di delineare le nuove prospettive di pensiero. L’esistenzialismo, pure a livello linguistico, ritorna à la 3610

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source, alla genesi delle parole, cercando quasi una provocazione semantica che ridia una freschezza originaria al rapporto tra parola e significato. Termini, analogie, metafore, tratti da aree disciplinari diverse (ad es. incarnazione, apocalissi, brusco risveglio ecc.) esercitano una specie di maieutica di nuovi atteggiamenti teoretici e morali. Nascono nuove comunità di linguaggio ove predomina il linguaggio semantico la cui intensità comunicativa aumenta con la trasposizione di termini da differenti contesti. Per facilitare ciò si ricorre alla pièce teatrale (in Sartre e Marcel), al romanzo (in Sartre e Camus), al saggio, ove la dottrina diventa racconto allusivo e le connessioni concettuali si esprimono attraverso immagini e audacie sintattiche. La sconnessione tra esistenza ed essenza, lo sguardo fenomenologico, l’eidos sotteso all’immagine, il «più proprio», l’autenticità, nell’età esistenzialistica della letteratura filosofica, non sono solo concetti, idee, proposte ermeneutiche ma trame narrative, azioni sceniche, frammenti di poesia. La via esistenziale al pensiero filosofico ha sconvolto le classificazioni tradizionali, gli schemi consolidati dall’organizzazione culturale. I precedenti sono già in alcuni termini della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, ma soprattutto in Kierkegaard e Nietzsche. L’esistenzialismo, nell’estenuarsi di riferimenti consolidati cerca nuove vie per comunicare in autenticità, tenta di dare voce a ciò che sembra sottrarsi alla chiarificazione concettuale. III. LONTANE PREMESSE E ANTICIPAZIONI RAVVICINATE. – Motivi ricorrenti nell’esistenzialismo sono ampiamente presenti nella storia della filosofia, in forma implicita o esplicita, connessi con la riflessione sull’esistenza e sulla condizione umana. Accenniamo soltanto ad alcune tra tante, significative presenze. Si potrebbe iniziare ricordando il senso tragico dell’esistenza nelle tragedie greche che si sovrappone al tentativo di superare la contingenza trasfigurando la realtà nell’eterna giovinezza delle idee. Al limite del mondo classico alessandrino incontriamo un Agostino, poco più che adolescente e prima della conversione, che, di fronte alla morte dell’amico più caro, avverte il venir meno del valore dell’esistenza e diventa egli stesso un grande problema: Factus eram ipse mihi magna quaestio (Conf., IV, 4, 9). Il significato profondo dell’esistenzialismo è già in queste parole ove l’esistere è una gratuita presenza, priva di riferimenti oggettivi, incapace di ri-

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spondere a una radicale richiesta di senso. A enorme distanza di tempo Heidegger osserva come ogni domanda sulla realtà, pensata fino in fondo, sia un mettere in questione se stessi. L’analitica esistenziale di Sein und Zeit rivela il vero volto dell’autenticità umana e smaschera le nostre difese di fronte alla finitudine insuperabile della morte. Ricordiamo ancora la sproporzione costitutiva della condizione umana secondo Pascal, per la cui comprensione Duns Scoto aveva elaborato l’audace nozione di ecceitas e di sola solitudo dell’anima. L’esistenzialismo trova un precorrimento più prossimo nel singolo di Kierkegaard e dopo di lui in Nietzsche con la sua teoria del superuomo, in cui il singolo è tuttavia «volontà di potenza», dominio sui deboli. Nella densa spiritualità russa, F.M. Dostoevskij situa il dramma esistenziale nella coscienza cristiana, riprendendo il tema della sproporzione di Pascal radicalizzandolo con l’invito a «contemplare entrambi gli abissi». Nietzsche si inebria di un solo abisso, rifiuta la mediazione e scompare nelle nebbie della follia. Anche Kierkegaard rifugge dalla mediazione cui contrappone il salto nella fede. Al posto della dialettica, in Kierkegaard troviamo un’analitica esistenziale, e in ciò precorre posizioni tipiche dell’esistenzialismo. Questa analitica ha le sue categorie che indicano situazioni di coscienza dell’uomo in generale, condizioni trascendentali dell’esistenza umana. Le categorie di tale analitica sono l’angoscia, la disperazione, la singolarità. Le categorie dell’angoscia e della disperazione hanno come condizione delle condizioni la categoria della singolarità. È tale singolarità che avvia il processo maieutico attraverso la presa di coscienza che risveglia l’angoscia ed è soltanto nel singolo (Enkelte) che la disperazione può aver luogo e capovolgersi nella radicalità della fede. Il primato del singolo è peculiare dell’atteggiamento antihegeliano, il singolo è indialettizzabile, è la puntualità alogica dell’esistenza, la eccezione permanente e costitutiva al sistema. La prospettiva di Kierkegaard non è un sistema, ma briciole di filosofia e la loro interpretazione è una postilla non scientifica a tali briciole. L’uomo autentico non è un individuo di una specie, né un momento di un processo, né il cittadino di uno stato, è un singolo e non si è singoli se non di fronte a Dio, ossia nel rapporto irripetibile e insostituibile di una relazione personale con l’assoluto, persona esso stesso. Il singolo è uomo, non superuo-

Esistenzialismo mo, nell’ontologia della singolarità non vi è gerarchia tra gli uomini. Kierkegaard esprime chiaramente la sua predilezione per l’uomo comune (menige Mand), per «l’uomo comune puro e semplice, specie per i sofferenti e gli infelici, i tardi di mente ecc. Io ho imparato – afferma Kierkegaard – a ringraziare Dio per questa simpatia come di un dono» (Diario, X, A 348). Dalla tragedia greca a Kierkegaard si svolge un ampio prologo all’esistenzialismo e Kierkegaard lo riassume e lo sviluppa con atteggiamenti speculativi e analisi esistenziali in cui l’esistenzialismo del secolo successivo può trovare non solo premesse, ma elementi costitutivi. Può sembrare comunque che Kierkegaard svolga questa funzione di precorrimento relativamente all’esistenzialismo religioso soltanto. In realtà i due esistenzialismi, il religioso e quello che prescinde della trascendenza, sono più affini di quanto si pensi, convergono nell’itinerario e si differenziano al momento dell’opzione finale di ipotesi di senso, ma Kierkegaard sembra precorrere anche questa situazione attraverso il concetto di possibilità. Gli uomini accomodanti, impegnati nell’affermazione di sé o distratti dall’evasione estetizzante del piacere, sfuggono all’angoscia e quindi all’autenticità. Il sentimento di angoscia infatti nasce con il risveglio della spiritualità. Si tratta di mettere in questione se stessi, di regredire dai comodi equilibri della quotidianità alle tensioni originarie, risalire dalla pacificazione al dramma e insegnare a vivere il rischio della propria umanità. L’angoscia è qualcosa di più grande della colpa poiché il peccato è determinazione, mentre l’angoscia è possibilità. Il concetto di angoscia permette a Kierkegaard di tracciare le figure di una dialettica dell’esistenza dato che l’esistenza è realtà e l’angoscia è avvertimento della possibilità. L’infinita distanza che separa la realtà dalla possibilità genera, quando sia avvertita esistenzialmente in proprio, l’angoscia. Nella contrapposizione di realtà e possibilità si stabilisce un rapporto dialettico, ma è una contrapposizione che non genera una sintesi oggettiva, ma uno smarrimento radicale nell’esperienza dell’angoscia stessa. Da questo smarrimento, che tuttavia ci rivela la nostra infinitudine, ci solleviamo con la disperazione. «Colui che è formato dall’angoscia – scrive Kierkegaard – è formato mediante la possibilità, e soltanto chi è formato dalla possibilità, è formato secondo la sua natura infinita. Perciò 3611

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Esistenzialismo la possibilità è la più pesante di tutte le categorie» (Il concetto di angoscia, p. 194). Eppure se l’uomo perde la possibilità si trova di fronte a una radicalizzazione dell’angoscia, avverte l’impossibilità della possibilità, perviene alla disperazione. La disperazione è il chiudersi della possibilità, l’interruzione del rapporto dell’uomo con se stesso, il sentire dissolversi quel rapporto di finito e infinito che ci costituisce. La salvezza è un atto diametralmente opposto alla disperazione stessa, ossia l’annuncio a chi non può più nulla, che a Dio tutto è possibile. Il ponte speculativo tra la riflessione religiosa di Kierkegaard e la riflessione di chi non compie il salto nella fede è la categoria della possibilità. La possibilità si coglie facendo un «passo indietro» da una realtà costituita verso uno status di rischiosa libertà il cui spazio è garantito dalla «più pesante di tutte le categorie», cioè la possibilità. Imboccata la via esistenziale di una possibilità radicale si perviene a una disperazione irreversibile, se ne esce con il «salto» nella fede, oppure con l’assunzione di una responsabilità, spesso drammatica, che pone in primo piano il rischio, la dignità del vivere senza garanzie. È questa la via dell’esistenzialismo così detto «ateo» e comunque a esito immanentistico. La possibilità è uno snodo cruciale per ogni forma di solitudine ontologica, si trova in quella situazione che Sartre commenta con la nota espressione: «siamo condannati a essere liberi». IV. CONTESTO STORICO E ARTICOLAZIONI PER AREE LINGUISTICHE. – L’esistenzialismo ha lontane premesse e anticipazioni ravvicinate, ma nasce pressoché spontaneo, al di fuori di scuole, dal contesto speculativo e dall’ethos della prima metà del XX secolo, nel periodo tra le due guerre. Nel secondo dopoguerra diviene un rilevante punto di riferimento non solo filosofico, ma anche a livello culturale in senso ampio e di costume. Il nuovo secolo iniziava in chiave celebrativa con la retorica del progresso e della liberazione attraverso la conoscenza scientifica. In realtà il positivismo in declino portava a orizzonti abbassati. La riduzione della morale a sociologia e dell’interiorità al plesso dei processi psichici faceva ripiegare la vita sulla mediocrità. La guerra, con le sue tragedie e il dopoguerra con le sue inquietudini a volte violente, induceva il pensiero filosofico a un ritorno ai temi essenziali della condizione umana. Si affermano motivi antintellettualistici 3612

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espressi nell’intuizione, nell’attivismo, nella dialettica della volontà, nelle sottili indagini sulla prassi. Accanto a queste posizioni a sfondo ottimistico si affacciava l’urgenza di una verifica di fondo sull’esistenza, sul suo fondamento. Da questa verifica sarebbe dipeso un orientamento sul modo di dare senso alla vita singola e associata. In questo contesto sorgono, indipendenti tra loro, ricerche speculative e prospettive etiche e politiche che richiedono nuove procedure metodologiche e il disincanto di chi è consapevole che, alla crisi radicale, occorra rispondere con un impegno radicale. L’esistenzialismo ormai aveva preso forma, individuato metodi, delineato alcuni percorsi. L’inizio dell’esistenzialismo è indicato da G. Santinello (Enciclopedia Filosofica, II ed., vol. 2, Firenze 1967, col. 962) e altri dopo di lui, nel 1919 all’indomani della fine della prima guerra mondiale, anno della pubblicazione delle due opere che diedero inizio alla KierkegaardRenaissance, il Römerbrief di K. Barth e la Psychologie der Weltanschauungen di K. Jaspers. È singolare che entrambe queste opere si riferiscano ad ambiti particolari dell’esistenza, fede religiosa e psicologia, e il discorso filosofico si sviluppi in situazione da questi ambiti. Ciò conferma che la teoresi dell’esistenzialismo emerge dal concreto, nella problematica del vissuto. Va notato inoltre che entrambe le opere appartengono all’area culturale tedesca. Il discorso sull’esistenza aveva avuto notevoli precedenti nella mistica renana e anche Kierkegaard aveva operato ai limiti del mondo germanico e delineato il proprio pensiero in puntuale polemica con quello hegeliano. La filosofia tedesca è la prima patria dell’esistenzialismo che trova in Heidegger, in Sein und Zeit (1927) la definizione dei suoi contorni speculativi. Gli sviluppi del pensiero heideggeriano si estenderanno poi oltre, ma rimane fondamentale il ruolo di Heidegger nel far emergere l’analisi esistenziale dal contesto fenomenologico di Husserl. L’impegno filosofico di Jaspers si inquadra più facilmente, e in maniera più continuativa, nella filosofia dell’esistenza: Vernunft und Existenz (1935), Existenzphilosophie (1938). Il suo esistenzialismo è rivolto a un continuo trascendimento di ogni oggettivazione, pur necessaria, ma sempre provvisoria. Vi è sempre un trascendimento ulteriore come ulteriore è sempre l’impegno alla comunicazione e quindi al confronto nella comune ricerca. Nel dia-

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logo si scoprono consonanze ma anche alterità come avviene tra la fede filosofica di Jaspers e quella nella rivelazione di Barth. Nel citato commento alla lettera ai Romani, Barth riprende motivi kierkegaardiani, reagisce al tentativo di tradurre in termini razionali la parola rivelata e invita a una pura fede che nasca dalla consapevolezza della nostra distanza da Dio, e dalla crisi conseguente a questa consapevolezza. Il secolare sviluppo della riflessione filosofica in Germania dalla mistica tardomedievale a oggi è percorsa dal tema dell’esistenza, che la Riforma ha particolarmente acuito, che in Kant si configura come asimmetria tra ragione pura e concretezza del vissuto, conflitto tra illuminismo e romanticismo. Per superarlo l’idealismo trascendentale ha elaborato le sue dialettiche, ma l’Aufhebung hegeliana si capovolge nell’emergenza esistenziale del singolo o nel prorompente vitalismo. L’esistenzialismo è una ricorrente categoria dello spirito germanico. Nell’esistenzialismo francese confluiscono varie tradizioni filosofiche e temi contemporanei emersi nell’impegno etico-politico e letterario. Da un lato le lucide analisi dell’esperienza interiore che risalgono all’età cartesiana dallo stesso Cartesio e Pascal a Malebranche, successivamente da Maine de Biran a Bergson, alla logica della vita morale in Blondel. In questo contesto di pensiero si innesta la «Philosophie de l’esprit», iniziativa editoriale che fa capo a R. Lesenne e L. Lavelle, a cui più tardi partecipa anche P. Ricoeur. Dall’altro lato si collocano, con particolare attenzione alla vicenda speculativa tedesca (le tre H: Hegel, Husserl, Heidegger) J.-P. Sartre e M. MerleauPonty, la rivista «Les Temps modernes», fondata da Sartre, e successivamente J. Wahl e la sua rivista «Recherches philosophiques» cui collaborerà pure E. Levinas. Gabriel Marcel, con un itinerario che passa attraverso il pragmatismo, giunge a una singolare fenomenologia discorsiva che illustra il mistero cristiano dell’esistenza. Motivi esistenzialistici in senso lato si trovano anche nel personalismo comunitario di E. Mounier, nell’attualizzazione del pensiero tomista in J. Maritain (il primato dell’atto come manifestazione della sostanza) e in E. Gilson (l’originalità dell’actus essendi in Tommaso). Atteggiamenti esistenzialistici animano la riflessione di A. Camus, nella sua rivolta morale di fronte all’assurdo e nel suo impegno etico-politico, impegno presente anche

Esistenzialismo in Sartre, Mounier, Maritain. L’esistenzialismo francese non è solo un’espressione accademica, ma anche pensiero militante, che si raccoglie attorno a riviste, si dibatte nelle librerie del boulevard St. Michel, si pratica nei celebri caffè di Place St. Germain-des-Prés, si diffonde nella narrativa e nell’azione scenica. In Russia l’esistenzialismo ha avuto un precursore, anzi già un protagonista in Fjiodor M. Dostoevskij (1821-1881) nella cui opera di romanziere e di saggista si compie un’evoluzione in senso religioso del nichilismo. Egli illustra la drammatica compresenza di abissale irrazionalità e di riscoperta del senso attraverso l’interpretazione cristiana dell’esistenza (I fratelli Karamazov; L’idiota; Ricordi dal sottosuolo). Va inoltre ricordato Vladimir S. Soloviev (18531900) e la sua accesa polemica con la concezione illuministica della filosofia occidentale, come pure dell’idealismo immanentistico (La crisi della civiltà occidentale, 1874), cui contrappone una metafisica della vita ove i motivi esistenziali si intrecciano con una visione teosofica-escatologica (Tre conversazioni, 1899). Nel XX secolo l’esistenzialismo russo fiorisce a Parigi, intorno ai vari centri filosofici e teologici cui fanno riferimento gli esuli russi. Ricordiamo Nikolàj A. Berdjaev (1874-1948) e le sue opere di ispirazione esistenzialistica: Il destino dell’uomo. Saggio di etica paradossale (1931); Cinque meditazioni sull’esistenza (1935); Dialettica esistenziale del Divino e dell’umano (1947). Approfondire la conoscenza del mistero dell’uomo è, per Berdjaev, il vero criterio per cogliere il senso del mondo. Il problema della conoscenza non si risolve con tecniche conoscitive o psicologiche, è un tema ontologico. Ricercando se stessi si trova Dio. La speranza cristiana è l’autentica risposta agli enigmi della libertà e della sofferenza. Altro pensatore degno di nota è Lev Chestov (1866-1938). La filosofia, per lui, è una continua lotta per chiarire il mistero che è in noi e ci circonda, ma non è con la scienza che possiamo risolverlo. Per intendere il senso dell’esistenza, occorre pensare con le categorie del vissuto contro ogni «imprigionamento dello spirito». Solo con la fede cristiana si perviene alla libertà. La vittoria sul razionalismo astratto sarà allora completa. Alcune sue opere: Kierkegaard e la sua filosofia esistenziale (1936); Atene e Gerusalemme (1938); Il sapere e la libertà (1943). Sono prospettive vicine a quelle degli spiritualisti francesi, ma i filosofi russi presentano una loro originalità per 3613

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Esistenzialismo il radicalismo interiore che li anima e spesso per l’ampia accentuazione comunitaria del loro pensiero etico-politico. Tra i pensatori che hanno continuato a vivere nella Russia sovietica, il più noto è Pavel A. Florenskij (18821943), sacerdote, teologo e filosofo, oltre che insigne matematico e fisico. Nella più vasta delle sue opere: La colonna e il fondamento della verità (1914) possiamo trovare un esistenzialismo diffuso, in cui l’esistenza si trasfigura in un poema teologico cosmico tra l’intimità dell’amicizia e la suggestione estetica e insieme dottrinale della liturgia ortodossa. Florenskij venne fucilato perché oppositore del regime sovietico. La tradizione filosofica italiana è più orientata alla mediazione che alla radicalità e ciò spiega l’iniziale diffidenza verso l’esistenzialismo considerato una forma di irrazionalità (C. Antoni, L’esistenzialismo di Heidegger, 1972, ed. postuma) o una espressione del decadentismo (N. Bobbio, La filosofia del decadentismo, 1944). All’inizio del 1943 la rivista «Primato» si fece promotrice di un’inchiesta sull’esistenzialismo cui parteciparono noti esponenti della filosofia italiana da G. Gentile ad A. Carlini, A. Guzzo, P. Carabellese, A. Banfi, N. Abbagnano, U. Spirito, F. Olgiati, G. Dalla Volpe, C. Luporini, C. Pellizzi. L’argomento prevalente fu il rapporto tra l’atto del pensare, e quindi l’attualismo gentiliano, e l’atto di esistere, e quindi l’esistenzialismo. L’esistenzialismo trovò maggiore comprensione in pensatori spiritualisti (A. Carlini, A. Guzzo, F. Battaglia). L. Stefanini, anche lui spiritualista, che ha dedicato all’esistenzialismo un ampio volume, Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico. Esposizione e critica costruttiva (1952), ritiene che «fino all’ultima filosofia del Novecento non si sarebbe mai pensato a consolidare nella sconnessione, nella frattura, nella contraddizione il senso ultimo dell’essere», ci troviamo dinanzi a un salto, «ma, nel saltare, come sempre avviene, il piede ha preso lo slancio sul terreno dell’altra sponda» (p. 7). L’altra sponda è l’irrazionalismo dell’Ottocento e l’alogicismo antintellettualistico del primo Novecento. Nell’esistenzialismo italiano si possono individuare due correnti, indicate, in qualche modo, nel titolo dell’opera di Stefanini, una che ha il suo centro speculativo nella categoria della possibilità (Abbagnano), l’altra che indica nel rapporto esistenza e persona (Pareyson) lo sno3614

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do teoretico del discorso. Nicola Abbagnano (1901-1990), considerati gli esiti problematici, ipotetici della più recente epistemologia, nota l’affinità tra conoscenza scientifica ed esistenzialismo, come varianti tematiche della possibilità. Il suo è un esistenzialismo positivo, intenzionalmente rivolto a un umanesimo neo-illuministico (La struttura dell’esistenza, 1939; Esistenzialismo positivo, 1948; Possibilità e libertà, 1956). Sulla linea di Abbagnano si pone Enzo Paci (1911-1976) per quale tuttavia l’apertura sul positivo deve mantenere un costante confronto col negativo, come nell’originaria prospettiva kierkegaardiana. La posizione di Paci si sviluppa poi in direzione di un relazionismo fenomenologico (L’esistenzialismo, 1943; Il nulla e il problema dell’uomo, 1950; Dall’esistenzialismo al relazionismo, 1957). Sullo sfondo della possibilità si disegna il plesso delle relazioni fenomenologicamente rilevabili. In Luigi Pareyson (1918-1991) il giudizio sull’esistenzialismo si intreccia con la interpretazione storiografica: il dissolversi della sintesi hegeliana in Kierkegaard da un lato e in Feuerbach dall’altro porta a una concezione dell’esistenzialismo non tanto come prosecuzione spiritualistica di Kierkegaard, quanto piuttosto come una concezione della persona e del suo rapporto con Dio sul terreno ontologico e non sul piano intimistico, esigenziale. L’esistenzialismo si rinnova evitando tanto l’intimismo quanto l’umanesimo ateo e configurandosi come personalismo ontologico: esso è l’ermeneutica del rapporto tra l’inesauribile e la limitatezza della condizione umana finita ma libera. La premessa è in Schelling e lo sviluppo del discorso si gioca attorno a una rischiosa, talvolta tragica, ontologia della libertà (Studi sull’esistenzialismo, 1943; Esistenza e persona, 1950; Verità e interpretazione, 1971; Rettifiche sull’esistenzialismo, 1975). Il dibattito sull’esistenzialismo e sulle correnti filosofiche emergenti sul piano internazionale trovò in Italia sede adeguata fin dal 1939 nell’«Istituto di Studi Filosofici» di Roma diretto da Enrico Castelli (1900-1977) che propose un esistenzialismo teologico. La premessa è un severo giudizio sulla filosofia moderna i cui esiti solipsistici contraddicono il senso comune. Dal solipsismo discendono esperienze negative della «natura lapsa» che le stesse manifestazioni artistiche (il «demoniaco nell’arte») pongono in luce. Dinanzi alla crisi si rende necessaria una risposta esistenziale i cui principi ispiratori

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siano quelli di una autentica esperienza cristiana (Existentialisme théologique, 1948; Introduzione ad una fenomenologia della nostra epoca, 1948; I presupposti di una teologia della storia, 1952; L’indagine quotidiana, 1956). Negli stessi anni e nello stesso ambiente romano Pietro Prini (1915), cui si deve la citata interpretazione dell’esistenzialismo di Marcel come «metodologia dell’inverificabile», propone un esistenzialismo che trova una equilibrata apertura alla trascendenza senza essere intimistico ed evasivo, ma situato nel concreto esercizio della condizione umana, alla cui comprensione è essenziale oggi l’apporto delle scienze umane (Esistenzialismo, 1942; Discorso e situazione, 1967; Il paradosso di Icaro. La dialettica del bisogno e del desiderio, 1976). Un esistenzialismo giuridico viene delineato da Enrico Opocher (1914), allievo di G. Capograssi, un esistenzialismo in cui il «valore giuridico» viene inteso come momento teoretico dell’azione (G.A. Fichte e il problema dell’individualità, 1944; Analisi dell’idea di giustizia, 1977). La varietà di posizioni della filosofia italiana che possono essere ricondotte all’esistenzialismo conferma il carattere di mediazione proprio del pensiero italiano e, allo stesso tempo, finisce per rendere più esteso il concetto stesso di esistenzialismo e meno chiaramente distinto dalla riflessione sull’esistenza condotta su una varietà di piani tematici. Qualcosa di analogo, ma con contorni più definiti, avviene per l’esistenzialismo spagnolo, cui appartiene a pieno titolo il sentimento tragico della vita di Miguel de Unamuno, mentre le nozioni di «circunstancia» e di «vivencia» di José Ortega y Gasset costituiscono lo sfondo culturale. Miguel de Unamuno (1864 - 1936) insiste sulla singolarità dell’uomo che è oggetto di una riflessione di cui è egli stesso il soggetto. Unico tra i viventi sa di essere nato e di dover morire, di qui la grandezza tragica della sua esistenza. È questo sentimento tragico della vita che lo apre a una trascendente salvezza («il desiderio di essere altro senza cessare di essere io [...] è in una parola il desiderio di divinità, la fame di Dio»), un tipico esempio di esistenza che ex-sistet, in sé e in esposizione fuori di sé (Del sentimento tragico della vita, 1914; La vita di Don Chisciotte e di Sancio, 1914; L’agonia del Cristianesimo, 1931). José Ortega (1883-1955) ritiene che il senso della vita e della storia non stia nella dialettica trascendentale dell’io puro, ma nella relazione tra l’io e la sua «circunstancia»,

Esistenzialismo ossia il contesto del vissuto, la «vivencia». Alla ragione pura si deve sostituire la razón vital. La filosofia di Ortega più che un esistenzialismo costituisce uno sfondo esistenziale ove ogni prospettiva ha una sua validità. La verità è un plesso di prospettive (perspectivismo). Tra le sue opere più famose: Meditazioni del Chisciotte, 1914; Il tema del nostro tempo, 1923, La ribellione delle masse, 1930. Notevole il ruolo svolto nella cultura europea da Ortega attraverso la rivista da lui fondata «Revista de Occidente». V. IL PROBLEMA DEL SENSO. MODELLI DI PERCORSO. – L’esistenzialismo nasce dalla consapevolezza del venir meno delle motivazioni ideali dei sistemi speculativi del XX secolo e dalle precarietà delle prospettive attivistiche e vitalistiche con cui il primo Novecento aveva tentato di superare la crisi. Husserl esprime con efficacia la situazione: «Io debbo giungere a una solidità interiore [...] senza chiarezza non posso vivere. Io voglio e debbo, con un lavoro di dedizione, con una approfondimento puramente oggettivo, avvicinarmi all’alta meta» (Persönliche Aufzeichnungen vom 25 Semptember 1906, a cura di W. Biemel, in «Philosophische Studien», II [1951], pp. 306-312). Heidegger si pone sull’itinerario fenomenologico di Husserl, ma la «riduzione» si configura come «passo indietro» (Schritt-zurück; cfr. Identität und Differenz, Pfullingen 1957, pp. 30-40). L’Aufhebung hegeliana portava a compimento in vista di un sapere assoluto, onnicomprensivo. Il «passo indietro» di Heidegger è invece rivolto a smantellare ogni collegamento unificante, ad acquisire un punto di vista iniziale, radicalmente problematico, ove ogni identità si incrina e le differenze si articolano in modi che non possono essere dominati né dalla ragione analitica, né da procedimenti dialettici. La considerazione di Heidegger sul più proprio dell’esistenza umana non consolidata nel concetto di animale razionale, ma tutta apertura-su, implica la decostruzione del soggetto. Dall’idealismo si passa all’esistenzialismo attraverso un particolare uso del metodo fenomenologico: il «passo indietro» è una radicale «riduzione», con una tonalità più esistenziale che logica. Un diverso percorso è quello di Jean-Paul Sartre, un percorso più tipicamente esistenzialistico. Nelle ultime pagine di L’être et le néant (1943), Sartre osserva che l’ontologia «ci abbandona», nel suo sforzo di spiegare l’uomo essa si dissolve e la sopraggiunta chiarezza sfocia nella nota affermazione: «L’uomo è una 3615

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Esistenzialismo passione inutile». L’uomo obbedisce a due intenzionalità che costituiscono il progetto che lui è e in cui il suo consistere si dissolve: da un lato l’autorealizzazione, la metamorfosi del suo per sé in un in-sé-per-sé, che è quanto dire il tentativo di dare consistenza ontologica al suo rapportarsi, quasi un’ipostasi del primato dell’esistenza sull’essenza; dall’altro lato l’appropriazione del mondo inteso come totalità dell’essere in-sé. La doppia intenzionalità si presenta quindi come una tensione orientata a trasformare l’esistenza in essenza e la coscienza in totalità assoluta. Di fronte all’inane e contraddittorio impegno ontologico dell’uomo l’ontologia deve lasciare il posto a una «psicanalisi esistenziale» il cui esito è che l’uomo è una «inutile passione» perché «progetta di perdersi per fondare l’essere e per costituire contemporaneamente l’in-sé che sfugge alla contingenza essendo il proprio fondamento» (L’essere e il nulla, tr. it. di G. Del Bo, Milano 1965, p. 738). Il dramma dell’uomo si consuma in questo tentativo gratuito di farsi Dio: l’uomo è «condannato a essere libero», ossia al rigoroso primato dell’esistenza sull’essenza, un esistere che chiede di essere e di coincidere con l’assolutezza. Facendo propria la legge di Hume, Sartre afferma che dagli indicativi non si possono dedurre degli imperativi. La realtà umana in situazione, tuttavia, pone l’uomo dinanzi a responsabilità morali. La prima di esse è la malafede (di chiara derivazione dall’omonimo «esistentivo» heideggeriano) che investe la serietà della vita, cioè quell’atteggiamento compunto ed enfatico che discende dalla convinzione che cose e avvenimenti, ordinati razionalmente e quindi finalisticamente da una volontà superiore, attendono da noi una risposta. L’uomo «in malafede» si appropria delle cose come elementi autonomi di un disegno particolare, «offusca tutti i suoi scopi per liberarsi dall’angoscia» (ibi, p. 751), nasconde a se stesso il suo vero progetto e si convince ad arte di «essere atteso da compiti posti sulla sua strada» (ibid.). Il vero scopo, rivelato dalla psicanalisi esistenziale, è invece «l’essere come fusione sintetica dell’in-sé col per-sé» (ibi, p. 572). L’uomo si troverà, in tal modo, di fronte al fatto della propria passione, unica passione che si presenta sotto forma di progetti diversi. Se depurati dai loro differenti contenuti e colti nella comune struttura ontologica dell’appropriazione assoluta, si equivalgono. «È la stessa cosa ubria3616

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carsi in solitudine o guidare i popoli» (ibid.). Che fare dopo questa presa di coscienza? Sartre, pur mantenendo la stessa anomalia ontologica, tenta la strada dell’impegno etico-politico cui è dedicata l’ampia opera Critique de la raison dialectique (1963). Il valore di questo tentativo viene chiarito nel complesso degli «insiemi pratici». Il gruppo in fusione è l’insieme in cui si opera il «brusco risveglio», l’«apocalissi» (op.cit., tr. it. Milano 1963, vol. II, pp. 36-42). Questo gruppo è l’elemento in base a cui l’uomo singolo si realizza completamente nella dimensione risolutiva della comunità. Ciò è reso possibile dal sopraggiungere, nell’esperienza degli uomini in lotta per rivendicazioni comuni, dell’avvertimento che essi non lottano per interessi materiali di parte, ma per quelli della giustizia. Allora si compie la catarsi, l’evento «apocalittico»: la lotta di classe diventa lotta di liberazione totale. In questa lotta nasce una fraternità nuova e assoluta, il gruppo entra in fusione: il gruppo è quella oggettività interiorizzata, un’oggettività vissuta in seno alla quale il singolo coglie se stesso nell’esultante pienezza della realizzazione completa. Il gruppo in fusione però è soltanto un momento del processo (dialettica costituente all’interno di una dialettica costituita), la sua anticipazione del riscatto finale è esposta a un depotenziamento fino al rovesciamento della situazione. La vittoria ha bisogno di consolidarsi, si determina così un ristretto gruppo di custodi della verità rivoluzionaria che si stringono in un giuramento e costituiscono la fraternità terrore. La rivoluzione vittoriosa, in tal modo, crea in sé la cristallizzazione antidialettica, l’insurrezione al potere dà vita a nuovi strumenti di alienazione (cfr. ibi, pp. 125 ss.) L’enigma di questo rovesciamento di intenzionalità è nell’uomo. La presenza dell’uomo con le componenti interiori e pubbliche della sua esistenza dà vita a un difficile rapporto con il mondo: con l’uomo irrompono nella scena il fatto della libertà e della coscienza del singolo. Il progetto di liberazione cela «sotto la traslucidità della libera praxis individuale il sottosuolo roccioso della necessità» (ibi, vol. I, p. 191). «La soggettività si presenta allora – afferma Sartre con estrema lucidità – in tutta la sua astrazione, con la condanna che ci obbliga a realizzare liberamente e da se stessi la sentenza che una società in corso ha emesso su di noi e che ci definisce a priori nel nostro essere» (ibi, p. 192). È in questo

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contesto che agisce il pratico-inerte, un’oscura forza che puntualmente riappare a contrastare ogni «brusco risveglio». Sono queste le basi da cui si sviluppa la ricerca sugli «insieme pratici» che Sartre, parafrasando il titolo di una nota opera di Kant, indica come Prolegomeni ad ogni antropologia futura. Tra le contraddizioni di questa antropologia (che sembra costituirsi come plesso di condizioni trascendentali) potrebbe trovare spazio anche ciò che Sartre denuncia come atteggiamento di un marxismo dogmatico: «La ricerca totalizzatrice ha lasciato il posto a una scolastica della totalità. Il principio euristico “cercare il tutto attraverso le parti” è diventato la pratica terroristica: “liquidare la totalità”» (ibi, p. 31). L’esistenzialismo non può avere spazio in una prospettiva che preveda il compimento, dialettico o analitico, di un processo di totalizzazione. Il tendere al compimento nella consapevolezza dell’impossibilità di raggiungerlo e della provvisorietà del configurarsi di mete intermedie, determina invece prospettive che permettono di cogliere l’esistenza in costante esposizione. Karl Jaspers ha seguito questo percorso e quindi il suo pensiero appartiene a pieno titolo all’esistenzialismo. La scissione soggetto-oggetto (Subjekt-Objekt Spaltung), caratteristica della scienza e della filosofia tradizionale, viene superata, secondo Jaspers, da un «pensare oltre» (über-hinaus denken), un trascendere, che procede oltre nel tempo e nella inesausta comunicazione. In questo processo sempre aperto ci si imbatte in una situazione limite, una estrema possibilità speculativa quando Jaspers accenna, sia pur brevemente, al ruolo dell’istante e del silenzio. In Vernunft und Existenz, Jaspers afferma: «Il silenzio dell’essere della verità nella trascendenza [...] ecco il limite nel quale per qualche istante può risplendere ciò che è il tutto senza divisioni, ma nel mondo esso scompare per quanto influisca decisamente sull’essenza dell’uomo, ed è incomunicabile, poiché la comunicazione lo attirerebbe nei modi dell’essere onnicomprensivo nei quali sarebbe frainteso. La sua esperienza – conclude Jaspers – è assolutamente storica: nel tempo, eppure al di là del tempo. È per esso che si può parlare, ma non si può parlare di esso. Per il pensiero come per la comunicazione il punto d’arrivo è il silenzio» (Vernunft und Existenz, München 1960, tr. it. Torino 1960, p. 125).

Esistenzialismo L’istante (e quanto avviene nell’istante) è qualcosa del tutto eccezionale, ma tuttavia è qualcosa di possibile che dovrebbe sospendere il trascendimento infinito. La frase riportata conclude il capitolo Verità come comunicabilità in cui si afferma che «la verità per l’uomo esiste come verità in divenire, e precisamente come verità che diventa comunicazione. Se la si scioglie dalla comunicazione, degenera subito in verità statica che si trasforma in conoscenza di qualche cosa invece di essere se stessa» (ibi, p. 122). La comunicazione è «ardente desiderio che nasce nella realtà del tempo», ma è destinata al «naufragio» poiché il suo compimento comporterebbe l’attingere un «Uno, la verità in forma per noi inaccessibile». Lo scacco della comunicazione non è, comunque, un limite tragico che ci respinga nell’indeterminato, ma ci sospinge «verso una rivelazione sconfinata perché l’incomunicabile si mostri nella sua vera essenza, entrando nella comunicazione» (ibi, p. 123). La sconnessione tra soggetto e oggetto non si risolve nemmeno nella sospensione (im Schweben) che caratterizza l’«operazione filosofica fondamentale»: anche la sospensione, infatti, non è che un attimo in cui ci si può fermare, si tratta di un’esperienza «assolutamente storica». Un ulteriore chiarimento si può cogliere in un altro testo di Jaspers sui rapporti tra fede filosofica e fede nella rivelazione, ove l’attimo in cui le due fedi possono convergere è quello dove gli ambiti dei contenuti si ritirano sullo sfondo e prevale la situazione comunicativa: «Forse può scorgersi il più attendibile legame là ove questo si presenta nell’atto della sua realizzazione e non già nel contenuto di una sua enunciazione. Non è necessario – continua Jaspers – che il linguaggio della fede e il contenuto della fede siano una stessa cosa. Piuttosto non dobbiamo noi attendere e rimanere preparati a quell’attimo nel quale sia possibile – grazie alla situazione comunicativa cui spetta il momento decisivo – incontrare l’altro anche nella sua fede, senza però seguirlo nel suo ambito?» (K. Jaspers - H. Zahrnt, Philosophie und Offenbarungsglaube, Hamburg 1963, tr. it. Brescia 1971, p. 89). Un linguaggio senza contenuto è puro atteggiamento, ma può avere anche un significato più profondo, quello del silenzio espressivo, un comunicare nella pienezza che supera le determinazioni concettuali e storiche, linguaggio proprio di chi ha superato ormai la prova nella «prassi della vita». 3617

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Esistenzialismo Questa posizione potrebbe convergere con quella descritta nel passo precedente, in cui il silenzio diventa contenuto dell’istante e in cui la condizione di infinita ricerca è sospesa. Alla luce di questa corrispondenza può divenire comprensibile la distinzione tra fede e ambito della fede. La fede è l’abbandono a una pienezza di senso ove si sperimenta la salvezza, ove la prova della prassi della vita è superata, ove le determinazioni concettuali e storiche della fede («ambito della fede») sono superate (non tolte). Chi professa la fede filosofica si troverebbe quindi a prescindere dai contenuti della fede positiva, ma non nella necessità di negarli. Nel silenzio pieno di significati inesprimibili, anche la sua fede è in qualche modo fede positiva. Un’ulteriore esemplificazione di percorsi seguiti da pensatori vicini all’esistenzialismo è quello di un singolare modello speculativo in cui fenomenologia descrittiva, analisi semantica di usi linguistici, specie del vissuto morale, conducono a un contesto ontologico, anzi di metafisica non intellettualistica. Si tratta di Gabriel Marcel. Il suo pensiero apparentemente riconducibile a un suggestivo discorso persuasivo, presenta un plesso teoretico ben strutturato. In Marcel il rapporto tra essenza ed esistenza si traduce nell’inconsueto binomio essere e avere (l’opera di E. Fromm è successiva) con notevoli conseguenze: la natura dell’essere è metaproblematica, «mistero», e il rapporto essere e avere è di natura morale, di una moralità coinvolta nel mistero dell’essere. Una singolare proporzione inversa si stabilisce tra ciò che siamo e ciò su cui esercitiamo il nostro possesso: più si ha, meno si è, e viceversa: più si resta coinvolti nel mistero ontologico, più ci si muove con sereno e generoso distacco tra le cose. L’uomo è homo viator, in quanto non sistemato nell’avere, la sua esperienza è «una avventura in corso», sul suo corpo egli non esercita un arbitrario possesso, la corporeità è un consistere nell’essere. Possiamo cogliere le articolazioni speculative a partire da una affermazione paradossale: «La speranza è come una memoria del futuro» (Homo viator, Paris 1945, tr. it. Torino 1967, p. 65. Il saggio Abbozzo di una fenomenologia di una metafisica della speranza, incluso in Homo viator è del 1942), un paradosso su cui si misura il senso della temporalità. «Se il tempo è, per la sua essenza, separazione e quasi perpetua disgiunzione, la speranza mi3618

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ra invece alla riunificazione, alla conciliazione» (ibid.). L’osservazione marginale riceve un significato più profondo nell’ultima frase del saggio: «Potremo dire che la speranza è essenzialmente la disponibilità di un’anima, così intimamente impegnata in un’esperienza di comunione, da compiere l’atto trascendente in contrasto con il volere e con il conoscere, mediante il quale essa afferma la perennità vivente di cui questa esperienza offre insieme il pegno e le primizie» (ibi, p. 80). Non si tratta di sperare in qualche cosa (sperare che..., sperare di...) ma di vivere nella speranza: una speranza trascendente («sperare in Te per noi»), e insieme condizione trascendentale, esperienza diffusa che coinvolge ogni momento dell’esistenza, speranza globale che va oltre i confini della esperienza individuale. La vera speranza, quella che ci fa sperare contro ogni motivo di speranza, oltre ogni possibilità di intervento della volontà, ha come presupposto la comunione, la partecipazione intima, la vittoria sul tempo e sullo spazio. Ciò avviene attraverso l’intersoggettività che si rivela interpersonale. Se il futuro è ciò che dà senso alla vita, finisce per identificarsi col senso stesso e noi lo sperimentiamo «vivendo nella speranza». Tale speranza è l’intensità di comunione che la rende possibile discendendo dal nostro affidarci a una testimonianza che ci trascende, che fonda e precede il tempo di cui avvertiamo lo scorrere, che era prima che noi fossimo, di cui portiamo traccia dentro di noi; ricordare è allo stesso tempo atto di speranza nel senso forte del termine. Si tratta di un nuovo modo di indicare la densità speculativa della reminiscenza platonico-agostiniana. Il vivere nella speranza è l’espressione con cui Marcel allude a una esperienza di comunione che richiama la «memoria» di Agostino. Nel cammino dell’homo viator, questa memoria si precisa con i termini paolini di pegno e di primizia. La speranza è quindi l’avvertimento del futuro già in qualche modo conosciuto come ricordo. Il problema del senso, problema centrale dell’esistenzialismo, diventa un meta-problema ove passato, presente e futuro si dispongono in un ordine misterioso, la cui immagine è la perennità vivente. Di ciò non si può chiedere una dimostrazione, ma una descrizione che dovrebbe persuadere per il senso positivo che l’accoglierla darebbe all’esistenza. I modelli descritti presentano alcuni caratteri comuni: mettono in questione la possibilità di

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ritenere garantito l’equilibrio tra essenza ed esistenza, una esistenza in cui la disciplina sia dedotta dall’essenza. L’esistenza, sciolta da supporti ontologici e metafisici, pone in forma radicale la questione del senso. Nel tentare la soluzione di questo problema pregiudiziale le vie divergono e danno luogo a diverse forme di esistenzialismo. I percorsi indicati hanno una comune premessa: regredire a una situazione iniziale che faccia emergere, in tutta la sua drammaticità il problema del senso. Le risposte a questa emergenza sono diverse dato il rifiuto di ogni deduzione fondata sull’uso astratto della razionalità. Le vie indicate sono quelle di una lucida e disincantata negatività (l’uomo come «passione inutile» che non si riscatta che per breve tempo nell’impegno etico-politico dell’intersoggettività, nel «gruppo in fusione»), oppure in una positività dell’esistenza (attraverso il continuo trascendimento, prospettiva teleologica sempre aperta che conferisce dignità etica all’esistenza privata e all’impegno pubblico). Un’ulteriore soluzione è l’accoglimento del dono della vita (attraverso il «vivere nella speranza» fondato in una intensa comunione e la trascendente testimonianza che la fonda). L’esistenzialismo si precisa in tal modo come radicale contestazione da un lato, come altrettanto radicale concezione del senso dall’altro, un senso negato o accolto a seconda del modo di porsi di fronte alla «prova della prassi». Si potrebbe aggiungere una variante, la posizione di Albert Camus, per il quale l’uomo e il mondo sono realtà positive, ma ciò che è assurdo è il loro rapporto. Di fronte a tale situazione occorre «essere più giusti della condizione ingiusta che ci viene fatta», occorre una rivolta morale che si arricchisca della compassione per l’uomo (cfr. Le Mythe de Sisyphe, 1943; L’homme révolté, 1951). VI. CONCLUSIONE. – La vicenda storica dell’esistenzialismo sembra conclusa. L’attenzione speculativa oggi si orienta su temi diversi e usa differenti metodi e linguaggi. Si potrebbe comunque mutuare un’espressione usata da P. Ricoeur in un articolo del 1983 a proposito del personalismo: muore il personalismo, riprende rilievo la persona («Meurt le personnalisme, revient la personne» in Lectures 2). L’esistenzialismo si esaurisce, ma si riaccende il dibattito sull’esistenza. Un’ulteriore analogia col personalismo si può cogliere in J. Lacroix per il quale il personalismo è soprattutto un’anti-ideologia (Le personnalisme comme anti-idéologie,

Esistenzialismo 1972). L’ideologia cui reagisce l’esistenzialismo è quella di chi afferma il completo dominio logico dell’esperienza esistenziale. Questo tipo di razionalità ha finito oggi per prevalere con l’affermarsi delle varie analitiche che investono ogni manifestazione del soggetto. Il senso finisce per coincidere con la chiarezza delle proposizioni e, nel significato in cui lo intende l’esistenzialismo, é ritenuto non-senso. Nel migliore dei casi, come nel Wittgenstein del Tractatus, è l’ambito dell’inesprimibile (das Mystische) di cui bisogna tacere, anche se riconosciuto di fondamentale importanza per l’uomo. Il senso dell’esistenza ritorna ad essere tema del discorso da parte del pensiero debole, che tuttavia percorre itinerari diversi da quelli dell’esistenzialismo ed è spesso coinvolto in una atmosfera di evasione estranea all’esistenzialismo. Il nucleo speculativo dell’esistenzialismo (il problematico rapporto tra essenza ed esistenza) è comunque un tema perenne la cui risonanza può variare a seconda delle circostanze storiche, ma il cui problema fondamentale non può non ripetersi (nel senso heideggeriano dell’espressione). L’esistenzialismo del XX secolo ha indicato gli esiti estremi cui può giungere l’esistenza in stato di emergenza, sia che l’uomo, come per l’ultimo Sartre di Le parole, sia «un viaggiatore senza biglietto» che scende a una stazione «dove nessuno l’aspetta» (Les mots, 1964, tr. it. Milano 1964, pp. 174-175), sia che, come per Marcel, possa impegnarsi in «una esperienza di comunione» così intensa «da compiere l’atto trascendente» (Abbozzo di una fenomenologia e una metafisica della speranza, tr. cit., p. 80). Oppure che, in un clima di quotidianità pensosa, impegni l’uomo in una progettualità «nell’ambito trascendentale del possibile» (N. Abbagnano, Esistenzialismo positivo, cit., p. 37). L’esistenzialismo è stato una vasta contestazione speculativa che ha portato l’esistenza a una libera esposizione senza supporti oggettivi. I singoli esistenzialisti ne hanno dato diverse interpretazioni a seconda della precomprensione da cui partivano, dando luogo a discorsi intenzionalmente persuasivi. La fenomenologia dell’esistenza, su cui si fondano le singole ermeneutiche, così direttamente radicate nel vissuto, non potevano essere rigorosamente neutrali. Costituirono, comunque, preziosi paradigmi su cui misurare l’autentici3619

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Esistenzialismo tà, il più proprio della condizione umana, la sua insuperabile complessità. A. Rigobello BIBL.: rassegne e profili storiografici: C. FABRO, Rassegna dell’esistenzialismo italiano, in «Divus Thomas», 5-6 (1943), pp. 431-440; V.A. BELLEZZA, Bibliografia italiana sull’esistenzialismo, in «Archivio di filosofia», 1-2 (1946), pp. 143-217; F.J. BRECHET, Einführung in die Philosophie der Existenz, Heidelberg 1948; R. JOLIVET, Französische Existenzphilosophie, Bern 1948; M. SERVETTI DE TORRANO, Aportes bibliográficos al tema: existencialismo. Fuentes, obras, crítica, Montevideo 1951; F. VALENTINI, Esistenzialismo e marxismo. Rassegna di scritti francesi, in «Giornale critico della filosofia italiana», 31 (1952), pp. 78-96; O.F. BOLLNOW, Deutsche Existenzphilosophie, Berna 1953; J. MARIAS, El existencialismo en España, Bogotà 1953; R.H. BROWN, Existentialism: a Bibliography, in «The Modern Schoolman», 1953-1954; S. GOMEZ NOGALES, Bibliografía, principalmente hispánica, sobre el existencialismo, in «Pensamiento», (1954), pp. 106-210; E. OGGIONI, L’esistenzialismo. Introduzione storica e critica allo studio della filosofia esistenzialistica, vol. I: Questioni generali, vol. II: Bibliografia, Bologna 1956; A. BURTON - D.T. LEMDE, Bibliography. Sources of Existential Thought, London 1961; R. KLIBANSKY (a cura di), La philosophie au milieu du XX siècle, Firenze 1962, 2 voll., la bibliografia sull’esistenzialismo è a cura di J. Wahl, pp. 78-84; K. DOUGLAS, A Critical Bibliography of Existentialism, New York 1966; A. SANTUCCI, Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna 1967; A. NEGRI, Studi italiani sull’esistenzialismo, in «Cultura e Scuola», 30 (1969), pp. 89-97; G. SAVOINI, Studi sull’esistenzialismo in America, in «Rivista di Filosofia», (1970), pp. 405-418; E. NEUMANN, The New Dictionary of Existentialism, New York 1971; G. PENZO, Esistenzialismo, in Dizionario teologico interdisciplinare, vol. III, Torino 1977, pp. 133-137; P. PRINI, Storia dell’esistenzialismo. Da Kierkegaard ad oggi, Roma 1989; E. GARIN, L’esistenzialismo in Italia dalla metà degli anni Trenta all’inchiesta su «Primato» del ’43, in B. MAIORCA (a cura di), L’esistenzialismo in Italia, Torino 1993 (lo scritto di Garin risale al 1955). In appendice il volume riporta il testo degli interventi del ’43 sul «Primato»; P.A. ROVATTI, Esistenzialismo, in PAOLO ROSSI (a cura di), La Filosofia. vol. IV: Stili e modelli teoretici del Novecento, Torino 1995, pp. 85-115. Letteratura secondaria: L. PAREYSON, Studi sull’esistenzialismo, Firenze 1943; N. BOBBIO, La filosofia del decadentismo, Torino 1944; C. FABRO, Problemi dell’esistenzialismo, Roma 1945; J.-P. SARTRE, L’esistentialisme est un humanisme, Paris 1946; N. ABBAGNANO, Introduzione all’esistenzialismo, Torino 1947; F. BATTAGLIA, Il problema morale dell’esistenzialismo, Bologna 1947; J. BENDA, Tradition de l’existentialisme ou les philosophes de la vie, Paris 1947; J. HESSEN, Existenzphilo-

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sophie. Grundlinien einer Philosophie des menschlichen Daseins, Essen 1947; E. MOUNIER, Introduction aux existentialismes, Paris 1947; AA.VV., L’esistenzialismo, «Atti del Congresso Internazionale di Filosofia (Roma 1946)», vol. II, Milano 1948; R. JOLIVET, Les doctrines existentialistes. De Kierkegaard à Sartre, Paris 1948; M. MERLEAU-PONTY, L’esistenzialismo di Hegel, in Sens et non-sens, Paris 1948, tr. it. Senso e non senso, Milano 1962, pp. 87-94; M. MERLEAU-PONTY, Le polemiche sull’esistenzialismo, in Sens et non-sens, Paris 1948, pp. 95-106; J. GUITTON, L’existence temporelle, Paris 1949; M. MÜLLER, Existenzphilosophie im geistigen Leben der Gegenwart, Heidelberg 1949; H. KUHN, Begegnung mit dem Nichts. Ein Versuch über die Existenzphilosophie, Tübingen 1950; A. ALIOTTA, Critica dell’esistenzialismo, Roma 1951; L. GABRIEL, Existenzphilosophie. Von Kierkegaard bis Sartre, Wien 1951; C. ASTRADA, La revolución existencialista, Buenos Aires 1952; L. LANDGREBE, Philosophie der Gegenwart, Bonn 1952; P. PRINI, Esistenzialismo, Roma 1952; L. STEFANINI, Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico. Critica costruttiva, Padova 1952; I. LEPP, La philosophie chrétienne de l’existence, Paris 1953; F.H. HEINEMANN, Existenzphilosophie lebendig oder tot?, Stuttgart 1954; J. WAHL, La philosophie de l’existence, Paris 1954; P. CHIODI (a cura di), L’esistenzialismo, Torino 1955; W. KAUFMANN, Existentialism from Dostojewski to Sartre, New York 1956; G. MENDE, Studien über Existenzphilosophie, Berlin 1956; E. GARIN - E. PACI - P. PRINI, Bilancio della fenomenologia e dell’esistenzialismo, Padova 1960; A. DE WAEHLENS, L’existentialisme, in M.F. SCIACCA (a cura di), Les grandes courants de la pensée mondiale contemporaine, II parte: Les tendances principales, Milano 1960, pp. 465-569; H.E. BARNES, The Literature of Possibility: a Study in Humanistic Existentialism, London 1961; V. FATONE, Introducción al existencialismo, Buenos Aires - Madrid 1962; J. SCHIEDER, Zwischen Fundamentalismus und Existentialismus, Berlin-Hamburg 1962; P. CHIODI, Esistenzialismo e fenomenologia, Milano 1963; J. VIDIELA, De Kierkegaard a Sartre. El existencialismo, Barcelona 1963; I. MANCINI, Filosofi esistenzialisti, Urbino 1964; J.B. LOTZ, Sein und Existenz. Kritische Studien in sistematischer Absicht, Freiburg im Breisgau - Basel - Wien 1965; P.M.J. WINTREBERT, L’existence délivrée de l’existentialisme, Paris 1965; M.-A. BURNIER, Les existentialistes et la politique, Paris 1966; A. RIZZACASA, L’«esistenza» nelle filosofie esistenziali, Roma 1976; N. ABBAGNANO, Morte e trasfigurazione dell’esistenzialismo, in Scritti esistenzialistici, Torino 1988, pp. 596-597; F. RIVA, «essere e avere», in AA.VV., Marcel e il dibattito sull’essere nell’esistenzialismo, ed. a cura di R. Cortese, Torino 1990; G. FORNERO, L’esistenzialismo come atmosfera culturale e filosofica, in G. FORNERO - S. TASSINARI, Le filosofie del Novecento, Milano 2002, pp. 631644; G. FORNERO, Manifestazioni alternative della filo-

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Esoterico

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sofia dell’esistenza, in G. FORNERO - S. TASSINARI, Le filosofie del Novecento, Milano 2002, pp. 717-734.

ESONERO (relief; Entlastung; exonération; deEsonero sgravio). – Arnold Gehlen, in Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (prima ed. 1940; seconda ed. rielaborata e ampliata 1950, rist. Wiesbaden 1978, tr. it. di C. Mainoldi, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano 1983, p. 63), definisce il «principio dell’esonero» come la chiave per comprendere il mondo specificamente umano: il peso od «onere» (Belastung) costituito dalla profusione di stimoli ai quali l’uomo è soggetto a differenza degli animali, che sono legati solo a una particolare cerchia di sensazioni, viene annullato dall’immaginazione o dall’ideazione; sono queste ultime a permettergli il distacco dalla sfera biologica od organica. Le funzioni creative nell’essere umano costituiscono così anche gli strumenti in grado di mantenerlo in vita. Dall’esonero dipende, secondo Gehlen, sia la capacità dell’uomo di sostituire il qui e ora, il contingente e il casuale, con un mondo comune avente stabilità e determinatezza, retto da regole necessarie, come avviene a es. nel passaggio dalle sensazioni al linguaggio, sia il formarsi delle abitudini, sia il sorgere delle istituzioni, sia l’affermazione della scienza e arte come modi dell’azione. Il concetto di esonero è, per Gehlen (Der Mensch, tr. cit., pp. 89-90), essenziale all’antropologia filosofica. Ciò che Gehlen indica con il termine «esonero» è però già in parte messo in luce, prima di lui, da Max Scheler in Die Stellung des Menschen im Kosmos (Darmstadt 1928, tr. it. di G. Cusinato, La posizione dell’uomo nel cosmo, Milano 2000) e da Helmut Plessner in Die Stufen des Organischen und der Mensch (Berlin 1965 [1928]). I. Kajon

ESOTERICO (dal gr. ejswterikov" «interno, Esoterico segreto», da e[sw, «dentro» - esoteric; esoterisch; ésotérique; esotérico). – È detto esoterico un pensiero o uno scritto mantenuto all’interno di una scuola o di un circolo, non divulgato per timore dell’incomprensione. L’opposto è essoterico. Come attesta Giamblico, erano denominati esoterici in ambito pitagorico sia gli insegnamenti che non andavano rivelati ai profani (Sulla scienza matematica comune, 18) sia i discepoli ammessi ai più alti gradi della cono-

scenza scientifica (Vita di Pitagora, 17, 72). Esoterico sembra anche l’uso dei simboli pitagorici: F. Vonessen, in «Antaios», 9 (1968), pp. 284-305. In Platone, carattere esoterico avevano le dottrine non scritte, note da cenni e testimonianze indirette, e riservate ai membri della scuola: cfr. K. Gaiser, Testimonia Platonica, tr. it. di V. Cicero, Milano 1998; H. Krämer, Platone e i fondamenti della metafisica, Milano 20016; G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Milano 200321; Storia della filosofia greca e romana, vol. III, Milano 2004. Nella storia dell’Accademia riemergono tendenze esoteriche, in particolare in Arcesilao: C. Lévy, in «Revue des Études Latines», 51 (1978), pp. 335-48. In quanto riservato ai discepoli fu detto esoterico anche l’insegnamento scolastico di Aristotele, ed esoterico le opere che ne derivano e che costituiscono la produzione rimastaci di Aristotele (mentre sono andate per lo più perdute le sue opere essoteriche): sono denominate pure acroamatiche, da ajkrovama, «lezione orale». Cfr. Reale, Storia della filosofia greca e romana, nuova ed., vol. IV, pp. 11 ss.; 331 ss.; vol. VI, pp. 199 ss. Anche il neoplatonismo mantenne un aspetto esoterico, in particolare in Ammonio Sacca, che non scrisse nulla: secondo Porfirio (Vita di Plotino, 3) i suoi discepoli dovevano giurare di non rivelarne insegnamenti: J. Cherlonneix, in Vie de Plotin, a cura di Id. et al., Paris 1992, pp. 385-418; J. Narbonne, in «Hermathena», 157 (1994), pp. 117-153. Anche per questo è difficile stabilire se sia identificabile con l’Ammonio maestro di Origene (M.J. Edwards, in «Journal of Ecclesiastical History», 44, 1993, pp. 16981). Carattere esoterico ebbero pure la gnosi e l’ermetismo, con sviluppi che per certi versi si prolungano ancor oggi: cfr. ad esempio D. Merkur, Gnosis, Albany (New York) 1993; G. Stroumsa, Hidden Wisdom, Leiden 1996; W. Hanegraaff, New age religion, Leiden 1996; W. Hanegraaff (a cura di), Gnosis and Hermeticism, Albany (New York) 1998, con indagine dall’antichità al tempo moderno. L’aspetto esoterico si riscontra anche nei culti misterici classici (R. Pettazzoni, Le religioni misteriche, Roma 1953; M. Farioli, Idem, Milano 1998; Greek mysteries, a cura di M. Cosmopoulos, London 2003), che non andavano divulgati ai non iniziati: era segno del limite dell’esprimibile di fronte all’esperienza mistica, ineffa3621

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Esoterismo bile e impossibile da comunicare attraverso la parola umana. È un elemento in vario grado comune ai misteri orfici, eleusini, isiaci, mitraici (U. Bianchi, La Tipologia storica dei misteri di Mithra, Berlin 1984; R. Beck, Planetary gods and planetary orders in the mysteries of Mithras, Leiden 1988; Studies in Mithraism, a cura di J. Hinnells, Roma 1994; R. Gordon, Studies in Mithraism, Aldershot 1996). L’Orfismo, in particolare, influì su Platone: C. Megino Rodríguez, in «Estudios Clásicos», 44 (2002), pp. 163-71. La storia del pensiero razionale è generalmente in funzione anti-esoterica (anche se non mancano tentativi di applicare i principi filosofici all’esoterismo: E. Runggaldier, Philosophie der Esoterik, Stuttgart 1996), almeno finché il pensiero non perviene alla mistica, non solo presso gli spiriti religiosi, ma anche presso i filosofi, come Filone o Plotino, o nella filosofia patristica, ad esempio nel Nisseno (G. Ferro Garel, Gregorio di Nissa: l’esperienza mistica, Torino 2004). I. Ramelli BIBL.: LR. MERKELBACH, Isisfeste, Meisenheim 1963; C. DE VOGEL, Pythagoras & Early Pythagoreanism, Assen 1966; M. TIMPANARO CARDINI, Pitagorici, Testimonianze e frammenti, I-III, Firenze 19692; A. BEG, Plato’s esoteric logic, Aligarh 1984; F. SCHUON, L’Esoterismo come principio e come via, tr. it. di G. Jannacone, Roma 1984; A. ARMSTRONG, The hidden & the open in Hellenic thought, in «Eranos», 54 (1985), pp. 81-117; L. BRISSON, Usages et fonctions du secret dans le pythagorisme ancien, in Le secret, a cura di P. Dujardin, Lyon 1987, pp. 87-101; . TROISI, Dizionario dell’esoterismo, Firenze 1992, bibl. pp. 357-362; W. GUTHRIE, Orpheus and Greek Religion, Princeton 19932; I. MUELLER, The esoteric Plato, in «Méthexis», 6 (1993), pp. 115-34; R. SOREL, Orphée et l’orphisme, Paris 1995; B. CENTRONE, Introduzione ai Pitagorici, Roma 1996; W. BURKERT, Homo necans, Berlin 1997; M. MAÇANEIRO, Esoterismo & fé crista, Petrópolis 1997; L. ZHMUD, Wissenschaft, Philosophie, und Religion im frühen Pythagoreismus, Berlin 1997; K. DIETZFELBINGER, Mysterienschulen, München 1998, dall’Egitto all’età moderna; F. FRONTEROTTA, Socrate e il Platone esoterico, in «Elenchos», 21 (2000), pp. 79-87; M. JANDA, Eleusis, Innsbruck 2000; F. JOURDAN, Le papyrus de Derveni, Paris 2003; B. POUDERON, Muthodos, mustikos, in «Revue des Études Augustiniennes», 49 (2003), pp. 267-83; M. SANTAMARÍA ÁLVAREZ, Orfeo y el orfismo, in «Ilu. Revista de Ciencias de las Religiones», 8 (2003), pp. 225-64; AA.VV., Il mistero nella carne e Il volto del mistero, a cura di A. Mazzanti, Castel Bolognese 2006.

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ESOTERISMO (esoterism; Esoterismus; ésoEsoterismo térisme; esoterismo). – Oltre il significato etnologico e storico-filosofico, il termine denota un criterio esegetico, cui si sono ispirate in modo particolare alcune sette religiose, che considerarono la verità come una rivelazione limitata a pochi privilegiati ed esclusa, come tale, da qualsiasi evoluzione storica. Di qui le evidenti affinità con le sette gnostiche di ogni tempo. L’esoterismo rintraccia questo complesso dottrinale di sotto alla lettera di alcuni testi sacri, distinguendo così un significato letterale, destinato ai non iniziati, dal significato occulto o segreto, che solo pochi riconoscono e comprendono. Accanto a questa concezione, altri indirizzi esoterici intendono il segreto piuttosto come qualcosa di strutturalmente inaccessibile e precluso alla conoscenza. Nel senso sopradetto, l’esoterismo si può considerare come un’esasperazione dell’allegorismo: le dottrine segrete, che esso presume di ritrovare sempre identiche attraverso le più svariate tradizioni filosofico-religiose, in realtà sono il risultato di una scelta arbitraria e di un’altrettanto arbitraria interpretazione. Presso gli gnostici (specialmente in Basilide e Valentino), i testi evangelici cessano di essere un racconto storico e diventano un messaggio cifrato, che allude, anche nei più insignificanti dettagli narrativi, ai momenti ideali di una vicenda metafisica: chi «conosce» (e solo gli «eletti» conoscono) è salvo, poiché solo la «gnosi» ci riscatta. Anche la Cabbala giudaica presume di intuire gli arcani divini sotto il senso letterale dei testi biblici, nel suono e nella forma stessa dei segni alfabetici (cfr. il Sefer Yesirah e lo Zohar); nel primo Ottocento Fabre d’Olivet (cfr. La langue hébraïque restituée, II, parte V, Paris 1815-16) rinnova l’esegesi esoterica in una sconcertante interpretazione dei primi dieci capitoli del Genesi. Numerose sono state anche le interpretazioni del cristianesimo in senso esoterico, dalla Cabbala cristiana rinascimentale al cattolicesimo esoterico francese del XIX secolo. La manifestazione più clamorosa dell’esoterismo contemporaneo è offerta dalla corrente teosofica, fondata da Elena P. Blavatsky (Isis Unveiled, New York 1877; The Secret Dottrine, London 1888) e continuata, per opera di varie scissioni, nelle varie società teosofiche: nella antroposofia tedesca di R. Steiner (1912), nella Quest Society inglese di G. R. S. Mead (1909), in quella americana di W. Q.

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Judge (1895) ecc. L’esoterismo teosofico, ispirandosi a un problematico Libro di Dzyan, antichissimo, crede di poter individuare una gnosi perfetta alla base di tutte le religioni storiche, che solo gli iniziati hanno conosciuto (cfr. E. Schuré, I grandi iniziati, tr. it., Bari 19619) e che a pochi e parzialmente è stata rivelata: in realtà, le dottrine teosofiche sono un rifacimento di alcune fondamentali teorie indiane (reincarnazione, karma, nirvana ecc.), attinte alla tradizione brahminica (specialmente alle Upanisad e alla Bhagavad-Gita) e buddhistica, in cui l’antroposofia di Steiner ha inserito alcuni elementi di un «esoterismo cristiano», che ha i suoi precedenti culturali nella setta rosacrociana. Cfr. AA.VV., Umanesimo e Esoterismo, Padova 1960, dove l’esoterismo è trattato prevalentemente in funzione artistica. G. Faggin - B. Centrone

ESP (extra-sensory perception, «percezione extrasensoriale»; außersinnliche Wahrnehmung; perception extra-sensorielle; percepción extrasensorial). – Oggetto di studio della parapsicologia assieme alla psicocinesi (PK), cioè la capacità di muovere la materia con la mente, e alla sopravvivenza della coscienza personale – quale sarebbe attestata dal channelling, ossia la possibilità dei defunti di comunicare con i vivi mediante supporti fisici, inoltre dalle near-death experiences (NDE), le esperienze di premorte, infine dalle out-of-body experiences (OBE), ovvero le esperienze extracorporee –, l’ESP indica la conoscenza di fatti o avvenimenti senza l’apporto dei sensi. Come tale, è sinonimo di criptestesia e si confonde con la telepatia (termine proposto nel 1882 da Frederic W.H. Myers per la trasmissioni di pensiero indipendente dalle ordinarie vie sensoriali), la chiaroveggenza e la precognizione. Il principale studioso della ESP fu Joseph Banks Rhine (1895-1980); allievo di William McDougall, a partire dal 1927 organizzò presso la Duke University di Durham un centro di ricerche sperimentali e di indagini statistiche (Rhine Research Center), ancora attivo. Rhine, che intraprese anche la pubblicazione del «Journal of Parapsychology», era convinto che ESP e PK fossero diffuse più di quanto si credesse, e che il loro studio, se condotto secondo i metodi della ricerca psicologica, avrebbe permesso di comprendere i cosiddetti «fenomeni psi», non ancora spiegati dalle scienze

ESP ufficiali. I vari tentativi sperimentali di Rhine (p. es. di dimostrare con le «carte Zener» – mazzi di venticinque carte figurate in gruppi omogenei di cinque – che lo sperimentatore poteva indovinare i segni sulle carte, sottratte alla sua vista, con una percentuale di successo superiore al caso) uniti alla sua opera di divulgazione suscitarono un forte interesse, ma anche numerose accuse di frode. Nonostante le varie obiezioni metodologiche, i suoi studi diedero una certa dignità scientifica all’indagine del paranormale. Tra le interpretazioni tradizionali di tali fenomeni, va ricordata l’opinione di Henri Bergson, già presidente della Society for Psychical Research, che li riconduceva alle virtualità simpatetiche dell’intuizione (Les deux sources de la morale et de la religion, Paris 1932, tr. it. a cura di A. Pessina, Le due fonti della morale e della religione, Milano 19982). In ambito psicoanalitico, Sigmund Freud riteneva che la telepatia, e più in generale i vari fenomeni occulti, non contrastassero di principio con le leggi dell’inconscio (Traum und Telepathie, 1922, in FGW, vol. XIII, tr. it. Sogno e telepatia, in OSF, vol. IX), mentre Carl Gustav Jung, con la sua teoria della sincronicità, volle fornire una cornice concettuale atta a combinare in modo originale stati psichici ed eventi esterni (Synchronizität als ein Prinzip akausaler Zusammenhänge, 1952, in JGW, vol. VIII, tr. it. La sincronicità come principio di nessi acausali, in OCGJ, vol. VIII). Molte sono state le ricerche sulle presunte leggi psicologiche di tali fenomeni: particolare rilievo è stato dato al cosiddetto Ganzfeld, ossia allo stato complessivo di concentrazione e rilassamento del soggetto sperimentale; altro aspetto indagato è il cosiddetto «effetto addizionale», relativo alla capacità psicocinetica di alcuni individui di retroagire su una produzione casuale di simboli da parte di un calcolatore elettronico. Respinta, in tempi recenti, l’assimilazione dei fenomeni psi alle caratteristiche psicopatologiche o prelogiche di alcuni soggetti o popolazioni, una concezione più moderna dell’ESP ne sottolinea non tanto il particolare tipo di conoscenza, quanto piuttosto l’anomalia dell’interazione nella trasmissione delle informazioni (C.D. Broad, Lectures on Psychical Research, London 1962). In tal senso l’ESP solleva complesse domande filosofiche relative alla possibilità di un’azione causale a distanza, o che non segua il vettore temporale ma fluisca a ritroso. Da un punto di vi3623

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Esperienza sta epistemologico, l’impiego di strumenti statistici e di tecniche sperimentali per attestare l’effettiva consistenza di questi fenomeni, costituisce una sfida alla riduzione fisicalistica degli stessi, militando contro le più diffuse teorie materialistiche della mente e riproponendo una forte opzione dualistica. Inoltre, le ricerche parapsicologiche postulerebbero un nuovo paradigma che utilizzi criteri di spiegazione scientifica alternativi a quelli correnti (analogamente a quanto suggerito, per la meccanica quantistica, dal teorema di Bell, entro cui trovano posto l’ipotesi della sincronicità e la logica del terzo incluso). Tuttavia, da un punto di vista metodologico, tali ricerche mostrano numerose debolezze, in particolare per le difficoltà inerenti all’analisi statistica dei dati, alla possibilità di replicare gli esperimenti e di randomizzare le condizioni. Se dunque le ricerche parapsicologiche non consentono di concludere che l’ESP implichi un’alternativa ai normali principi fisici, esse indicano però che questi fenomeni – esclusi ovviamente i casi di frode – non possono essere spiegati con le leggi della fisica fin qui note: sono sì violate le attese tanto del senso comune quanto della scienza attuale, ma, di contro, non sono forniti che risultati modesti e implicazioni poco chiare, per i quali è ancora d’obbligo un sano scetticismo. D. Cavagna BIBL.: J.B. RHINE, Extra-Sensory Perception, Boston 1934; E. SERVADIO, La percezione extra sensoriale, in T. ALIPPI, Nuovi problemi di metapsichica, Roma 1950; S.G. SOAL - F. BATEMAN, Modern Experiments in Telepathy, London 1954; C.E.M. HANSEL, ESP: A Scientific Evaluation, New York 1966; S.E. BRAUDE, ESP and Psychokinesis: A Philosophical Examination, Philadelphia 1979; M.A. THALBOURNE, A Glossary of Terms Used in Parapsychology, London 1982; L. ZUSNE W.H. JONES, Anomalistic Psychology, New York 1982; S.E. BRAUDE, The Limits of Influence. Psychokinesis and the Philosophy of Science, New York - London 1986; H.L. EDGE et al., Foundations of Parapsychology. Exploring the Boundaries of Human Capability, Boston 1986; A. FLEW (a cura di), Readings in the Philosophical Problems of Parapsychology, Buffalo (New York) 1987; R. HYMAN, The Elusive Quarry, New York 1989; J. DUPRE, The Disorder of Things. Metaphysical Foundations of the Disunity of Science, Cambridge (Massachusetts) 1993; M. POLIDORO, L’illusione del paranormale: che cosa si nasconde dietro i fenomeni più misteriosi della parapsicologia?, Muzzio scienza, Roma 1998; E. OSTY, La connaissance supra-normale:

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étude expérimentale, Les essentiels de la métaphysique, Paris 2000 (1923). ➨ METAPSICHICA.

ESPERIENZA (experience; Erfahrung; expéEsperienza rience; experiencia). – Etimologicamente deriva da ex-perior (gr. peivrw «passare attraverso») mediante periculum, e quindi va intesa nel senso di una prova connessa a una situazione o stato di cose che si ripete con sufficiente uniformità, attraverso la quale si acquista una conoscenza derivante da cose date immediatamente a un conoscente (dal mondo esterno o dalla propria coscienza), che gli assicura la capacità di risolvere alcuni problemi. Di qui deriva la nozione di «esperto», che si applica a colui che ha superato la prova e che dispone di una certa perizia. L’esperienza, in entrambi i significati, può essere considerata da un punto di vista fenomenologico (come è stata descritta e studiata generalmente dagli empiristi) o da un punto di vista problematico, divenendo così oggetto di una ricerca ontologica e metafisica. In questa seconda prospettiva, i principali problemi discussi sono stati: quello gnoseologico, qualora si intenda ricercare se possano essere affermate, e quali esse siano, l’oggettività del conoscere in generale e la natura della relazione che lega il mondo dell’esperienza, con la conoscenza intellettiva; quello metafisico, se si intende ricercare, in base ai caratteri propri dell’esperienza, se la medesima è sufficiente a se stessa per essere quello che è, oppure se rimanda a un’altra realtà che la fondi e la giustifichi (il problema del mondo, dell’uomo e di Dio). SOMMARIO: I. Significati e forme di esperienza. II. Fenomenologia dell’esperienza: 1. Caratteri generici dell’esperienza. - 2. L’esperienza come saggezza. - 3. L’esperienza dell’esperto. - 4. Psicologia dell’esperienza. - 5. Gnoseologia fenomenologica dell’esperienza: a) Sensazione e pensiero. - b) L’illusione genealogica. - c) Il reperto fenomenologico. - III. L’esperienza nel suo aspetto gnoseologico: 1. L’esperienza nel pensiero greco. - 2. L’esperienza nel pensiero medievale. - 3. L’esperienza nel pensiero moderno. - 4. L’esperienza nel pensiero contemporaneo. - IV. L’esperienza nel suo aspetto metafisico. - V. L’esperienza scientifica. - VI. Conclusioni. I. SIGNIFICATI E FORME DI ESPERIENZA. – Il termine «esperienza» ha molti significati. Quello pratico si riferisce all’acquisizione di capacità per-

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sonali mediante l’esercizio: l’esperto ha appreso per pratica. Per il passaggio al senso teoretico del termine occorre porsi domande sulla precedente esperienza pratica. Ma non sempre il processo segue questo sviluppo: può avvenire anche in senso opposto. Il termine ha assunto almeno sette significati principali. 1) L’esperienza pratica generica è il complesso di eventi vissuti che hanno influito e influiscono tuttora sul comportamento del soggetto. 2) L’esperienza pratica specifica è quella prodotta da ripetute esperienze di un certo tipo. Questa esperienza produce l’esperto o tecnico, preparato deliberatamente all’esercizio d’una certa professione. 3) L’esperienza conoscitiva di un singolo è l’evento, occasionale o deliberatamente cercato (osservazione scientifica) oppure provocato (esperimento), addotto come prova specifica di un’asserzione. Il termine proprio sarebbe «esperimento», oggi limitato però all’esperimento prodotto deliberatamente. 4) Con l’esperienza come accumulo o massa di esperienza si indica l’esperienza nel senso 3, cioè come insieme di fatti di ogni genere, noti per sensazione (fatti empirici). 5) Con l’esperienza in senso fenomenologico di un sapere (ovvero di un’elaborazione compiuta su un dato precedentemente conosciuto) si allude all’esperienza nel senso 4, cioè fondata sui dati empirici anziché sul raziocinio. Equivale a conoscere per esperienza, e in questo senso si può parlare dell’esperienza come pensiero empirico. 6) L’esperienza come sistemazione e struttura di esperienza è l’esperienza nel senso 4, come nelle espressioni: leggi dell’esperienza, analogie dell’esperienza ecc. 7) L’esperienza come processo induttivo è l’esperienza concepita in opposizione a quella intesa come processo deduttivo. Tutti questi significati di esperienza possono essere raccolti in un concetto comprensivo, capace di accogliere il conoscere e l’agire, la soggettività e l’oggettività, insomma la totalità degli eventi umani e cosmici, così come è stata teorizzata da Dewey. Oltre a queste forme, se ne presentano altre, secondo i diversi campi del sapere e dell’agire: si ha un’esperienza metafisica, riguardante l’intera realtà considerata alla luce della sua ragion d’essere; un’esperienza scientifica, destinata all’elaborazione delle scienze naturali e sperimentali; un’esperienza estetica, che coglie le varie manifestazio-

Esperienza ni del bello e dà luogo alle creazioni artistiche; un’esperienza morale, concernente le modalità di esercizio delle virtù; un’esperienza religiosa, che ha per oggetto il modo di apprendere il sacro e di elevarsi alla sua contemplazione. Intorno a ciascuna di queste forme di esperienza si può svolgere una ricerca che rimanga limitata alla sua considerazione fenomenologica, nella quale anche il concetto appaia come un’associazione di conoscenze particolari e non come derivante da un’intuizione, o da un’idea innata, o da un processo di astrazione. Ma quando l’esperienza stessa diviene materia di riflessione, allora comincia la ricerca propriamente filosofica. II. FENOMENOLOGIA DELL’ESPERIENZA. – 1. Caratteri generici dell’esperienza. – Se si prendono in esame i predetti sette significati, ci si accorge subito che essi sfumano l’uno nell’altro; ma si possono distinguere quattro tipi di indagine sull’esperienza: due concernono l’aspetto pratico, per cui essa si qualifica come saggezza (senso 1; v. infra: II, 2) e come expertise (senso 2; v. infra: II, 3); due invece che ne riguardano l’aspetto teorico dal punto di vista della psicologia (sensi 3 e 4; v. infra: II, 4) e della gnoseologia fenomenologica (sensi 5, 6 e 7; v. infra: II, 5). In tutte le sue accezioni l’esperienza implica elementi isolati o puntuali, oppure un sistema costituito da elementi puntuali analoghi o identici che si presentano alla nostra coscienza in successione temporale. Quindi, ne è caratteristica l’iterazione. L’analisi dell’iterazione, della sua natura e della sua validità sarà quindi la linea-guida per omologare le diverse accezioni di «esperienza». II risultato finale dell’esperienza può essere la pura previsione di quello che avverrà in un singolo caso (identico o analogo ai precedenti) non ancora sperimentato, oppure una legge o un’uniformità generale formulabile con un concetto o con un giudizio che comprende tutti i casi (identici o analoghi) già percepiti o che si presume di percepire in futuro. La distinzione fra previsione e uniformità generale non è ovvia. Si tratta infatti di una distinzione che non è soltanto di espressione, dal momento che la previsione implica un dato temporale specifico e una distinzione tra esperienza passata e futura, mentre l’uniformità generale trascende la classificazione temporale, cioè il modo di presentarsi dell’esperienza alla conoscenza. In altri termini: la previsione rinvia all’iterazione, mentre l’uniformi3625

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Esperienza tà generale la oltrepassa, per cui implica problemi gnoseologici e logici che la previsione non implica. Così, alcune dottrine dell’esperienza tendono a spiegare la previsione in base all’uniformità generale, che è generalizzazione, e sospendono l’iterazione come processo; altre, invece, fondano la validità dell’uniformità generale sulla possibilità della previsione. Resta tuttavia da dire che l’iterazione, la legge o uniformità generale, la previsione sono soltanto espedienti euristici introdotti ai fini dell’identificazione dell’esperienza. 2. L’esperienza come saggezza. – Il senso 1 di esperienza è ben diverso dagli altri. Un’esegesi della frase «aver esperienza della vita» in questo caso sarebbe una digressione, se non fosse la conseguenza dell’opposizione che da secoli mette la scienza in contrapposizione alla saggezza: dal primitivo dictum pitagorico che opponeva filosofiva a sofiva fino al contrasto tra Wissen e Weisheit, caratteristico del pensiero tedesco. All’analisi filosofica risulta che la saggezza trascende il sapere, e questa distinzione non rientra in quella tra teoria e pratica, ma ne è estranea perché l’esperienza dell’esperto è un sapere usato per fini pratici, ma non è una saggezza. Quest’ultima implica non soltanto la sintesi di teorico e pratico, ma anche l’eliminazione della specializzazione, e quindi della distinzione dei campi ontologici in cui il saggio apprende e agisce, dal momento che sa come comportarsi in qualunque contingenza della vita. Kant oppone gli assertori «consigli della prudenza» ai problematici «dettami dell’abilità»: i primi rientrano nella saggezza, perché sono unificati sotto l’idea unica e necessaria di felicità; i secondi invece rientrano nel sapere, perché sono classificabili secondo scopi arbitrari. L’esperienza come saggezza è adattamento a un certo ambiente, cioè è un concetto pragmatico e non etico, che va giudicato in base al risultato e non alle intenzioni. Se si riflette sui due aspetti di virtus contemplati nel De regimine principum di Tommaso d’Aquino (la virtus morale e la virtus come capacità di governare), appare chiaramente che la virtù del saggio non si giustifica da sé come la virtù vera e propria. La giustificazione viene di solito cercata, anziché nella conformità a una norma assoluta, in un controllo empirico (il successo), appunto perché nasce dall’esperienza e produce atteggiamenti sperimental3626

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mente constatabili. Così intesa, l’esperienza non è di pertinenza della filosofia. 3. L’esperienza dell’esperto. – Pragmaticamente, l’esperto (senso 2) è opposto al saggio, perché è specializzato e può essere preso in considerazione soltanto per un certo tipo di contingenze. Dati i limiti del pensiero umano e della vita, uno è tanto più esperto quanto più definito e uniforme è il tipo delle contingenze. Storicamente, nella nostra civiltà, l’ideale pragmatico è passato dal saggio al professionista (medico, avvocato, ingegnere ecc.) dell’età moderna, e da questo all’esperto del nostro tempo, la cui competenza ha un ambito così limitato da poter sussistere insieme all’assoluta inesperienza e incapacità in altri campi. Lo specialista medico contemporaneo è l’opposto del dottore tradizionale, che era anche filosofo. Quanto al tipo d’esperienza, mentre nel saggio si ha iterazione soltanto quando la sua esperienza generale viene portata a una determinata decisione pratica, tutta l’esperienza tipica dell’esperto, limitata fin dall’inizio a uno specifico tipo d’esperienza, è iterazione pura e semplice, cioè riproposizione di quanto conosce e di quello che è capace di fare. Quindi, le sue leggi o uniformità generali saranno valide entro limiti assai ristretti e la previsione sarà estremamente astratta, perché non considererà altri elementi che possano modificare o impedire l’avverarsi della previsione plausibile come dato scientifico astratto. Così l’esperienza dell’esperto è contraddittoria: in una certa misura essa non è più esperienza, perché natura e vita sono multiformi e ogni evento empirico è evento in un mondo nel quale esistono e agiscono enti e forze che l’esperto come tale ignora. Il successo pragmatico dell’esperto deriva proprio dalla sua astrattezza: l’esperienza comune non può smentirlo e la sua unilateralità corrisponde alla tendenza incontrollata a una divisione economica del lavoro. L’insuccesso pragmatico non invalida l’esperienza dell’esperto, data la presunzione di indefiniti elementi perturbatori. Come concezione astratta e intimamente contraddittoria, anche questa forma pratica o, meglio, pragmatica di esperienza non è suscettibile di esegesi filosofica approfondita. 4. Psicologia dell’esperienza. – Trattando delle forme teoriche di esperienza, anzitutto parleremo dell’esperienza come modo di pensare o forma di conoscenza. Propriamente però il conoscere, in quanto è pensare vero e obiettivo, an-

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drebbe opposto al semplice pensare. Ma qui il problema non è se l’esperienza sia o no obiettiva: delle condizioni di validità del pensiero d’esperienza si parla in sede di logica; in psicologia si prende in considerazione l’esperienza senza domandare quando essa sia erronea e quando giusta, cioè quando corrisponda a una vera conoscenza. È evidente che, dal punto di vista della psicologia, l’esperienza è strettamente legata alla memoria nelle sue diverse attività: conservazione, reminiscenza o richiamo di sensazioni passate, riconoscimento delle esperienze passate come analoghe a quella presente. L’iterazione principale è un processo mnemonico completo che si esercita su una certa classe di sensazioni. Quindi, un’interpretazione psicologica dell’esperienza deve tener conto di quella problematicità della memoria che appare subito evidente se si considerano le forme estreme di psicofisiologia, anche quando non riducono il mentale a effetto causale del fisico e ricorrono a un parallelismo inesplicato di fisico e psichico. Per W. James appunto: «La conservazione di un fatto d’esperienza non è l’immagazzinamento di un’idea in stato d’incoscienza: non è infatti fenomeno di ordine mentale. È un fenomeno tutto fisico, un fatto morfologico, cioè la presenza di solchi (prodotti da una sensazione precedente) nei più fini recessi del tessuto cerebrale. Così, siccome la memoria ha per sua condizione questi solchi cerebrali, la bontà di essa in un certo individuo dipende dal numero e dalla persistenza di questi solchi» (Principles of Psychology, London 1890, vol. I, cap. 16). L’iterazione, da questo punto di vista, produce esperienza soltanto perché sensazioni analoghe scavano un solco stabile e profondo e l’idea generale deriverà (in qualche modo non spiegato) dalla coscienza di questo solco. L’assurdità di questa tesi appare subito dal fatto che non chiarisce fino a quale profondità un solco sia pura iterazione e a partire da quale profondità comincerà ad essere idea generale. Ma anche una psicofisiologia dinamica non è in grado di giustificare l’esperienza. Secondo Hobbes, l’urto dei corpi esterni sugli organi di senso provoca un movimento interno, la sensazione (Leviathan, parte I, cap. 1). La memoria è ciò che resta di una sensazione passata e I’esperienza non è che «molta memoria o la memoria di molte cose» (ibi, cap. 2). Il limite di questa dottrina però è che innanzitutto non

Esperienza spiega come un movimento possa essere meno conservato e poi non dà conto in nessun modo della ragione per cui si possa verificare l’iterazione di una certa specie di movimento anziché di un’altra, fra le tante che si intersecano. Hume, in un certo senso, passa dalla psicofisiologia alla psicologia pura, escludendo che si possa dare una spiegazione fisica dell’impressione (Treatise of Human Nature, l. I, parte I, § 2 e parte II, § 5); tuttavia non si libera delle difficoltà incluse nella teoria hobbesiana. L’impressione conservata nella memoria si attenua fino a divenire soltanto un’idea appena percettibile, la quale, per la sua imprecisione e tenuità, viene conosciuta, anziché come impressione particolare, come idea generale frutto di esperienza. Questo vuol dire che si potrebbe avere l’idea generale anche di una sola impressione. Se, invece, per esperienza si intendesse il formarsi di idee generali in seguito a iterazione, cioè in virtù di molte impressioni, allora l’idea generale sarebbe una conseguenza non già dell’indebolirsi, ma del rafforzarsi dell’impressione originaria. In altre parole, per Hume, da una singola impressione di rosso deriverà l’idea generale di rosso più facilmente del caso in cui si avranno altre impressioni di rosso a rinnovare e rendere di nuovo vivace la prima impressione. Altri hanno cercato di superare questa difficoltà della concezione psicologica della memoria. Ma anche eliminandola, è necessario giustificare l’associazione, cioè il riconoscimento di similarità o identità fra varie sensazioni, che è condizione dell’apprensione di iterazione. L’associazione deve essere attribuita: 1) a un atto psicologico sui generis, o 2) a qualche qualità inerente all’idea come tale. Nel primo caso, però, si dovrà postulare qualche atto psicologico irriducibile all’ideazione pura e semplice (p. es., l’attenzione), e allora l’iterazione e tutta l’esperienza avranno tutt’altro aspetto da quello usuale: l’esperienza sarà strettamente soggettiva e sarà inspiegabile come si possa mai verificare la previsione che, come pura esperienza, non può derivare da un’attività sui generis indipendente dall’ideazione. L’esperienza come previsione e come uniformità generale sarà incomprensibile. Nel secondo caso, è di nuovo Hume a offrire una teoria tipica: è convinto infatti che l’associazione sia un fenomeno generale, una «gravitazione universale» delle impressioni, che egli rifiuta di investigare oltre, affermando che è un fatto innegabi3627

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Esperienza le d’esperienza (ibi, l. I, parte I, § 4). Ma, per ciò che lo riguarda, il conoscere è costituito da impressioni isolate, e quindi egli deve ammettere che la singola impressione, in se stessa, isolatamente, è dotata di una «qualità associante» (ibid.) Sicché in essa esiste già un collegamento potenziale con altre impressioni, che non è dovuto al pensiero e che è constatabile solo quando è in atto, e perciò è inspiegabile dal punto di vista del programma empiristico. Hume cercò di far fronte a questa incoerenza ricorrendo all’attrazione come concetto scientifico accettato, benché non empirico (ibi, l. II, parte II, § 5). Ma l’analogia fra attrazione e associazione è difficile da sostenere, perché l’associazione è selettiva e l’attrazione cumulativa. Non vi sono più specie di attrazione, ed essa non si esercita fra alcuni corpi soltanto e non fra altri, mentre l’associazione si attua secondo tre modalità che corrispondono ai criteri della contiguità, della similarità e della causa-effetto, e due idee dissimili si possono attrarre per associazione di similarità. Inoltre, il funzionamento in atto dell’associazione non è descrivibile. Hume dice che un’impressione «naturalmente ne introduce un’altra» per associazione (ibi, l. I, parte III, § 3); ma non precisa se sia la prima a introdurre una susseguente che non c’è ancora, oppure se sia un’idea posteriore a introdurre la memoria di un’idea precedente. Nel primo caso, sarebbe l’associazione stessa a creare idee; nel secondo, la memoria conserverebbe indifferentemente molte idee e non le relative qualità associanti, che entrerebbero in gioco soltanto alla rievocazione. Ma allora la memoria come conservazione sarebbe dovuta a qualche capacità estranea all’idea come tale; la rievocazione del ricordato, invece, a una forza o capacità insita nell’idea stessa, nella sua «qualità associante». Così, la memoria non sarebbe più fenomeno unitario e le impressioni, a loro volta, non sarebbero più elementi isolati, come presume la dottrina di Hume. La molteplicità delle forme dell’associazione toglie strutturalità alla sensazione stessa. Se esistesse soltanto l’associazione per contiguità, risulterebbe chiaro come vediamo una «mela rossa». Ma dato che il rosso della mela ha altre due «qualità associanti», potrà venir associato nello stesso identico modo al rosso d’una cravatta. Quindi, «mela rossa» e «cravatta rossa» non sono altro che due delle tante associazioni possibili; non sono però sensa3628

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zioni attuali, poiché il rosso della mela in se stesso ha soltanto qualità associante e non è associazione in atto. È chiaro che la psicologia, disponendo soltanto dell’associazione come base e ragion d’essere dell’iterazione, non ne può offrire una spiegazione sufficiente, perché nel suo modo di concepirla non è compreso il criterio di scelta fra le molteplici associazioni possibili. Nell’associazione si ha iterazione e quindi si costituisce l’esperienza. In altre parole: una sensazione può associarsi a un’altra e richiamarla per contrasto oppure per analogia. L’associazionismo psicologico dice infatti che può avvenire l’uno o l’altro richiamo; perciò non spiega come e perché si verifichi soltanto il richiamo per similarità che è l’iterazione, la quale soltanto può dar luogo all’esperienza. Spiegare psicologicamente l’iterazione significherebbe dare posizione di privilegio a una certa associazione, in contrasto con le cosiddette «leggi dell’associazione». La difficoltà potrà essere superata coinvolgendo l’attenzione; in tal caso è evidente che quest’ultima non svolgerà solo una funzione psicologica, ma anche una di tipo gnoseologico, nella quale ora dovremo cercare una descrizione più adeguata dell’esperienza. 5. Gnoseologia fenomenologica dell’esperienza. – a) Sensazione e pensiero. – Nei due sensi fondamentali di esperienza contemplati dalla gnoseologia fenomenologica si danno la concezione di un accumularsi di sensazioni che costituirebbe di per se stesso l’esperienza (l’esperienza nel senso 4) e quella di un’elaborazione intellettuale delle sensazioni (l’esperienza nel senso 5). Relativamente alla prima accezione, Locke sentì la necessità di dare conto delle relazioni fra sensazioni che fanno dell’esperienza una struttura con un certo ordine, anziché un coacervo slegato, e descrisse il porsi di tali relazioni come analogo alle idee di riflessione, note per esperienza diretta (Essay Concerning Human Understanding, l. II, cap. 12). Hume negò l’empiricità di tali relazioni, ma non poté sostituirla con l’associazione e la lasciò come problema per l’ulteriore soluzione di Kant (Treatise of Human Nature, appendice alla fine del l. III). Già da questi tentativi emerge il carattere fondamentale dell’esperienza considerata sotto l’aspetto della gnoseologia fenomenologica: essa è sistema o ordine o collegamento di sensazioni isolate, ovvero che devo-

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no venire considerate come isolate solo quando si voglia descrivere l’esperienza. È evidente che fra le teorie che si incentrano sull’esperienza per renderla indipendente dalla ragione, l’empirismo, e in particolare Hume, oppone esperienza (nel senso 5) a pensiero (ragione o intelletto), e la concepisce come una sorta di atomismo contro la strutturalità del pensiero. Vale, insomma, quello che è il nucleo fisso di ogni gnoseologia: Empfindung e Denken, cioè ragione ed esperienza, intuizione e ragione ecc. Poiché su questo contrasto, e quindi sull’isolamento degli elementi d’esperienza, va impiantata l’esegesi gnoseologico-fenomenologica, dobbiamo considerare distintamente quelle dottrine che attribuiscono allo stesso conoscere che apprende gli elementi anche l’ordine dell’esperienza e quelle che negano la puntualità di tali elementi d’esperienza. Locke, che sembra considerare empiriche anche le relazioni tra elementi, di fatto non distingue fra percezione di idee semplici e percezione di idee complesse (Essay Concerning Human Understanding, l. II, cap. 12, §§ 3; 7 ecc.). Egli fa rientrare nella pura percezione anche l’astrazione, che per Aristotele era funzione intellettuale; ma i rilievi principali contro Locke si fondano piuttosto sul criterio di distinzione fra il semplice e il complesso. Poiché «l’individuo è ineffabile», è sempre possibile scomporre e quindi trovare complessa un’idea semplice: è questa la critica di Berkeley (Principles of Human Knowledge, introd., § 8), secondo cui non vediamo un «rosso», ma «una certa forma rossa» e questa è il vero elemento dell’esperienza, mentre «un rosso» è un’astrazione. Per la stessa ragione, però, anche l’idea complessa potrà essere considerata come semplice. In certe forme successive di empirismo radicale, non si distingue nemmeno fra idea complessa e idea semplice: vediamo che una mela è più grande di un’altra proprio come vediamo le due mele. Le obiezioni a questo riguardo sono ovvie. La Gestalttheorie sostiene che l’aspetto prioritario di ogni sensazione è una struttura, un complesso. Gli elementi di questo complesso non sono enti d’esperienza, ma entità astratte più o meno di comodo. Ne scaturiscono due tipi diversi di analisi: procedendo in modo astratto, avremo elementi puntuali; descrivendo empiricamente, avremo la Gestalt. La nozione di «elementi» subirà cambiamenti, ma

Esperienza non sarà possibile descrivere l’esperienza senza considerare le Gestalten come elementi puntuali (cfr. p. es. W. Köhler, Gestaltpsychology, New York 1929; M. Wertheimer, Über Gestalttheorie, «Symposium», 1927, pp. 39-60). Del resto, il razionalismo e il gestaltismo discutono se la struttura dell’esperienza (senso 4 e senso 6) sia dovuta a qualcosa che non è esperienza, cioè alla ragione e, quindi, provano che è impossibile descrivere l’esperienza se non si parte dal contrasto fra elementi isolati – o isolabili – e struttura. Essi dunque concordano nel considerare intuitivo, ovvero immediato, il dato d’esperienza; mentre, per quanto riguarda la struttura, è ritenuta intuitiva dalla Gestalttheorie e non già dal razionalismo, che la identifica con un processo, come lo è tutto ciò che è pensiero. Per indicare questa differenza, si può anche dire che gli elementi sono puntuali non solo per il loro isolamento o per la loro isolabilità analitica, ma anche perché non rientrano nel processo che forma l’esperienza (nel senso 6). Si può dubitare se l’opposizione tra elemento puntuale e struttura possa essere considerata del tutto simmetrica a quella tra intuizione (esperienza in senso 3) e processo (ragione), quando si riflette sull’innatismo che, contro l’empirismo, attribuisce origine razionale alle idee innate, che di per sé sarebbero elementi rispetto alla struttura della conoscenza. Ma le idee e i principi innati, anche se fossero separati e individuali, sono sempre generali, e cioè irripetibili, ciascuno unico nel suo genere. Pure nel caso in cui si ammetta un innatismo come quello platonico, resta sempre la differenza fra le sensazioni puntuali ma ripetibili e le idee non ripetibili. Le sensazioni nel razionalismo sollecitano il ricordo o il divenire coscienti di elementi innati; le sensazioni nell’empirismo costituiscono l’esperienza: in ogni modo, sono puntualità opposte a processo. Potremo impiegare questa peculiarità per vedere quali risultati gnoseologico-fenomenologici si debbano derivare dall’opposizione fra esperienza (nel senso 5) e pensiero, che è sempre apparsa così profonda da rendere illusorie l’unità del conoscere e la continuità della vita psichica di cui ambedue fanno parte integrante. b) L’illusione genealogica. – L’interpretazione del suddetto contrasto costituisce il problema centrale della gnoseologia fenomenologica, e le diverse gnoseologie si distinguono tra loro per le varie soluzioni che ne propongono. 3629

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Esperienza Dall’empirismo come quello di Hume, che riconduce tutta la conoscenza alla puntualità dell’esperienza, all’innatismo, che considera l’esperienza come uno stimolo esterno per il funzionamento della ragione, sono possibili molte soluzioni, ma sono tutte subordinate alla genealogia delle idee. Questo concetto – come si sa – venne usato da Kant per indicare la natura comune dei vari tentativi gnoseologici empiristici, che si limitavano a quella che è stata chiamata «ideologia». Per Kant la genealogia in fondo è arbitraria, perché si limita a descrivere il processo di presentazione delle idee nel pensiero, senza dimostrare che essa è autentica o l’unica possibile. Si ricordi che tanto nella mente di Hume e degli altri genealogisti, quanto nella mente del loro critico, Kant, predominava il problema della causalità. Una genealogia vuole dar conto del sorgere delle idee e quindi assume la causalità, ovvero il più generale principio di ragion sufficiente, come base per l’esplorazione del pensiero; ma da questa intende derivare anche l’origine dell’idea o del principio stesso di causalità, e quindi cade in un circolo vizioso. Il sofisma è evidente in Hume, che critica la causalità riconducendola ad abitudine e, quindi, non fa altro che sostituire al principio di causalità un altro principio che svolga la medesima funzione. Ma anche l’innatismo accetta il principio di ragion sufficiente, quando asserisce che nel pensiero si trovano idee generali perché esse esistono già connaturate alla ragione, e così ne esclude una genesi extrarazionale. Nemmeno il criticismo col suo metodo trascendentale si libera dall’illusione genealogica, quando afferma che la questione gnoseologica non verte su ciò che esiste attualmente nel pensiero, ma su ciò che può esistere in linea di diritto: anche in questo caso, si cerca una ragione sufficiente della possibilità dei concetti. Ma la ragione sufficiente non è la ragione necessaria, perché non è ancora provato che sia l’unica ricostruzione possibile per dar conto di tutto: manca ancora qualcosa alla dimostrazione e perciò si ricade fatalmente nell’ontologia, come era accaduto ad Aristotele (Metaph., VI, 4; IX, 10) col cercare una base del principio di non-contraddizione nell’essenza stessa dell’individuo. Perfino Kant, nell’ultima fase del suo pensiero, uscì dalla gnoseologia, come risulta dall’Opus postumum. Era logicamente inevitabile perché, ove si accetti l’illusione genealogica nel risali3630

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re dall’effetto alla causa o dalla realtà attuale alla ragione della sua possibilità non ci si può arrestare arbitrariamente, e ci si deve chiedere anche quale sia la ragione sufficiente del pensiero stesso, questione che non è più gnoseologica. In particolare, quando si sia risaliti ai primi elementi semplici (l’impressione, o l’idea innata, o la sintesi della sensibilità) come ragione sufficiente del pensiero, ci si chiederà quale sia la ragione sufficiente dell’idea semplice che è il primo dato di pensiero, e quindi l’indagine dovrà uscire dal campo gnoseologico. Questa posizione risulta evidente in Locke; nel pensiero contemporaneo è connotata come concezione rappresentativa del conoscere, perché presuppone una realtà esterna da riprodurre in un correlato mentale. Questa critica da parte degli empiristi però è ingiustificata, perché essi pretendono di dare conto delle idee partendo senz’altro dall’impressione sensoriale: così accettano un principio di ragione che poi criticano come erroneo e, d’altra parte, pretendono di poter eliminare lo stesso principio non applicandolo al primo dato dell’esperienza. Si prova così che una genealogia delle idee è improponibile, perché porta a una gnoseologia fenomenologica che sfuma inevitabilmente nell’ontologia, cioè a una genealogia senza campo specifico di applicazione. Vediamo ora se sia inevitabile l’illusione genealogica nell’esplorazione dell’esperienza, cioè se, per dar ragione dell’esperienza, si debba finire per considerare la gnoseologia fenomenologica come terreno dell’ontologia: questo sposterebbe radicalmente il problema, perché il termine e il concetto di «esperienza» sono essenzialmente gnoseologico-fenomenologici. Per descrivere l’esperienza senza darne ragione, occorre esplorare le basi gnoseologico-fenomenologiche dell’illusione genealogica e vedere se sia possibile porle fra parentesi, al fine di esplorare l’esperienza senza compromessi genealogici. È evidente che l’illusione genealogica deriva dalla temporalità del pensiero e quindi dell’esperienza. Ogni atto puntuale del conoscere, ovvero ogni momento del pensiero che si possa o debba isolare ai fini dell’analisi gnoseologico-fenomenologica, viene prima o dopo un altro atto o momento. Sia che si parli trascendentalmente del tempo come forma a priori e schematismo, sia che si consideri psicologicamente il flusso della coscienza, una gnoseologia fenomenologica non

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può eliminare la temporalità del pensiero e deve considerare l’esperienza in base al collegamento temporale fra elementi. La psicologia riconduce siffatto collegamento a una facoltà o funzione specifica, la memoria, che appunto omologa e assimila ciò che viene dopo a ciò che viene prima. Dal punto di vista gnoseologico, però, la memoria ha un carattere paradossale: essa è immanente alla coscienza e insieme ad essa trascendente, perché supera la successione del «prima» e del «poi» e quindi si presenta come indipendente dal tempo, come flusso della coscienza. È per questo che già in Platone e in Aristotele la memoria ha una duplice veste: è conservazione inconscia del «prima» e rievocazione cosciente del «prima» come «poi». Soltanto una concezione del tempo in senso coscienziale, cioè tale che non vi sia in esso nessun punto fisso che permetta di distinguere e opporre un «prima» a un «poi», può superare il paradosso: questo è il significato dell’insistenza di Bergson sul flusso continuo della coscienza (Essai sur les données immédiates de la conscience, 1889) e dell’analisi di Husserl, che ha stabilito che il presente non è un punto tra passato e futuro, ma è una zona del flusso nella quale, per astrazione, si potrebbe già riconoscere un passato e un futuro (Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins, Halle 1928). Questo vuol dire che la puntualità temporale massima, quella del presente della coscienza, implica un fattore mnemonico o, più esattamente, il carattere evanescente e non puntuale del presente psichico. Di conseguenza, coscienza (o presenza al pensiero) e incoscienza non sono più distinguibili nettamente come punti nel fluire della coscienza, e si può superare la paradossalità di una doppia memoria cosciente e incosciente, passata e presente insieme. Dato che l’illusione genealogica sorge da una netta distinzione fra causa ed effetto, fra ragione sufficiente e fatto attuale, la concezione fenomenologica del presente psichico come zona e non punto (che porta a ritenere che il flusso di coscienza non sia composto da tanti presenti puntuali) va considerata anche nella descrizione dell’esperienza. Si potrà parlare – anzi si dovrà ancora parlare, ai fini analitici – di elementi dell’esperienza, ma la loro puntualità temporale andrà riconosciuta già distesa nel tempo (già, in un certo senso, mnemonica) e quindi tale che, fra un elemento di esperienza

Esperienza prima e un elemento di esperienza poi, non vi sarà netta distinzione come invece esisterebbe fra due presenti puntuali. La ricerca di un elemento che precede come ragion sufficiente di un elemento che segue appare, dunque, senz’altro dovuta ad astrazione arbitraria: nella realtà gnoseologico-fenomenologica immediata, gli elementi dell’esperienza si distinguono qualitativamente e non quantitativamente, cioè per riferimento alla loro collocazione nel tempo. c) Il reperto fenomenologico. – D’altra parte, l’elemento temporale non può essere trascurato nell’indagine gnoseologico-fenomenologica dell’esperienza: a provare questo basterebbe lo schematismo trascendentale di Kant, in cui proprio il tempo serve da giuntura fra sensazione (l’esperienza nel senso 4) ed esperienza come struttura (l’esperienza nel senso 6). II pensiero funziona nel tempo e, in particolare, l’iterazione non può venir ridotta a entità intemporale (KrV, Riga 17872, p. 134): è un accumularsi di elementi successivi e non un cumulo di elementi contemporanei, come potrà venir considerato in logica dove, distinguendo fra pensiero e conoscenza, si cercherà una base di legittimità per il conoscere d’esperienza ossia per l’esperienza vera. Nel campo gnoseologico-fenomenologico si deve considerare invece il reperto dell’autocoscienza, alla quale tende tanto l’esperienza che il pensiero, cioè tanto l’esperienza nel senso 4 che l’esperienza nel senso 6. Il reperto gnoseologico-fenomenologico mostra una convivenza di esperienza e ragione, cioè una situazione aporetica nel senso di Hartmann (Grundzüge einer Metaphysik der Erkenntnis, Berlin 1925, cap. 4, § b), nella quale esistono due elementi realmente contraddittori che tuttavia devono essere conservati nella loro distinzione e contraddittorietà, poiché l’esperienza che conosciamo è, in ogni suo momento, così caratterizzata. Il celebre detto di Kant che le sensazioni senza concetti sono cieche e i concetti senza sensazioni sono vuoti (KrV, cit., p. 75), esprime in termini trascendentali questa aporia. Per descriverla esattamente, ricordiamo che la puntualità degli elementi d’esperienza non va intesa come intuitiva; un’ulteriore analisi, pure astratta, è in grado di scindere l’elemento puntuale dell’esperienza, la sensazione isolata, in modo che essa non appare semplice, atomica. Questo prova che l’elemento dell’esperienza su cui si esercita l’indagine gnoseologica è puntuale 3631

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Esperienza soltanto perché isolato, o isolabile dagli altri. La sua puntualità è in certo senso relativa e quindi si può sospettarla avventizia e dovuta all’analisi. Ma anche il concetto di sistema dell’esperienza è altrettanto relativo e forse avventizio. Un sistema vero e proprio dell’esperienza non è pensabile o conoscibile realmente, perché, se fosse puro sistema, conterebbe relazioni, ma non i termini tra cui esistono le relazioni: sarebbe, in fondo, il concetto vuoto o l’idea di Kant. Un simile sistema si può costruire in astratto perché si può porre, al posto degli elementi dell’esperienza, un simbolo che li rappresenti tutti; di fatto, però, per pensarlo, occorre anche pensare gli elementi d’esperienza. (Questa è una maniera banale di esprimere che cosa sia il concetto, il quale, secondo Kant, è al tempo stesso una funzione fra sensazioni e un ente fisso e autonomo, sul quale si può giudicare e ragionare in modo da costruire un sistema concettuale dell’esperienza.) Si giunge così a quella che possiamo chiamare «problematica assoluta» dell’esperienza considerata come reperto gnoseologico-fenomenologico. Le indagini millenarie, che non sono riuscite a omologare e unificare definitivamente il pensiero e l’esperienza, sembra che siano fallite nel loro compito di darne conto; in realtà l’insuccesso, più che ad esse, è dovuto alla natura eminentemente aporetica dell’esperienza reale. Potranno esservi altri elementi aporetici nel pensiero, come sostiene Hartmann (Grundzüge einer Metaphysik der Erkenntnis, op. cit., cap. 6), ma nell’indagine gnoseologico-fenomenologica dell’esperienza è la sua stessa aporia, non esplorata da Hartmann, che va ammessa come risultato dell’indagine fenomenologica nel senso di Husserl e come base dell’esperienza dal punto di vista di una «fenomenologia dello spirito» nel senso di Hegelibro In altri termini l’aporia può essere così espressa: si ha esperienza quando si pensino contemporaneamente un sistema e i suoi elementi come assolutamente difformi (dal punto di vista gnoseologico) eppure assolutamente coerenti; oppure l’esperienza è tanto un’intuizione singola, quanto un sistema di intuizioni nettamente diverse, che è possibile distinguere ermeneuticamente, ma facendo astrattezza dalla loro convivenza dinamica. Non per nulla Locke dovette trattare le idee astratte come aveva trattato le idee semplici: queste sono elementi di quelle, ma quel3632

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le, a loro volta, sono elementi del sistema di un’idea complessa. Elementi dell’esperienza e sistema dell’esperienza appaiono diversi e contraddittori all’analisi, ma la loro divergenza sfuma nel flusso coscienziale attuale in cui l’iterazione avviene, in modo che, a un certo punto, fissato arbitrariamente dallo gnoseologo-fenomenologo, il ripetersi sembra cessare e gli elementi costituiscono un’unità, cioè un elemento sovraordinato. Quando questo nuovo elemento non sia ripetibile, abbiamo il concetto. Si è usciti allora dall’esperienza nel senso 5 e si è entrati nell’esperienza nel senso 6: il concetto è assolutamente unico nel suo genere, mentre i suoi elementi (le intuizioni che contiene) restano ripetibili all’infinito. Con la formazione del concetto o del giudizio generale, l’aporia è sospesa, perché il processo gnoseologico-fenomenologico dell’esperienza è finito e può venir considerato completo. Ma a questo punto diventa inevitabile domandarsi: il concetto così ottenuto è regolarità conforme a legge o uniformità prammatica? E, ancora, è inevitabile chiedersi se il risultato dell’esperienza è vero o falso. Ma per risolvere questi problemi non si può più considerare il processo dell’esperienza: si dovrà uscire dalla gnoseologia fenomenologica, per esaminare l’esperienza dal punto di vista logico. E così è avvenuto nel corso della storia della filosofia. III. L’ESPERIENZA NEL SUO ASPETTO GNOSEOLOGICO. – 1. L’esperienza nel pensiero greco. – Nella formulazione più originaria del suo concetto, l’esperienza è concepita come una conoscenza per partecipazione o «simpatia» vitale. Il modello di questo modo di intenderla forse si può far risalire all’indovino Proteo che, secondo la nota leggenda omerica, conosce tutte le cose perché «diventa tutte le cose» (pav n ta ginovmeno"), «assumendo le forme di quanti animali esistono sulla terra e trasformandosi in acqua e in fiori» (Odissea, IV, vv. 417-418). Così Eraclito, Empedocle e Senofane, tra i primi affermarono che l’esperienza consiste nel farsi simili alla cosa conosciuta. Ben presto però Anassagora fece rilevare che, a causa della debolezza dei sensi, «non siamo capaci di discernere il vero» (Diels, 59 B 21). Come pure Eraclito evidenziò che la temporalità ha un peso rilevante nella determinazione dell’esperienza. Si fece allora strada la tendenza a trasformare l’esperienza, da un lato, in un’attitudine intuitiva e sinottica e, da un altro, ad as-

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sociarla alla ripetitività delle situazioni e quindi a farne un’addizione, una raccolta di atti percettivi. La prima via trovò la sua formulazione più pregnante in Parmenide, che identifica l’esperienza con l’atto nel quale l’essere si fa manifesto nella sua unità originaria e spogliato dalle inadeguatezze che vi si mescolano per l’incapacità dei nostri sensi. La seconda invece trovò espressione nella tesi di Anassagora, in base alla quale «non bisogna ricondurre tutto alla sensazione», perché questa, nella sua varietà e molteplicità, è soltanto il punto di partenza dei nostri logoi. Del resto, le cose che non sono visibili con gli occhi è possibile inferirle con il ragionamento (ibi, 59 A 46). Tuttavia, il primo rigoroso tentativo di determinare la natura dell’esperienza fu compiuto da Platone, con il contrapporla all’arte e alla scienza. Nella Repubblica egli distingue i giudizi basati su una somma di esperienze pratiche da quelli che fanno leva anche sull’intelligenza e sui ragionamenti (Resp., 582 d-e). La questione è ripresa nelle Leggi, quando chiarisce il diverso comportamento tenuto dai medici rispettivamente nei confronti degli schiavi e degli uomini liberi. Il medico degli schiavi, scrive Platone, non dà «alcuna ragione della malattia», limitandosi a prescrivere ciò che è più conforme all’esperienza immediata; invece, il metodo degli uomini liberi «studia le malattie, tiene i malati fin da principio sotto osservazione, cerca la natura del male, stabilisce strette relazioni con lo stesso ammalato e con i suoi cari e insieme impara dagli ammalati e insegna loro per quanto è possibile (Leg., 720 d). Così, l’antitesi tra l’aspetto sensibile e l’aspetto razionale dell’esperienza, che era stato già evidenziato nella sua aporeticità da Parmenide con il ricorso all’immagine dell’uomo con due teste (Diels, 28 B 6) e riproposto da Eraclito attraverso la dialettica dei vigilanti e dei dormienti (ibi, 22 B 88), raggiunge con Platone la sua fase più critica e fa sentire l’urgenza di una soluzione. Di questa istanza si fa interprete Aristotele attraverso la fondazione critica del rapporto tra senso e intelletto, che rappresenta il tratto più saliente dell’esperienza sotto l’aspetto gnoseologico. Per un lato, la contrappone all’arte e alla scienza; per un altro, ne fa la condizione per il loro sviluppo. Tutti gli esseri animati, secondo Aristotele, dispongono di «una innata capacità selettiva», che consiste nella sensazione; però, mentre in alcuni, e cioè negli ani-

Esperienza mali, tale capacità non persiste, per cui essi non hanno più la conoscenza quando la sensazione viene meno, invece in altri, e cioè negli uomini, anche allora ne restano tracce, per cui essi continuano ad avere conoscenza anche quando la sensazione è cessata. In questo caso si determina una diversa specie di conoscenza, quella razionale. Dalla sensazione infatti si sviluppa il ricordo e «dal ricordo ripetuto di un medesimo oggetto nasce l’esperienza»; da quest’ultima poi o «dall’intero concetto universale che si è formato nell’anima come un’unità che, al di là della molteplicità, è una e identica nelle cose molteplici, viene fuori il principio dell’arte e della scienza: dell’arte rispetto al divenire, della scienza rispetto all’essere» (An. post., II, 19). Questo si deve al fatto che, attraverso le capacità intellettive, gli uomini «da molte riflessioni sull’esperienza si formano un unico giudizio generale». Ciò dà luogo all’arte che, a differenza dell’esperienza – che «è una conoscenza dei casi particolari» – ,è una conoscenza degli universali e delle cause. Al di sopra dell’arte si pone la scienza vera e propria, in quanto è conoscenza dei primi principi e, quindi, pura e indipendente da qualsiasi conferma che le possa venire dall’esperienza. (Metaph., 981 a). 2. L’esperienza nel pensiero medievale. – Nella sintesi aristotelica, così, l’esperienza manifesta, pur nella sua fase iniziale, una struttura rigorosamente articolata in sensazioni, percezioni e giudizi. Su questa base, Tommaso d’Aquino può affermare: «La parte intellettiva è più nobile e più aperta della parte percettiva. Finalmente l’unione del bene col soggetto è più intima, più perfetta e più durevole. È più intima perché il senso si ferma agli accidenti esterni di una cosa: invece l’intelletto penetra fino all’essenza di essa; infatti, l’intelletto ha per oggetto l’essenza delle cose» (Summ. theol., Ia-IIae, q. 31, art. 5). L’esperienza si trova in questo rapporto con l’intelletto perché non è concepita come una semplice percezione passiva, ma piuttosto come l’atto mediante il quale l’uomo avverte la presenza di un dato, in un’apertura incondizionata che si risolve in un rapporto di partecipazione assimilativa e di identificazione intenzionale con esso. E, al tempo stesso, l’esperienza si rivela avviata a scoprire nel dato «ciò che nelle cose vi è di più intimo e di più profondamente radicato, poiché l’essere è elemento formale rispetto a tutti i principi e i componenti che si trovano in una 3633

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Esperienza data realtà» (ibi, I, q. 8, art. 1).Tommaso così ne fa l’elemento risolutore delle principali istanze della problematica filosofica, in quanto la presenta come capace di dar conto del modo intuitivo di aprirsi del soggetto nei confronti della realtà, del rapporto che ne scaturisce e dell’assolutezza del contenuto raggiunto dalla conoscenza. Quanto detto vale per gran parte dei filosofi medievali. Sembra impossibile, infatti, per costoro dissociare l’esperienza, considerata nel suo aspetto gnoseologico, da un fondamentale giudizio di esistenza, inteso come l’esplicitazione di quel contatto con la realtà connesso al riconoscimento della sua presenza. D’altro canto, il meccanismo dei fattori soggettivi attraverso i quali l’esperienza si realizza, non la riduce a uno spettacolo interno di rappresentazioni, ma la attua come apertura di fronte a un dato che viene sperimentato immediatamente, sebbene attraverso una certa motivazione di carattere organico e psicologico. È inevitabile, pertanto, che sia individuato in essa il criterio della validità oggettiva della conoscenza e sia superata con piena legittimazione critica la strumentalità della sua fase meramente soggettiva. Questo è quanto avviene già nel tardo Medioevo, solo che, in tal caso, l’esperienza è concepita essenzialmente come intuizione. Così, da questo punto di vista, un oggetto conosciuto per esperienza è un oggetto presente in persona e nella sua individualità al soggetto che lo conosce. Ne fornisce una chiara esemplificazione R. Bacone: «Senza l’esperienza – egli afferma – niente si può conoscere a sufficienza. Due sono i modi di conoscere: l’argomentazione e l’esperienza. L’argomentazione conclude e ci fa concludere la questione, ma non ci rende certi e non rimuove il dubbio, giacché l’anima non s’acquieta nell’intuire la verità se non la trova per la via dell’esperienza» (Opus maius, VI, 1). Tuttavia, l’intuizione a cui si appella Bacone non è soltanto di natura sensibile, ma include anche un’intuizione interiore, dovuta all’illuminazione divina: l’una è la fonte delle verità naturali; l’altra è la fonte delle verità soprannaturali. Per Ockham l’esperienza è la conoscenza intuitiva perfetta, perché ha per oggetto le cose presenti, e si differenzia da quella imperfetta che invece concerne le cose passate. Equivale infatti a quell’attività immediata «in virtù della quale ci è possibile conoscere se una cosa esiste o non esiste: se esiste, su3634

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bito l’intelletto giudica che esiste». Essa, inoltre, è la forma di conoscenza «mediante la quale si conosce che una cosa inerisce a un’altra, che un luogo dista da un altro, che una cosa ha una certa relazione con un’altra o, in generale, qualsiasi verità contingente, specialmente intorno a ciò che è presente» (Scriptum in librum I Sententiarum, Prologus, q. 1, z). Per Ockham l’esperienza non riguarda soltanto le cose esterne, ma anche gli stati interni dell’uomo, come «le intellezioni, le volizioni, la gioia, la tristezza e simili» (ibi, q. 1, h). Sulla sua scia, Buridano ribadisce l’identificazione dell’esperienza con l’intuizione sensibile, e dichiara imperfetta la disciplina che presume di farne a meno, perché non è in grado di afferrare il significato conoscitivo né dei suoi principi né delle sue conclusioni (Quaestiones in Metaphysicam, I, q. 8). 3. L’esperienza nel pensiero moderno. – Con l’avvento dell’età moderna, il problema dell’esperienza viene affrontato sulla base di una pregiudiziale metodologica che, attribuendo la priorità al soggetto della conoscenza rispetto all’oggetto, tende a ridurre la portata realistica del dato di riferimento, fino a depotenziarne in modo considerevole la consistenza ontologica. Questa impostazione sfocia in una sorta di fenomenismo che, anche quando è presentato in termini matematici, come avviene in Cartesio (Discours de la méthode, II), Spinoza (Ethica, II, 40, scolio 2) e Leibniz (Théodicée, Discours, § 65), riconduce il significato del dato a quello di una entità costruita, anziché preesistente, e quindi diviene incapace di collocare l’esperienza in quella posizione di incondizionata apertura nei confronti della realtà, che l’aveva contraddistinta ininterrottamente nel pensiero greco e in quello medievale. Ne risente anche il rapporto di continuità tra senso e intelletto, che si dissolve in una separazione, per cui la questione principale diviene la determinazione di quanto, nell’atto conoscitivo, derivi dal fatto ricettivo-sensibile e di quanto provenga dalla pura attività del pensiero. Questa situazione trova una significativa espressione nella contrapposizione tra l’empirismo e il razionalismo, per quanto prendano forma nell’ambito di una comune matrice fenomenista. Così, a partire dal sec. XVI, l’appello all’esperienza, che non significa altro che rimettersi all’intuizione sensibile, assume il carattere di un’esplicita limitazione delle pretese della ragione. Ne abbiamo una prima conferma nel

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sensismo di Telesio, dove però l’identificazione di «ciò che la natura rivela» con «ciò che i sensi testimoniano» (De rerum natura, I, proemio), porta ad attribuire la priorità alla conoscenza sensibile, ma non già a farne anche la guida e il criterio di controllo della conoscenza in generale. Questo invece è quanto avviene, nel secolo successivo, con l’empirismo. Per Locke tutta la nostra conoscenza proviene dall’esperienza: «È questo il fondamento di tutte le nostre conoscenze, da qui esse traggono la loro prima origine» (Essay Concerning Human Understanding, l. II, cap. 1, § 2). È da essa infatti che dipendono sia la sensazione sia l’intelligenza, in quanto sono intuizioni rispettivamente degli oggetti esterni e delle operazioni del nostro spirito (ibi, l. II, cap. 1, §§ 3-4). Come pure essa, che «è la specie di conoscenza più chiara e più certa di cui sia capace l’umana debolezza» (ibi, l. IV, cap. 2, §§ 1), è il criterio insieme limitativo e fondante della conoscenza umana, in quanto le assicura una certezza che «ognuno trova essere talmente generale, che non può immaginarne, né quindi esigerne, una maggiore» (ibid.). Anche per Hume l’esperienza è la fonte della conoscenza, in quanto questa non è che il complesso mutevole e vario delle impressioni e delle idee nei loro rapporti. Tuttavia, mentre Locke ammette la certezza, sia pure relativa, del mondo esterno, Hume invece la esclude, riconducendola all’esperienza (Treatise of Human Nature, l. I, parte I, § 2). D’altro canto, tutto ciò che si può dire sul conto del mondo esterno, egli osserva, ha il suo fondamento nel rapporto di causa ed effetto che, a sua volta, «non si ottiene mai mediante ragionamenti a priori, ma nasce interamente dall’esperienza quando troviamo che certi particolari oggetti sono costantemente congiunti tra loro» (Enquiry Concerning Human Understanding, l. IV, cap. 1). Non si tratta perciò di una connessione necessaria, ma di un’inferenza compiuta dal soggetto, senza alcuna concatenazione logica. Del resto, tutte le nostre conclusioni si fondano sulla supposizione «che ci sia una connessione tra il fatto presente e quello che da esso viene inferito». Ma cercare la prova di questa supposizione in «argomenti probabili o in argomenti relativi all’esistenza, è evidentemente muoversi in un circolo e accettare come sicuro proprio quello che è il punto in questione» (ibi, l. IV, cap. 2). Così pure, tutto ciò che si può dire intorno ai limiti della conoscenza umana, è ri-

Esperienza condotto da Hume a espressione di atteggiamenti istintivi e sensoriali che, cogliendo se stessi come labili e mutevoli, hanno in ciò il massimo consentito di consapevolezza critica. Per quanto non manchi di evidenziare le relazioni che sussistono tra le sensazioni e le impressioni, che fanno dell’esperienza un tutto strutturato anziché un semplice aggregato di elementi isolati, l’empirismo proposto da Hume rendeva impossibile la costituzione di procedimenti di previsione e perciò non consentiva la formazione di una scienza qualsiasi. L’unilateralità di questa posizione, come pure di quella razionalista, è avvertita acutamente da Kant e gli fa sentire l’urgenza di liberarsi dal fenomenismo. A tale scopo, perciò, opta per una soluzione intermedia tra empirismo e razionalismo, che gli consente di formulare una dottrina capace di stabilire le condizioni di possibilità dell’esperienza. Elabora così un concetto di esperienza che intende rispondere dell’effettiva estensione della conoscenza e garantirne l’elemento a priori. Per Kant, perciò, «ogni esperienza, oltre l’intuizione dei sensi, per cui qualcosa è dato, contiene anche il concetto di un oggetto che è dato, o appare, nell’intuizione: quindi, a base di ogni conoscenza sperimentale ci saranno concetti di oggetti in generale, come condizioni a priori; e, per conseguenza, il valore oggettivo delle categorie, come concetti a priori, si fonderà sul fatto che solo per esse è possibile l’esperienza (secondo la forma del pensiero)» (KrV, cit., p. 104). L’esperienza dunque ha come suo fondamento «i principi della sua forma a priori, cioè regole universali dell’unità nella sintesi dei fenomeni, regole la cui realtà obiettiva può essere provata sempre nell’esperienza, come di necessarie condizioni di essa, anzi della sua possibilità» (ibi, p. 145). Pertanto, la possibilità dell’esperienza è il criterio ultimo della legittimità di ogni conoscenza possibile; essa infatti fornisce una realtà oggettiva e tutte le nostre conoscenze a priori e le condizioni della sua possibilità «sono al tempo stesso le condizioni della possibilità degli oggetti dell’esperienza e hanno perciò valore oggettivo in un giudizio sintetico a priori» (ibid.). Ma con ciò l’esperienza viene a coincidere con il giudizio sintetico a priori, del quale non si pone la questione se sia possibile, ma solo come sia possibile e perciò si parte da un concetto di esperienza già dato, trasferendo così indebitamente nel punto di partenza della ricerca quel3635

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Esperienza lo che ne dovrebbe essere il risultato. Pertanto, all’apertura incondizionata di fronte al dato, anche Kant, come l’intero pensiero moderno, sostituisce la costruzione del dato stesso mediante l’attività di un apparato funzionale a priori, che estromette dall’ambito dell’esperienza possibile la presa sulla realtà in sé limitandola alla sfera dell’universale intersoggettivo trascendentale. L’idealismo conferisce piena coerenza a questa dottrina, identificando la conoscenza effettiva con quella organizzata secondo un ordine necessario e quindi con il riferire l’esperienza non già a una realtà data al soggetto, bensì da questo posta. Fichte, infatti, assume che «il sistema delle rappresentazioni accompagnate dal sentimento della necessità, si chiama anche esperienza, sia interna che esterna. Perciò la filosofia ha il compito di rendere ragione di ogni esperienza.» (Wissenschaftslehre, Tübingen 1797, § 1). Con l’esperienza, comunque, secondo Fichte, non si ottiene alcun sapere nel senso vero e proprio; perché questo si dia, occorre distanziarsi riflessivamente dall’accadere puntuale e in sé irrelato e irrepetibile del «puro esperito», e ciò è possibile riportando l’esperienza alla coscienza, in quanto ne costituisce l’unico fondamento possibile di spiegazione, data la sua natura di attività riflessa, che intuisce se stessa. Così è pure per Hegel, per il quale l’esperienza non è che «quel movimento dove l’immediato, il non sperimentato, cioè l’astratto, appartenga all’essere sensibile o al semplice solo pensato, si viene alienando e poi da questa alienazione torna a se stesso». Con essa, perciò, «l’immediato è presentato nella sua effettiva effettualità e verità» (Phänomenologie des Geistes, Bamberg - Würzburg 1807, p. 36), ma non corrisponde al vero sapere: questo consiste «nell’automovimento del concetto» (ibi, p. 71), ovvero allo spirito che si sia sviluppato come spirito. L’idealismo, così, rivela il sostrato immanentistico – che sostiene l’intero edificio della conoscenza – e la concezione del trascendentale che caratterizzano il pensiero moderno, in conseguenza della sua adozione dell’esperienza come intuizione e dell’identificazione di quest’ultima con l’intuizione sensibile. A questi esiti non si sottrae neppure la fenomenologia di Husserl, nonostante si proponga come un «ritorno all’esperienza antepredicativa» e quindi si delinei come un cammino che non va, come in Kant, dal giudizio all’esperien3636

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za, ma piuttosto dalle differenti modalità di organizzazione di quest’ultima alle nozioni logiche fondamentali. Questo però fa sì che all’interno dell’esperienza si costituisca il concetto stesso di realtà, perché essere un oggetto reale non significa altro, per Husserl, che avere un posto all’interno del mondo intenzionato dalla coscienza secondo la modalità temporale (E. Husserl, Erfahrung und Urteil, Hamburg 1954, p. 191). Purtuttavia la realtà, come non consiste in un dato oggettivo, così non si risolve in un puro gioco dell’immaginazione, ma piuttosto in ciò che l’esperienza quotidiana attesta: «La semplice esperienza in cui è dato il mondo-della-vita è il fondamento ultimo di qualsiasi conoscenza obiettiva» (Die Krisis der europäischen Wissenschaften, Den Haag 1954, § 66). Inoltre «nel suo significativo primo e più pregnante», l’esperienza deve essere considerata come «il rapporto diretto con l’individuale» (Erfahrung und Urteil, § 6). Tuttavia, l’ordinamento che essa è in grado di assicurare a ciascun soggetto può essere confrontato con quello che si attesta nell’esperienza degli altri soggetti; e nel confronto e nell’accordo, prende forma l’idea di un mondo intersoggettivo, identico per tutti. Per Gadamer, a causa del fatto che, nella logica dell’induzione, ha una funzione-guida per le scienze positive, il concetto di esperienza, nell’ambito della metodologia scientifica, «ha finito per essere rinchiuso entro schemi gnoseologistici che sembrano mutilarne l’originario contenuto» (Wahrheit und Methode, Tübingen 1960, p. 329). Ne è stata sviluppata così una sola possibilità, quella che consente la ripetibilità e la verificabilità. Gadamer procede pertanto al recupero della nozione elaborata dai filosofi greci, integrandola però con la prospettiva hegeliana, che riconosce ad essa la storicità. In Hegel, secondo Gadamer, l’esperienza è essenzialmente un processo negativo, in cui ciò che è ritenuto vero è contraddetto. Questo però non significa che si cada nel «puro nulla», in quanto la negazione è una «negazione determinata». Di conseguenza, con tale processo, oltre ad ampliare l’orizzonte del sapere, se ne acquista anche la piena consapevolezza. L’esperienza hegeliana, però, secondo Gadamer, è ancora intrisa dell’ideale metodologico della piena conoscenza dell’oggetto e della sua messa a disposizione del soggetto. Da parte sua, pertanto, egli opta per un’esperienza che si contraddistingue per la non con-

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clusività e la non esaustività. Così l’esperienza autentica diventa quella ermeneutica, la quale si realizza nella «coscienza della determinazione storica», in cui l’approccio alla tradizione è fatto in termini di apertura alla verità che si rivela nell’evento, nel testo, nell’opera d’arte. Anche per Adorno, come per Gadamer, l’esperienza è il continuo rimando alla positività del reale; ma non nel senso del puro comprendere il dato, perché, «se l’esperienza si abbandonasse esclusivamente alla sua dinamica e alla sua felicità, non ci sarebbe più alcun limite» (Negative Dialektik, Frankfurt am Main 1960, p. 39). L’esperienza significa piuttosto il dissolvimento di ogni positività e di ogni dato preliminare, ottenuto con lo strumento della negazione determinata. 4. L’esperienza nel pensiero contemporaneo. – La nozione di esperienza elaborata da Hume, è divenuta, attraverso Mach, il presupposto del positivismo o empirismo logico. Mach, attraverso l’analisi, risolve il fatto di esperienza nei suoi elementi ultimi, che individua nelle sensazioni. Sotto questo profilo, un fatto fisico o un fatto psichico non è che un insieme relativamente costante di elementi semplici (cfr. Die Analyse der Empfindungen, Jena 1900, p. 14). Con questa dottrina prende forma la nozione di «unità empirica elementare», che avrebbe esercitato una funzione fondamentale nel positivismo o empirismo logico. In questo contesto, però, si impone l’idea che i «dati puri» possono essere assunti solo sotto forma di linguaggio, cioè in proposizioni su di essi. Perciò l’esperienza è stata in un linguaggio di osservazione che è interpretato in modo univoco e completo mediante il concreto riferimento fisico a ciò che è stato. Così essa non è più ristretta a indicare situazioni intuitive percepite attraverso i sensi, ma è elevata anche a criterio per il controllo della verità o falsità degli enunciati che la esprimono. Di questa nozione di esperienza abbiamo una chiara formulazione in Wittgenstein, quando individua negli «stati di cose» o «fatti atomici» il corrispettivo, sul piano empirico, delle «proposizioni elementari» e il termine di riferimento per stabilire se hanno un significato o se sono vere o false (cfr. Tractatus logico-philosophicus, Leipzig 1921, 4.2). Con lo stesso intento, Schlick distingue l’Erleben, cioè l’esperienza vissuta intuitiva della realtà, dall’Erkennen, cioè l’esperienza tradotta in forma linguistica, e riconosce la priorità all’Erleben. A fondamen-

Esperienza to della sua dottrina pone perciò le «constatazioni», la cui incontestabilità è garantita dal sentimento di appagamento che suscitano nella persona che ne fa esperienza, quando vede che le ipotesi fondate su di esse si avverano: «In tutti i singoli casi di verificazione e di falsificazione, scrive Schlick,è sempre una «constatazione» che fa rispondere con un sì o con un no, provocando in noi un soddisfatto sentimento di gioia o di delusione. Le constatazioni sono definitive» (Über das Fundament der Erkenntnis, in Gesammelte Aufsätze, Hildesheim 19692, pp. 305-306). Anche Carnap procede in questa direzione e intraprende il tentativo di ridurre tutta la conoscenza possibile nei termini dell’esperienza intuitiva. L’unità empirica a cui fa riferimento è il «dato vissuto elementare» (Erleben), «unità indecomponibile», neutra e anteriore alla disgiunzione tra soggetto e oggetto (R. Carnap, Die Aufgabe der Wissenschaftslogik, Wien 1934, § 67). Ma questa concezione dell’esperienza, che è assai simile a quella proposta da Hume, rende impossibile la fondazione di regole per la previsione dei fenomeni e quindi per la costruzione della scienza. È per questo che Carnap, nello sviluppo del suo pensiero, matura la convinzione che non tutti i termini della conoscenza possano essere ricondotti a termini di percezione e che non tutti gli enunciati della scienza possano essere tradotti in enunciati circa le percezioni (cfr. Testability and Meaning, New Haven 1950, I, 3). Tuttavia, l’adozione della confermabilità in sostituzione della verificabilità non comporta, da parte sua, un ripensamento critico circa la natura dell’esperienza: questa resta identificata con l’esperienza immediata propria dell’intuizione sensibile. Il modo in cui definisce il predicato osservabile, infatti, implica il riferimento all’esperienza immediata, perché è concepito come l’unità empirica elementare che è a fondamento degli enunciati sintetici. Un vero mutamento di prospettiva nella concezione dell’esperienza si è avuto soltanto negli sviluppi più recenti della filosofia analitica. Quine se ne può considerare l’artefice, in quanto individua nell’empirismo la presenza di due «dogmi», che consistono, rispettivamente, nella distinzione degli enunciati in analitici e sintetici e nella riduzione dell’evidenza a intuizione. Innanzitutto, «un confine tra enunciati analitici ed enunciati sintetici non è stato stabilito. Che tale distinzione deb3637

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Esperienza ba essere fatta è un dogma non empirico degli empiristi, un articolo metafisico di fede» (From a Logical Point of View, Cambridge 1961, II, 5). Anche la riduzione degli enunciati empirici ai dati sensibili è connessa a questa distinzione. Perciò, i due dogmi hanno la stessa radice: scaturiscono dal presupposto che, siccome la verità degli enunciati dipende dal linguaggio o dal fatto extralinguistico, tale verità «è analizzabile in una componente linguistica e in una componente fattuale». Ma questa è una palese sciocchezza, che ha la sua origine proprio nel fatto che «si parla di una componente linguistica e di una componente fattuale nella verità di ogni enunciato individuale» (ibid.). Di certo, la scienza «ha la sua doppia dipendenza dal linguaggio e dall’esperienza; ma questa dualità non può essere riportata sino agli enunciati singoli della scienza» (ibid.). Per quanto ne denunci gli equivoci, tuttavia, non si può dire che Quine si sia effettivamente liberato della nozione di esperienza come intuizione. D’altra parte, egli parla ancora, alla maniera di Hume, di «flusso dell’esperienza» (ibi, II, 6) e afferma che gli oggetti fisici ritagliati in questo flusso non sono diversi, per il loro carattere mitico, dagli dei di Omero. Inoltre, il flusso di esperienza non è che una successione di intuizioni istantanee, cioè di unità empiriche elementari. Come tale, pertanto, esso suppone l’esistenza di ciò che la critica di Quine intende eliminare. IV. L’ESPERIENZA NEL SUO ASPETTO METAFISICO. – Il passaggio dal problema gnoseologico al problema metafisico dell’esperienza si pone senza soluzione di continuità, in quanto l’apertura incondizionata di fronte al dato, una volta riconosciuta la presenza del dato stesso, si rivolge successivamente a indicarne le condizioni reali di possibilità. Così, mentre sotto l’aspetto gnoseologico l’esperienza constata una presenza e ne qualifica il contenuto complesso, sotto l’aspetto metafisico coglie in tale presenza i tratti essenziali dell’essere e affronta la tematica inerente alla sua consistenza o fondazione. Tutto ciò implica una concezione essenzialmente dinamica dell’esperienza, in stretto rapporto di dipendenza dalla struttura organica del dato, il quale, comportando piani diversi e graduali, esige nel soggetto una posizione di apertura corrispondente. «Dato», infatti, è la particolare realtà che si prende inizialmente a considerare e di cui si ha una prima esperienza; ma «dato», a sua volta, è anche 3638

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questa prima esperienza che si può prendere ulteriormente a considerare e sulla quale, di fatto, ci si sente spinti a ritornare in modo insopprimibile, se essa si presenta ancora problematica; «dato», infine, è lo stesso tentativo di mediazione che si pone come esperienza di trascendere l’esperienza dalla quale al principio si sono prese le mosse (cfr. G. Bontadini, Esperienza e metafisica, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 1949, p. 64). Non si tratta di dati diversi, ma sempre dello stesso dato esperito successivamente in modo sempre più completo: è naturale che l’esperienza, mediante la quale questa realtà viene conosciuta, si adegui ai piani diversi e graduali con i quali successivamente prende contatto, e che tale adeguazione si articoli secondo un processo di continuità speculativa altrettanto razionale, in quanto rivolto a esaurire l’intelligibilità del reale. In tale senso, si può parlare di esperienza parziale del reale, come lo è quella offerta dalle singole scienze; ma si può anche parlare di esperienza integrale del reale stesso, come conoscenza che ne attinge le cause ultime o lo coglie nella sua essenza, come avviene con la metafisica. Così intesa, quest’ultima, ben lungi dall’imporre all’esperienza uno schema aprioristicamente dato, viene desunta dall’esperienza medesima, perché possa essere assunta nel suo significato effettuale, umano e storico insieme, sempre secondo il canone dell’incondizionata apertura. Vi è quindi un’esperienza metafisica, la quale, consentendo di cogliere la realtà in quanto realtà, cioè in relazione all’essere, rappresenta la soluzione integrale del problema dell’esperienza. Tale esperienza può avere un esito trascendentistico. Precisi, anche se embrionali sintomi se ne colgono già nel pensiero presocratico. Ma è con Platone che l’esperienza metafisica acquista una sua precisa configurazione, attraverso il concetto di «partecipazione». Si rafforza e si consolida con Aristotele attraverso la teoria della potenza e dell’atto; trova quindi il suo coronamento nella nozione tomistica di «partecipazione». In questa mediazione dell’esperienza, Tommaso (De veritate, q. 10, art.12 ad 7um) si mostra profondamente solidale col pensiero di Agostino, facendone proprio sia il richiamo interioristico (cfr. De vera religione, 39.72), sia il conseguente sviluppo metafisico (cfr. Confessiones, l. 7, cap. 11; ibi, cap. 17.23; l. 9, cap. 10.24; De libero arbitrio, l. 2, capp. 3-15), in modo che i due itinerari (l’ago-

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stiniano e il tomistico) possono considerarsi sostanzialmente concordanti per ciò che riguarda la fondazione ultima dell’esperienza stessa. Ma l’esperienza metafisica può avere anche un esito immanentistico. Questo esito, già preannunciato negli sviluppi del pensiero cartesiano soprattutto con Malebranche e Spinoza, ha trovato la sua manifestazione esplicita nel fenomenismo. Quest’ultimo infatti, nella sua duplice espressione razionalistica ed empiristica, ha puntato decisamente sull’elemento immanente dell’esperienza, e ha modulato il conseguente primato della conoscenza nella contrapposizione tra il giudizio analitico e il giudizio sintetico. L’elemento trascendente, pur comparendo ancora in alcune posizioni, a titolo di residuo problematico, è stato poi gradualmente eliminato, a beneficio di una visione della realtà dominata dall’unità e dalla necessità. Questa traiettoria speculativa, che ha avuto inizio con il cogito cartesiano e successivamente si è sviluppata nell’Ich denke kantiano, ha raggiunto il suo culmine nel concetto hegeliano. In questo contesto, l’esperienza viene a identificarsi col processo dialettico rivolto a scandire le tappe salienti della fenomenologia dello spirito e a operare una fondazione del finito che rappresenta l’assorbimento di questo da parte dell’assoluto (cfr. Philosophie der Religion, a cura di G. Lasson, Hamburg 1966, I, p. 147). Di qui l’istanza hegeliana di un razionalismo integrale, con la conseguente esigenza di una laicizzazione della religione cristiana (i cui misteri vengono trasformati in altrettante verità razionali), che porta con sé la sostanziale relativizzazione dell’assoluto e viceversa, e preclude all’esperienza ogni rimando trascendente. Kierkegaard, nel suo movimento di reazione al panlogismo hegeliano, cercherà di fissare l’esperienza all’elemento rivelativo connesso alle situazioni affettive della disperazione e dell’angoscia, affidando a questo il compito di sostituire quella che, in ogni costruzione intellettualistica, è la mediazione concettuale. In Heidegger, in particolare, si cerca di stabilire il senso dell’essere elevando l’esperienza dal piano ontico a quello ontologico e a risolvere su nuove basi il problema ontologico del fondamento dell’esistenza, intesa essenzialmente come estasi e progetto. Non è difficile, tuttavia, rendersi conto dell’inanità di questo sforzo, ove si consideri l’insufficienza delle garanzie noetiche impegnate al raggiungimento dello

Esperienza scopo: nel suo pensiero, infatti, l’intelletto è ridotto all’immaginazione trascendentale (Kant und das Problem der Metaphysik, Bonn 1929, sezione III), con la conseguente temporalizzazione dell’essere. Così la comprensione esistenziale è ridotta a comprensione esistentiva che, siccome riconduce ogni norma di realtà al modo umano di conoscere, non è capace di aprirsi all’essere in tutta la sua ampiezza. Di qui l’impossibilità di una soluzione teologica del problema metafisico dell’esperienza. Per Heidegger, la domanda «come entra Dio in filosofia?» ha un duplice significato, secondo che si riferisce alla filosofia effettuale o a una filosofia ideale: nella prima Dio è già entrato, ma di fatto non c’è; nella seconda Dio potrebbe esservi, ma solo a certe condizioni, che ci costringono a concludere che non c’è ancora la filosofia in cui Dio possa trovare la sua dimora. In ogni caso, egli sostiene che si deve insistere sulla svalutazione del pensiero concettualediscorsivo come strumento efficiente per la conoscenza di Dio, sostituendo ad esso un «pensare a-teo» (ein Gott-loses Denken), fuori cioè dalla struttura noetica della metafisica tradizionale (contrassegnata dall’oblio dell’essere), che si può realizzare attraverso un «salto» che avviene adottando la forma del «pensiero poetante» (cfr. Identität und Differenz, Pfullingen 1957, pp. 37-73). Ma ciò può condurre solo a una semantica ineffabile, in cui l’essere si dà esclusivamente nella modalità dell’evento. V. L’ESPERIENZA SCIENTIFICA. – Anche il passaggio dall’esperienza in senso gnoseologico all’esperienza in senso scientifico si pone senza soluzione di continuità, una volta che all’intuizione immediata viene associata l’osservazione organizzata. Questa integrazione, infatti, porta a un concetto allargato di esperienza, perché consente di introdurre un ordine nell’osservazione e, inoltre, di raggiungere la cosiddetta esperienza indiretta, concernente oggetti o fenomeni non accessibili all’intuizione immediata, ma inferibili da altri oggetti o fenomeni osservati. Un’anticipazione di questa nozione di esperienza si può cogliere già in Ockham (Scriptum in librum I Sententiarum, q. 2, g), ma si impone soprattutto con l’avvento dell’età moderna. Galilei, infatti, sottolinea la necessità di ricorrere alle «sensate esperienze», cioè all’esperienza sottoposta al ragionamento matematico, come via privilegiata per conoscere la realtà. Per F. Bacone l’esperienza 3639

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Esperienza che viene incontro spontaneamente all’uomo «non è altro, come si dice, che una scopa slegata, un procedere a tentoni, come chi di notte si vada aggirando qua e là nella speranza di imboccare la via giusta, mentre sarebbe assai più utile e prudente aspettare il giorno o accendere un lume e quindi infilare la strada» (Novum Organum, I, 82). Per ottenere la conoscenza occorre l’esperienza litterata, cioè guidata e sorretta da un ordine che le è impresso dall’intelletto mediante l’ipotesi. Da questo «connubio della mente e dell’universo» nasce l’esperimento, che altro non è che il fatto sottoposto all’esercizio dell’intelletto (cfr. ibi, I, 101). Anche per Wolff la conoscenza è «una esperienza che concerne fatti di natura che non accadono se non interviene l’opera nostra» (Psychologia empirica, § 456). Questo modo di concepire l’esperienza trova riscontro anche in Poincaré. Egli sottolinea che la sorgente del sapere scientifico è l’esperienza, ma, al tempo stesso, evidenzia che i «fatti bruti» da soli non sono sufficienti: è necessario il contributo generalizzante, per via matematica, della mente umana (La science et l’hypothése, Paris 1905, IV, cap. 9). Solo con gli sviluppi più recenti dell’epistemologia è mutata la funzione riservata all’esperienza. Si è fatta strada infatti l’idea che le teorie scientifiche contengano molto di più di quanto dica l’intuizione empirica. Ebbene, per spiegare questo «di più» occorre rovesciare il rapporto, accordando il primato all’aspetto teorico e quindi alle ipotesi create dal soggetto, e riservando all’esperienza il ruolo del controllo critico. È questo, come si è detto, il ruolo che le riconoscono i positivisti o empiristi logici. Altri invece vi hanno visto un fattore fondamentale per il progresso della scienza. Tale è il caso di C. Bernard, per il quale l’esperienza è «un’osservazione provocata allo scopo di far nascere un’idea» (Introduction à l’étude de la médecine expérimentale, Paris 1865, I, § 6). Ma la posizione più esplicita, a questo riguardo, è quella formulata da Popper: «Nella scienza, è l’osservazione piuttosto che la percezione a giocare la parte decisiva. Ma l’osservazione è un processo in cui giochiamo una parte interamente attiva. Un’osservazione è una percezione pianificata e preparata» (The Bucket and the Searchlight, appendice a Objective Knowledge, Oxford 1972, p. 342). Infatti, l’osservazione è sempre preceduta da un particolare interesse, da una questione o da un problema e, in quan3640

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to tale, «presuppone sempre l’esistenza di un sistema di aspettative». Perciò, «l’osservazione sarà usata per ottenere una risposta di conferma o di correzione alle aspettative così formulate» (ibi, p. 344). VI. CONCLUSIONI. – Le forme richiamate, per quanto siano le più diffuse nella storia del pensiero occidentale, tuttavia non esauriscono il significato della nozione di esperienza. Questa, come è noto, viene espressa da Aristotele con tre diversi vocaboli: 1) aisthesis, che corrisponde a una relazione immediata con un’alterità dalla quale siamo affetti, come avviene nella sensazione, nel sentimento, nell’intuizione; 2) empiria, che coincide con la capacità di ordinare e memorizzare, in una sorta di riserva personale, le impressioni che abbiamo ricevuto; 3) peira, che consiste nella possibilità, tipica della persona «esperta», di estendere le cognizioni di cui dispone mettendole alla prova o ai fini pratici, o in vista dell’acquisizione del sapere. L’esperienza, però, non risulta dalla semplice giustapposizione di queste attitudini, ma dalle loro connessioni, dalla loro interdipendenza. Questo emerge in modo esplicito dal latino, che appunto unifica i tre vocaboli riconducendoli a uno soltanto, experientia. In questo vocabolo la valenza antropologico-esistenziale è centrale, per cui l’esperienza esprime il modo in cui il soggetto umano fa propria la realtà nella quale è chiamato a vivere. Ebbene, riguardata sotto questo profilo, l’esperienza non può ridursi semplicemente a esperienza conoscitiva e a esperienza metafisica: equivarrebbe a connetterla esclusivamente con la sfera intellettuale dell’essere umano. Ma, come è noto, è parte integrante della sua identità anche la sfera affettiva. E nell’intersezione di queste sfere, dove si sprigiona la capacità creativa del soggetto umano, oltre alla costitutiva intenzionalità dei suoi atti, si sviluppano altre forme di esperienza. Assume una fisionomia specifica innanzitutto quel ripiegamento su se stessi e quell’esplorazione interiore in virtù della quale ciascun individuo è messo nella condizione di sentire se stesso nel proprio corpo e nella propria anima, cioè di cogliersi nella sua «datità» originaria, precedente a ogni possibile concettualizzazione. A questo riguardo, esemplari sono le testimonianze non solo dei neoplatonici e di Agostino, ma anche di Cartesio e di Pascal e, in generale, delle varie forme di spiritualismo che si

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sono imposte nel XIX e nel XX secolo. Si delinea inoltre, con un’identità sua propria, il sentire estetico da cui provengono le varie arti, oltre alla capacità di fruire del bello e dell’efficacia dell’attività immaginativa e simbolica che lo esprime. Per tutti vale il sentimento del bello esplicitamente evocato da Kant e abbondantemente ripreso nelle concezioni estetiche successive. Si propone poi, con una sua inequivocabile peculiarità, l’esperienza religiosa. Questa si caratterizza sullo sfondo di una duplice tensione: quella del soggetto umano verso il divino, che si traduce nell’apertura della sua coscienza all’ulteriorità, e quella del divino verso il soggetto umano, che si connota come rivelazione del divino, irruzione dell’eterno nel tempo. Nell’esperienza religiosa, «una potenza estranea, del tutto diversa, si inserisce nella vita. Di fronte ad essa l’atteggiamento dell’uomo è prima stupore, e alla fine fede» (G. van der Leeuw, Phänomenologie der Religion, Tübingen 1933, tr. it. di V. Vacca, Fenomenologia della religione, Torino 1960, p. 537). Ma, oltre a quelle richiamate, si danno anche altre forme di esperienza, come quella mistica, quella morale, quella sacrale, quella politica ecc. E, poiché sono molte le modalità in cui l’esperienza si presenta, poiché sono molti i fenomeni che attesta, diventa improponibile qualsiasi forma di restrizione nei suoi confronti. Alla filosofia, perciò, compete di prendere atto che essa si dà in molti sensi e disporsi ad accoglierla, seppure criticamente, cioè individuando e distinguendo le singole forme in cui si manifesta. Peraltro, solo a questa condizione essa non contravviene al suo statuto di modo di essere in virtù del quale l’uomo si appropria di se stesso e del suo originario e costitutivo essere al mondo. G. Giannini - M.M. Rossi - A. Pieretti BIBL.: Opere di carattere generale: E. CASTELLI, L’esperienza comune, Milano 1942; C. CARBONARA, L’esperienza e la prassi, Napoli 1964; L. LUGARINI, Filosofia ed esperienza umana, Firenze 1967; W. STEGMÜLLER, Metaphysik, Skepsis, Wissenschaft, Berlin New York 1969; L. FOSTER - J.W. SWANSON (a cura di), Experience and Theory, Amherst 1970; G. VILLA, La filosofia come scienza dell’esperienza, Bologna 1971; P. DEVAUX, Les modèles de l’expérience, Wetteren 1976; D.W. HAMLYN, Experience and the Growth of Understanding, London - Boston 1978; K.-D. OETZEL, Wertabstraktion und Erfahrung, Frankfurt am Main - New York 1978; B. SALMONA, La filosofia tra esperienza e discorso, Genova 1978; V.E. RUSSO (a cura di), La questione dell’esperienza, Firenze 1991; D. GINEV, Die Mehr-

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ESPERIENZA ESTETICA (aesthetic expeEsperienza estetica rience; ästhetische Erfahrung, ästhetisches Erlebnis; expérience esthétique; esperiencia estética). – La nozione di esperienza estetica ha goduto di particolare fortuna nei secoli XIX e XX, accompagnando in vario modo la moderna autonomizzazione dell’arte e dell’estetico, a partire dalla Kritik der Urteilskraft (Berlin 1790, tr. it. di A. Gargiulo riveduta da V. Verra, Critica del Giudizio, Roma-Bari 1992) di Kant. In tale autonomia, criticata da Hans-Georg Gadamer in Wahrheit und Methode (Tübingen 1960, tr. it. di G. Vattimo, Verità e metodo, Milano 2004 14), l’esperienza estetica si configura come separata da quella propria degli altri ambiti della realtà. George Dickie (Art and the Aesthetic, Ithaca 1974) ha fatto rilevare inoltre che, proprio nella pretesa di rivendicare all’esperienza estetica una presunta autonomia, la forma di vita estetica palesa tutta la propria genericità e indeterminatezza, accomunando in un unico indistinto esperienze riscontrabili negli universi artistici più disparati. Come ha tuttavia affermato Karl-Heinz Bohrer (Plötzlichkeit zum Augenblick des ästhetischen Scheins, Frankfurt am Main 1981) vale la pena riflettere anzitutto sulla trasformazione dei caratteri con cui la modernità ha concepito la propria relazione a ciò che è rilevante, facendone l’oggetto di un’esperienza puntuale e confinata nell’attimo.

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Secondo Wilhelm Dilthey, nell’intuizione estetica e prima ancora nella creazione si esprime il nesso fra la dimensione psicologica dell’individuo e il suo universo storico. Das Erlebnis und die Dichtung ([1905], a cura di G. Malsch, Göttingen 2005, tr. it. di N. Accolti Gil Vitale, Esperienza vissuta e poesia, Genova 1999) propone così un’analisi dell’immaginazione poetica capace di trasformare i fatti in avvenimenti significativi, ricostruendone le connessioni dinamiche capaci di sottrarre il passato all’oblio. In John Dewey (Art as Experience, New York 1980, tr. it. di A. Granese, Arte come esperienza e altri scritti, Firenze 1995) la dimensione artistica, lungi dal venire isolata, è riportata programmaticamente alla continuità dell’esperienza umana con gli altri ambiti della cultura e soprattutto con la natura. Anzi, l’esperienza estetica ha proprio il compito di ricostruire tale continuità, essendo essa stata spezzata dalla moderna organizzazione della società, basata sulla divisione del lavoro. Se in ambito fenomenologico e analitico l’analisi dell’esperienza estetica si è coniugata in primo luogo al tentativo di definire l’oggetto estetico, i suoi possibili a priori e l’intenzionalità peculiare dell’esperienza estetica (per es. in Roman Ingarden, Erlebnis, Kunstwerk und Wert. Vortrage zur Ästhetik, Tübingen 1969; o in Mikel Dufrenne, Phénoménologie de l’expérience esthétique, Paris 19923, 2 voll., tr. it. del vol. I di L. Magrini, Fenomenologia dell’esperienza estetica, Roma 1969), nel saggio Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (Frankfurt am Main 1955, tr. it. di E. Filippini, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino 1966) Walter Benjamin nel 1936 ha connesso l’esperienza estetica allo shock, mentre nello stesso anno Martin Heidegger riferiva in Der Ursprung des Kunstwerkes (Stuttgart 1960, tr. it. a cura di P. Chiodi, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, Firenze 19973, pp. 3-69) a un «urto» l’esperienza di «apertura di un mondo» causata dalla grande arte. Lontanissimi nelle loro prospettive, i lavori di Heidegger e di Benjamin rivendicano tuttavia entrambi all’arte una rilevanza e una verità; e lo fanno in una stagione – quella delle avanguardie artistiche – in cui l’esperienza estetica incomincia a riconoscere fra i propri tratti determinanti l’urto e lo spaesamento, a mettere in questione i modelli della tradizione (unità, irripetibilità dell’opera), e a riconosce-

Esperienza religiosa re l’arricchimento che può venire da nuove scoperte, in una società in cui la tecnica sta prendendo il sopravvento. In polemica con la gadameriana «fusione di orizzonti», sintesi conciliante in nome della tradizione, Hans-Robert Jauss ha riletto positivamente il carattere emancipativo della «demarcazione dell’orizzonte» peculiare dell’esperienza estetica (Kleine Apologie der ästhetischen Erfahrung, Konstanz 1972, tr. it. di C. Gentili, Apologia dell’esperienza estetica, Torino 1985). Proprio all’esperienza estetica spetta inoltre, secondo la tesi di Odo Marquard (Aesthetica und Anaesthetica, München 2003, tr. it. di G. Carchia, Estetica e anestetica, Bologna 1994), la compensazione dell’estraneità causata nel soggetto dall’accelerazione temporale del moderno, mentre Rüdiger Bubner ha soffermato infine la sua attenzione sull’«estetismo diffuso» che caratterizza l’esperienza della tarda modernità (Ästhetische Erfahrung, Frankfurt am Main 1989, tr. it. di M. Ferrando, Esperienza estetica, Torino 1992). G. Garelli BIBL.: W. OELMÜLLER (a cura di), Ästhetische Erfahrung, Paderborn 1981; G. VATTIMO, La società trasparente, Milano 1985; W. TATARKIEWICZ, Storia di sei Idee, Palermo 1993 (1976), cap. XI; D.E.W. FENNER, The Aesthetic Attitude, New Jersey 1996; D. GRÜNEWALD (a cura di), Ästhetische Erfahrung, Velber 1997; F. DESIDERI, Forme dell’estetica, Roma-Bari 2004. ➨ ARTE; BELLO; CATEGORIE ESTETICHE; ESTETICA; GIUDIZI ESTETICI; OGGETTO ESTETICO; SUBLIME; VIRTUALE, ESTETICA DEL.

ESPERIENZA RELIGIOSA (religious expeEsperienza religiosa rience; religiöse Erfahrung; expérience religieuse; experiencia religiosa). – SOMMARIO: I. Problematica. - II. Breve storia. I. PROBLEMATICA. – L’espressione esperienza religiosa deriva da quella più generale di esperienza e dalle teorie su ciò che, nell’esperienza, è definibile come religioso. Si deve anzitutto ricordare che, sebbene ci sia sempre stata nella storia della filosofia e della teologia un’attenzione all’esperienza e alla conoscenza esperienziale del divino, la locuzione esperienza religiosa in senso stretto appartiene all’epoca moderna. In questo periodo, infatti, il razionalismo imperante e il crescente monopolio del sapere da parte delle scienze positive convergono nel riconoscere scientifi3643

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Esperienza religiosa camente provati solo quegli eventi storici che, sottomessi al rigore proprio delle scienze, possono entrare in rapporto di analogia con ciò che ha già ricevuto la dignità di dato oggettivamente verificabile. Quest’ultima caratteristica è propria di tutto ciò che è riconducibile all’oggetto fisico, il quale per la sua eminente disponibilità si presta necessariamente alla quantificazione, alla sperimentazione e alla manipolazione, secondo una modalità tale che queste operazioni devono potersi dire alla maniera della certezza epistemicamente indubitabile. All’universo degli oggetti fisici (passati, presenti e futuri) la filosofia moderna unisce poi un universo di oggetti metafisici (Dio, l’anima, gli angeli, i demoni ecc.), che possono anch’essi appartenere di diritto alla sfera dei fatti storici quando la loro identità si manifesta nella loro rappresentabilità (Vorstellbarkeit), la quale permette di ricondurli entro la sfera della certezza epistemica. In questo stato di cose, un fatto salta immediatamente agli occhi: la squalificazione epistemica della vita concreta dell’uomo. Gusto, emozione, impressione, libertà – tutto quanto, dunque, appartiene all’esperienza umana – non possono partecipare a determinare l’appartenenza di un evento alla classe dei fatti storici, allorquando la conoscenza ha preso il volto del sapere oggettuale. La riduzione è quindi estremamente chiara, tanto più che anche la fede, dentro questo paradigma gnoseologico, assume la forma dell’indagine razionale sugli «eventi oggettivi» della rivelazione storica, dai quali è possibile – con certezza – dedurre la conoscenza di Dio e delle norme che egli ha stabilito per la beatitudine umana. Epistemicamente squalificata, l’esperienza evidentemente non sparisce, ma assumerà il suo volto tipicamente moderno: praticare un ritorno alla vita affettiva contrapponendosi al rigore della scienza. Ciò prenderà volti diversi: pensiamo al recupero romantico del rapporto con la «natura», al pietismo, al «sentimento» di Friedrich Schleiermacher, al trattato di Jonathan Edwards sugli Affetti religiosi (1746) ecc. In pratica, il cristianesimo moderno, per rimediare a questa situazione, cercherà in diverse maniere di produrre una nozione di esperienza – legata alla vita religiosa dei credenti – che permetta di rispondere alle esigenze dello spirito del tempo: la conoscenza esperienziale contrapposta a quella sperimentale. Ciò produrrà la comparsa dell’espressione esperienza reli3644

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giosa che, quando cercherà di trovare le proprie ragioni per argomentarle, le rintraccerà nell’affettività. Così nel pietismo, dove l’emozione religiosa di un Dio che muove la sensibilità del cuore del fedele rischia sempre di mettere in pericolo il contenuto proposizionale della fede cristiana, in maniera tale che il movimento pietista attraverserà trasversalmente tutte le confessioni cristiane. Parimenti Schleiermacher, che nei suoi Discorsi (1799) pretende di ricondurre il non credente al riconoscimento delle realtà religiose, sottomettendolo a una pedagogia dell’emozione. E più tardi, lo stesso Schleiermacher organizzerà la sua esposizione sistematica della dottrina cristiana (1821) mantenendo le teorie teologiche tradizionali solo per essere ricusate da una coscienza che ragiona in termini di Gefühl (sentimento) oppure conservate nei limiti che ad esse assegna il Gefühl. Pertanto, così come la ragione moderna è costitutiva dell’oggettività, allo stesso modo l’esperienza, nel regime moderno dell’affettività, esercita anch’essa delle procedure di costituzione. Ciò non deve meravigliare, poiché, una volta ammesso che l’affetto è potere di esperienza in maniera privilegiata, l’accento si porta su un’attitudine costituente: il Dio percepito dall’affetto è infatti un Dio «preso di mira» (visé) dall’uomo e misurato dalla percezione umana. Schleiermacher, nella sua dogmatica, è il migliore esempio di un pensatore il cui Dio è costruito nel minimo dettaglio per essere «sentito»: la costituzione dell’oggetto fisico trova il suo pendant nella riduzione che fa di Dio un oggetto del sentimento, così che la conoscenza esperienziale di Dio è paradossalmente un caso specificatamente moderno di conoscenza oggettuale. II. BREVE STORIA. – Precedentemente, l’attenzione che la filosofia e la teologia riservano all’esperienza credente non appare catalogata sotto la dizione di esperienza religiosa, ma non per questo risulta assente dalla storia del pensiero. Nell’epoca patristica l’esperienza si trova al centro della teologia di Ireneo di Lione, secondo il quale non solo l’esperienza dice all’uomo che cosa è e che cosa comporta essere vicini a Dio o lontani da lui, ma fa parte intrinsecamente del progetto salvifico di Dio. In altri termini, per Ireneo, la grande grazia dell’economia salvifica divina consiste nel consolidare l’uomo, attraverso l’esperienza della lontanan-

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za da Dio, nella nuova esperienza della vicinanza di Dio. Così per Ireneo, l’identità dell’uomo nuovo redento da Cristo non consiste nella risalita gnostica all’origine atemporale dell’umanità, bensì nella lenta e faticosa esperienza dell’uomo che deve, nel tempo, appropriarsi di ciò che Dio è in verità (per l’uomo). Dopo Ireneo si aprono fondamentalmente due strade di riflessione sull’esperienza della fede: quella che fa capo alla teologia alessandrina e quella tipica del monachesimo nascente. Per quanto riguarda la prima, il riferimento è sicuramente a Origene di Alessandria, il quale nel Peri Archon dà un fondamento neoplatonico all’esperienza dell’esistenza lontana da Dio, facendola derivare da un «tedio» originario del mondo: tedio da cui era affetta l’anima che – dopo aver vissuto in Dio nell’unità con il logos divino – si degradò ad «anima individuale». Così, il dono della grazia divina è il risveglio dell’origine perduta, qualcosa come un’esperienza di ciò che era all’inizio e sarà nuovamente alla fine. Su questi presupposti, Origene ritiene che nell’uomo esista una duplice sensibilità: la prima è mortale, corruttibile e umana, la seconda immortale, spirituale e divina. I cinque sensi che l’uomo possiede sarebbero, dunque, soltanto la «dispersione», precipitata nella materia, di una facoltà percettiva originaria di Dio e delle cose divine. Tra le due sensibilità, tuttavia, per Origene, non sussiste un radicale estrinsecismo: il mondo e la materia non sono cattivi (solo la libera volontà può esserlo), per questo lo stato materiale rimane una buona somiglianza e un rimando a Dio. È solo nella figura di Cristo, nella cui carne non c’è nulla di imperfetto, che la sensibilità inferiore diventa indicazione di quella celeste. In questo modo, Origene cerca di superare ogni forma di dualismo, mostrando come sono gli stessi sensi a essere prima terreni e dopo, mediante l’infusione della grazia, celesti: si tratta di «cambio e mutazione dello stato» (katavstasi"), che si ottiene mediante la «sequela» di Cristo. Diversamente vanno le cose nella seconda linea: quest’ultima, pur prendendo spunto dalle riflessioni dell’Alessandrino, si dirige verso una lettura dell’esperienza di fede, nella quale il passaggio all’«uomo nuovo» viene visto come annullamento e azzeramento delle forme naturali dell’esperienza umana. Così per esempio in Evagrio Pontico (m. nel 399), il cui interesse si dirige verso la progressiva appros-

Esperienza religiosa simazione a Dio e la realizzazione della visione immediata (ajmevsw") di Dio nella preghiera e nella contemplazione. Per Evagrio la preghiera è l’atto teologico in quanto tale, ma questo consiste, per lo spirito lontano da Dio, nello svestirsi della propria natura sensibile per ritornare alla pura trasparenza piena e luminosa di Dio, superando tutte le forme sensibili che giacciono nella memoria o vengono fatte balenare dal demone. Su questa linea si muoveranno anche lo Pseudo-Macario (sec. V) e Diadoco di Fotice (m. nel 486). Nel mondo latino, Agostino di Ippona sembra evitare consapevolmente la parola experientia, benché la sua teologia ne resti profondamente segnata. In primo luogo perché nelle Confessioni egli racconta il passaggio dall’esperienza religiosa pagana a quella cristiana, secondariamente poiché egli cerca di superare il neoplatonismo di Plotino mostrando come la contemplazione della verità includa una purificazione dell’occhio dell’anima (oculus mentis) che porta con sé l’altrettanto necessaria redenzione di tutta l’esperienza umana. Con papa Gregorio Magno (m. nel 604) vengono poste le basi di quella che sarà la dottrina tipicamente medievale del «sentire spirituale». Per Gregorio, infatti, l’esperienza contemplativa di Dio del nuovo eone inaugurato dalla redenzione di Cristo traspare attraverso la fede nel vecchio: gusto della dolcezza divina attraverso la sapienza umana. Tutto ciò in una teologia dinamica della nostalgia, dove decisiva appare l’esperienza della lontananza dalla patria celeste. Analogamente anche per la linea monastica, inaugurata da Bernardo di Chiaravalle, questa sapienza concepita come verità gustata attraverso l’esperienza diventa il punto centrale di tutta la teologia spirituale. In particolare in Guglielmo di S. Thierry (m. nel 1148 ca.), che ha posto il «sentire» e il «gustare» al centro della sua dottrina spirituale: Dio ci dona il «gusto» della sapientia divina, che l’uomo tocca, per così dire, con la mano dell’esperienza, la quale gli offre la certezza (per sensum certissimae experientiae) dell’intima relazione d’amore con Dio stesso. Questa accentuazione del tema dell’esperienza di fede, una volta tolta dal contesto della vita monastica e contemplativa per essere trasferita nell’atmosfera fredda e razionale della scuola e delle sue distinzioni, non resisterà a lungo. Così, per esempio, in Abelardo e nei suoi discepoli, che tenderanno a distinguere la 3645

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Esperienza religiosa conscientia notitiae dalla conscientia experientiae, affermando che quest’ultima non comunica alcuna conoscenza vera, ma solo probabile. Contro questa separazione si muove la scuola francescana che cerca di operare una mediazione tra la teologia monastica e quella della scuola, rifiutando di assegnare la caratteristica della certezza solo alla conoscenza speculativa, e, di conseguenza, affermando una certezza affettiva che non necessariamente porta all’inganno. Allo stesso modo, anche per Tommaso d’Aquino esiste una conoscenza affettiva o sperimentale della bontà divina, quando si sperimenta (experitur) in se stessi il gusto della dolcezza di Dio e la compiacenza della divina volontà (Sum. theol., I, q. 43; Sum. theol., IIa-IIae, q. 97). Tuttavia, fondamento di questa esperienza non è lo slancio mistico del singolo, ma una parentela ontologica dei figli di Dio con Dio stesso, in modo tale che l’esperienza cristiana conferma l’adagio secondo cui gratia supponit ac elevat naturam, nella salvaguardia dell’assoluta novità della rivelazione divina. Il tardo Medioevo porterà con sé, pertanto, una tensione tra il momento esperienziale della conoscenza di Dio e quello più speculativo, che, purtroppo, si risolverà – nel corso del Rinascimento e dell’epoca moderna – in favore del secondo. In questo modo verranno poste le basi di quel processo che porterà a far scivolare la discussione sull’esperienza di fede sul piano psicologico: il momento soggettivo della fede (fides qua creditur) non dice più nulla del «contenuto» della fede stessa (fides quae creditur), esso rimane solo come descrizione puramente soggettiva (e quindi non vincolante) dell’esperienza interiore del singolo credente. Prova ne è il fenomeno della mistica che prenderà corpo sulla base dell’idea di rappresentare un’esperienza di fede estremamente particolare, totalmente sganciata da quella «normale» del cristiano che tenta di vivere seriamente la propria fede. Così accade, p. es., nell’ambiente renano del sec. XIV, dove – sulla scia della mistica dell’abbandono di Meister Eckhart, di Enrico Susone (m. nel 1366) e di Jan van Ruysbroeck (m. nel 1381) – prenderà corpo una spiritualità che, percependo sterili e astratte le sottili argomentazioni dei teologi scolastici, privilegerà il versante individuale del rapporto con Dio, fino a percepirlo persino come un’esperienza a latere della vita della chiesa. Così, non desta meraviglia che la predicazione di Johannes Tauler (m. nel 1361) ab3646

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bia alimentato il movimento degli «amici di Dio», riconosciuto come ambito ispiratore del pensiero di Martin Lutero. Analogamente, anche nel fenomeno della devotio moderna e nella mistica francese del «grand siècle», si assisterà al medesimo sviluppo, che porterà – p. es. attraverso la mistica di Charles de Condren (m. nel 1641), di Jeanne-Marie Bouvier (conosciuta come Madame Guyon [m. nel 1717]), di François-Marie de Salignac (conosciuto come Fénelon [m. nel 1715]) e del gesuita Jean-Pierre de Caussade (m. nel 1751) – a concepire l’esperienza individuale come un «sentimento religioso puro» (sentiment religieux pure) sempre più separato dai contenuti consueti della dogmatica ecclesiale. Dall’illuminismo in poi, a questo spostamento dell’accento sulla relazione personale-spirituale uomo-Dio, si unì la tendenza a considerare la religiosità dell’uomo come un puro sentimento religioso che prescinde da ogni manifestazione obiettiva e positiva (dogmi, atti di culto ecc.). Il che, sommato al razionalismo e allo scientismo abbondantemente presenti nella cultura occidentale, costituì il terreno sul quale si edificò quell’attenzione alla conoscenza esperienziale del divino che ha costituito il presupposto della nascita della riflessione sull’esperienza religiosa, così come è stato messo in evidenza nella prima parte della presente voce. Nel sec. XX la riflessione filosofica sull’esperienza religiosa trova un punto di riferimento nel filosofo e psicologo americano William James, le cui Gifford Lectures furono pubblicate nel 1902 con il titolo di The Varieties of Religious Experience (London, tr. it. di P. Paoletti, Le varie forme dell’esperienza religiosa, Brescia 1998). La chiave per individuare la particolarità dell’esperienza religiosa, secondo James, si trova nel fatto che la religione appare fondamentalmente come «un essere in rapporto con il divino» che può assumere molte forme: cognitiva, rituale, ispirata, trasformativa e prolungata. La specificazione del riferimento al divino esprime il concetto della trascendenza, che è generico per tutte le teorie ampiamente utilizzate per descrivere l’esperienza religiosa. Di conseguenza per James solo una certa forma indefinita di trascendenza è l’unico elemento normativo nelle diverse concezioni dell’esperienza religiosa. Il luogo e il carattere di ciò che è ritenuto trascendente, comunque, variano con la tradizione religiosa e filosofica e con la for-

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ma e lo scopo dello studio particolare dell’esperienza religiosa. Sempre all’inizio del secolo appena trascorso, occorre ricordare le riflessioni di Rudolf Otto, secondo il quale non è sufficiente descrivere l’esperienza religiosa attraverso la descrizione degli elementi comuni a ogni religione. Per Otto, l’esperienza religiosa si caratterizza come quella particolare reazione suscitata nella coscienza umana dall’apparizione della potenza del sacro, inteso come il totalmente-altro. L’uomo può, quindi, riferirsi a Dio chiamandolo «mio Dio», non perché lo possiede, ma perché Dio – nella sua ierofania – dona l’uomo a se stesso, così che quest’ultimo gioisce di questa totale dipendenza dal divino. Di conseguenza, nella complessità dell’atto religioso, sia privato sia rituale, l’uomo esprime la sua radicale contingenza e la sua ammirazione reverenziale per l’assolutezza e la maestosità di Dio. Il termine «teofania» è stato poi ampiamente utilizzato da Mircea Eliade, che ha cercato di articolare la riflessione sul sacro, mostrando come quest’ultimo sia una dimensione ontologicamente primaria dell’esperienza religiosa, attraverso la quale l’uomo distingue ciò che è vero e significante da ciò che è caotico e privo di senso. In ambiente francese, il problema della natura dell’esperienza religiosa viene affrontato da Henri Bergson a partire dalla distinzione tra «religioni statiche e dinamiche»: le prime sono quelle che reagiscono per correggere la tendenza dissolvente dell’intelligenza che, con il suo metodo analitico e scompositivo, rischia di rivolgersi contro la vita stessa; le seconde sono quelle (in particolare tutte le forme mistiche) che permettono un’esperienza non solo difensiva, ma di una reale risalita che giunge alla fonte stessa dello slancio vitale che contraddistingue il vivente. Per questa strada – superiore per Bergson alla filosofia stessa – la distinzione tra immanenza e trascendenza si trova in qualche modo neutralizzata, in modo tale che tutte le distinzioni filosofiche su «esperienza religiosa dell’immanenza, della trascendenza, en-stasi, ek-stasi» si pongono da un punto di vista esteriore all’esperienza religiosa stessa. In Italia appaiono degne di nota le riflessioni di Luigi Pareyson, il quale ha indicato nell’esperienza religiosa l’unico punto di partenza per una riflessione filosofica su Dio. Al di là di ogni forma di razionalismo, per Pareyson la fi-

Esperienza religiosa losofia deve rinunciare a parlare genericamente di Dio come di un principio filosofico: la filosofia entra in contatto con Dio solo nella misura in cui riflette sull’esperienza religiosa; per questo il discorso filosofico su Dio deve essere sempre indiretto. Naturalmente la riflessione filosofica sull’esperienza religiosa deve essere condotta con ogni precauzione: da una parte sapendo che occorre respingere ogni posizione pregiudiziale e acritica, dall’altra avendo coscienza che l’esperienza religiosa non è assimilabile all’esperienza umana generale e che, di conseguenza, essa deve essere avvicinata con una volontà di comprensione e con un’attitudine di ascolto. Infine sono da ricordare le riflessioni del filosofo canadese Wilfred Cantwell Smith, il quale affermava che il concetto di religione è un’astrazione fuorviante, che parte piuttosto dal punto reale di intersezione fra una consapevolezza personale e un referente trascendente (fittizio oppure reale), la cui natura è variamente descritta dalle diverse tradizioni religiose. Qualsiasi esempio di esperienza religiosa rifletterà sempre, dunque, i modelli mutevoli dell’esistenza personale e delle tradizioni attraverso le quali gli uomini si rapportano al trascendente. N. Reali BIBL.: R. OTTO, Das Heilige: uber das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, Berlin 1853, tr. it di E. Buonaiuti, Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, Milano 19945; E. PRZYWARA, Religionsphilosophie katholischer Theologie, München 1926; H. BERGSON, Les deux sources de la morale et de la religion, Paris 1932, tr. it. a cura di A. Pessina, Le due fonti della morale e della religione, Roma-Bari 1998; J. MOUROUX, L’expérience chrétienne, Paris 1952; M. ELIADE, Das Heilige und das Profane: vom Wesen des Religiosen, Hamburg 1957, tr. it. di E. Fadini, Il sacro e il profano, Torino 19732; F. SCHLEIERMACHER, Der christliche Glaube nach den Grundsätzen der evangelischen Kirche im Zusammenhange dargestelt, Berlin 1960, tr. it. a cura di S. Sorrentino, La dottrina della fede esposta sistematicamente secondo i principi fondamentali della Chiesa evangelica, Brescia 1981; W. CANTWELL SMITH, The Meaning and End of Religion, New York 1963; K. RAHNER, Hörer des Wortes, Freiburg 1971, tr. it. di A. Belardinelli, Uditori della parola, Torino 1988; B. WELTE, Das Licht des Nichts.Von der Möglichkeit neuer religiöser Erfahrung, Düsseldorf 1980, tr. it. di G. Penzo e U. Penzo Kirsch, La luce del nulla: sulla possibilità di una nuova esperienza religiosa, Brescia 1983; J. EDWARDS, Religious Affections, New Haven 19872; J.-

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Esperienze vissute elementari Y. LACOSTE, Expérience et absolu. Questions disputées sur l’humanité de l’homme, Paris 1994; L. PAREYSON, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino 1995; F. SCHLEIERMACHER, Discorsi sulla religione e Monologhi, in Scritti Filosofici, ed. it. a cura di G. Moretto, Torino 1998, pp. 83-255. ➨ DIO; ESPERIENZA; FEDE; ILLUMINISMO; MISTICA; MISTICA DELL’ABBANDONO; PIETISMO; RELIGIOSITÀ; TRASCENDENZA.

ESPERIENZE VISSUTE ELEMENTARI Esperienze vissute elementari (Elementarerlebnisse). – Le esperienze vissute elementari, in Der logische Aufbau der Welt di R. Carnap (Berlin 1928, tr. it. di E. Severino, La costruzione logica del mondo, Torino 1997), sono l’esperienza globale di un momento puntuale non ancora analizzato nei campi di senso che fanno parte della corrente dei dati vissuti proveniente dall’esperienza. Essi non sono elementi discontinui e discreti dell’esperienza ma sono momenti indecomponibili che, astratti dal flusso della corrente, possono essere descritti tramite enunciati in modo articolato senza fare riferimento a tutta la catena delle esperienze. Queste ultime soltanto sono la base di tutti gli oggetti della conoscenza prescientifica e scientifica. M. Sgarbi ➨ ERLEBNIS; ESPERIENZA.

ESPERIMENTI CRUCIALI: V. EPISTEMOLOGIA Esperimenti cruciali POPPERIANA.

ESPERIMENTI MENTALI (tought experiEsperimenti mentali ments; Gedankenexperimente; expériences mentales; experimentos mentales) . – L’espressione «esperimenti mentali» (Gedankenexperimente) venne usata per la prima volta dal danese H.Ch. Orsted (1777-1851) in riferimento alla teoria kantiana della conoscenza matematica: il matematico fa esperimenti mentali in quanto scopre e verifica verità a priori, nel puro spazio della mente, e senza ricorso all’empirico. Il primo a fornire una vera e propria teoria degli esperimenti mentali fu però E. Mach. Nel capitolo 11 di Erkenntnis und Irrtum (Leipzig 1905) Mach spiega che, «oltre all’esperimento fisico», esiste anche un tipo di esperimento che ha «un uso assai esteso», anche se non sempre se ne è riconosciuta l’importanza: si tratta delle esperienze tipiche anzitutto dei sognatori, dei romanzieri, degli utopisti. Sperimentano però mentalmente anche gli scienziati, gli inventori e i commercianti: «Tutti coloro che si 3648

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figurano delle circostanze, e a tale rappresentazione connettono l’aspettativa, la previsione di certe conseguenze, fanno un esperimento mentale». La sperimentazione sul piano mentale per Mach costituisce la base dell’innovazione scientifica: su di essa si fondano tutte le scienze, tanto quelle fisiche quanto quelle matematiche. Il suo metodo fondamentale è il metodo della «variazione», ossia si modificano con l’immaginazione le circostanze normali, che conosciamo in base all’esperienza, e in tal modo si amplia il campo delle rappresentazioni (aspettative) che possiamo formarci rispetto ad esse. Gli esperimenti di pensiero (thought experiments) o esperimenti mentali compaiono in qualsiasi scienza e filosofia, di qualsiasi epoca e orientamento (Mach stesso ricordava che costituivano la base delle ricerche di Aristotele). L’esperimento mentale più noto in filosofia è l’ipotesi del demone ingannatore di Descartes. Meno conosciuto ma caratteristicamente sperimentale è il caso presentato nel Traité des sensations (London-Paris 1754) di Condillac, in cui, per studiare il funzionamento dei sensi, l’autore immagina una statua che progressivamente si anima, acquisendo a mano a mano il gusto, l’odorato, l’udito, il tatto, la vista. Anche alcune classiche teorie filosofiche sono leggibili in termini di ipotesi mentali quasifantastiche: per esempio il mito platonico della caverna. Ma soprattutto in anni recenti, e specialmente nella filosofia analitica, l’uso degli esperimenti mentali è diventato un requisito indispensabile della pratica filosofica, costituendo la base di uno stile argomentativo ed euristico molto usato in metafisica, in etica, in filosofia della mente. Un esperimento mentale molto noto è quello escogitato da J.J. Thompson per spiegare il dilemma morale rappresentato dall’aborto. Si supponga il caso di una donna, che viene rapita e drogata, quindi si sveglia in un letto d’ospedale, con gli organi collegati agli organi di un famoso violinista, gravemente malato; le viene detto che, se stacca il collegamento, il violinista certamente morirà: come dovrà comportarsi la donna in questione? Altri casi celebri sono: il «velo di ignoranza» di J. Rawls, la «Terra gemella» e i «cervelli in una vasca» di H. Putnam, l’ipotesi di un mondo costituito esclusivamente di «zombie», ossia individui privi di coscienza fenomenica, usato da D. Chalmers (The Con-

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scious Mind, New York - Oxford 1996) per dimostrare l’impossibilità del materialismo in filosofia della mente. Molti degli esperimenti proposti negli ultimi anni sono ispirati alle opportunità (fantastiche o effettive) offerte dalla ricerca scientifica e tecnologica. E una buona parte di essi (è il caso dei cervelli in una vasca, o del suo antenato, il demone di Descartes) costituiscono le cosiddette «ipotesi scettiche», ossia ipotesi circa l’esistenza di una realtà radicalmente diversa da come la vediamo, ipotesi che non saremmo in grado di smentire. Se gli esperimenti mentali sono stati sempre usati, la teoria che li riguarda, dopo l’esordio di Mach, è rimasta priva di sviluppi fino ad anni recenti. Th. Kuhn ha sottolineato come simili esperimenti servano per evidenziare contraddizioni locali nei paradigmi (The Essential Tension, Chicago 1977). Egli ha sostenuto inoltre che la stessa pratica degli esperimenti mentali smentisce la dicotomia analitico/sintetico. La possibilità degli esperimenti mentali è legata in effetti alla possibilità della conoscenza pura, ossia la possibilità di fare esperienza, e trovare nuove informazioni, muovendosi unicamente all’interno del dominio del pensiero. Le posizioni di Kuhn sono state ampiamente rielaborate e discusse, e gli esperimenti mentali hanno avuto difensori e critici. R.A. Sorensen in Thought Experiments (New York - Oxford 1992) ha fornito un’ampia e dettagliata ricognizione sul tema, discutendo le posizioni di Kuhn e suggerendo che la pratica degli esperimenti mentali appartiene a un caratteristico tipo di conoscenza sintetica a priori: essi infatti sono basati su un a priori relativo, in quanto non si fondano su nuove esperienze, ma su esperienze passate, che costituiscono (come riteneva Mach) il bagaglio di conoscenze implicite di un essere umano. Sorensen spiega queste tesi riferendosi alla teoria «omuncolare» della soggettività. In base a questa teoria, i soggetti sono formati da sottosistemi («omuncoli» appunto), che agiscono all’interno di un sistema più ampio, così come il personale opera in una ditta. Il tipo di indagine di cui ci serviamo negli esperimenti mentali consiste in una sorta di comunicazione intrapersonale tra questi sistemi: mettiamo cioè in collegamento informazioni acquisite in tempi diversi e appartenenti a regimi (sottosistemi) diversi. Otteniamo così l’effetto sorprendente

Esperimento di una crescita d’informazione senza che alcun nuovo dato sia acquisito. F. D’Agostini BIBL.: R.A. SORENSEN, Thought Experiments, New York - Oxford 1992; M. BUZZONI, Esperimento ed esperimento mentale, Milano 2004; M. COHEN, Wittgenstein’s Bettle and Other Thought Experiments, Oxford 2005. ➨ ANALITICO / SINTETICO; FILOSOFIA ANALITICA.

ESPERIMENTO (lat. experimentum da experiEsperimento ri - experiment; Experiment; expérience; experimento). – SOMMARIO: A) Aspetto epistemologico. - B) Il lavoro sperimentale in psicologia. A) ASPETTO EPISTEMOLOGICO. – Il termine «esperimento» è solitamente associato al termine «osservazione» per designare, con questa coppia, un genere speciale di esperienza, cioè l’esperienza controllata, metodica, diretta a ottenere informazioni mirate alla luce di un’aspettativa teorica. La differenza tra «esperimento» e «osservazione» non è facilmente definibile. La distinzione può essere indicata nella circostanza che gli esperimenti si fanno con l’impiego di strumenti, mentre le osservazioni no. Ma che dire di scienze che non si possono definire sperimentali, come l’astronomia o la geologia, che pure usano strumenti raffinati (mentre nel passato ne hanno fatto completamente a meno)? Neppure sembra soddisfacente contrapporre l’osservazione che non arreca nessun mutamento nell’oggetto di studio, agli esperimenti che lo cambiano, anzi spesso il loro scopo è proprio questo cambiamento. Ormai l’idea di un «osservatore ideale» che non interagisce con l’oggetto è stata messa in crisi dal principio di indeterminazione di Heisenberg: ogni osservazione è inesorabilmente un processo fisico di interazione tra osservatore e osservato che rende inevitabile un disturbo del primo sul secondo. Sembra che la differenza più importante si possa individuare dicendo che gli esperimenti si compiono in condizioni controllate, mentre ciò non accade per le osservazioni: l’astronomia e la geologia non sono ritenute scienze sperimentali proprio perché non si ha nessun mezzo per controllare le condizioni astronomiche o geologiche. D’altra parte, il controllo completo di una situazione sperimentale sarebbe possibile solo se si conoscessero tutti i fattori da cui può dipendere il fenomeno sotto esame, vale a dire se si fosse già in possesso della teoria completa di esso, e inoltre occorrerebbe realizzare l’assoluto isolamento del sistema che si sta 3649

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Esperimento studiando da fattori di disturbo (noti e ignoti). È evidente che il controllo completo delle condizioni in cui si svolge un esperimento è un ideale irrealizzabile. La distinzione tra osservazione ed esperimento deve per forza rimanere vaga e conviene forse adottare il termine misto «osservazione sperimentale» per indicare una procedura empirica che impiega strumenti (ma non necessariamente), che altera l’oggetto di studio (anche se non vorrebbe) e che avviene in condizioni il più possibile controllate (anche se un controllo completo è irrealizzabile). La scienza sperimentale è sorta nel XVII secolo, con i grandi contributi di Galileo e Newton e con la riflessione filosofica sul metodo induttivo di Francesco Bacone. Bacone fu il primo nel Novum Organun (Londini 1620) a proporre una articolazione dettagliata di un metodo di accesso alla verità basato su ragionamenti non deduttivi e su una interrogazione metodica dell’esperienza. Le sue tavole furono intese dai suoi successori come una procedura sperimentale capace di edificare il sapere scientifico, inteso come sapere garantito proprio in quanto basato sulla corretta sperimentazione. Gli sviluppi trionfali della scienza nel XVIII e nel XIX secolo, vissuti sotto il segno metodologico dell’accoppiata BaconeNewton, conferirono alla nozione di esperimento una solidità, un’affidabilità sempre crescente e le rinnovate riflessioni filosofiche sul metodo sperimentale, che articolarono, raffinarono, precisarono l’analisi baconiana, non fecero che accrescere la fiducia da accordare ai risultati ottenuti con la corretta sperimentazione. Anche le più sottili opere metodologiche ottocentesche, come il System of Logic Ratiocinative and Inductive (London 1843, tr. it. a cura di M. Trinchero, Sistema di logica deduttiva e induttiva, Torino 1988) di John Stuart Mill o la Introduction à l’étude de la médicine expérmentale (Paris 1865, tr. it. a cura di F. Ghiretti, Introduzione allo studio della medicina sperimentale, Milano 1973) di Claude Bernard o i molteplici studi di Ernst Mach, contribuirono all’affermazione di un generale clima positivista in cui l’esperimento veniva acriticamente inteso come via per giungere infallibilmente (a patto di rispettare talune regole) a cogliere verità certe, garantite, verità fattuali da contrapporsi alle affermazioni ipotetiche, frutto di un impiego troppo spinto della riflessione teorica. La nozione di «fatto» contrapposto a quella di «ipo3650

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tesi» fu il nucleo della filosofia della scienza dominante nella seconda metà del XIX secolo. I grandi problemi teorici che sorsero negli ultimi anni dell’Ottocento, legati non solo a scoperte sperimentali sorprendenti, quali i raggi x o la radioattività, ma anche allo sviluppo di teorie scientifiche che per molti aspetti manifestavano caratteristiche metodologiche nuove rispetto al passato, come la teoria elettromagnetica di Maxwell o la termodinamica generalizzata di Gibbs e di Duhem, stimolarono un grande dibattito sul metodo scientifico che fece tabula rasa dell’epistemologia positivista. Nell’opera di H. Poincaré, G. Milhaud, E. Le Roy e di Pierre Duhem venne in primo luogo contestata la separazione operata dalla filosofia dell’età del positivismo tra «fatti» e «teorie», mostrando che non esistono fatti sperimentali scissi dalle teorie, e che le teorie influenzano in maniera decisiva i risultati di qualsiasi esperimento. Soprattutto importante fu la critica di Duhem, espressa nella Théorie physique, son objet, sa structure (Paris 1906, tr. it. di D. Ripa di Meana, La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura, Bologna 1978). L’analisi compiuta in questo testo dimostra in primo luogo che qualsiasi proposizione che voglia esprimere un «fatto», sia cioè un’affermazione empirica, è sempre parte di una teoria che conferisce significato ai simboli che in essa sono presenti; in particolare, quei simboli che hanno un significato empirico (p. es., T per temperatura, P per pressione ecc.) lo hanno solo in conseguenza di postulati interpretativi che fanno parte integrante della teoria (quelli che i neopositivisti chiameranno «regole di corrispondenza»). Dunque ogni proposizione empirica è esprimibile solamente per mezzo di teorie, è intrisa di teorie, non è possibile distinguere proposizioni fattuali (certe) da proposizioni teoriche (ipotetiche). In secondo luogo Duhem sottolinea l’importanza epistemologica della strumentazione scientifica: i risultati di un qualsiasi esperimento compiuto usando uno o più strumenti dipendono strettamente dalle teorie che sono implicate nel funzionamento degli strumenti impiegati. Allorquando si vuole sottoporre a un controllo sperimentale una qualsiasi ipotesi, il responso dell’esperienza riguarderà non solo l’ipotesi da controllare, ma tutto un complesso di teorie. Se ogni esperienza ha un senso solo grazie a una o più teorie, è chiaro che ogni controllo sperimentale implicherà un at-

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to di fede nei confronti di tutto un insieme di teorie. Ogni volta che si compie una misura, ogni qualvolta si mette alla prova una qualunque ipotesi, si mette in realtà in discussione una teoria o anche un gruppo di teorie. Il confronto tra enunciati scientifici ed esperienza è sempre il confronto tra una o più teorie e l’esperienza. Di qui deriva la conclusione più celebre della riflessione di Duhem: la critica all’esperimento cruciale falsificante. Quando l’esperimento non riesce, quando le previsioni teoriche risultano smentite dai fatti, è l’intero sistema di teorie che sono implicate dai calcoli e dagli strumenti usati a essere falsificato, mai la singola ipotesi. È impossibile falsificare un’ipotesi isolata. Le cosiddette esperienze cruciali sono tali solo in apparenza; in realtà, a rigore, mai portano all’obbligo di eliminare una particolare ipotesi, ma si limitano a mostrare l’imperfezione di tutto un sistema teorico di cui quell’ipotesi fa parte. Noi siamo quindi, dal punto di vista logico, liberi di attribuire le ragioni dell’insuccesso a questo o a quell’aspetto del sistema teorico implicato nell’esperienza e negare che il responso dell’esperimento suoni a definitiva condanna di un’ipotesi particolare. Non sono possibili esperimenti cruciali falsificanti. Tantomeno sono possibili gli esperimenti cruciali verificanti di Bacone, che si fondavano sull’idea che, di fronte a due ipotesi concorrenti, fosse possibile dimostrare la verità dell’una falsificando l’altra. A parte la fallacia logica dell’argomento (nulla vieta che entrambe le ipotesi possano essere false), cadendo la possibilità di falsificare la singola ipotesi, cade tutta la procedura baconiana. Sulla difficoltà che si incontrano allorquando si interpretano certi esperimenti come cruciali ha particolarmente insistito I. Lakatos teorizzando la «fine della razionalità istantanea» nel corso dello sviluppo della scienza. La critica duhemiana era un argomento fortissimo non solo contro il positivismo ottocentesco, che interpretava la sperimentazione come una pratica atta a conferire verità alle proposizioni scientifiche, ma anche contro il falsificazionismo di Karl Popper. Nella Logik der Forschung, (Wien 1934, ed. ingl. ampliata, The Logic of Scientific Discovery, London 1959; tr. it. a cura di M. Trinchero, La logica della scoperta scientifica, Torino 1970), Popper presenta una filosofia della scienza incentrata sull’idea che la scienza sia un insieme di enunciati falsifica-

Esperimento bili empiricamente, anziché verificabili. In questo testo egli non prende in considerazione l’argomento di Duhem, che negava il suo presupposto di partenza, cioè che il singolo enunciato sia falsificabile, limitandosi a dichiarare (in nota) che la critica duhemiana era rivolta solamente contro gli esperimenti cruciali verificanti, cosa del tutto inesatta. Negli anni sessanta, dopo che la tesi di Duhem era stata ripresa da Quine (tesi di Duhem-Quine), l’argomento non poteva più essere aggirato e Popper in vari saggi lo affrontò elaborando la nozione di «conoscenza di sfondo». Quando discutiamo di un problema, per esempio il risultato inaspettato di un’esperienza, sostiene Popper, accettiamo sempre (anche solo provvisoriamente) elementi di ogni genere in maniera non problematica, come elementi garantiti: essi costituiscono, provvisoriamente e relativamente alla discussione di quel particolare problema, una conoscenza di sfondo non problematica. Nessun elemento di questa conoscenza è a rigor di logica immune dalla falsificazione, tuttavia la maggior parte della vasta conoscenza di sfondo che usiamo resta fuori discussione per ragioni pratiche: senza ammettere nulla di garantito (provvisoriamente), rimettendo in forse tutto, la discussione razionale, la critica, non sarebbero possibili, occorrerebbe sempre ripartire da dove ha cominciato Adamo. Ammettendo la conoscenza di sfondo, la tesi di Duhem perde molta della sua forza e diventa possibile mettere alla prova alcune particolari ipotesi senza dover necessariamente mettere in discussione l’intera scienza. La nozione di «conoscenza di sfondo» popperiana si raccordava con la nozione di «paradigma» di Kuhn nel mettere in rilievo l’influenza delle teorie sulle pratiche sperimentali. L’idea che la comunità degli scienziati opera in laboratorio sotto l’influsso determinante di una «conoscenza di sfondo» o, in termini kuhniani, di un paradigma dominante, ha contribuito all’emergere nel dibattito filosofico di una concezione dell’esperimento nella quale le teorie hanno un ruolo decisivo. Oltre ad ammettere, seguendo l’indicazione di Duhem, che tutto il linguaggio scientifico è intriso di teorie, si ammette che anche tutta la prassi dello scienziato è teorico-dipendente. Innanzi tutto il progetto di un esperimento nasce alla luce di un problema da risolvere, problema che ha senso, è formulabile entro un contesto teori3651

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Esperimento co. La situazione conoscitiva (le teorie accolte come vere in un dato momento storico) determina quali domande si possono porre, e possono ricevere una risposta per mezzo di esperimenti, mentre certe domande, che si sarebbero dovute porre per risolvere il problema, devono rimanere inespresse fino a quando non si avrà la conoscenza indispensabile per formularle. È la conoscenza di cui si è già in possesso che stabilisce se un problema è o non è risolubile. Inoltre, spesso il problema è formulato in modo tale che non può essere risolto in base a un sol genere di esperimenti; la sua soluzione può richiedere parecchi tipi di dati sperimentali che riguardano questioni derivate. Il fatto che si trattino tutti questi dati, che a prima vista riguardano questioni differenti, come se si riferissero al medesimo problema dipende dalla nostra conoscenza di sfondo. Spesso, per escogitare un esperimento adatto alla soluzione di un problema, occorre una lunga catena di ragionamenti che consente di tradurre il problema in questioni risolubili empiricamente, e questa traduzione avviene, ancora una volta, sulla base della conoscenza di sfondo. Grandi attenzioni nel Novecento hanno ricevuto le questioni relative all’operazione di misurazione, che costituisce il fondamento di ogni esperimento che voglia ottenere responsi quantitativi, impiegare cioè concetti quantitativi. Questi possono essere costruiti sulla base di concetti comparativi: si tratta di concetti che introducono una disposizione negli oggetti che appartengono a una medesima classe, danno cioè la possibilità di disporre questi oggetti l’uno in relazione all’altro secondo gradi di intensità di una determinata proprietà (p. es. corpi più o meno – o ugualmente – pesanti di certi altri). La costruzione di concetti quantitativi consiste nell’elaborare scale metriche da applicarsi all’ordinamento di oggetti determinato dai concetti comparativi. Allo scopo di costruire una scala metrica occorre a) determinare il punto zero della scala; b) scegliere l’unità di misura; c) determinare la corrispondenza tra l’unità scelta e la grandezza che costituisce l’oggetto della misurazione (p. es. la relazione che sussiste tra la temperatura e la lunghezza della colonna di mercurio in un termometro). Tutti e tre questi passi sono almeno parzialmente convenzionali, e la critica convenzionalista ha sostenuto che, per questo motivo, tutte le leggi di natura formulate in ba3652

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se a una misurazione sono convenzionali. In realtà, come ha messo in rilievo il neopositivismo, la convenzionalità sembra avere dei precisi limiti, perché per scegliere una delle possibili convenzioni senza cadere in contraddizione con fatti empirici occorre qualche conoscenza empirica. Per esempio, la costruzione della scala termometrica Celsius richiede la conoscenza della costanza del punto di congelamento dell’acqua e dell’andamento lineare della dilatazione del mercurio. La conoscenza dei fatti fornisce differenti possibilità di costruire scale e l’elemento convenzionale si riduce alla scelta di una di queste possibilità. Tale scelta avviene in base alla conoscenza che noi possediamo (nuove scoperte possono così dare origine a nuove scale di misura) e a considerazioni di ordine pratico. Dalla possibilità che si ha in genere di costruire varie scale per lo studio di una grandezza, dunque la possibilità di diversi e svariati metodi sperimentali per misurare una grandezza, l’operazionismo ha sostenuto che si deve parlare di concetti diversi di grandezza secondo il metodo impiegato per misurarla. Esisterebbero dunque, p. es., tanti concetti di lunghezza quanti sono i metodi per misurarla e, inoltre, qualsiasi miglioramento nei metodi di misura introdurrà un nuovo significato di lunghezza. Carnap in Testability and Meaning (in «Philosophy of Science», III, 1936, pp. 419-471; IV, 1937, pp. I-40, tr. it. a cura di A. Pasquinelli, Controllabilità e Significato, in A. Pasquinelli [a cura di], Il Neo-empirismo, Torino 1969) ha dimostrato che una definizione operazionistica può essere solo parziale: un medesimo concetto può ricevere definizioni operative differenti, ma nessuna di tali definizioni esaurisce il suo significato. Ogni nuova procedura di misura arricchisce la conoscenza che noi abbiamo di una certa proprietà della natura, ma non si pone in concorrenza con le procedure note in precedenza. La critica convenzionalista della nozione di «fatto sperimentale», la messa in rilievo, da parte della riflessione filosofica novecentesca sulla scienza, del ruolo decisivo svolto nella sperimentazione dalle teorie hanno dissolto la convinzione che un esperimento scientifico si possa esprimere univocamente, possieda cioè un unico significato possibile, contribuendo così all’affermazione di concezioni radicalmente scettiche (p. es. P.K. Feyerabend) secondo cui la forza dimostrativa degli esperi-

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Esperimento

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menti è ben poca cosa, manipolabile a piacimento, e lo sviluppo teorico può rendersi autonomo dai vincoli dell’empiria. Contro questi esiti estremi, in questi ultimi anni vari autori hanno impostato la questione riconoscendo, da un lato, che nessuno scienziato può dimostrare che un esperimento sia decisivo, cruciale, parli univocamente a favore o contro una teoria, tuttavia occorre ammettere, dall’altro lato, che è possibile argomentare a favore di una interpretazione di un esperimento facendone crescere la forza persuasiva. È prassi normale degli sperimentalisti quella di attuare alcune strategie che, anche se non riescono a obbligare all’assenso con la forza della logica, servono a far crescere la fiducia in una determinata interpretazione di un responso sperimentale (A. Franklin). R. Maiocchi

B) IL LAVORO SPERIMENTALE IN PSICOLOGIA. – Nella sua impostazione più semplice, l’esperimento in psicologia consiste nella procedura attraverso cui un ricercatore, «manipolando» in modo sistematico uno stimolo, ne osserva gli effetti sulla risposta, cioè sul comportamento dei soggetti sperimentali. La caratteristica dello stimolo, che viene manipolata così da assumere diverse manifestazioni rilevabili, è definita «variabile indipendente»; la «variabile dipendente» consiste invece nei vari tipi di comportamento valutabili che ne conseguono. L’esperimento ha lo scopo di evidenziare cambiamenti della variabile dipendente in funzione delle modificazioni della variabile indipendente, essendo tenute sotto controllo, secondo diverse modalità, tutte le altre variabili, al fine di poter attribuire le eventuali variazioni del comportamento alla sola variabile indipendente. Per esempio, lo sperimentatore potrebbe modificare in modo sistematico l’intensità di un suono e rilevarne l’esito sulla precisione con cui un gruppo di soggetti esegue un certo compito; in questo caso, il suono, in quanto assume determinate intensità per opera del ricercatore, è la variabile indipendente, e la precisione nell’esecuzione del compito è la variabile dipendente. Su quest’ultima può tuttavia influire significativamente un vasto insieme di fattori, che vanno dalle condizioni ambientali (p. es. l’intensità del rumore di fondo) all’età dei soggetti sottoposti alla prova, così come alle loro diverse capacità di concentrazione e abilità nel portare a termine il compito richiesto ecc. Lo sperimentatore, attraver-

so il pieno controllo su tali fattori, impedirà che essi possano «minacciare» la validità dell’esperimento. L’uso di opportuni «disegni di ricerca» consente di ridurre al massimo questa eventualità. Secondo Donald H. McBurney (Research Methods, Pacific Grove 19943, tr. it. di M.R. Baroni, L. Berlucchi e R. Berto, Metodologia della ricerca in psicologia, Bologna 20013), le due caratteristiche essenziali di un disegno sperimentale sono: a) l’esistenza di un «gruppo di controllo» o di una «condizione di controllo»; b) l’«assegnazione casuale dei soggetti alle varie condizioni». Per esempio, ponendo che in un esperimento si intenda valutare l’influenza di un programma di addestramento (variabile indipendente) sulle abilità pratico-meccaniche (variabile dipendente) di studenti di scuola secondaria, si potrà fare uso di un disegno di ricerca che preveda sia la formazione di due gruppi, uno da sottoporre al programma di addestramento («gruppo sperimentale») e l’altro da non sottoporre ad esso («gruppo di controllo») sia l’assegnazione casuale dei soggetti ai due gruppi o condizioni. In mancanza del gruppo di controllo non sarebbe possibile attribuire, con un sufficiente margine di sicurezza, gli eventuali risultati raggiunti dal gruppo sperimentale agli effetti del trattamento, poiché non si potrebbe escludere che essi siano riconducibili all’influenza del processo di maturazione dei ragazzi così come a quella di eventuali esperienze rilevanti ai fini del miglioramento delle abilità pratico-meccaniche. Inoltre, l’assegnazione casuale dei soggetti minimizza la probabilità che i due gruppi siano tra loro molto diversi. Spesso gli esperimenti psicologici non si basano sulle due sole variabili, indipendente e dipendente, ma su più variabili indipendenti di cui il ricercatore valuta l’incidenza su una o più variabili dipendenti. Il lavoro sperimentale in psicologia si svolge, oltre che in laboratorio, anche «sul campo», cioè nell’ambiente di vita dei soggetti studiati. P.L. Baldi BIBL.: parte A: I. HACKING, Representing and Interventing, Cambridge 1983, tr. it. di E. Prodi, Conoscere e sperimentare, Roma-Bari 1987; P. ACHINSTEIN - O. HANNAWAY (a cura di), Observation, Experiment and Hypotheses in Modern Physical Science, Cambridge (Massachusetts) 1985; P. GALISON, How Experiments End, Chicago 1987; A. FRANKLIN, Can That Be Right? Essays on Experiment, Evidence and Science, Dordrecht 1999.

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Espinas Parte B: A.P. ERCOLANI - A. ARENI - L. MANNETTI, La ricerca in psicologia. Modelli di indagine e di analisi dei dati, Roma 1990. ➨ CONGETTURA; CONOSCENZA; CONVENZIONALISMO; EMPIRISMO; ESPERIENZA; EVIDENZA; IPOTESI; OPERAZIONISMO; SCIENTIFICO, METODO; TEOREMA; VERIFICAZIONE.

ESPINAS, ALFRED-VICTOR. – Economista e Espinas sociologo, n. a Saint-Florentin (Yonne) il 13 magg. 1844., m. a Parigi il 24 febbr. 1922. Decano della facoltà di Bordeaux, fu chiamato nel 1893 alla Sorbona ove insegnò prima economia sociale fino al 1904 e poi storia delle dottrine economiche. Nel 1905 l’Istituto di Francia lo accolse fra i suoi membri. Merita di essere ricordata la sua opera fondamentale Des sociétés animales (Paris 1877), in cui vengono distinte società coniugali fondate sull’istinto della riproduzione, società domestiche materne (api-formiche), società domestiche paterne (antropoidi), tutte descritte con ricchezza di particolari. Nel volumetto La philosophie expérimentale en Italie (ivi 1880) è contenuta una valutazione obiettiva del movimento filosofico italiano che fa capo ad Ardigò. Tra gli altri scritti: Histoire des doctrines économiques, ivi 1891; Les origines de la technologie, ivi 1897; La philosophie sociale du XVIIIe siècle et la Révolution, ivi 1898; Descartes et la morale, ivi 1925 (postuma). A. Groppali BIBL.: M.G. DAVY, Necrologi, in «Revue philosophique», 1923; A. LALANDE, in «Revue internationale de sociologie», 1925; H. MAUS, s. v., in «SoziologenLexikon», Stuttgart 1959, p. 142; P. ESPINAS, Influence de la pensée d’A. Espinas sur celle de Durkheim, in «Revue philosophique de la France et de l’Etranger», 1961, pp. 138-139.

ESPINASSY, LOUISE-FLORENCE-PÉTRONILLE Espinassy TARDIEU D’ESCLAVELLE, marchesa di. – Pedagogista francese, n. nel 1700, m. nel 1777. Autrice di un’opera apparsa anonima a Parigi nel 1764 dal titolo Essai sur l'éducation des demoiselles; in essa si sostiene una polemica contro le teorie pedagogiche di J.-J. Rousseau, anche se l’opera in parte è influenzata dalle medesime. A. Cardin BIBL.: A.A. BARBIER, Dictionnaire des ouvrages anonymes, Paris 1882; s. v., in AA.VV., Dizionario delle scienze pedagogiche, diretto da G. Marchesini, Milano 1929, vol. I, p. 510.

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

ESPLICATIVO (explicative; explicativ, erkläEsplicativo rend; explicatif; explicativo). – In generale esplicativo dicesi tutto ciò che serve a esplicare, ossia a far comprendere un concetto o termine mediante l’analisi o risoluzione in altri concetti o termini più elementari supposti già noti, e allora spiegare equivale a dare la definizione nominale. In senso più specifico, esplicativo si dice della scienza, la quale, essendo conoscenza delle cause, assegna la ragione degli esseri e dei fenomeni che studia. Red. ➨ SPIEGAZIONE.

ESPLICITO: V. IMPLICITO / ESPLICITO. Esplicito ESPONIBILI, Esponibili

PROPOSIZIONI: V. PROPOSIZIONI

ESPONIBILI.

ESPOSIZIONE (lat. ex-positio - exposition; Esposizione Exposition, Erörterung; exposition; expositión). – È proprio del concetto di esposizione il presentare un oggetto, mettendolo in rilievo o in luce; come termine generico e in senso traslato, esposizione designa quindi i processi con i quali si cerca di far conoscere un concetto o un principio, esplicitandone il contenuto logico o stabilendo rapporti con altri concetti che ne rendano chiaro o evidente il significato. Più precisamente esposizione nell’uso delle scienze è la determinazione dei rapporti di un concetto con gli altri (cfr. J.F. Fries, System der Logik, Heidelberg 1811, p. 399). Nella logica terministica medievale viene usato il procedimento chiamato «reductio per expositionem», mediante il quale si ottiene il sillogismo espositorio. Per esposizione trascendentale, secondo Kant, s’intende il chiarimento di un concetto come principio che offre la possibilità di conoscenze sintetiche a priori, e quindi di altri giudizi sintetici a priori, quasi portando alla luce (ex-ponere) ciò che è implicito in altri principi o giudizi. Nella Kritik der reinen Vernunft, Kant definisce l’esposizione appunto così: «Per esposizione (expositio) intendo la rappresentazione chiara (anche se non dettagliata) di ciò che appartiene ad un concetto; l’esposizione sarà poi metafisica se essa contiene ciò che il concetto presenta in quanto dato a priori» (KrV, B, p. 38, tr. it. Critica della ragion pura, a cura di C. Esposito, Milano 2004, p. 119). P. es., l’esposizione trascendentale del concetto di spazio, mostrando la possibilità delle conoscenze

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a priori che discendono da tale concetto, fonda la possibilità della geometria. F. Borgato - V. Carminati

ESPRESSIONE Espressione (expression; Ausdruck; expression; expresión). – Atto dello spirito che designa la sua capacità di significare se stesso e l’oggetto mediante segni. Nella metafisica spiritualistica l’espressione è costitutiva della natura dello spirito, ne è l’atto fondamentale che caratterizza ogni suo atto; per l’idealismo, che risolve la sostanza nell’atto, l’attività espressiva è lo spirito stesso ed è sinonimo di creazione (p. es. l’autoctisi di G. Gentile). In logica l’espressione designa i mezzi con cui il pensiero pensa e si manifesta: concetto e termine, giudizio e proposizione, ragionamento, sono espressioni. In psicologia espressione è correlativa a impressione: indica il processo psichico efferente, di risposta, correlativa al processo psichico afferente o di ricezione (impressione). In estetica l’espressione indica l’atto spirituale per cui un contenuto interiore assume una forma contemplabile. Considerando l’arte come espressione, si pone l’accento sul suo carattere di creazione originale. Diversamente dalle altre espressioni, quella estetica realizza una contemplabilità senza residui, cioè senza rinvii semantici. In questo senso l’espressione poetica può essere definita come parola assoluta. Espressione e contemplazione non sono due momenti distinti o addirittura antitetici, ma sono lo stesso atto considerato da due punti di vista diversi. Tale unità di contemplazione ed espressione è conquista relativamente recente. Nel mondo greco prevale un’estetica della visione, conformemente all’indirizzo oggettivistico del pensiero ellenico. È soltanto nell’ambito del cristianesimo che si pongono le basi per la considerazione dell’atto spirituale nella sua forza espressiva. La rivelazione del Verbo apre la possibilità di concepire l’espressione come l’atto per cui lo spirito si possiede, si conosce, si ama, atto che non è accessorio o casuale, ma è costitutivo della stessa vita spirituale (cfr.: Agostino, De Trinitate, IX, 10). Tuttavia l’estetica classica costituisce ancora il modello cui si ispirano sia il Medioevo che il Rinascimento. I vecchi concetti resistono alla nuova maniera di pensare: non si parla di espressione, ma di imitazione. L’intellettualismo della cultura post-rinascimentale impedisce che, dai germi contenuti nelle parole inge-

Espressione gno, immaginazione, sentimento, gusto (particolarmente diffuse nel XVII secolo), la teoria dell’arte consideri l’esperienza estetica nel suo carattere specifico, in quella particolare autonomia che si riscontra soprattutto nel momento espressivo. Fa eccezione Vico, il quale reagisce alla cultura del suo tempo, riconoscendo al mondo della fantasia (inteso in senso lato, quindi comprendente anche il mito) una struttura autonoma. L’uomo giunge alla prima consapevolezza proprio attraverso la forza espressiva della poesia, che è sintesi di un momento affettivo e di un momento contemplativo. L’antintellettualismo vichiano viene ripreso in terra tedesca dallo Sturm und Drang e dal romanticismo. La coscienza romantica della creatività dello spirito, della sua forza manifestativa, e quindi della sua espressività, fa sì che l’arte sia commisurata non a un concetto astratto ma all’idea della quale è espressione. È lo spirito stesso che si manifesta nell’arte, e l’arte è un momento necessario del processo manifestativo dello spirito. Nel positivismo l’espressione viene considerata da un punto di vista psicologico o sociologico, e si ricade nuovamente in una valutazione semantica di essa. Frutto di un ripensamento critico dei motivi dell’estetica romantica, in particolare di quella hegeliana, è il concetto di forma proposto da F. De Sanctis: questo concetto rende piena ragione del momento espressivo dell’arte, in quanto nella forma si realizza una realtà nuova, il mondo estetico che è la sostanza, il vivente. Nell’estetica contemporanea il concetto di espressione assume un ruolo fondamentale per merito di B. Croce. Intuizione e espressione non sono considerati da Croce come atti diversi. «In realtà, egli dice, noi non conosciamo altro che intuizioni espresse [...]. E quanto è inconcepibile un’immagine priva di espressione, altrettanto è concepibile, anzi logicamente necessaria, un’immagine che sia insieme espressione, che sia cioè realmente immagine» (Nuovi saggi di estetica, Bari 19584, pp. 3637). L’intuire è già un atto creativo che non può realizzarsi se non come espressione. L’arte è perciò parola e l’estetica si identifica con la linguistica. La dottrina crociana dell’arte come espressione è accettata da quasi tutte le estetiche successive, specie italiane; però essa suscita problemi inerenti piuttosto ai presupposti gnoseologici su cui è fondata. Calogero, p. es., ritie3655

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Espressione ne questa dottrina importante ed essenziale, ma suscettibile d’esser conservata e approfondita nel quadro di una sistemazione diversa, per sfuggire soprattutto alle difficoltà cui va incontro l’identità di estetica e linguistica (Estetica, semantica, istorica, Torino 19602, pp. 1-13). Della Volpe, partendo da una concezione dello spirito come «impulso espressivo » e della coscienza come «sintesi di sentimento (o immagine) e di idea (o relazione)» (Fondamenti di una filosofia dell’espressione, Bologna 1936, pp. 17-18), accentua l’aspetto eidetico, che è pur presente nell’espressione artistica, e ne assicura l’unicità, la necessità e l’insostituibilità, definendo l’arte come «idea intuitiva» (ibi, pp. 31-39). Anche Stefanini, pur accettando che l’arte sia espressione, mostra tuttavia, a differenza di Croce, come l’espressione non elimini l’impressione, il vedere; l’antinomia del visto e dell’espresso, che talora si assume per designare la contrapposizione tra arte classica e arte romantica, è solo apparente e dipende da una differenza di accento (Trattato di estetica, Brescia 1955, pp. 53-72). Inoltre non ogni espressione è arte, ma solo quell’espressione o parola che sia singolare e assoluta, non semantica e intenzionale (ibi, pp. 73-100). Quest’ultimo problema è trattato anche da Pareyson: l’espressione è una nota fondamentale dell’attività estetica e artistica; ma, mentre si può dire che ogni espressione è estetica, perché l’intuizione e la prima forma di conoscenza, che sono appunto estetiche, sono sempre un esprimere, non si può dire che ogni espressione sia anche artistica (Estetica, Torino 1954, pp. 13-30). Pur avendo l’arte radice nell’attività espressiva o formativa della persona, solo un formare ed esprimere puro, tale cioè che trovi la propria norma solo in se stesso e nella propria riuscita, costituisce il carattere distintivo dell’espressione artistica rispetto alle altre forme di espressione della persona umana (ibi, pp. 97-127). E infine anche per Dewey, sebbene parta da altri presupposti di carattere naturalistico, l’espressione caratterizza il fatto dell’arte. L’arte è da lui ridotta a una forma, la più alta, di esperienza. Ogni esperienza ha un carattere impulsivo, estrinsecativo; ma solo quando tale impulso acquista una finalità che ne costituisce il significato consapevole possiamo parlare di espressione. Espressione è dunque «un’attività che era naturale, spontanea e sen3656

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za un fine, e che subisce una trasformazione in quanto è stata intrapresa quale mezzo per ottenere una conseguenza attesa consapevolmente» (Art as Experience, New York 1934, tr. it. a cura di C. Maltese, L’arte come esperienza, Firenze 19662, p. 76). Tale trasformazione contrassegna ogni fatto d’arte. Espressione significa non soltanto un’azione, ma anche il suo risultato, l’oggetto espressivo. Bisogna però distinguere tra espressione artistica ed espressione prosastica o scientifica: quest’ultima è una espressione che espone o conduce a un’esperienza, mentre l’espressione artistica «ne costituisce una» (ibi, p. 102). In linguistica possiamo dire che il termine espressione sia usato in due sensi fondamentali. Da un lato, esso si riferisce alla capacità che il linguaggio offre al soggetto parlante di convogliare le proprie emozioni e di renderle in una forma comunicabile. Secondo l’Organonmodell triadico di K. Bühler, la comunicazione si svolge tra un emittente e un ricevente sullo sfondo di un certo «stato di cose», e un enunciato (segno linguistico complesso) ha rispettivamente la funzione di espressione rispetto all’emittente, di appello rispetto al ricevente e di rappresentazione rispetto allo stato di cose. Il segno linguistico viene considerato espressione dell’interiorità del parlante e, in questo senso, assume il valore di «sintomo». Nella teoria delle funzioni linguistiche di R. Jakobson, una delle sei funzioni è appunto quella detta «“espressiva” o emotiva, che si concentra sul mittente», la quale «mira a un’espressione diretta dell’atteggiamento del soggetto riguardo a quello di cui parla». Secondo Jakobson, l’uso di tale funzione ha il fine di trasmettere un’emozione al ricevente e, inoltre, in tutte le lingue è possibile ritrovare uno «strato puramente emotivo» rappresentato dalle interiezioni (Closing Statements: Linguistics and Poetics, in T. Sebeok [a cura di], Style in Language, New York 1960, tr. it. a cura di L. Heilmann, Linguistica e poetica, in Saggi linguistici, Milano 1966, p. 186). D’altro lato, il termine espressione designa più generalmente il lato sensibile, non concettuale del linguaggio. Nella teoria di L. Hjelmslev espressione e «contenuto» rappresentano gli elementi («funtivi») legati nel segno come entità funzionale: «Non si avrà mai una funzione segnica senza la presenza simultanea di entrambi questi funtivi, e un’espressione e il suo contenuto, o un contenuto e la sua espressio-

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

ne, non si presenteranno mai insieme senza che ci sia tra loro anche la funzione segnica» (Prolegomena to a Theory of Language, Madison 1961, tr. it. a cura di G.C. Lepschy, I fondamenti della teoria del linguaggio, Torino 1968, p. 53). Hjelmslev introduce, poi, la distinzione tra «forma» e «sostanza», sia per il piano dell’espressione che per quello del contenuto, cogliendo la distinzione tra materiale espressivo disponibile all’essere umano e suoi usi differenziati nei vari sistemi linguistici. Più recentemente, anche la linguistica cognitiva ha descritto il processo simbolico realizzato dal linguaggio naturale come una complessa corrispondenza tra un polo semantico-concettuale e un polo fonologico-espressivo. C. Nolet - F. Lorenzi BIBL.: per un orientamento generale sui problemi dell’espressione: E. CASSIRER, Philosophie der symbolischen Formen, Berlin 1923-29, 3 voll., tr. it. di E. Arnaud, Filosofia delle forme simboliche, Firenze 1961-66, 4 voll.; B. CROCE, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Bari 196511. Sull’espressione estetica, oltre le opere citate nel testo: B. CROCE, II carattere di totalità dell’espressione artistica, in Nuovi saggi di estetica, Bari 19584, pp. 117-146; B. CROCE, Aesthetica in nuce, in Ultimi saggi, Bari 19633; B. CROCE, La poesia e la letteratura, in La poesia, Bari 19636. Per la problematica contemporanea: AA.VV., L’expression, n. mon., in «Revue Internationale de Philosophie», 59 (1962). Per la linguistica: K. BÜHLER, Sprachtheorie. Die Darstellungsfunktion der Sprache, Jena 1934; R. SIMONE, Fondamenti di linguistica, Bari 1990; sulla linguistica cognitiva: R. LANGACKER, Concept, Image and Symbol, Berlin 1991.

ESPRESSIONISMO (expressionism; ExpresEspressionismo sionismus; expressionnisme; expresionismo). – Definizione propriamente coniata per le arti figurative (dallo storico dell’arte R.W. Worringer, nel 1911), accomuna diverse correnti artistiche europee dell’inizio del sec. XX – in letteratura, musica, arti figurative e plastiche, teatro, cinema – ribelli contro naturalismi e impressionismi, alla ricerca di una maniera esplosiva di irradiazione di contenuti interiori fortemente emotivi (la natura livida di E. Nolde, il cromatismo tragico di E. Munch), attraverso l’intensificazione cromatica (la rivoluzione atonale di A. Schönberg, A. Berg, A. von Webern, la pittura musicale di V. Kandinskij), l’incisività della linea (le dissonanze figurali di E.L. Kirchner), l’esasperazione della forma (la violenza psicologica dei volti di O. Kokoschka, la fisicità deforme dei corpi allucinati di E. Schiele), la ten-

Espressionismo sione dei valori fino alla rottura di ogni paradigma classicheggiante (la rivisitazione della scultura gotica tedesca nella plastica di E. Barlach, le sculture-totem, ispirate all’arte «negra» di Kirchner). L’esperienza espressionista trova terreno fertile soprattutto nel mondo tedesco, dove si polarizza intorno ai gruppi die Brücke (Dresda-Berlino, 1905-13: Kirchner, E. Heckel, K. Schmidt-Rottluff, Nolde, M. Pechstein) e der Blaue Reiter (Monaco 1911-14: Kandinskij, F. Marc, Kokoschka, A. Kubin). Mossi da veemente polemica contro la società e la tradizione culturale (spiccatamente espressionisti i «distruttivi» drammi giovanili di B. Brecht) e da forte tensione utopica (declinata in chiave fantastica nell’architettura: E. Mendelsohn, B. Taut, e onirica nel cinema, F.W. Murnau, F. Lang), dichiarano la lacerazione tra contemporaneo e primitivo, vita metropolitana e vita naturale, mediata e istintiva, e aspirano a liberare nelle dissonanze dell’arte la voce dell’ingenuità (di qui l’interesse per il folklore, la pittura infantile, la patologia mentale) insieme al represso «grido originario» (Urschrei) dell’uomo primigenio (Urmensch), la cui metafora, mediata e mascherata nel materialismo capitalistico, è il grido generato nei vinti dal conflitto del presente (il verismo tragico di M. Beckmann, l’aggressività grottesca di G. Grosz). L’espressionismo fu aggredito dal nazismo come «arte degenerata». Si definisce espressionismo astratto il movimento pittorico informale d’avanguardia, vivo negli Stati Uniti tra il 1940 e il 1960, che, erede dell’esperienza espressionistica del vecchio continente per il tramite della diaspora di artisti europei oltreoceano, cattura nelle opere la dinamicità del gesto che innerva l’intero corpo del pittore e lo coinvolge completamente in tutta la sua vitalità creativa: lo spazio della tela si amplia, il gesto si fa improvvisazione, l’opera evento, come nell’action painting di J. Pollock e W. De Kooning. Rientra in questa corrente, per quanto opposto alla pittura di gesto – per il controllo del movimento e l’esito meditativamente dinamico delle sue ampie ma minimalistiche campiture di colore vibrante ed evocativo –, anche il color field painting di M. Rothko, B. Newmann, A. Gottlieb e A. Reinhardt. La nozione di espressionismo filosofico è applicata anzitutto agli esponenti dell’antropologia filosofica G. Simmel, M. Scheler e H. Plessner, per il loro sostenere che la vita aspira a manifestarsi in modo assoluto, al di là di ogni for3657

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Esprit

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

male mediazione; ma è ascrivibile anche, per altri versi, a P. Klossowski, M. Foucault, G. Deleuze e G. Colli. N. Salomon BIBL.: P. CHIARINI, L’espressionismo tedesco. Storia e struttura, Roma-Bari 19852; P. CHIARINI - A. GARGANO - R. VLAD (a cura di), Expressionismus. Una enciclopedia interdisciplinare, Roma 1986; H. BELTING et al., Da Kandinsky a Dix. Dipinti dell’espressionismo tedesco, «Catalogo della mostra di Bari, maggio-giugno 1989», Firenze 1989; C. ROSS (a cura di), Abstract Expressionism. Creators and Critics. An Anthology, New York 1990; G. KOLBERG (a cura di), Die Expressionisten. Vom Aufbruch bis zur Verfemung, «Catalogo della mostra di Colonia 1996», Köln-Stuttgart 1996; P. CHIARINI - A. GARGANO, Berlino dell’espressionismo, Roma 1997; R. DOTTORI, Espressionismo e filosofia, in S. BARRON - W.-D. DUBE (a cura di), Espressionismo tedesco, «Catalogo della mostra di Venezia, Palazzo Grassi, 1997», Milano 1997, pp. 67-75; A. LARCATI, Espressionismo tedesco, Milano 1999.

ESPRIT. – Rivista francese, fondata nell’ott. Esprit del 1932, quale periodico internazionale mensile, da E. Mounier. A capo di una schiera di giovani battaglieri, Mounier si propose lo scopo di penetrare e approfondire i valori spirituali dell’uomo e della società umana. Venne sviluppata in questo senso una polemica appassionata contro il regime capitalistico. Tuttavia, in opposizione ai metodi e agli ideali comunistici, i collaboratori di «Esprit» si sono fatti assertori, entro lo spirito comunitario, del valore irriducibile della persona umana. La rivista, cessata dopo il giugno 1940, fu ripresa nel novembre dello stesso anno; proibita nel 1941, tornò a uscire dal dicembre del 1944. Dopo la morte di Mounier (1950) fu diretta da A. Béguin e poi da J.-M. Domenach. A partire dal 1977, il nuovo direttore, P. Thibaud, pur rivendicando una forte continuità con la tradizione precedente, inaugurò una nuova serie: al titolo fu aggiunto il sottotitolo «Changer la culture et la politique» e fu dichiarato, come obiettivo programmatico di «Esprit», quello di «dare corpo a questa semplice proposizione: la democrazia è un avvenire», fatta sempre salva la necessità di subordinare la politica a un’istanza globale e più fondamentale. Dal 1989 la rivista è diretta da O. Mongin. C. Testore - S. Bancalari

ESPRIT, JULIEN (Filippo della Trinità). – TomiEsprit sta, carmelitano scalzo, n. a Malaucène (pres3658

so Avignone) il 19 lug. 1603, m. a Napoli, generale dell’ordine, il 28 febbr. 1671. Opere: Summa philosophiae ex principiis Aristotelis et D. Thomae doctrina (Lyon 1648, Köln 1654, 1665), stesa sul modello della Summa di Tommaso e frutto della sua attività d’insegnamento (1631-39); Summa theologiae thomisticae, seu disputationes in omnes partes Summae D. Thomae (Lyon 1653, 4 voll., Köln 1655, Lyon 1664, Lyon 1663, t. V, Köln 1670); Summa theologiae mysticae (Lyon 1656, Bruxelles 1874, 3 voll.). In ambito metafisico, nega qualsiasi realtà alle essenze anteriormente alla creazione e critica la dottrina scotista dello ens diminutum. M. Colpo BIBL.: H. HURTER, Nomenclator literarius theologiae catholicae, Innsbruck 1903-13, vol. IV, coll. 37-39 (rist. Cambridge 1962); ANASTASE DE SAINT-PAUL, s. v., in A. VACANT - E. MANGENOT (a cura di), Dictionnaire de Théologie Catholique, Paris 1939, vol. XII, coll. 14121413; P. MELCHIOR, Pour une biographie du père Philippe de la Trinité, in «Ephemerides carmeliticae», 2 (1948), pp. 343-403; P. DI VONA, Studi sulla scolastica della controriforma, Firenze 1968; P. DI VONA, Studi sull’ontologia di Spinoza, parte II: «Res» ed «ens» - La necessità - Le divisioni dell’essere, Firenze 1969.

ESPRIT DE FINESSE / ESPRIT DE Esprit de finesse GÉOMÉTRIE (finezza di spirito / spirito geometrico). – Le espressioni esprit de finesse ed esprit de géométrie sono introdotte da Blaise Pascal per individuare le due principali attività che caratterizzano l’esperienza umana. Lo spirito geometrico, dedotto dal cartesianesimo, è la facoltà conoscitiva della quale si serve la geometria e che secondo Pascal, non giunge mai a una conoscenza dimostrativa di tutte le proposizioni e tutti gli assiomi, infatti ciò comporterebbe un regresso infinito. Alcune nozioni comuni, alcune verità proposizionali sono colte intuitivamente grazie alla loro evidenza senza alcuna dimostrazione, così l’esprit de géométrie è la facoltà di intuire e dedurre, correttamente associata alla ragione (raison). L’esprit de finesse compare qualora risulta evidente che l’esprit de géométrie non è esaustivo di tutta la conoscenza umana, viste le sue incapacità di sondare le verità non scientifiche della religione e della morale. La finezza di spirito è quella facoltà del sentimento associata al cuore (coeur) che è capace di comprendere e intuire il senso della vita che sta alla base dell’esistenza umana. M. Sgarbi

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Essenza

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

BIBL.: B. PASCAL, De l’esprit géométrique, Port-Royal 1657, tr. it. Lo spirito geometrico, in Opuscoli e scritti vari, a cura di G. Preti, Bari 1959.

ESSENI. – Gruppo giudaico diffuso in PaleEsseni stina all’incirca tra il sec. II a. C. e il sec. I d. C. Gli esseni, al contrario di altri gruppi religiosi giudaici dell’epoca, non sono citati né nel Nuovo Testamento né nella letteratura rabbinica. Prima della scoperta dei manoscritti di Qumran, per le notizie sugli esseni ci si doveva riferire esclusivamente ai resoconti di Flavio Giuseppe, Filone di Alessandria e Plinio il Vecchio (senza tenere conto di altre descrizioni più tarde essenzialmente dipendenti da queste). Stando a queste notizie gli esseni vivevano in quelle che sono state definite comunità «monastiche» diffuse in tutto il territorio, dalle quali, a quanto pare, erano escluse le donne. Nelle comunità esseniche, i beni dei singoli membri erano messi in comune ed era riservata la massima attenzione all’osservanza e allo studio della Torah mosaica, all’applicazione delle leggi riguardanti il riposo sabbatico e in particolare alle regole di purità. L’ingresso nel gruppo era regolato da un ben preciso cursus: dopo un anno di noviziato, i proseliti divenivano esseni, ma per altri due anni non potevano prendere parte ai pasti in comune. I candidati dovevano giurare la loro fede a Dio, la giustizia nei confronti degli uomini, l’odio verso ogni falsità, la rigorosa osservanza di tutte le regole del gruppo. Solo dopo questo passo, i nuovi arrivati potevano prendere parte ai pasti in comune. Secondo Plinio, il gruppo constava di circa 4000 persone. Fin dalle prime scoperte di Qumran, gli studiosi notarono numerose analogie tra questi testi e le descrizioni delle fonti classiche degli esseni. In base a queste analogie si è per lungo tempo affermato che la setta di Qumran sarebbe stata una setta essenica. In realtà, i manoscritti di Qumran e il gruppo a essi legato presentano anche numerose differenze rispetto a quello che degli esseni ci narrano Flavio Giuseppe e gli altri autori più sopra citati. Basterà ricordare in questa sede il fatto che i manoscritti (e l’insediamento) di Qumran rappresentano certamente un piccolo gruppo in forte polemica col tempio di Gerusalemme, laddove gli esseni, come si è visto, erano diffusi e, relativamente, numerosi: sicuramente molto più numerosi del ristretto gruppo che faceva riferimento all’insediamento di Qumran. Gli esseni, inoltre, pur vivendo, alme-

no alcuni di loro, in comunità isolate, non avevano alcun atteggiamento polemico nei confronti del tempio di Gerusalemme e del sacerdozio ufficiale. Per la nostra conoscenza del gruppo degli esseni restano quindi ancora fondamentali i resoconti delle fonti classiche, mentre i manoscritti di Qumran possono essere al riguardo fuorvianti, in quanto espressione di un gruppo che, ancorché originariamente in qualche modo sicuramente legato agli esseni, se ne differenziò ben presto e in maniera radicale. C. Martone BIBL.: K. SCHUBERT, Die jüdischen Religionsparteien in neutestamentlicher Zeit, Stuttgart 1970, tr. it. di C. Marocchi Santandrea, I partiti religiosi ebrei del tempo neotestamentario, Brescia 1976; G. STEMBERGER, Pharisäer, Sadduzäer, Essener, Stuttgart 1991, tr. it. di G. Pontoglio, Farisei, sadducei, esseni, Brescia 1993; G. JOSSA, I gruppi giudaici ai tempi di Gesù, Brescia 2002; L. GUSELLA, Esperienze di comunità nel giudaismo antico. Esseni, Terapeuti, Qumran, Firenze 2003. ➨ QUMRAN, MANOSCRITTI DI; TORAH.

ESSENZA (essence; Wesen, Wesenheit; essence; Essenza esencia). – Nel suo primo significato ontologico, indica ciò che costituisce una cosa nella sua realtà principale e permanente: essenza di una cosa particolare; nel significato logico indica la rappresentazione mentale della stessa essenza ontologica, equivale a idea di una cosa, ed è il principio di intelligibilità della medesima. Da questo duplice significato di essenza e di idea individua si distingue quello di essenza e di idea universale, cioè quello di una natura attribuibile a diversi individui di uno stesso genere o di una stessa specie, che in sé la realizzano concretamente e individualmente. SOMMARIO: I. Significati della parola essenza e termini equivalenti ad essa. - II. Gli elementi dell’essenza e la definizione degli enti. - III. Caratteri delle essenze universali. - IV. Distinzione di essenza ed esistenza negli esseri finiti e identità dell’una e dell’altra in Dio. - V. La crisi della filosofia dell’essenza. I. SIGNIFICATI DELLA PAROLA ESSENZA E TERMINI EQUIVALENTI AD ESSA. – «Dal verbo esse si è fatto derivare essentia» (Agostino, De Trinitate, V, 2, n. 3, tr. it. di G. Beschin, La Trinità, in Opere di Sant’Agostino, testo lat. dall’ed. maurina, vol. IV, Roma 1973, p. 237); «Si dice essenza per il fatto che l’ente possiede il suo essere in virtù di essa e in essa» (Tommaso, De ente et essentia, I, tr. it. L’ente e l’essenza, ed. it. con testo lat. 3659

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Essenza a fronte a cura di P. Porro, Milano 2002, p. 81). Infatti l’essenza è la prima determinazione dell’essere di ciascun ente. Mentre l’essere è attribuibile a tutti gli enti che occupano spazio e tempo, alle sostanze e agli accidenti, al finito e all’infinito, l’essenza è invece ciò che costituisce un essere tale e quale è, nella sua natura, e lo distingue da tutti gli altri: ossia è l’unità dei caratteri o note fondamentali di un essere, dei caratteri cioè che rendono un essere un determinato essere e non un altro. Così i caratteri essenziali dell’uomo sono animale e ragionevole, poiché, se si muta l’uno o l’altro di essi, si ha non più l’uomo, ma un altro essere. Tommaso fa una rassegna completa dei termini cui quello di essenza va raffrontato. Il termine essere o ente (op. cit.) è usato, secondo quanto dice Aristotele (cfr. Metaph., V, 7, 1017 a 22 ss.), in due sensi: 1) in quanto è diviso nelle dieci categorie o generi sommi; 2) in quanto significa la verità delle proposizioni, ossia in senso copulativo. La differenza di questi due significati è che in base al secondo si può dire ente tutto ciò su di cui, quand’anche non esista nella realtà, è enunciabile una proposizione affermativa; così si dicono enti anche le privazioni e le negazioni: p. es., diciamo che l’affermazione è opposta alla negazione, e che la cecità è nell’occhio; mentre secondo il primo significato non si può dire ente se non ciò che è qualcosa di reale; quindi la cecità e altre privazioni simili non sono enti. Perciò il termine essenza non è derivato dal termine essere o ente nel secondo significato, poiché in conformità di questo sono detti enti anche cose che non hanno essenza, come le privazioni; dunque è derivato dal termine essere o ente nel primo significato; e, giacché, come s’è detto, l’ente nel primo significato è diviso nei dieci generi sommi o categorie, è necessario che l’essenza significhi qualcosa per cui i diversi enti sono collocati nei diversi generi e specie: l’umanità, p. es., è l’essenza dell’uomo, e così via. E, poiché ciò per cui una cosa è costituita nel suo genere e nella sua specie è ciò che significhiamo con la definizione la quale indica che cosa (quid) è il definito, il termine è dai filosofi mutato in quello di quiddità (quidditas), e tale quiddità è detta spesso da Aristotele nel libro VII della Metafisica «to; tiv h\\n ei\nai, quod quid erat esse», ossia ciò per cui una cosa ha di essere alcunché, «hoc per quod aliquid habet esse quid» (da questo significato, generico o specifico, si usa distinguere il significato di essenza 3660

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come principio primo costitutivo di ogni individuo). L’essenza si dice anche forma (morfhv) in quanto col termine forma si denota la determinazione o perfezione di una cosa, ossia la «certezza» per cui una cosa è ciò che è, «certitudinem qua est id quod est», come dice Avicenna nella Metafisica (cfr. trattato I, sezione 1, e trattato II, sezione 2). Si chiama anche natura nel primo dei quattro significati che a questo termine dà Boezio nel libro De duabus naturis, secondo il quale si dice natura tutto ciò che in qualche modo può essere principio di attività, quindi qualsiasi sostanza o accidente. Il termine quiddità poi è derivato da ciò che è designato per mezzo della definizione; il termine essenza invece è usato in quanto per essa e in essa una cosa ha l’essere. Giacché però l’ente è detto delle sostanze in senso assoluto e primario, e degli accidenti in senso secondario e relativo, ne segue che l’essenza è in senso vero e proprio nelle sostanze e in senso relativo e secondario negli accidenti. II. GLI ELEMENTI DELL’ESSENZA E LA DEFINIZIONE DEGLI ENTI. – L’essenza è l’unità delle determinazioni costitutive fondamentali di una cosa: il genere (gevno", genus) e la differenza (diaforav, differentia). Il genere non significa tutta l’essenza, ma solo una parte di essa, e propriamente la parte indeterminata e determinabile dell’essenza, «pars determinabilis essentiae», o parte materiale secondo che si dice materia ciò che è indeterminato e determinabile rispetto alla forma determinata e determinante: così, animale è indeterminato rispetto alla specie o essenza uomo o umanità, poiché ci sono varie specie di animali, e fino a che non determiniamo il genere animale, non sappiamo di quale specie si tratti; quindi, affinché si abbia una specie, il genere dev’essere determinato o specificato, e appunto la differenza lo determina dando ad esso l’impronta particolare per cui lo rende una data specie. La differenza dunque è anch’essa una parte o elemento della definizione dell’essenza, ed è la pars determinans essentiae o parte formale: così, la differenza di uomo o umanità è ragionevole; per mezzo di questa nota infatti l’uomo è differenziato da ogni altra specie di animali. L’unità del genere e della differenza è la specie (ei\do", species) o essenza (tutta l’essenza, nella sua unità), che si indica appunto nella definizione. III. CARATTERI DELLE ESSENZE UNIVERSALI. – Le essenze universali delle cose sono intelligibili, oggettive, immutabili (perciò necessarie ed

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eterne), indivisibili. L’essenza è, come si è mostrato, ciò che costituisce la natura di una cosa: un triangolo non può essere tale senza la natura e le note o proprietà del triangolo, un uomo senza la natura e le proprietà dell’uomo. Nessuno di questi elementi può essere variato senza che muti la cosa stessa. Perciò le essenze sono immutabili, semplici, necessarie ed eterne. Per la stessa ragione sono indivisibili, poiché, se un elemento o nota fosse divisa e separata dall’essenza, questa sarebbe mutata. Sono universali perché costituiscono l’intima natura di un numero indeterminato di cose. IV. DISTINZIONE DI ESSENZA ED ESISTENZA NEGLI ESSERI FINITI E IDENTITÀ DELL’UNA E DELL’ALTRA IN DIO. – Questo è un punto decisivo nella tradizione del pensiero medievale, ma è anche variamente ripreso nell’ambito del pensiero moderno e contemporaneo (si pensi in particolare a Kierkegaard). L’essenza, negli esseri finiti, va distinta dall’esistenza. L’essenza, come è stato detto, è ciò che costituisce un essere tale quale è, ciascuno diverso da ogni altro; è l’unità delle determinazioni fondamentali di esso, da cui l’idea del medesimo nel suo aspetto fondamentale. L’esistenza è invece l’atto per cui l’essenza è realizzata nello spazio e nel tempo o in qualunque altra forma di durata. Perciò il termine esistenza vale, propriamente, solo per gli esseri finiti esistenti di fatto; è applicato anche all’assoluto ovvero a ciò che chiamiamo Dio, ma impropriamente: Dio è, non esiste come gli esseri finiti e contingenti, perché ex-sistere significa essere dipendentemente da un altro (ex-sisto = sisto-ex, sono-da). In Dio c’è identità fra essenza ed «esistenza», in quanto la sua essenza è l’essere assoluto e necessario, è da sé. Dio, essendo l’essere supremo assoluto, non può ricevere l’esistenza da altro. Nelle cose finite invece, appunto perché esse non sono e non si danno, né si possono dare, l’esistenza, ma la ricevono, l’esistenza è distinta dall’essenza; perciò l’esistenza di esse è per esse accidentale. Quindi non è necessario che un essere contingente, per il fatto solo che è concepito (che c’è l’idea di esso, significante la sua essenza), esista; affinché esso esista, la sua idea o essenza dev’essere realizzata dal creatore, e quest’atto di realizzazione, dipendendo dalla volontà di Dio, può effettuarsi o no (onde l’esistenza è, come s’è detto, contingente per le creature). La tesi dell’identità e coincidenza dell’essenza e dell’esistenza in Dio è già implicita nel De

Essenza hebdomadibus di Boezio; e da Boezio la accoglie la Scuola di Chartres, e la svolge. Il realismo della Scuola di Chartres è sulla linea del pensiero di Anselmo, che dal concetto dell’essenza di Dio come «id quo maius cogitari nequit» (Proslogion, cap. 2) deduce l’affermazione dell’esistenza reale di Dio (perché altrimenti si potrebbe pensare un essere maggiore di lui), proponendo così per la prima volta nella storia del pensiero quell’argomento che fu poi chiamato da Kant ontologico. Anche Bonaventura affermò poi l’esistenza di Dio in base al concetto che ne abbiamo. Nella proposizione «Dio è», egli dice che il predicato è incluso nel soggetto. «Sic igitur, his praesuppositis, intellectus intelligit et dicit primum esse est, et nulli vere esse convenit nisi primo esse, et ab ipso omnia habent esse, quia nulli inest hoc praedicatum nisi primo esse. Similiter simplex esse est simpliciter perfectum esse: ergo est quo nihil intelligitur melius. Unde Deus non potest cogitari non esse» (Collationes in Hexaemeron, V, n. 31, in Opera omnia, edita studio et cura pp. Collegii a S. Bonaventurae, Quaracchi 1883-1902, vol. V, p. 359); «Deus sive summa veritas... non potest non esse nec cogitari non esse. Praedicatum enim clauditur in subiecto» (In I Sent., distinctio 8, parte I, art. 1, q. 2, conclusione: ibi, vol. I, p. 155); «Si Deus est Deus, Deus est; sed antecedens est adeo verum quod non potest cogitari non esse; ergo Deum esse est verum indubitabile» (Quaest. disp. de mysterio Trinitatis, q. 1, art. 1, n. 29: ibi, vol. V. p. 48). Similmente nell’età moderna Cartesio: «Essendomi abituato in tutte le altre cose a fare distinzione fra l’esistenza e l’essenza, io mi convinco facilmente che l’esistenza può essere separata dall’essenza di Dio, e che così si può concepire Dio come non esistente attualmente. Ma, tuttavia, quando vi penso con maggiore attenzione, trovo manifestamente che l’esistenza non può essere separata dall’essenza di Dio più che di quel che dall’essenza di un triangolo rettilineo l’equivalenza dei suoi tre angoli a due retti, oppure dall’idea d’una montagna l’idea d’una vallata; di modo che non vi è minor repugnanza a concepire un Dio (cioè un essere sovranamente perfetto) al quale manchi l’esistenza (cioè al quale manchi qualche perfezione), che a concepire una montagna che non abbia vallata» (Meditationes de prima philosophia, V, in AT, vol. IX, p. 52, tr. it. di A. Tilgher, Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima, in Opere, a cura di E. Garin, Bari 1967, vol. 3661

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Essenza I, pp. 243-244; cfr. Principia philosophiae, I, I, 1415, tr. it. di A. Tilgher riveduta e corretta da M. Garin, I principi della filosofia, in Opere, cit., vol. II). Oltre a questa tendenza, volta a forme accentuatamente realistiche, vi è poi – nell’ambito del pensiero medievale – la tendenza che, sebbene affermi che Dio è l’essere in cui l’esistenza segue necessariamente all’essenza e perciò non si possa concepirlo diversamente, tuttavia, distinguendo l’ordine logico dall’ordine ontologico, esige che il passaggio dall’uno all’altro (e perciò dalla definizione di Dio come essere necessario all’esistenza di lui) sia giustificato in base ad argomenti a posteriori. Su questa linea si trovano Avicenna (cfr. S. Munk, Mélanges de philosophie juive et arabe, Paris 19272 [rist. 1955], p. 358; Carra de Vaux, Avicenna, ivi 1900, cap. 9), Gaunilone (cfr. il Liber pro insipiente), Domenico Gundisalvi, che nei suoi trattati, come nel De processione mundi, si ispira al grande filosofo arabo (cfr. G. Bülow [a cura di], Des Dominicus Gundissalinus Schrift “Von dem Hervorgange der Welt” = (De processione mundi), Münster 1925), e, in particolare, Mosè Maimonide e Tommaso. Maimonide, ispirandosi pure ad Avicenna, così scrive: «È noto che l’esistenza è un accidente dell’ente; per questo, è un concetto aggiunto alla quiddità dell’ente. Questa è una cosa evidente e necessaria per tutto ciò la cui esistenza ha una causa: la sua esistenza è una cosa aggiunta alla sua quiddità. Ciò la cui esistenza non ha causa è Dio soltanto: questo è il significato di quando diciamo che Egli è l’esistenza necessaria. La Sua esistenza è la Sua essenza e la Sua reale natura, e la Sua essenza è la Sua esistenza, e non è dotata di accidenti; se li avesse, infatti, la loro esistenza sarebbe una cosa aggiuntiva» (Le Guide des égarés, tr. fr. di S. Munk, vol. I, Paris 1856 [nuova ed. 1930; rist. 1960], pp. 230-232, tr. it. La Guida dei perplessi, a cura di M. Zonta, Torino 2003, p. 206). Lo stesso Maimonide, commentando le famose parole dell’Esodo (III, 14) «Ego sum qui sum» e «Qui est misit me ad vos», dice: «Dunque, Dio allora fece sapere a Mosè la conoscenza che Egli avrebbe dato loro, perché essi verificassero l’esistenza della divinità. Ossia: “Io sono Colui che sono”. Questo è un nome derivato dal verbo “essere”, che significa esistenza, perché “essere” designa il concetto: è; e non c’è differenza, nella lingua ebraica, se tu dici: è, o: esiste. Tutto il mistero sta nella ripetizione della 3662

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parola stessa che indica l’esistenza in forma di proposizione relativa. Infatti, “Colui (che)” richiede che si menzioni la proposizione relativa legata ad esso, perché è un termine manchevole, che ha bisogno di un legame; ha il senso che, in arabo, hanno: colui (che), e: colei (che). Il primo termine, ossia quello cui viene riferita la proposizione relativa, è “Io sono”; il secondo termine, che è la proposizione relativa, è “(Io) sono”, ossia lo stesso. È come se si spiegasse che l’oggetto dell’attribuzione e l’attributo coincidono; e questo spiega che Egli esiste, ma non mediante l’esistenza. Si può sintetizzare e spiegare così questo concetto: l’esistente che è l’esistente, oppure: l’esistenza necessaria. Questo è ciò cui induce necessariamente la dimostrazione: vi è un’esistenza necessaria, che non è mai stata, né mai sarà inesistente, come io dimostrerò» (op. cit., I, pp. 282-283, tr. cit., pp. 229-230). Questo rapporto d’identità fra essenza ed esistenza in Dio costituisce uno dei punti fondamentali della filosofia di Tommaso, il quale così scrive: «Dio non è soltanto la sua essenza, come è già stato provato, ma anche il suo essere (o esistenza). Il che si può dimostrare in molte maniere. Primo, tutto ciò che si riscontra in un essere, oltre la sua essenza, bisogna che vi sia causato o dai principi dell’essenza stessa, quale proprietà della specie, come l’avere la facoltà di ridere proviene dalla natura stessa dell’uomo ed è causato dai principi essenziali della specie; o che venga da cause estrinseche, come il calore nell’acqua è causato dal fuoco. Se dunque l’esistenza di una cosa è distinta dalla sua essenza, è necessario che l’esistenza di tale cosa sia causata o da un agente esteriore, o dai principi essenziali della cosa stessa. Ora, è impossibile che l’esistere sia causato unicamente dai principi essenziali della cosa, perché nessuna cosa può essere a se stessa causa dell’esistere, se ha un’esistenza causata. È dunque necessario che le cose, le quali hanno l’essenza distinta dalla loro esistenza, abbiano l’esistenza causata da altri. Ora, questo non può dirsi di Dio; perché diciamo che Dio è la prima causa efficiente. È dunque impossibile che in Dio l’esistere sia qualche cosa di diverso dalla sua essenza. Secondo, perché l’esistere è la qualità di ogni forma o natura; difatti la bontà o l’umanità non è espressa come cosa attuale se non in quanto dichiariamo che esiste. Dunque l’esistenza sta all’essenza, quando ne sia distinta, come l’atto

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alla potenza. E siccome in Dio non v’è niente di potenziale, come abbiamo dimostrato sopra, ne segue che in lui l’essenza non è altro che il suo esistere. Perciò la sua essenza è la sua esistenza. Terzo, allo stesso modo che quanto è infocato, e non è fuoco, è infocato per partecipazione, così ciò che ha l’essere e non è l’essere, è ente per partecipazione. Ora, Dio, come si è provato, è la sua essenza. Se dunque non fosse il suo (atto di) essere, sarebbe ente per partecipazione e non per essenza. Non sarebbe più dunque il primo ente; ciò che è assurdo affermare. Dunque Dio è il suo essere e non soltanto la sua essenza» (Sum. theol., I, q. 3, art. 4, tr. it. La somma teologica, a cura dei domenicani italiani, testo lat. dell’ed. leonina, vol. I, Bologna 1985, pp. 102-104; cfr. anche q. 3, art. 6). Con ciò, però, Tommaso non intende accettare l’argomento di Anselmo; ché anzi in esso vede appunto un indebito passaggio dall’ordine logico all’ordine della realtà (cfr. C. Gent., I, 10-11). Non molto diversamente Immanuel Kant respingerà lo stesso argomento. Invero l’esistenza, osserva Kant, appunto perché non fa parte dell’essenza di un concetto non è una nota che, come le altre, aumenti e diminuisca il contenuto del concetto stesso, secondo che sia aggiunta o tolta ad esso. L’esistenza è la posizione non già relativa ma assoluta di una cosa, e appunto perciò si distingue da ogni altro predicato che, in quanto tale, è posto sempre relativamente a un’altra cosa o soggetto, ossia indica un modo di essere di una cosa o soggetto, e quindi è una posizione relativa, non assoluta. Perciò l’esistenza, sebbene sia da noi adoperata come predicato, non è propriamente un predicato, e per conseguenza non aggiunge nulla al concetto di cui si afferma. Io, p. es., posso rappresentarmi cento talleri d’oro con tutti i caratteri che hanno cento talleri realmente esistenti; quindi i detti caratteri o note non differiscono punto da quelli di cento talleri reali (il contenuto del concetto di un oggetto resta, come abbiamo detto, sempre lo stesso, sia che l’oggetto esista sia che non esista); ma è un’altra questione se i talleri da me concepiti esistano in realtà. Questo non mi può essere attestato se non dall’esperienza: io debbo quindi uscir fuori del concetto dell’oggetto. Ora, mentre ciò è possibile nella conoscenza degli oggetti sensibili, non è possibile invece rispetto agli oggetti del pensiero puro e, quindi, rispetto a Dio (cfr. Kritik der rei-

Essenza nen Vernunft, Transzendentale Dialektik, l. II, cap. 3, sezione 4, tr. it. di G. Colli, Critica della ragione pura, Milano 1976, pp. 618-626). Nella scolastica post-tomistica la questione della distinzione fra l’essenza e l’esistenza negli esseri contingenti, che era stata bensì affermata ma senza determinarne la natura, fu ulteriormente sviluppata nella discussione se tale distinzione fosse reale o ideale, cioè se fosse una distinzione fra due entità realmente distinte o soltanto fra due aspetti di un’unica indistinta realtà. Ovviamente, secondo che l’esistenza è concepita o come atto di una potenza, appunto l’essenza, o come modalità o condizione di attualità dell’essenza diversa dalla modalità o condizione della medesima allo stato di semplice possibilità, il concetto di essenza è notevolmente diverso: nel primo caso l’essenza e l’esistenza sono entrambe elementi costitutivi dell’ente e l’essenza è concepita come limite dell’essere e ciò secondo cui l’essere si attua, dando così maggior rilievo all’essere stesso; nel secondo caso l’essenza è tutto, e non una parte costitutiva dell’ente, e le due condizioni di semplice possibilità o di esistenza di fatto non modificano la struttura dell’ente. Per questo motivo altra è la concezione dell’essenza nei sostenitori della distinzione reale, quale è stata generalmente ammessa nella scuola tomistica, e altra nei sostenitori della distinzione ideale o meramente logica, quale si trova in Giovanni Duns Scoto e nella scuola scotista, e in Francisco Suárez e nella sua scuola. Nella filosofia moderna, durante il periodo della seconda scolastica, il concetto di essenza non ha avuto una particolare rilevanza o una trattazione specifica, anche se il termine fu in uso, come in Baruch Spinoza, Nicolas Malebranche, John Locke e Gottfried Wilhelm Leibniz. In seguito, lo stesso concetto entrò in crisi. V. LA CRISI DELLA FILOSOFIA DELL’ESSENZA. – Decisivo in tal senso è stato il contributo dell’empirismo, per il quale, a partire da Locke, l’essenza diviene un che di meramente «nominale», riducendosi a semplice caratterizzazione del significato di un termine: sicché non viene più riferita alle cose, come nella metafisica classica, bensì soltanto alle parole. Questo orientamento di fondo, la cui presenza è storicamente rinvenibile nello stesso criticismo kantiano ed è attestata soprattutto dalla tendenza a equiparare l’analiticità delle proposizioni a una mera tautologicità, è tuttora egemone all’in3663

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Essenza terno della filosofia analitica: si pensi soltanto al modo ormai divenuto classico in cui Willard van Orman Quine ha affrontato la suddetta questione dell’analiticità nel celebre saggio Two Dogmas of Empiricism (ora in From a logical point of view, Cambridge [Massachusetts] 1961, tr. it. Due dogmi dell’empirismo, in Da un punto di vista logico, a cura di P. Valore, Milano 2004). Ma la crisi della filosofia che, nel solco della tradizione classica, afferma il valore dell’essenza può essere compresa in tutto il suo significato soltanto quando si muova dall’interpretazione che dell’essenza ha presentato la logica hegeliana. In questa l’essenza (Wesen) è concepita come «la verità dell’essere» (Die Wissenschaft der Logik, in Gesammelte Werke, vol. XXI, a cura di F. Hogemann e W. Jaeschke, Hamburg 1985, tr. it. di A. Moni riveduta da C. Cesa, Dottrina della scienza, Bari 19682; tutto il l. II è dedicato all’essenza): l’essere è immediato, mentre l’essenza è la mediazione, la riflessione: l’essere che si riflette su di sé. Infatti, mentre la logica dell’essere è caratterizzata da categorie meramente quantitative e qualitative, la logica dell’essenza si fonda sulle categorie relazionali (fondamento, sostanza, causa) e modali (possibilità, realtà, necessità), che sono proprie delle scienze a maggiore componente teorica e delle filosofie più progredite, anche se nemmeno esse rappresentano il culmine della razionalità perché ancora superiore è il livello del concetto e quindi, conclusivamente, dell’idea. Così Hegel riassume la dialettica dell’essenza: «L’essenza pare anzitutto in se stessa, ossia è riflessione; in secondo luogo appare; in terzo luogo si rivela» (tr. cit., vol. II, pp. 8-9). Notevolmente significative per il nostro assunto sono qui le determinazioni della riflessione: l’identità, la differenza e la contraddizione (pp. 29-30). Ponendo il principio della contraddizione (verso il quale muovono l’identità e la differenza), Hegel decisamente sovverte il principio della logica tradizionale: la sua logica del concreto, per spiegare il divenire, stabilisce che tutto si contraddice: non vi è cosa che sia staticamente uguale a se stessa, «tutte le cose sono in sé stesse contraddittorie» (ibi, p. 69). Ciò significa che le essenze non sono più immutabili come affermava la metafisica tradizionale: esse mutano perché solo così, secondo Hegel, sono possibili il cangiamento e la vita, o meglio solo così è possibile lo spirito. 3664

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Tuttavia si può dire che, posta in questo modo una nuova condizione per una più energica affermazione delle essenze, è posta nello stesso tempo la condizione di quella crisi che porterà a negarne il significato logico-metafisico. E invero se l’essenza muta e alla sua contraddittorietà intrinseca è affidato il mutamento, l’essenza di ogni essere reale cessa di esistere come essenza: essa, infatti, in tanto è essenza in quanto costituisce una determinata natura di un essere reale, cioè in quanto è identica a se stessa; ma se è contraddittoria, e perciò non è più identica, non costituisce più alcuna natura, e così cessa di essere quale essenza. Ciononostante si può dire che Hegel abbia comunque contribuito alla delineazione di un nuovo concetto di essenza, caratterizzato primariamente dall’opposizione alla nozione di fenomeno. In questo senso, che è penetrato anche nel linguaggio comune, l’essenza indica una struttura profonda, tale da spiegare la realtà senza fermarsi ai modi in cui essa si presenta immediatamente. Sulla linea di questa contrapposizione hegeliana dell’essenza all’immediatezza si è collocato il marxismo, per il quale, p. es., l’economia «volgare» si limita a descrivere l’apparenza del modo di produzione capitalistico (il fatto apparente che sia il capitale a produrre il profitto), mentre l’«essenza» di tale modo di produzione è data dalla nozione del pluslavoro. Un ritorno sui generis all’immutabilità delle essenze nel senso platonico-aristotelico, nel senso cioè delle essenze universali, è segnato dalla fenomenologia di Edmund Husserl, che vuol essere una scienza di essenze pure, apprese intuitivamente nell’esperienza vissuta. «L’essenza (ei\do") – dice Husserl – è un oggetto di una nuova specie. Come ciò che è dato nell’intuizione di qualcosa di individuale o intuizione empirica è un oggetto individuale, così ciò che è dato nell’intuizione eidetica è una essenza pura» (Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, in Hua, vol. 3, Den Haag 1976, § 3, tr. it. di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Torino 2002, p. 17). Sebbene affine al realismo platonico-aristotelico, questa interpretazione delle essenze come strutture immutabili vuole però rimanere oggetto «neutro», sia rispetto al punto di vista psicologico sia rispetto a quello metafisico; e in ciò è una delle note più rilevanti della ricerca fenomenologica. Ma, resa «neutrale» rispetto agli

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esistenti (e a ciò concorre il metodo dell’epoché o dell’Ausschaltung), l’intuizione fenomenologica non poteva non provocare l’esigenza di ridar valore all’immediata realtà dell’essere presente, all’esistenza nella concretezza della sua vita temporale. Nasce così la crisi della filosofia della essenza con l’esistenzialismo, che muove, appunto, contro ogni posizione di pensiero che si irrigidisca nella teorizzazione di essenze pure o universali. Il ripudio dell’«oggettivazione» coinvolge nella medesima condanna intellettualismo e razionalismo: Aristotele ed Hegel. L’esistenzialismo, particolarmente con Sartre, sostiene un primato dell’esistenza sull’essenza, nel caso privilegiato dell’uomo: il modo d’essere proprio dell’uomo si può comprendere solo a partire dal suo «esserci», cioè dal suo esisterenel-mondo e con-gli-altri. L’essenza non precede più l’esistenza, ma è, invece, l’esistenza che precede l’essenza, poiché se l’esistente avesse dietro di sé un quid già definito non potrebbe più decidere di sé, del suo destino: l’esistente crea ciò che vuol essere, produce la sua essenza. La scelta, secondo Sartre (che questo aspetto dell’esistenzialismo ha espresso appunto nel modo più vigoroso), dev’essere tale da rimettere sempre in questione il nostro passato: noi dobbiamo scegliere perpetuamente, perché soltanto così non si è vincolati all’essenza precostituita (cfr. L’être et le néant, Paris 1943, p. 560). La crisi giunge così a quella che fu definita «la sconnessione dell’essere» (L. Stefanini, Esistenzialismo teistico ed esistenzialismo ateo, Padova 1952, p. 4), per la quale l’opposizione fra essenza ed esistenza distrugge la stessa libertà: poiché questa è possibile soltanto ove si ponga l’unità di un fine, l’esistenza, tendendo ad attuare in sé tutte le virtualità della propria essenza, già in sé deve contenere l’essenza stessa, come suo intimo principio sostanziale. Se l’esistenza non avesse la sua radice nell’essenza, la persona sarebbe ignota a se stessa: l’unità e identità dell’esistente sarebbero illusione. Notevole importanza assume l’analisi del concetto di essenza eseguita da Xavier Zubiri (cfr. Sobre la esencia, Madrid 19724 [1962]). Il filosofo spagnolo mira al ristabilimento della «struttura radicale della realtà e del suo momento essenziale»; l’essenza, come principio, è principio strutturale della sostantività, suo momento ultimo. G. Capone Braga - D. Sacchi

Essenziale BIBL.: M.-D. ROLAND-GOSSELIN, Le «De ente et essentia» de st Thomas d’Aquin, Paris 1926; E. GILSON, L’être et l’essence, Paris 1948 (1962), tr. it. di L. Frattini, L’essere e l’essenza, Milano 1989; A. HAYEN, La communication de l’être d’après st. Thomas d’Aquin, Paris-Louvain 1957-59; C. FABRO, Partecipazione e causalità secondo s. Tommaso d’Aquino, Torino 1961; C. FABRO, La nozione metafisica di partecipazione secondo s. Tommaso, Torino 1963 (Milano 1939; ora in Opere complete, vol. III, Segni 2005); B.A. BRODY, Identity and Essence, New Jersey 1980. ➨ A PRIORI - A POSTERIORI; ACCIDENTE; ATTRIBUTO; CONCETTO; COSA; DEFINIZIONE; EIDOS; ENTE; ESISTENZA; ESISTENZIALISMO; ESSENZIALISMO; ESSERE; FORMA; GENERE; IDEA; QUIDDITÀ; SOSTANZA; UNIVERSALE; UNIVERSALI, PROBLEMA DEGLI; WESENSCHAU.

ESSENZIALE (essential; wesentlich; essentiel; Essenziale esencial). – Si dice di quanto appartiene all’essenza, ed è perciò costitutivo della specifica definizione di una cosa, in opposizione ad accidentale (si dice di ciò che sopraggiunge alla cosa già presupposta nella sua definizione). Essenziale si oppone anche a esistenziale, come l’essenza all’esistenza, e significa ciò che è intrinsecamente necessario in opposizione al dato contingente e mutabile. Così, secondo la filosofia classica. Sostanzialmente immutato resta il senso del termine nella filosofia moderna. Per Cartesio essenziale è quanto costituisce il nucleo immutabile delle cose, in opposizione alle determinazioni mutabili (Principia philosophiae, l. I, Amsterdam 1644, pp. 51 ss.). Per Spinoza essenziale è ciò senza cui una cosa non può né esistere né essere pensata (cfr. Ethica, II, definitio 2, propositio 10). Locke dice essenziale ciò per cui una cosa è quello che è: la sua reale costituzione materiale interna, da cui dipendono le qualità esterne. Per Ardigò essenziali sono «i dati fenomenici più o meno stabilmente connessi; o quegli atti coscienti che accade si trovino costanti nella rappresentazione dell’oggetto» (Opere filosofiche, vol. I, Padova 1882, pp. 63, 123). Rosmini definisce essenziale «ciò che si comprende nell’idea di qualunque cosa» (cfr. Nuovo saggio sull’origine delle idee [1830], t. II, a cura di G. Messina, Roma 2004, pp. 72 ss.). Per Husserl essenziale è ciò che risulta dalla riduzione eidetica, il puro «eidos» o essenza pura che si oppone alla datità di fatto intesa come esistenza o individualità (Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phä3665

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Essenzialismo nomenologischen Philosophie [1913], in Hua, vol. 3, Den Haag 1976, pp. 46-60, tr. it. di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Torino 2002, vol. I, pp. 4765). La «scienza di essenze» pura (die Wesenschauung) è appunto pura intelligenza dell’eidos, non implica come tale nessuna forma di affermazione di ordine esistenziale (ibi, pp. 6 ss.). Kierkegaard chiama conoscenza essenziale (wesentliche Erkenntnis) la conoscenza eticoreligiosa, opponendola al tipo intellettualistico di conoscenza razionale astratta che non ci fa conoscere il vero valore, l’essere reale delle cose, ma solo il loro essere possibile. F. Borgato BIBL.: M. GIANNASI, Ontologia e intenzionalità: idee per una semantica dell’essere, Padova 2003. ➨ ACCIDENTE; EIDOS; ESISTENZIALE; ESSENZA; WESENSCHAUUNG.

ESSENZIALISMO (essentialism; EssentialiEssenzialismo smus, Wesensphilosophie; essentialisme; esencialismo). – Termine coniato per contrapposizione a esistenzialismo, e usato in forma molto generica per designare quei sistemi filosofici che, affermando il primato dell’essentia sull’existentia, tendono a ridurre l’ente alla propria dimensione essenziale trascurandone gli aspetti concreti e contingenti. In questo senso, il termine è usato ad esempio da E. Przywara ed E. Gilson: come, si dice, l’esistenzialismo è risoluzione dell’essenza nell’esistenza, così l’essenzialismo è riduzione dell’esistenza all’essenza. Ma la relativa incertezza di queste denominazioni è attestata dalla varietà delle filosofie che di volta in volta vengono poste sotto l’una o l’altra di esse: all’essenzialismo, ad esempio, è stato ascritto il pensiero di Platone, Agostino, Duns Scoto, Cartesio, Kant, Hegel, Husserl (per contrasto alle filosofie dell’esistenza di Heidegger, Jaspers, Sartre). A.M. Moschetti BIBL.: F. MEYER, Essentialism, London 1950; L.-B. GEIGER, Existentialisme, essentialisme et ontologie existentielle, in Philosophie et spiritualité, Paris 1963, pp. 1751; E. GILSON, L’être et l’essence, Paris 1972, tr. it. di L. Frattini e M. Roncoroni, L’essere e l’essenza, Milano 1988. ➨ ESISTENZA; ESSENZA.

ESSER, JOSEF. – N. nel 1910 e m. nel 1999. FiEsser losofo del diritto e civilista tedesco, fu tra i maggiori esponenti dell’ermeneutica giuridica del Novecento. Svolse attività didattica presso 3666

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le università di Greifswald, Innsbruck, Mainz e Tübingen. Esser approfondì i risvolti metodologici e socio-politici del lavoro del giurista, evidenziando come gli interessi e i valori sociali entrino a pieno titolo nel circuito di produzione del diritto, condensandosi in una serie di principi che guidano l’attività interpretativa del giudice. Il concetto di «interpretazione» assume in tal senso un ruolo centrale nella caratterizzazione teorica e filosofica del diritto: richiamandosi a Hans-Georg Gadamer, Esser sottolinea come l’interpretazione giuridica non costituisca un procedimento meramente sussuntivo, ma muova piuttosto dalla «precomprensione» (Vorverständnis) dell’interprete, ovvero da una serie di prevalutazioni che guidano qualsiasi comprensione delle norme e dei fatti, consentendo il continuo adeguamento del diritto alle esigenze sociali. Esser sottolinea come la creatività dell’interprete vada tuttavia sottoposta al controllo critico della dogmatica e della comunità giuridica, cui spetta vagliare la giustezza e la ragionevolezza della decisione giudiziale sotto il profilo argomentativo. D. Canale BIBL.: Wert und Bedeutung der Rechtsfiktionen, Frankfurt am Main 1940; Grundsatz und Norm in der richterlichen Fortbildung des Privatrechts, Tübingen 1956; Vorverständnis und Methodentwahl in der Rechtsfindung, Frankfurt am Main 1970, tr. it. di S. Patti G. Zaccaria, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, Napoli 1983; Wege der Rechtsgewinnung, Tübingen 1990. Su Esser: M. FROMMEL, Die Rezeption der Hermeneutik bei Karl Larenz und Josef Esser, Ebelsbach 1981; G. ZACCARIA, Ermeneutica e giurisprudenza. Saggio sulla metodologia di Josef Esser, Milano 1984; G. ZACCARIA, Precomprensione, principi e diritti nel pensiero di Josef Esser. Un confronto con Ronald Dworkin, in «Ragion pratica», 6 (1998), pp. 135-152.

ESSERE (to be, being; Sein; être; ser). – Il termiEssere ne essere è adoperato, in alcune lingue, p. es. in italiano, oltre che come verbo, anche come nome. Come nome, al concreto, può essere sostituito da ente, nel significato di «ciò che è» (come «uomo», al concreto, indica «un uomo» particolare); al plurale: gli esseri, gli enti. Come verbo, indica o semplicemente la «copula» in una proposizione: il circolo è quella figura geometrica che ha tutti i punti equidistanti dal centro – funzione predicativa o essenziale –; oppure l'«atto di esistere di fatto»: oggi è bel

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tempo, questo circolo è di un decimetro di diametro – funzione esistenziale. Si può adoperare il termine essere come nome con la e minuscola, e allora equivale o, in concreto, a un ente particolare, o, in astratto, all'essere in generale (ed è il significato che più comunemente si intende quando si parla, appunto in generale, dell'essere), oppure con la e maiuscola, e può equivalere sia all'essere per eccellenza, l'assoluto dell'essere, Dio, sia alla totalità di tutti gli esseri. concretamente esistenti. SOMMARIO: I. Il problema dell'essere nel pensiero greco: 1. Parmenide. - 2. Platone. - 3. Aristotele. - 4. Plotino. - II. Il problema dell'essere nel pensiero scolastico medievale: 1. Patristica e inizi della scolastica. - 2. Avicenna. - 3. Tommaso d’Aquino. - 4. Scoto, Ockham, Suárez. - III. Il problema dell'essere nel pensiero moderno: 1. Orizzonti generali per l’interpretazione della problematica. - 2. La corrente henologica: Bruno, H. More, Berkeley. - 3. La corrente sostanzialistica: Spinoza, Leibniz. - 4. La corrente gnoseologica: Descartes, Hobbes, Locke, Hume. - 5. L'idealismo: Kant, Hegel. - IV. II problema dell'essere nel pensiero contemporaneo: 1. La critica radicale alla metafisica dell'essere: Nietzsche e Gentile. - 2. La rinascita ontologica: Husserl, Heidegger e la reazione postheideggeriana. - 3. Cenni sugli sviluppi dell’ontologia nella teologia. - V. Il problema dell’essere nel pensiero del nostro tempo: 1. Dal neopositivismo alla filosofia analitica. - 2. Gadamer, Levinas, Derrida, Vattimo. - 3. Bontadini e Severino. I. IL PROBLEMA DELL’ESSERE NEL PENSIERO GRECO – 1. Parmenide. – Il filosofo, che, per primo, pose nella forma più acuta e radicale il problema dell'essere, fu Parmenide. Eraclito, mettendo in rilievo la mobilità di tutti gli esseri, affermava che, nel flusso generale di tutte le cose, nulla si dava di permanente e di stabile, e che i contrari, che sembravano essere permanenti e stabili, come il giorno e la notte, l'inverno e l'estate, la giovinezza e la vecchiaia, mutandosi l'uno nell'altro, non avendo confini precisi, si identificavano gli uni con gli altri: è una cosa sola la vita e la morte; non è possibile scendere due volte nello stesso corso d'acqua (cfr. H. Diels - W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-526, 3 voll, tr. it. a cura di G. Giannantoni, I presocratici. Testimonianze e frammenti, Roma-Bari 1981, 22 B 67 e 91; cfr. 65, I2 e 49): era essere soltanto il divenire. Parmenide affermò tutto l'opposto: il divenire è

Essere contraddittorio; soltanto l'essere è, e il non-essere, quindi il divenire, non è: l'essere è uno e unico. E dimostrava che il divenire dell'essere è un assurdo perché l'essere o diviene dall'essere o dal non-essere; ma non può venire né dall'essere, perché già ci sarebbe prima di essere, né dal non-essere, perché dal nulla viene nulla. E l'essere è uno e unico, perché le differenze dell'essere sarebbero o essere o non-essere; ma l'essere non può diversificare se stesso, e il nulla non diversifica nulla. L'essere è e il non-e non è. Gli attributi dell'essere quindi sono: l'unicità, l'identità, la necessità, l'eternità, la continuità, l'uniformità. Il principio gnoseologico, che reggeva tutto il ragionamento, era: essere e pensare sono la stessa cosa; la realtà o essere esiste allo stesso modo secondo cui si pensa; le cose sono cosi come vengono pensate. E occorreva seguire la ragione e non i sensi, per aversi la verità; i sensi, che attestano il divenire e la molteplicità, ingannano; divenire e molteplicità sono unicamente parvenze prive di consistenza (ibi, 28 B 7; 8, 60). 2. Platone. – L'antinomia delle posizioni di Eraclito e di Parmenide intorno all’essere provocò la ventata scettica dei sofisti. La dottrina socratica del concetto preparò i tentativi di soluzione. Si intravedeva che al di sopra e al di sotto del particolare mutevole, poteva esserci lo stabile e il permanente: il mobilismo e l'immobilismo potevano essere temperati. Il primo tentativo fu opera di Platone. L'opposizione radicale tra essere e non-essere, che pur sembrava vera, non doveva essere tale in senso assoluto: doveva rimaner vera in un certo senso, ma doveva essere falsa in un altro, affinché non fosse smentita l'evidenza dei dati di fatto. Nei riguardi della «ragione» dovevano essere «salvati» i dati dei sensi. Contro i «figli della terra», che davano diritto di esistenza soltanto agli esseri corporei, contro gli «amici delle forme», che lo davano soltanto a essere privi di materia, contro i mobilisti assoluti della scuola di Eraclito e contro gli statici unitari della scuola di Parmenide, Platone affermò che l’essere, di natura sua, non dev'essere né solo mobile né solo immobile, né solo uno né solo altro, né solo corporeo né solo incorporeo. Tutti gli esseri, in quanto sono, sono esseri, ma sono diversi e se ne danno di mobili, come se ne danno di stabili. È necessario stabilire che vi è un principio dell'essere, diceva Platone, il principio di una 3667

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Essere vera identità fra tutti gli esseri, il tautovn, e un principio opposto, il qavteron, il principio della diversità e della mutabilità, senza invocare però il vuoto di Democrito, che era il mero nulla assoluto, e che andava quindi, se si ammetteva esistente, contro il principio di non contraddizione. L'opposto dell'essere è il non-essere, dice Platone, ma come l’opposto del bello è il non-bello; non perciò è il nulla. Così l'essere fa essere il diverso dall’essere, il non-essere, ma un non-essere che non è il nulla. Essere e diverso si compenetrano a vicenda: il diverso, partecipando dell’essere, esiste; esso però è non-essere; l'essere, a sua volta, partecipando del diverso, rimane diversificato, altro da tutti gli altri, eppure sempre anche essere. In qualche modo il non-essere è e l’essere non è. Ciò che fa essere identico, cioè l'essere, e ciò che fa essere diverso, sono di natura opposta; eppure hanno una natura propria; essi compenetrandosi diversamente, danno origine a tutti gli esseri. II «diverso», così concepito, era il «limite» dell’essere, e, in questo senso, negazione, non-essere; a lui si doveva che un essere fosse soltanto così com’era, ed escludeva che fosse tutti gli infiniti altri esseri; in quanto limite dell'essere reale, era realtà, era un genere dell'essere, ma realtà soltanto in quanto limite dell’essere reale (Soph., 237-249). 3. Aristotele. – Aristotele, sulla scia di Platone, esperì il secondo grande tentativo di critica del parmenidismo quando affermò: Parmenide concepì l'essere aJplw'", univocamente, mentre doveva concepirlo, come dev'essere concepito: pollacw'", secondo molti modi (Phys., A, 3, 186 a 24). L'essere non dev'essere concepito univocamente, perché in questo modo sono concepite le nozioni generiche e specifiche; l'essere invece non costituisce un genere: è al di sopra di tutti i generi (Metaph., B, 3, 998 b 22). Le nozioni generiche sono quelle che si riferiscono a molte specie; queste vengono diversificate da nozioni che sono al di fuori delle nozioni generiche (e perciò è possibile che si dia il vivente ragionante e il vivente non ragionante); ma non si può dare alcuna diversità al di fuori della nozione di essere, perché, se si desse, sarebbe nulla. Perciò le differenze, sono implicitamente contenute nella stessa nozione di essere, che, per essere tale, non ha univocità; ha l'unità dei concetti, che, attribuiti a diversi enti, sono attribuiti in modo analogo (Metaph., G 2, 1003 a 34). Poiché perciò l'esse3668

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re, pensato in generale, include ma non esprime le intrinseche differenze; può essere attribuito a tutti gli esseri, ma la sua unità non viene trasferita negli esseri esistenti di fatto; tutti sono essere, ma essere in modo diverso l’uno dall'altro (appunto, analogia dell’essere). Aristotele si aprì così la via per poter sostenere che l'essere può darsi sia come sostanza che come accidenti. Quando poi definì la metafisica come considerazione dell'essere in quanto essere (Metaph., G, 1, 103 a), intese l'essere in senso generale, cioè si riferì ad ogni cosa che comunque è, esistente o possibile, necessaria o contingente, stabile o diveniente, sostanza o accidente, atto o potenza, affermazione o negazione, considerati però soltanto in quanto sono essere e non secondo le singole particolarità. Poiché però la sostanza in generale e l'ente supremo in particolare sono essere in modo principale, di essi egli ha maggiormente speculato (ontologia e teologia sono parti principali della metafisica dell'essere). Riprendendo poi il discorso contro l'immobilismo parmenideo e seguendo i suggerimenti platonici sulla natura del diverso dall'essere, Aristotele stabilì che l'essere può derivare sia dall'essere sia dal non-essere L’introduzione delle nozioni fondamentali di «atto» e «potenza» permise la dilucidazione speculativa del fenomeno del divenire, proprio come di un passaggio dall’essere-in-atto all’essere-in-potenza, e viceversa. P. es., il divenire bello in atto può accadere se prima vi sia l'essere bello in potenza: l'essere in potenza quanto a qualcosa è il non-essere in atto quanto allo stesso, e l'essere in atto quanto a qualcosa è il non-essere in potenza quanto allo stesso. Aristotele affermò che, per spiegare come mai un ente possa passare dall'essere in potenza all'essere in atto, occorreva ammettere che il sostrato era fatto passare all'essere qualcosa in atto mediante l'azione di un agente, cioè da una causa agente, che operava in vista di un fine: altra cosa era derivare da (ex) un sostrato come da una materia, altra cosa essere prodotto da (ab) un agente; perché il divenire dell'essere sia possibile, si richiede non soltanto un sostrato, o essere in potenza, ma anche un agente il quale, essendo essere in atto, produca il passaggio dall’essere in potenza all’essere in atto (Phys., II, 7, 198 a-b). 4. Plotino. – Plotino, rapito dalla suprema semplicità del primo principio, dell'uno, e quindi

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dalla sua ineffabilità, non gli riconobbe la perfezione dell'essere, perché l'essere, essendo intelligibile, doveva essere già determinato. Egli considerò come essere gli esseri determinati, particolari e concreti, oggetti della nostra intelligenza; e, come Platone aveva ammesso il mondo degli archetipi degli esseri di quaggiù, ossia gli intelligibili puri, cosi Plotino ammise gli esseri ideali esistenti nel nous, gli esseri veri, prodotti allo stato ideale dal nous, contemplante sé come oggetto, come essere perfettamente intelligibile. L'intelligenza suprema, che pensa se stessa, pensa se stessa come essere supremo, e concepisce la sua essenza come determinabile negli esseri ideali particolari, archetipi degli esseri di quaggiù. Il nous non coglie l'essere nelle e dalle cose sensibili; esso è gli esseri allo stato ideale. Nel nous si verifica il principio parmenideo che pensare è essere, e il principio aristotelico che il pensante in atto è il pensato in atto, cioè l'essere. Gli esseri veri, dice sempre Plotino, non sono estranei l'uno all'altro, come gli esseri di quaggiù; essi sono identici e non identici col nous, come nell'anima nostra esistono molte scienze che sono una cosa sola con l'anima, senza confondersi l'una con l'altra. nous ed essere sono vicendevolmente uno prima dell'altro: il nous precede l'essere come condizione della pensabilità dell'essere e della sua possibilità, e l'essere precede il nous perché la possibilità dev'essere fondata sull'essere (Enn., V 9, 5-8). II. IL PROBLEMA DELL’ESSERE NEL PENSIERO SCOLASTICO MEDIEVALE: – 1. Patristica e inizi della scolastica. – Non c'è in Agostino una vera e propria trattazione sull'essere, benché egli abbia ravvisata un'impronta della Trinità nell'esse, nosse e velle dell'anima umana. L'essere ineffabile poi del De divinis nominibus dello pseudo-Dionigi è propriamente l'essere divino, e non l'essere in quanto essere in generale. Né vi è una trattazione specifica sull'essere in generale in Scoto Eriugena, anche se la «natura», nel De divisione naturae, possa essere considerata come l'essere nella sua totalità, e le «parti» in cui è «divisa» la «natura» siano: la natura non creata che crea (dans esse nec recipiens), la natura creata che crea (recipiens esse et dans), natura creata che non crea (recipiens esse nec dans), natura non creata che non crea (nec recipiens esse nec dans), secondo l'interpretazione di Guglielmo d'Auvergne (cfr. A. Masnovo, Da Guglielmo

Essere d'Auvergne a s. Tommaso d'Aquino, I, Milano 1930, p. 253). Né v'è una trattazione intorno all'essere in Anselmo d’Aosta, benché si abbia in lui l'argomento ontologico: si tratta infatti del passaggio dall'essenza di quell'essere, che è l'essere necessario, alla sua esistenza. 2. Avicenna. – Una ripresa del problema dell'essere in generale si ha in Avicenna, non soltanto perché egli incentra la sua speculazione metafisica sulla distinzione fondamentale tra il possibile-esse e il necesse-esse, ma perché si trova in lui, derivata da al-Farabi, la distinzione tra l'essenza e l'esistenza (quale poi passerà in Tommaso). Egli afferma che un essere può essere eterno ratione essentiae, se è tale che la sua essenza sia incausata, o ratione temporis, se è tale che la sua esistenza non abbia avuto inizio. L'essere eterno, che esiste a motivo della sua essenza, è il necesse-esse, ed è quell'essere «quod si ponatur non esse implicat contradictionem», mentre il possibile-esse non ha nessuna necessità né di essere né di non essere. Si può dare il necesse-esse per se, e il necesse-esse per aliud: questo secondo non è destinato a passare dal non-essere all'essere, ma ha la sua eternità di esistere dal necesse-esse per se. Questo è semplicissimo, unico, bene sommo, atto puro, intelligenza che intende se stessa. Siccome poi la necessità di esistere appartiene soltanto al necesse-esse, negli altri esseri, quali sono gli uomini o gli alberi o i cieli, l'esistenza non entra a far parte della loro essenza, ma se ne distingue, è «quid concomitans rem tamquam proprietas vel accidens commune» (cfr. Metaphysices compendium, Roma 1926, p. I, tr. 5, art. 3; p. II, tr. 1, cap. 1 e 10; tr. 2, cap. 1). 3. Tommaso d’Aquino. – Una ontologia, o metafisica dell'essere in generale o dell'essere in quanto essere, si trova in Tommaso, che ha sviluppato le dottrine aristoteliche e avicenniane. La nozione di essere non è una nozione generica, perché contiene in sé tutte le sue diversificazioni (De verit., q. 1, art. 1; Sum. theol., I, q. 4, art. 1; C. Gent., I, 25; Q. disp. De an., art. 6), contenenza che la rende trascendentale, nel senso che trascende tutti i generi, tutte le specie, tutte le individuazioni, si riferisce cioè a tutto ciò che è: tutto contiene ed ogni cosa trascende. Per ciò stesso è una nozione analoga, cioè non univoca né equivoca; nessun essere è essere allo stesso modo di un altro, eppure è in tutto e per tutto essere, cioè non nulla. Tommaso precisa che l'analogia propria 3669

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Essere della nozione di essere è tanto di attribuzione quanto di proporzionalità propria; vi è cioè un essere che è essere in modo principale e altri esseri che sono tali secondariamente, ossia per rispetto al principale (e in ciò sta la diversità fondamentale tra gli esseri), benché tutti siano veramente essere e non nulla: così gli accidenti sono esseri, ma in relazione e in dipendenza essenziale, nel concetto e nella realtà, dalla sostanza. Le sostanze, come avevano detto Aristotele e Avicenna, sono i primi tra gli esseri. Così le creature sono esseri, ma con una dipendenza pure essenziale dall'essere assoluto. Egli veramente, essenzialmente, necessariamente è essere, le creature lo sono secondariamente, contingentemente, perché possono anche non essere. È l'applicazione alla nozione e alla realtà dell'essere delle relazioni di metessi e di mimesi, che Platone aveva stabilite fra le Idee di lassù e le cose di quaggiù (C. Gent., II, 15). Evidentemente gli esseri, per essere radicalmente diversi, devono essere costituiti ontologicamente diversi. Soccorsero a Tommaso quattro principali dottrine, una platonica, un'altra aristotelica, una terza plotiniana e una quarta avicenniana: la prima, della semplicità e assoluta essenzialità e unicità dell'idea; la seconda della composizione di atto e di potenza in ogni essere diveniente; la terza, ricevuta attraverso il De causis, della composizione nel nous di atto di intelligenza e di materia intelligibile, per potersi diversificare dall'uno semplicissimo, o primo principio e causa causarum; la quarta, della composizione di essenza e di esistenza in ogni possibile o contingente. Egli poté perciò affermare il principio generale che ogni essere o è atto puro, o è un composto di atto e di potenza: nell'ordine supremo dell'essere, e dato che si danno essere contingenti, la cui esistenza di fatto presuppone necessariamente la causa da cui devono aver ricevuto l'essere, egli ammise che esiste di fatto l'assoluto dell'essere, l'ipsum esse subsistens, atto puro sotto ogni rispetto, semplicissimo, perfettissimo e unico nel modo assoluto dell'essere, ed esistono altri esseri, i quali in tanto esistono di fatto in quanto dipendono da lui, e non sono né possono essere atti puri dell'essere, ma atti dell'essere che fanno esistere tante essenze diverse particolari. Queste danno all'essere stesso un certo grado, ne sono la misura, lo limitano, sono imitazioni fini3670

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te e partecipazioni non essenziali dell'essere assoluto, come Platone aveva detto che il «diverso» dall'essere era il limite dell'«identico», e che le forme delle cose sensibili erano imitazioni e partecipazioni, ricevute nella cwvra, delle idee, sussistenti nella loro purezza, immaterialità e unicità. II passo avanti, che Tommaso fece fare alla distinzione tra essenza ed esistenza nelle cose create, fu di applicare all'essenza e all'esistenza la teoria aristotelica dell'atto e della potenza (concependo l'esistenza come atto degli esseri e non semplicemente come lo stato o condizione degli enti esistenti nei confronti degli stessi in quanto possibili), stabilendo così che la distinzione dovesse essere di natura non soltanto concettuale, ma reale (In I Sent., d. 19, q. 2, art. 2; C. Gent., II, 52; De ente et ess., cap. 5). Secondo queste posizioni tomistiche, l'essere è e rimane veramente la «stoffa» di tutti gli esseri, e di tutto ciò che gli esseri sono. L'essere è tutto, tutta la realtà, e l'essere è massimamente reale. Tutti gli esseri, compreso Dio, sono «radicati» nell'essere; l'essere è il «fondo» e il «fondamento» di tutti gli esseri. Queste metafore però (stoffa, radice, fondo, fondamento) devono, almeno secondo le posizioni tomistiche, essere intese rettamente quando vengono applicate all'essere, e occorre distinguere l'essere, nella nozione che ne abbiamo, e l'essere ontologicamente reale. La nozione, o concetto di essere, per Tommaso, riguarda l'essere in generale; essa, nella sua generalità non si riferisce a un essere particolare, appunto come l'umanità, per cui tutti gli uomini sono uomini, non si riferisce a un uomo determinato, ma a tutti, indeterminatamente; perciò ad essa non corrisponde nessun uomo particolare; tutti gli uomini sono uomini perché realizzano in sé una particolare umanità; ma non si dà, come diceva Aristotele contro Platone, una umanità ontologicamente esistente che corrisponda al concetto generale di umanità. Così è dell’essere in quanto nozione. Far corrispondere alla nozione, così com'è, nella sua generalità, una realtà, fu, secondo Platone, Aristotele e Tommaso, l'inganno in cui era caduto Parmenide. Nella sua realtà poi l'essere non si dà con una sua ontologica unità. Già la nozione generale di essere non ha una unità come quella delle nozioni generiche e specifiche; è una unità di complessità, perché ha in sé intrinseche le sue

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differenze. Non può darsi quindi un essere esistente, corrispondente a tale nozione generale, perché dovrebbe essere la contraddizione sussistente: dovrebbe essere insieme, identicamente, sostanza e accidenti, Dio e tutti gli esseri finiti e creati. La nozione di essere in generale è indeterminatissima, appunto perché si possa riferire a tutti gli esseri; ma un essere esistente, qualunque sia, deve esistere in modo determinato, essere questo e non quello. Perciò l'unità dell'essere ontologicamente esistente non può essere un'unità ontologica: tutti gli esseri sono realmente essere, realizzano tutti l'essere, e in ciò convengono, hanno una unità; ma si tratta soltanto di una unità concettuale, fondata sulla realtà che tutti realizzano l'essere. Questo non vuol dire, per Tommaso, che alcuni esseri non abbiano il loro essere sostentato da altri esseri, o dovuto all’azione di altri esseri: gli accidenti sono sostentati dalla sostanza, e gli esseri creati hanno il loro essere prodotto da Dio. Ma in quanto essere, uno non è mai l'altro; se lo fossero, non costituirebbero che un unico essere. Gli accidenti sono inerenti nella sostanza, sono «radicati», si può dire, nella sostanza, ma non si identificano con la sostanza, appunto perché, in quanto essere sono diversi e distinti dalla sostanza. Può anche dirsi che gli esseri creati siano «radicati» in Dio, come nell'essere che ha dato e dà a loro continuamente l'essere che hanno; ma tra Dio e le creature, innanzi tutto c'è la relazione che corre tra causa ed effetto, e tra causa ed effetto c'è una diversità e distinzione essenzialissima, mentre non c'è la relazione che corre tra sostanza ed accidenti, per non rendere l'assoluto e il perfettissimo, perfettibile da modificazioni che gli inerirebbero. Può parlarsi di «radicamento» nel senso che, come le piante ricevono continuamente la linfa vitale dalla terra e le sono strettamente e inesorabilmente congiunte, anche le creature sono strettamente e inesorabilmente legate a Dio, che influisce loro continuamente l'essere, addirittura dal di dentro delle medesime, e che, in questo senso, è immanente alle medesime («in ipso enim vivimus, movemur et sumus», s. Paolo, Atti, 27, 28); ma la distinzione rimane perfetta, maggiore di altre distinzioni, essendo maggiore la distinzione tra causa ed effetto di quella tra sostanza ed accidenti.

Essere Per Tommaso, infine, sull'essere in quanto essere è fondato il «valore», e sulla metafisica dell'essere è fondata la filosofia dei valori, sia perché l'essere è la perfezione di tutte le perfezioni (Q. disp. De pot., q. 7, art. 2 ad 9um), sia perché proprietà «convertibili» con l'essere sono i principali valori: il vero e il bene (De verit., q. 1, art. 1). Il valore non è altro che l'essere in quanto è perfezione dell'intelligenza come vero; e in quanto attira a sé la volontà, l'amore e ogni forma di desiderio, come bene: sotto il qualificativo di bene si ha ogni forma di bene, qual è il bello per il sentimento, l'onesto per la moralità, il diritto per la socialità, il sacro per la religiosità ecc. Il valore è fondato sull'essere perché secondo la misura di partecipazione all'essere, gli esseri più o meno valgono ontologicamente, e, nel mondo della spiritualità, moralmente. Potendo l'essere attuarsi sia come corporeo, sia come incorporeo (poiché l'essere, in quanto tale, non è determinato ad alcuna forma di essere, non ne esclude alcuna), è evidente che l'essere incorporeo ha un valore maggiore di quello corporeo, perché partecipa maggiormente, per le capacità che ha di intelligenza e di volontà, all'essere: è nei confronti con l'essere che ogni essere ha il suo valore. Il valore della persona umana è fondato sull'essere perché nei confronti con l'essere, nella gerarchia degli esseri, occupa un posto privilegiato: pur essendo l'uomo legato alla specie per la parte corporea, e dovendo quindi dare alla specie la sua collaborazione alla realizzazione del bene comune, è svincolato dalla specie, ed ha rapporti immediati di persona a persona con Dio in virtù della sua spiritualità. 4. Scoto, Ockham, Suárez. – Dopo Tommaso la metafisica dell'essere in generale fu ampiamente trattata da Duns Scoto. La caratteristica più notevole fu quella di aver considerata la nozione dell'essere come una nozione univoca. Pur avendo detto che tale nozione non costituisce un genere, Duns Scoto affermò che l'essere può essere concepito in sé senza che in esso siano incluse le sue differenze; ma una tale nozione è appunto una nozione generica, astratta dalle sue differenze, e perciò univoca (Opus Oxon., I, 3, 2, 24, e 3, 3, 16): Dio e le creature, la sostanza e gli accidenti in quanto a negare di essere nulla, lo negano allo stesso modo. Soltanto se la nozione di essere è univoca, si può affermare – in un ragionamento in 3671

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Essere cui entrino Dio e le creature – qualcosa di Dio partendo dalle creature (ibi, 3, 3, 9; 8, 3, 10). Scoto inoltre non ebbe il concetto di essere in potenza in relazione all'essere in atto; pur parlando di atto e di potenza, di materia e di forma, non aderì alle concezioni aristotelico-tomistiche, che spiegavano il divenire e la diversa costituzione ontologica degli esseri. Negò la distinzione reale, negli esseri creati, tra l'essenza e l'esistenza: ogni essere esistente era un'entità esistente, e in ciò tutte le entità erano perfettamente uguali; diverso era il modo di concepire un'entità possibile e un'entità esistente; nell'entità esistente, indivisa e una, tutto era essenza esistente; si poteva pensare all'essenza distintamente dal fatto della sua esistenza reale, ma nell'entità non c'era una realtà come essenza e un'altra realtà come esistenza: «esse non est aliud ab essentia, [...] esse essentiae differt ab essentia tantum in modo concipiendi» (ibi, IV, 13, 1, 38; III, 6, 1, 2). Guglielmo di Ockham seguì Duns Scoto nelle posizioni della metafisica dell'essere in generale: «omnibus rebus ens est commune univocum, eadem ratione qua est univocum Deo et creaturae» (In I Sent., 2, 9, X); «esse existentiae non significat aliquid distinctum a re; si essent duae res non esset contradictio quod Deus conservaret entitatem in rerum natura sine existentia, vel, e converso, existentiam sine entitate, quorum utrumque est impossibile» (Sum. totius logicae, 3, 2, 27). Formatesi le tre scuole: dei tomisti, degli scotisti e degli occamisti, la metafisica dell'essere venne discussa in polemiche che, a rigore, non portarono un contributo di notevole interesse. Francisco Suárez, che raccolse, nelle sue Disputationes metaphysicae, tutto quanto era stato detto dalla scolastica a lui anteriore, è il più autorevole testimone di questa stasi. Nel prendere poi le sue posizioni, non seguì esclusivamente una determinata scuola: con i tomisti ammise la trascendentalità della nozione di essere, ma affermò che essa aveva una perfetta unità: «conceptus obiectivus entis est secundum rationem praecisus ab omnibus particularibus seu membris dividentibus ens» (ibi, d. 2, sez. 2, n. 8). Egli, se avesse dovuto scegliere, avrebbe preferito negare l'analogia della nozione di essere piuttosto che la sua unità (n. 15). Suárez afferma una certa analogia, ma continuando: «sine dubio habet ens magnam similitudinem cum conceptibus univocis» (d. 28, sez. 3, n. 14). Per il Suárez l'«ens in actu» è l'essere esistente di fat3672

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to, l'«ens in potentia» è l'essere possibile; non vengono considerati, l'atto e la potenza, come i costitutivi dell'essere sia possibile sia esistente di fatto. Non è poi reale, negli esseri creati, la distinzione tra l'essenza e l'esistenza: l'esistenza attuale di una cosa e l'essenza attualmente esistente non sono due realtà distinte (d. 31, sez. 1, nn. 2-13). C. Giacon

III. IL PROBLEMA DELL’ESSERE NEL PENSIERO MODERNO. – 1. Orizzonti generali per l'interpretazione della problematica. – Per meglio orientarsi nella comprensione delle varie prospettive che caratterizzano la riflessione ontologica nell'età moderna sarà utile fare riferimento ad alcuni paradigmi interpretativi generali entro i quali inserire le singole figure e trattazioni. La classica opposizione fra due modelli metafisici, quello henologico e quello ontologico, individua due poli fondamentali dell'ontologia (cfr. G. Reale, «Henologia» e «Ontologia»: i due paradigmi metafisici creati dai greci, in Storia della filosofia greca e romana, Milano 2004, vol. IX, pp. 47-69). Il primo modello intende il principio fondativo del reale come un'origine, che in virtù della propria natura originaria e fondativa, sta prima, oltre e sopra l'essere. Carattere del principio è l'unicità, l'unitarietà, la semplicità; laddove l'essere è al contrario già dualità (forma-materia), totalità di parti, relazionalità. L'essere è infatti una determinazione della potenzialità assoluta del principio, e dunque, in quanto determinazione, qualcosa di derivato e secondo. Il modello ontologico individua invece nell'essere il costituente formale e/o materiale del reale, e in quanto svolge tale funzione, assegna a esso la funzione di origine e principio. L'ontologia intende comprendere l'essere in quanto essere, a partire dalla sua natura sostanziale quale riferimento e sostegno dei molti modi in cui il reale si manifesta. Potremmo definirla corrente sostanzialistica. Tradizionalmente si è soliti ricondurre questi due modelli alternativi a due sistemi filosofici differenti: l'henologia al platonismo, l'ontologia all'aristotelismo (J.M. Narbonne, Hénologie, ontologie et "Ereignis", Paris 2001). Accanto a questi paradigmi è necessario introdurre due particolari declinazioni moderne di problemi filosofici antichi. Innanzittutto la corrente gnoseologica, che a partire dalla distinzione fra soggetto e oggetto, pone sistematicamente a tema il rapporto fra esperienza singolare del reale, sia essa data come sensazione, percezio-

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ne, intuizione, immaginazione, giudizio o raziocinio, ed essere in sé dell'oggetto dell'esperienza, come «fuori» dall'esperienza. Il fascino moderno dello scetticismo, mai veramente sopito, trae la sua linfa vitale dalla dialettica fra ciò che il soggetto prova e ciò che la realtà è: una dialettica che caratterizza tutto il corso dell'epistemologia post-cartesiana (cfr. R.H. Popkin, The History of Scepticism from Erasmus to Spinoza, Los Angeles 1964). In secondo luogo l'esplicita comprensione ontologica di tale questione epistemologica, a partire dalla distinzione kantiana fra phaenomenon, ciò che appare al soggetto, e noumenon, ciò che è in sé al di là del soggetto, viene a mutare il senso del termine idealismo, costituendo così una particolare prospettiva della trattazione della nozione di essere. Al fine di evitare grossolani fraintendimenti è bene tuttavia chiarire che queste correnti interpretative non possono essere intese come caratterizzanti in modo assoluto una certa ontologia, che si mostra sempre più complessa di qualsiasi classificazione critica. Esse vanno invece considerate come orizzonti molto generali ed esprimono l'orientamento di determinati discorsi teoretici, senza che con questo si debba loro assegnare una pretesa indiscutibilità ermeneutica. 2. La corrente henologica: Bruno, H. More, Berkeley. – L'henologia post-rinascimentale è attivata da una comprensione sincretistica del platonismo, già fortemente maggioritaria nel neo-platonismo fiorentino che ha in Marsilio Ficino il proprio esponente di punta. La rinnovata fama critica e filosofica di un autore come Porfirio, mediatore proprio dell'istanza henologica con quella ontologica, è del resto indice di una avvenuta profonda sintesi filosofica (cfr. G. Girgenti, Il pensiero forte di Porfirio. Mediazione tra henologia platonica e ontologia aristotelica, Milano 1996). G. Bruno definisce infatti come essere l'«originale ed universale sustanza del tutto» (De la causa, principio et uno, V). Questa funzione di origine, arché, e sostanzialità, stoichéion, attribuita all'essere sembrerebbero inserire la riflessione bruniana nella scia dell'aristotelismo sostanzialistico di derivazione tomasiana: la dialettica di sostanza e attributi (accidente) è centrale; perché nelle cose niente si annichila di essenziale, se non appunto la manifestazione accidentale, forma esteriore e materiale (De la causa, principio et uno, III). Tuttavia l'apparente simultaneità di originarietà e sostanzialità è in realtà distinta da Bruno in

Essere causalità efficiente e causalità materiale. In quanto causa efficiente il principio è fuori dall'essere delle cose, perché non entra nella composizione delle medesime, agendo dall'esterno, secondo la duplice attività dell'intelletto universale e, a livello inferiore, dell'anima mundi. Solo in quanto causa materiale la sostanza ontologica entra a far parte della generazione e della sussistenza dell'universo. Questa distinzione subisce poi una più accentuata interpretazione neoplatonica con la determinazione della natura del principio: unità, coincidentia oppositorum, incorporea infinità, immobilità (De monade numero et figura, II). L'essere come sostanza è dunque l'essere delle cose, laddove l'essere come principio è uno. Ancora da un punto di vista neoplatonizzante Bruno spiega la possibilità dell'identità delle due nature della causazione come interiorità all'unità dell'intelletto universale, contenente l'anima del mondo, che a sua volta contiene l'universo, il tutto dell'esperienza. Una serie continua di determinazioni del semplice garantiscono la immanenza del tutto al Tutto, e al tempo medesimo la trascendenza progressiva delle sue determinazioni. In modo analogo H. More, nell'affermare l'infinità, l'unità e la divinità dell'universo, si muove in un orizzonte platonizzante, in cui agiscono forti suggestioni aristotelico-tomiste. Nel postulare l'identità dell'estensione divina e quella dell'universo, More intende spiritualizzare il reale, ponendo un essere sostanziale di natura spirituale; così da sottrarre i metafisici alla tentazione di ricondurre all'essere materiale la sostanzialità che fa da sostrato agli attributi di cui si fa esperienza nella sensazione e nel conoscere (cfr. A. Koyré, From the Closed World to the Infinite Universe, Baltimore [Maryland] 1957). Se dunque sembra che ci si trovi in presenza di una nozione elementale del principio, in quanto essere delle cose, More introduce tuttavia, proprio come Bruno, una serie di progressive animazioni del reale (spirito della natura, natura e Dio), che seguono una ispirazione di carattere neoplatonico, tendente a negare una qualsiasi preminenza dell'essere, inteso come composizione, ossia totalità, sulla semplicità originaria dell'uno. Nell'enumerare i titoli attribuiti a Dio, infatti, il platonico di Cambridge insiste sulle determinazioni del principio henologico di matrice plotiniana: uno, semplice, immobile, eterno, completo, indipendente «ecc.» (Enchiridium metaphysicum, VIII, 9). Per 3673

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Essere quanto il tema dell'influenza del platonismo cantabrigense su Berkeley sia polemicamente dibattuto nella letteratura critica, il berkeleismo ha subíto comunque una profonda ricezione del platonismo. Nelle opere di carattere epistemologico, Berkeley afferma che l'essere delle cose è il loro essere percepite. La tesi è di difficile comprensione, perché induce a pensare a una forma germinale di idealismo. Tuttavia Berkeley è molto chiaro nel dire che unica sostanzialità è quella spirituale, e che gli spiriti si distinguono in spiriti finiti, i soggetti, e Spirito infinito, Dio (cfr. Trattato sui principi della conoscenza, §§ 27, 89); così da presentare il proprio sistema come una forma di spiritualismo. L'unico essere è Dio, nel cui spirito, citando Atti 17, 28, Berkeley dice che viviamo, ci muoviamo e abbiamo il nostro essere. L'esse delle cose invece è un essere derivato, insussistente (perché ontologicamente dipendente dallo spirito) e transitorio: nella terminologia bruniana si direbbe una natura accidentale. Lo spirito quindi trascende le cose di cui ha esperienza, e in tale trascenderle le fonda, in quanto volontà e intelligenza. La contrapposizione così posta fra spirito (essere fondante perché percepiente) ed essere (essere fondato perché percepito) viene neoplatonicamente determinata da Berkeley nell'ultima delle sue opere filosofiche (cfr. Siris, in particolare §§ 342 ss.). Lo spirito, vertice delle catene che legano in un’unità il cosmo visibile, è inteso come uno, to hen. In questa determinazione Berkeley, che lega l'ontologia platonica alla rivelazione del nome divino a Mosé (Esodo, 3,14), difende la superiorità dell'uno sull'essere; intendendo la trinità delle ipostasi plotiniane come un'intuizione spirituale, suscitata da una sorta di rivelazione divina extra-cristiana, della uni-trinità divina, secondo l'identificazione del principio henologico con la persona del Padre, dell'essere con quella del Figlio, dell'anima del mondo con quella dello Spirito Santo. 3. La corrente sostanzialistica: Spinoza, Leibniz. – Per quanto sia possibile ravvisare elementi di platonismo sia nella filosofia spinoziana, sia in quella leibniziana (che peraltro rivendicò per il proprio pensiero un orientamento platonico in opposizione all'aristotelismo di Locke), da un punto di vista ontologico entrambi i sistemi sembrano imperniarsi su una dialettica dualistica; che sebbene preveda un momento dell'unità, non è mai risolta in una forma di monismo metafisico tale che le determi3674

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nazioni dell'unità siano una successione di trascendenze, ma è sempre interna alla distinzione di sostanza e attributo: per quanto la sostanza spinoziana sia unica, questa è pura immanenza; per quanto la monade sia nozione di derivazione neoplatonica il sistema di Leibniz è dualistico. Spinoza intende l'essere come equivalente al concepire. Nella definizione della sostanza (Ethica, I, def. 3) scrive infatti che a qualificare la sostanza è il suo essere in sé e, nel medesimo grado, il suo poter essere concepita come un essere in sé. Del resto il reale è pervaso da un parallelismo isomorfico fra ordine del pensiero e ordine dell'estensione; così che l'ordine e la connessione delle idee si presenta equivalente all'ordine e alla connessione delle cose (Ethica, II, prop. 7). Nonostante l'apparenza, questa concezione non è idealistica, perché non è postulata alcuna preminenza del conoscere sull'essere. Si potrebbe anzi dire che il compito metodico del saggio spinoziano sia tradurre l'esperienza singolare dell'ente esistente come modo, nella conoscenza particolare delle cose singolari secondo l'ordine dell'eternità, così da rendere dunque esplicita la corrispondenza implicita di pensiero e realtà (cfr. P.F. Moreau, Spinoza. L'expérience et l'éternité, Paris 1994). L'essere delle cose è dunque un inerire necessariamente nella sostanza, di cui le cose sono modi secondo un certo attributo. L'essere delle cose è cioè espressione del potere ontologico della sostanza; in certo senso si potrebbe dire che le cose si confondono con la sostanza, perché parti di un tutto che non conosce alcuna ulteriorità ontologica rispetto alle parti stesse. Si comprende allora la definizione intensiva dell'essere che Spinoza afferma in una celebre proposizione (Ethica, I, prop. 9): quanto più una cosa ha essere (ossia realtà), tanti più attributi avrà (perché il potere ontologico legato all'essere molto, necessariamente impone una maggiore espressività). La sostanza, che è in sé, ossia non necessita di alcun genere di essere per essere, è essere puro; e, in quanto tale, totalità di ogni realtà, perché essere al massimo grado, e perciò infinità di attributi. Anche Leibniz postula l'equivalenza fra sostanza ed essere, nel senso di essere reale, essere realtà: «la sostanza è un essere (Être) capace di agire» (Principi della natura e della grazia fondati nella ragione, § 1). Questa sostanza è componente, elemento della totalità ontologica. La natura non è altro che una composizione di sostanze

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semplici, le monadi, in sostanze complesse, fra loro in relazione (Monadologia, § 3). In queste sostanze ineriscono gli accidenti, che non hanno realtà al di fuori del sostegno spirituale della monade. Leibniz difende infatti una forma di rappresentazionalismo epistemologico che non necessita di un oggetto esterno, come fonte della rappresentazione; perché la rappresentazione è modificazione interna, e dunque qualità sostenuta, della sostanza spirituale. L'essere della monade si distingue in due accezioni del termine essere: l'essenza e l'esistenza. L'esistenza è essenza reale. L'essenza è infatti di per sé potenziale o reale. L'essenza potenziale è l'essere in quanto possibile. Anche il possibile infatti è, sebbene non sia nel senso della realtà (Wirklichkeit, effettualità), ma solo nel senso che se il possibile fosse reale, allora l'essenza ne sarebbe l'essere (Monadologia, § 43). L'essenza reale è dunque l'essere realtà, ossia esistenza. Per quanto al vertice del reale sia posta una monade, Dio, tale vertice non è determinato da Leibniz nel senso di un'unità originaria della totalità nella semplicità spirituale, dalle cui determinazioni scaturisca la complessità del molteplice; ma come essere necessario, fondamento sia delle essenze che delle esistenze, perciò in sé già articolato in possibile e reale, secondo la dialettica di sostanza e attributo. 4. La corrente gnoseologica: Descartes, Hobbes, Locke, Hume. – Se negli autori precedenti l'interesse per le questioni ontologiche è prioritario, in Descartes e gli autori anglofoni la trattazione ontologica sembra finalizzata a fondare un sistema del conoscere che risponda alle difficoltà sollevate dallo scetticismo epistemologico. In sede critica l'influenza di Heidegger da una parte, e di Bontadini e Severino dall'altra, hanno fatto indulgere gli storici ad utilizzare la categoria di gnoseologismo, al fine di qualificare l'aspetto specifico della rivoluzione cartesiana in filosofia. D’altra parte, la deduzione trascendentale della insuperabilità del cogito, con il suo radicale soggettivismo, è stata spesso interpretata nel senso di una teoria fondazionalista circa l'adeguatezza del conoscere alla realtà (cfr. R. Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton - New York 1979). Anche Descartes intende l'essere nel senso esistenziale dell'essere reale. Già la formula che postula il cogito come principio fondativo del sapere (Principia, I, 7), non fa altro che porre l'equivalenza fra l'attualità di un

Essere pensare, l'essere pensante del soggetto che dubita, e il suo essere nel senso di esistere, ossia in quanto realtà non ulteriormente dubitabile. L'essere stabilisce la natura reale del pensare, perché il soggetto che pensa, in quanto pensa, è. Così indirizzata la riflessione cartesiana, si presenta come un inventario ontologico dei modi d'essere delle esistenze: affermato l'essere del soggetto si tratta di comprendere come, o cosa, sia l'essere dello stesso (cfr. Meditazioni metafisiche, II: «nondum vero satis intelligo, quisnam sim ego ille, qui iam necessario sum...»). Descartes afferma a questo riguardo la natura sostanziale del pensare, le cui varietà sono modificazioni: sensazione, immaginazione, giudizio, pensiero, ragione ecc. La sostanza è essere reale, in quanto massimo grado di realtà; laddove le sue modificazioni, in quanto accidenti, sono un essere ora, che viene dunque caratterizzato come semplice existere. Analoghi argomenti Descartes usa per qualificare la struttura ontologica di un secondo genere di sostanzialità, quella della res estensa. Anche in questo caso l'essere reale è la sostanzialità, le cui modificazioni, in quanto esistenzialità attuale, sono determinazioni particolari di carattere accidentale. Si può quindi dire che Descartes pone l'essere come un esistere assoluto di carattere sostanziale, le cui modificazioni sono un'attualità accidentale di semplici esistenze. Hobbes discute direttamente con Descartes il senso di questa ontologia. Laddove si passa dal pensare all'essere, e non al semplice esistere, Hobbes ravvisa un errore logico fondamentale. Da un'esistenza accidentale, la modificazione del pensare che il soggetto pensante è, non può essere dedotto il suo essere sostanziale, in quanto res cogitans. Con un celeberrimo esempio Hobbes dice che affermare la formula del cogito è equivalente ad affermare che il soggetto è una passeggiata, perché sta passeggiando (cfr. Obiezione seconda «Sulla seconda meditazione»). Il pensatore inglese, che afferma la correttezza dell'inferenza dal pensare all'esistere, non è dunque pronto a seguire Descartes nella caratterizzazione sostanzialistica dell'essere; così da ridurre l'inventario ontologico cartesiano al momento della pura accidentalità. L'essere non è dunque che esistenzialità relativa. Tale esistenzialità relativa è quella legata all'incontro dei corpi, che Hobbes pensa materialisticamente come unico essere reale, e come causa, in quanto agenti sugli organi di senso, delle 3675

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Essere percezioni soggettive. La dualità così posta fra dualismo cartesiano – incerto a risolvere l'essere sostanziale dal lato del pensare o da quello dell'estensione, così da postularlo come realtà tanto del pensiero quanto dell'estensione – e materialismo hobbesiano sancisce la radicale tensione ontologica che anima la riflessione di Locke. Più che di offrire una trattazione della nozione di essere, Locke si occupa di trattare un'ontologia generale dell'esperienza di coscienza, la quale acquisisce il suo senso a partire da una certa metafisica dell'essere, che resta tuttavia sempre implicita (e che causa non pochi problemi agli interpreti). Se da un punto di vista epistemologico l'oggetto del conoscere è sempre interno all'esperienza soggettiva (cfr. Saggio, IV, 21), restando in questo senso imprescindibile il riferimento alla fondazione cartesiana di un nuovo corso del pensare (ossia quella forma implicita di idealismo che porterebbe a ridurre la cosa a idea), da un punto di vista ontologico Locke sembra pensare che l'esperienza soggettiva sia comunque da ricondurre a un'oggettività extra-cogitativa: vale a dire all'essere della cosa che agisce sulla mente. L'esperienza si configura allora come una reazione apparente all'essere; da cui la distinzione fra una secondarietà ontologica, quella di quelle qualità che dipendono dall'interrelazione fra l'apparato sensoriale del soggetto e la cosa percepita, e la primarietà ontologica della cosa data in sé, al di fuori della mente senziente. Contro una simile ontologia Hume afferma la natura immediata dell'accertamento sensibile; e l'intima contraddizione di una teoria realistica che postuli un essere al di là dell'apprensione possibile. In un certo senso Hume sviluppa in senso epistemologico l'intuizione ontologica del pensiero berkeleiano, sebbene senza accettarne l'esito platonizzante. 5. L'idealismo: Kant, Hegel. – La speculazione teoretica kantiana è un applicazione metodica, ed esplicita, del tema centrale dell'ontologia di Locke: l'esperienza della coscienza è un essere-per-il-soggetto della cosa agente sul soggetto stesso; le cui strutture percettive filtrano l'essere della cosa e lo rendono in un apparire. La novità kantiana consiste tuttavia non solo nella metodicità del proprio punto di vista, quanto nel rigore critico e speculativo con cui si pone la distinzione fra momento epistemologico, ossia esperienza della coscienza come accertamento fenomenico dell'essere che ap3676

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pare, e momento ontologico, ossia distinzione fra l'essere come fenomeno e l'essere in sé, vale a dire noumenon. Da un punto di vista soggettivo alla posizione di una cosa in sé corrisponde l'esperienza della medesima nella coscienza. La possibilità di una tale esperienza è garantita dal secondo passaggio della rappresentazione sistematica di tutti i principi sintetici (ossia operanti l'elaborazione dei dati sensibili nella formalità intellettuale, per mezzo della determinazione temporale attuata dal senso interno); vale a dire da ciò che Kant chiama anticipazioni della percezione (cfr. Critica della ragion pura, I.2.I. II.2. sez. III). Tali anticipazioni riguardano la struttura ontologica delle percezioni, ossia la struttura d'essere del fenomeno nel suo poter essere un percetto del soggetto. Esse infatti sono determinazioni sintetiche, e dunque formalità in atto, delle categorie della qualità (realtà-negazione-limitazione): esprimono perciò il grado intensivo di essere che la cosa in sé trasmette alla mente nel far sorgere la percezione. Necessario notare che l'esteriorità della cosa in sé alla coscienza ne renderebbe la sussistenza estremamente problematica per una teoria dell'esperienza; perché la cosa in sé si situa come limite trascendente, e non più trascendentale, dell'esperienza: e infatti Kant ne afferma a più riprese la natura di limite problematico. Tuttavia non sembra idealisticamente possibile dubitare della realtà del noumeno, perché attestata in modo esplicito nelle affermazioni ontologiche di Kant (cfr. N.K. Smith, A Commentary to Kant's «Critique of Pure Reason», Basingstoke [Hampshire] 1923). Ciò nonostante l'ontologia kantiana appare idealisticamente orientata; proprio perché nell'ontologizzare la direzione tematica del pensiero di Locke, Kant intende de-soggettivizzare la struttura empirica della percezione, per mezzo di un trasferimento di datità ontologica, ossia di essere, dall'essere in sé della cosa all'essere di essa per il soggetto. Il soggetto si pone dunque come verità dell'oggetto. Hegel accetta a tal punto questa logica da liberarsi senza timore del ricorso a una esteriorità assoluta al pensiero. Se la cosa in sé trasferisce essere alla rappresentazione nell'anticipazione della percezione, la cosa in sé esaurisce nel trasferimento il suo compito, e si dà un solo essere reale: quello fenomenico. Quanto metodicamente Kant pensa la dialettica di apparenza e realtà, nel senso di una ontologia dell'essere in sé o per il soggetto

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della cosa; altrettanto fa Hegel per la riduzione alla fenomenicità dell'intera esperienza di coscienza. Solo all'interno del pensare l'essere è tale. Che poi anche in Hegel il momento epistemologico della coscienza abbia valore in quanto tale è evidente. Il punto d'approdo del movimento dell'idea è infatti un essere-qui, ossia un essere determinato, un esserci (dasein). L'essere è inizio ontologico, datità positiva dell'origine (Scienza della logica). Tuttavia in quanto origine è indeterminazione assoluta, e quindi, proprio perché puro essere, è anche puro nulla; ribaltamento della positività nella negatività. La determinazione si configura allora come passaggio dall'essere, che essendo origina, alla negazione della sua indeterminazione annichilente: la determinazione è perciò posizione reale (effettuale) dell'essere essente ora, ossia dell'esserci. IV. IL PROBLEMA DELL’ESSERE NEL PENSIERO CONTEMPORANEO: – 1. La critica radicale alla metafisica dell'essere: Nietzsche e Gentile. – Sia che si voglia leggere il pensiero di Nietzsche come ultima posizione speculativa entro la storia della metafisica, in quanto orientata a confutare la pretesa ontologica di una posizione trascendente della sfera normativa dei valori d'essere (cfr. M. Heidegger, Nietzsches Wort «Gott ist tot», in Holzwege, Frankfurt am Main 1950), sia che lo si intenda come baluardo esemplare e ultimativamente decisivo della fede metafisica nella realtà del divenire (cfr. E. Severino, L'anello del ritorno, Milano 1999), sembra difficile negare la funzione fondativa del pensiero di Nietzsche per larghi settori della filosofia contemporanea; in modo particolare per la rinascita di una tematizzazione esplicita della riflessione ontologica. La nozione di essere appare infatti come il punto di fuga dell'intera impalcatura speculativa nietzscheana; vale a dire come l'affermazione chiave che consente di manifestare l'autenticità fenomenologica della sua critica radicale alla struttura morale del pensiero occidentale. Spinozianamente Nietzsche intende la sconfitta del moralismo come una accettazione dell'essere così e così del mondo. Il movimento fondamentale del suo pensiero è quello che dal dovere passa al volere e quindi all'essere (cfr. K. Löwith, Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen, Stuttgart 1956). Il riconoscimento genealogico dell'inautenticità della nozione di dovere spalanca infatti le porte al riconoscimento del volere. All'origine della morale si situano

Essere l'illusione prospettica di una sostanzialità soggettiva, l'io, presunto attore di una unificazione fondamentale della complessità della vita psichica. Contro questa illusione, Nietzsche fa valere la datità indeterminata di un essere alla terza persona: nella inferenza dal cogito all'essere Descartes avrebbe errato nella posizione di un sum piuttosto che di un est (Frammenti postumi, 8,10,158). L'essere si pone perciò come esistenzialità effettuale dell'esistente. In opposizione tanto alla trascendenza di un essere vero che stia oltre l'ambito fenomenico, garantendo l'immutabilità dei valori, quanto all'immanenza necessaria di una concatenazione di cause fisiche (Al di là del bene e del male, I, § 21), Nietzsche afferma il semplice essere dell'ora come legge del reale. Questo essere ora, che in quanto tale è movimento e mutamento, come il pensiero classico dei greci per Nietzsche aveva già compiutamente tematizzato, si confonde dunque con il divenire: perché essere è l'essere ora che diviene essere che sarà, in una serie interminabile di cambiamenti in cui solo l'adesso è reale in quanto tale. Medesima posizione speculativa appare quella sostenuta da Gentile, sebbene con un linguaggio e un impalcatura filosofica del tutto diversa (cfr. E. Severino, Oltre il linguaggio, Milano 1992). Gentile infatti si muove in un ambito spiritualistico in cui l'essere è essere dello spirito in quanto attività; l'essere è attualità spirituale. Nel pensare l’essere e il divenire sussistono come attualità di un superamento. Il divenire non è altro che la successione di certi stati del mondo. Ma questa successione non si dà astrattamente in una esteriorità al pensiero, che il pensare in qualche modo ricuce in un ordinamento: è invece la struttura reale dell’atto di pensiero; ossia, nel pensare, una certa situazione dell’essere è superata come determinazione dell’indeterminato, come superamento effettuale di una certa posizione originaria, come pensato che è pensato attualmente nel pensare. «Nell’attualità dell’idea, che è divenire o concetto (pensare), non c’è un indeterminato che non sia tale in modo assoluto. [...] Non c’è il più determinato e il meno determinato, ma l’indeterminato e il determinato: il reale (atto del pensare) come determinato, che ha superato e contiene in sé l’indeterminato: il divenire, insomma, dell’essere» (La riforma della dialettica hegeliana e B. Spaventa, § 3). Questa successione è tale solo in apparenza, nell’accettazione scontata che gli sta3677

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Essere ti del mondo si susseguano nell’alterità. Ma la loro immanenza nel pensare li costituisce invece tutti come momenti ontologicamente dati entro il tessuto effettuale del pensare. Il pensiero è infatti uno, solo il pensato, nella sua separazione dall’attualità pensante, può essere posto come molteplice: «... e però tutti gli atti del pensiero, quando non si considerino come meri fatti, quando non si guardino dall’esterno, sono un solo atto» (La riforma della dialettica hegeliana e B. Spaventa). Sia Nietzsche che Gentile, dunque, nell'affermare l'unicità della realtà dell'essere determinato, dell'esser-ci hegeliano, si muovono verso una radicale innovazione nell'ontologia: viene scardinato il presupposto metafisico secondo il quale l'essere è in opposizione al divenire, sussistendo in una forma più o meno trascendente rispetto alla sfera dell'apparire; perché l'essere reale è un essere diveniente, è l'essere del divenire. 2. La rinascita ontologica: Husserl, Heidegger e la reazione post-heideggeriana. – A partire dalla nascita della corrente fenomenologica l'ontologia si afferma come elemento centrale della speculazione filosofica, anche da un punto di vista metodologico e terminologico. Il procedere fondativo di Husserl trae il proprio inizio dalla distinzione fra le nozioni di essere (Sein) e pretesa all'essere (Seinsanspruch). Per quanto non sia possibile dubitare dell'esistenza del mondo, poiché essa appare un'evidenza, ossia un apparire allo spirito di un certo essere così e così dell'ente (Meditazioni cartesiane, I, § 5: l'evidenza è «ein Es-selbst-geistig-zu-Gesichtbekommen»); tale evidenza non ha tuttavia la forma apodittica richiesta da un principio fondativo. L'essere del mondo è perciò, precedentemente alla fondazione di un sistema del sapere, una semplice pretesa all'essere. Fondare il sapere è un dare certezza apodittica a tale pretesa; ossia passare da una pretesa all'essere all'essere vero e proprio. La fenomenologia si configura dunque come un sapere relativo allo statuto dell'essere che appare alla struttura trascendentale di presentazione dell'ente. Con movimento retrogrado Husserl torna al fondamento cartesiano del cogito per partire nuovamente alla ricerca di un momento apoditticamente incontrovertibile che dia verità all'esperienza della coscienza grazie a una sua traduzione ontologica nell'essere della cosa. Husserl sta così fra Descartes e Hegel, utilizzando tuttavia la concettualità trascendentale 3678

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kantiana. L'assolutizzazione della datità coscienziale, per mezzo della sua comprensione fenomenologica, significa dunque affermare il carattere d'essere della cosa come correlativo all'intenzione trascendentale del sum veritativo del fondamento. Il mondo è perciò un essere, ma questo essere è un essere-per-me, perché suddiviso in una geografia ontologica i cui principi formali sono le intenzioni originarie del soggetto trascendentale, in quanto evidenze dell'essere così e così della cosa stessa (cfr. Meditazioni cartesiane, III, §§ 24-26, 29). La riflessione ontologica heideggeriana prende le mosse entro l'ambito disciplinare fenomenologico. Tuttavia si distacca subito dal pensiero di Husserl poiché troppo invischiato entro la logica e la terminologia dell'idealismo. Ciò che interessa Heidegger è sì muovere alla comprensione dell'essere determinato, del Da-sein hegeliano: ma tale comprensione non ha valore di per sé, bensì solo in quanto via d'accesso privilegiata all'essere dell'Essere (Essere e tempo, Introduzione). L'esser-ci, come essere determinato, ha un primato ontico-ontologico perché la sua analitica esistenziale, ossia la delucidazione del suo modo d'essere, getta luce sull'essere stesso. Heidegger formula questa tesi dicendo che la comprensione dell'essere è anche una determinazione d'essere dell'Esserci. L'esserci ha per modo d'essere quello di interrogarsi sull'essere al fine di comprenderlo (Essere e tempo, Intr., I, § 4). Così impostato il problema Heidegger afferma due fondamentali modalità di essere: l'in-essere e il con-essere. La prima esprime il fatto che l'esserci è sempre un essere entro, ossia un esserenel-mondo: l'esser-ci è relazione al contesto del proprio esistere, perché rivolto a utilizzare degli strumenti, a fare delle cose, vivere in un ambiente (Essere e tempo, I, sez. I, cap. 2). La seconda modalità esprime una ulteriore determinazione dell'essere-nel-mondo: l'essere assieme ad altri, rispetto ai quali l'esserci può compiere certe operazioni. Tale operatività è detta cura: qualora sia rivolta all'utilizzabile è un prendersi-cura; qualora sia rivolta agli altri è un aver-cura. La cura (Sorge) è la modalità fondamentale dell'in-essere dell'esser-ci. L'esser-ci è infatti un avere interesse rispetto al proprio ambiente, sia esso un ambiente di utilizzabili, oppure di altri esser-ci. Rispetto alla cura l'esser-ci può essere, ossia condurre sé alla pienezza di senso, per mezzo di una assolutizzazione del proprio «ci», nella totalità pro-

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gettuale del suo essere un tutto esistenziale (tutto che dunque si completa con la morte, e determina l'essere autentico come un essereper-la-morte); o può alternativamente compiere in modo inautentico l'essere nella propria gettatezza quotidiana, affaccendandosi in una cura che invece di dare senso all'essere nella sua totalità, lo disperde nella cosalità. La nozione di temporalità manifesta questa duplice possibilità esistenziale: la temporalità autentica è progettualità dell'essere verso l'ad-venire, è fondazione del dopo a partire dalla situazione del «ci»; laddove la temporalità inautentica è un indugio sulla semplice presenza dell'ora. Il rigore terminologico heideggeriano, che molti critici hanno da subito intepretato come una generica traduzione di fatti in un linguaggio ontologico mistificante (cfr. K. Löwith, Heidegger Denker in dürftiger Zeit, Göttingen 1960), risulterà al suo stesso autore come il limite fondamentale dell'opera ontologica, e di ogni trattazione ontologica in generale. Conseguentemente a questo riconoscimento Heidegger si muoverà successivamente alla ricerca di un'esperienza dell'essere, piuttosto che di una sua comprensione. Con un'inversione rispetto a Essere e tempo, ora l’approccio non va più dall’esser-ci all’essere, bensì dall’essere all’esser-ci, dall’origine all’ascolto che è nell’origine e dall’origine. Con l'uso di un linguaggio spesso evocativo, il pensatore tedesco cerca questa esperienza nella poesia, nell'arte, nei meandri del parlare quotidiano. L'uomo si fa così pastore dell'essere, che si caratterizza come differenza assoluta rispetto all'ente, trascendenza che nel suo restare differente si cela e fonda l'avvenire dell'evento dell'ora. L'essere si mantiene, come orizzonte, oltre ogni possibile determinazione, e in questa alterità offre l'ente. La differenza ontologica di essere ed ente è la cifra rimasta nascosta al pensiero occidentale, monotematicamente definito come onto-teologia, ossia come dottrina ontologica che scambia l'essere per un ente, in quanto ente supremo. Contro questa comprensione decettiva dell'essere Heidegger intende far valere un’alternativa filosofica assoluta: evento in opposizione a sostanza. L'onto-teologia non è infatti altro che l'incomprensione della natura evenenziale dell'essere, del suo apparire fenomenologico nell'ente, pur restando trascendenza. L'essere che non sia pensato come sostanza è l'essere che struttura l'evento, che si pone co-

Essere me fondamento orizzontale, come apertura originaria della realtà, in quanto realtà che avviene (o meglio diviene nell'evento, a partire dalla determinazione ontica dell'essere); ossia in quanto realtà del fenomeno. Anche nel secondo Heidegger, dunque, la fenomenologia si mostra stazione di partenza e approdo del pensare. Proprio la centralità di questa dimensione fenomenologica, ammessa come decisiva dalla filosofia contemporanea anche laddove il pensiero di Husserl e di Heidegger sia profondamente contestato, rendono il rinnovato interesse per la trattazione ontologica un aspetto centrale del dibattito contemporaneo. Si deve annoverare a questo riguardo l'annosa contrapposizione fra l'ontologismo heideggeriano e la filosofia analitica. Fra i pensatori riconosciuti nel gruppo dei padri nobili di questa corrente, spicca per l'esplicita polemica con Heidegger R. Carnap. In un celebre articolo, edito sulla rivista organo del neo-empirismo Erkenntnis, dal titolo L'eliminazione della metafisica mediante l'analisi logica del linguaggio (Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache, in «Erkenntnis», 2, 1932, pp. 219-241, trad. it. di A. Pasquinelli in Il Neoempirismo, Torino 1969; cfr. ivi, pp. 504-505), Carnap contesta a Heidegger la validità logicoformale di un linguaggio – quello appunto che dice dell’essere – che non abbia un criterio pratico-protocollare per la conferma o meno dei propri enunciati. La riflessione di Heidegger per Carnap è proprio una successione di tesi prive di alcun contatto con la realtà: sia perché i concetti metafisici non hanno riferimento, sia perché, soprattutto, designano non oggetti, bensì relazioni. Quello che dunque fa Heidegger, assieme ai metafisici, non è altro che scambiare un insieme di relazioni linguistiche per fatti empirici; dalla qual cosa discende la condanna carnapiana di ogni riflessione metafisica, assimilata a una forma di arte priva di reale valore artistico. Tuttavia la posizione di Carnap sembra piuttosto debole, perché legata in qualche modo a un'equivalenza errata: quella che intende l'attenzione heideggeriana per l'ontologia come una forma di metafisica. Una maggiore perspicacia critica mostra, infatti, che l'interesse ontologico in Heidegger sorge proprio dalla necessità di prendere le distanze dal pensiero metafisico: la trattazione dell'essere ha per scopo una distruzione fenomenologica dell'ontologia tradizionale che renda possibile il superamento 3679

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Essere dei confini della metafisica. Proprio in questo senso la critica radicale heideggeriana all'oggettivazione dell'essere in un ente sommo, così come la complementare necessità di fare esperienza dell'essere a partire da un’esperienza del linguaggio, potrebbero essere viste convergere di fatto con la tendenza fondamentale del pensiero carnapiano: oltrepassare il sostanzialismo nel funzionalismo; e ancora, intendere il linguaggio non alla stregua di un inventario ontologico (sistema di nomi), bensì come una serie di proposizioni. Questo possibile incontro è rimasto invece impossibile: e dopo Carnap la tradizione analitica ha continuato a manifestare per il pensiero di Heidegger una certa insofferenza oppure una placida indifferenza. Questo non significa che il tema ontologico dell'essere sia estraneo a questa corrente filosofica: tuttavia essa si distingue «nelle sue diverse manifestazioni, da altre scuole» per il convincimento «che in primo luogo una spiegazione filosofica del pensiero possa essere conseguita attraverso una spiegazione filosofica del linguaggio, e che in secondo luogo una spiegazione comprensiva possa essere conseguita solo in questo modo» (cfr. M. Dummett, Ursprüng der analytischen Philosophie, Frankfurt am Main 1988, tr. it. a cura di E. Picardi, Alle origini della filosofia analitica, Bologna 1990). Di conseguenza la filosofia analitica (con le dovute eccezioni e la necessaria cautela critica nel recepimento di una tesi così generale) tende a trattare i temi dell'ontologia con un'investigazione delle condizioni linguistiche di proferimento di enunciati ontologici. Piuttosto che pensare la metafisica a partire dall'essere, si tratta allora di intendere il modo in cui si parla dei fenomeni d'essere (cfr. S. Kripke, Identity and Necessity, in M.K. Munitz, [a cura di], Identity and Individuation, New York 1971; S. Kripke, Naming and Necessity, Oxford 1980). Di conseguenza anche il recupero post-carnapiano di un genuino interesse per le problematiche di carattere metafisico in area analitica, non può giovarsi delle innovazioni critiche husserliane e heideggeriane sulla distinzione di metafisica e ontologia, così come sul senso della tradizione ontologica: perché sembra una riflessione fondamentale sulla struttura del reale che abbia rinunciato a parlare del reale a partire dall'essere (P.F. Strawson, Individuals, London, 1959; e The Bound of Sense. An Essay on Kant's Critique of Pure Reason, London, 1966; E.Tugendhat, 3680

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Selbstbewußstein und Selbstbestimmung - Sprachanalytische Interpretationen, Frankfurt am Main 1979). Diverso esito ha invece avuto la ricezione di Husserl e Heidegger in ambito fenomenologico ed esistenzialistico. L'attenzione alla questione dell'essere è infatti al centro del pensiero di autori come J.-P. Sartre, M. Henry, H. Maldiney, pensatori questi il cui interesse principale è quello di indagare la fenomenologia dell'esistenza umana, a partire dal suo fondamento ontologico nell'essere. In Sartre si presenta una fondamentale dialettica ontologica: quella fra inseità e perseità. Tale distinzione è dedotta dalla attestazione dell'esperienza di coscienza. La coscienza è infatti sempre coscienza di qualcosa. Questo qualcosa, che rimane opaco perché estraneo alla coscienza stessa, è un essere in sé; ossia, secondo l'espressione utilizzata in Essere e nulla, «essere che è ciò che è», pura positività, pura presenza. La coscienza, al contrario, è presente a sé stessa in modo non opaco, non distinto, non scisso. Per questo la coscienza è l'essere per sé, assoluta trasparenza a se stessa, perché mai divisa; e dunque nessuna positività esteriore si dà nella coscienza, che in quanto tale è sempre totalità. La coscienza è allora essere per sé, in quanto negazione dell'essere in sé. Mentre l'in sé caratterizza l'essere dell'ente che viene rinvenuto nel mondo, poiché nulla separa da sé la coscienza, la coscienza è per sé, ossia distinzione dall'in sé. Tale distinzione è lo stato della coscienza, ossia il nulla come fenomeno d'essere che pone la trascendenza di per sé e in sé. Ogni determinazione oggettivante dell'essere per sé è dunque un nulla, perché la coscienza per Sartre è quell'essere che si distingue dalla modalità ontologica dell'oggettività mondana, l'essere in sé. La coscienza dunque pone sé stessa come nulla di essere, come nulla di in sé, perché data sempre per sé. Questa eccentricità della nullificazione ontica della coscienza fa sì che l'uomo possa essere definito come l'ente la cui essenza è esistenza: o meglio come l'ente in cui l'esistenza precede l'essenza (L'esistenzialismo è un umanismo). Non è cioè possibile caratterizzare l'uomo se non come eccentricità, ossia nulla: perché in quanto coscienza è sempre fuori dall'essere in sé mondano; l'essere per sé è allora progetto, scelta, decisione, in quanto l'essere della coscienza non è altro che continua posizione di

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essere in quanto esistenza determinata soggettivamente. Rivolgendosi contro Sartre, ma anche contro l'impianto fenomenologico, Henry rivendica l'opposizione fra essenza ed esistenza come origine della alienazione dell'essere che conduce all'incomprensione della struttura d'essere del reale (Essenza della manifestazione). La pretesa di cogliere l'essenza indipendentemente dall'esistenza, oppure quella di porre una trascendenza fra l'inseità e la perseità deve infatti essere superato con l'affermazione di un assoluto monismo ontologico, il cui carattere fondamentale è l'immanenza. In un recupero dei temi mistici dello spiritualismo cristiano (cfr. G. Dofour-Kowalska, Michel Henry lecteur de Maître Eckhart, in «Archives de Philosophie», 36, 1973; E. Marini, Vita, corpo e affettività nella fenomenologia di Michel Henry, Assisi 2005) tale immanenza è pensata come unione di essere ed esistenza. In una direzione sostanzialmente analoga si muove anche la riflessione di H. Maldiney. Alla sua radice sta una profonda critica alla tradizionale opposizione fra soggetto e oggetto, ancora al centro del pensare fenomenologico, così come l'alternativa fra ontologia e fenomenologia. L'unica via d'uscita da una tale difficoltà epistemologica è la posizione dell'unicità dell'esperienza, che si dà tanto nell'ontologia quanto nella fenomenologia. L'essere è l'essere immanente, ossia l'essere che appare; di cui il me (Moi) è principio costitutivo di auto apprensione alla stregua del mondo. L'essere è cioè evento della rivelazione dell'essere ora a me come Dasein. 3. Cenni sugli sviluppi dell'ontologia nella teologia. – Sebbene parzialmente al di fuori degli interessi ontologici veri e propri, il lavoro di alcuni teologi del Novecento testimonia come la questione dell'essere sia centrale anche per le maggiori innovazioni speculative in ambito teologico; e anzi sia promossa proprio da una presa di posizione nei confronti di tesi ontologiche tradizionali. In Barth il tema dell'ontologia ha funzione eminentemente polemica; volta a rifiutare una riflessione sull'essere come convergente all'oggetto della teologia. Il pensatore svizzero notoriamente rifiuta con vigore il metodo teologico dell'analogia dell'essere (Dogmatica ecclesiale, II). Tutta la prima parte della sua opera maggiore è una esplicita polemica con ogni tentativo di pensare Dio a partire da una sua rivelazione naturale in quanto

Essere fondamento del mondo, in quanto essere; e ancora, è una radicale presa di posizione nei confronti di una presunta similitudine nella struttura d'essere fra Dio e uomo. Non si dà analogia dell'essere, perché l'essere divino è assolutamente trascendente e irraggiungibile da qualsiasi ontologia positiva: l'unica conoscenza teologica possibile è quella che proviene dal Dio che si è fatto storia, e che pone dunque la storia di Gesù Cristo come fondamento (cfr. M. Cinquetti, Dio tra trascendenza e «kenosis». Dialogo a distanza fra Karl Barth e il pensiero debole, in «Teologia e filosofia», 2, 2003). La tradizione intepretativa che intende dare una validità teologica alla riflessione ontologica di carattere filosofico non ha dunque, per Barth, alcun diritto di esistenza nel cristianesimo. Dio non può infatti essere compreso come essere, perché sarebbe così qualificato, determinato, inteso in senso antropomorfico. Piuttosto lontano dal pensiero barthiano si muove invece Bultmann, che ebbe una frequentazione diretta con Heidegger. Se, infatti, da un lato l'accentuazione del momento cristologico pone in rilievo la necessità esegetica di teologizzare a partire dalla rivelazione presente nei testi sacri, dall'altra un’autentica comprensione di questa esegesi necessita una corretta dottrina ontologica circa la struttura essenziale dell'esistenza umana. Tale ontologia fondamentale, di derivazione heideggeriana, è il principio ermeneutico di ogni lettura; e la demitizzazione proposta da Bultmann come metodo teologico non è altro che un ascolto della parola trasmessa nei testi a partire da un’ontologia del fenomeno storico che separi gli influssi mitici dal reale contenuto escatologico dei testi. In questo senso l'ontologia è l'unica garante di un incontro autentico con la storia, ossia con la storia esistenziale di ognuno, la storia ontologica: la valutazione della dottrina di Gesù; perché consente di comprendere gli elementi autentici di quella storia stessa, nonché il senso della medesima (Gesù, Introduzione). Le due maggiori opere bultmanniane, il Commento a Giovanni e la Teologia del Nuovo Testamento, sono composte proprio sotto questa tendenza a ontologizzare la comprensione storica della rivelazione; ossia a tradurre in un linguaggio ontologico una dottrina della storia che consenta una reale rivelazione. Non meno decisa a favore di un’importanza fondamentale dell'ontologia è la posizione teologica di Rahner. Allievo di Heidegger, Rahner ha 3681

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Essere

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seguito Maréchal nel tentativo di rinnovare il tomismo in senso trascendentale; ossia a partire dall'idea che la modernità pone problemi di carattere filosofico-speculativo che devono essere risolti al di fuori della conoscenza teologica tradizionale. Tuttavia tale necessità non può svolgersi in contrasto né con le direttive del magistero ecclesiastico, né con il senso depositato nella tradizione. Il punto di partenza di Rahner è l'analisi metafisica dell'essere umano (Uditori della parola, II, 3). Tale analisi impone la questione dell'essere, perché questo problema è necessariamente dato allo spirito nella misura in cui conosce. Ogni conoscere è, infatti, una modalità dell'essere. L'essere anzi nel conoscere è trasparenza a sé stesso. Questa trasparenza fa sì che non si dia distinzione fra conoscente e conosciuto: un’implicita conoscenza previa dell'essere è al fondamento di ogni conoscere; perché conoscere è l'essere dello spirito così e così. Il problema dell'analogia dell'ente si pone in questo senso: quanto più un ente ha essere, tanto più tale ente è trasparente a sé stesso, perché in possesso dell'essere previamente conosciuto. Il conoscere è cioè inteso da Rahner come un'emanazione, un'espressione, un effondersi dell'essere da sé stesso. Dio è l'ente che massimamente ha essere, perché «essere». Dunque il possesso dell'essere in Dio è totale (Uditori della parola, II, 4). L'uomo ha un possesso relativo, perché la sua conoscenza previa non dipende da lui, bensì dall'effondersi della Rivelazione divina. Tuttavia rispetto alle cose ha più essere, e pertanto ha senso parlare di analogia. Tale analogia andrà intesa non come analogia dell'essere, ma come analogia del possesso dell'essere. L'analogia si mostra allora come il termine più adatto a esprimere la natura metafisica dell'uomo: giacché egli non sta né nell'univocità dell'essere con Dio, né nell'eterogeneità (Corso fondamentale sulla fede, II, 3). In questo senso la riforma trascendentale del tomismo va inteso come un tentativo di pensare ontologicamente la struttura metafisica dell'umano, così da poter comprendere adeguatamente il senso della Rivelazione. D. Bertini

V. IL PROBLEMA DELL’ESSERE NEL PENSIERO DEL NOSTRO TEMPO. – 1. Dal neopositivismo alla filosofia analitica. – Le critiche più dure alla stessa possibilità di una problematica dell’essere sono venute – lo si s’é già indicato nel precedente paragrafo, ma conviene riprendere questo 3682

punto discriminante – dall’ambiente filosofico cresciuto attorno al «Circolo di Vienna». R. Carnap si fa promotore della tesi per cui «le presunte proposizioni della metafisica si rivelano, all’analisi logica, come pseudoproposizioni», cioè proposizioni «prive di senso» (Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache, «Erkenntnis», 2, 1932, pp. 219241, tr. it. di A. Pasquinelli in Il Neoempirismo, Torino 1969; pp. 504-505). L’assenza di senso del discorso metafisico sarebbe da attribuire a due errori fondamentali e assciati: l’uso di parole prive di senso, e la combinazione delle parole in modo contrario alle regole sintattiche del linguaggio. Capito questo, si rimarrebbe di fronte ai concetti della metafisica come «a meri suoni vocali» (ibi, p. 521) e a residui di parole come gusci vuoti, buoni solo «alla espressione del sentimento della vita» (ibi, p. 528). Ed è proprio «dai difetti logici che ineriscono all’uso della parola “essere” nella nostra lingua» che derivano i principali errori connessi alle pseudoproposizioni metafisiche (quali, p. es., «io sono» e «Dio è» ibi, p. 522). Se, tuttavia, queste posizioni estreme hanno inizialmente ottenuto un certo successo (confortato dal sostegno di pensatori vicini come M. Schlick, H. Reichenbach, il L. Wittgenstein del Tractatus logico-philosophicus [1921], ma anche A.J. Ayer), gli sviluppi del metodo filosofico analitico-linguistico hanno via via ceduto il passo a un più sobrio problematicismo, favorito – non da ultimo – dalla progressiva messa in discussione del verificazionismo protocollare dei primi esponenti. Il problema dell’essere trova nuova legittimità, non solo in quanto è quel certo ambito linguistico che è, e che quindi è degno di attenzione (come qualsiasi altro ambito linguistico): l’ontologia analitica diviene il campo di indagine del senso dell’essere (o esistere), preliminare e indispensabile ad ogni successiva acquisizione scientifica. Così, per W.v.O. Quine il problema ontologico si enuncia essenzialmente in questi termini: «Che cosa c’è?». Ma, prima ancora di rispondere, si impone l’interrogazione sul senso della predicazione di esistenza. Sviluppando la teoria delle descrizioni di B. Russell (cfr. l’articolo On Denoting [1905]), Quine osserva che «l’unico modo in cui possiamo impegnarci dal punto di vista ontologico» è «col nostro uso delle variabili vincolate» (From a Logical Point of View, Cambridge [Massachusetts] 1980 [1953], tr. it. di P. Valore, Da

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un punto di vista logico, Milano 2004, p. 26). Sicché, «essere assunto come entità equivale, puramente e semplicemente, ad essere incluso tra i valori di una variabile» (ibid.), mentre essere «è essere il valore di una variabile» (ibi, p. 29). Se queste assunzioni costituiscono una partenza piuttosto comune per il panorama analitico, non vengono tuttavia meno le differenziazioni quanto alle risposte fornite alla domanda essenziale. Si hanno, così, le diverse ontologie analitiche: di tipo naturalistico-fisicalistico (come Quine stesso, per cui ontologicamente rilevante è solo ciò cui conviene un’estensione spazio-temporale tetra-dimensionalmente intesa; cfr. Word and Object [1960]); di tipo fenomenologico (come quella di R.M. Chisholm, per cui ontologicamente rilevante è ogni riferimento intenzionale, ogni oggetto intenzionale; cfr. On Metaphysics [1989]); di tipo descrittivo (come quella di F. Strawson, per cui, solo ritornando alle strutture spontanee del nostro sistema linguisticoconcettuale si possono comprendere le strutture essenziali della realtà, ritrovando nella condizione di identificazione di quei particolari di base che sono le cose-materiali la possibilità di ulteriori acquisizioni (cfr. Individuals. An Essay in Descriptive Metaphysics, [1959]). 2. Gadamer, Levinas, Derrida, Vattimo. – Con la riflessione di H.-G. Gadamer la declinazione linguistica della problematica ontologica (ripresa e continuata a partire dalla prospettiva heideggeriana) diviene totale. Se l’essere-nelmondo dell’uomo è un essere-comprendente e un essere-interpretante da cui è impossibile uscire, ciò significa che l’esperienza è esperienza ermeneutica. Ma l’orizzonte a partire dal quale soltanto è pensabile l’esperire ermeneutico non può che essere il linguaggio. In questo senso esso è «mezzo», non come strumento, ma come ciò che da sempre tiene insieme (Zusammengehörigkeit) uomo e mondo, nell’apertura di quello a questo e nel darsi di questo a quello. «La linguisticità della nostra esperienza del mondo precede tutto ciò che è riconosciuto ed enunciato come essente» (Wahrheit Und Methode, Tübingen 19723 [1960], tr. it. di G. Vattimo, Verità e metodo, Milano 2004 [1983], p. 514). Come a dire, in altro modo, dell’inoggettivabilità del linguaggio, quale «totalità onniabbracciante» (ibi, p. 517), al cui interno solamente l’essente è (ed è signficante); cioè: solo in quanto «viene a espressione nella parola» l’essente è quello che è (cfr. ibi,

Essere p. 521). Si capisce, allora, come la trascendentalità dell’essere venga sostituita dalla trascendentalità del linguaggio, per modo che, se «non c’è cosa, dove vien meno il linguaggio» (ibi, p. 558), è inevitabile che «l’essere che può venir compreso è linguaggio» (ibi, p. 542). Ma allora, oltre Heidegger, «l’essere è linguaggio» (ibi, p. 554). Per E. Levinas soltanto nel suo strato più basso e immediato il reale si dà come semplice essere o esistere, espresso dalla formula del «c’è» (il y a) impersonale. Al di là di questa prima configurazione sorda e soffocante si apre l’esistente come emancipazione della soggettività (o «io») dalla manifestazione univoca dell’essere, e secondo la modalità di intenzionalità-godimento. È poi sempre all’interno di questa dinamica, già strutturalmente relazione ad altro, che l’io sperimenta concretamente l’irruzione dell’«assolutamente altro», come «l’Altro», o «Altri». Ora, se di concretezza effettuale si può parlare solo in merito alla relazione sociale io-Altri, risulta che sia il momento del semplice essere, sia il momento del solo qualcuno, non sono che astrazioni immiserite del rapporto originario – dunque incapaci di stare per sé. In questo modo si giustifica il primato della meta-fisica della trascendenza assoluta di Altri sull’ontologia totalizzante dell’unico essere parmenideo. Vincendo la naturale vocazione del termine a farsi intendere come «Neutro impersonale», «sintesi» o «totalità», l’essere deve allora ripensarsi «come multiplo e come scisso in Medesimo e in Altro» (cfr. Totalité et infini, Den Haag 1961, tr. it. di A. Dall’Asta, Totalità e infinito, Milano 1980, [con saggio di S. Petrosino, La fenomenologia dell’unico] 1990 2 , pp. 48, 78, 277). Dire che «l’essere è esteriorità», così, non significa altro se non che «il faccia a faccia resta situazione ultima», «la moralità stessa», la metafisica come rapporto con l’Altro-annunciante-l’Infinito (cfr. ibi, pp. 298, 79, 310, 308, 201). Si comprende: che ormai «la morale non è un ramo della filosofia, ma la filosofia prima»; e perché, accanto a tale trasformazione – come in Gadamer – il «discorso» e il «linguaggio» diventano lo stesso «rapporto del Medesimo e dell’Altro» (ibi, pp. 313, 37-38; cfr. anche De l’existence à l’existant [1947]; Autrement qu’être ou au-delà de l’essence [1974]). Esiti estremi della riduzione linguistica dell’essere sono propri della proposta di J. Derrida. Con una restrizione ulteriore: dal linguag3683

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Essere gio alla scrittura. Il passaggio è necessitato dall’impossibilità di fondare il sapere (qualsiasi) sull’evidenza dell’essente-presente ad una coscienza intuitiva, come indicato da Nietzsche, Freud e Heidegger. Il privilegio accordato dalla tradizione all’essere(-presente) e alla coscienza e alla parola, come suoi fedeli orizzonti manifestativi, si rivela un’illusione. Non c’è nessuna presenza fuori del segno. Ma il segno, per definizione, è «presenza differita» – quindi finzione-di-presenza. Parlare dell’essere, dunque, è parlare di una impossibilità, che si svolge tuttavia sul concetto limite di «différance» o «gioco della traccia» (Marges, Paris 1972, tr. it. di M. Iofrida, Margini, Torino 1997, pp. 38, 51). Ora, però, «la différance non è, non esiste» (ibi, p. 32), né in senso ontico, né in senso ontologico: si è alla «chiusura dell’ontologia». Come «arci-scrittura, arci-traccia» la différance è (barrando anche la copula) solo il «movimento di gioco» che produce testi e codici (cfr. ibi, pp. 41, 32, 39). Se nella traccia «la presentazione deviata resta definitivamente e implacabilmente negata, non è che un certo presente [essere] resti nascosto o assente; piuttosto, la différance ci tiene in rapporto con ciò che eccede l’alternativa della presenza e dell’assenza» (ibi, p. 49). Ma, così, ciò che eccede sembra nulla (cfr. anche L’écriture et la différence [1967]). Anche G. Vattimo intende ultimare la distruzione dell’ontologia cominciata per Nietzsche e Heidegger, ma in maniera tale da eliminare qualsiasi residuo meta-storico, compresa la différance, che, pur come evento, «tende a rimanere, nel pensiero derridiano, un archievento che fonda la storia, ma non ha, a sua volta, una storia» (Derrida e l’oltrepassamento della metafisica [1990], intr. alla II ed. della tr. it. di L’écriture et la différence, Torino 20022 [1971], p. XXII). Dell’essere si può dire soltanto che esso è «interminabile dissoluzione della presenza» (ibi, p. XXIV), «trasmissione, invio, Überlieferung e Geschick» (Il pensiero debole, Milano 1983, p. 18). Occorrerebbe così seguire Heidegger «nel fatto di aver sostituito all’idea di essere come eternità, stabilità, forza, quella di essere come vita, maturazione, nascita e morte» (Al di là del soggetto, Milano 1981, p. 74). «Non è ciò che permane, ma è in modo eminente [...] ciò che diviene, che nasce e che muore». E l’«assunzione di questo peculiare nichilismo è la vera attuazione del programma indicato dal titolo Essere e tempo» (ibid.). 3684

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3. Bontadini e Severino. – Il recupero e lo sviluppo della potenza speculativa e del senso dell’incontrovertibilità dell’ontologia classica trovano oggi testimonianza perentoria nelle opere di G. Bontadini ed E. Severino. Comune è il superamento del presupposto gnoseologistico (per cui la coscienza è «chiarità dell’essere») e la semantizzazione (definire è improprio, vista l’estensione interale del concetto) dell’essere per opposizione di contraddittorietà al non-essere. È questa lo stesso che l’opposizione del positivo al negativo, quale verità originaria, o immediatezza, il tentativo di negazione della quale è destinato all’autonegazione – quindi al fallimento. Dire che «l’essere è e non è non-essere», equivale a dire che «il positivo non è negativo», che «l’essere non è il nulla», come formulazioni essenziali del principio di non contraddizione, già indicate da Parmenide. Se per Bontadini, tuttavia, la realtà del divenire degli enti attesta la loro ni-entificazione – cioè, l’identificazione della positività loro al nulla –, occorre riformulare il principio in modo tale da non lasciare l’originario del sapere scisso nei poli contrapposti del logo, attestante l’impossibilità che l’essere non sia, e dell’esperienza, attestante il non-essere dell’ente quando questo diviene. La riformulazione consiste nel dire che l’essere non può essere originariamente limitato dal non-essere, per modo che il trascendimento metafisico dell’esperienza dell’essere diveniente (mobile) verso l’essere assolutamente immune dal non-essere (Immobile creatore del mobile) sia già il toglimento della contraddizione portata dal divenire al senso genuino dell’essere (cfr. Dal problematicismo alla metafisica [1952], 19962; Conversazioni di metafisica, 2 tomi [1971, 1995 2 ; Metafisica e deellenizzazione [1975], 19963). Con l’articolo Ritornare a Parmenide (1964) si compie la svolta di Severino rispetto alla posizione bontadiniana, e inizia un dibattito ormai noto (cfr. Poscritto [1965] e Risposta ai critici [1968]; per Bontadini, ancora Swvzein ta; fainovmena [1964]; Dialogo di metafisica [1969]; ma intervengono pure C. Arata, E. Berti, I. Mancini e altri). Per Severino ogni essere, ogni essente, ogni determinazione-che-è, in quanto è quel positivo che è, non può identificarsi senza contraddizione a tutto ciò che è altro da sé, e che – così essendo – ne è il negativo, o la negazione. Per questa via, non solo ogni determi-

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nazione è altra da ogni altra determinazione che possa esserle affiancata; è pure impossibile che essa divenga (o sia stata) altro da quel che è. L’esser-sé degli essenti (l’identità), concretamente, significa lo stesso che la loro noncontraddittorietà, cioè – ancora – l’esser ricompreso di ogni positivo (non-nulla) all’interno dell’intrascendibile verità originaria. L’intrascendibilità dell’originario (affermata per e[legco") è la «necessità» che non sottostà ad una sovrastante temporalità, che lascerebbe esser l’essere fintanto che fosse, per poi farne la negazione di se stesso, il negativo di se stesso, il nulla di se stesso. In questo senso, allora, ogni essente è eterno; e il divenire non è che l’apparire dell’apparire e dello scomparire degli eterni. Il tentativo di tenersi al di fuori del destino della necessità è la storia di tutta la tradizione occidentale, il suo folle erramento nichilista, la sua volontà di potenza sull’essere (cfr. La struttura originaria [1958], 19812; Essenza del nichilismo [1972], 19822; Destino della necessità [1980]; Tautótes [1995]; Fondamento della contraddizione [2005]). Naturalmente, non sono mancate critiche (per lo più di «univocismo») ad una posizione così radicale (E. Berti, C. Vigna e altri). P. Bettineschi - C. Vigna BIBL.: Studi di carattere storico: Pensiero antico: J. STENZEL, Metaphysik des Altertums, München-Berlin 1931; G. DI NAPOLI, La concezione dell'essere nella filosofia greca, Milano 1953; D. PEIPERS, Ontologia platonica, Leipzig 1883; A. CAPIZZI - R. LORIEAUX, L'être et la forme selon Platon, in «Rassegna di Filosofia», 3 (1956); L.M. DE RIJK, The Place of the Categories of Being in Aristotle's Philosophy, Assen 1952; P. AUBENQUE, Le problème de l'étre chez Aristote. Essai sur la problématique aristotélique, Paris 19662; J. OWENS, The Dottrine of Being in Aristotle’s Metaphysics, Toronto 19632; CH. KAHN, The Verb «Be in Ancient Greek», Dordrecht 1973. Pensiero medievale: A. DEMPF, Metaphysik des Mittelalters, München-Berlin 1930; E. GILSON, L’esprit de la philosophie médiévale, Paris 1948 (1932), tr. it. di P. Sartori Treves, Lo spirito della filosofia medievale, Brescia 1964, capp. 3-4; J. DE FINANCE, Être et agir dans la philosophie de st. Thomas, Paris 1960 (1945); A. HAYEN, La communication de l'être d'après st. Thomas d'Aquin, 2 voll., Paris-Louvain 1957-59; C. FABRO, Dall'essere di Aristotele allo «esse» di s. Tommaso, in «Mélanges E. Gilson», Paris 1959, pp. 227-247; J. HEGYI, Die Bedeutung des Seins bei den klassichen Kommentatoren des hl. Thomas von Aquin, Capreolus, Silvester von Ferrara, Caietan, Pullach (München) 1959; K. KRENN, Vermittlung und Differenz? Vom Sinn des Seins in der Befindlichkeit der Par-

Essere tizipation beim hl. Thomas von Aquin, Roma 1962; L.B. GEIGER, Philosophie et spiritualité, I, Paris 1963; B. MONDIN, La filosofia dell'essere di s. Tommaso, Roma 1964, parte III; K. KREMER, Die neuplatonische Seinsphilosophie und ihre Wirkung auf Thomas von Aquin, Leiden 1966. Pensiero moderno e contemporaneità: T. MORETTI-COSTANZI, Sulla origine dell'idea dell'essere in Rosmini e in s. Tommaso, Roma 1939; O. PÖGGELER, Der Denkweg Martin Heideggers, Pfullingen 1944; A.L. FOLEY, A Critique of the Philosophy of Being of Alfred North Whitehead in the Light of Thomistic Philosophy, Washington 1946; E. SEVERINO, Heidegger e la metafisica, Milano 19942 (1950); G. DI NAPOLI, La concezione dell'essere nella filosofia contemporanea, Roma 1953; P. LEVERT, L'être et le réel selon L. Lavelle, Paris 1960; A. WILDERMUTH, Wahrheit und Schöpfung. Ein Grundriss der Metaphysik des G.W. Leibniz, Winterthur 1960; S. ALSERGHI, Metafisica e spiritualisti italiani contemporanei, Milano 1960; K. LÖWITH, La ontoteo-logia di Hegel e il problema della totalità del mondo, in «De Homine», 2-3, (1962), pp. 19-66; G. NOLLER, Sein und Existenz. Die Überwindung des SubjektObjektschemas in der Philosophie Heideggers und in der Theologie der Entmythologisierung, München 1962; E. SEVERINO, Gli abitatori del tempo, Roma 19812 (1978); E. BERTI, Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Palermo 1987; M. FERRARIS, Storia dell’ermeneutica, Milano 1989; C. SCILIRONI, Note sulla semantica ontologica e sull’ermeneutica del Novecento, Padova 1989; M. MARSONET, La metafisica negata: logica ontologia, filosofia analitica, Milano 1990; E. RUNGGALDIER - C. KANZIAN, Grundprobleme der analytischen Ontologie, Paderborn 1998, tr. it. di N. Ferrari, Problemi fondamentali dell’ontologia analitica, Milano 2002; F. VOLPI, Le fonti del problema dell’essere nel giovane Heidegger: Franz Brentano e Carl Braig, in «Quaestio», 1 (2001), pp. 39-52. Studi di carattere teoretico: R. GRADI, Dell'essere, dell'esistere, del conoscere, Siena 1936; A. TESTA, Essere e divenire, Firenze 1938; O. PHILIPPE, L'être, Paris 1938; E. PACI, Principi di una filosofia dell'essere, Modena 1939; F. ALQUIÉ, La nostalgie de l'être. Absence et évidence de l'être. Réalité et objectivité. La séparation. Ontologie et métaphysique, Paris 1950; J. CHAIX-RUY, Les dimension de l'être et du temps, Paris 1953; L. DE NIS, Le problème de l'être et de la destinée, nuova ed., Paris 1953; D.J.B. HAWKINS, Being and Becoming. An Essay towards a Criticai Metaphysic, London - New York 1954; L. DE GAIGNERON, Le secret de l'être à la lurnière des données traditionelles, Paris 1955; L. DE RAEYMAEKER, L'esperienza dell'essere e la comprensione del suo significato metafisico, in Riflessioni su temi filosofia fondamentale, Milano 1957; C. FABRO, Dall'essere all'esistente, Brescia 19652 (1957); C. FABRO, Presenza ontica, ontologica e metafisica dell’essere, in «Studia Patavina», 1958, pp. 286-312; I. MANCINI, Ontologia fondamentale, Brescia 1958; A. MARC, L'être et l'esprit,

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Essere-in-sé

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Paris-Louvain 1958; A. MERCIER, Thought and Being, Basilea 1959; S. BRETON, Approches phénoménologiques de l'idée de l'être, Lyon 1959; I. BONETTI, Il problema di fondo della metafisica tomista: l'essere e la struttura del concetto di ente, in «Rivista di Filosofia NeoScolastica», 1961, pp. 337-352; H. KUHN, Das Sein und das Gute, München I962; J.B. LOTZ, Sein und Existenz, Freiburg-Basel-Wien 1965; J. DE FINANCE, Connaissance de l'être, Paris-Bruges 1966, cap. 1; AA VV., L'essere: problema, teoria, storia, Roma 1967; C. ARATA, Discorso sull'essere e ragione rivelante, Milano 1967; M.D. PHILIPPE, Essai de philosophie. II: L'être: recherche d'une philosophie première, Paris 1974; V. MELCHIORRE, Essere e parola, Milano 19934 (1982); E. BERTI, Le vie della ragione, Bologna 1987; R. POLI, Ontologia formale, Genova 1992; J. DEJNOZKA, The ontology of the Analytic Tradition, and Its Origins, Lanham 1996; J.J.E. GRACIA, Metaphysics and Its Tasks, Albany 1999; F. TOCCAFONDI, L’essere e i suoi significati, Bologna 2000; C. VIGNA, Il frammento e l’Intero. Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere, Milano 2000; F. TUROLDO, Polemiche di metafisica. Quattro dibattiti su Dio, l’essere e il nulla, Venezia 2001; J.-L. MARION, Etand donné, Paris 1997, tr. it. di R. Caldarone, Dato che, Torino 2001; G. GOGGI, Dal divenire all’immutabile. Saggio sul pensiero di Gustavo Bontadini, Venezia 2003; D. FENSEL - M.L. BRODIE, Ontologies, Berlin 2003; M. FERRARIS, Ontologia, Napoli 2003; M. HIRT, Postmoderne Ontologie, Bern 2003; L. RUGGIU - J. CORDON NAVARRO (a cura di), La crisi dell’ontologia, Milano 2004; S. STAAB - R. STUDER (a cura di), Handbook on Ontologies, Berlin 2004; J. HAWTHORNE - T. SIDER - D. ZIMMERMAN (a cura di), Contemporary Debates in Metaphysics, Oxford 2005; A.C. VARZI, Ontologia, Roma-Bari 2005. ➨ DECOSTRUZIONE; DIFFÉRANCE; DIVENIRE; ENTE; FONDAMENTO; FRAMMENTO; INTERO; METAFISICA; NULLA; ONTOLOGIA; ONTOTEOLOGIA; UNO; UNO MOLTI; UNO

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- TUTTO.

ESSERE-IN-SÉ (Ansichsein; être-en-soi). – Essere-in-sé L’essere, in quanto è considerato indipendentemente dal rapporto ad altro. Così inteso, l’essere-in-sé è, in Hegel, un momento della dialettica dell’essere determinato, che si trova nella sezione sulla qualità della logica dell’essere. Il qualcosa, proprio per la sua determinatezza, contiene in sé la negazione, il rinvio all’alterità, ma al tempo stesso si delimita da questa alterità, si contrappone ad essa: così essere-per-altro ed essere-in-sé sono i due momenti della dialettica del qualcosa. Hegel distingue poi anche l’esser dentro di sé (Insichsein), che sorge quando la negazione non deriva più 3686

soltanto dal confronto esteriore con l’esser altro, ma è posta come immanente al qualcosa. In senso più generale Hegel distingue l’esserein-sé e l’essere-per-sé come momenti dello sviluppo: il primo è ciò ch’è in potenza e non ancora sviluppato, il secondo è in atto, è il risultato dello sviluppo. L’unificazione piena dei due momenti caratterizza la vita dello spirito. Sartre ha designato come essere-in-sé l’oggetto: esso si contrappone al per sé della coscienza perché non ha alcun carattere riflessivo, è pura positività che semplicemente è. M. Pagano ➨ ESSERE-PER-SÉ.

ESSERE-NEL-MONDO (In-der-Welt-sein). – Essere-nel-mondo Espressione impiegata da Heidegger nella sua «analitica esistenziale» per indicare il costitutivo appartenersi di «esserci» (Dasein) e «mondo», opponendosi così alla separazione affermatasi in età moderna – e riconducibile a Cartesio – tra res cogitans e res extensa. L’esserci non è infatti un soggetto che deve compiere qualche artificio per accedere al mondo inteso come qualcosa a lui esterno, bensì ne ha una «conoscenza» originaria in quanto è un «abitare in», un «essere familiare con...». L’esserci è gettato nel suo «ci», è quell’«apertura» nella quale scopre se stesso in quanto ente e l’ente difforme da sé (il «mondo»), ma anche gli altri esserci in quanto è costitutivamente anche un «con-essere», e quindi il mondo che ha in comune con gli altri si mostra come un «mondo degli altri» o «co-mondo» (Mitwelt). Nella sua gettatezza, pertanto, l’esserci è già da sempre assegnato al mondo (la sua «fatticità»): non è «dentro» il mondo inteso come qualcosa altro da sé, ma in quanto «in-essere» è piuttosto l’articolazione stessa del mondo – e questa differenza tra il piano ontico dell’«essere dentro» dell’ente nel mondo e l’«in-essere» dell’esserci è definita da Heidegger «distinzione ontologica» (ontologischer Unterschied). Il mondo è primariamente quel «mondo-ambiente» (Umwelt) in cui l’esserci incontra le cose di cui quotidianamente si prende cura – cose che gli si mostrano innanzitutto come «strumenti», vale a dire nel modo d’essere dell’«utilizzabilità». Più originariamente, però, l’esserci ha a che fare con «significati» che articolano il mondo come una totalità di rimandi e di appagatività (Bewandtnis) a capo della quale v’è l’esserci stesso. In questo suo costi-

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Essere supremo

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tutivo «essere-presso» l’ente intramondano (la sua «deiezione» o «decadimento»), l’essere-nel-mondo è, e il suo modo d’essere non è pertanto quello di una semplice presenza, ma è l’«esistenza» in quanto «poter-essere» (la sua «esistenzialità»). È sulla base di questi caratteri dell’essere-nel-mondo che Heidegger potrà definire poi l’unità dell’essere dell’esserci come «cura» (Sorge), sulla cui struttura temporale si fonda la stessa «spazialità» del mondo. La problematica dell’«essere-nel-mondo» fu impostata sin dai primissimi anni venti, quando proponendosi di comprendere «la vita come il mondo in cui viviamo» (cfr. in GA, Frankfurt am Main 1975 ss., vol. 59, p. 34), Heidegger era solito distinguere tre modalità del farsi incontro del «mondo»: Mitwelt, Umwelt e Selbstwelt («mondo del sé»). Sin dall’inizio tale distinzione mostrava un primato della Selbstwelt, in seguito all’approfondimento ontologico legato al concetto di «esserci» iniziato nella parte finale del semestre estivo del 1923. Nel semestre estivo del 1925 Heidegger la abbandonerà, distinguendo semplicemente Mitwelt e Umwelt (cfr. in GA, vol. 20, pp. 333 ss.). L’espressione «essere-nel-mondo» è impiegata per la prima volta nelle lezioni del semestre estivo 1924 (in GA, vol. 18), trovando un approfondimento decisivo nel trattato risalente allo stesso anno ma pubblicato postumo Der Begriff der Zeit (in GA, vol. 64), mentre farà la sua ultima comparsa nel semestre invernale 1928-29 in relazione alla problematica della «trascendenza» dell’esserci (cfr. in GA, vol. 28, §§ 35 ss.). C. Badocco ➨ ANALITICA ESISTENZIALE; BEWANDTNIS; CURA; DASEIN.

ESSERE-PER-SÉ (Fürsichsein; être-pour-soi). Essere-per-sé – L’essere che, attraverso il rapporto ad altro, si riferisce a sé, e così torna a essere presso di sé. Così inteso, l’essere-per-sé è una categoria della logica hegeliana, e precisamente della logica dell’essere. Più specificamente esso costituisce la terza e ultima tappa della prima sezione, dedicata alla qualità. L’essere immediato e indeterminato, attraverso il divenire, passa nell’essere determinato. Questo è un qualcosa che, in quanto limitato, finito, rimanda ad altro; ma questo altro è a sua volta un qualcosa, e si rapporta quindi ancora a un altro, e così all’infinito. Questo processo della cattiva infinità mostra però la sua inadeguatezza se si considera il movimento con uno sguardo più

profondo: in effetti, se il secondo qualcosa è l’altro rispetto al primo, è altrettanto vero che il primo qualcosa è l’altro del secondo; perciò il qualcosa è posto come altro, questa è la sua unica determinazione e, rapportandosi ad altro, «si accompagna solo con se stesso» (cfr. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, Heidelberg 18303, § 95), si riferisce a sé, ed è essere per sé. Questo passaggio segna la prima e più semplice apparizione del vero infinito: il limite del finito è negato nella sua assolutezza, finito e infinito non sono più rigidamente contrapposti, il finito è un momento dell’infinito ed è così posto come ideale. La coscienza è in modo tipico per sé «in quanto si rappresenta un oggetto ch’essa sente, intuisce ecc., in quanto cioè ha in lei il contenuto di cotest’oggetto [...]. La coscienza di sé, all’incontro, è l’esser per sé come compiuto e posto; quel lato del riferirsi a un altro, a un oggetto esterno, è rimosso» (Hegel, Wissenschaft der Logik, Nürnberg 1812-16, 2 voll., tr. it. di A. Moni riveduta da C. Cesa, Scienza della logica, vol. I, Roma-Bari 1974, pp. 162-163). In questo più ampio significato, il termine è stato ripreso da Sartre in L'être et le néant (Paris 1943, tr. it. di G. Del Bo, L’essere e il nulla, Milano 19972) per indicare la coscienza in contrapposizione all’in sé, cioè all’oggetto. E. Severino - M. Pagano ➨ ESSERE-IN-SÉ.

ESSERE SUPREMO (Supreme Being; HöchEssere supremo ste Wesen; Etre suprême; Ser supremo). – Rispetto all’uso filosofico e teologico del termine, si tratterà qui dell’ampiezza, complessità e problematicità del concetto tipologico-categoriale di Essere supremo analizzato dalla ricerca comparativa nell’ambito della storia delle religioni e dell’etnologia. Si tratta di una figura sovrumana (e in genere divina), caratterizzata da un potere spirituale trascendente, presente con infinite varianti, ma tuttavia con valori e associazioni simboliche sufficientemente costanti, in un grandissimo numero di sistemi religiosi differenti. Riconosciuto nella mitologia ma quasi sempre assente dal culto pubblico, l’Essere supremo spicca per la sua supremazia (ma non unicità), per la sua onnipresenza e onnipotenza, spesso per la sua attività creatrice ma insieme per il suo frequente distacco dal mutamento, e dunque dalla sua stessa creazione. Le sue forme 3687

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Essoterico storiche differiscono grandemente, come si diceva, da una cultura all’altra, ma possono essere segnalati alcuni suoi caratteristici attributi. In primo luogo la celestialità, che lo associa, lo fa abitare o esprimersi attraverso il cielo e i suoi elementi o attraverso i fenomeni atmosferici. Poi la primordialità e fondamentalità, e l’onniscienza, talora espressa nelle manifestazioni luminose del cielo splendente. Tipico è il potere cosmogonico dell’Essere supremo, talora condiviso con entità subordinate, collaboratrici o avversarie, che a volte si manifesta attraverso la sua parola o il suo pensiero e che si esprime nella creazione principalmente del cielo, delle stelle e della terra e soltanto secondariamente della vegetazione e dell’uomo. Ma insieme – e paradossalmente – l’Essere supremo brilla per la sua lontananza e spesso inaccessibilità (che lo ha fatto definire, anche, Dio elevato, High God) e misteriosità, che talora sfocia in un profilo indefinito e in un carattere passivo e indifferente: si parla allora di un deus otiosus, che si ritira con i suoi poteri dal mondo creato senza portarlo a compimento o senza accompagnarne la storia. In genere, come si diceva, l’Essere supremo è accompagnato da altre figure sovrumane, che in alcuni casi lo soppiantano, anche violentemente, dall’attualità del panorama religioso e cultuale. Particolarmente ricco e vivace è stato il dibattito scientifico sull’Essere supremo. Dapprima isolato come dio supremo del cielo da studiosi di filologia comparata delle lingue indoeuropee (Ad. Kuhn, Fr.M. Müller), poi considerato la più recente ed elevata concezione del pensiero religioso da etnologi di impianto evoluzionista (J. Lubbock, E.B. Tylor), fu infine riconosciuto anche nelle culture cosiddette «primitive» (A. Lang). Con W. Schmidt divenne la forma iniziale del Dio unico del monoteismo, anticipato nelle culture umane più arcaiche da una rivelazione primordiale. Le ricerche storiche di R. Pettazzoni e quelle morfologiche di M. Eliade hanno infine valorizzato l’ambivalenza fondamentale dell’Essere supremo, la sua importanza in quanto portatore di onniscienza morale, la sua complessità in quanto ierofania del cielo, la sua funzione di rappresentazione delle forze vitali elementari che costituiscono il complesso della sacralità cosmica. D.M. Cosi BIBL.: M. ELIADE, Traite d’histoire des religions, Paris 1949, tr. it. di V. Vacca e G. Riccardo, Trattato di storia delle religioni, Torino 1999; R. PETTAZZONI, The Su-

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preme Being. Phenomenological Structure and Historical Development, in J.M. KITAGAWA - M. ELIADE (a cura di), The History of Religions. Essays in Methodology, Chicago 1959, pp. 59-66; R. PETTAZZONI, L’essere supremo nelle religioni primitive. L’onniscienza di Dio, Torino 1965 (1955); L.E. SULLIVAN, s. v., in M. ELIADE, Enciclopedia delle religioni, ed. tematica europea a cura di D.M. Cosi, L. Saibene e R. Scagno, Milano 1993, vol. I, pp. 261-277 (ed. originale: The Encyclopedia of Religion, New York 1996). ➨ DIO; MONOTEISMO.

ESSOTERICO (gr. ejxwterikov" «esterno»). – Essoterico I pitagorici chiamarono essoterico chi non era membro della scuola (Giamblico,Vita di Pitagora 226). In Aristotele l’espressione exoterikoi logoi compare otto volte (cfr. p. es. Metaph., 1076 a 27-28). Essa indica le opere «esterne» (all’ambito della scuola, al metodo scientifico o all’argomento specifico di un certo trattato? la critica è incerta) e si oppone ad akroatikoi logoi, discorsi riservati ai membri della scuola peripatetica. In età medioplatonica l’espressione exoterikoi logoi fu usata da Plutarco per indicare le dottrine segrete che si sarebbero insegnate nel Liceo, in opposizione a quelle pubbliche. C. Natali BIBL.: E. BERTI, Aristotele dalla dialettica alla filosofia prima, Padova 1977, pp. 65 ss.

ESTASI (dal gr. e[kstasi", spostamento, alieEstasi nazione - ecstasy; Ekstase; extase; éxstasis). – La parola, composta da ejk (via, fuori) e dal tema sta di i{sthmi (pongo, sto), significa lo «stare fuori» come effetto di un’azione di spostamento, e dunque uno stato straordinario rispetto a quello fisiologico. In Ippocrate estasi significa «la posizione errata della coscia» (De Articulis, 56), ma anche il furore, l’aberrazione della mente (cfr. Aphorismi, VII, 5), il morbo sacro (epilessia), chiamati anche maniva (cfr. De Morbo sacro, 1), termine che in Eraclito (cfr. frammento 22, B14, B92, B93, in H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, rist. della 6ª ed. a cura di W. Kranz, Zürich 1985-89), Eschilo (Sette contro Tebe, 653; Prometeo incatenato, 879) ed Erodoto (Storie, IV, 79) indica anche l’invasamento del Dio. Per Ippocrate l’epilessia, come ogni altra malattia, non proviene dagli dei, puri e senza macchia; le sue cause sono da ricercarsi piuttosto nella natura, alla quale il medico deve ricondurre ogni patologia (cfr. K. Deich-

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gräber, Der listensinnende Trug des Gottes, Göttingen 1952, pp. 83-107). In senso verbale in Euripide estasi indica la follia (mevmhna") collegata alla perdita del senno (ejxevsth" frenw'n) (Baccanti, 359; 850) causata da Dioniso, il Dio legato più arcanamente all’estasi (cfr. Omero, Iliade, 6, 132), nel quale confluiscono la vita e la morte, l’umano e il divino, la mania e la veggenza e in relazione al culto del quale sorge la tragedia. Egli insegnò ai mortali il vino, nel quale dona se stesso, che «acquieta ogni dolore», «dà il sonno» e «l’oblio di tutti i mali della giornata» (Baccanti 280-283). Con l’oblio Dioniso dona anche la veggenza, egli è il «profeta» (mavnti") «perché il furore bacchico e il delirio hanno virtù profetica. E quando il Dio entra negli uomini a grande impeto li dissenna e predicono il futuro» (ibi 298 ss.). Anche in Platone estasi è presente solo in forma verbale, indicando l’allontanamento di qualcosa dalla sua idea (ej x istav m enon, cfr. Crat., 439 e) o l’abbandono dei propri costumi di vita (ejxivstasai, cfr. Leg., 907 e), dunque uno sconvolgimento e una trasformazione. Nel Fedro Socrate, attraverso il «segno divino», comprende di essersi macchiato di una colpa nei confronti del Dio pronunciando un discorso nel quale Eros è stato presentato come un male. Per espiare questa colpa Socrate pronuncerà un secondo discorso (Phaedr., 243 b - 265 c), fondato sull’idea che Eros, in quanto Dio, «non è possibile che sia un male» (Phaedr., 242 b - 243 b) e distinguendo fra la mania come malattia e la mania come dono divino e divina mutazione (qeiva" ejxallagh'"), che si articola in quattro forme (Phaedr., 265 a-b): quella profetica (mantichvn), attribuita ad Apollo (sulla dialettica fra mania e ragione, cfr. Tim., 71 e - 72 a); quella telestica, che libera da mali e colpe e inizia al culto divino, a Dioniso; quella poetica alle Muse (cfr. Io, 533 d - 535 a, ma anche Democrito: «quel che un poeta scrive con entusiasmo e spirito sacro [ejnqousiasmou' cai; iJrou' pneuvmato"] è molto bello», [frammento 68, B18 in H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, cit.]); quella amorosa (ejrwtichvn), la migliore, ad Afrodite ed Eros, ove è da notare che la mania amorosa coincide con quella filosofica: l’uomo che, colto dal brivido della bellezza, per tendere alla verità e all’idea «si allontana (ejxistavmeno") dalle occupazioni umane e si rivolge al divino, viene accusato dai più di essere uscito di senno. Sfugge ai più che

Estasi egli, invece, è pervaso da un Dio (ejnqousiavzwn)» (Phaedr., 249 b-d). L’estasi come allontanamento coincide con l’entusiasmo nella mania amorosa e nella filosofia, di qui la necessità di corrispondere all’amante per corrispondere al dio che lo pervade (Phaedr., 253 b-c). Lo Pseudo-Longino, nel trattato Sul sublime, afferma che «Lo straordinario nell’ascoltatore non produce persuasione, ma estasi (e[cstasin); il meraviglioso prevale sempre del tutto sulla persuasione e su ciò che procura piacere» (ibi, I, 4). In Plotino l’estasi indica un allontanamento o un turbamento dell’intelligenza contrapposto alla sua quiete (Enn., V 3, 7) o il superamento, attraverso il «togli via tutto (a[fele pavnta)» (ibi, V 3, 17), della distinzione fra veggente e visto di cui la visione abituale e l’intelligenza sono ancora un segno. Quando il veggente, «diventato altro da quello che era e ormai non più se stesso, appartiene a Lui ed è uno con Lui, avendo fatto coincidere, per così dire, centro con centro» (ibi, VI 9, 10), la «visione intima» coincide con l’estasi e «la vita degli Dèi e degli uomini divini e beati», con la «fuga da solo a solo» (ibi, VI 9, 11). L’attività di Paolo appare fondarsi su un’autoconsapevolezza entusiastica («non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» [Gal 2, 20]; «porto le stigmate di Gesù nel mio corpo» [Gal 6, 17]; «Dio giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo, secondo il mio vangelo» [Rm 2, 16]; «conosco un uomo in Cristo che fu rapito al terzo cielo» [2 Cor 12, 2]), confermata dal racconto della sua conversione (At 9). Delle quattro forme platoniche di mania come dono divino Paolo sembra accoglierne due come carismi, quella profetica e quella telestica (1 Cor 12, 8-10; 13, 2), fondate sul dono dell’amore (aj g av p h, 1 Cor 13). Nei Vangeli l’estasi indica lo stupore di fronte alle parole (Lc 2, 47), alle guarigioni (Mc 2, 12; 5, 42; Lc 5, 26; 8, 56; Mt 12, 23) e ai prodigi di Gesù (Mc 6, 51). Alle parole del giovane vestito di bianco che annuncia la resurrezione, le donne recatesi al sepolcro «fuggirono», prese da tremore ed estasi (e[kstasi" Mc 16, 5-8). In Dionigi Areopagita, che legge Paolo attraverso Platone e Plotino, l’amore divino è «estatico», sia nel senso che esso «non permette che gli amanti appartengano a se stessi, ma a quelli che essi amano» sia nel senso che Dio stesso «nell’eccesso della sua bontà amorosa, va fuori di sé» (De divinis nominibus, IV, 3689

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Estensionalità 13, tr. it. di P. Scazzoso, Nomi Divini in Opere, Milano 1999, pp. 310-311). In Eckhart l’uomo deve privarsi di ogni immagine e «lasciare Dio per volontà di Dio» (Qui audit me [Predigt 12] in Deutsche Werke, vol. I, Stuttgart 1958, pp. 170-171, tr. it. di G. Faggin, Trattati e prediche, Milano 1988, pp. 246-252) per lasciare che Dio sia Dio in lui. «Esci completamente da te stesso per volontà di Dio, così Dio uscirà completamente da se stesso per volontà tua. Se questi due escono, quel che rimane è un uno semplice» (In hoc apparuit caritas dei in nobis [Predigt 5b] in Deutsche Werke, vol. I, Stuttgart 1958, p. 93, tr. it. di G. Faggin, Trattati e prediche, Milano 1988, p. 212). Questa uscita estatica è l’unica via a quell’unità per la quale «l’occhio, nel quale vedo Dio, è lo stesso occhio nel quale Dio vede me; il mio occhio e l’occhio di Dio, questo è un occhio e un vedere e un conoscere e un amare» (Qui audit me [Predigt 12] in Deutsche Werke, vol. I, Stuttgart 1958, p. 201, tr. it. di G. Faggin, Trattati e prediche, Milano 1988, p. 250). La filosofia è connessa all’estasi dionisiaca in Hegel, per il quale «il vero è il tumulto bacchico» che pervade il tutto e coincide con la «quiete trasparente e semplice» (Phänomenologie des Geistes, Franfkurt am Main 1970, p. 46, tr. it. a cura di E. De Negri, Fenomenologia dello Spirito, Firenze 2001, p. 27). Per Heidegger l’esistenza dell’uomo avrebbe un’essenza estatica, cioè aperta ed esposta all’apertura dell’essere. Più che come uno «stare fuori» l’estasi dovrebbe essere pensata come uno «stare dentro» l’apertura dell’essere (Wegmarken, Frankfurt am Main 1996, p. 374, tr. it. a cura di F. Volpi, Segnavia, Milano 2002, pp. 325-326). A. De Santis BIBL.: H. STEPHANUS, e[kstasi", in Thesaurus Linguae Græcae, Paris 1831, III, II, coll. 570-572; W. F. OTTO, Dionysos: Mythos und Kultus, Frankfurt am Main 1933, tr. it. di A. Ferretti Calenda, Dioniso:mito e culto, Genova 1990; A. OEPKE, e[kstasi", in G. KITTEL (a cura di), Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, vol. II, coll. 447-457, Stuttgart 1949-79; E. R. DODDS, The Greeks and the Irrational, Los Angeles 1951, tr. it. di V. Vacca De Bosis, I Greci e l’Irrazionale, Milano 2003; F. PFISTER, Ekstase, in T. KLAUSER (a cura di), Reallexikon für Antike und Christentum, Stuttgart 1959, vol.IV, coll. 944-987; A. MÜLLER - P. HEIDRICH, Ekstase, in J. RITTER (a cura di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, Basel 1972, vol. II, coll. 434-436; W. BURKERT, Griechische Religion der archaischen und klassischen Epoche, Stuttgart 1977, tr. it. a cura di G.

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Arrigoni, La religione greca di epoca arcaica e classica, Milano 2003. ➨ ENTUSIASMO; MANIA; MISTICA.

ESTENSIONALITÀ, TESI DELLA. – La tesi Estensionalità dell’estensionalità è una particolare versione del principio di Frege che va sotto il nome di tesi di composizionalità: «Il significato di un enunciato dipende dal significato delle espressioni componenti». In Frege questo principio, elaborato in Über Sinn und Bedeutung (in «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», 100, 1892, pp. 25-50), vale sia per il senso sia per il riferimento (Bedeutung). Frege, parlando di enunciati, identifica riferimento ed estensione: il riferimento o estensione di un enunciato è il suo valore di verità. Dopo l’antinomia di Russell, derivata dal principio per cui a una proprietà poteva sempre corrispondere una classe, si sono messe in dubbio le proposizioni che coinvolgevano proprietà, per restringere in modo più rigoroso il linguaggio logico e la semantica al trattamento delle estensioni (individui, classi, valori di verità). Per tesi dell’estensionalità si possono intendere tre cose. - 1. Per la tesi dell’estensionalità in generale (o principio di estensionalità) l’estensione di un enunciato è funzione dell’estensione delle parti componenti. Se le parti componenti sono nomi e predicati, il valore di verità dipenderà dagli oggetti e le classi ne sono l’estensione (se un oggetto appartiene alla classe il valore sarà il vero; altrimenti il falso). Se le parti componenti sono anch’esse enunciati, il valore di verità dipenderà dall’estensione, cioè dal valore di verità degli enunciati componenti. La validità di questa tesi di estensionalità è data dal metodo delle tavole di verità di Wittgenstein e Post. È possibile decidere qual è il valore di verità di un enunciato a partire dal valore di verità degli enunciati componenti e dal significato dei connettivi. Ad esempio, un enunciato composto da due enunciati collegati da una congiunzione è vero se e solo se gli enunciati componenti sono entrambi veri, e falso altrimenti; un enunciato composto da due enunciati collegati da una disgiunzione è vero se e solo se almeno uno degli enunciati componenti è vero, ed è falso altrimenti; e così via. Date queste regole, a ogni enunciato viene attribuito meccanicamente il suo valore di verità o la sua estensione. - 2. La tesi dell’estensionalità in senso

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stretto è la tesi di Russell e Carnap per cui «per ogni sistema non estensionale c’è un sistema estensionale in cui questo può essere tradotto» (Meaning and Necessity, Chicago 1947, § 32). Questo permetterebbe di risolvere drasticamente i problemi delle antinomie generate da certe forme di espressione intensionali. Per «intensionale» si intende quanto riguarda il significato cognitivo: le proprietà delle espressioni e non solo le classi a esse connesse e i pensieri espressi e non solo i valori di verità (vedi intensione-estensione). Un esempio di sistemi intensionali sono i sistemi modali; in questo senso, la tesi dell’estensionalità sostiene la traducibilità dei sistemi modali in sistemi non modali. Carnap riafferma la tesi – non dimostrata – ritenendo possibile che ogni linguaggio intensionale possa essere espresso in un «metalinguaggio» estensionale (R. Carnap, op. cit., § 38). - 3. La tesi dell’estensionalità in senso specifico, relativamente ai linguaggi naturali, è la tesi di Carnap, compatibile con le osservazioni di Quine, per cui l’assegnazione di una intensione sulla base dell’estensione data previamente, non è una questione di fatto, ma una questione di scelta. Il linguista cioè è libero di scegliere le proprietà che meglio si adattano all’estensione che viene collegata a un dato termine, guidato da considerazioni di semplicità teorica. Quine sosterrà qualcosa di analogo in Word and Object (Cambridge [Massachusetts] 1960, tr. it. di F. Modadori, Milano 1970), difendendo l’indeterminatezza della traduzione. C. Penco BIBL.: L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, London 1922, tr. it. di A.G. Conte, Torino 1964; B. RUSSELL, Inquiry into Meaning and Truth, London 1940, tr. it. di L. Pavalini, Milano 1963; R. CARNAP, Meaning and Necessity, Chicago 1947, tr. it. di A. Pasquinelli, Firenze 1976; W.V.O. QUINE, From a logical point of view, Cambridge (Massachusetts) 1953, tr. it. di E. Mistretta, Il problema del significato, Roma 1966. ➨ ESTENSIONE / INTENSIONE.

ESTENSIONE (extension; Ausdehnung; extenEstensione sion; extensión). – Il concetto di esteso è intimamente legato al concetto di quantità, come a quelli di corporeo e di spazio: della quantità intesa in senso stretto è l’aspetto fondamentale, con cui è connessa la misurabilità e divisibilità (e quindi il numero); l’estensione è certamente anche un elemento costitutivo del concetto di corporeo.

Estensione SOMMARIO: I. Il concetto di estensione. - II. Oggettività e origine del concetto di estensione. III. Estensione e sostanza corporea. I. IL CONCETTO DI ESTENSIONE. – Kant dà come esempio tipico dei giudizi analitici l’asserzione: «Tutti i corpi sono estesi» (Kritik der reinen Vernunft, B 11 / A 7, tr. it. di G. Colli, Critica della ragione pura, Milano 20044, p. 54), dove il predicato dell’estensione si intende già compreso nel concetto di corpo e inseparabile da esso, di modo che il giudizio può invertirsi semplicemente: «Tutto ciò che è esteso è corpo». Tuttavia quando proviamo a definire che cosa sia l’estensione, ci accorgiamo di non poterlo fare per riferimento a concetti più noti, anteriori: quello di estensione è infatti uno dei concetti primi immediatamente legati alla nostra esperienza sensibile. Il che spiega perché Aristotele non ne cerca altra chiarificazione che per esempi: «Il quanto è [...] come il bicubito o il tricubito» (Cat., 4, 1 b 28). Se ne può fare una descrizione dicendo, p. es., che esteso è ciò che ha parti fuori di altre parti, ma è evidente che, se questa descrizione si adegua all’immaginazione, suppone in realtà il concetto di estensione, che è implicato da «fuori» e da «parti». II. OGGETTIVITÀ E ORIGINE DEL CONCETTO DI ESTENSIONE. – Il quanto, o esteso, viene diviso da Aristotele in continuo, contiguo e successivo (cfr. Phys., VI, 1, 231 a 21). Le principali difficoltà teoriche riguardano però il continuo, caratterizzato dalla mancanza di limiti definiti tra le sue parti, che si compongono così in un tutto omogeneo e infinitamente divisibile. Il concetto di estensione spaziale si presenta allora come caso particolare (insieme p. es. al tempo e al movimento) di una difficoltà logica evidenziata nell’antichità da Anassagora e Zenone, quella dell’impossibilità di un continuo reale. Nell’antichità, le due principali risposte a questo problema sono quelle di Aristotele, che in base ai concetti di atto e potenza nega l’infinita divisibilità attuale dell’esteso, e di Democrito, che nega il carattere continuo dell’estensione affermando l’esistenza di grandezze indivisibili (gli atomi). È sul piano matematico, però, che l’infinita divisibilità dell’esteso rimane per i greci un problema irrisolto, venendo a segnare il momento idealizzante nel passaggio dalle approssimative misurazioni a scopi pratici all’esattezza della geometria scientifica: il valore oggettivo dell’estensione (e in genere dell’elemento quantitativo) a differenza 3691

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Estensione delle qualità corporee, si afferma infatti rispetto a una piena intelligibilità matematica che essa possiede solo come ente geometrico e pura forma ideale. Nell’età moderna, la matematizzazione galileiana della natura e il razionalismo cartesiano fanno di questa idealizzazione dell’esteso un principio di realtà e la distinzione – di per sé metodologica – tra qualità primarie e secondarie viene forzata in senso ontologico e sostanziale; si capisce allora come essa fosse destinata a indebolirsi una volta ricondotta nel quadro complessivo di una teoria della conoscenza. Vi arrivò per primo l’empirismo inglese. La distinzione tra qualità primarie e secondarie, sostenuta non solo da Galileo e Cartesio ma anche da Locke, si sfalda sotto la critica di Berkeley: non solo, infatti, nel dato dell’esperienza le qualità si presentano estese e l’estensione qualificata, ma è chiaro che se noi non percepiamo immediatamente che idee, nessun «ponte» potrà consentirci di affermare la realtà in sé dell’esteso piuttosto che di altre proprietà degli oggetti. Per Berkeley dunque l’estensione è, come le qualità corporee con cui è inscindibilmente legata, idea, ossia percipi, soggettività. Similmente per Hume, l’idea di estensione è un’idea di punti visibili o tangibili, distribuiti in un certo ordine (cfr. A Treatise of Human Nature, a cura di L.A. Selby-Bigge, Oxford 1978, pp. 33 ss., tr. it. di P. Guglielmoni, Trattato della natura umana, Milano 2001, pp. 89 ss.). Per Kant, fin dalla dissertazione del 1770 (De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, § 13), l’estensione (lo spazio) non è se non una forma soggettiva dell’intuizione sensibile. Infine per il neocriticismo (come per l’idealismo assoluto) «l’esteso non può esistere in se stesso [...] esso non esiste che nella coscienza, perché solo nella coscienza può essere quello che è, un tutto dato prima delle sue parti, che le parti dividono ma non costituiscono» (J. Lachelier, Du fondement de l’induction, Paris 1902, pp. 128 ss.). Del resto, la distinzione tra qualità primarie e secondarie era già criticata da Leibniz, per il quale l’estensione non è che una rappresentazione che noi ci facciamo delle relazioni interne alle monadi, dunque fenomeno, nel senso però che è specifico di Leibniz e che significa l’immediata connessione dell’apparenza sensibile all’ordine intelligibile delle leggi ideali. Idealità dell’estensione, che è tra i motivi della riflessione leibniziana più frequentemente ri3692

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presi nel dibattito filosofico del XVIII secolo (sebbene talvolta nel quadro di un fenomenismo che non era invece di Leibniz), e al cui fondo si ritrovano le difficoltà teoriche del continuo e le antinomie dell’infinito attuale. Il problema del valore oggettivo dell’idea di estensione viene immediatamente a intrecciarsi nell’età moderna con l’indagine psicologica della sua origine nel complesso conoscitivo. Mentre Cartesio ne fa un’idea innata, e giustifica così la distinzione tra qualità primarie (intelligibili) e secondarie (sensibili), Locke la riferisce, al pari delle altre idee, all’esperienza sensibile, di modo che la distinzione risulta ancor più problematica. Secondo Ch. Wolff l’idea a priori di estensione nasce quando ci rappresentiamo come un tutto più cose diverse: «Si plura diversa ideoque extra se invicem existentia, tamquam in uno nobis repraesentamus: nodo extensionis oritur: ut adeo extensio sit multorum diversorum, aut, si mavis, extra se invicem existentium coexistentia in uno» (Philosophia prima sive Ontologia [1728], in Gesammelte Werke, serie II, vol. 3, a cura di J. Ecole, Hildesheim 1962, § 548). Soprattutto, si manifesta in questo quadro teorico la difformità tra l’idea geometrica di estensione (passibile di misurazione esatta e di proprietà matematizzabili) e il suo correlato sensibile (la cui misurazione è sempre solo approssimativa e imperfetta): difficoltà che per un verso sollecita a una riflessione sui fondamenti della geometria (e in generale delle scienze esatte), quale si inizia con Newton, con Leibniz, con L. Euler, per farsi ancor più urgente con la scoperta delle geometrie non euclidee; per altro verso, ripropone, in relazione all’idea di estensione, il problema generale del nesso tra reale e ideale, sensibile e intelligibile. Così, ad esempio, Leibniz colloca l’idea di estensione tra quelle che non derivano dai sensi, ma «sono piuttosto del senso comune, vale a dire dello spirito stesso, poiché sono idee dell’intelletto puro, ma che hanno rapporto all’esterno, e che i sensi fanno appercepire; pertanto esse sono capaci di definizioni e di dimostrazioni» (Nouveaux essais sur l’entendement humain [1703-05], in Sämtliche Schriften und Briefe, a cura dell’Accademia delle scienze di Berlino, Leipzig-Berlin 1923 ss., serie VI, vol. 6, p. 128, tr. it. Nuovi saggi sull’intelletto umano, in Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai e E. Pasini, Torino 2000, vol. 2, p. 103). Da parte sua, Kant indica, nel § 25 della Critica del Giudizio, il fondamento

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ultimamente estetico e sensibile di ogni misurazione estensiva; un tema che non mancherà di trovare nuova attenzione nella filosofia del Novecento, quando Husserl cercherà di esplicitare il «mondo della vita» quale presupposto inespresso di ogni idealizzazione geometrica e di ogni matematizzazione della natura (cfr. Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie [1936], in Hua, vol. 6, a cura di W. Biemel, Den Haag 1954, tr. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano 1961, § 9). Ora, riguardo all’oggettività dell’estensione, è chiaro che sul piano dei dati di coscienza non vi può essere alcun dubbio: gli oggetti delle nostre percezioni sensoriali e gli organi stessi di senso, in quanto cadono sotto la coscienza, ci appaiono estesi, cioè aventi parti esterne le une alle altre. D’altra parte la distinzione tra qualità primarie e secondarie non sembra trovare una giustificazione sul piano di una fenomenologia della percezione: l’estensione, infatti, appare immediatamente come carattere dell’oggetto a egual titolo, ad esempio, del colore e l’oggettività dell’estensione è piena, formale, ossia il corpo è esteso in sé, non solo per noi, ma anche per qualsiasi soggetto lo conosca diversamente da noi o senza gli organi di senso; né c’è alcun motivo per cui si debba ammettere in questa conoscenza una qualche deformazione o uno snaturamento da parte nostra. Con ciò ci sembra anche risolto il problema dell’origine del concetto di estensione: esso si ha per astrazione dal dato di esperienza. La differenza tra tale concetto e i concetti qualitativi, p. es., del rosso o del verde, sta in questo che, mentre del primo abbiamo immediatamente un concetto specifico e possiamo quindi formare dei giudizi certi a priori (come due + due = quattro), delle qualità, p. es. dei colori, non abbiamo immediatamente se non un concetto generico ed è pertanto impossibile sapere a priori che cosa risulti dall’addizione del rosso e del verde, ma si deve, per sapere questo, interrogare l’esperienza con i procedimenti in uso nelle diverse scienze. III. ESTENSIONE E SOSTANZA CORPOREA. – Una volta postici sul piano realistico, ci si può chiedere in che rapporto sta l’estensione con la sostanza corporea. Sembra certo che Aristotele abbia ammesso una distinzione reale tra i due predicamenti della sostanza e della quantità (cfr. ad esempio Metaph., XIV, 2, 1089 b 36) e il motivo sta nel fatto che riguardo allo stesso individuo

Estensione / intensione la quantità-estensione può variare senza che muti con ciò anche la sostanza. Cartesio invece riteneva che la sostanza corporea coincidesse con l’estensione geometrica a tre dimensioni, mentre la sostanza spirituale non sarebbe che pensiero. Va detto però che la negazione di un principio sostanziale distinto dall’estensione, sembra necessariamente ridurre l’estensione reale, infinitamente divisibile, a mero fenomeno, ciò che accade precisamente con Berkeley e gli idealisti. V. Miano BIBL.: W. GENT, Die Raum-Zeit-Philosophie des 19. Jahrhunderts, Bonn 1930; E.M. ADAMS, Primary and Secondary Qualities, in «Journal of Philosophy», 45 (1948), pp. 435-442; V.E. SMITH, St. Thomas and the Object of Geometry, Milwaukee 1954; E. FINK, Zur ontologischen Frühgeschichte von Raum-Zeit-Bewegung, Den Haag 1957; L. SCARAVELLI, Gli incongruenti e la genesi dello spazio kantiano, in Scritti kantiani, a cura di M. Corsi, Firenze 1973; G. BÖHME, Über Kants Unterscheidung von extensiven und intensiven Größen, in «Kant-Studien», 65 (1974), pp. 239-258; E. CASSIRER, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, in Gesammelte Werke, 2-5, a cura di B. Recki, Hamburg 1999-2000, 4 voll., tr. it. di E. Arnaud, Storia della filosofia moderna, Torino 1978, 4 voll. ➨ CONTINUO; DIVISIONE; INTENSIONE / ESTENSIONE; MECCANICISMO ; MISURA; NUMERO; QUANTITÀ; SPAZIO.

ESTENSIONE / INTENSIONE. – A partire Estensione / intensione dalla Logica di Port-Royal (in cui tuttavia al posto di intensione compare «comprensione») e ancor più da Leibniz (Nouveaux essais sur l’entendement humain, IV, 17, § 9), la coppia estensione/intensione è utilizzata prevalentemente per definire distinte proprietà dei concetti e dei termini (semplici o complessi). Più in particolare, per quel che riguarda i concetti, l’estensione è costituita dall’insieme degli oggetti che sono pensati attraverso quel concetto, mentre l’intensione è data dall’insieme delle note oggettive e definitorie che costituiscono il contenuto analizzabile di uno stesso concetto. Analogamente, per quel che riguarda i termini, l’estensione è data dall’insieme degli elementi a cui il termine conviene (ovvero dalla classe degli oggetti per cui quel termine risulta utilizzabile con verità), mentre l’intensione è data dal significato del termine, e cioè appunto dal contenuto del concetto espresso attraverso quel termine (e in questo senso, anche il contenuto di una proposizione può esser de3693

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Esteriore / interiore finito la sua intensione). Intensione ed estensione stanno così in un rapporto inversamente proporzionale: maggiore è l’intensione, minore è l’estensione (l’individualità possiede ad esempio una estensione minima) e viceversa. Questa distinzione rimane in uso, in forme diverse, anche nella logica novecentesca (cfr. ad es. W.v.O. Quine, From a Logical Point of View, II, 1, in cui per estensione è usato anche naming – «nominazione»), dopo essersi storicamente incrociata con quella delineata da Stuart-Mill tra denotazione e connotazione (Logic, I, 2, § 5), e quella introdotta da Gottlob Frege tra la Bedeutung (significato) di un segno, e cioè l’oggetto designato, e il suo Sinn (senso), relativo al modo in cui l’oggetto ci viene dato (Über Sinn und Bedeutung, 1892, § 1). Va tuttavia sottolineato che, almeno sotto il profilo lessicale, la distinzione leibniziana non trova esatta corrispondenza nel vocabolario scolastico. I medievali esprimono infatti ciò che nella logica moderna e contemporanea s’intende per estensione attraverso il lessico della suppositio (ovvero la proprietà per cui un termine semplice o complesso «sta per» qualcosa), e non per mezzo del termine extensio. L’opposizione logico-semantica tra estensione e intensione è così generalmente espressa attraverso la distinzione tra supposizione personale (in cui il termine sta per i suoi supposita) e supposizione semplice (in cui il termine sta per il significato o il concetto), o, come in Pietro Ispano, attraverso la distinzione tra suppositio e significatio. La coppia extensio/intensio ha invece altra valenza, relativa ai diversi gradi quantitativi e qualitativi di una res o di una forma e per certi versi antitetica a quella successivamente impiegata per la semantica dei termini: l’extensio definisce l’intera ampiezza della definizione dell’essenza di una cosa (per riprendere un classico esempio scolastico, tutto ciò che definisce la carità), l’intensio definisce il grado con cui tale essenza viene istanziata o partecipata da individui diversi o, dallo stesso individuo, in momenti diversi (esistono infatti gradi più o meno intensi di carità, che pertanto risulta variabile senza mutare nella sua essenza o definizione formale). Questo stesso modello viene applicato dai calculatores di Oxford (Heytesbury, Dumbleton, Swineshead) all’analisi del movimento – interpretando la successione delle posizioni assunte dal mobile come successione di forme equivalenti a nuovi gradi di intensità del movimento stesso – e 3694

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della velocità, considerata come variazione intensiva di una qualità (si ricollega a questo aspetto l’intero dibattito scolastico sull’intensio e la remissio delle forme). P. Porro BIBL.: A. MAIER, Zwei Grundprobleme der scholastischen Naturphilosophie. Das Problem der intensiven Grösse, die Impetustheorie, Roma 19683; E.D. SYLLA, The Oxford Calculators and the Mathematics of Motion, 1320-1350. Physics and Measurements by Latitudes, New York - London 1991; J.-L. SOLÈRE, D’un commentaire l’autre: l’interaction entre philosophie et théologie au Moyen Âge, dans le problème de l’intensification des formes, in M.O. GOULET-CAZÉ (a cura di), Le commentaire entre tradition et innovation, Paris 2000, pp. 411-424; J.-L. SOLÈRE, Plus ou moins: le vocabulaire de la latitude des formes, in J. HAMESSE - C. STEEL (a cura di), L’élaboration du vocabulaire philosophique au Moyen Âge, Turnhout 2000, pp. 437-488. ➨ ESTENSIONALITÀ, TESI DELLA.

ESTERIORE / INTERIORE (external / interEsteriore / interiore nal; aussen / innen; extérieur / intérieur; exterior / interior). – La problematica filosofica dell’opposizione tra esteriore e interiore nasce con il costituirsi della nozione di coscienza nel suo significato sia conoscitivo (Bewußtsein) sia morale (Gewissen), ed esprime la dicotomia tra ciò che è estraneo, esteriore, alla coscienza e ciò che le è proprio. Il tema del contrasto tra interiorità ed esteriorità lo si potrebbe rinvenire già in Socrate, nel suo invito a conoscere sé stessi (gnw'qi seautovn), e diviene uno dei tópoi dello stoicismo. Le pagine di Seneca, Epitteto e Marco Aurelio sono a questo proposito emblematiche: esse esprimono l’esigenza del saggio di rifuggire le cose esteriori per coltivare quelle interiori, le uniche in grado di dare autentica comprensione della vita e imperturbabile serenità (hJsuciva) d’animo (cfr. M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung, tr. it. di O. De Gregorio e B. Proto, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, Firenze 1967, 2 voll.). Nella letteratura stoica e anche neoplatonica, l’interiorità fu quindi concepita come un colloquio, intimo e personale con il proprio sé: lo stesso pro;" ejmautovn di Marco Aurelio costituisce un dialogo (dialevgesqai) dell’anima con se stessa. Con l’avvento del cristianesimo la dimensione umana interiore diviene il luogo dell’ejpevktasi", della elevazione dell’anima verso Dio, e l’esteriore viene considerato come mera realtà creata. In Agostino, la dimensione interiore assume uno statuto me-

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tafisico: è cifra costitutiva della trascendenza dell’uomo: in essa si avverte la sconcertante presenza di una realtà definita come «intimior intimo meo et superior summo meo» (Conf., III, 6). La dialettica agostiniana di intentio, extentio e distentio (cfr. De Trin., I, 1; e Conf., XI, 29, 39) diviene interpretazione del rapporto tra interiore ed esteriore, tra immanenza e trascendenza. La concezione agostiniana dell’interiorità trova un terreno di feconda ricezione e di originale rielaborazione in Pascal e Kierkegaard, e con essa, nel Novecento, si sono particolarmente confrontati gli autori dello spiritualismo, del personalismo e dell’esistenzialismo. Nel corso della modernità, alla nozione di un’interiorità concepita in senso ontologico e metafisico, si sono opposte numerose correnti, le cui metodologie d’indagine hanno rivendicato di volta in volta il valore costitutivo e la centralità epistemologica dell’esperienza della realtà esteriore (empirismo), del fatto sperimentalmente verificabile (positivismo), del linguaggio nella sua struttura logico-formale (neopositivismo logico e filosofia analitica) e dell’analisi delle strutture cognitive umane (psicologia cognitiva): potremmo affermare che in tali prospettive filosofiche, lo studio della dimensione interiore dell’uomo difficilmente si apre a considerazioni ulteriori di ordine metafisico e trascendente, generalmente accusate di mentalismo, di dualismo, di essere ingiustificato residuo di tradizionali concezioni metafisiche e teologiche. Nel Novecento uno degli esempi più emblematici di tale negazione dello statuto ontologico dell’interiorità potrebbe considerarsi la prospettiva di Jean-Paul Sartre, nella quale l’io e la stessa coscienza, si ridurrebbero alla sfera dell’esteriorità, all’insieme irrelato dei vissuti intenzionali: in Sartre, si potrebbe quindi parlare di un primato della dimensione esteriore alla quale la stessa interiorità soggettiva sarebbe ridotta: «Noi ci rifiuteremo di vedere nell’ego una sorta di polo X, supporto dei fenomeni psichici. [...] L’ego non è nulla al di fuori della totalità concreta degli stati e delle azioni che supporta» (La transcendance de l’Ego. Esquisse d’une description phénoménologique, Paris 19652, p. 57); la coscienza in quanto tale «non è altro che il di fuori di se stessa» (Situations, vol. I, Paris 1947, p. 33). Un simile atteggiamento di radicale negazione della dimensione ontologica dell’interiorità, nell’ambito della filosofia analitica, lo si potrebbe rinvenire in Gilbert Ry-

Esteriore / interiore le: in una nota opera del 1949, The Concept of Mind, il filosofo parla di errori categoriali (category mistake) che avrebbero generato «la dottrina del dogma dello spettro nella macchina», ovvero la concezione cartesiana che vede nell’uomo, una res extensa quale dimensione corporea ed esteriore, e una res cogitans quale dimensione propriamente interiore. Nel corso della storia della filosofia i termini esteriore e interiore hanno assunto molteplici significati che potremmo tentare di ridurre ai seguenti: 1) Senso originario, spaziale, intuitivo, espresso dai termini dentro e fuori; esteriore in questo caso coincide con esterno, e interiore con interno. 2) Affine a questo primo significato e sempre nell’ordine spaziale, è il senso per cui esteriore equivale a superficiale e interiore a profondo. A questo significato si ricollega la distinzione, comune in anatomia e psicologia, tra sensi esterni e sensi interni. Esteriore nel senso di superficiale viene spesso usato figurativamente, specialmente per l’ordine morale (così nelle espressioni: vita interiore, vita esteriore) e religioso (p. es.: culto esteriore, la «farisaica osservanza» che si manifesta con atti e gesti solamente esteriori – opposto a religiosità interiore, all’espressione autentica di una fede). Questo significato morale e religioso della coppia di termini esteriore/interiore (come dei sostantivi corrispondenti esteriorità/interiorità), assume in filosofia una coloritura speciale da notare e da tener distinta dal significato propriamente gnoseologico. 3) Nel significato gnoseologico, esteriore è ciò che nella coscienza si presenta come oggettivo, ossia distinto e non appartenente al soggetto conoscente, mentre interiore è ciò che appare come soggettivo. È chiaro che l’uso di esteriore/interiore come sinonimi di oggettivo/soggettivo è una metafora presa dal mondo spaziale, che va usata con circospezione. 4) L’inseità gnoseologica dell’oggetto (inteso non come puro fenomeno, ma come qualcosa di reale, di esistente) non significa che esso sia una sostanza distinta dal soggetto e dagli altri oggetti con i quali appare connessa. L’evidenza immediata non può escludere che soggetto e oggetto siano forse attributi o modi di un’unica sostanza, né che il soggetto abbia posto, inconsciamente, prima dell’atto del conoscere, l’oggetto come qualcosa di distinto da sé o come un prolungamento di sé; non si può cioè, in base all’evidenza immediata dell’alterità o 3695

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Esteriorità esteriorità gnoseologica (che non è però fuori dell’essere), concludere all’alterità o esteriorità ontologica profonda, non si può in base all’evidenza immediata della percezione risolvere il problema metafisico: monismo-pluralismo, immanenza-trascendenza. È questo pertanto il quarto senso, ontologico, di esteriore (per il quale ci distacchiamo da Lalande, pp. 329-330), meno presente nel pensiero moderno perché facilmente confuso col terzo o col primo: in questo senso l’esteriorità è legata al concetto metafisico di sostanza: esteriore è tutto ciò che non è e non appartiene o non inerisce a quell’atto o energia esistenziale per cui una cosa è in sé come sussistente e incomunicabile. In questo senso la causa o principio estrinseco è altro dall’effetto: «Aliud est principium» scrive Tommaso d’Aquino «et aliud id cuius est principium» (In I Phys., lezione II, 4); «Non erit principium nisi sit aliquid praeter ipsum» (In III Metaph., lezione X, ed. M.-R. Cathala, n. 464). Ma questa esteriorità, ossia alterità sostanziale, non si oppone all’interiorità o presenza della nel suo effetto, e quindi di Dio in ogni cosa: «Dio» afferma Tommaso «è in tutte le cose, non già come parte di loro essenza, o come una loro qualità accidentale, ma come l’agente è presente alla cosa in cui opera. È necessario infatti che ogni agente sia congiunto alla cosa su cui agisce immediatamente, e che la tocchi con la sua virtù» (Sum. theol., I, q. 8, art. 1). T. Valentini BIBL.: R. BUSA, La terminologia tomistica dell’interiorità, Milano 1949; P. LACHIÈZE-REY, Le moi, le monde et Dieu, Paris 19502; L. STEFANINI, Metafisica della persona, Padova 1950; J. MOREAU, La conscience et l’être, Paris 1958; C. GIACON, Interiorità e metafisica: Aristotele, Plotino, Agostino, Bonaventura, Tommaso, Rosmini, Bologna 1964; P. SCHEUER, An Interior Metaphysics, Weston 1966; H. FEIGL, The “Mental” and the “Physical”: the Essay with a Poscript, Minneapolis 1967; M.F. SCIACCA, L’interiorità oggettiva, Milano 19675; D.M. ARMSTRONG, A Materialist Theory of Mind, London 1968 ; H. PUTNAM, Mind, Language, and Reality, Cambridge 1975; K.R. POPPER - J. ECCLES, The Self and Its Brain, London - New York 1977, tr. it. di B. Continenza, L’io e il suo cervello, Roma 1982, 3 voll.; E. WILSON, The Mental as Physical, London 1979; D.R. HOFSTADTER - D.C. DENNETT, The Mind’s I. Fantasies and Reflections on Self and Soul, Brighton 1981, tr. it. di G. Longo, L’io della mente. Fantasie e riflessioni sul sé e sull’anima, Milano 1995; R. RUDOLF, Der Logos der Seele, Hamburg 1982; C. BRUAIRE, L’Être et l’Esprit, Paris 1983; J.R. SEARLE, Intentiona-

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ESTERIORITÀ (external word, outness; AusEsteriorità senwelt, Äusserlichkeit; extériorité; exterioridad). – Con il termine esteriorità si intende in generale il carattere di tutto ciò che è esteriore, nei suoi vari significati, di tutto ciò che è extrasoggettivo o viene considerato in opposizione all’interiorità del soggetto. Nella filosofia platonica l’esteriorità viene generalmente identificata con il mondo sensibile, plasmato dal demiurgo a imitazione (mimesis) del mondo intelligibile, secondo la descrizione che viene fatta in Timeo 28 a ss.: nell’accezione platonica l’esteriorità corrisponderebbe quindi alla natura sensibile e si porrebbe come uno dei due termini essenziali del dualismo esistente tra il mondo delle idee-forme e la materia corporea. È inoltre a partire dall’immagine delle cose sensibili impresse nell’anima che avrebbe origine il movimento dialettico. In Platone il processo dialettico, l’ascensione dell’anima alla conoscenza delle idee, si origina dalla percezione immediata delle qualità sensibili delle cose esteriori: l’immagine (eijka[siva) della realtà sensibile, dell’esteriorità appunto, rappresenterebbe il primo momento della dialettica tramite la quale l’anima si eleva alla contemplazione della realtà eterna e immutabile delle idee.

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In Aristotele l’esteriorità è connessa alla conoscenza empirica del fenomeno (tov fainovmenon), di ciò che si manifesta ai nostri sensi ed è causa delle affezioni dell’anima: per lo Stagirita (cfr. De an., II, 412 a 1 ss.; tr. it. a cura di G. Movia, Anima, Milano 1996) la conoscenza scaturisce da un processo astrattivo che trova la sua origine proprio a partire dalla sensazione (ai[sqhsi") prodotta dalla realtà extrasoggettiva, da ciò che è esteriore all’uomo. La stessa immaginazione (fnta[siva) diviene facoltà della mediazione conoscitiva tra l’ambito della sensibilità e l’intelletto (nou'"), e si costituirebbe come organo della conservazione e riproduzione di ciò che i sensi hanno appreso dalla realtà esterna, extra animam: «Ora l‘immaginazione sembra che sia una specie di movimento (kivnhsi"), e che non si produca senza sensazione [...]. L‘immaginazione sarà un movimento risultante dalla sensazione in atto» (ibi, III, 428 b 10-12; 429 a 1-2). Nella concezione gnoseologica aristotelica e tomista il problema non è di provare che noi conosciamo il reale extramentale così come avverrà nella filosofia moderna, quanto di spiegare come la conoscenza si attui in un soggetto quale il nostro, che non è sempre in atto, che non è atto puro: per Aristotele e Tommaso d’Aquino il problema dell’esteriorità, ossia del reale extramentale, non si pone, infatti, con la radicalità con la quale si porrà nella riflessione filosofica a partire da Descartes. All’interno di una posizione gnoseologica definita come «realismo classico», non si parte da un’iniziale separazione tra il conoscere e il suo oggetto, ma dalla loro unità nell’atto del conoscere («taujtovn nou'" kai nohtovn», Methaph., XII, 7, 1072 b 21): in tale realismo la nozione di verità si pone come adaequatio intellecus nostri ad rem, e la realtà sensibile è considerata norma oggettiva di verità, fondamento stesso dell’itinerario conoscitivo dell’anima. La realtà extrasoggettiva non è quindi vista come fonte d’inganno e posta sotto il segno del dubbio così come avverrebbe in una concezione tipicamente scettica, ma è considerata come la fonte certa, l’origine stessa della conoscenza: il realismo gnoseologico è l’espressione teoretica di una sostanziale fiducia nell’esistenza oggettiva delle cose percepite dai sensi, nell’esistenza oggettiva di un’esteriorità che diviene fondamento di una stabile ontologia, di una «metafisica dell’essere». Se nell’età antica una concezione atomistica e materialistica dell’esteriorità fu espressa da

Esteriorità Leucippo, Democrito e successivamente ripresa da Epicuro, seppur con differenti accentuazioni, nell’età ellenistica furono soprattutto le correnti scettiche a porre con radicalità il problema della verità dell’esteriorità, del valore di verità di ciò che i sensi percepiscono dall’esperienza: emblematica è a questo proposito l’affermazione di Diogene Laerzio secondo la quale in una visione gnoseologica scettica sarebbe possibile conoscere le sole affezioni dell’anima («movna ta; pavqh gignwvskomen», Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 103), ciò che a noi appare, ma non ciò che l’essere sia in se stesso. Il dubbio scettico è quindi esteso con radicalità a ogni giudizio, e l’atteggiamento auspicato è quello dell’epoché, della sospensione del giudizio, di ogni nostra affermazione sulla realtà dell’esteriorità che pretenda di esser certa e indubitabile. In età tardoantica l’esteriorità viene identificata da Plotino nel mondo sensibile, ultimo grado del processo di emanazione dell’uno, costituito dall’anima universale che informa la materia mediante le idee dell’intelletto. Tutte le cose del mondo sensibile, dell’esteriorità, sono dotate di anima perché rappresentano le ultime irradiazioni della spiritualità dell’uno. La materia in quanto tale viene definita come l’ultimo esito del processo di irradiazione (perilamyi") dell’uno: la materia è privazione estrema della potenza dell’uno ed è considerata come privazione di bene (che coincide con l’uno). Nella visione plotiniana la materia, intesa come un’esteriorità in senso assoluto, viene anche interpretata come un «male», come una «privazione» del positivo, come un non-essere: «Il non-essere è non il non-essere assoluto, ma solamente ciò che è altro dall’essere [...]. Sono tali tutte le cose sensibili e le relative affezioni» (Enn. I 8, 3, tr. it. a cura di G. Faggin, Enneadi, Milano 20022, p. 151). Potremmo inoltre rilevare che l’identificazione plotiniana della materia con il nonessere costituisca un chiaro rimando alla problematica platonica del «diverso» (qatevrou) e dell’alterità trattate nel Sofista: «La materia plotiniana è forse più vicina all‘éteron di questo dialogo che all‘ápeiron del Filebo o alla chóra del Timeo» (J. Trouillard, La procession plotinienne, Paris 19552, p. 19). Nella visione ebraico-cristiana il concetto di esteriorità, la realtà sensibile nella sua totalità, viene a coincidere con quanto è creato: non solo l’uomo, ma la stessa esteriorità, la realtà 3697

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Esteriorità tutta, diviene segno vivo del Dio creatore. L’esteriorità nella sua più ampia accezione si identificherebbe con la creatio ex nihilo da parte di un Dio definito dalla tradizione scolastica come plenitudo essendi e Ipsum esse subsistens. Nella tradizione della scolastica medievale, l’ente, conoscibile nella sua unità, verità, bontà e bellezza, diviene rimando analogico e costitutivo alla trascendenza divina. La stessa esteriorità (la realtà sensibile) viene inoltre generalmente considerata come punto di partenza per le prove razionali dell’esistenza di un ente creatore, sommamente buono e perfetto: si tratterebbe di vie che conducono a Dio «per ea quae facta sunt» (Rm 1, 20). Nel tardo Medioevo il problema dell’esteriorità inizia invece a presentarsi quando con i nominalisti (terministi) termine immediato del conoscere diventano le idee, o quando si ammette che Dio possa, almeno de potentia absoluta, produrre nel nostro spirito una conoscenza intuitiva senza che l’oggetto di tale conoscenza sia realmente presente ai nostri sensi, come viene ad esempio affermato da Pietro d’Auriole (Aureolo, Comm. In I Sent., I, Roma 1956, p. 27). Nicola d’Autrecourt distingue inoltre tra l’esse obiectivum, che per lui è l’esse fenomenico, l’oggetto formale dei sensi, e l’esse subiectivum, ossia il soggetto o la sostanza in cui le qualità da noi percepite dovrebbero inerire, e afferma: «et licet non cognoscamus illud esse subiectivum secundum quo est in se, sed solum secundum talia esse obiectiva, tamen affirmamus de istis esse obiectivis secundum quo supponunt vel accipiuntur pro illo esse subiectivo quo est unum in se» (cfr. su N. d’Autrecourt, Satis exigit ordo, a cura di J.R. O’Donnel, in «Mediaeval Studies», Toronto 1939). Ma per la critica che d’Autrecourt muove al principio di causalità, il giudizio di esteriorità, ossia l’attribuzione delle qualità sensibili alla cosa in sé, non può dare alcuna certezza (H. Denifle - A. Chatelain, Chartularium Universitatis Parisiensis, II, 1, Paris 1891 [rist., Bruxelles 1964], p. 576, n. 1124; J. Lappe, Nicolaus von Autrecourt: sein Leben, seine Philosophie, seine Schriften, in «Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters », 6,2, 1908, p. 32). Ma è soprattutto con Descartes che si presenta il problema che caratterizzerà anche in maniera drammatica il pensiero moderno: come è possibile che un soggetto che non conosce immediatamente se non se stesso e il proprio pensiero, possa tuttavia conoscere e affermare 3698

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qualche cosa d’altro da sé? Dal dubbio metodico e iperbolico emerge il cogito quale certezza logica immediata ed evidente (una «certezza senza verità» direbbe Paul Ricoeur) raggiunta proprio in seguito a una radicale messa in discussione del valore di verità di ciò che i nostri sensi sono in grado di percepire. Se all’interno di tale concezione dualistica, la res cogitans indica la sfera spirituale, l’esteriorità (il mondo materiale e corporeo) è pensata come res extensa: della materia viene pensata come chiara e distinta solo l’estensione. È inoltre di estrema importanza rilevare che in Descartes il garante della conoscenza umana della realtà empirica, il garante della veracità delle idee che vengono dalle cose esteriori al soggetto, è Dio stesso: se la prima fondamentale certezza raggiunta attraverso l’applicazione delle regole del metodo è il cogito, la coscienza di se stessi come esseri pensanti, la seconda fondamentale certezza da raggiungere è il fondamento del carattere oggettivo delle nostre facoltà conoscitive. È l’idea innata di Dio, «creatore di tutto quanto sta fuori di lui» (Meditationes de prima philosophia, III, 41, tr. it. a cura di S. Landucci, Roma-Bari 1997, p. 67), che diviene garanzia della funzione veritativa delle nostre facoltà conoscitive: l’idea di Dio che è in noi, come la marca dell’artigiano impressa sulla sua opera, è garanzia che la realtà extrasoggettiva, la sfera dell’esteriorità, esista realmente e che le nostre facoltà conoscitive non possono ingannarci, giacché altrimenti Dio stesso, che ne è il creatore, sarebbe responsabile di tale inganno; ma Egli, sommamente buono e perfetto, non può rivelarsi menzognero. Nicolas Malebranche, portando alle estreme conseguenze la posizione cartesiana, pensa a una visione delle cose in Dio stesso: noi conosceremmo tutte le cose esteriori in Dio, senza tuttavia poter conoscere Dio nella sua totalità e perfezione (cfr. Entretiens sur la métaphysique, II, Paris 1922, pp. 129 ss.). In Spinoza Dio e mondo si identificano nell’unicità della sostanza (Deus sive natura). Se la sostanza intesa come Dio è definita natura naturans, la sostanza intesa come mondo sensibile, esteriorità, viene definita natura naturata. Le singole realtà spirituali (gli uomini) e le singole cose materiali (corpi estesi) sono quindi i modi, le modificazioni dell’unica sostanza: di conseguenza Spinoza pone un rigido parallelismo tra l’essere e il pensiero, e afferma che l’ordine delle idee (ordo idearum) e l’ordine delle cose (ordo

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rerum), che potremmo anche indicare come esteriorità, hanno tra di loro una perfetta corrispondenza, proprio perché espressioni della medesima sostanza: «ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum» (Ethica, II, prop. VII). In Leibniz il rapporto tra mondo spirituale e mondo fisico è definito dall’armonia prestabilita, dall’accordo predisposto da Dio tra tutte le monadi, e quindi anche, in ogni uomo, tra la monade-anima e le monadi-corpo. Le monadi sono quindi i principi costitutivi di tutta la realtà, esse «sono i veri atomi della natura: in breve sono gli elementi di tutte le cose» (Les principes de la philosophie ou la monadologie, tr. it. a cura di S. Cariati, Principi della filosofia, o, Monadologia, Milano 1997, p. 61): la monadologia diviene dunque comprensione stessa dell’esteriorità. Se i principali esponenti del razionalismo moderno hanno generalmente supposto, seppur con differenti argomentazioni, che non si percepisce mai direttamente alcun corpo esteriore come esistente di fatto, diverse sono le posizioni che hanno caratterizzato l’empirismo inglese. Locke, per spiegare la conoscenza dell’esistenza degli oggetti percepiti dai sensi, ricorre a una inferenza spontanea dalle idee alla causa: causa prima delle idee, e in particolare delle idee semplici, è l’esperienza. È tramite le sensazioni che sarebbe, quindi, possibile asserire l’esistenza di una realtà esterna al soggetto senziente. Berkeley, partendo dalle riflessioni di Locke, giunge ad affermare che l’essere delle cose consiste nell’esser percepite: «l’esse delle cose è un percipi, e non è possibile che esse possano avere una qualunque esistenza fuori dalle menti o dalle cose pensanti che le percepiscono» (A Treatise Concerning the Principles of Human Knowledge, tr. it. a cura di M.M. Rossi, Trattato sui principi della conoscenza umana, Bari 1955, p. 50). L’esteriorità, la realtà degli oggetti empirici (without the mind) si ridurrebbe quindi a idee presenti nella mente (in the mind), e il sorgere stesso delle nostre impressioni sensibili sarebbe attribuito ad una causalità divina. Hume infine, portando alle estreme conseguenze le premesse empiristiche, nel distinguere le impressioni dalle idee, afferma che solo le impressioni sono accompagnate dal senso vivo e irresistibile della realtà presente: questa specie di reazione istintiva è chiamata da Hume belief, credenza. Analogamente in clima positivista, Taine afferma che la nostra percezione esteriore è un so-

Esteriorità gno che si trova in armonia con le cose del di fuori, un’allucinazione vera (cfr. De l’intelligence, vol. II, Paris 1870, p. 160). In opposizione allo scetticismo di Hume, nella Scozia del Settecento si sviluppò un movimento che conferiva una rinnovata fiducia nel senso comune (common sense): per Thomas Reid, in particolare, il giudizio di esteriorità sarebbe giustificato per un principio naturale di carattere istintivo. Il senso comune viene in tal modo identificato nella credenza (belief), universalmente diffusa, dell’esistenza dei corpi e dell’io: «Se ci ingannassimo al riguardo, saremmo in realtà ingannati, e senza rimedio, da Colui che ci ha creati» (An Inquiry into the Human Mind on the Principles of Common Sense, Edinburgh 1764, tr. it. a cura di A. Santucci, Ricerca sulla mente umana secondo i principi del senso comune, in Ricerca sulla mente umana e altri scritti di Thomas Reid, a cura di A. Santucci, Torino 1975, p. 165). Un analogo atteggiamento gnoseologico lo si può rinvenire nella concezione del Glaube espressa da Jacobi nello scritto del 1787 David Hume über den Glaube, oder Idealismus und Realismus: ein Gespräch. Il Glaube jacobiano è definibile come una «fede razionale pura», un’intuizione, una certezza immediata nell’esistenza degli oggetti percepiti e dell’io senziente: «Jacobi vede nella opportuna rettifica ed elevazione del Belief di Hume il punto solido per la fondazione del giudizio di realtà: la fede (Glaube) non è soltanto un principio teologico, ma anzitutto costituisce il fondamento della nostra convinzione della realtà e più precisamente della certezza di tutto ciò che non è suscettibile di rigorosa dimostrazione» (C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, vol. I, Roma 19692, p. 338). La «rivoluzione copernicana» promossa da Kant riguardo al conoscere fa sì che un giudizio sull’aldilà del fenomeno, a cui unicamente è ristretta la nostra conoscenza, sia giudicato impossibile. L’ambito della realtà che va al di là del fenomenico è pensabile dall’uomo solo per via analogica, simbolica e allusiva, e le stesse idee della metafisica, di per sé inconoscibili, sono per Kant oggetto di «fede morale» (cfr. V. Melchiorre, Analogia e analisi trascendentale. Linee per una nuova lettura di Kant, Milano 1991). Il trascendentale kantiano è condizione di possibilità della conoscenza fenomenica ma è anche determinazione (Bestimmung) dei limiti (Grenzen) dell’attività gnoseologica umana (cfr. A. Rigobello, I limiti del trascenden3699

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Esteriorità tale in Kant, Padova 1963). La nostra esperienza conoscitiva della realtà empirica è segnata dai limiti delle facoltà conoscitive, limiti superabili solo in una «libera schematizzazione», in una schematizzazione senza la rigida determinazione delle categorie dell’intelletto, così come essa viene descritta nella Kritik der Urteilskraft: si tratterebbe di un «libero gioco delle facoltà» (KU, in AA, vol. V, p. 218, tr. it. a cura di A. Gargiulo, Critica del Giudizio, Roma-Bari 1997, p. 101) che aprirebbe lo spazio teoretico per la possibilità di un giudizio riflettente, per una riconsiderazione della realtà in ordine al nostro sentimento estetico e morale, alla nostra esigenza interiore di una visione finalistica. Ad avviso di Kant solo Dio può conoscere la realtà nella sua interezza (omnitudo realitatis), e tale conoscenza assoluta viene definita come durchgängige Bestimmung, «ideale di determinazione completa». In Fichte l’esteriorità, intesa come ambito del non-io e sfera dell’esperienza oggettiva, viene concepita come produzione stessa da parte dell’io puro: è in particolare alla facoltà dell’immaginazione produttiva (produktive Einbildungskraft) che sarebbe attribuita la costituzione del mondo degli oggetti, dell’intero sistema di esperienza da parte della soggettività trascendentale: «ogni realtà – s’intende per noi, come infatti non è da intendersi altrimenti in un sistema di filosofia trascendentale – è prodotta semplicemente dall‘immaginazione» (Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre, in Gesamtausgabe, a cura di R. Lauth - H. Jacob, vol. I, 4, p. 368, ed. it. a cura di G. Boffi, Fondamento dell’intera dottrina della scienza, Milano 2003, p. 431). Fichte sottolinea tuttavia che solo la riflessione filosofica sarebbe in grado di comprendere questo dinamico processo dialettico di produzione inconscia dell’esperienza, dell’esteriorità, da parte dell’Icheit. Se in Schelling l’esteriorità, rappresentata dalla natura viene intesa come «spirito visibile» e manifestazione dell’assoluto, nel sistema hegeliano l’esteriorità viene generalmente concepita come il secondo momento della dialettica, il momento dell’antitesi e dell’opposizione: la natura corrisponderebbe quindi all’idea che si estrinseca da sé, che si esteriorizza costituendosi come realtà empirica: «l’esteriorità (Äusserlichkeit) costituisce la determinazione nella quale l’idea è come natura» (Enzyklopädie [1830], in Gesammelte Werke, a cura di U. Rameil - W. Bonsiepen - H.-Ch. Lucas, vol. 3700

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XX, Hamburg 1992, p. 367, tr. it. a cura di V. Cicero, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Milano 1996, p. 420). In questo processo molti interpreti del pensiero hegeliano hanno anche notato un chiaro richiamo alla processione dialettica tipica del neoplatonismo, a ciò che Proclo definiva come momento di «uscita», di «esteriorizzazione» (próodos) dell’uno. Se dalla seconda metà dell’Ottocento lo spiritualismo ha tentato di rivendicare l’irriducibilità dell’uomo all’esteriorità, alla natura, ai «fatti» di cui si occupano le scienze positive, in ambito alle riproposizioni dell’idealismo nel primo Novecento, la coscienza è stata generalmente individuata come il fondamento stesso dell’essere: a questo proposito L. Brunschvicg ha dichiarato che «La nozione di percezione esteriore è una contraddizione in terminis» (L’idéalisme contemporain, Paris 1905, p. 174), e Gentile ha affermato che «per quanto sforzo si faccia per pensare o immaginare altre cose o coscienze al di là della nostra coscienza, queste cose o coscienze rimangono dentro di essa, per ciò appunto che sono poste da noi sia pure come esterne a noi. Questo fuori è sempre dentro. [...]» (Teoria generale dello spirito come atto puro, Pisa 1918, p. 29). Nella fenomenologia husserliana è l’intenzionalità ciò che caratterizza il movimento della coscienza trascendentale verso l’esteriorità. La nostra conoscenza dell’esteriorità viene inoltre definita da Husserl come una «visione eidetica», un’intuizione dell’universale Wesen dei fenomeni da parte della coscienza. Il giovane Sartre, a partire dalla riflessione sulla fenomenologia, nega alla coscienza una realtà logico-ontologica indipendente, e parla di un‘immersione del soggetto nell’esteriorità: «Di fatto sono allora immerso nel mondo degli oggetti, sono essi che costituiscono l‘unità delle mie coscienze» (La transcendance de l’Ego. Esquisse d’une description phénoménologique, Paris 19652, p. 32). Heidegger definisce l’uomo come un essere-nel-mondo (in-der-Welt-sein), e per mondo intenderebbe proprio l’esteriorità nelle sue molteplici forme. In Emmanuel Levinas la nozione di esteriorità si carica di nuovi e inediti significati etici. La stessa sua opera principale, Totalità e infinito, reca come sottotitolo: Saggio sull’esteriorità. Se ad avviso di Levinas, nell’orizzonte dell’essere tutto viene appiattito nella neutralità dell’il y a, del «c’è», e il molteplice è riportato alla totalità, l’esteriorità diviene l’alterità, l’altro (Autrui), il

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volto dell’altro che si manifesta all’io eccedendolo, e la cui connotazione etica è irriducibile a qualsiasi ontologia: «Abbiamo affrontato l‘esteriorità dell’essere [..] proprio come il suo esistere- esteriorità inesauribile, infinita. Un’esteriorità siffatta si apre in altri, respinge la tematizzazione» (Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, Paris 1971, tr. it. di A. Dell’Asta, Totalità e infinito: saggio sull’esteriorità, Milano 1980, p. 304). Levinas prende le distanza dall’ontologismo della tradizione occidentale e propone una considerazione dell’etica come filosofia prima nella quale la presenza dell’esteriorità, dell’altro, si imprime nell’io in forma di coscienza morale, e diviene traccia stessa della trascendenza. All’interno delle varie correnti della filosofia analitica anglo-americana, la conoscibilità dell’esteriorità, della realtà empirica, viene solitamente connessa all’elaborazione di una teoria del significato: a partire dagli studi di Gottlob Frege, la Bedeutung viene indicata come la capacità che ha il linguaggio di riferirsi all’oggetto da significare. In Willard van Orman Quine si può rinvenire una posizione di tipo olistico, nella quale vengono strettamente unite l’analisi dei termini e la considerazione dell’esperienza. L’olismo è posizione espressa da Quine in ambito epistemologico: la scienza deve confrontarsi tutta intera con l’esperienza, con l’intero ambito dell’esteriorità: «L’unità di misura della significanza empirica è tutta la scienza nella sua globalità» (Two Dogmas of Empiricism, in From a Logical Point of View, New York 1951, tr. it. a cura di E. Mistretta, Il problema del significato, Roma 1966, p. 40). Potremmo inoltre affermare che l’epistemologia contemporanea sia generalmente caratterizzata da un ritorno a una concezione realistica dell’esteriorità, a un «realismo ingenuo» considerato dallo stesso Karl R. Popper come un’idea metafisica minimale presupposto stesso della ricerca scientifica: «propongo di accettare il realismo come la sola ipotesi sensata – come una congettura cui non è stata opposta finora nessuna alcuna alternativa sensata» (K.R. Popper, Objective Knowledge. An Evolutionary Approach, Oxford 1972, tr. it. di A. Rossi, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, Roma 1975, p. 67). Un significato propriamente etico del termine esteriorità, anche in rapporto all’interiorità del soggetto, lo si può rinvenire a partire da Socrate e dallo stoicismo (cfr. Seneca, De constantia

Esteriorità sapientis, IX; Epitteto, Manuale, 48; Marco Aurelio, Ricordi, V, 19): il saggio, per essere veramente tale, deve esser capace di superare i condizionamenti delle cose esteriori, per coltivare quelle interiori, le sole in grado di rendere l’esistenza umana autentica e di saper far accettare anche la sorte avversa con serena fermezza d’animo. Questo tema, ripreso dai neoplatonici, sotto certi aspetti è stato fatto proprio anche dall’ascetica cristiana e nel Novecento viene riproposto, sotto nuove forme, dalle filosofie di ispirazione spiritualista e personalista: in particolare si pensi alle prospettive di Armando Carlini, Luigi Stefanini, Michele Federico Sciacca (cfr. P. Prini, La filosofia cattolica italiana del novecento, Roma-Bari 19972). T. Valentini BIBL.: Sul concetto di esteriorità nella filosofia greca e nell’età tardo antica: J. BENRNHARDT, Platon et le matérialisme ancien, Paris 1951; W. WIELAND, Die aristoteliche Physik, Göttingen 1962; V. VERRA, Dialettica e filosofia in Plotino, Trieste 1963; E. WORTMANN, Das Gesetz des Kosmos, Resmangen 1965; D.J. SCHULZ, Das Problem der Materie in Platons Timaios, Bonn 1966; P. DUHEM, To Save the Phenomena: an Essay on the Idea of Physical Theory from Plato to Galileo, Chicago-London 1969; I. DÜRING (a cura di), Naturphilosophie bei Aristoteles und Theophrast, Heidelberg 1969; W. SCHEFFEL, Aspekte der platonischen Kosmologie, Leiden 1976; S. SAMBURSKY, Il mondo fisico dei greci, Milano 1979; F.F. REPELLINI (a cura di), Cosmologie greche, Torino 1980; O. VELÁSQUEZ, Anima mundi. El alma del mundo en Platón, Santiago 1982; K. GLOY, Studien zur platonischen Naturphilosophie im “Timaios”, Würzburg 1986. Nella filosofia medievale: E. GILSON, Réalisme thomiste et critique de la connaissance, Paris 1939; B. NARDI, Soggetto e oggetto del conoscere nella filosofia antica e medievale, Roma 1952; G. VAN RIET, La théorie thomiste da la sensation externe, in «Revue philosophique de Louvain», 51 (1953), pp. 347-408; R. ARNOU, De subiecto et obiecto in cognitione nostra intellectiva secundum textus selectos aliquot recentium et sancti Thomae, Roma 1960; G.C. GARFAGNINI (a cura di), Cosmologie medievali, Torino 1978. Nella filosofia moderna e contemporanea: G. BONTADINI, Indagini di struttura nel pensiero moderno, Brescia 1952; E. CASSIRER, Storia della filosofia moderna. Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza, Torino 1952-58, 4 voll.; G. BONTADINI, Studi di filosofia moderna, Brescia 1966; K. LÖWITH, Gott, Mensch und Welt in der Metaphysik von Descartes bis Nietzsche, Göttingen 1967; P. FAGGIOTTO, Il problema della metafisica nel pensiero moderno, Padova 1969-75, 2 voll.; F. RESTAINO, Scetticismo e senso comune, RomaBari 1974; E.J. DIJKSTERHUIS, Il meccanicismo e l’imma-

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Esternalismo / internalismo gine del mondo dai Presocratici a Newton, Milano 19802; R. RORTY, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton 1979, ed. it. a cura di D. Marconi - G. Vattimo, La filosofia e lo specchio della natura, Milano 1986; M. DI FRANCESCO, Parlare di oggetti. Teorie del senso e del riferimento, Milano 1986; S. NICOLOSI, Il dualismo da Cartesio a Leibniz, Venezia 1987; A. ALBERTI, Sensazione e realtà. Epicuro e Gassendi, Firenze 1988; A. LIVI, Il senso comune tra razionalismo e scetticismo, Milano 1992; M. SANTAMBROGIO, Forma e oggetto, Milano 1992. ➨ ARMONIA PRESTABILITA; DUALISMO; ESTERIORE / INTERIORE; FENOMENO; IDEA; INTENZIONALITÀ; INTERIORITÀ; OGGETTO; OLISMO; REALTÀ; SIGNIFICATO; SOGGETTO.

ESTERNALISMO / INTERNALISMO (exEsternalismo / internalismo ternalism / internalism; Externalismus / Internalismus; externalisme / internalisme; externalismo / internalismo). – SOMMARIO: I. Introduzione. - II. Esternalismo: 1. Putnam e l’esternalismo semantico. - 2. Dall’esternalismo semantico all’esternalismo mentale e sociale. - 3. L’esternalismo radicale. - 4. L’esternalismo biologico. - III. Internalismo: 1. L’autonomia della sfera mentale del significato. - 2. La spiegazione psicologica del comportamento. - 3. La giustificazione epistemica. - 4. La teoria a due componenti. - IV. Epistemologia e storia della scienza. I. INTRODUZIONE. – Nel suo significato prevalente, esternalismo è la concezione per cui i significati e/o i contenuti di certi (o di tutti i) tipi di stati intenzionali sono proprietà necessariamente relazionali, che esistono, possono essere identificate e predicate d’un individuo soltanto mediante un riferimento a qualche realtà (per esempio fisica, sociale, linguistica o metafisica) posta al di fuori del soggetto individuale. Internalismo – o, più raramente, «individualismo» – indica invece la concezione per cui i significati e/o i contenuti di certi (o di tutti i) tipi di stati intenzionali (come credenze e desideri) sono proprietà intrinseche d’un individuo o d’una mente individuale: esistono e possono essere identificati e predicati d’un individuo a prescindere dalla sua relazione alla realtà esterna. In epistemologia e nell’ambito della storiografia della scienza, l’internalismo sostiene che la scienza si sviluppa in modo essenzialmente autonomo, secondo dinamiche interne di tipo razionale, mentre per l’esternalismo la scienza dipende in modo costitutivo dalle circostanze 3702

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storico-sociali, per cui è impossibile ricostruirne la storia mediante le sole dinamiche interne. In etica, esternalismo designa ogni concezione dell’agire morale che separa in qualche senso il motivo per cui l’agente compie una determinata azione e il fondamento morale dell’azione stessa, mentre l’internalismo sostiene che avere un dovere vuol dire avere anche un motivo per compierlo (cfr. C. Korsgaard, Sources of Normativity, Cambridge 1996, p. 81). II. ESTERNALISMO. – 1. Putnam e l’esternalismo semantico. – Il dibattito fra esternalismo e internalismo è originariamente sorto nella filosofia del linguaggio (esternalismo/internalismo semantico) e della mente (esternalismo/internalismo mentale o del contenuto). Punto di partenza è stato un esperimento mentale di Putnam. S’immagini un pianeta distante, Terra Gemella, identico alla nostra Terra, con la sola eccezione che qui l’acqua, pur esibendo le stesse proprietà «superficiali» dell’acqua terrestre, ha una struttura chimica diversa: XYZ invece di H2O. Data la coincidenza delle proprietà superficiali, gli abitanti dei due pianeti attribuiscono al termine «acqua» e a quello corrispondente della Terra Gemella lo stesso significato (o, meglio, la stessa intensione), ma i due termini hanno un significato diverso, poiché diverso è il loro riferimento: l’acqua presente sulla Terra non è quella della Terra Gemella (cfr. H. Putnam, The Meaning of Meaning, in Philosophical Papers, vol. II, Cambridge 1975, pp. 223-227). L’esperimento mentale pare così dimostrare, contro il modo in cui Frege aveva distinto Sinn e Bedeutung, che per determinare l’estensione d’un termine non basta precisarne l’intensione, ma occorre anche precisare la situazione esterna obiettiva. Putnam conclude quindi che «meanings just ain’t in the head» (ibi, p. 227), frase divenuta l’insegna della posizione esternalistica. 2. Dall’esternalismo semantico all’esternalismo mentale e sociale. – Un esperimento mentale presto divenuto quasi altrettanto noto di quello di Putnam è stato formulato da T. Burge (Individualism and the Mental, in «Midwest Studies in Philosophy», 4, 1979, pp. 73-122). Si supponga che una persona del nostro pianeta, che soffre di acuti dolori e a cui è stata diagnosticata un’artrite, provi un giorno un dolore alla coscia e creda si tratti d’un altro sintomo di artrite, non sapendo che quest’affezione riguarda soltanto le articolazioni. Si supponga ora un mondo gemello, con una persona identica

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alla precedente, ma nel quale la definizione del termine «artrite» comprende anche i dolori della coscia. Ora, l’eventuale affermazione d’avere un’affezione artritica alla coscia è falsa nel primo caso e vera nel secondo. Anche se le due persone sono internamente identiche, perché assegnano lo stesso significato allo stesso termine e nutrono le medesime credenze, né i significati né i contenuti mentali corrispondenti alla parola «artrite» sono identici nei due casi, e questo fonda non soltanto un esternalismo semantico, ma anche un esternalismo mentale. Un altro spostamento di accento rispetto a Putnam (ma per un cenno significativo in questo senso cfr. H. Putnam, The Meaning..., p. 229) sta poi nel fatto che la differenza fra le situazioni paragonate concerne soltanto le convenzioni linguistiche entro le rispettive comunità di appartenenza. Burge pone cioè un accento più deciso sulla dipendenza dei contenuti mentali non soltanto dal mondo fisico, ma anche «da fattori sociali indipendenti dall’individuo», i quali forniscono i criteri per la loro identificazione (T. Burge, Individualism..., pp. 77-79). 3. L’esternalismo radicale. – L’esperimento mentale di Putnam fondava soltanto un esternalismo moderato, poiché dimostrava che l’ambiente esterno determina soltanto in parte il significato di un termine. Lo stesso Putnam, accanto all’accezione «ampia» di significato, che include il riferimento (per esempio il fatto che l’acqua sia H2O o XYZ) e dipende dalla realtà esterna, ne aveva lasciato sussistere una «stretta», che dipende soltanto da fattori interni alla persona. L’esternalismo «radicale» rifiuta questa concessione e afferma che, se un pensiero o un contenuto mentale è privato d’ogni relazione a qualche oggetto esterno – non importa che il soggetto ne sia o meno consapevole – non v’è più alcun pensiero o contenuto mentale: «Allo stato interno d’un soggetto – scrive G. Evans – può essere attribuito il contenuto che questo tavolo è rotondo solo se c’è un oggetto su cui esso verte, da cui esso è dipendente causalmente». Non v’è alcun contenuto stretto che sia comune al caso in cui un oggetto è presente e quello in cui la sua percezione sia frutto di un’allucinazione: «Se non v’è oggetto (nel caso in cui il soggetto crede che vi sia), non v’è alcun contenuto – non v’è alcun pensiero» (G. Evans, Collected Papers, Oxford 1985, p. 402; cfr. anche Id., The Varieties of Reference, Oxford 1982, pp. 200-204;

Esternalismo / internalismo J. McDowell, De Re Senses, in C. Wright [a cura di], Frege, Oxford 1984, pp. 107-109). L’esternalismo radicale è connesso a una teoria di tipo russelliano del significato, in cui i due momenti del Sinn e della Bedeutung coincidono in un unico «denotato» esterno alla mente (J. McDowell, De Re Senses..., p. 107). 4. L’esternalismo biologico. – Nell’ambito del programma di naturalizzazione del mentale sono state sviluppate alcune versioni biologiche o evoluzionistiche di esternalismo: il contenuto mentale d’uno stato mentale non è soltanto determinato dall’ambiente esterno attuale, ma anche dalla storia della relazione fra quello stato mentale e il mezzo o ambiente in cui esso s’è formato nel corso d’un lungo processo di selezione naturale (cfr. R.G. Millikan, Language, Thought, and Other Biological Categories, Cambridge 1984). Alla storia della specie Dretske aggiunge quella dell’individuo, poiché il contenuto d’uno stato mentale è anche il risultato d’un processo individuale d’apprendimento (cfr. F. Dretske, Knowledge and the Flow of Information, Cambridge 1981; Id., Naturalizing the Mind, Cambridge 1995). III. INTERNALISMO. – 1. L’autonomia della sfera mentale e del significato. – L’internalismo riprende l’intuizione cartesiana dell’autonomia della sfera della rappresentazione interna rispetto alla realtà esterna. Per Cartesio i contenuti mentali continuerebbero a esistere e a conservare la loro identità anche se non vi fosse alcuna realtà esterna (ipotesi del genio maligno). Tipicamente cartesiano è anzitutto l’argomento che si basa sul fatto che noi conosciamo i nostri stati mentali direttamente e con maggiore certezza di quelli altrui (tesi dell’«accesso privilegiato» o dell’«autorità della prima persona»). Ciò sarebbe in contrasto con l’esternalismo, che fa dipendere l’identificazione dei nostri stati mentali da fattori esterni che altri potrebbero conoscere meglio di noi (cfr. M. McKinsey, Anti-Individualism and Privileged Access, in «Analysis», 51, 1991, pp. 9-16; per una replica cfr. K. Falvey - J. Owens, Externalism, Self-Knowledge, and Skepticism, in «Philosophical Review», 103, 1994, pp. 107-137 e T. Burge, Individualism and Self-Knowledge, in «Journal of Philosophy», 85, 1998, pp. 649-663; si veda infine M. McKinsey, Forms of Externalism and Privileged Access, in «Philosophical Perspective», 16, 2002, pp. 199-224). Si ricollega indirettamente alla stessa tesi cartesiana – passando attraverso la fenomenolo3703

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Esternalismo / internalismo gia husserliana – anche la difesa dell’internalismo basata sul concetto d’intenzionalità. Secondo Searle, gli «stati intenzionali» sono «nella testa» e sono «intrinseci», nel senso che né sono relativi alla comprensione di altri parlanti d’una certa comunità linguistica né sono relativi ai referenti dell’ambiente esterno. Le esperienze intenzionali possono aver luogo, come per es. avviene nel caso delle allucinazioni, anche senza stimoli causali esterni (cfr. J.R. Searle, Intentionality, Cambridge 1983, pp. 207-208). La funzione che, nell’ambito della filosofia della mente, ha svolto il concetto d’intenzionalità è a ben vedere svolta, nella filosofia del linguaggio, dalla tesi di Frege dell’impossibilità di ridurre il piano del Sinn a quello della Bedeutung, che costituisce spesso un ingrediente essenziale dell’internalismo (cfr. ibi, p. 230) e che è stata anche interpretata come necessità d’un punto di vista del soggetto, senza il quale non v’è modo di far comparire sul piano linguistico-rappresentativo lo stesso referente (cfr. E. Corazza, Perspectival Thoughts and Psychological Generalizations, in «Dialectica», 48, 1994, pp. 307-336; A. Horowitz, Contents Just Are in the Head, in «Erkenntnis», 54, 2001, pp. 329-333). 2. La spiegazione psicologica del comportamento. – Anche Fodor (cfr. J. Fodor, Methodological Solipsism Considered as a Research Strategy in Cognitive Psychology, in «Behavioral and Brain Sciences», 3, 1980, pp. 63-109) ha difeso con vigore l’autonomia della sfera mentale rispetto alla realtà esterna, distinguendo fra il piano prelinguistico-cognitivo, che coincide con la struttura sintattico-computazionale della rappresentazione, e il piano semantico del riferimento e delle condizioni di verità. Ma il contributo più importante di Fodor all’internalismo è la tesi che soltanto l’internalismo è compatibile con il potere causale che presupponiamo nelle spiegazioni psicologiche quotidiane delle azioni umane. Secondo Fodor, per spiegare l’azione d’un individuo, possiamo soltanto ricorrere a fatti relativi a questo individuo (principio del «solipsismo metodologico»: J. Fodor, Methodological Solipsism..., p. 1). Soltanto l’internalismo rispetta questo principio, mentre l’esternalismo, facendo dipendere i contenuti mentali da fattori posti oltre i limiti spaziali e temporali dell’individuo, lo viola e non può più spiegare il successo delle previsioni della psicologia del senso comune, basate sul presupposto dell’efficacia causale delle credenze 3704

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sul comportamento umano. Obiezione analoga – ma mossa dal versante opposto del dibattito fra folk psychology e psicologia scientifica – ritorna nell’eliminativismo, per il quale, poiché avere una credenza significa trovarsi in un determinato stato neuronale interno, l’esternalismo è incompatibile con le spiegazioni fornite dalla psicologia scientifica (cfr. P.M. Churchland, Eliminative Materialism and Propositional Attitudes, in «Journal of Philosophy», 78, 1981, pp. 67-90; S. Stich, From Folk Psychology to Cognitive Science, Cambridge 1983). La forza di questo tipo di obiezioni si misura bene dal fatto che, per rispondervi, vi è stato chi si è spinto sino a negare alla psicologia sia l’intento sia la capacità di formulare leggi e previsioni del comportamento individuale (R. Millikan, Explanations in Biopsychology, in White Queen Psychology and Other Essays for Alice, Cambridge 1993, p. 185). 3. La giustificazione epistemica. – Mentre l’esternalismo tende a sostenere che il soggetto conoscente può essere epistemicamente giustificato anche se non conosce la relazione obiettiva che giustifica la sua credenza (cfr. R. Brandom, Knowledge and the social articulation of the Space of Reasons, in «Philosophy and Phenomenological Research», 55, 1995, p. 904), l’internalismo sostiene che si può considerare come giustificata una credenza o un’asserzione soltanto se il soggetto ha o può avere accesso alle ragioni di questa giustificazione (cfr. L. BonJour, Externalist Theories of Empirical Knowledge, in «Midwest Studies in Philosophy», 5, 1980, pp. 53-73; C. Ginet, Knowledge, Perception, and Memory, Dordrecht 1975; W. Alston, Epistemic Justification, Ithaca [New York] 1989). Un argomento in favore di quest’ultima tesi è che, se il soggetto ha agito in modo epistemicamente irreprensibile, egli ha comunque il diritto di sostenere una certa credenza. L’esternalismo commetterebbe invece l’errore di rimproverare a una persona di non aver tenuto conto di cose che in realtà non poteva conoscere (cfr. L. BonJour, Externalist Theories... e R. Fumerton, The Internalism/Externalism Controversy, in «Philosophical Perspective», 2, 1988, pp. 443-459; per una replica, A. Goldman, Internalism Exposed, in «Journal of Philosophy», 96, 1999, pp. 271-293). 4. La teoria a due componenti. – Ora, per mediare fra le posizioni più radicali, numerosi autori hanno formulato una «teoria a due componenti» che riprende la distinzione di Putnam

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fra un’accezione «ampia» e una «stretta» di significato o di contenuto. C. McGinn fonda questa teoria sul fatto che non v’è rappresentazione senza la correlativa possibilità di rappresentazione falsa: ciò obbliga a distinguere ciò che viene rappresentato – che è una proprietà relazionale ed estrinseca della rappresentazione – dal modo in cui viene rappresentato – il contenuto stretto appunto –, che dirige l’atto della rappresentazione e ne costituisce una proprietà intrinseca (cfr. C. McGinn, The Structure of Content, in A. Woodfield [a cura di], Thought and Object, Oxford 1982, pp. 212-214; C. McGinn, Mental Content, Oxford 1989). Tutti coloro che in qualche modo hanno cercato d’evitare l’unilateralità delle versioni più radicali di esternalismo o d’internalismo sono giunti, direttamente o indirettamente, a proporre qualche versione di questa teoria. Fodor, fra il suo internalismo iniziale (Fodor, Methodological Solipsism...) e il suo più recente esternalismo (cfr. J. Fodor, The Elm and the Expert, Cambridge 1994, p. 28), ha per esempio concesso che i contenuti stretti possono contenere in sé degli elementi relazionali, che consentono a uno stato intenzionale, in un particolare contesto, d’individuare un certo contenuto ampio (cfr. J. Fodor, Psychosemantics, Cambridge 1987). Recanati ha cercato di conciliare l’esternalismo radicale con la teoria a due componenti (assunta sostanzialmente nella versione di McGinn), distinguendo fra il contenuto ampio d’uno stato psicologico, che dipende da ciò che lo ha realmente causato, e il contenuto stretto, che non dipende dall’ambiente reale particolare, ma soltanto da ciò che di solito determina causalmente l’esistenza di questo tipo di stato (F. Recanati, How Narrow is Narrow Content?, in «Dialectica», 48, 1994, pp. 209-229). Fra coloro che cercano d’evitare la semplice alternativa di esternalismo e internalismo cfr. B. Loar, Conceptual Role and Truth-Conditions (in «Notre Dame Journal of Formal Logic», 23, 1982, pp. 272-283) e B. Loar, Social Content and Psychological Content (in R.H. Grimm - D. Merrill [a cura di], Contents of Thoughts, Tucson 1988, pp. 99-109); G. Lakoff, Cognitive Semantics (in «Versus», 44/45, 1986, pp. 119-154); N. Block, Advertisement for A Semantics for Psychology (in «Midwest Studies in Philosophy», 10, 1986, pp. 615-678); C. Macdonald, Weak Externalism and Mind-Body Identity (in «Mind», 99, 1990, pp. 387-404); A. Bilgrami, Belief and Meaning (Oxford 1994); R.

Esternalismo / internalismo Cummins, Representations, Targets, and Attitudes (Cambridge 1996); D. Marconi, Lexical Competence (Cambridge 1997). Comunque si voglia valutare questa o quella particolare versione di questa teoria, va apprezzato il tentativo di superare la contrapposizione fra esternalismo e internalismo. Come aveva già scorto Kant nella sua Confutazione dell’idealismo, la stessa esperienza interna empiricamente determinata secondo il tempo è possibile solo mediante l’esperienza di oggetti fuori di noi nello spazio, perché solo da questi, e non dall’io penso, che è puramente formale, può derivare l’invarianza indispensabile per comprendere il mutare nel tempo testimoniato dal senso interno (Kritik der reinen Vernunft, Riga 1787, pp. 274 ss.). Abbandonato il presupposto kantiano che unico oggetto della mente sono le idee e non le cose in se stesse, e riconosciuto viceversa con l’esternalismo che l’esperienza è di per sé rivelativa del mondo in cui viviamo (cfr. J. McDowell, Singular Thought and the Extent of Inner Space, in P. Pettit - J. McDowell [a cura di], Subject, Thought, and Context, Oxford 1986, p. 152), si può affermare che interno ed esterno sono due concetti che si possono determinare soltanto reciprocamente, in un movimento spiraliforme senza fine. Sennonché, la stessa determinazione reciproca d’interno ed esterno non è, come tale, né interna né esterna, è un atto puramente riflessivo, trascendentale, che si pone al di qua della stessa distinzione d’interno ed esterno. Ciò, tuttavia, obbliga a revocare in dubbio il presupposto naturalistico da cui ha invece quasi sempre preso le mosse la disputa esternalismo/internalismo. IV. EPISTEMOLOGIA E STORIA DELLA SCIENZA. – Esternalismo e internalismo designano talvolta anche due modi di concepire il rapporto fra la scienza e il contesto storico-sociale in cui essa opera. Per l’internalismo la scienza è essenzialmente autonoma e si sviluppa secondo dinamiche interne di tipo razionale; per l’esternalismo la scienza dipende in modo costitutivo dalle circostanze storico-sociali, per cui è impossibile ricostruirne la storia mediante le sole dinamiche interne (cfr. J. Schuster, The Scientific Revolution, Wollolong 1995). Esempio d’internalismo sono sia il neopositivismo sia Popper e la sua scuola, che condividono la separazione reichenbachiana fra contesto della «scoperta» e della «giustificazione» (cfr. K.R. Popper, Logik der Forschung, Wien 1935, § 2 e I. 3705

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Esternalità

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Lakatos, Criticism and the Methodology of Scientific Research Programmes, in «Proceedings of the Aristotelian Society», 69, 1968, pp. 149186). Benché contesti questa separazione, anche per Bachelard i «valori razionali» sono gli unici che condizionano essenzialmente il progresso scientifico (G. Bachelard, Le rationalisme appliqué, Paris 1966, p. 104). Tipici esempi d’esternalismo, oltre alla filosofia e alla storia della scienza d’ispirazione marxistica, sono quasi tutti gli esponenti del costruttivismo sociale. Secondo Bloor, per esempio, sia le credenze scientifiche vere sia quelle false debbono essere spiegate mediante gli stessi tipi, sociologici appunto, di causa (D. Bloor, Knowledge and Social Imaginery, London 1976, cap. I). Il costruttivismo sociale s’è ampiamente ispirato a T.S. Kuhn (The Structure of Scientific Revolutions, Chicago 1962, 19702), che rappresenta una forma peculiare di esternalismo: se per un verso sulla «scienza rivoluzionaria» esercitano un’influenza legittima e spesso decisiva elementi di natura esterna, per altro verso la «scienza normale» sorge con la chiusura d’una comunità di esperti rispetto a ogni genere di condizionamenti sociali esterni; ma quest’ultima tesi è soltanto apparentemente internalistica, poiché il fondamento di questa chiusura è esso stesso non razionale, ma sociologico. Anche qui, come nel caso della filosofia del linguaggio e della mente, occorre superare la mera contrapposizione di esternalismo e internalismo. Se merito dell’esternalismo è quello di non staccare la scienza dal più ampio contesto etico-pratico delle scelte umane, è altrettanto vero che, se sfuggisse del tutto il carattere conoscitivo dell’impresa scientifica, la storia della scienza si dissolverebbe continuamente nel mare magnum della storia in generale. M. Buzzoni

ESTERNALITÀ (externalities; Externalitäten, Esternalità Nebenwirkungen; externalités; externalidades). – Un’esternalità si verifica quando il benessere di un consumatore o le possibilità di produzione di un’impresa sono direttamente influenzate dall’azione di un altro agente presente nel sistema economico, con l’esclusione di ogni tipo di effetto mediato dai prezzi. Il problema legato alla presenza di esternalità, siano esse positive (vale a dire a beneficio di chi subisce l’azione di un altro agente), o negative, è che l’allocazione di equilibrio risultante dal libero 3706

scambio e/o dalla produzione tra le diverse parti di un’economia non è Pareto ottimale. Ciò non significa che per ristabilire la Pareto ottimalità occorre la completa eliminazione dell’esternalità stessa. Tuttavia è possibile «aggiustare il livello» dell’esternalità in modo tale che il beneficio marginale per l’agente che compie un’attività che la genera sia pari al costo marginale dell’agente che la subisce. Una prima possibile soluzione al problema è quella dell’intervento diretto dello stato nel controllo dell’attività che genera esternalità. Semplicemente lo stato dovrebbe stabilire e quindi fissare il livello dell’esternalità tale per cui si verifica l’uguaglianza tra il beneficio marginale di un agente e il costo marginale dell’agente che soffrirebbe per l’aumento unitario del livello di esternalità stessa. Una seconda possibilità consiste nell’imporre una tassa sull’attività che genera esternalità. Tale soluzione prende il nome di tassazione pigouviana dal nome dell’economista Arthur C. Pigou, e consiste nel far pagare all’agente che produce esternalità un ammontare di moneta per unità di esternalità prodotta pari al costo marginale subito dall’altro agente. Ciò richiede che lo stato sia in grado di aggregare moltissima informazione riguardo ai benefici e ai costi dell’esternalità per gli agenti se vuole determinare esattamente il livello ottimale di quote o tasse/sussidi. È perciò conveniente adottare un approccio alla risoluzione delle esternalità meno invasivo che ricerchi le condizioni tali per cui le parti in causa raggiungano un accordo ottimale riguardo al livello di esternalità senza interventi esterni, come illustrato dal teorema di Ronald Coase che recita: se esiste il commercio (inteso nel senso che esiste un mercato in cui gli agenti s’incontrano per «comprare e vendere») delle esternalità, allora la contrattazione produce un’allocazione di equilibrio ottima nel senso di Pareto, indipendentemente dalla distribuzione dei diritti di proprietà degli agenti. (R. Coase, The Problem of Social Costs, in «Journal of Law and Economics», 3, 1960, pp. 1-44). P.L. Sacco BIBL.: R. COASE, Impresa, mercato e diritto, ed. it. a cura di M. Grillo, Bologna 1996; R.H. FRANK, Microeconomics and Behavior, New York 1997, tr. it. a cura di M. Grillo, Microeconomia, Milano 1998; L. CAMPIGLIO, Mercato, prezzi e politica economica, Bologna 1999.

ESTETICA. – Rivista pubblicata dall’editore Estetica Il Melangolo di Genova, nata nel 2002 come organo dell’AISE (Associazione Italiana per gli

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Estetica

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Studi di Estetica), un’associazione che raggruppa, sin dalla sua fondazione, studiosi appartenenti alle più diverse scuole italiane di estetica. Il direttore responsabile è S. Bigazzi. Ogni numero, a periodicità semestrale, è articolato in tre sezioni. In una prima sezione dedicata a «saggi», vengono ospitati di volta in volta contributi di notevole rilievo scientifico internazionale. Una seconda sezione di più brevi «note», nella quale vengono accolti percorsi di ricerca che affrontano i più diversi autori e contesti, che spaziano anche al di fuori dell’ambito più specificamente filosofico, con particolare attenzione alla poesia e al cinema. Infine, ogni numero della rivista è chiuso da una rassegna aggiornata di «Recensioni». M. Iiritano

ESTETICA (aesthetics; Ästhetik; esthétique; Estetica estética). – Disciplina filosofica che ha per oggetto la bellezza e l’arte. SOMMARIO: I. Notizie generali. - II. Notizie storiche: 1. L’estetica nel pensiero greco. - 2. L’estetica nell’età della patristica e della scolastica. - 3. L’estetica nell’età moderna. - 4. L’estetica dal romanticismo ai primi decenni del Novecento. - III. L’estetica filosofica nella seconda metà del Novecento: 1. La fine dello storicismo e il marxismo. - 2. Benjamin e la Scuola di Francoforte. - 3. Sviluppi dell’estetica fenomenologica. - 4. Dalla filosofia dell’esistenza all’ermeneutica. - 5. L’estetica tra decostruzione e narrazione. - 6. La teoria della formatività. Pareyson e la scuola torinese. - 7. L’estetica analitica. - 8. La fine della filosofia dell’arte e l’estetismo diffuso. I. NOTIZIE GENERALI. – Il nome di questa disciplina, come è noto, è dovuto all’uso che ne fece per primo Alexander Gottlieb Baumgarten nell’opera Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus (Halle 1735) e nel titolo dell’opera Aesthetica (Francofurti 1750-58, 2 voll., ed. it. a cura di F. Piselli, Estetica, Milano 1992). Il nome, che ha avuto tanta fortuna, trova giustificazione nella dottrina leibniziana, da cui Baumgarten deriva, per la quale, non essendoci una diversità di natura tra senso e intelletto, ma solo diversità di chiarezza e distinzione percettiva, la bellezza rappresenterebbe il grado più alto dell’attività sensitiva (aijsqhtav «fatti sensibili»), sarebbe cioè abbastanza chiara, ma non ancora distinta, quant’è distinta l’attività intellettiva: sicché la bellezza s’identifi-

cherebbe col fatto sensibile nella sua perfezione. Altre denominazioni non sono mancate e non mancano, ma non sono tanto diffuse come quella di cui si tratta. Più appropriato di quello corrente sarebbe il termine poetica, che risale ad Aristotele e fu usato nei trattati estetici del Rinascimento. Giovanni Gentile dava il titolo di Filosofia dell’arte al suo volume del 1931 (Firenze) sull’argomento. Alcuni estetologi tedeschi del primo Novecento (Max Dessoir, Emil Utitz, Wilhelm Worringer e altri) vollero distinguere l’estetica dalla scienza dell’arte, riservando alla prima la riflessione sul fatto soggettivo dell’espressione della bellezza, e attribuendo alla seconda lo studio del fatto artistico nella sua estrinsecazione sociale e tecnica. Nel definire l’estetica come una disciplina filosofica, s’è voluto stabilire subito che essa rientra in una visione totale dell’essere: cioè considera il fatto della bellezza e dell’arte quale aspetto particolare dell’essere nella sua assolutezza. Soltanto in una visione totale, che inquadri l’arte e la bellezza nel complesso delle attività dello spirito, e ne indichi esattamente le relazioni e la relativa autonomia, la considerazione estetica si libera dalla contingenza delle impressioni frammentarie e assurge alla dignità di scienza. Soltanto nella filosofia la riflessione sull’arte diventa scienza. Con ciò si indica, non solo la distinzione dell’estetica dall’arte (si può eseguire l’arte senza sapere riflessivamente che cosa l’arte sia), ma anche la distinzione dell’estetica dalla critica d’arte. Quest’ultima sta di mezzo tra la filosofia e l’arte, perché è fatta di giudizio e di gusto: cioè, per un lato è connessa alla filosofia, in quanto deve giudicare l’arte e non potrebbe giudicarla se non sapesse filosoficamente che cosa l’arte sia; ma per un altro lato essa è congiunta all’arte, perché non potrebbe di volta in volta pronunciare un giudizio sulla singola opera d’arte, se non rivivendo quest’ultima in modo congeniale, cioè partecipando in massimo grado all’intuizione dell’artista e decidendo, attraverso questa partecipazione, se il sentimento dell’artista sia riuscito a esprimersi, cioè a diventare arte. S’è detto che si può fare arte senza sapere riflessivamente che cosa arte sia, e con ciò s’è stabilita la differenza tra estetica e arte. Però alcune volte l’arte riflette su se medesima e tende a definirsi o pretende di sapersi definire, nel suo concetto generale, nei suoi procedi3707

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Estetica menti, nelle sue leggi. Lo sforzo con cui poeti, pittori, scultori, artisti in genere tendono a definire i canoni della propria arte dà luogo a quelle che, con termine invalso recentemente, si chiamano le poetiche dei singoli artisti. L’estetica non può non tenerne conto (come potrebbe l’estetica, p. es., non tener conto del Canone di Policleto o del Trattato della pittura di Leonardo da Vinci), ma non si risolve in esse. Per lo più le poetiche degli artisti, anche sommi, non rendono ragione della loro arte e la loro arte spesso è riuscita perché ha saputo essere fuori od oltre le loro teorie sull’arte. Guai se l’arte di Dante fosse rimasta chiusa nell’orbita di quell’allegorismo che egli ha voluto esplicare nel Convivio. Insomma, le poetiche dei poeti non coincidono con l’estetica, pur costituendo un materiale essenziale di cui l’estetica si serve per l’interpretazione filosofica del fatto artistico e per un’indagine esauriente sull’esperienza artistica. II. NOTIZIE STORICHE. – Da Robert Zimmermann, il primo storico dell’estetica (Geschichte der Ästhetik als philosophischer Wissenschaft, Hildesheim - New York 1972 [1858]), fino a Benedetto Croce, è uso denominare «preistoria dell’estetica» (Vorgeschichte der Ästhetik) il periodo che corrisponde alle antiche speculazioni sull’arte e sulla bellezza. Tanto sarebbe come denominare «preistoria della filosofia» la filosofia dei greci e quella dei padri e dottori della chiesa. L’estetica è coeva e coestensiva con la filosofia, perché un concetto dell’essere non può definirsi senza tener conto di quella nota essenziale dell’essere che è la bellezza. 1. L’estetica nel pensiero greco. – La prima cultura dei greci è nella forma dell’arte: estetismo. Si tratta di un estetismo spontaneo, ingenuo, non ancora ratificato dalla riflessione: ma tutto quello che ha pregio (nel mondo fisico, morale, politico, religioso) si annuncia inizialmente come mito, e il mito è il punto in cui il particolare e l’universale, l’idea e il fatto, l’infinito e il finito vengono a incontrarsi, a coincidere, com’essi coincidono sul terreno dell’arte e della fantasia. Mito politico nella polis identificata con la divinità reggitrice; mito letterario nell’epopea, nella teogonia, nella tragedia, elevate a testo sacro e a rito religioso; mito plastico nelle statue degli dei che reggono la presenza viva del nume; mito storico che solleva il fatto contingente nella sfera eroica della leggenda e dell’epopea; mito pitagorico che realizza il nu3708

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mero in sostanza fisica, morale e religiosa; mito cosmico che anima d’un soffio divino ogni apparizione naturale e conferisce una consistenza fisica alle prime ardue concezioni dei filosofi, si tratti pure del logos di Eraclito o dell’essere di Parmenide: tutto si muove inizialmente nelle dimore della fantasia creatrice, la quale, come vide Georg Wilhelm Friedrich Hegel, tocca nella Grecia il fondo dell’essere e trasforma la poesia in religione. Tutt’altro che assente il problema estetico dalla filosofia dei greci, si deve dire che esso è il primo che si presenta alla loro riflessione, per la necessità d’intendere anzitutto come a un mondo di poesia possa affiancarsi o anteporsi un mondo di idee, e come l’essere possa persistere nella sua assorbente sovranità, pur lasciando sussistere accanto e di fronte a sé la scialba e inconsistente realtà del mito e della poesia. Il problema dell’«immagine», di codesta sostanza spuria che è un misto di essere e non essere, costituisce il punto di passaggio obbligato per la filosofia che si svincola gradualmente dal mito e vuole giungere, come infatti vi giunge con il Sofista di Platone, a giustificare in qualche modo l’esistenza dell’immagine, quale possibilità della parola, dell’arte, dell’errore, della sofistica, e perfino quale possibilità del mondo dell’apparenza e del divenire. In questa vicenda speculativa trova il suo posto esatto la sofistica, la quale va intesa soprattutto come persistenza del mito classico nella sfera dell’eloquenza e della retorica. In Gorgia il mito poetico continua come «mito della parola»: parola che, invece di significare l’essere, lo sostituisce quale unica realtà umana e cosmica. La poesia, che Gorgia definì «parola con metro» («lovgon e[conta mevtron»: H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di W. Kranz, Berlin 1951-526, 82 B 11, 9), prolunga il suo dominio, anche oltre il crollo della divinità che essa aveva creato, reincarnandosi nella retorica e ripristinando in essa la divinità della parola. La parola assoluta di Gorgia è la ratifica filosofica, pienamente consapevole, dell’estetismo ingenuo e spontaneo, che è la forma iniziale della cultura dei greci. Gli altri filosofi non seguirono Gorgia, anzi fu loro impegno sollevare l’essere intelligibile, sede della verità e del bene, oltre i prodotti della techne umana e, se pur non condannarono l’arte, la riscattarono dal biasimo solo in quanto essa potesse in qualche modo inquadrarsi in un disegno di vita razionale e morale. L’estetica dei massimi espo-

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nenti del pensiero greco è una decisa smentita dell’estetismo. Tuttavia una traccia dell’estetismo originale rimase sempre, anche nelle più mature riflessioni della filosofia, per la radicata convinzione che il bello si identificasse con tutto ciò che è unitario, armonico, proporzionato, misurato, e quindi la nota della bellezza non potesse mai essere disgiunta dalle altre perfezioni dell’essere, cioè dalla verità e dal bene. «Misura giusta e proporzione si trovano dovunque vi siano bellezza e perfezione»: lasciò scritto Platone nel Filebo (64 e). Una qualche distinzione egli suggerì, in questo e in altri dialoghi, descrivendo la bellezza come un preludio sensibile del bene inaccessibile, quasi si trattasse del «portico» della casa del bene (Phil., 64 c). Nel Fedro egli parlò del bello come di un’«idea corporea», l’unica tra le idee che ebbe in sorte il privilegio di rendersi visibile ai mortali, per poter essere da loro ardentemente amata (Phaedr., 250 d, 251 a). Questo carattere della bellezza che, mentre resta legata alle cose visibili e sensibili, lascia intravedere in esse la luce dell’idea, si trasmetterà, attraverso il neoplatonismo, a tutta la storia dell’estetica e persiste anche nei tempi moderni, con il romanticismo, pur avendo l’idea perduto quel carattere di assolutezza ontologica che aveva in Platone. Il «mondo» greco pacifica facilmente la bellezza con gli oggetti più alti dell’intendere e del volere. Non altrettanto facile riesce la pacificazione con l’arte, dato che questa dipende da un «fare» dell’uomo che si allontana, più o meno, dalla perfezione ideale e ne costituisce appena una «imitazione» (mivmhsi"), anzi un’imitazione di seconda mano, in quanto l’arte non imita propriamente le idee, ma imita le cose terrene che, a loro volta, sono un’imitazione delle idee. La condanna dell’arte, che Platone pronunciò nel X libro della Repubblica, è una conseguenza del carattere mimetico, che il filosofo attribuisce all’arte, e della decadenza implicita in ogni imitazione. Con questa condanna, Platone voleva opporsi alla mitologia, che aveva falsato il concetto di Dio, alla commedia, che aveva convinto a condannare Socrate, alla retorica, che aveva istituito l’assolutezza della parola. Però egli, che aveva dedicato alle muse la sua Accademia, si manteneva ancora abbastanza poeta per intendere che l’arte, pur motivo di degradazione, poteva anche essere stimolo all’elevazione e attribuì infatti alla musica il potere di operare una mi-

Estetica mesi, per così dire, ascendente, che anticipa nelle armonie sensibili i ritmi ideali, e quindi vide nella musica un fattore educativo e volle che i guerrieri della sua città perfetta riponessero nella musica la loro rocca (Resp., III, 401 d - 402 a). Aristotele, che voleva dire l’opposto di quello che aveva detto il maestro, finì per ricalcarne le orme quando ripose nell’imitazione l’essenza dell’arte e nella musica vide uno strumento essenziale di purificazione e di educazione. Anch’egli finì per legare l’arte all’elemento ideale, che essa rivela, e nella Poetica distinse la storia, che è conoscenza di cose «accadute», dalla poesia che rappresenta cose «possibili ad accadere». La possibilità è la categoria dell’universalità e dell’intelligibilità, sicché per Aristotele la poesia si allontana dalla storia più di quanto si avvicina alla filosofia, la quale è, appunto, la scienza dell’universale e dell’intelligibile. L’estetismo dei greci agiva anche su Aristotele, costringendolo a legare l’arte alla verità, e non concedendogli di stabilire una differenza tra arte e scienza se non in una certa approssimazione al vero o «verosimiglianza» che distingue l’arte dalla scienza («ta; kata; to; eijko;"»: Poet., 9, 1451 b). La «verosimiglianza», propria dell’esecuzione artistica, è concetto aristotelico che avrà profonde ripercussioni nell’estetica rinascimentale: ma anch’esso non è che una ripercussione della mimesi platonica, sicché resteranno sempre platonici, malgrado loro, quei peripatetici del Rinascimento che in nome di Aristotele e della sua Poetica vorranno distinguersi od opporsi all’anelito ascensivo dell’eros dell’Accademia fiorentina. L’arte è anche piacere, passione, sentimento. Quest’altro aspetto non sfuggì all’estetica classica e servì, di volta in volta, a condannarla o a giustificarla. Valse a condannarla, quando Platone, nel X libro della Repubblica, vide nell’arte tragica una predilezione per le passioni più violente e irrazionali, e ravvisò una contraddizione nel diletto (cavri") che prova lo spettatore nel partecipare alle passioni e alle sofferenze dei personaggi che agiscono sulla scena (Resp., 605 d - 606 b). Dallo stesso diletto che, in quanto irrazionale e contraddittorio, aggiungeva un argomento alla condanna platonica dell’arte tragica, Aristotele, col consueto capovolgimento delle posizioni del maestro, ricavò un pregio dell’arte, la quale, con la rappresentazione scenica delle passioni del 3709

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Estetica terrore e della pietà, produce una purificazione (catarsi) dello spettatore da queste passioni (Poet., 6, 1449 b). Sia la cavri" di Platone, sia la kavqarsi" di Aristotele, pur variamente interpretate e valutate, resteranno tra le più sicure acquisizioni dell’esperienza estetica di tutti i tempi. Per l’esperienza estetica degli antichi, la poesia, più ancora che sentimento, è «entusiasmo», «esagitazione», «delirio», «furore», in quanto trasferisce l’uomo fuori dei quadri della sua normale attività e gli conferisce un potere insolito, sovrumano. L’ispirazione, di cui avevano parlato i poeti prima dei filosofi, è uno stato di «entusiasmo» che, appunto nel significato etimologico della parola (ejnqousiavzw), indica un’invasione di Dio che parla e canta per bocca dell’uomo, cosicché questi si trasforma in uno strumento registratore d’estasi. Quando s’impossessa di questo motivo, proprio della tradizione poetica, il filosofo scrive che i poeti sono come anelli di una catena aderente a un magnete, il quale fa passare attraverso di essi un fluido che li attrae e li congiunge (lo., 533 d - 534 e). L’entusiasmo poetico, per quanto si chiami «furore» e «delirio», è sempre sapienza: una sapienza superiore che concede di vedere, ai poeti come alle profetesse invasate, quello che l’uomo normalmente non vede. Come Omero aveva cantato le muse che «sono a tutto presenti e tutto vedono» (Iliade, II, 485), così Platone risolve in una visione finale la «mania» da cui sono agitati gli amanti della bellezza (Phaedr., 254 a-b). La passione degli estetici classici non esce dall’orbita di un’estetica della visione. Estetica della visione è anche quella del Simposio platonico, in quanto la bellezza vi costituisce un’idea eterna, immutabile, che l’anima contempla all’apice dello sforzo umano compiuto per raggiungerla. Però nel Simposio è scritta la pagina più alta dell’estetica classica, in quanto l’anelito umano per conseguire la bellezza assoluta dà luogo, invece che a un passivo rispecchiamento, a una produzione dall’interno, a un «parto» (tovko"). Eros, il simbolo divino del Simposio, è fecondato dall’anelito verso la bellezza oggettiva e assoluta, quando si rende capace di generare e procreare nel bello («th`" gennhvsew" ka;i tou` tovkou ejn tw`/ kalw`»/ : Conv., 206 e). Nell’essere pregno e turgido si genera l’impeto amoroso verso il bello: quand’uno brama di generare e procreare, allora soltanto si lancia alla ricerca del bel3710

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lo (Conv., 206 e) e, trovatolo, genera e procrea ciò di cui da lungo tempo era pregno (Conv., 209 c). Poesia è questa procreazione spirituale, per cui nessun particolare requisito si chiede ai «buoni poeti», eccetto che siano generatori e inventori («gennhvtore"», «euJretikoi»: Conv., 209 a). Nei quadri dell’intellettualismo classico, più alto risultato non poteva conseguirsi: è quasi Eros (l’amore) che diventa padre di Venere (la bellezza), invece di esserne figlio. Il capovolgimento della prospettiva classica (l’amore che genera la bellezza) sarà infatti il frutto più cospicuo dell’estetica dei tempi nuovi. Il merito, che si attribuisce di solito a Plotino, di aver riconciliato arte e bellezza, di aver reso intrinseco il bello alla produzione artistica, dev’essere fatto risalire all’autore del Simposio. Inoltre Plotino non si spiega senza Filone l’Ebreo: e Filone reca nella cultura alessandrina il concetto del Dio ebraico che si esprime nella «sapienza» e nel suo «verbo». La «sapienza» filoniana è il preludio dell’«espressione» cristiana; e Plotino, l’ultimo e più degno interprete della cultura classica, non va esente da influssi ebraico-cristiani. La cultura classica muore, dopo aver impoverito la grande critica fatta da Platone all’estetismo delle origini, dissolvendo da una parte l’arte in piacere (epicurei) e dall’altra parte attribuendo all’arte una funzione didascalica e moralistica (stoici). Gli stoici si servono largamente dell’allegoria per spremere dalla favola poetica allusioni di carattere razionale: e in questo modo credono di salvare la mitologia classica. Nell’epistola Ad Pisones di Orazio si pacificano le due tendenze, facendo servire il piacere poetico degli epicurei ai fini stoici dell’unità morale e intellettuale: «Aut prodesse volunt aut delectare poetae [...]. Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci» (Ad Pisones, vv. 333-334). 2. L’estetica nell’età della patristica e della scolastica. – Di fronte all’estetica della visione, con cui si caratterizza il contributo classico, i nuovi tempi, che procedono dal cristianesimo, possono essere caratterizzati dall’estetica dell’espressione. Non va perduto il contributo dei greci nella nuova filosofia e nella nuova estetica: anzi, nel far cenno ai padri e ai dottori della chiesa, è da dirsi anzitutto che le loro idee estetiche rientrano per lo più nel solco della tradizione classica, sia nel concepire l’oggetto supremo dell’intendere e del volere come a un tempo

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verum, bonum e pulchrum, sia nel riporre la bellezza nell’unità, nell’armonia, nella congruenza e convenienza delle parti. Tommaso d’Aquino non aggiunge molto alle idee del passato quando assegna come caratteri al bello l’«integrità», la «giusta proporzione» e la «chiarezza» (Sum. theol., I, q. 39, art. 8). La claritas, cioè il rifulgere della forma bella, lega la sensibilità estetica, anche per Tommaso, a un fatto visivo e il bello quindi è definito ciò che è piacevole a vedersi: «Quod visum placet». L’idealità intrinseca alla sensibilità artistica è ribadita da Agostino di Ippona nel rilevare che le proporzioni numeriche, a cui sono sottoposte le opere degli artefici, rispondono a quei «numeri» divini che presiedono alla creazione: quindi egli scrive che per intendere l’arte bisogna oltrepassare l’animo dell’artista per fissare lo sguardo nel numero sempiterno che vive nell’intenzione divina: «Transcende ergo et animum artificis ut numerum sempiternum videas» (De lib. arb., l. II, cap. 16, n. 42). Tommaso, nel parlare dell’arte, come dell’attività produttiva in genere, la definisce «recta ratio factibilium» e la lega quindi strettamente all’attività razionale, anzi, com’egli spiega, all’abito speculativo: «Ars magis convenit cum habitibus speculativis in ratione virtutis, quam cum prudentia» (Sum. theol., Ia-IIae, q. 57, art. 4). La distinzione tra l’«agire» e il «fare», il primo relativo alla condotta morale, il secondo all’attività produttiva o artistica, consente a Tommaso di segnare una distinzione tra l’imputabilità morale e il merito dell’artefice in quanto tale: «Et ideo ad artem non requiritur quod artifex bene operetur, sed quod bonum opus faciat» (Sum. theol., Ia-IIae, q. 57, art. 5 ad 1um). Questa è forse la prima chiara dichiarazione, nella storia del pensiero, sulla relativa autonomia della valutazione artistica. Ma non si riduce a questi concetti, a cui comunemente si riferiscono i trattatisti, il debito principale dell’estetica moderna alla filosofia del cristianesimo. Di ben altro è ricca una teologia che, innovando il concetto di Dio, innova i concetti dell’uomo e del cosmo, stabilendo le condizioni metafisiche e teologiche da cui dovranno successivamente esplicarsi i concetti di espressione e di creazione, su cui si regge l’estetica moderna. Il Dio classico, oggetto d’amore senza essere soggetto d’amore, non poteva fondare se non un’estetica della visione e dell’imitazione. Il Dio cristiano instaura, invece, il concetto dello spirito, il concetto

Estetica dell’essere che è generazione e creazione: generazione nell’intimità del proprio verbo, e creazione nell’esternità dell’opera, contenuta, quest’ultima, nel suo potere, ma non tratta dalla sua sostanza. Su questi concetti, che costituiscono la base delle definizioni dogmatiche di Nicea, Calcedonia, Costantinopoli, gira tutta la speculazione dei padri: qui s’illuminano, contemporaneamente, il vero Dio e il vero uomo. «Generazione» e «creazione», parola interiore e parola esteriore: sono questi i due concetti essenziali dell’estetica dei tempi nuovi. I padri e i dottori della chiesa erano impegnati in un compito religioso che li distraeva da un’attenzione propriamente estetica: perciò essi costituivano i presupposti della nuova estetica, con un’intenzione rivolta altrove. Tuttavia non mancano, nella loro teologia, i sintomi di una consapevolezza dei destini della nuova estetica. Unità, armonia, proporzione, integrità, congruenza, convenienza della forma bella, tutti i concetti estetici, insomma, che essi avevano ereditato dalla classicità, acquistano un nuovo timbro nella loro riesecuzione: tutte queste sono note della bellezza, per essi, in quanto appartengono all’atto espressivo e manifestativo dello spirito assoluto, il quale contiene il mondo nella sua potenza creatrice e perciò lo rende bello. Nessuna cosa sarebbe bella se non venisse da Dio: è il motivo che ricorre dalle Confessioni di Agostino all’Itinerarium di Bonaventura da Bagnoregio. Il Dio cristiano è il «genio» della nuova estetica. Si tratta ancora di arte divina, più che di arte umana: si tratta di cosmologia, più che di estetica, ma il motivo di questa cosmologia, a cui per tanta parte è dovuto l’ottimismo cristiano, è destinato a fruttare anche nella concezione dell’arte umana, la quale, più che imitazione della natura, dovrà risultare imitazione dell’atto con cui Dio crea la natura («creatio admiscetur operibus artis»). Si conserva l’idea dell’imitazione e, in quanto imitazione della natura, che è fattura di Dio, l’arte si manifesta «nepote» di Dio; ma figlia, meglio di nipote, avrebbe dovuto dirsi, in quanto la natura non sarebbe imitabile artisticamente se non fosse un prodotto della creazione («operatio artis fundatur super operationem naturae et haec super creationem»). Agostino dice esplicitamente che è data possibilità all’artista di produrre cose belle e congruenti, in quanto le cose tutte sono contenute nell’arte divina, che è la sua potenza 3711

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Estetica creatrice («ars illa summa omnipotentis Dei, per quam ex nihilo fatta sunt omnia, quae etiam sapientia eius dicitur, ipsa operatur etiam per artifices, ut pulchra atque congruentia faciant»: De diversis quaestionibus octaginta tribus, q. 78: De pulchritudine simulacrorum). Queste sono le ragioni profonde che consentirono all’Occidente di resistere alle armate iconoclastiche di Leone Isaurico e di salvare l’arte alla nuova civiltà. Gli iconoclasti avevano ragione di distruggere un’arte che, invece di fingere l’immagine di Dio, realizzava Dio nell’immagine e creava l’idolo. Ma, secondo un pensiero ormai acquisito dalle coscienze, lo spirito si rivela nell’arte, non in quanto s’immedesima sostanzialmente col sensibile, ma in quanto vi si esprime causalmente e produttivamente. Senza nessuna idolatria, il mondo fisico e il mondo artistico assolvono il loro compito della manifestazione dello spirito e possono essere assunti liturgicamente alla elevazione dal sensibile al Dio vivente in spirito e verità. La dottrina dell’uomo-immagine, che attraversa tutta la patristica e la scolastica, acconsente di acquisire, nelle sedi di una psicologia informata dalla teologia, il canone fondamentale della nuova linguistica: la parola non nasce come mezzo convenzionale di comunicazione tra gli uomini, se non è anzitutto comunicazione dell’anima con se stessa, intima espressione. Il De Trinitate di Agostino conquista l’arduo concetto nell’adombrare umanamente il mistero del verbo divino. Nell’esprimersi a se stessa, la mente si ama, si conosce, si possiede e la sua parola interiore diventa una sola cosa con la conoscenza e l’amore di se medesima: «Cum itaque se mens novit et amat, iungitur ei amore verbum eius. Et quoniam amat notitiam et novit amorem, et verbum in amore est et amor in verbo, et utrumque in amante atque dicente» (De Trin., IX, 10). Le poesie hanno origine in questo verbo intimo che è ragione di ogni parola esteriormente proferita: «Omnium [...] sonantium verba linguarum etiam in silentio cogitantur, et carmina percurruntur animo, tacente ore corporis» (De Trin., XV, 11). La riflessione sui procedimenti dell’arte umana fa ritrovare a Tommaso il senso agostiniano di codesta universale diffusione del verbo, che si ripercuote nell’interna concezione a cui l’artefice sottopone l’esecuzione dell’opera: «Habet [...] verbum [...] ad omnem creaturam quandam affinitatis rationem: cum 3712

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Verbum contineat rationes omnium creatorum a Deo, sicut artifex homo conceptione sui intellectus rationes artificiatorum comprehendit» (C. Gent., IV, 42). 3. L’estetica nell’età moderna. – L’estetica successiva è una lenta ascesa verso l’acquisizione speculativa delle ricchezze che il verbum cristiano aveva rivelato. La parola umana s’era inaridita nella scolastica decadente, dando luogo a sterili esercitazioni sillogistiche. Umanesimo e Rinascimento sono un ritorno dell’amor nel verbum; ritorno che colora l’attività umana delle note della bellezza e dell’arte. Ritorna anche Platone che, invero, aveva accompagnato tutto il movimento della patristica e della scolastica: ma di lui si ricercano ora, specialmente, l’eros, il tokos, la mania del Simposio e del Fedro, tutto quello, insomma, per cui, già nelle sedi dell’intellettualismo classico, s’erano accese la fiamma della passione e il fervore della generazione spirituale. Il movimento che fa capo all’Accademia fiorentina e i molti trattati del Quattrocento e del Cinquecento sul bello, sull’amore, sul furore (Leonardo Bruni, Marsilio Ficino, Mario Equicola, Pietro Bembo, Leone Ebreo, Giordano Bruno), legando l’estetico all’emotivo, al passionale, recano qualche accenno efficace alle sorgenti intime, spirituali, dell’arte. L’esaltazione della parola, che ha immediate radici nell’anima, reca qualche contributo all’estetica moderna dell’espressione, specie quando con quell’esaltazione gli umanisti si oppongono a un esercizio retorico, vacuo e formale, indifferente per il contenuto. Perfino l’estetica sensistica che, come sviluppo e decadenza dell’eros rinascimentale, avrà voce nel Seicento e nel Settecento, nel suo lato più accettabile, contribuisce a saldare la poesia al sentimento e, quando il sentimento non degeneri nel sensuoso e nel sensuale, a scuotere un consenso e una simpatia che vengono spontanee dall’interno. Ma, insieme con Platone, ritorna Aristotele: non proprio quello che era ritornato nel Medioevo, ma quello della Poetica, congeniale con lo spirito estetico dei tempi. Nel 1536 il testo del breve trattato aristotelico era reso accessibile agli italiani: e con esso l’estetica della visione ritornava a occupare il campo, fornendo armi alla riscossa della ragione contro il sentimento. Anche l’eros platonico era, in fondo, un anelito razionale, ma esso rendeva il senso d’una razionalità intrinseca all’atto

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umano, interiore al suo verbo: razionalità, quindi, che si ama come personale appartenenza. Di questa sostanza era la «ragione» degli umanisti; della stessa sostanza era la ragione di cui Leonardo, nel Trattato della pittura, diceva che: «il pittore che ritrae per pratica e giudizio d’occhio, sanza ragione, è come lo specchio che in sé imita tutte le a sé contrapposte cose, sanza cognizione di esse». Era, questa di Leonardo, la ragione produttiva, quella che, anche senza che Leonardo lo sapesse, era stata educata dal verbo cristiano e perciò gli consentiva di scrivere che «il pittore è padrone di tutte le cose che possono cadere in desiderio dell’uomo, perciocché s’egli ha desiderio di vedere bellezze che lo innamorino, egli è signore di generarle». Non di questa stoffa era la ragione di Aristotele, o quella nella quale si andava polarizzando un intellettualismo, di derivazione classica, che i trattatisti del Rinascimento ereditavano dalla peggiore tradizione scolastica. Il «vero», di tal genere, era il vero visto, non quello conquistato dallo sforzo eroico ed erotico dell’uomo: e perciò l’arte non aveva altra funzione che di giustapporsi alla verità con una funzione ancillare di «verosimiglianza», nella quale trovava posto la classica funzione dell’arte lusingatrice che, con la soavità dei suoi vezzi, si fa maestra del vero. E, poiché l’intelligibile anteposto all’anima equivale alla regola anteposta alla pratica dell’arte, il ritorno di Aristotele segnò il prevalere di una precettistica che, nei trattati del tempo, andava anche oltre l’autentico pensiero di Aristotele e, p. es., con una pedantesca interpretazione, ne traeva le leggi dell’«unità di tempo, di luogo e di azione», a cui avrebbe dovuto sottostare rigidamente la tragedia. Questo intellettualismo estetico s’incontrò poi col razionalismo del filosofo delle «idee innate» e delle «idee chiare e distinte»: sicché Aristotele e René Descartes guidarono concordemente anche l’estetica francese verso il risultato dell’Art poétique (Paris 1674, tr. it. di P. Oppici, Arte poetica, Venezia 1995) di Nicolas Boileau, dove si prescrisse allo scrittore di amare soprattutto la ragione, derivando esclusivamente da questa ogni pregio della parola («Aimez donc la raison: que toujours vos écrits empruntent d’elle seule et leur lustre et leur prix»: Art poétique, canto I, vv. 37-38). Il distacco tra le poetiche dell’eros e le poetiche del vero non fu così netto da impedire che si stabilissero contatti e contaminazioni. Già

Estetica s’è detto che eros era anch’esso, a suo modo, ragione e idealità. Si aggiunge ora che in molti dei trattatisti più fedeli all’ispirazione aristotelica (Girolamo Fracastoro, Ludovico Castelvetro, Giulio Cesare Scaligero, Piccolomini) s’insinua una certa libertà nell’interpretazione di quel «verosimile» che, in quanto «simile» al vero, non coincide esattamente con questo, ma lascia campo a qualche iniziativa che l’arte può esplicare, andando verso la sfera della soggettività e della sensibilità. Allargando il margine dell’iniziativa, le estetiche del Seicento e del Settecento poterono far posto ai concetti d’«ingegno», «argutezza», «acutezza», «gusto», «stile», «immaginazione», «fantasia»: termini e concetti per mezzo dei quali la poesia andava via via disimpegnandosi da un modello oggettivo e intellettuale, nonché da regole presupposte, per accostarsi in qualche modo alla produttività personale e alla emozione. L’«ingegno» non era più la fredda mente raziocinante, ma aggiungeva alla limpidezza intellettiva la vivace penetrazione di forze intuitive; e, come il «verosimile» si creava uno spazio proprio tra il vero e il falso, tra il reale e il finto, così il «gusto» stava di mezzo tra la ragione e il senso, e l’«immaginazione» si faceva largo tra le percezioni con qualche sentore della fantasia creatrice. Avvicinare l’arte alla sensibilità, pur senza farle perdere di vista l’idealità, è l’intenzione che muove, nella prima metà del Settecento, la corrente leibniziana, a cui s’è fatto cenno da principio nel parlare dell’opera Aesthetica di Baumgarten. Nello stesso movimento rientra il contributo estetico di Giambattista Vico, il quale vede nella «sapienza poetica» la fase mattinale di quel «riflettere con mente pura» che contrassegna la fase della maturità intellettiva degli individui e dei popoli. «Il mondo fanciullo fu di nazioni poetiche»: e poetica è la lingua, nel suo nascere dall’animo commosso dei popoli fanciulli, come poetiche sono le loro astronomie, cosmologie, teologie, cioè l’iniziale conoscere che si esplica faticosamente dalle nebbie del senso e si libera dal peso dell’istinto. Se queste idee trovano qualche riscontro con la «perfezione della cognizione sensibile», in cui Baumgarten riporrà la bellezza, è da notare in Vico qualcosa al di là dell’auroralismo artistico che pur lo accomuna con le estetiche del tempo. In Gottfried Wilhelm Leibniz e nei leibniziani il fatto estetico è ancora «perceptio»; in Vico è «produtivo». L’estetica 3713

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Estetica di quelli è ancora nell’orbita della «visione»; l’estetica di questo è già nell’orbita della «espressione». Nutrito di studi agostiniani e platonici, egli inizia l’esplicazione moderna del tovko" di Platone e del verbum mentis di Agostino. La «fantasia» di Vico è ormai la virtù espressiva dello spirito umano che s’adempie nell’immagine «corpolenta», sintesi di materia e forma, uscita di getto dall’incandescente vita del sentimento. «I primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente genere umano [...], dalla loro idea criavan essi le cose, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio. Perocché Iddio, nel suo purissimo intendimento, conosce e conoscendole cria le cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il faceano in forza d’una corpolenta fantasia. E perch’era corpolentissima, il faceano con una maravigliosa sublimità; tal e tanta che perturbava all’eccesso essi medesimi, che fingendo le si criavano, onde furono detti poeti, che lo stesso in greco suona che criatori» (Seconda Scienza nuova, 1731, l. II). La produttività dell’atto umano interviene, per Vico, anche nella creazione della storia, nella quale l’uomo si riconosce. Interviene anche nella costituzione della scienza, perché il «vero», per lui, è legato, da una parte al «certo», dall’altra parte al «fatto», cioè a quello che l’uomo fa. Come poi il «fare» dell’arte si distingua dal «fare» della scienza, Vico non l’ha precisato. O meglio, non ha voluto precisarlo perché tutto il fare dell’uomo si struttura alla luce di un principio universale, trascendentale: l’ordine, che è in primo luogo ordine di Dio, operante ed efficiente in ogni conoscenza di cose così come in ogni cosa poeticamente e storicamente fatta. 4. L’estetica dal romanticismo ai primi decenni del Novecento. – Nel romanticismo l’estetica, più che una disciplina particolare, è lo spirito di un’epoca della cultura che compie uno sforzo ardito e tormentato per risolvere nell’arte tutta la vita e tutto l’essere. Tra le varie coordinate nelle quali s’è tentato di ridurre all’unità un movimento tanto vario e complesso, ritengo più comprensiva quella che vede in esso la rievocazione, matura, riflessa, pienamente consapevole, dell’estetismo originario dei greci, il quale era, invece, spontaneo, ingenuo, irriflesso: lo stesso estetismo che i greci, nella loro maturità filosofica, avevano sconfessato. Il neoumanesimo tedesco non precede soltanto il moto romantico, ma, oltre a precederlo, lo 3714

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condiziona, lo accompagna, lo conclude, da Johann Joachim Winckelmann all’«Athenaeum» dei fratelli Schlegel (1799), ai Briefe di Friedrich Schiller, fino a Die Geburt der Tragödie (Leipzig 1872, tr. it. di S. Giametta, La nascita della tragedia, Milano 199213) di Friedrich Nietzsche. Il Rinascimento italiano era stato alimentato dalla rievocazione delle estetiche di Platone e di Aristotele; il romanticismo tedesco è il rinascimento dell’estetismo originario dei greci, la rivolta di Omero, Esiodo, Tirteo, Saffo, Eschilo, Sofocle contro il X libro della Repubblica di Platone e contro la Poetica di Aristotele, specialmente contro quella poetica da cui i pedanti del Cinquecento e i loro eredi avevano estratto le regole per imbrigliare la poesia. Lo Sturm und Drang si propaga anche oltre questi limiti, e investe il romanticismo vero e proprio che, in tutta la sua estensione, è lotta contro le regole classiche, nello stesso tempo in cui vuol essere riscossa del classicismo autentico, quale liberazione dello spirito nel senso universale della bellezza e dell’arte. I poteri creativi dello spirito umano, che Vico aveva tentato di contenere nell’orbita della fantasia poetica, l’umana produttività che Vico aveva controllata nella storia, con il romanticismo eccedono da questi limiti e investono tutto il reale, toccano i confini dell’assoluto. La storia dell’umano diventa la storia dell’essere. Il «genio» della poesia piega le forze ribelli, riconduce all’unità della forma la natura e lo spirito, il pensiero e l’estensione, l’infinito e il finito, rivela il senso ultimo del tutto. Parlando della patristica, s’è detto che Dio era il «genio» dell’arte cristiana. Ora si soggiunge che il «genio» è il dio dell’arte romantica: un dio laicizzato che presume di contenere nel suo potere tutto quanto conteneva l’altro e geme sotto il peso dell’immane fatica. La filosofia non è fuori di questo movimento. Criticismo e idealismo, fuori del moto romantico, sono incomprensibili. Già nella Kritik der Urteilskraft (Berlin 1790, tr. it. di A. Bosi, Critica del Giudizio, Milano 1995) Immanuel Kant aveva fatto presentire l’esito romantico, attribuendo alla bellezza la virtù di stabilire il terreno della conciliazione tra la sensibilità e l’intelletto, tra la necessità della natura e la libertà dello spirito: i termini, appunto, tra cui le altre due Critiche avevano scavato «un’immensa frattura». Kant aveva anche fuggevolmente suggerito, tra le sue molte buone ispirazioni non seguite fino in fondo, che il fondamento di

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codesta unità dovesse concretarsi nell’idea di un intelletto, che non fosse l’intelletto dell’uomo, per virtù del quale si operasse il congiungimento di ciò che la ragione pura dell’uomo dissocia e contrappone. Invece nel System des transzendentalen Idealismus (a cura di H.D. Brandt - P. Muller, Hamburg 1992, tr. it. e apparati di G. Boffi, Sistema dell’idealismo trascendentale, Milano 2006) di Friedrich Wilhelm Joseph Schelling codesto intelletto sovrasensibile si risolve interamente nel genio dell’artista che, quale organo dell’assoluto, svela di questo l’intima essenza, indistinzione di ideale e sensibile, di pensiero ed estensione, di spontaneità irriflessa e di consapevolezza. L’interesse estetico sembra estraneo allo scritto Über den Begriff der Wissenschaftslehre oder der sogenannten Philosophie, Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre (1794-95, tr. it. a cura di F. Costa, Sul concetto della dottrina della scienza. Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, Roma-Bari 19932) di Johann Gottlieb Fichte: ma il potere assoluto dell’io trascendentale, che crea il non io per esprimervi la sua libertà morale, si traduce nella magia dell’ispirazione poetica di Novalis, nella libera creatività dell’artista che in Friedrich Schlegel e in Johann Ludwig Tieck lancia fuori di sé dei mondi, per annullarli dispoticamente e sormontare ironicamente la finitezza di ogni sua opera con un’orgogliosa affermazione d’infinità. E come non riconoscere una consanguineità tra il poeta-titano del romanticismo e lo spirito assoluto di Hegel? Invero, in Hegel l’arte non è ultima nella dialettica dello spirito assoluto, ma, concepita quale «idealità sensibile» o «spiritualità formata», essa prelude in modo imperfetto al momento definitivo in cui l’assoluto si possiede nella purezza del concetto filosofico. Anzi, nel divenire storico supposto da Hegel, l’arte è destinata a morire, risolvendosi nella scienza e nella filosofia e, in questo fine che l’attende, sembra anche segnato un destino di morte all’estetismo romantico. Ma, a ben vedere, il logo hegeliano è il vero erede della poesia romantica, perché assolve nell’immanenza dell’atto umano lo stesso compito che s’era assunto il genio dell’arte: la potenza dell’umana specie, che Johann Wolfgang Goethe cantava transustanziata nel poeta e resa capace di dare un ritmo all’indifferente caos della natura, riscuote in Hegel il vigore che conferisce un ritmo unitario al cosmo logico, perfetto come un’opera d’arte. I critici contem-

Estetica poranei, che riconducono il panlogismo hegeliano alle sue origini romantiche, danno conferma alla divinazione di Vincenzo Gioberti che aveva visto il sistema di Hegel come un grande poema eterodosso, incapace di contenere la verità nel ciclo compiuto di una mitologia intellettuale (Protologia, vol. I, Torino 1857-58, p. 86). Molti ed essenziali gli acquisti dell’estetica nel periodo romantico: la sintesi artistica di particolare e universale, di corporeo e spirituale, concepita, prima che quale fatto di visione, quale fatto di espressione, dovuto alla potenza creatrice del «genio»; l’intellettualismo estetico corretto con l’integrazione delle forze vive e operanti del «sentimento»; lo stile definito quale volontaria determinazione del sensibile, sottratto alla necessaria limitazione a cui ogni cosa particolare va soggetta nel determinismo cosmico; la storicità dell’arte sottratta a un processo naturalistico di nascita, crescita, maturazione, decadenza e morte, e ricondotta invece alla varia struttura delle epoche e alla individualità dello spirito dei popoli; sottratta la valutazione artistica all’unità di misura della bellezza ideale ed educato «il gusto dei gusti», quale attitudine a rivivere in sé le varie condizioni spirituali delle epoche remote e a godere conseguentemente dell’espressione artistica a ciascuna epoca proporzionata. Questi e molti altri motivi del messaggio romantico, variamente eseguiti di autore in autore, di paese in paese, non sempre pervenendo a chiara consapevolezza e a coerente formulazione, attraversano tutto l’Ottocento e giungono fino a noi con un margine chiaroscurale nel quale hanno modo di esplicarsi intuizioni geniali e arbitri disordinati. Il difetto essenziale dell’anima romantica sta nella mancata definizione dei limiti tra l’estetico e il teoretico, tra la fantasia e la realtà, tra l’arte e la filosofia. Kierkegaard, romantico egli stesso, è a cavallo tra il romanticismo e i tempi nuovi: egli vede, con nitida chiarezza, che il puro estetismo porta alla disperazione (si pensi a Friedrich Hölderlin e a Nietzsche). Lo stato estetico è, per Søren Kierkegaard, lo stato della «rana elettrizzata» che si dibatte inutilmente, senza poter organizzare i movimenti per eliminare la causa delle sue convulsioni. Dall’«ironia» romantica all’«angoscia» esistenzialistica il passaggio è una conseguenza fatale. Il romanticismo, che tanto ha contribuito al progresso del concetto dell’arte e alla definizione 3715

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Estetica della sua autonomia, trasmette ai tempi nuovi, insoluto, il problema dei rapporti dell’attività estetica con le altre attività dello spirito: problema che non sarebbe risolto, ma riuscirebbe esasperato e produrrebbe un’esasperazione del problema della vita e della realtà, qualora l’autonomia dell’arte esorbitasse nell’egemonia dell’arte e tutto l’umano accettasse, come spesso è avvenuto in sede romantica, una risoluzione nel puro estetico. Nei giorni più vicini a noi si assiste all’esorbitare dell’estetico che, come ultima conseguenza della spinta romantica, invade tutto l’umano. Da una parte l’arte si pone come metafisica, penetrazione del senso ultimo della realtà, potenza unica che può scoprire l’essenza delle cose e toccare il fondo dell’essere. Dall’altra parte la filosofia cala nella forma dell’arte e, definendosi quale Kunstphilosophie, secondo il termine di Karl Jaspers (Philosophie, vol. III, Berlin 1932, p. 192, tr. it. a cura di U. Galimberti, Filosofia, Torino 1996, 3 voll.), rinuncia ad essere «pensiero sull’arte» per farsi «pensiero nell’arte», cioè attività fabulatrice che chiude la visione cosmica e metafisica nell’allucinante e fatua evidenza del mito poetico o scompone la realtà in una fenomenologia, degna più delle scene teatrali e delle pagine di un romanzo, che delle pagine di un trattato filosofico. Su questa base estetica s’intrecciano, si confondono, interferiscono mille altre linee di tensione dell’estetica contemporanea. Solitudine o coralità? Espressione o impressione? Ermetismo o comunicazione? Amore o dispetto cosmico? Realismo o astrattismo? Pura essenzialità o vivo riflesso esistenziale? Pura conversazione di oggetti o riecheggiamento emotivo di un’intera umanità? I poli estremi di queste antinomie trovano, nella modernità, interpreti che esasperano l’unilateralità e prendono un brandello del vero per la verità totale. I poeti, gli artisti, con le loro poetiche, cioè con i loro conati di riflessione sull’arte e con le loro intenzioni presupposte alle opere, si aggiungono ai filosofi e aggiungono qualche volta esperienze nuove e profonde, più spesso inquietudine all’inquietudine degli spiriti. Per recare un po’ d’ordine in tanta complessità si isola, qui di seguito, uno dei problemi più significativi dell’estetica contemporanea. Interno o esterno? Valori formanti o valori formali? Sentimento o forma? In sintesi si può dire che, nella modernità, a una Gehaltsästhetik, o estetica del che cosa (was), si contrappone 3716

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una Gestaltsästhetik, o estetica del come (wie). Alla prima interessano le condizioni storicopsicologiche dell’espressione artistica, alla seconda importa la sola figurazione sensibile, cioè importano i valori tattili o quelli della pura visibilità o gli elementi contrappuntistici e tonali dell’esecuzione musicale. Quanto all’estetica della forma, si parte da Johann Friedrich Herbart, che si oppone all’estetica metafisica di Hegel, si passa attraverso il contributo storico di Robert Zimmermann, si tocca l’alto contributo critico di Francesco De Sanctis, si discende fino a noi attraverso l’elaborazione di Eduard Hanslick, Conrad Fiedler, Gottfried Semper, Heinrich Wölfflin e del primo Bernard Berenson. Gran parte della critica d’arte in Italia dà tuttora ragione dell’opera artistica in base a elementi plastici, spaziali, coloristici, tonali seguendo le modulazioni della sensibilità nel ritmo compositivo dei singoli e nella singolarità delle opere. Dalla parte dei valori storico-psicologico-ambientali stanno movimenti di varia ispirazione, tra cui l’estetica del positivismo che con Hippolyte Taine riconduce l’arte a un teorema di meccanica psicologica, legata ai tre fattori concorrenti della razza, dell’ambiente e del momento; la critica filologico-biografica che indugia in ricerche erudite per ricostruire documenti storici e interpretarli, accertare date e attribuzioni, rivelare condizioni d’ambiente e psicologiche degli autori; lo storicismo degli epigoni di Wilhelm Dilthey che si servono specialmente dall’arte per individuare e qualificare le epoche e le sfere storiche o i cicli di civiltà, o con Max Dvorák identificano la storia dell’arte con la storia della cultura (Kunstgeschichte als Geistesgeschichte). Sigmund Freud e i suoi seguaci hanno modo di esercitarsi in quella corrente che, abbondante di contributi specialmente in Francia, scava nell’inconscio per scoprirvi le condizioni neuriche, i depositi ancestrali, i complessi erotici da cui dovrebbe derivare l’arte, come forma deviata o sublimata degli istinti profondi che si agitano nel sottosuolo e determinano in superficie le apparizioni della bellezza. Da questa parte si pone anche l’estetica marxista, che applica al rapporto contenuto-forma il rapporto dialettico struttura-sovrastruttura: la priorità dell’essere sociale sulla coscienza corrisponde in arte alla priorità del contenuto rispetto alla forma, cosicché si sostiene che le grandi innovazioni formali in arte conseguono necessariamente ai mutamenti sociali e cultu-

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rali della vita umana nella storia, che costituiscono la sostanza delle opere d’arte. Di qui la polemica dell’estetica marxista contro il formalismo decadente dell’ultima arte borghese, e l’affermazione del realismo come costante artistica (cfr. G. Lukács, Karl Marx und Friedrich Engels als Literaturhistoriker, Berlin 1948, tr. it. di C. Cases, Il marxismo e la critica letteraria, Torino 1953, pp. 9-18). Anche la formula del realismo, come ogni altra formula, non va presa in senso dogmatico. Basta ad Antonio Banfi, come criterio universale, l’idea dell’esteticità, intesa non come rappresentativa di un’astratta essenza, ma come esigenza di connettere in un sistema sempre più ampio e vario di rapporti l’esperienza artistica, perché l’estetica possa tutta risolversi, senza disperdersi, nella fenomenologia dell’arte, unica maniera concreta di cogliere il fatto artistico (cfr. A. Banfi, L’esperienza estetica e la vita dell’arte, in «Studi filosofici», 4, 1940, pp. 353-387). E Galvano Della Volpe, polemizzando contro ogni estetica razionalistica e concettualistica, afferma la necessità di studiare il fenomeno artistico senza nessuna categoria a priori, connettendolo con i fatti storici che l’accompagnano, così come fa con il suo oggetto ogni ricerca che voglia essere scientifica (G. Della Volpe, I problemi e il metodo di un’estetica materialista, in «Il pensiero critico», 2, 1951, pp. 105-123). L’estetica di John Dewey, pur costituita sui presupposti naturalistici dell’autore, tende a superare la dualità forma-contenuto riportando l’arte all’esperienza, anzi concependola come unità dell’esperienza nella sua forma più elevata, come le cime dei monti sono la medesima terra in una delle sue manifestazioni (cfr. J. Dewey, Art as Experience, New York 1934, tr. it. di A. Granese, L’arte come esperienza, Firenze 1952 [nuova ed. 1995], p. 8). «La forma è caratteristica di ogni esperienza»; è l’esperienza che, a opera delle forze vitali che la pervadono, raggiunge la propria unità. «L’arte, nel suo senso specifico, stabilisce più deliberatamente e pienamente le condizioni che producono questa unità» (ibi, p. 162). È gradito vedere nell’estetica dell’idealismo italiano, quale si andò svolgendo nella prima metà del nostro secolo, una remora posta a tante visioni parziali e una sintesi avviata tra gli elementi dissociati e sconnessi dall’angustia d’interpretazioni unilaterali. Ispirazione ed esecuzione, sentimento e forma, fattori psicologici e fattori stilistici, sono elementi com-

Estetica plementari che, in tanto valgono alla comprensione dell’arte, in quanto si integrino vicendevolmente. A salvare l’estetica formale e l’estetica psicologica dalla unilateralità del loro atteggiamento vale la sintesi di Croce che, dai primi decenni del nostro secolo, si è andata imponendo nel pensiero contemporaneo. La creatività vichiana, attraverso l’esperienza idealistico-romantica, frutta il concetto crociano dell’arte come espressione, estrinsecazione dell’interno, immediata apprensione dell’immagine sensibile, in cui materia e forma si fondono in indissociabile realtà. L’espressione-intuizione fantastica, primo grado dell’attività teoretica dello spirito, è legata alla concretezza individuale dell’immagine, distinguendosi dalla concezione logica che, in un grado ulteriore della teoresi, coglie l’universale. L’attività teoretica, nei suoi due gradi estetico e logico, si distingue poi dalle forme collaterali, economica e morale, dell’attività pratica. Negli scritti posteriori all’Estetica (Bari 1902), con il concetto della «circolarità» delle forme dello spirito, Croce intendeva soddisfare l’esigenza dell’unità, correggendo quanto di troppo rigido e meccanico poteva risultare dalla dottrina dei gradi e dell’autonomia del grado iniziale rispetto al successivo; con il concetto di «liricità» immetteva il colore e il calore del sentimento nella teoreticità dell’espressione artistica; con il concetto di «cosmicità» diffondeva in universale valore il particolarismo dell’intuizione estetica. Contemporaneamente, nello svolgimento del sistema in rapporto alle altre forme dell’attività spirituale, Croce andava definendo il carattere della filosofia quale «metodologia della storiografia», precisando il carattere individuale del concetto-concreto e del giudizio storico, quest’ultimo identificato, senza residuo, con il giudizio filosofico. Mentre il particolare dell’intuizione estetica, con la dottrina della «cosmicità», si apriva a un valore d’universalità, l’universale del giudizio filosofico si concretava nell’individualità dell’intuizione storica, con la difficoltà di segnare una differenza tra la teoresi artistica e la teoresi storico-filosofica. Nella prima Estetica l’autonomia dell’arte e la distinzione dei gradi erano stabilite a scapito del presupposto idealistico dell’unità e assolutezza dello spirito in ogni suo momento e atto; negli scritti posteriori, l’unità dello spirito assoluto è ristabilita a scapito dell’autonomia delle forme dell’attività conoscitiva, la quale 3717

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Estetica sembra non potersi realizzare altrimenti che nella concretezza cosmica dell’intuizione artistica, sì che, come Croce aveva fatto in uno dei suoi saggi giovanili, la storia o la filosofia viene ricondotta al concetto generale dell’arte (Storia ridotta al concetto generale dell’arte, Napoli 1893). La neutralità del giudizio storico crociano, il quale tutto «giustifica», senza far giustizia di ciò che nella storia è moralmente negativo rispetto a un giudizio di valore, ci riporta infatti a un fondamentale atteggiamento estetico della storiografia di Croce, che è come dire che ci riporta a un fondamentale atteggiamento esteticistico della sua filosofia. L’hegeliana identità di reale e ideale, trasferitasi nel concetto-concreto di Croce, ci dà ragione della «cosmicità» dell’intuizione lirica, sintesi di sensibilità e di universalità, non ci dà ragione dell’idea con cui la ragione interpreta, valuta, giudica il concreto divenire della storia e del cosmo. Il lascito dell’idealismo romantico resta anche in Croce un problema insoluto. Non molto diverso è l’epilogo dell’estetica di Gentile (Filosofia dell’arte, Firenze 1931), quantunque egli intenda fin dall’inizio di non creare compartimenti stagni tra le attività spirituali e nell’arte veda null’altro che l’aspetto o il momento della soggettività che ritrae a sé l’oggetto, nato dal suo potere creativo, per arderlo nella fiamma del sentimento generatore. Come poi l’atto puro del soggetto risolve in sé ogni realtà, così gli altri momenti in cui si compie la dialettica dello spirito, quello religioso e quello filosofico, restano investiti dalla forma dell’arte, nella quale, a sua volta, circolano gli altri elementi pratici, teoretici, religiosi, che costituiscono la nostra intera umanità e alimentano incessantemente la fiamma dell’arte. Ma, se il soggetto nella sua attualità costituisce la totalità dell’essere, per quale ragione lo spirito deve superare il momento della soggettività, che è il momento dell’arte, e conquistarsi, attraverso l’oggettivazione religiosa, nell’autocoscienza filosofica? Gentile risponde che qui è la vera attualità della coscienza e che il momento estetico e quello religioso sono inattuali, perché la coscienza media l’opposizione di soggetto e oggetto, e la risolve nella chiara consapevolezza dell’appartenenza dell’oggetto al potere creativo della soggettività. A ciò pare ovvio doversi replicare che, o l’autocoscienza filosofica, per distinguersi comunque dall’attività estetica, viene privata di quel calore emotivo che contraddi3718

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stingue l’arte, e in tal caso si ottiene il teoretico e il filosofico senza nulla aggiungere all’estetico, anzi devitalizzando l’estetico; ovvero l’autocoscienza, come parrebbe necessario, conserva nella purezza e nella pienezza dell’atto la viva attualità del sentimento puro, e in questo caso la filosofia si consuma tutta in arte. L. Stefanini

III. L’ESTETICA FILOSOFICA NELLA SECONDA METÀ DEL NOVECENTO. – 1. La fine dello storicismo e il marxismo. – Nella prima estetica di György Lukács, non priva di influenze simmeliane, le forme costituiscono quelle strutture di senso attraverso le quali l’uomo tenta di trasformare il caos del flusso vitale in cosmo, in un processo che è destinato peraltro sempre al fallimento (e che si manifesta in maniera peculiare nella tragedia dell’esistenza umana, in cui Dio si è ritirato dalla scena e ne è divenuto spettatore: così in Die Seele und die Formen (Berlin 1911, tr. it. a cura di S. Bologna, L’anima e le forme, Milano 1991) e in Die Theorie des Romans (in «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 2, 1916, tr. it. a cura di G. Raciti, Teoria del romanzo, Milano 2004). L’estetica successiva del filosofo ungherese invece si colloca interamente sotto il segno del marxismo (Beiträge zur Geschichte der Ästhetik, Berlin 1954, tr. it. di E. Picco, Contributi alla storia dell’estetica, Milano 1957; Prolegomeni a un’estetica marxista, tr. it. di F. Codino e M. Montinari, Roma 1957; Ästhetik. Teil I: Die Eigenart des Ästhetischen, Neuwied-Berlin 1963, 2 voll., tr. it. di A. Solmi - F. Codino, Estetica, Torino 1970, 2 voll., ed. ridotta a cura di F. Fehér, tr. it. di A. Solmi, Torino 1975, 2 voll.). Al centro della proposta lukácsiana vi è ora la nozione di «rispecchiamento», che indica l’aspetto mimetico peculiare della produzione artistica. Tale mimesi è qui strettamente funzionale al programma di un «realismo critico», e quindi non ha carattere meramente riproduttivo, bensì è il medium della «partiticità» dell’artista. Diversamente da Ernst Bloch, che aveva cercato una sintesi fra l’irrazionalismo filosofico e l’avanguardia artistica sotto il segno dell’utopia, l’estetica matura di Lukács vede in entrambi i fenomeni un segno di decadenza e un’espressione del capitalismo nella sua fase imperialistica. Va detto peraltro che lo stesso Bloch, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, avrebbe mostrato un avvicinamento sempre più evidente ai temi e ai metodi del

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materialismo dialettico, anche se in termini non ortodossi (Das Prinzip Hoffnung, Frankfurt am Main 1959, 5 voll., tr. it. di E. De Angelis T. Cavallo, Il principio speranza, Milano 1994). In Italia, un progetto di estetica chiaramente ispirata al materialismo storico è stato proposto da Della Volpe (Critica del Gusto, Milano 1960), nella quale un ruolo centrale, contro le prospettive misticheggianti che sarebbero proprie di ogni forma di storicismo, da Vico a Croce, è svolto dall’analisi semiotica del prodotto artistico: in ciò consisterà anzi per Della Volpe il tratto di scientificità nell’interpretazione dei linguaggi dell’arte. 2. Benjamin e la Scuola di Francoforte. – Sono molteplici le componenti che confluiscono nel pensiero di Walter Benjamin: oltre al marxismo, in esso si possono riscontrare elementi di neokantismo, fenomenologia, sociologia, oltre che di messianismo ebraico. La dissertazione Ursprung des deutschen Trauerspiels (Berlin 1928, tr. it. di E. Filippini, Il dramma barocco tedesco, Torino 1991), clamorosamente respinta come scritto di abilitazione, è preceduta da una difficile «premessa gnoseologica», in cui il metodo benjaminiano contrappone «verità» a «conoscenza», e sviluppa una teoria dell’«idea» come costellazione, funzionale poi allo studio di un genere letterario apparentemente minore, ovvero il «dramma luttuoso» (Trauerspiel) dell’età barocca. Qui è la figura dell’allegoria – da Benjamin rivalutata contro la tradizione idealistico-romantica – a esprimere il carattere per certi aspetti arbitrario del senso attribuito alla realtà dall’individuo moderno, impegnato nel vano tentativo di ricomporre la varietà delle cose in una totalità. Negli anni successivi Benjamin avrebbe dedicato al tema della filosofia della storia una serie di scritti brevi, miranti a riconoscere nel patrimonio della cultura il frutto di una «storia della violenza» e di una «schiavitù senza nome»: donde, per esempio, l’interpretazione di un dipinto di Paul Klee del 1920, raffigurante un angelo che vola all’indietro. Per Benjamin, esso è l’angelo dall’esistenza effimera che, secondo una leggenda talmudica, è in grado di serbare memoria di un’esistenza caduca, travolta dalla vicenda storica (cfr. la raccolta Angelus Novus, tr. it. di R. Solmi, Torino 1995). Il tentativo di rendere conto di un’esperienza estetica sempre più emancipata dalla dimensione cultuale, e insieme collocata sullo sfondo di rinnovati rapporti tra la produzione dell’opera e la sua

Estetica fruizione, avrebbe poi indotto Benjamin, dalla seconda metà degli anni trenta, a verificare la trasformazione dell’estetico (Das PassagenWerk, Frankfurt am Main 1982, tr. it. di R. Solmi et al., Parigi, capitale del XIX secolo, Torino 1986) e la portata (potenzialmente emancipativa, ancorché inquietante) della «perdita dell’aura» dell’opera d’arte nell’età contemporanea, allorché essa si fa tecnicamente riproducibile, e si affermano generi artistici inediti come il cinema e la fotografia (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Frankfurt am Main 1955, tr. it. di E. Filippini, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino 1966). L’estetica svolge un ruolo di primo piano nella speculazione dei pensatori raccolti intorno all’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, e poi esuli negli Stati Uniti d’America. Essa addirittura occupa il centro della filosofia di Theodor Wiesengrund Adorno, a partire dalla dissertazione su Kierkegaard (Kierkegaard: Konstruktion des Asthetischen, Tübingen 1933, tr. it. di A. Burger Cori, Kierkegaard. La costruzione dell’estetico, Milano 1983), il cui pensiero costituisce un modello di ontologia incentrata sulla soggettività e sull’individualità. Certo, per Adorno, è stato il pensiero di Hegel il più profondo tentativo teorico di comprendere e assimilare l’eterogeneo, il negativo; ma se deve essere riconosciuto l’indubbio merito storico della dialettica hegeliana per la comprensione del reale, di essa andrà invece corretto l’andamento «positivo», sfociante nel trionfo della conciliazione (Negative Dialektik, Frankfurt am Main 1966, tr. it. di C.A. Donolo, Dialettica negativa, Torino 1982). Di qui dunque la natura volutamente antisistematica del programma adorniano, e anche la peculiarità stilistica della sua prosa filosofica («paratassi»). Secondo la monumentale e incompiuta Ästhetische Theorie (postuma, Frankfurt am Main 1970, tr. it. di E. De Angelis, Teoria estetica, Torino 1977), l’arte – secondo l’espressione di Stendhal – è «promessa di felicità». Essa però corre oggi il rischio di trasformarsi in un processo meramente consolatorio, perché la «cultura affermativa», le modalità di comunicazione della società capitalistica e in generale gli strumenti di trasmissione della cultura di massa ottundono la coscienza critica. Nella Dialektik der Aufklarung (Amsterdam 1947, tr. it. di R. Solmi, Dialettica dell’illuminismo, Torino 1997) Adorno, insieme con Max Horkheimer, può co3719

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Estetica sì affermare che l’industria culturale altro non sarebbe se non un gigantesco apparato in grado di operare, sotto una parvente tolleranza, una subdola manipolazione delle coscienze, fino a diventare humus del totalitarismo politico: «Il borghese desidera che l’arte sia voluttuosa e la vita ascetica; il contrario sarebbe meglio». Il contenuto di verità dell’estetico andrà piuttosto ricercato nella grande arte: essa è tale proprio perché non si limita a rispecchiare processi sociali. Se la sua forma per un verso non può che essere effettivamente espressione di tali movimenti storici, dall’altro l’opera conserva qualcosa come una traccia, una possibilità della loro negazione, insomma la possibilità di gettare uno sguardo in controluce sul mondo, dando voce al negativo. Sicché il valore dell’arte non consisterà tanto nella sua capacità di esibire contenuti di impegno (come voleva p. es. Bertolt Brecht), quanto nel permettere a questi contenuti di agire in modo innovativo sulla stessa forma. Ulteriori contributi dell’estetica adorniana si possono trovare nei suoi studi di estetica musicale (oltre a quelli su Wagner, Mahler e Beethoven, si ricordi la Philosophie der neuen Musik, Tübingen 1949, tr. it. di G. Manzoni, Filosofia della musica moderna, Torino 2002) e in una grande quantità di saggi (citeremo qui solo Note per la letteratura, Torino 1979, 2 voll. e Ohne Leitbild. Parva Aesthetica, Frankfurt am Main 19693, tr. it. di E. Franchetti, Parva aesthetica, Milano 1979). Sempre nell’ambito della Scuola di Francoforte, particolare attenzione al ruolo dell’arte nella società del capitalismo avanzato ha segnato anche la filosofia di Herbert Marcuse (Eros and Civilization, Boston 1966, tr. it di L. Bassi, Eros e civiltà, Torino 2001; One-dimensional Man, Boston 1964, tr. it. di L. Gallino - T. Giani Gallino, L’uomo a una dimensione, Torino 1991). Marcuse rinviene nella dimensione «ludica» dell’esperienza estetica un luogo in cui l’uomo contemporaneo, la cui esistenza oscilla fra il conformismo e l’alienazione, può fare esperienza di autentica libertà (La dimensione estetica, ed. it. a cura di P. Perticari, Milano 2002), pur nella consapevolezza che la società «unidimensionale» della ragione strumentale e della tecnologia applicata tende a inglobare dentro di sé ogni ideale che ambisca a confutarne i fondamenti, integrandolo nel sistema e nel mercato. 3. Sviluppi dell’estetica fenomenologica. – La fenomenologia, a partire dallo stesso Edmund 3720

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Husserl, aveva posto il problema di una fondazione dell’estetica a partire dalle operazioni che fanno dell’oggetto un «oggetto estetico». Secondo gli estetologi di formazione fenomenologica, l’esteticità non attiene alle cose come loro proprietà intrinseca, ma va intesa quale prodotto di atti da parte del soggetto attraverso cui questo attribuisce una struttura significativa alle modalità del loro apparire. L’opera d’arte viene così intesa quale cosa sensibile e materiale, e insieme oggetto estetico costituito da atti intenzionali che ne fanno emergere il valore (né univocamente oggettivo né astrattamente soggettivo). Le indagini condotte dai fenomenologi di lingua tedesca nel secondo Novecento (F. Kaufmann, Oskar Becker, Nicolai Hartmann la cui Ästhetik fu pubblicata postuma, Berlin 1953, tr. it. di M. Cacciari, L’estetica, Padova 1969) – ma anche dal polacco Roman Ingarden, che nella seconda metà del secolo ha approfondito le ricerche sull’ontologia dell’opera letteraria inaugurate con Das literarische Kunstwerk (Tübingen 19724, tr. it. Fenomenologia dell’opera letteraria, Milano 1968) si sono così concentrate di preferenza sul tema dell’oggetto estetico e della fruizione estetica. In area francese, le estetiche di matrice fenomenologica hanno influenzato studiosi dall’approccio e dagli interessi assai differenti. Benché non sia dato ritrovare nei testi di Maurice Merleau-Ponty un’estetica come ricerca disciplinare su una determinata classe di oggetti, l’arte è nel suo impianto fenomenologico uno dei luoghi principali dell’originaria esperienza del mondo. A differenza delle scienze esatte, la filosofia e soprattutto l’arte non debbono esprimere idee già formate, bensì suscitare quelle percezioni da cui soltanto possono scaturire, formandosi, le idee. In tal modo (Le doute de Cézanne, in Sens et Non-sens, Paris 1948, pp. 15-44, tr. it. di P. Caruso, il dubbio di Cézanne, in Senso e Non-senso, Milano 1962, pp. 27-44), un’opera riesce, è cioè veramente tale, allorché trasforma una realtà amorfa in realtà dotata di senso: «L’artista è colui che fissa e che rende accessibile ai più “umani” fra gli uomini lo spettacolo di cui fanno parte senza vederlo». Inoltre, per MerleauPonty, al livello della percezione primordiale e originaria, che l’arte esprime, non sussiste né una contrapposizione fra pensiero e visione né una distinzione fra i sensi. In altri termini l’arte cerca di riprodurre l’originaria e spontanea

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percezione totalizzante delle forme, secondo una necessità ulteriormente ribadita nel saggio L’oeil et l’esprit (Paris 1964, tr. it. di A. Sordini, L’occhio e lo spirito, Milano 1989). Secondo Le visible et l’invisible (Paris 1964, tr. it. di A. Bonomi, riveduta da M. Carbone, Il visibile e l’invisibile, Milano 1993), poiché il mio corpo è sempre insieme vivente e visibile, la visione si fa nelle cose. Il visibile emerge da uno sfondo invisibile che il visibile manifesta e rende presente nella sua latenza e assenza. Ed è proprio nell’arte che viene a manifestazione il rapporto quasi-dialettico di invisibilità e visibilità: nel fenomeno artistico appare infatti l’apparire stesso. Per contro, Mikel Dufrenne in Phénoménologie de l’expérience esthétique (Paris 19923, 2 voll., tr. it. del vol. I di L. Magrini, Fenomenologia dell’esperienza estetica, Roma 1969) ha elaborato un’estetica incentrata sul ruolo dello spettatore, volta cioè a comprendere il momento della percezione prima che quello della produzione dell’opera d’arte. Ciò non significa peraltro sottovalutare il momento creativo, poiché lo stesso artista si fa spettatore della propria opera nel corso del processo creativo. Negli scritti successivi (tra cui ricordiamo il Trattato di estetica, curato insieme a Dino Formaggio, Milano 1981, 2 voll.) Dufrenne, oltre ad approfondire le implicazioni ontologiche dell’estetica fenomenologica, ha aperto le sue indagini alla considerazione degli aspetti sociologici dell’arte, in primo luogo le sue esigenze libertarie e utopiche. Nell’ambito dell’estetica italiana, la fenomenologia è stata – soprattutto nel secondo dopoguerra – praticata soprattutto come strumento atto a superare le aporie dell’idealismo. Il pensiero estetico di Antonio Banfi, in questo senso, si è sviluppato dall’integrazione del metodo fenomenologico con quello trascendentale, sicché Banfi ha individuato la sfera estetica non tanto a partire dalla questione circa l’essenza dell’opera d’arte, quanto in base all’idea di esteticità che si viene configurando nell’incontro fra l’io e il mondo (Vita dell’arte, Milano 1947, ora in Opere, vol. V, Reggio Emilia 1986 ss.). L’ultima fase della riflessione estetica di Banfi è stata segnata dalla sua adesione al marxismo: sicché fra i concreti procedimenti attraverso cui ha luogo l’esperienza estetica assumono nella sua ricerca grande peso quelli legati alla funzione sociale dell’arte (cfr. I problemi di un’estetica filosofica, MilanoFirenze 1961 e Filosofia dell’arte, Roma 1962, en-

Estetica trambi postumi). Anche Formaggio ha collocato al centro della propria riflessione la distinzione fra «esteticità» e «artisticità», declinandola tuttavia nei termini di una vera e propria contrapposizione, e sviluppando quindi le sue tesi in rapporto soprattutto con le vicende della recente storia dell’arte. Rifacendosi alla tesi hegeliana, Formaggio sostiene così che l’arte destinata a «morire» è quella ancorata a un concetto estetico e a un’astratta concezione del bello; per contro, l’arte che continua a essere praticata è quella che, abbandonato il concetto di bello, prende a proprio riferimento l’artisticità quale esito felice di una prassi tecnica (Fenomenologia della tecnica artistica, Milano 1953, Parma 1979; La «morte dell’arte» e l’estetica, Bologna 1983; Problemi di estetica, Palermo 1991). Nell’ambito della scuola di Milano, il progetto di un’estetica fenomenologica è stato proseguito, nella generazione successiva, da Gabriele Scaramuzza e Stefano Zecchi. Quanto all’area bolognese, dopo aver incentrato la propria attenzione sulla questione di Autonomia ed eteronomia dell’arte (Milano 1992), Luciano Anceschi, animatore de «il Verri» e di «Studi di estetica», ha lavorato al progetto di una «nuova fenomenologia critica di orientamento pragmatico»: tanto nelle poetiche, quanto nel pensiero estetico-filosofico è dato secondo Anceschi di rinvenire la tendenza a isolare il fatto estetico, insieme con l’opposta inclinazione a fondare l’arte nelle relazioni che essa intrattiene con le altre forme della cultura (Fenomenologia della critica, Bologna 1966; Il caos, il metodo, Napoli 1981; Gli specchi della poesia, Torino 1989). 4. Dalla filosofia dell’esistenza all’ermeneutica. – L’apparente disinteresse dell’esistenzialismo per l’elaborazione di una teoria dell’arte, forse con la parziale eccezione del Jean-Paul Sartre di Situations I-IV (Paris 1947-64, tr. it. di L. Arano-Cogliati et al., in Che cos’è la letteratura, Milano 1995), non ha impedito lo svolgimento, in alcuni dei protagonisti della filosofia dell’esistenza, di riflessioni attente alla concreta esperienza artistica. In Martin Heidegger, dopo la cosiddetta «svolta» in direzione di una concezione dell’essere inteso non più nei termini di una definizione essenziale, ma in termini di Ereignis («evento» e «accadimento»), si nota una nuova attenzione per il fenomeno artistico, al di fuori delle angustie disciplinari dell’estetica tradizionalmente intesa. L’accadere dell’essere, il suo darsi come evento av3721

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Estetica viene infatti per eccellenza nella poesia e nell’arte (così Der Ursprung des Kunstwerkes, Stuttgart 1967, tr. it. di P. Chiodi, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, Firenze 19973, pp. 3-69). Si tratta di una concezione «inaugurale» dell’opera, intesa appunto come luogo in cui accade la verità, evento in cui l’apertura di un mondo rende possibile l’esperienza stessa. Là dove il rapporto dell’arte con la verità ha luogo, dice Heidegger, entrano in conflitto due elementi: il mondo e la terra. Con il primo il filosofo intende l’orizzonte culturale, storico, nonché linguistico e assiologico, esposto e addirittura «aperto» dall’opera; con il secondo, quella riserva di fisicità naturale, indisponibile a ogni esplicazione definitiva, che dell’opera costituisce il fondo oscuro e la condizione di possibilità. La presa di congedo dai limiti del linguaggio filosofico della tradizione metafisica e la consapevolezza del carattere istitutivo dell’opera d’arte spiegano anche il crescente interesse che Heidegger mostra, a partire dagli anni trenta, per il linguaggio della poesia (cfr. Erlauterungen zu Hölderlins Dichtung, Frankfurt am Main 19633, ed. it. a cura di L. Amoroso, Hölderlin e l’essenza della poesia, Milano 20013; e il saggio su Rainer Maria Rilke Wozu Dichter?, in Holzwege, Frankfurt am Main 1950, tr. it. in Sentieri interrotti, cit., pp. 247297). Solamente la poesia può infatti suggerire al pensiero elementi di riflessione intorno all’essenza originaria del linguaggio; e dal momento che ogni analisi linguistica è per sua natura inevitabilmente già nel linguaggio, in tutto ciò pare riproporsi il movimento peculiare del circolo ermeneutico (cfr. i saggi su Stefan George e Georg Trakl in Unterwegs zur Sprache, in GA, vol. XII, tr. it. a cura di A. Caracciolo, In cammino verso il linguaggio, Milano 1999). Sulla scorta di Heidegger, in Wahrheit und Methode (Tübingen 1960, tr. it. di G. Vattimo, Verità e metodo, Milano 200414) Hans-Georg Gadamer fa del comprendere la dimensione fondamentale dell’esistenza umana, nel quotidiano non meno che in rapporto alla continuità della storia e della cultura. Nella prima sezione dell’opera, Gadamer procede così a una «critica della coscienza estetica», intesa come prodotto tipicamente moderno. La sacralizzazione dell’arte cui si assiste a partire dal XIX secolo affonda infatti le proprie radici nell’atteggiamento inaugurato da Kant: la separazione dell’ambito estetico da quello teoretico e da quello pratico. Ciò comporta da una parte la 3722

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perdita del contenuto ontologico dell’arte, dall’altra quel processo di «differenziazione estetica» che ha fra le proprie conseguenze l’intellettualismo artistico, il nichilismo ermeneutico, l’invenzione di qualcosa come un «puro valore estetico» (esemplare p. es. delle teorie romantiche dell’artista e del genio), e infine la separazione dell’opera dal suo contesto originario di senso. Di contro a tutto ciò, Gadamer propone un incontro con l’opera intesa come evento storico in cui si dà la verità, e contrappone all’angustia della «coscienza estetica» un’«esperienza estetica» intesa come «fusione di orizzonti» fra l’interprete e l’opera. Il trascendimento della dimensione estetica passa così attraverso una restituzione del valore ontologico autentico all’opera d’arte, che Gadamer sviluppa anche attraverso un’analisi della nozione di «gioco» (cfr. Die Aktualität des Schönen, Stuttgart 1977, tr. it. a cura di R. Dottori, L’attualità del bello, Genova 1986). Il gioco (Spiel) rappresenta infatti una totalità di significato che detiene un primato sui singoli giocatori, e ne oltrepassa quindi l’individualità soggettiva. L’oggetto artistico si propone allora in maniera esemplare alla fruizione, in quanto nell’incontro con esso ha luogo la sua «trasmutazione in forma». In ciò accade un’esperienza di verità che arricchisce tutti gli elementi della relazione (fruitori, creatore, l’opera stessa). L’esperienza estetica così intesa costituisce insomma sempre un accrescimento ontologico, il cui orizzonte fondamentale è anche per Gadamer il linguaggio. Sicché, l’opera d’arte è sempre un «colloquio», e «l’essere che può venir compreso è il linguaggio». L’ermeneutica gadameriana ha influenzato in vario modo (nel senso della continuità, ma anche della presa di distanza critica) altre teorie dell’interpretazione elaborate in area tedesca. Per limitarci a quella probabilmente più significativa, ricordiamo che a partire dalla fine degli anni sessanta, nell’ambito della scuola di Costanza, Hans Robert Jauß ha elaborato un progetto di estetica della ricezione di chiara matrice ermeneutica (cfr. R.C. Holub [a cura di], Reception Theory, London - New York 1984, ed. it. Teoria della ricezione, Torino 1989) . Secondo quanti si sono riconosciuti nel progetto jaussiano (p. es. il comparatista Wolfgang Iser), non bisogna intendere l’opera – nella fattispecie un testo letterario – come se essa contenesse dentro di sé un messaggio immutabile, che il lettore non dovrebbe far altro che com-

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prendere ed estrapolare, bensì riconoscere che il lettore stesso è protagonista attivo di un processo poietico (Ästhetische Erfahrung und literarische Hermeneutik, Frankfurt a.M. 1982, 3 voll., tr. it. del voll. I di B. Argenton, Teoria e storia dell’esperienza estetica, Bologna 1987, tr. it. del vol. II di B. Argenton, Domanda e risposta. Studi di ermeneutica letteraria, Bologna 1988, tr. it. del vol. III di C. Gentili, Estetica e interpretazione letteraria, Genova 1990). L’esperienza estetica, nell’intenzione di Jauß, diventa così comprensibile a partire dalla nozione (fenomenologica, e poi anche gadameriana) di «orizzonte», inteso come struttura di attesa e sistema di riferimenti culturali attraverso i quali un fruitore entra in contatto con un testo. Quella di orizzonte non è però, evidentemente, una nozione privata, bensì comunitaria: le dimensioni produttiva, ricettiva e comunicativa (che richiamandosi alla tradizione Jauß chiama poiesis, aisthesis e katharsis) spalancano uno spazio di riflessione esonerato da fini specifici, oltre che dalla dimensione abitudinaria della comunicazione, e mettono in questione fin dai loro fondamenti i comportamenti sociali, nonché gli stessi ruoli tradizionalmente definiti dal triangolo autore-operapubblico. In questo senso, l’estetica della ricezione sembra venire incontro alle esigenze di molta produzione artistica del Novecento. 5. L’estetica tra decostruzione e narrazione. – In Le conflit des interprétations (Paris 1969, tr. it. di R. Balzarotti et al., Conflitto delle interpretazioni, Milano 1982) di Paul Ricoeur, considerato fra i maestri dell’ermeneutica contemporanea, il rapporto fra la questione dell’interpretazione e l’eredità della fenomenologia ha una chiara valenza estetica, laddove esso prende le mosse da un’analisi del linguaggio simbolico, ovvero dalla distinzione e dall’analisi dei differenti livelli di significato che sono impliciti in un simbolo, secondo un procedimento che trova quindi applicazione nell’analisi della figura retorica della metafora, considerata in rapporto alla continua produzione di significati che viene operata dall’immaginazione produttiva, quando la vitalità dell’immagine si conferma capace di aprire nuove dimensioni di senso (La métaphore vive, Paris 1975, tr. it. di G. Grampa, La metafora viva, Milano 20013). Nei tre volumi di Temps et récit (Paris 1983-85, 3 voll., tr. it. di G. Grampa, Tempo e racconto, Milano 1986-88) Ricoeur perviene infine – attraverso l’analisi dei differenti procedimenti

Estetica mimetici propri della produzione testuale – alla meditazione circa il rapporto fra la temporalità e il discorso, alla luce della nozione di «narrazione», che è la capacità di configurare e dare forma al mondo e all’azione. Un significativo ricorso alla nozione di «narrazione» (e, con ciò, una certa «estetizzazione» del discorso filosofico nel suo insieme, che talora viene addirittura equiparato a un «genere letterario» fra gli altri) si ritrova anche nella più recente produzione teorica dell’americano Richard Rorty, pervenuto all’ermeneutica con Philosophy and the Mirror of Nature (Princeton 1979, tr. it. di G. Millone - R. Salizzoni, La filosofia e lo specchio della natura, Milano 2004), dopo un percorso attraverso la filosofia analitica e il pragmatismo: Rorty teorizza il paradigma filosofico della tarda modernità in termini apertamente relativistici (Contingency, Irony and Solidarity, Cambridge 1989, tr. it. di G. Boringhieri, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia, solidarietà, Roma-Bari 20032). Per altro verso, l’intento di equiparare a «grandi racconti» la credenza nelle visioni onnicomprensive e progressive proprie della modernità occidentale è stato al centro della proposta teorica di Jean-François Lyotard, uno dei principali teorici del postmoderno filosofico (La condition postmoderne, Paris 1979, tr. it. di C. Formenti, La condizione postmoderna, Milano 1999 12 ). Se a venire liquidata e smentita dall’andamento della storia, nei meta-racconti della metafisica, è anzitutto la fiducia in un ideale universalistico, dalla filosofia dell’arte potranno venire al pensiero tutta una serie di sollecitazioni in grado di sviluppare la pluralità inconciliabile dei discorsi, condotti secondo un paradigma in senso lato «estetico», ossia basato su di una razionalità temporanea, locale e aliena in ogni modo da pretese universalistiche (Le différend, Paris 1983, tr. it. di A. Serra, Il dissidio, Milano 1985). Sempre in area francese, va ricordato che il metodo della «antropologia strutturale» di Claude Lévi-Strauss ha ispirato ampiamente la critica letteraria strutturalista. Nella prospettiva lévi-straussiana, le narrazioni mitologiche danno corpo a un sistema simbolico che organizza le opposizioni su cui si fonda una data società. Il mito cioè tende a rispecchiare l’ordine che una società ricerca nell’universo, mentre il meccanismo di ripetizione rituale diviene produttivo di «differenza»: appare così evidente l’importanza di queste tesi in autori 3723

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Estetica come Gilles Deleuze (Différence et répétition, Paris 1968, tr. it. di G. Guglielmi, revisionata da G. Antonello - A.M. Morazzoni, Differenza e ripetizione, Milano 1997 2 ) e Jacques Derrida. A quest’ultimo spetta una collocazione particolare nel contesto culturale che prende il nome di «post-strutturalismo», con opere quali L’écriture et la différence (Paris 1967, tr. it. di G. Pozzi, La scrittura e la differenza, Torino 1990), De la grammatologie (Paris 1967, tr. it. a cura di G. Dalmasso, Della grammatologia, Milano 19982), e, per quanto concerne in particolare tematiche inerenti alla filosofia dell’arte, La vérité en peinture (Paris 1978, tr. it. di G. Pozzi D. Pozzi, La verità in pittura, Roma 1981). La prospettiva di Derrida può definirsi (con un termine di ascendenza heideggeriana, e comunque da intendersi in maniera tutt’altro che definitoria e a-problematica) «decostruzionismo»: un progetto di congedo dalla metafisica che egli riprende e sviluppa in nome di una filosofia della scrittura o della traccia testuale. La decostruzione di un testo si presenta in Derrida esplicitamente come quel procedimento rivolto non tanto a stabilire finalmente il «che cosa», il contenuto, secondo una prospettiva che sarebbe ancora propriamente metafisica, quanto piuttosto a esibire il «come» del suo funzionamento. L’operazione decostruttiva ha dunque i caratteri anzitutto di una «pratica di scrittura», nel duplice senso del genitivo: una pratica che mette capo alla scrittura dell’analisi testuale, e prima ancora una pratica che riconosce la precedenza ontologica della scrittura, della grafia sulla phoné: una precedenza della traccia che costituisce l’unica condizione a priori del senso e della sua comprensione, e quindi come tale si pone nel segno della differenza ontologica. In questo quadro si può capire come espressioni quali «non c’è un vero senso di un testo», accompagnate da un lavoro sul linguaggio di carattere talora apertamente sperimentale e provocatorio, abbiano suscitato numerose critiche, e talora alimentato anche un certo sospetto di estetismo nei confronti di Derrida. Ciononostante bisogna accennare al notevole influsso da lui esercitato particolarmente sul lavoro di critici letterari quali Paul de Man (Blindness and Insight, New York 1971, tr. it. di E. Saccone, Cecità e visione, Napoli 1975) e Harold Bloom (The Anxiety of Influence, New York 1973, tr. it. di M. Diacono, L’angoscia dell’influenza, Milano 1983), l’ambiente cioè dei co3724

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siddetti «Yale critics»: tale influenza si è sviluppata in direzione di un progressivo assottigliarsi della distinzione fra critica e pratica letteraria, in chiave prettamente antifondativa del discorso. 6. La teoria della formatività. Pareyson e la scuola torinese. – Data l’essenziale appartenenza alla verità di ogni atto ermeneutico, in ragione della sua originaria (e personale, dunque originale) solidarietà con l’essere, l’arte è secondo Luigi Pareyson il luogo dell’interpretazione per eccellenza della verità. L’analisi filosofica dell’esperienza artistica svolta da Pareyson si colloca in una teoria generale del «fare» dell’uomo, che non è mai un semplice eseguire un che di già ideato, o un applicare tecniche o metodi prestabiliti a un certo oggetto. L’autentico agire «formativo», invece, che riguarda l’opera d’arte, si caratterizza in termini di «formatività pura, specifica e intenzionale»: è quel fare che «mentre fa, inventa il modo di fare». Un corollario esplicitamente anticrociano (contro l’idea di un risolversi dell’opera nell’intuizione) riguarda qui la tensione con la materia da formare – tensione che è parte integrante e imprescindibile del processo formativo stesso, e insieme condizione di possibilità dell’evoluzione di uno stile personale da parte dell’artista (Estetica. Teoria della formatività, Milano 20024). Il successivo sviluppo dell’ermeneutica pareysoniana (Verità e interpretazione, Milano 1994) sarebbe infine sfociato da una parte in un’ermeneutica del mito religioso, dall’altra in un pensiero tragico scaturito dalla domanda circa i fondamenti ultimi del reale, donde la centralità del problema del male e del suo rapporto con la libertà e con l’essere (come risulta dalla raccolta, postuma, Ontologia della libertà, Torino 1995). Fra gli allievi di Pareyson che hanno ripreso in vario modo la teoria della formatività, Umberto Eco dopo aver condotto studi di estetica medievale (Il problema estetico in Tommaso d’Aquino, Milano 1986) in Opera aperta (Milano 20005) ha scorto nell’interpretabilità dell’opera il suo costitutivo carattere di apertura, in esplicita polemica con certi aspetti dello strutturalismo, e non senza significative affinità, in seguito, con i teorici della scuola di Costanza. Quello dell’«opera aperta» non costituisce però, per Eco, un modello onnicomprensivo, giacché lo stesso panorama dell’arte contemporanea è plurale e sfugge a ogni sorta di semplificazione. Ciò che contraddistingue tuttavia

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l’attualità è il venir meno di «un cosmo ordinato, una gerarchia di enti e di leggi [...] che ciascuno deve intendere nel solo modo possibile, che è quello istituito dal logos creatore». Eco mette così in evidenza il valore emancipativo e progressivo di questa libertà che, «esercitata a livello di una fruizione estetica, non potrà che svilupparsi anche sul piano dei comportamenti quotidiani, delle decisioni intellettuali, dei rapporti sociali». In questa prospettiva, oltre che dall’esigenza più strettamente teorica di offrire basi più salde alla nozione stessa di interpretazione, bisognerà intendere quel «bagno nella semantica generale» che caratterizza l’interesse di Eco negli anni successivi per la semiotica, rivolto a «tutti i fenomeni di cultura come fatti di comunicazione» (La struttura assente, Milano 1968; Trattato di semiotica, Milano 1975; I limiti dell’interpretazione, Milano 1990). In Gianni Vattimo, invece, l’interpretazione filosofica dell’arte intende rivendicarne la portata ontologica, ossia il peculiare e privilegiato rapporto dell’esperienza estetica con l’essere e con la verità, sulla scorta di Nietzsche e di Heidegger. Secondo quest’ultimo, l’arte è porsi in opera della verità, ossia «apertura di un mondo»; una verità, tuttavia, che nel farsi evento si dona pienamente nel senso della differenza, ossia «fonda» non nel senso della metafisica ontologicamente forte, bensì al modo di una storicità condizionata in una certa epoca (Poesia e ontologia, Milano 1985). L’ontologia ermeneutica di Vattimo si è così andata delineando sempre più nei termini di un pensiero debole e post-metafisico, inteso come presa di congedo e remissione delle strutture ontologiche forti, adeguata al postmoderno (La fine della modernità, Milano 1985; Oltre l’interpretazione, Roma-Bari 1994). 7. L’estetica analitica. – Per i teorici dell’estetica di formazione analitica, Ludwig Wittgenstein ha costituito un punto di riferimento imprescindibile; e ciò vale tanto per coloro che hanno preteso di decretare l’esclusione dell’estetica dalle questioni propriamente filosofiche, sulla scorta dei dettami del neopositivismo logico (Ivor Armstrong Richards, Cecil Odgen, Alfred Ayer), sia per quanti invece hanno orientato le loro indagini intorno ai problemi della definizione e del funzionamento dell’esperienza estetica, e delle categorie che le sono proprie. Fra gli esponenti dell’estetica analitica che non si riconoscono in posizioni riduttivistiche, accanto ai protagonisti del di-

Estetica battito condotto in area statunitense a partire dagli anni cinquanta e sessanta circa l’estetico e le sue proprietà (Monroe Beardsley, George Dickie, Frank Sibley; più di recente Jerrold Levinson), di particolare originalità appare il percorso di Nelson Goodman. Egli, prese le distanze dal neopositivismo logico, è venuto assumendo una posizione secondo cui l’accesso al mondo avviene mediante sistemi simbolici a partire dai quali l’uomo allestisce descrizioni che non offrono la verità assoluta, ma presentano semplicemente diversi aspetti del reale. Sulla scorta di alcuni risultati delle ricerche della «psicologia della forma» (in particolare grazie ai lavori di Ernst Gombrich e Rudolf Arnheim), Goodman ha potuto così sostenere che anche la percezione è da intendersi come una attività, perché per es. l’occhio non è mai «innocente»: infatti il modo in cui noi vediamo, ma anche ciò che noi vediamo, varia in rapporto alla nostra precedente esperienza, ai nostri interessi e alle nostre disposizioni. In Languages of Art (Indianapolis 19762, tr. it. a cura di F. Brioschi, I linguaggi dell’arte, Milano 20035) e in alcuni dei saggi contenuti in Ways of Worldmaking (Indianapolis 1978, tr. it. di C. Marletti, Vedere e costruire il mondo, Roma 1988) Goodman ha quindi esaminato i problemi tradizionali della filosofia dell’arte attraverso il filo conduttore di una teoria dei simboli declinata secondo un accostamento funzionalista e anti-essenzialista. Alla domanda circa l’essenza dell’arte stessa, Goodman sostituisce così quella relativa al modo in cui l’arte si configura e produce effetti in una certa epoca e in una data società: la sua funzione simbolica. Anche Richard Wollheim (Art and Its Objects, Cambridge 19962) argomenta sia contro l’identificazione delle opere d’arte con oggetti materiali, sia contro la cosiddetta «teoria ideale dell’arte» (sostenuta per es. dal traduttore inglese di Croce, Robin George Collingwood, in The Principles of Art, Oxford 1938), secondo cui l’opera d’arte è qualcosa di eminentemente privato, dal momento che il suo statuto ontologico non sarebbe quello di un oggetto fisico, bensì quello dell’idea o dell’immagine nella mente dell’artista. Wollheim afferma che non si tratta di chiedersi «che cos’è l’arte», problema al quale sarebbe possibile solo offrire risposte plurali. Diversamente da Goodman, per Wollheim però quello di arte non è un concetto funzionale: l’arte è infatti innanzitutto una speciale forma di vita, che non origina nuove 3725

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Estetica modalità di percezione o di consapevolezza, ma produce nuove connessioni di elementi (oggetti, stati mentali ecc.) che preesistono al lavoro dell’artista. Affine in alcuni aspetti alla teoria di Wollheim, la concezione dell’arte come «ricorrenza di un tipo» (Joseph Margolis) consente per altro verso di evitare l’identificazione di un’opera con un oggetto materiale, la quale precluderebbe la possibilità di attribuirle le proprietà espressive ed estetiche che le sono proprie. Al filosofo americano Arthur Coleman Danto, l’analisi della situazione dell’arte contemporanea ha invece offerto il materiale per sviluppare la cosiddetta «teoria istituzionale dell’arte». Secondo Danto, non si può dire che la differenza fra un’opera d’arte e un qualsiasi altro oggetto sia «estetica» (nel senso etimologico del termine), come pretenderebbe invece per es. la «teoria presentazionale» di Susanne Langer, poiché è propriamente filosofica: infatti fra un prodotto commerciale e lo stesso oggetto esibito in una galleria d’arte e «trasformato» in opera (come nel caso del readymade) non c’è alcuna differenza di tipo percettivo. L’opera d’arte è dunque un artefatto, la cui interpretazione come opera d’arte implica un esplicito riferimento al pubblico e cioè a una rete di pratiche sociali intraprese da chi interagisce con le istituzioni che costituiscono e regolano il «mondo dell’arte» (esposizioni, mostre, conferenze, mercato, editoria ecc.). Essere artista, nel mondo dell’arte occidentale, significa inoltre prendere posizione nei confronti della storia dell’arte, delle sue diverse interpretazioni e delle sue istituzioni storico-sociali (The Artworld, in «Journal of Philosophy», 61, 1964, pp. 571-584; The Transfiguration of the Common Place, Cambridge [Massachusetts] 1981). Nel volume The Philosophical Disenfranchisement of Art (New York 1986, tr. it. di V. Tonon, La destituzione filosofica dell’arte, Siracusa 1992) Danto afferma altresì che occorre liberare l’arte dalla filosofia, e la stessa filosofia dalla schiavitù del concetto: in tal modo, anche il pensiero filosofico potrebbe trarre giovamento dalle trasformazioni che hanno caratterizzato la produzione e la fruizione artistica nel corso del Novecento. Anzi, la storia dell’arte più recente altro non sarebbe se non il tentativo «filosofico», da parte dell’arte, di riaffermare la propria identità cessando di essere il medium dell’autocomprensione dialettica della filosofia. Alla luce di queste conside3726

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razioni (in particolare l’idea che in definitiva un’opera d’arte sia tale solo in rapporto a un’interpretazione) Danto si avvicina così alle posizioni dell’ermeneutica contemporanea di matrice continentale. 8. La fine della filosofia dell’arte e l’estetismo diffuso. – Anche se non sono mancati tentativi di aggirare, per così dire, la vicenda della moderna filosofia dell’arte per riconnettersi in vario modo alla tradizione premoderna – come nel caso dell’estetica di Hans Urs von Balthasar (Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik, Einsiedeln 1961-69, 3 voll., tr. it. Gloria. Una estetica teologica, Milano 1978, vol. II), che ha cercato di porre l’intera teologia cristiana sotto il segno del bello –, in generale sembra difficile non riconoscere il carattere epocale dell’odierna modificazione del gusto, e la sua messa in questione di ogni idea tradizionale di estetica. Basti pensare, per esempio, che un tema tornato attuale, soprattutto negli USA e in Germania, è stato negli ultimi decenni del XX secolo quello della cosiddetta «estetica ambientale», al cui centro si pone evidentemente la questione dello statuto del bello naturale – e quindi, con questo, dell’intera utilizzabilità del vocabolario dell’estetica tradizionale. Negli ultimi anni del Novecento l’estetica, soprattutto in area europea, ha così avviato una riflessione globale sulla nuova percezione della realtà, sui fenomeni di massa legati allo sviluppo tecnologico, e in generale sulla diffusione del paradigma estetico nel mondo della vita (in autori come i francesi Luc Ferry, Homo aestheticus, Paris 1990, tr. it. Homo Aestheticus, Genova 1991; e Jean Marie Schaeffer, L’art de l’age moderne, Paris 1992, tr. it. di S. Poggi, L’arte dell’età moderna, Bologna 1996), mentre Odo Marquard (Aesthetica und Anaesthetica, München 2003, tr. it. di G. Carchia, Estetica e anestetica, Bologna 1994), muovendo dall’affermazione che «l’arte estetica» è nata quale «compensazione» del moderno disincanto, ha messo in questione l’estetismo diffuso, al cospetto del quale il pensiero filosofico sembra oggi effettivamente riconoscere il proprio debito nei confronti dell’arte (come mostrano in Germania, oltre a Marquard, per es. Rüdiger Bubner, Ästhetische Erfahrung, Frankfurt am Main 1989, tr. it. di M. Ferrando, Esperienza estetica, Torino 1992; e Wolfgang Welsch, Ästhetisches Denken, Stuttgart 19954; più di recente, i lavori di Peter Sloterdijk; o negli USA dello stesso Danto).

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In questo stato di cose, non pare d’altronde casuale che alcuni pensatori abbiano optato per una congiunzione dell’indagine estetica con quella storico-scientifica (O. Breidbach, Natur der Ästhetik-Ästhetik der Natur, Wien 1997); mentre anche nel dialogo con le scienze umane (etnologia, antropologia) e i cosiddetti cultural studies, infine, l’estetica si va sempre più costituendo come osservatorio filosofico capace di integrare competenze diverse e ripensare limiti culturali e geopolitici tradizionalmente distinti. Secondo una tonalità propriamente kantiana, inscritta del resto nelle origini della sua vicenda moderna, il giudizio estetico (come ha mostrato l’interpretazione kantiana di Hannah Arendt, Lectures on Kant’s Political Philosophy, a cura di R. Beiner, Chicago 1982 [opera postuma], tr. it. Teoria del giudizio politico, Genova 20052) si è andato così sempre più affermando, nell’apparente indeterminatezza del proprio oggetto, come spazio di riflessione e confronto fra stili di pensiero e prospettive differenti. S. Givone BIBL.: I. STORIE DELL’ESTETICA. – Classici della storiografia estetica: H. LOTZE, Geschichte der Aesthetik in Deutschland, München 1868; M. SCHLASLER, Kritische Geschichte der Ästhetik, Berlin 1872; E. VON HARTMANN, Die deutsche Ästhetik seit Kant, Leipzig 1886; B. BOSANQUET, A History of Aesthetics, London 1949; E. DE BRUYNE, De Geschedenis van de Aesthetica, Antwerpen-Amsterdam 1950-55, 5 voll.; K. GILBERT - H. KUHN, A History of Aesthetics, London 19542; G. MORPURGO-TAGLIABUE, L’esthétique contemporaine, Milano 1960; AA.VV., Momenti e problemi di storia dell’estetica, Milano 1959-61, 4 voll.; W. TATARKIEWICZ, History of Aesthetics, Den Haag - Warszawa 1970-74, 3 voll., tr. it. a cura di G. Cavaglia, Storia dell’estetica, Torino 1979-84, 3 voll. (dall’antichità al Settecento); M. MENÉNDEZ Y PELAYO, Historia de las ideas estéticas en España (1883-91), Madrid 1974, 7 voll.; M. DUFRENNE - D. FORMAGGIO (a cura di), Trattato di estetica, vol. I: Storia, Milano 1981; M. MODICA, Che cos’è l’estetica, Roma 1987; R. BARILLI, Corso di estetica, Bologna 1989; B. CROCE, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Milano 1990 (cfr. la parte II: Storia); F. RESTAINO, Storia dell’estetica moderna, Torino 1991; J.-M. SCHAEFFER, L’art de l’âge moderne: l’esthétique et la philosophie de l’art du XVIIIe siècle à nos jours, Paris 1992, tr. it. di S. Poggi, L’arte dell’età moderna: estetica e filosofia dell’arte dal XVIII secolo a oggi, Bologna 1996; R. BODEI, Le forme del bello, Bologna 1995; M. FERRARIS - S. GIVONE - F. VERCELLONE, Estetica, Milano 1996; M. PERNIOLA, L’estetica del Novecento, Bologna 1997; J.-M. SCHAEFFER, Adieu a l’esthetique, Pa-

Estetica ris 2000, tr. it. di M. Puleo, Addio all’estetica, Palermo 2002; J.-P. COMETTI - J. MORIZOT - R. POUIVET, Le sfide dell’estetica, Torino 2002. Per una rassegna di studi d’impostazione analitica: J. LEVINSON, Estetica, in F. D’AGOSTINI - N. VASSALLO (a cura di), Storia della filosofia analitica, Torino 2002; F. VERCELLONE - A. BERTINETTO - G. GARELLI, Storia dell’estetica moderna e contemporanea, Bologna 2003. Storie antologiche di testi classici: G. VATTIMO (a cura di), Estetica moderna, Bologna 1977; G. CARCHIA - R. SALIZZONI (a cura di), Estetica e antropologia, Torino 1980; S. ZECCHI - E. FRANZINI (a cura di), Storia dell’estetica. Antologia di testi, Bologna 1995, 2 voll.; P. D’ANGELO - E. FRANZINI - G. SCARAMUZZA (a cura di), Estetica, Milano 2002; P. MONTANI (a cura di), Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea, Roma-Bari 2002. II. CONCETTI FONDAMENTALI DELL’ESTETICA. – Lessici e dizionari: A. SOURIAU - E. SOURIAU (a cura di), Vocabulaire d’esthétique, Paris 1990; D.E. COOPER, A Companion to Aesthetics, Cambridge 1992; W. HENCKMANN K. LOTTER (a cura di), Lexikon der Ästhetik, München 1992; M. KELLY (a cura di), Encyclopaedia of Aesthetics, Oxford - New York 1998, 4 voll.; G. CARCHIA - P. D’ANGELO (a cura di), Dizionario di estetica, Roma-Bari 1999; B. GAUT - D. LOPES (a cura di), Routledge Companion to Aesthetics, London 2001; J. LEVINSON (a cura di), Oxford Handbook of Aesthetics, Oxford 2002. Studi su concetti e categorie particolari: G. CARCHIA, Retorica del sublime, Roma-Bari 1990; R. MILANI, Le categorie estetiche, Parma 1991; W. TATARKIEWICZ, Storia di sei Idee, Palermo 1993; V. BOZAL, Il gusto, Bologna 1996; M. FERRARIS, L’immaginazione, Bologna 1996; E. FRANZINI - M. MAZZOCUT-MIS, Estetica. I nomi, i concetti, le correnti, Milano 1996; P. D’ANGELO - S. VELOTTI, Il non so che. Storia di un’idea estetica, Palermo 1997; S. GIVONE (a cura di), Estetica. Storia, categorie, bibliografia, Firenze 1998; G. MORETTI, Il genio, Bologna 1998; C. D’ANGELI - G. PADUANO, Il comico, Bologna 1999; M. FERRARIS - P. KOBAU (a cura di), L’altra estetica, Torino 2001; G. GARELLI (a cura di), Filosofie del tragico, Milano 2001; S. GIVONE, La prima lezione di estetica, Roma-Bari 2003. Sull’estetica e le singole arti nel loro sviluppo storico: A. HAUSER, Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, München 1953, 2 voll., tr. it. Storia sociale dell’arte, Torino 1955-56, 2 voll.; R. WELLEK, A History of Modern Criticism, New Haven 1955-92, 8 voll., tr. it. di A. Lombardo et al., Storia della critica moderna, Bologna 1958-95, 7 voll. III. STUDI DI RIFERIMENTO. – Sulla storia dell’estetica antica: G. CARCHIA, L’estetica antica, Roma-Bari 1999; G. LOMBARDO, L’estetica antica, Bologna 2002. Sulla sofistica: G.B. KERFERD, The Sophistic Movement, Cambridge 1981, tr. it. di C. Musolesi, I sofisti, Bologna 1988; M. UNTERSTEINER, I sofisti. Frammenti e testimonianze, Milano 19962; B. CASSIN, L’effetto sofistico, Milano 2002. Sulla tragedia classica: J.-P. VERNANT - P. VIDAL-NAQUET, Mythe et tragédie en Grèce an-

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

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Estetica Hegel e l’estetica, in P. ROSSI (a cura di), Hegel. Guida storica e critica, Roma-Bari 1992; G. PINNA, L’estetica, in C. CESA (a cura di), Guida a Hegel, Roma-Bari 1997. Tra le traduzioni italiane di opere di K.W.F. Solger: Lezioni di estetica, a cura di G. Pinna, Palermo 1995 (1829); Scritti filosofici, a cura di V. Pinto, Napoli 1995; Erwin, a cura di M. Ravera, Brescia 2004 (1815). Studi sull’estetica di Solger: G. PINNA, L’ironia metafisica. Filosofia e teoria estetica in K.W.F. Solger, Genova 1994; M. OPHÄLDERS, Dialettica dell’ironia romantica, Bologna 2000. Sull’estetica dell’età di J.W. Goethe: W. DILTHEY, Das Erlebnis und die Dichtung, Leipzig 1906, tr. it. di N. Accolti - G. Vitale, Esperienza vissuta e poesia, Milano 1947; G. LUKÁCS, Goethe und seine Zeit, Bern 1947, tr. it. a cura di A. Casalegno, Goethe e il suo tempo, Torino 1983; K. KORFF, Geist der Goethezeit, Darmstadt 1979 (1923-53); R. SAVIANE, Goethezeit, Napoli 1987; M. COMETA, Il romanzo dell’infinito. Mitologie, metafore e simboli dell’età di Goethe, Palermo 1991; P. SZONDI, Poetik und Geschichtsphilosophie, Frankfurt am Main, tr. it. di R. Gilodi - G. Garelli, Poetica e filosofia della storia, Torino 2001. Tra le traduzioni italiane delle opere di J.W. Goethe: Opere, a cura di L. Mazzucchetti, Firenze 1944-61, 5 voll.; La metamorfosi delle piante, a cura di S. Zecchi, Parma 1983; La teoria dei colori, a cura di R. Troncon, Milano 1983; Scritti sull’arte e sulla letteratura, tr. it. a cura di S. Zecchi, Torino 1992; Sulla musica, tr. it. a cura di G. Insom, Pordenone 1992. Studi sull’estetica di Goethe: S. BARBERA, Goethe e il disordine, Padova 1990; G. MORPURGO TAGLIABUE, Goethe e il romanzo, Torino 1991; P. GIACOMONI, Le forme e il vivente. Morfologia e filosofia della natura in J.W. Goethe, Napoli 1993; G. BAIONI, Il giovane Goethe, Torino 1996; L. FARULLI, L’occhio di Goethe. La teoria dei colori, Pisa 1998; F. MOISO, Goethe: la natura e le sue forme, Milano 2002. Tra le traduzioni italiane di opere di F. Schiller: Saggi estetici, a cura di C. Baseggio, Torino 1959. Studi sull’estetica di Schiller: U. PERONE, Schiller. La totalità interrotta, Milano 1982; L. PAREYSON, Etica ed estetica in Schiller, Milano 19832; M. VOZZA, Attualità di Schiller, Torino 1999. Sul romanticismo tedesco: R. HAYM, Die romantische Schule, Berlin 1870, tr. it. di E. Pocar, La scuola romantica, Milano-Napoli 1965; B. ALLEMANN, Ironie und Dichtung, Pfullingen 1956, tr. it. Ironia e poesia, Milano 1971; R. AYRAULT, La genèse du Romantisme allemand, Paris 1961, 4 voll.; J. TAMINIAUX, La nostalgie de la Grèce a l’aube de l’idéalisme allemand, La Haye 1967; P. SZONDI, Poetica dell’idealismo tedesco, a cura di R. Buzzo margari, Torino 1974; L. MITTNER, Storia della letteratura tedesca, vol. II: Dal pietismo al romanticismo, Torino 1977; H. BLUMENBERG, Arbeit am

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Sull’esperienza romantica in altri ambiti politici e geografici: A. BÉGUIN, L’âme romantique et le rêve, Marseille 1937, tr. it. di U. Pannuti, L’anima romantica e il sogno, Milano 1967; P. BÉNICHOU, Le temps des prophètes, Paris 1977, tr. it. di A. Pasquali, Il tempo dei profeti, Bologna 1997; E. CECCHI, Grandi romantici inglesi, Milano 1981; M. PAGNINI (a cura di), I contesti culturali della letteratura inglese. Il Romanticismo, Bologna 1986. Sull’estetica del XIX secolo: F. VERCELLONE, L’estetica dell’Ottocento, Bologna 1999. Per le estetiche posthegeliane: K. ROSENKRANZ, Aesthetik des Hässlichen, Königsberg 1853, tr. it. di S. Barbera, con pref. di R. Bodei, Estetica del brutto, Palermo 1994; F.T. VISCHER, Uber das Erhabene und Komische, Frankfurt am Main 1967, tr. it. di E. Tavani, Sul sublime e il comico, Palermo 2001; M. RAVERA, Estetica posthegeliana. Figure e problemi, Milano 1978; G. OLDRINI, L’estetica di Hegel e le sue conseguenze, Roma-Bari 1994; G. SCARAMUZZA (a cura di), Il brutto nell’arte, Napoli 1995. Fra le traduzioni italiane delle opere di A. Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di P. Savj Lopez, Bari 1914-16 (1819); Supplementi al “Mondo come volontà e rappresentazione”, a cura di G. De Lorenzo, Bari 1930 (1844); Parerga e paralipomena, a cura di G. Colli, Milano 1981 (1851). Su Schopenhauer: A. HÜBSCHER, Denker gegen dem Strom, Bonn 1973, tr. it. di G. Invernizzi, Arthur Schopenhauer: un filosofo controcorrente, Milano 1990 (1973); G. INVERNIZZI, Invito al pensiero di Schopenhauer, Milano 1995; D. JACQUETTE, Schopenhauer, Philosophy, and the Arts, Cambridge (Massachusetts) 1996. Tra le traduzioni delle opere di S. Kierkegaard: EntenEller, a cura di A. Cortese, Milano 1976-77; Aut-Aut, a cura di R. Cantoni, Milano 1988; Opere, a cura di C. Fabro, Firenze 1988; Stadi sul cammino della vita, a cura di L. Koch, Milano 1993; Diario del seduttore, a cura di A. Veraldi, Milano 2001. Sull’estetico in Kierkegaard: T.W. ADORNO, Kierkegaard, Konstruktion des Asthetische, Tübingen 1933, tr. it. di A. Burger Cori, Kierkegaard. La costruzione dell’estetico, Milano 1983; L. AMOROSO (a cura di), Maschere kierkegaardiane, Torino 1990; A. GIANNATIEMPO QUINZIO, L’estetico in Kierkegaard, Napoli 1992. Traduzione italiana delle opere di F. Nietzsche: Opere, a cura di G. Colli - M. Montinari, Milano 1964. Tra gli studi su Nietzsche: G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Milano 1974; G. VATTIMO, Introduzione a Nietzsche, Roma-Bari 1985; G. VATTIMO, Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000, Milano 2000; C. GENTILI, Nietzsche, Bologna 2001; G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, Torino 2002. Sull’estetica del positivismo: H. TAINE, Philosophie de l’art, Paris 1881, tr. it. di O. Settineri, Filosofia dell’ar-

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te, Milano 2002 (1881); J.-M. GUYAU, Les problèmes de l’esthétique contemporaine, Paris 1884; J.-M. GUYAU, L’art au point de vue sociologique, Paris 1887; H. TAINE, Scritti estetici: metodo e dottrina, a cura di D. Drudi, Firenze 1996. Studi sull’estetica del positivismo: E. SCOLARI, Quattro studi sull’estetica del positivismo, Modena 1984; A. CONTINI, Tra scienza positiva e paradigma estetico. La filosofia della vita di J.-M. Guyau, Bologna 1995; D. DRUDI, Sogni di spiriti esatti. Percorsi dell’estetica del positivismo, Firenze 1995. Sulla nascita dell’estetica psicologica: M. DESSOIR, Äesthetik und allgemeine Kunstwissenschaft, Stuttgart 1906, tr. it. di L. Perucchi - G. Scaramuzza, Estetica e scienza dell’arte, Milano 1986; M.R. DE ROSA, Theodor Lipps: estetica e critica delle arti, Napoli 1990; A. PINOTTI (a cura di), Estetica ed empatia, Milano 1997. Testi dei padri della psicoanalisi: S. FREUD, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino 1991; C.G. JUNG, Psicologia e poesia, in OCGJ, vol. X. Studi sull’estetica psicologica: E. GOMBRICH, Freud e la psicologia dell’arte, Torino 1967; J.J. SPECTOR, The Aesthetics of Freud, London 1972, tr. it. di M. Graffi, L’estetica di Freud, Milano 1976; U. GALIMBERTI, La terra senza il male: Jung dall’inconscio al simbolo, Milano 1984; F. SALZA, La tentazione estetica: Jung, l’arte, la letteratura, Roma 1987; F. SALZA, La fanciulla e l’eroe. Estetica e mito in Freud, Roma 1994; S. GOSSO (a cura di), Psicoanalisi e arte, Milano 2001. Sull’estetica tra “religione dell’arte” e decadenza: J. RUSKIN, Modern Painters, London 1843-60, tr. it. a cura di G. Leoni, Pittori moderni, Torino 1998; J. RUSKIN, The Seven Lamps of Architecture, London 1849, tr. it. di R.M. Pivetti, Le sette lampade dell’architettura, Milano 1982; J. RUSKIN, The Stones of Venice, London 1851-53, tr. it. di A. Brilli, Le pietre di Venezia, Milano 1982; J. RUSKIN, Opere, a cura di G. Leoni, Bari 1987. Testi in traduzione italiana: W. MORRIS, Architettura e socialismo, a cura di M. Manieri-Elia, Bari 1963; R. WAGNER, L’opera d’arte dell’avvenire, Milano 1983 (1849); R. WAGNER, Scritti scelti, a cura di S. Daniele, Parma 1988 (con Introduzione di E. Bloch); C. BAUDELAIRE, Scritti sull’arte, a cura di E. Raimondi, Torino 1990. Per i programmi estetici delle avanguardie storiche cfr. M. DE MICHELI (a cura di), Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano 1991. Sull’estetica marxista in generale: G. PRESTIPINO, La controversia estetica del marxismo, Palermo 1974. Tra le traduzioni italiane delle opere di E. BLOCH: Spirito dell’utopia, a cura di V. Bertolino - F. Coppellotti, Firenze 19932 (1918); Il principio speranza, introduzione di R. Bodei, Milano 1994 (1954-59). Su estetica e utopia: L. BOELLA, Erst Bloch. Trame della speranza, Milano 1987; R. MUGILLANI, Attualità e rilettura critica di G. Lukács ed E. Bloch, Milano 1989. Tra le traduzioni italiane delle opere di G. Lukács: L’anima e le

Estetica forme, a cura di S. Bologna, Milano 1991 (1911); Teoria del romanzo, Milano 1999 (1916); Primi scritti sull’estetica, a cura di L. Coeta, Milano 1973-74 (con Introduzione di T. Perlini); Contributi alla storia dell’estetica, a cura di E. Picco, Milano 1957 (1953); Prolegomeni a un’estetica marxista. Sulla categoria della particolarità, a cura di F. Codino - M. Montinari, Roma 1957; Estetica, a cura di F. Feher - A. Marietti Solmi, Torino 1975 (1963), 2 voll. Su Lukács: S. BENASSI, Lukács e l’estetica contemporanea, Napoli 1980; G. BEDESCHI, Introduzione a Lukács, Roma-Bari 1982; P. PULLEGA, La comprensione estetica del mondo. Saggio sul giovane Lukács, Bologna 1983. La traduzione italiana delle Opere di W. BENJAMIN, a cura di R. Tiedemann, è in corso presso Einaudi (7 voll.). Traduzioni italiane di opere singole di W. Benjamin: Il dramma barocco tedesco, introduzione di G. Schiavoni, Torino 1999 (1925); L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, a cura di E. Filippini, Torino 1991 (1936); Parigi capitale del XIX secolo, a cura di G. Agamben, Torino 1986; Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Torino 19952. Su Benjamin: F. DESIDERI, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, Roma 1980; F. DESIDERI, La porta della giustizia, Bologna 1995; G. CARCHIA, Nome e immagine. Saggio su Walter Benjamin, Roma 2000; G. SCHIAVONI, W. Benjamin. Il figlio della felicità, Torino 2001; P. CRESTO-DINA, Messianismo romantico, Torino 2002. M. HORKHEIMER - TH.W. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, a cura di R. Solmi, Torino 19983 (1946). Sul pensiero critico e i francofortesi: M. JAY, The Dialectical Imagination, London 1973, tr. it. di N. Paoli, L’immaginazione dialettica, Torino 1979; G. BEDESCHI, Introduzione alla Scuola di Francoforte, Roma-Bari 1997; F. DESIDERI, Il fantasma dell’opera, Genova 2002. Traduzioni italiane di saggi estetici di F.T. Adorno: Filosofia della musica moderna, a cura di G. Manzoni, Torino 1959 (1949); Wagner Mahler. Due studi, a cura di M. Bortolotto - G. Manzoni, Torino 19752 (1952-60); Il fido maestro sostituto, a cura di G. Manzoni, Torino 1982 (1963); Teoria estetica, a cura di E. De Angelis, Torino 1975 (1970); Note per la letteratura, Torino 1979, 2 voll.; Parva aesthetica. Saggi 1958-67, Milano 1979; Beethoven, Torino 2002. Sull’estetica adorniana: R. RUSCHI, Lo spirito di natura nell’arte, Milano 1990; A. ARBO, Dialettica della musica. Saggio su Adorno, Milano 1991; E. TAVANI, L’apparenza da salvare. Saggio su T.W. Adorno, Milano 1994. Tra le traduzioni italiane delle opere di J. Dewey: Esperienza e natura, Torino 1957 (1925); Arte come esperienza e altri scritti, a cura di A. Granese, Firenze 1995 (1934). Sul pragmatismo: R. RORTY, Conseguenze del pragmatismo, a cura di F. Elefante, Milano 1986; A. DE MARIA, Invito al pensiero di Dewey, Milano 1990; Dewey, «Journal of Aesthetics and Art Criticism», 12 (1953). Tra le traduzioni italiane delle opere di C. Morris: Lineamenti di una teoria dei segni, a cura di F.

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Estetica Rossi-Landi, Torino 1954 (1938); Segni, linguaggio e comportamento, Milano 1980 (1946). R. BASTIDE, Usi e significati del termine struttura, a cura di L. Basso Lonzi, Milano 1965 (1962); F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, Roma-Bari 19702; F. WAHL, Che cos’è lo strutturalismo?, Milano 19732 (1968); F. DOSSE, Histoire du structuralisme, Paris 1991-92, 2 voll.; Tesi del ’29 del Circolo linguistico di Praga, introduzione di E. GARRONI, Milano 1966; tra le traduzioni italiane delle opere di R. Jakobson: Il farsi e disfarsi del linguaggio, a cura di L. Lonzi, Torino 1971 (1944); Poetica e poesia, Torino 1985; Saggi di linguistica generale, a cura di L. Heilmann, Milano 1989 (1963). Su semiotica e linguistica: U. ECO, La struttura assente, Milano 1968; U. ECO, Trattato di semiotica generale, Milano 1975; E. GARRONI, Ricognizione della semiotica, Roma 1977; A. GREIMAS - J. COURTÈS, Semiotique, Paris 1979, ed. it. a cura di P. Fabbri, Semiotica, Firenze 1986; G. MARRONE, Sensi e discorso. L’estetica nella semiotica, Bologna 1995. Su estetica e fenomenologia: G. SCARAMUZZA, Le origini dell’estetica fenomenologica, Padova 1976; G. SCARAMUZZA, La fenomenologia e le arti, Milano 1991. Testi: N. HARTMANN, Estetica, ed. it. a cura di M. Cacciari, introduzione di D. Formaggio, Padova 1969 (1953); R. INGARDEN, Das literarische Kunstwerk, Halle 1931, tr. it. Fenomenologia dell’opera letteraria, Milano 1968; M. DUFRENNE, Phénoménologie de l’expérience esthétique, Paris 1953, tr. it. di L. Magrini, Fenomenologia dell’esperienza estetica, Roma 1969; M. DUFRENNE, Esthétique et philosophie, Paris 1967, tr. it. di P. Stagi, Estetica e filosofia, Genova 1989; R. INGARDEN, L’opera musicale e il problema della sua identità, a cura di A. Fiorenza, Palermo 1989; R. INGARDEN, Selected Papers in Aesthetics, a cura di P. Mc Corm, München 1985. Studi: R. CANTONI, N. Hartmann, Roma 1972; A. MANESCO, Arte e politica nell’ultimo Dufrenne, Verona 1976; E. FRANZINI, L’estetica francese del Novecento, Milano 1984; E. FRANZINI, Hommage a M. Dufrenne, in «Revue d’esthétique», 21 (1992). Sull’estetica italiana del XX secolo: P. D’ANGELO, L’estetica italiana del Novecento, Roma-Bari 1997. Testi del neoidealismo italiano: B. CROCE, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, a cura di G. Galasso, Milano 1990 (1902); B. CROCE, Breviario di estetica-Aesthetica in nuce, Milano 1990; B. CROCE, Nuovi saggi di estetica, Napoli 1991; B. CROCE, La poesia, Milano 1994; G. GENTILE, Frammenti di estetica e di letteratura, Lanciano 1921; G. GENTILE, La filosofia dell’arte, Firenze 1931; G. GENTILE, Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Milano 1991. Studi: P. D’ANGELO, L’estetica di B. Croce, Roma-Bari 1982; AA.VV., Croce e l’estetica, Palermo 1983; A. NEGRI, L’estetica di Gentile, Palermo 1994; R. BRUNO (a cura di), Per Croce, Napoli 1995; P. PELLEGRINO, L’estetica del neoidealismo

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italiano, Lecce 1996; A. TRIONE, Estetica e Novecento, Roma-Bari 1996. G. DELLA VOLPE, Critica del gusto, Milano 1976. Su Della Volpe: M. MODICA, L’estetica di G. Della Volpe, Roma 1978. A. BANFI, Opere, vol. V: Vita dell’arte. Scritti di estetica e di filosofia dell’arte, a cura di E. Mattioli - G. Scaramuzza, Reggio Emilia 1988. Su Banfi: G. SCARAMUZZA, A. Banfi. La ragione e l’estetico, Padova 1984. Tra i lavori di L. Anceschi: Progetto di una sistematica dell’arte, Milano 1962; Fenomenologia della critica, Bologna 1966; Le istituzioni della poesia, Milano 1968; Il caos, il metodo. Primi lineamenti di una nuova estetica fenomenologica, Napoli 1981; Che cos’è la poesia? Bologna 1982; Gli specchi della poesia, Torino 1989; Autonomia ed eteronomia dell’arte, Milano 19922 (1936). Su Anceschi: C. GENTILI, La nuova fenomenologia critica, Torino 1981; L. ROSSI (a cura di), Estetica e metodo. La scuola di Bologna, Bologna 1991; L. VETRI, La questione della critica in L. Anceschi, Bologna 1994. Tra le opere di D. Formaggio: L’idea di artisticità, Milano 1962; Fenomenologia della tecnica artistica, Parma 1978; Arte, Milano 1981; La «morte dell’arte» e l’estetica, Bologna 1983; Problemi di estetica, Palermo 1991. La pubblicazione delle Opere di L. Pareyson (comprensive dei corsi di estetica tenuti a Torino) è in corso presso Mursia. Edizioni di opere singole di L. Pareyson: Teoria dell’arte, Milano 1965; Conversazioni di estetica, Milano 1966; I problemi dell’estetica, Milano 1966; Verità e interpretazione, Milano 1971; L’esperienza artistica, Milano 1974; Esistenza e persona, Genova 1985 (1950); Dostoevskij, Torino 1993; Ontologia della libertà, Torino 1995; Estetica. Teoria della formatività, Milano 20044 (1954). Su Pareyson: L. Pareyson, estetica e ontologia della libertà, «Rivista di Estetica», 40-41 (1993); S. MARZANO, Il sublime nell’ermeneutica di L. Pareyson, Torino 1994; F. TOMATIS, Ontologia del male. L’ermeneutica di Pareyson, Roma 1995. Tra i lavori di U. Eco: Apocalittici e integrati, Milano 1964; Lector in fabula, Milano 1979; Opera aperta, Milano 19892 (1962); I limiti dell’interpretazione, Milano 1990. Tra le opere di G. Vattimo: Il pensiero debole, Milano 1983 (insieme a P.A. Rovatti); La fine della modernità, Milano 1985; Poesia e ontologia, Milano 1985; La società trasparente, Milano 1989; Oltre l’interpretazione, Roma-Bari 1994. Tra le traduzioni italiane delle opere di M. Heidegger: Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Milano 1970 (1927); In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Milano 1973 (1959); Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano 1976 (1954); La poesia di Hölderlin, a cura di L. Amoroso, Milano 1988 (19512); Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, Firenze 1997 (1950). Su Heidegger: G. VATTIMO, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Genova 19892; F. DE ALESSI, Heidegger lettore dei poeti, Torino 1991; U.M. UGAZIO,

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Il ritorno del possibile. Studi su Heidegger e la storia della metafisica, Torino 1996; F. VOLPI (a cura di), Guida a Heidegger, Roma-Bari 1997; F.W. VON HERMANN, La filosofia dell’arte di M. Heidegger, Milano 2002. Tra le traduzioni italiane delle opere di H.-G. Gadamer: L’attualità del bello, a cura di R. Dottori, Genova 1986 (1967-77); Chi sono io, chi sei tu, a cura di F. Camera, Genova 1989; Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Milano 19928 (1960); Verità e metodo 2, a cura di R. Dottori, Milano 1995. Su Gadamer e l’ermeneutica: P. SZONDI, Einführung in die literarische Hermeneutik, Frankfurt am Main 1975, tr. it. di B. Cetti Marinoni, Introduzione all’ermeneutica letteraria, Torino 1992; M. FERRARIS, Storia dell’ermeneutica, Milano 1988; F. VERCELLONE, Apparenza e interpretazione, Milano 1989; C. GENTILI, Ermeneutica e metodica, Genova 1996; P. MONTANI, Estetica ed ermeneutica, Roma-Bari 1996; A. MODA, Lettura di Verità e metodo di Gadamer, Torino 2000. Sulla scuola di Costanza: R. HOLUB (a cura di), Reception Theory, London - New York 1984, tr. it. Teoria della ricezione, Torino 1989; H.R. JAUß, Kleine apologie der Aesthetischen Erfahrung, Konstanz 1972, tr. it. di C. Gentili, Apologia dell’esperienza estetica, Torino 1985; H.R. JAUß, Ästhetische Erfahrung und literarische Hermeneutik, Frankfurt am Main 1982, 3 voll., tr. it. di B. Argenton - C. Gentili, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria, Bologna 1987-88, 2 voll.; H.R. JAUß, Estetica ed interpretazione letteraria, a cura di C. Gentili, Genova 1990; H.R. JAUß, Literaturgeschichte als Provokation, Frankfurt am Main 1970, tr. it. di P. Cresto-Dina, Storia della letteratura come provocazione, Torino 1999. W. ISER, The Act of Reading, Baltimore-London 1978, tr. it. di R. Granafei, L’atto della lettura, Bologna 1987. Tra le traduzioni italiane delle opere di J. Derrida: La verità in pittura, a cura di G. Pozzi - D. Pozzi, Roma 1981; La farmacia di Platone, Milano 1985; La scrittura e la differenza, a cura di G. Pozzi, introduzione di G. Vattimo, Torino 19902; Margini della filosofia, a cura di M. Iofrida, Torino 1997; Della grammatologia, a cura di G. Dalmasso, Milano 19982; Posizioni, a cura di G. Sertoli, Verona 1999. Degli Yale critics: H. BLOOM, The Anxiety of Influence, New York 1973, tr. it. di M. Diacono, L’angoscia dell’influenza, Milano 1983; P. DE MAN, Allegories of Reading, New Haven - London 1979, tr. it. Allegorie della lettura, Torino 1997. Studi: M. FERRARIS, Differenze, Milano 1981; M. FERRARIS, Postille a Derrida, Torino 1990; G. CHIURAZZI, Scrittura e tecnica. Derrida e la metafisica, Torino 1992; G. CHIURAZZI (a cura di), Il postmoderno, Milano 2002. ➨ ARTE; ARTI BELLE; BELLO; CATARSI; CRITICA D’ARTE; ENTUSIASMO; ESTETISMO; FARE; GIUDIZIO ESTETICO; GUSTO; MIMESI; VEROSIMILE.

Estetica analitica ESTETICA AMBIENTALE (environmental Estetica ambientale aesthetics; Naturästhetik; esthétique environnementale; estética ambiental). – Con l’espressione «estetica ambientale» si intende quella tendenza consistente nel porre in primo piano la questione della bellezza naturale e della sua difesa. Si tratta quindi di sottolineare il valore estetico della natura e, così facendo, di offrire una solida argomentazione ai fini di una difesa dell’ambiente; obiettivo dei teorici dell’estetica ambientale è quello di favorire l’armonia nel rapporto uomo/ambiente. Due sono le correnti presenti nell’estetica ambientale: per la prima la bellezza naturale è estranea alla percezione di un soggetto e resta vincolata all’oggetto bello (tendenza oggettivistica); per la seconda il bello naturale chiama in causa l’esperienza soggettiva di chi ne fruisce. Diversamente da quanto fa la scienza, che stabilisce con la natura una relazione fondata sul dominio, l’esperienza estetica, qui in gioco, è attenta a valorizzarne gli aspetti qualitativi. L’estetica ambientale è altresì impegnata a differenziare l’esperienza che possiamo fare della bellezza naturale da quella che viene a prodursi nel nostro rapporto con l’opera d’arte: l’esperienza estetica che facciamo a contatto con la natura ci comunica il nostro esserne già da sempre parte (esperienza totalizzante), laddove il nostro rapporto con l’opera è segnato dai vincoli imposti al fruitore dalla tradizione di cui l’opera è espressione, così come dal percorso del singolo artista. A. Sartini BIBL.: R. ASSUNTO, Il paesaggio e l’estetica, Napoli 1973; R. ASSUNTO, Filosofia del giardino e filosofia nel giardino, Roma 1981; A. BERLEANT, The Aesthetics of Environment, Temple 1992; S. KEMAL - I. GASKEL (a cura di), Landscape, Natural Beauty and the Arts, Cambridge 1993; J. ZIMMERMANN (a cura di), Ästhetik und Naturerfahrung, Stuttgart 1996; M. REGIMBALD (a cura di), L’esthétique face au jardin, n. mon. «Æ. Canadian Aesthetics Journal/Revue canadienne d’esthétique», 6 (2001); P. D’ANGELO, Estetica della natura: bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale, Roma-Bari 20032.

ESTETICA ANALITICA (analytic aesthetics; Estetica analitica analytische Ästhetik; esthétique analytique; estética analítica). – Secondo la teoria del linguaggio contenuta nel Tractatus logico-philosophicus (London 1949, tr. it. di A.G. Conte, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino 1998) di Wittgenstein, le proposizioni del3733

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Estetica analitica l’etica e dell’estetica, che non descrivono fatti, sono insensate e appartengono al «mistico» e al «metafisico», dei quali propriamente non si può dire nulla. Sulla scorta di considerazioni analoghe, I.A. Richards distingue fra le asserzioni verificabili proprie del linguaggio scientifico e i segni pseudo-assertivi del linguaggio artistico. Arte e bellezza non sono che espressione di valori, registrazione degli aspetti più desiderabili e degni dell’esperienza «normale». Ancor più radicale è A.J. Ayer, secondo cui le affermazioni di valore consistono, nel caso di estetica, etica e religione, nella mera espressione di emozioni, e dunque esse non hanno senso, perché non sono né vere né false. L’affermazione di un’impostazione «analitica» della filosofia, particolarmente in area anglosassone, ha avuto però esiti non riducibili a siffatte posizioni eliminativistiche. A partire circa dagli anni cinquanta, essa è infatti divenuta lo strumento per un approccio non riduttivo, e ben attrezzato da un punto di vista epistemologico, alle questioni tradizionali della filosofia dell’arte. Per quanto concerne il concetto di esperienza estetica, a posizioni «essenzialistiche» (M.C. Beardlsey), che la concepiscono come partecipazione libera, disinteressata e attenta all’unità, all’intensità e alla complessità degli oggetti, si contrappongono posizioni «scettiche» (G. Dickie), per cui la differenza fra una percezione di tipo estetico e una percezione non-estetica è riconducibile a una mera differenza di oggetto e di grado di attenzione. Per altri ancora (J. Levinson) centrale è l’aspetto cognitivo del piacere estetico, basato «sulla relazione che intercorre fra la sua forma sensibile e il carattere e il contenuto che ne risultano». Vivace è anche il dibattito sulle proprietà estetiche. Fra coloro che ne sostengono l’esistenza, F. Sibley (sulla scorta di G.E. Moore) afferma che esse sono «sopravvenienti» rispetto a quelle non-estetiche: non possono essere ricavate da queste ultime né applicate secondo regole estranee. Altri affermano con Richards l’impossibilità di distinguerle dalle non-estetiche (T. Cohen); mentre secondo una posizione intermedia (K. Walton) le proprietà estetiche, pur non essendo governate da regole, dipendono da categorie artistiche (relative allo stile, al genere, al mezzo) la cui correttezza è relativa di volta in volta al contesto storico. All’interno di questo dibattito una posizione di rilievo è quella di R. Wollheim (Art and its 3734

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objects, Cambridge 19962), che argomenta sia contro l’identificazione delle opere d’arte con oggetti materiali, sia contro la «teoria ideale dell’arte» di Croce e R.G. Collingwood, ovvero la concezione secondo cui l’opera d’arte è contenuto privato della mente dell’artista. Alla domanda «che cosa è l’arte?» è possibile pertanto fornire soltanto risposte plurali, tante quante sono le forme artistiche e i generi. Esse possono comunque esibire un quid communis, per il fatto di condividere molte proprietà: in riferimento alle opere musicali o letterarie, Wollheim sostiene che le proprietà estetiche vadano intese come «tipi» (types) la cui attualizzazione richiede la concreta «ricorrenza» (token) costituita dall’esecuzione o dalla lettura. Si tratta di tesi vicine a quelle espresse da J. Margolis, che sostiene una concezione delle opere d’arte come particolari astratti, entità che si concretizzano in oggetti materiali e che sono dotate di un certo significato determinato dal proprio contesto culturale. La teoria dell’opera d’arte come ricorrenza di un tipo consente di evitare la sua identificazione con un oggetto materiale, il che precluderebbe la possibilità di considerare per esempio le proprietà espressive dell’esecuzione. Secondo N. Goodman, sulla scorta della psicologia della forma, anche la percezione è da intendersi come un’attività: l’occhio non è mai «innocente». Mettendo così fuori gioco il «mito del dato assoluto» e la teoria dell’arte come imitazione, Goodman (Languages of Art, Indianapolis 19762, tr. it. a cura di F. Brioschi, I linguaggi dell’arte, Milano 20035; Ways of Worldmaking, Indianapolis 1978, tr. it. di C. Marletti, Vedere e costruire il mondo, Roma 1988) adotta un approccio funzionalista e anti-essenzialista: alla domanda sull’essenza dell’arte bisogna sostituire quella relativa alla «funzione simbolica» che essa svolge in una certa epoca e in una certa società. Radicalizzando ulteriormente, la «teoria istituzionale dell’arte» ritiene allora che a determinare la caratterizzazione di un oggetto come opera d’arte sia la sua connessione con la struttura sociale e il cosiddetto «mondo dell’arte». Nei movimenti artistici degli anni sessanta, in particolare la popart, A.C. Danto (The Philosophical Disenfranchisement of Art, New York 20052, tr. it. di V. Tonon, La destituzione filosofica dell’arte, Siracusa 1992) rinviene l’esito di un processo di ampia portata, iniziato alla fine dell’Ottocento, che ha implicato lo smantellamento della tradizio-

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nale concezione dell’arte per giungere a tesi come quella di A. Warhol (tutto può essere arte), o a quella dello scultore-performer tedesco J. Beuys (tutti sono artisti). La differenza fra un’opera d’arte e un qualsiasi altro oggetto non è estetica (nel senso etimologico del termine, come vorrebbe invece per esempio la «teoria presentazionale» di S. Langer), ma filosofica: infatti fra un prodotto commerciale e lo stesso prodotto esibito in una galleria d’arte e trasformato in opera non c’è nessuna differenza di tipo percettivo. L’opera richiede pertanto un processo interpretativo di tipo intellettuale che ne determini il significato e ne esibisca la dimensione «retorica». Su questa base, l’estetica analitica finisce allora per avvicinarsi inaspettatamente a certe tesi dell’ermeneutica. G. Garelli BIBL.: M.C. BEARDSLEY, Aesthetics, New York 1958; G. DICKIE, Art and the Aesthetic, Ithaca (New York) 1974; J. MARGOLIS (a cura di), Philosophy Looks at the Art, Philadelphia 1988; R. SHUSTERMAN (a cura di), Analytic Aesthetics, Oxford 1989; J. LEVINSON, Estetica, in F. D’AGOSTINI - N. VASSALLO (a cura di), Storia della filosofia analitica, Torino 2002, pp. 425-445 (con bibl. ragionata, pp. 562-569); N. WARBURTON, The Art Question, London 2003, tr. it. di G. Bonino, La questione dell’arte, Torino 2004. ➨ ESPERIENZA ESTETICA; OGGETTO ESTETICO.

ESTETICA COMPARATA (comparative aesEstetica comparata thetics; komparative Ästhetik; esthétique comparative; estéticas comparativa). – Per estetica comparata non s’intende oggi tanto quella disciplina la cui base «è confrontare fra loro le opere, così come le tecniche, delle differenti arti (come pittura, disegno, scultura, architettura, poesia, danza, musica ecc.)», come voleva Etienne Souriau al fine di scoprire, per la comprensione generale dell’arte, «ciò che è comune a una sinfonia, a una cattedrale, a una statua e a un’anfora; quel che rende paragonabili la pittura o la poesia, l’architettura o la danza» (La correspondance des arts, Paris 1947, pp. 11, 44, tr. it. di R. Milani, La corrispondenza delle arti: elementi di estetica comparata, Firenze 1988), quanto piuttosto il risultato dell’apertura transculturale avvenuta nell’estetica sulla fine del Novecento, che rappresenta una svolta del pensiero contemporaneo: la via che porta dal particolarismo etnocentrico al pluralismo multicentrico. Gli studi comparativi in ambito europeo ed extra-europeo hanno dato l’avvio alla revisione

Estetica decostruzionista dello statuto dell’estetica, facendo di questa disciplina, intesa non più restrittivamente come «filosofia dell’arte» nel momento in cui le stesse arti subiscono una mutazione genetica, il baricentro speculativo di indagini interdisciplinari in ambito cognitivo, scientifico e umanistico. L’estetica comparata consente di aprire un dialogo con altri modi di pensiero e di espressione artistica, appartenenti a nuovi soggetti (perlomeno dal nostro punto di vista) come quelli provenienti dall’Asia e dall’Africa, mondi filosofici extra-europei, al fine di allestire un foro eccellente di discussione sugli apporti che la transculturalità, l’interdisciplinarietà e il metodo comparativo forniscono all’estetica, facendone un campo di ricerca criticamente arricchito e capace di rinnovarsi a partire dai suoi lasciti oramai riconosciuti plurali – e dunque non solo europei e occidentali. Il confronto tra le estetiche di Oriente e Occidente mette in comune le risorse e gli obiettivi di conoscenza dell’orientalistica e del pensiero filosofico ed estetico asiatico e occidentale, realizzando ricerche su figure e tradizioni assai meno estranee le une alle altre di quanto abbia tentato di sottolineare l’angusta e superata prospettiva storica del monocentrismo speculativo europeo. Vale la pena citare, per la sua crescente importanza, la scuola di Kyoto (il cui fondatore è Nishida Kitarou, 1870-1945) a cui fa capo il primo gruppo di pensatori giapponesi che ha aperto un dialogo con la filosofia europea del Novecento, in particolare col pensiero tedesco e con uno dei più carismatici tra i suoi maestri, Martin Heidegger. K. Rossi BIBL.: G. MARCHIANÒ, La cognizione estetica tra Oriente e Occidente, Milano 1987; L. ZEHOU, The Path of Beauty, Beijing 1988, tr. it. di A. Crisma, La via della bellezza, Torino 2004; G. MARCHIANÒ (a cura di), Estetica e modernismo in Cina, Soveria Mannelli 1993; G. MARCHIANÒ, Sugli orienti del pensiero, Soveria Mannelli 1994; G. MARCHIANÒ (a cura di), La rinascenza orientale nel pensiero europeo, Pisa 1996; R. TRONCON (a cura di), La natura tra Oriente e Occidente, Milano 1996; G. VIANELLO - M. CESTARI - Y. KENJIROU, La scuola di Kyoto, Soveria Mannelli 1996; G. MARCHIANÒ - R. MILANI, Frontiers of Transculturality in Contemporary Aesthetics, Torino 2001; A. GNISCI, Da noialtri europei a noitutti insieme. Saggi di letteratura comparata, Roma 2002.

ESTETICA DECOSTRUZIONISTA. – JacEstetica decostruzionista ques Derrida, cui spetta la paternità del termi3735

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Estetica e critica ne «decostruzione» come rielaborazione del concetto di Destruktion impiegato da Martin Heidegger negli anni venti, ne ha sempre rifiutato una definizione: ciò coerentemente al fatto che delimitare il concetto di decostruzione, pretendendo di attribuirgli un campo di pertinenza e circoscrivendone le modalità metodologiche, significherebbe mettere in atto proprio quella logica peculiare alla metafisica occidentale su cui tenta di gettare il sospetto l’approccio decostruzionista (cfr. J. Derrida, L’écriture et la différence, Paris 1967, tr. it. di G. Pozzi, La scrittura e la differenza, Torino 2002, con Introduzione di G. Vattimo; De la grammatologie, Paris 1967, tr. it. a cura di G. Dalmasso, Della grammatologia, Milano 19982). Assimilato rapidamente dagli studi letterari come dal dibattito filosofico, tale approccio è venuto progressivamente a delimitare un’estetica decostruzionista sia nel senso di una speculazione che si appoggi principalmente su materiali letterari (l’approccio proposto da Derrida si fonda sull’indebolimento del confine tra testo letterario e forma filosofica, e prende a suo oggetto la scrittura), sia nella considerazione della testualità del discorso filosofico. Il decostruzionismo si propone come lettura ravvicinata del testo che, emancipandolo dalla ricezione tradizionale, ne riveli non solo una plurisemia, ma anche una sua logica latente e diversa da quella implicita alle argomentazioni manifeste. Se tale atteggiamento ha trovato eco nella critica letteraria statunitense, negli anni settanta particolarmente ricettiva nei confronti di questioni teoriche (Paul De Man, Harold Bloom), in Francia l’estetica decostruzionista sembra essere confluita in alcune declinazioni del post-strutturalismo (particolare affinità con le critiche di Michel Foucault e Jean-François Lyotard alla riducibilità a struttura dei sistemi culturali, e con quella di Roland Barthes all’istanza di intenzione autoriale). All’estetica decostruzionista si sono richiamati poi linguaggi artistici lontani sia dalla filosofia che dalla letteratura: dall’architettura di Peter Eisenman alla danza di Merce Cunningham. B. Zaccarello BIBL.: J. HARTMANN, De-Construction and Criticism, New York 1979; AA.VV., The Yale Critics: Deconstruction in America, Minneapolis 1983; P. DE MAN, Blindness and Insight: Essays in the Rhetoric of Contemporary Criticism, London 1983; M. FERRARIS, La svolta testuale, Milano 1986; J. CULLER, On Deconstruction:

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Theory and Criticism after Structuralism, London 1987; G. CHIARUZZI, Scrittura e tecnica. Derrida e la metafisica, Torino 1992; R.C. HOLUB, Crossing Borders: Reception Theory, Poststructuralism, Deconstruction, Madison (Wisconsin) 1992; J. NORDQUIST, Deconstructionism: a Bibliography, Santa Cruz (California) 1992; P.V. ZIMA, La Déconstruction. Une critique, Paris 1994.

ESTETICA E CRITICA (aesthetics and Critic; Estetica e critica Ästhetik und Kritik; esthétique et critique; estética y critica). – L’etimo della parola critica rimanda a una tecnica di esaminare il dato che intende giudicarne la veracità e l’attendibilità. In questo senso il termine ricorre già in epoca premoderna (ars critica, ars iudicandi), anche se è soprattutto a partire dall’età post-cartesiana e dall’illuminismo che esso conosce grande fortuna nei titoli della trattatistica come sinonimo di vaglio razionale di un certo ambito del sapere (critica dei miracoli, critica storica delle fonti, critica testuale, fino al progetto kantiano di una fondazione critica della ragione filosofica su se stessa), e spesso in richiamo al giudizio estetico, che ha il compito di offrire infatti un criterio di valutazione circa il gusto. In questo senso, la parola critica si ritrova nel titolo degli Elements of Criticism (Edinburgh 17856, 3 voll.) di Henry Home (Lord Kames), che prendono in esame le proposte teoriche elaborate nei decenni precedenti circa il dibattito su immaginazione, gusto e genio; e caratterizza in sé o nei suoi derivati le opere dei trattatisti del sec. XVIII. In A.G. Baumgarten l’espressione «aesthetica critica» viene spiegata come «ars formandi gustum, sive de sensitive diiudicando» – e a lui risale l’affermazione, poi di fatto recepita da Kant, che all’estetica critica debba accompagnarsi una critica logica. Il legame con la questione del giudizio di gusto si consolida con il progetto kantiano di comporre una critica del gusto, poi divenuta Kritik der Urteilskraft (Berlin 1790, tr. it. di A. Bosi, Critica del Giudizio, Milano 1995). Il nesso fra estetica e critica in età romantica, a partire da F. Schlegel, è stato al centro dell’interesse di W. Benjamin (Der Begriff der Kunstkritik in der deutschen Romantik, ed. a cura di H. Schweppenhäuser, Frankfurt am Main 1973, tr. it. a cura di G. Agamben, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, Torino 1982). Nella Ästhetische Theorie (Frankfurt am Main 1970, tr. it. di E. De Angelis, Teoria estetica, Torino 1977) Th.W. Adorno scrive che la critica

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«ricava lo spirito» delle opere d’arte, ed è quindi loro indispensabile: «Nello spirito delle opere essa riconosce il loro carattere di verità», liberandole dalle pretese dogmatiche della filosofia dell’arte. L’estetica critica è dunque per Adorno il punto di convergenza di arte e filosofia. Nel corso del sec. XX la relazione fra estetica e critica ha interessato gli ambiti più diversi della teoria dell’arte, della critica d’arte e della Kunstwissenschaft analizzata metodologicamente (V. Venturi, Storia della critica d’arte, Torino 1964), oltre che naturalmente della critica letteraria. Richiamandosi alla History of Criticism and Literary Taste in Europe (Edinburgh 1961) di G. Saintsbury, R. Wellek in A History of Modern Criticism: 1750-1950 (London 1955-92, 8 voll., tr. it. di A. Lombardo et al., Storia della critica moderna, Bologna 1954 ss.) insiste sull’opportunità di approfondire il nesso fra estetica e critica e si serve del secondo dei due termini «per indicare non soltanto i giudizi su singoli libri e autori, ma soprattutto quanto è stato pensato intorno ai principi e alla teoria della letteratura, alla sua natura, la sua creazione, la sua funzione, i suoi effetti, i suoi rapporti», in una sorta di «via di mezzo tra l’estetica pura da un lato [...] e, dall’altro, le mere espressioni di gusto impressionistico, le opinioni non sostanziate» (A History of Modern Criticism, tr. cit., vol. I: Dall’illuminismo al romanticismo, pp. 9-10). G. Garelli BIBL.: E. GARRONI, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Milano 1992; P. CRESTO-DINA, Messianismo romantico. W. Benjamin interprete di F. Schlegel, Torino 2002; V. STELLA, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani, Macerata 2005. ➨ CRITICA D’ARTE; GIUDIZIO ESTETICO; GUSTO.

ESTETICA E CULTURAL Estetica e cultural studiesSTUDIES (aesthetics and cultural studies; Ästhetik und Cultural Studies; esthétique et cultural studies; estética y cultural studies). – È quella dimensione della ricerca filosofica contemporanea in cui interagiscono la riflessione estetica con la prospettiva dei cultural studies («studi culturali»). Al centro vi è l’esigenza di ripensare le grandi categorie estetiche in termini di pratiche culturali che comprendono quindi l’intero universo delle attività umane; il tutto nel tentativo di spostare lo sguardo sui fenomeni emergenti che interrogano il sentire contemporaneo. Si tratta di un approccio metodologico quanto

Estetica ed ermeneutica mai flessibile capace di offrire un’interpretazione dell’estetica nel contesto della mobilità dei saperi. Ciò avviene in virtù del fatto che i cultural studies contribuiscono a far saltare le separazioni rigide tra le grandi aree umanistiche (storia, scienze umane, filosofia) proponendosi così di colmare la distanza esistente tra sapere umanistico e società contemporanea. Le categorie concettuali non vengono considerate nella loro astrattezza e purezza ideale, ma al contrario intese come pratiche culturali e dispositivi di potere. Detta prospettiva rappresenta l’incontro e la mescolanza di codici e paradigmi che appartengono ad ambiti diversi e si fonda quindi sull’interazione tra i segni in gioco così come sull’incessante slittamento dei significati. La metodologia dei cultural studies poggia sul principio dell’ingegno (di matrice barocca) consistente nel favorire l’avvicinamento di elementi apparentemente lontani e nell’allontanamento di cose a prima vista vicine. All’insegna del legame tra l’estetica e i cultural studies sta il programma di «Ágalma. Rivista di Estetica e Cultural Studies» diretta da Mario Perniola dal 2000. A. Sartini BIBL.: CH. LUTTER - M. REISENLEITNER, Cultural Studies. Eine Einführung, Wien 1998, tr. it. di M. Cometa, Cultural studies. Un’introduzione, Milano 2004; R. SALIZZONI (a cura di), Cultural studies, estetica, scienze umane, Torino 2003; M. COMETA (a cura di), Dizionario degli studi culturali, Roma 2004.

ESTETICA ERMENEUTICA (aesthetics Estetica edED ermeneutica and hermeneutics; Ästhetik und Hermeneutik; esthétique et herméneutique; estética y hermenéutica). – Accentuando l’interesse di M. Heidegger per l’interpretazione e l’originaria linguisticità dell’essere-nel-mondo, H.-G. Gadamer (Wahrheit und Methode, Tübingen 19723, tr. it. di G. Vattimo, Verità e metodo, Milano 19928) ha visto nel «comprendere» la dimensione fondamentale dell’esistenza umana, il cui oggetto privilegiato è l’arte; ma alla «coscienza estetica» postkantiana ha contrapposto l’ermeneutica «trasmutazione in forma», un’esperienza di verità che arricchisce ontologicamente tutti gli elementi in gioco: fruitori, creatore, l’opera stessa. Poiché però ogni interpretazione si colloca in una «storia degli effetti» (la tradizione), il procedimento implica un circolo: esso è già sempre un «colloquio» inserito in una dimensione linguistica, anche quando l’oggetto da 3737

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Estetica e politica interpretare non assuma un’esplicita forma verbale. Indagando la progressiva appropriazione di un’opera da parte del pubblico, l’«estetica della ricezione» proposta da H.R. Jauss (Ästhetische Erfahrung und literarische Hermeneutik, Frankfurt am Main 1982, 3 voll., tr. it. del vol. I di B. Argenton, Teoria e storia dell’esperienza estetica, Bologna 1987; tr. it. del vol. II di B. Argenton, Domanda e risposta. Studi di ermeneutica letteraria, Bologna 1988; tr. it. del vol. III di C. Gentili, Estetica e interpretazione letteraria, Genova 1990) e dalla «scuola di Costanza» nega che l’opera contenga in sé un messaggio immutabile, e riconosce nel lettore il protagonista d’un processo attivo e poietico, indispensabile per la stessa definizione dell’oggetto artistico. Il rapporto fra estetica, poetica e filosofia della storia è stato indagato anche su basi dialettiche dall’«ermeneutica materiale» dell’ungherese P. Szondi (Einführung in die literarische Hermeneutik, ed. a cura di J. Bollack - H. Stierlin, Frankfurt am Main 1975, tr. it. parziale di B. Cetti Marinoni, Introduzione all’ermeneutica letteraria, Torino 1992). In Italia, sostenendo l’essenziale appartenenza d’ogni atto ermeneutico alla verità, L. Pareyson ha visto nell’arte il luogo dell’interpretazione per eccellenza (Estetica. Teoria della formatività, Milano 20024; Verità e interpretazione, Milano 1982). L’autentico agire «formativo» definisce la regola dell’opera mentre la fa, e dunque il giudizio su di essa non potrà dipendere da canoni o da valutazioni estrinseche. Il più tardo sviluppo della filosofia pareysoniana, l’«ontologia della libertà», mette capo a una teoria ermeneutica del mito e al pensiero tragico: se infatti creazione ed esecuzione dipendono dall’interpretazione, questa procede per tentativi, e vive costantemente il rischio del proprio fallimento. Fra gli allievi di Pareyson, U. Eco (Opera aperta, Milano 20005) ha indicato proprio nell’interpretabilità dell’opera il suo carattere di apertura e il suo valore emancipativo, orientando poi i suoi interessi alla semantica di tutti i «fatti di comunicazione». Per parte sua G. Vattimo (Poesia e ontologia, Milano 1985 [1967]) nota che l’arte oggi appare il territorio privilegiato della negazione dell’identità, ossia del tratto caratterizzante la metafisica tradizionale, e dunque si mostra come luogo dell’accadere d’una verità non più intesa come presenza metafisica o ontologica 3738

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forte ma, sulla scorta di Heidegger, come «evento». Spunti d’interesse estetico sono presenti anche in tutti i principali esponenti dell’ermeneutica contemporanea. In Le conflit des interprétations (Paris 1969, tr. it. di R. Balzarotti et al., Conflitto delle interpretazioni, Milano 1999) di P. Ricoeur il rapporto fra ermeneutica e fenomenologia riguarda l’analisi del linguaggio simbolico; La métaphore vive (Paris 1990, tr. it. di G. Grampa, La metafora viva, Milano 1981) privilegia la produzione di nuovi significati e nuove dimensioni di senso operata dall’immaginazione produttiva; mentre Temps et récit (Paris 1983-85, 3 voll., tr. it. di G. Grampa, Tempo e racconto, Milano 1986-88) giunge alla meditazione sul rapporto fra temporalità e discorso. L’interesse per la «narrazione» (per cui il discorso filosofico è equiparato a una sorta di «genere letterario») si ritrova anche in R. Rorty; mentre il fallimento dei «grandi racconti» della modernità ha segnato la liquidazione, da parte di J.-F. Lyotard, di ogni ideale universalistico: dall’estetica provengono sollecitazioni atte a sviluppare la pluralità locale e temporanea dei discorsi post-moderni. Bisogna infine accennare all’influsso esercitato negli anni settanta del Novecento dalla pratica decostruttiva di J. Derrida, particolarmente sui critici letterari statunitensi (P. de Man, H. Bloom), in direzione d’un progressivo assottigliarsi della differenza fra critica e pratica letteraria, ove il linguaggio filosofico è assimilato a quello poetico-artistico. G. Garelli BIBL.: M. FERRARIS, Storia dell’ermeneutica, Milano 1988; C. GENTILI, Ermeneutica e metodica, Genova 1996; P. MONTANI, Estetica ed ermeneutica, Roma-Bari 20023. ➨ COMPRENDERE; DECOSTRUZIONE; ERMENEUTICA; ESTETICA DECOSTRUZIONISTA; FILOSOFIA, GENERE LETTERARIO DELLA; INTERPRETAZIONE; NARRATIVITÀ; POSTMODERNO; TRAGICO; WIRKUNGSGESCHICHTE.

ESTETICA E POLITICA (aesthetics and poliEstetica e politica tics; Ästhetik und Politik; esthétique et politique; estética y política). – Il nesso estetica/politica trova espressione soprattutto in alcune tra le opere più significative del pensiero novecentesco; W. Benjamin, nel saggio Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (Frankfurt am Main 1955, tr. it. di E. Filippini, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino 1966), avvicinandosi in modo

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assai problematico al marxismo, giunge a trattare il tema delle possibilità e del destino dell’arte all’interno della moderna società di massa. Benjamin ravvisa nella riproducibilità tecnica dell’opera un elemento di discontinuità all’interno del rapporto esistente tra opera e pubblico: se da un lato, con l’avvento della riproducibilità, l’unicità e l’autenticità (Benjamin parlerà di «aura») dell’opera viene ad essere compromessa così che non se ne riconosce più il «valore cultuale», dall’altra assistiamo al fatto che il terreno di giustificazione dell’opera diviene la «politica». Nel momento in cui l’opera d’arte perde il «valore cultuale», consistente nel suo esser fondata sulla dimensione rituale, prende il sopravvento il suo valore espositivo e politicizzato. In questo senso Benjamin vede con favore la raggiunta accessibilità allargata dell’opera tramite l’invenzione della riproduzione tecnica. L’ampliamento delle possibilità di ricezione/fruizione dell’opera artistica, favorito dall’impiego di strumenti tecnici sempre più sofisticati, consente la riaffermazione, politicamente orientata, della matrice di socialità di cui l’arte è in ogni caso espressione, sia pure particolare. Con Th.W. Adorno e la sua Ästhetische Theorie (Frankfurt am Main 1970, tr. it. di E. De Angelis, Teoria estetica, Torino 1977) si assiste a una lettura del fenomeno artistico tesa a considerare quest’ultimo come pienamente collocato all’interno dello sviluppo dell’industria culturale, dove l’opera d’arte non è nient’altro che merce. La lettura che Adorno ci consegna dell’accessibilità allargata dell’opera è opposta a quella che ci fornisce Benjamin: il dominio della tecnica determina la serializzazione e la standardizzazione che inevitabilmente conducono a un’accettazione passiva dello stato di cose esistente. La critica radicale verso l’ordine sociale esistente è ciò che caratterizza la concezione dell’arte nell’opera di H. Marcuse; in Eros and Civilization (Boston 1966, tr. it di L. Bassi, Eros e civiltà, Torino 1964) scorge nella dimensione estetica gli elementi di un’esperienza non segnata dall’alienazione. Nell’arte convergono, al tempo stesso, l’istanza della libertà creativa e la necessità costituita dai condizionamenti materiali. In questo quadro teorico si inserisce pienamente la figura di E. Bloch, che in Geist der Utopie (Frankfurt am Main 19803, tr. it. di V. Bartolino, Spirito dell’utopia, Firenze 1993 2)

Estetica e psicologia sottolinea l’importanza delle avanguardie artistiche intese come luogo in cui si è consumato l’avvenuto superamento del reale dato. È il tratto utopico della ricerca blochiana, un atteggiamento teso a evidenziare le potenzialità «dense di futuro» insite nella materia in opposizione all’autoreferenzialità propria dello spirito hegeliano. Ecco che in un’altra sua opera fondamentale, Das Prinzip Hoffnung (Frankfurt am Main 1959, 3 voll., tr. it. di T. Cavallo, Il Principio speranza, Milano 1994, 2 voll.), l’opera d’arte viene considerata (insieme ai grandi miti collettivi e ai desideri più profondi dei singoli) un autentico stato utopico della coscienza contribuendo così a delineare quell’«ontologia del non ancora» che dovrebbe far da guida all’azione storica. A. Sartini BIBL.: J. BAUDRILLARD, La società dei simulacri, Bologna 1980; M. PERNIOLA, Presa diretta. Estetica e politica, Venezia 1986; R. RUSCHI, Lo spirito di natura dell’arte. Un itinerario nel pensiero estetico di T.W. Adorno, Milano 1990; D. FRISBY, Frammenti di modernità. Simmel, Kracauer, Benjamin, Bologna 1992; M. PONZI, W. Benjamin e il moderno, Roma 1993; G. RINALDI, Dialettica, arte e società. Saggio su T.W. Adorno, Urbino 1994; P. PELLEGRINO, Teoria critica e teoria estetica in T.W. Adorno, Lecce 1997; J. RANCIÈRE, Le Partage du sensible. Esthétique et politique, Paris 2000; P. PERTICARI (a cura di), La dimensione estetica. Un’educazione politica tra rivolta e trascendenza, Milano 2002; R. ESPOSITO, Bios, Torino 2004.

ESTETICA E PSICOLOGIA (aesthetics and Estetica e psicologia psychology; Ästhetik und Psychologie; esthétique et psychologie; estética y psicología). – Al centro della vasta area di studi che prende forma dall’ibridazione di estetica e psicologia – storicamente operata nel segno di una riconduzione dell’esperienza estetica al piano psicologico – si trova l’indagine sui processi psichici coinvolti nella produzione e nella ricezione delle opere artistiche, sulle opere stesse in quanto da essi geneticamente dipendenti, sulle relazioni tra la personalità dell’artista e la sua opera. Il primo tentativo definito di coniugare estetica e psicologia, compiuto da Gustav Theodor Fechner nella seconda metà dell’Ottocento e mirante alla costruzione di un’«estetica sperimentale» fondata su basi psicofisiologiche, si presenta come uno studio delle leggi e dei principi che sovrintendono alla correlazione tra esperienza estetica e piacere. A una teoria 3739

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Estetica e pubblicità dell’Einfühlung («empatia», «immedesimazione») conducono invece le successive ricerche avviate da Robert Vischer e approfondite da Theodor Lipps e Wilhelm Worringer. Il principio dell’esperienza estetica, secondo Lipps, va reperito nel processo di trasposizione del sé e nel suo rinvenimento entro un medium estraneo. Lipps individua inoltre nell’idealità della sfera artistica un fattore di conciliazione tra istanze soggettive e rappresentazione, attribuendo all’opera la capacità di rivelare, anche al fondo della più orribile delle immagini, l’universalmente umano che ne costituisce la latenza positiva. Tematizzato attraverso la mediazione del concetto di Erlebnis («esperienza vissuta»), il rapporto tra estetica e psicologia assume in Wilhelm Dilthey un ruolo centrale per la fondazione di una metodologia propria alle «scienze dello spirito». Se le indagini psicoanalitiche sull’arte costituiscono uno specifico indirizzo di notevole rilevanza teorica, un contributo altrettanto decisivo prende forma entro il quadro teorico-sperimentale offerto dalla Gestaltpsychologie. A partire dalle ricerche di Edmund Husserl e di Christian von Ehrenfels, psicologi quali Max Wertheimer, Wolfgang Köhler e Kurt Koffka pongono al centro delle loro indagini i principi strutturali della vita psichica, reperendo nel concetto di forma il piano di organizzazione immanente all’esperienza percettiva. Volgendo tali ricerche in direzione propriamente estetica, Rudolf Arnheim elabora una riflessione intorno alle proprietà cognitive dell’atto visivo, contestando l’esistenza di una netta distinzione tra dimensione percettiva e concettuale: «Percepire visivamente è pensare visivamente» (Visual Thinking, Berkeley 1969, tr. it. di R. Pedio, Il pensiero visivo, Torino 1974, p. 19). Di qui, una critica tanto nei confronti delle valenze mimetiche del concetto di rappresentazione artistica (nel cinema, ad es., è la stessa «insufficienza» rappresentativa del mezzo filmico a costituire la condizione di possibilità del suo utilizzo estetico) quanto della più ampia rimozione culturale cui è soggetta oggi l’immagine in quanto medium epistemico. In ambito affine si posiziona il contributo dello storico dell’arte Ernst Gombrich, il quale, approfondendo temi propri alla scuola warburghiana, si rivolge alle dinamiche di strutturazione dell’immagine del reale nell’attività artistica, studiando il ruolo svolto da quest’ultima nella formazione delle nostre disposizioni percettive. Lungi dal poter 3740

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attingere a una problematica «innocenza» dell’occhio, l’attività rappresentativa sarebbe piuttosto influenzata in maniera determinante dal tessuto di codificazioni simboliche e stilistiche ad essa preesistenti. Nel tentativo di bilanciare un’interpretazione costruttivistica delle sue teorie (proposta, tra gli altri, da Nelson Goodman) Gombrich farà appello al modello epistemologico popperiano, descrivendo lo sviluppo storico della rappresentazione artistica nei termini di un processo schemacorrezione. È opportuno qui ancora ricordare, tra gli altri, gli studi, molto differenti per metodologia e prospettiva, di Lev S. Vygotsky, Gaston Bachelard, Susanne Langer, e, nel campo della psicologia della musica, di Geza Révész, nonché le svariate linee di ricerca in campo estetico più recentemente sorte nell’area della psicologia cognitiva. A. Croce BIBL.: L. PIZZO RUSSO (a cura di), Estetica e psicologia, Bologna 1982; U. SAVARDI (a cura di), Ricerche per una psicologia dell’arte, Milano 1989; A. ARGENTON, Arte e cognizione, Milano 1996. ➨ ESTETICA ED ERMENEUTICA; PSICANALITICA, ESTETICA.

ESTETICA E PUBBLICITÀ (aesthetics and Estetica e pubblicità advertising; Ästhetik und Werbung; esthétique et publicité; estéticas y publicidad). – Se la realtà contemporanea è dominata da una sorta di «legge del consumo» che regola il funzionamento della società, e che impone in maniera crescente a tutti gli individui di comportarsi sempre e comunque da consumatori, il processo di mercificazione atto a creare tale forma di dipendenza totale ha inizio col bombardamento pubblicitario. L’onnipresenza della pubblicità nella «cultura promozionale» in cui siamo immersi rende problematico analizzare i suoi meccanismi di funzionamento; si tratta comunque di una forma di comunicazione che, a volte deformandola, riflette la società attuale. La merce «spettacolarizza» continuamente la sua immagine nella comunicazione pubblicitaria, nell’intento di risaltare in quel magma caotico e informe in cui tutto è spettacolo (G. Debord, La société du spectacle, Paris 19922, tr. it. di P. Salvadori, La società dello spettacolo, Milano 20022). Dovendo sedurre a tutti i costi, la pubblicità arricchisce il suo contenuto estetico a discapito di quello referenziale (valore d’uso), sconfinando nel campo di quella che

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Estetica e religione

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Jean Baudrillard definisce fascinazione: una seduzione artificiale ai limiti dell’oscenità, ridotta al mero valore di scambio (De la séduction, Paris 1979, tr. it. di P. Lalli, Della seduzione, Milano 19952). Sulla condizione di comunicazione globale rappresentata dalla pubblicità si è interrogato il sociologo Vanni Codeluppi, secondo il quale la grandezza degli occhi di Topolino, piuttosto che il corpo e la forma del becco di Paperino, non sono senza rapporto con l’ideologia rassicurante e infantilizzante tipicamente medioborghese che, sorta negli anni trenta, continua a ispirare quella straordinaria impresa di clonazione del mondo rappresentata da Disney World. Così anche l’atmosfera che McDonald’s è riuscita a creare intorno a un hamburger sarebbe incomprensibile senza tale colonizzazione mondiale dell’immaginario (Il potere della marca, Disney, McDonald’s, Nike e le altre, Torino 2001). Codeluppi sottolinea anche lo stretto legame intercorrente tra business e arte (Il potere del consumo. Viaggio nei processi di mercificazione della società, Torino 2003, p. 43). Il noto artista italiano Maurizio Cattelan, autore di un’opera celebre in tutto il mondo come La nona ora – che raffigura con molto realismo e in dimensioni naturali papa Wojtyla a terra colpito da un pesante meteorite –, è un chiaro esempio di come si stia modificando il ruolo sociale dell’arte. Cattelan non ha bisogno di un atelier come gli artisti del passato: per aggiornarsi si nutre del linguaggio della pubblicità e del consumo, esattamente come gli artisti dei secoli scorsi andavano ad abbeverarsi alle fonti della classicità. Ad aver messo in luce la qualità estetica della pubblicità è stato ad esempio Gillo Dorfles, secondo il quale ci troviamo di fronte a un’estetizzazione globalizzata mai esistita prima, all’interno della quale è possibile riscontrare alcuni elementi artisticamente positivi nella pubblicità. K. Rossi BIBL.: J. WILLIAMSON, Decoding Advertising, London 1978; M. SCHUDSON, Advertising. The Uneasy Persuasion, New York 1984; R.W. POLLAY, The Distorted Mirror. Reflections on the Unintended Consequences of Advertising, in «Journal of Marketing», 50 (1986), pp. 18-36; J. BAUDRILLARD, Il sogno della merce, ed. it. a cura di V. Codeluppi, Milano 1987; V. CODELUPPI, Che cos’è la pubblicità, Roma 2001; S. GIVONE – O. TOSCANI, Il mondo e la sua immaginazione, in «MicroMega-Almanacco di filosofia», 5 (2001), pp. 173-191; D. PIT-

- P. PAPAKRISTO (a cura di), Archeologie della pubblicità, Napoli 2003; G. FABRIS, La pubblicità. Teorie e prassi, Milano 2004; J. GIBBONS, Art and Advertising, London - New York 2005. TERI

ESTETICA E RELIGIONE (aesthetics and reEstetica e religione ligion; Ästhetik und Religion; esthétique et religion; estéticas y religión). – L’esperienza del bello e dell’arte si costituisce fin dalle sue origini in stretta relazione con la religione. Nel mito greco il bello, in quanto armonia, non è un semplice aspetto sensibile delle cose: nel portare alla luce l’equilibro che rende il mondo un tutto ordinato, è sentito come un evento di carattere divino, conservando tale cifra non solo in tutta la riflessione filosofica greca delle origini, come è attestato dal pensiero di Pitagora, Eraclito ed Empedocle, ma anche in Platone, che nel Simposio affida l’iniziazione al bello come splendore del bene e del vero alla figura sacerdotale di Diotima. La valenza religiosa del bello è inoltre la chiave di volta di tutta la metafisica della luce elaborata dal pensiero neoplatonico pagano e cristiano. Se Plotino concepisce il bello come splendore dell’uno divino al di là di ogni forma esistente che da esso procede, nell’ambito della patristica cristiano-orientale Dionigi l’Areopagita lo concepisce come lo sfavillare della luce di Dio, una concezione che, attraverso Giovanni Scoto Eriugena, permea l’intera filosofia medievale, specie nella sua versione mistica. Lo stesso vale per il neoplatonismo iranico della scuola di as-Suhrawardi: è infatti proprio il bello in quanto splendore a realizzare quel passaggio dal sensibile al sovrasensibile che permette di accedere alla regione di luce pura costitutiva del divino in quanto tale. La metafisica neoplatonica della luce è così all’origine di un’estetica teologica che, se in ambito iranico trova il suo corrispettivo nello sfondo sfavillante della miniatura persiana, in quello cristiano ha il suo equivalente nel fondo oro della pittura bizantina e dell’icona russa che, concepita come teologia per immagini, viene vissuta come un’autentica teofania, cioè come fonte di un’esperienza estetica che è al tempo stesso un evento di carattere sovrannaturale. Del resto in tutto il mondo pre-moderno – sia esso greco, romano o medievale – ogni arte è inserita in un sistema ritual-religioso da cui trae il proprio valore e che la sottrae all’ambito profano. Tant’è che la stessa tradizione poetico-letteraria occidentale nasce nel segno di 3741

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Estetica e scienza una ispirazione religiosa: sia Omero sia Esiodo, definendosi ispirati dalle Muse, attribuiscono a un principio divino lo stato di grazia che innalza la loro parola al rango di poesia. Il carattere divinamente ispirato della poesia, riaffermato da Platone e dalla tradizione neoplatonica nel concetto di mania o divino entusiasmo che restituisce all’anima la memoria della sua provenienza celeste, lo ritroviamo nel Medioevo in Dante Alighieri, che stabilisce un rapporto diretto tra poesia e teologia. Il rapporto simbiotico tra estetica e religione, mantenuto in tutta la cultura orientale, si scioglie nell’Occidente moderno con il progressivo affermarsi della figura dell’artista come autonomo soggetto creatore e del bello come categoria formale capace di rispondere a leggi proprie irriducibili a principi di carattere metafisico-religioso. Questo non significa che nell’ambito della modernità non vi siano stati tentativi – riscontrabili nella riflessione settecentesca di Shaftesbury e Francis Hutcheson, nel pensiero romantico di Novalis e Wilhelm W. Wackenroder e nella riflessione idealista di Friedrich W.J. Schelling – di riattribuire all’arte e alla bellezza la capacità di un’intuizione dell’assoluto che le riavvicina a esperienze di ordine mistico e religioso. Il legame tra estetica e religione si mantiene comunque in tutta la cultura cristiana russo-ortodossa, che tra Otto e Novecento vede nella dottrina della sapienza divina elaborata da Vladimir S. Solov’ëv, Sergej N. Trubeckoj, Pavel A. Florenskij e Sergej N. Bulgakov il principio della bellezza visibile del mondo e il fondamento di un’arte teurgica capace di riportare la creazione alla sua originaria bellezza divina. C. Cantelli BIBL.: M. PRAZ, Genesi della moderna «arte sacra», in Bellezza e bizzarria, Milano 1960, pp. 35-40; H.U. VON BALTHASAR, Herrlichkeit, Einsiedeln 1961 ss., tr. it. di G. Ruggieri et al., Gloria: Un’estetica teologica, Milano 1975-80; U. ECO, Il problema estetico di Tommaso d’Aquino, Milano 1970; E.R. DODDS, I doni divini della pazzia, in I greci e l’irrazionale, tr. it. di V. Vacca De Bois, Firenze 1973; P. FLORENSKIJ, Le porte regali. Saggio sull’icona, ed. it. a cura di E. Zolla, Milano 1977; R. CAILLOIS, L’homme et le sacré, Paris 1982; A. COOMARASWAMY, Il grande brivido. Studi di simbolica e arte, ed. it. a cura di R. Donadoni, Milano 1987; P.N. EVDOKIMOV, Teologia della bellezza, Roma 1990. ➨ ARTISTA; ESTETICA ORIENTALE; ICONA; TEURGIA.

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ESTETICA E SCIENZA (aesthetics and scienEstetica e scienza ce; Ästhetik und Wissenschaft; esthétique et science; estéticas y ciencia). – Se il rapporto fra scienza e sapere estetico-artistico ha caratterizzato l’intera storia del pensiero filosofico e, da Platone a Hegel attraverso Kant, pare articolarsi intorno alla distinzione tra la sensibilità (propria dell’arte) e il concetto (proprio del sapere scientifico), il tentativo di coniugare sapere estetico e fondamenti epistemici analoghi o addirittura coincidenti con quelli delle scienze della natura ha trovato riscontro, fra i secc. XIX e XX, particolarmente nelle filosofie dell’arte d’impostazione positivista. Esse hanno cercato di ricondurre i caratteri propri dell’estetico a dati di fatto riscontrabili nell’esperienza e descrivibili normativamente nelle loro ricorrenze. Nell’ambito del positivismo sociale è stato H.A. Taine, con la sua Philosophie de l’art (ed. a cura di S. Douailler, Paris 1985, tr. it. delle parti 1 e 5 di O. Settineri, Filosofia dell’arte, Milano 2001), ad affermare per primo la necessità di risolvere l’estetica nella sociologia dell’arte: ricostruendo l’ambiente sociale (milieu) delle opere e le concrete condizioni che le hanno prodotte, l’estetica scientifica potrà descrivere eziologicamente i prodotti artistici e le loro specie senza ricorrere in maniera impropria a giudizi di valore. Un altro versante che ha collegato studi scientifici e considerazione estetica si ritrova, a partire dall’inizio dell’Ottocento e sulla scorta di F. Herbart, nella genesi e nello sviluppo della psicologia dell’arte. Sull’interpretazione herbartiana di Kant si sarebbero basate le considerazioni di H. Helmholtz sul ruolo del sentire nella formazione dell’esperienza e quelle di G.T. Fechner volte ad analizzare in chiave psicofisiologica l’origine del piacere estetico. La prospettiva fechneriana, poi ripresa dai teorici dell’empatia (Einfühlung), inaugurata dalla Ästhetik (Hamburg 1903-06, 2 voll.) di T. Lipps, mira soprattutto a ricostruire criteri di misurazione delle energie psichiche coinvolte dall’esperienza estetica. Diversamente da questa, l’estetica psicoanalitica costituitasi a partire dai lavori dello stesso Freud offrirà una rielaborazione originale e non riducibile al programma positivista del rapporto fra arte e scienza. Il tentativo di fondare un’estetica su basi «scientifiche» è stato altrimenti e in vario modo intrapreso in ambito marxista, fenomenologico e strutturalista, nonché nel confronto

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con i problemi della tecnologia e gli sviluppi epistemologici d’impianto analitico. Anche sul concreto piano storico-artistico non si può non rilevare il reciproco influsso di discipline scientifiche e produzione di opere d’arte; ne sono esempi la relazione della matematica e della fisica con l’estetica (riscontrabile p. es. già chiaramente con il problema della sezione aurea, o nella nascita della prospettiva), ovvero gli influssi (p. es. sulla letteratura) di discipline fisiche e biologiche, così come la variazione nelle tecniche e nei materiali della produzione artistica e della riproducibilità dell’opera. Da rilevare è infine come il paradigma estetico abbia esercitato un influsso notevole sulla stessa epistemologia del Novecento (in pensatori quali P. Feyerabend). La relazione fra estetica e scienza si ritrova oggi anche negli eredi della filosofia classica tedesca, in particolare per quanto concerne la filosofia della natura: il medico e filosofo D. von Engelhardt ha p. es. messo a contatto la storia della medicina e l’estetica, attraverso le testimonianze letterarie e figurative concernenti la trattazione extrascientifica delle patologie; F. Moiso ha proposto l’idea di una rinnovata koiné culturale su base morfologica; il biologo O. Breidbach ha avviato infine l’idea di un’estetica della natura connessa a un progetto di «estetica neuronale», nella quale ne va anzitutto della natura dell’immagine mentale e del suo carattere non di riflesso della realtà ma di elemento costitutivo di quest’ultima. G. Garelli BIBL.: A. KOESTLER, The Act of Creation, London 1964, tr. it. di G.M. Nivi, L’atto della creazione, Roma 1975; P. SNOW, Die zwei Kulturen, Stuttgart 1967; J. WECHSLER (a cura di), On Aesthetics on Science, Cambridge (Massachusetts) 1978, tr. it. L’estetica nella scienza, Roma 1982; G. HOLTON, The Scientific Imagination, Cambridge 1978, tr. it. di R. Maiocchi - M. Mamiani, L’immaginazione scientifica, Torino 1983; P. FEYERABEND, La scienza come arte, ed. it. a cura di M. Pera, Roma-Bari 1984 (1981); O. BREIDBACH, Natur der Ästhetik-Ästhetik der Natur, Wien - New York 1997. ➨ ESTETICA ANALITICA.

ESTETICA E SEMIOTICA (aesthetics and seEstetica e semiotica miotics; Ästhetik und Semiotik; esthétique et sémiotique; estética y semiótica). – Il dialogo tra estetica e semiotica, storicamente sviluppatosi intorno all’assimilazione dei fatti artistici a organismi semiotici, alla ricerca delle leggi strutturali ad essi immanenti e ai problemi re-

Estetica e semiotica lativi a tale assimilazione, trova la propria condizione di possibilità nella condivisione di un orizzonte aperto sui fenomeni estetici in quanto fenomeni linguistico-comunicativi nell’accezione più ampia dell’espressione. È soprattutto la semiotica di ascendenza formalista e strutturalista a mettere a disposizione alla riflessione estetica strumenti di analisi e di verifica, a partire dalla lezione di Ferdinand de Saussure (e, più tardi, dalla sua rielaborazione a opera di Louis T. Hjelmslev) e dalla sua introduzione di una serie di dispositivi concettuali ad articolazione biassiale atti a favorire lo studio dei fatti linguistici. Volgendo un tale apparato all’analisi dei fenomeni letterari, i teorici riunitisi a partire dal 1915 nel Circolo di Mosca (i cosiddetti «formalisti russi») e dal 1926 nel Circolo di Praga ricercano le leggi immanenti dell’opera poetica nei procedimenti di costruzione fonetica, ritmica e sintattica del verso, spostando lo sguardo dal piano del significato (psichico) al piano del significante (materiale). In anni successivi, Roman Jakobson utilizzerà i risultati conseguiti in tale ambito finalizzandoli all’identificazione di una specifica «funzione poetica» del linguaggio: nell’autoreferenzialità del messaggio – e nell’ambiguità che ne scaturisce – va individuata la matrice del suo utilizzo estetico. Da questo punto di vista, l’oggetto ultimo della scienza letteraria (e di una più vasta «semiotica generale») andrà ricercato nella «letterarietà», ossia nei procedimenti linguistici e semiotici che caratterizzano la costruzione poetica. In maniera affine, Vladimir Propp, conducendo uno studio delle funzioni narrative e ritrovando, a livello superiore, il sistema biassiale della linguistica saussuriana, apre a sua volta la strada a un’analisi strutturale delle «grandi unità» del discorso. E nella direzione di una «translinguistica» si rivolgono, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, quegli studiosi (tra cui Roland Barthes, Gérard Genette, Algirdas Greimas) che, declinando il concetto di letterarietà in senso narratologico, si applicano alla costituzione di una «nuova retorica». In direzione parzialmente differente, Jurij M. Lotman, accogliendo, tra gli altri, stimoli provenienti dall’opera di Michail Bachtin, si avvia verso un recupero della dimensione storico-culturale e dialogica del testo, attribuendo alla sfera artistica lo statuto di «sistema modellizzante secondario». Importanti indagini sul linguaggio poetico e sul romanzo vengono condotte nello 3743

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Estetica etnologica stesso periodo da Tzvetan Todorov e Julia Kristeva. Se nell’«intertestualità» kristeviana affiora l’esigenza di far breccia entro il modello strutturalista dell’opera come sistema semiotico «chiuso», tale preoccupazione trova un’anticipazione pre-semiotica nella nozione di «opera aperta» elaborata da Umberto Eco e una tematizzazione semiotica nelle sue successive analisi dei rapporti tra testo estetico e invenzione, nonché dei procedimenti di cooperazione interpretativa del testo narrativo. Nell’ambito degli studi d’ascendenza peirceiana, Charles Morris, prospettando un riassorbimento dell’estetica entro il quadro più ampio di una teoria dei segni, attribuisce al linguaggio artistico un ruolo «valutativo-apprezzativo» e individua nell’«iconicità» una sua modalità fondamentale, negando tuttavia legittimità all’isolamento di una classe specifica di segni estetici. Costitutiva del linguaggio estetico è, invece, la parziale trasformazione dei segni stessi di cui è composta l’opera da media a «oggetto finale» di apprezzamento. È qui opportuno ricordare ancora gli studi di Christian Metz, dedicati a una semiologia del cinema, nonché, tra gli altri, i rilevanti contributi offerti in ambito italiano da D’Arco Silvio Avalle, Cesare Segre, Maria Corti, Emilio Garroni. A. Croce BIBL.: U. ECO, La struttura assente, Milano 1968; C. SEGRE, I segni e la critica, Torino 1970; M. BENSE, Zeichen und Design. Semiotische Ästhetik, Baden-Baden 1971; E. GARRONI, Estetica e semiotica, in M. Dufrenne - D. Formaggio (a cura di), Trattato di estetica, Milano 1981; G. MARRONE (a cura di), Sensi e discorso, Bologna 1995; AA.VV., Esthétique et sémiotique, n. mon. «Visio. Revue internationale de sémiotique visuelle», 2 (1996), 1.

ESTETICA ETNOLOGICA (ethnological aeEstetica etnologica sthetics; ethnologische Ästhetik; esthétique ethnologique; estética etnológica). – Con estetica etnologica s’intende la riflessione dedicata alla questione del significato dell’arte nelle società arcaiche. In queste società è all’opera una modalità di approccio all’oggetto che privilegia lo stile e l’astrazione: l’artista è impegnato a «significare» l’oggetto con cui si relaziona e non a «imitarlo» e «rappresentarlo». Fuori da qualsivoglia istanza rappresentativa l’artista fa della sua arte uno spazio segnico il cui significato non è esclusivamente estetico bensì possiede un valore di volta in volta religioso, sociale, 3744

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economico ecc. L’universo artistico è qui giocato in chiave eminentemente comunicativa in quanto favorisce la coesione della comunità. L’impossibilità della rappresentazione nel mondo arcaico è dovuta, come ha ben rilevato C. Lévi-Strauss, al fatto che questo stesso mondo, in virtù della sua eccedente caratterizzazione magica, finisce col rendersi irrappresentabile. In questa prospettiva è possibile considerare, seguendo l’estetica etnologica, l’arte arcaica come un’arte essenzialmente interpretativa, dal momento che il suo rapporto con l’oggetto è segnato da un’infedeltà originaria. A. Sartini BIBL.: C. LÉVI-STRAUSS, Anthropologie structurale, Paris 1958, tr. it. di P. Caruso, Antropologia strutturale, Milano 1966; G. CARCHIA - R. SALIZZONI (a cura di), Estetica e antropologia: arte e comunicazione dei primitivi, Torino 1980; J. CLIFFORD, The Predicament of Culture, Cambridge (Massachusetts) 1988, tr. it. di M. Marchetti, I frutti puri impazziscono, Torino 1993.

ESTETICA FEMMINISTA (feminist aesthetics; Estetica femminista feministische Ästhetik; esthétique féministe; estéticas feminista). – Anche se si tratta di un campo relativamente recente, che ha riguardato in particolare i paesi anglosassoni e l’Europa a partire dalla fine degli anni sessanta, copre un ampio spettro di fenomeni artistici, sia in quanto risposta agli approcci teorici tradizionali che come pratica artistica corrente. Il venir meno delle certezze circa i criteri di obiettività, universalità, verità e bellezza che determinavano un’estetica «universale», e l’esautorarsi della centralità di tale estetica avvenuto nel secondo Novecento attraverso gli studi postcoloniali, il decostruzionismo, il femminismo e i culture e gender studies, hanno portato all’attuale dibattito sulla necessità di ridare all’estetica il compito di analizzare le produzioni artistiche in un contesto postmoderno, multiculturale, globale e, più che femminista, che tenga in giusto conto la differenza sessuale (cfr. H. Cixous, La jeune née, Paris 1975; L. Irigaray, Ce sexe qui n’est pas un, Paris 1977, tr. it. di L. Muraro, Questo sesso che non è un sesso, Milano 1990; A. Cavarero et al., Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, Milano 1987). In quest’ottica l’arte si fa al contempo strumento politico e luogo in cui s’inscrive una visione sessuata del mondo e dei soggetti. Già E. Brontë e E. Dickinson si iscrivono in una tradizione di dissidenza praticata da donne cultu-

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ralmente eretiche, delineando una poetica opposta all’«ordine fallocentrico del linguaggio», nel quale il corpo sessuato femminile è il resto dell’operazione metaforica che spiritualizza l’essere umano; una poetica costruita intorno alle figure della strega e della triplice dea, che imbastisce paesaggi interiori dove dominano la luna e il ragno (si pensi all’icona femminista L. Bourgeois o alla scrittrice I. Bachmann). Onde evitare le possibili derive essenzialistiche, nell’estetica post e cyber femminista (cfr. il pensiero radicalmente pro-tecnologico di D.J. Haraway o quello di R. Braidotti) vi è la predilezione per opere di riferimento a carattere antropologico in cui gli assunti androcentrici dei miti vengono revisionati per costruire miti storici in continuo divenire. K. Rossi BIBL.: G. ECKER (a cura di), Feminist Aesthetics, London 1985; C. BATTERSBY, Gender and Genius: Towards a Feminist Aesthetics, Indiana 1989; H. HEIN - C. KORSMEYER (a cura di), Aesthetics in Feminist Perspective, Indiana 1993; G. ECKER, Differenzen. Weiblichkeitsbestimmungen, in AA.VV., Theorie, Literatur und bildender Kunst, Dülmen 1994; T.J. ALLAN, Womanist and Feminist Aesthetics, Ohio 1995; P. ZACCARIA, Estetica e differenza, Bari 2002; H. RECKITT, Arte e femminismo, London 2005.

ESTETICA FENOMENOLOGICA (phenoEstetica fenomenologica menological aesthetics; phänomenologische Ästhetik; esthétique phénoménologique; estética fenomenológica). – L’estetica fenomenologica nasce all’inizio del sec. XX sotto l’influenza del progetto husserliano, andare «alle cose stesse» attraverso un metodo basato sull’«epoché» o «messa tra parentesi» dell’esistenza di esse, e l’analisi dell’«intenzionalità» come carattere specifico della coscienza, sempre rivolta a qualcosa d’altro da sé. Husserl in un manoscritto degli anni 1906-07 poneva il problema di una fondazione dell’estetica fenomenologica a partire dalle operazioni che la costituiscono, insieme ai suoi oggetti, attribuendo una struttura significativa alle modalità del loro apparire. Dunque, l’opera d’arte è una cosa sensibile-materiale, ma anche un oggetto costituito da atti intenzionali. Si tratta del resto d’una riflessione analoga a quella che, negli stessi anni, stava occupando (almeno a partire da Cézanne) il centro della pratica artistica. In Germania, sulla scia di Husserl, autori come W. Conrad, F. Kaufmann e O. Becker hanno in-

Estetica fenomenologica dagato l’oggetto estetico, distinto dall’opera d’arte, e la sua fruizione, mentre M. Geiger (Beiträge zur Phänomenologie des ästhetischen Genusses, Halle 19222, tr. it. a cura di G. Scaramuzza, La fruizione estetica, Padova 1973) ha studiato il «godimento estetico» come atto intenzionalmente diretto al valore estetico, e dunque opposto al semplice piacere: a differenza degli storici e dei critici, allo studioso di estetica spetta l’analisi di strutture generali. In questo senso N. Hartmann, unendo estetica fenomenologica e neokantismo, ha sostenuto che nell’arte libera e pura sorge quella «derealizzazione» che sospende il comune atteggiamento naturale, morale e razionale con le cose, e dà vita all’esperienza estetica. Secondo Das literarische Kunstwerk (Tübingen 19724, . it. di E.N. Forni, Fenomenologia dell’opera letteraria, Milano 1968) del polacco R. Ingarden, l’autore, l’opera e il lettore costituiscono «oggettività eterogenee» e separate; per riconoscere l’oggetto estetico occorre dunque prescindere da ogni pregiudizio normativo, così da prendere in considerazione alla stessa stregua il capolavoro, «il romanzo poliziesco di un giornale o la banale poesia amorosa di uno studentello». A tale analisi (antipsicologistica e avalutativa) l’opera letteraria si rivela come un’entità costituita da «strati» differenti, la cui riuscita dipende dalla loro interazione armonica. In Francia Sartre, rifacendosi a Husserl, ha negato fra l’altro che l’«estetico» possa ridursi a dimensione separata dell’esistenza. Per Merleau-Ponty, nel ritorno alle «cose stesse» si attinge a una dimensione originaria dell’esperienza che si dischiude attraverso la percezione, dunque esteticamente. M. Dufrenne, rifacendosi a Scheler, ha invece indagato l’esperienza della fruizione, che non è meno decisiva della creazione, in quanto ha «la responsabilità di consacrare l’opera e di salvare attraverso questa la verità dell’autore» (Phénoménologie de l’expérience esthétique, Paris 19923, 2 voll., tr. it. I vol. di L. Magrini, Fenomenologia dell’esperienza estetica, Roma 1969). In Italia l’estetica fenomenologica è stata, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, una via per superare il retaggio idealistico. Nell’estetica fenomenologica di A. Banfi sono confluiti temi simmeliani e neokantiani: un principio estetico di tipo trascendentale sarebbe all’origine di ogni attività umana, capace di «lasciar valere l’esperienza estetica in tutta la sua varietà, complessità, universalità» 3745

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Estetica indiana (una concretezza che spiega la successiva adesione banfiana al marxismo). L. Anceschi ha posto l’attenzione sulla relazione di Autonomia ed eteronomia dell’arte (Firenze 1936), nel progetto di una «nuova fenomenologia critica» che collochi l’arte nelle relazioni con altre forme della cultura. D. Formaggio ha infine distinto fra esteticità e artisticità (Fenomenologia della tecnica artistica, Parma-Lucca 1978): la prima è un atteggiamento di tipo gnoseologico, mentre la seconda riguarda la sfera tecnicopratica (L’idea di artisticità, Milano 1962). L’arte che è consegnata al passato (secondo il dettato di Hegel) è allora quella ancorata a un’astratta concezione del bello, e non quella che intende l’artisticità come esito felice d’una prassi tecnica. G. Garelli BIBL.: G. SCARAMUZZA, Le origini dell’estetica fenomenologica, Padova 1976; S. ZECCHI, La fenomenologia dopo Husserl nella cultura contemporanea, Firenze 1978; F. FELLMANN, Phänomenologie als ästhetische Theorie, Freiburg 1989; M. KRONEGER, Phenomenology and Aesthetics, n. mon. «Analecta Husserliana», 32 (1991); G. SCARAMUZZA, La fenomenologia e le arti, Milano 1991; É. ESCOUBAS - B. GINER (a cura di), L’Art au regard de la phénoménologie, Toulouse 1994; A. BONFAND, L’expérience esthétique à l’épreuve de la phénoménologie, Paris 1995; G. SCARAMUZZA (a cura di), Estetica monacense. Un percorso fenomenologico, Milano 1996; AA.VV., Phénoménologie & esthétique, Fougères 1998; M. CARBONI, Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento, Roma 1999; AA.VV., Esthétique et Phénoménologie, n. mon. «Revue d’esthétique», 36 (2000); E. STRAUS - H. MALDINEY, L’ estetico e l’estetica. Un dialogo nello spazio della fenomenologia, ed. it. a cura di A. Pinotti, Milano 2005. ➨ FENOMENOLOGIA; OGGETTO ESTETICO; VALORE ESTETICO.

ESTETICA INDIANA. – Testo fondante delEstetica indiana l’estetica indiana è il Natyasastra ascritto al veggente Sadasiva Bharata (variamente datato dagli studiosi tra il II secolo a. C. e il II secolo d. C., ma il cui trattato ha raggiunto la sua forma attuale verso il VI secolo d. C.), che raccoglie e sistematizza le dottrine più antiche relative ai diversi aspetti dell’opera teatrale e, per estensione, alla poetica che in essi trova espressione. Vanno segnalati poi il Kavyalamkara di Bhamaha (figlio di Rakrilagomin, forse buddhista), ripreso e approfondito dall’Alamkarasarasamgraha di Udbhata (terminus ante quem l’850 d. C.); i Kavyalamkarasutra di 3746

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Vamana (il terminus post quem è il 455 d. C., quello ante quem il 750 d. C.); il Kavyadarsa di Dandin (seconda metà del VII secolo d. C.); lo Dhvanyaloka di Rajanaka Anandavardhana (IX secolo d. C.); il Kavyalamkara del kasmiro Rudrata (terminus ante quem il 900 d. C.); l’anonimo Alamkarasarvasva; il Kavyaprakasa del kasmiro Mammata (fra il X e il XII secolo d. C.); la Abhinavabharati del grande maestro Abhinavagupta, anch’egli kasmiro (X-XI secolo d. C.); il Sarasvatikanthabharana e lo Srngaraprakasa del re Bhojadeva di Dhara (regnante dal 1010 al 1062 circa); il Kuvalayananda del poligrafo Appayyadiksita (1520-1593). Un primo tema dibattuto è il fine della poesia (il kavyaprayojana). Contro la più antica concezione moralistica che la vuole semplice strumento d’istruzione dilettevole, assimilandola al miele impiegato per mimetizzare il sapore amaro d’un medicinale (Bhamaha e Asvaghosa), Bharata mette in primo piano il piacere estetico del fruitore dell’opera poetica e quello creativo del suo artefice. Apprendimento per il primo e fama e ricchezza per il secondo sono elementi secondari. Mammata paragona l’eventuale funzione didascalica della poesia al discorso erudito dell’amante, finalizzato ad accrescere il piacere erotico del partner piuttosto che alla sua effettiva formazione. Altro tema di riflessione è quello dalla causa della poesia (il kavyahetu), veduta dal punto di vista del poeta. La formazione di costui dipende sì dalla sua preparazione culturale (la vyutpatti), abbracciante diverse scienze e tecniche oltre a una vasta gamma di esperienze umane, e dalla costante applicazione (abhyasa) che gli permette di dominare la tecnica espressiva, ma il fattore essenziale, in assenza del quale vi è mera retorica anziché poesia, è la pratibha, letteralmente il «rifulgere di contro» che consente di cogliere con intuizione intensa e limpida il fatto poetico (pratibha bhavayitri), traducendolo vividamente in linguaggio con accostamenti di parole e di significati cui il fruitore della poesia non arriverebbe mai da sé (pratibha karayitri). Si tratta per Dandin d’una dote congenita (sahaja), derivata dalle latenze d’esistenze passate, che le rifiniture culturali possono acuire e rendere polita, ma mai sostituire. Essa consta di due fattori: la capacità di ritenere in tutta la sua immediata freschezza e novità il dischiudersi (unmesa) in un lampo della situazione poetica e quella di realizzarne l’espressione con pari freschezza e novità (ullekha).

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Abhinavagupta e il suo maestro Tata vedono nella pratibha il terzo occhio del Dio Siva, la Coscienza universale che si manifesta nel poeta permettendogli di cogliere passato, presente e futuro. Suoi fattori sono lo sfarfallare variopinto d’immagini e concetti (il vaicitrya), l’intensità emotiva che colpisce nell’intimo (lo hrdyatva, letteralmente «cordialità») e da cui sgorgano sempre nuove invenzioni dotate di nitore (il vaisadya) e beltà (il saundarya) e pervase dal «sapore» estetico (rasavesa). Quest’ultima nozione emerge nell’àmbito del terzo tema dibattuto dai teorici indiani, quello dell’essenza o sé della poesia (il kavyatman), distinto dagli elementi estrinseci della poesia formanti il corpo di essa (il kavyasarira), primi tra tutti gli «abbellimenti» (i kavyalamkara): 1) le diverse varietà di paragoni (le upama) basati su lode, biasimo, gioco della fantasia, similitudine totale, parziale e dissimilitudine, ovvero su unità o molteplicità del paragone e del paragonato – siano essi in condizioni di reciprocità o meno –, distinte in complete, di sei tipi, ed ellittiche, di diciannove tipi; 2) le metafore (i rupaka), di diciotto tipi, giocate sulla estrema simiglianza (atisamya) o addirittura indistinzione (abheda) tra i termini del paragone, sovrapposti totalmente (samastavastuvisaya) o parzialmente (ekadesavivarti); 3) le associazioni «illuminatrici» di elementi figuranti in un elenco (i dipaka), rispettivamente costituiti da oggetti rilevanti e irrilevanti per la presenza d’un carattere o azione comune o da caratteri rilevanti e irrilevanti in un comune oggetto – una variante è quella della «ghirlanda» (la mala) in cui ogni voce precedente aggiunge fascino alla successiva –; 4) gli appaiamenti (gli yamaka), formati da dieci tipi di assonanze. Vamana scorge il sé della poesia nella «andatura» stilistica, la riti, costituita da un particolare arrangiamento dei vocaboli (visista padaracana) animato dai pregi fonetico-semantici (i guna), che la teorizzazione corrente classifica in dieci varietà: 1) la coalescenza (lo slesa) di più parole interconnesse con un comune referente; 2) la perspicuità (il prasada) del nesso parola-referente; 3) la assenza di ridondanza (la samata, letteralmente «stessità», procedere eguale e piano); 4) la composizione (il samadhi), che aggiunge un senso peculiare all’espressione; 5) la dolcezza (il madhurya, letteralmente «mielosità», con connotazione positiva: tale da non ingenerare sazietà); 6) la virilità (ojas), dignità e solenne compostezza; 7)

Estetica indiana l’avvenenza armoniosa (il saukumarya) dei fonemi, dei termini e dei referenti; 8) il senso ben esplicato (arthavyakti) con opportune scelte lessicologiche; 9) la sublimità (udara) che fa larga parte al meraviglioso, al sorprendente e a sentimenti elevatissimi, specie nella passione amorosa; 10) l’amabilità aggraziata (la kanti), ingenerata nella mente tramite sia l’udito che la vista (della gestualità aggraziata di attori e personaggi immaginati ecc.). A seconda delle combinazioni di tali pregi si distinguono tre riti fondamentali: la più elevata è la Vaidarbhi, che prende nome dalla regione dei Vidarbha, in cui tutti e dieci sono armonicamente presenti, dotata di una dizione chiara e non artificiosa; ad essa s’oppongono, in ordine di perfezione decrescente, la Gauda (ossia la bengalese), che gioca specialmente sull’ojas e sulla kanti, con esiti stilistici maestosi e ornati, e la Pañcali, che prende nome dalla regione dei Pañcala e si avvale soprattutto di madhurya e saukumarya, ottenendo esiti stilistici d’una certa prolissità leziosa. Scrittori posteriori aggiungeranno all’elenco altre tre riti minori: Rudrata la Latiya, che prende nome dalla regione dei Lata, caratterizzata da lunghissimi composti, e Bhojadeva la Avanti e la Magadhi, ancora individuate da nomi geografici, a carattere misto. A questa concezione, condivisa anche da Dandin, che chiama la riti «via» (marga), si oppone la dottrina dello dhvani (letteralmente «risonanza»), un termine tecnico desunto dalla dottrina indiana del linguaggio, qui introdotto a designare la valenza suggestiva (vyañjaka) del linguaggio poetico, attestata nella sua pienezza da Anandavardhana: il sé della poesia è rappresentato dal valore metasemantico assunto da tale linguaggio per veicolarne il senso profondo, atemporale, opposto sia al senso lessicologico dei termini (vacaka) che a quello di volta in volta assunto da essi in base al contesto (laksaka). Le relazioni con questi ultimi dello dhvani sono sottili: possono essere affatto opposti – è il caso dell’ironia –, complementari o in sorprendente discrepanza. Il normale referente del linguaggio, la res (artha) veicolata dalla parola, serve a illuminare il senso suggerito, non coincidente con essa e sovente inatteso; la posizione d’un termine nella frase, la disposizione dei fonemi, la situazione peculiare, distinta dal contesto banale, in cui il discorso poetico si situa, valgono a svelarne il referente segreto. Si danno tre varietà di dhvani: quella in cui la suggestione 3747

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Estetica informazionale evoca un oggetto esteriore (vastudhvani), quella in cui essa rivela un contenuto connesso agli artifici propri del linguaggio poetico (alamkaradhvani) e quella in cui veicola l’esperienza estetica (rasadhvani), per Abhinavagupta quest’ultima essendo centrale rispetto alle altre due. In base alla sua relazione con lo dhvani è possibile fornire un metro oggettivo di valutazione della poesia. Essa è infima nello stile «variopinto» (citra), ove lo dhvani è assente, sia nel senso – poesia meramente descrittiva, sia nella forma – poesia con effetti musicali superficiali; è mediocre laddove il portato della suggestione è subordinato agli effetti retorici – ve ne sono otto tipi; è superiore laddove lo dhvani predomina e subordina a sé tutto il resto. Grande è l’influenza di Anandavardhana sui pensatori successivi, ma allo dhvani questi sostituiscono come sé della poesia il «sapore» estetico (il rasa). Si tratta d’una nozione originariamente connessa alla rappresentazione teatrale, ove si riferisce alle doti dell’attore. La trattazione di Bharata, a quanto sembra dipendente da un precedente autore, Nandikesvara, interessato alla materia erotica, vede il rasa dipendente dagli elementi di «atmofera» (i bhava) creati dall’evento teatrale a tre livelli: vocale, gestuale e sentimentale. Il bhava è analizzato in base alle sue cause: la sua facies passiva potenziale (il vibhava) è quella che ne causa l’apprensibilità, ad es. la presenza di donne, stagioni ecc., mentre quella attuale (anubhava) ne causa l’effettiva apprensione, ad es. occhiate, abbracci ecc. Si distinguono dei bhava che vanno e vengono (vyabhicaribhava), componenti emotive classificate in trentatré varietà, ad es. gioia, ansia, invidia, vergogna, depressione, riflessione, debolezza, autodisprezzo, indolenza ecc., che, come le onde rispetto all’oceano, o le perle rispetto al filo della collana, valgono a enfatizzare il bhava principale, più stabile (sthayibhava), di otto varietà, quattro primarie (erotico, furioso, eroico, ripugnante) e quattro derivate (comico, patetico, meraviglioso, pauroso). A ciascuna di queste corrisponde un rasa, che si sviluppa a partire dal bhava corrispondente allorché ci si compenetra completamente con esso. In una serie di trattati perduti diversi teorizzatori proponevano interpretazioni discrepanti di Bharata: così Bhatta Lollata asseriva che il rasa è creato dall’attore allorché costruisce il suo personaggio sullo sthayibhava, mentre Sankuka osservava che in realtà il rasa è fatto inferire dallo 3748

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spettatore a partire dall’evento teatrale, piuttosto che presentato direttamente dall’attore; Bhatta Nayaka li contraddiceva entrambi, la prima teoria mancando di plausibilità in quanto nessuna realtà può derivare da fattori in se stessi irreali, la seconda essendo parimenti implausibile poiché manca in effetti ciò che dovremmo inferire in base ai comportamenti messi in opera dall’attore, che non è veramente innamorato, adirato ecc. Per contro, il rasa sorge dall’accorto uso della parola poetica. Questa esercita tre funzioni: denotazione diretta o indiretta (abhidha), generalizzazione o idealizzazione (bhavakatva) e illuminazione fruitiva (bhojakatva); le prime due in combinazione giovano a evocare i diversi bhava, come emozioni idealizzate suscettibili di fruizione estetica (ad es. non si fruisce dello spettacolo offerto da due veri innamorati, che può anzi infastidirci, ma della rappresentazione dell’amore universalizzato e spersonalizzato), la terza consente la compenetrazione fruitiva con il bhava e la sua trasformazione in rasa, tramite un’esperienza assimilabile sotto certi rispetti a quella estatica. Con il tempo da un lato s’assiste alla moltiplicazione dei rasa, portati a nove con l’aggiunta di quello pacato, corrispondente alla serena esperienza religiosa, poi a tredici. Correlativamente, si teorizza un unico rasa di cui gli altri non sono che fenomenizzazioni. L’ultimo grande esponente dell’estetica indiana, Jagannatha Panditaraja, fiorito alla corte dell’imperatore Moghul Shah Jahan nel XVII secolo, considera elemento distintivo della poesia la meraviglia (camatkara), capace di trasfigurare anche emozioni sgradevoli come la paura, il disgusto e l’orrore in oggetti di fruizione impersonale gioiosamente non coinvolta, qualitativamente diversa dalle emozioni legate all’io come quelle che prova chi si sente dire «ti è nato un figlio maschio» o «ti darò ingenti ricchezze». M. Piantelli ➨ ARTE; ESTETICA; ESTETICA ORIENTALE.

ESTETICA INFORMAZIONALE. – CorrenEstetica informazionale te dell’estetica contemporanea sviluppatasi a partire dal secondo dopoguerra, in seguito all’evoluzione tecnologica e informatica della comunicazione. La tesi centrale dell’estetica informazionale afferma la possibilità di misurare e quantificare (in termini essenzialmente numerici) qualunque evento estetico. Le forme artistiche non sono fenomeni veicolati alla

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coscienza percettiva in compatta unità di senso, bensì, secondo un modello offerto appunto dalla teoria dell’informazione, messaggi passibili di essere scomposti in elementi semplici trasmessi da un individuo o un gruppo a un altro individuo o gruppo sociale, attraverso la mediazione di un canale di trasmissione specifico. Tale successione discreta di segni, in quanto peculiare articolazione informazionale, influisce sulla propria interpretazione contestuale. L’estetica informazionale sgombra il campo da ogni possibilità di fondare metafisicamente una definizione del bello: al contrario la bellezza riceve una caratterizzazione statistica, suscettibile di matematizzazione e di verifiche sperimentali concernenti la relazione esistente fra il messaggio costituito dall’opera d’arte e le modalità di ricezione del fruitore. Grande rilevanza assume così, nell’estetica informazionale, la dimensione sociale della comunicazione artistica: il valore estetico di un messaggio dipende direttamente dal grado di complessità o banalità che comporta per un soggetto determinato in quanto appartenente a un gruppo sociale che, implicitamente, ne determina la capacità di ricevere il messaggio, d’interpretarlo correttamente e di riconoscervi un valore estetico. Quest’ultimo, ridotto sul piano semantico, risulta computabile in proporzione all’improbabilità dell’informazione trasmessa. Benché ancora oggi presente nel dibattito circa il rapporto fra arte, tecnologia e società dell’informazione, il merito dell’estetica informazionale è stato quello, in definitiva storicamente circoscritto, di rilevare implicitamente l’originalità dell’arte numerica, insistendo sugli aspetti casuali e imprevedibili, combinatori e ludici messi in atto dalla contaminazione della prassi artistica con i sistemi informatici, nonché sul ruolo e il significato delle creazioni informatizzate all’interno della società dei consumi di massa. B. Zaccarello BIBL.: R. GUNZENHÄUSER, Ästhetisches Maß und ästhetische Information, Quickborn 1962; M. BENSE, Aesthetica, Baden 19652, tr. it. di G. Anceschi, Estetica, Milano 1974; M. BENSE, Einführung in die informationstheorische Ästhetik, Baden-Baden 1969; R. ARNHEIM, Entropy and Art, Berkeley 1971, tr. it. di R. Pedio, Entropia e arte. Saggio sul disordine e l’ordine, Torino 2001; U. VOLLI (a cura di), La scienza e l’arte. Nuove metodologie di ricerca scientifica sui fenomeni estetici, Milano 1972; A. MOLES, Teoria dell’informazione e percezione estetica, Torino 1974; H.W. FRANKE, Kyberneti-

Estetica marxista sche Ästhetik. Phänomen Kunst, München 1979; P. EMANUELE, La Microestetica, Roma 1980; L. JULLIER, Les images de synthèse: de la technologie à l’esthétique, Paris 1993; F. POPPER, From Technological to Virtual Art, Cambridge (Massachusset) 2005.

ESTETICA MARXISTA (marxist aesthetics; Estetica marxista marxistische Ästhetik; esthétique marxiste; estética marxista). – Secondo il materialismo storico marxista, l’arte, insieme alle altre produzioni intellettuali, rientra nella categoria delle «sovrastrutture», ovvero si presenta come un riflesso dialettico (eventualmente anche critico) della base materiale e sociale della storia (la «struttura»). In questo senso l’unica vera arte, secondo Karl Marx e Friedrich Engels, è sempre stata il realismo (Eschilo, Dante Alighieri, William Shakespeare, Honoré de Balzac) inteso come rispecchiamento della vita sociale e delle sue lotte e come tipizzazione dei suoi protagonisti. Nella futura società comunista invece ogni attività umana, caduta la divisione del lavoro, avverrà nel segno della spontaneità e dell’originalità, caratteri oggi erroneamente attribuiti al solo artista (Deutsche Ideologie, 1845-46). Nell’ambito del marxismo-leninismo sovietico l’esaltazione del realismo si trasforma nell’idea (sostenuta da Lenin in un articolo del 1905) del carattere ideologico dell’arte e della letteratura, ossia della loro necessaria fedeltà alla causa del proletariato e alle direttive del partito comunista. Questa tesi serve da fondamento alla definizione del «realismo socialista», formulata da Maksim Gor’kij nel 1934 al primo congresso degli scrittori sovietici, la quale di fatto impone il socialismo come unico contenuto artistico possibile: tra i maggiori esponenti di questa corrente figurano Fëdor V. Gladkov e Michail A. Šolochov (chi non si uniformò fu messo a tacere o eliminato, tanto che al secondo congresso, nel 1954, poterono partecipare solo cinquanta dei settecento scrittori presenti al primo). Il massimo contributo all’estetica marxista si deve all’ungherese György Lukács, il cui pensiero, partito da posizioni vicine al neokantismo e alla nascente avanguardia, assume a partire dal 1923 (Geschichte und Klassenbewusstsein) tratti tipicamente marxisti. Il principio fondamentale della sua teoria estetica (Über die Besonderheit als Kategorie der Ästhetik, 195456; Die Eigenart des Ästhetischen, 1963) è quello del «rispecchiamento»: l’arte non è copia della realtà né è il semplice effetto delle sue struttu3749

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Estetica mediale re socio-economiche, è bensì riproduzione dei singoli fenomeni nel loro significato universale. Ogni vera opera d’arte è specchio di un mondo, lascia intravedere il senso e i valori di un’epoca e ha carattere inevitabilmente «partitico» in quanto giudica quel mondo da un determinato punto di vista: la sola grande arte è allora il realismo, da Balzac a Thomas Mann, riflesso narrativo e dialettico dei conflitti interni ai diversi ordini sociali. In Italia Galvano Della Volpe (Critica del gusto, 1960) formula un’«estetica materialistica» basata su un’indagine in chiave storica e linguistica della produzione artistica, mentre Antonio Banfi tenta di conciliare istanze fenomenologiche e marxismo (Filosofia dell’arte, postumo 1962). In un rapporto più complesso con il marxismo si pongono l’estetica di Walter Benjamin, attento a sottolineare il carattere alienante ed insieme emancipatorio della modernità e interprete delle trasformazioni dell’arte nella società industriale di massa (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936), e quella di Ernst Bloch, per il quale l’opera d’arte non è che anticipazione frammentaria di un mondo disalienato e presentimento di una verità mai completamente svelabile (Geist der Utopie, 1918). In polemica con Lukács, Theodor W. Adorno sottolinea come l’arte, lungi dal porsi in continuità con la realtà storica, ne costituisce invece la più radicale messa in discussione, presentandosi come «negazione determinata» di una certa società (Ästhetische Theorie, postumo 1970). M. Rossi Monti BIBL.: H. ARVON, L’esthétique marxiste, Paris 1970; W. MICHEL, Marxistische Ästhetik: Ästhetischer Marxismus, Frankfurt am Main 1971, 3 voll.; A. SÁNCHEZ VÁSQUEZ, Art and Society: Essays in Marxist Aesthetics, New York 1973; G. BORGHELLO, Letteratura e marxismo, Bologna 1974; D. FAUCCI, L’estetica del marxismo, in AA.VV., Momenti e problemi di storia dell’estetica, Milano 1975, vol. IV, pp. 1733-1804; H. MARCUSE, The Aesthetic Dimension: Toward a Critique of Marxist Aesthetics, Boston 1978, tr. it. di I. Bagioli - T. Belotti L. Gatti, La dimensione estetica e altri scritti, Milano 2002; P. JOHNSON, Marxist Aesthetics: the Foundations Within Everyday Life for an Emancipated Consciousness, London 1984; G. MOSQUERA - D. CRAVEN - C. KATTAU, Meyer Schapiro, Marxist Aesthetics, and Abstract Art, in «Oxford Art Journal», 17 (1994), pp. 7680; C. BURNHAM, The Jamesonian Unconscious: the Aesthetics of Marxist Theory, Durham 1995. ➨ ESTETICA; REALISMO; REALISMO SOCIALISTA; RISPECCHIAMENTO.

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ESTETICA MEDIALE (media aesthetics; MeEstetica mediale dienaesthetik; esthétique des arts médiatiques; estética mediale). – Studio dell’impatto esercitato sull’arte e più in generale sulle modalità della percezione dai nuovi mezzi di comunicazione nel contesto della trasformazione sociale propria dell’età dei media. Il saggio di Walter Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Frankfurt am Main 1955 (1936), tr. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, può essere considerato il testo inaugurale di una linea critica che mira a mettere in luce come lo specifico estetico dell’opera d’arte non sia un fattore avulso dalle condizioni tecniche della sua realizzazione e circolazione né dalle modalità dello scambio sociale che le soggiace. La neutralità dell’atteggiamento di Benjamin ha lasciato il posto a posizioni più radicali nel giudizio di merito portato all’interazione tra media e arte nei tempi molto più recenti in cui l’avvento di un’ulteriore gamma di supporti mediali ha determinato una forte ripresa delle tematiche in questione. Così l’estetica mediale francese si è per lo più concentrata in ambito sociologico, facendo eco alle posizioni di Jean Baudrillard che è arrivato a preconizzare addirittura una «sparizione dell’arte», essendo quest’ultima destinata ad essere travolta dal «transestetico», regno dell’immagine illusoriamente trasparente: l’eccesso di precisione e di informazione, la troppa visibilità, insomma, toglierebbero ogni mistero alla visione, e illudendo nel creare un mondo-simulacro, farebbero tramontare il potere creativo e incantatorio dell’illusione connessa all’immaginazione. Di tutt’altro avviso la scuola canadese, che, pur erede delle pionieristiche teorizzazioni di Marshall Mc Luhan, attento critico del «media boom», ha messo in rilievo in particolare con Derrik de Kerchove le nuove potenzialità che le tecnologie dell’elettronica mettono al servizio del soggetto contemporaneo, fornendo modelli innovativi al pensiero, grazie all’introduzione di paradigmi non visivi e non linguistici della percezione, dell’espressione e della comunicazione. In entrambi i casi, però, quello che emerge è il riconoscimento dell’arte sia come luogo di distanza cosciente rispetto all’evoluzione tecnologica e al suo impatto sui modi del vivere (si pensi anche alla media art di Nam Juine Paik, Richard Serra e più tardi di Bill Viola), sia come espressione cosciente di quelle alterazioni della percezione ordinaria che

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conseguono dalle mutazioni sociali e tecnologiche dell’epoca contemporanea. B. Zaccarello BIBL.: G. DEBORD, La société du spectacle, Paris 1967, tr. it. di P. Salvadori e F. Vasarri, La società dello spettacolo, Milano 2004; J. BAUDRILLARD, De la sèduction, Paris 1979; L’autre par lui-même. Habilitation, Paris 1987; La sparizione dell’arte, ed. it. a cura di E. Grazioli, Milano 1998; M. COSTA, L’estetica dei media, Lecce 1990; D. DE KERCHOVE, Brainframes: Technology, Mind and Business, Baarn 1991, tr. it. a cura di B. Bassi, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, Bologna 1993; H. RHEINGOLD, Virtual Reality, New York 1991, tr. it. di V. Saggini, La realtà virtuale, Bologna 1993; T. MALDONADO, Reale e virtuale, Milano 1992; F. POPPER, Art of the Electronic Age, London 1993; M. COSTA - P. GINSBORG, Nuovi Media e sperimentazione d’artista, Napoli 1994; M. PERNIOLA, Il sex appeal dell’inorganico, Torino 1994; P. LÉVY, Qu’est-ce que le virtuel?, Paris 1995, tr. it. di M. Colo e M. Di Sopra, Il virtuale, Milano 2003; L. POISSANT (a cura di), Esthétique des arts médiatiques, Montreal 1995; P. LÉVY, Cyberculture, Paris 1997, tr. it. di D. Feroldi, Cybercultura, Milano 2001; H.P. SCHWARTZ, Media-Art-History, München - New York 1997; M. RUSH, New Media in Late 20th-century Art, London 1999; L. SACCO, Estetica Mediale, Milano 2004. ➨ ARTE; PERCEZIONE; TECNICA; TECNOLOGIA; VIRTUALE, ESTETICA DEL.

ESTETICA ORIENTALE (oriental aesthetics; Estetica orientale orientalische Ästhetik; esthétique orientale; estética oriental) . – Le principali forme di estetica orientale sono quella cinese, giapponese, indiana e persiana. SOMMARIO: I. Estetica cinese. - II. Estetica giapponese. - III. Estetica indiana. - IV. Estetica persiana. I. ESTETICA CINESE. – Legata alla concezione taoista della polarità delle forze cosmiche – lo Yang o principio maschile e lo Yin o principio femminile – essa impone all’arte di esprimere il loro equilibrio, che si caratterizza come ordine fluido e asimmetrico, chiamato Li, realizzandosi nella pittura taoista tramandata dal buddismo zen come un’estetica del paesaggio dominato dalla montagna e dalla cascata: attraverso il ritmo incessante dell’acqua che cade dal monte il pittore realizza l’incontro tra l’attività immutabile dello Yang e la passività dinamica dello Yin, cogliendo l’essenza inesprimibile in cui i due principi coesistono. II. ESTETICA GIAPPONESE. – Si fonda sul concetto di Gei (arte), che si articola in Gei-no, Gei-do e Gei-jutsu. Il Gei-no o arte teatrale trova il suo

Estetica orientale termine chiave nel concetto di yugen (grazia) che, nell’interpretazione buddhista dell’universo, indica lo spazio originario di una realtà non ancora articolata e lo stile del nulla assoluto in cui l’attore, raggiunta la radice delle cose (il vuoto), porta ad apparizione le forme visibili attraverso la stilizzazione minimalista delle movenze. Il Gei-do – articolato in Sa-do (via del tè), Ka-do (via della poesia), ka-do (via dei fiori, legata all’arte dell’ikebana) e Sho-do (via della scrittura o calligrafia) – si qualifica come estetica della vita: suo scopo non è realizzare particolari prodotti ma unire l’uomo all’essenza del cosmo, indirizzando la sua azione verso un ordine più alto. Esso comprende anche alcune arti del corpo come il tiro con l’arco, la scherma, lo ju-do ecc. Il Gei-jutsu, introdotto nel 1868-1912, corrisponde invece al concetto occidentale di opera d’arte. III. ESTETICA INDIANA. – Suo termine chiave è il raza che, nella metafisica del Vedanta legata alle Upanishad, indica l’assaporamento della bellezza ideale indistinguibile dall’intelligenza divina: l’esperienza del bello è un’attività spirituale raggiungibile con una disciplina interiore volta a distogliere l’attenzione dai fenomeni esterni e a rimuovere gli ostacoli mentali e affettivi che ad essi ci legano. Essa si connette in poesia al concetto di dhvani (suono), che qualifica il raggiungimento del raza come un effetto di risonanza suscitato dalla capacità suggestiva della parola. IV. ESTETICA PERSIANA. – Suo concetto fondamentale è l’immaginazione o mondo immaginale che, secondo la tradizione neoplatonica di as-Suhrawardi (XII secolo) poi ripresa dal sufismo di Ibn’ Arabi (XII-XIII secolo), costituisce la potenza mediatrice tra sensibile e intelligibile, in quanto facoltà formatrice di corpi sottili che, nella loro essenza, sono forme teofaniche. Sede delle visioni mistiche e profetiche, l’immaginazione è alla radice degli atti simbolici della poesia e dell’arte: suo compito è liberare le particelle di luce divina rimaste prigioniere nella materia e delineare un paesaggio visionario immerso nella luce pura del divino, esemplificato dallo sfondo sfavillante della miniatura persiana. C. Cantelli BIBL.: Sull’estetica cinese: A. COOMARASWAMY, Christian and Oriental Philosophy of Art, New York 1956, tr. it. a cura di G. Marchianò, La filosofia dell’arte cristiana e orientale, Milano 2005; I.M. SULLIVAN, The Birth of Landscape Painting in China, London 1962; S.

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Estetica positivista BUSH - C. MURK (a cura di), Theories of the Art in China, Princeton 1983; L. ZEHOU, The Path of Beauty, Beijing 1988, tr. it. di A. Crisma, La via della bellezza, Torino 2004; H.-G. SCHWARZ, Orient-Okzident. Der orientalische Teppich in der westlichen Literatur, Ästhetik und Kunst, München 1989; G. MARCHIANÒ (a cura di), Estetica e modernismo in Cina, Soveria Mannelli 1993; K.K. INADA, A Theory of Oriental Aesthetics: a Prolegomenon, in «Philosophy East and West», 47 (1997), 2, pp. 117-131; E. ZOLLA, La filosofia perenne. L’incontro fra le tradizioni d’Oriente e d’Occidente, Milano 1999; H.-G. SCHWARZ, Der Orient und die Ästhetik der Moderne, München 2003. Sull’estetica giapponese: K. SINGER, Spiegel, Schwert und Edelstein. Strukturen japanischen Lebens, Frankfurt am Main 1991; L. BRÜLL, Die japanische Philosophie, Darmstadt 1993. Sull’estetica indiana: S.K. DE, Sanskrit Poetics as a Study of Aesthetic, Berkeley - Los Angeles 1963; A.C. SUKLA, The Concept of Imitation in Greek and Indian Aesthetics, Calcutta 1977. Sull’estetica persiana: A.U. POPE, A Survey of Persian Art, London 1939; H. CORBIN, L’imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn’ Arabi, Paris 1958; B. GREY, Le peinture persane, Genève 1961; H. CORBIN, Corps spirituel et terre céleste, Paris 1979.

ESTETICA POSITIVISTA (positivistic aestheEstetica positivista tics; positivistische Ästhetik; esthétique positiviste; estética positivista). – L’estetica sviluppatasi in età positivistica (seconda metà del XIX secolo) privilegia in opposizione al romanticismo un approccio di tipo scientifico e analitico al fenomeno artistico. Ispirandosi al metodo seguito dalle cosiddette scienze «esatte», l’indagine estetica si concentra sulle opere intese come «fatti», ovvero come testimonianze storiche, culturali, antropologiche da esaminare distaccatamente e spassionatamente: ne nasce una «sociologia dell’arte» che, se da un lato toglie all’arte il primato veritativo assegnatole in età romantica, dall’altro apre la strada a innovative ricerche comparative e interdisciplinari (rapporto fra le varie arti, fra l’arte e le altre attività umane, importanza del pubblico ecc.). Talvolta ciò si traduce però in un’interpretazione ingenuamente deterministica del fatto artistico, ridotto a semplice effetto di leggi causali o biologiche. Il maggior esponente dell’estetica sociologica è Hippolyte Taine, secondo il quale la «scienza dell’arte», come ogni altra scienza, non deve emettere giudizi, ma solo constatare e spiegare i fenomeni artistici dando a tutti lo stesso valore e individuando le leggi costanti del loro 3752

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apparire. Le opere d’arte nascono e si sviluppano in un contesto storico che è come il loro ambiente naturale (il milieu): la temperie spirituale di un’epoca e di un popolo agisce sugli artisti e li influenza allo stesso modo in cui il clima agisce sui viventi determinandone la sorte in base al principio della selezione naturale (Philosophie de l’art, Paris 1881, tr. it. parziale a cura di O. Settineri, Filosofia dell’arte, Milano 2001). Secondo Auguste Comte invece l’arte deve contribuire al progresso dell’umanità e alla creazione di un migliore ordine sociale fondato sull’altruismo e sul culto dell’essere umano. Non molto lontano è il pensiero di John Stuart Mill, per il quale il compito dell’arte è indicare la possibilità di una felicità maggiore per gli uomini, la cui realizzazione è oggetto di valutazione della scienza (System of logic, London 1843, tr. it. a cura di M. Trinchero, Sistema di logica deduttiva e induttiva, Torino 1996). Tipicamente positivista è anche la tendenza a spiegare le produzioni artistiche riportandole a fenomeni o leggi psicologiche e psicofisiche accertabili sperimentalmente: esemplari in questo senso le indagini di Wilhelm Wundt e l’opera di Theodor Fechner (Vorschule der Ästhetik, Leipzig 1871). Profondamente diversa ma pur sempre psicologica è l’estetica dell’«empatia», fondata da Theodor Lipps (Ästhetik, Hamburg 1903-06) e largamente ripresa in vari settori della cultura estranei al positivismo. Un rivoluzionario apporto alla psicologia dell’arte deriva poi dalla nascita della psicoanalisi, con l’opera di Sigmund Freud e Carl G. Jung, entrambi persuasi, al di là delle divergenze, della capacità dell’arte di rivelare le profondità della psiche. Il culto dell’oggettività e la concezione della bellezza come fondata sull’autoreferenzialità della forma e sul suo significato immanente – indipendentemente dal coinvolgimento soggettivo e da rimandi estrinseci – sono tipici invece delle estetiche formalistiche: la bellezza musicale, secondo Eduard Hanslick (Vom Musikalisch-Schönen, Leipzig 1854, tr. it. a cura di L. Distaso, Il bello musicale, Palermo 2001), risiede solo nella sua forma e nelle sue strutture, non nel sentimento di chi ascolta; la pittura, secondo Konrad Fiedler (Schriften über Kunst, München 1913-14, tr. it. parziale di C. Sgorlon, L’attività artistica: tre saggi di estetica e teoria della pura visibilità, Venezia 1963, e di R. Rossanda, Aforismi sull’arte, Milano 1994), non

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fa che esprimere come contenuto la sua libera capacità di formare; il piacere estetico, sostiene Robert Zimmermann (Ästhetik, Wien 185865) non deriva da dati contenutistici o soggettivi, bensì dai rapporti formali e quantitativi insiti nella bellezza. M. Rossi Monti BIBL.: C. CHERFILS, L’esthétique positiviste, Paris 1909; T.M. MOUSTOXIDI, Les systèmes esthétiques en France (1700-1890), Paris 1918; H.A. NEEDHAM, Le développement de l’esthétique sociologique en France et en Angleterre au XIX siècle, Paris 1926; M BITES-PALEVITCH, Essai sur les tendances critiques et scientifiques de l’esthétique allemande contemporaine, Paris 1926; AA.VV., L’art et la pensée, n. mon. «Journal de Psychologie» (1926); D.A. STEWART, Preface to Empathy, New York 1956; R. FAYOLLE, La critique littéraire, Paris 1964; M. PODRO, The Manifold in Perception: Theories of Art from Kant to Hildebrand, Oxford 1972; A. PAGNINI, Psicoanalisi ed estetica, Firenze 1975; A. MANESCO, La riflessione estetica nel positivismo, in M. DUFRENNE - D. FORMAGGIO, Trattato di estetica, Milano 1981, 2 voll., vol. I, pp. 259-283; L. PIZZO RUSSO (a cura di), Estetica e psicologia, Palermo 1982; E. SCOLARI, Quattro studi sull’estetica del positivismo, Modena 1984; E. FRANZINI, L’estetica francese del ’900: analisi delle teorie, Milano 1984; D. DRUDI, Sogni di spiriti esatti. Percorsi nell’estetica del positivismo, Taine Guyau Zola, Firenze 1995; F. VERCELLONE, L’estetica dell’Ottocento, Bologna 1999; M. DONZELLI, Auguste Comte e il genio estetico italiano, in B. RAZZOTTI (a cura di), Filosofia, storiografia, letteratura. Storia in onore di Mario Agrimi, Lanciano 2001, pp. 185-205; J.P. COMETTI, L’esthétique positiviste: un Dictionnaire des idées reçues?, in AA.VV., Auguste Comte aujourd’hui, «Actes du colloque de Cerisy, 3-10 Juillet 2001», Paris 2003.

ESTETICA PSICOANALITICA (psychoaEstetica psicoanalitica nalytic aesthetics; psychoanalytische Ästhetik; esthétique psychanalytique; estética psicoanalítica) . – La prima sintesi programmatica di un’estetica psicoanalitica trova stesura nel saggio freudiano del 1907 Der Dichter und das Phantasieren (in Psychoanalytische Studien an Werken der Dichtung und Kunst, Wien 1924, pp. 3-14, tr. it. a cura di C.L. Musatti, Il poeta e la fantasia, in Opere, Torino 1972, vol. V, pp. 373383), la cui pubblicazione apre per il nascente movimento psicoanalitico una fase di capitale importanza, influenzando le ricerche di Carl G. Jung, Franz Riklin, Karl Abraham, Otto Rank, Ernest Jones e Sándor Ferenczi. In realtà già in Die Traumdeutung (Leipzig 1900, tr. it. a cura di D. Moro, L’interpretazione dei sogni, Firenze

Estetica psicoanalitica 2003) è possibile reperire il modello basilare a partire dal quale viene orientandosi la decodificazione psicoanalitica dei fenomeni artistici. L’analogia tra «lavoro» del sogno e «lavoro» dell’arte consentirebbe infatti un incontro di estetica e psicoanalisi sul terreno dell’interpretazione, ove questa venga intesa in quanto opera di smascheramento e di riduzione delle costruzioni difensive atte a rendere illeggibile il testo originale del desiderio. Sia dal punto di vista strutturale, sia da quello funzionale, la creazione artistica – tramite la mediazione del concetto di «fantasia» – risulterebbe più generalmente assimilabile alle formazioni oniriche, termine di un processo dinamico di rimaneggiamento dei nuclei tematici originari secondo le leggi che presiedono alla produzione di un «contenuto manifesto». Il punto di giunzione tra le ricerche in ambito onirico e l’investigazione estetica è costituito dalle indagini confluenti nel saggio Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten (Leipzig 1905, tr. it. a cura di F. Orlando, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, Torino 1998), in cui il motto di spirito – opera in miniatura governata dai meccanismi basilari del sogno – viene posto al servizio di uno «scarico» della tensione psichica da Freud identificato con il fattore determinante della produzione di piacere. Nella sua configurazione programmatica, l’estetica freudiana si palesa caratterizzata da un tratto marcatamente edonistico, identificando il ruolo funzionale dell’effetto estetico nell’innesco che prelude alla liberazione di piacere proveniente da «fonti profonde». Trasformando le proprie fantasie in oggetto di contemplazione estetica – processo che coinvolge da un lato una dissimulazione dei contenuti offensivi, dall’altro una seduzione operata sul piano formale – l’artista mette in opera una trasfigurazione di elementi altrimenti inaccettabili, rendendone così possibile una fruizione generalizzata. Il succinto manifesto del 1907 contiene in nuce tutte le linee direttrici dell’indagine psicoanalitica in campo estetico: l’indirizzo patografico, esemplificato magistralmente in Eine Kindheitserinnerung des Leonardo da Vinci (Leipzig 1910, tr. it. di E. Luserna, Leonardo: 1910, Torino 2000, nel quale trova applicazione il concetto di «sublimazione»); la decodificazione analitica dell’opera in quanto cristallizzazione di un processo dinamico, il cui prototipo è il Der Moses des Michelangelo del 1913 (in Psychoanalytische Studien, cit., tr. it. di 3753

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Estetica sperimentale S. Daniele, Il Mosè di Michelangelo: 1913, Torino 1991); il rinvenimento dei meccanismi che presiedono alla ricezione estetica e agli effetti ad essa connessi – il piacere nei suoi aspetti compositi, ma anche i fenomeni analizzati nel saggio Das Unheimliche (Leipzig 1919, tr. it. a cura di C.L. Musatti, Il perturbante, Roma 1993). L’eredità forse più interessante dell’estetica freudiana è però rappresentata dall’oltrepassamento della sua configurazione edonistica, già implicito nelle sue premesse teoriche e mediato dal riconoscimento dell’esistenza di pulsioni distruttive. Facendo propri tali motivi, Melanie Klein e i kleiniani Hanna Segal, Adrian Stokes e Donald Meltzer individuano nella bellezza artistica il risultato di processi di «riparazione» degli oggetti distrutti da tali pulsioni (in tale direzione può sostanzialmente venir collocato anche il contributo di Donald W. Winnicott). Criticando l’estetica psicoanalitica per la sua vocazione riduzionistica, Jung ravvisa invece nell’opera d’arte simbolica un punto di contatto tra i differenti ritmi temporali della sfera cosciente e dell’inconscio collettivo, sottolineandone altresì la valenza inaugurale e la costitutiva inesauribilità semantica. Tra gli studiosi che più hanno contribuito allo sviluppo di un’estetica psicoanalitica ricordiamo ancora Ignacio Matte Blanco, Ernst Kris, Richard Wollheim, André Green, Franco Fornari, Francesco Orlando, Jean-F. Lyotard, Julia Kristeva. A. Croce BIBL.: E. KRIS, Psychoanalytic Explorations in Art, New York 1952, tr. it. di E. Fachinelli, Ricerche psicoanalitiche sull’arte, Torino 1988; P. RICOEUR, De l’interpretation: essai sur Freud, Paris 1965, tr. it. di E. Renzi, Della interpretazione: saggio su Freud, Milano 2002; J.J. SPECTOR, The Aesthetics of Freud: a Study in Psychoanalysis and Art, London 1972, tr. it. di M. Graffi, L’estetica di Freud, Milano 1977; R. BODEI (a cura di), Letteratura e psicoanalisi, Bologna 1974; A. PAGNINI, Psicoanalisi ed estetica, Firenze 1975; F. FORNARI, Cinema e icona: nuova proposta per la psicoanalisi dell’arte, Milano 1979; L. RUSSO, La nascita dell’estetica di Freud, Bologna 1983; S. FERRARI, Psicoanalisi arte e letteratura: bibliografia generale: 19001983, Parma 1985; M. LAVAGETTO, Freud, la letteratura e altro, Torino 1985; E.H. SPITZ, Art and Psyche: a Study in Psychoanalysis and Aesthetics, London 1985, tr. it. di F. Bassan - M. Zuccari, Arte e psiche: fenomenologia della creativita da Leonardo a Magritte, Roma 1993; F. SALZA, La tentazione estetica: Jung, l’arte, la letteratura, Roma 1987; AA.VV., Jung. La tensione del

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simbolo, in «Aut-Aut», 229-230 (1989), fasc. doppio dedicato a Jung, 296 pp.; F. SALZA, La fanciulla e l’eroe. Estetica e mito in Freud, Roma 1994; S. FERRARI, Lineamenti di una psicologia dell’arte, Bologna 1999; E.H. GOMBRICH, Freud e la psicologia dell’arte, ed. it. a cura di F. Moronti - C. Roatta - A. Bovero, Torino 2001; S. GOSSO (a cura di), Psicoanalisi e arte, Milano 2001; R. SICURELLI, Elementi di psicoanalisi dell’arte: Freud e la creatività artistica, Treviso 2003.

ESTETICA SPERIMENTALE (experimental Estetica sperimentale aesthetics; Experimentalästhetik; esthétique expérimentale; estética experimental). – A differenza dell’estetica filosofica, consiste nello studio sperimentale condotto in laboratorio delle reazioni suscitate dalle varie espressioni artistiche, come il bello, il sublime, il tragico, il comico, il patetico. Il suo fondatore, G. Theodor Fechner, in varie opere pubblicate tra il 1871 e il 1876, tra le quali la più importante è Vorschule der Ästhetik (Leipzig 1876), auspicò un’estetica a base sperimentale per integrare quella filosofica. Infatti, mentre questa parte da premesse universali per scendere ai particolari, l’estetica sperimentale dovrebbe studiare fatti e reazioni particolari e da questi risalire induttivamente fino a principi dotati di validità universale (leggi dell’estetica). Tale mandato è stato raccolto dall’estetica francese contemporanea che, pur avendo in Fechner il suo fondatore, ha trovato sviluppi nel pensiero di Charles Henry, Charles Lalo, Jean-M. Guyau, Gabriel Séailles, Maurice Griveau e Victor Basch, che però non ne condividono la veste matematizzante e le finalità psicofisiche (l’influsso di Fechner è stato più evidente nelle estetiche psicofisiologiche anglosassoni). A. Stopper - K. Rossi BIBL.: CH. LALO, L’esthétique expérimentale contemporaine, Paris 1908; E. GALLI, L’estetica e i suoi problemi, Napoli 1936; E. GALLI, La psicologia come base dell’estetica, in «Deuxième Congrès international d’esthétique et de science de Part», Paris 1937; E. GALLI, L’azione delle tendenze nel fenomeno estetico, in «Rivista di psicologia», 2 (1937); A.R. CHANDLER E.N. BARNHART, A Bibliography of Psychological and Experimental Aesthetics 1864-1937, Berkeley 1938; G. RÉVÉSZ, Einführung in die Musikpsychologie, Bern 1946, tr. it. di B. Callieri, Psicologia della musica, Firenze 1954; D. KATZ - R. KATZ (a cura di), Handbuch der Psychologie, Basel 1951, tr. it. di B. Callieri, Trattato di psicologia, Torino 1960, pp. 397-410; M. BENSE, Aesthetica, Stuttgart 1954, tr. it. di G. Anceschi, Estetica, Milano 1974; D. HUISMAN, Pour une esthétique de laboratoire, in «Revue générale des Sciences»,

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(1954); P. FRAISSE, Les structures rythmiques, Louvain 1956, pp. 104-119; J.P. WEBER, La psychologie de Part, Paris 1958; A.A. MOLES, L’esthétique expérimentale dans la nouvelle société de consommation, in «Sciences de l’art», 3 (1966), pp. 23-30; R. FRANCES, Psychologie de l’esthétique, Paris 1968; G. OLÉRON (a cura di), Psychologie expérimentale et comparée, Paris 1977; R. BOUVERESSE, L’esthétique expérimentale, Paris 1999.

ESTETICA STRUTTURALISTA (structuraEstetica strutturalista list aesthetics; strukturalistische Ästhetik; esthétique structuraliste; estética estructuralista). – Sviluppatosi dapprima in ambito sociologico, poi consacrato in linguistica dagli studi di Ferdinand de Saussure (Cours de linguistique Générale, Genève 1913, tr. it di T. De Mauro, Corso di linguistica generale, Roma 200519), il metodo strutturalista ha rapidamente trovato applicazione, a partire dagli anni venti, in tutte le discipline umanistiche. Già le formulazioni dei cosiddetti formalisti russi (soprattutto Roman Jakobson, poi fondatore del Circolo di Praga) partendo da presupposti linguistici, sfumano rapidamente in considerazioni a carattere letterario, sottolineando le interrelazioni tra linguistica ed estetica e spesso delineando una teoria della letteratura (è il caso del lavoro di Vladimir Propp sulla fiaba popolare). Ma è soprattutto la precisazione degli assiomi strutturalisti in termini semiologici, a consentire lo sviluppo di una vera e propria estetica strutturalista, intesa sia come impostazione della critica letteraria, sia addirittura, nel senso di un orientamento strutturalista della produzione artistica (soprattutto in una seconda fase dello strutturalismo, dal momento cioè in cui il cosiddetto «modello linguistico» s’impone progressivamente nel panorama culturale dell’epoca, grazie anche all’importante eco che ebbe in Francia l’antropologia di Claude Lévy-Strauss). La ragione del facile transito del metodo strutturalista da un campo di applicazione a un altro è da ricercarsi nei suoi stessi assunti, ovvero nella postulazione dell’esistenza di una struttura soggiacente a tutte le manifestazioni sociali, culturali, linguistiche: ciò che si presuppone è un sistema coerente delle modalità di funzionamento delle prassi collettive, che operi sia come principio regolatore sia come matrice produttiva. In altri termini, l’idea di Saussure secondo cui la langue è un insieme di segni consistente e autocontenentesi, articolata da norme interne condivise da tutti i lin-

Estetica trascendentale guaggi, non solo induce al tentativo di individuare tali strutture comuni, ma offre la possibilità di interpretare ogni manifestazione comportamentale e perfino psicologica (Jacques Lacan) nei termini di un sistema linguistico, alla ricerca di una grammatica immanente, desumibile dagli usi linguistici e dal consenso ad essi implicito. In ambito estetico, tale approccio consente di interpretare le opere d’arte come sistemi di segni che, indirizzati a un pubblico, ne sollecitino risposta con modalità ricorrenti e osservabili. Doppio è il possibile oggetto dell’estetica strutturalista: da una parte l’analisi della struttura interna delle singole opere, intese come configurazioni retoriche e stilistiche, che mira a eclissare il concetto d’intenzione d’autore (Roland Barthes); dall’altra l’investigazione delle strutture che regolano la circolazione e la ricezione dell’opera (si vedano in particolare gli studi di Julia Kristeva sulla nozione di intertestualità, e di Umberto Eco sull’idea di un «labirinto» dei rimandi testuali). B. Zaccarello BIBL.: R. BARTHES, S/Z, Paris 1970; L. ALTHUSSER, Lénine et la Philosophie, Paris 1972; J. CULLER, Structuralistic Poetry: Structuralisme, Linfuistic, and the Study of Letterature, Ithaca (New York) 1975; R. JAKOBSON, Saggi di Linguistica generale, Milano 1966; P. MACHEREY, Pour une théorie de la production littéraire, Paris 1966; U. ECO, La struttura assente, Milano 1968; D.W. FOKKEMA - E. KUNNE-IBSCH, Theories of Literature in the Twentieth Century: Structuralism, Marxism, Aesthetics of Reception, Semiotics, London 1977, tr. it. Teorie della letteratura del ventesimo secolo. Strutturalismo, marxismo, estetica della ricezione, semiotica, Roma-Bari 1981; J.M. BENOST, La Révolution structurale, Paris 1980; F. DOSSE, Histoire du Structuralisme, Paris 1980; J. KRISTEVA, Le Langage, cet inconnu, Paris 1981; C. LÉVY-STRAUSS, Paroles données, Paris 1984; L. JACKSON, The Poverty of Structuralism: Literature and Structuralistic Theory, London 1991; V. PROPP, Morfologia della Fiaba, Torino 2000.

ESTETICA TRASCENDENTALE (transcenEstetica trascendentale dental aesthetic; transzendentale Ästhetik; esthétique transcendantale; estética trascendental). – Con questa espressione nella Critica della ragione pura Kant designa la teoria dei principi a priori della sensibilità (Estetica trascendentale, § 1). La trattazione di tali principi, che sono lo spazio e il tempo, costituisce la prima parte della Dottrina trascendentale degli elementi. Il termine estetica è dunque usato nella prima Critica nel significato di dottrina del senso, o, 3755

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Estetiche più esattamente, di dottrina dell’intuizione sensibile, non quello di teoria del gusto estetico: è anzi esplicitamente esclusa la possibilità di identificare, secondo l’esempio di Baumgarten, le due teorie, sembrando a Kant che l’intuizione sensibile riposi su principi a priori, cioè universali e necessari, mentre il giudizio di gusto sia, almeno fondamentalmente (cfr. la nota di Kant al citato § 1 nella seconda edizione [1787] della Critica della ragione pura), di natura soggettiva ed empirica. Alla dottrina della idealità trascendentale dello spazio e del tempo Kant pervenne nell’anno 1769, e tale dottrina espose per la prima volta nella dissertazione del 1770, De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (cfr. la sezione III: De principiis formae mundi sensibilis). Già altri scritti anteriori, tra loro notevolmente distanziati nel tempo (Pensieri sulla vera estimazione delle forze vive, 1747; Monadologia physica, 1756; Sul primo fondamento delle regioni nello spazio, 1768), testimoniano il lungo travaglio di Kant intorno al problema dello spazio (che gli si offre, fondamentalmente, in connessione con i problemi della geometria e della fisica) e il suo alterno oscillare tra la concezione newtoniana e la concezione leibniziana. In forza dell’analogia con le categorie dell’intelletto, si sarebbe indotti a supporre che spazio e tempo fossero da Kant pensati e presentati come pure forme o condizioni trascendentali, aventi concreta realtà unicamente nella sintesi con un elemento di origine empirica; ma, di fatto, se tracce di una tale concezione non mancano né nella Dissertazione inaugurale né nell’Estetica e negli sparsi punti della Critica della ragione pura nei quali egli ritorna sul tema, spazio e tempo sono da Kant sostanzialmente presentati non tanto come semplici condizioni trascendentali, quanto piuttosto come intuizioni pure. Non dunque semplici forme e neppure concetti (cfr. Critica della ragione pura, Estetica trascendentale, § 2, nn. 3-4; § 4, nn. 3-4), ma intuizioni pure (cioè tali da esistere indipendentemente dall’esperienza), uniche (non gli spazi formano per giustapposizione lo spazio, ma nello spazio unico e universale si delimitano gli spazi: lo stesso dicasi per il tempo), infinite. Red. BIBL.: H. SCHOLZ, Das Vermächtnis der Kantischen Lehre vom Raum und Zeit, in «Kant-Studien», 29 (1924), pp. 21-69; P. ROHS, Transzendentale Ästhetik, Meisenheim 1973; S. MARCUCCI, Intelletto e intellettualismo nell’estetica di Kant, Ravenna 1976; R.A.

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SMYTH, Forms of Intuition. An Historical Introduction to the Transcendental Aesthetic, The Hague 1977; P. GAMBAZZI, Sensibilità, immaginazione, bellezza. Introduzione alla dimensione estetica nelle tre Critiche di Kant, Verona 1981; S. MARCUCCI, Kant e l’estetica, Lucca 1988; L. COZZOLI, Il significato della bellezza. Estetica e linguaggio in Kant, Modena 1991; P. GIORDANETTI, Il bello, Milano 2000.

ESTETICHE, Estetiche

CATEGORIE: V. CATEGORIE ESTETI-

CHE.

ESTETICI, GIUDIZI: V. GIUDIZI ESTETICI. Estetici ESTETICO, GIUDIZIO: V. GIUDIZIO ESTETICO. Estetico ESTETISMO (aestheticism; Ästhetizismus; Estetismo esthétisme; estetismo). – Fenomeno a un tempo di poetica letteraria e di costume, secondo il quale si considera generalmente l’arte come astratta dalla vita storica e sociale (l’arte pura, l’art pour l’art), oppure come sfera che assorbe al proprio interno e informa di sé l’intera vita (vita come arte, arte come vita). L’estetismo rappresenta quindi un fenomeno di evasione dalla realtà nella pura dottrina estetica e nella letteratura, e insieme un processo di invasione artistica ed estetizzazione diffusa della realtà e del costume; costituisce una concezione della vita sostenuta e concretamente vissuta da artisti e intellettuali nel tardo romanticismo e nell’epoca del cosiddetto decadentismo. L’estetismo si basa sulla considerazione dell’arte come attività suprema e spesso esclusiva dello spirito umano, sull’autonomia totale della sfera creativa e sul valore assoluto attribuito alla bellezza; questi presupposti comportano spesso trasgressioni e deroghe alla morale corrente da parte del poeta. Almeno tendenzialmente, nell’estetismo la forma dell’arte prevale e oscura i possibili contenuti (ribadendo perciò la distinzione forma-contenuto), attraverso un processo di autonomizzazione irrelata dell’elemento estetico formale; l’opera d’arte viene astratta da qualunque contesto e celebrata come forma bella, avvolta in un’atmosfera di superiore armonia spirituale, scissa dalla storicità e dall’insieme di vincoli a causa dei quali essa ha avuto luogo. Elementi estetistici si riconoscono nell’arte di molti letterati d’inizio Novecento (le cui posizioni andrebbero peraltro ben distinte): da Marcel Proust a Oscar Wilde, da Gabriele D’Annunzio a Andrè Gide. L’estetismo raccoglie

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suggestioni nella tarda cultura ottocentesca, a partire dall’esperienza che Baudelaire ha designato come «perdita dell’aura» da parte dell’opera; alla sconsacrazione dell’arte si reagisce con un atteggiamento edonistico, un esclusivo culto del bello cui sono posposti tutti gli altri valori. Altri precedenti si possono individuare nel movimento preraffaellita, fondato da Dante Gabriel Rossetti nel 1848 in Inghilterra, nella vita irregolare dei «poeti maledetti», nell’influsso di motivi tardo-romantici dei quali si privilegiano gli aspetti spesso più esteriori, in un volontario rifiuto di ogni concetto ai fini dell’espressione e spesso in una ricercata indifferenza morale. Nello stesso tempo si attribuisce però all’arte una funzione conoscitiva eccezionale, motivo che arriva fino a À la recherche du temps perdu (Paris 1954, 8 voll., tr. it. di G. Raboni, Alla ricerca del tempo perduto, Milano 1995, 8 voll.) di Proust. Il culto (spesso esasperato) della bellezza raffinata si osserva nella figura dell’«esteta»: come il giovane aristocratico Des Esseintes del romanzo À rebours (Paris 1884, tr. it. di U. Dettore, A ritroso, Milano 2004) di J.K. Huysmans; i protagonisti di Marius the Epicurean (London 1885, tr. it. di A. Rossatti, Mario l’epicureo, Milano 2001) e degli Imaginary Portraits (London 1890, tr. it. a cura di M. Praz, Ritratti immaginari, Milano 1994) del teorico inglese dell’estetismo, Walter Pater; il dandy del celebre The Picture of Dorian Gray (London 1913, tr. it. di U. Dettore, Il ritratto di Dorian Gray, Milano 2005) di O. Wilde; e, con minori pretese speculative, l’Andrea Sperelli del Piacere (Milano 1889) dannunziano. Un singolare sbocco mistico dell’estetismo, interno al problema dell’ammutolirsi del linguaggio, si osserva nel Lord Chandos di Ein Brief (in Sämtliche Werke, vol. XXXI, a cura di E. Ritter, Frankfurt am Main 1991, pp. 45-55, tr. it. di M. Vidusso Feriani, Lettera di Lord Chandos, Milano 19966) di H. von Hofmannsthal; infine, una penetrante critica filosofica dell’estetismo (inteso in senso ampio) si trova nell’opera Enten-Eller (in Skrifter, Kobenhavn 1997, voll. II e III, tr. it. a cura di A. Cortese, Enten-eller, Milano 1976-89, 5 voll.) di S. Kierkegaard, secondo il quale la «vita estetica» è essenzialmente disperazione. Il termine estetismo sottintende spesso una sfumatura negativa di giudizio su questa visione dell’arte come liberazione in una presunta sfera più armonica e sullo svuotamento della realtà da ogni forma d’impegno e di responsa-

Estimativa bilità; l’atteggiamento estetistico isola l’artista nel mondo separato della pura bellezza, sottraendolo alla morale borghese, ai gusti e ai valori della moltitudine, sorretto dalla consapevolezza che, come afferma O. Wilde, tutta l’arte è completamente inutile. S. Mati BIBL.: T.W. ADORNO, Kierkegaard. Konstruktion des Ästhetischen, Frankfurt am Main 1933, tr. it. di A. Burger Cori, Kierkegaard. La costruzione dell’estetico, Parma 1993; L. ANCESCHI, Autonomia ed eteronomia dell’arte, Firenze 1936; G. FERRETTI, L’estetismo, Palermo 1940; U. SPIRITO, La vita come arte, Firenze 1941; L. STEFANINI, La vita come arte?, in Arte e critica, Milano-Messina 1942; W. GAUNT, The Aesthetic Adventure, London 1945, tr. it. di L. Bianciardi, L’avventura estetica, Torino 1962; W. ISER, W. Pater. Die Autonomie des Ästhetischen, Tübingen 1960; N. RICHARD, Le mouvement décadent, Paris 1968; G.M. BERTIN, L’ideale estetico, Firenze 19742; R. BUBNER, Ästhetische Erfahrung, Frankfurt am Main 1989, tr. it. di M. Ferrando, Esperienza estetica, Torino 1992; W. WELSCH (a cura di), Aktualität des Ästhetischen, München 1993; G.H. BELL-VILLADA, Art for Arts Sake and Literary Life, London 1996; P. D’ANGELO, Estetismo, Bologna 2003; O. MARQUARD, Aesthetica und Anaesthetica, München 20032, tr. it. di G. Carchia, Estetica e anestetica, Bologna 1994.

ESTIMATIVA (estimative; Schätzungskraft; Estimativa estimative; estimativa). – Questa ed espressioni equivalenti furono già in uso presso i filosofi arabi come Alkindi, Avicenna e Averroè, che si occuparono di psicologia animale. Dagli arabi il concetto passò alla filosofia scolastica e venne chiamato vis, virtus, potentia, aestimativa naturalis, e se Alberto Magno, da un lato, insiste più sull’aspetto psicologico, Tommaso, dall’altro, su quello metafisico di esso. L’«estimativa» è, dunque, il termine classico presso gli arabi e gli scolastici per designare quella facoltà interna (detta anche sensus intentionalis) di cui dispongono gli animali, specialmente superiori, per apprendere tutto ciò che è utile o nocivo, conveniente o meno alla loro vita, e che corrisponde, più o meno, a quello che nella psicologia moderna vien chiamato istinto. Gli scolastici la definiscono: «sensus internus, quo animal in re externa per sensus externos apprehensa percipit intentiones insensatas seu id, quod neque sensibus externis neque sensu communi aut phantasia percipitur, id est nocivum et conveniens non sensibus, sed naturae individui aut speciei» (J. Gredt, Elementa philosophiae aristotelico-thomisticae, Frei3757

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Estrinseco / intrinseco burg i.B. 19377, n. 501). L’esperienza quotidiana ci mostra che gli animali sono capaci di apprezzamenti di valore concreto (intentiones insensatae). «L’animale – scrive Tommaso – ha invece necessità di ricercare o di fuggire alcune cose, non soltanto perché sono o non sono gradevoli alla sensazione, ma ancora per altre funzioni e utilità, oppure per certi nocumenti. Così la pecora vedendo venire il lupo, fugge, non perché le è sgradito il colore o la figura, ma perché suo nemico naturale; parimenti l’uccello raccoglie le pagliuzze non perché piacevoli ai sensi, ma perché utili a fare il nido. È dunque necessario che l’animale percepisca questi dati intenzionali che non cadono sotto i sensi esterni. E quindi bisogna che esista un principio operativo distinto di queste percezioni», diverso dal senso esterno, che percepisce solo la forma sensibile (Sum. theol., Ia, q. 78, a. 4): principio, quindi, che apprende le intentiones o valori concreti che incidono sulla conservazione della vita come tale, e che non sono rilevabili dalle sole qualità esteriori degli oggetti stessi: «[...] tali sono Socrate, il figlio di Diaris, un amico e altre cose del genere che direttamente e in genere sono conosciuti dall’intelletto, e in particolare sono conosciuti dalla cogitativa nell’uomo e dall’estimativa negli altri animali» (Sum. theol., III, Supplementum, q. 92, a. 2). Anche l’uomo è animale, e deve possedere le facoltà che gli permettano lo svolgimento della vita animale; essendo la sua animalità più perfetta, in quanto ordinata alla ragione, il suo istinto ha un carattere particolare e in luogo dell’estimativa possiede la cogitativa. L’estimativa è pertanto nell’animale il vertice della conoscenza in quanto lo informa e lo guida sulla condotta della propria vita. L’animale però «non può arrivare da sé ex novo alle apprensioni che hanno da regolare le condotte fondamentali; l’uomo, invece, lo può, raccogliendo, per mezzo dei confronti tra i contenuti degli oggetti, i valori che di fatto ha offerti l’esperienza passata» (C. Fabro, Percezione e pensiero, Brescia 19622, p. 155). «Si deve ancora notare che, riguardo alle percezioni dei sensi, non vi è differenza tra l’uomo e gli altri animali; analoghe infatti sono le trasmutazioni subite da parte degli oggetti sensibili esterni. Vi è differenza invece quanto ai dati intenzionali sopra ricordati: poiché gli altri animali li percepiscono solo per un certo istinto naturale, mentre l’uomo può arrivarci mediante una specie di ragionamento. Perciò quella poten3758

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za, che negli altri animali è chiamata estimativa naturale, nell’uomo viene detta cogitativa, poiché raggiunge queste immagini intenzionali mediate una specie di ragionamento» (Sum. theol., I, q. 78, a. 4). C.A. Graiff BIBL.: M THOMAS, La notion de l’instinct et ses bases scientifiques, Paris 1936; C. FABRO, Percezione e pensiero, Brescia 19622, pp. 154 ss.; V. MIANO, Psychologia metaphysica, Torino 1963, p. 109; S. VANNI ROVIGHI, Elementi di filosofia, Brescia 1963, vol. III, pp. 123124. ➨ COGITATIVA.

ESTRINSECO / INTRINSECO (extrinsic / Estrinseco / intrinseco intrinsic; äusserlich / innerlich; extrinsèque / intrinsèque; extrínseco / intrínseco). – Estrinseco è in generale ciò che non entra nella definizione o nella composizione di un essere; il suo opposto è intrinseco. Nella distinzione aristotelica delle quattro cause, vengono dette estrinseche quelle che si riferiscono a un principio distinto dal causato stesso, e tali sono la causa efficiente e finale; mentre gli altri principi, materia e forma, che intervengono a costituire l’essere materiale in sé, sono le cause intrinseche (Metaph., a, 2, 994 a - 995 a). Nella logica classica si dicono denominazioni intrinseche quegli attributi o predicati che determinano un soggetto per qualcosa che ne costituisce o qualifica l’essere in se stesso, mentre sono estrinseche le denominazioni che gli competono per rispetto ad altro. Red. ➨ CAUSA; DEFINIZIONE; DENOMINAZIONE.

ESTROVERSIONE / INTROVERSIONE Estroversione / introversione (extroversion / introversion; Extraversion / Intraversion; extraversion / introversion; extroversión / introversión). – Coppia di termini che Jung introduce per indicare il duplice orientamento della libido in quanto flusso continuo di energia psichica a carattere interpretativo-informativo, ma anche i relativi processi di progressione e di regressione che, nel loro stabilizzarsi, vengono a costituire due differenti tipi di atteggiamento umano: l’uno orientato verso il mondo esterno (tipo estroverso) e l’altro verso il mondo interno (tipo introverso). Componendo tali tipi di atteggiamento con le quattro funzioni psichiche fondamentali (pensiero, sentimento, sensazione e intuizione) che egli rin-

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traccia, Jung costituisce una specifica tipologia psicologica. Tale teorizzazione è compiuta da Jung soprattutto in Tipi psicologici (Psychologische Typen, 1921, in JGW, vol. VI, tr. it. in OCGJ, vol. VI), in ordine alla questione centrale dei legami cognitivi e affettivi che vengono a costituirsi tra uomo e mondo, e che quindi definiscono gnoseologicamente e affettivamente un certo soggetto e un certo oggetto. Vale a dire, nell’instaurarsi di una di queste due forme energetico-interpretative si costituirebbe una persona aderente alle cose e distante da sé (atteggiamento estroverso), oppure una persona aderente a sé e distante dalle cose (atteggiamento introverso). Ma un rigido persistere in tali atteggiamenti produrrebbe, a livello personale, un aut aut tra le cose e se stessi, e, a livello interpersonale, un contrasto tra tipi psicologici opposti. In particolare Jung intende con «estroversione» la caratteristica che la libido ha di volgersi verso l’esterno e quindi di costituire la significatività del mondo; di contro, intende con «introversione» la caratteristica che la libido ha di volgersi verso l’interno e quindi di costituire la significatività del soggetto (ibi, p. 465). Poiché la libido risponde alle esigenze complessive della psiche complessiva, tali movimenti possono coincidere o non coincidere con l’intenzionalità del complesso dell’io, per cui si parla rispettivamente di «estroversione attiva» e di «estroversione passiva», così come di «introversione attiva» e di «introversione passiva» (ibi, p. 438). In questa teoria rimane viva l’ipotesi secondo cui la libido, al di là dell’atteggiamento e del tipo che è venuta a configurare a livello cosciente, lavora in maniera complementare a livello inconscio (ibi, p. 384). P.F. Pieri BIBL.: M. TREVI, Adesione e distanza 2: una lettura critica dei «Tipi psicologici» di Jung, Roma 1993.

ESTUDIOS FILOSÓFICOS. – Rivista quaEstudios filosóficos drimestrale fondata nel 1952. Nata come «Memoria de los cursos Académicos del Estudio General de Filosofía de Las Caldas de Besaya (Santander)», a partire dal 1973 è divenuta, dopo diverse trasformazioni, l’organo dell’Istituto Superiore di Filosofia di Valladolid, gestito dall’ordine dei Predicatori (Domenicani). L’obiettivo programmatico, ispirato in particolare dalla Humani Generis, è quello di «salvare la ragione e quei principi razionali supremi

Età della vita senza i quali la fede non può essere un rationabile obsequium» («Estudios Filosóficos», 1, 1951-52, p. 3). Il confronto con le diverse correnti del pensiero contemporaneo, che si sviluppa nella duplice direzione della ricerca (dottrinale e storica) e della critica, non è finalizzato alla mera informazione, ma alla formulazione di un giudizio che distingua errore e verità e che contribuisca a «dare attualità costante alla Filosofia Perenne, presentando le sue immutabili dottrine». In occasione dei venticinque (1977) e dei cinquanta (2002) anni dalla fondazione sono stati pubblicati gli indici generali. È attualmente diretta da Sixto J. Castro, che ha sostituito nel 2001 Emilio G. Estébanez. S. Bancalari

ETÀ DELLA Età della vitaVITA (ages of life; Alter des Lebens; âges de la vie; edades de la vida). – L’espressione intende riferirsi ai periodi, o fasi, in cui la vita umana è tradizionalmente suddivisa, con l’intento di coglierne le ragioni distintive in ordine alla formazione del soggetto e al suo sviluppo. Ogni umanesimo ha posto al centro della propria concezione dell’uomo l’idea di vita. Essenza e esistenza sono state ritenute gli assi principali del grande piano cartesiano della vita. Il neoumanesimo tedesco le ha unite in una tensione radicale posta tra finito e infinito, imprimendo al vivere umano un indelebile carattere unitario e diveniente, privo di certezze precostituite ma ricco, tuttavia, di un vincolo strutturale tra il conoscere umano e la coscienza umana. Nell’esistenza storica del soggetto e nella dimensione ontologica della sua essenza profonda, la vita contribuisce a dare forma all’uomo: in una sola parola, essa «scolpisce» la formazione. In tal modo, il vivere perde le connotazioni strettamente antropologiche e biologiche per sussumere una duplice denotazione filosofica e pedagogica. Con ciò l’uomo è collocato nel suo mondo personale, di soggetto autonomo, irripetibile, libero, dotato di una propria identità che lo rende differente da ogni altro uomo. Al contempo, l’uomo è pensato all’interno di un mondo culturale, di un sistema di rapporti umani, sociali, relazionali che contribuiscono alla sua educazione. L’esperienza della vita intreccia, dunque, fra loro la formazione e l’educazione, costituendo un tessuto di ulteriori connessioni in cui il pensiero e il linguaggio, la conoscenza 3759

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Età della vita e la scienza, la storia e la religione, la cultura e le culture mettono a punto tanto le concezioni della vita quanto gli stili di vita. La storia della vita – e su di essa si sono soffermati filosofi e poeti, storici e antropologi, psicologi e sociologi, pedagogisti ed etologi – narra sempre un cammino contrassegnato dall’«unità» del vivere umano, ma anche dalle «età» attraverso cui questo itinerario è segnato. Le età della vita sono pertanto passaggi «d’epoca» nella storia del soggetto, contraddistinti dal trascorrere del tempo e, quindi, degli anni. Le classificazioni via via apportate differiscono non poco sia in ordine alle periodizzazioni sia in riferimento alle denominazioni. a) Infanzia: va da 0 a 6 anni e può essere anche distinta in prima (0-3) e seconda (3-6) infanzia. Su di essa si sono soffermati Rousseau, Fröbel, Pestalozzi fino alla Montessori, ma anche Freud o Bruner. Tutti sono stati concordi nel confermare l’importanza di questo periodo il cui potenziale formativo ed educativo marca di sé le altre età della vita. Aspetti intellettivi, emotivo-affettivi, morali, sociali sagomano lo sviluppo del soggetto, la sua crescita equilibrata, l’identità profonda, la comunicazione con il mondo che gli è prossimo. L’attivismo del primo Novecento, attraverso gli studi di Dewey, Dévaud, Ferrière, Claparède ha posto in rilievo come l’infanzia sia il tempo in cui avviene la prima conquista culturale del mondo attraverso la messa a punto di una logica e di un linguaggio ancora poco elaborati, ma importanti per lo strutturarsi della persona e della personalità. b) Fanciullezza: va dai 6 agli 11 anni. La lezione di Comenio, Locke, Rousseau, Pestalozzi e altri autori attenti e sensibili all’evoluzione del soggetto ha insistito sulla specificità di questo momento di crescita in cui, uscito da una fase strettamente egocentrica, egli si apre all’attenzione verso l’altro offrendosi alle dinamiche delle relazioni interpersonali. Scuole pedagogiche, psicologiche e psicoanalitiche sono venute sottolineando i rischi di una fanciullezza non pienamente vissuta sotto il profilo del corretto sviluppo corporeo, psichico, sociale, intellettivo. La dimensione dell’educazione non distratta dalla creatività è considerata come una delle componenti fondamentali per la crescita armoniosa dell’uomo. c) Preadolescenza: si tratta di quella delicata fase di transizione che comprende il periodo della vita che va dagli 11 anni ai 14. Nel breve 3760

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volgere di questo tempo il soggetto compie una sensibile mutazione somatica, psichica, sociale che inciderà sulla messa a punto della sua concezione del mondo e delle modalità per viverlo pur in modo non ancora del tutto compiuto. Un bisogno critico di scoperta interessa il soggetto preadolescente, che si trova posto fra le richieste di obbedienza da parte degli adulti, della famiglia, della scuola, dell’extrascuola e le ingiunzioni che lo spingono ad essere sempre più autonomo. Il rischio di disadattamento, il contatto e il confronto con modelli culturali ed educativi spesso in contrasto fra loro, la scoperta della sessualità richiedono che il preadolescente possa vivere in ambienti educativi aperti al dialogo critico. d) Adolescenza: situata tra i 14 anni e i 18, questa età della vita vede il soggetto ormai padrone del proprio pensiero logico e di molteplici forme espressive del linguaggio. Aperto al confronto con l’altro, disponibile a relazioni sociali e affettive suffragate dall’autenticità, sospettoso e insofferente di fronte alle imposizioni, l’adolescente può vivere tanto un’età serena quanto periodi di crisi e disagio dovuti sia a una non sempre equilibrata percezione di sé sia alla precarietà degli ambienti sociali che potrebbe frequentare. Il pericolo del disadattamento sovente si approssima all’esperienza della vita adolescenziale, che può essere negativamente contrassegnata dal consumo di sostanze stupefacenti, dall’uso dell’alcool o da altre condotte atipiche che incidono in modo a volte devastante sulla formazione personale, giungendo a determinare comportamenti apertamente antisociali e perfino delinquenziali. La famiglia, la scuola, l’extrascolastico, le istituzioni sociali, i mass media svolgono un ruolo pedagogico rilevante soltanto quando sanno proporre credibili alternative culturali ai modelli correnti suffragati da mode banali, riti effimeri, miti inconsistenti. e) Giovinezza: età profondamente inquieta, essa parte dai 18 anni e giunge ai 25 per protrarsi, ormai, anche fino ai 30 anni. Il passaggio dalle attività di studio al mondo del lavoro contraddistingue questa fase evolutiva in cui il soggetto, soltanto se ha pienamente e positivamente vissuto le precedenti età della vita, consegue uno stato di piena e matura autonomia. Le dimensioni problematiche che interessano la vita giovanile sono di varia natura e sempre considerevolmente complesse. Le ricerche sociologiche, pedagogiche e psicologi-

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che disegnano un quadro di riferimenti che ha come cornice la società contemporanea e le sue culture dell’omologazione e del consumo. Il giovane si trova sospinto spesso verso forme massive di aggregazione, ma è anche dotato ormai di un potenziale valutativo che può aiutarlo a rifiutare i modelli sociali del conformismo, facendo emergere scelte e comportamenti critici che lo possono indurre a superare incertezze ed errori per guadagnare il pieno e pur difficoltoso passaggio all’età adulta. f) Adultità: dopo i 25-30 anni, il soggetto entra nella completa maturità di se stesso. Ha sviluppato conoscenze e condotte che si confanno alla sua integrazione sicura e definitiva nel mondo attraverso la non più parziale realizzazione di sé. Accanto al bisogno soddisfatto di costruire la propria vita personale, con una famiglia e una professione, l’adulto indirizza il suo agire secondo le linee di un progetto ricco ancora d’una domanda di formazione che egli rivolge anzitutto a sé stesso. L’educazione a saper scegliere, traguardo delle età precedenti, si esplica ora nella totale autonomia, nella partecipazione alla vita sociale e civile, nella cura della propria cultura, nell’emancipazione da sudditanze psicologiche, materiali, morali. D’ora in poi la sua esperienza della vita giunge all’acme della criticità e con questa l’adulto misura il passato, il presente e il futuro del suo essere nel mondo. g) Senescenza: intorno ai 60-65 anni d’età, l’uomo prende coscienza dei fenomeni involutivi e di esaurimento di non poche delle sue funzioni organiche. Se la formazione interiore e il modo di disporsi nei confronti del mondo, della vita e della morte saranno dovutamente «educati», l’uomo anziano accoglierà questo suo tempo con serenità e da esso potrà trarre quelle gioie che soltanto l’armonia e la saggezza concedono. Altrimenti rifiuterà la vecchiaia, diventando soltanto la caricatura di se stesso. A tale problema può tentare di rispondere un’educazione degli adulti pedagogicamente ispirata a quella visione globale dell’uomo, capace di accogliere l’idea di natura coniugandola con quella del tempo, in modo che la loro compiuta relazione doni l’equilibrio personale che l’enfasi sociale sulla «giovinezza perduta» compromette presentando modelli falsi, pur di immediata e comune reperibilità. Il procedere nella vita è scandito dalle età dell’uomo. Esse vanno assunte nella loro costitutiva unità, senza per questo trascurare

Etere quelle tipicità che le contraddistinguono. «La vita – fa osservare Michel Foucault – [...] con tutto il suo sistema di prove e sventure, la vita nella sua interezza costituisce un’educazione» (Hermeneutique du sujet: cours au Collège de France (1981-82), Paris 2001, tr. it. di M. Bertani, L’ermeneutica del soggetto, Milano 2003, p. 392). E poiché «la vita e la formazione sono coestensive l’una all’altra» (ibi, p. 393), si potrà con Foucault inferire che «la vita dev’essere interamente consacrata alla formazione di sé stessi» (ibid.). M. Gennari BIBL.: N. GALLI, Pedagogia dello sviluppo umano, Brescia 1984. ➨ EDUCAZIONE; FORMAZIONE; NEOUMANESIMO.

ETERE (gr. aijqhvr; lat. aether - ether; Äther; Etere éther; éter). – Sostanza variamente intesa nel mondo antico e nel mondo moderno. SOMMARIO: A) Aspetto storico-filosofico: l’etere nel mondo antico. - B) Aspetto storico-scientifico: I. L’etere nella filosofia e nella fisica moderne. - II. L’etere nel periodo prerelativistico. - III. Ripercussioni relativistiche. A) ASPETTO STORICO-FILOSOFICO: L’ETERE NEL MONDO ANTICO. – In Omero aijqhvr è l’aria limpida e pura in prossimità del firmamento delle stelle, oujranov" ,e come tale è contrapposto ad ajhvr, l’aria carica di umidità in prossimità del suolo. Per aijqhvr/ajhvr si veda Iliade XIV, 288: «makrotavth pefuui'a di´ hjevro" aijqevr´ i{kanen» («crescendo attraverso l’aria raggiunse l’etere»). Per aijqhvr/oujranov" si veda invece Iliade II 458 e XVII 425: di´ aijqevro" oujrano;n i|ke («attraverso l’etere raggiunse il cielo»). Trasparenza e luminosità sono condizioni caratteristiche dell’aij q hv r , nebbia e opacità sono invece associati ad ajhvr. Una lettura attenta dell’uso omerico di aijqhvr e ajhvr rivela come entrambi i termini siano usati in riferimento all’aria. L’identificazione di aijqhvr con aria rimane fondamentale per Empedocle. Le quattro radici (in greco rJizwvmata) di Empedocle sono infatti terra, acqua, aijqhvr e fuoco. Si veda per esempio la famosa tesi di Empedocle, secondo cui «vediamo la terra con la terra, l’acqua con l’acqua, l’aijqhvr con l’aijqhvr, e il fuoco con il fuoco» (Aristotele, De an., 404 b 13-15 e Metaph., 1000 b 5-9 = Empedocle, 31 B 109 D.-K). L’identificazione di aijqhvr con aria è in questo frammento fuori di ogni dubbio. Non ci si deve dunque sorprendere se Platone nel Timeo continua ad identificare aijqhvr con un tipo speciale di aer (Platone, Tim. 58 d 1-2). 3761

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Etere La storia successiva della voce aijqhvr è complicata dal fatto che da un certo momento in avanti l’aither diventa fuoco. È molto probabile che Anassagora sia responsabile per questo radicale cambio di riferimento. Più volte Aristotele ricorda Anassagora come colui che per primo ha usato il nome aither in riferimento al fuoco (Aristotele, De caelo 270 b 24-25 = Anassagora, 59 A 73 D.-K.; Aristotele, De caelo 302 b 2-4 = Anassagora, 59 A 3 D.-K.; Aristotele, Meteor., 369 b 21-31 = Anassagora, 59 A 84 D.-K.). L’identificazione di aijqhvr con fuoco è accettata dagli stoici, che contribuiscono a eclissare l’originaria associazione tra aijqhvr e aria. Per gli stoici le stelle e i corpi celesti sono fatti di aijqhvr. Per Crisippo si veda Stobeo, Ecloghe I 21. 5 (= Ario Didimo fr. 31 = SVF II 527). Per Posidonio si veda invece Stobeo, Ecloghe I 24 (= Ario Didimo fr. 32 = Edelstein-Kidd, fr. 127). Lo straordinario successo della fisica stoica nel mondo antico spiega come mai nelle fonti dossografiche successive l’identificazione di aither con fuoco sia imposta anche per autori che sono estranei alla tradizione anassagorea e stoica. Platone è sicuramente estraneo a questa tradizione. Nel Cratilo il nome aither viene etimologizzato come segue: aijqhvr 0 , allora e λt diventa grandissimo dopo un tempo grande rispetto a 1 λ , in quanto il prodotto λt è un numero positivo maggiore di 1; questo spiega il ruolo di λ come velocità di perdita dell’informazione iniziale. Ripetendo queste considerazioni per ognuna delle dimensioni del moto, per un moto N-dimensionale avremo N esponenti di Lyapunov. Limitiamo per semplicità il discorso a un sistema dissipativo. In N-D, abbiamo N numeri che rappresentano le coordinate del punto iniziale in ciascuna delle N direzioni. Consideriamo un cubetto di lato ε e volume V0 di possibili condizioni iniziali (il cubetto sarà un segmento in 1D, un quadrato in 2D, un cubo in 3D, un ipercubo per N>3). Al variare del tempo, i punti del cubetto si muovono e insieme occupano un volume Vt che deve essere minore di quello iniziale V0 (per l’ipotesi dissipativa). Per esempio in 2D avremo che V0 = ε ⋅ ε e Vt = ε ⋅ e λ1⋅t ⋅ ε ⋅ e λ2 ⋅t = ε2 ⋅ e(λ1 + λ2 )t , cioè l’area è il prodotto delle due lunghezze variate con esponenti λ1, λ2 rispettivamente. Affinché Vt «nessun non-P è S» (E); (I) «qualche S è P» > «qualche non-P è S» (O); (O) «qualche S non è P» > «qualche non-P è S» (O), ovvero «qualche P è non-S» (I). I giudizi E non si contrappongono, per indeterminazione, se non dallo steretico («nessun non-S è P» – «tutti i P sono S»); b) (m.) dal giudizio affermativo o negativo in generale al negativo o affermativo mediante la quantificazione del predicato, e cioè se questo è più esteso del soggetto (giu4825

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Giudizio dizio di inclusione): (A) «tutti gli S sono P» > «alcuni P non sono S» (O); (I) «qualche S è P» > «alcuni P non sono S» (O) (e O > I). In questo caso ancora E non si contrappone, per lo stesso motivo. Si distinguono inoltre giudizi semplici, composti e complessi. Sono semplici o composti a seconda che il soggetto sia unificato o molteplice (S è P, S e T sono P). Sono semplici o complessi a seconda che la relazione tra S e P sia unilaterale o plurilaterale (S è P, S è o può essere P). La plurilaterità del predicato rientra nell’ordine dei giudizi disgiuntivi. La negazione dei giudizi composti e complessi è divisibile secondo i singoli soggetti e rapporti. Nel sistema classico tutti i giudizi erano considerati logicamente analitici, cioè «risolventi» il concetto, come unità gnoseologica e identica in sé, nei suoi elementi distinti: la sintesi propria del giudizio era riconosciuta nel valore oggettivo della copula, tra gli estremi, formulata come conseguente all’analisi, e quindi potenzialmente o attualmente a posteriori. Kant invece (Kritik der reinen Vernunft, B 10-14, tr. cit., pp. 39-41; cfr. Logik, Einleitung, I-IV, § 36) considerò i giudizi analitici come distinti dai giudizi sintetici, e questi li distinse a loro volta formalmente in giudizi sintetici a priori e a posteriori. Sono così detti «analitici» (e a priori) i giudizi che nel predicato pongono in evidenza (e senza contraddizione) un attributo del soggetto già contenuto in questo come concetto (p. es.: «I corpi sono estesi», l’estensione essendo contenuta nel concetto cartesiano di corpo, essa è posta in evidenza per analisi del concetto stesso). Sono sintetici i giudizi in cui il predicato è congiunto al soggetto per acquisizione di suoi attributi non intuiti nella sua identità intuitiva o concettuale, ma significativi di esperienza possibile (p. es.: «I corpi sono pesanti», «la terra è rotonda»). I giudizi sintetici sono a priori se il fondamento della sintesi è nell’unità di appercezione e nelle sue categorie; sono a posteriori se esso è dato nella sola esperienza sensibile. I giudizi analitici sono dichiarativi, e i sintetici sono estensivi, del sapere. Tutti i giudizi di esperienza sono sintetici (anche in matematica), e in tutte le scienze vi sono principi posti come giudizi sintetici a priori. La classificazione così delineata è però valida solo per il sapere già acquisito in oggetto, e data con esso per analisi: nell’atto della conoscenza, come dimostrò lo stesso Kant, tutti i giudizi rientrano nella sintesi a priori 4826

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operante come soggetto (e come identità, o identificazione, dell’eterogeneo, secondo Hegel). Rimangono tuttavia divergenti come classiche o moderne le scuole che assegnano i giudizi matematici all’analisi, come Leibniz, Hume o Frege, o alla sintesi a priori, come Kant (Prolegomena, parte I, § 7), o alla sintesi empirica, come gli autori di logica matematica o logistica (Giuseppe Peano, Alessandro Padoa). Questi ultimi considerano però come essenziale per il giudizio il solo rapporto di inclusione del soggetto nell’estensione del predicato (S in P), come fondamento della necessità o contingenza del giudizio quantitativo (cfr. I. Kant, Logik, § 21, Anmerkungen 4-5). Altre forme di giudizio riconosciute dai trattatisti: giudizi tautologici («tautologie» del neopositivismo), in cui soggetto e predicato sono sinonimi; giudizi dichiarativi, in cui il predicato sviluppa soltanto il significato del soggetto; giudizi di constatazione, rivolti a riconoscere i particolari degli accadimenti e delle esistenze; giudizi di esposizione (o «descrittivi» di B. Russell) in cui è presentato oggettivamente il contenuto della percezione o della riflessione, senza procedere alla sua affermazione o negazione. Altri giudizi sono classificati secondo la loro funzione metodica (giudizio definitorio, giudizio assiomatico, giudizio descrittivo ecc.); altri ancora secondo le dottrine del giudizio di singole scuole, come segue. b) L’indagine intorno al giudizio è parte precipua della gnoseologia. L’atto però del «giudicare» è stato variamente interpretato nella storia del pensiero. 1) Per la filosofia classica esso è più l’atto con cui la mente riconosce e afferma che una certa determinazione è stata di fatto colta (simplex apprehensio) dalla mente in un dato oggetto (che nella proposizione, espressione del giudizio, tiene il posto del soggetto) e perciò gliela attribuisce (iudicium): quando, p. es., di un oggetto (foglio di carta o parete di una stanza) la mente apprende che è bianco, «giudica»: il tale oggetto (oltre ad avere tante altre determinazioni, essenziali e non essenziali, non prese in considerazione) è bianco. 2) In età moderna il giudizio fu visto come l’atto con cui la mente applica a un dato della sensibilità una propria forma per costituirlo oggetto intelligibile e concetto, giudizio primitivo e costitutivo dell’oggetto o concetto, atto che potrà poi svolgersi in una proposizione o giudizio secondario o affermativo, nel quale

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il concetto, come predicato, venga attribuito al dato dell’esperienza: p. es., la mente, mediante una sua categoria, «giudica», cioè concepisce primitivamente, un dato offerto dall’esperienza come sostanza o causa, dopo di che può procedere all’affermazione: la tal cosa è una sostanza. Il problema gnoseologico del giudizio concerne la questione se, in qual modo e in qual misura, il giudizio conduce al possesso della verità, e come la mente può giustificare a se stessa il valore di un tal possesso; esso coincide, dunque, col fondamentale problema della verità (cfr. anche infra, III, 1). Se si guarda al contenuto del giudizio, cioè intorno a quali materie o esperienze, o campi del sapere e dell’agire, esso si attua, si può, p. es., parlare di un giudizio storico, che è stato fin dall’antichità pensato come rapporto tra accadimenti particolari e concetti, la cui universalità talvolta è usata in senso interpretativo (nell’insieme cioè delle cause che li hanno prodotti e degli effetti che ne sono conseguiti), e talvolta in senso valutativo. I giudizi estetici riguardano un oggetto bello o un’opera d’arte, considerati secondo un canone variamente determinabile, e valutati in relazione a un tipo di perfezione ideale dilettevole. Il giudizio pratico, fino a Kant, venne considerato come il giudizio avente per oggetto l’azione, e come il necessario precedente intellettuale di questa. Kant (Kritik der praktischen Vernunft, Leipzig 1788, pp. 119-126, tr. it., con testo a fronte, Critica della ragione pratica, Roma-Bari 20034, pp. 147-155) sostenne invece che vi è un giudizio pratico specifico, etico o morale, la cui forma è la stessa relazione tra la legge morale e la libertà, ma il contenuto è dato dalla «possibilità» di attuare il principio etico noumenico nell’ordine dei fenomeni, e cioè dalla mediazione tra la legge morale e la legge fisica, tale che quella come questa abbia valore di legge naturale. Le scuole neokantiane (cfr. infra, III) trassero, da questa esigenza sistematica, la dottrina dei giudizi di valore (o assiologici), sia nella sfera della valutazione utilitaria che in quella dei giudizi etici, estetici, scientifici e metafisici. III. STORIA E CRITICA DEL GIUDIZIO. – 1. Pensiero classico e medievale. – Nella filosofia classica e medievale il giudizio, e la sua espressione nella proposizione, è stato considerato sia nel suo aspetto formale, sia nel suo contenuto di verità.

Giudizio Platone (Soph., 262 a - 263 e) stabilì, valendosi delle ricerche dialettiche degli eleati e dei megarici, che il lovgo" come espressione del pensiero è rappresentato, nella sua forma più semplice, dalla composizione (complesso) di due elementi imprescindibili, il nome e il verbo, qualificata come vera, o falsa, per affermazione o negazione. Aristotele chiarì che questa sintesi del nome e del verbo è vera o falsa a seconda che la relazione così rappresentata coincida, o no, con la realtà (De int., 9, 18 a 39 - b 4). Il giudizio (ajpovfansi") viene definito dall’alternativa imprescindibile ed esclusiva di affermazione (katavfasi") e negazione (ajpovfasi") che, a loro volta, esprimono rispettivamente l’appartenenza o la non appartenenza di un predicato a un soggetto (De int., 6, 17 a 23-26). In opposizione forse più al platonismo dominante nell’Accademia che alla genuina dottrina del maestro, Aristotele affermò che in ogni giudizio il predicato non è qualcosa fuori, oltre (parav) i molti di cui si dice, ma costituisce piuttosto una determinazione formale del soggetto, secondo la quale, cioè, il soggetto stesso è intelligibilmente e unitariamente strutturato e qualificato (An. post., I, 11, 77 a 5-10). Proprio per tale natura qualitativa il predicato, a differenza del soggetto, non può essere mai quantificato: la quantità della proposizione dipende esclusivamente dalla quantità del soggetto di essa (De int., 9, 1 b 12-16). Affermazione e negazione, in quanto significano l’una un’attribuzione (ti; kata; tinov") e l’altra una sottrazione (ti; ajpo; tinov"), si oppongono reciprocamente come contraddittori, sì che alla verità dell’una non può non corrispondere la falsità dell’altra e viceversa (De int., 7, 17 b 37 ss.); se invece sono considerate secondo i contenuti che complessivamente significano, si oppongono tra loro in relazione alla loro quantità secondo lo schema che viene chiamato «quadrato logico». Gli stoici (cfr. Sesto Empirico, Adversus mathematicos, VII, 253 ss.; VIII, 85 ss.) posero in rilievo il punto di vista empirico per il quale il giudizio (ajxivwma) è conseguente alla percezione catalettica, in quanto esso ne approva o diniega razionalmente l’apporto gnoseologico, o ne constata l’indifferenza verso la ragione (alogicità). Il giudizio è l’unica forma del vero e del falso. Esso può anche formulare le aporie della ragione di fronte all’evidenza sensibile della percezione, e quindi presentarsi come obiezio4827

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Giudizio ne logica (e[nsthma) ai dati del senso. Il giudizio logico appartiene così al lovgo" ejndiavqeto" (linguaggio interiore). La sua enunciazione si appoggia su un elemento logico-oggettivo (lektovn), intermedio tra la parola (lovgo" proforikov") e il contenuto percettivo, elemento intermedio di ordine qualificante e categorizzante, a cui si riferisce il pensiero. Sono giudizi semplici (categorici) quelli in cui tra il soggetto e tale suo oggetto del pensiero vi è una sola relazione, non semplici quelli in cui si pone più di una relazione (ipotetici, complessi, disgiuntivi). I non semplici si devono considerare superiori nell’ordine della verità ai semplici, perché i primi hanno sempre valore realistico, mentre i secondi, come loro astratti elementi, possono avere valore soltanto nominale. La logica degli stoici (e anche quella delle altre scuole post-aristoteliche: p. es. Eudemo di Rodi, Teofrasto, Senocrate e altri) diede sviluppo al giudizio ipotetico, come proprio della conoscenza scientifica della natura (to; sunhmmevnon: il giudizio consequenziale tipico), distinguendo tra quello in cui la conseguenza (sunavrthsi") è per identità (se A è, è A) e quello in cui essa è per inclusione dell’effetto nella causa (se A è, sarà anche B): il primo esprime la necessità razionale, il secondo la necessità di fatto. Le opere logiche di Boezio trasmisero al medioevo latino, accompagnandola da illustrazione e commenti, la dottrina aristotelica del giudizio, specialmente per quanto riguarda l’aspetto proprio della logica formale. Un’esposizione articolata e critica si ha nella Dialettica di Abelardo e un’esposizione più compendiosa, largamente studiata nelle scuole medievali, si trova nelle Summulae logicales di Pietro Ispano. Chi, oltre all’aspetto formale, svolse una vera e propria gnoseologia intorno al giudizio, fu Tommaso d’Aquino, specialmente nelle Quaestiones de veritate. Tommaso premette che vero può essere detto dell’intelletto e delle cose, dell’intelletto quando afferma ciò che è, e si conforma quindi alla realtà: adaequatio intellectus et rei; delle cose quando corrispondono al tipo ideale che sta nella mente o intelletto; l’intelletto è vero, ha la verità, quando si uniforma alla realtà; invece l’oro, p. es., è vero o falso, secondo che corrisponde o no al tipo ideale, all’essenza propria dell’oro. Chiedendosi allora in quale atto della mente si trova propriamente la verità, egli sostiene che non si 4828

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trova nella mente quando questa semplicemente coglie una qualche determinazione effettivamente esistente in un essere (nella simplex apprehensio), ma propriamente nel giudizio, cioè in quell’atto che, se è affermativo, «unisce un predicato a un soggetto» e, se è negativo, «disgiunge» l’uno dall’altro: «in intellectu componente et dividente», e che viene espresso non in una semplice enunciazione, come potrebbe essere un augurio, ma in quell’enunciazione che è un’affermazione o una negazione, nella quale si tratta appunto di conformità dell’intelletto con la realtà. Prima del giudizio, la mente possiede già, conoscitivamente, la determinazione appresa nell’oggetto considerato, ma non sa ancora di possederla, non sa ancora che, possedendola, è conforme alla realtà; quando se ne rende conto, ed esprime di essere appunto conforme alla realtà, allora ha la verità, è vera (De veritate, q. I, artt. 1-3). Tommaso poi ricerca in qual modo la mente può rendersi conto che in un suo giudizio possiede davvero la verità, ossia si conforma di fatto alla realtà. La verità è posseduta dall’intelletto consapevolmente nell’atto del giudizio, cioè in conseguenza di aver giudicato e affermato di essere conforme alla realtà. Ma in tanto l’intelletto conosce «questa sua conformità, in quanto ha la capacità di riflettere sopra il suo atto», riflessione che non è la riflessione di un certo atto sopra un altro atto precedente, bensì una riflessione attuale nell’esercizio di ogni suo atto, in quanto ogni atto di intelligenza è trasparente a se stesso: ogni atto di intelligenza comporta una specie di riflessione, di controllo su se stesso. In questa consapevolezza di sé e del proprio agire, e del contenuto del suo agire, ogni atto è pure consapevole se si conforma o no alla realtà che sta considerando: lo sforzo che sta compiendo è proprio di badare e accorgersi se sta cogliendo ciò che veramente si dà nella realtà, oppure se sta sbagliando; non si accorgerebbe di questo, se non sapesse, logicamente prima, che la sua destinazione naturale, e la destinazione naturale dell’intelletto stesso, è appunto di conformarsi alla realtà (ibi, q. I, art. 9). L’intelletto conosce di fatto se si conforma o no alla realtà nell’atto del giudizio e cioè «quando iudicat rem ita se habere sicut est forma quam de re apprehendit», quando esso attribuisce a un oggetto che considera, rappresentato nella proposizione dal soggetto, ciò che di quell’og-

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getto ha in realtà percepito, il predicato, p. es.: questo oggetto, che si chiama oro, è giallo (Sum. theol., I, q. 16, art. 2). Dopo Tommaso non si ha nella scolastica medievale qualche dottrina speciale sul giudizio dal punto di vista gnoseologico, mentre invece, dal punto di vista della logica formale, la trattazione di esso ha avuto notevoli sviluppi, specialmente in senso nominalistico, in Guglielmo di Ockham. A partire dalla fine del XIV secolo viene ripresa l’interpretazione del giudizio data da Platone nel Teeteto (189 e - 190 a) come discorso che uno conduce con se stesso: l’atto del giudicare viene considerato come fenomeno autosufficiente invocato per spiegare gli atti linguistici del dichiarare e del confermare che qualcosa era in quel modo. Ma quando si trattava di caratterizzare più specificamente l’atto del giudicare, inevitabilmente si ricadeva nella terminologia delle situazioni osservabili pubblicamente nelle quali il discorso viene espresso in linguaggio parlato o scritto. Se Gregorio da Rimini restringe la classe delle proposizioni mentali esclusivamente agli atti di assentire e conoscere (Super primum et secundum sententiarum, prologus, q. I, art. 3), G. Buridano ribatte che né il conoscere né l’opinione possono essere proposizioni, poiché per loro natura sono forme di assenso al contenuto di una proposizione (Compendium totius logicae, a cura di J. Dorp, tractatus VIII, ad An. post. 88 b 30). Tutti sono d’accordo, però, che l’oggetto del giudizio, della conoscenza o della credenza sia identico con lo stato delle cose significato dalla proposizione mentale appresa. Sebbene l’atto del giudicare come tale sia considerato non come un segno e quindi senza significato, si ritiene che quest’atto presupponga come condizione necessaria per la sua realizzazione la presenza di una proposizione mentale apprensiva che metta davanti alla mente un oggetto potenziale di assenso o dissenso. La componente semantica di un atto di giudizio viene pertanto a essere ciò verso cui l’atto del conoscere o credere è diretto. La logica del Rinascimento mirò invece a identificare la forma razionale e la forma espressiva del giudizio nella propositio, e pertanto a svolgere la dottrina aristotelica mediante la determinazione e analisi dei suoi termini semantici, quindi in senso nominale prima che reale: mentre ritornava ad accentuare la differenza gnoseologica tra il giudizio come conoscenza

Giudizio della forma e la percezione e speculazione della realtà conosciuta o pensata. Così si viene (diversamente dalla logica classica) a far precedere la quantità dei giudizi alla qualità: in quanto le parole sono assunte come segni o simboli dei termini logici; ma il metodo che ne consegue permette tuttora di collegare lo studio della logica con quello della logistica. All’inizio del XVI secolo la questione del riferimento dell’atto del giudizio viene espressa come posizione di una questione da discutere da parte di chi giudica. Se R. Agricola definisce pertanto l’intera logica come «ars probabiliter de qualibet re proposita disserendi», arte di disputare su ogni soggetto proposta da premesse credute probabili (De inventione dialectica, a cura di J.M. Phrissemius, parte II, cap. 6), F. Melantone fa un passo avanti e specifica che la logica tratta «de quocumque themate», di qualunque tema (Compendiaria dialectices ratio, in Corpus reformatorum, Halle 1834-60, vol. XX, p. 724). L’oggetto del giudizio viene dunque a essere definito attraverso la posizione di questioni topiche. A sua volta, P. Ramo usa il termine axioma per indicare l’atto e l’oggetto del giudizio, preferendolo in quanto libero da associazioni con il linguaggio scritto o parlato e dunque in grado di riferirsi al pensiero nella sua indipendenza espressiva; gli assiomi, infatti, non necessitano di prova e sono autosufficienti (Dialectica, a cura di A. Talaeus, Basel 1554, p. 221). Nel XVII secolo, infine, F. Burgersdijk chiarisce che un tema viene concepito mediante un atto di apprensione semplice, combinando uno o più concetti in maniera affermativa o negativa, e significato da una singola parola; a un tema competono tre tipi di attributi: le affectiones rei, p. es. la risibilitas; le affectiones rationis, l’essere una differenza specifica; e le affectiones vocis, l’essere soggetto o predicato. Vi sono pertanto tre livelli sui quali un tema può venire considerato (Institutiones logicae, Cantabrigiae 1644, pp. 6-10). 2. Da Cartesio a Kant. – La logica cartesiana e portorealista (cfr. A. Arnauld - P. Nicole, La logique ou Art de penser, parte II) ritornò a considerare la realtà logica nella forma del concetto o idea, e mantenne però una dottrina formalistica o nominalistica del giudizio in quanto proposizione oggettivamente data, restringendo una volta ancora il suo significato logico intrinseco all’affermazione o negazione della verità o falsità dell’idea. 4829

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Giudizio Ritornò quindi a sviluppare (come gli stoici), per la relazione gnoseologica del giudizio, la teoria delle proposizioni composte, distinguendo tra le ipotetiche condizionali (formali) e le ipotetiche causali (reali). Ma venne a dare la massima importanza alle proposizioni complesse, in cui il giudizio nominale (dictum) viene a dipendere dal giudizio attuale (cogitatum: «Io penso che...», «è vero che...») e dalla sua modalità. Questa è pure ripresentata, nella sua classificazione scolastica, come «possibile-contingente-impossibile-necessaria», riferendosi alla modalità del giudizio attuale e alla qualità della proposizione nominale così data per suo soggetto (cfr. P. Ispano, Summulae logicales, I, 36-37; e Logique ou Art de penser, II, 8). Il giudizio negativo contenuto in una proposizione oggettivamente data viene così ad avere un significato relativo alla totalità del predicato, non ai suoi singoli elementi. Le proposizioni, sia soggettive che oggettive, sono universali o particolari a seconda del significato pensato nei loro termini, prima che nella quantità in cui vengono espressi. In questo modo la qualità dei giudizi, considerata in sintesi con la modalità, venne a distinguersi più nettamente che nella logica tradizionale, e ritornò a prevalere sulla quantità e relazione, a cui rimase una funzione ontologica. Leibniz, pur avendo ammesso su questo tema la prevalenza del metodo empirico (Nouveaux essais, IV, 14), cercò per primo una sintesi della tendenza realistica e della nominalistica nel rapporto semantico tra forma e contenuto del giudizio. Le particelle adoperate per significare la relazione del giudizio sono quelle che esprimono la forma, le voci significanti i termini esprimono il contenuto concettuale. Il fondamento logico del giudizio viene a essere così nel rapporto di estensione e comprensione dei concetti (da esso determinati nella conoscenza e nel linguaggio): il giudizio del tipo A divide l’estensione del soggetto, come coincidente con la sua comprensione, per l’estensione del predicato (S : P = Y; per Y = 1); il giudizio del tipo I divide l’estensione e la comprensione del soggetto, come differenti, per l’estensione del predicato (Sx = Py). Nei giudizi negativi queste equazioni non hanno valore ontologico e diventano disuguaglianze (per E, ‘Sx ≠ Py’; per O, ‘S ≠ Py’). Quindi il fondamento cercato si doveva riporre nel rapporto di comprensione (x) piuttosto che in quello di estensione (y), 4830

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quale riesce sempre limitato dal giudizio. Il giudizio è quindi a priori del concetto nella forma, il concetto è a priori del giudizio nel contenuto (cfr. Systema logicum, 1678-79; Generales inquisitiones de analysi veritatum et notionum [1686], in Philosophische Werke, a cura di I. Gerhardt, vol. VII). Invece la scuola di Wolff sostenne, sulle orme di Cartesio e Spinoza e degli occasionalisti (per i quali l’idea-concetto era l’unico tipo fondamentale di nozione sub-oggettiva), che il giudizio è conseguente al concetto (posto dalla ragione), ed è analisi di esso e sintesi delle sue relazioni sia con altri concetti e sia con i dati dell’esperienza. Venne pertanto a prendere il primo posto, per la più profonda distinzione ottenuta fra l’idea o concetto e il giudizio come sintesi di concetti, il problema se l’a priori della logica sia il concetto, come sintesi epistemologica che si distingue e analizza nei giudizi, o il giudizio come atto analitico-sintetico che pone il concetto. In tale questione si polarizzò l’antitesi tra ontologisti ed empiristi nel XVIII secolo. Se infatti il giudizio è il primo atto logico in rapporto all’esperienza, i concetti sono resi tali dal giudizio stesso per sussunzione delle nozioni empiriche a valori universali, nominali quindi nel giudizio come funzione logica dell’atto e reali nella relazione sillogistica con altri giudizi. Quindi i concetti non avrebbero, per gli empiristi, altra validità propria, diversa dal giudizio, che quella di «termini» delle proposizioni, e di simboli delle cose percepite (o ideate) e delle idee metafisiche alle quali ontologicamente corrispondono. Kant riconciliò le due tendenze considerando come a priori del giudizio le pure categorie oggettive formali del pensiero unificante: queste si riconoscono nella loro funzionalità come si presentano fenomenicamente nel giudizio sintetico a priori, in atto, ma sono poste solo per analisi come concetti puri. Il giudizio, in quanto sintesi dell’intuizione dei fenomeni sensibili con le categorie che vi trovano realtà empirica, fonda sia il concetto concreto come loro unità oggettiva, sia i giudizi tipici o regolativi dell’esperienza (assiomi, anticipazioni, analogie, postulati), sia i giudizi analitici in cui vengono distinti gli elementi del concetto. E poiché il principio degli stessi concetti puri è l’autocosciente «Io penso» (appercezione trascendentale), il quale è unità di intuizione e concetto, il giudizio sintetico a priori è quindi (nella sussunzione dell’esperienza) definitorio

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delle stesse categorie da cui apparentemente è dedotto (come dimostrò J.F. Herbart, Hauptpunkte der Metaphysik, 1808, in Sämtliche Werke, a cura di K. Kehrbach, vol. I, pp. 221 ss.). 3. Pensiero postkantiano. – La forma pura del giudizio, nella quale l’io è la pura unità intuitiva senza contenuto, o necessità, sensibile, è anche quella che unifica nel criticismo il suo triplice aspetto (teoretico, pratico, estetico), e che venne analizzata come primo principio dall’idealismo trascendentale (Fichte, Schelling) nel giudizio d’identità. Il contenuto ontologico e assiologico del conoscere veniva così congiunto al giudizio piuttosto che al concetto: non più come dato, ma come ciò che un soggetto universale da sé esprime, nella propria immanente esplicazione. Oggettivo era il giudizio; soggettivo invece il concetto. Hegel, pur accogliendo la posizione immanentistica di Fichte e Schelling, riproponeva la sintesi dialettica classica: concettogiudizio-sillogismo, ma con un’ispirazione del tutto nuova. Egli infatti, mentre riponeva l’accento sul concetto, lo presentava non come universale astratto, ma come universale concreto: concetto di cui il particolare è momento necessario, non meno dell’universale. Il giudizio ne emergeva, quindi, come «determinatezza del concetto posta nel concetto stesso» (Scienza della logica, tr. it. di A. Moni, Roma-Bari 20048, p. 705). E ciò perché il concetto, essendo unità immediata e quindi non attuale, per attuarsi doveva distinguersi nei suoi momenti. Il giudizio esplicava questi momenti nel rapporto fra soggetto e predicato. Per tal modo, il giudizio si presentava con un carattere analitico-distinguente, mentre in Kant aveva assunto un carattere sintetico-unificante. Alla stessa funzione analitica del giudizio Hegel attribuisce realisticamente il valore extrasoggettivo («per sé») del principio di differenziazione e distinzione delle cose, di cui si vale nella filosofia della natura in quanto forma degli enti finiti. Dal punto di vista della logica astratta la relazione essenziale nel giudizio è quella tra il singolo e l’universale; la determinazione di essi in soggetto e predicato definisce il contenuto e la concretezza. Qualità e quantità sono così nuovamente unificate nel puro giudizio a priori sintetico-analitico: A è A. La dialettica hegeliana considera però a rigore come fondamentali e non empirici soltanto i giudizi (di tipo logico-ontologico): a) «della qualità» come esi-

Giudizio stenza affermata o negata o infinita (da non confondersi con la percezione e qualificazione sensibile di un soggetto); b) «della riflessione» o relazione interna del singolo come sé e altro, quindi di esso con la relatività del mondo, in cui il soggetto singolare e particolare diventa l’universale (perché generato da questo) non soltanto nell’estensione, ma nella comprensione; c) «della necessità», in cui la relatività è superata nella definizione della specie o sostanza del soggetto (giudizio categorico), e dei suoi rapporti con l’altro da sé (giudizio ipotetico), e infine della sua estensione divisa in alternative dicotomiche (giudizio disgiuntivo); d) «del concetto», nel quale si analizza il significato dello stesso pensiero universale che lo ha formulato, se soggettivo (assertorio), oggettivo (problematico), realistico (apodittico). Questa interpretazione del giudizio riesce dunque di indole naturalistica, perché ragguaglia l’individuale al singolare, e i generi e le specie agli universali reali: ma offre il vantaggio di intendere il giudizio nella sua totalità e di chiarire come il soggetto e il predicato si definiscano all’interno di essa, nella loro indipendenza ed estraniazione reciproca, per il processo della determinazione dell’essere (per sé) in cui è la ragione dell’attribuzione che li unisce (cfr. «Das Urtheil» in G.W.F. Hegel, Enzyklopädie, §§ 166-180 e § 55; Wissenschaft der Logik, vol. II, a cura di F. Hogemann - W. Jäschke, in Gesammelte Werke, vol. XII, Hamburg 1981, pp. 53-89; Scienza della logica, tr. it. di A. Moni, Roma-Bari 20048, pp. 705-753). Le scuole hegeliane rielaborarono più volte la teoria generale del giudizio, nell’intento di sostituire definitivamente la logica moderna all’antica. J.E. Erdmann (Grundriss der Logik und Metaphysik, Halle 1841; Leiden 1901; tr. it. Napoli 1983) propose di riconoscere in definitiva il giudizio della qualità come immediatezza, della quantità come essenza, della relazione e modalità (unificate) come necessità e libertà, e così riassumere più organicamente le classificazioni della dialettica triadica del concetto e del sillogismo. G. Gentile (Sistema di logica, vol. I, parte II, capp. 4-5, Bari 1922-232, pp. 192-215) diede compimento a questa tendenza considerando superata nel giudizio logico (come identicamente ontologico, o attuale) la distinzione grammaticale (come soggettiva e fantastica) del soggetto e predicato, nome e verbo, in quanto essi formano un solo pensiero inscindibile, il cui concreto è il verbo, men4831

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Giudizio tre il nome ne è soltanto l’astratto. Quindi anche nella logica sistematica (o del pensiero pensato, logo astratto) il giudizio è «il pensiero in quanto sintesi dei due termini, onde l’essere si media nella sua identità con se stesso» (che sono il terminante e il terminato) (ibi, pp. 198-199). Il soggetto si presenta così come il principio della stessa astrazione (anziché l’oggetto, come per Hegel): quindi esso è per sé contingente o particolare (tende a diventare oggetto), e veramente universale e concreto solo nella sintesi col predicato (categoria, pensiero pensante), il quale è il soggetto assoluto. Le forme del giudizio secondo la relazione o sono identiche con l’analisi generale del giudizio (concreto o astraente o astratto) o empiriche e alogiche come le nozioni naturalistiche di sostanza e causa e specie (il giudizio disgiuntivo formale si deve riportare alla qualità del giudizio, per la quale fa tutt’uno col giudizio limitativo o indefinito). Il giudizio della modalità rappresenta così l’unica sintesi della qualità e della quantità, ma pur sempre in astratto: la sintesi concreta dell’individuale e dell’universale è nell’atto del pensiero. W. Hamilton (Lectures on Metaphysics and Logic, postumo, Edinburgh-London 1859-60; Works, voll. III-VI, Bristol 2001; cfr. T.S. Baynes, An Essay on the New Analytic of Logical Forms, Edinburgh 1850) dimostrò che il predicato è sempre pensato con una quantità determinata (quindi anche la conversione e contrapposizione dei giudizi debbono essere studiate prima di tutto dal punto di vista quantitativo). La «quantificazione» del predicato parallela a quella del soggetto diventa così un principio superiore alla qualificazione (gnoseologica) del giudizio. Mentre per Leibniz soltanto i giudizi universali affermativi potevano venire considerati esattamente alla stregua di leggi e operazioni matematiche, ora tutti i giudizi predicativi vengono a tradursi in giudizi esistenziali o di equipollenza, e i giudizi ipotetici a dedursi per analogia dai giudizi categorici (S è P = esiste un S che è P, un P che è S = se S è, è P; cfr. G. Boole, The Mathematical Analysis of Logic, Cambridge 1847, tr. it. Torino 1993). Si ebbe così la logica «matematica» o formalistica, iniziata sistematicamente da George Bentham (An Outline of a New System of Logic, London 1827; Bristol 1990) con lo studio dei rapporti quantitativi nella struttura logica del giudizio secondo l’identità e la diversità del soggetto e del predicato. 4832

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4. La nuova logica formale. – Il sistema del giudizio secondo il formalismo logico si trova proposto da A. De Morgan (Formal Logic, London 1926 [1847]; cfr. The Boole-De Morgan correspondence: 1842-1864, a cura di G.C. Smith, Oxford 1982). Egli considerò il predicato come nominale e sostantivabile alla pari del soggetto (simboli: X, x per S, positivo e negativo; Y, y per P, positivo e negativo); l’affermazione (X, Y) e la negazione (x, y) come contenute nei nomi stessi dei termini; la copula come indice di coapplicazione dei due nomi alla stessa cosa, o di identità parziale o totale dei loro attributi o dei loro oggetti, e di relazione costantemente reciproca; l’opposizione dei termini come data in ciascun singolo termine in quanto ideologicamente congiunto col suo opposto. La logica conseguente a questa teoria del giudizio venne chiamata quindi da De Morgan logica onymatica: essa riconosce al giudizio, oltre alle sue proprietà classiche, anche quella della relazione di uguaglianza o disuguaglianza numerica, ponendo la quantità dei termini («tutti», «alcuni») come somma di termini singoli, dati da proposizioni «unitarie», in forma «cumulativa». Questa, o segue il modello di una «forma esemplare», relativa a un caso unico o limitato, oppure riassume un numero illimitato di casi: in «forma selettiva» («un X è un Y in ogni caso») o anche «vagamente limitata» (qX, qY: «Almeno un X non è Y»). La proposizione onymatica pura (non cumulativa) non ha però quantità propria: essa si può presentare in otto tipi paralleli (X, Y; qX, y; x, y; qX, Y; qY, x; ogni cosa è X o Y; qualche cosa non è né X né Y) di proposizioni «semplici»: due di esse non possono coesistere, o debbono coesistere, o possono esistere l’una con o senza l’altra. Si dicono «complesse» le proposizioni che implicano in sé l’affermazione o la negazione di ciascuna delle proposizioni di altro tipo: ciò determina una riclassificazione dei tipi stessi che ritorna a quella di Aristotele e all’uso delle proposizioni della geometria di Euclide. La nuova logica formale venendo così a considerare il giudizio oggettivamente prima che soggettivamente, riprese fin dalle scuole spiritualiste il problema platonico della retta relazione tra il nome e il verbo proponendo di definire l’atto del giudizio stesso come comparazione tra due idee (J.-M. Degérando). Questa prospettiva, sebbene accolta dagli ideologi sensisti per il loro sistema delle idee-rappresentazioni (A.-L.-C. Destutt de Tracy), dava pe-

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rò il giudizio non solo come derivato ma come dipendente dall’idea, e produceva per reazione (nei neohegeliani: B. Spaventa, J.H. Stirling) la risoluzione attuale del giudizio nella sola relazione come identica all’idea. Il positivismo accolse in genere le dottrine classiche del giudizio, in specie dai nominalisti del Rinascimento, ma ricostruendole o descrivendole come dati di una funzione psicologica sperimentalmente riconoscibile o come schemi di ordine espressivo e formale. J.S. Mill (A System of Logic, vol. I, capp. 4-6) limitò il valore della copula a segno di attribuzione di P a S, o a indice di esistenza; quello della proposizione alla constatazione del rapporto di due fenomeni, quindi a un atto prelogico: mentre l’atto logico così detto del giudizio spetta invece alla classificazione e alla definizione (ibi, capp. 7-8). I rapporti tra i fenomeni così espressi sono quelli di esistenza, coesistenza, sequenza, causa, somiglianza. Altri tipi di giudizi hanno significato semplicemente verbale o associativo. 5. Teorie psicologiche e fenomenologiche del giudizio. – Uno studio apposito del giudizio come funzione della coscienza empirica e scientifica venne quindi svolto dalla psicologia sperimentale nel XIX secolo fino a ricomprendere e analizzare tutti i tipi di giudizi aventi valore logico (Wilhelm Wundt, Harald Höffding), e a riproporre la teoria funzionale del giudizio per opera delle scuole neokantiane (da F. Ueberweg a L. Brunschvicg). Notevole la ricerca svolta da C. Sigwart (Beiträge zur Lehre vom hypothetischen Urteil, Tübingen 1871; Logik, vol. I, 19245 [1873]), per dimostrare la connessione necessaria tra il giudizio categorico e il sillogismo, la quale si svolge mediante il giudizio ipotetico allo scopo di provare il fondamento del giudizio categorico. Un importante, sebbene paradossale, tentativo di ripresentare dalla psicologia stessa il valore logico del giudizio è quello compiuto dalla scuola austriaca (B. Bolzano, F. Brentano, A. Marty) e che si suol designare come teoria idiogenetica del giudizio. Essa distingue tra il «pensiero del giudizio» come sua accettazione nella coscienza, e la «proposizione in sé» come contenuto logico puro del giudizio. Questo contenuto viene elevato a posizione della verità per sé stante («A è»: giudizio tetico). La sua affermazione, o negazione, e ogni suo svolgimento predicativo-espressivo, ha valore invece pratico e allogenetico: essa dà luogo al giu-

Giudizio dizio sintetico (come in tutte le altre dottrine), ma non riguarda il carattere proprio (idiogenesi) del giudizio, bensì i suoi rapporti con la rappresentazione. Questa noumenicità del giudizio rispetto all’espressione è stata svolta anche dalla scuola fenomenologica: ma essa viene a riportare il giudizio, nel suo valore logico, all’identità del concetto e dell’essenza, piuttosto che dell’essere. Brentano per conseguenza negò la distinzione, nei giudizi sintetici, tra i categorici (e anche ipotetici e disgiuntivi) e gli esistenziali, riconoscendo in questi ultimi la forma generale del giudizio sintetico. Negò inoltre la correlazione tra A, E, I, O come connessi secondo l’unità e pluralità delle nozioni: in quanto ciascuno di essi sorge invece come diverso significato dell’identità del concetto. Propose invece di distinguere tra il modus rectus, o ponens, e il modus tollens (obliquus) del giudizio esistenziale («esiste » o «non esiste»; la relazione SP, ovvero S non P) per analogia con i modi ponente e tollente del giudizio ipotetico. Le idee di Brentano sono state sviluppate da E. Husserl (Formale und transzendentale Logik, Halle 1929; ora in Hua, vol. XVII; tr. it. Bari 1966), riportandole a confronto della teoria classica del giudizio come «apofantico», o dichiarativo di verità. Questi ha sviluppato particolarmente nei suoi aspetti formali e ontologici, la teoria della funzione predicativa del giudizio come determinazione progressiva dell’esperienza (e inoltre: estensiva, o «dell’et cetera», e identificante), che conduce alla genesi del pensiero logico. Distingue nel giudizio una doppia attività: sintattica (ordinatrice delle funzioni dei termini) e nucleare (costitutiva del contenuto dei termini, cfr. i suoi mss. su Erfahrung und Urteil, a cura di L. Landgrebe, Prag 1939, Hamburg 1948, 19997, tr. it. Milano 1995). 6. Scuole idealistiche del XX secolo. – Le scuole idealistiche del XX secolo hanno proseguito a identificare il giudizio con l’essenza del concetto, e alla sua sistematica formale hanno assegnato valore astratto, o convenzionale, o pragmatico a seconda delle tendenze. Benedetto Croce (Logica come scienza del concetto puro, Bari 19649 [1905], Napoli 1996) sostenne quindi che il giudizio è lo stesso concetto puro o universale concreto nella sua comprensione e distinzione delle forme e attività dello spirito, che esso sintetizza come unica realtà, mentre senza questa sintesi il giudizio non sa4833

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Giudizio rebbe neppur concepibile. Il linguaggio artistico in cui è espresso il concetto, e che include anche la sua formulazione verbale, dà luogo al giudizio «definitorio» come sintesi di parola e concetto; ma questo giudizio è identico logicamente al concetto, che esso esprime, e al giudizio «individuale» che dichiara l’esistenza delle rappresentazioni o intuizioni, da cui il concetto, sorto per formularsi e in cui il concetto riconosce il soggetto del quale è predicato. Il giudizio «individuale» è infine lo stesso che il giudizio percettivo o «storico» o esistenziale, che pone la realtà e perfezione concreta del concetto. Le formule verbali del giudizio come per sé stanti devono invece attribuirsi alla logica formalistica e utilitaria, data come strumento delle scienze per astrazione: comprese le formule dell’esistenza e dell’essere come espressi nella copula o elevati a predicato sommo, quale può essere pienamente soltanto il concetto nella totalità delle sue distinzioni, che hanno per loro unico atto l’esistenza del soggetto. Croce negò inoltre di poter riconoscere una funzione sia logica che sistematica, diversa dal giudizio in atto, al giudizio «pratico» e ai giudizi di «valore»; sui quali invece si fonda la contemporanea «filosofia dei valori» o assiologia per elevare il predicato a una relazione ideale trascendente il soggetto intuito o percepito, e cogliere così nel giudizio stesso la relazione ontologica tra fenomeno e noumeno. 7. Caratteri della logica contemporanea nella teoria del giudizio. – Dato il ravvicinamento, così elaborato, delle due tendenze per la priorità del concetto o del giudizio, e nelle più diverse scuole, la logica contemporanea si è dedicata ad approfondire nuovamente le relazioni tra le teorie antiche e le moderne del giudizio nell’intento di mostrare: a) che la logica formalistica del giudizio, anche per le singole scienze, corrisponde dal punto di vista strumentale alla logica dialettica degli antichi e alla dianoetica di Aristotele; b) che la valutazione moderna del significato gnoseologico del giudizio non toglie l’intento ontologico, assoluto o relativo che sia, del giudizio stesso, anzi gli dà fondamento; c) che nel giudizio, dal punto di vista sia formale sia reale, la fantasia e il concetto si identificano o sintetizzano; e si identificano pure il fenomeno e il noumeno, prima che analizzarsi, anche se l’analisi, nel giudizio in atto, precede la sintesi; d) che la distinzione tra giudizio e concetto è tuttavia ri4834

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chiesta per le relazioni tra logica ed esperienza. S. Caramella - R. Pozzo BIBL.: a) cfr. i commentatori antichi e scolastici del De interpretatione di Aristotele, quali: Ermia di Alessandria, Ammonio di Ermia, Stefano di Alessandria, Agostino (Dialectica), Boezio, Michele Psello (Paraphrasis), Averroè, Tommaso d’Aquino, R. Kilwardby, W. Burleigh, Gregorio da Rimini, G. Buridano, J. Baconthorpe, G. Pachymeres, G. Scholarios, A. Poliziano (Dialectica), T. De Vio, A. Bernardi della Mirandola, F. Melantone, P. Ramo, J. Carpentarius, J. Schegk, F. Toledo, F. Burgersdijk, R. Descartes, I. Kant e altri; b) H. MAIER, Die Syllogistik des Aristoteles, vol. I: Die logische Theorie des Urteils, Tübingen 1896, Leipzig 19362, Hildesheim 1969; G. CALOGERO, I fondamenti della logica aristotelica, Firenze 19682 (1927); J.M. BOCHENSKI, La logique de Théophraste, Fribourg 1947; c) M. LOSACCO, Storia della dialettica, vol. I, Firenze 1922, pp. 256-272; A. VIRIEUX-REYMOND, La logique et l’épistémologie des Stoïciens, Chambéry 1950; d) S. DOMINCZAK, Les jugements modaux chez Aristote et les Scolastiques, Louvain 1923; K. DÜRR, The Propositional Logic of Boethius, Amsterdam 1951, Westport (Connecticut) 1980; P. HOENEN, La théorie du jugement d’après St. Thomas d’Aquin, Romae 19532; e) L. COUTURAT, La logique de Leibniz, Paris 1901, Hildesheim 1985; L. LIARD, Les logiciens anglais contemporains, Paris 19075; C. SENTROUL, Kant et Aristote, Paris 1913; L. LUGARINI, Orizzonti hegeliani di comprensione dell’essere. Rileggendo la Scienza della logica, Milano 1998; f) F. UEBERWEG, System der Logik und Geschichte der logischen Lehren, Bonn 18825 (1857); A. MARTY, Ueber das Verhältnis der Grammatik zu Logik und Psychologie, Leipzig 1884; F. BRENTANO, Psychologie vom empirischen Standpunkt, Leipzig 19242 (1874), parte I, cap. 7, tr. it. Roma-Bari 1997; A. MARTY, Untersuchungen zur Grundlegung der allgemeinen Grammatik und Sprachphilosophie, Hildesheim 1976 (Halle 1908); g) W. WUNDT, Logik, vol. I, Stuttgart 19194 (1880); J. VON KRIES, Logik, Tübingen 1916 (giudizi reali e giudizi di relazione); H. SCHOLZ, Geschichte der Logik, Berlin 1931, Freiburg im Breisgau 19592, tr. it. Roma-Bari 1983; E. GOBLOT, Traité de Logique, Paris 19529 (1918); J. PIAGET, Essai sur les transformations des opérations logiques, Paris 1952; C. OTTAVIANO, Metafisica dell’essere parziale, Napoli 1954553 (contiene una riforma del «quadrato di Psello» in relazione alla logica degli stoici, e la proposta di una teoria del giudizio empirico come «giudizio sineterico», sintesi di due fenomeni); W.D. LAMONT, The Value Judgement, Edinburgh 1955, Westport (Connecticut) 1974; B.J.F. LONERGAN, Insight. A Study of Human Understanding, London 1957, e in Collected Works, vol. II, London 1992, tr. it. Alba 1961; J.B. LOTZ, Metaphysica operationis humanae, Romae 19612; F. BARONE, Logica formale e logica trascenden-

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tale, Torino 1964-652, Milano 1999-20003; L. BRUNSCHVICG, La modalité du jugement, Paris 19643 (1897); R. BRANDT, Die aristotelische Urteilslehre, Marburg 1965; G. TONELLI, Die Voraussetzungen zur kantischen Urteilstafel in der Logik des 18. Jahrhunderts, in F. KAULBACH - J. RITTER (a cura di), Kritik und Metaphysik, Berlin 1966, pp. 134-158; C. VASOLI, La dialettica e la retorica dell’Umanesimo, Milano 1968; J. PINBORG, Logik und Semantik im Mittelalter, Stuttgart - Bad Cannstatt 1971; G. NUCHELMANS, Theories of the Proposition, Leiden 1973; J. ASHWORTH, Language and Logic in the Post-Medieval Period, Dordrecht-Boston 1974; J. BUCHLER, Toward a General Theory of Human Judgement, New York 19792 (1951); G. NUCHELMANS, Late Scholastic and Humanist Theories of the Proposition, Amsterdam 1980; G. NUCHELMANS, Judgement and Proposition, Amsterdam 1983; K. REICH, Die Vollständigkeit der kantischen Urteilstafel, Hamburg 19863; R. BRANDT, Die Urteilstafel, Hamburg 1990; I.M. COPI, Introduction to Logic, London 19908 (1953), parte II, cap. II, tr. it. Bologna 20023; R. BRANDT, D’Artagnan und die Urteilstafel, Stuttgart 1991, tr. it. Milano 1998; R. FEDRIGA, Le migliori intenzioni, Milano 2002. ➨ ANALISI; ANALITICO E SINTETICO; APPERCEZIONE; A PRIORI - A POSTERIORI; CATEGORIA; CONTRADDIZIONE; CONVERSIONE LOGICA; FANTASIA CATALETTICA; GIUDIZI ANALITICI E SINTETICI; GIUDIZI LIMITATIVI; GIUDIZIO APODITTICO; GIUDIZIO ASSERTORIO; GIUDIZIO DESCRITTIVO; GIUDIZIO PRATICO; GIUDIZIO PROBLEMATICO; GIUDIZIO UNIVERSALE; LEKTON; LOGICA SIMBOLICA; OBVERSIONE; OPPOSIZIONE; PROPOSIZIONE; SEMANTICA; SINTESI; TERMINE CONTRARIO E PROPOSIZIONE CONTRARIA; VALORI, FILOSOFIA DEI; VERITÀ.

GIUDIZIO APODITTICO (da apodissi; afferGiudizio apodittico mativo della necessità - apodictic judgment; apodiktisches Urteil; jugement apodictique; juicio apodíctico). – È il giudizio di modalità necessaria. La principale trattazione di esso è quella di Aristotele (De int., 13), che ne presenta la seguente formulazione (in forma affermativa e negativa): è necessario che S sia P; è necessario che S non sia P. Tale formulazione è al termine di una doppia serie di consecuzioni; e precisamente: 1) per la formula affermativa: non è possibile che S non sia P; non è contingente che S non sia P; è impossibile che S non sia P; è necessario che S sia P. 2) Per la formula negativa: non è possibile che S sia P; non è contingente che S sia P; è impossibile che S sia P; è necessario che S non sia P. Kant dichiarò che questa forma di giudizio è da riconoscere in tutte le proposizioni geome-

Giudizio condizionale triche. Nelle scienze della natura essi sono attualmente formulati secondo la categoria di necessità: la loro funzione apodittica riguarda dunque il predicato, ma si deve osservare che ciò è vero degli affermativi, poiché nei negativi la necessità si riferisce al soggetto (Kritik der reinen Vernunft, Riga 17872, pp. 41, 126, 622623). Hegel ritenne che la formulazione della necessità nei giudizi sia data dal porre espressamente la condizione dei rapporti tra soggetto e predicato, e che questa condizione sia integrativa della copula: «Questa casa, costruita realmente così, è comoda». In ciò sta la caratteristica di realtà obiettivata, o inverata, propria di questi giudizi: essi definiscono l’identità di soggetto e predicato e, formulando la copula come unità mediatrice, aprono la via al sillogismo (G.F.W. Hegel, Wissenschaft der Logik, a cura di G. Lasson, II, Leipzig 1923, pp. 306-308). S. Caramella BIBL.: L. BRUNSCHVICG, De la modalité du jugement, Paris 1897; B. SPAVENTA, Logica e Metafisica, Bari 1911, p. 382; L. ROUGIER, La structure des théories déductives, Paris 1921; C.A. VIANO, La logica di Aristotele, Torino 1955.

GIUDIZIO ASSERTORIO (assertory judgeGiudizio assertorio ment; assertorisches Urteil; jugement assertorique; juicio asertórico). – Secondo Kant, è giudizio assertoio quello in cui l’affermare, o il negare, si considera come reale (vero). Esempio: Pietro è virtuoso. Insieme con i problematici e gli apodittici, i giudizi assertori rientrano nella categoria della modalità, riguardante, anziché il contenuto del giudizio, il valore della copula, rispetto al pensiero in generale. Cfr. Critica della ragion pura, Analitica trascendentale, l. I, cap. I, § 9, 4, tr. it. di G. Gentile - G. Lombardo Radice, Bari 1963, p. 114; per la concezione del giudizio assertorio dopo Kant cfr. D. Bell, Frege’s theory of Judgement, Oxford 1979. Red.

GIUDIZIO CONDIZIONALE E SILLOGIGiudizio condizionale SMO CONDIZIONALE (conditional judgement and syllogism; Konditionalurteil und schluss; jugement conditionnel et syllogisme conditionnel; juicio condicional y silogismo condicional). – Dicesi condizionale il giudizio del tipo «se P, allora Q» e il sillogismo che presenta o giudizi condizionali sia nelle premesse sia nella conclusione («sillogismo congiuntivo puro») o un 4835

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Giudizio descrittivo

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giudizio condizionale in una premessa sola, quella maggiore («sillogismo condizionale misto»). In quest’ultimo caso, l’altra premessa e la conclusione sono giudizi categorici, e il sillogismo ha due modi validi: il modus ponens e il modus tollens. Si discute se il giudizio condizionale sia semplice o composto. Aristotele e Tommaso lo considerano composto, ossia uno per congiunzione (cfr.: Tommaso, In I Perih., lezione VIII). Logici più recenti, invece, per il fatto che tutto il significato di esso sta nel legame tra ipotesi e tesi, lo comprendono fra i giudizi semplici. M. Sancipriano ➨ CONDIZIONE; GIUDIZIO; LOGICA PROPOSIZIONALE; SILLOGISMO.

GIUDIZIO DESCRITTIVO (descriptive judGiudizio descrittivo gement; deskriptives Urteil; jugement descriptif; juicio descriptivo). – Giudizio che si distingue dal narrativo e dall’esplicativo, in quanto risulta dalla predicazione descrittiva, per la quale il soggetto viene determinato e qualificato da proprietà o caratteri estrinseci. Di tali giudizi constano le definizioni della storia naturale. Red.

GIUDIZIO DETERMINANTE (ted. bestimGiudizio determinante mende Urteilskraft). – Termine di Kant. ➨ DETERMINAZIONE; GIUDIZIO RIFLETTENTE. GIUDIZIO E FILOSOFIA Giudizio e filosofia praticaPRATICA. – Il giudizio pratico può essere considerato o come l’esito di un ragionamento pratico, oppure come l’applicazione immediata di uno o più principi generali di comportamento a un caso particolare. Alla base di queste due concezioni vi è, naturalmente, una differente idea di ciò che significa «giudicare» e, soprattutto, una diversa valutazione della riconducibilità del giudicare all’ambito della logica formale. La tematica del giudizio pratico è già chiaramente presente in Aristotele. Ma è nella riflessione contemporanea che essa trova importanti sviluppi, i quali possono essere illustrati esaminando le concezioni sia della filosofia analitica che dell’ermeneutica novecentesca. Aristotele fornisce la prima, decisiva trattazione del giudizio pratico all’interno dell’articolata elaborazione della sua filosofia pratica. Nell’ottica aristotelica la filosofia pratica rivendica uno specifico carattere scientifico, sebbene essa non possa pretendere di avere la 4836

stessa esattezza che è propria di altre discipline (come, ad esempio, la matematica: cfr. Etica Nicomachea I, 3, 1094 b, 25-27). Le sue dimostrazioni, infatti, partono da premesse valide «per lo più» e giungono dunque a conclusioni dello stesso tipo, cioè valide nella maggior parte dei casi. Si spiega dunque il motivo per cui, nella riflessione filosofica successiva, e più decisamente nel pensiero contemporaneo, non solo si è cercato di stabilire, confrontandosi con il criterio della razionalità scientifica, le condizioni della corretta argomentazione morale e di un giudizio pratico dotato di validità, ma soprattutto perché un tale tentativo si è ripetutamente scontrato con l’impossibilità di individuare regole fisse per governare i singoli casi concreti. Aristotele inserisce e discute il giudizio pratico all’interno del ragionamento pratico (o sillogismo pratico). Il sillogismo pratico è il modo in cui argomenta l’uomo saggio, prudente: colui che è capace di deliberare bene, cioè di definire i mezzi necessari per raggiungere un fine buono. Nell’argomentazione del sillogismo pratico, come viene detto nel De anima (III, 11, 434 a, 16-22; cfr. anche Etica Nicomachea, VI, 8, 1142 a, 20-23, e VI, 12, 1144 a, 31-35), la premessa maggiore è un giudizio o una proposizione universale; la minore è ugualmente un giudizio o una proposizione, che tuttavia ha a che fare con qualcosa di particolare; la conclusione è il movimento prodotto o da uno o da entrambi i giudizi: è l’affermazione di una scelta, ponderata e descrivibile, cioè il giudizio pratico propriamente inteso, ovvero è l’azione stessa concretamente compiuta. Bisogna tuttavia domandarsi, a questo proposito, se l’esito del sillogismo pratico è una scelta concreta, ovvero è la messa in opera di una specifica azione, o è invece l’enunciazione di questa stessa azione (il giudizio pratico, appunto, quale esito del sillogismo pratico). Ne va infatti della possibilità di inserire o meno nell’ambito della razionalità pratica la stessa disposizione a eseguire il giudizio pratico, e dunque la motivazione a farlo. Una tale questione si ripresenta a partire dagli anni cinquanta, con esplicito riferimento ad Aristotele, nell’ambito della filosofia analitica. E di nuovo, qui, la tematica del giudizio pratico si trova ricollegata a quella dell’argomentazione morale. Due, schematicamente, sono i modelli di ragionamento pratico che vengono a profilarsi. Il

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primo è costituito interamente da proposizioni o giudizi (ad esempio: non è bene che io ingrassi, mangiare molti dolci fa ingrassare, dunque, non è bene che io mangi molti dolci). In questo caso il sorgere dell’intenzione e la realizzazione di essa richiede un passaggio ulteriore, che non è un giudizio e che non rientra nell’ambito di questo ragionamento. Il secondo modello include invece nell’argomentazione espressioni che contengono rappresentazioni di stati mentali. Non si tratta di proposizioni o di giudizi in senso stretto, perché i loro contenuti non sono veri o falsi, bensì indicano un desiderio o una decisione (ad esempio: io vorrei tanto non ingrassare, mangiare molti dolci fa ingrassare,dunque, la smetto di mangiare molti dolci). Riguardo alla conclusione del ragionamento pratico vengono così distinti, più chiaramente che in Aristotele, il giudizio pratico, la decisione effettiva e la concreta azione. Vi è tuttavia un altro modo che il pensiero filosofico ha individuato per definire il passaggio dai principi universali all’ambito del concreto decidere, e anch’esso riguarda il giudizio pratico. Lo si può vedere in Kant, il quale individua una facoltà di giudicare separata dalla logica formale. Nella Critica della ragion pura, infatti, egli si domanda che cosa rende possibile l’applicazione dell’universale al particolare. Una tale condizione di possibilità è appunto costituita dalla capacità di giudicare, intesa come «facoltà di sussumere sotto regole, ossia di vedere se un particolare stia sotto una regola data (casus datae legis)» (Kritik der reinen Vernunft, in AA, vol. III, p. 131). E questa capacità manifesta un vero e proprio talento, un ingenium che, come dirà la Critica della capacità di giudicare, non può essere insegnato. In questa prospettiva il giudizio, e più specificamente il giudizio pratico, da punto di arrivo di un’argomentazione si trasforma in criterio esso stesso del passaggio da leggi astratte a una situazione concreta, nel senso in cui, ad esempio, si dice di una persona assennata che «ha giudizio». Nello specifico contesto della Critica della ragion pratica, poi, Kant definisce il giudizio pratico ciò «mediante il quale quel che in una regola fu detto in modo universale (in abstracto) venga applicato in concreto a un’azione» (Kritik der praktischen Vernunft, in AA, vol. V, p. 67). Si tratta di operare anche qui una mediazione: questa volta della legge morale, come espres-

Giudizio e filosofia pratica sione della libertà dell’uomo, con la dimensione empirica, soggetta alle determinazioni della natura, di cui pure l’uomo sensibile è parte. In ciò consiste, specificamente, il giudizio «etico-pratico» – espressione di una morale che non tiene conto, nel giudicare, delle conseguenze delle proprie azioni – il quale risulta distinto dal giudizio «tecnico-pratico», che a tali conseguenze è invece attento. Di nuovo la distanza da Aristotele, e in questo caso dalla sua concezione della phronesis, emerge con chiarezza. Un recupero di Aristotele proprio nell’ottica del giudizio pratico, tuttavia inteso come applicazione dell’universale al particolare e non come conclusione di un’argomentazione pratica, è invece compiuto da Heidegger nei suoi corsi di lezione della prima metà degli anni venti. E le indicazioni heideggeriane vengono riprese nel secondo dopoguerra da quel movimento di «riabilitazione della filosofia pratica» che ha in Gadamer uno dei suoi rappresentanti di maggiore spicco. Qui la concezione ermeneutica del giudizio pratico è applicata allo stesso Aristotele, facendo tesoro della sua dottrina della prudenza e aggiornandola proprio in polemica con l’astrattezza della posizione morale di Kant. Sempre all’interno della scuola heideggeriana, tuttavia, H. Arendt rintraccia nuovamente in Kant – non tuttavia nel Kant della Critica della ragion pratica, bensì in quello della Critica della capacità di giudicare – l’idea di un «giudizio» lontano da ogni procedura logica e prossimo invece a ciò che in Aristotele, e nella sua teoria della saggezza pratica, avrebbe individuato Gadamer. Su questa linea, allora, è possibile per Arendt (nei suoi ultimi scritti) cercar di fondare una prospettiva comunitaria basata appunto sull’interpretazione del giudizio pratico nella forma del giudizio politico. A. Fabris BIBL.: G.E.M. ANSCOMBE, Intention, Oxford 1957; G.H. VON WRIGHT, Explanation and Understanding, London 1971, tr. it. a cura di G. Di Bernardo, Spiegazione e comprensione, Bologna 1977; H.-G. GADAMER, Vernunft im Zeitalter der Wissenschaft, Frankfurt am Main 1976, tr. it. a cura di A. Fabris, La ragione nell’età della scienza, Genova 1982; A. KENNY, Aristotle’s Theory of the Will, London 1979; H. ARENDT, Lectures on Kants Political Philosophy, Chicago 1982, tr. it. di P.P. Portinaro, Teoria del giudizio politico, Genova 1990; P. AUBENQUE, La prudence chez Aristote, Paris 1993; G. NICOLACI, Può l’«azione» concludere un sillogismo?

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Giudizio estetico Sulla teoria aristotelica del sillogismo pratico, in L. ROSSETTI - O. BELLINI (a cura di), Teorie e forme della razionalità pratica, Napoli 1994; A. FERRARIN, Saggezza, immaginazione e giudizio pratico. Studio su Aristotele e Kant, Pisa 2004.

GIUDIZIO ESTETICO (aesthetic judgement; Giudizio estetico ästhetisches Urteil; jugement esthétique; juicio estético). – L’idea che esistano forme di deliberazione, differenti dall’intelletto logico-discorsivo, capaci di discernere le cose particolari (delle quali, in quanto tali, non vi può essere scienza), si ritrova già nell’Etica Nicomachea, nel corso della trattazione delle virtù dianoetiche; interessante è che Aristotele, in proposito, parli della phronesis come forma di sapere di cui non si dà «scienza», bensì aisthesis, «sensazione» (1141 b). In generale, estetico è dunque ogni giudizio formulato a partire da un sentire che non può ricondursi appieno a un sapere logico-discorsivo. La capacità o facoltà di giudicare si caratterizza così sin dall’origine come non suscettibile di essere dedotta in termini astratti, né a rigore insegnata, ma tale da esigere piuttosto educazione. Secondo Cicerone (De Oratore, III, 50-51), essa è «una sorta di senso inconsapevole», indipendente dall’intelletto: una definizione esemplare destinata ad attraversare in vario modo il corso del pensiero occidentale. Nel sec. XVIII tale capacità diviene oggetto di riflessione propriamente estetica, in connessione con il gusto – in una sorta di presa di distanza dal detto scolastico «de gustibus et coloribus non est disputandum»; tanto che si riconosce in tale capacità di giudicare una sorta di istinto di cui coloro che ne sono dotati ignorano la causa. La difficoltà consiste allora nella salvaguardia da una parte della soggettività di colui che formula il giudizio estetico, dall’altra dell’individualità dell’oggetto giudicato, le cui qualità pure non sono né irrazionali né meramente private, e rivendicano di essere comunicate secondo un tipo particolare di universalità. Nella Critica del Giudizio estetico (Parte prima della Kritik der Urteilskraft, Berlin 1790, tr. it. di A. Gargiulo revisionata da V. Verra, Critica del Giudizio, Roma-Bari 1992), dapprima pensata come «critica del gusto», Kant respinge l’idea di ricavare una filosofia del bello e dell’arte sulla base della gnoseologia inferior. Di qui l’elevazione della «facoltà di giudicare» (Urteilskraft) da facultas cognoscitiva inferior, quale era 4838

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in Baumgarten, a terza (nonché intermedia) fra le facoltà conoscitive dell’animo umano (tra intelletto e ragione). Su queste considerazioni si fonda quindi la distinzione fra giudizi determinanti e giudizi riflettenti, laddove questi ultimi hanno il compito di muovere dal particolare per «trovare l’universale». Secondo Kant, il giudizio estetico deve la propria sussistenza a un «libero gioco» fra immaginazione e intelletto: quando l’immagine rappresentata di una certa cosa, senza necessità, appare conforme alle esigenze dell’intelletto, il rinvenimento di coerenza e unità ove ciò non è affatto scontato, ossia in un oggetto esterno, dà luogo a un’armonia fra le facoltà dell’animo che provoca il sentimento di piacere e, in definitiva, il bello. Nel contesto della filosofia contemporanea, la peculiare universalità soggettiva del giudizio estetico ha da un lato fatto sì che si rimproverasse a Kant la paternità della «coscienza estetica» soggettiva moderna, che avrebbe separato l’esperienza estetica dalla verità (H.-G. Gadamer); dall’altro, ha tuttavia permesso di riscoprire nella fondazione intersoggettiva postulata da tale giudizio estetico uno spazio in direzione per es. dell’ambito politico, in autori come H. Arendt (Lectures on Kant’s Political Philosophy, Chicago 1982, tr. it. di P.P. Portinaro, Teoria del giudizio politico, con un saggio di R. Beiner, Genova 2005), J.-F. Lyotard (L'enthousiasme. La critique kantienne de l'histoire, Paris l986, tr. it. di F. Mariani Zini, L’entusiasmo, Milano 1989) e altri ancora. Di particolare interesse, infine, le osservazioni sul giudizio estetico contenute nei Quaderni di L. Wittgenstein, che nel Tractatus pure ne avrebbe respinto la possibilità: esso, pur non descrivendo un fatto del mondo, è tuttavia un accesso possibile al senso del mondo stesso, «la cosa vista sub specie aeternitatis [...] con tutto lo spazio logico» – un accesso a ciò che rimane indescrivibile nei termini di una teoria rappresentazionistica del linguaggio (Tractatus logico-philosophicus, a cura di W. Vossenkuhl, Berlin 2001, tr. it. di A.G. Conte, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 19141916, Torino 1998). G. Garelli BIBL.: L. PAREYSON (a cura di), Il giudizio estetico, ed. della «Rivista di Estetica», 1960; H.-G. GADAMER, Verità e metodo (1960), Milano 1983; F. DESIDERI, Il passaggio estetico, Genova 2003. ➨ ESTETICA; GUSTO; SENSAZIONE; SENTIMENTO.

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GIUDIZIO GIURIDICO (juridical judgement; Giudizio giuridico richterliches Urteil; jugement juridique; juicio jurídico). – Parlando di giudizio giuridico ci si riferisce comunemente a quel complesso di attività conoscitive e valutative esplicate dal giudice nell’esercizio della sua specifica competenza, vale a dire nel momento cosiddetto dell’applicazione del diritto. Il giudizio giuridico può pertanto essere definito il momento della qualificazione giuridica del caso concreto sottoposto ed esaminato al fine di ottenere la decisione giuridica, che si esplica nella sentenza. Analiticamente e schematicamente si possono distinguere diversi tipi di giudizio, 1) i giudizi che instaurano il momento cosiddetto «storico» del giudizio, inteso come accertamento di verità o di fatto, il quale a sua volta comprende: a) l’accertamento vero e proprio dei fatti, b) l’accertamento della norma astratta, o la fattispecie legale atta a qualificare, ancora astrattamente, la fattispecie reale sottoposta al giudizio (giudizio di fatto e giudizio di diritto, secondo la distinzione corrente); operazioni, queste, effettuate in linea principale dal giudice e in linea subordinata anche dalle parti, secondo i variabili poteri conferiti a tali soggetti dalla legge; 2) i giudizi che instaurano la fase propriamente giuridica del giudizio, la quale a sua volta comprende: a) l’interpretazione della norma generale e astratta al fine del suo adattamento al caso concreto, nonché degli atti e dei fatti introdotti nel giudizio, b) la qualificazione giuridica degli stessi fatti, operata ancora sia dal giudice che dalle parti, c) infine, la vera e propria qualificazione giuridica del fatto nella fase specificamente decisoria del processo, che consiste nella sintesi concreta di tutti questi atti e giudizi presupposti e nell’attribuzione ad essi delle conseguenze giuridiche con la sentenza. Sempre in quest’ambito di attività è altresì ricorrente quello che per molti aspetti è il giudizio giuridico più tipico, cioè il giudizio di validità giuridica, altrimenti detto «giudizio di valore giuridico» o di «legalità» o di «validità» senz’altro. Tale è il giudizio che accerta «l’esistenza giuridica» di una norma, o meglio, l’esistenza di quei requisiti formali dai quali un determinato ordinamento giuridico fa appunto dipendere l’esistenza «sui generis» e quindi la validità delle proprie norme. Più in generale, peraltro, con riferimento al processo comples-

Giudizio giuridico sivo dell’applicazione del diritto, si possono ancora considerare altri tipi di giudizio giuridico: i giudizi pronunciati dal legislatore e quelli pronunciati dal giurista nell’esercizio delle rispettive competenze. A ben vedere, il «giudizio di validità» è duplice: degli atti subordinati alla legge rispetto a quest’ultima (cosiddetta legalità) e della legge rispetto alle fonti ad essa sovraordinate e segnatamente alla Costituzione (cosiddetta costituzionalità). Ne discende una illegittimità potenzialmente alternativa o doppia, a seconda che sia leso l’uno (legge) o l’altro parametro (Costituzione) o entrambi. In realtà, nello Stato costituzionale contemporaneo «tutti» gli atti, e non solo le leggi, devono essere conformi a Costituzione, vera lex legum superiore, e i vizi di validità sono non solo formali-procedimentali, ma anche «sostanziali». In teoria, un «giudizio di validità costituzionale» logicamente coerente dovrebbe prevedere non la diacronia, ma la piena sincronia fra invalidità e inefficacia. Allorché invece una legge «invalida» continua ad essere «efficace» fino a quando non è dichiarata illegittima, si constata la fragilità del principio di rigidità costituzionale e la presenza del cosiddetto privilegio del legislatore. In sintesi, il giudizio di costituzionalità può avere carattere preventivo (cosiddetto politico: Francia) e/o successivo (giurisdizionale). A sua volta quest’ultimo – alla stregua dei due classici e contrapposti modelli austriaco (1920) e americano (1787) – può essere, alternativamente: con sindacato accentrato o diffuso, con accesso astratto (in via principale/diretta) o concreto (in via incidentale/indiretta), con sentenza costitutiva (annullamento ex nunc, pro futuro ed erga omnes) o dichiarativa (disapplicazione ex tunc e inter partes). La distanza fra i due modelli teorici tende a ridursi di fronte alla crescita dei sistemi cosiddetti misti di giustizia costituzionale, caratterizzati, p. es., da: sindacato accentrato, accesso concreto e diffuso, sentenza costitutiva con effetti erga omnes e parzialmente ex tunc (ad es., Italia, RFT, Spagna). Per una buona comprensione delle modalità tecniche e logico-giuridiche che caratterizzano il giudizio di validità costituzionale è necessario approfondire i concetti di Costituzione, interesse, valore, ragionevolezza, uguaglianza, equità, bilanciamento. L. Caiani - A. Spadaro

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Giudizio morale BIBL.: G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto, Roma 1937; M.S. GIANNINI, L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria giuridica generale dell’interpretazione, Milano 1938; E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, MIlano 1949; N. BOBBIO, Teoria della scienza giuridica, Torino 1950; L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova 1954; N. NAVA, Valore e determinazione giuridica, Modena 1954; E. GARCÍA MÁYNEZ, Lógica del juicio jurídico, Ciudad de México 1955; G. ZIZAK, I presupposti del giudizio giuridico, in «Rivista lnternazionale di Filosofia del diritto», 32 (1955), pp. 228-262; L. RECASENS SICHES, Nueva filosofia de la interpretación del derecho, Ciudad de México 1956; V. PALAZZOLO, Scienza e epistemologia giuridica, Padova 1957; J.Y. DOLAN, Natural Law and the Judicial Function, in «Laval théologique et philosophique», 1 (1960), pp. 94141; S. PUGLIATTI, Conoscenza e diritto, Milano 1961; R.A. WASSERSTROM, The Judicial Decision: Toward a Theory of Legal Justification, Stanford 1961; E.W. PATTERSON, L’influence des jails sur les jugements de valeur juridique, in AA.VV., Mélanges en l’honneur de J. Dabin, Paris 1963, pp. 197-209; A. SPADARO, Limiti del giudizio costituzionale in via incidentale e ruolo dei giudici, Napoli 1990; B. PASTORE, Giudizio, prova, ragion pratica, Milano 1996; A. RUGGERI - A. SPADARO, Lineamenti di Giustizia costituzionale, Torino 20043. ➨ BILANCIAMENTO; COSTITUZIONE; EQUITÀ; GIURISPRUDENZA; INTERESSE; RAGIONEVOLEZZA; UGUAGLIANZA; VALORE; VIZI DI VALIDITÀ.

GIUDIZIO MORALE (moral judgement; sittliGiudizio morale ches Urteil; jugement moral; juicio moral). – Il giudizio morale è ciò in cui si esprime la coscienza morale: è il prodotto della ragion pratica e consiste nell’approvazione o nella riprovazione normativamente significative e dunque implicanti un riferimento a categorie morali (lodevole/biasimevole, bene/male, giusto/ingiusto) e non a semplici gusti o opzioni soggettive, di azioni, comportamenti, pratiche, istituzioni e persone. L’esame del giudizio morale può essere condotto avendo di mira, per es., l’evoluzione morale dell’agente, oppure la natura della ragion pratica (se sia da intendere intellettualisticamente o sulla base di un’antropologia disposizionale), oppure i differenti caratteri epistemologici che devono appartenere al giudizio morale nella misura in cui varia il tipo ontologico di oggetto cui esso si riferisce. R. Fanciullacci BIBL.: W.D. LAMONT, The Principles of Moral Judgement, Oxford 1946; P. MCGRATH, The Nature of Moral Judgement: a Study in Contemporary Moral Philo-

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sophy, London 1967; L. KOHLBERG, The Claim to Moral Adequacy of Highest Stage of Moral Judgement, in «Journal of philosophy», 25 (1973), pp. 630-646; M. SLOTE, Sentimentalist Virtue and Moral Judgement Outline of a Project, in «Metaphilosophy», 34 (2003), pp. 131-143. ➨ COSCIENZA MORALE.

GIUDIZIO PRATICO (practical judgement; Giudizio pratico praktisches Urteil; jugement pratique; juicio práctico). – In senso generico, è la valutazione del fine che determina l’azione e dei mezzi da scegliere per conseguirla. In senso stretto, invece, è la valutazione di una concreta azione individuale. In Aristotele la possibilità di un giudizio pratico non risiede pertanto nella volontà (che è orientata genericamente al bene) quanto nella facoltà di deliberare (proaíresis) alla quale compete la scelta del bene concreto. In ciò essa ha bisogno essenziale di una virtù dell’intelletto, la phrónesis, cioè la prudenza. Analogamente Kant, determinando i caratteri dell’autonomia morale, definisce come giudizio pratico quello mediante il quale «ciò che vien detto nella regola genericamente (in abstracto), viene applicato a un’azione in concreto» (I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, Riga 1788, tr. it. di V. Mathieu, Critica della ragion pratica, Milano 2000, p. 153). Secondo lui però il giudizio pratico si compie mediante il riferimento non al fine oggettivo del bene ma soltanto in riferimento all’universalità della legge morale interiore. Nel pensiero contemporaneo, soprattutto in seguito alla rilettura di Kant proposta da H. Arendt e al suo recupero della concezione kantiana del giudizio riflettente, la teoria del giudizio pratico si è consolidata come teoria del giudizio politico, indicando la capacità di individuare, nella specificità della deliberazione politica, l’universale senza doverlo presupporre o applicare ex post. S. Alberghi - L. Cortella Bibl.: ARISTOTELE, Etica Nicomachea, tr. it. di C. Natali, Bari 1999; I. KANT, Kritik der Urteilskraft, Berlin 1790, tr. it. di A. Gargiulo, riveduta da V. Verra, Critica del giudizio, Roma-Bari 1974 (1960); H. ARENDT, Lectures on Kant’s Political Philosophy, a cura di R. Beiner, Brighton 1982, tr. it. di P.P. Portinaro, M. Vento e C. Cicogna, Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, Genova 1990; A. FERRARA, Autenticità riflessiva. Il progetto della modernità dopo la svolta linguistica, Milano 1999. ➨ PHRÓNESIS; PRUDENZA.

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Giudizio riflettente

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GIUDIZIO PROBLEMATICO (problematical Giudizio problematico judgement; problematisches Urteil; jugement problématique; juicio problemático). – Del giudizio problematico v’è già qualche cenno in Aristotele, particolarmente nel De interpretatione, ove si distingue la proposizione «A può essere B» (problematica) da quella «A è B» (assertoria) e da una terza «A deve essere B» (apodittica). Ma Aristotele considera il giudizio problematico, o di pura possibilità, come secondario rispetto all’assertorio. Kant, nutrito di studi logici, si vale (nella Critica della ragion pura, Analitica dei concetti) del giudizio problematico in quanto espressivo della categoria di possibilità. Egli lo riporta, secondo la tradizione logica, sotto il titolo della modalità (ossia di quella funzione logica che, senza contribuire al contenuto del giudizio, tocca solo il valore della copula rispetto al pensiero in generale) e lo definisce come il giudizio in cui l’affermare o il negare si ammette come semplicemente possibile (arbitrario). Esemplificando, Kant riconosce come problematiche le singole proposizioni costitutive dei giudizi ipotetici e disgiuntivi. La struttura del giudizio problematico è stata messa in questione anche dopo Kant. Giova, per esempio, ricordare, a questo proposito, il tentativo di Sigwart (Logik, Tübingen 1873-78; Freiburg 18892) di riportare il giudizio problematico alle forme «genuinamente» interrogative del discorso; e, soprattutto, la Logica di Lotze (System der Philosophie, parte I, Leipzig 1874), che riconosce come problematici (ossia capaci di caratterizzare come possibile un rapporto pensato tra soggetto e predicato) solo i giudizi particolari e singolari per la loro quantità. «Proposizioni della forma: alcuni S sono P; alcuni S possono o debbono essere P; questo S è P o può o deve essere P, dicono immediatamente solo per determinati casi dell’S il reale, possibile o necessario trovarsi del predicato P, e lasciano indeciso come in questo rapporto gli altri non menzionati casi dell’S si comportino» (H. Lotze, Logik, Leipzig 19282, p. 67). In tale «indecisione» risiede, per Lotze, la nota caratteristica del giudizio problematico. V. Sainati BIBL.: oltre alle più note storie della logica (come Prantl e Bochenski) si può vedere: B. BOSANQUET, Logic, Oxford 19312, vol. I, pp. 365-374; H.W.B. JOSEPH, An Introduction to Logic, Oxford 19502, pp. 196-200; R. BLANCHÉ, La logique et son histoire d’Aristote à Russell, Paris 1970; M. CAPOZZI, Kant e la logica, Roma

1999. Cfr anche W. RISSE, Bibliographia logica, Hildesheim-New York 1965-79, I-IV. ➨ PROBLEMA,

III.

GIUDIZIO RIFLETTENTE (tedesco reflekGiudizio riflettente tierendes Urteil). – Secondo Kant, la facoltà o capacità di giudizio in generale (Urteilskraft überhaupt) ci dà la possibilità di pensare il particolare come contenuto nell’universale. Se l’universale è dato, come nel caso delle categorie dell’intelletto, allora il giudizio di conoscenza che ne consegue è determinante. Se invece è dato solo il particolare, e l’universale va ricercato con una attenta opera di riflessione, allora il giudizio è riflettente; e riflettere «significa confrontare e congiungere rappresentazioni date o con altre o con la propria facoltà della conoscenza (Erkenntnißvermögen), in relazione a un concetto reso possibile da essa» (KU, I Introduzione, cap. V). Questa comparazione avviene sulla base di un principio non dato, ma ricercato all’interno di un’esperienza complessa, che riguarda sia la natura (specie vivente) sia l’arte. Tale principio per sua natura «soggettivo» (ma che serve da guida sia nella esperienza estetica sia nella conoscenza e nella scoperta delle leggi empiriche della natura) è il «presupposto trascendentale» della finalità (Zweckmäßigkeit). Quando tale principio serve da guida, nella nostra riflessione, per cogliere l’universalità e la necessità (soggettive) del piacere che sta alla base dei giudizi sul bello e sul sublime, si ha il «giudizio estetico di riflessione»; quando invece abbiamo a che fare con la «finalità oggettiva», quale si manifesta nella natura vista nella molteplicità dei suoi aspetti, e in particolar modo nei corpi organici, si ha il giudizio teleologico: «esso è un giudizio di conoscenza, ma appartiene soltanto alla facoltà del giudizio (Urteilskraft) riflettente, non a quello determinante» (ibi, cap. VII). S. Marcucci BIBL.: M. LIEDTKE, Der Begriff der Reflexion bei Kant, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», 48 (1966), pp. 207-216; M. BENEDIKT, Bestimmende und reflektierende Urteilskraft, Wien 1971; D. DUMOUCHEL, La découverte de la faculté de juger réfléchissante, in «KantStudien», 84 (1994), pp. 419-442; M. KUGELSTADT, Synthetische Reflexion. Zur Stellung einer nach Kategorien reflektierenden Urteilskraft in Kants theoretischer Philosophie, Berlin-New York 1998; G.F. MUNZEL, Kant’s Conception of Moral Character. The «Critical» Link of Morality, Anthropology, and Reflective Judgment, Chicago-London 1999; M. BEK, Die Ver-

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Giudizio teleologico mittlungsleitung der reflektierenden Urteilskraft, in «Kant-Studien», 92 (2001), pp. 294-325; H.E. ALLISON, Reflective Judgement and the Application of Logic to Nature, in H.-J. GLOCK (a cura di), Strawson and Kant, Oxford 2003, pp. 169-184; S. MARCUCCI, Sulla natura del giudizio morale: determinante o riflettente?, in C. FERRINI (a cura di), Eredità kantiane (18042004), Napoli 2004, pp. 389-399.

GIUDIZIO TELEOLOGICO (tedesco teleoloGiudizio teleologico gisches Urteil). – Secondo Kant (KU, parte II) è il giudizio mediante il quale l’accordo tra l’ordine necessario della natura e una visione complessiva del mondo, della religione e della morale è pensato come determinato dal concetto di fine, che assume così una dimensione scientifica, cosmologica, religiosa e morale. Esso costituisce la forma oggettiva del giudizio riflettente, mentre il giudizio estetico ne costituisce la forma soggettiva. Più precisamente, in tale giudizio la finalità di un oggetto dato dall’esperienza è presentata come accordo della forma dell’oggetto con la possibilità di esso; e ciò secondo un concetto che precede e contiene il principio della stessa forma (ibi, § 65). Ciò avviene soprattutto con i corpi organici, di cui si occupano le scienze empiriche della natura. G.M. Pozzo - S. Marcucci BIBL.: A. STADLER, Kant’s Teleologie und ihre erkenntnisstheoretische Bedeutung, Berlin 1874 (19122); H.W. CASSIRER, A Commentary on Kant’s «Critique of Judgement», London 1938; K. DÜSING, Die Teleologie in Kant’s Weltbegriff, Bonn 1968 (19862); J.D. MC FARLAND, Kant’s Concept of Teleology, Edinburgh 1970; S. MARCUCCI, Aspetti epistemologici della finalità in Kant, Firenze 1972; S. MARCUCCI, La teleologia in Kant, in «Fondamenti», n. 14-16 (1989-90), pp. 45-86; P. MCLAUGHLIN, Kant’s Critique of Teleology in Biological Explanation. Antinomy and Teleology, LewinstonNew York 1990; AA.VV., Kant e la finalità della natura, Padova 1990; AA.VV., Teleologie, ein philosophisches Problem in Geschichte und Gegenwart, Würzburg 1994; J.C. RIVERA DE ROSALES, Kant: la «Critìca del Juicio teleològico» y la corporalidad del sujeto, Madrid 1998; T. KINNAMAN, The Task of the «Critique of Judgement»: Why Kant Needs a Deduction of the Principle of the Purposiveness of Nature, in «American Catholic Philosophical Quarterly», 75 (2001), pp. 243-269; P. GUYER, Zweck in der Natur. Was ist lebendig und was ist tot in Kants Teleologie?, in AA.VV., Warum Kant heute?, Berlin-New York 2004, pp. 383-413.

GIUDIZIO UNIVERSALE (universal judgeGiudizio universale ment; universelles Urteil; jugement universel; jui4842

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cio universal). – In logica è quel giudizio in cui il concetto che ha funzione di soggetto è una nozione universale. Come tale, il giudizio universale non è usato soltanto in filosofia, ma anche nel pensiero scientifico, in cui i principi, le leggi con cui si formulano le spiegazioni, le conoscenze in genere, si esprimono con giudizi universali. Se l’universalità del giudizio universale può essere manifestata e garantita (almeno sotto determinate condizioni) dal fatto che il giudizio in questione sia evidente per molti o per tutti, tuttavia, nel caso dei giudizi universali della scienza, la garanzia di validità è data, al di là dell’interpretazione individuale, dall’opera dello scienziato in quanto tale. Red. ➨ GIUDIZIO; UNIVERSALE.

GIULIANA Giuliana (JULIAN) DI NORWICH (santa). – Mistica inglese, n. nel 1342-3; nel 1416 era ancora in vita. Nel 1373 ebbe una serie di visioni. Le visioni o rivelazioni di Giuliana sono esposte in due testi, noti come Short Text, il più antico, e Long Text, il più recente. Quest’ultimo, più complesso, mostra il progresso spirituale compiuto da Giuliana nei venti o trent’anni che intercorrono tra la stesura dei due. Delle due versioni delle Revelations of Divine Love si possiede un’edizione critica: A Book of Showings to Anchoress Julian of Norwich, a cura di E. Colledge - J. Walsh, Toronto 1978 (ed. e tr. it. a cura di D. Pezzini, Libro delle rivelazioni, Milano 2003). Si descrive come illetterata; i suoi scritti possono perciò essere stati dettati a un amanuense, ma più facilmente tale dichiarazione può essere considerata una concessione alla moda del tempo. Quest’ultima ipotesi spingerebbe a credere che, consacrata da giovane, abbia ricevuto una solida formazione letteraria e teologica presso la comunità benedettina di Carrow, in Norwich. II nome sotto il quale è conosciuta le venne dalla chiesa di Saint Julian, alla quale era annesso il romitorio dove decise di trascorrere gli anni successivi alle visioni. Le sue visioni possono dividersi in due categorie: visioni immaginative e visioni intellettuali; solo nelle ultime Giuliana sembra raggiungere il grado più alto di unione con Dio. La sua trasparente sincerità e la sua precisione teologica costituiscono un valido argomento per l’autenticità dell’esperienza mistica che descrive. A differenza dei mistici inglesi di questo perio-

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do, come l’anonimo autore di The Cloud of Unknowing e Walter Hilton, che furono soprattutto maestri di vita spirituale, Giuliana descrive la propria esperienza per manifestare a tutti la misericordia di Dio nei suoi confronti. Le opere di Giuliana ebbero una larga diffusione nel loro tempo; nel Seicento conobbero un risveglio di popolarità a opera di Augustine Baker e della sua scuola. L. Obertello - G. Feltrin BIBL.: C.F.E. SPURGEON, Mysticism in English Literature, Cambridge 1913; R.H. THOULESS, The Lady Julian: A Psychological Study, London 1924; M.D. KNOWLES, The English Mystics, London 1927; J. LAWLOR, A Note on the Revelations of Julian of Norwich, in «Review of English Studies», nuova serie, 2 (1951), pp. 255258; A.M. REYNOLDS, Some Literary Influences in the Revelations of Julian of Norwich, in «Leeds Studies in English and Kindred Languages», 7 (1952), pp. 2021; P. MOLINARI, Julian of Norwich: The Teaching of a Fourteenth Century English Mystic, London 1958; M.D. KNOWLES, The English Mystical Tradition, London 1961; B.A. WINDEATT, Julian of Norwich and her Audience, in «Review of English Studies», nuova serie, 28 (1977), pp. 1-17.

GIULIANI, ALESSANDRO. – Filosofo del diritGiuliani to, n. nel 1925 a Lecce, m. nel 1997 a Perugia. Nel 1970 è straordinario di Filosofia del Diritto nella Facoltà di Giurisprudenza dell’università di Perugia; nel 1973 è ordinario alla Sapienza di Roma, da dove, dopo un triennio, fa definitivo ritorno all’ateneo di Perugia. Operosissimo, si occupò dell’educazione giuridica, della storia del processo e delle sue forme, della responsabilità del giudice e dei rapporti tra diritto ed economia (Giustizia e ordine economico, Milano 1997). Giuliani ottenne meriti certamente duraturi – anticipatori di un successivo ininterrotto flusso di studi e dibattiti – analizzando gli strumenti di cui dispongono le parti processuali e il giudice per garantire le rispettive conclusioni (Il concetto di prova. Contributo alla logica giuridica, Milano 1961; La controversia. Contributo alla logica giuridica, Pavia1966) e proponendo quindi, quale struttura del discorso giudiziale, la «retorica»: quest’ultima, sulla scorta della lezione di grandi classici, non è intesa da Giuliani come una mera tecnica suasoria, ma come un’autentica logica capace di ordinare e legare i vari argomenti secondo i criteri della rilevanza e della pertinenza (Logica del diritto. Teoria dell’argomentazione, in C. Mortati - S. Pu-

Giuliano gliatti [a cura di], Enciclopedia del Diritto, vol. XXV, Milano 1975, pp. 13-34; La definizione aristotelica della giustizia. Metodo dialettico e analisi del linguaggio normativo, Perugia 1971; La filosofia retorica di Vico e la nuova retorica, in «Atti della Accademia di Scienze morali e politiche», 85, 1974, pp. 142 ss.). F. Cavalla BIBL.: N. PICARDI, Alessandro Giuliani: in memoriam. L’uomo, il cittadino, il maestro, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», 75 (1998), pp. 3-11.

GIULIANO, BALBINO. – Filosofo e uomo poliGiuliano tico, n. a Fossano (Cuneo) il 4 genn. 1879, m. a Roma il 13 giu. 1958. Insegnò nelle università di Bologna, Firenze e Roma. Sostenitore del fascismo sin dal suo sorgere, fu deputato, senatore, ministro della educazione nazionale dal 1929 al 1932, presidente dell’Istituto di studi filosofici (cfr. Elementi di cultura fascista, Roma 1929). Il punto di partenza della filosofia di Giuliano è un’indagine critica intorno alla filosofia hegeliana (Il torto di Hegel, Roma 1912). L’identità di reale e razionale, ossia di realtà e pensiero, viene rifiutata da Giuliano in nome dell’inesauribile ricchezza dell’assoluto. L’assoluto esiste certamente anche dentro la realtà empirica (immanenza), come vuole Hegel; ma questa posizione non esclude la possibilità di un’esistenza autonoma dell’assoluto al di fuori del reale (trascendenza). Limitare l’assoluto al pensiero, come vuole l’idealismo, significa giudicare con categorie umane ciò che trascende l’uomo: l’assoluto è, a un tempo, dentro e oltre il reale (cfr. Il valore degli ideali, Torino 1916, Bologna 19462, opera decisamente orientata verso lo spiritualismo teistico). La trascendenza del valore è riaffermata, con particolare riferimento al problema morale (cfr. Il valore pratico della filosofia e i compiti della filosofia italiana, in B. Giuliano - A. Guzzo - A. Aliotta et al. [a cura di], Concetto e programma della filosofia d’oggi, Milano 1941). Ogni problema filosofico è un problema pratico e nell’agire morale si rivela l’inesauribilità dell’assoluto, che, trascendendo ogni atto etico, in ogni atto si realizza; l’agire morale rende immediato conto che esiste una realtà universale, la quale infinitamente supera la capacità con cui il pensiero coglie l’oggetto. Si fonda in tal modo una metafisica del valore, che esclude del pari l’idealismo etico il quale, immanentizzando il valore, lo annulla nella conclusività della 4843

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Giuliano imperatore sintesi, e lo scetticismo morale, che nega ogni criterio etico. G. Morra BIBL.: La poesia di Pascoli, Roma 1919; Latinità e germanesimo, Bologna 1941; Il cammino del pensiero, Firenze 1962; nonché la tr. it. delle Lettere a Lucilio di Seneca, Bologna 1957-58. Su Giuliano: G. GENTILE, Saggi critici, serie II, Firenze 1927, pp. 170-172; G. BONTADINI, Dall’attualismo al problematicismo, Brescia 1946, pp. 272-274, Milano 1996; M.F. SCIACCA, II secolo XX, Milano 19472, pp. 608-611, 872; E. GARIN, Cronache di filosofia italiana, Bari 19663, pp. 355-357.

GIULIANO IMPERATORE, detto l’ApoGiuliano imperatore stata (Flavius Claudius Iulianus). – Nato a Costantinopoli nel 331 (o nel 332), morto a Maranga, in Mesopotamia, il 26 giugno del 363 d. C. Nipote di Costantino, alla morte di questi (337) venne affidato alla tutela dell’arianeggiante vescovo Eusebio di Nicomedia ed ebbe come precettore Mardonio, che lo iniziò alle bellezze dell’ellenismo, di Omero, Esiodo, Pindaro e Isocrate. Intorno al 342 venne relegato nella villa di Macellum, presso Cesarea di Cappadocia, dal sospettoso cugino Costanzo II, che gli rese infelice la fanciullezza e l’adolescenza; qui fu in contatto con il vescovo Giorgio, di cui sfruttò la ricca biblioteca; battezzato, esercitò il lettorato nelle funzioni religiose. Più tardi studiò principalmente grammatica e retorica a Costantinopoli e di nuovo a Nicomedia; nel frattempo, cominciò a prendere forma la sua apostasia, anche quale reazione a quanti gli avevano reso triste la fanciullezza e come risultato dell’ammirazione per la cultura ellenica, alla quale riconosceva superiorità mistica e speculativa. A Pergamo, nel 351, frequentò i neoplatonici Edesio, Eusebio e Crisanzio, e a Efeso conobbe Massimo, studiando il loro sincretismo religioso teosofico; nello stesso tempo aderì al politeismo e fu iniziato ai misteri di Mitra. Vi fu poi un breve soggiorno ad Atene, durante il quale entrò in contatto con il neoplatonico Prisco; insieme venne a contatto dei misteri eleusini. Divenuto Cesare delle Gallie (355), fu comandante intelligente e governatore saggio. È il periodo in cui Giuliano si dice soggetto a sogni prodigiosi e spinto alla missione di restauratore dell’impero; suo ideale diviene Marco Aurelio. Alla morte di Costanzo divenne imperatore; suo scopo principale: bloccare il 4844

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cristianesimo, far trionfare l’ellenismo, dapprima nella tolleranza, poi per mezzo della persecuzione. Negò ai cristiani il diritto di insegnamento (362), sotto l’accusa di incomprensione delle opere dei poeti antichi; esiliò, tra gli altri, sant’Atanasio. Fu ferito mortalmente in battaglia contro i persiani. Temperamento mistico e non speculativo, non produsse un’elaborazione filosofica personale, pur nutrendo sempre profondo entusiamo per la filosofia, specialmente per il platonismo di Giamblico, contraddistinto dalla dimensione teurgica desunta dagli Oracoli caldaici. Assertore di un moralismo rigoristico-ascetico, difese l’antico cinismo, specialmente per la sua spregiudicata affermazione di libertà, condannandone quindi ogni successivo atteggiamento filocristiano. Del cristianesimo avversò in particolare l’esegesi biblica e la liturgia nei 3 libri Contro i Galilei (Kata; Galilaivwn) di cui possediamo alcuni frammenti, quasi soltanto del primo libro, avendone scritta la confutazione Cirillo d’Alessandria in 30 libri, dei quali restano i primi dieci. Notevoli anche le Orazioni II, IV, V, VIII, la Lettera a Temistio e il Sumpovsion h] Krovnia (Il banchetto o la festa dei saturnali), come pure il satirico Misopwvgwn. A.V. Castagnetta BIBL.: tra le edizioni complete segnaliamo quella per la «Collection des Universités de France» (CUF), con tr. fr. a cura di J. Bidez - G. Rochefort - C. Lacombrade (1924-1964); di alcune opere (Lettera a Temistio, Alla Madre degli dèi, A Helios re, Misopogon) è disponibile un’ottima edizione con trad. it. in GIULIANO IMPERATORE, Alla Madre degli dèi e altri discorsi, a cura di C. Prato - A. Marcone, introduzione di J. Fontaine, «Scrittori greci e latini. Fondazione Lorenzo Valla», Milano 1987. Su Giuliano imperatore: J. BIDEZ, La vie de l’empereur Julien, Paris 19652 (1930); P. ATHANNASSIADI-FOWDEN, Julian and Hellenism, an Intellectual Biography, Oxford 1981; J. BOUFFARTIGUE, L’Empereur Julien et la culture de son temps, «Collection des Etudes Augustiniennes, Série Antiquité», vol. CXXXIII, Paris 1992; J. BOUFFARTIGUE, Iulianus (Julien) l’Empereur, in R. GOULET (a cura di), Dictionnaire des philosophes antiques, vol. III, Paris 2000, pp. 961-978.

GIULIETTI, GIOVANNI. – N. a Padova il 13 Giulietti mag. 1915. Ha insegnato Filosofia Teoretica nelle università di Padova e di Verona. Pur formatosi con E. Troilo, l’incontro decisivo fu tuttavia quello con G. Zamboni: il metodo della gnoseologia pura divenne così la chiave di lettura per com-

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prendere il retroterra delle diverse filosofie, alla ricerca di quel «sentiero» che permetta di dare una risposta all’«impegno di verità» che contraddistingue l’interesse teoretico del filosofo rispetto ad ogni altra preoccupazione di ordine pratico (Un sentiero tra i filosofi, Brescia 1970; Introduzione alla filosofia, Milano 1977). La rilettura della storia della filosofia, e in particolare di alcune figure fondamentali, come Spinoza e Heidegger (cfr. Storia antologica della filosofia, Treviso 19834 [1949]; Alla ricerca dell’essere perduto. Una introduzione al pensiero di Heidegger, ivi 1972; Spinoza, la sua vita, il suo pensiero, ivi 1974), rappresenterà il banco di prova di tale impostazione, che verrà assumendo i tratti di un «realismo spiritualistico» riguadagnato a partire dal confronto con i dati dell’esperienza. In particolare per Giulietti appare centrale il ruolo svolto dall’autocoscienza sia nel caratterizzare il compito dell’intelligenza rispetto alla sensibilità, sia nell’esprimere l’originarietà della dimensione morale e personale dell’io. Vanno ricordati in tal senso anche gli studi su Zamboni (La filosofia del profondo in Husserl e in Zamboni, ivi 1965; Zamboni o la filosofia come sapere rigoroso, Roma 1983), oltre alla riedizione di suoi volumi e saggi ed alla pubblicazione di inediti. F. Marcolungo BIBL.: AA.VV., Itinerari e prospettive del pesonalismo. Scritti in onore di Giovanni Giulietti, Milano 1986.

GIURAMENTO (oath; Eid; serment; juramenGiuramento to). – È tradizionalmente l’atto con il quale l’uomo invoca la divinità a testimone di quanto egli afferma (giuramento assertorio) o come garante di quanto egli promette (giuramento promissorio). Dal punto di vista filosofico interessa anzitutto la questione della liceità del giuramento. Può sembrare infatti che il giuramento sia un atto inutile, giacché non impedisce che, giurando, si mentisca, e inoltre, poiché si ricerca per esso quasi un segno della provvidenza divina, sia un tentare Dio e quindi un atto irreligioso. La difficoltà si trova discussa e risolta in Agostino, Tommaso e altri pensatori cristiani. Si può osservare che il giuramento non deve essere considerato un segno infallibile di verità, ma un atto necessario (necessario, non desiderabile) in determinate circostanze «ad subveniendum alicui defectui»: per supplire, in casi gravi, in chi lo riceve, al difetto di fiducia nei confronti di chi lo emette (Tommaso, Sum. theol.,

Giuria Ia-IIae, q. 8, art. 5; cfr. anche Agostino, De sermone Domini in monte, l. I, cap. 17, n. 51). In questo senso, il giuramento è utile ed è buono. Né si deve pensare che sia un tentare Dio, giacché in esso non si convoca Dio senza necessità (cfr. Tommaso, Sum. theol., Ia-IIae, q. 8, art. 2). Inoltre, per altro aspetto, il giuramento come atto quasi universalmente praticato si può considerare un riconoscimento di Dio come verità personale assoluta. Con significato più ampio, viene chiamato giuramento anche il modo impegnativo di affermare e di promettere, manifestato attraverso l’invocazione o il riferimento all’onore, alla propria coscienza, alle persone care, alla memoria dei defunti ecc. A.M. Moschetti BIBL.: R. DE LUCA, Interferenze tra giuramento e diritto di libertà, in «Il diritto ecclesiastico», 91 (1980), 2, pp. 300-320; L. SCILLITANI, Fenomenologia del giuramento: un approccio antropologico, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 73 (1996), pp. 704716; L. LA CROCE, Libertà religiosa, giuramento e giurisprudenza costituzionale, in «Il diritto ecclesiastico», 108 (1997), 2, pp. 106-118.

GIURIA (jury; Jury; jury; jurado). – In una acGiuria cezione generica la giuria è un consesso di individui investiti del compito di esprimere un giudizio di merito e assegnare premi nell’ambito di una competizione, quale, ad esempio, un concorso di bellezza, una gara sportiva o musicale. In senso più specifico, la giuria è un istituto giuridico: con questo termine viene designato un gruppo di uomini e donne selezionati sulla base di norme di legge, i quali giurano (da qui il termine) di esprimere la verità su fatti che sono chiamati a vagliare sulla base delle prove che vengono loro presentate (B.A. Garner [a cura di], Black’s Law Dictionary, St. Paul [Minnesota] 1990). I giurati sono dei cittadini, non necessariamente giuristi, chiamati a coadiuvare il giudice in determinati processi. Le origini dell’istituto sono medioevali. La giuria fu introdotta in Inghilterra al tempo della conquista normanna. Nel 1215 e per effetto dell’emanazione di un editto di papa Innocenzo III che bandì l’intervento del clero nei giudizi, la valutazione della giuria prese il posto delle prove divine nei processi di fronte alle corti regie. L’idea di affidare a giudici non professionali la decisione dell’innocenza o colpevolezza 4845

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Giuria dell’imputato costituì per l’Europa continentale dell’età moderna una netta inversione di tendenza rispetto al passato. Fu la risposta alla crisi della giustizia di ancien régime denunciata da Voltaire, da Beccaria, da Rousseau e da Condorcet. Tuttavia la giuria è rimasta un istituto tipicamente anglosassone, che Blackstone definì la gloria del diritto inglese (W. Blackstone, Commentaries on the Law of England, Oxford 1769) e che Tocqueville apprezzò come strumento per educare i cittadini alla democrazia (A. de Tocqueville, De la Democratie en Amérique, Paris 1839). La costituzione americana garantisce all’accusato un processo con giuria in ogni procedimento penale (VI emendamento): anche se, in conformità a un remoto indirizzo di common law, la regola non viene applicata ai reati minori (petty offences). I giurati (di solito 12) vengono estratti a sorte dalle liste elettorali perché decidano i fatti di causa e diano un verdetto. Il giudice indirizza la giuria sulle questioni di diritto (la configurazione del delitto attribuito all’imputato, la natura e l’ambiente delle possibili esimenti) e riassume gli elementi di prova raccolti dall’accusa e dalla difesa; ma spetta esclusivamente alla giuria la risoluzione delle questioni di fatto. La giuria è tenuta ad assolvere l’imputato a meno che i suoi componenti non siano sicuri che egli è colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. Il principio di unanimità, che dovrebbe guidare la decisione, può essere temperato da un criterio di maggioranza qualificata (almeno 10 giurati su 12). In Italia, il legislatore del 1951 (legge 10 aprile 1951, n. 287) ha istituito un organo collegiale per i giudizi di fronte alla corte d’assise e alla corte d’assise d’appello, composto da un magistrato che lo presiede, un giudice a latere e cinque giudici popolari, precisando che il collegio è unico senza distinzione fra giudici togati e giudici popolari. Far parte della giuria popolare nei processi penali è un diritto politico, riconducibile al diritto ad accedere agli uffici pubblici, garantito dall’articolo 51 della Costituzione italiana (vedi Consiglio di stato, sez. IV, 10 marzo 2004, n. 1138). Tuttavia, data l’influenza dei giudici togati nelle deliberazioni collegiali prese dalle corti di assise e d’assise di appello, il ruolo della giuria in Italia è piuttosto marginale. Due sono le caratteristiche dei giurati: sono laici, e, dunque, non esperti di diritto; e sono 4846

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cittadini residenti nella circoscrizione del tribunale chiamato a giudicare: nella circoscrizione cioè dove è avvenuto il fatto sul quale va espresso un giudizio. In sostanza si tratta di cittadini che appartengono alla medesima comunità dell’accusato o di colui che asserisce di aver subito un danno. La preferenza per la giuria, negli ordinamenti anglosassoni, ha un duplice fondamento: innanzitutto la convinzione che il giudizio di soggetti estranei al corpo di funzionari cui appartengono i magistrati sia più genuino, più imparziale e più veritiero di quello di un magistrato di professione. (cfr. Duncan vs Louisiana, 391 US 145, 1968, in cui la Corte suprema degli Stati Uniti affermò che la giuria è la più efficace difesa da una pubblica accusa troppo zelante e dall’indifferenza del burocrate togato; cfr. anche Corte europea dei diritti dell’uomo, 5 dicembre 2002, secondo cui la giuria è meno influenzabile dei giudici di carriera); in secondo luogo, il principio secondo cui un giudizio sulla colpevolezza o innocenza (e dunque in ultima istanza sulla moralità) di un concittadino deve rispecchiare la comune opinione della collettività di cui l’accusato fa parte. Nella concezione tradizionale la giuria è il giudice dei fatti, sul presupposto di una necessaria separazione fra giudizio di fatto – demandato a laici – e giudizio di diritto – che rimane fra le competenze del giudice togato. In realtà una tale concezione pecca di semplificazione non solo per la concreta difficoltà di enucleare il giudizio di fatto dal giudizio complessivo di colpevolezza o innocenza o condanna al risarcimento, ma anche perché in molti sistemi giuridici la giuria gode di poteri e prerogative ben più estese. Si pensi ad esempio alla pratica, diffusa negli Stati Uniti, del cosiddetto «annullamento della giuria» (jury nullification) che consente alla giuria di disapplicare una legge qualora questa venga ritenuta palesemente ingiusta. Non mancano i critici dell’istituto che denunciano il carattere imprevedibile ed emotivo delle decisioni dei giurati (J.Q. Wilson, Moral Judgment, New York 1997). La diffidenza nei confronti delle deliberazioni di giudici laici e lo scetticismo verso la possibilità di conciliare democrazia e imparzialità di giudizio sono alla base della resistenza che i sistemi giuridici continentali, fra cui quello italiano, oppongono alla penetrazione del processo a giuria. L. Corso

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BIBL.: T.A. GREEN, Verdict According to Coscience: Perspective on the English Criminal Trial Jury, 12001800, Oxford 1985; A. PADOA-SCHIOPPA, La giuria penale in Francia, Milano 1994; J. ABRAMSON, We the Jury, Cambridge (Massachusetts) 2001. ➨ IMPARZIALITÀ.

GIURIDICO, ATTO: V. ATTO GIURIDICO. Giuridico GIURIDICO, GIUDIZIO: V. GIUDIZIO GIURIDICO. Giuridico GIURISDIZIONALISMO (jurisdictionalism; Giurisdizionalismo Jurisdiktionalismus; juridictionalisme; jurisdiccionalismo). – Sistema giuridico che stabilisce la preminenza della giurisdizione civile su quella ecclesiastica e la conseguente ingerenza del potere civile circa sacra. Il termine riguarda solo gli stati cattolici, mentre per i paesi riformati si parla di territorialismo. Seguendo la classificazione dei sistemi di politica ecclesiastica invalsa comunemente dopo Hinschius (Esposizione generale delle relazioni fra Stato e Chiesa, tr. it., Torino 1892), il giurisdizionalismo si distingue giustamente anche dal cesaropapismo, il quale, a parte le profonde diversità di ambiente storico, importa un vero assorbimento della chiesa nello stato nel quale il monarca si atteggia a papa; mentre nell’ambiente giurisdizionalista la chiesa rimane un’entità distinta, dalla cui ingerenza lo stato si difende con i tipici provvedimenti e controlli. Casi particolari di giurisdizionalismo sono il gallicanismo in Francia, il febronianismo e il giuseppinismo in Austria, il regalismo in Spagna, il tannuccismo a Napoli, il leopoldismo in Toscana ecc., tutti fenomeni propri dell’età dell’assolutismo e dovuti in gran parte a influssi ideologici protestanti. Si suole distinguere in seno agli istituti di carattere giurisdizionalistico poteri e controlli che lo stato esercita a propria difesa, e poteri che lo stato esercita a tutela della chiesa stessa contro possibili lesioni di interessi ecclesiastici, o, comunque, ritenuti tali dalla potestà secolare. Tutto ciò presuppone, palesemente, uno stato confessionale, che lungi dal disinteressarsi della vita cultuale, professa una propria fede religiosa, ritiene di suo interesse che gli istituti ecclesiastici perseguano le loro finalità: uno stato in cui la maestà sovrana è ancora, e ben consapevolmente, sacra maestà. Sfugge, sì, alla competenza dello stato la materia dogmatica, ma vi appartiene la sorveglianza sull’azione esteriore della chiesa, alla quale si nega un’au-

Giurisdizionalismo tonoma giurisdizione esterna. Questa appartiene allo stato, o, quanto meno, spetta alla potestà statuale di avvalorare la potestà ecclesiastica; d’altro canto, poiché le due potestà hanno i medesimi sudditi, la pace e l’armonia sociale sembravano ai giurisdizionalisti reclamare un’integrazione fra i due poteri in tutto quanto fosse di foro esteriore, il che si propugnava essere raggiungibile soltanto attraverso la soggezione ecclesiastica al potere politico. Da queste premesse ideologiche derivano i molteplici iura maiestatis circa sacra. E cioè: il ius protectionis, onde il sovrano si presentava come custode dell’unità della fede e della comunione cattolica contro i pericoli di apostasia, di eresia o di scisma; il ius reformandi, per cui allo stato competeva il potere di intervenire nell’organizzazione ecclesiastica, di modificarla, occorrendo, affinché questa meglio perseguisse le sue finalità; il ius inspiciendi, grazie al quale lo stato moderava i rapporti fra gli organi nazionali della chiesa e la santa sede, sorvegliava l’insegnamento religioso, i seminari, l’istituzione di enti nuovi ecc.; il ius nominandi, che importava concorso statuale nelle nomine ecclesiastiche, ed exclusivae, che importava diritto d’esclusione dalle cariche stesse di persone non gradite al sovrano; il placitum regium, mercé il quale controllava preventivamente che nelle bolle e negli altri atti d’autorità provenienti da Roma nulla vi fosse di dannoso per lo stato; il sequestro delle temporalità sui frutti dei benefici malamente amministrati; l’appello per abuso contro gli atti delle autorità ecclesiastiche impugnati come lesivi di diritti dei cittadini; il ius dominii eminentis, onde il monarca, alto signore di tutta la proprietà terriera, godeva di diritti anche sui beni della chiesa, e così aveva potere di incamerarli, di far propri i frutti dei benefici vacanti. Naturalmente non tutti questi istituti trovarono applicazione dovunque, e in egual misura. Un’incarnazione più moderna del giurisdizionalismo è quella che si è chiamata del giurisdizionalismo nuovo o liberale, che dall’antico differisce nel senso che, come ebbe a rilevare Ruffini, mentre originariamente il giurisdizionalismo poggiava su due principi – la competenza statuale nelle cose della chiesa e il confessionalismo dello stato, e cioè la protezione accordata alla chiesa dominante – il giurisdizionalismo moderno abbandonò quest’ultimo per farsi invece banditore della libertà religiosa per tutti i culti e della laicità 4847

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Giurisdizione dello stato. E poggiò di conseguenza la sua politica ecclesiastica esclusivamente sugli istituti giurisdizionalistici integranti la difesa dei diritti dello stato. Pur in questa sua foggia il giurisdizionalismo si contrappone al separatismo, giacché mentre il separatismo portava all’incompetentismo e tendeva a indirizzare l’organizzazione cultuale sul piano del diritto comune, il giurisdizionalismo liberale mirava a mantenere in vita le particolari prerogative dello stato in materia ecclesiastica. Red. BIBL.: F. RUFFINI, Corso di diritto ecclesiastico italiano, Torino 1924, pp. 42 ss., 303 ss.; A. CORSANO, II pensiero religioso italiano dall’Umanesimo al giurisdizionalismo, Bari 1937; P. GISMONDI, Il nuovo giurisdizionalismo italiano, Milano 1946; P. ALATRI, Profilo storico del cattolicesimo liberale in Italia, vol. I, Palermo 1950; A.C. JEMOLO, Lezioni di diritto ecclesiastico, MIilano 1954; N. CASERTA, Dal giurisdizionalismo al liberalismo: 1748-1848, Napoli 1969; P.G. CARON, Corso di storia dei rapporti fra Stato e Chiesa, Milano 1981-85, 2 voll. ➨ ASSOLUTISMO; GALLICANISMO; SEPARATISMO; STATO E CHIESA; TERRITORIALISMO.

GIURISDIZIONE (dal lat. iurisdictio Giurisdizione jurisdiction; Jurisdiktion; jurisdiction; jurisdición). – SOMMARIO: I. Posizione della giurisdizione nell’ordine dei poteri dello stato. - II. Il diritto giurisdizionale (Richterrecht). - III. Presunzione di autorità vincolante dei precedenti giudiziali. Differenze relativamente minime tra common law e civil law. Il termine «giurisdizione», che significa letteralmente «dire o dichiarare il diritto», designa tradizionalmente il potere degli organi giusdicenti. L’attività giurisdizionale, individuata e definita in base alle norme italiane vigenti, è posta in essere dai giudici (art. 101 della costituzione) e il loro insieme costituisce il potere giurisdizionale. In base al principio costituzionale della divisione dei poteri, la giurisdizione costituisce uno dei tre poteri dello stato e si affianca al potere legislativo e a quello amministrativo. In base all’art. 2907 del codice civile italiano, la giurisdizione è considerata come l’attributo specifico della tutela dei diritti a opera dell’autorità giudiziaria su domanda di parte o del pubblico ministero. Accanto a una giurisdizione «ordinaria», ripartita in due settori, «civile» e «penale», l’ordinamento italiano riconosce l’esistenza di una «giurisdizione ordinaria specializzata», caratterizzata dalla 4848

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presenza, nello stesso organo giudicante, di magistrati ordinari e di «cittadini idonei estranei alla magistratura» (art. 102, 3° comma, costituzione). Nei paesi della famiglia romano-germanica, l’attività giurisdizionale è regolata dai seguenti principi costituzionali, che costituiscono delle tecniche giuridiche per la difesa dei cittadini nei confronti del potere giurisdizionale: a) indipendenza della magistratura; b) legittimazione processuale universale; c) diritto alla difesa; d) principio del giudice naturale precostituito per legge; e) pubblicità dei processi; f) principio del contraddittorio; g) obbligo di motivazione delle sentenze; h) pubblicazione e motivazione delle sentenze; i) impugnabilità delle sentenze. I. POSIZIONE DELLA GIURISDIZIONE NELL’ORDINE DEI POTERI DELLO STATO. – Oggi risulta scientificamente superata quella concezione, che possiamo chiamare «legalista-logicista», secondo la quale la giurisdizione come attività consisterebbe nell’individuare per ogni problema giuridico, partendo solo dalla legge, l’unica soluzione possibile. Secondo una concezione critica e realistica, oggi dominante, si riconosce che l’atto giudiziale, in quanto intervento decisivo sulla norma legale, è sempre creativo, nel senso che non manca mai, neppure in regime legalista, di elaborare, producere in melius, inventare il diritto. La competenza legislativa esclusiva attribuita al legislatore dalla teoria classica della separazione dei poteri è un ideale regolativo, forse valido assiologicamente, anche se sul piano fattuale risulta essere il cimelio di un’epoca caratterizzata dall’ottimistica fede in una codificazione priva di lacune, univoca e duratura, capace di ridurre l’attività giudiziale alla pura esegesi e a una logica rigorosa illimitatamente feconda. Con il riconoscimento del ruolo attivo e creativo del giudice, diventa oggigiorno assai problematico intendere pienamente la reale portata del principio della divisione dei poteri, formulato nel Settecento per regimi del tutto diversi dai nostri sistemi democratico-parlamentari. Nell’attuale sistema democratico, più che una netta distinzione tra legislativo e giudiziario, è osservabile una certa continuità di funzioni, un’attiva e ordinata collaborazione tra i due poteri. Se è vero che lo scopo sostanziale del principio della divisione dei poteri consiste nella salvaguardia del cittadino dall’arbitrio,

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allora il suo aspetto più importante e duraturo sta nell’aver suggerito l’idea di un sistema variabile di checks and balances, di reciproci freni e limitazioni, da rimodellare sempre nuovamente a seconda delle mutate circostanze reali, in vista dell’effettiva protezione della libertà del cittadino. II. IL DIRITTO GIURISDIZIONALE (RICHTERRECHT). – I giudici producono, il più delle volte in rapporto dialogico e dialettico con la dottrina, veri e propri nuclei di norme generali effettive, che si consolidano in forza della costante applicazione da parte dei tribunali. Sotto il profilo dei rapporti di contenuto con la legge, le metagiurisprudenze continentali sono solite distinguere tra un «diritto giudiziale concretizzante la legge», un «diritto giudiziale suppletivo della legge» e un «diritto giudiziale correttivo o concorrente con la legge». La concezione unitaria delle fonti del diritto è ormai abbandonata e ha lasciato il posto a una concezione pluralistica, la sola capace di spiegare l’effettivo ruolo che negli ordinamenti continentali svolge il principio della concorrenza normativa. La pluralità delle fonti di norme generali non toglie l’unità dell’ordinamento, che viene assicurata da ciascuna delle tre fonti principali a suo modo: dalla legislazione, in quanto fornisce il punto di riferimento normativo fondamentale, con cui le altre componenti devono – salvo casi eccezionalissimi – mantenere la continuità o la compatibilità; dalla dottrina, in quanto fornisce la coerenza logico-sistematica ai materiali normativi di ogni provenienza; dalla giurisdizione, infine, in quanto riafferma e quasi fonde l’unità dell’ordinamento in ogni nuova norma individuale, sulla base di tutti i suggerimenti di diritto positivo desumibili dalla legge, dalla dottrina e dallo stesso diritto giurisdizionale come insieme di norme generali. III. PRESUNZIONE DI AUTORITÀ VINCOLANTE DEI PRECEDENTI GIUDIZIALI. DIFFERENZE RELATIVAMENTE MINIME TRA COMMON LAW E CIVIL LAW. – Nei settori più avvertiti della scienza giuridica si è raggiunta una convergenza pressoché unanime nel riconoscere una «presunzione di autorità vincolante» – non assoluta – delle precedenti decisioni giudiziali, riassumibili nel bisogno di assicurare la calcolabilità e la certezza del diritto. Esiste, quindi, anche per il giudice continentale, il dovere di consultare i precedenti e, specie di fronte a un diritto giurisdizionale consolidato, tendenzialmente di attenervisi. Si parla a questo proposito di auctoritas rerum similiter

Giurisprudenza judicatarum. Chi propone una deviazione dalle precedenti decisioni, e in particolare una rottura con una tradizione giurisdizionale consolidata, deve accollarsi l’onere dell’argomentazione. Oggi, la tendenza più autorevole va nel senso di ritenere relativamente minime le differenze tra i sistemi di civil law e common law. La differenza va vista essenzialmente non nell’autorità del precedente, ma nel fondamento di tale autorità, che nella giurisdizione continentale sarebbe un fondamento di fatto e – subordinatamente – di valore, mentre nei sistemi di common law sarebbe anche – e primariamente – un fondamento giuridico-formale. G. Orrù BIBL.: J. ESSER, Grundsatz und Norm in der richterlichen Fortbildung des Privatrechts, Tübingen 1956; M. KRIELE, Theorie der Rechtsgewinnung, entwickelt am Problem der Verfassungsinterpretation, Berlin 1967; L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano 1967; J. ESSER, Vorverständnis und Methodenwahl in der Rechtsfindung, Frankfurt am Main 1970, tr. it. di S. Patti - G. Zaccaria, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, Napoli 1983; A. PIZZORUSSO (a cura di), L’ordinamento giudiziario, Bologna 1974; G. ORRÙ, Richterrecht, Milano 1983; F. GALGANO, Il precedente giudiziario in «civil law», in F. GALGANO (a cura di), Atlante di diritto privato comparato, Bologna 1992, pp. 30-33; F. VIOLA - G. ZACCARIA, Le ragioni del diritto, Bologna 2003; F. VIOLA - G. ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Roma-Bari 20045. ➨ COMMON LAW; DIRITTO; GIURISPRUDENZA; LEGGE; ORDINAMENTO GIURIDICO; POTERE; PUBBLICI POTERI; SCIENZA GIURIDICA.

GIURISPRUDENZA (jurisprudence; JurispruGiurisprudenza denz; jurisprudence; jurisprudencia). – Se con «giurisprudenza», senza ulteriori specificazioni, si è soliti intendere l’attività di tutti i giuristi e gli esperti in diritto, chiamati a misurarsi con questioni concrete di convivenza pratica, sempre più diffuso, soprattutto nei sistemi giuridici di civil law, è l’uso linguistico di giurisprudenza per designare l’attività dei giudici, di coloro che sono formalmente abilitati a «ius dicere» con autorità vincolante. Quest’ultimo aspetto è assai rilevante ai fini della funzione pratica del diritto, tra le cui principali finalità vi è quella della gestione e della soluzione dei conflitti. Concentrandosi su di esso, la teoria del diritto contemporanea ha inteso prendere atto della crisi irreversibile 4849

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Giurisprudenza di quel giuspositivismo che aveva concepito la giurisprudenza come mera tecnica applicativa e «sillogistica di preesistenti valutazioni legali» (cfr. Lombardi Vallauri) e così ne aveva minimizzato, privilegiando la legislazione, il ruolo e lo spazio; inoltre, si è impegnata sempre più ad approfondire il tema delle operazioni intellettuali compiute dai giudici nel riconoscere, interpretare e concretizzare il diritto vigente, per pervenire alla scelta che si tradurrà nelle loro decisioni. Quando oggi si parla della giurisprudenza, ci si intende dunque essenzialmente riferire al decidere, al diritto contenuto nelle pronunce dei giudici. Il che, però, non significa dimenticare la dimensione riflessiva del diritto giurisprudenziale, dato che le pronunce giudiziali presuppongono sempre una dottrina e una pratica di pensiero, e neppure disconoscere l’insopprimibilità di un «momento giurisprudenziale del diritto» (cfr. Lombardi Vallauri), che rivendica un margine di libertà nei riguardi di qualunque corpus normativo. L’intera storia del diritto occidentale – dalle auctoritates romane alle opiniones doctorum medioevali, giù giù fino alla dottrina e alla scienza del diritto contemporanee – testimonia infatti l’esistenza di una ragione giuridica che, contribuendo alla formazione del diritto nel contesto di una ben determinata tradizione giuridica, tende a costituirsi come potere in sé (cfr. Gorla). La giurisprudenza, sia della dottrina sia dei giudici, produce sapere: tale sapere tende, consolidandosi in autorità, a produrre incessantemente nuovo diritto positivo. Decisivo, nella riflessione contemporanea, è perciò il nesso tra libertà e autorità nella giurisprudenza. Da una parte si constata che la prassi giurisprudenziale implica irrinunciabilmente un margine non sopprimibile di libertà nei riguardi di qualunque corpus normativo; ma dall’altra parte è evidente che nel produrre nuovo diritto positivo le decisioni giudiziali si convertono in prassi autoritative, che estendono la loro portata al di là del singolo caso concreto. L’attività della giurisprudenza assume rilevanza non soltanto perché le sue decisioni sono efficaci e «dicono il diritto» con autorità vincolante, ma anche e soprattutto perché esse valgono come modello per la soluzione di nuovi casi concreti. Da questo punto di vista, che sottolinea il contributo specifico della giurisprudenza alla stessa formazione del diritto, si 4850

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è negli ultimi anni attenuata la stessa differenza fondamentale nel ruolo che, nella tradizione di civil law e in quella di common law, si attribuisce alla giurisprudenza. Nella prima tradizione, in cui tutto il diritto è prodotto dalla legge e la giurisprudenza ha un compito meramente applicativo di preesistenti valutazioni di legge, la giurisprudenza non ha l’obbligo formale di stare decisis e le corti sono teoricamente libere di non seguire i precedenti. Nel common law il vincolo al precedente è invece formalizzato e costituisce un aspetto strutturale caratteristico di quella tradizione giuridica. Ma nella realtà effettiva le decisioni dei giudici, specie delle corti superiori, sono invocate come autorità dai giuristi, dalle parti del processo e introdotte nelle motivazioni delle sentenze. Il che corrisponde, tra l’altro, a un fondamentale principio di universalizzabilità e di giustizia, che garantisce eguaglianza di trattamento e prevedibilità di decisioni. Cosicché la stessa questione, su cui si è molto affaticata la metodologia giuridica contemporanea, se la giurisprudenza sia o meno fonte di diritto (cfr. Esser, Ghestin, Goubeaux), perde nei fatti molta della sua rilevanza (cfr. Kriele), data l’influenza di fatto che la regola dello stare decisis gioca tanto negli ordinamenti di civil law quanto in quelli di common law. Considerando la giurisprudenza come un processo istituzionale che produce e cambia il diritto positivo, la giurisprudenza, nelle due accezioni qui considerate, di diritto elaborato dalla dottrina e di diritto contenuto nelle pronunce dei giudici, può rivelarsi come un processo complementare e integrato, soprattutto se si pensa che l’opera della dottrina è indispensabile per dare un senso – anche pratico – all’opera della giurisdizione, commentandola e criticandola. Lo iussum, la decisione, ha costitutivo bisogno di inserirsi nella continuità dello ius. La giurisprudenza è processo di positivizzazione del diritto e insieme di sua costruzione-ricostruzione, sistemazione-risistemazione. G. Zaccaria BIBL.: F. GENY, Méthode d’interpretation et sources en droit privé positif, Paris 19192; B.N. CARDOZO, The Nature of Judicial Process, Yale 1921; K. ALLEN, Law in the Making, Oxford 1927; L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano 1967; G. GORLA, Giurisprudenza, in C. MORTATI - S. PUGLIATTI (a cura di), Enciclopedia del diritto, vol. XIX, Milano 1970, pp. 489-509; J. ESSER, Grundsatz und Norm in der richterlichen Fortbildung des Privatrechts, Tübingen 1974; M.

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KRIELE, Theorie der Rechtsgewinnung, Berlin 1976; J. GHESTIN - G. GOUBEAUX, Traité de droit civil, vol. I: Introduction générale, Paris 1977. ➨ COMMON LAW; DIRITTO; DIRITTO, SCIENZA DEL; GIURISDIZIONE; GIUSPOSITIVISMO.

GIUSEPPE FILOSOFO. – Erudito monaGiuseppe ilILFilosofo co bizantino, n. a Itaca verso il 1260, visse a Salonicco, a Costantinopoli e negli eremi montani della Tessaglia e del Monte Athos; m. in un monastero presso Salonicco nel 1330 ca. Filantropo, dotato di grande spirito religioso e di vasta cultura teologica e scientifica, non volle mai accettare l’ufficio di patriarca ecumenico che ben quattro volte gli fu offerto tra il 1311 e il 1323. Visse in un periodo di decadenza, allorché l’impero bizantino era dilaniato da discordie intestine e minacciato dai mongoli e dai turchi di Osman. Nel 1307 si recò a Costantinopoli, dove frequentò un gruppo di letterati tra cui Niceta Gregoras e Teodoro Metochite, che scrisse un encomio funebre per Giuseppe. In un’opera di contenuto enciclopedico (Codice ricciardiano greco 12), nella quale alle questioni di carattere retorico e logico sono accomunati argomenti di fisica, di etica e di teologia, volle dimostrare che le discipline scientifiche e filosofiche non dovevano essere considerate autonome, ma nei loro reciproci rapporti che ne illuminano le interdipendenze e ne accrescono il valore speculativo. Il lavoro non è originale, in quanto nell’enciclopedia trovano posto scritti di contemporanei e di immediati predecessori, sebbene sia di importanza notevole per noi ai fini della conoscenza della vasta problematica del sapere teoretico dei bizantini nel XIII e XIV secolo. Scrisse inoltre inni e preghiere. D. Giordano BIBL.: la prima parte della sua opera, che riguarda la Retorica, fu pubblicata da CH. WALZ, Rhetores Graeci, Stuttgart-Tübingen 1834, vol. III, pp. 465-569. Su Giuseppe il Filosofo: K. KRUMBACHER, Geschichte der byzantinischen Litteratur von Justinian bis zum Ende des ostromischen Reiches (527-1353), München 18972, ripr. New York 1958, vol. I, pp. 481, 482-497, 552; M. TREU, Der Philosoph Joseph, in «Byzantinische Zeitschrift», 8 (1899), pp. 1-69; N. TERZAGHI, Sulla composizione dell’enciclopedia del filosofo Giuseppe, in «Studi Italiani di Filolologia Classica», 10 (1902), pp. 121-132; S.G. MERCATI, Lettera del monaco Sofonia al filosofo Giuseppe, in Studi bizantini, Napoli 1924, pp. 169-172; K.M. UHLIRZ, Handbuch der Geschichte Österreichs und seiner Nachbarländer Böhmen und

Giusnaturalismo Ungarn, Graz-Leipzig 1929, vol. III; D. STIERNON, s. v., in M. VILLIER (a cura di), Dictionnaire de spiritualité, Paris 1932 ss., vol. VIII, coll. 1388-1392; R. CRISCUOLO, Note sull’Enciclopedia del filosofo Giuseppe, in «Byzantion», 44 (1974), pp. 255-281.

(natural law theory; GIUSNATURALISMO Giusnaturalismo Naturrechtslehre, Naturrechtsschule; jusnaturalisme; jusnaturalismo). – È, in senso lato, la concezione di un diritto naturale, valido assolutamente, contrapposto al diritto storico, positivo, relativo allo spazio e al tempo: in questo senso il termine può riferirsi alle dottrine classiche di Aristotele, degli stoici, di Cicerone e dei giuristi romani, come a quelle cattoliche del medioevo, del XVI secolo e contemporanee. Per esse (anche per quanto riguarda la bibliografia) si rinvia alla voce «diritto naturale e diritto positivo»; e ci si limita qui a considerare quelle a cui prevalentemente si usa riferirsi col termine giusnaturalismo preso in senso stretto, vale a dire a un gruppo di dottrine dei secoli XVII e XVIII, diverse spesso fra loro, ma aventi in comune alcuni caratteri per i quali esse vengono attribuite, anche se alquanto artificiosamente, alla così detta «scuola del diritto naturale», nonché, nella parte finale, su quella specifica fioritura di dottrine giusnaturalistiche che ha luogo dalla seconda metà del Novecento fino alle più recenti proposte neoclassiche. Il giusnaturalismo ha la sua radice nel moto di rinnovamento della cultura generatosi nel Rinascimento, che, mirando alla revisione critica delle autorità tradizionali, conduce al tentativo di fondare il sapere, nelle scienze morali così come in quelle della natura, su basi puramente razionali e immanentistiche, prescindendo dal dogma e da qualsiasi presupposto teologico: tentativo comune a tutti gli aspetti del razionalismo, del quale il giusnaturalismo è l’applicazione in sede di filosofia del diritto. Nel campo delle dottrine etiche, giuridiche e politiche questa critica delle concezioni tradizionali e la elaborazione delle nuove, che tanta parte ebbero nell'edificazione della società moderna, furono compiute appunto dalla scuola del diritto naturale; ma a questo compito teorico se ne accompagna uno pratico, generato del resto anch’esso dalla crisi dei valori medievali: l’opera dei giusnaturalisti risponde infatti al bisogno, profondamente sentito nei secoli in cui sorgono e si affermano fra sanguinosi contrasti gli stati nazionali e im4851

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Giusnaturalismo perversano le guerre di religione, di ritrovare un’autorità, che sia riconosciuta superiore da tutti, e un terreno d’intesa, su cui la convivenza umana possa esser fondata, essendo ormai venuta meno l’autorità universale dell’impero e della chiesa, che tale convivenza avevano assicurato nel medioevo. I giusnaturalisti cercano di nuovo il fondamento della convivenza degli uomini in ciò che a loro appare essenziale, cioè naturale all’uomo. Tale elemento essenziale è la ragione, le cui norme valgono per tutti, al di là delle norme particolari regolanti la vita dei diversi raggruppamenti sociali, e la cui validità sussiste indipendentemente dalla volontà e dall’arbitrio di qualsiasi legislatore, foss’anche questi Dio stesso (cfr. Grozio, De iure belli ac pacis, Prolegomena, § 11). A dottrine in se stesse non nuove, che, risalenti spesso all’antichità greco-romana, erano state professate anche nel medioevo o dalla tarda scolastica, i giusnaturalisti infondono un carattere soggettivistico e individualistico che le spoglia di ogni motivo oggettivistico e trascendentistico, e dà loro significato antiteologico e laico; ad esse infatti faranno capo più o meno direttamente la maggior parte delle ideologie politiche illuministiche. Tali dottrine sono appunto quelle che, ritrovandosi, se pure sotto varia forma, presso pensatori diversi, permettono di comprendere questi sotto la comune definizione di giusnaturalisti: e possono compendiarsi nel contrattualismo, con la connessa teoria dello stato di natura anteriore allo stato sociale e politico, e la conseguente affermazione, premessa di notevoli sviluppi politici, di diritti innati, che il contratto, che dà vita allo stato, conferma e garantisce, ma non può sopprimere. Il carattere razionalistico e laico delle dottrine giusnaturalistiche è diversamente accentuato presso i vari scrittori; in realtà una precisa conoscenza delle dottrine giusnaturalistiche non può aversi se non considerando singolarmente i pensatori che vengono tradizionalmente classificati come giusnaturalisti. Possono essere compresi nella scuola del diritto naturale (a parte i vari «precursori», in senso più o meno ampio, come Althusius, Suarez e gli scolastici spagnoli, che mettevano in luce il valore universale del diritto naturale, sempre però vedendone la fondazione nella morale e nella metafisica), oltre a Grozio che ne fu l’iniziatore più o meno consapevole, e 4852

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trascurando i minori: Hobbes – il quale peraltro, date le conseguenze che egli deduce dal contratto sociale, da premesse giusnaturalistiche perviene a un vero e proprio positivismo giuridico – , Spinoza, Milton, A. Sidney, Locke, Pufendorf, Thomasius, Wolff, Vattel, e infine Rousseau; però già con quest’ultimo il giusnaturalismo si avvia a diventare ciò che fu detto «giusrazionalismo», che è la posizione propria di Kant: il quale, pur accettando anch’egli numerose dottrine giusnaturalistiche, fonda il diritto naturale puramente su principi a priori, quale esigenza assoluta della ragion pratica. Per lui la libertà è un diritto innato; e anzi tutti i diritti innati, che i giusnaturalisti precedenti avevano teorizzato, si compendiano nel diritto di libertà. Dopo la grande stagione del positivismo giuridico, l’argomento del giusnaturalismo torna di attualità configurando un vero e proprio «ritorno» del diritto naturale. Questo ritorno prende forma in due differenti scenari. Una prima fase fu immediatamente successiva al termine del conflitto mondiale e all’impatto emotivo suscitato dagli orrori dei regimi totalitari. Al positivismo giuridico venne imputata una sorta di acquiescenza di fronte alla barbarie giuridica dei totalitarismi – come attesta l’emblematico «caso Radbruch» – e l’antico problema della lex injusta, caro ad Agostino e a Cicerone, a Platone e a Tommaso d’Aquino, tornava d’attualità. Per la Germania, oltre a Gustav Radbruch, possono ricordarsi Werner Maihofer, Hans Welzel, Helmut Coing (d’ispirazione fenomenologica), ed esponenti del giusnaturalismo cattolico tradizionale come Heinrich Rommen e Georg Stadtmüller, mentre in Italia sostenitori del «ritorno all’idea eterna del diritto naturale» furono Giorgio Del Vecchio, Giuseppe Capograssi, Giovanni Ambrosetti e anche Francesco Carnelutti; senza rinunciare alle premesse storicistiche del loro pensiero accolsero l’idea di un diritto naturale anche Felice Battaglia, Carlo Antoni, Pietro Piovani. Questa tradizione giusnaturalista italiana si mantiene viva fino ai nostri giorni come dimostra, nell’alveo del giusnaturalismo cattolico, la riflessione di Sergio Cotta. Per completezza è bene ricordare anche, in Francia, Michel Villey, il quale aderì a un giusnaturalismo di dichiarata ispirazione tomistica e Jacques Maritain che inserì nella propria dottrina un’idea di legge naturale tomisticamente

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ispirata, mentre di un giusnaturalismo teologico-protestante si fece interprete Jacques Ellul. Nell’ambito del giusnaturalismo contemporaneo si è avvertita l’esigenza di definire analiticamente il giusnaturalismo stesso e di individuare i tratti comuni ai vari approcci che fanno riferimento a tale tradizione di pensiero. È nell’ambiente anglosassone che maturano queste esigenze e che si prepara il passaggio dalla prima alla seconda fase del ritorno del giusnaturalismo. Gli antecedenti sono la dottrina hartiana del contenuto minimo di diritto naturale (che comunque non fa parte della tradizione giusnaturalistica in senso stretto) e quella della inner morality di Lon Fuller, ma il concreto passaggio alla seconda fase del ritorno del giusnaturalismo si ha, a metà degli anni sessanta, con la genesi della cosiddetta «teoria neoclassica della legge naturale» (Germain Grisez), secondo la quale – a differenza di quanto avviene nelle teorie «neoscolastiche» (nell’ambito delle quali viene fatto ricadere anche Maritain) – è in pieno vigore la legge di Hume: non si deriva il Sein dal Sollen, l’essere dal dover essere. È su questo scenario di sfondo che nel 1980 John Finnis dà avvio alla «nuova dottrina del diritto naturale». È questa una proposta di caratterizzazione delle teorie giusnaturalistiche in termini non esclusivamente negativi (ovvero di contrapposizione al giuspositivismo). Per Finnis il giusnaturalismo va inteso come espressione particolare di quell’esigenza, profondamente radicata nell’animo umano, di reagire allo scetticismo etico. Tuttavia, non ogni teoria etica non scettica può essere considerata una forma di giusnaturalismo; sono necessari anche altri caratteri: a) identificare certi beni fondamentali per l’essere umano, beni che sono costitutivi della natura umana e/o funzionali alla piena realizzazione della persona; b) considerare i giudizi morali relativi alla sfera deontica non come intuizioni, ma come specificazioni di alcuni principi più generali e astratti; c) ammettere l’esistenza di una pluralità di beni e principi fondamentali tra loro incommensurabili; d) articolare non soltanto una proposta etico-normativa ma anche una teoria analitica del diritto e della società. Un altro importante contributo al giusnaturalismo contemporaneo è stato offerto da Deryck Beyleveld e Roger Brownsword. A diffe-

Giuspositivismo renza di Finnis, costoro adottano una prospettiva di indagine non dipendente da un’impostazione tomistica, assumendo come riferimento filosofico principale il razionalismo etico di Alan Gewirth. A fondamento del diritto naturale è presentato un argomento che ha carattere formale, anziché di tipo morale-sostanziale. In tal modo, essi pervengono a una fondazione di natura «epistemologica» del diritto naturale. G. Fassò - G. Zanetti BIBL.: G. SOLARI, La scuola del diritto naturale nelle dottrine etico-giuridiche dei secoli XVII e XVIII, Torino 1904; G. DE MONTEMAYOR, Storia del diritto naturale, Palermo 1911; L. LE FUR, La théorie du droit naturel depuis le XVIIe siècle et la dottrine moderne, Paris 1928; N. BOBBIO, Il diritto naturale nel secolo XVIII, Torino 1947; H. ROMMEN, Die ewige Wiederkehr des Naturrechts, München 19472, tr. it. di G. Ambrosetti, L’eterno ritorno del diritto naturale, Roma 1965; G. BRUNI ROCCIA, La dottrina del diritto naturale in America. Le origini: puritanesimo e giusnaturalismo, Milano 1950; H. WELZEL, Naturrecht und materiale Gerechtigkeit, Göttingen 1951, tr. it. a cura di G. De Stefano, Diritto naturale e giustizia materiale, Milano 1965; E. WOLF, Grosse Rechtsdenker der deutschen Geistesgeschichte, Tübingen 19513 (con ampia bibliografia); H. THIEME, Das Naturrecht und die europäische Privatrechtsgeschichte, Basel 19542; A. VERDROSS, Abendländisches Rechtsphilosophie, Wien 1958; A. PASSERIN D'ENTREVES, La dottrina del diritto naturale, Milano 19642; N. BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano 1965; F. TODESCAN, Le radici teologiche del giusnaturalismo laico, Milano 1983-2001, 3 voll; V. MATHIEU, Luci e ombre del giusnaturalismo e altri studi di filosofia giuridica e politica, Torino 1989; G. FASSÒ, La legge della ragione, Bologna 19992 (1967); T.J. HOCHSTRASSER, Natural law theories in the early enlightenment, Cambridge 2000; P. PIOVANI, Giusnaturalismo ed etica moderna, Napoli 2000 (Bari 1961). Per il dibattito contemporaneo: J. FINNIS, Natural Law and Natural Rights, Oxford 1980, tr. it. di F. Di Blasi, Legge naturale e diritti naturali, a cura di F. Viola, Torino 1996; D. BEYLEVELD - R. BROWNSWORD, Law as a Moral Judgement, London 1986; S. TODDINGTON H. PALMER OLSEN, Law in Its own Right, Oxford 1989; J. FINNIS (a cura di), Natural Law, New York 1991, 2 voll.; R. GEORGE (a cura di), Natural Law Theory, Oxford 1992; R. GEORGE, In Defence of Natural Law, Oxford 1999. ➨ CONTRATTUALISMO; FALLACIA NATURALISTICA.

GIUSPOSITIVISMO (o positivismo giuridico Giuspositivismo legal positivism; Rechtspositivismus; positivisme juridique; positivismo jurídico). – L’espressione 4853

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Giuspositivismo appare nella Germania di fine Ottocento per indicare una concezione del diritto genericamente ispirata al positivismo filosofico: una concezione che, più specificamente, rifiuta la millenaria dottrina filosofica del diritto naturale per ammettere solo uno studio scientifico del diritto positivo, prodotto da uomini nella forma della legislazione o della consuetudine. Benché l’espressione si affermi solo alla fine dell’Ottocento, la concezione designata dall’espressione è più antica di almeno un secolo: a meno di volerla fare risalire addirittura alle origini del pensiero occidentale, alle tesi dei sofisti. L’unica cosa certa è che già a partire dalla fine del Settecento il giusnaturalismo aveva ricevuto gravi critiche, in Inghilterra, da parte di Jeremy Bentham, seguito nell’Ottocento dal suo allievo John Austin, e che anche sul continente il ricorso al diritto naturale era stato abbandonato da parte sia dei giuristi tedeschi più ostili alla codificazione, come Gustav Hugo e Friedrich Karl von Savigny, sia dei giuristi francesi che lavoravano ormai sui codici napoleonici, come i civilisti della scuola dell’esegesi. Che concezioni giuspositivistiche facciano la loro comparsa all’indomani della codificazione, come in Francia, o comunque a seguito di proposte di codificazione del diritto, come in Inghilterra e in Germania, non è certo un caso: proprio i tre grandi codici sette-ottocenteschi (prussiano, francese e austriaco) possono considerarsi la ragione diretta dell’affermarsi del giuspositivismo. Per un cambiamento così radicale nei modi tradizionali di pensare, peraltro, la stessa codificazione non appare una ragione sufficiente: vi è almeno un’altra ragione, indiretta, suscettibile di spiegare la stessa codificazione. Questa ragione indiretta dell’affermarsi del giuspositivismo consiste nel cambiamento intervenuto, in epoca moderna, nel modo stesso di concepire il diritto naturale: mentre il giusnaturalismo antico e medievale tendeva a concepirlo come reperibile nella natura delle cose o nella legge divina, il giusnaturalismo moderno, sviluppando motivi razionalistici presenti già nello stoicismo antico, nel tomismo e nella seconda scolastica, concepisce il diritto naturale come ricavabile dalla ragione umana, intesa come autonoma fonte di valori. A seguito di eventi come la scoperta dell’America, la fine dell’unità politica e religiosa del 4854

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mondo, le scoperte scientifiche, tramonta la credenza in un diritto naturale radicato nelle cose stesse, e si afferma un giusnaturalismo che concepisce il diritto naturale sul modello razionalistico della matematica. Oltre a influire decisivamente sulla successiva codificazione, sia civile e penale (fornendo le sistematiche dei codici), sia costituzionale (formulando le dichiarazioni dei diritti), questo giusnaturalismo finirà per minare la stessa credenza tradizionale in valori oggettivi, credenza da esso ancora condivisa. Una volta che la fonte del valore sia reperita nella ragione umana, infatti, l’unica e oggettiva ragione universale rischia sempre di diventare la molteplice e soggettiva ragione individuale; e a questo punto solo la positività, ossia l’effettiva produzione di norme da parte di individui in carne e ossa, può restituire ai valori giuridici l’oggettività perduta. Di fatto, il fondatore del giusnaturalismo moderno, Thomas Hobbes, è anche il fondatore del giuspositivismo. Fra le due tradizioni si dà continuità storica: il giusnaturalismo moderno si trasforma in giuspositivismo appena realizzato il proprio obiettivo principale, la codificazione del diritto naturale. Comunque sia, l’Ottocento, e in particolare quella forma di stato che è lo stato legislativo ottocentesco, nel quale il diritto si risolve nella legge statale, può considerarsi l’età dell’oro del giuspositivismo: l’epoca nella quale il diritto naturale incontra, se non la fine frettolosamente annunciata dagli stessi giuspositivisti, certo un’eclissi. Verso la fine del secolo, le tesi più caratteristiche del giuspositivismo – positività, imperatività o normatività, statualità, sistematicità, coerenza e completezza del diritto – divengono altrettanti luoghi comuni sia della teoria generale del diritto (allgemeine Rechtslehre) continentale, sia dell’analytical jurisprudence angloamericana. Proprio a partire da questo momento, peraltro, contro il giuspositivismo comincia ad essere avanzata, da parte non solo dei filosofi, ma anche degli stessi giuristi, la critica di formalismo: le tesi sopra indicate, in altri termini, mostrerebbero solo la forma esteriore del diritto, ignorandone i contenuti e la vita stessa. Questa critica è, almeno letteralmente, condivisa dalle varie scuole neogiusnaturaliste (le diverse «resurrezioni» del diritto naturale) con una costellazione di movimenti giuridici detti appunto antiformalisti – ma che per più versi possono con-

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siderarsi una radicalizzazione del giuspositivismo –, i cui principali bersagli sono le tesi formaliste della completezza del sistema giuridico e del carattere non creativo di diritto delle decisioni dei giudici. Queste critiche, in particolare quella di occultare la produzione giudiziale del diritto, vengono riprese dai due principali movimenti antiformalisti novecenteschi: il realismo giuridico americano e quello scandinavo. La possibilità di ammettere la partecipazione del giudice alla formazione del diritto, peraltro, è riconosciuta dal maggiore teorico giuspositivista della prima metà del Novecento, Hans Kelsen, per il quale il diritto si configura come un sistema normativo dinamico, caratterizzato dalla delegazione del potere di produrre diritto operata dalla costituzione a favore della legislazione, e dalla legislazione a favore della stessa giurisdizione. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, peraltro, il giuspositivismo riceve un’accusa molto più grave: l’accusa di aver anestetizzato la coscienza morale dei giuristi contro gli orrori consumati dai grandi totalitarismi del Novecento, alimentando l’idea che la legge è la legge (Gesetz ist Gesetz), che alla legge si deve comunque obbedire. Questa accusa è mossa a Kelsen non solo dai neogiusnaturalisti, ma anche dai giusrealisti: Alf Ross, in particolare, imputa alla dottrina kelseniana di aver tradito la genuina ispirazione scientifica positivista, sostenendo una ideologia dell’obbligatorietà del diritto positivo. Recuperando il nucleo della critica di Ross, Norberto Bobbio distinguerà negli anni sessanta del Novecento fra tre tipi di giuspositivismo: un giuspositivismo teorico, tendenzialmente equivalente al formalismo giuridico e ormai superato; un giuspositivismo ideologico, consistente nella tesi che al diritto bisogna comunque obbedire, anch’essa screditata dalle esperienze totalitarie; un giuspositivismo metodologico, tuttora difendibile, che afferma la possibilità di una conoscenza avalutativa e dunque scientifica del diritto, come fatto fra altri fatti. Negli stessi anni, il maggiore teorico giuspositivista della seconda metà del Novecento, Herbert L.A. Hart, analizzati vari sensi dell’espressione «giuspositivismo», enuclea un senso principale, già implicito in distinzioni benthamiane e austiniane. Mentre il giusnaturalismo sarebbe la tesi della connessione

Giuspositivismo necessaria fra diritto e morale (il diritto immorale non è neppure diritto), il giuspositivismo sarebbe la tesi della loro separabilità (non necessaria connessione: il diritto immorale è pur sempre diritto). Alla tesi della separabilità, i giuspositivisti successivi aggiungono almeno due altre tesi: la tesi delle fonti (il diritto è un fatto sociale, identificabile senza ricorrere a valori) e la tesi della convenzionalità (il diritto ha carattere non naturale bensì convenzionale). Il giuspositivismo, come tesi della separabilità fra diritto e morale, ha peraltro incontrato un’ulteriore sfida negli ultimi decenni del Novecento: i processi di costituzionalizzazione del diritto hanno sostituito allo stato legislativo ottocentesco lo stato costituzionale novecentesco, caratterizzato dalla superiorità gerarchica della costituzione sulla legge. Nello stato costituzionale, apparentemente, diritto e morale non sono più separati, bensì connessi per mezzo della costituzione: questa sembra incorporare valori morali come libertà, uguaglianza e solidarietà sociale. A partire da Ronald Dworkin, una nuova posizione, sempre più spesso chiamata neocostituzionalismo, riafferma la tesi giusnaturalista della connessione necessaria di diritto e morale, sia pure limitatamente agli stati costituzionali: ciò che genera una duplice replica da parte giuspositivista. Il giuspositivismo detto esclusivo, sostenuto da Josef Raz, nega che il diritto positivo possa incorporare valori morali e insieme restare distinto dalla morale. Il giuspositivismo detto inclusivo, sostenuto dallo stesso Hart, ammette invece che il diritto positivo possa contingentemente incorporare valori morali: ciò che peraltro non incrinerebbe la tesi della separabilità, la quale non esclude connessioni contingenti, ma solo connessioni necessarie fra diritto e morale. M. Barberis BIBL.: J. BENTHAM, A Fragment on Government, London 1776, tr. it. a cura di S. Marcucci, Un frammento sul governo, Milano 1990; J. AUSTIN, The Province of Jurisprudence Determined, London 1832, ed. it. a cura di M. Barberis, con tr. it. di G. Gjylapian, Delimitazione del campo della giurisprudenza, Bologna 1995; A. ROSS, On Law and Justice, London 1958, tr. it. di G. Gavazzi, Diritto e giustizia, Torino 1965; H. KELSEN, Reine Rechtslehre, Wien 1960, tr. it. di M.G. Losano, Dottrina pura del diritto, Torino 1966; N. BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano 1965; U.

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Giustificazione SCARPELLI, Cos’è il positivismo giuridico?, Milano 1965; J. RAZ, The Authority of Law. Essays on Law and Morality, Oxford 1979; H.L.A. HART, The Concept of Law, Oxford 19942 (1961), tr. it. a cura di M.A. Cattaneo, Il concetto di diritto, Torino 1965; W.J. WALUCHOW, Inclusive Legal Positivism, Oxford 1994; R.P. GEORGE (a cura di), The Autonomy of Law. Essays on Legal Positivism, Oxford 1996. ➨ CODIFICAZIONE; COSTITUZIONALISMO; DIRITTO, TEORIA GENERALE DEL; DIRITTO, TEORIA PURA DEL; DIRITTO NATURALE E POSITIVO; FORMALISMO GIURIDICO; GIURISDIZIONE; GIUSNATURALISMO; LIBERTÀ; MORALE E DIRITTO; POSITIVISMO; REALISMO GIURIDICO; SECONDA SCOLASTICA; SOFISTI; SOLIDARIETÀ; STATO; STOICISMO; TOMISMO; UGUAGLIANZA.

GIUSTIFICAZIONE, TEORIA DELLA. – La teoGiustificazione ria della giustificazione è una disciplina inclusa nella più estesa teoria della struttura della conoscenza. Secondo una tradizione ampiamente condivisa nell’ambito della filosofia analitica contemporanea, la cui origine è da alcuni identificata negli scritti platonici, la conoscenza, intesa come conoscenza comunicabile mediante proposizioni assertive, è definibile sulla base di tre elementi essenziali: 1) l’elemento oggettivo della verità; 2) l’elemento soggettivo della credenza; 3) l’elemento connettivo della giustificazione. La conoscenza è una credenza corretta e giustificata: è una credenza, perché il processo che termina nella conoscenza è un processo di esclusione del dubbio, tanto che la presenza del dubbio è indice che il processo conoscitivo non è concluso; è una credenza corretta, perché il correlato del conoscere è l’essere attuale di uno stato di cose, da cui deriva la verità della proposizione che costituisce la descrizione di tale stato; è una credenza giustificata, perché connessa con ragioni in grado di essere comunicate e condivise in quanto indici della verità di ciò che è conosciuto. L’esigenza della condizione di giustificazione, introdotta per gettare un ponte tra il versante soggettivo e il versante oggettivo della conoscenza, diviene particolarmente chiara nel momento in cui si prendono in considerazione domini di indagine rispetto ai quali sono definite delle precise procedure di fondazione. Infatti, un soggetto può credere correttamente nella verità di una proposizione matematica, ma non si è disposti a dire che tale soggetto conosce la verità della proposizione 4856

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se non è in grado di esibire la sua dimostrazione; analogamente, un soggetto può credere correttamente nella verità di una proposizione empirica che descrive la misura di una certa grandezza, ma non si è disposti a dire che tale soggetto conosce la verità della proposizione se non è in grado di esibire la procedura di misurazione mediante la quale la misura della grandezza è stata determinata. La giustificazione, in quanto oggetto della riflessione epistemologica, è comunemente intesa come giustificazione di una credenza rispetto alla propria pretesa di verità. Il problema della giustificazione, infatti, ha origine nel momento in cui si diviene coscienti della possibilità dell’errore, ossia del credere nella verità di una proposizione non vera, ed è precisamente l’esperienza dell’errore che genera l’esigenza di giustificare la credenza rispetto alla verità. La giustificazione di una credenza, tuttavia, proprio perché non si basa su ragioni pratiche o prudenziali, ma su ragioni che sono degne, o considerate degne, di essere condivise da chiunque, in quanto indicatori della verità della proposizione creduta, si configura come fondazione o, più precisamente, fondazione epistemica di una proposizione. In questo senso, la teoria della giustificazione è inglobata all’interno della teoria della fondazione epistemica, dal momento che una credenza è giustificata se esiste una fondazione epistemica relativa alla proposizione che costituisce il suo oggetto, mentre una proposizione può essere fondata o fondabile anche se non è creduta da un soggetto, pur essendo un possibile oggetto di credenza. SOMMARIO: I. Fondazione epistemica: 1. Principali distinzioni relative al concetto di fondazione. 2. Postulati che caratterizzano il concetto di fondazione. - II. Struttura della fondazione: 1. Sintesi dei modelli di fondazione. - 2. Significatività dei modelli di fondazione. - 3. Posizione coerentistica. 4. Posizione fondazionalistica. - III. Fondazione a priori e a posteriori: 1. Fondazione a priori, analiticità e necessità. - 2. Possibilità della fondazione a priori. - 3. Fondazione a posteriori. I. FONDAZIONE EPISTEMICA. – La fondazione epistemica è fondazione di proposizioni mediante indicatori di verità, ossia procedure in grado di accertare la verità, o la verosimiglianza, della proposizione a cui sono applicate. In senso classico, si può dire che la fondazione ha carattere intenzionale: è sempre fondazione di

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qualcosa, una proposizione assertiva, rispetto a qualcuno, un possibile soggetto, ed è tale che disporre di una fondazione coincide col disporre di una indicazione che le cose stanno così come una proposizione dice che stanno, ossia che lo stato di cose che un soggetto intende descrivere come attuale mediante una proposizione è effettivamente attuale. Il concetto di fondazione adottato, se si prescinde dalla caratterizzazione della fondazione come relazione intenzionale, è poi sufficientemente generico per essere consistente rispetto a una pluralità di posizioni diverse. Si è soliti operare due distinzioni basilari circa le posizioni epistemologiche che possono essere assunte rispetto alla concezione della fondazione epistemica: la prima separa le posizioni realistiche, tendenti a differenziare la verità di una proposizione dalla sua fondabilità o dalla sua condizione di fondazione attuale dalle posizioni antirealistiche, tendenti a identificare la verità di una proposizione con la sua fondabilità o con la sua condizione di fondazione attuale; la seconda separa le posizioni internalistiche, secondo le quali una proposizione fondata rispetto a un soggetto è sempre tale da essere considerata fondata dal soggetto stesso, dalle posizioni esternalistiche, secondo le quali una proposizione fondata rispetto a un soggetto può non essere tale da essere considerata fondata dal soggetto indicato. 1. Principali distinzioni relative al concetto di fondazione. – Si consideri la seguente fondazione della proposizione «ogni oggetto rosso è visibile»: ogni oggetto colorato è visibile ogni oggetto rosso è colorato –––––––––––––––––––––––– ogni oggetto rosso è visibile Il sillogismo proposto è un caso concreto dello schema inferenziale: ogni A è B ogni B è C ––––––––– ogni A è C La procedura di fondazione indicata è certamente disponibile per ogni soggetto in grado di comprendere il significato delle proposizioni e il significato dello schema di inferenza. Tuttavia, non si può assumere che ogni soggetto abbia attualmente a disposizione tale fondazione o che ogni soggetto che dispone dello schema inferenziale abbia a disposizione

Giustificazione l’istanza concreta che costituisce la fondazione della proposizione dell’esempio. Inoltre, la fondazione di cui un soggetto dispone potrebbe essere solo illusoria, sia perché attuazione di una procedura non condivisibile – uno schema inferenziale scorretto – sia perché attuazione non condivisibile di una procedura condivisa – uso scorretto di uno schema inferenziale corretto. Inversamente, la fondazione non è illusoria quando è attuata in modo corretto secondo una procedura condivisibile. Il disporre di un’indicazione della verità di una proposizione implica quindi una serie complessa di condizioni: occorre disporre di una procedura di fondazione che sia oggettivamente condivisibile e disporre di una istanza concreta della procedura, in relazione alla proposizione da fondare, che sia ricavata correttamente. Le condizioni sono suddivisibili schematicamente come segue:

Introdotte le condizioni oggettive e soggettive diviene possibile descrivere con più precisione i concetti di fondazione e fondabilità: che cosa 4857

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Giustificazione significa che la proposizione A è fondata oppure è fondabile per il soggetto a al tempo t? 1° tratto distintivo (possesso e possibilità di possesso) 1) a dispone in t di una procedura di fondazione di A (possesso effettivo in t della procedura) 2) è disponibile in t una procedura di fondazione di A (possibilità effettiva del possesso in t della procedura) 2° tratto distintivo (possesso e credenza di possesso) 1.1) a dispone in t di una procedura di fondazione di A (se ci si concentra sul significato oggettivo della relazione) 1.2) a crede di disporre in t di una procedura di fondazione di A (se ci si concentra sul significato soggettivo della relazione) 3° tratto distintivo (esistenza e credenza di esistenza) 2.1) è disponibile in t una procedura di fondazione di A (se ci si concentra sul significato oggettivo della relazione) 2.2) a crede che sia disponibile in t una procedura di fondazione di A (se ci si concentra sul significato soggettivo della relazione) Le distinzioni sono descrivibili mediante l’introduzione di due operatori: l’operatore F di fondazione, essenzialmente internalistico, in relazione al quale è sempre implicitamente posto un riferimento al soggetto che dispone della procedura di fondazione; l’operatore F di fondabilità, essenzialmente esternalistico, in relazione al quale non è posto nessun riferimento a un soggetto. Introducendo il riferimento alla credenza, l’articolazione proposta può essere sintetizzata in uno schema:

La relazione tra le diverse concezioni è la seguente. Se il soggetto dispone / è certo di disporre di una fondazione per A, allora è disponibile / è certo che è disponibile una fondazio4858

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ne per A. In altri termini, è valida l’implicazione: Ft(a,A) → Ft(a,A) e il soggetto è conscio della sua validità. Si immagini, a modo di esempio, che un soggetto stia leggendo gli Elementi di Euclide, testo in cui si susseguono enunciati di teoremi e corrispondenti dimostrazioni. La sola lettura dell’enunciato di un teorema A, introdotto all’interno di un testo di questo tipo, è generalmente sufficiente perché a creda che sia disponibile una dimostrazione di A e perché la credenza di a sia corretta, dato che A è dimostrabile; se poi a è in grado di comprendere la dimostrazione presentata, la lettura sarà sufficiente perché a creda di disporre della dimostrazione e, se la lettura conduce a una comprensione corretta, perché a disponga di essa. Il passaggio dalla credenza nella fondabilità alla disposizione della fondazione di A richiede un insieme di condizioni significative: l’insieme delle procedure di dimostrazione deve essere condivisibile e la dimostrazione deve essere corretta, così come corretta deve essere la comprensione della dimostrazione da parte del soggetto. I differenti tipi di fondazione introdotti possono essere definiti mediante tre concetti primitivi: i) il concetto di procedura di fondazione; ii) quello di applicazione di una procedura per la fondazione di una proposizione A; iii) quello di insieme delle procedure disponibili in un certo tempo t. Infatti, si può affermare, in generale: 1) una proposizione A è fondabile mediante una determinata procedura f, quando f costituisce una procedura condivisibile ed esiste una applicazione corretta di f rispetto ad A; inoltre, A è fondabile quando esiste una procedura condivisibile f tale che A è fondabile mediante f. 2) una proposizione A è fondata, per il soggetto a, al tempo t, mediante una determinata procedura f, quando f costituisce una procedura appartenente all’insieme delle procedure disponibili in t e a dispone di un’applicazione corretta di tale procedura rispetto ad A; inoltre, A è fondata, per il soggetto a, al tempo t, quando esiste una procedura condivisibile f tale che A è fondata mediante f. Le definizioni introdotte consentono la determinazione dell’implicazione tra fondazione e fondabilità, secondo la quale ogni proposizione fondata è fondabile. 2. Postulati che caratterizzano il concetto di fondazione. Una volta introdotti i concetti basilari

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della fondazione e della fondabilità, si tratta di specificare in base a quali criteri le procedure di fondazione possono essere assunte, in quanto procedure degne di essere condivise come indici di verità delle proposizioni fondate, e quali relazioni possono intercorrere tra le procedure introdotte. Il primo postulato relativo alla fondazione è costituito dall’assunzione, universalmente condivisa, dell’inclusione della derivabilità logica, definita all’interno di calcoli corretti, nell’insieme delle procedure di fondazione condivisibili. La derivabilità logica è una procedura di fondazione degna di essere condivisa da ogni soggetto, perché, all’interno di calcoli corretti, la derivabilità logica conduce solo a proposizioni la cui verità è logicamente determinata. Il secondo postulato relativo alla fondazione concerne la connessione tra procedure distinte e proposizioni distinte. Se A è fondabile mediante una procedura f, allora: i) A è fondabile mediante ogni procedura che include al suo interno la procedura f; ii) ogni proposizione derivabile da A è fondabile mediante una procedura che include al suo interno la procedura f. Il punto ii) discende dal primo postulato e costituisce un principio di trasmissione logica della fondazione proposizionale. Il punto i) dichiara che procedure composte sono cumulative rispetto alle componenti. Il terzo postulato relativo alla fondazione concerne la connessione tra procedure di fondazione e quelle che possono essere chiamate metaprocedure, ossia procedure che si riferiscono alla fondazione di proposizioni che dichiarano lo stato di fondazione di altre proposizioni. In primo luogo, si assume che è fondabile il nesso tra la fondabilità di una proposizione e la sua verità. In secondo luogo, si assume che, se A è fondabile, allora è fondabile la proposizione che dichiara che A è fondabile. Infatti, A è fondabile quando esiste una procedura condivisa e un’applicazione di tale procedura rispetto ad A; ma l’introduzione di una procedura condivisa implica una giustificazione della sua condivisibilità accompagnata dalla definizione di criteri in base ai quali è possibile identificare effettivamente sia la procedura introdotta sia ogni sua applicazione corretta; quindi, dalle modalità che consentono l’introduzione di una procedura di fondazione deriva sia la fondabilità del nesso di implicazione tra fondazione e verità, sia l’implicazione tra la

Giustificazione fondabilità di A e la fondabilità del fatto che A è fondabile. I postulati introdotti sono alla base della costruzione di ogni sistema logico relativo alla fondabilità e, sotto la condizione che un soggetto sia cosciente della giustificazione che accompagna l’introduzione delle procedure di fondazione che utilizza, di ogni sistema della fondazione. In sintesi, gli assiomi basilari di un sistema logico della fondabilità o della fondazione sono i seguenti. Assiomi relativi alla fondabilità: XA RΦ : FX  ΦA Φ1 :  Φ(ΦA → A) Φ2 :  ΦA → ΦΦA Il primo principio è la regola che dichiara la fondabilità di proposizioni logicamente derivabili da proposizioni fondabili, ovvero la regola derivante dalla considerazione della derivabilità logica come legittima procedura di fondazione. Il secondo principio è l’assioma che dichiara la fondabilità dell’affidabilità di ogni procedura di fondazione: la fondazione dell’affidabilità è condizione di introduzione di una procedura di fondazione. L’ultimo principio dichiara la fondabilità di ogni stato di fondabilità: una fondazione condivisibile è giustificata quanto al suo essere condivisibile. Assiomi relativi alla fondazione: XA RF : FX  FA F1:  F(FA → A) F2 :  FA → FFA F3 :  FA → CFA Il primo principio è la regola che dichiara, analogamente al caso della fondabilità, la fondazione di proposizioni logicamente derivabili da proposizioni fondate. Il secondo principio è l’assioma che dichiara che ogni procedura di fondazione di cui si dispone è considerata affidabile. Il terzo principio indica che, se il soggetto dispone di una fondazione, allora è in grado di fondare il fatto che dispone di tale fondazione. Infine, l’ultimo principio caratterizza la fondazione in senso internalistico: se si dispone di una fondazione si è certi di disporne; la procedura di cui si dispone è accessibile al soggetto e comunicabile dal soggetto. I sistemi di base proposti possono poi essere arricchiti mediante ulteriori assiomi in grado di caratterizzare concetti di fondazione più 4859

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Giustificazione

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specifici. I principali assiomi presi in considerazione nella costruzione di tali sistemi sono i seguenti. CONCETTO DI FONDAZIONE Oggettivamente consistente Oggettivamente affidabile Soggettivamente consistente Soggettivamente affidabile Soggettivamente decidibile

ASSIOMA CORRISPONDENTE

I primi due assiomi caratterizzano concezioni più interessanti di fondazione: il primo, infatti, dichiara che la procedura di cui si dispone non consente di fondare insieme una proposizione e la sua negazione; il secondo implica il precedente e dichiara l’affidabilità della procedura di cui si dispone, ossia il fatto che tale procedura consente di fondare solo proposizioni vere. I due assiomi successivi limitano le caratteristiche esposte alla credenza del soggetto: il secondo, in particolare, esprime una proprietà desiderabile in relazione a ogni procedura di fondazione, ossia il nesso tra l’applicazione di una procedura e la certezza nella verità di ciò che la procedura indica come vero. Infine, l’ultimo assioma dichiara la decidibilità della condizione di fondazione di una proposizione: se si è certi che A è fondata, allora A è veramente fondata. Tale condizione è generalmente ammessa come caratteristica delle procedure di fondazione utilizzate negli ambiti delle scienze, in cui sono presenti e intersoggettivamente controllabili i criteri in base ai quali è lecito affermare che una proposizione è fondata. Tuttavia, la condizione di decidibilità soggettiva può generare dei paradossi se congiunta con la condizione di affidabilità oggettiva: se la certezza di FA implica che A è veramente fondata e se la fondatezza di A implica la verità di A, allora la certezza di disporre di una fondazione di A implica la verità di A e, di conseguenza, l’impossibilità di essere in errore, che costituisce una conclusione paradossale. Inversamente, l’ammissione della possibilità dell’errore induce uno scarto essenziale tra 4860

procedure soggettivamente decidibili e procedure oggettivamente affidabili: quanto più una procedura è considerata affidabile, tanto più si è costretti a dubitare di disporre di un’istanza corretta di tale procedura rispetto a una proposizione. II. STRUTTURA DELLA FONDAZIONE. – I sistemi della fondazione brevemente proposti sono stati costruiti a partire dai tratti formali che definiscono gli operatori di fondazione e fondabilità, a prescindere dalla considerazione del modo in cui la fondazione di una proposizione si attua strutturalmente. Si tratta ora di approfondire la struttura della fondazione, basandosi sul fatto che la fondazione può essere interpretata come una relazione tra una proposizione, ciò che deve essere fondato, e un elemento, l’istanza di una procedura, in grado di fondare la proposizione e giustificare la corrispondente credenza, il giustificatore. La relazione tra proposizioni e giustificatori è concepita in modo differente a seconda delle opzioni che sono adottate rispetto all’esigenza di una fondazione di tipo universale e all’assunzione di una fondazione di tipo unilaterale. Sotto il profilo dell’universalità, si distingue tra una posizione universale, secondo la quale l’esigenza di fondazione si estende all’intero insieme delle proposizioni assertive, perché ciò che occorre fondare è la pretesa di verità propria di ogni asserzione, e la negazione di tale posizione. Sotto il profilo dell’unilateralità, si distingue tra una posizione unilaterale, secondo la quale tutti i giustificatori sono proposizionali, e la posizione che sostiene la possibilità di introdurre giustificatori non proposizionali, tipicamente l’evidenza dello stato di cose descritto dalle proposizioni. Le due opzioni generano due diverse concezioni epistemologiche: la concezione proposizionale, universale e unilaterale, che nega l’evidenza come procedura di fondazione e assume, di conseguenza, che tutte le proposizioni necessitano di giustificazione da parte di altre proposizioni; la concezione non proposizionale, non universale e non unilaterale, che assume l’evidenza come procedura di fondazione e nega, di conseguenza, che tutte le proposizioni necessitano di giustificazione da parte di altre proposizioni. Le due concezioni sono alla base delle differenti posizioni assunte in relazione al dibattito attuale sulla struttura della fondazione. 1. Sintesi dei modelli di fondazione. – Si assuma la concezione proposizionale: ogni proposizio-

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ne deve essere giustificata e la giustificazione di una proposizione esige l’introduzione di altre proposizioni. Si ipotizzi che la proposizione A sia derivabile a partire da un’altra proposizione B e che non si possa dire nulla circa la verità delle premesse in B. In questo caso, la fondazione di A dipende essenzialmente dalla fondazione della premessa a partire da cui A è derivata. Inoltre, sono possibili quattro alternative: I) B non è fondabile (la fondazione di B può non esserci) II) B è fondabile mediante se stesso (la fondazione di B può essere riflessiva) III) B è fondabile mediante ciò che fonda (la fondazione di B può essere circolare) IV) B è fondabile mediante un altro giustificatore (la fondazione di B può essere iterata all’infinito) In altri termini, in una discussione in cui si mette in dubbio la verità di B, e quindi di A, la cui fondazione dipende da B, si possono assumere quattro strategie: negare che B abbia bisogno di un ulteriore giustificatore e chiudere la discussione; negare che B abbia bisogno di un giustificatore diverso da B e chiudere la discussione; negare che B abbia bisogno di un giustificatore diverso da A e continuare la discussione presentando A come giustificatore di B; infine, negare che la fondazione di B abbia bisogno di una conclusione e continuare la discussione presentando giustificatori sempre diversi. Intuitivamente, nessuna delle quattro strategie sembra adatta a conseguire una fondazione di B: un arbitro, che assistesse a una discussione in cui una delle strategie è attuata da uno dei contendenti, difficilmente giudicherebbe tale strategia vincente, semplicemente perché potrebbe essere attuata allo stesso modo dall’altro contendente in relazione alla tesi contraria rispetto a quella sostenuta dal primo. L’intuizione che conduce a negare l’efficacia delle quattro strategie genera il paradosso della fondazione: se, per fondare B, sono concepibili solo i quattro modi proposti e se nessuno dei quattro modi sembra adatto, allora non è possibile fondare B. I tentativi di dare una soluzione a questo paradosso sfociano nella definizione delle due posizioni principali, di tipo internalistico, circa la struttura della fondazione epistemica: la posizione fondazionalistica e la posizione olistica, nella versione del coerentismo.

Giustificazione 2. Significatività dei modelli di fondazione. Il paradosso è generato dal fatto che le strategie di fondazione presentate sono le uniche concepibili. Infatti, B può possedere o non possedere un giustificatore; se non possiede un giustificatore, si è nel primo modello, se possiede un giustificatore, questo può essere o non essere identico a B; se il giustificatore è identico a B, si è nel modello riflessivo, se, invece, possiede un giustificatore diverso da B, questo può includere o non includere ciò che B fonda, ossia A; se include A, si è nel modello circolare, se non include A, il giustificatore può essere a sua volta messo in dubbio quanto alla sua verità e si genera un progresso all’infinito. Si osservi che la differenza che oppone i primi tre casi all’ultimo consiste nel fatto che, nei primi, il procedimento di fondazione proposizionale possiede un termine, costituito da B, posto come infondato, come giustificatore di se stesso, o come fondato dalla proposizione che fonda, mentre nell’ultimo è consentito un possibile sviluppo verso un’ulteriore fondazione. In che modo è possibile valutare i modelli di fondazione presentati? Il criterio per giudicare significativo un modello di fondazione deriva dalle considerazioni svolte circa le caratteristiche che le procedure di fondazione devono possedere. Si può ipotizzare che un modello che consente alla stessa procedura di fondare tanto una proposizione quanto la sua negazione non sia un modello significativo, perché in contraddizione con la finalità della fondazione: la fondazione mira a rendere ragione della verità di una proposizione e non è possibile sostenere a un tempo la verità di due proposizioni contraddittorie. In effetti, questo è lo stesso criterio utilizzato intuitivamente in precedenza per sostenere che un arbitro non avrebbe dato ragione a nessuno dei contendenti. Infatti, assumendo il criterio indicato, i primi tre modelli diventano subito non significativi: se un contendente chiude la discussione dicendo che B non ha bisogno di un giustificatore, l’opponente può sostenere la negazione di B mediante lo stesso argomento; se un contendente chiude la discussione dicendo che il giustificatore è B, l’opponente può sostenere la negazione di B mediante lo stesso argomento; infine, se un contendente continua la discussione dicendo che il giustificatore è ciò che B giustifica, l’opponente può ancora sostenere la negazione di B, adducendo come giustificatore una qualsiasi delle con4861

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Giustificazione seguenze della negazione di B. In ogni caso, la strategia di un contendente è simmetrica rispetto a quella dell’opponente e un arbitro non è in grado di dire quale dei due partiti rende ragione della verità di ciò che sostiene. Il modello che assume la possibilità di continuare l’introduzione di giustificatori all’infinito è poi solo apparentemente significativo: si può infatti mostrare che, rispetto a ogni premessa introdotta da un contendente come giustificatore della premessa precedentemente presentata, l’opponente è in grado di costruire una premessa su misura, in modo da continuare il proprio itinerario infinito di fondazione. Tuttavia, c’è un modo più immediato per cogliere l’elemento problematico insito nel procedere a una fondazione infinita: la proposizione infondata A continua ad essere infondata, finché non viene introdotto un giustificatore in grado di fondarla; se il giustificatore è costituito da un’altra proposizione B, allora la fondazione di A dipende dalla fondazione di B, nel senso che A continua ad essere infondata finché B non è a sua volta fondata; quindi, introducendo B come premessa non fondata non si ottiene la fondazione di A, ma una coppia di proposizioni da fondare, più la condizione secondo la quale la fondazione di B implica la fondazione di A. In conclusione, se si procede all’infinito, non si ottiene una serie di proposizioni fondate, ognuna rispetto alla successiva, ma una serie di proposizioni infondate, congiunta con la condizione che lega la fondazione di ognuna alla fondazione della successiva. Il modello dell’iterazione infinita non consente quindi di fondare nulla. In conclusione, i modelli di fondazione che, come i quattro proposti, non sono significativi, sono da rigettare e il paradosso della fondazione sembra, a questo punto, essere inoppugnabile. Tuttavia, i modelli analizzati sono stati dichiarati non significativi solo sotto la condizione che la concezione di fondazione assunta sia la concezione proposizionale. Se non si accetta questa condizione, il primo dei modelli diviene significativo: una discussione può infatti chiudersi con una proposizione che non esige di essere giustificata mediante un’altra proposizione. In questo caso, secondo la prospettiva proposizionale, la proposizione sarebbe ingiustificata, mentre secondo la prospettiva non proposizionale, potrebbe essere giustificata mediante un giustificatore non proposizionale. I tentativi di sostenere la pos4862

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sibilità della fondazione, pur assumendo un concetto di fondazione non universale, sono definiti dall’introduzione, come giustificatore, del sistema in cui la proposizione è inclusa o dell’evidenza relativa al contenuto proposizionale. Il coerentismo assume, come giustificatore non proposizionale, il sistema di proposizioni all’interno del quale una proposizione si trova connessa con altre secondo specifiche relazioni di coesione, relazioni che sono alla base della coerenza del sistema stesso. Il fondazionalismo assume, invece, come giustificazione non proposizionale, il sistema delle evidenze che costituiscono l’accesso agli stati di cose descritti dalle proposizioni da giustificare. Scendendo più in dettaglio, si pone una differenza tra un coerentismo di tipo incondizionato, se si sostiene che il sistema di proposizioni condiviso da un soggetto è l’unico giustificatore, e un coerentismo di tipo condizionato, se si ammette l’esistenza di giustificatori evidenziali introspettivi, relativi all’identificazione del sistema condiviso, e, al limite, l’esistenza di giustificatori evidenziali relativi a stati di cose non interni, con relativo primato epistemico delle proposizioni evidenti, a parità di condizioni, sulle altre proposizioni del sistema. In modo simile, si pone una differenza tra un fondazionalismo incondizionato, se si sostiene l’esistenza di un unico giustificatore che coincide con la base di proposizioni evidenti, e un fondazionalismo condizionato, se si ammette che il sistema condiviso incrementa il grado di fondazione di ogni proposizione al suo interno e, al limite, che il sistema è il giustificatore primario di ogni proposizione al suo interno. I due tipi limite di coerentismo e fondazionalismo condizionato possono poi coincidere. 3. Posizione coerentistica. – La tesi del coerentismo puro è duplice: i) non ci sono proposizioni immediate; ii) un sistema coerente è un giustificatore per ogni proposizione al suo interno. La conoscenza è perciò non piramidale: non c’è una base che sostiene la struttura delle proposizioni fondate, ma è la struttura stessa che si sostiene grazie alla propria coerenza interna. Il sistema può essere differentemente strutturato, o modificare la sua struttura nel corso del tempo, e può possedere un grado di giustificazione differente a seconda del grado di coerenza interna, grado di coerenza determinato più precisamente come grado di connessione derivante dalla consistenza logica, dalla consistenza probabilistica e dalla pre-

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senza di relazioni di tipo inferenziale, esplicativo o unificativo tra le proposizioni che compongono il sistema stesso. I sistemi coerenti includono perciò proposizioni universali, dato che due proposizioni individuali non possono essere connesse, in modo inferenziale e interessante insieme, se non mediante una proposizione universale. Le proposizioni universali devono poi essere esplicative e unificative, in modo da soddisfare 1) un principio di best explanation, secondo il quale una proposizione è fondata da un insieme di ulteriori proposizioni se la sua introduzione è massimamente esplicativa in relazione a tale insieme, essendo esplicativa in misura delle proposizioni individuali che è in grado di dedurre, e 2) un principio di isomorfismo strutturale, secondo il quale due principi che descrivono modelli esplicativi simili in relazione a domini simili sono di supporto l’uno per l’altro. In conclusione, i parametri che definiscono la coerenza di un sistema sono il massimo potere inferenziale e potere esplicativo in condizioni di massimo isomorfismo strutturale. I problemi legati alla concezione coerentistica pura derivano dalla negazione dell’esistenza di proposizioni evidenti, ovvero di proposizioni assunte a prescindere da una fondazione inferenziale o derivante da una connessione inferenziale. In genere, sono due le obiezioni principali mosse contro il coerentismo: 1) impossibilità di fondare la verità del sistema coerente, derivante dall’inesistenza di un accesso immediato al mondo; 2) impossibilità di fondare la selezione di un sistema tra gli infiniti sistemi coerenti, derivante ancora dall’inesistenza di un accesso immediato al mondo. Il primo problema è chiaro: se non c’è un accesso evidenziale al mondo, allora diviene ingiustificata l’asserzione della verità delle proposizioni incluse in un sistema coerente, a meno di non identificare la verità con la stessa appartenenza al sistema; ma che questa non sia una via praticabile discende dalla considerazione del secondo dei due problemi. Si può osservare che, in un contesto coerentistico, se esiste un sistema coerente, allora esistono sistemi contraddittori ugualmente coerenti. L’implicazione può essere dimostrata e viene così violato il secondo criterio di significanza, perché la fondazione di una proposizione condurrebbe alla fondazione della proposizione contraddittoria. Se non si desidera incorrere in questa conclusione, occorre introdurre un principio di

Giustificazione selezione, differente dal sistema, al fine di discernere le proposizioni fondate rispetto alle loro negazioni; tuttavia, considerando il fatto che un principio di questo tipo non può essere il sistema stesso, una concezione puramente coerentistica è costretta a negare il suo assunto di fondo, ovvero che il sistema è l’unico principio di fondazione delle proposizioni. Inoltre, la selezione di uno tra i tanti sistemi coerenti è problematica anche da un altro punto di vista: in che modo, ci si può chiedere, è possibile giustificare il fatto che una proposizione è inclusa in un sistema? In che modo è possibile giustificare il fatto che un sistema è coerente? Se non c’è fondazione mediante evidenza, il sistema stesso non è evidente per il soggetto che lo condivide: non è evidente che una proposizione è inclusa nel sistema e non è evidente l’insieme delle relazioni di connessione che rendono il sistema coerente. L’appartenenza di una proposizione al sistema e la coerenza del sistema non possono però essere fondate se non appellandosi a un sistema coerente di livello superiore, in relazione al quale si pone lo stesso problema. L’elemento critico di fondo appare elementare e decisivo: la concezione coerentistica è un tipo di internalismo e l’internalismo implica la accessibilità del giustificatore. Se il giustificatore è il sistema, l’accesso al giustificatore è l’accesso al sistema, ma l’accesso al sistema non può che essere evidenziale e si giunge, così, alla contraddizione. L’accesso può poi essere solo evidenziale, perché ogni inferenza che termina nella posizione del sistema è esterna al sistema. Intendendo estendere il problema, si può asserire che un sistema di proposizioni coerente può essere proposto come giustificatore di una proposizione solo se soddisfa tre condizioni: l’accessibilità del sistema; l’accessibilità delle relazioni logiche secondo le quali è strutturato; l’accessibilità del mondo in relazione al quale il sistema è dichiarato fondato. In ogni caso, l’accesso non può che essere costituito. 4. Posizione fondazionalistica. – Il fondazionalismo è la posizione secondo la quale un sistema fondato di proposizioni può essere suddiviso in due insiemi: l’insieme delle proposizioni immediate, fondate in base a evidenza, e l’insieme delle proposizioni mediate, fondate mediante le prime. Si tratta ora di prendere in considerazione la possibilità di una posizione di questo tipo, affrontando le critiche princi4863

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Giustificazione pali sollevate contro l’esistenza di proposizioni immediate. Infatti, se è vero che una posizione epistemologica non fondazionalistica è in ultima istanza costretta alla propria negazione, la negazione del fondazionalismo condurrebbe alla completa negazione della possibilità di una fondazione. Le critiche volte contro l’esistenza di proposizioni evidenti da assumere come base della conoscenza sono di due tipi. Critica del 1° tipo: l’assunzione di proposizioni immediate genera una regresso all’infinito. A è immediata; ma come si giustifica che A è immediata? La giustificazione è data dall’evidenza: A' = «A è immediata» è immediata, e così via all’infinito. In questo modo, la giustificazione dell’immediatezza di A non solo genera un regresso all’infinito, ma dipende dall’argomentazione presentata e non si costituisce come vera immediatezza, perché implica un procedimento di mediazione. La critica non appare però cogliere un punto essenziale: l’evidenza immediata di A implica l’evidenza dell’evidenza immediata di A, perché non c’è accesso, esplicito o implicito, a uno stato di cose, se non c’è coscienza, esplicita o implicita, dell’accesso stesso. La fondazione dell’evidenza di A non è altro dall’evidenza di A: è precisamente questo il senso di quel tipo di fondazione che è l’evidenza e che, proprio perché fondazione immediata, include in se stessa la negazione dell’esigenza di un ulteriore elemento fondante differente dall’evidenza stessa. In ogni sistema di logica dell’evidenza, questa condizione di equivalenza tra l’evidenza di A e l’evidenza dell’evidenza di A è derivabile. Critica del 2° tipo: una proposizione, A, è immediata se e solo se è fondata in base all’evidenza; una fondazione evidenziale deve i) fondare una proposizione; ii) non esigere ulteriore fondazione; se però l’evidenza è in grado di fondare una proposizione, possiede un contenuto proposizionale; se possiede un contenuto proposizionale esige ulteriore fondazione; è quindi impossibile una fondazione evidenziale. Il problema, in questo caso, è costituito dal fatto che il contenuto dell’evidenza deve essere presente in modo tale da fondare una proposizione e che l’essere presente di questo contenuto non deve esigere ulteriore fondazione. La critica alla possibilità dell’evidenza prende inizio da un’ipotesi e si sviluppa come dilemma a due corni. Si consideri, innanzitut4864

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to, la presentazione del dilemma in termini di credenza e giustificazione mediante evidenza: 1° corno: il contenuto di evidenza non è proposizionale il contenuto di una proposizione A è proposizionale –––––––––––––––––––––––––––––––––––– il contenuto di evidenza non è quello di A –––––––––––––––––––––––––––––––––––– l’evidenza non può fondare la proposizione A 2° corno: il contenuto di evidenza è proposizionale ogni contenuto proposizionale esige fondazione –––––––––––––––––––––––––––––––––––– il contenuto di evidenza esige fondazione –––––––––––––––––––––––––––––––––––– l’evidenza non può fondare la proposizione. Il problema del dilemma proposto dipende da ciò che è indicato come proposizione. Si è osservato che con proposizione si può indicare sia uno stato di cose pensabile sia la descrizione di tale stato di cose. Il rispetto problematico del dilemma emerge in completa chiarezza se si sostituisce a contenuto proposizionale uno dei due concetti che il termine proposizione può indicare. Interpretazione 1: proposizione = stato di cose 1° corno: il contenuto di evidenza non è uno stato di cose il contenuto di una proposizione è uno stato di cose 2° corno: il contenuto di evidenza è uno stato di cose ogni stato di cose esige fondazione. In questo caso, la prima premessa del 1° corno non è corretta, perché l’evidenza è definita come presenza immediata di stati di cose; inoltre, non è corretta la seconda premessa del 2° corno, perché uno stato di cose non esige fondazione, non essendo una proposizione. Il dilemma sfuma. Interpretazione 2: proposizione = descrizione di uno stato di cose 1° corno: il contenuto di evidenza non è una descrizione il contenuto di una proposizione è una descrizione 2° corno: il contenuto di evidenza è una descrizione una descrizione esige fondazione. In questo caso, la prima premessa del 2° corno non è corretta, perché il contenuto di evidenza

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è uno stato di cose e non la sua descrizione; inoltre, non è corretta la seconda premessa del 1° corno ed è problematica la conclusione dell’intero corno. Il dilemma nuovamente sfuma. In positivo, la giustificazione del fondazionalismo, ossia dell’esistenza di una fondazione evidenziale, dipende da due premesse: i) ciò che è evidente è il mondo attuale; ii) ciò che è evidente è descrivibile mediante proposizioni. La seconda premessa, concernente la possibilità di descrivere ciò che è evidente o appare, non sembra problematica, a meno di non negare l’esistenza di proposizioni mediante le quali si è in grado di descrivere il mondo, e quindi eliminare il problema stesso della fondazione della verità di tali proposizioni. La prima premessa è invece analitica: il mondo attuale è infatti identificabile come il correlato di possibile evidenza: se non c’è evidenza, non c’è accesso al mondo e, se non c’è accesso al mondo, non c’è possibilità di fondare la verità di una proposizione, perché non c’è possibilità di dire se una proposizione descrive o non descrive il mondo. In senso stretto, la stessa giustificazione del fondazionalismo potrebbe considerarsi analitica: in che cosa consiste, infatti, la fondazione? L’indicazione che fondare significa mediare non costituisce un chiarimento del concetto: A è fondata non se deriva da un insieme di premesse, ma se deriva da un insieme di premesse fondate. Il concetto di fondazione non è perciò chiarito, ma invocato nell’indicare le premesse per fondare A ed è invocato come presentazione dello stato di cose descritto da una proposizione. Il fondare coincide innanzitutto con presentare, porre in evidenza, sebbene il concetto possa poi essere esteso a procedure di fondazione che si distanziano in modo considerevole dall’evidenza immediata. Concludendo, l’analisi delle critiche conduce alla possibilità di sostenere una posizione fondazionalistica, ma non è sufficiente per concludere all’accettazione di un fondazionalismo incondizionato. Il fondazionalismo incondizionato prevederebbe infatti la possibilità di esibire la fondazione definitiva, incontrovertibile, delle proposizioni evidenti, ma un tipo di fondazione di questo tipo può essere presentato, se possibile, solo in relazione a una strettissima classe di proposizioni, certamente una classe che non include le proposizioni che generalmente costituiscono l’espressione della conoscenza scientifica.

Giustificazione III. FONDAZIONE A PRIORI E A POSTERIORI. – La fondazione di una proposizione, e quindi la giustificazione della corrispondente credenza, può essere inferenziale o evidenziale. Inoltre, l’evidenza che sta alla base della verità o della verosimiglianza della proposizione è stata tradizionalmente suddivisa in evidenza a posteriori o a priori, a seconda che sia o non sia evidenza empirica. Si differenziano, perciò, procedure di fondazione a posteriori, in cui gioca un ruolo fondamentale il ricorso all’esperienza, o all’intuizione empirica, e procedure a priori, in cui gioca un ruolo fondamentale il ricorso all’intuizione eidetica. Se, dal punto di vista del fondazionalismo, l’intuizione empirica è stata generalmente accettata come procedura legittima di fondazione, l’intuizione eidetica è stata al centro di un ampio dibattito, in cui al partito del fondazionalismo empiristico si è opposto il partito del fondazionalismo razionalistico. 1. Fondazione a priori, analiticità e necessità. La distinzione, interna alla sfera epistemica, tra proposizioni fondate a posteriori e a priori si intreccia con altre interessanti distinzioni costituite in relazione alle differenti sfere rispetto alle quali si determina la proposizione: all’interno della sfera linguistica, la distinzione tra proposizioni sintetiche e analitiche e, all’interno della sfera ontologica, quella tra proposizioni che descrivono stati di cose contingenti e stati di cose necessari. La distinzione tra proposizioni sintetiche e analitiche è basata sull’apporto informativo che caratterizza una proposizione all’interno di un determinato linguaggio: A è analitica se la sua verità discende dall’analisi del suo significato, mentre è sintetica se la semplice analisi linguistica non è sufficiente per determinare la sua verità. La distinzione tra stati di cose contingenti e necessari è invece più complessa: adottando il punto di vista della semantica intensionale, sono necessari gli stati di cose che non possono essere altrimenti, che sussistono in ogni mondo possibile, mentre sono contingenti gli stati di cose che possono essere altrimenti. Il concetto di necessità diviene quindi dipendente dalle leggi che limitano la pensabilità dei mondi possibili. Se le leggi che limitano la pensabilità dei mondi possibili sono leggi puramente linguistiche, secondo la prospettiva empiristica, allora la necessità viene a coincidere con l’analiticità; se sono leggi puramente epistemiche, secondo la prospettiva intuizio4865

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Giustificazione nistica, allora la necessità viene a coincidere con la fondabilità a priori; infine, se si danno leggi propriamente ontologiche, allora la necessità viene a costituire un concetto a se stante. Se si assume l’ipotesi dell’indipendenza delle leggi ontologiche, il problema della fondazione delle proposizioni che descrivono stati di cose necessari non può ricevere una soluzione scontata. In questo caso, la relazione tra proposizioni analitiche, proposizioni a priori, cioè fondabili a priori, e proposizioni necessarie, cioè descrittive di stati di cose necessari, può essere affrontato prendendo in considerazione le diverse implicazioni concepibili. Si può iniziare con lo stabilire le connessioni seguenti. 1) ogni proposizione analitica è necessaria, mentre non ogni proposizione necessaria è analitica: infatti, una proposizione analitica è un’espressione interpretata, ossia dotata di significato, vera in base al suo significato; se esistesse un mondo possibile in cui la proposizione non è vera, in quel mondo la proposizione sarebbe interpretata in modo differente e non sarebbe la proposizione iniziale; la proposizione iniziale è quindi necessaria perché vera in ogni mondo possibile. Inversamente, si può ipotizzare l’esistenza di proposizioni necessarie, le proposizioni che descrivono stati di cose matematici per esempio, che sono vere in tutti i mondi possibili ma che non sono analitiche, perché dimostrabili solo sulla base di una mediazione logica. 2) ogni proposizione analitica è a priori, mentre non ogni proposizione a priori è analitica: infatti, una proposizione vera in base all’analisi del suo significato può essere verificata proprio mediante tale analisi ed è quindi a priori pe r c h é f on d a b i l e i n d i p e nd e n t e m e nt e dall’esperienza. Inversamente, si può ipotizzare l’esistenza di proposizioni a priori, ancora le proposizioni che descrivono stati di cose matematici per esempio, che non sono analitiche, perché dimostrabili solo sulla base di una mediazione logica, e sono a priori, proprio perché la mediazione logica è una procedura di fondazione indipendente dall'esperienza. L’analisi della relazione tra proposizioni a priori e proposizioni necessarie presenta maggiori difficoltà. In prima approssimazione è possibile dire che tale relazione dipende dalla correttezza e dalla completezza delle procedure di fondazione a priori rispetto al dominio degli stati di cose necessari: se una procedura 4866

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a priori è corretta, se consente di fondare solo le proposizioni vere di un certo dominio, allora ogni proposizione a priori è necessaria, perché la fondazione a priori non dipende dallo specifico mondo possibile che è assunto come mondo attuale ed è quindi in grado di determinare la verità di una proposizione in ogni mondo possibile; inoltre, se una procedura a priori è completa, se consente di fondare tutte le proposizioni vere di un certo dominio, allora ogni proposizione necessaria, all’interno del dominio, è a priori. Tuttavia, in generale, appare difficile sostenere che ogni procedura a priori sia corretta e impossibile, dati i teoremi di incompletezza relativi a teorie aritmetiche anche molto deboli, come l’aritmetica ricorsiva primitiva, sostenere che ogni procedura a priori sia completa; di conseguenza, le due implicazioni tra l’essere a priori e l’essere necessario di una proposizione sono destinate ad essere implicazioni condizionate. 2. Possibilità della fondazione a priori. – I sostenitori più vigorosi dell’empirismo assumono che le leggi in base alle quali il mondo è conosciuto sono le leggi proprie del linguaggio che viene utilizzato per descrivere il mondo. In questo senso, è ammissibile solo una fondazione a priori linguisticamente determinata; al massimo, è ammissibile una fondazione a priori determinata dagli schemi epistemici, tipicamente le teorie empiriche presentate in linguaggio matematico, mediante i quali il mondo diviene accessibile. Se si assume questa posizione, è possibile dire che c’è fondazione a priori, tesi debole dell’apriorismo nella versione dell’antirealismo rispetto alle leggi, ma non è possibile dire che le proposizioni fondate a priori sono proposizioni descrittive del mondo attuale. Se, invece, si assume che le proposizioni fondate a priori sono proposizioni descrittive del mondo attuale, tesi dell’apriorismo in senso stretto nella versione del realismo rispetto alle leggi, si incorre nella difficoltà di determinare lo statuto ontologico degli stati di cose descritti dalle proposizioni a priori. Che ragione c’è, infatti, per assumere un mondo di stati di cose necessari separato rispetto al mondo empirico e differente dal mondo degli stati di cose epistemici costruibili dall’uomo? Le due tesi rispetto all’apriorismo possono poi essere interpretate come due concezioni differenti dei mondi possibili: da una parte, la tesi antirealistica sostiene che i mondi possibili sono semplicemente i modelli possibili costruibili dall’uomo e fina-

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lizzati a interpretare il mondo attuale; dall’altra, la tesi realistica sostiene che i mondi possibili sono alternative aperte basate sulla struttura del mondo attuale. È chiaro che la fondazione a priori, intesa come fondazione della verità di una proposizione in tutti i modelli, non è indice della sussistenza dello stato di cose descritto dalla proposizione, mentre la fondazione a priori, intesa come fondazione della verità di una proposizione in tutte le alternative al mondo attuale, è indice della sussistenza dello stato di cose descritto che, proprio perché presente in tutte le alternative, è presente in quell’alternativa che è il mondo attuale. Il dibattito aperto dai sostenitori delle posizioni del realismo e dell’antirealismo rispetto alle leggi è, a oggi, privo di una soluzione definita. In ogni caso, occorre mettere in luce che la negazione completa di ogni tipo di intuizione eidetica implicherebbe l’impossibilità della conoscenza in generale, dal momento che anche chi sostiene la tesi in base alla quale la conoscenza a priori non è altro che conoscenza di schemi epistemici utili per interpretare il mondo è costretto ad ammettere che esiste un accesso epistemico a questi schemi e che, in ultima analisi, tale accesso non può essere costituito dall’intuizione empirica. Tuttavia, se anche si ammettesse la legittimità dell’intuizione degli schemi epistemici, non si potrebbe concludere immediatamente alla fondazione incondizionata delle proposizioni che descrivono ciò che diviene accessibile mediante tale intuizione. Infatti, più le proposizioni relative a ciò che è conoscibile a priori diventano sufficientemente interessanti, come nel caso delle teorie matematiche, più la fondazione corrispondente diventa incerta, come dimostra il fallimento dei tentativi di basare l’intero edificio delle matematiche su quell’unico fondamento certo costituito dall’intuizione finitista, fallimento dovuto essenzialmente alla scoperta dei teoremi di limitazione operata da Gödel. 3. Fondazione a posteriori. La fondazione a priori è essenzialmente fondazione di proposizioni universali. La fondazione a posteriori concerne invece sia proposizioni particolari sia proposizioni universali. Si potrebbe ipotizzare che la fondazione a posteriori di proposizioni particolari derivi dall’evidenza degli stati di cose individuali che tali proposizioni descrivono e che la fondazione a posteriori di proposizioni universali derivi da procedure che consentono

Giustificazione di passare dall’evidenza di stati di cose individuali all’evidenza di stati di cose universali, ma entrambe queste ipotesi costituiscono una semplificazione impraticabile della descrizione delle procedure di fondazione a posteriori. In questa sede, per delineare brevemente la complessità del problema, ci si limiterà alle proposizioni che esprimono misurazioni e ipotesi universali circa le relazioni tra i dati ottenuti mediante misurazione, esponendo i punti basilari di una teoria della conferma relativa alle ipotesi e alle misure. Teoria della conferma delle ipotesi: la determinazione del concetto di conferma in relazione alle ipotesi può essere sviluppata innanzitutto da un punto di vista qualitativo, definendo che cosa si intende quando si dice che un insieme di dati conferma un’ipotesi. I requisiti che una teoria della conferma è chiamata a soddisfare sono generalmente fissati in questo modo: sia H una ipotesi universale e logicamente consistente ed E un evento da assumere come dato empirico elementare, allora: i) requisito positivo, E conferma H, dato il contesto teorico C(H) e il contesto empirico C(E), se da H, C(H), C(E) si può inferire E; ii) requisito negativo, E confuta H, dato il contesto teorico C(H) e il contesto empirico C(E), se da H, C(H), C(E) si può inferire la negazione di E. Una breve considerazione del modo in cui i requisiti sono proposti mostra due caratteristiche essenziali della relazione di conferma: da una parte, come non sia possibile confermare o confutare un’ipotesi in via definitiva e, dall’altra, come la confutazione di una ipotesi non sia attuabile se non si dispone di un’altra ipotesi da sostituire alla prima. In riferimento al primo tratto, si può osservare che la conferma o la confutazione di una ipotesi avviene sempre all’interno di un duplice contesto, teorico ed empirico. Il contesto teorico è costituito dall’insieme di teorie accettate che determinano lo sfondo all’interno del quale è sensato inferire dall’ipotesi una determinata conseguenza o compiere una misurazione che conduce alla registrazione di un evento: in questo contesto sono incluse, per esempio, le teorie alla base della costruzione di strumenti di misurazione, come l’ottica, nel caso di telescopi o microscopi, e gli assunti che contribuiscono a determinare il significato dei termini in cui è espressa l’ipotesi da controllare, come il fatto che la massa è una grandezza invariante e ad4867

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Giustificazione ditiva, nel caso della meccanica classica. Il contesto empirico è invece costituito dall’insieme di assunti circa le condizioni in cui avviene il controllo dell’ipotesi: in questo contesto sono incluse, per esempio, tutte le assunzioni di chiusura, che stabiliscono che il sistema sperimentale di controllo dell’ipotesi è un sistema chiuso, ossia che non subisce interferenze non previste dagli sperimentatori. Se il controllo avviene tenendo conto di questi due contesti, allora tanto la conferma, quanto la confutazione, di una ipotesi sono condizionate dalle assunzioni appena descritte. Inoltre, in riferimento al secondo tratto, non si può neppure asserire che una ipotesi è confutata, dato un esperimento, se non si dispone di una ipotesi migliore in grado di rendere ragione dell’andamento dell’esperimento, dal momento che, in assenza di questa ipotesi, la confutazione della prima può sempre essere attribuita alla non correttezza o non completezza degli assunti relativi ai contesti teorici ed empirici. Alla determinazione di tipo qualitativo, del concetto di conferma, si affianca una determinazione di tipo quantitativo, che sfrutta il concetto di grado di credenza nell’ipotesi, condizionata dai dati disponibili. La teoria quantitativa della conferma attualmente predominante è basata sull’applicazione del teorema di Bayes ed è chiamata teoria bayesiana della conferma. Il teorema di Bayes, come è noto, concerne la probabilità condizionata e dichiara, nella sua veste più semplice, che la probabilità di A, data la condizione E, è uguale alla probabilità di E, data A, moltiplicata per il rapporto tra la probabilità di A e la probabilità di E: P(A | E) = P(E | A) × P(A) P(E) , con P(E) > 0 L’applicazione di tale teorema è mediata dall’assunzione di un principio specifico, noto come principio di condizionamento: se si accetta una nuova informazione, perché si dispone di una nuova evidenza rispetto a un determinato evento E, la probabilità iniziale di un certo insieme di proposizioni deve essere modificata in modo tale che la nuova probabilità, chiamata probabilità finale, sia la probabilità iniziale condizionata dall’informazione; in simboli, PF(A) = PI(A|E). Il principio di condizionamento esprime l’esigenza di tenere conto della crescita delle informazioni disponibili, e credute, al fine di valutare la credibilità delle informazioni di cui si dispone. Se si applica il teorema 4868

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di Bayes alla relazione tra una ipotesi H e un evento E si ottiene: PF(H) = PI(H|E) = PI(E|H)xPI(H)/PI(E), con PI(E) > 0 in cui la probabilità di H, data la condizione E, è determinata dal prodotto di tre termini. Il significato dei termini, rispetto alla conferma, può essere interpretato in questo modo: PI(H) è la probabilità iniziale dell’ipotesi, il grado di credenza dell’ipotesi prima dell’introduzione dell’evento E come evento di controllo; 1/PI(E) è l’inverso della probabilità iniziale di E, il grado di sorpresa proprio dell’evento di controllo, secondo il quale un evento è tanto più sorprendente quanto meno probabile; infine, PI(E|H) è il grado di connessione tra l’ipotesi e l’evento, la probabilità dell’evento sotto l’ipotesi H. Le premesse poste consentono di definire la conferma in termini di confronto tra la probabilità iniziale e finale dell'ipotesi: E conferma H ⇔ PF(H) > PI(H). Tale definizione di conferma ha tre conseguenze interessanti. Conseguenza 1: si rende ragione dell’effetto di conferma e confutazione dovuto alla previsione di un evento o di un evento contrario; se H implica E, PI(E|H) = 1 e PI(non-E|H) = 0, da cui si conclude una conferma, nel caso in cui E si verifica, visto che PI(H|E) = PI(H)/PI(E) > PI(H), e una confutazione, nel caso in cui E non si verifica, visto che allora PI(H|E) = 0; la teoria bayesiana è quindi coerente con l’uso del modello nomologico deduttivo all’interno della teoria della conferma. Conseguenza 2: si rende ragione dell’effetto di conferma dovuto alla presenza di un evento sorprendente; PI(H|E) è infatti direttamente proporzionale al grado di sorpresa 1/P I(E); inoltre, la relazione PI(H|E)/PI(H) = PI(E|H)/PI(E) indica che la probabilità dell’ipotesi dato un evento si incrementa della stessa misura in cui si incrementa la probabilità dell’evento di controllo data l’ipotesi. Conseguenza 3: si è in grado di controllare due ipotesi simultaneamente; la relazione derivabile PI(H1|E)/PI(H2|E) = PI(E|H1)PI(H1)/PI(E|H2)PI(H2) implica che, se le due ipotesi iniziali sono indifferenti PI(H1)/PI(H2) = 1, allora l’ipotesi da preferire è quella che incrementa in misura maggiore la probabilità dell’evento di controllo, dal momento che PI(H1|E)/PI(H2|E) = PI(E|H1)/PI(E|H2). Teoria della conferma dei dati: se appare impossibile giungere a una fondazione conclusiva di una ipotesi empirica mediante una conferma

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basata su dati, una fondazione conclusiva relativa ai dati empirici stessi potrebbe apparire più verosimile. Tuttavia, anche in questo caso, una fondazione conclusiva è impossibile, dal momento che i dati empirici altro non sono che registrazioni di eventi, avvenute utilizzando strumenti di misurazione, e che tutte le misurazioni sono soggetti a limiti strutturali, descritti con precisione nella teoria dell’errore. Il principio di limitazione, da cui parte la teoria dell’errore nei processi di misurazione, stabilisce che ogni misura, ogni esito del processo che utilizza strumenti per determinare grandezze di un determinato genere, possiede un grado di incertezza, dovuto all’esigenza di tenere conto della possibilità di errori nella misurazione derivanti sia dall’imprecisione dello strumento applicato sia dall’imprecisione nella sua applicazione. Si pensi, per esempio, a un semplice esperimento che consiste nel dare a un gruppo di studenti un righello da utilizzare nella misurazione della lavagna di un’aula: le misurazioni effettuate oscilleranno generalmente entro un intervallo di valori dovuto all'imprecisione dei righelli, che possono non essere tarati tutti allo stesso modo, e della giustapposizione dei righelli eseguita dagli studenti. Ciò premesso, la misura di una grandezza X è sempre espressa mediante l’indicazione dei limiti di incertezza e del grado di confidenza circa la probabilità che la misura vera cada nei limiti: (1) misura di X = x M ± Δx , con probabilità p In (1), X è la grandezza da misurare; xM è la migliore stima della misura di X; Dx è l’incertezza giustificata in relazione a xM; p la probabilità che il valore vero di X cada nell’intervallo x M ± Δx . La misurazione ripetuta di una stessa grandezza può portare a differenti esiti. Intuitivamente, se le misure ottenute in n misurazioni sono x1,...xn, si direbbe che la migliore stima della misura vera è data dalla media aritmetica delle misure: n

< x > = ∑ xi n 1

La giustificazione di questa intuizione e della determinazione dell’intervallo e del grado di confidenza da associare alla media è tuttavia complessa e non può essere presentata in questa sede. Si può soltanto indicare che, se si assume ipoteticamente, ma l’assunzione è empiricamente controllabile, che gli esiti sia-

Giustificazione no distribuiti secondo una distribuzione normale:

Si arriva così alla conclusione che la migliore stima della misura di X è proprio la media degli esiti delle misurazioni, mentre l’intervallo di incertezza e il grado di confidenza p sono definiti in relazione a una misura della dispersione degli esiti intorno alla media chiamata deviazione standard. In ogni caso, l’assunzione della media come stima migliore della misura di X non è fondata in modo incondizionato, sia a causa dell’esistenza di un intervallo di incertezza, sia a causa della possibilità di errori sistematici nell’attuare la misurazione, dovuti alla costruzione dello strumento o al tipo di teoria che presiede tale costruzione. In conclusione, se si è legittimati ad ammettere, con il fondazionalismo, intuizioni di tipo eidetico ed empirico, che sono alla base della fondazioni a priori e della fondazione a posteriori delle proposizioni circa il mondo attuale, non si può legittimamente assumere, con il fondazionalismo incondizionato, né l’innegabilità di proposizioni fondate a priori né l’innegabilità di proposizioni fondate a posteriori, almeno nei casi in cui il contenuto delle proposizioni da fondare è sufficientemente complesso e interessante per l’impresa scientifica. A. Giordani BIBL.: E. AGAZZI, Introduzione ai problemi dell’assiomatica, Milano 1962; P. HORWICH, Probability and Evidence, Cambridge 1982; J.R. TAYLOR, An Introduction to Error Analysis, New York 1982; L. BONJOUR, The Structure of Empirical Knowledge, New York 1985; R. AUDI, Epistemology, London - New York 1988; P.K. MOSER, Knowledge and Evidence, Cambridge 1989; K. LEHRER, Theory of Knowledge, London 1990; J. DANCY - E. SOSA (a cura di), A Companion to Epistemology, Oxford 1992; J. EARMAN, Bayes or Bust? A Critical Examination of Bayesian Confirmation Theory, Cambridge (Massachusetts) 1992; R. JEFFREY, Probability and the Art of Judgment, Cambridge 1992; S. HAACK, Evidence and Inquiry, Oxford 1993; J. GRECO - E. SOSA (a cura di), The Blackwell Guide to Epistemology, Oxford 1999; L. BONJOUR - E. Sosa, Epistemic Justification, Oxford 2001; A. GIORDANI, Teoria della Fondazione Epistemica, Milano 2002.

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Giustificazione pratica GIUSTIFICAZIONE PRATICA (practical juGiustificazione pratica stification; praktische Rechtfertigung; justification pratique; justificación práctica). – «Giustificazione pratica» designa la giustificazione dell’azione intenzionale; in particolare, la giustificazione di risposte a problemi pratici (problemi della forma: «In questa situazione – in situazioni di questo tipo – che fare?»; i problemi pratici sono abitualmente contrapposti ai problemi teorici, della forma: «Come stanno le cose?»). Le risposte a problemi pratici sono decisioni, scelte, intenzioni, risoluzioni, propositi: in generale, contenuti di senso, o stati intenzionali, che hanno esito in un’azione (o in una certa linea di azione). Ma la nozione di giustificazione pratica copre anche la giustificazione degli elementi (premesse, ragioni, fattori determinanti) che stanno alla base di risposte a problemi pratici. In una prima estensione, la giustificazione pratica comprende la giustificazione di norme e giudizi di valore (premesse possibili di scelte, decisioni, intenzioni). In una seconda estensione, comprende la giustificazione di desideri, atteggiamenti, emozioni, tratti del carattere (fattori che concorrono a determinare la risposta a problemi pratici). L’indagine sulla giustificazione pratica è dunque in generale l’indagine sulle forme di inferenza, argomentazione, derivazione, fondazione, la cui conclusione o il cui risultato sono costituiti da risposte a problemi pratici, o da elementi che possono svolgere il ruolo di premesse o fattori determinanti di risposte a problemi pratici (giudizi normativi, desideri, emozioni ecc.). Così intesa, l’indagine sulla giustificazione pratica coincide con l’indagine sulla razionalità pratica. Qui sarà oggetto di considerazione un ambito limitato: la filosofia pratica anglosassone della seconda metà del Novecento – ambito nel quale l’indagine sulla giustificazione pratica ha avuto grande sviluppo, con risultati molto significativi. 1. Un problema che ha a lungo catalizzato l’attenzione dei filosofi anglosassoni è la cosiddetta is-ought question: il problema se norme, giudizi di valore, giudizi morali e in generale risposte a problemi pratici siano logicamente derivabili (in un senso, da determinare, di derivazione «logica», non necessariamente limitato ad argomenti deduttivamente validi) da sole premesse fattuali. La risposta negativa a questa domanda (la tesi, cioè, secondo cui norme, giudizi di valore, giudizi pratici non so4870

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no logicamente derivabili da soli giudizi di fatto: fra le premesse di un ragionamento la cui conclusione è un giudizio pratico deve necessariamente figurare almeno un giudizio normativo, o valutativo) è abitualmente denominata «legge di Hume». La legge di Hume è solidale con la cosiddetta «grande divisione» fra discorso descrittivo e discorso normativo-valutativo: la tesi secondo cui asserti di fatto (risposte a problemi teorici), da un lato, norme e giudizi di valore (in generale, risposte a problemi pratici), d’altro lato, sono logicamente (sintatticamente, semanticamente, pragmaticamente) eterogenei. Argomenti addotti a sostegno della grande divisione e della legge di Hume sono, p. es., la tesi secondo cui il discorso normativo-valutativo è «aleticamente adiaforo» (norme e giudizi di valore non sono suscettibili di verità o falsità) o la tesi per cui norme e giudizi di valore, da un lato, e asserti di fatto, d’altro lato, hanno diversa e opposta «direzione di adattamento»: gli asserti di fatto hanno direzione di adattamento «parole-amondo» (ciò che è detto deve adattarsi a ciò che è), norme e giudizi di valore hanno invece direzione di adattamento «mondo-a-parole» (è ciò che è a doversi adattare a ciò che deve essere, o è bene che sia). 2. Come attestato dagli argomenti appena riportati, la is-ought question è strettamente connessa all’alternativa fra due concezioni della natura e della logica dei giudizi pratici: la famiglia delle teorie emotiviste (prescrittiviste, espressiviste), da un lato, e quella delle teorie realiste (descrittiviste, oggettiviste), d’altro lato. Secondo le prime, grosso modo (si tratta, per l’appunto, di una famiglia di teorie, diversificata al proprio interno), i giudizi normativi e valutativi, e in generale le risposte a problemi pratici, sono espressione di atteggiamenti non cognitivi come desideri o preferenze. Per le teorie del secondo gruppo, di contro, i giudizi pratici sono espressione di credenze: stati intenzionali aventi, come loro contenuto, proposizioni, suscettibili di verità o falsità (condizione, questa, secondo alcuni necessaria affinché sia possibile una conoscenza pratica). 3. Un ramo significativo dell’indagine sulla giustificazione pratica è costituito dall’indagine sulle forme di spiegazione dell’azione intenzionale (sebbene la spiegazione non sia, come tale, giustificazione, sembra si possa affermare che, in casi standard, ciò che spiega l’azione intenzionale sono le ragioni sulla base

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delle quali essa viene intrapresa – che, dunque, vi sia, nel caso dell’azione intenzionale, un nesso concettuale fra giustificazione e spiegazione). L’alternativa fra espressivismo e descrittivismo in materia di giudizi pratici si lega alla diffusione, nella filosofia pratica anglosassone del Novecento (nonché in economia e nelle scienze sociali), di una particolare forma di spiegazione e giustificazione dell’azione (e della corrispondente nozione di razionalità pratica), la cosiddetta belief-desire theory dell’azione. Secondo la belief-desire theory una spiegazione, e dunque una giustificazione, esauriente dell’azione intenzionale richiede due diversi ordini di fattori, eterogenei: credenze e desideri. La credenza è uno stato intenzionale di carattere rappresentativo (ha direzione di adattamento «mente-a-mondo»), inerte, il cui contenuto è una proposizione, suscettibile di verità o falsità. Un desiderio è invece uno stato non rappresentativo, attivo (è ciò che muove: ha direzione di adattamento «mondo-a-mente»). I desideri fissano i fini dell’azione (x è un fine, o un bene, perché e in quanto desiderato); le credenze orientano il movimento verso di essi. L’azione razionale consiste nel perseguimento efficace, alla luce delle proprie credenze, dei propri fini: nel soddisfacimento dei propri desideri. Non v’è altra razionalità pratica, dunque, se non la razionalità strumentale (non v’è giustificazione dei fini, ma solo dei mezzi). Le posizioni espressiviste presuppongono, e articolano, la belief-desire theory. Tendono, dunque, a limitare il dominio della razionalità pratica alla razionalità strumentale. Le posizioni realiste respingono, invece, la belief-desire theory; correlativamente, ammettono la possibilità, e la sensatezza, di una giustificazione che abbia a oggetto non soltanto i mezzi, ma anche i fini. 4. L’indagine sulla giustificazione pratica ha condotto altresì all’elaborazione di modelli formali di inferenza e di ragionamento peculiari dell’ambito pratico. Un modello particolarmente influente è la cosiddetta «inferenza di necessità pratica», che pretende di catturare l’aspetto centrale della nozione di razionalità strumentale («Voglio conseguire lo scopo S; a meno che non faccia A, non conseguirò S; dunque, devo fare A»). Ricadono nel medesimo ambito la teoria della decisione, anch’essa basata, nella sua forma standard, sulla beliefdesire theory, e la nascita di una nuova branca

Giustificazione pratica della logica contemporanea, la cosiddetta «logica deontica», avente a oggetto i rapporti logici fra norme (o fra proposizioni aventi a oggetto norme). Lo statuto della logica deontica è però incerto. Uno dei nuclei problematici sottesi all’alternativa fra espressivismo e realismo è, come si è detto, l’interrogativo se norme e giudizi di valore siano suscettibili di verità o falsità. Questo problema ha dirette implicazioni riguardo alla possibilità di una logica di norme. Se si assume, come pare plausibile, che le relazioni logiche siano da interpretare in termini di valori di verità (che l’implicazione logica sia una relazione che preserva la verità), e se si opta per il corno non-cognitivista del problema (se, cioè, si assume che le norme non siano suscettibili di verità o falsità), si dovrà concludere che non vi sono rapporti logici fra norme (che la logica non si applica alle norme). Conclusione, questa, che sembra implicare il carattere «alogico» del discorso normativo, a meno di non ipotizzare un’estensione della logica «al di là della verità». 5. La belief-desire theory e, con essa, l’assunto che la teoria della decisione standard renda conto in modo soddisfacente della giustificazione pratica sono, nella letteratura anglosassone degli ultimi trent’anni, progressivamente caduti in discredito. Il paradigma dominante in materia di giustificazione pratica non è più imperniato sull’antitesi credenze-desideri, ma sulla nozione di ragione d’azione («Il fatto che P è una ragione per fare A»). Il lessico delle ragioni d’azione è tendenzialmente espressione di una posizione oggettivista, o realista. Ma in questo nuovo lessico si ripropongono, come adesso vedremo, le alternative e le aporie della is-ought question (ovvero, l’antitesi fra espressivismo e descrittivismo). 6. Un primo nucleo problematico è la distinzione fra ragioni motivanti, da un lato, e ragioni normative («buone ragioni»), d’altro lato. La «ragione» per la quale Tizio fa A può essere ciò che ha motivato Tizio a fare A, o ciò che giustifica il fare A da parte di Tizio. Qual è il rapporto fra ragioni motivanti e ragioni normative? Da un lato, pare ovvio che queste ultime non si identifichino con le prime: può ben accadere che Tizio non abbia alcuna buona ragione per fare qualcosa che, tuttavia, è motivato a fare, e viceversa. Le ragioni motivanti, sembra si possa affermare, sono desideri, impulsi, intenzioni, stati mentali: le ragioni nor4871

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Giustificazione pratica mative sono invece proposizioni (vere), o i fatti su cui esse vertono. Ma, d’altro lato, che x possa essere una ragione motivante per fare A sembra essere una condizione necessaria affinché esso possa valere come una ragione normativa per fare A. Una «buona ragione» che non possa, per sua natura, essere ciò per cui Tizio fa, effettivamente, A (ossia, ciò che motiva Tizio a fare A) sembra essere un che di ozioso. 7. Questo complesso di problemi trova espressione nell’alternativa, ampiamente dibattuta, fra «internalismo» e «esternalismo». S’intende per «internalismo» la tesi secondo cui le ragioni normative d’azione sono, necessariamente, radicate nel «set motivazionale» dell’agente (mediante un «percorso deliberativo corretto»: se l’agente seguisse, partendo dalle sue motivazioni effettive, un percorso deliberativo corretto, perverrebbe alla conclusione di avere una buona ragione per fare A). L’esternalismo è invece la tesi secondo cui può accadere che un agente abbia delle buone ragioni per fare A, e che tuttavia queste ragioni non abbiano alcuna relazione (neppure la relazione, ipotetica, definita da un percorso deliberativo corretto) con il suo set motivazionale. 8. Un problema affine, ma più generale, è se le ragioni normative d’azione dipendano dalla dotazione psicologica dell’agente o siano invece indipendenti da essa. Ricadono in questo ambito due interrogativi: a) se le ragioni d’azione dipendano da (o abbiano di proprio fondamento in) desideri; b) se le ragioni d’azione siano (o dipendano da) credenze. a) Le ragioni d’azione sono, o possono essere, basate su desideri? Questo interrogativo è una particolare formulazione del dilemma di Eutifrone: se ciò che è buono sia tale perché e in quanto è desiderato (o, forse, perché desideriamo di desiderarlo), o se invece sia desiderato, o sia da desiderare, perché e in quanto in se stesso buono, e dunque desiderabile. Il dilemma di Eutifrone, a sua volta, è una delle forme in cui si presenta l’alternativa fra espressivismo e oggettivismo (o realismo) etico. b) Il problema se le ragioni d’azione siano (o dipendano da) credenze, è anch’esso un problema classico. Quando prendiamo l’ombrello perché crediamo che stia piovendo, la ragione che giustifica la nostra azione è la credenza, o il fatto che sta piovendo? Se poniamo questo interrogativo all’agente, egli opterà, presumibilmente, per la seconda ipotesi. Ma, d’altro 4872

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lato, credenze false possono essere razionali, e credenze vere irrazionali. Se prendo l’ombrello perché credo, del tutto irragionevolmente, che stia piovendo, ed è vero che sta piovendo, il fatto che stia piovendo è, egualmente, una buona ragione per prendere l’ombrello? E se, viceversa, prendo l’ombrello perché credo, ragionevolmente, che stia piovendo, e questa credenza è falsa, si dovrà dire che non avevo alcuna ragione che giustificasse la decisione di prendere l’ombrello? Una risposta affermativa a questi interrogativi – quale sarebbe richiesta dall’opzione in favore del secondo corno del dilemma – appare controintuitiva. 9. Infine, due nuclei tematici hanno ricevuto particolare attenzione negli ultimi anni: a) conflitti e dilemmi pratici; b) l’antitesi fra generalismo e particolarismo. a) Sono possibili conflitti pratici (ossia, situazioni nelle quali le nostre buone ragioni ci spingono in direzioni confliggenti)? Sono possibili, in particolare, genuini dilemmi pratici (situazioni nelle quali, comunque si agisca, ciò che si fa sarà sbagliato)? Una concezione soddisfacente della giustificazione pratica deve, parrebbe, rendere giustizia al fenomeno del conflitto fra ragioni; deve, cioè, rendere conto della possibilità che, in un caso, vi siano più ragioni, pro e contro un’unica e medesima linea di condotta (senza che ciò implichi una contraddizione). Quale sia il modo migliore di intendere questa possibilità (se, p. es., nei termini della distinzione fra ragioni prima facie, o pro tanto, e ragioni «all things considered»), quali le diverse forme che il conflitto può assumere (se, p. es., possano darsi ragioni d’azione incommensurabili, e quale sia la relazione fra incommensurabilità, vaghezza e indeterminazione delle ragioni d’azione) e come esso possa essere risolto (p. es., in che cosa mai possa consistere il «bilanciamento», o la «ponderazione», di ragioni in conflitto) sono problemi al centro del dibattito attuale. b) Il ragionamento pratico (in particolare, il ragionamento morale) può essere rappresentato come applicazione di regole generali a casi particolari (ovvero, come sussunzione di casi particolari sotto regole generali di condotta)? Il particolarista lo nega. Per il particolarista, ciò che costituisce, qui e ora, una ragione per fare A, può non essere, in un altro caso, una ragione per fare A, o addirittura essere una ragione per non fare A (se, in un certo caso, P è una ragione – sia pure pro tanto – per fare A, da

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ciò non segue lo sia sempre). Il particolarismo è, dunque, una forma radicale di contestualismo delle ragioni: che cosa, in un certo caso, sia una ragione per fare che cosa, dipende, volta per volta, dal contesto – dalla particolare configurazione che, in quel caso, assumono le proprietà rilevanti. La razionalità pratica è razionalità narrativa, non sussuntiva. Questo modo di vedere, ribattono i critici, implica la rinuncia alla possibilità stessa di una giustificazione pratica, e la caduta in una forma di irrazionalismo. La rinuncia alla razionalità sussuntiva equivale, per i difensori della tesi generalista, alla rinuncia alla razionalità tout court. B. Celano BIBL.: G.E.M. ANSCOMBE, Intention, Oxford 1963; J. RAZ (a cura di), Practical Reasoning, Oxford 1978; B. WILLIAMS, Internal and External Reasons, in Moral Luck. Philosophical Papers 1973-1980, Cambridge 1981, tr. it. di R. Rini, in Sorte morale, Milano 1987; J. ELSTER, Sour Grapes. Studies in the Subversion of Rationality, Cambridge 1983, tr. it. di F. Elefante, Uva acerba: versioni non ortodosse della razionalità, Milano 1989; J. ELSTER (a cura di), Rational Choice, Oxford 1986; A. GIBBARD, Wise Choices, Apt Feelings. A Theory of Normative Judgment, Oxford 1990; S. HARGREAVES HEAP - M. HOLLIS - R. SUGDEN, The Theory of Choice: A Critical Guide, Oxford 1992, tr. it. di G. Ponti, La teoria della scelta: una guida critica, Roma-Bari 1996; J. DANCY, Moral Reasons, Oxford 1993; B. CELANO, Dialettica della giustificazione pratica. Saggio sulla Legge di Hume, Torino 1994; R. CHANG (a cura di), Incommensurability, Incomparability, and Practical Reason, Oxford 1997; G. CULLITY - B. GAUT (a cura di), Ethics and Practical Reason, Oxford 1997; J. RAZ, Engaging Reason. On the Theory of Value and Action, Oxford 1999; B. HOOKER - M. LITTLE (a cura di), Moral Particularism, Oxford 2000. ➨ DESIDERIO; ESTERNALISMO / INTERNALISMO; FALLACIA NATURALISTICA; FILOSOFIA PRATICA; GIUDIZIO PRATICO; INTENZIONALITÀ; LOGICA DEONTICA; MOTIVAZIONE; PREFERENZA; RAGIONE SPECULATIVA E PRATICA.

GIUSTINIANO. – Imperatore romano Giustiniano d’Oriente, nato nel 482 d. C. a Tauresium in Dardania, regione periferica dell’impero fra le attuali Macedonia e Albania, Flavius Petrus Sabbatius Iustinianus fece la sua fortuna seguendo a Costantinopoli lo zio Giustino e collaborando alla sua politica quando questi, nel 518, assunse la dignità imperiale. Nel 524/25 sposò Teodora, un’ex-attrice la cui forte personalità esercitò sempre su di lui una notevole

Giustiniano influenza, anche in campo politico. Dopo aver assunto, l’1 aprile 527, il titolo di Augusto e la coreggenza dell’impero, rimase unico imperatore, per la morte dello zio, l’1 agosto dello stesso anno, fino alla morte (14 novembre 565). Considerando l’imperatore d’Oriente come mediatore e rappresentante di Dio sulla terra e come l’unico legittimo erede dell’impero romano classico rivitalizzato dalla luce di Cristo, sin dagli esordi del suo regno Giustiniano mise tenacemente in atto la sua politica di ricostituzione della perduta unità dell’impero: a tal fine perseguì con le armi la riconquista dell’Occidente, con la diplomazia l’unità della fede, con la grande compilazione giuridica il riordinamento del diritto. Il primo scopo fu momentaneamente realizzato con la riconquista dell’Africa settentrionale, del sud della Spagna e dell’Italia, che, tuttavia, vennero presto perdute (la prima nel VII secolo con l’invasione araba, la seconda a quarant’anni dalla morte di Giustiniano con la reazione visigotica, la terza, salvo poche eccezioni territoriali, nel 568 con la conquista longobarda). In campo religioso non seppe mantenere una politica unitaria, oscillando fra la lotta ai monofisiti e il tentativo di conciliazione con i calcedoniani. La stessa interdizione ai pagani dell’insegnamento, disposta con alcune costituzioni del 529 (Codex Justinianus, 1.5.18.4 ss., 1.11.9 e 10) che implicarono la chiusura della scuola di Atene istituzionalmente connessa col culto delle Muse e la pratica della cosiddetta «superstizione ellenica», fu forse un tentativo di accaparrarsi il favore del papato di fronte a una politica imperiale dimostratasi spesso troppo favorevole all’eresia monofisita: difficilmente, infatti, tale provvedimento potrebbe farsi risalire a esclusive ragioni di fanatismo religioso, in un’epoca in cui il cristianesimo si era già ampiamente riconciliato con la filosofia greca e questa era già di per sé inesorabilmente volta al declino. L’unica vera vittoria fu, dunque, per Giustiniano, quella in materia di diritto, visto che non solo riordinò il patrimonio giuridico precedente, ma ben al di là delle sue aspettative contribuì in modo determinante a forgiare la tradizione giuridica occidentale. Con la compilazione Giustiniano intendeva ovviare allo stato di confusione in cui versavano le fonti giuridiche dell’epoca, ordinandole in raccolte unitarie dotate di valore legislativo. A tal fine, nel 529, pubblicò la prima raccolta di costituzioni im4873

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Giustiniano

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periali (Codex Justinianus) seguita, nel 533, da un trattato elementare di diritto in quattro libri (Institutiones) e da una scelta di frammenti della giurisprudenza classica in cinquanta libri (Digesta o Pandectae) e, nel 534, dalla II edizione del Codice in 12 libri (Codex repetitae praelectionis). In poco più di sette anni Giustiniano aveva dunque realizzato gran parte del suo progetto, che venne in seguito completato, fino alla sua morte, con l’emissione di Novellae, nuove costituzioni che spesso riformavano interi settori dell’ordinamento. La produzione di Novelle, intensa e tecnicamente pregevole fino al 541-42, divenne più scarsa e scadente a partire da questa data, forse per la scomparsa, nel 542, di Triboniano, il principale collaboratore di Giustiniano in campo giuridico. Le Novelle, che non furono mai raccolte ufficialmente e dunque non subirono, come le costituzioni del Codice, interventi di massimazione ed emendazione, ci sono pervenute in tre raccolte private: l’Optima, che le riporta in lingua originale (greca o latina), l’Authenticum, ove quelle greche compaiono in una traduzione latina poco attendibile, l’Epitome Iuliani – la raccolta più antica, redatta forse in età giustinianea – ove si presentano in epitome latina. Con la riconquista giustinianea dell’Occidente, la compilazione vi fu momentaneamente estesa: ma le successive vicende belliche che, salvo poche eccezioni territoriali, ricacciarono i bizantini a Oriente, ne determinarono presto, in terra occidentale, il declino e l’oblio. Qui la compilazione fu riscoperta soltanto a partire dall’XI secolo, quando, con la nascita dell’università di Bologna, essa divenne per secoli, fino all’attuale esperienza delle codificazioni nazionali, diritto comune sussidiario applicabile in assenza di disposizioni normative locali. A partire dal 1583, con l’edizione dell’umanista Dionisio Gotofredo, l’insieme di Institutiones, Digesta, Codex repetitae praelectionis e Novellae, venne unitariamente denominato Corpus Iuris Civilis. Le edizioni del Corpus Iuris attualmente utilizzate si basano soprattutto sui numerosi manoscritti della Vulgata o Littera Bononiensis (copiati a partire dall’XI secolo in seguito alla rinascita degli studi giuridici a opera della scuola di Bologna) e, limitatamente al Digesto, sulla Littera Florentina, manoscritto antichissimo e completo risalente al VI sec. d. C. L. Maganzani

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BIBL.: Corpus Iuris Civilis (vol. I: Institutiones, a cura di P. Krüger, e Digesta, a cura di Th. Mommsen - P. Krüger, XVI ed.; vol. II: Codex Iustinianus, a cura di P. Krüger, XI ed.; vol. III: Novellae, a cura di R. Schöll G. Kroll, VI ed.), ultima ed. Berolini 1954 e successive ristampe; Digesta Iustiniani Augusti, a cura di Th. Mommsen, Berolini 1868-70, 2 voll.; Digesta Iustiniani Augusti, a cura di P. Bonfante et al., Mediolani 1908 (I ed.), 2 voll., rist. in un solo volume, Mediolani 1931 e 1960; Codex Iustinianus, a cura di P. Krüger, Berolini 1877. Delle Novelle è disponibile anche l’edizione di C.E. Zachariae von Lingenthal (voll. I, II, e Appendix, Lipsiae 1881-84) che riporta le costituzioni in ordine cronologico (ordine non sempre rispettato nell’Optima e nell’Authenticum, raccolte riprodotte nell’ed. Schöll - Kroll), dell’Authenticum l’edizione a cura di G.E. Heimbach (voll. I-II, Leipzig 1846-51), dell’Epitome Iuliani l’edizione a cura di G. Henel (Lipsiae 1873). Da aggiungere i Subsidia I-IV al Legum Iustiniani Imperatoris Vocabolarium (Le costituzioni giustinianee nei papiri e nelle epigrafi, a cura di M. Amelotti - L. Migliardi Zingale, Milano 1985; Drei dogmatiche Schriften Iustinians, a cura di E. Schwartz, II ed. a cura di M. Amelotti - R. Albertella - L. Migliardi, Milano 1973; Scritti teologici ed ecclesiastici di Giustiniano, a cura di M. Amelotti - L. Migliardi Zingale, Milano 1977; Scritti apocrifi di Giustiniano, a cura di A.M. De Micheli, e Nuovi testi epigrafici e altri addenda e corrigenda ai Subsidia 1-3, a cura di L. Migliardi Zingale, Torino 1994). Lessici e vocabolari: si segnalano il Vocabolario delle Istituzioni curato dall’Ambrosino (Mediolani 1942), il VIR (Vocabularium Iurisprudentiae Romanae, Berolini 1894-97), il Vocabolario del Codice (Pars latina a cura di R. Mayr, Pars graeca a cura di M. San Nicolò, Pragae 1923-25), il Vocabolario delle Novelle di G.G. Archi - A.M. Bartoletti Colombo (Pars latina in 11 voll., Pars greca in 8 voll., Milano 1977-89) e il Lessico delle Novelle nella versione dell’Authenticum di A.M. Bartoletti Colombo (voll. I-II, Roma 1983-86). Per una descrizione analitica delle edizioni e degli strumenti della ricerca romanistica, cfr. L. MAGANZANI, Fonti e strumenti di ricerca. Metodo di consultazione per lo studio del diritto romano, Como 1992. Su Giustiniano: cfr. B. RUBIN, Das Zeitalter Iustinians, 2 voll., vol. I: Berlin 1960, vol. II: Berlin - New York 1995 (a cura di C. Capizzi); G.G. ARCHI (a cura di), L’imperatore Giustiniano. Storia e mito, «Giornate di studio a Ravenna 14-16 ottobre 1976», Milano 1978; G.G. ARCHI (a cura di), Il mondo del diritto nell’epoca giustinianea. Caratteri e problematiche, Ravenna 1985; C. CAPIZZI, Giustiniano I tra politica e religione, Soveria Mannelli 1994; J.A.S. EVANS, The Age of Justinian. The Circumstances of Imperial Power, London New York 1996; M. AMELOTTI, Giustiniano tra teologia e diritto, in «Studia et Documenta Historiae et Iuris», 67 (2001), pp. 469-491; D. CASTRONOVO, La for-

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mazione dell’ideologia di stato assoluto in Giustiniano, Roma 2001; O. MAZAL, Justinian I. und seine Zeit. Geschichte und Kultur des Byzantinischen Reiches im 6. Jahrhundert, Köln-Weimar-Wien 2001 (Ausgewählte Bibliographie, pp. 661-750); F. BOTTA (a cura di), Il diritto giustinianeo fra tradizione classica e innovazione, «Atti del convegno. Cagliari, 13-14 ottobre 2000», Torino 2003; M. MEIER, Das andere Zeitalter Justinians: Kontingenzerfahrung und Kontingenzbewältigung im 6. Jahrhundert n. Chr. (con bibliografia), Göttingen 2003, pp. 680-722. Fra le trattazioni didattiche più ampie, cfr. R. BONINI, in M. TALAMANCA (a cura di), Lineamenti di storia del diritto romano, Milano 1989, pp. 629-692; AA.VV., Appunti su Giustiniano e la sua compilazione, vol. I a cura di M.G. Bianchini, vol. II a cura di M. Amelotti, Torino 1983. Sulle varie componenti storiche del Corpus iuris e i diversi approcci di studio nella tradizione romanistica, cfr. L. MAGANZANI, Formazione e vicende di un’opera illustre. Il Corpus iuris nella cultura del giurista europeo, Torino 2002. Fra le voci enciclopediche è ancora utilissima quella di P. FREZZA, in AA.VV., I protagonisti della storia universale, vol. III: La civiltà di Roma, Milano 1968, pp. 421-448.

GIUSTINO (santo). – Celebre apologista criGiustino stiano, n. a Flavia Neapolis (Palestina) agli inizi del II secolo e martirizzato a Roma intorno al 165. Alla scuola di un maestro platonico credette di poter raggiungere la perfetta contemplazione di Dio, invano cercata in precedenti esperienze filosofiche (stoicismo, aristotelismo e pitagorismo), ma un’occasionale lettura dei libri dei profeti e l’impressione ricevuta dai martiri lo convertì alla fede di Cristo, la sola filosofia sicura e salutare. E filosofo volle restare, conservandone il tipico «pallio». Più tardi, anzi, aprì a Roma una scuola filosofica cristiana, ove ebbe discepolo l’altro noto apologista Taziano. Delle sue opere ci restano due Apologie contro i pagani (si discute tra gli studiosi per capire se si tratti di due testi separati o di uno solo in due parti o con un’appendice minore) e il Dialogo con Trifone contro i giudei. Altri scritti pervenuti sotto il suo nome (Discorso ai Greci; Esortazione ai Greci ecc.) non sono ritenuti autentici. Si rese più che mai conto dei limiti della filosofia. Tuttavia, per esporre la nuova fede in termini più comprensibili ai pagani, ne mise in evidenza le molteplici convergenze col pensiero ellenico. La sua metafisica della creazione, opposta sia al panteismo stoico che ai dualismi gnostici, propone la tradizione biblica in

Giustino chiave platonica: il Timeo dipenderebbe dal Genesi e dai Numeri, e il demiurgo, fatto partecipe della trascendenza iperuranea secondo un’interpretazione operante nel medioplatonismo, è identificato col Pantokravtwr. La dottrina cristiana della creazione non è però ancora concepita chiaramente, in quanto Giustino, di nuovo accostandosi a Platone, si esprime come se Dio, per mezzo del logos, avesse creato il mondo a partire da una materia informe data. In nome di tale metafisica, e forse orientato dal materialismo stoico, Giustino critica poi la tesi platonica delle anime increate e immortali in virtù di una propria natura divina, opponendo che esse ricevono l’immortalità dal dono creatore di Dio. E quanto alla resurrezione della carne, egli afferma che l’uomo che consta di anima e di corpo è chiamato nella sua interezza da Dio alla resurrezione. Le frequenti convergenze con gli stoici riguardano principalmente i loro precetti morali, di cui Giustino ammira la saggezza. Con la filosofia del Portico, Giustino ribadisce l’autarchia della virtù e sottolinea, primo tra i Padri, l’idea di una legge naturale. È però esplicito nel criticare il fato e la necessità, sostenendo, contro gli stoici, che l’uomo è capace di scegliere liberamente il bene o il male; il libero arbitrio è strettamente connesso alla libertà personale e quindi al riconoscimento da parte di Dio, che premia o punisce sulla base di una legge da lui promulgata. Giustino è stato visto come il primo ideatore della teoria della praeparatio evangelica: la filosofia greca sarebbe per i gentili il corrispondente dell’Antico Testamento per gli ebrei. Infatti, come la legge e i profeti sono stati, per gli ebrei, una preparazione a Cristo, così anche la filosofia greca sarebbe una preparazione alla rivelazione ultima neotestamentaria. In effetti si deve riconoscere che con Giustino prende il via il connubio tra filosofia greca e religione cristiana, che proseguirà con Clemente Alessandrino e Origene. I filosofi, afferma Giustino, hanno enunciato principi giusti, perché hanno contemplato parzialmente il logos divino in ciò che egli ha seminato nel genere umano (cfr. II Apologia, 13, 3 e I Apologia, 46, 1-4; II Apologia, 8, 1; 10, 1-3; 13, 2-3). La religione dei cristiani è però superiore, in quanto essi nel Cristo hanno ricevuto non una parte del logos ma il logos totale. Quindi ciò che è stato detto di vero ovunque appartiene ai cristiani; e cristiani sono quanti, anche prima di Cristo, hanno vissu4875

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Giustizia to secondo il logos, come tra i greci Socrate, Eraclito e altri, mentre coloro che hanno vissuto senza seguire il logos sono nemici di Cristo. Questa importante concezione, in cui convergono il concetto stoico dell’universalità del logos (fonte della conoscenza naturale di Dio) e quello platonico di «partecipazione», è animato da una profonda ispirazione cristiana. Se infatti Filone, il dotto ebreo di Alessandria, fu il primo a usare la terminologia stoica lovgo" spermatikov" in senso immateriale, con una trasposizione di timbro medioplatonico, sono già ben vive nel Nuovo Testamento sia l’idea di una rivelazione naturale (Rm I, 18-19 ecc.) anche in connessione con il logos, sia quella del Cristo preesistente (I Cor X, 4 ecc.). La concezione della storia di Giustino è collegata alla sua teologia: «La diffusione del logos è la forza positiva, cioè il cristianesimo, mentre l’opposizione al logos è la forza negativa, che, nel periodo in cui vive Giustino si concretizza nelle persecuzioni dei cristiani» (Apologie, a cura di G. Girgenti, Milano 1995, p. 134). U. Mattioli - A. Ghisalberti Colombo BIBL.: edizioni e traduzioni spagnole a cura di D. RUIZ BUENO, Padres apologistas griegos, Madrid 1954, pp. 155-548; Apologie, tr. it. a cura di I. Giordani, Roma 1962; Apologie, tr. it. a cura di A. Regaldo Raccone, Roma 1983; Dialogo con Trifone, tr. it. a cura di G. Visonà, Milano 1988; Apologie, a cura di G. Girgenti, Milano 1995 (contiene anche il Prologo al Dialogo con Trifone); Apologie, tr. it. a cura di C. Burini, Roma 2001. Su Giustino: J. DANIÉLOU, Message évangélique et culture hellénistique aux IIe et IIIe siècles, Tournai-Paris 1961, tr. it. di C. Prandi, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, Bologna 1975; C. TRESMONTANT, La métaphysique du christianisme et la naissance de la philosophie chrétienne, Paris 1961, passim; E. BELLINI, Dio nel pensiero di san Giustino, in «La Scuola Cattolica», 90 (1962), pp. 387-406; J.H. WASZINK, Bemerkungen zu Justins Lehre vom Logos spermatikós, in A. STUIBER - A. HERMANN (a cura di), Mullus: Festschrift Theodor Klauser, Münster 1964, pp. 380-390; G. JOSSA, La teologia della storia nel pensiero cristiano del II secolo, Napoli 1965, pp. 169-210; W.A. SHOTWELL, The Biblical Exegesis of Justin Martyr, London 1965; L.W. BARNARD, Justin Martyr: His Life and Thougth, Cambridge 1967; G. OTRANTO, Esegesi biblica e storia in Giustino (Dial. 63-84), Bari 1979; A.G. HAMMAN, La philosophie passe au Christ: l’oeuvre de Justin, Paris 1982; G. GIRGENTI, Giustino martire. Il primo cristiano platonico, Milano 1995 (con in appendice: Atti del martirio di san Giustino); C. MORESCHINI - E. NORELLI,

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Storia della letteratura cristiana antica greca e latina, Brescia 1995, vol. I, pp. 291-299 (cfr. bibl. indicata).

GIUSTIZIA (justice; Gerechtigkeit; justice; justiGiustizia cia). – In senso generalissimo significa una proporzione qualsiasi: «congruitas ac proportionalitas quaedam» (Leibniz, Juris et aequi elementa, ed. Mollat, in Mitteilungen aus Leibnizens ungedruckten Schriften, Leipzig 1893, p. 22; cfr. anche Tommaso, Sum. theol., II-II, q. 57, a. 1). Così si dicono giuste una previsione, un’osservazione critica, un’operazione logica o matematica, una macchina, in quanto siano immuni da errori e rispondenti allo scopo (giustizia come correttezza). In senso stretto e filosofico giustizia è la congruenza e la rispondenza nelle relazioni fra persona e persona, hominis ad hominem, come dice Dante (Monarchia, l. II, c. 5, § 1), essa è cioè il principio di coordinazione fra esseri personali. Quale principio normativo della persona nei rapporti con la comunità, si dice giustizia generale, o legale in quanto espressione di tale principio è la legge; quale principio normativo dei rapporti fra le singole persone, si dice giustizia particolare, distributiva o commutativa. Una speciale accezione della giustizia generale è quella che viene detta giustizia sociale. La giustizia può essere attribuita alle azioni, agli agenti (giustizia come virtù), alle regole, alle sanzioni, alle procedure e alle istituzioni, cioè a tutti gli aspetti principali della morale, del diritto e della politica. SOMMARIO: I. La concezione della giustizia nel mondo orientale e nell’età eroica dei Greci. - II. La giustizia come virtù universale da Platone a Leibniz. - III. La giustizia nel senso giuridico. Teoria pitagorica. - IV. Teoria aristotelica della giustizia particolare. Valore e perennità della tradizione greco-romana. - V. Il concetto proprio della giustizia. Elementi logici di esso. VI. Giustizia civile e giustizia penale. - VII. Nozione formale ed esigenze concrete della giustizia; i diritti naturali dell’uomo. Lo stato e le varie distinzioni della giustizia. - VIII. La continuità sociale e il divenire della persona. - IX. Giustizia e legalità. - X. La giustizia nel pensiero contemporaneo. I. L A CONCEZIONE DELLA GIUSTIZIA NEL MONDO ORIENTALE E NELL ’ ETÀ EROICA DEI G RECI . – Nel mondo orientale, e specialmente in quello ebraico-cristiano, dove domina una concezione monoteistica ed etica dell’universo, il predicato della giustizia si attribuisce anzitutto alla divinità, a denotare l’infallibile proporzio-

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ne e armonia intrinseca dei suoi voleri (cfr. Dt 32, 4; Sal 7, 12; 9, 9; 118, 137, 138, 142; 144, 17; e Paolo, Rm I, 17; II, 2, 6; III, 21-26; 2 Tm IV, 8 ecc.). Per ciò che spetta agli uomini la pratica della giustizia si fa consistere tutta e indistintamente nell’osservanza dei voleri della divinità: implichi, oppur no, cotesta osservanza una relazione con altri soggetti. La preghiera, il sacrificio, la celebrazione dei dì festivi, p. es., si stimano allora «doveri di giustizia» non meno che il non uccidere e il non rubare; e l’uomo «giusto» è colui che adempie egualmente tutti questi doveri. Una propria e specifica determinazione della giustizia si cercherebbe invano anche nelle prime manifestazioni del pensiero greco. Né Omero, né Esiodo conoscono la parola dikaiosuvnh, ma, per designare la giustizia, della quale per certo ebbero qualche idea, si valgono d’altri vocaboli, come divkh, che significa originariamente «decisione giudiziale», qev m i", equivalente, in origine, a «buon consiglio». La fantasia primitiva definisce Dike e Temi in immagini mitiche. Ma i concetti che queste rivestono, in progresso di tempo, si svolgeranno in significati via via più precisi: Dike significherà non soltanto la funzione della conciliazione arbitrale, ma anche quelle della vendetta inesorabile e della pena; e Temi, dapprima «consiglio» di Dio, sarà poi considerata anche consigliatrice di prudenza per gli uomini. II. LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ UNIVERSALE DA PLATONE A LEIBNIZ. – «Nella giustizia raccolta insieme ogni virtù si trova»: fino dal sec. VI a. C., i poeti Focilide e Teognide enunciano del pari questa sentenza (cfr. G. Fraccaroli, I lirici Greci - Elegia e Giambo, Torino 1910, p. 199), che rispondeva forse già allora a un’opinione diffusa, e certo divenne poi dottrina comune e quasi proverbio: come appare anche dalla citazione che ne fece più tardi Aristotele (Et. Nic., V, 3, 1129 b 30). La giustizia (dikaiosuvnh) viene quindi intesa, anzitutto, come virtù universale, principio di ordine e d’armonia, che esprime soltanto l’esigenza che accada ciò che deve (eticamente) accadere: che vi sia un’esatta corrispondenza tra il fatto e la norma ad esso attinente. Tale aspetto della giustizia (come forma etica o deontologica in generale) ha la sua massima espressione nel sistema platonico. Per elevare la giustizia a principio regolatore di tutta quanta la vita individuale e sociale, Platone trascura ovvero respinge tutte le concezioni che tendevano ad assegnarle una funzio-

Giustizia ne specifica o una particolare sfera di applicazione. Così, egli nega che la giustizia consista nel «rendere a ciascuno quello che gli è dovuto» (Resp., I, 6, 331 E), come aveva asserito Simonide, e, parimenti, nel «far bene agli amici, male ai nemici» (ibid., 7, 332 D): la sua intransigente polemica sembra porre tali definizioni, che pur racchiudono i germi di importanti sviluppi, su una medesima linea con le opinioni sofistiche, che miravano a svalutare la giustizia, e a reciderne le radici, equiparandola all’arbitrio o alla forza. Platone ripone l’essenza della giustizia nell’«attuazione del proprio compito» (ta; auJtou' pravttein, suum agere), ossia nell’esplicazione delle attitudini spettanti naturalmente a ogni parte dell’anima e a ogni ceto sociale. La giustizia, così intesa, significa dunque la virtù che regge e armonizza l’operare tanto dei singoli, quanto delle moltitudini congregate, assegnando a ogni facoltà o energia la propria direzione e i propri uffici. Essa vive, pertanto, nella proporzione tra le varie parti che compongono un tutto organico: ognuna delle quali può ben possedere una virtù sua propria e particolare (come la sapienza, la fortezza e la temperanza), ma rimane nondimeno subordinata a quel principio formale, che collega tra loro, come le varie parti, così le loro stesse virtù. In questa dottrina appaiono fuse la valutazione morale e quella giuridica; la politica non si distingue dall’etica e nemmeno dalla psicologia: il giusto diviene nota comune sì della vita interiore dell’individuo, come delle sue interferenze sociali. Nel successivo svolgersi del pensiero filosofico possiamo osservare questo fenomeno: che da un lato si mantiene fermo, o con minime oscillazioni, il concetto platonico della giustizia come virtù universale; dall’altro lato però, e in modo, per dir così, parallelo, si procede nella elaborazione di un altro e più ristretto concetto della giustizia, per il quale pure non mancavano i germi già nella filosofia presocratica, e che porta a intendere la giustizia come principio esclusivamente sociale. Questa duplicità di indirizzo si manifesta chiarissima in Aristotele. Anch’egli, come il suo grande maestro, riguarda la giustizia anzitutto nella sua generalità, come virtù totale (o{l h ajrethv) o perfetta (teleiva); e l’ingiustizia, conseguentemente, non come parte del vizio, ma come vizio intero (Et. Nic.,V, 3, 1130 a 9). Il giusto, nella sua essenza, si identifica con l’eguale 4877

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Giustizia (i[son): ossia con quella misura, che rappresenta il mezzo o l’equidistanza fra il troppo e il poco (op. cit., II, 5, 1106 a 27 ss.; V, 6, 1131 a 9 ss.). Poiché tale misura deve ritrovarsi in ogni virtù (che consiste appunto, e sempre, in un «giusto mezzo»), segue da ciò che la giustizia, genericamente intesa (aJplw'" divkaion), comprende e abbraccia in sé tutte le virtù. Dalla concezione platonica non si allontana neppure, sotto l’aspetto logico, la teoria che vediamo accolta dal cristianesimo ed elaborata dalla patristica e dalla scolastica; salvo che la giustizia è qui riferita alla divinità, con un diverso carattere metafisico, in quanto concepita come espressione e adempimento di una volontà trascendente e onnipotente, nella quale si fonde con la sapienza, con la bontà e con la misericordia. Il valore generale e onnicomprensivo attribuito ad essa appare, p. es., dalle parole del Vangelo: «Beati, qui esuriunt et sitiunt iustitiam» (Mt 5, 6; cfr. anche 10, 20); ed è confermato dalle varie e pur concordi dichiarazioni dei padri della chiesa (Lattanzio, s. Ambrogio, Giovanni Crisostomo, Agostino e altri). L’influsso della dottrina platonico-aristotelica si rivela ancor più direttamente nella scolastica, soprattutto nell’opera dell’Aquinate; ove (accanto a determinazioni particolari, desunte pur esse da Aristotele, delle quali faremo parola tra poco) si riafferma la nozione della giustizia come virtù generale (Sum. theol., I-II, q. 66, a. 4; II-II, q. 58, a. 5; 12), e si spiega che essa «inter omnes virtutes morales praecellit», perché più delle altre è vicina alla ragione, e perché il suo oggetto è più vasto, comprendendo non soltanto le azioni che l’uomo compie in se stesso, ma anche quelle che compie rispetto ad altri (ibid., a. 4). La forza della tradizione classica, nel senso accennato, si esplica ancora, più o meno efficacemente, nelle successive dottrine, p. es. di F. Patrizi; di Mariana, di Geulincx e altri. Ultima grande eco della concezione generale platonico-aristotelica è la trattazione del Leibniz. A più riprese questi si esercitò sul problema della giustizia, proponendo di essa varie definizioni: che però rispondono tutte al proposito di includere nel concetto della giustizia la totalità della perfezione etica, salvo a procedere poi con graduali suddistinzioni (solitamente in forma di triade) alla determinazione del giusto nel senso proprio o «giuridico». Notevole è il fatto che egli distinse la giurisprudenza in iurisprudentia divina, humana, civilis, e, coeren4878

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temente a ciò, la giustizia in iustitia commutativa, distributiva, universalis, intendendo, così, di congiungere intimamente la giurisprudenza da una parte con la teologia e dall’altra con l’etica. Nell’età più recente, è divenuta assai men frequente la trattazione generica della giustizia. Il concetto della giustizia ha perduto via via l’aspetto di principio onnicomprensivo ma evanescente, e ha trovato quella più precisa definizione, per la quale gli elementi essenziali, giova ricordarlo, erano offerti già dall’antica filosofia. III. LA GIUSTIZIA NEL SENSO GIURIDICO. TEORIA PITAGORICA. – È merito della filosofia italica o pitagorica l’avere, prima d’ogni altra, formulato un concetto della giustizia, di cui coglie un aspetto fondamentale e specifico. La giustizia è, per cotesta scuola, innanzi tutto uguaglianza, vale a dire corrispondenza tra termini contrapposti; e propriamente può assimilarsi al numero quadrato, cioè all’eguale moltiplicato per l’eguale, perché essa rende lo stesso per lo stesso. Coerentemente a questo concetto, ma con determinazione ancora più precisa, la medesima scuola dichiara che la giustizia consiste essenzialmente nel contraccambio (to; ajntipeponqov"). Da questa dottrina prese le mosse Aristotele; e appunto ai riferimenti di lui ne dobbiamo in parte la conoscenza. Sennonché Aristotele alla teoria pitagorica accenna quasi soltanto per criticarla; e vi sono forti ragioni per dubitare che, attraverso la critica, quella teoria non ci sia esposta nella sua vera luce. In sostanza Aristotele interpreta l’ajntipeponqov" nel senso di contraccambio materiale; e osserva che un tale concetto non potrebbe valere come principio della giustizia distributiva, né della pareggiatrice o correttiva. Argomentazione questa tanto ovvia da essere una cagione di dubbio se la tesi, così facilmente confutata, sia realmente quella proposta dai pitagorici. Assurdo, infatti, è il supporre che lo scambio avvenga, per così dire, alla cieca, ossia senza tener calcolo della reale diversità. Il riferimento a una certa misura, quale criterio di apprezzamento o di estimazione, è evidentemente il presupposto implicito degli scambi; e perciò, quando gli antichi filosofi italici parlarono di ajntipeponqov", intesero senza dubbio di riferirsi a un tale criterio, adoperando appunto il vocabolo nel senso, chiarito poi meglio da Aristotele, di ajntipeponqov" kat´ajnalogivan. Che poi dai pitagorici o italici si ignorasse, come

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sembra accennare Aristotele, il criterio della giustizia distributiva e di quella correttiva o perequatrice (comprendente anche la giudiziaria), appare ancor più inverosimile, se si pensi, quanto alla prima, che appunto a Pitagora si deve la prima istituzione di un consorzio sociale fondato sul rigoroso criterio del merito proprio di ognuno; e che il pitagorico Ippodamo da Mileto, secondo l’attestazione dello stesso Aristotele (Pol., II, 1267 b), fu il primo che, senza essere uomo di stato, tracciasse il disegno di una ideale repubblica, ove si trattava principalmente della migliore distribuzione dei beni e degli onori tra i cittadini. IV. TEORIA ARISTOTELICA DELLA GIUSTIZIA PARTICOLARE. VALORE E PERENNITÀ DELLA TRADIZIONE GRECOROMANA. – Aristotele distingue la giustizia particolare in più specie. Prima tra esse è la giustizia distributiva (to; divkaion ejn tai'" dianomai'", to; dianemhtikovn), che si applica nella ripartizione degli onori e dei beni, e mira a ciò, che ciascuno dei consociati ne riceva una porzione adeguata al suo merito (kat’ajxivan), Se dunque, spiega Aristotele (Et. Nic., V, 5, 1130 b 3133; 6, 1131 a 20-27), non sono eguali le persone, non avranno neppure cose eguali. La giustizia distributiva consiste dunque in un rapporto proporzionale, che Aristotele, non senza qualche artificio, definisce come una proporzione geometrica (gewmetrikh; ajnalogiva, 7, II3I b 11-20). La seconda specie della giustizia è la pareggiatrice, correttiva o sinallagmatica, cioè regolatrice dei rapporti scambievoli (to; ejn toi'" sunallavgmasi diorqwtikovn), Anche qui s’applica il principio dell’eguaglianza, ma in una forma diversa da quella dianzi veduta, poiché qui si tratta solo di misurare impersonalmente il danno o il guadagno, cioè le cose e le azioni nel loro obiettivo valore, considerandosi come eguali i termini personali. Una tale misura avrebbe, secondo Aristotele, il suo proprio tipo nella proporzione aritmetica (ajriqmhtikh; ajnalogiva). La giustizia pareggiatrice può riguardarsi sotto due aspetti: o in quanto determina la formazione dei rapporti di scambio secondo una certa misura, e si presenta allora come giustizia commutativa; o in quanto tende a far prevalere tale misura nel caso di controversie, con l’intervento del giudice, e si presenta allora come giustizia giudiziaria. Alla giustizia, virtù particolare, Aristotele attribuisce il primo posto tra le virtù morali.

Giustizia Motivi di critica non mancano per vero in questa dottrina. Può osservarsi che le varie specie della giustizia formulate da Aristotele non sono, o almeno non sembrano, dedotte rigorosamente da un sol principio, secondo una propria necessità logica. Da ciò i tentativi di chiarimento compiuti da Grozio nel De iure belli ac pacis (1625) e da Vico nel De uno universi iuris principio et fine uno (1720). Ma resta come il maggior merito della teoria aristotelica l’aver colto il significato fondamentale e specifico soprattutto della giustizia in quei passi, ove egli le attribuisce il carattere dell’alterità (pro;" e{teron; Et. Nic., V, 3, 1129 b 25 e 32; 1130 a 13 ecc.): carattere riaffermato poi da tutti coloro che meditarono profondamente questo argomento, da Tommaso e Dante a Rosmini. I frutti sostanziali dell’indagine aristotelica furono considerati quasi definitivi, con accordo pressoché unanime tra giuristi e filosofi. Segnatamente il concetto della giustizia distributiva, che, come la specie più elevata della giustizia, ne riassume in certo modo tutti i caratteri, restò immutato nella formula dell’eguaglianza proporzionale secondo il merito. Ricordiamo qui la famosa definizione di Ulpiano: «Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi». Presso i romani, meglio ancora che presso i greci e qualsiasi altro popolo, si sceverarono e profilarono in forma autonoma, attraverso una vasta e complessa esperienza storica e tecnica, gli elementi costitutivi della giuridicità (ratio iuris). Non v’ha dubbio che la concezione romana del suum, o meglio dello ius suum, come è detto nel passo testé citato, è più rigorosa e precisa che quella greca, secondo la quale il proprio di ciascuno (to; prosh'kon) non è tanto ciò che alcuno può esigere, quanto ciò che gli si addice, in ragione di una certa stregua o misura, indipendente dalla sua volontà. Nella mente romana, all’incontro, è sempre chiaro l’intuito dell’essenziale bilateralità del rapporto giuridico; onde attribuire alcunché giuridicamente ad alcuno val quanto riconoscere in esso una pretensione esperibile verso altri, e in altri un’obbligazione corrispettiva. I principi essenziali furono però, in sostanza, i medesimi già formulati dai greci. Le due tradizioni, greca e romana, si fusero così in una sola, che dominò e ancora domina incontrastata il pensiero giuridico di tutto il mondo civile. V. IL CONCETTO PROPRIO DELLA GIUSTIZIA. ELEMENTI LOGICI DI ESSO. – Il concetto proprio o «giuridi4879

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Giustizia co» della giustizia procede direttamente dall’intima natura della coscienza, e ne rappresenta uno degli atteggiamenti necessari e fondamentali. Esso nasce dalla necessità di riconoscere di fronte al proprio io l’esistenza di altri soggetti, con dignità personale valida per sé. Tale riconoscimento inserisce l’uomo in una coordinazione intersubiettiva, nella quale il lecito è determinato per ciascuno dei soggetti dal rapporto con gli altri. Di qui gli elementi caratteristici che si ritrovano variamente espressi o spiegati nell’esperienza storica e nelle analisi dottrinali: l’alterità o bilateralità, propria di ogni determinazione giuridica, cioè la simultanea considerazione di più soggetti, rappresentati, per così dire, l’uno in funzione dell’altro; la parità o eguaglianza iniziale, che si presuppone perciò tra i partecipi di tale rapporto; la reciprocità, per la quale l’affermazione di una personalità in questa forma ne è in pari tempo una limitazione rispetto a una personalità altrui, necessariamente affermata nell’atto stesso; e il limite è insieme separazione e congiungimento, e l’esigenza si accompagna all’obbligazione, la signoria alla subordinazione, essendo ciascuno di questi termini complementare con l’altro, Di qui pure la limitazione del concetto di giustizia in confronto al più ampio concetto di morale, poiché questo si estende a tutto quanto può essere bene o male, senza riguardo all’operare altrui, mentre la giustizia non tocca che il campo delle esigibilità reciproche tra soggetti. Dalla parità iniziale tra i diversi soggetti segue che un soggetto non può operare in un certo modo rispetto ad altri senza rendere con ciò legittima o «giusta» (e cioè giuridicamente possibile), nelle medesime circostanze, un’eguale operazione degli altri in confronto suo. Ciò è nella sostanza l’applicazione del principio di universalizzabilità, che nel campo morale è stato rigorizzato nella struttura formale dell’imperativo categorico kantiano e più di recente riproposto da Richard M. Hare (cfr. Freedom and Reason, Oxford 1963). La nozione del contraccambio si rivela così come implicita in quella della giustizia, nel senso di una virtuale autorizzazione a un atto analogo tra gli stessi soggetti, che per ipotesi abbiano invertito le loro parti. Ciò perché l’io si pone qui appunto sotto specie di alterità; e l’io e l’altro assumono giuridicamente il valore di entità fungibili, data l’essenziale obiettività del rapporto che li collega. Ciò che v’ha di propriamente in4880

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dividuale, ossia di irriducibile e di «ineffabile» nel soggetto, è posto, per tal considerazione, in seconda linea. Predomina, invece, la valutazione di ogni atto nel suo significato obiettivo, cioè in quanto esso costituisce un mezzo di comunicazione o d’interferenza tra soggetto e soggetto, e quindi anche la base per un trattamento corrispondente. L’esigenza della remunerazione si afferma pertanto, essa pure, come un corollario del principio della giustizia. Contraccambio e remunerazione hanno in verità la stessa radice e lo stesso significato transubiettivo: essi presuppongono del pari un riconoscimento della persona, non solo nella sua astratta entità, come sostanza fornita di autonomia, ma attraverso i concreti suoi atteggiamenti, quali possono apprezzarsi da altri. Questa forma di apprezzamento obiettivo è appunto imposta dalla giustizia; la quale culmina dunque nell’esigenza che ogni soggetto sia riconosciuto (dagli altri) per ciò che vale, che a ognuno sia attribuito (dagli altri) ciò che gli spetta. Tutta la storia, del resto, è un’esperienza di uomini stretti tra loro da una trama di scambievoli relazioni: essa ha necessariamente un carattere metegoistico. Se noi consideriamo i raggruppamenti umani, pur nelle loro fasi primitive e inferiori, troviamo che le relazioni di convivenza, entro una sfera determinata, sono ispirate a un rigoroso concetto della necessità del rispetto reciproco, secondo un criterio, che potremmo dir matematico, di eguaglianza o di proporzione. Tale eguaglianza o proporzione si vuol raggiungere a tutta prima con una materiale e sensibile corrispondenza di cose, laddove in fasi ulteriori si ricerca piuttosto, a maggior ragione, una corrispondenza virtuale e intelligibile di valori; ma lo schema logico, ossia l’intento fondamentale, resta nondimeno il medesimo. VI. GIUSTIZIA CIVILE E GIUSTIZIA PENALE. – In ogni popolo e in ogni tempo vi ha, dunque, un sistema regolatore delle pretensioni e delle obbligazioni reciproche. Non importa che siffatto sistema non sia sempre espressamente enunciato o formulato in iscritto; che anzi una tale formulazione, pur là dove si verifichi, non può, per varie ragioni, essere mai del tutto compiuta. Il sistema vive come organismo logico, in quanto è sorretto e alimentato dalla coscienza sociale preponderante, che di continuo lo elabora e lo rinnova. Esso ha una propria intrinseca razionalità, che il pensiero riflesso scopre e analizza solo in un secondo momento.

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Poiché il fenomeno della retribuzione del male col male, soprattutto nella forma tipica del taglione («retaliatio») o della vendetta regolata e commisurata, è il più appariscente tra quelli della giustizia primitiva, Durkheim ha asserito che la giustizia penale precede storicamente quella civile (De la division du travail social, Paris 19022, p. 42; cfr. pp. 108 ss.). Sennonché, contro questa tesi (sostenuta anche da altri autori) è facile osservare che la pena, come il delitto cui corrisponde, suppone un precedente stato di normalità o di equilibrio: vale a dire un’esigenza e un’obbligazione correlative, determinate da una regola, sia pure tacita, che però nella maggioranza dei casi è osservata e non trasgredita. La legge penale ha per necessario presupposto una serie di valori giuridici già definiti e riconosciuti, rispetto ai quali essa costituisce solo una sorta di giustizia seconda. VII. NOZIONE FORMALE ED ESIGENZE CONCRETE DELLA GIUSTIZIA; I DIRITTI NATURALI DELL’UOMO. LO STATO E LE VARIE DISTINZIONI DELLA GIUSTIZIA. – La correlazione intersubiettiva, che costituisce l’essenza della giustizia, trova la sua espressione formale nelle formule classiche del suum cuique tribuere, dell’alterum non laedere, e nelle altre analoghe, che esprimono più o meno compiutamente sia il lato positivo, sia quello negativo della stessa correlazione. Si tratta di massime neutrali rispetto a ogni possibile contenuto, e perciò universali nel loro valore. Esse esprimono il nucleo di una teoria pura della giuridicità, nella quale le nozioni formali del rapporto giuridico, del diritto in senso soggettivo e in senso oggettivo, del soggetto di diritto, e le altre logicamente connesse, debbon trovare un’adeguata deduzione ed esplicazione in un ordine sistematico. La giustizia, nella sua suprema espressione, vuole che ogni soggetto sia riconosciuto e trattato da ogni altro come assoluto principio dei propri atti. La giustizia vuole che in ogni relazione sociale si presupponga, come ideale fondamento, un originario «diritto alla solitudine», proprio di ciascuno dei soggetti che vi partecipano; così che nella stessa concreta struttura della socialità si riaffermi e sviluppi (sia pure attraverso apparenti negazioni, come momenti di un processo dialettico) quell’elemento ideale di autonomia, che costituisce l’inviolabile essenza della persona. La giustizia vuole che nel reciproco trattamento si abbia riguardo all’identità metempirica di natura, e sia esclusa, per conseguenza, ogni dispa-

Giustizia rità non fondata sull’effettivo essere e operare di ognuno, ogni comportamento dovendo essere ragguagliato obiettivamente alla stessa assoluta misura. Tutto ciò, pur nella necessaria sua generalità e astrattezza, rappresenta un determinato contenuto ideale della giustizia: il quale contenuto (a differenza della nozione formale, che è, come dicemmo, neutra o adiafora) permette di valutare comparativamente i diversi gradi dell’esperienza possibile, ossia di distinguere la «maggiore o minor giustizia» di tutto quanto possa affermarsi sub specie iuris (sia come statuizione giuridica positiva, sia anche quale mero postulato o aspirazione giuridica). Di cotesto contenuto ideale si alimentano le esigenze concrete della giustizia, risorgenti di continuo nelle coscienze, e propugnate con «perpetuo lavoro» nel campo storico, anche oltre e contro il diritto vigente, come appare, p. es., dalla classica invocazione delle «leggi non scritte» (a[grafoi novmoi) sopra le scritte; quelle esigenze concrete della giustizia, che trovarono la loro sistematica deduzione (non sempre metodologicamente precisa, ma ispirata da un profondo motivo di vero) nelle teorie giusnaturalistiche. Consegue invero dai principi accennati ciò che può dirsi il succo vitale o il nucleo di vero delle medesime teorie: che la libertà è essenzialmente ingenita in ogni uomo, e ciascuno ha pertanto di fronte agli altri un «diritto naturale» alla libertà; che tra tutti gli uomini non esiste, quanto a tale diritto, differenza alcuna, bensì una perfetta eguaglianza; che ognuno può pretendere dagli altri il rispetto della propria integrità fisica e morale; che alle varie direzioni dell’attività umana debbono rispondere altrettante specificazioni dello stesso diritto fondamentale, ossia della libertà armonizzata ed elevata all’universale secondo l’idea di una possibile coesistenza (libertà di pensiero, di parola, di lavoro, di riunione, di associazione ecc.); che il vincolo sociale non può concepirsi razionalmente se non come una sintesi o risultante dell’eguale diritto di coloro che vi partecipano, e suppone quindi come suo fondamento un iniziale consenso, sia pure tacito e implicito o deducibile puramente dagli elementi costitutivi della coscienza («contratto sociale» nel senso regolativo); che questo consenso deve continuare a esercitarsi nella funzione legislativa, sola espressione diretta della sovranità, fermi restando gli altri diritti fondamentali, che non potrebbero dunque essere 4881

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Giustizia aboliti nemmeno in forma di legge; che nessuno può rinnegare gli obblighi assunti in virtù della sua razionale «libertà di obbligarsi», e però i patti lecitamente conclusi debbono essere mantenuti. Tali e altre analoghe massime, elaborate già per gran parte, benché non sempre correttamente, dalle scuole dello ius naturae e del diritto razionale o Vernunftrecht, denotano appunto lo sviluppo dell’idea di giustizia, non solo nel suo significato puramente speculativo o teoretico, ma anche in quanto le corrisponde (sebbene imperfettamente) un processo di inveramento storico e positivo. II valore deontologico di quelle massime, e cioè della serie non disgregata ma organica dei diritti naturali dell’individuo, deriva precisamente e soltanto dalla intrinseca essenza della persona. Alla pura ragione spetta discernere e dichiarare tali diritti, alla prassi politica e alla tecnica dei giuristi attuarli e garantirli con norme e decisioni adeguate alle mutevoli circostanze. L’umano arbitrio può (chi lo ignora?), anche operando in forma giuridica, trascurarli e conculcarli di fatto, ma non sopprimerli nella loro ideale validità. È evidente che gli accennati principi e le massime conseguenti valgono a definire del pari secondo l’idea di giustizia, sebbene in modo schematico, non soltanto le relazioni tra individuo e individuo, ma anche quelle tra gl’individui e l’ente che in sé li comprende come sue parti, vale a dire lo stato: il quale è pure subordinato alla medesima idea, e perciò, in quanto corrisponda alla sua missione, può propriamente chiamarsi stato di giustizia. Spetta invero allo stato, come centro e soggetto dell’ordinamento giuridico positivo, dal quale emanano formalmente tutte le norme che lo compongono, riconoscere, confermare e proteggere la validità dei diritti sopra indicati, come irrecusabile presupposto della sua stessa esistenza, ragione prima e immanente della sua attività, limite e condizione essenziale della sua legittima autorità sopra gl’individui. Da ciò possono dedursi, in quanto hanno di universale, i lineamenti fondamentali della costituzione politica; che, nella sua concreta struttura, è però anche legata alla tradizione storica e alle circostanze particolari di ciascun popolo. Se poi riguardiamo distintamente le varie funzioni dello stato, in relazione con quegli elementi di fatto che, quantunque mutevoli e contingenti, non possono mai mancare del tutto là dove una comunanza di vita si svolga 4882

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organicamente nel senso della statualità, vediamo allora atteggiarsi in concreto quelle specie e sottospecie della giustizia (p. es. la giustizia tributaria, la giustizia sociale, la giustizia economica ecc.), che già l’analisi filosofica aveva disegnato, o tentato di disegnare, come postulati della ragione. Siffatte distinzioni e suddistinzioni non hanno, però, un valore assoluto, poiché lo stesso criterio ideale comprende un numero indefinito di applicazioni; onde l’elenco delle specie e sottospecie della giustizia non ne esaurisce mai compiutamente la serie, essendo possibili diverse delimitazioni, e anche nuove aggiunte, secondo le materie e le circostanze; mentre rimane nondimeno i nv a r i a t o l o s c h e m a f o n d a m e n t a l e d i quell’idea. VIII. LA CONTINUITÀ SOCIALE E IL DIVENIRE DELLA PERSONA. – Le relazioni tra persona e persona debbono essere colte, inoltre, in seno al continuo della realtà fenomenica, che è appunto una realtà sociale. La personalità umana, se è assoluta nella sua essenza, ha pure, come notammo, un suo divenire nel mondo empirico, e si forma quivi attraverso una serie di relazioni o «stati di fatto», che, in quanto vi partecipano più soggetti, cadono sotto l’impero della giustizia. Dal non avere distinto abbastanza l’essere della persona e il suo divenire, sono derivati gli errori caratteristici dell’astrattismo politico, sino alle forme estreme dell’individualismo antisociale e antistatuale; mentre la reazione contro siffatti errori ha indotto altre scuole (quali, p. es., il sociologismo e lo storicismo) a errori opposti, cioè a disconoscere quel criterio assoluto della giustizia, che si desume dalla considerazione trascendentale della natura umana, e che, inteso e applicato nel proprio senso, vale a dire come principio regolativo, serve di scorta anche nello studio del divenire e delle vicende empiriche della socialità. L’autonomia essenziale della persona si rifrange empiricamente in una molteplicità di relazioni e di vincoli (tra i generanti e il generato, tra gli individui e la nazione ecc.), ov’essa appare a tutta prima quasi sommersa, e appena riconoscibile nella sua propria natura; ma attraverso quella complessa trama la persona stessa si sviluppa e si afferma, come per una conquista o rivendicazione di sé in paragone di altri. Non s’infrangono perciò, né vengono meno, i legami intersoggettivi; ma si svolgono e si determinano con un più adeguato riferi-

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mento alla realtà dei loro elementi. II sistema di cotesti legami si concreta, così, in tanto più perfetti equilibri, e in armonie tanto più profonde, quanto più si fa valere il principio che ne è il reale e logico fondamento. IX. GIUSTIZIA E LEGALITÀ. – Al sistema che ci rappresenta in certa maniera il «precipitato storico» dell’idea di giustizia si dà il nome di giustizia positiva o legale, o anche di diritto positivo (qevsei o novmw/ divkaion; nomikovn, novmimon divkaion). Esso è appunto una specie o una manifestazione determinata di quell’idea; ma nulla sarebbe più erroneo che confondere l’idea stessa con tale sua manifestazione. Se, infatti, la determinazione positiva o empirica della giustizia costituisce un certo appagamento di quella «sete di giustizia», di quel bisogno di coordinazione e di equilibrio intersoggettivo, che è insito nel nostro essere, tuttavia, al pari di ogni altra realtà storica, essa ha alcunché di transeunte e caduco, ed è soggetta ad evoluzioni, involuzioni e rivoluzioni. La distinzione fra legalità e giustizia assolutamente considerata non significa che queste nozioni siano necessariamente contraddittorie: esse possono, e fino a un certo punto debbono, coincidere. Rimane però la possibilità di un contrasto anche grave tra esse. Di qui la classica distinzione fra giusto assoluto (diritto naturale) e giusto positivo o legale (diritto in senso stretto). Di qui anche la possibilità di un «diritto ingiusto» o di «leggi ingiuste», che sarebbe una contradictio in adiecto se non si supponesse la detta distinzione. È legittimo in questi casi quello che Locke disse, «l’appello al cielo», ossia la lotta contro le leggi scritte nel nome delle «non scritte», la rivendicazione del diritto naturale contro il positivo che lo rinneghi. Ma si badi: questa lotta ha per contrassegno primo della sua legittimità l’accettazione dei maggiori doveri, che quella più alta giustizia, che si propugna, porta con sé. Chi aspira semplicemente a scrollare da sé l’onere dei doveri imposti dall’ordinamento giuridico stabilito, non creda, e non dica, di lottare per la giustizia; poiché questa è superamento dell’individualità, proiezione dell’io sotto specie dell’altro, subordinazione di sé a una misura transubiettiva. Nulla si può pretendere in nome della giustizia, senza sottostare al vincolo ch’essa impone, e che è, per necessità logica, una radicale correzione dell’egoismo.

Giustizia X. LA GIUSTIZIA NEL PENSIERO CONTEMPORANEO. – Le concezioni sulla giustizia sono – com’è comprensibile – strettamente legate alle vicende storiche del tempo, oltre che essere condizionate dalle filosofie generali. La giustizia non può limitarsi – come s’è detto – all’aspetto formale o legale, ma deve impegnarsi in valutazioni e in giudizi di valore. L’amara constatazione delle violenze compiute in nome dei più alti ideali di giustizia ha gettato ampio discredito sulla possibilità di raggiungere certezze cognitive sui contenuti di giustizia. Le filosofie neopositivistiche hanno visto in ciò una conferma della loro tesi dell’irrazionalità dei giudizi di valore e del loro carattere emotivo. Valga per tutti ricordare che Kelsen ha definito la giustizia come «ideale irrazionale» al fine di delegittimare ogni tentativo di elaborare una concezione globale e assoluta del giusto. Di fatto, a parte le correnti giusnaturalistiche, che specie nel secondo dopoguerra hanno conosciuto un nuovo impulso, il tema della giustizia è stato ben poco praticato sul piano normativo. A Theory of Justice di John Rawls, pubblicata nel 1971, rappresenta l’inizio di una netta inversione di tendenza e al contempo una presa di distanza dall’utilitarismo e dall’intuizionismo. Quest’opera ha dato avvio a una moltiplicazione di teorie della giustizia, tutte in qualche modo collegate per adesione (totale o parziale) o per opposizione al pensiero di Rawls. Se ci chiediamo le ragioni generali di questa svolta, dobbiamo almeno considerare quello che è stato chiamato «il fatto del pluralismo». Rispetto alle società del passato, contrassegnate da valori etici comuni nella vita pubblica, quelle contemporanee, in specie quelle occidentali, registrano una diversificazione progressiva al loro interno per quanto riguarda gli stili di vita e i valori prioritari etici e politici. Il compito della giustizia diventa, allora, quello di far convivere le diversità all’interno della stessa unità sociale senza che questa scada in un mero modus vivendi. Paradossalmente ciò richiede la fiducia che esistano princìpi di giustizia tali da poter essere accettati da tutti coloro che siano «ragionevoli». Una situazione del genere ha il suo antecedente storico nel periodo dello scisma protestante, quando si era frantumata l’unità della fede cristiana. Anche allora s’è fatto ricorso ai principi della ragione ed è nato il giusnaturalismo moderno. Significativamente Rawls riprende la tradizio4883

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Giustizia ne dei classici del pensiero politico moderno e, in primo luogo, del contrattualismo di Locke, Rousseau e Kant contro lo storicismo e l’utilitarismo. Tuttavia oggi la ricerca della giustizia si presenta con caratteristiche in parte nuove rispetto al passato. Innanzi tutto, è necessario notare che le teorie contemporanee della giustizia hanno un carattere fondamentalmente politico, mentre la tradizione di pensiero, a partire dallo stesso Aristotele, era stata contrassegnata piuttosto dall’aspetto giuridico e dall’intento di fornire una grammatica generale della giustizia. La differenza non è irrilevante, perché la prospettiva giuridica è interessata a determinare «ciò che spetta» in riferimento a un caso particolare o a un determinato genere di rapporti intersoggettivi o in riferimento a determinate regole, mentre quella politica si chiede a quali condizioni nel suo complesso una società possa dirsi «giusta» e quali siano le istituzioni «giuste» nelle attuali condizioni culturali. Conseguentemente i temi della giustizia distributiva di beni e di oneri sono considerati ben più importanti di quelli della giustizia commutativa o correttiva. Infatti, per affermare che qualcosa debba essere data o restituita a qualcuno è necessario che questi possa esibire un titolo valido, che spesso deriva da una assegnazione o distribuzione giusta. Lo stesso riconoscimento di diritti basilari può essere assimilato a un atto giustificato di distribuzione. Pertanto, la giustizia politica (Ottfried Höffe) si pone come fondativa rispetto alla giustizia giuridica. Inoltre, in ragione del pluralismo, si afferma il principio della priorità del giusto sul bene. Quest’ultimo è soggettivo in quanto la società registra la pluralità delle visioni del bene, mentre il giusto, inteso come l’insieme delle regole e delle istituzioni che rendono possibile una coesistenza rispettosa della libertà e dell’uguaglianza dei soggetti plurali, è oggettivo o almeno aspira a esserlo. Questo principio, che sembra contraddire l’ovvia osservazione che ciò che è «giusto» è per ciò stesso anche «buono», in realtà è usato in senso epistemologico per separare la verità delle credenze dalla loro dimostrabilità. Rawls sostiene che la pretesa dimostrabilità razionale di una metafisica o di una morale, al pari delle religioni e delle fedi, è una questione che riguarda solo coloro che le sostengono e non può entrare a far parte della ragione pubblica senza enfatizzare quel dissenso che questa in4884

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tende minimizzare. Ovviamente – come nota Sandel – ciò non può essere accettato da coloro che, avanzando una pretesa di verità, pensano a buon diritto di rivolgersi a tutti e non solo a coloro che già condividono le loro convinzioni. In effetti Rawls applica questo principio di priorità solo a una parte della sua dottrina, poiché una concezione politica della giustizia non può sottrarsi dall’indicare quali a suo giudizio sono i valori, cioè i beni fondamentali, che ogni società dovrebbe perseguire. Infatti il modo più normale di classificare le teorie contemporanee della giustizia è quello basato sull’ideale politico dominante. Da questo punto di vista possiamo distinguere queste teorie in liberiste (Robert Nozick), liberali (John Rawls, Ronald Dworkin), repubblicane (Philip Pettit), comunitaristiche (Michael Sandel, Charles Taylor, Alasdair MacIntyre, Michael Walzer) e perfezioniste (Josef Raz, John Finnis) con l’aggiunta di una ripresa significativa delle concezioni utilitariste (John C. Harsanyi, Richard M. Hare) e di quelle marxiste (Jeffrey Reiman, Gerald A. Cohen, John Roemer, Philippe van Parijs). Tuttavia, a un esame più attento, questo criterio di classificazione si rivela molto imperfetto fondamentalmente per due ragioni. Ognuno di questi autori si mostra preoccupato di offrire soluzioni argomentate alle problematiche affrontate piuttosto che di rispettare rigorosamente i vincoli delle ideologie tradizionali, a cui pure questi valori politici s’ispirano. Di conseguenza spesso il risultato è quello di un dosaggio variegato di elementi valorativi disparati. In realtà si può dire soltanto che i due valori politici di base comuni a tutte queste teorie siano quelli della libertà e dell’uguaglianza e che la prevalenza relativa dell’una sull’altra costituisca l’indice per determinare l’orientamento generale perseguito. La seconda ragione dell’insufficienza di questa classificazione dipende dall’applicazione della problematica della giustizia a nuovi ambiti che non permettono l’inquadramento all’interno della tradizionale contrapposizione delle concezioni politiche tra individualismo e collettivismo. Mi riferisco, ad esempio, ai rapporti di genere e a quelli interni alla famiglia, a cui prestano particolare attenzione le concezioni femministe, al problema del rapporto con le generazioni future, con gli animali o con la natura, e alla giustizia internazionale. Dal punto di vista del metodo, queste teorie in linea generale si possono distinguere a secon-

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da che seguano, sulla scia di Rawls, il metodo dell’equilibrio riflessivo, che mette alla prova le intuizioni del comune senso di giustizia relativo a contesti dati (come, ad es., quello della cultura politica liberal-democratica), ricostruendole sulla base di una posizione imparziale, oppure un metodo assiomatico, in quanto presuppone assunzioni di base sul comportamento razionale degli individui, e/o assiologico, in quanto presuppone postulati etici di fondo. Ancora una volta il riferimento al pensiero di Rawls è d’obbligo, poiché alcune teorie mettono in questione le sue intuizioni fondamentali o contestano che i suoi principi siano la migliore esplicitazione di queste intuizioni, mentre altre attaccano non già queste intuizioni fondamentali, ma il metodo stesso con cui sono sviluppate. In generale la questione cruciale è quella di fondare principi di giustizia che siano accettabili da tutti nel regime del pluralismo. A questo fine si seguono due direzioni di pensiero: quella consistente nel neutralizzare i fattori di diversificazione (la scelta sotto il velo d’ignoranza) o quella che difende la priorità di un valore o di un plesso di valori. Ideali politici dominanti, metodo d’indagine e ambito d’estensione della teoria (globale o parziale) sono, dunque, i criteri per orientarsi in queste concezioni contemporanee della giustizia politica. Tuttavia l’applicazione di ognuno di essi conduce a differenti tipi di classificazione. Se proprio vogliamo cercare qualche elemento comune in questo panorama molto complesso, dobbiamo ritrovarlo nella tendenza a difendere l’uguaglianza morale delle persone, a mitigare per quanto è possibile gli effetti degli svantaggi moralmente arbitrari (quali quelli prodotti dalla lotteria naturale) e a tener conto della responsabilità delle scelte liberamente compiute. È poca cosa, ma il merito principale di queste teorie consiste nell’attrarre la problematica della giustizia nell’ambito della razionalità, sottraendola alla mera emotività e abbandonando la rigida contrapposizione tra autointeresse e benevolenza. Gli stessi sentimenti di giustizia, come ad esempio l’indignazione nei confronti dell’ingiustizia, sono spesso il prodotto di ragioni (Raymond Boudon). La storia dell’idea di giustizia è segnata dai tentativi incessanti di mostrare che le ragioni

Giustizia insite nei nostri sentimenti più radicati e più profondi sono forti, solide e cogenti. G. Del Vecchio - F. Viola BIBL.: B. DONATI, Dottrina pitagorica e aristotelica della giustizia, Modena 1911; L. HENNEBICQ, L’idée du juste dans l’Orient grec avant Socrate, Bruxelles 1914; R. VIEILLARD-LACHARME, La justice selon l’Évangile, Paris 1919; M. RÜMELIN, Die Gerechtigkeit, Tübingen 1920; F. OLGIATI, La riduzione del concetto filosofico di diritto al concetto di giustizia, Milano 1932; P. GUÉRIN, L’idée de justice dans la conception de l’univers chez les premiers philosophes grecs, Paris 1934; L. BAGOLINI, Il problema della giustizia nel pensiero etico-politico di Aristotele, Milano 1941; M. DIUVARA, Die Idee der Gerechtigkeit, Wien 1942; Ch. PERELMAN, De la justice, Bruxelles 1945, tr. it. di L. Ribet, La giustizia, Torino 1959; R. POUND, Justice according to Law, New Haven 1951, tr. it. di P. Gori - G. Biasin, Giustizia, diritto, interesse, Bologna 1962; V. LUNDSTEDT, Law and Justice, Stockholm 1952; J. PIEPER, Ueber die Gerechtigkeit, München 1953, tr. it. di E. Morselli, Sulla giustizia, Brescia 1975; G. GRUA, La justice humaine selon Leibniz, Paris 1956; A. ROSS, Law and Justice, London 1958, tr. it. di G. Gavazzi, Diritto e giustizia, Torino 1965; H. KELSEN, Das Problem der Gerechtigkeit, Wien 1960, a cura di M.G. Losano, Il problema della giustizia, Torino 1975; G. DEL VECCHIO, La giustizia, Roma 19616; P.D. DOGNIN, La notion thomiste de justice face aux exigences modernes, in «Revue de sciences Philosophique et théologique», 45 (1961), 4, pp. 601-640; AA.VV., Il problema della giustizia, V Congresso nazionale di filosofia del diritto, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 39 (1962), serie III, fasc. I-III, pp. 49-221; W. CESARINI SFORZA, La giustizia. Storia di una idea, Torino 1962; H. KELSEN, I fondamenti della democrazia, tr. it. di vari saggi sulla giustizia, Bologna 1966; J. RAWLS, A Theory of Justice, Cambridge (Massachusetts) 1971, tr. it. di U. Santini, Una teoria della giustizia, Milano 1984; Ch. PERELMAN, Justice et raison, Bruxelles 19722; R. NOZICK, Anarchy, State, and Utopia, New York 1974, tr. it. di G. Ferranti, Anarchia, Stato e Utopia, Firenze 1981; E. OPOCHER, Analisi dell’idea di giustizia, Milano 1977; E.A. HAVELOCK, The Greek Concept of Justice, Cambridge (Massachusetts) 1978, tr. it. di M. Piccolomini, Dike. La nascita della coscienza, Roma-Bari 20032; J.R. LUCAS, On Justice, Oxford 1980; M. SANDEL, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge 1982, tr. it. di S. D’Amico, Il liberalismo e i limiti della giustizia, Milano 1994; WALZER, Spheres of Justice: A Defence of Pluralism and Equality, New York 1983, tr. it. di G. Rigamonti, Sfere di giustizia, Milano 1987; N. BOBBIO, Sulla nozione di giustizia, in «Teoria politica», 1 (1985), 1, pp. 719; A. GIULIANI, La definizione aristotelica della giustizia, Perugia 1985; J. HARSANYI, Rule Utilitarism, Equality, and Justice, in «Social Philosophy and Policy», 2 (1985), pp.115-127; J. RAZ, The Morality of Freedom,

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Giustizia distributiva Oxford 1986; O. HÖFFE, Politische Gerechtigkeit. Grundlegung einer kritischen Philosophie von Recht und Staat, Frankfurt am Main 1987, tr. it. di P. Kobau, Giustizi politica, Bologna 1995; A. MACINTYRE, Whose Justice? Which Rationality?, Notre Dame (Indiana) 1988, tr. it. di C. Calabi, Giustizia e razionalità, Milano 1995, 2 voll.; B. BARRY, Theories of Justice, Berkeley 1989, tr. it. a cura di M. Sallusti, Teorie della giustizia, Milano 1996; C. TAYLOR, Cross-Purposes: the LiberalCommunitarian Debate, in N. ROSENBLUM (a cura di), Liberalism and the Moral Life, Cambridge (Massachusetts) 1989; W. KYMLICKA, Contemporary Political Philosophy: An Introduction, Oxford 1990, tr. it. di R. Rini, Introduzione alla filosofia politica contemporanea, Milano 1996; J. REIMAN, Justice and Modern Moral Philosophy, New Haven 1990; J.N. SHKLAR, The Faces of Injustice, New Haven 1990, tr. it. di R. Rini, I volti dell’ingiustizia. Iniquità o cattiva sorte?, Milano 2000; P. VAN PARIJS, Qu’est-ce qu’une societé juste?, Paris 1991, tr. it. di M. Manisco, Che cos’è una società giusta?, Firenze 1995; J. ELSTER, Local Justice, Cambridge 1992, tr. it. di E. Colombo, Giustizia locale, Milano 1995; E. DI ROBILANT, Giustizia, in Digesto, vol. IX (civile), Torino 1993, pp. 215-222; A.D. ROSEN, Kant’s Theory of Justice, Ithaca 1993; R. SEALEY, The Justice of the Greeks, Ann Arbor 1994; F.D. MILLER, Nature, Justice and Rights in Aristotle’s Politics, Oxford 1995; P. RICOEUR, Le Juste, Paris 1995, tr. it. di D. Iannotta di Marcoberardino, Il giusto, Torino 1998; B. CELANO, Teorie della giustizia, in «Ragion pratica», 4 (1996), 7, pp. 77-98; S.C. KOLM, Modern Theories of Justice, Cambridge (Massachusettes) 1996; J. ROEMER, Theories of Distributive Justice, Cambridge (Massachusetts) 1996; A. GIULIANI, Giustizia e ordine economico, Milano 1997; S. MAFFETTONE - S. VECA (a cura di), L’idea di giustizia da Platone a Rawls, Roma-Bari 1997; P. PETTIT, Republicanism, New York 1997, tr. it. di P. Costa, Il repubblicanesimo, Milano 2000; I. RUDHARDT, Themis et les Horai: recherche sur les divinités grecques de la justice et de la paix, Genève 1999; T. SOWELL, The Quest for Cosmic Justice, New York 1999; R. DWORKIN, Sovereign Virtue. The Theory and Practice of Equality, Cambridge (Massachusetts) 2000, tr. it. di G. Bettini, Virtù sovrana. Teoria dell’uguaglianza, Milano 2002; T. POGGE (a cura di), Global Justice, Oxford 2001; W. SARDUSKI, Justice, Aldershot 2001; R. BOUDON, Sentimenti di giustizia, Bologna 2002. ➨ ALTERITÀ; ANIMALI, DIRITTI DEGLI; AUTONOMIA; AUTORITÀ; CONTRATTUALISMO ; COSTITUZIONE ; CO STRUTTIVISMO; DIGNITÀ UMANA; DIRITTO NATURALE E POSITIVO; DIRITTO OGGETTIVO E SOGGETTIVO; DIRITTO PENALE; DIRITTI UMANI; ECOLOGIA; EQUILIBRIO RIFLESSIVO; EQUITÀ; FAMIGLIA; FEMMINISMO; GENERAZIONI FUTURE; GIUSTIZIA INTERNAZIONALE; GIUSTIZIA SOCIALE; GIUSTO MEZZO; INDIVIDUALISMO; INTERSOGGETTIVITÀ; LEGALITÀ; LEGGE; LIBER-

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA TÀ; PLURALISMO; RAGIONE PUBBLICA; RAPPORTI DI GENERE; SOVRANITÀ; STATO; STORICISMO; UGUAGLIANZA; UTILITARISMO.

GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA (distributive juGiustizia distributiva stice; ausgleichende Gerechtigkeit; justice distributive; justicia distributiva). – A differenza dell’efficienza, che si occupa della massimizzazione del benessere a partire da una distribuzione data delle risorse, la giustizia distributiva ha come oggetto la liceità delle diverse distribuzioni, alla luce di una concezione di eguaglianza ritenuta desiderabile sul piano normativo. Il punto di partenza della discussione attuale sulla giustizia distributiva è il contributo di John Rawls (A Theory of Justice, Cambridge 1971, tr. it. di U. Santini, Una teoria della giustizia, Milano 20028). Secondo Rawls, giusta è la distribuzione che va a vantaggio di tutti a partire da una situazione di equità caratterizzata dall’eguaglianza morale di tutti gli individui (in quanto agenti liberi ed eguali) e da un velo di ignoranza circa le posizioni specificamente occupate nella vita reale. In prima approssimazione, ciò equivale alla perfetta eguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza associata alla piena libertà di accesso alle diverse posizioni. Deroghe sarebbero giustificate, per ragioni di incentivazione, qualora ineguaglianze a favore dei più dotati favoriscano i più svantaggiati, come sancito dal principio del maximin. La difesa dell’eguaglianza deriverebbe dal carattere casuale delle abilità naturali e dei vantaggi sociali; quella del reddito e della ricchezza dal loro essere beni primari, utili per tutti gli scopi e, come tali, perfettamente coerenti con il rispetto della libertà di scelta di formarsi e perseguire il proprio piano di vita. Il contributo di Rawls ha originato un ampio dibattito, accademico e politico, sulle diverse dimensioni e configurazioni dell’eguaglianza distributiva. Revisioni, anche corpose, sono state effettuate dallo stesso Rawls (cfr. Political Liberalism, New York 1993, tr. it. di G. Rigamonti, Liberalismo politico, Milano 1994). Un primo tema riguarda l’equalisandum, ossia, eguaglianza di cosa? Per Amartya Sen (Inequality Re-examined, Oxford 1992, tr. it. di A. Balestrino, La diseguaglianza, Bologna 1994), l’eguaglianza di reddito e ricchezza ignorerebbe le dimensioni plurali dello svantaggio, quali l’assenza di informazione, le discriminazioni e, più complessivamente, le asimmetrie di po-

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tere nonché le differenze stesse nelle condizioni di bisogno. Oggetto dell’eguaglianza dovrebbero essere le capacità intese come opportunità di realizzare alcuni risultati (functionings) a tutti necessari per perseguire i propri piani di vita, come essere istruiti, fruire di un’abitazione, essere curati. Altri, pur condividendo il riferimento ad alcuni risultati fondamentali, ne propongono caratterizzazioni in termini di benessere e/o assenza di sfruttamento. La gamma stessa delle capacità potrebbe essere più o meno ampia. Un secondo tema riguarda il quantum di eguaglianza. Come argomentato da Ronald Dworkin in What is Equality? Part 2: Equality of Resources (in «Philosophy and Public Affairs» 10, 1981, pp. 283-345), perfetta eguaglianza e maximin potrebbero rendere i più dotati schiavi dei meno dotati, imponendo ai primi di lavorare per i secondi. Sarebbe, allora, necessario distinguere fra svantaggi dovuti al caso, per i quali gli individui andrebbero compensati, e svantaggi dovuti all’esercizio della libertà di scelta, per i quali gli individui dovrebbero essere responsabili. La soluzione di Dworkin è quella di associare all’eguaglianza iniziale di risorse una polizza assicurativa contro i rischi di avere sia handicap naturali sia preferenze che si vorrebbe non avere. La specificazione di tale polizza è affidata alle ipotetiche preferenze di un soggetto medio. Altri autori, pur condividendo la necessità di distinguere fra svantaggi dovuti al caso e svantaggi dovuti alla libertà di scelta, propongono soluzioni alternative. Bruce Ackerman (Social Justice in the Liberal State, New Haven 1980, tr. it. di S. Sabattini, La giustizia sociale nello stato liberale, Bologna 1984) difende il criterio di scelta unanimistico: svantaggi dovuti al caso sarebbero quelli che tutti vorrebbero non avere. Per Gerald Cohen (On the Currency of Egalitarian Justice, in «Ethics», 99, 1988-1989, n. 4, pp. 906-944), invece, sarebbero dovuti al caso gli svantaggi derivanti non solo dall’insieme delle preferenze involontarie – incluse quelle che si desidera avere – ma anche dall’assenza di risorse necessarie a soddisfare le particolari preferenze volontarie che si potrebbe avere. A tali riflessioni, si sono poi affiancati tentativi più applicativi di identificazione degli svantaggi involontari: secondo John Roemer (Equality of Opportunity, Cambridge 1998), ad esempio, sarebbe involontario lo svantaggio che riflette i comportamenti medi dei diversi gruppi so-

Giustizia distributiva ciali. La prospettiva delle capacità, invece, attribuisce minore peso alle responsabilità: in quanto indispensabili al perseguimento dei singoli piani di vita, le capacità vanno comunque assicurate e l’esercizio delle responsabilità, sebbene sia ritenuto desiderabile, andrebbe ricercato su piani diversi da quelli che regolano l’accesso ai beni e servizi fondamentali. Come sostenuto dal neo-utilitarismo (cfr. John Harsanyi, Rational Behavior and Bargaining Equilibrium in Games and Social Situations, Cambridge 1977, tr. it. a cura di S. Morini, Comportamento razionale ed equilibrio di contrattazione, Milano 1985), perfetta eguaglianza e maximin potrebbero, inoltre, essere considerati irrazionali, in quanto basati su un assunto di totale avversione al rischio da parte degli individui. Razionale, sempre a partire da una posizione di equità, sarebbe, invece, massimizzare l’utilità attesa: il che giustificherebbe l’assicurazione di un livello minimo, anziché eguale, di risorse. In tal caso, la concezione di eguaglianza morale alla base della posizione rawlsiana sarebbe sostituita da una in termini di razionalità. Un terzo tema riguarda il rapporto fra eguaglianza distributiva e altri valori, oltre la libertà di scelta e la responsabilità. Tali valori potrebbero includere la responsabilità di cura, come richiesto dalla prospettiva femminista; i legami speciali e il riconoscimento pubblico delle differenze culturali, come richiesto dalle prospettive del comunitarismo e del multiculturalismo; la partecipazione, come richiesto dalla prospettiva della democrazia deliberativa; e l’autonomia, come richiesto dalle concezioni più perfezionistiche del liberalismo. Infine, occorre ricordare due ultimi temi emergenti di riflessione: quelli relativi al rapporto rispettivamente fra doveri di giustizia locali e doveri di giustizia globali e fra osservanza delle regole di giustizia distributiva e qualità dei comportamenti privati, ossia, fra etica pubblica e morale privata (cfr. G. Cohen, If You’re an Egalitarian, How Come You’re so Rich?, Cambridge 2000). A prescindere dalle singole risposte offerte, due elementi restano, però, centrali nel panorama contemporaneo della giustizia distributiva. Da un lato, vi è il convincimento circa la possibilità di conciliare eguaglianza distributiva, libertà di scelta e responsabilità. L’eguaglianza distributiva è, infatti, la condizione per potere liberamente perseguire i singoli piani 4887

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Giustizia internazionale di vita. In questo senso, una volta definita una distribuzione equa, giustizia ed efficienza sociale potrebbero essere perfettamente compatibili. Inoltre, anche le posizioni più sensibili alle responsabilità non subordinano i trasferimenti iniziali all’esercizio delle responsabilità. Al contrario, quest’ultimo influenza unicamente le distribuzioni successive. Le posizioni meno sensibili, dal canto loro, pur non vincolando alcuna fase della redistribuzione all’esercizio delle responsabilità, ne riconoscono il valore e ne incoraggiano la promozione. Dall’altro lato, vi è il riconoscimento di un’eguaglianza fondamentale fra gli individui, sia essa morale o in termini di razionalità, di cui l’eguaglianza distributiva è il riflesso. E. Granaglia BIBL.: P. VAN PARIJS, Real Freedom for All, Oxford 1995; E. ANDERSON, What Is the Point of Equality?, in «Ethics», 110 (1999-2000), pp. 287-337; R. DWORKIN, Sovereign Virtue, Cambridge (Massachusetts) 2000, tr. it. di G. Bettini, Virtù sovrana: teoria dell’uguaglianza, Milano 2002; W. KYMLIKA, Contemporary Political Philosophy. An Introduction, Oxford 20022, tr. it. di R. Rini, Introduzione alla filosofia politica contemporanea, Milano 1996; S. FREEMAN (a cura di), The Cambridge Companion to Rawls, Cambridge 2003. ➨ EFFICIENZA.

GIUSTIZIA INTERNAZIONALE (internaGiustizia internazionale tional justice; internationale Justiz; justice international; justicia internacional). – L’espressione «giustizia internazionale» viene correntemente usata in due accezioni distinte. In una prima accezione indica, in generale, l’insieme dei principi etico-politici che dovrebbero regolare le relazioni internazionali, con particolare riferimento ai problemi della distribuzione delle risorse naturali e della ricchezza globalmente prodotta dalle attività umane, del rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri, della fame mondiale, delle grandi migrazioni oggi imposte dai processi di globalizzazione, della pace e della guerra. In una seconda, più specifica, accezione l’espressione denota il complesso delle istituzioni internazionali che svolgono funzioni giudiziarie analoghe a quelle che all’interno degli stati nazionali vengono svolte dalla magistratura. La voce presente si limita a illustrare questo secondo significato. Alle istituzioni giudiziarie internazionali appartiene anzitutto la corte di giustizia delle Nazioni Unite, con sede a L’Aja. Non godendo di una giurisdizione obbligatoria, né di un potere di judicial review 4888

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nei confronti delle decisioni del consiglio di sicurezza, questa corte svolge essenzialmente funzioni arbitrali. Più significativo è il ruolo di assise giudiziarie regionali, come, ad esempio, la corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo, la cui competenza oggi si estende anche alla Federazione russa, o di autorità giudiziarie con competenze specifiche, come l’organo per la risoluzione dei conflitti dell’organizzazione mondiale per il commercio (World Trade Organization), o il tribunale internazionale per il diritto del mare. Ma è la giustizia penale internazionale (international criminal justice) che ha conosciuto nel corso del Novecento uno sviluppo inedito e una crescente rilevanza. Si tratta di un complesso di istituzioni giudiziarie la cui affermazione è stata profondamente innovativa rispetto alla tradizione groziana e westfaliana del diritto internazionale moderno. Con l’istituzione della giustizia penale internazionale la soggettività di diritto internazionale – per lo meno la soggettività passiva – è stata estesa agli individui: essi sono passibili di incriminazione per una serie di gravi violazioni del diritto internazionale di guerra (o «diritto internazionale umanitario»). Di più, le corti penali internazionali ad hoc, in base al principio della supremazia della loro giurisdizione rispetto alla domestic jurisdiction degli stati nazionali e in base all’obbligo di collaborazione che gli stati hanno nei loro confronti, non sono tenute al rispetto delle sovranità nazionali. Il primo tentativo di dar vita a una corte penale internazionale fu l’incriminazione del kaiser Guglielmo II di Hohenzollern come criminale di guerra, a conclusione del primo conflitto mondiale. Il trattato di Versailles dichiarò Guglielmo II responsabile di «oltraggio supremo alla morale internazionale e alla santità dei trattati» e prescrisse che fosse processato davanti a una corte internazionale. Il processo non fu celebrato perché l’Olanda, dove il kaiser si era rifugiato, non concesse l’estradizione, ma l’incriminazione costituì un importante precedente normativo. La prima esperienza effettiva di una giurisdizione penale internazionale si è avuta con l’istituzione, fra il 1945 e il 1946, dei tribunali militari internazionali di Norimberga e di Tokyo. I due tribunali furono composti da giudici appartenenti alle nazioni vincitrici del secondo conflitto mondiale e giudicarono esclusivamente criminali appartenenti ai paesi sconfit-

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ti. Il processo di Norimberga si concluse con tre assoluzioni, diverse condanne al carcere e dieci condanne a morte, che furono immediatamente eseguite. La struttura del tribunale, le procedure adottate e le condanne eseguite non furono esenti da critiche. Hans Kelsen sostenne autorevolmente che la punizione dei criminali di guerra avrebbe dovuto essere un atto di giustizia e non la prosecuzione delle ostilità in forme apparentemente giudiziarie, in realtà ispirate da un desiderio di vendetta. Per Kelsen era un fatto incompatibile con la funzione giudiziaria che solo gli stati sconfitti fossero stati obbligati a sottoporre i propri cittadini alla giurisdizione di una corte penale. A distanza di quasi cinquant’anni dall’esperienza dei tribunali di Norimberga e di Tokyo, nel 1993 il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha istituito il tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (con sede a L’Aja). Il compito del tribunale è di perseguire persone che si siano rese responsabili di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario, commesse entro i territori della ex Jugoslavia a partire dal gennaio 1991. Nel 1994 il consiglio di sicurezza ha istituito un secondo tribunale ad hoc: l’International Criminal Tribunal for Rwanda, con sede a Arusha, in Tanzania. Questi due tribunali, a differenza dei tribunali penali internazionali del secondo dopoguerra, non sono stati istituiti da potenze vincitrici di una guerra al fine di processare i nemici sconfitti. Il loro impegno formale è di operare in totale indipendenza da qualsiasi governo o fonte di potere, ponendosi al servizio esclusivo della tutela dei diritti umani e della pace. Nonostante ciò, non sono mancate obiezioni teoriche e politiche anche nei confronti di questi tribunali, relative anzitutto alla loro legalità internazionale, essendo essi frutto non di trattati internazionali ma di risoluzioni del consiglio di sicurezza, giustificate sulla base di una controversa dottrina dei «poteri impliciti» di tale organo. Contestata è stata anche la scarsa autonomia di questi tribunali, in particolare del tribunale de L’Aja, che è parso vincolato da una sorta di «sodalizio umanitario» con l’amministrazione degli Stati Uniti d’America, della cui collaborazione finanziaria, giudiziaria e militare si è largamente giovato. Si è inoltre discussa più in generale la qualità della giustizia penale internazionale. Hedley Bull, in The Anarchical Society (London 1977),

Giustizia internazionale ha segnalato il carattere selettivo ed «esemplare» di questa giustizia, tale da violare il principio dell’uguaglianza formale delle persone di fronte alla legge. Altri autori hanno sollevato il problema dell’efficacia delle pene internazionali: si è sostenuto che un’attività giudiziaria che irroghi sanzioni contro alcuni individui incide assai poco sulle dimensioni macrostrutturali dei conflitti civili e della guerra. Rispetto all’esperienza dei tribunali internazionali ad hoc, rinnovate aspettative di giustizia sono state alimentate dalla istituzione della corte penale internazionale (International Criminal Court), il cui statuto è stato approvato a Roma nel luglio del 1998 e che si è insediata a L’Aja agli inizi del 2003. Questa corte dispone di un’ampia competenza per la repressione su scala globale di gravi illeciti internazionali: il genocidio, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e probabilmente, in futuro, anche i crimini contro la pace (aggressione). A differenza di tutti i precedenti tribunali penali internazionali, questa corte non è un’assise temporanea e speciale, ma è dotata di una competenza permanente e universale, sia pure di natura complementare rispetto a quella delle corti nazionali. C’è tuttavia un aspetto che secondo alcuni autori minaccia l’autonomia anche della nuova corte. L’art. 16 del suo statuto prevede che il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite avrà il potere di impedire o sospendere, a sua discrezione, le iniziative della procura della corte. L’ostilità verso la corte di alcuni membri permanenti del consiglio di sicurezza – in particolare degli Stati Uniti, che ne disconoscono l’operato e ne contestano i poteri – potrà rappresentare una sfida sia per l’effettività degli atti della corte, sia per il destino dell’intera esperienza della giustizia penale internazionale. D. Zolo BIBL.: H. KELSEN, Will the Judgment in the Nuremberg Trial Constitute a Precedent in International Law?, in «The International Law Quarterly», 1 (1947), pp. 153-171, tr. it. di L. Ciaurro, Il processo di Norimberga ed il diritto internazionale, in «Nuovi studi politici», 4 (1989), pp. 99-115; B.V.A. ROELING - A. CASSESE, The Tokyo Trial and Beyond, Cambridge 1993; F. LATTANZI - E. SCISO (a cura di), Dai Tribunali Penali Internazionali ad hoc a una Corte Permanente, Napoli 1995; D. SHRAGA - R. ZACKLIN, The International Criminal Tribunal for Ruanda, in «European Journal for Internatio-

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Giustizia sociale nal Law», 7 (1996), pp. 501-518; R. CLARK - M. SANN, The Prosecution of International Crimes. A Critical Study of the International Tribunal for the Former Yugoslavia, New Brunswick 1996; A. CASSESE (a cura di), The Rome Statute and International Criminal Law, Oxford 2002. ➨ CRIMINI DI GUERRA; DIRITTI UMANI; DIRITTO INTERNAZIONALE; GENOCIDIO; GIUSTIZIA; PACE.

GIUSTIZIA SOCIALE (social justice; soziale Giustizia sociale Gerechtigkeit; justice sociale; justicia social). – L’espressione «giustizia sociale», già usata da tempo da vari autori (tra i primi, alcuni italiani: Romagnosi [Genesi del diritto penale, Pavia 1791, parte V, cap. 2, § 943, pp. 947-948], Taparelli [Saggio teoretico di diritto naturale, Palermo 1841-45, passim], Rosmini [La Costituzione secondo giustizia sociale, Milano 1848]), solo più tardi fece il suo ingresso nel linguaggio filosofico, anzitutto nel pensiero cattolico. Dopo la prima e, ancor più, dopo la seconda guerra mondiale la giustizia sociale diviene il programma comune di correnti dottrinali e di movimenti politici molto diversi, il più delle volte accomunati dalla opposizione tanto all’individualismo liberale quanto al collettivismo marxista. SOMMARIO: I. Controversie sull’idea di giustizia sociale. - II. Per una definizione. - III. Ambito e oggetto proprio della giustizia sociale. - IV. La giustizia sociale come principio oggettivo e come virtù generale. - V. Stato sociale e diritti sociali. I. CONTROVERSIE SULL’IDEA DI GIUSTIZIA SOCIALE. – Mentre in campo pratico la giustizia sociale veniva assunta a criterio etico riguardo alle nuove istanze dei tempi, sul piano sociale rilevanti controversie si accesero, e si sono trascinate sino ai nostri giorni, in ordine alla definizione teoretica dell’idea e alla classificazione sistematica della giustizia sociale come virtù morale. Le ragioni di tali disaccordi possono ridursi a tre: l’inesatta interpretazione del pensiero aristotelico sulla giustizia, l’accettazione acritica del pensiero di Tommaso, l’accezione estensiva e spesso errata dell’aggettivo «sociale». 1. Partendo dal presupposto che Aristotele avesse ammessa una tricotomia delle specie o figure o parti soggettive della giustizia, alcuni interpreti del suo pensiero si chiesero se la giustizia sociale fosse riducibile a una delle aristoteliche tre specie di giustizia, e a quale di esse precisamente. In un primo tempo si affer4890

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mò la tesi che si trattasse di giustizia commutativa; poi, in aggiunta o con esclusione della precedente, quella della giustizia distributiva; indi, e con maggiori consensi, quella della giustizia legale. Non è mancato, da ultimo, chi ha preferito parlare di una giustizia o virtù sui generis, non riducibile a nessuna delle tre figure aristoteliche, ma non altrimenti precisata. Invero Aristotele non pose affatto una trilogia di giustizie. Egli distinse dapprima la giustizia come virtù generale dalla giustizia come virtù particolare. L’una chiamò giustizia «legale» (Et. Nic., V, 2-3, 1129a-30a) nel significato di conforme alle leggi in generale; nell’altra distinse due specie: la giustizia commutativa e quella distributiva. Sono però tre nomi e non tre specie di giustizia. Inoltre è da rilevare che fin dall’antichità, specialmente in Platone, ma anche nell’Aristotele della Politica, la giustizia fu concepita non soltanto come virtù, ossia abito o qualità personale di soggetti individuali, bensì pure come principio oggettivamente regolatore della vita umana associata. Non si tratta quindi di una considerazione esclusivamente morale della giustizia (come virtù); una siffatta incompleta o parziale considerazione ha dato origine alla principale difficoltà nella definizione della giustizia sociale. 2. Tommaso (Sum. theol., I-II, q. 60, art. 3) ha chiarissimo il concetto aristotelico di giustizia «legale» come virtù generale e vede in essa la virtù essenzialmente propria del principe, come di colui cui spetta di ordinare «architettonicamente» la comunità politica al bene comune. Nei sudditi essa può trovarsi tutt’al più come ubbidienza, come esecuzione: «quasi administrative». Di qui il comune concetto di «giustizia legale» come «ubbidienza alle leggi», da cui esula, per sé, il momento propriamente costituzionalistico dei fini, dei limiti di giustizia delle singole leggi e del diritto positivo in generale. In epoca moderna tale situazione è radicalmente mutata. Forma della società politica è il diritto costituzionale (scritto o non scritto), sul quale anche l’autorità si fonda e dal quale risulta limitata. Fonte dell’ordinamento politico positivo è il potere costituente, oggettivamente considerato come funzione, non come volontà personale di uno o più soggetti sovraordinati agli altri. L’ordinamento «architettonico» di tutti i membri della comunità politica in vista del bene comune e la definizione delle strutture politiche necessarie al loro raggiungimento

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è materia di costituzione e di diritto pubblico, non di virtù morale di un «principe». La necessità, allora, di tornare alla vecchia e non mai del tutto archiviata concezione della giustizia anche come sommo e formale principio oggettivamente regolatore della vita umana politicamente associata, sembra evidente. La giustizia sociale non è solo virtù morale (del principe o degli individui investiti del potere politico, nonché dei sudditi), ma anzitutto il criterio oggettivo storicamente determinato nella costituzione e nelle altre leggi dello stato. 3. Come terza e concorrente causa delle difficoltà incontrate e delle divergenze verificatesi nella definizione della giustizia sociale si è indicata l’equivocità del secondo termine dell’espressione, l’aggettivo «sociale». Partendo invece dalla definizione corrente di sociale come «della società» o «dei soci», si ha, come nozione elementare, che giustizia sociale può significare: giustizia della società (verso i soci), come principio oggettivo, e giustizia dei soci (verso la società e verso gli altri soci), come virtù morale. Ora, poiché la giustizia della società si concreta fondamentalmente nel diritto secondo cui essa risulta oggettivamente ordinata al fine suo proprio, per giustizia sociale deve intendersi anzitutto la giustizia che ispira la stessa formazione dell’organismo sociale, ossia la determinazione dei suoi fini, delle sue strutture, del suo diritto positivo. II. PER UNA DEFINIZIONE. – Seguendo la via che unisce la storia dei fatti alla storia delle idee, si può pervenire a una definizione più compiuta della giustizia sociale. 1. Due interpretazioni della questione sociale. – La causa che ha favorito lo sviluppo dell’idea di giustizia sociale è stata, com’è noto, la «questione sociale», divenuta sempre più centrale a partire almeno dalla metà del XIX secolo. Quanto alla sua valutazione sotto un profilo concettuale e deontologico, due posizioni risultarono ben presto dominanti e contrastanti. Nel pensiero e nei regimi liberali allora generalmente vigenti la si concepì come questione materialmente economica e formalmente di mero diritto privato. Fintantoché i conflitti di lavoro non degenerassero in turbamenti dell’ordine pubblico, in azioni violente sugli uomini o sulle cose, essi rappresentavano materia indifferente all’ordinamento politico dello stato. A tale concezione della questione sociale s’oppose quella teorizzata dal marxismo e nelle varie correnti del socialismo. Non si trattava, per

Giustizia sociale questo, di uno o più particolari problemi politico-economici risolvibili nel quadro degli ordinamenti politici esistenti, ma di ristrutturare in profondità le strutture economico-sociali. Alcuni pensatori cattolici sottolinearono subito la profonda sostanza etica dei problemi compresi sotto il nome di «questione operaia». Mentre sul terreno pratico si moltiplicarono le attività e le istituzioni di beneficenza e assistenza, su quello teorico si presero a studiare quei problemi alla luce dell’etica naturale e cristiana, riconoscendo e proclamando che il primo e più generale principio della dignità della persona umana troppo spesso veniva violato nelle nuove condizioni create dalla civiltà industriale. Come criterio generale per la soluzione pacifica dei problemi connessi si propose, appunto, la giustizia sociale, ma intesa esclusivamente come virtù morale tale da moderare l’attività dei singoli individui, e non già da provocare riforme strutturali della società nel suo complesso. Al contrario, altri autori cattolici tennero a escludere ogni interpretazione politica dell’aggettivo «sociale», sino a equiparare, materialmente almeno, il «sociale» con l’«economico», trascurando di considerare la natura sostanzialmente politica e formalmente giuspubblicistica della «questione», che negli insegnamenti pontifici veniva invece sempre più chiaramente diagnosticata. 2. Trasformazioni sociali, bene comune e diritto costituzionale. – Per una migliore definizione dei concetti di questione sociale e di giustizia sociale si rende necessario un ampliamento di prospettiva, inteso a definire l’essenza appunto politica della prima. A questo scopo occorre conferire un più sistematico rilievo aI nesso corrente tra diritto (oggettivo) e società, di cui il noto aforisma ubi ius, ibi societas coglie soltanto l’aspetto esterno. Si noti bene, anzitutto, che il diritto secondo cui è ordinata una società politica (res publica) non è soltanto proporzione reale tra i suoi membri, il cui fondamento e oggetto sono le cose, i beni della vita, il «mio» e il «tuo»; ma anche e prima di tutto proporzione personale tra gli uomini, il cui fondamento è la comune e uguale dignità della persona umana e il cui oggetto sono i diritti fondamentali (o personali) che da essa derivano. Tale proporzione esige l’uguaglianza assoluta in tutto ciò in cui i soggetti sono naturalmente o costituzionalmente uguali (dignità di persona e qualità di cittadino) e 4891

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Giustizia sociale l’uguaglianza relativa, o specificamente proporzionata, in tutto ciò in cui i soggetti abbiano qualità e capacità diverse, rilevanti per il diritto oggettivo e per il bene comune. Si noti, in secondo luogo, che la stabilità delle società politiche dipende dal mantenimento e dalla tutela di tali proporzioni. La situazione storica odierna appare caratterizzata da generali mutamenti delle condizioni materiali e spirituali della convivenza umana. Si tratta di un cambiamento storico in cui sono coinvolti gli stessi principi etici della convivenza politica, ossia la dignità della persona umana e il concetto concreto di bene comune. Ciò comporta la trasformazione non tanto formale (come nel secolo scorso), quanto sostanziale ed effettiva delle relazioni e strutture costituzionali edificate sopra quel fondamento. Il mutamento sta nelle nuove, più ampie e pressoché universali esigenze che da quei principi oggettivamente derivano, rappresentando il contenuto oggi storicamente necessario della giustizia sociale. Sta, in altri termini, nella generale e piena consapevolezza, e nella diffusa volontà di soddisfazione effettiva, dei diritti naturali e civili spettanti alla persona umana secondo tutto il contenuto che le odierne condizioni culturali, politiche, economiche, tecniche, delle varie società consentono. III. AMBITO E OGGETTO PROPRIO DELLA GIUSTIZIA SOCIALE. – Si può dunque mantenere per la giustizia la classica definizione di Ulpiano e di Tommaso: «constans et perpetua voluntas ius suum unicuique tribuendi». Poiché sappiamo, però, che la giustizia sociale, come virtù generale, trascende l’ambito particolare sia della giustizia commutativa sia di quella distributiva, è chiaro che il ius suum oggetto della prima non può coincidere semplicemente con l’oggetto delle altre due. D’altra parte né tribuere vale solo «prestare» ciò che è dovuto, né ius suum significa solo un particolare oggetto o prestazione dovuta. «Tribuere», nelle fonti, vale pure assegnare, riconoscere, attribuire anche per via di norme generali e astratte, come sono quelle costituzionali; e «ius suum» può ben designare ciò che è compreso, oltre che nella realis, anche nella personalis hominis ad hominem proportio, cioè la stessa posizione generale dei vari soggetti nel sistema organizzativo della comunità politica e la loro partecipazione agli oneri e ai vantaggi del bene comune. Emergono così con sufficiente chiarezza l’am4892

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bito e l’oggetto proprio della giustizia sociale. L’ambito è lo stesso ordinamento costituzionale di una comunità politica. Essendo ogni ordine apta dispositio rerum inter se, et ad finem, la giustizia sociale è appunto il principio formale, oggettivamente inerente alla naturale politicità della persona umana, che comanda le determinazioni concrete sia del bene comune da assumere a fine positivo (e, quindi, a sommo principio dell’ordinamento costituzionale), sia i diritti e doveri fondamentali dei singoli membri della società medesima. Questo è, dunque, il fondamento primo, permanente e universale della legittimità degli ordinamenti politici positivi. L’oggetto proprio della giustizia sociale, poi, è «ciò che è dovuto a ogni individuo membro di una società politica proprio in quanto membro della stessa», il ius suum uniuscuiusque socii, in quanto tale. E consiste, precisamente, in quelle condizioni esterne o sociali del bene personale di ciascuno in vista delle quali gli individui che compongono la società politica prestano il iuris consensus alla formazione originaria della società stessa, di cui si fan membri, o alle sue successive trasformazioni costituzionali. IV. LA GIUSTIZIA SOCIALE COME PRINCIPIO OGGETTIVO E COME VIRTÙ GENERALE. – È possibile giungere a una definizione della giustizia sociale sia come principio oggettivo sia come virtù morale. Sotto il primo aspetto essa è «il principio formale deontologicamente ordinativo della vita umana politicamente associata, in quanto esige la conformità degli ordinamenti costituzionali ai sommi principi del diritto naturale (la dignità di persona umana, ugualmente propria di tutti gli individui, e il bene comune come fine essenziale d’ogni comunità politica), secondo le varie, e per sé progressive, determinazioni». Sotto il secondo aspetto la giustizia sociale è «la virtù generale che ordina gli atti di tutti gli individui membri di una società politica, ancorché oggetto di altre e particolari virtù morali (giustizia commutativa e distributiva, carità naturale, prudenza, fortezza, temperanza ecc.), siano essi posti nell’esplicazione di pubbliche funzioni implicanti una certa discrezionalità, siano invece compresi nell’ambito dell’autonomia privata, al bene comune della società medesima». Da quest’ultima definizione risulta evidente che la giustizia sociale non coincide formalmente, e coincide solo in parte materialmente,

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con la «giustizia legale», anch’essa intesa come virtù generale. Da una parte, infatti, i principi del diritto naturale hanno contenuto universale e, quindi, per sé indeterminato; dall’altra, le leggi positive, per il carattere necessariamente generale e astratto dei paradigmi normativi in cui si articolano, non valgono né a regolare compiutamente tutte le modalità e circostanze degli atti individuali, né a esigerne positivamente l’ulteriore direzione, anche interna o morale, al bene comune. V. STATO SOCIALE E DIRITTI SOCIALI. – Attualmente il concetto di «giustizia sociale» ha subito dei sensibili mutamenti; in particolare ha perso gran parte del suo significato originario di giustizia «generale», costantemente rivolta al bene comune, mentre è stato riferito a un aspetto determinato e particolare della convivenza. Con l’espressione «giustizia sociale» infatti si tende oggi a indicare l’equa distribuzione e allocazione delle risorse materiali della società; tale connotazione evidenzia anche un restringimento dell’idea fino a una sua progressiva identificazione con quella particolare accezione della giustizia che, come si è visto, fin da Aristotele era definita «distributiva». In tale contesto il dibattito filosofico, ma anche nel campo della scienza economica, si è concentrato in particolare sui criteri che dovrebbero regolare tale distribuzione. Si tratta di una questione che, da un lato, investe il problema delle forme possibili dell’uguaglianza e, dall’altro, coinvolge il tema relativo alla determinazione della natura di quei diritti sociali sorti storicamente con la trasformazione dello stato moderno in stato sociale di diritto. Da parte di alcuni si osserva che diritti come quelli sociali, per essere efficacemente garantiti, implicano una forte tensione rispetto al carattere universalistico dei diritti civili e politici. Infatti, perché siano attuabili, è indispensabile provvedere all’individuazione delle categorie di soggetti che, in quanto oggetti potenziali di prestazioni specifiche, potranno usufruire dei vantaggi delle politiche volte a realizzare forme di redistribuzione del reddito e/o di erogazione di servizi sociali e assistenziali. In tale prospettiva è stato messo l’accento sul fatto che il progetto, tipico dello stato sociale del secondo dopoguerra, di soddisfare bisogni di gruppi sociali svantaggiati ha fatto emergere il fenomeno in virtù del quale si è potuto attuare i diritti sociali solo infrangendo il duplice carattere di universalità e astrattezza

Giustizia sociale della legge. Ed è questo uno dei punti di appoggio che il pensiero neo-liberale (von Mises, von Hayek) ha usato per svolgere la sua critica al carattere intrinsecamente illiberale che sarebbe connesso all’idea stessa di «giustizia sociale», vedendo in essa «quell’incubo che oggi fa di sentimenti elevati lo strumento per la distruzione di tutti i valori di una civiltà libera» (Friedrich von Hayek, Law, Legislation and Liberty, London 1982, tr. it. di P.G. Monateri, Legge, legislazione e libertà. Una nuova enunciazione dei principi liberali della giustizia e dell’economia politica, Milano 1986, p. 184). A queste obiezioni, d’altra parte, si è risposto rivendicando l’importanza dei diritti sociali nel garantire quelle condizioni economiche che rendono possibile un esercizio effettivo dei diritti civili e politici dei quali ciascun individuo è titolare, diritti che, altrimenti, rischierebbero di rimanere una pura astrazione. Detto in altri termini: la difesa dei diritti della cittadinanza civile e politica richiede la garanzia dei diritti della cittadinanza sociale (Thomas H. Marshall, Citizenship and Social Class, London 1950) ai quali va quindi attribuito un duplice valore: di mezzi perché la cittadinanza civile e politica non resti un principio puramente inefficace, di fini in sé, nella misura in cui senza determinati standard minimi di benessere viene violata la dignità della persona. In questo secondo senso emerge chiaramente la dimensione universalistica dei diritti della «persona sociale» (Jacques Maritain, Les droits de l’homme et la loi naturelle, New York 1942), i quali certo devono essere attuati in modi compatibili con la libertà, ma di cui la democrazia non può fare a meno senza rinunciare a uno dei principi fondamentali che la legittimano dal punto di vista ideale. S. Lener - R. Gatti BIBL.: M.S. GILLET, Conscience chrétienne et justice sociale, Paris 1922; J. MESSNER, Zum Begriff der sozialen Gerecht, in Die soziale Frage und der Katholizismus, Paderborn 1931; A. BALTERMI, Il concetto di giustizia sociale, Fribourg 1939; J. MARITAIN, Les droits de l’homme et la loi naturelle, New York 1942, tr. it. di G. Usellini, I diritti dell’uomo e la legge naturale, Milano 1979; F.W. DRUMMOND, Social Justice, Milwaukee 1955; O. VON NELL-BREUNING, Wirtschaft und Gesellschaft, I: Grundfragen, Freiburg 1956; A. UTZ, Sozialethik mit internationaler Bibliographie, I: Die Prinzipien der Gesellschaftslehre, Heidelberg-Louvain 1958; S. LENER, La giustizia sociale e il bene comune, Milano 1963; B.A. ACKERMAN, Social Justice in the Liberal State, New Haven 1980, tr. it. di S. Sabattini, La giustizia sociale nel-

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Gizycki lo stato liberale, Bologna 1984; M. WALZER, Spheres of Justice: A Defence of Pluralism and Equality, New York-Oxford 1983, tr. it. di G. Rigamonti, Sfere di giustizia, Milano 1987; A. BESUSSI (a cura di), Teorie della giustizia sociale, Milano 1986; J.M. BARBALET, Citizenship, Rights, Struggle and Class Inequality, Milton Keynes 1988, tr. it. di F.P. Vertova, Cittadinanza: diritti, conflitto e disuguaglianza sociale, Torino 2002; F. BELLINO, Giusti e solidali, Roma 1994; D. ZOLO (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari 1994; M. TOSO, Welfare Society, Roma 1995; M. NUSSBAUM, Sex & Social Justice, New York 1999, tr. it. di E. Greblo, Giustizia sociale e dignità umana: da individui e persone, Bologna 2002; ➨ DEMOCRAZIA; DIGNITÀ UMANA; DIRITTI UMANI; GIUSTIZIA ; INDIVIDUALISMO; LEGGE; POTERE COSTI TUENTE ; QUESTIONE SOCIALE ; STATO SOCIALE ; UGUAGLIANZA.

GIZYCKI, GEORG VON. – Positivista tedesco, Gizycki n. a Grosslogau nel 1851, m. a Berlino nel 1895. Fu professore incaricato di filosofia a Berlino e tra i fondatori della società tedesca per la cultura etica, che ebbe per organo le «Mitteilungen der deutschen Gesellschaft für ethische Kultur», pubblicate a Berlino dal 1892 in poi. Nel campo etico Gizycki è un «sozialer Utilitarist». La filosofia morale ha, per lui, il compito di procurare all’uomo una chiara coscienza della sua vita etica. La fonte dell’etico è il sentimento (Gefühl) e l’obiettivo dell’eticità è la felicità universale (allgemeine Wohlfahrt). M. Rossi BIBL.: Versuch über die Konsequenzen der Evolutionstheorie, Berlin 1875; Philosophische Konsequenzen der Lamarck-Darwinschen Entwicklungstheorie, Leipzig Heidelberg 1876; Grundzüge der Moral, Leipzig 1883; Moralphilosophie, Leipzig 1888; Vom Baume der Erkenntnis (Fragmente aus der Weltliteratur), Berlin 1897-1900, 3 voll. Su Gizycki: F. JDOL, Georg von Gizycki, in Vom Lebenswege, Stuttgart 1916, vol. I, pp. 415-422.

GLANDOLA PINEALE (o epifisi cerebrale – Glandola pineale pineal gland; Zirbeldrüse; glande pinéale; glándula pineal). – Piccolo organo a struttura ghiandolare situato nel diencefalo. Svolge funzione endocrina esercitando una influenza inibitrice e di controllo sullo sviluppo sessuale. Secondo Cartesio, la glandola pineale è sede dell’anima, che in essa viene a contatto con gli «spiriti animali», così da poter dirigere i movi4894

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menti del corpo e, insieme, accoglierne le reazioni (cfr. Les passions de l’âme, parte I, art. 31). La ragione che lo persuase di ciò è che la glandola pineale, a differenza delle altre parti del nostro cervello e dei nostri organi di senso esteriori, non è doppia; egli perciò la ritiene il luogo in cui le due impressioni, che vengono da un solo oggetto, possono unificarsi, prima di giungere all’anima (ibi, art. 32). S. Levi BIBL.: S. LEVI - F. BONICALZI, Descartes e la nascita della psicologia, Milano 1990; B. BAERTSCHI, Les rapports de l’âme et du corps: Descartes, Diderot et Maine de Biran, Paris 1992; A.R. DAMASIO, L’errore di Cartesio, tr. it. di F. Macaluso, Milano 1995; J. ALMOG, What am I?: Descartes and the Mind-Body Problem, New YorkOxford 2002; S. LANDUCCI, La mente in Cartesio, Milano 2002. ➨ SPIRITI ANIMALI.

GLANVILLE, JOSEPH. – N. a Plymouth nel Glanville 1636, m. a Bath il 4 nov. 1680. Educato a Oxford, provò presto una grande avversione per le dottrine aristoteliche e il metodo scolastico dei suoi maestri; così, terminati gli studi, si impegnò a riconsiderare con cura le credenze invalse, se prive di una sufficiente evidenza intellettuale. In The Vanity of Dogmatizing, la sua opera maggiore (London 1661; poi riedita nel 1665, con vari cambiamenti e il titolo di Scepsis scientifica), approdò a una forma di «scetticismo costruttivo», che gli permise, tra l’altro, di anticipare Hume nella messa in discussione delle illazioni compiute quando si trasformano le concomitanze tra i fenomeni, colte dai sensi, in relazioni necessarie di tipo causale. Glanville era ancora rivolto a questo genere di meditazioni quando venne a conoscenza del piano di ricerche sperimentali progettato dalla Royal Society londinese, che abbracciò con entusiasmo nel Plus Ultra (London 1668) come un sicuro esempio di progresso conoscitivo e metodologico rispetto al passato. Ciò nonostante, in Sadducismus triumphatus (London 1681) si dichiarò in favore dell’esistenza degli spiriti. R. Gilardi BIBL.: R.H. POPKIN, Joseph Glanville: A Precursor of David Hume, in «Journal of the History of Ideas», 14 (1953), pp. 292-303; R.M. BURNS, The great Debate on Miracles. From Glanville to David Hume, London 1981, pp. 47 ss.; S. TALMOR, Glanville: The Uses and Abuses of Scepticism, Oxford 1981.

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GLASENAPP, HELMUTH VON. – Indologo, n. Glasenapp a Berlino l’8 sett. 1891, m. a Tubinga il 25 giu. 1963. Studiò a Tubinga e Monaco, Berlino e Bonn. Già docente di Indologia nelle università di Bonn (1918-1920), Berlino (1920-1928) e Königsberg (1928-1945), dal 1946 in poi fu professore di Indologia e Storia delle religioni a Tubinga. Fra le opere: Der Hinduismus, München 1922; Der Mainismus, Berlin 1925; Der Buddhismus in Indien und im fernen Osten, ivi 1936; Unsterblichkeit und Erlösung in den indischen Religionen, Halle 1938; Die Philosophie der Inder: eine Einführung in ihre Geschichte und ihre Lehren, Stuttgart 1949, tr. it. di B. Fracca - G. Gatti, Filosofia dell’India: introduzione alla storia e allo sviluppo del pensiero filosofico indiano, Torino 1962; Die Religionen Indiens, Stuttgart 19562, tr. it. di C. Della Casa, Le religioni dell’India, Torino 1963; Die Nichtchristlichen Religionen, Frankfurt am Main 1957, tr. it. di S. Vigezzi Martini, Le religioni non cristiane, Milano 1962; Indische Geisteswelt, Baden-Baden 1958; Die fünf Weltreligionen, Köln 1963. Profondo conoscitore e acuto interprete della spiritualità indiana, ha saputo rendere accessibili, con opere magistrali per completezza di contenuto e chiarezza e felicità di esposizione, il pensiero filosofico e religioso dell’India antica, alla cui retta e critica interpretazione ha dato un contributo veramente notevole. O. Botto BIBL.: W. NOELLE, H. von Glasenapp, Interpreter of Indian Thought, Dehli 1964.

GLISSON, FRANCIS. – Medico e filosofo inGlisson glese, n. probabilmente a Bristol nel 1598-99, m. a Londra il 14 ott. 1677. Studiò a Cambridge, ove dal 1636 fu regius professor di medicina; membro influente del Royal College of Physicians e della Royal Society, acquistò fama con i suoi lavori di fisiologia e patologia umana: De rachitide (Londini 1650), Anatomia hepatis (ivi 1654), Tractatus de ventriculo et intestinis (ivi 1677), poi raccolti in Opera medico-anatomica, Lugduni Batavorum 16911711, 3 voll. Anticartesiano, progettò un trattato di metafisica, di cui fu pubblicata solo la terza parte (Tractatus de natura substantiae energetica, seu de vita naturae ejusque tribus primis facultatibus, perceptiva, appetitiva, et motiva, Londini 1672; Philosophical Papers: Materials Related to De natura substantiae energetica, a cura di G. Giglioni, Cambridge 1986), mentre le

Globalizzazione prime due parti, la logica e l’ontologia, rimasero inedite e sono conservate alla British Library (Sloane ms 3314; Sloane mss 3313/3308). Glisson riprese il concetto aristotelico-scolastico di «sostanza» per svolgerlo più modernamente – anticipando Leibniz – in quello di forza e di energia attiva, al fine di giustificare l’attività percettiva e, per suo tramite, le facoltà dell’appetizione e del movimento. La congiunta idea dell’incomunicabilità delle sostanze (che spiegherebbe così la distinzione anima corpo) avvicina ulteriormente il pensiero di Glisson alla metafisica di Leibniz. V. Sainati - G. Micheli BIBL.: R.M. WALKER, Francis Glisson and his Capsule, in «Annals of the Royal College of Surgeons of England», 38 (1966), pp. 71-91; G. PACCHI, Cartesio in Inghilterra: da More a Boyle, Bari-Roma 1973, pp. 150-164; G. GIGLIONI, Anatomist Atheist? The «Hylozoistic» Foundation of Francis Glisson's Anatomical Research, in O.P. GRELL - A. CUNNINGHAM (a cura di), Religio medici: Medicine and Religion in 17th-Century England, Aldershot 1996, pp. 115-135.

GLOBALIZZAZIONE (globalization; GlobaliGlobalizzazione sierung; globalisation; globalización). – Condizione tipica delle società contemporanee, che sono sempre più interconnesse grazie allo sviluppo dei mezzi di comunicazione e di trasporto. Questa interdipendenza si manifesta a livello economico attraverso il consolidamento di un mercato mondiale, in ambito politico con il proliferare di organismi sopranazionali, in campo culturale con la massiccia esposizione a modelli e stili di consumo occidentali. Di globalizzazione si comincia a parlare estesamente al termine degli anni ottanta. La prima importante trattazione teorica del termine si deve ad Anthony Giddens, che nel 1990 (The Consequences of Modernity, tr. it. di M. Guani, Le conseguenze della modernità, Bologna 1994) considerava questo processo come l’esito inevitabile della modernità. L’intensa rete di relazioni politiche, economiche, sociali e culturali che lega quasi tutti i paesi del globo crea una situazione senza precedenti, in cui il mondo si configura, per la prima volta, come un unico sistema sociale. Il processo di globalizzazione, infatti, mette in crisi i confini e le combinazioni spazio-temporali che fondavano la tradizionale idea di società e di nazione. Nella modernità lo spazio e il tempo non convergono più in un luogo definito dal qui e dall’ora, ma tutte le dimensioni sembrano diventare accessibili e 4895

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Globalizzazione sovrapponibili: il lontano può diventare il vicino come il passato può confondersi con il presente e viceversa. La globalizzazione, allora, indica uno stato di «connettività complessa» (John Tomlinson) in cui le distanze fisiche sembrano diminuire perché si riduce il tempo per attraversarle e le relazioni sociali riescono a estendersi nello spazio e nel tempo in maniera quasi illimitata: i luoghi, insomma, diventano maggiormente accessibili fisicamente e virtualmente. Tuttavia tali nuove possibilità non hanno portato a un’integrazione politica né al superamento delle disuguaglianze economiche: accanto a processi uniformanti, infatti, la globalizzazione ha attivato la rinascita di particolarismi etnici locali e accentuato le sperequazioni finanziarie fra il nord e il sud del mondo. Secondo altri interpreti (come Roland Robertson), invece, la globalizzazione non è una diretta conseguenza della modernità ma affonda le sue radici in un passato più remoto, che risale addirittura alla nascita del capitalismo in Europa nel XVI e XVII secolo. Interpretazioni di questo tipo, dette «continuiste» perché non vedono nella globalizzazione una condizione totalmente nuova, tendono a porre al centro delle loro analisi soprattutto le modificazioni dei modi di produzione e le trasformazioni della natura del lavoro, mettendo in secondo piano le dimensioni politiche e culturali. Precedentemente già Immanuel Wallerstein aveva visto nel capitalismo il più importante fattore globalizzante poiché esso è stato in grado, fin dalle sue prime manifestazioni storiche, di oltrepassare i confini politici degli stati-nazione creando un’estesa rete di rapporti fra zone anche molto distanti geograficamente. Altre prospettive teoriche evidenziano maggiormente gli elementi di discontinuità nel processo storico di creazione del mercato mondiale, partendo dalle inusitate conseguenze sulla vita delle persone nei paesi sviluppati e non, dalla diffusione di nuove forme di violenza organizzata e, infine, dall’emergere del dominio incontrastato del capitale finanziario, del tutto sconosciuto in passato. Tuttavia un aspetto comune, su cui quasi tutti i ricercatori convergono, è dato dal riconoscimento della profonda ambivalenza del processo. Come osserva giustamente Anthony Giddens (The Consequences of Modernity, tr. cit., p. 71), infatti, «possiamo definire la globalizzazione come l’intensificazione di relazioni so4896

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ciali mondiali che collegano tra loro località distanti facendo sì che gli eventi locali vengano modellati dagli eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa. Si tratta di un processo dialettico perché questi eventi locali possono andare in direzione opposta alle relazioni distanziate che li modellano. [...] Il risultato non è per forza di cose una serie generalizzata di mutamenti che agiscono in una direzione univoca, bensì una serie di tendenze reciprocamente opposte». Ciò che più volte viene sottolineato è la contemporanea presenza di inclinazioni contrapposte, che a dinamiche unificanti ne affiancano altre di tipo particolaristico: parallelamente all’affermarsi di una planetarizzazione dell’economia, della finanza, del commercio e dell’informazione si impongono fenomeni fortemente radicati nella dimensione locale, fatto che ha portato Robertson a introdurre il concetto di «glocalizzazione». Tutto questo ha profonde ripercussioni anche sulla vita dei singoli individui: come afferma Zygmunt Bauman, infatti, «la complessa e stretta interconnessione dei due processi comporta che si vadano differenziando in maniera drastica le condizioni in cui vivono intere popolazioni e vari segmenti all’interno delle singole popolazioni. Ciò che appare come conquista di globalizzazione per alcuni, rappresenta una riduzione alla dimensione locale per altri; dove per alcuni la globalizzazione segnala nuove libertà, per molti altri discende come un destino non voluto e crudele» (Globalization. The Human Consequences, CambridgeOxford 1998, tr. it. di O. Pesce, Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone, Roma-Bari 1999, p. 4). Proprio questa profonda modificazione dell’esistenza quotidiana ha attratto l’attenzione degli studiosi, che hanno iniziato a tematizzare non solo gli esiti economici e politici, ma anche le conseguenze culturali della globalizzazione. George Ritzer, ad esempio, nel suo libro sulla «mcdonaldizzazione» della società (The McDonaldization of Society, Thousand Oaks 1996, tr. it. di N. Rainò, Il mondo alla McDonald’s, Bologna 1997), prende a simbolo dell’uniformazione culturale del mondo la famosa catena statunitense di ristorazione veloce. Attraverso la metafora dell’hamburger, cibo globale per eccellenza, tutto il mondo viene letto come una sorta di propaggine degli stili di vita e di consumo occidentali. Soprattutto dagli Stati Uni-

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ti, infatti, vengono riversati sul resto del globo una molteplicità di prodotti mediali che implicitamente impongono immagini, parole, valori morali, norme giuridiche, mentalità, criteri di professionalità tipici dell’occidente. Questa tesi dell’omogeneizzazione dell’esperienza culturale, pur riflettendo indubbiamente alcuni aspetti oggettivi della contemporaneità, è stata ridimensionata alla luce degli effettivi processi di fruizione e di appropriazione culturale che si sviluppano sempre a partire dai contesti e dalle culture locali. Lo scambio tra regioni culturali e regioni geografiche implica un processo di interpretazione, di trasformazione e di adattamento: la cultura ricevente fa valere dialetticamente le proprie risorse sui prodotti culturali di importazione. Questi ultimi, quindi, non vengono integrati nelle prassi sociali così come sono, ma subiscono continui processi trasformativi, finendo per assumere valenze anche molto diverse da quelle originarie. Le forme locali di appropriazione e le dinamiche interazioni fra i diversi modelli che la globalizzazione mette a disposizione danno quindi vita a fenomeni culturali di «ibridazione» (N. Garcia Canclini, Culturas hibridas, Mexico 1990, tr. it. di A. Giglia, Culture ibride, Milano 1998) e di «creolizzazione» (U. Hannerz, Transnational Connections, London 1996, tr. it. di R. Falcioni, La diversità culturale, Bologna 2001). Le culture ibride e creole, sviluppatesi inizialmente alla periferia del mondo come forme locali di reattività culturale a messaggi e significati occidentali, hanno finito per irradiarsi anche al centro del mondo, diffondendo sempre più gusti e stili di vita alternativi. In queste manifestazioni alcuni interpreti hanno visto interessanti segnali di una globalizzazione che, anziché venire imposta «dall’alto» cioè dalle macrostrutture economiche e politiche, si sviluppa «dal basso» come reazione quotidiana e popolare a processi che sembrano inarrestabili. C. Lunghi BIBL.: R. ROBERTSON, Globalization: Social Theory and Global Culture, London 1992, tr. it. di A. De Leonibus, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, Trieste 1999; U. BECK, Was ist Globalisierung?, Frankfurt am Main 1997, tr. it. di E. Cafagna e C. Sandrelli, Che cos’è la globalizzazione, Roma 1999; J. TOMLINSON, Globalization and Culture, Cambridge 1999, tr. it. di G. Bettini, Sentirsi a casa nel mondo. La cultura come bene globale, Milano 2001; C. GIACCARDI

Glockner - M. MAGATTI, La globalizzazione non è un destino, Roma-Bari 2001.

GLOCKNER, HERMANN. – N. a Fürth (BavieGlockner ra) il 23 lug. 1896, m. a Braunschweig l’11 lug. 1979. Allievo di P. Hensel e di H. Rickert, influenzato profondamente da W. Dilthey, Glockner si è rivolto dal 1920 al problema dell’estetica come teoria generale dell’intuizione. Prese la docenza nel 1924 a Heidelberg, professore dal 1933 al 1951 all’università di Giessen, quindi alla Technische Hochschule di Brunswick. Curò l’edizione dei Sämtliche Werke di G.W.F. Hegel (Stuttgart 1949-593, 20 voll.), della quale fanno parte anche una monografia su Hegel dello stesso Glockner (ivi 1964-68 2 ) e un HegelLexikon (Tübingen 19572, 4 voll.), nonché la Geschichte der neueren Philosophie (I-VII, Stuttgart 1931-34) di J.E. Erdmann. Per Glockner ogni concreta oggettività rappresenta un «insieme razionale-irrazionale». Dopo la ricerca kantiana sui limiti della ragione devono essere considerati i principi dell’irrazionale. Prima di tutto l’individualità deve essere concepita solo attraverso l’identificazione con l’oggetto nell’amore. L’accostamento all’estetica di Friedrich T. Vischer lo portò all’incontro col pensiero di Hegel. Glockner, il cui nome è legato alla Jubiläumsausgabe delle opere di Hegel, non può però essere chiamato, nonostante tutta l’ammirazione per il grande filosofo, un hegeliano. Egli rifiuta il panlogismo della dialettica del sistema a favore del pensiero vitale-«oggettivo» del giovane Hegel (e del suo «Pantragismus», come Glockner, seguendo F. Hebbel, chiama questo pensiero), il cui punto più alto Glockner vede nella lotta di Hegel contro le filosofie della riflessione negli anni 1801 e ss., fino alla Phänomenologie des Geistes (a cura di D. Kohler - O. Pöggeler, Berlin 1998, tr. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, Firenze 1996). Glockner ha sviluppato il proprio «pensiero concreto», fondato su J. Wolfgang Goethe e Hegel, in Das Abenteuer des Geistes (Tübingen 19473). La sua vasta conoscenza della storia della filosofia ha trovato una formulazione originale e compiuta nell’opera Die europäische Philosophie von den Anfängen bis zur Gegenwart (Stuttgart 1958). Sul suo pensiero filosofico in generale, e in particolare su quello estetico e sulla dipen4897

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Glogau denza da Hegel, si orientano gli ultimi volumi di Glockner. W. Kern BIBL.: Friedrich Theodor Vischers Ästhetik in ihrem Verhältnis zu Hegels Phänomenologie des Geistes, Leipzig 1920; Das philosophische Problem in Goethes Farbenlehre, Heidelberg 1924; Friedrich Theodor Vischer und das 19. Jahrhundert, Berlin 1931; Wilhelm Busch, Tübingen 1932; J. E. Erdmann, Stuttgart 1932; Heinrich von Stein, Tübingen 1934; Schiller als Philosoph, Tübingen 1942; Einführung in das Philosophieren, Berlin 1944 (Stuttgart 19513); Philosophisches Lesebuch, Stuttgart 1949-50, 2 voll.; Beiträge zum Verständnis und zur Kritik Hegels sowie zur Umgestaltung seiner Geisteswelt, «Hegel-Studien», 2 (1965); Gesammelte Schriften: 1: Gegenständlichkeit und Freiheit. Metaphysische Meditationen zur Fundamentalphilosophie; 2. Metaphysische Meditationen zur Philosophischen Anthropologie; 3: Die Ästhetische Sphäre. Studien zur systematischen Grundlegung und Ausgestaltung der philosophischen Ästhetik; 4: Kulturphilosophische Perspektiven: Studien und Charakteristiken aus der Sphäre der Individualität; 5: Fundamentalphilosophie: Charakteristiken; Philosophie des Dramas; Bonn 19631983, 5 voll. Su Glockner: Mein Beitrag zur Philosophie (con bibliografia), in «Nachrichten der Giessener Hochschulgesellschaft» (1957), pp. 75-120; Gesammelte Schriften, III, pp. 1-44 (autobiografia e bibliografia). - Rationalität, Phänomenalität, Individualität. Festgabe für Hermann und Marie Glockner, a cura di W. Ritzel, Bonn 1966 (cfr. W. RITZEL, H. Glockner. Die Genese seiner Philosophie, pp. 1-84; bibl. pp. 375-88); H. Glockner, Heidelberger Bilderbuch: Erinnerungen von H. Glockner, Bonn 1969.

GLOGAU, GUSTAV. – N. a Laukischken (PrusGlogau sia Orientale) il 6 giu. 1844, m. a Laurion durante un viaggio in Grecia il 22 mar. 1895. Fu professore di filosofia a Halle e, dal 1884, a Kiel. Egli sostenne una metafisica a sfondo teistico, in cui ritornano motivi del platonismo cristiano. Per Glogau vi è uno sviluppo storico delle capacità artistiche, morali, sociali e religiose dello spirito a partire dalla sua disposizione originaria secondo una legalità inconscia accertabile attraverso una «fenomenologia» psicologico-genetica. La metafisica è l’integrazione di tutte le conoscenze così ottenute e perviene all'intuizione intelligibile dell’essere e del divenire vero: il suo culmine è la certezza dell’esistenza di Dio, data dalla certezza del nostro stesso esistere. La metafisica non ha quindi una base intellettualistica, ma le sue 4898

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verità (la visione del mondo intelligibile del bello, del buono e del vero, che costituisce l’essenza degli spiriti creati) sono colte nel sentire emozionale della vita. F. Barone BIBL.: Steinthals psychologische Formeln, Berlin 1876; Das Wesen und die Grundlagen der heutigen Psychologie, Halle 1877; Abriss der philosophischen Grundwissenschaften, 2 voll., vol. I: Die Form und die Bewegungsgesetze des Geistes, vol. II: Das Wesen und die Grundformen des bewussten Geistes, Breslau 1880-88; Ziel und Wesen der humanistischen Bildung, Zürich 1881; Die Phantasie, Halle 1884; Grundriss der Psychologie, Breslau 1884; Die Schönheit, Kiel 1892; Die Hauptlehren der Logik und Wissenschaftslehre, Kiel 1894; H. CLASEN (a cura di), Vorlesungen über Religionsphilosophie, Kiel 1898. Su Glogau: J. ANDRICH, Gustav Glogaus Theorie über die Entwicklungsstufen des Geistes, Erlangen 1913.

GLORIA (glory; Ruhm, Herrlichkeit; gloire; gloGloria ria). – È ciò che deriva a una persona per la lode che le viene data a causa del suo intrinseco valore o dell’eccellenza delle sue azioni; ed è anche il valore stesso che la rende degna di lode (gloria in senso oggettivo). Considerata nel suo elemento formale è la conoscenza stessa di quei valori da cui conseguono onore e lode (cfr. la definizione di Tommaso [Sum. Theol., IIa-IIae, q. 103, art. I, ad 3um; IIa-IIae, q. 132] che riprende l’adagio agostiniano «Clara cum laude notitia de bono alicuius»). Gli scolastici distinguono una gloria interna, che risulta dalla conoscenza che l’essere intelligente ha della propria eccellenza, e una gloria esterna, che consiste nella manifestazione fatta ad altri delle proprie perfezioni. Riferita all’uomo, la gloria è il complesso delle doti che gli appartengono, essenziali o accidentali che siano. Gloria dell’uomo è, p. es., tanto l’anima razionale quanto la particolare cultura che egli possiede. Nella più comune accezione, il termine implica anche l’elemento formale della conoscenza di queste doti da parte di altri, molti o pochi che siano. Acquistar gloria è aspirazione propria degli spiriti superiori, e perciò della gloria e dei mezzi per ottenerla si sono occupati molti pensatori, sia nell'antichità classica, sia nell'epoca umanistica. Riferito a Dio, il termine deriva dal termine greco dei LXX dovxa e indica lo splendore divino che rappresenta la sublimità, la maestà e perfino l’essenza stessa di Dio e del suo mon-

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Glossematica

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do. Tale uso – che si discosta in parte da quello della grecità (dove dovxa ha il valore base, rispondente al suo rapporto con dokevw, di ciò che si ritiene, l’opinione) – riceve la sua impronta dall’ebraico kabôd, e pertanto sta a significare la qualità specifica della vita stessa di Dio che si manifesta agli uomini. Da questo punto di vista si capisce come l’espressione kabôd jhwh (gloria di Dio) diventi termine tecnico dell’Antico Testamento per affermare l’azione manifestativa di Dio nella storia. Tale accezione si mantiene anche nel Nuovo Testamento dove la peculiarità della manifestazione divina viene attribuita a Gesù e alla sua gloriosa opera di salvezza. Di qui si comprende come la teologia cattolica, nelle attribuzioni trinitarie, riferisca il termine soprattutto al Figlio e come essa reputi la gloria divina in sé non suscettibile di diminuzione né di aumento, ma solo di manifestazione. Tale manifestazione non è tuttavia necessaria (contro le dottrine emanazioniste), ma contingente e libera, come l’atto creativo che diffonde nelle creature la gloria del creatore. La gloria di Dio è dunque la causa finale di tutto l’universo creato: gli esseri non razionali narrano la gloria di Dio per il semplice fatto della loro conformità alle proprie leggi costitutive; gli esseri intelligenti, assecondando liberamente la legge divina e riconoscendo nelle creature la bontà del creatore: nel primo modo l’essere intelligente partecipa alla gloria oggettiva di Dio; nel secondo, alla sua gloria formale. Nella teologia sistematica si parla anche della gloria degli eletti nel cielo come di una comunicazione che Dio fa della propria gloria a chi nella sua esistenza temporale ha espresso in sé le perfezioni divine. Infatti, se il Nuovo Testamento parla della partecipazione escatologica del fedele alla gloria, ciò rientra nel principio generale della storia della salvezza, per il quale vi è un nesso causale e un parallelismo fra risurrezione di Cristo e risurrezione dei fedeli. Partecipare alla gloria, qui alla speranza e là al compiersi, significa quindi aver parte al destino stesso di Cristo. E. Balducci - N. Reali BIBL.: J. SCHNEIDER, Doxa. Eine bedeutungsgeschichtliche Studie, Gütersloh 1932; A.J. VERMENLEN, The Semantic Development of «Gloria» in Early-Christian Latin, Nimega 1956; H.U. VON BALTHASAR, Herrlichkeit: eine theologische Ästhetik, Einsiedeln 1961-1969, 3 voll., tr. it. di G. Ruggieri et al., Gloria. Un’estetica teologica, Milano 1975-1980, 7 voll.; A. VON MÜLLER, Gloria bona fama bonorum. Studien zur Bedeutung des Ruhmes in

der frühchristlichen und mittelalterlichen Welt, Hamburg 1977; R. HÖPS, Das Gefühl des Erhabenen und die Herrlichkeit Gottes, Würzburg 1989. ➨ FAMA.

GLOSSEMATICA (glossematics; Glossematik; Glossematica glossématique; glosemática). – Termine (derivato dal greco glw''ssa, lingua, con l’aggiunta del suffisso -ema, tipico della linguistica strutturale) mediante il quale il linguista danese L. Hjelmslev indicava la teoria linguistica, da lui elaborata a partire dagli anni trenta del Novecento, dapprima insieme a H.-J. Uldall, poi, a causa della separazione fisica dei due studiosi dovuta alle vicende della seconda guerra mondiale, da ciascuno di essi separatamente. La formulazione più organica della glossematica da parte di Hjelmslev si trova in Omkring sprogteoriens grundlæggelse (København 1943, tr. it. I fondamenti della teoria del linguaggio, Torino 1968), quella da parte di Uldall, in Outline of Glossematics, København 19672. Comune tanto a Hjelmslev quanto a Uldall è una concezione rigorosamente formale della teoria linguistica, evidentemente ispirata dall’impostazione neo-positivistica degli anni trenta: non esiste opposizione tra «scienze della natura» e «scienze dello spirito», l’unica differenza tra i due tipi di scienze essendo costituita dal fatto che le prime operano con funzioni «quantitative», le seconde con funzioni «qualitative». La glossematica, soprattutto nelle intenzioni di Uldall, avrebbe dovuto rappresentare un modello non solo per la linguistica, ma per le scienze umane in generale. Uno degli assunti fondamentali della glossematica è che le unità linguistiche devono essere definite in termini «formali» e non «sostanziali»; in questo modo viene portata alle estreme conseguenze l’affermazione di F. de Saussure secondo cui «la lingua è una forma, non una sostanza». Questo significa che le unità linguistiche non devono essere definite in termini fisiologici o acustici, se fanno parte del «piano dell’espressione», oppure in termini concettuali o ontologici, se fanno parte del «piano del contenuto»: la loro natura formale è indicata unicamente dalle opposizioni che le unità di ciascuno dei due piani impongono all’altro. Questo è il senso della cosiddetta «prova di commutazione»: sul piano dell’espressione, la nasale velare e la nasale dentale sono due unità distinte («invarianti») in inglese, in quanto oppongono due significa4899

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Glossner

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ti (p. es., thing «cosa» e thin «sottile»), mentre non lo sono (sono cioè «varianti») in italiano (in vanga la nasale è velare, mentre in vana è dentale, ma i due significati si oppongono perché nella prima parola ci sono cinque elementi, e nella seconda quattro). Sul piano del contenuto, bosco e legname sono due «invarianti» in italiano, ma sono due «varianti» in inglese, essendo entrambe espresse da wood. Viceversa, alle due «invarianti» inglesi fingers e toes corrisponde l’unica «variante» italiana dita. Quindi, la commutazione di due invarianti sul piano dell’espressione produce una differenza su quello del contenuto; e quella sul piano del contenuto, una differenza sul piano dell’espressione. L’idea che le unità linguistiche debbano essere definite in termini puramente differenziali e oppositivi, senza alcun aggancio alla «sostanza», portò Hjelmslev a definire la sua concezione della teoria linguistica come «un’algebra della lingua, operante con entità non nominate, cioè con entità arbitrariamente nominate, che riceverebbero una designazione motivata solo nell’esser poste a confronto con la sostanza» (Omkring, tr. it. cit., pp. 85-86). Alla costruzione formale di tale «algebra della lingua», rimasta in Hjelmslev più che altro allo stadio di metafora, si accinse Uldall nella parte II di Outline, presentando un sistema sostanzialmente equivalente ad un’algebra di Boole. Tale formalizzazione, tuttavia, non fu mai accettata da Hjelmslev. G. Graffi BIBL.: B. SIERTSEMA, A Study of Glossematics, Den Haag 19652; G. GRAFFI, Struttura, forma e sostanza in Hjelmslev, Bologna 1974; G.C. LEPSCHY, La linguistica strutturale, Torino 19902, cap. IV.

GLOSSNER, MICHAEL. – Tomista, n. a NeuGlossner mark (Baviera) nel 1837, m. a Monaco nel 1909. Studiò teologia e filosofia a Eichstadt; insegnò nei seminari di Saratov, Ratisbona e Monaco. Ha pubblicato: Die Lehre des heiligen Thomas vom Wesen der göttlichen Gnade, Mainz 1871; Lehrbuch der katholischen Dogmatik, Regensburg 1874, 2 voll.; Das Prinzip der Individualisation nach der Lehre des heiligen Thomas, Paderborn 1887; Savonarola als Apologet und Philosoph, Frankfurt am Main 1898. Quest’ultima è l’opera sua più notevole. Glossner fu fra i primi e più intransigenti neotomisti della seconda metà dell’Ottocento. A. Cardin

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GLUCKSMANN, ANDRÉ. – N. a BoulogneGlucksmann Billancourt il 19 giu. 1937, ebreo di famiglia austriaca. Partecipa al maggio parigino del Sessantotto e pubblica Discours de la guerre (Paris 1967, tr. it. di G. d’Avino, Il discorso della guerra, Milano 1969) e 1968: stratégie et révolution en France (ivi 1968). La cuisinière et le mangeur d’hommes (ivi 1975, tr. it. di S. Contri, La cuoca e il mangia-uomini, Milano 1977), dove sostiene che tra lager nazisti e campi sovietici esiste «un confronto tra orrori», lo consacra come uno dei maggiori rappresentanti dei «nouveaux philosophes». In Les maîtres penseurs (ivi 1977, tr. it. di E. Klersy Imberciadori A. Bressan, I padroni del pensiero, Milano 19783), sostiene che il potere trova la sua legittimità non solo nei fucili, ma anche nei testi di Fichte, Hegel, Marx e Nietzsche, che conferiscono «la patente di nobiltà filosofico-scientifica alla moderna pratica del potere». Negli anni ottanta Glucksmann sostiene Solidarnošc in Polonia e la Carta 77 a Praga, e partecipa alla caduta del muro di Berlino. Sono di questi anni i saggi: Cynisme et Passion (ivi 1981); La Force du Vertige (ivi 1983, tr. it. di A. Serra, La forza della vertigine, Milano 1984); La Bêtise (ivi 1985, tr. it.di A. Serra, La stupidità, Milano 1985); Silence, On Tue (con Thierry Wolton, ivi 1986, tr. it. di A. Marini, Silenzio, si uccide, Milano 1987); Descartes c’est la France, (ivi 1987); Sortir du Communisme c’est rentrer dans l’histoire (ivi 1989). Negli anni novanta: Le XI ème Commandement (ivi 1991, tr. it. di A. Serra L’undicesimo comandamento, Milano 1992); De Gaulle où es-tu? (ivi 1995); Le bien et le mal: lettres immorales d’Allemagne et de France, (ivi 1997, tr. it. Il bene e il male: colloquio di Francesca Pierantozzi con Andre Glucksmann, Firenze 1999). La questione della violenza si precisa in Penser la violence (ivi 2002) come questione del «male» quale fondamento della guerra. Insieme a Camus, Solzenizyn e Diesel, Glucksmann si propone come un critico del mondo contemporaneo, inserendo il problema del «male» all’origine delle tragedie del tempo. Riprende la questione del «nichilismo» per lanciare un grido a Dio e, in Dostoevskij a Manhattan (ivi 2002, tr. it. di P. Del Re - N. Tiliacos, Dostoevskij a Manhattan, Firenze 2002), partendo dall’attacco alle Twin Towers, la porta in primo piano. La componente religiosa appare manifesta in La troisième mort de Dieu (ivi 2000), dove sostiene che, dopo il Golgota, Dio è stato ucciso

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Gnoseologia

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dalle ideologie di Marx e Nietzsche, e dall’indifferenza religiosa dell’odierna civiltà europea, perché è la prima volta che un’intera civiltà vive senza fare riferimento a Dio. In Ouest Contre Ouest (ivi 2003), emerge la forte ispirazione levinasiana, che vede nel «Tu non ucciderai» il supremo imperativo dell’etica. «I diritti dell’uomo – egli scrive – misurano la nostra capacità di resistere all’inumano, al male che ci è di fronte come al diavolo che è in noi». G. Mura BIBL.: F. AUBRAL- X. DELCOURT, Contro i nuovi filosofi, Milano 1978; D. BIGELLI (a cura di), Filosofi senza contratto: i nouveaux philosophes, Bologna 1978; E. BOTTO - F. BOTTURI - M. LENOCI, In rivolta contro i maestri-padroni: i "Nouveaux philosophes", Milano 1978; S. BOUSCASSE - D. BOURGEOIS, Faut-il brûler les nouveaux philosophes? Le dossier du «procès», Paris 1978; R. GUARINI - G. SALVINI (a cura di), Tra il principe e le masse. Il dibattito italiano sui "nuovi filosofi", Bologna 1978; G. MURA - A. PIERETTI - U. GALEAZZI, I «Nuovi Filosofi» la coscienza infelice del nostro tempo, Roma 1978; J.-M. DOMENACH, Enquête sur les idées contemporaines, Paris 1981; R. PISTORIO TORCHIA, Critica ideologica e religiosità etica nei nuovi filosofi, Acireale 1986; J.-M. DOMENACH, À temps et à contretemps, Paris 1991; J.-M. DOMENACH, Le crépuscule de la culture française?, Paris 1995.

GMEINER, FRANZ XAVIER. – N. a Studenitz Gmeiner (Stiria) il 6 genn. 1752, m. a Graz il 27 febbr. 1824. Studiò a Marburgo e a Graz, e subì l’influenza del wolffiano Karl von Martini. Sacerdote, coltivò studi filosofici, giuridici e teologici; fu docente di storia della Chiesa al liceo di Graz (Epitome historiae ecclesiasticae Novi Testamenti, Graecii 1803, 2 voll.) e direttore degli studi filosofici in Austria. Seguace del riformismo di Giuseppe II, ne sostenne l’opera di rinnovamento in campo universitario (ove prevaleva ancora la tradizione scolastica), polemizzando con i gesuiti e accogliendo l’Illuminismo: «Oggi viviamo in tempi felici dove le tenebre sono dissipate, dove si rende accessibile alla gioventù tutto il bello di tutte le lingue e letterature» (Eingangsrede über die Lehre der Litteraturgeschichte, Graz 1775, p. 8). Si interessò anche alla storia della filosofia: Litterärgeschichte des Ursprungs und des Fortgangs der Philosophie, wie auch aller philosophischen Sekten und Systemen, ivi 1788-89, 2 voll., ove si rifà a Brucker, senza però distinguere tra historia litteraria e historia philosophica. I.F. Baldo

BIBL.: A. POSCH, Die kirchliche Aufklärung in Graz und an der Grazer Hochschule, Graz 1937, pp. 152-184; W. Österreichische Philosophie zwischen SAUER, Aufklärung und Restauration, Amsterdam 1982, pp. 26-31 e 39; I.F. BALDO, Franz Xavier Gmeiner, in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. III: Il secondo illuminismo e l’età kantiana, Padova 1988, pp. 661-670; M. BENEDIKT - W. BAUM - R. KNOLL (a cura di), Verdrängter Humanismus – verzögerte Aufklärung. Österreichische Philosophie zur Zeit der Revolution und Restauration (1750-1820), Wien 1992, passim.

GNEIST, RUDOLF VON. – N. a Berlino il 13 ag. Gneist 1816 e morto ivi il 22 lug. 1895, allievo di Savigny, deputato alla Paulskirche, magistrato. È noto per le opere sullo stato di diritto e sulla giustizia amministrativa. Attraverso Gneist ritorna la tematica del rapporto tra stato e società, già affrontata da Lorenz von Stein. Gneist crede di poter giungere a una conciliazione di stato e società attraverso la Selbstverwaltung: le comunità hanno il compito di omogeneizzare gli interessi sociali appianando i conflitti, e ciò è possibile grazie all’esistenza di un vincolo politico locale. Si può considerare questo come un precorrimento della problematica delle formazioni sociali intermedie e dello stesso principio di sussidiarietà. I. Trujillo BIBL.: Adel und Ritterschaft in England, Berlin 1853; Das heutige englische Verfassungs- und Verwaltungsrecht, Berlin 1857, 1860; Verwaltung, Justiz, Rechtsweg. Staatsverwaltung und Selbstverwaltung nach englischen und deutschen Verhältnissen mit besonderer Rücksichtigung auf Verwaltungsreform und KreisOrdnungen in Preussen, Berlin 1869; Der Rechtstaat und die Verwaltungsgerichte in Deutschland, Berlin 1872; Englische Verfassungsgeschichte, Berlin 1882. In tr. it. di C. Forte, Legge e bilancio, Milano 1997. Su Gneist: AA.VV., Festgabe für Rudolf von Gneist, rist. anastatica Aalen 1974; E.J. HAHN, Rudolf von Gneist: 1816-1895: ein politischer Jurist in der Bismarckzeit, Frankfurt am Main 1995; D. ESSER, Gneist als Zivilrechtslehrer, Paderborn 2003.

GNOSEOLOGIA (dal gr. gnw'si", «conoscenGnoseologia za» - epistemology [raro gnoseology]; Erkenntnislehre, Erkenntnistheorie; gnoséologie, théorie de la connaissance [più frequente], épistémologie; gnoseología, teoría del conocimiento). – Il termine gnoseologia è usato nella filosofia italiana contemporanea con frequenza press'a poco pari a quella del suo sinonimo teoria della cono4901

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Gnoseologia scenza ed in sostituzione dell'antiquato «ideologia». In un senso più generico esso si estende a tutto il complesso delle ricerche intorno ai problemi della conoscenza, comprendendovi sia l'indagine genetica dei processi psichici del conoscere (psicologia della conoscenza), sia l'analisi delle sue strutture formali (logica della conoscenza), sia infine la definizione dell'essenza stessa del conoscere in rapporto ad un concetto generale della realtà (metafisica della conoscenza). In un senso più ristretto esso denota quella disciplina filosofica che ha per oggetto le condizioni di validità delle nostre conoscenze, la possibilità e i limiti dei mezzi di cui disponiamo per conoscere ciò che è, in qualunque modo esso sia, reale o ideale, esistente o possibile (critica della conoscenza). Ma per varie ragioni che verremo via via esponendo, questa accezione «critica» della gnoseologia è una delle questioni più controverse della filosofia contemporanea, dov'è in atto un tentativo di revisione radicale dei termini tradizionali della problematica gnoseologica, fino a negare, in talune posizioni avanzate, la stessa legittimità della gnoseologia come scienza filosofica. SOMMARIO: I. La gnoseologia come disciplina filosofica moderna e i presupposti del suo problema da Cartesio a Leibniz. - II. L'autonomia metodologica della gnoseologia da Hobbes a Hume. - III. Kant e la teoria della conoscenza come analisi della coscienza trascendentale e dei suoi limiti nella condizione umana del conoscere. - IV. La gnoseologia come metodologia della conoscenza assoluta nella filosofia postkantiana. - V. La critica hegeliana del criticismo e il problema del nesso di fenomenologia e logica. - VI. L'implicanza reciproca della «critica della conoscenza» e della «metafisica della conoscenza» nelle grandi correnti metafisiche dell'Ottocento: della vita, dell'essere e del pensiero. - VII. La risoluzione della gnoseologia nella psicologia e nella logica da Fries alla Scuola di Marburgo. - VIII. La critica degli pseudo-concetti della coscienza e la «riduzione fenomenologica» di Husserl. - IX. I limiti della riduzione fenomenologica e le nuove ricerche gnoseologiche: 1. La risoluzione della gnoseologia nel comportamentismo ad opera del naturalismo scientifico. - 2. La regressione critica dal pensiero al linguaggio nel neopositivismo e nella «filosofia analitica». - 3. L'esistenzialismo e la risoluzione della gnoseologia nella «ontologia semantica». 4902

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I. LA GNOSEOLOGIA COME DISCIPLINA FILOSOFICA MODERNA E I PRESUPPOSTI DEL SUO PROBLEMA DA CARTESIO A LEIBNIZ. – L'idea di un oggetto proprio e di un'autonomia di metodo della gnoseologia si è venuto elaborando, com'è noto, nel secolo e mezzo che intercorre tra Cartesio e Kant. Essa era nata su un presupposto che si doveva manifestare in seguito come la principale ragione delle sue interne aporie. In termini un poco sommari potremmo dire che tale presupposto era costituito dalla riduzione del conoscere ad un repertorio di «cognizioni» o «nozioni» o «idee», ad una congeries of perceptions, come dice Berkeley (Commonplace Book, in Works of Berkeley, ed. A. Campbell Fraser, n. ed., Oxford 1901, I, p. 27 ss.), di cui la nuova scienza filosofica aveva il compito di fare il catalogo ed il bilancio critico. La novità o modernità del problema gnoseologico stava nella considerazione di un aspetto «interno» o «mentale» o «psichico» del conoscere e nell'isolamento di esso dal suo termine «esterno» o reale, il mondo, il quale pertanto poteva essere affermato solamente per una specie di inferenza da esso. Anche la filosofia classica, senza dubbio, ha conosciuto questa distinzione e si è posta conseguentemente il problema dell'«adaequatio intellectus et rei», ma il punto in cui questo problema differisce sostanzialmente da quello della gnoseologia moderna sta nell'assunzione della «res» o dell'essere come oggetto primo ed immediato della conoscenza e quindi come misura della disposizione o capacità dell'«intellectus» alla conoscenza vera. La gnoseologia, in senso moderno, è nata dal rovesciamento di questa prospettiva nell'affermazione che la mente stessa, con i suoi «contenuti» e le sue «operazioni», è l'oggetto diretto della nostra conoscenza, quello che noi abbiamo immediatamente «sotto mano» e sulla certezza e validità del quale ci sarà possibile fondare l'edificio del nostro sapere. È avvenuto come se lo spettacolo del mondo reale che è il patrimonio di tutti e il campo dove si articolano i movimenti delle cose e i comportamenti della vita, avesse mutato segno, ponendosi sotto l’indice del «mio pensiero del mondo» e trasformandosi in un contesto di «rappresentazioni» della coscienza, diventando uno spettacolo interno e privato. Tutte le difficoltà della gnoseologia sono nate da questa specie di reduplicazione interna del mondo reale, che soltanto dopo un lungo travaglio, durato da Cartesio fino ai nostri giorni, doveva

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palesarsi come un falso miraggio, o piuttosto come la prospettiva ancora naturalistica di quella tematizzazione della «coscienza» che costituisce certamente il senso più profondo della filosofia moderna. Da questo punto di vista, che dovrà apparire chiaro via via che procederemo nella rassegna delle principali posizioni gnoseologiche moderne, la gnoseologia si presenta come la progressiva conquista, dal Cogito di Cartesio alla epoché fenomenologica di Husserl, del concetto della «coscienza pura» o «intenzionale». E questo, attraverso l’eliminazione critica di quell'equivoco iniziale e, per conseguenza, con l’abolizione alla fine della gnoseologia intesa come disciplina filosofica autonoma. L'equivoco, che potremmo chiamare dello «spettacolo interno», era certamente presente in Cartesio nell’impostazione generale del suo problema critico, quando egli si propose di «applicarsi seriamente e con libertà a distruggere in generale tutte le sue precedenti opinioni» (Méditations, I). A questo scopo la pregiudiziale di metodo doveva porsi – egli osservava – «in un’unica questione», quella per cui, prima di accingersi alla conoscenza delle cose, bisogna «aver ricercato diligentemente di quali cognizioni l’umana ragione sia capace» (Regulae ad directionem ingenii, VIII). Poiché la conoscenza si compone, in maniera sommativa, di singole idee raccolte nel cielo della coscienza, è possibile e necessario vagliare quali di queste resistano al tentativo di porle in dubbio. Il problema critico si vincola nella condizione della immediata afferrabilità di questi «contenuti» della mente. «Se ci poniamo il compito di vagliare tutte le verità che la ragione umana può conoscere, cosa che deve fare una volta nella vita chi vuol giungere alla vera conoscenza, troveremo che niente può essere conosciuto prima dell'intelletto stesso, poiché da esso dipende la conoscenza di tutto il resto e non viceversa» (ibid.). Vagliare, distruggere: in analogia con i procedimenti «riduttivi» dell’analisi algebrica, nasce con Cartesio quel progetto di un «esperimento intellettuale», sopra le idee, che avrà una notevole importanza negli sviluppi futuri della gnoseologia (cfr.: R. Lefebvre, Le doute cartésien, épreuve des objets de pensée, e Le Cogito, activité irréductible du sujet, in “Revue d'histoire de la philosophie», 1931, 1932). Tuttavia egli non giunse ancora al concetto di questa come scienza filosofica a sé stante, perché la sua stessa scoperta dell’indu-

Gnoseologia bitabilità del Cogito fu circoscritta dentro i limiti di una cognizione esemplare, la quale è garante soltanto di se medesima nella misura e nell’istante in cui è effettivamente pensata («è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio e la concepisco nel mio spirito»: Médit., I), così da lasciare aperto il problema di una garanzia non più gnoseologica, ma metafisica del «sistema» o della stessa totalità dei contenuti della coscienza. Sul modello del Cogito si potevano ritenere incontrovertibili le verità evidenti («così chiare e insieme così semplici, che ci è impossibile pensare ad esse, senza ritenerle vere»: II Réponses: in Oeuvres, ed. Adam-Tannery, Paris 1897-1909, IX, p. 114), ma la loro certezza si esauriva nell’istantaneità del loro essere pensate. Come continuare a ritenerle vere anche nel passato, quando non sono più oggetto attuale della «cogitatio» e tuttavia restano come premesse necessarie di quelle articolazioni e di quelle conclusioni in cui consiste la scienza? La zona del non attualmente pensato è quella su cui poteva esercitare la sua forza corrosiva l’ipotesi del «malin génie». L'interferenza dell'idea di istante trasformava il problema gnoseologico in problema teologico. E Cartesio ne trovava infatti una soluzione, riproponendo l’«argomento ontologico», andando alla ricerca di quell'idea che, quando è pensata, implica necessariamente l'esistenza del proprio oggetto, e questo oggetto (Dio perfetto e verace) è tale che garantisce in forma atemporale, una volta per sempre, la validità di tutte le nostre certezze ordinate a sistema (E. Gilson, Études sur le rôle de la pensée médiévale dans la formation du système cartésien, Paris 1930, pp. 234-244; J. Wahl, Du rôle de l'idée d'instant dans la philosophie de Descartes, ivi 19532). Così la gnoseologia si articolava, o piuttosto si confondeva nel suo stesso nascere, nel suo uscire dall’ovvietà del Cogito, con la metafisica. Tale risoluzione impedì al razionalismo dell’età cartesiana di definire un'autonomia del gnoseologico, per quanto avanzati siano stati in questo senso i tentativi, p. es., di Leibniz. Questi si era proposto di trovare il «punto di Archimede», su cui fondare gli elementi del sapere umano, e, oltrepassando l'ambito psicologico dell’autocoscienza, lo collocava «in ipsa generali natura veritatum», cioè nella stessa struttura originaria ed universale del sapere obiettivo (Opuscules et fragments inédits, ed. di L. Couturat, Parigi 1903, p. 401; ripr., Hil4903

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Gnoseologia desheim 1961). L'indagine critica si qualificava come una pura analisi dei contenuti della conoscenza e dei loro caratteri ed esigenze comuni, sganciandosi, come pareva, da qualunque presupposto e ponendosi come una specie di «filosofia prima» da cui ogni altra ricerca filosofica sarebbe dovuta partire. In realtà, il programma doveva apparire subito irrealizzabile in questa ambizione d'autonomia. Si sa quanto è stata ed è tuttora controversa tra gli interpreti di Leibniz la questione dei rapporti tra logica e metafisica. Ma è certo che egli ha segnato fin dall’inizio l’ineliminabile vincolo metafisico della sua ricerca logico-gnoseologica, identificando gli elementi assolutamente semplici, verso i quali tende l'analisi, cioè i concetti primi, con gli stessi assoluti attributi di Dio, considerati come cause prime e ragione ultima delle cose, e come tali di fatto inattingibili dalla mente umana (cfr. Die philosophische Schriften, ed. Gerhardt, IV, p. 425). Questo coerente sviluppo della dottrina cartesiana delle «naturae purae et simplices» (su cui cfr. J.-M. Le Blond, Les natures simples chez Descartes, in «Archive de Philosophie», 1938, pp. 163-180) riportava nel cuore stesso del problema della conoscenza l’idea teologica, sempre meno carica, naturalmente, della densità delle sue accezioni religiose ed identificantesi, infine, con l’idea dell’assoluta unità ed eternità della scienza. In questo senso, bisogna riconoscere che proprio quella interferenza metafisica che impediva l’autonomia metodologica della gnoseologia, prospettava una via di superamento del presupposto naturalistico della conoscenza come repertorio di «rappresentazioni» o «idee». Rivolti all’impossibile soluzione di un problema mal posto, i razionalisti del sec. XVII hanno tuttavia raggiunto il concetto puro del sapere o della teoreticità, cioè quell’ideale della Ragione, che doveva costituire una delle polarizzazioni fondamentali della cultura moderna e in particolare della teoria moderna della conoscenza. Le idee di «unità», di «sistema» e di una contemplatività «sub specie aeternitatis» erano indicative di un'assai più profonda comprensione del fatto conoscitivo, che non fosse quella di un'interna reduplicazione del mondo delle cose. II. L'AUTONOMIA METODOLOGICA DELLA GNOSEOLOGIA DA HOBBES A HUME. – Verso una più precisa definizione dell'autonomia metodologica della gnoseologia si avvia invece l'empirismo ingle4904

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se. Già Hobbes aveva ripreso da Cartesio il progetto di un esperimento sopra le idee, partendo dall'ipotesi di una totale «sublatio rerum externarum», per poter cogliere le rappresentazioni di esse nella mente, nel loro processo genetico (De corpore, I, I). L'indagine ricostruttiva delle nostre conoscenze appariva come la premessa necessaria per ogni giudizio critico sopra la realtà. Bisognava risolvere e ricomporre ogni rappresentazione, così come si ricompone il fenomeno nell'esperimento del fisico, badando ai fattori che lo costituiscono e alle operazioni che occorrono perché risulti da essi. Tuttavia Hobbes non restò fedele alla sua epoché iniziale, all'ipotesi dell'annientamento del mondo fisico; o forse più precisamente, fu la sua stessa trascrizione gnoseologica dello sperimentalismo fisico a condurlo in una involuzione materialistica. Su questa via Hobbes non è seguito da Locke, il quale dichiara espressamente di volersi attenere ad un metodo «narrativo» («in historical plain method») dei fenomeni conoscitivi, della loro genesi logica, della loro struttura ideale, indipendentemente da ogni ricerca intorno al loro condizionamento fisiologico o fondamento metafisico (An Essay Concerning Human Understanding, Introduzione, § 2, tr. it. a cura di M. e N. Abbagnano, Saggio sull’intelletto umano, Torino 1971, pp. 61-62; cfr. le osservazioni di E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, tr. it. della IV ed., di A. Pasquinelli, Storia della filosofia moderna, Milano 1968, II, pp. 263 ss.). L'ambito proprio della ricerca gnoseologica è dunque per la prima volta definito con sufficiente precisione. L'ipotesi hobbesiana della soppressione del mondo fisico viene ulteriormente radicalizzata nella supposizione «che lo spirito sia per così dire un foglio bianco, privo di ogni carattere, senza alcuna idea» (Essay, l. II, c. 1 § 2; tr. cit., p. 131). La sospensione del giudizio deve investire pertanto non solo l'esistenza delle cose esterne, ma anche qualunque presunta innatezza o apriorità delle idee, così da lasciar libero il campo al tentativo di ricostruire il sapere, partendo di volta in volta dai genuini contenuti dell'esperire. La determinazione della gnoseologia come scienza filosofica speciale, dalla quale saranno condizionati tutti gli ulteriori procedimenti della metafisica, ha inizio da questo concetto dell'esperienza pura, svincolata da ogni nesso col reale e da ogni predisposizione innatistica,

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e considerata come il contesto delle rappresentazioni soggettive offerteci dai sensi e dalla riflessione. L'intento da cui la nuova scienza è promossa, è di natura insieme schiettamente semantica e critica: per «ottenere e fissare nei nostri spiriti idee chiare, distinte e complete» (Essay, l. IV, cap. 12, § 6; tr. cit., p. 734) e per indurre «lo spirito affaccendato dell’uomo ad essere più cauto nell’immischiarsi di cose che superano la sua comprensione» (Introduzione, § 4; tr. cit., pp. 62-63). Ma la nuova impostazione metodologica, anziché rispondere efficacemente a questo proposito, finiva con l'oscurarsi dentro gravi difficoltà. Il bilancio critico-semantico del nostro patrimonio d'idee conduceva Locke a riconoscere come valide per se stesse soltanto le nostre percezioni elementari o, come egli le chiama, le nostre «idee semplici», tali che l'intelletto «non può rifiutarle, né alterarle una volta che sono impresse, né cancellarle e fabbricarne di nuove, più di quanto uno specchio possa rifiutare, alterare o obliterare le immagini o le idee che gli oggetti posti davanti ad esso producono» (Essay, l. II, cap. 1, § 25; tr. cit., p. 148). La validità delle «idee semplici» – per cui esse non sono un mondo di chimere o di sogni – sta nel loro immediato riferirsi alla realtà. Ma com'è possibile stabilire o riconoscere questo riferimento? «Come farà lo spirito, che percepisce solo le sue idee, a conoscere che esse concordano con le cose stesse?» (Essay, l. IV, cap. 4, § 3; tr. cit., p. 647). È il famoso problema – peraltro già presente in Cartesio – del «passaggio» tra il mondo delle rappresentazioni e il mondo reale. La gnoseologia non è nata propriamente da esso, ma piuttosto essa stessa l'ha fatto sorgere in un momento cruciale della sua impasse metodologica. Si sa che Locke lo risolveva in maniera piuttosto sbrigativa, ritenendo che «le nostre idee semplici sono tutte reali, concordano tutte con la realtà delle cose» (Essay, I. II, cap. 30, § 2; tr. cit., p. 435), perché «devono necessariamente essere il prodotto di cose che agiscono sullo spirito in modo naturale, producendo in esso le percezioni che dalla saggezza e dalla volontà del Creatore sono ordinate e adattate alle cose stesse» (Essay , l. IV, cap. 4, § 4; tr. cit., p. 647). Il «passaggio» era ottenuto al prezzo della rinuncia a quella ipotesi di lavoro su cui si reggeva e da cui doveva essere guidata, secondo Locke, la gnoseologia. Questa difficoltà fu di fatto sentita con maggiore serietà da Berkeley

Gnoseologia e da Hume, dentro la medesima prospettiva empiristica dell'indagine gnoseologica. La stessa pretesa di fondare e commisurare la verità delle nostre rappresentazioni nella loro conformità con qualcosa che è, per definizione, irrappresentabile, finisce, secondo Berkeley, col distruggere ogni valore della conoscenza, ogni possibilità di giudizi certi e controllabili. «La supposizione che le cose sono distinte dalle idee elimina ogni verità oggettiva e di conseguenza porta ad uno scetticismo universale, poiché in tal caso tutta la nostra conoscenza e la nostra contemplazione sono limitate unicamente alle nostre idee» (Commonplace Book, ed. cit., I, p. 30; cfr. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem, cit., II, pp. 333 ss.). Con un'intuizione geniale, Berkeley sposta quell'insolubile problema sul piano dove poteva acquistare un significato reale: cioè dal piano naturalistico di un presupposto dualismo tra rappresentazioni e realtà a quello semantico delle diverse accezioni della stessa nozione di «realtà» o «esistenza». In altri termini, non si tratta di negare le cose del mondo sensibile, giacché le idee che sono in noi non compaiono né scompaiono in modo arbitrario, ma rivelano sempre un’unica determinatezza oggettiva. Si tratta dunque non di negare l’esistenza di ciò che appare, bensì di chiarire il significato che, nell’ambito della nostra esperienza, attribuiamo al concetto di esistenza. L'ambito del puro esperire, secondo il Berkeley, deve diventare il banco di prova della pensabilità dei presunti significati delle parole usate dai filosofi. Lo pseudo-problema del «passaggio» dalle rappresentazioni alla realtà era eliminato alla radice. Il problema della conoscenza si poneva come quello di un vaglio interno dell'effettiva e non equivoca significatività delle nostre parole e delle nostre affermazioni. Il progetto cartesiano del «dubbio metodico» si circoscriveva dentro confini precisi e legittimi. Ma Berkeley non si è accorto che, abolito lo pseudoconcetto della «cosa in se stessa», cadeva anche quello della natura psichica o mentale delle «idee», quello delle «qualità sensibili» come contenuti di coscienza. Di fatto, risolvendo l'esse nel percipi, egli sostituisce a una metafisica della «res absoluta» una metafisica del «phaenomenon», che sarà il punto di partenza per la costruzione di una metafisica della «mens» o degli atti spirituali che creano e connettono in rapporti costanti quelle «cose perfettamente 4905

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Gnoseologia inerti» che sono le nostre idee (cfr. Dialogues, III). Mantenendo intatto, per un residuo d'inerzia dogmatica, lo statuto metafisico delle «idee» come «stati soggettivi», che era il correlato dell'«in sé», l'avviamento logico-semantico della sua gnoseologia si porrà in un contrasto sempre più forte con la tendenza ad integrare e fondare teologicamente quel «giuoco d'ombre» e quei «fuggevoli fantasmi» che costituiscono il mondo delle qualità sensibili (cfr. Siris: a Chain of Philosophical Reflections and Inquiries concerning the Virtues of TarWater, § 294). Ancora una volta dunque il metodo della gnoseologia si vincolerà dentro le aporie del presupposto cartesiano e lockiano della mente come repertorio d'idee, della coscienza come «congeries of perceptions». Il peso della incongruenza di Berkeley graverà come uno stimolo critico sulla teoria della conoscenza di Hume. Applicando agli ultimi sviluppi idealistico-platonici della filosofia berkeleyana i medesimi canoni della critica semantica che essa aveva scoperti ai suoi inizi, egli avrà buon gioco nel dimostrare la loro patente trasgressione. La mediazione dalla metafisica dell'«esse est percipi» alla metafisica della «Mens infinita» era costituita per Berkeley dall'idea della regolarità o dell’«ordine fissato dalla natura» nella connessione delle nostre percezioni reali (così da distinguerle dalle «visioni irregolari della fantasia»). Ora proprio il carattere di questo preteso nesso obiettivo tra i fenomeni costituisce per Hume il problema centrale della gnoseologia: «può ben meritare il nostro interesse la ricerca intorno alla natura di quell’evidenza, che ci rende sicuri di una qualsiasi realtà esistente e di un qualsiasi dato di fatto, al di là della presente testimonianza dei sensi o dei ricordi della memoria. Questa parte della filosofia, lo si deve riconoscere, è stata poco coltivata sia dagli antichi sia dai moderni...» (An Enquiry Concerning Human Understanding, London 1751 ss., IV, 21, tr. it. di R. Gilardi, Ricerche sull'intelletto umano, Milano 1980, p. 165). La difficoltà, in ciò, nasceva direttamente dalla riduzione fenomenistica delle «matters of fact», cioè dal concetto della natura puramente psichica dei contenuti esistenziali delle rappresentazioni. Anzitutto, ogni connessione, per avere un significato reale, deve essere essa stessa l'oggetto di un'impressione immediata o entrare a far parte come elemento costitutivo di un oggetto di esperienza diretta. Quando poi questa condizione 4906

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si realizza – come avviene, secondo Hume, nella percezione dello spazio e del tempo (cfr. Treatise of Human Nature, London 1739 ss., III, sez. II) –, la relazione non può avere un valore che oltrepassi l'attualità dei contenuti stessi, cioè a dire, in sostanza, sarà sempre soltanto una congiunzione di fatto piuttosto che un nesso necessario ed obiettivo. Così Hume, al termine della sua celebre critica del concetto di causa, potrà concludere che «in complesso, non emerge in tutta la natura un solo caso di connessione che risulti per noi concepibile. Tutti i fatti sembrano completamente staccati e separati. A un certo fatto ne segue un altro; noi, però, non possiamo mai osservare il minimo legame tra di loro. Essi sembrano congiunti, ma mai connessi» (Enquiry, cit., VII, II, 58, tr. cit., p. 225). D'altro canto, lo stesso piano rigorosamente psicologico su cui si muove la sua ricerca, non gli consente di trascurare il fatto altrettanto indiscutibile che nella nostra vita quotidiana, e non nei ragionamenti dei filosofi, si fa un uso costante e sicuro di giudizi di relazione che non trovano smentita nella realtà. Il fatto della «credenza» (Belief) che si esprime nei giudizi di ogni giorno «che la natura ci costringe con necessità irresistibile a pronunciare, allo stesso modo in cui ci costringe a respirare e a sentire» (Treatise, parte I, sez. IV), dev'essere riconosciuto insieme con l'aporia della loro giustificazione logico-obiettiva. La gnoseologia è il concetto critico della «credenza», una scepsi riflessa che oltrepassa l'ingenuità di un insostenibile scetticismo integrale, accogliendo in sé la pienezza emozionale, vivace, irresistibile del mondo quotidiano. Essa è in definitiva, portando a compimento l'ipotesi metodologica di Locke, una «psicologia pura». Si tratterà ormai di una psicologia che non solo prescinde metodologicamente da ogni questione riguardante la sostanzialità dell'anima, ma che si fonda anzi sopra la negazione di essa, perché anche il concetto della sostanza spirituale è stato travolto dall'applicazione di quegli stessi moduli critici con cui era stata negata la sostanza materiale (cfr. op. cit., parte IV, sez. VI). Ma così la gnoseologia del repertorio d'idee finisce col distruggere la sua propria possibilità, rinnegando le condizioni del problema stesso che l'aveva fatta sorgere. III. KANT E LA TEORIA DELLA CONOSCENZA COME ANALISI DELLA COSCIENZA TRASCENDENTALE E DEI SUOI LIMITI NELLA CONDIZIONE UMANA DEL CONOSCERE. – Il

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nuovo concetto metodologico della teoria della conoscenza nella filosofia kantiana ha origine dalla radicale revisione di questo atomismo delle percezioni immediate, da cui in definitiva derivavano le aporie scettiche di Hume. La conoscenza non è un agglomerato di percezioni, ma la loro sintesi secondo regole a priori; non è un succedersi di rappresentazioni sulla scena vuota della coscienza, bensì un contesto di giudizi nell'unità dell'esperienza. Il concetto di «esperienza» (almeno nella più profonda delle due accezioni in cui il termine Erfahrung è assunto costantemente da Kant, per cui cfr. N. Kemp Smith, A Commentary to Kant's «Critique of Pure Reason», London 19232, p. 52 ss.; A. De Coninck, L'analytique transcendentale de Kant, I, Louvain 1955; pp. 70 ss.; E. Husserl, Kant e l’idea della filosofia trascendentale, tr. it. da Erste Philosophie [1923-1924] a cura di C. La Rocca, Milano 1990, pp. 119 ss.; F. Barone, Del criticismo kantiano o della filosofia come «riflessione trascendentale», in «Studi kantiani», VI [1993], pp. 11-21), è certamente la chiave di volta di tutta la filosofia critica. Tale concetto conduce Kant a porre il suo problema critico al di fuori e al di sopra dell'ambito psicologico in cui si erano vincolati i termini della gnoseologia empiristica. In realtà, se il problema della conoscenza, così come esso si era venuto definendo da Cartesio fino a Hume, è quello dell'esame delle nostre «rappresentazioni» o «idee», bisogna dire che Kant non si pone il problema della conoscenza. Alla luce del nuovo concetto doveva apparire il carattere fittizio o soltanto «scolastico» di quel problema. Poiché ogni atto conoscitivo si determina in un giudizio e ogni giudizio si pone in un piano di regole, cioè in una prospettiva a priori che lo rende possibile, ogni giudizio, se è veramente tale, si giustifica da sé medesimo nel contesto in cui si iscrive. Kant non mette in dubbio e non pensa di dover sottoporre a giustificazione non solo, p. es., il valore apodittico della matematica e della fisica pura (cfr., p. es., Prolegomeni, § 40), ma neppure «quella massa di concetti empirici» di cui ci serviamo senza che nessuno trovi nulla da ridire, e nei riguardi dei quali «ci sentiamo in diritto di attribuire loro, senza deduzione, un senso (Sinn) ed un significato (Bedeutung) presuntivo, perché in ogni momento abbiamo sotto mano l'esperienza per provare la loro realtà oggettiva» (KrV, AA, III, p. 99; tr. it. di C. Esposito, Critica della ragion pura, Milano 2004, p. 221).

Gnoseologia II problema critico si trasferisce pertanto su un altro piano, e precisamente sul piano dei coefficienti a priori del giudizio, ponendosi come il problema della «ragione» indipendente da ogni esperienza, della ragione intesa nel suo senso più lato di «facoltà che fornisce i principî della conoscenza a priori» (KrV, AA, III, p. 43; tr. cit., p. 101 ss.). È il problema della prospettiva originaria nella quale si condiziona ogni nostro «giudizio d'esperienza», ogni nostro procedimento conoscitivo. È da notare, inoltre, che l'oggetto proprio dell'indagine di Kant non è l'esame critico della conoscenza umana nel suo insieme, ma piuttosto il problema della «decisione circa la possibilità o l’impossibilità di una metafisica in generale e la determinazione sia delle fonti che dell’estensione e dei confini di essa» (KrV, pref. alla I ed., AA, IV, p. 9; tr. cit., p. 11). La nuova «scienza», questa «scienza speciale che si può chiamare critica della ragione pura» (ibi., Introd., § 7, AA, III, p. 42; tr. cit. p. 101) è un «trattato del metodo» (pref. alla II ed., AA, III, p. 15; tr. cit., p. 43), una introduzione critica alla metafisica, guidata dalla considerazione che «non appena abbandonato il terreno dell'esperienza, non sia possibile costruire subito un edificio con le conoscenze che si possiedono – senza sapere da dove provengono – e dando credito a principi fondamentali di cui non si conosce l’origine, se prima non ci si sia assicurati con delle indagini scrupolose della sua fondazione» (Introduzione, § 3, AA, III, p. 31; tr. cit., p. 79). In realtà, la gnoseologia, piuttosto che essere abolita in questa nuova prospettiva, veniva elevata da Kant a un compito più profondo, a un oggetto e a un metodo più rigorosamente definiti. Il razionalismo e l'empirismo l'avevano mantenuta dentro i confini di una ricerca dei contenuti logico-evidenziali del conoscere (le «idee chiare e distinte») o di un esame genetico delle rappresentazioni più complesse dai dati immediati dell'«esperienza pura». Nell'uno e nell'altro caso il problema della natura propria del conoscere, e più precisamente della «conoscenza umana» o «esperienza possibile» nella sua condizione ontologica, non era stato posto. Fu merito di Kant di averne instaurato i termini al centro stesso di ogni indagine filosofica che non voglia abbandonarsi dogmaticamente ai «sogni della metafisica». La gnoseologia acquistava per la prima volta esplicitamente il suo senso proprio di una ontologia della conoscenza, cioè di un esame 4907

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Gnoseologia della condizione umana del conoscere nell'ambito della sua prospettiva ontologica originaria. IV. LA GNOSEOLOGIA COME METODOLOGIA DELLA CONOSCENZA ASSOLUTA NELLA FILOSOFIA POSTKANTIANA. – Ma non era priva di equivoci questa profonda trasformazione interna del problema gnoseologico. La maggiore fonte di oscurità le derivava certamente da quel concetto di «conoscenza pura o a priori» che costituisce, secondo Kant, il contesto normativo dell'esperienza. Se è da escludere qualunque accezione innatistica o contenutistica dell’a priori kantiano, bisogna tuttavia riconoscere la reale sproporzione di esso con l'effettivo conoscere umano. Senza questa sproporzione non sorgerebbe il problema dell'origine (Ursprung) e della fonte (Quelle) della conoscenza umana, o comunque il problema sarebbe logicamente improponibile. Di fatto, Kant ha posto accanto al senso ed all'intelletto, facoltà della conoscenza obiettiva, la «ragione», intesa nel suo senso stretto di funzione attiva delle «idee trascendentali», cioè di quei concetti necessari a priori che oltrepassano qualunque esperienza possibile (cfr. KrV, in AA, III, p. 254; tr. cit., p. 569). Ma hanno un valore conoscitivo, meta-esperienziale, le «idee»? Nella Dialettica trascendentale Kant si è preoccupato di dimostrare il carattere antinomico, puramente «sofistico», di quel preteso sapere che è la metafisica tradizionale, la quale, per una specie di illusione naturale, scambia per oggetti possibili di conoscenza, cioè per oggetti trascendenti o assoluti, quelli che sono invece soltanto degli «ideali» o delle esigenze di totalità dell'esperienza possibile. Mentre altrove, come nei Prolegomeni (§§ 57-59), si parla di un compito metafisico essenziale delle «idee trascendentali», che è quello di costringere lo spirito a passare dall'empirico al trascendente (cfr. le osservazioni di P. Martinetti, Kant, Milano 1943, pp. 143 ss., 92 ss.), nella Appendice alla dialettica trascendentale si considera invece come unica funzione della «ragione» quella immanente o regolativa dell'esperienza possibile (cfr. KrV, AA, III, p. 460; tr. cit., pp. 999-1001). Questa incertezza e questa oscillazione di Kant nel tracciare i compiti della facoltà delle «idee trascendentali», ora intendendola, secondo l'espressione di Jacobi, come «la facoltà di cogliere il soprasensibile» (cfr. F.H. Jacobi, Werke, III, Leipzig 1812, p. 436 ss.), o «la facoltà 4908

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religiosa per eccellenza» (cfr. P. Martinetti, op. cit., p. 93), o la «trascendenza della comprensione dell'essere» (Transzendenz des Seinsverständnisses, cfr. M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik [1934], Frankfurt a. M. 1991, p. 16; tr. it. di M.E. Reina, Kant e il problema della metafisica, Bari 1981, p. 23), ora invece facendone soltanto l'ultimo compimento di quell'apparato di strumenti che è messo in esercizio dalla mente per dare una forma obiettiva alla coscienza, sta all'origine non solo delle principali divergenze che hanno separato i seguaci e gli interpreti del kantismo, ma anche delle difficoltà della nuova impostazione metodologica del problema della conoscenza. Se si ammette il carattere in qualche modo intuitivo, ontologico o trascendente, di quella «conoscenza pura» che è il campo originario in cui possono essere determinati e compresi i limiti della nostra conoscenza empirica, allora bisogna riconoscere che Kant si è fermato sulla soglia di quello che era il suo vero problema, il vero punto di partenza della Critica, cioè il problema della definizione di una conoscenza pre-esperienziale e propriamente «metafisica». Di fatto, nella discussione filosofica immediatamente post-kantiana, la gnoseologia, in una delle sue principali direzioni, tende a porsi sempre più consapevolmente come la teoria o almeno come la metodologia della conoscenza assoluta, in quanto questa si attua non in un'ipostasi eterna, alla maniera di Spinoza, ma nella stessa autocoscienza della condizione umana del sapere o dei limiti dell'esperienza. Il problema di questa «intuizione intellettuale» dell'essere, in cui si fonda la legge dell'esperienza, è posto con la massima chiarezza, p. es., da Fichte. Poiché la legge o obiettività dell'esperienza non può essere ricavata dai fatti che essa stessa regola, «dove allora pensiamo di prendere questa legge? – egli si chiede – dove pensiamo di trovarla? Senza dubbio, nel nostro essere stesso, poiché fuori di noi non la si può incontrare: anzi nel nostro essere, non in quanto esso viene formato e determinato dalle cose esteriori per mezzo dell'esperienza (giacché questo non è il nostro vero essere, ma qualcosa di accessorio e di estraneo), bensì nella sua forma pura e originaria; nel nostro essere stesso come esso sarebbe senza alcuna esperienza. La difficoltà sembra qui essere soltanto quella di separare dalla nostra formazione ogni aggiunta di elementi

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estranei e di ottenere la pura e originaria forma del nostro io. Se però dovessimo trovare in noi qualcosa che assolutamente non può essere derivato da alcuna esperienza, perché di natura del tutto diversa, potremmo sicuramente giungere alla conclusione che è questa la nostra forma originaria. Ora, noi troviamo realmente qualcosa di simile nella legge del dovere. L'esistenza in noi di questa legge, come dato di fatto, ci conduce a tale forma originaria del nostro io; e da questa forma originaria del nostro io deriva a sua volta il manifestarsi della legge nel fatto come l'effetto dalla sua causa» (Sämtliche Werke, ed. J.H. Fichte, VI, pp. 58 ss.; cfr. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem cit., III, pp. 177 ss.). Come, secondo Fichte, l'intuizione morale costituisce il nostro accesso diretto al soprasensibile, cioè quella conoscenza pura o metafisica che ci consente di giudicare il senso dell'empiricità, così ha il medesimo compito per F.H. Jacobi, il sentimento originario della nostra esistenza nel mondo, la «fede» (Glauben) che ha la sua sede in quella «facoltà del sentimento» che è la ragione e che trascende, in una comprensione insieme mistica e positiva della totalità, ogni limite del pensiero discorsivo (cfr. Werke, Leipzig 1812 ss., II, pp. 22, 81, 142 ss.; IV, 210 ss.); oppure, secondo Schelling, tale compito è conseguito in quella «visione originaria e naturale» che è l'arte, nella quale si svela il senso assoluto del processo cosmico, che si rifrangerà poi nelle astrazioni e nelle distinzioni del sapere oggettivo e della dottrina morale (cfr. System des transzendentalen Idealismus, in Sämtliche Werke, StuttgartAugsburg 1856 ss.. sez. I, vol. III, pp. 612 ss.). La novità importante, dal punto di vista gnoseologico, di questi procedimenti della filosofia immediatamente post-kantiana è rappresentata dal tentativo di definire i caratteri propri della «conoscenza metafisica», cioè di un tipo di conoscenza che, trascendendo i limiti del pensiero esperienziale-discorsivo, nello stesso tempo li fonda e li comprende. Per la prima volta quella «conoscenza» veniva presentata non come il conformarsi a un ideale precostituito della «Verità» o del «Sapere assoluto» e come tale dipendente dalle categorie logiche del pensiero, ma come lo svelarsi metalogico, iniziale, dell'Assoluto stesso. Era tuttavia palese il pericolo, da cui quei tentativi non potevano facilmente liberarsi, di cadere nell'impossibilità di una qualunque giustifica-

Gnoseologia zione, compiendo quel «salto mortale» che era, secondo l'espressione di Jacobi, l'abbandono dei freni del pensiero discorsivo. V. LA CRITICA HEGELIANA DEL CRITICISMO E IL PROBLEMA DEL NESSO DI FENOMENOLOGIA E LOGICA. – Nella seconda alternativa dell'interpretazione della «ragione» kantiana, risolvendosi l'a priori (intuitivo-categoriale-ideale) in un puro apparato strumentale destinato all'elaborazione regolativa dell'esperienza, si prospetta allora un'obiezione che può mutare radicalmente il corso di quel «trattato del metodo» che voleva essere la Critica della ragione pura. Già apparsa nei primi anni della discussione del kantismo (cfr. G.E. Schulze, Kritik der theoretischen Philosophie, II, Hamburg 1801, pp. 233 ss.), essa ha ricevuto la sua espressione più celebre nel § 10 della Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio di Hegel. In un'accezione strumentalistica della soggettività, era legittimo chiedersi, secondo Hegel, di quali «strumenti» potesse servirsi, a sua volta, la critica, o il «metodo», se non di quelli stessi che essa poneva in questione. O il problema critico era un falso problema che presupponeva surrettiziamente la propria soluzione, oppure esso si vincolava in un aporetico rinvio all'infinito (sulla critica hegeliana del concetto di «critica della conoscenza» cfr. inoltre Sämtliche Werke, ed. Lasson, I, pp. 94 ss., dove si esamina la dottrina di Reinhold, e ibi, Glauben und Wissen, pp. 235-262, dove si critica in generale il gnoseologismo kantiano). In realtà, l'osservazione di Hegel significava l'abbandono di ogni impostazione puramente «metodologica» o «propedeutica» del problema della conoscenza. L'imprescindibilità della conoscenza nel suo stesso porsi come problema a se medesima, non consente di definire questo problema se non come quello del rapporto, interno all'atto stesso del conoscere, tra verità (Wahrheit) e certezza (Gewissheit), tra sapere e saper di sapere. Il più profondo concetto kantiano della gnoseologia, di cui s'è detto più sopra, viene pertanto recuperato attraverso la critica della sua deformazione psicologistica. Hegel lo riceve già elaborato da Fichte nell’accezione della «critica» come «dottrina della scienza» (Wissenschaftslehre), cioè non come un nuovo e particolare sapere, ma piuttosto come quello che è «soltanto il sapere universale pervenuto al sapere di se medesimo, alla consapevolezza, chiarezza e dominio di sé» (cfr. J.G. Fichte, Wissenschaftslehre von 1801, 4909

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Gnoseologia in Sämtliche Werke, II, p. 99; T. Litt, Hegel, Versuch einer kritischen Erneuerung, Heidelberg 1953, pp. 275 ss.). Tutta la filosofia hegeliana, si può dire, è l’approfondimento e lo sviluppo coerente di questo concetto di un consapersi dell'assoluto sapere, di un passaggio infinito dall’implicito all'esplicito. L'accezione esclusivamente «metodologica» o «propedeutica» della gnoseologia si reggeva sopra il concetto di un «limite» o di un’invalicabile condizione psicologica del conoscere, ma, osserva Hegel polemizzando, «è soltanto mancanza di buon senso non riconoscere che proprio l’indicare qualcosa come finito o limitato reca in sé la prova della presenza reale dell’infinito, dell’illimitato, che la conoscenza dei limiti è possibile solo in quanto l'illimitato è al di qua nella coscienza» (Enciclopedia, § 60). Il compito della filosofia come «teoria della conoscenza» è di far emergere questa presenza reale dell'infinito nella coscienza, questa sapienza nascosta nel cuore stesso del «fenomeno», dal di dentro della configurazione sensibile della coscienza spazialmente e temporalmente determinata. Il «metodo» consisterà nel collocarsi nell'interno della coscienza così come essa si offre direttamente, lasciandosi condurre dalla dialettica della sua finitezza, cioè delle sue contraddizioni, fino alla consapevolezza dell’unità e della totalità dello spirito che in esse si realizza e si manifesta (l'analogia di questa presa diretta della coscienza sensibile nel suo darsi immediato, nel suo svilupparsi spontaneo, con il richiamo di Husserl «alle cose stesse», di cui si dirà più innanzi, è stata rilevata da J. Hyppolite, Genèse et strutture de la Phénoménologie de l'esprit de Hegel, Paris 1946, p. 15). La gnoseologia si pone pertanto per Hegel come la «fenomenologia dello spirito», cioè come la storia stessa della coscienza nel suo farsi esperienza o rivelazione progressiva dello Spirito assoluto. I concetti gnoseologici di «limite», di «sproporzione» e di «opposizione» nella coscienza sono certamente conservati nella «fenomenologia dello spirito», ma mutano di segno, diventano concetti ontologici, quando, al termine del cammino, essi si manifestano come legge stessa dell’«assoluto sapere». Quella che nella Fenomenologia è un'opposizione interna alla coscienza, diventerà una «opposizione interna al concetto» nella Logica, dove, ripercorrendo il cammino a rovescio, si disegnano le grandi linee del pensiero puro, il sistema eterno delle 4910

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categorie «prima della creazione della natura e di uno spirito finito» (Wissenschaft der Logik in Kritische Ausgabe, ed. Lasson, III, p. 31; tr. it. A. Moni - C. Cesa, Scienza della logica, Bari 1968, p. 31). Questa reciprocità o circolarità del sapere e del sapersi, della scienza e dell’autocoscienza, è stata, ripetiamo, la scoperta essenziale di Hegel. Come la Fenomenologia è la coscienza che si fa verità, così la Logica è la verità che si fa coscienza concreta; come la Fenomenologia è teoria della conoscenza che si implica in una ontologia, così la Logica è l'ontologia che si implica in una teoria della conoscenza. Hegel ha scoperto l’unità gnoseologica del soggetto e dell’oggetto (immanenza del pensare nell’essere, del comportamento gnoseologico nel processo assoluto della verità), liberando la gnoseologia da ogni naturalistico isolamento «propedeutico». Con il vertice dell’idealismo viene così superato alla radice l’equivoco problema del «passaggio» dal pensiero all’essere o, come è stato altrimenti detto, l’aporia del «dualismo presupposto» della gnoseologia moderna (cfr. a questo riguardo l’ampia ricognizione di G. Bontadini, Studi sull’idealismo [1923-1935], Milano 1995; Studi di filosofia moderna [1947-1966], Milano 1996). Tuttavia proprio quella reciprocità di «fenomenologia» e «logica», di teoria della conoscenza e di filosofia speculativa, doveva costituire i termini di un nuovo grave problema. Al riconoscimento di essa non si poteva pervenire prima della conclusione del processo fenomenologico nel «sapere assoluto», ma proprio questa «conclusione» rivelava, d'altro canto, il carattere soltanto fittizio di quello stesso processo. Il «sapere assoluto» non può essere inteso da Hegel se non in una radicale ambiguità, ora ponendosi come il risultato della ricerca, ora come la stessa ricerca di esso: non potendosi raggiungere il sapere assoluto, se non è assoluto il sapere che ci conduce fino ad esso. Ma, se è tale la ricerca, il suo carattere di ricerca diventa irreale, il procedimento «introduttivo» o «gnoseologico» diventa soltanto una finzione espositiva o didascalica; se invece l’assoluto sapere è la mèta della ricerca, cioè l’al di là di essa, allora non potrà mai essere raggiunto dalla problematicità costituitiva della «coscienza infelice» (il carattere «fittizio» della deduzione dell'Assoluto, all'interno stesso della Logica, sarà rilevato da L. Feuerbach, Zur Kritik der Hegelschen Philosophie, in Sämtl. Werke, Stuttgart 1904, II, pp. 180 ss). La

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contraddizione, a cui inevitabilmente conduceva la dottrina della razionalità perfetta, era di non poter ammettere né approssimazione né introduzione, cioè infine di non poter essere accolta se non per un atto del tutto irrazionale (cfr. P. Martinetti, Hegel, Milano 1943, p. 98). Il postulato hegeliano della «totalità» del sapere, dove si scambiava con un effettivo conseguimento della ragione quello che era soltanto, semmai, un suo compito infinito, si implicava in definitiva nel dilemma o di un esoterismo della verità come sistema chiuso e perfetto senza approssimazioni né introduzioni, o di un problematicismo della ricerca perenne (cfr. per quanto riguarda l’«esoterismo» della filosofia secondo Hegel il passo famoso di Über das Wesen der philosophischen Kritik, in Sämtl. Werke, XVI, p. 45; per la perenne problematicità «erosiva» dello spirito cfr. l’introduzione alle Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte). Cosi il problema lasciato aperto da Hegel, con il suo equivoco concetto dell’«assolutezza» del sapere, è quello della distinzione e dell'articolazione del gnoseologico e dell’ontologico nell’ambito della coscienza. Là dove egli aveva finito col porre o col postulare una coincidenza tra storia della coscienza (fenomenologia) e filosofia speculativa (logica), bisognava scoprire piuttosto una connessione, bisognava distinguere i termini di un rapporto intrinseco tra la coscienza e l'essere, tra ricerca e verità. Il riconoscimento dell'immanenza gnoseologica dell'essere, che è stato il grande merito di Hegel, lasciava impregiudicata la questione di che cosa fosse il conoscere umano in rapporto all'essere in cui esso si implica e si fonda, che era il senso proprio del problema gnoseologico come era stato intuito profondamente da Kant. VI. L'IMPLICANZA RECIPROCA DELLA «CRITICA DELLA CONOSCENZA» E DELLA «METAFISICA DELLA CONOSCENZA » NELLE GRANDI CORRENTI METAFISICHE DELL' OTTOCENTO : DELLA VITA , DELL 'ESSERE E DEL PENSIERO. – In effetti, la «teoria della conoscenza», in gran parte delle filosofie del sec. XIX, tende a porsi sempre più consapevolmente come la definizione dell’essenza stessa del conoscere nell'ambito di un concetto generale della realtà, cioè come un capitolo della «metafisica generale» (cfr. p. es. J.F. Herbart, Allgemeine Metaphysik, parte II, sez. I, Methodologie, in Sämtl. Werke, a cura di G. Hartenstein, Leipzig 1850-52, IV, pp. 14 ss.), perdendo

Gnoseologia quell'autonomia metodologica che essa aveva cercato di avere nella propria iniziale impostazione soltanto «critica» o «propedeutica». Ne è un esempio caratteristico il posto che essa occupa nella filosofia di Schopenhauer, dove la conoscenza si presenta come un episodio della vicenda cosmica della volontà, ora in funzione della sua obiettivazione, ora come un momento del suo interiore purificarsi e liberarsi (cfr. Werke, a cura di Deussen, München 1911, I, pp. 2I3 ss.). L'analisi trascendentale della conoscenza vi è sostituita o piuttosto vi è integrata da un metodo di spiegazione fisiologico-genetica mutuato dalla fisiologia francese dell’ultimo Settecento e in particolare dalla celebre opera del Cabanis, Des rapports du physique au moral (cfr. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem, cit., III, p. 516), così come più tardi Nietzsche lo deriverà dall’evoluzionismo darwiniano (cfr. J. De Gaultier, De Kant à Nietzsche, Paris 1900). Metafisica e ricerca empirica naturale invadono quello che era già stato il campo proprio della gnoseologia. Non altrimenti avverrà, quanto alla sostanza del problema che ci interessa, nelle altre «filosofie della vita» che subiranno in maniera più o meno diretta l'influenza schopenhaueriana, da Nietzsche a Bergson. E, sia pure in una assai diversa prospettiva, il carattere secondario e derivato del pensiero nei confronti della primaria realtà della praxis, quindi l'inesistenza di un problema propriamente gnoseologico, sarà una delle tesi centrali anche della Sinistra hegeliana, e in particolare di Marx, per il quale «il movimento del pensiero non è che il riflesso del movimento reale trasportato e trasposto nel cervello dell’uomo» (Marx, Il Capitale, tr. it. di L. Firpo, Torino 1946, p. 738). Anche là dove apparentemente la gnoseologia mantiene il primato metodologico nei confronti delle altre discipline filosofiche, come avviene talvolta nelle esposizioni di quelle che, con un termine generalissimo e senza pregiudicare la questione delle loro differenze, si potrebbero raccogliere sotto il nome di «metafisiche dell'essere», da Rosmini all'odierno neotomismo, da Lachelier a Blondel e a Lavelle, in realtà, quel primato e quell’autonomia sono soltanto di carattere espositivo, piuttosto che connessi con l'essenza stessa del problema gnoseologico. Così, ad es., Rosmini comincia l'esposizione della sua filosofia con un'opera, il Nuovo saggio sopra l'origine delle idee (1830), che sembra d'impo4911

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Gnoseologia stazione e d'indole nettamente critico-gnoseologica, ma di fatto gli sviluppi successivi e i completamenti del suo piano di un'enciclopedia cristiana del sapere filosofico moderno riveleranno in maniera sempre più palese che già il fondamento su cui si reggeva l'argomentazione di quella prima opera era la concezione «sintetistica» dell'essere, intesa come l'articolazione intrinseca delle tre forme della realtà, dell'idealità e della moralità, e dunque un vero e proprio concetto metafisico (cfr. P. Prini, Introduzione alla metafisica di A. Rosmini, Domodossola-Milano 1954). Così, ad indicare il senso generale delle principali tesi gnoseologiche del neotomismo (tralasciando qui i notevoli contributi di chiarificazione portati su taluni particolari aspetti del problema gnoseologico, p. es., dalla «criteriologia» di Mercier e della Scuola di Lovanio, o dalla «gnoseologia dell’atto» di G. Zamboni, e gli importanti risultati critici ottenuti nella generale riproposizione del problema della conoscenza attraverso un recupero storico dei suoi termini nella prospettiva aristotelica e tomistica, com'è stata fatta magistralmente, p. es., da J. Maréchal, P. Rousselot, J. de Tonquédec ed altri, per cui si veda G. Van Riet, L'épistémologie thomiste, Louvain 1946), sono significative, a questo riguardo, le parole di J. Maritain: «Una autentica critica della conoscenza – egli osserva –, comprendendo che è assurdo pretendere di fare di un ritorno sui propri passi il primo passo di una corsa, non si pone come condizione preliminare della filosofia.[...] La critica della conoscenza presuppone, avanti a sé, un lungo sforzo di sapere, di conoscenza non solo spontanea, ma scientifica, e non solo scientifica (nel senso moderno del termine scienza) ma filosofica e psicologica, logica e metafisica. Essa stessa fa parte del sapere metafisico, che è la suprema saggezza di ordine naturale» (Distinguer pour unir ou les degrés du savoir, Paris 1932, pp. 153-154, tr. it. di E. Maccagnolo, Brescia 1974, p. 106; cfr. anche E. Gilson, Le réalisme méthodique, ivi 1935, pp. 14-15). Infine, s'inquadrano in una «metafisica dell'Esperienza assoluta» o dell'«assoluto Pensiero», fin dall’inizio, anche le indagini sopra il problema della conoscenza sviluppatesi nelle varie rielaborazioni e «riforme» della dialettica hegeliana, da Bradley ad Hamelin, a Gentile, negli ultimi decenni del sec. XIX e nei primi del nostro. 4912

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Non c'è dunque posto per la gnoseologia come disciplina filosofica autonoma nelle tre grandi correnti metafisiche dell'Ottocento, nelle metafisiche della vita o dell'essere o del pensiero. Tutto è avvenuto come se il lungo travaglio critico durato da Cartesio a Kant per definire l'oggetto e il metodo proprio della «nuova» disciplina, fosse destinato ad abolirla, quando appunto ne aveva raggiunto il concetto più profondo. In realtà, la scoperta hegeliana dell'immanenza gnoseologica dell’essere, se conduceva a negare l'autonomia di un piano o momento gnoseologico della filosofia, incorporava tuttavia un aspetto importante del problema critico negli stessi procedimenti della metafisica. Anziché essere rifiutato o eluso, il problema dell'essenza del conoscere e della sua condizione umana si radicalizzava, ponendosi nell'orizzonte originario di un concetto generale della realtà. Comunque ne siano discutibili le conclusioni, è certo che le metafisiche dell'Ottocento hanno ereditato dalla gnoseologia quel medesimo intento critico che ne aveva originato e promosso lo sviluppo, quella medesima tematizzazione della «coscienza» come il campo imprescindibile di ogni nostra questione o affermazione reale. VII. LA RISOLUZIONE DELLA GNOSEOLOGIA NELLA PSICOLOGIA E NELLA LOGICA DA FRIES ALLA SCUOLA DI MARBURGO. – Era tuttavia naturale che quella eredità non sembrasse caduta in buone mani a coloro che avevano accolto la lezione del criticismo kantiano, e in generale di tutto il movimento gnoseologico precedente, non tanto come la proposta di un nuovo metodo della metafisica, quanto, più sobriamente, come la richiesta di una chiarificazione fenomenologico-semantica dei dati più immediati della coscienza e dei termini più elementari usati dal linguaggio filosofico per designarli. Non poteva certamente ritenere assolto questo compito dalle arditezze o temerarietà delle nuove metafisiche chi si fosse proposto, come Reinhold ancora al tempo di Kant, di «fare per qualche tempo astrazione dal proprio convincimento sulla natura delle cose per domandare alla sua pura coscienza che cosa egli intenderebbe per rappresentazione, per soggetto dell'attività rappresentativa, per cosa rappresentata, se il proprio sistema (filosofico) non avesse ancora stabilito nulla circa il significato di queste parole» (K.L. Reinhold, Beiträge zum bisherigen Missverständnisse der Philosophen, Jena 1790, I, p. 148). Precisato il suo ambito den-

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tro questi limiti, come una critica degli «idola teatri» o dei «malintesi dei filosofi» e come un metodo per la descrizione fenomenologica dell'attività conoscitiva, la gnoseologia conservava il suo pieno diritto di cittadinanza nell'enciclopedia del sapere filosofico, anche di fronte alla «metafisica della conoscenza» variamente determinata nelle nuove filosofie speculative. Il merito di avere continuata e sviluppata la tradizione di questo compito analitico-descrittivo della gnoseologia, anche nel pieno fiorire dell’idealismo post-kantiano, spetta a J. Fries ed alla sua scuola, la «Fries-Schule», che durerà attivamente fino ai primi decenni del secolo XX, da E.F. Apelt (1815-1859) a L. Nelson (1882-1927) e P. Bernays ed altri (cfr. W. Mechler, Die Erkenntnislehre bei Fries aus ihren Grundbegriffen dargestellt und kritisch erörtet, Berlin 1911; L. Nelson, Göttingen 1906-08, in «Abhandlungen der Fries'schen Schule», 1929, pp. 81-94; A. Aliotta, Pensatori tedeschi della fine dell'Ottocento, Napoli 1950, pp. 125-40; Cassirer, Das Erkenntnisproblem, cit., III, pp. 558600). La filosofia di Fries ha voluto essere un richiamo alla necessità di partire da una piattaforma di affermazioni primitive, che sono ammesse implicitamente da tutti i filosofi, a qualunque scuola appartengano, perché costituiscono la «normalità» della conoscenza umana, oltre i limiti della quale c'è soltanto la «follia». II compito della filosofia critica o della teoria della conoscenza dev'essere ricondotto, al di qua delle intemperanze della dialettica o della pretesa di una universale dimostrabilità, dentro i confini, più modesti ma più sicuri, di una «introspezione spirituale conforme all'esperienza» (cfr. J.F. Fries, System der Metaphysik, Heidelberg 1824, § 22), di una «fisica sperimentale del nostro interno» (cfr. Neue Kritik der Vernunft, 3 voll., Heidelberg 1807, I, p. XXXII). Il suo metodo è di natura schiettamente soggettiva, o empirico-antropologica, e tuttavia ha per oggetto non le nostre rappresentazioni in quanto tali o i loro collegamenti soltanto soggettivi, come avveniva presso gli empiristi, ma le «unità sintetiche obiettive», cioè l'a priori, in senso kantiano, come struttura obiettiva dell’esperienza (ibi, II, § 91): un empirismo dell’a priori, si potrebbe dire, se l'espressione non sembrasse contraddittoria. In effetti, l'a priori è riconosciuto come forma valida dell'esperienza non in virtù di una sua «deduzione trascendentale» dalla possibilità di que-

Gnoseologia sta, ma semplicemente per una «fede» naturale della ragione in se medesima e nella bontà della propria organizzazione conoscitiva (ibi, § 128). Il fondamento della conoscenza è dunque soltanto la ragione umana così com'essa si pone e si riconosce nella propria immediatezza «presentita», piuttosto che intuita (unmittelbare Erkenntnis der reinen Vernunft, come la chiamerà Nelson in un saggio del primo vol. delle cit. «Abhandlungen», p. 5), e la teoria della conoscenza non è nient'altro che la storia della ragione umana, un’«antropologia», appunto, che si appoggia soltanto sui fatti sicuramente constatati dell'osservazione interiore. Da questo punto di vista doveva parere privo di senso il problema della «validità obiettiva del nostro conoscere mediante la corrispondenza dell'oggetto con la conoscenza» (Neue Kritik der Vernunft, cit., II, § 127), o, come dirà Nelson, «il cosiddetto problema della conoscenza» (L. Nelson, Über das sogenannte Erkenntnisproblem, in Abhandlungen, cit., 1908, pp. 415 ss.). La nostra ragione può soltanto confrontare tra loro le sue attività conoscitive e non può cercare, senza essere costretta ad un regresso all'infinito, un criterio con cui stabilire la propria corrispondenza con l'oggetto (ibi, pp. 444 ss.). Questa corrispondenza è invece già posta immediatamente dalla natura stessa del conoscere, per un’insopprimibile esigenza della ragione, in forza della quale non ci può essere conoscenza che non sia conoscenza di un oggetto. «Dove si conosce – scrive appunto Fries –, si conosce un oggetto; ciò è nella natura del conoscere. [...] L’intero problema di mostrare la validità obiettiva del nostro conoscere mediante la corrispondenza dell’oggetto con la conoscenza è quindi mal posto: infatti proprio questo tema, preteso come il sommo tema della filosofia, non è neppure un tema, né per una teoria né in genere per qualsiasi scienza» (Neue Kritik der Vernunft, cit., § 127, II, pp. 176 ss.). Ma proprio un così netto rifiuto del problema gnoseologico rivelava l'equivoco su cui si reggeva tutta l'«antropologia» di Fries e della sua scuola. La ragione non può certo uscire da sé per dimostrare (secondo l'assurda pretesa del vecchio naturalismo gnoseologico) la propria corrispondenza con l'oggetto, ma ciò non toglie che sia ben altra cosa il problema di una conoscenza obiettivamente valida e che pertanto la questione relativa al fondamento del conoscere debba comunque proporsi in un'in4913

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Gnoseologia dagine introspettiva o «antropologica» della coscienza. Una costante ambiguità di accezioni del concetto di «conoscenza» vizia le argomentazioni di Fries, di Apelt e di Nelson, costringendole ad oscillare tra ciò che è valido logicamente e ciò che è constatabile psicologicamente, senza raggiungere in modo sicuro il metodo proprio di giustificazione dell'uno e dell'altro piano della coscienza. Non per nulla, il problema della distinzione di psicologia e logica, e conseguentemente quello del rapporto dell'una e dell'altra con la gnoseologia, diventa il problema centrale delle discussioni gnoseologiche negli ultimi decenni del sec. XIX. Da parte sua, l'empirismo psicologistico, da F. Brentano a W. Wundt, abbandonando le ultime incoerenze della «FriesSchule», giunge a ridurre tutta quanta la teoria della conoscenza nei termini della psicologia (cfr. C. Stumpf, Psychologie und Erkenntnistheorie, in «Abhandlungen der I. Classe der Königlich-Bayerischen Akademie der Wissenschaften», 1891, p. 468). Anche Wundt contesta la legittimità del problema «gnoseologico» del passaggio dalla soggettività all'oggettività del conoscere, quasi che le rappresentazioni date nell'esperienza originaria fossero date per se stesse soltanto come rappresentazioni di un soggetto (System der Philosophie, 19012, pp. 88 ss.; cfr. P. Martinetti, Introduzione alla metafisica [1904], Genova 1987, pp. 199 ss.). Si può dire, in generale, che il principio ispiratore dello psicologismo sta nell'affermazione che la conoscenza è soltanto un modo e un risultato dell'attività psichica. La «psichicità» è intesa non più come un limite della conoscenza oggettiva – poiché non c'è nessun «oggetto» fuori di essa –, ma come la matrice stessa di qualunque forma del pensiero, la sua «natura», dall'analisi della quale dovranno essere ricavate tutte le leggi del pensiero. Ma in che cosa consiste precisamente questa natura psichica della conoscenza? Nel determinarne il significato, non presupponiamo già, piuttosto, l'attività categorizzante della coscienza o del pensiero puro? È certamente un merito dei neokantiani della Scuola di Marburgo, e in particolare di E. Cohen, l'aver denunciato con chiarezza la confusione degli psicologisti tra i concetti di Bewusstsein, «coscienza o pensiero puro» e Bewusstheit, «psichicità» (cfr. E. Cohen, System der Philosophie, parte I: Logik der reinen Erkenntnis, Berlin 1902, pp. 375-392). Il vero e unico presupposto della conoscenza 4914

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non è uno dei suoi modi, come la «psichicità», o quel genere di coscienza corporea e vitale che è comune agli uomini e agli animali, ma piuttosto è la coscienza stessa categorizzante, o il pensiero che determina il dato in quanto lo pone come tale, costruendone i caratteri in cui esso si definisce concretamente nell'unità del giudizio (ibi, p. 48 ss.). Il pensiero puro è l'attività originaria che costituisce il proprio contenuto, poiché nulla c'è per il pensiero che non sia già definito in qualche modo dal pensiero stesso, cioè che non sia già assunto in quel processo graduale di determinazione reale, piena, concreta dell'esistente, che è il suo compito infinito (cfr. Natorp, Die logischen Grundlagen der exakten Wissenschaften, Leipzig 1910, pp. 92 ss.). Una teoria della conoscenza non potrà essere intesa allora se non come una «logica pura», che dovrà dedurre via via le varie categorie che derivano da questa esigenza della determinazione completa e univoca dell'oggetto dell'esperienza. Essa coincide, di fatto, con il pensiero stesso della scienza, e più precisamente con il processo deduttivoformale di questa, con la matematica, che costituisce la pura trama razionale del mondo (cfr. E. Cohen, Logik, pp. 11, 17 ecc.). Anziché derivare limiti e condizioni dalla psicologia, essa piuttosto li prescrive a questa, essendo il campo proprio della «logica pura» ben più vasto ed originario di quello dell'«esserci realmente», del Dasein, in cui si chiude la prospettiva psicologica. In questo senso Meinong parlerà della Erkenntnistheorie come di una Gegenstandtheorie, una «teoria dell'oggetto», la quale, in opposizione alle scienze empiriche, che trattano della realtà esistente, del Dasein, si pone come la scienza del Sosein, dell'essenza razionale, che si può elaborare a priori, indipendentemente da ogni considerazione d'esistenza (cfr. Meinong, Über die Stellung der Gegenstandtheorie in System der Wissenschaften, in «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», ott. 1906, pp. 48 ss.; genn. 1907, pp. 105 ss.; apr. 1907, pp. 1 ss. Cfr. F. Modenato, La conoscenza e l'oggetto in A. Meinong, Padova 2006). VIII. LA CRITICA DEGLI PSEUDO-CONCETTI DELLA COSCIENZA E LA «RIDUZIONE FENOMENOLOGICA» DI HUSSERL. – Il problema lasciato aperto dallo psicologismo e dal logicismo era infine quel medesimo problema che era stato lo stimolo critico di tutte le più importanti tappe della gnoseologia moderna. L'essenza del conoscere doveva

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essere raggiunta al di qua di ogni teoria, di ogni deduzione logico-formale così come di ogni ricostruzione genetica, l'una e l'altra presupponendo o lasciando fuori di sé la coscienza esplicante o ricostruente. Si riproponeva, in altri termini, il problema kantiano della «coscienza trascendentale» come prospettiva originaria dell'esperienza, ricongiungendosi in esso le due direttrici, soltanto apparentemente diverse, della «metafisica della conoscenza» e della «critica della conoscenza». Si trattava, precisamente, di isolare la coscienza pura, mettendo tra parentesi ogni oggetto a cui essa fosse rivolta, neutralizzando o mettendo fuori azione ogni suo atto o stato, per renderla così manifesta a se medesima nel suo essere proprio. È questo il senso della dottrina della epoché, o riduzione fenomenologico-trascendentale, di Edmund Husserl (Ideen zu einer reinen Phaenomenologie und phaenomenologischen Philosophie [1913-1928], Husserliana, III/1, Den Haag 1976, § 31 ss., pp. 53 ss.; tr. it. di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Milano 2002, I, pp. 67 ss.). Il vizio di tutte le precedenti impostazioni del problema gnoseologico stava, secondo Husserl, nella loro incapacità di uscire dall'«atteggiamento naturale», cioè da quel mondo nel quale ci troviamo e al quale si riferisce il complesso delle nostre spontanee attività di coscienza: della coscienza teoretizzante che indaga, esplica e concettualizza, che confronta e distingue, che raccoglie ed enumera, che presuppone e deduce; della coscienza pratica o volontà o sentimento, che si rallegra e si rattrista, desidera e fugge, spera e teme, si decide ed agisce (ibi, § 28). Fino a quando noi restiamo vincolati o «compromessi» in questa varietà infinita del nostro rapporto col mondo, noi saremo costretti a presupporre sempre il fatto del conoscere senza poterlo comprendere. La stessa posizione del problema critico fondamentale intorno al valore oggettivo della nostra esperienza si rivela un controsenso, quando si resti nell'ambito della teoria dell'«atteggiamento naturale» (cfr. Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge [1931], Den Haag 1950, § 15 delle Meditationen, tr. it. di F. Costa, Meditazioni cartesiane e i discorsi parigini, Milano 1989). Dall'atteggiamento naturale non esce neppure il Cogito cartesiano, il quale, in effetti, non è se non una tematizzazione di esso nella sua totalità. La stessa «riduzione» mediante la quale Cartesio arriva al Cogito, e

Gnoseologia cioè il suo tentativo di dubbio universale, rimane dentro il dilemma della tesi o dell'antitesi, dell'affermazione o della negazione, ponendosi di fatto come un tentativo di negazione universale e dunque vincolandosi nella «tesi» del mondo, per modificarne o per distruggerne il valore (cfr. Ideen, cit., § 31). Bisogna invece, secondo Husserl, semplicemente «mettere tra parentesi» la tesi del mondo, «sospendere» il giudizio che essa comporta, senza parteggiare per o contro di essa. La radicalità di questa «neutralizzazione» dell'atteggiamento naturale conduce a riconoscere «la diversità più radicale che si possa dare», la distinzione tra la coscienza e l'essere annunciantesi nella coscienza (Ideen, cit., § 42). In forza di questa distinzione si dovranno escludere dal concetto della «coscienza pura» tutti i caratteri dell'essere che è presente alla coscienza stessa, cioè ogni qualità o determinazione fisica, psichica, ideale ecc. La coscienza è nella sua purezza o «trascendentalità» un’essenziale intenzionalità, una totale apertura all'essere che la trascende. In questo senso, Eugen Fink interpreta giustamente la riduzione fenomenologica come una radicale «meraviglia» di fronte al mondo, di fronte alla trascendenza e dunque all'estraneità e alla paradossalità originaria dell'essere, in tutti i suoi modi e aspetti, per la «coscienza pura» (cfr. E. FINK, Die phaenomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik, in «Kantstudien», 1933, pp. 331 ss.). In realtà, mediante la riduzione fenomenologica, la coscienza viene ricondotta al suo rapporto immediato e originario con «le cose stesse». L'essere reale o ideale, così com'è veramente, «in carne ed ossa», cioè spogliato di ogni rivestimento riflessivo o predicativo o linguistico, è il correlato della pura «coscienza-di», di un’originaria intenzionalità. II compito infinito di questa è, precisamente, di aprirsi all'autenticità dell'essere, cioè di renderlo manifesto, di «dargli un senso», non essendo altro, infine, la «coscienza pura» se non «una maniera di dare un senso» (eine Sinngebung) al mondo pre-riflessivo, o in altre parole la vera e unica costituzione trascendentale di esso. Sarà questo compito l'oggetto proprio delle analisi della «fenomenologia», la quale si porrà pertanto, attraverso il «ricominciamento radicale» operato dall'epoché, come una scienza rigorosa della «coscienza pura», cioè dell'essere in quanto si manifesta, in quanto viene ad avere un 4915

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Gnoseologia senso. Tornava così a cadere, e in modo decisivo, la domanda che da Cartesio in poi aveva tormentato gran parte del pensiero moderno: la domanda che appunto chiedeva se vi sia dell’essere di là dalla coscienza e se, nel caso, quest’essere sia mai traguardabile. La domanda era certamente mal posta dal momento che l’orizzonte della coscienza era stato riconosciuto come intrascendibile orizzonte d’ogni possibile sapere. Così, una volta posta quella domanda, chi mai avrebbe potuto risolverla se non appunto la coscienza? Inutilità, dunque, o sterilità della domanda. E insieme anche posizione di un problema per se stesso contraddittorio, giacché proprio la sua posizione implicava, di fatto, la notizia previa di un’alterità: Husserl lo rilevava con precisione già nei suoi Discorsi parigini. Tuttavia, mal posta che fosse, la domanda era stata pronunziata e non a caso la storia del pensiero vi si era imbattuta: essa celava l’esigenza di chiarire i modi e le possibilità con cui l’essere viene a coscienza. E, proprio sotto questo nuovo aspetto, Husserl la traduceva nella domanda sulle possibili «costituzioni di senso», da intendere ora non relativamente all’essere della cosa intenzionata, ma relativamente ai modi con cui la coscienza ne dispone l’apparire: diversità di sensi, a seconda che la cosa sia data nella percezione, nell’immaginazione, nel desiderio ecc. In altri termini, la conseguenza più importante, dal punto di vista della «critica della conoscenza», di questo concetto della «coscienza pura» e del metodo fenomenologico che ne deriva, è che esso elimina definitivamente, senza cadere nei limiti arbitrari dello psicologismo e del logicismo, lo pseudo-problema gnoseologico del passaggio dalla coscienza, intesa come «spettacolo interno» o come apparato funzionale a priori, alla realtà in sé. Il vizio di questo problema consisteva in definitiva nel fare della coscienza una fittizia reduplicazione dell'essere. Per il carattere essenzialmente intenzionale della coscienza, il problema, l'unico vero problema, che si porrà nei confronti dell'essere, sarà invece proprio quello dell'autenticità del suo manifestarsi, cioè della originalità della sua «evidenza» o del «senso» che gli è dato dalla coscienza. Si deve certamente dare atto alla «fenomenologia» husserliana, e agli sviluppi che questa ha avuto nei suoi seguaci (v., p. es. P. Thévenaz, H.J. Pos, E. Fink, M. MerleauPonty, P. Ricoeur, J. Wahl e H. L. Van Breda con i suoi Problèmes actuels de la phénoménolo4916

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gie, Paris 1952), d'aver ritrovato il vero significato e valore del problema della conoscenza, che è il sottoporre a critica ciò che è soltanto «ovvio» o «banale» o «apparente», perché si manifesti così com'esso è in realtà: cioè di dissipare le false evidenze, perché si offrano quelle reali. Liberato da ogni presupposto naturalistico, il problema «gnoseologico» non è altro, in definitiva, se non il problema della genuinità dell'evidenza. Esso ha la sua soluzione reale nel «principio di tutti i principi»: «Nessuna teoria concepibile può indurci in errore se ci atteniamo al principio di tutti i principi: cioè che ogni visione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’“intuzione” (per cosi dire, in carne ed ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà» (Ideen, cit., § 24, tr. cit., pp. 52-53). Giustamente è stato rilevato, a questo proposito, il rovesciamento operato da Husserl nella concezione del rapporto soggetto-oggetto, che aveva avuto tanto peso nella gnoseologia moderna (cfr. E. Bréhier, Transformation de la philosophie française, Paris 1950, pp. 77 ss.). IX. I LIMITI DELLA RIDUZIONE FENOMENOLOGICA E LE NUOVE RICERCHE GNOSEOLOGICHE. – Certo, questo rovesciamento è stato il passo più decisivo di quella che potremmo chiamare la «demitologizzazione» della coscienza, operata dagli sviluppi della critica gnoseologica moderna; esso ha però aperto un problema nuovo, derivante dallo stesso carattere riflesso, metodologico e non «naturale» (come era stato per il pensiero antico) di questa riaffermazione dell'intenzionalità della coscienza. È, di fatto, realizzabile nel suo concetto pieno la riduzione fenomenologica, cioè la «coscienza pura»? È raggiungibile la purezza di quella visione originaria ed autentica che dev'essere posta a fondamento di ogni nostra affermazione intorno all'essere? Senza dubbio, se noi riuscissimo ad oltrepassare il nostro atteggiamento naturale, in tal maniera da eliminare dal pensiero ogni presupposto immotivato, la purezza intenzionale della coscienza coinciderebbe con l'evidenza totale dell'essere. Poiché questo in realtà è ben lontano dal succedere, bisognerà pensare la riduzione fenomenologica come un ideale operativo anziché come un risultato. Ecco perché Husserl viene poi a dire che il filosofo è perennemente agli inizi, è «un vero principiante» (ein wirklicher Anfänger) ed egli stesso s'interroga sempre di nuovo sulla possibilità della ri-

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duzione. Nella sua Postilla alle Idee, dice pure che «vede aperto davanti a sé il territorio infinito della vera filosofia, la “terra promessa”, che egli non vedrà dissodata» (Husserliana, V, p. 162, Ideen I, tr. cit., p. 433; cfr. M. MerleauPonty, Phénoménologie de la perception, Paris 1945, Avant-Propos, pp. VIII ss.; tr. it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Milano 1965, pp. 30-31). Il concetto della coscienza si pone pertanto come nell'intersezione di due vettori, o più precisamente di un vettore e di un «ostacolo»: la coscienza intenzionale o posizionale o coscienza-di, il cui essere consiste, come direbbe Aristotele, nel suo esser-altro, nel «diventare tutte le cose» (cfr. De An., III, 5), e la coscienza-di-sé come immediatezza o «limite» inibente intrinseco a quella. Quel rovesciamento di cui si parlava dianzi a proposito del rapporto soggetto-oggetto nella conoscenza, assume qui un aspetto anche più profondo: mentre per Cartesio, agli inizi del problema critico moderno, il «Cogito» come coscienza-di-sé costituiva il fondamento gnoseologico dell'apoditticità delle nostre affermazioni, nella nuova prospettiva, derivata dall'impostazione fenomenologica del problema della conoscenza, l'autocoscienza psicologica, cioè il contesto dei limiti situazionali della coscienza, è la radice stessa di ogni problematicità. Si deve subito aggiungere tuttavia che, per la stessa unità della coscienza, la problematicità dei «limiti» di questa può essere razionalmente disciplinata e condotta via via a soluzione sul fondamento dell'apoditticità dell'essere, che è effettivamente «veduto» nell'arco intenzionale della «coscienza-di». Dei due compiti fondamentali della filosofia, quello della «riduzione fenomenologica» e quello dell'«analisi eidetica», il primo è evidentemente di carattere gnoseologico, così come il secondo è teoretico o speculativo. In realtà, si apre alla ricerca gnoseologica un infinito campo di lavoro. L'«atteggiamento naturale» che dev'essere neutralizzato dalla riduzione, è, in definitiva, l'intervento soggettivopsicologico nella conoscenza, o come anche si potrebbe dire, è l'esperienza, è l'e[rgon ajnqrwvpinon, nella coscienza. In questo senso, il comune denominatore delle odierne ricerche gnoseologiche, anche fuori da ogni diretta influenza della fenomenologia di Husserl, è certamente rappresentato dalla tendenza a isolare i fattori psicologici della conoscenza, perché questa si espliciti nel suo carattere di obietti-

Gnoseologia vazione pura. Ma questa tendenza si presenta in guise diverse proprio perché non può realizzarsi totalmente ed è costretta ad arrestarsi o ad implicarsi nell'uno o nell'altro aspetto dei «limiti» irriducibili dell'esperienza, cioè della condizione umana del conoscere. Giustamente, a questo proposito, Nicolai Hartmann definisce la gnoseologia, almeno in uno dei suoi compiti principali, come una «aporetica della conoscenza» (cfr. Grundzüge einer Metaphysik der Erkenntnis, III ed., Berlin 1940, I, capp. 5, 6, 9). Nella gnoseologia odierna, la riduzione obiettivistica o comunque teoretica dell'esperienza e insieme la riflessione sopra le condizioni esistenziali o culturali della coscienza, si sono polarizzate in tre principali direzioni: quella del naturalismo scientifico, quella del positivismo logico e quella dell'esistenzialismo fenomenologico. 1. La risoluzione della gnoseologia nel comportamentismo ad opera del naturalimo scientifico. – Ha origine dal travaglio di polemiche che ha occupato la critica dell'idealismo nei primi decenni del secolo, specialmente nei paesi di lingua inglese (neorealismo, realismo critico ecc.). La sua linea più costante era già segnata nelle conclusioni del celebre argomento di R.B. Perry, «The Ego-Centric Predicament», contro il «principio d'immanenza», caposaldo giustificativo dell'idealismo (apparso la prima volta in «Journal of Philosophy», 1910, fu ripr. in W.G. Muelder - L. Sears, The Development of American Philosophy, Boston 1940; 1960 2 ). Quando gli idealisti affermano che «è impossibile trovare qualcosa che non sia pensato» – osserva Perry – o quando cadono in un truismo o espongono una difficoltà: in nessun caso possono valersi di un argomento in favore della tesi immanentistica («Gli idealisti hanno usato come un argomento ciò che è, di fatto, soltanto una difficoltà», in ADAMS - MONTAGUE, Contemporary American Philosophy, II, London New York 1930, p. 192; rist. 1962). Altro è dire che «tutto ciò di cui si fa menzione è un'idea», altro che «esistono soltanto idee»: l'onnipresenza del fattore soggettivo nel pensiero non significa che esso sia fondamentale per la realtà. La difficoltà allora sarà questa: com'è possibile escludere dalla considerazione della realtà quel fattore – il soggetto considerante – che dovrebbe operare questo stesso atto d'esclusione? Se la realtà non coincide necessariamente col pensare, in qual modo sarà 4917

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Gnoseologia possibile scoprire che cos'è la realtà indipendentemente dal pensare? O il problema resta senza soluzione, oppure bisogna affrontarlo da un altro punto di vista. La tecnica per «ridurre» il carattere egocentrico del pensiero consiste nello scoprire qual è la situazione reale del soggetto conoscente, o più esattamente qual è la parte che gli spetta nella situazione ambientale in cui si trova coinvolto. I contenuti della mente sono, infatti, «parti dell'ambiente, con le quali essa si comporta mediante le proprie strumentalità ed in favore dei propri interessi» (R.B. Perry, Present Philosophical Tendencies, 1925, p. 309). L'analisi, attraverso l'osservazione e l'introspezione, dei comportamenti reali della mente nelle sue reazioni all'ambiente in cui è situata, è la via d'uscita che consente di riconoscere l'imprescindibilità di essa e insieme di negarne il primato metafisico sul reale (cfr. anche le osservazioni, a questo proposito, di J.L. Blau, Men and Movements in American Philosophy, New York 1953, pp. 283-288; tr. it., Firenze 1957). Dall'interno stesso della ricerca gnoseologica si ponevano pertanto i termini della sua risoluzione nelle tecniche del comportamentismo o behaviorismo: l'esperienza diventava una delle strutture del reale, uno degli eventi cosmici. In effetti, vaste correnti del pensiero contemporaneo angloamericano hanno messo in rilievo, in maniera sempre più preponderante, i fattori naturali della conoscenza, le implicazioni biologiche e fisiologiche della coscienza. Tra i più radicali in questo senso è stato certamente J. Dewey: «Poiché l'uomo in quanto organismo si è sviluppato insieme con gli altri organismi nel corso dell'evoluzione detta naturale, i suoi comportamenti (behavings), e tra essi le sue conoscenze (knowings) più elevate, non sono delle attività che gli appartengono in proprio, e neppure tali da essere sue almeno all'inizio, ma sono processi della situazione globale dell'organismo e dell'ambiente». Questa situazione globale è quella che «si presenta a noi nelle conoscenze così come quella nella quale le conoscenze si presentano»(Knowing and Known, Boston 1949, in collab. con A.J. Bentley, p. 104). La coscienza e la mente sono soltanto delle funzioni della natura. L'organismo «diventa una mente in virtù della sua particolare maniera di partecipare al corso degli avvenimenti» (Creative Intelligence, 1917), cioè in virtù di un comportamento di «indagine», mediante il quale si ricompone una continuità 4918

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spezzata, si trasforma «una situazione dove si esperiscono oscurità, incertezza, urti, disordini di ogni specie, in una situazione chiara, coerente, stabile, armoniosa» (How we Think, n. ed., 1933, p. 99). C'è dunque un punto di riscontro sicuro della validità del mondo della «cultura», cioè dei sistemi di significati risultanti dalle operazioni della mente, ed è la loro possibilità di essere incorporati nelle operazioni della vita organica, o derivati da esse. Da questo punto di vista, il criterio soggettivo, psicologico o «egocentrico», della coscienzialità viene confinato ai margini dell'arbitrario, dell'oscuro, dell'inconsistente. La critica del «Cogito» assume qui le sue forme più radicali (cosi è, p. es., anche Santayana, il cui naturalismo si differenzia però profondamente da tutte le altre forme contemporanee, per una originale riaffermazione di un mondo platonico di «essenze pure», accanto a quella della vitalità e della «fede animale»; cfr. P.A. SCHILPP (a cura di), The Philosophy of G. Santayana, 1940; cfr. anche G. Santayana, Scepticism and Animal Faith, 1923, p. 290). Pur nella profonda divergenza dei rispettivi concetti della verità, intuizionistico o eidetico per Husserl e «operativo» o strumentale per Dewey, è evidente l'analogia del rapporto che l'uno e l'altro stabiliscono tra «coscienza intenzionale» o «mind» – nel linguaggio di Dewey – e «coscienza psicologica» o «conscience» (per quanto, restando indietro rispetto ad Husserl, Dewey non abbia mantenuta la distinzione tra conoscenza ed esperienza, e sia rimasto nell'equivoco caratteristico del gnoseologismo moderno, che definisce come la natura stessa della verità quella che ne è soltanto una condizione o un limite). 2. La regressione critica dal pensiero al linguaggio nel neopositivismo e nella «filosofia analitica». Tuttavia la depressione dell'importanza gnoseologica della «coscienza-di-sé» doveva giungere a posizioni estreme nelle tesi più radicali della «filosofia scientifica» o «neoempirismo» o neopositivismo. Non era certamente nuova la scoperta della natura essenzialmente semantica del pensiero, cioè «il principio che senza quel sistema di segni significanti per eccellenza che sono le parole, la lingua, non sussiste in genere pensiero o coscienza o ragione che si dica» (G. Della Volpe, Logica come scienza positiva, Milano 1956, p. 4). Ma ciò che ha costituito la novità più importante del positivismo logico, è stato il tentativo, perseguito fino

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alle sue ultime conseguenze, di risolvere totalmente la gnoseologia nella analisi logica del linguaggio. Questa – ha osservato L. Geymonat – non è il confronto delle regole del linguaggio «con le pretese leggi generali del pensiero, leggi che dovrebbero essere eterne, assolute, per sé evidenti. Essa è invece la purificazione del linguaggio medesimo da tutto ciò che fa appello a dati extralinguistici, all'evidenza, all'intuizione, al sentimento; è la determinazione esatta delle regole secondo cui vengono usate le varie parole» (Le origini della metodologia moderna, nel vol. di AA.VV., Fondamenti logici della scienza, Torino 1947, pp. 13 ss.). Accogliendo talune delle principali richieste dell'empirismo moderno e in particolare la riduzione positivistica della conoscenza alla conoscenza scientifica, questo movimento filosofico, presentatosi come tale nel Circolo di Vienna e, in particolare, con gli scritti di Ludwig Wittgenstein, ha voluto essere «un empirismo dimostrato con metodi logici» (J.R. Weinberg, Introduzione al positivismo logico, tr. it., Torino 1950, p. 39), cioè, al di là del vecchio empirismo e positivismo, una interpretazione e giustificazione della scienza intesa puramente come la costruzione di un linguaggio esatto. In altri termini, come l'empirismo e il positivismo avevano «dis-sostanzializzato» l'oggetto della conoscenza, risolvendolo nel puro «fenomeno» o «fatto» o «contenuto rappresentativo» della coscienza, così il positivismo logico si è proposto di «dissoggettivare» il dato, riducendolo, almeno in quanto ha valore conoscitivo o teoretico, alla sua pura espressione linguistica, al suo «protocollo», alle «proposizioni elementari» o «atomiche», cioè non ulteriormente decomponibili, che lo rappresentano. La sensazione o l'atto percettivo doveva così cessare di essere quell'incontrollabile residuo coscienziale della conoscenza, di cui parlava il Dewey, per diventare «oggetto di scienza proprio in quanto è espressa, proprio in quanto partecipa della natura linguistica di tutte le proposizioni» (L. Geymonat, op. cit., p. 16). Ma il problema delle proposizioni elementari, o dell'esatta traducibilità linguistica del dato o esperienza individuale, diventava per ciò stesso il problema centrale di questa teoria della conoscenza ridotta a logica della scienza (cfr. R. Carnap, Die physikalische Sprache als Universalsprache der Wissenschaft, in «Erkenntnis», II, 1932, pp. 432-465; R. von Mises, Manuale di

Gnoseologia critica scientifica e filosofica, tr. it., Milano 1950, pp. 127 ss.). Il «protocollo» è «il rapporto diretto di un individuo», cioè la descrizione del contenuto immediato della sua esperienza, e come tale è necessariamente soggettivo o «solipsistico» (cfr. J.R. Weinberg, op. cit., p. 306). Ora com'è possibile trascendere il punto di partenza solipsistico, per arrivare alla costruzione di un linguaggio intersoggettivo e quindi totalmente controllabile? Com'è possibile ridurre alla pura obiettività di strutture linguistiche rigorosamente univoche il contenuto esperienziale individuale, a cui il «protocollo» deve necessariamente riferirsi? Il «limite» esistenziale della coscienza-di, cioè la soggettività dell'esperienza, tornava dunque a presentarsi aporeticamente anche in questa accezione linguistico-semantica del problema della conoscenza. «I limiti del mio linguaggio» – dice Wittgenstein – «sono i limiti del mio mondo», e «Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo» (Tractatus logico-philosophicus, London 1922, prop. 5.6 e 5.632, tr. it. di A.G. Conte, Torino 1968, pp. 63-64). Ma la difficoltà, che in questi termini si presenta come un'aporia insolubile, è parsa a R. Carnap e ad O. Neurath, all'interno stesso del Circolo di Vienna, come uno pseudo-problema derivante dallo spurio dualismo di linguaggio ed «esperienza» (cfr. O. Neurath, Soziologie in Physikalismus, in «Erkenntnis», II, pp. 392 ss.; Über Protokollsätze, ibi, III, p. 208 ss.). «Le proposizioni vanno confrontate con proposizioni» – osserva Neurath – «non con l'esperienza né con un mondo, né con qualcos'altro. Tutte queste duplicazioni prive di senso appartengono a una metafisica più o meno raffinata, e devono perciò venire rigettate. Ogni nuova proposizione è confrontata con la totalità delle proposizioni presenti, già portate ad un accordo le une con le altre. Si dirà, allora, che una proposizione è corretta, quando essa può venire inserita (eingliedern) entro tale sistema. Tutto quel che non possiamo inserire in esso viene rigettato come non corretto. Ogni volta che troviamo, in generale, difficile prendere una decisione, possiamo anche, invece di rigettare le nuove proposizioni, alterare tutto il precedente sistema di proposizioni, finché le nostre proposizioni possano venir inserite in esso» (Soziologie in Physikalismus, cit., pp. 403 s.). La difficoltà si dissolveva dunque nella negazione dei termini stessi in cui era posta. I «protocolli» non sono da verificare sperimentalmente, ma piuttosto 4919

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Gnoseologia da concordare in un contesto linguistico già dato. Nessuna affermazione o negazione, e perciò nessun problema, possono avere un senso fuori dal riferimento diretto ad una lingua costituita, sia questa una lingua dell'uso, come la chiamano i linguisti, oppure una lingua tecnica liberamente scelta e accordata. Proprio quest'ultima distinzione designa i due diversi indirizzi che hanno oltrepassato le primitive tesi del Circolo di Vienna intorno alla verificabilità empirica come criterio di significanza (cfr. p. es. A.J. Ayer, Language, Truth and Logic, London 19482, pp. 35 ss.; tr. it. G. De Toni, Linguaggio, verità e logica, Milano 1961), e precisamente la «filosofia analitica» o «Oxford (-Cambridge) Philosophy» e il «fiscalismo». In particolare, il «fiscalismo» o «scienza unitaria» si fonda sulla convinzione che un sistema della fisica sufficientemente amplificato sia tale da potersi estendere a tutto l'ambito delle nostre conoscenze (cfr. O. Neurath, Physikalismus, in «Scientia», nov. 1931). Ma non è difficile accorgersi che la scelta del linguaggio fisico-naturalistico come «linguaggio perfetto» importa una prevenzione gravemente limitatrice di quello che gli odierni analisti chiamano il «significato del significato», cioè l'ambito delle nostre conoscenze reali. Quella scelta è stata determinata dal criterio dell'intersoggettività, o come anche si potrebbe dire, della sostituibilità degli assertori, che è indubbiamente il carattere di ogni conoscenza «scientifica», ma non di ogni forma o modo di conoscenza, sia che si tratti della conoscenza ordinaria (afferente alla comune esperienza sensibile), sia che si tratti della conoscenza propriamente filosofica o «metafisica». E inoltre resta pur sempre la domanda sul rapporto che corre fra la parola che dice e ciò che la parola dice: se essa sia come tale manifestativa dell’essere. A questo punto va, però, segnalato come alla fine degli anni settanta del secolo scorso la stessa filosofia analitica abbia ridimensionato la propria comprensione delle idee in termini meramente linguistici. Si assiste, così, ad una progressiva ripresa delle tematiche tradizionali e a una rinnovata ricerca di tipo trascendentale, anche con uno sbocco di tipo propriamente ontologico e, talora, metafisico. Possiamo citare, ad esempio, il caso di R.M. Chisholm per il quale una corretta interpretazione del «riferimento linguistico» non può esser fatta se non risalendo alle strutture inten4920

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zionali della coscienza: «Secondo la tesi del primato dell'intenzionale – scrive appunto Chisholm –, la referenza al linguaggio deve essere spiegata nei termini dell'intenzionalità del pensiero» (On Metaphysics, Minneapolis 1989, p. 129; cfr. pure A Realistic Theory of Categories. An essay on Ontology, Cambridge 1966, p. 35). E così, quando venga rilevato che un’espressione linguistica si dà come un’articolazione intenzionale di tipo oggettivo, si deve anche riconoscere che tale espressione implica propriamente un riferimento oggettivo: «La parola “Pferd”, per esempio, si riferisce a cavalli – scive ancora Chisholm – in quanto esprime pensieri rivolti direttamente su cavalli». Analogamente conviene qui ricordare l’opera di P.F. Strawson, la cui «metafisica descrittiva», con una ricognizione di tipo strutturale, è volta appunto al superamento del dualismo mente-cosa. Siamo da questo lato riportati nuovamente nel campo dell’intenzionalità. Lo studio del linguaggio, secondo Strawson, non deve infatti chiudersi nel rilievo delle sue fattualità, deve bensì attingere gli «strati più profondi» del pensiero, alla base di ogni uso linguistico: invarianti atemporali dell’«equipaggiamento concettuale» inseparabilmente connesse alle strutture portanti della realtà (Individuals. An Essay in Descriptive Metaphysycs, London 1959; tr. it. di E. Bencivenga, Individui. Saggio di metafisica descrittiva, Milano 1978, p. 10). In questa direzione va anche segnalata l’opera di E. Tugendhat che, nelle sue Vorlesungen zur Einführung in die Sprachanalytische Philosophie (Frankfurt am Main 1976) ha rilevato lucidamente la necessità di una ricerca ontologica, sino a dire che la filosofia analitica deve configurarsi non come filosofia del pensiero-linguaggio, bensì come filosofia dell’essere. Per questa via viene riproposto lo statuto di un’attività impegnata a riflettere sulle proprie origini e a conferire piena legittimità alle proprie dizioni. La filosofia analitica sembra così presentarsi come una forma di conoscenza a priori che procede a rendere esplicite le condizioni trascendentali del già dato. Solo che tali condizioni sono ritrovate all’interno dell’universo linguistico, sicché la riflessione non rispecchia propriamente «né una coscienza trascendentale, né qualche coscienza soprannaturale, ma una comunità linguistica che esiste empiricamente» (Philosophische Aufsätze, Frankfurt am Main 1992, p. 270).

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In questa prospettiva lo scenario si dilata ben oltre la ricerca sui modi e sullo statuto del linguaggio. Acquistano un grande interesse, per la luce che esse portano sopra quel complesso di condizionamenti psichici e sociali del linguaggio e della conoscenza, anche le indagini della psicanalisi e della psicopatologia del linguaggio, da un lato, e della cosiddetta «sociologia della conoscenza» (Wissenssoziologie), dall'altro. Dell'importanza gnoseologica della psicoanalisi ha osservato a suo tempo, e con ragione, Angus Sinclair: «qualsiasi ricerca gnoseologica la quale ignori l'opera degli psicoanalisti, e a fortiori ne asserisca l'irrilevanza, è una perdita di tempo» (The Conditions of Knowing, London 1951, p. 216). In realtà, per lo straordinario sviluppo che ha avuto nella filosofia contemporanea, la tematizzazione dell'intenzionalità della coscienza è sostenuta e integrata, piuttosto che negata, dalle rivelazioni psicoanalitiche di un mondo sub- e pre-coscienziale in cui si preparano e si fissano le possibilità strutturali del nostro stesso sguardo sul mondo. Vale per entrambe le direttrici quanto, a metà del secolo scorso, osservava Ch. Baudouin per il quale «la coscienza (quella che abbiamo chiamata la coscienza-di-sé) ha cessato di essere il centro di gravità della psicologia» (L'âme et l'action. Prémisses d'une philosophie de la psychanalyse, Jenève I944, p. 168). La stessa osservazione potrebbe essere ripetuta sul versante della sociologia della conoscenza che, con le parole di J. Maquet potremmo definire come «lo studio delle produzioni mentali in quanto esse dipendono da fattori sociali e culturali» (La sociologie de la connaissance, Louvain 1949, p. 22). Analogamente alla psicoanalisi, essa mette in rilievo l'irrazionale che condiziona l'esperienza conoscitiva, al di qua del contenuto intrinseco e delle strutture logiche o, come dice K. Mannheim, del «valore facciale» delle idee, calandole nell'ethos proprio di ciascuna forma di cultura e di ciascuna epoca storica e ritrovando il loro diretto rapporto con gli interessi economico-sociali dei gruppi o delle classi che le sostengono. La sua giustificazione fondamentale è stata ben precisata proprio da Mannheim: «La concezione della conoscenza come un atto intellettuale che non è perfetto se non quando non porti più alcuna traccia della sua origine umana, è ingannevole, e oscura i fenomeni fondamentali di quei domini più larghi del conoscibile nei quali – se

Gnoseologia l'elemento umano e storico è trascurato – i risultati del pensiero vengono completamente snaturati» (Wissenssoziologie, in Vierkandt, Handwörterbuch der Soziologie, Stuttgart 1931, p. 673). Ogni nostra conoscenza di ordine qualitativo è essenzialmente «prospettivista», cioè legata ad un punto di vista che corrisponde più o meno strettamente alla situazione sociale e storica di un gruppo nella collettività umana. Il compito della sociologia della conoscenza è appunto quello di mettere in luce «l'equazione sociale» presente nelle singole prospettive o «ideologie», così da neutralizzare l'effetto limitativo o deformante di questi influssi sociali e consentire una più alta obiettività. In questo senso, la sociologia della conoscenza si pone, accanto alla fenomenologia, alla psicoanalisi e al positivismo logico, come una delle «grandi correnti analitiche della filosofia contemporanea» (P. Filiasi-Carcano, La sociologia della conoscenza, in Fenomenologia e Sociologia, «Archivio di Filosofia», 1951, p. 54). In questa prospettiva un contributo di alto rilievo è venuto dai sociologi della cosiddetta Scuola di Francoforte. In particolare va ricordata l’opera di Jürgens Habermas, che sin dagli anni sessanta del secolo scorso ha segnato, nell’ambito della riflessione sociologica, una sua via «kantiana» nello studio della conoscenza umana. Già con Erkenntnis und Interesse (Frankfurt a. M. 1968, tr. it. di E. Agazzi, Conoscenza e interesse, Roma-Bari 1980, 19832), Habermas indica nell’istanza pratica dei processi cognitivi una «funzione costitutiva» (e dunque «trascendentale») nei confronti del mondo oggettivo. È, infatti, l’«interesse pratico» verso un ambito oggettuale, che in definitiva orienta la coscienza e determina il tipo di conoscenza che ne avremo, dando così luogo a un «agire strumentale» e di conseguenza alla stessa sfera dell’interazione sociale e delle comunicazioni simboliche. A partire dal 1970, Habermas individua poi una giustificazione del punto di vista critico ricorrendo alla struttura del linguaggio e indicando nel concetto di «buona comprensione» una sorta di norma ideale per la quale possono dischiudersi i percorsi critici della relazione intersoggettiva, sino all’emancipazione dai fraintendimenti, dai dogmatismi, dalle coazioni intrapsichiche che impediscono una retta comunicazione. Con la Theorie des kommunikativen Handelns del 1981 (tr. it. di P. Rinaudo, Teoria dell’agire comunicativo, Bologna 1986) l’ideale di una comunicazione giusta 4921

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Gnoseologia e veridica diventa per Habermas il paradigma fondamentale della razionalità. In questa direzione egli riterrà di usare un «argomento pragmatico-trascendentale» (Moralbewußtsein und kommunikatives Handeln, 1983, tr. it. a cura di E. Agazzi, Etica del discorso, Roma-Bari 1985) per il quale la condizione di ogni argomentazione sta nella ricerca cooperativa dell’argomento migliore, nel rispetto della parità di condizioni fra gli argomentanti, nell’orientamento verso quel che può essere inteso come il «principio di universalizzazione». Con un tono ancora kantiano il criterio della verità e dell’argomentazione pratica sta infine nel ricercare solo quelle norme le cui conseguenze possano essere accettate da tutti i soggetti coinvolti nella relazione discorsiva. Analogamente, forse con maggior penetrazione gnoseologica e sempre a partire dalla tradizione francofortese, Karl Otto Apel si è avvalso della riflessione relativa alle condizioni dell’implesso discorsivo per superare una visione del soggetto conoscente di tipo mentalistico e solipsistico. Infatti – nota Apel –, se per un verso si deve riconoscere che il mondo si apre per i soggetti sempre nella dimensione di una prassi comune e di un linguaggio condiviso, per altro verso si deve anche ritenere che, di là da ogni contingenza storica, la prassi discorsiva non si darebbe se non sul presupposto di un riferimento veritativo di senso. Con un evidente richiamo alla classica argomentazione aristotelica (libro IV della Metafisica), Apel deve così rilevare che non vi sarebbe attività discorsiva se non sulla base di condizioni indubitabili per ogni discorso: vi sono, infatti, enunciati (quali il principio di non contraddizione o il cartesiano «cogito ergo sum») che si danno con una loro originaria evidenza e che come tali non possono essere dimostrati, giacché ogni processo dimostrativo già li presuppone; enunciati che perciò non possono essere neppur negati senza incorrere in una contraddizione, o meglio in quella che Apel chiama una «contraddizione performativa», vale a dire una contraddizione tra l’atto linguistico che stiamo compiendo e il contenuto proposizionale che in questo atto linguistico affermiamo. «Nell’apriori dell’argomentazione è implicita la pretesa di giustificare non solo tutte le affermazioni della scienza ma, al di là di queste, tutte le pretese umane (anche le pretese implicite, che sono contenute nelle azioni e nelle istituzioni, degli uomini nei confronti di altri 4922

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uomini). Chi argomenta riconosce implicitamente tutte le possibili pretese di tutti i membri della comunità della comunicazione che si possono giustificare mediante argomenti razionali [...] ed egli si impegna al tempo stesso a giustificare mediante argomenti le proprie pretese nei confronti degli altri» (Transformation der Philosophie, Frankfurt a. M. 1973, vol. II, p. 426, tr. it. parziale di G. Carchia, Comunità e comunicazione, Torino 1977, p. 260). 3. L'esistenzialismo e la risoluzione della gnoseologia nella «ontologia semantica». – Ma il movimento filosofico che ha tematizzato nel suo senso più radicale il «limite» della riduzione fenomenologica o della obiettivazione pura è stato l'esistenzialismo. Nelle sue diverse e anche opposte espressioni, esso ha mantenuto fermo un punto che rappresenta, in certo modo, la sua più importante scoperta gnoseologica. Non c'è conoscenza genuina che, nel processo di chiarificazione dei propri presupposti, non finisca con il proporsi come una domanda intorno al nostro proprio essere e intorno all'essere stesso in generale o nella sua totalità. Ebbene, su questo piano ontologico dei fondamenti della conoscenza, la domanda intorno all'essere si implica nei propri dati, investe e coinvolge lo stesso domandante. Come dice Heidegger, «ogni domanda metafisica può essere posta solo in modo che colui che la pone – in quanto tale – è coinvolto nella domanda, cioè è posto in questione. Di qui ricaviamo l’indicazione che ogni domandare metafisico deve essere posto in modo totale e a partire dalla situazione essenziale dell’esserci che domanda» (M. Heidegger, Was ist Metaphysik? [1929], Frankfurt a. M., 1976, p. 103; tr. it. di F. Volpi in Heidegger, Segnavia, Milano 1987, pp. 59-60 ). Ciò significa che il sapere, precisamente quel sapere che è veramente tale e non soltanto un accomodamento provvisorio e superficiale di dati, non si aggiunge al nostro esserci attuale, bensì lo muta profondamente dal di dentro, fin da quando si pone come richiesta. Questa sorge «in noi, qui ed ora, per noi», così che noi stessi ci caratterizziamo e ci determiniamo nella scienza che cerchiamo e che diventa pertanto «la nostra passione», ibi, pp. 97 s.). Analogamente afferma G. Marcel, definendo il rapporto tra «problema» e «mistero» (cfr. Être et avoir, Paris 1934, p. 145; Du refus à l'invocation, ivi, 1940, p. 183; cfr. anche un'analoga posizione in K. Jaspers, Vernunft und Existenz, Gröningen 1935, p. 43, e

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Existenzphilosophie, Berlin 1938, p. 14). Partendo da questa premessa, risulta subito impossibile un'applicazione del metodo «riduttivo» ai procedimenti propriamente filosofici del pensiero, senza un'alterazione profonda della loro natura. L'essere non può essere considerato da un punto di vista che gli è esteriore, cioè la conoscenza ontologica implica necessariamente in sé un'esperienza esistenziale, quella determinatezza o finitudine o passione dell'esserci (Dasein), che in nessun modo può dunque essere «neutralizzata» o «messa tra parentesi» dall'epoché, senza che venga meno la stessa possibilità di quella conoscenza. Così l'esistenzialismo ha impostato il problema della conoscenza filosofica, ponendosi, con originalità e ricchezza di prospettive metodologiche, come una fenomenologia dell'esperienza metafisica, dove, talvolta in maniera paradossale e antinomica, talaltra secondo un ritmo metessico di risonanze classiche, il comportamento verso l'essere e la prospettiva sull'essere si implicano inscindibilmente. Certamente il pericolo di ricadere dentro le strettoie di una gnoseologia relativistica, da un lato trasferendo nell'essere stesso quelle che sono soltanto le condizioni della prospettiva in cui esso ci si manifesta, e dall'altro risolvendo trascendentalmente l'essere nelle strutture del nostro comportamento verso di esso, è tutt'altro che un pericolo fittizio per l'esistenzialismo. Si può dire anzi che esso costituisca il suo stimolo o la dialettica interna delle sue forme più genuine, tendenti vicendevolmente ora ad avvicinarsi alle espressioni estreme dell'umanesimo («noi siamo sopra un piano dove non c'è nient'altro che gli uomini»: J.-P. Sartre, L'existentialisme est un humanisme, Paris 1946, p. 36), ora ad estenuarsi in un ermetico trascendentismo (come avviene p. es. nelle pagine, tuttavia non prive di un forte pathos metafisico, che Jaspers dedica alla «lettura delle cifre», cioè all'interpretazione di un linguaggio indiretto, allusivo, simbolico della Trascendenza o dell'«assolutamente Altro», che si cela piuttosto che manifestarsi nel mondo; cfr. Philosophie, Berlin 1932, III, pp. 150 ss.). Di fatto, l'accusa di «psicologismo» o di «antropologismo trascendentale» è stata mossa da Husserl a Heidegger, suo discepolo (cfr. E. HUSSERL, Nachwort zu meinen «Ideen», in «Jahrbuch für Philosophie und phaenomenologische Forschung », Halle 1930, pp. 550 ss.). Nonostante le proteste di Heidegger, questa non

Gnoseologia era un'accusa infondata. In Sein und Zeit (ivi 1927) egli aveva tentato di scoprire il senso dell'essere in generale, partendo dall'essere dell'uomo, dall'analitica esistenziale del singolare Dasein: l'essere in generale doveva essere «compreso», in definitiva, come la struttura trascendentale della sua possibilità o «progetto». Ma era finito in una impasse. Impossibile uscire dal Dasein, se non si dispone di altra conoscenza che non sia quella emergente dal nostro stesso comportamento di ricerca; impossibile parlare dell'essere in un linguaggio meramente esistenziale. Non per nulla a Sein und Zeit, Heidegger farà seguire una radicale «svolta» (Kehre), per la quale l’Essere non sarà compreso a partire dal Dasein, bensì il Dasein a partire dall’Essere. I filosofi che hanno seguito il primo Heidegger sono rimasti, in realtà, come Sartre o MerleauPonty o Abbagnano, in una forma più o meno scoperta di «antropologismo», secondo l'espressione di Husserl, sia pure di un antropologismo mondanizzato, «ex-statico», e non soggettivistico e dialettico come quello del contemporaneo neoidealismo (cfr. P. Prini, Storia dell’esistenzialismo, Roma 1989, pp. 240 ss.). Ma è stato merito di Heidegger di essersene invece liberato, concentrando le proprie meditazioni, con una consapevolezza sempre più coerente, sull'essere stesso, di cui il nostro esserci (Dasein) è il prolungamento e non viceversa, così che soltanto nella luce dell'essere esso può venire compreso. Queste meditazioni hanno determinato la svolta di cui si è fatto cenno. «Da questo nuovo punto di vista – ha scritto P. Chiodi – il linguaggio non può più situarsi in un processo che va dall'esistenza all'essere ed inserirsi nel problema del loro possibile rapporto. Il punto di partenza è ora al di là di ogni problematicità, è l'essere come tale, all'interno del quale non sussiste rapporto che non sia coincidenza, identità, necessità» (in «Rivista di Filosofia», 1955, pp. 177 ss.). «Ma l’essere – che cos'è l'essere? Esso “è” se stesso (Es selbst). Questo è quanto il pensiero futuro deve imparare a esperire e dire» – ammonisce Heidegger (nel Brief über den «Humanismus», in app. a Platons Lehre von der Wahrheit, Bern 1947, p. 76; tr. it. di F. Volpi in Segnavia, cit., p. 284). Tutta la filosofia occidentale, abbandonando le primissime intuizioni dei presocratici, è stata per Heidegger un «oblio dell'essere», una dispersione del suo senso originario nelle caratterizzazioni esi4923

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Gnoseologia stenziali (Dio inteso come causa del mondo, lo Spirito, l'Idea ecc.) con le quali le varie metafisiche che si sono succedute da Platone in poi hanno letto l'essere nei modi dell'ente (o[n, ens). Bisognerà allora riportare l'ontologia dalla sua deformazione umanistica al «mistero» dell'essere, alla sua originaria «verità», che non dovrà essere intesa, in un ambito interiore all'esistente, come una ojrqovth" o rectitudo del giudizio, ma piuttosto, secondo l'indicazione del suo stesso etimo greco, come aj-lhvqeia, non-nascondimento, cioè come il rapporto necessario che l'essere ha con il proprio svelarsi. Dove avviene questo svelarsi originario dell'essere? Nel linguaggio. «Il linguaggio è la casa dell'essere. Nella sua dimora abita l'uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora» (Brief über den «Humanismus», cit., p. 53, tr. cit., p. 267). Nella sua forma pura e aurorale, com'è quella della poesia, la parola ha un carattere sacro, perché ha un'originaria appartenza all'essere: è «casa della verità dell’essere» (ibi, p. 59; tr. cit. p. 272), «voce dell'essere» (cfr. Was ist Metaphysik?, Nachwort alla 4ª ed., Frankfurt a. M. 19516, p. 42; tr. di F. Volpi, in Segnavia, cit., p. 265). In quanto tale, anziché come un equipaggiamento di strumenti efficaci per il nostro comportamento sociale, il linguaggio dev'essere assunto dalla filosofia, non per essere disperso nella banalità della «chiacchiera», ma per essere compreso nel silenzio, nella disponibilità di colui che ascolta. La comprensione dell'essere è appunto il silenzio che è pieno soltanto della sua voce: il silenzio dell'uomo, perché l'essere parli. Di fatto, Heidegger nel seguito delle sue opere (Holzwege, Frankfurt a. M. 1950, 1987; Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, ivi 1951, 1981; Einführung in die Metaphysik, Tübingen 1953, 1983), ha dedicato le proprie ricerche da un lato, all'analisi dei significati originari, etimoontologici, di alcuni termini o «parole essenziali» della lingua tedesca e greca, dall'altro, all'interpretazione di alcuni «pensatori essenziali» (Anassimandro, Hölderlin e altri), che hanno aperto, con la propria testimonianza dell'essere, nuove «epoche» della sua manifestazione nel mondo. L’approdo heideggeriano può essere un viatico decisivo per una ricomposizione del problema gnoseologico. L’insistito riporto della questione dell’essere nella considerazione del linguaggio potrebbe essere letto come uno sviluppo e un completamento della lezione feno4924

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menologica: l’orizzonte dell’intenzionalità, trapassato con Husserl e dopo Husserl nello studio dei diversi approcci noetici per i quali l’essere viene a coscienza, doveva ultimamente raccogliersi proprio sul versante del linguaggio, aprendo così le porte alle vie dell’ermeneutica ovvero all’esegesi delle testimonianze ontologiche. La sigla di questo percorso potrebbe trovare il suo esergo in quella laconica conclusione di Heidegger, che leggiamo nelle ultime righe del Poscritto a «Che cos’è la metafisica?»: «Il pensiero dell’essere protegge la parola, e in questa cautela compie la sua missione. Esso è la cura per l’uso del linguaggio. Dal silenzio a lungo custodito e dall’accurata chiarificazione dell’ambito in esso diradato viene il dire del pensatore. Dalla stessa fonte il nominare del poeta. [...] Il pensatore dice l’essere. Il poeta nomina il sacro» (tr. cit., pp. 263-264). Potremmo continuare aggiungendo che il «dire» del pensatore, mentre assicura l’uso del linguaggio, costituisce ad un tempo metodi e criteri per interrogare i «nomi» pronunziati dal poeta. La gnoseologia filosofica si risolverebbe così in una «ontologia semantica», in una analisi interpretativa di quelli che potrebbero essere detti i «protocolli dell’essere». E, però, come questo diventa possibile, se la giusta recriminazione di Heidegger verso la metafisica occidentale, verso quella lunga storia di pensiero che si è tradita nel ridurre la questione dell’essere in una questione onto-teologica, continuasse ad investire senza eccezioni l’intero percorso della tradizione metafisica? In molti luogi di questo percorso, talora ai suoi margini, restano consegnate prezione indicazioni sul metodo, sulle possibilità e sui limiti, infine sulla struttura veritativa del pensare. Di là dagli equivoci dualistici della modernità, di là dalle sue risoluzioni nominalistiche che ne restano ancora prigioniere, occorre riprendere ancora una volta l’utopia di una filosofia come «scienza rigorosa»: un pensiero che, forte dei suoi paradigmi, sia capace di definire i modi delle «costituzioni del senso» e solo per questo sia poi in grado di interrogare e vagliare con umiltà i «nomi» dell’essere. P. Prini - V. Melchiorre BIBL.: Oltre le opere già citate nel corso dell'esposizione, si vedano: M. SCHELER, Probleme einer Soziologie des Wissens, in Die Wissensformen und die Gesellschaft, Leipzig 1926, tr. it. di D. Antiseri, Sociologia del sapere, Roma 1976; G. ZAMBONI, Metafisica e gnoseologia, Verona 1935; A. BRUNNER, La connaissance hu-

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Gnosi - gnosticismo ledge, New York 1962; F. MORANDINI, Critica, Roma 19635; A. ETCHEVERRY, L'homme dans le monde. La connaissance humaine et son valeur, Paris 1963; E. GETTIER, Is justified true belief knowledge?, «Analysis» 23 (1963), pp. 121-123; B. RUSSELL, Significato e verità, e La conoscenza umana, Milano 1963; M. ZUNDEL, Dialogue avec la vérité, Paris 1964; P. FOULQUIÉ, Le problème de la connaissance, Paris 19643 (testi); AA.VV., «Memorias del XIII Congreso internacional de Filosofía», V, sez. II: Teoria del conocimiento y de la ciencia en general, Messico 1964; P. NATORP, Forschungen zur Geschichte des Erkenntnisproblems im Altertum, rist., Hildesheim 1965; F. VAN STEENBERGHEN, Epistémologie, Louvain-Paris 19654; G. BONTADINI, Empirismo e gnoseologia in Hume. L'esplosione del gnoseologismo nella critica kantiana, in Studi di filosofia moderna, Brescia 1966, pp. 259-327, 331-451; G. ZAMBONI, La persona umana, [1940], Milano 19832; P. MOSER - A. VAN DER NAT (a cura di), Human Knowledge: Classical and Contemporary Approaches, New York - Oxford 1987; R. CHISHOLM, Theory of Knowledge, Englewood Cliffs 1989; K. LEHRER, Theory of Knowledge, Boulder (Colorado) 1990; G. ZAMBONI, Corso di gnoseologia pura elementare [1929], 3 voll., Milano 1990; E. SOSA, (a cura di) Knowledge and Justification, 2 voll. Brookfield (Vermont) 1994; K. LUCEY, On Knowing and the Known, Buffalo - New York 1996. ➨ BEHAVIORISMO; CONOSCENZA; CONOSCENZA, SOCIOLOGIA DELLA; TRUISMO.

GNOSEOLOGISMO (gnoseologism; GnoseoGnoseologismo logismus; gnoséologisme; gnoseologismo). – Termine usato a significare quegli indirizzi filosofici nei quali il problema della conoscenza ha un carattere preminente sugli altri problemi e ne condiziona la soluzione. Red.

GNOSI - GNOSTICISMO (gnosis - gnostiGnosi - gnosticismo cism; Gnosis - Gnostizismus; gnose - gnosticisme; gnosis - gnosticismo). – Il termine gnw'si" («conoscenza») nel pensiero classico più antico (cfr. p. es.: Eraclito, B 56, in H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di W. Kranz, Berlin 1951-526, 3 voll.; Platone, Resp., 478 c, 508 e) non si differenzia da ejpisthvmh, e sta a significare l’atto conoscitivo nel suo valore razionale e umano. Solo più tardi esso non denota più il processo discorsivo del pensiero umano come tale, ma una «rivelazione» di verità divine, una intuizione gratuita che apporta «gioia» all’iniziato e gli assicura la «salvezza» (cfr. R. Bultmann, ginwvskw, gnw'si", in G. Kittel [a cura di], Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testa4925

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Gnosi - gnosticismo ment, I, Stuttgart 1933, coll. 688 ss., tr. it. a cura di F. Montagnini - G. Scarpat e O. Soffritti, Grande lessico del Nuovo Testamento, Brescia 1965, vol. II, coll. 461 ss.); in questo senso non ricorre soltanto negli scritti gnostici, ma anche in Filone, san Paolo (1 Cor 7,7; 13, 8; Ef 3, 19), Clemente Alessandrino (cfr. Stromata, VII), nel Corpus Hermeticum, negli Oracoli Caldaici, nei papiri magici ecc. Nello gnosticismo (indubbiamente il più sconcertante e inestricabile fenomeno del sincretismo ellenistico-cristiano) la gnosi è rivelazione di verità soteriologiche ed escatologiche; essa ci insegna «chi fummo, che cosa siamo diventati, dove eravamo, dove siamo stati gettati, verso quale meta ci affrettiamo, da che cosa siamo riscattati, cos’è la generazione, cos’è la rigenerazione» (Clemente Alessandrino, Excerpta ex Theodoto, 78, 2). Per i naasseni (cfr. pseudo-Ippolito, Refutatio contra omnes haereses, V, 6, 6) la «conoscenza dell’uomo è l’inizio della perfezione, la conoscenza di Dio ne è il compimento» (cfr. Tertulliano, De praescriptione haereticorum, 7). SOMMARIO: I. Le fonti. - II. Il problema delle origini. - III. Gnostici e sette gnostiche. - IV. Dottrine gnostiche. - V. Gnosticismo e cristianesimo. I. LE FONTI. – Le più importanti testimonianze sullo gnosticismo (cristiano) ci sono conservate dagli scrittori ecclesiastici e dagli eresiologi, che citano spesso brani testuali: Ireneo, Adversus haereses; pseudo-Ippolito, Refutatio contra omnes haereses (o Philosophoumena); Tertulliano, Adversus Valentinianos; Clemente Alessandrino, Stromata; pseudo-Tertulliano, Adversus omnes haereses; Filastrio, De haeresibus; Epifanio, Panarion; Teodoreto, Haereticorum fabularum compendium; anche il trattato IX della II Enneade di Plotino (Contro gli gnostici) è una testimonianza preziosa. I testi originali più importanti in lingua greca sono: 9 frammenti di Valentino, riportati da Clemente Alessandrino (6), dallo pseudo-Ippolito (2) e da Antimo (1); la Lettera a Flora di Tolomeo, riportata in Epifanio, Panarion, 33, 3-7; gli Excerpta ex Theodoto, tramandati tra le opere di Clemente Alessandrino; i frammenti di un Commento al Vangelo di Giovanni del valentiniano Eracleone, riportati in Origene, Commentarii in Iohannem; vari scritti in lingua copta: gli scritti del Codex askewianus di Londra (Pistis Sophia); gli scritti del Codex brucianus di Oxford (Libri di Jeû o Libro del grande trattato iniziatico; Scritto senza ti4926

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tolo o Topografia celeste); gli scritti del Codex beroliniensis 8502 di Berlino (Evangelo di Maria; Apocrifo di Giovanni; Sapienza di Gesù Cristo; Atto di Pietro); gli scritti di Nag Hammadi (13 codici papiracei, contenenti 52 trattati, alcuni dei quali in più versioni: in tutto 45 opere distinte, ma non tutte di argomento specificatamente gnostico), scoperti presso l’omonima località, in Alto Egitto, nel 1945. II. IL PROBLEMA DELLE ORIGINI. – Agli scrittori ecclesiastici (pseudo-Ippolito, Ireneo, Epifanio e altri), ai quali dobbiamo le più ampie testimonianze, lo gnosticismo apparve come un fenomeno sincretistico, nato e cresciuto dentro l’ambiente cristiano e perciò come una deviazione dalla rivelazione di Cristo, operata sotto l’influsso della filosofia e della mitologia pagana. La «tesi ecclesiastica» fu sostenuta in un primo tempo dallo stesso Harnack (Lehrbuch der Dogmengeschichte, vol. I: Die Entstehung der Dogmengeschichte, Freiburg 1886), la cui definizione dello gnosticismo, che però egli stesso più tardi ripudiò, «la ellenizzazione radicale del cristianesimo», fu accolta e difesa, fra gli altri, da E. de Faye (Gnostiques et gnosticisme, Parigi 19252 [1913]), F.C. Burkitt (Church and Gnosis, Cambridge 1932) e, in Italia, da E. Buonaiuti (Lo gnosticismo, Roma 1907). Indubbiamente, le origini dello gnosticismo andavano cercate ben oltre i limiti del messaggio cristiano. Molti elementi dottrinali extracristiani, essenziali nella gnosi, non potevano essere ricondotti all’opera personale dei singoli eretici; la teoria del supremo Dio ignoto coi suoi sette arconti subordinati, il mito della discesa e del ritorno delle anime, la figura della Dea-Madre tradivano chiaramente una provenienza orientale: Bousset (Hauptprobleme der Gnosis, Göttingen 1907) ritrovava tutto questo complesso mitico-astrale nel sincretismo persiano-babilonese; e Reitzenstein, che aveva prima parlato di origini egiziane (Poimandres, Leipzig 1904) chiarendo così definitivamente le affinità dell’ermetismo con la gnosi, si ricongiungeva alla fine alla tesi di Bousset, additando nella religione iraniana e nei miti babilonesi la fonte originaria (Das iranische Erlösungsmysterium, Bonn 1921). La «tesi degli storici delle religioni» apriva così la via alla «tesi dei sincretisti», che videro nella gnosi, non questo o quell’elemento orientale, persiano o egiziano o babilonese, ma il sincretismo stesso, diventato metodo e

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sistema. P. Wendland (Die hellenistich-römische Kultur, Tübingen 1912), J.P. Steffes (Das Wesen des Gnostizismus und sein Verhältnis zum katholischen Dogma, Paderborn 1922), H. Leisegang (Die Gnosis, Stuttgart 19855[1924]) riconobbero nel sincretismo un fenomeno culturale-religioso ben più antico dell’ambiente alessandrino e nello gnosticismo il risultato della fusione del sincretismo orientale e delle dottrine ellenistiche, anteriore, anche nelle sue forme associative, al fenomeno cristiano. La tesi sincretistica (combattuta da H. Jonas in Gnosis und Spätantiker Geist, vol. I: Die mythologische Gnosis, Göttingen 19643 [1934]; vol. II/1: Von der Mythologie zur mystischen Philosophie, Göttingen 19662 [1954], alla luce di un’interpretazione brillante, ma storicamente infondata) ha ottenuto, per lungo tempo, grande consenso tra gli studiosi, soprattutto per le affinità e le parentele dottrinali che è riuscita a individuare nello gnosticismo, nel quale è ormai concordemente riconosciuta la confluenza di alcuni filoni eterogenei: la filosofia ellenistica, le religioni misteriche di varia provenienza, l’ermetismo e le correnti magico-astrologiche dell’Oriente (cfr. A. Adam, Die Psalmen des Thomas und das Perlenlied als Zeugnisse vorchristlicher Gnosis, Berlin 1959; U. Bianchi, Le problème des origines du gnosticisme, in Id. [a cura di], The Origins of Gnosticism/Le origini dello gnosticismo, «Colloquio di Messina, 13-18 aprile 1966: testi e discussioni», Leiden 1970, pp. 1-27; K. Rudolph, Die Gnosis: Wesen und Geschichte einer spätantiken Religion, Göttingen 1978, ed. it. a cura di C. Gianotto, La gnosi: natura e storia di una religione tardoantica, Brescia 2000). III. GNOSTICI E SETTE GNOSTICHE. – Inestricabile è il groviglio delle innumerevoli sette gnostiche, e insolubile è la questione delle loro interferenze e dei loro rapporti. Una prima distinzione, che viene ormai generalmente accolta, discrimina una gnosi volgare da una gnosi dotta. La gnosi volgare si sviluppa e si diffonde in Siria, in Asia Minore, a Roma, fors’anche in Egitto, e ha i suoi precursori nel I secolo: Cerinto in Asia Minore, ad Alessandria i carpocraziani e Satornilo; Simon Mago e Menandro a Samaria, e altri; vi hanno una parte preponderante le pratiche magiche e le elucubrazioni mitologiche e vi confluiscono elementi astrologici di provenienza iranico-babilonese, già presenti nel sincretismo del I secolo a. C. In questo ambiente è facile comprendere la curvatura magi-

Gnosi - gnosticismo co-teurgica del neoplatonismo di Giamblico, di Prisco, di Massimo, di Giuliano l’Apostata nel III e IV secolo; né si possono considerare estranei al suo influsso gli Oracoli Caldaici, composti probabilmente nel II secolo. La gnosi dotta ha il suo centro principale ad Alessandria e si differenzia per un maggiore impegno speculativo, precorsa, anch’essa nel I secolo a. C., dalla filosofia religiosa dell’Egitto ellenistico, dall’ermetismo, dal giudaismo alessandrino (Aristobulo, Filone): essa è rappresentata da personalità singolari, da Basilide, da Valentino, da Marcione, in cui la gnosi si spoglia di ogni elemento estraneo e mira a presentarsi nella sua pura schiettezza. A quale delle due gnosi spetti la priorità cronologica è controverso; ma pare più accettabile la tesi di Bousset, che sostenne, contro de Faye e Burkitt, difensori della «tesi ecclesiastica», l’indipendenza e l’anteriorità della gnosi volgare rispetto a quella dotta. Lo gnosticismo congiunto alla dottrina zoroastriana sfocerà poi nel manicheismo; molto ha in comune con lo gnosticismo, senza esser propriamente tale, il mandeismo tuttora sopravvivente. Di fronte alle sette filosofeggianti, le sette della gnosi volgare, che sono numerosissime (Epifanio, Panarion, proemio, I, 4, 3-8, ne enumera una sessantina), sono state raccolte da R. Liechtenhan (Ophiten, s. v., in Realencyklopädie für protestantische Theologie und Kirche, vol. XIV: Newman - Patrimonium Petri, Leipzig 1904) sotto la comune denominazione di «ofiti» (da o[fi", serpente, di cui praticavano il culto). Benché Liechtenhan distingua un ofitismo in senso specifico (che pensa di poter descrivere servendosi dell’inno dei naasseni [pseudo-Ippolito, Refutatio contra omnes haereses, V, 10, 2]) da un ofitismo generico, il nome è rimasto a denotare tutti gli gnostici che non portano il nome del loro scolarca; come tali sono considerati i barbelioti, gli ofiani, i perati, i sethiani, gli arcontici, i severiani, i cainiti, i nicolaiti, i prodiciani, gli antitatti, e altri. Indubbiamente, al di sopra di tutte queste sette gnostiche caratterizzate, che fiorirono soprattutto nel II secolo, campeggiano per potenza speculativa e per doti organizzative alcune personalità eccezionali, come Valentino e Marcione. Ambedue svolsero la loro attività a Roma e nel medesimo tempo; ambedue si atteggiarono a esegeti del Nuovo Testamento. Ma il secondo, in modo particolare, costituì un 4927

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Gnosi - gnosticismo grave pericolo per l’unità della chiesa cattolica: la vastissima comunità che egli organizzò in nome della sua riforma, col suo complesso dottrinale e carismatico, voleva essere, non una setta, ma una ecclesia: il suo rigorismo morale voleva essere un monito severo per ogni cristiano. Tertulliano (Adversus Marcionem, V, 19) era costretto a riconoscerlo: «Marcione ha riempito di sé il mondo intero» (cfr. A. von Harnack, Marcion. Das Evangelium vom fremden Gott, Leipzig 19242). IV. DOTTRINE GNOSTICHE. – Alla diversità delle sette si accompagna la varietà delle idee e delle elucubrazioni mitico-filosofiche. Non mancano tuttavia alcuni motivi essenziali, comuni ai vari sistemi: un Dio supremo, inconoscibile, ed estraneo al mondo fisico, un complesso di entità mediatrici, la condanna della materia, il racconto di un viaggio dell’anima, la funzione redentrice di un salvatore. Nel sistema di Valentino (di cui possediamo due versioni, alquanto differenti, in Ireneo, Adversus haereses, I, I, e in pseudo-Ippolito, Refutatio contra omnes haereses, VI, 29), all’origine di tutto è un essere infinito, un eone perfetto (tevleio" aijwvn) o propadre (propavtwr), abisso (buqov") eterno e ingenerato, incomprensibile e invisibile, tranquillo e in profondo riposo. Per Ippolito, esso è solo, monade assoluta senza consorte e senza compagna (a[zugo" kai; a[qhlu"); per Ireneo, è congiunto a idea (e[nnoia), che è insieme silenzio (sighv) e grazia (cavri"). Comunque, anche nella versione di Ireneo, la prima coppia è effettivamente una realtà sola, da cui emanano «in vista della gloria del padre», delle suzugivai, o coppie di eoni: la prima coppia, emanante dal padre, è costituita da intelligenza (nou'") e verità (ajlhvqeia), che sono il figlio unico (monogenhv"); padre-silenzio, intelligenza-verità formano la tetrade; dalla seconda coppia emana quella logos-vita, che genera a sua volta dieci eoni; dalla terza coppia una quarta uomo (ideale)-chiesa, che produce dodici eoni. Le quattro coppie costituiscono l’Ogdoade; la totalità delle emanazioni (probolaiv ) , cioè dei trenta eoni (8+10+12), forma il pleroma (plhvrwma), la pienezza del divino. Di tutti gli eoni, soltanto il figlio, il nou'", contempla (qewrei') il padre; gli altri ne hanno solo un calmo desiderio. Ora, sofiva, la saggezza, che è il trentesimo eone, brama di conoscere il padre ignoto, il principio di tutta la realtà: questa sua «ansia» (ejnquvmhsi"), che introduce il turbamento nel ple4928

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roma, apporta in lei una grave alterazione (pavqo"), che è insieme disordine interiore e sofferenza. Da questo pavqo" saggezza è liberata e salvata da uno speciale eone, emesso, attraverso il figlio, dal padre: questo eone è o{ro" (limite) detto anche «croce»: staurov", una potenza che consolida l’insieme degli eoni e li conserva fuori dell’inesprimibile grandezza del padre. Dalla sua passione, che resta così «separata» da lei, si forma una sostanza informe e indeterminata (ajneivdeo"), la materia: dalla sua ignoranza (a[gnoia) deriva il fuoco, dal dolore (luv p h) l’aria, dal timore (fov b o") l’acqua, dall’angoscia (ajporiva) la terra. Dalla sua «conversione» (ejpistrofhv) verso il padre proviene il demiurgo, che mediante i quattro elementi produce il mondo sensibile e l’uomo, ma senza piena consapevolezza dell’opera sua. Il nou'" unigenito emette frattanto una nuova coppia: Cristo-spirito santo, «affinché nessun eone subisca ormai una simile passione». Cristo insegna agli eoni la gnosi: cioè insegna loro che il padre è inconoscibile e che nessuno può conoscerlo se non attraverso il figlio. Lo spirito santo unifica e armonizza «in una grande gioia» tutti gli eoni. Da questa comunione gaudiosa nasce il «frutto comune» (oJ koinov" karpov") del pleroma, Gesù, il salvatore, che discenderà dal pleroma per salvare gli uomini che possono essere salvati. Nella concezione soteriologica della gnosi Gesù occupa un posto centrale: per tutti gli gnostici egli è il «profeta di verità», che conosce il padre, ma anche l’imperfezione del demiurgo e i dolori dell’uomo. Per Marcione, è il figlio del «Dio ignoto e straniero» che egli rivela agli uomini, è l’ijscurovtero" del Vangelo (cfr. Lc 11, 21,22), che appare all’improvviso (ejpercovmeno") a salvare il mondo. Per opera sua l’uomo è ricondotto al padre, oltre i dolori e le imperfezioni dell’universo fisico creato dal demiurgo. Anche per i carpocraziani, che considerano Gesù soltanto come un uomo eccezionale, il dualismo fra Dio e mondo è assoluto: il mondo non è opera del padre, ma di angeli prepotenti (a[ggeloi kosmopoivoi), che hanno imposto agli uomini il loro giogo intollerabile; anche per Satornilo il mondo è stato creato da sette angeli, in rivolta contro il Dio ignoto: uno di questi è il Dio dei giudei, lo Jahvé del Vecchio Testamento, che Gesù combatte e vince. Nel pensiero di Marcione, questa opposizione del Dio buono, rivelato da Gesù, al creatore

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del mondo, e perciò del Nuovo al Vecchio Testamento, è portata al parossismo: nessuna continuità è riconosciuta fra la religione ebraica, dominata dal terrore e dalla legge del taglione, e la religione cristiana che predica l’amore e il perdono. II pessimismo degli gnostici (tanto ammirato da Schopenhauer) ripudia il «vidit quod erant bona» del Genesi (1, 4,10 ecc.); la loro ansia di evasione e di salvezza (che a Jonas [op. cit.] apparve come il segno della rivolta dell’oriente contro la concezione greca di un cosmo ordinato, in cui l’uomo sarebbe felice) non conosce compromessi col mondo materiale: perciò l’incarnazione di Cristo, indegna di un eone divino, è considerata in generale illusoria, mentre apparente è la sua nascita nel corpo, così come la sua morte (docetismo). Il destino dell’anima umana è inserito dentro le coordinate di questa visione mitica: l’uomo è microcosmo e compendia in sé tutte le potenze e le sostanze dell’universo: ha in sé un elemento hylico o materiale, che proviene dalla passione materializzata di sofia e che perirà, alla fine del mondo, consumato dal fuoco; un elemento psichico, che deriva dal demiurgo ed è mediano fra l’hylico e lo pneumatico: esso condivide la sorte di quello verso il quale si sarà inclinato; un elemento pneumatico o spirituale, che proviene da sofia, una scintilla divina che non potrà spegnersi e morire. Ci sono perciò tre categorie di uomini: gli pneumatici o spirituali, gli psichici, gli hylici o carnali, a seconda del predominio dell’uno o dell’altro elemento: soltanto gli pneumatici possono essere salvati. La salvezza sarà completa quando l’anima sia riuscita a sfuggire all’intero ambito del mondo creato e, dopo aver attraversato i vari cieli e aver depositato via via in essi gli elementi inferiori assunti nella discesa, sia penetrata nel pleroma eterno, che è al di là del cerchio cosmico, cioè nell’eternità infinita in cui vive Dio stesso (cfr. J. Kroll, Die Himmelfahrt der Seele in der Antike, Köln 1930): qui l’anima diventa pura essenza luminosa, simile a Dio che è luce e fuoco inaccessibile. Ma la «vita eterna», che è «gioia» e «spirito perfetto» (tev l eio" nou' " ) si acquista soltanto con la «gnosi», con la conoscenza suprema che solo Gesù rivela. Nelle sette dello gnosticismo volgare la gnosi è accompagnata da riti, iniziazioni mistiche, formule e pratiche magiche (i Libri di Jeû sono interessanti a questo proposito),

Gnosi - gnosticismo che consentono all’iniziato di passare da una zona astrale all’altra, da un grado all’altro di perfezione (Origene, Contra Celsum, VI, 27; cfr. T. Hopfner, Das Diagramm des Ophiten, in A. Rzach, Charisteria. Alois Rzach zum achtzigsten Geburtstag dargebracht, Reichenberg 1930, pp. 86-98). Se la salvezza è demandata alla gnosi, la fede e la carità operante finiscono per essere trascurabili; le opere buone come tali diventano indifferenti. In realtà, la pessimistica condanna della realtà materiale conduceva a posizioni morali antitetiche. Da un lato essa ispirava un’etica della rinuncia e dell’ascetismo: Marcione prescriveva a tutti un ideale di vita austera, che Gesù aveva consigliato solo a pochi (cfr. 1 Cor 7, 25 ss.); Satornilo considerava il matrimonio e la generazione «opera di Satana»; Valentino vedeva nella purezza del cuore la condizione per vedere Dio: «il cuore, finché rimane fuori dell’azione della provvidenza, è impuro e serve da dimora a una folla di demoni; ma quando il padre, che solo è buono, ha gettato uno sguardo su di lui, egli si trova santificato e risplende di luce: così colui che ha un cuore simile è beatificato e vedrà Dio» (Clemente Alessandrino, Stromata, II, 20). D’altra parte, il ripudio dello Jahvé biblico come creatore inferiore e malvagio portava insieme al rifiuto delle leggi morali, da lui dettate agli uomini; per i carpocraziani (come per gli adamiti, gli ofiti, i simoniani, e altri) la «scienza liberatrice» (gnw'si" monadikhv), riscattandoci dalle leggi di Mosè, ci mette al di sopra del bene e del male; la giustizia è diritto di godere di tutte le cose, specialmente nell’ambito sessuale (ibi, III, 2), è koinwniva met´ ijsovthto"; l’agape diventa orgia e l’orgia un rito di liberazione; Cristo è redentore perché ci ha svincolati da ogni freno morale (antinomismo). V. GNOSTICISMO E CRISTIANESIMO. – Se la tesi ecclesiastica non è accettabile, è vero tuttavia che solo nel cristianesimo le dottrine gnostiche hanno trovato la loro espressione più compiuta e il loro senso soteriologico definitivo. Ma le idee gnostiche, inserendosi nel quadro dottrinale del cristianesimo, ne falsavano lo spirito e ne minavano l’unità spirituale e sociale. Nella gnosi la figura di Cristo cessava di essere un fatto storico, che doveva essere accettato come tale, e diventava un’entità mitico-metafisica, in cui non avevano più alcun senso l’incarnazione, la morte, la resurrezione 4929

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Gnosi - gnosticismo

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di Cristo; il docetismo, in nome di un dualismo insuperabile, annullava di colpo il mistero essenziale del Vangelo e riduceva l’uomoDio a idea e a simbolo. La gnosi prendeva il posto della fede e della carità; la salvezza dipendeva soltanto da una «luce donata», non dall’attiva compartecipazione del credente, e portava di conseguenza a una visione predestinazionistica della salvezza. Nella sua presunzione di essere genuino interprete del messaggio cristiano, lo gnosticismo inaugurava una audacissima esegesi del Nuovo Testamento, superando di colpo le peggiori intemperanze dell’allegorismo filoniano. Il commentario di Giovanni di Eracleone (cfr. C. Barth, Die Interpretation des Neuen Testaments in des valentinianischen Gnosis, Leipzig 1911), le Eclogae propheticae, gli Excerpta di Teodoto, la Lettera a Flora di Tolomeo rintracciavano nei sentimenti, nei fatti storici, nei più insignificanti dettagli del racconto evangelico i momenti ideali della vita eterna del pleroma, complicando l’esegesi allegoristica con le più ardite e fatue speculazioni sui numeri e sulle lettere dell’alfabeto (cfr. F. Dornseiff, Das Alphabet in Mystik und Magie, Leipzig 1922); Marcione rivedeva, alla luce del suo credo teologico, il primo complesso canonico dei libri neotestamentari, redigendo, sulla base di Luca, un Vangelo tendenzioso, e nell’Apostolicon il «corpus» delle epistole paoline, depurate degli elementi estranei alla sua concezione dualistica. Nella storia della dogmatica cristiana, lo gnosticismo ha compiuto la funzione dialettica di stimolo e di remora; in un momento in cui era in gestazione il complesso dogmatico della Chiesa, esso ha sollecitato la fede a produrre i suoi titoli di credito, a uscire dall’equivoco e dal compromesso, ad assumere, nell’ambito dei valori morali e dottrinali, una posizione di equilibrio e di comprensione storica e umana. G. Faggin

Per quanto riguarda il problema delle origini, l’ipotesi avanzata dalla scuola di storia delle religioni, secondo la quale sarebbe esistito un mito pre-gnostico del redentore, di origine iranica, che lo gnosticismo del II secolo avrebbe poi ripreso e rielaborato, è stata radicalmente messa in discussione soprattutto da C. Colpe in Die religionsgeschichtliche Schule. Darstellung und Kritik ihres Bildes vom gnostischen Erlösermythus (Göttingen 1961). Le ricerche più re4930

centi hanno imboccato altre strade. Alcuni studiosi hanno ripreso l’ipotesi «patristica» dell’origine cristiana dello gnosticismo: per es. S. Pétrement, (Le dieu séparé. Les origines du gnosticisme, Paris 1984); M. Simonetti (Gnosticismo e cristianesimo, in Id., Ortodossia ed Eresia tra I e II secolo, Soveria Mannelli 1994 [1991], pp. 101-140); A.H.B. Logan (Gnostic Truth and Christian Heresy. A Study in the History of Gnosticism, Peabody [Massachusets] 1996). Parallelamente, un altro filone di ricerca ha invece investigato l’ipotesi di un’origine giudaica dello gnosticismo, che risale a M. Friedländer (Der vorchristliche jüdische Gnosticismus, Göttingen 1898), suscitando un vivace dibattito: per es. G. Quispel (Der gnostische Anthropos und die jüdische Tradition, in «Eranos Jahrbuch», 22, 1954, pp. 195-234; Gnosticism and the New Testament, in J.Ph. Hyatt [a cura di], The Bible in Modern Scholarship, Nashville [Tennessee] 1965, pp. 252-271); H. Jonas ( Response to Quispel’s «Gnosticism and the New Testament», ibi, pp. 279-293); A.F. Segal (Two Powers in Heaven: Early Rabbinic Reports about Christianity and Gnosticism, Leiden 1977); J.E. Fossum (The Name of God and the Angel of the Lord: Samaritan and Jewish Concepts of Intermediation and the Origins of Gnosticism, Tübingen 1985); B.A. Pearson (Gnosticism, Judaism, and Egyptian Christianity, Minneapolis [Minnesota] 1990); C.B. Smith (No Longer Jews. The Search for Gnostic Origins, Peabody [Massachusets] 2004). Per quanto riguarda il problema della classificazione, è oggi ampiamente riconosciuta l’inattendibilità storica della ripartizione in gruppi e sette che ci viene dalla tradizione eresiologica cristiana, perché eccessivamente condizionata da intenti polemici e confutatori. Gli studi più recenti, sviluppatisi soprattutto in seguito alla scoperta degli scritti di Nag Hammadi alla fine del 1945, si orientano a riconoscere, pur con diverse precisazioni e non senza qualche riserva, due grossi filoni all’interno dello gnosticismo: quello «valentiniano» e quello cosiddetto «sethiano». Un discorso a parte merita Marcione, in quanto il suo insegnamento presenta tratti particolari, che non permettono di assimilarlo tout court ai sistemi gnostici (questa era già la tesi di A. von Harnack; cfr. anche R.J. Hoffmann, On the Restitution of Christianity. An Essay on the Development of Radical Paulinist Theology in the Second Century, Chico [California] 1984; B.

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Aland, Marcion. Versuch einer neuen Interpretation, in «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 70, 1973, pp. 420-447). Sul filone valentiniano, c’è più consenso tra gli studiosi, in quanto le fonti eresiologiche parlano esplicitamente di una scuola di Valentino; su quello sethiano, invece, le opinioni sono più differenziate. È stato H.-M. Schenke (Das sethianische System nach Nag Hammadi Handschriften, in P. Nagel [a cura di], Studia coptica, Berlin 1974, pp. 165172) ad avanzare l’ipotesi che, sulla base di un gruppo di scritti di Nag Hammadi, si potesse ricostruire un sistema dottrinale gnostico con caratteristiche proprie: particolare configurazione del mondo divino, con la presenza costante di alcune entità mitiche; consapevolezza di appartenere a una stirpe particolare, la discendenza di Seth; periodizzazione della storia; ruolo salvifico svolto da Seth. La proposta ha suscitato un vivace dibattito, senza che si sia ancora giunti a un consenso generalizzato; in particolare, gli scettici ritengono che il sistema di pensiero «sethiano» così ricostruito rimanga un’astrazione e che dietro a questo tipo di letteratura non esistesse realmente un gruppo sociale con tratti distintivi (cfr.: B. Layton [a cura di], The Rediscovery of Gnosticism, vol. I: The School of Valentinus; vol. II: Sethian Gnosticism, Leiden 1981; A. Orbe, Estudios Valentinianos, Roma 1955-66, 5 voll.; Cristología gnóstica, Madrid 1976, 2 voll.; J.-M. Sevrin, Le dossier baptismal séthien. Etudes sur la sacramentaire gnostique, Québec 1986; J.D. Turner, Sethian Gnosticism and the Platonic Tradition, Leuven 2001). C. Gianotto BIBL.: I. Le fonti: Testi gnostici in lingua greca e latina, a cura di M. Simonetti, Milano 1993 (raccolta delle fonti gnostiche, dirette e indirette, in lingua greca e latina, con tr. it. e alcune note di commento). Fonti in lingua copta: 1) Pistis Sophia: Pistis Sophia, neu herausgegeben mit Einleitung nebst griechischem Wort- und Namenregister, ed. del testo copto a cura di C. Schmidt, København 1925; Koptisch-gnostische Schriften, vol. I: Die Pistis Sophia - Die beiden Bücher des Jeu - Unbekanntes altgnostisches Werk, tr. ted. a cura di C. Schmidt e H.-M. Schenke, Berlin 19814 (prima ed. 1905, a cura del solo Schmidt); Pistis Sophia, tr. ingl. a cura di C. Schmidt e V. MacDermot, Leiden 1978; Pistis Sophia, tr. it. a cura di L. Moraldi, Testi gnostici, Torino 1982, pp. 473-743. 2) Libri di Jeu o Libro del grande trattato iniziatico; Scritto senza titolo o Topografia celeste: Gnostische Schriften in koptischer Sprache aus dem Codex Brucianus, ed. dei

Gnosi - gnosticismo testi in copto a cura di C. Schmidt, Leipzig 1892; Koptisch-gnostische Schriften, vol. I: Die Pistis Sophia - Die beiden Bücher des Jeu - Unbekanntes altgnostisches Werk, tr. ted. a cura di C. Schmidt e H.-M. Schenke, Berlin 19814 (1905); The Books of Jeu and the Untitled Text in the Bruce Codex, tr. ingl. a cura di C. Schmidt e V. MacDermot, Leiden 1978. 3) Scritti del Codex berolianensis 8502: Die gnostischen Schriften des koptischen Papyrus Berolinensis 8502, ed. del testo copto a cura di W.C. Till, Berlin 1955 (con tr. ted.); Codex de Berlin, tr. fr. a cura di M. Tardieu, Paris 1984 (con introduzioni e ampio commento). Gli scritti 2 (Apocrifo di Giovanni) e 3 (Sapienza di Gesù Cristo) del codice di Berlino sono presenti anche a Nag Hammadi. 4) Scritti di Nag Hammadi: The Coptic Gnostic Library. A Complete Edition of the Nag Hammadi Codices, a cura di J.M. Robinson, Leiden 2000 (1975-95), 5 voll.; The Nag Hammadi Library in English, a cura di J.M. Robinson, Leiden 19883 (solo tr. ingl. dei testi, con brevi introduzioni); Bibliothèque copte de Nag Hammadi, a cura di W.-P. Funk, L. Painchaud e P.-H. Poirier, Laval-QuébecLeuven 1977 (ed. del testo copto, tr. francese e ampio commento); diversi volumi, dedicati a singoli trattati di Nag Hammadi, sono stati pubblicati a cura dei membri del «Berliner Arbeitskreis für Koptisch-Gnostische Schriften», fondato da H.-M. Schenke, in particolare nella collana «Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur»; Nag Hammadi Deutsch, tr. ted. a cura di H.-M. Schenke, H.-G. Bethge e U. Kaiser, vol. I: NHC I,1 - V,1, Berlin 2001; vol. II: NHC V,2 - XIII,1, BG 1 und 4, Berlin 2003. La traduzione italiana di alcuni trattati si trova in Testi gnostici, cit.; I Vangeli gnostici. Vangeli di Tommaso, Maria, Verità, Filippo, ed. it. a cura di L. Moraldi, Milano 1984; Le Apocalissi gnostiche, ed. it. a cura di L. Moraldi, Milano 1987; nella collana «Testi del Vicino Oriente antico - sez. 8: Letteratura egiziana gnostica e cristiana» (Paideia, Brescia) sono usciti finora: C. GIANOTTO (a cura di), La testimonianza veritiera (NHC IX,1), Brescia 1990; T. ORLANDI (a cura di), Evangelium Veritatis (NHC I,3 e XII,2), Brescia 1992; A. CAMPLANI (a cura di), Scritti ermetici in copto (NHC VI,6-8), Brescia 2000. II. Gli studi: E. NORDEN, Agnostos Theos, Leipzig 19232, tr. it. a cura di C.O. Tommasi Moreschini, Agnostos Theos. Dio ignoto, Brescia 2002; W. FOERSTER, Von Valentin zu Herakleon, Giessen 1928; L. CERFAUX, Gnose préchrétienne et biblique, in Supplément au dictionnaire de la Bible, Paris 1938, vol. III, pp. 659-701; P.T. CAMELOT, Foi et gnose: introduction à l’étude de la connaissance mystique chez Clement d’Alexandrie, Paris 1945; F.-M. SAGNARD, La gnose Valentinienne et le témoignage de saint Irénée, Paris 1947; E.C. BLACHMAN, Marcion and His Influence, London 1948; G. QUISPEL, Gnosis als Weltreligion, Zürich 1951;

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Gobetti A.-J. FESTUGIÈRE, La révélation d’Hermès Trismégiste, Paris 1954, 4 voll.; R. AMBELAIN, La notion gnostique du démiurge dans les Ecritures et les traditions judéochrétiennes, Paris 1959; J. JERWELL, Imago Dei, Göttingen 1961; H.-M. SCHENKE, Der Gott «Mensch» in der Gnosis, Göttingen 1962; R. MCL. WILSON, The Gnostic Problem. A Study of the Relations between Hellenistic Judaism and the Gnostic Heresy, London 1964 (1958); R.-M. GRANT, Gnosticism and Early Christianity, New York 19662; S. PÉTREMENT, Le Colloque de Messine et le problème du gnosticisme, in «Revue de métaphysique et de morale», 72 (1967), pp. 344-373; A. BÖHLIG, Mysterion und Wahrheit, Leiden 1968; H. JONAS, The Gnostic Religion, Boston 19922, ed. it. a cura di R. Farina, Lo gnosticismo, Torino 1995; M. TARDIEU, Trois mythes gnostiques, Paris 1974; G. QUISPEL, Gnostic Studies, Istanbul 1974-75; E. PAGELS, The Gnostic Paul: Gnostic Exegesis of the Pauline Letters, Philadelphia (Pennsylvania) 1975; J.M. ROBINSON, The Nag Hammadi Codices. A General Introduction to the Nature and Significance of the Coptic Gnostic Library from Nag Hammadi, Claremont (California) 1977; B. ALAND (a cura di), Gnosis. Festschrift für Hans Jonas, Göttingen 1978; U. BIANCHI, Selected Essays, Leiden 1978; K. KOSCHORKE, Die Polemik der Gnostiker gegen das kirchliche Christentum, Leiden 1978; E. PAGELS, The Gnostic Gospels, New York 1979, tr. it. di M. Parizzi, I Vangeli gnostici, Milano 2005; H.-CH. PUECH, En quête de la gnose, Paris 1978, tr. it. a cura di F. Zambon, Sulle tracce della gnosi, Milano 20002 (1978); G. FILORAMO, Luce e gnosi. Saggio sull’illuminazione nello gnosticismo, Roma 1980; G. SFAMENI GASPARRO, Studi sullo gnosticismo e sull’ermetismo, Roma 1982; G. FILORAMO, L’attesa della fine. Storia della gnosi, Bari 1983; E. YAMAUCHI, Pre-Christian Gnosticism, Grand Rapids (Michigan) 19832; G.A.G. STROUMSA, Another Seed: Studies in Gnostic Mythology, Leiden 1984; H.A. GREEN, The Economic and Social Origin of Gnosticism, Atlanta 1985; CH.W. HEDRICK - R. HOGDSON (a cura di), Nag Hammadi, Gnosticism and Early Christianity, Peabody (Massachusetts) 1986; G.W. MACRAE, Studies in the New Testament and Gnosticism, Wilmington (Delaware) 1987; K.L. KING, Images of the Feminine in Gnosticism, Philadelphia 1988; G. BENELLI, La gnosi. Il volto oscuro della storia, Milano 1991; CH. MARKSCHIES, Valentinus Gnosticus? Untersuchungen zur valentinianischen Gnosis mit einem Kommentar zu den Fragmenten Valentins, Tübingen 1992; PH. PERKINS, Gnosticism and the New Testament, Minneapolis (Minnesota) 1993; W.A. LÖHR, Basilides und seine Schule, Tübingen 1996; K. RUDOLPH, Gnosis und spätantike Religionsgeschichte, Leiden 1996; J.D. TURNER (a cura di), The Nag Hammadi Library After Fifty Years, Leiden 1996; M.A. WILLIAMS, Rethinking «Gnosticism»: An Argument for Dismantling a Dubious Category, Princeton 1996; A. MAGRIS, La logica del pensiero gnostico, Brescia 1997; N. FÖRSTER, Mar-

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cus Magus, Tübingen 1999; M.G. LANCELLOTTI, The Naassenes. A Gnostic Identity Among Judaism, Christianity, Classical and Ancient Near Eastern Traditions, Münster 2000; J.D. TURNER - R. MAJERCIK (a cura di), Gnosticism and Later Platonism, Atlanta 2000; CH. MARKSCHIES, Die Gnosis, München 2001; C. COLPE, Kleine Schriften, Berlin 2002; K.L. KING, What is Gnosticism?, Cambridge (Massachusetts) 2003. Repertori bibliografici: D.M. SCHOLER, Nag Hammadi Bibliography 1948-1969, Leiden 1971; D.M. SCHOLER, Nag Hammadi Bibliography 1970-1994, Leiden 1997 (coprono in generale tutti gli studi sullo gnosticismo; supplementi annuali nella rivista «Novum Testamentum»). ➨ AGNOSTOS THEOS; CARPOCRAZIANI; ERESIOLOGI; MANDEISMO; MANICHEISMO; SABEISMO.

GOBETTI, PIERO. – N. a Torino il 19 giugno Gobetti 1901, m. a Parigi il 15 febbr. 1926. Singolare scrittore, teorico e iniziatore politico, attivo e intransigente oppositore del regime fascista. Nato da una famiglia borghese di commercianti, si formò partecipando intensamente alle trasformazioni e ai moti spirituali e sociali determinati dalla guerra e dal dopoguerra. Studente universitario pubblicò «Energie Nove», rivista di cultura politica (1918-20). Influenza determinante su di lui ebbero inizialmente Gaetano Salvemini, con l’esempio della sua Unità, e l’idealismo filosofico di Gentile, sentito attraverso i discepoli attivi nell’insegnamento (B. Giuliano era stato suo professore di liceo; ai «Nuovi Doveri» di Lombardo Radice collaborò fin d’allora). Vennero poi le ondate della rivoluzione russa e della occupazione delle fabbriche, che lo accostarono al gruppo comunista dell’Ordine Nuovo, giornale al quale collaborò come critico teatrale e con varie recensioni nel 1921. Nel febbraio 1922 appariva il suo settimanale Rivoluzione liberale, nel quale profuse da allora le sue energie ed espresse i suoi ideali. In un primo periodo, che va grosso modo fino all’avvento del fascismo, il settimanale ebbe prevalente funzione culturale, raccogliendo, per la preparazione delle nuove élites intellettuali, che nel giudizio di Gobetti si sarebbero incontrate con le nuove forze frattanto maturate e responsabili delle classi operaie e contadine, l’eredità dell’Unità salveminiana, e della Voce prezzoliniana. In un secondo tempo esso diviene centro di raccolta dell’opposizione liberale al fascismo, studio dei partiti e delle forze che ne costituiscono per lui il fondamento.

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Malgrado persecuzioni varie egli fonda, nel 1923, una casa editrice che affianca la rivista; dopo il 1924 i gruppi di Rivoluzione liberale (e quindi il Baretti, destinato a raccogliere la parte culturale e letteraria della sua attività). Ma soprattutto, nel periodo successivo al delitto Matteotti, Gobetti si fa portavoce della opposizione più intransigente e attiva, in cui all’attesa e alle speranze di successione indolore dovrebbe sostituirsi da parte dell’opposizione una vera e propria contrapposizione da governo a governo. Stremato dalle lotte, dalle persecuzioni dell’autorità e del fascismo, malato di cuore, parte per Parigi, dove intende riprendere la sua attività di editore. Pochi giorni dopo si spegne. Nella sua breve, intensissima attività, Gobetti ha elaborato la sua teoria politica della «rivoluzione liberale» esposta nel saggio La rivoluzione liberale (Bologna 1924, Torino 19282). Essa presenta naturalmente aspetti diversi e varie oscillazioni, ma il nucleo è ben definito, articolato attorno a due o tre intuizioni fondamentali. La prima è l’identificazione del liberalismo con l’intransigenza, l’attività disinteressata, la creatività economica (liberismo), il rifiuto del compromesso. In questo suo modo di vedere entrano diversi elementi: la «scissione» del sindacalismo soreliano, l’affermazione liberistica degli economisti alla Giretti o alla Einaudi, l’antigiolittismo di Salvemini, le varie influenze rivoluzionarie e attivistiche che dominano la teoria politica a lui contemporanea. In forza di questa concezione del liberalismo Gobetti esalta come «liberale» e creatrice dello stato moderno l’opera dei bolscevichi in Russia, in particolare Lenin e Trotzki. Tali idee sui bolscevichi sono a fondamento dell’opera Paradosso dello spirito russo (Torino 1926). Complemento di questa teoria del «liberalismo» a cui intransigenza e assolutezza libertaria conferiscono carattere rivoluzionario, è la critica gobettiana delle insufficienze del Risorgimento, che per lui non è stata una vera rivoluzione profonda, sociale e nazionale, perché non è stata una rivoluzione religiosa, una Riforma. Tale concezione risale, attraverso il pubblicista Missiroli e lo scrittore Oriani, al francese Quinet (come critica della Rivoluzione Francese). Come tutte le concezioni in cui la storia è giudicata in funzione immediata di un «dover essere» attuale, la concezione che Gobetti avanza del Risorgimento, dell’unità e della lot-

Gobineau ta politica vale come energico richiamo al compito attuale (secondo Gobetti, una rivoluzione ammodernatrice, che dia agli elementi fondamentali della società italiana, contadini, operai, la responsabilità e la coscienza di un nuovo stato). Dal punto di vista storico, essa tuttavia è anche occasione per Gobetti di mettere in rilievo alcuni aspetti dimenticati o trascurati della storia e della politica italiana: hanno rilievo del tutto nuovo, p. es., nel suo Risorgimento senza eroi (Torino 1925) figure come quelle degli illuministi piemontesi, Vasco e Radicati. Da notare anche che la sua storia è centrata attorno al Piemonte e che, pur avendo a conclusione un’esigenza rivoluzionaria, Cavour resta la figura centrale del Risorgimento. Molti spunti stimolanti si trovano del pari negli scritti letterari di Gobetti, nelle molte recensioni, nelle critiche raccolte nella Frusta teatrale (Milano 1923). A. Garosci BIBL.: oltre ai citati scritti si può vedere la raccolta postuma di saggi Opera critica (Torino 1926, 2 voll.) e le Opere complete, Torino 1969-74, 3 voll. Su Gobetti: S. FONTANA, Gobetti e la società del suo tempo, in «Humanitas», 16 (1961), pp. 199-227; G. ARFÉ, La rivoluzione liberale di P. Gobetti, in «Rivista storica italiana», 74 (1962), pp. 314-323; U. MORRA, Vita di P. Gobetti, Torino 1984; N. BOBBIO, Umberto Morra e Gobetti, in «Annali della Scuola normale di Pisa», 1984, pp. 170-183; N. BOBBIO, Italia fedele: mondo di Gobetti, Firenze 1986; G. LOMBARDI, Costituzione e diritto costituzionale nel pensiero di P. Gobetti, in «Diritto e società», (1984), 2, pp. 191-219; AA.VV., I dilemmi del liberalsocialismo, a cura di M. Bovero et al., Roma 1994; F. SBRANA, La «rivoluzione liberale» di P. Gobetti, in «Nuovi studi politici», 26 (1996), 2, pp. 101-108; G. DE MARZI, P. Gobetti e Benedetto Croce, Urbino 1996; G. RICUPERATI, P. Gobetti e l’illuminismo, in «Rivista storica italiana», 114 (2002), 1, pp. 177216.

GOBINEAU, JOSEPH-ARTHUR conte DE. – N. Gobineau a Ville-d’Avray (presso Parigi) il 14 luglio 1816, m. a Torino il 13 ottobre 1882. Filosofo della storia, diplomatico. Nel suo famoso Essai sur l’inégalité des races humaines, Paris 1853-1855, 4 voll., tr. it. di F. Maiello, Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, Milano 1997, Gobineau pone a fondamento della sua filosofia della storia la presunta superiorità delle razze di sangue ariano. Tutta la storia umana sarebbe attraversata da un perenne dramma etnico, in cui le razze si scontrano e si mescolano, e me4933

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Goblet d’Alviella scolandosi degenerano. Gobineau è convinto che il principio etnico (ariano) abbia già cessato d’esser puro all’età di Cristo. Perciò la storia non sarebbe che una corsa tragica verso un’unità livellatrice in cui non vi saranno più nazioni, ma branchi d’uomini simili a bestie nella loro squallida uniformità. Da ricordare anche Les religions et les philosophies dans l’Asie Centrale, Paris 1865; La Renaissance, Paris 1877, tr. it. di R. Ortolani, Il Rinascimento: scene storiche, Milano 1945; Correspondance d’Alexis de Tocqueville et d’Arthur de Gobineau, a cura di M. Degros, Paris 1956, tr. it. di L. Michelini Tocci, Corrispondenza fra Alexis de Tocqueville e Arthur de Gobineau: 1843-1859, Roma 1995. La fortuna di Gobineau dopo la sua morte e specialmente negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale fu enorme: le sue dottrine trovarono espositori compiacenti ed esaltatori interessati a svilupparne talune conseguenze politiche quali l’antidemocratismo, l’imperialismo pangermanico, il razzismo nazista. C. Rosso BIBL.: Oeuvres, a cura di J. Gaulmier, Paris 19821987, 3 voll. Su Gobineau: Gobineau et le gobinisme, n. mon. «Nouvelle Revue française», 22 (1934); PH. DEVAUX, L’Aristotélisme et le vitalisme de Gobineau, in «Revue Franco-Belge», dic. 1937, genn. 1938; A. COMBRIS, La philosophie des races du Comte de Gobineau et sa portée actuelle, Paris 1937; J. GAULMIER, Spectre de Gobineau, Paris 1965; AA.VV., Études gobiniennes, a cura di A.B. Duff - J. Gaulmier, Paris 1966; F. CASTRADORI, Le radici dell’odio: il conte de Gobineau e le origini del razzismo, Milano 1991; F. MAIELLO, Gobineau l’oscuro: sul pensiero reazionario, Roma 1999.

GOBLET D’ALVIELLA, EUGÉNE. – Storico Goblet d’Alviella delle religioni, n. a Bruxelles nel 1846, m. ivi il 9 sett. 1925. Professore all’università libera di Bruxelles, appartenne alla scuola evoluzionistica-animistica di Spencer e Tylor. Opere principali: L’évolution religieuse chez les Anglais, les Américains et les Hindous, Paris 1883; Introduction de l’histoire générale des religions, ivi 1887; La migration des symboles, ivi 1891; L’idée de Dieu d'après l’anthropologie et l’histoire, ivi 1892; Croyances, rites, institutions, ivi 1911. Cfr. l’opera omnia: Goblet d’Alviella, Oeuvres, Bruxelles 1896-1911. Lo storico delle religioni, secondo Goblet d’Alviella, deve proporsi tre compiti: descrivere ed esporre oggettivamente le religioni nelle loro manifestazioni rituali 4934

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(hiérographie); impostare il problema metodologico circa i principi che reggono la scienza delle religioni (hiérologie); trarre dall’esperienza storica delle religioni conclusioni filosoficoteologiche che risolvano teoreticamente il problema dei rapporti tra l’uomo e Dio (hiérosophie). Le conclusioni ierosofiche di Goblet sono appunto improntate al suo evoluzionismo. A. Secolini BIBL.: AA.VV., «Goblet d’Alviella, historien et francmaçon», Bruxelles 1995 (atti di un colloquio internazionale).

GOBLOT, EDMOND-LÉONCE-LAURENT. – LoGoblot gico e metodologo francese, n. a Mamers (Sarthe) il 13 nov. 1858, m. a Labaroche (HautRhin) il 9 ag. 1935. Iniziati gli studi ad Angers, dimostrò grande interesse per la musica e soprattutto per la filosofia, che lo condusse a tentare il concorso per l’Ecole normale, ove entrò nel 1879. Ivi fu discepolo di Lachelier e di Boutroux, ebbe come compagni Jaurès, Bergson e si legò d’amicizia a Durckheim, Janet e Augustin Monod. Ottenne l’agrégation nel 1883, dunque insegnò Filosofia a Valenciennes (1884), Pau (1885) e Angers (1886). Il suo interesse per le scienze lo spinse, già trentaseienne, allo studio della medicina, che intraprese allo scopo di allargare le proprie conoscenze in vista del dottorato, la cui tesi, del 1898, sarà l’Essai sur la classification des sciences (Paris 1898), testo ripreso successivamente anche in Le Système des sciences. Le vrai, l’intelligible et le réel (Paris 1922). Del 1898 è anche lo studio De musicae apud veteres cum philosophia cunjunctione (Paris). In questi anni approfondì anche studi di economia politica e sociologia. Nel corso del primo ventennio del 1900 fu professore di Storia della filosofia e delle scienze nelle università di Caen e di Lione. Profondamente convinto della validità del conoscere scientifico, Goblot respinse ogni metafisica e concepì la filosofia come scienza positiva. La sua teoria della conoscenza è stata considerata come un tentativo di compromesso tra positivismo e idealismo, in cui il sistema deduttivo della geometria euclidea viene trasposto all’interno del dominio della scienza sperimentale. Nella Logique des jugements de valeur (Paris 1927), opera unica nel genere, Goblot si rivela un analista preciso e attento. Egli ha anche pubblicato un Vocabulaire philosophi-

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Goclenio

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que (Paris 1901), e si è interessato di sociologia nell’opera La barrière et le niveau (Paris 1925), ove esamina la borghesia francese e la sua coscienza di classe. A partire dal 1896 ha inoltre collaborato con numerosi articoli alle riviste «Revue philosophique», «Revue de métaphysique» (dal 1898), e al «Journal de psychologie» (dal 1928). C. Rosso BIBL.: Justice et liberté, Paris 1902; Traité de Logique, Paris 1918; Souvenir et lettres d’E. Goblot, avec une introduction, a cura di F. Goblot, in «Revue de métaphysique et de morale», 43 (1936), pp. 431452. Su Goblot: D. PARODI, La philosophie contemporaine en France. Essai de classification des doctrines, Paris 19253, pp. 395-401; I. DAMBSKA, La théorie du jugement de M.E. Goblot, Leopold 1930; J. BENRUBI, Les sources et les courants de la philosophie contemporaine en France, Paris 1933, vol. I, pp. 445-449; R. ABBAGNANO DEL RE, La filosofia di E. Goblot, in «Logos», 4 (1935), pp. 351-369, 2 (1936); J. KERGOMARD - P. SALZI - F. GOBLOT, E. Goblot (1858-1935), la vie et l’œuvre, Paris 1937; P. BRUNET, La pensée philosophique d’E. Goblot, in «Revue de Synthèse», II serie, 16 (1938), pp. 55-66; E. HUBERT, s. v., in M. PREVOST - R. D’AMAT - H. TRIBOUT DE MOREMBERT (a cura di), Dictionnaire de biographie française, Paris 1985, vol. 16, coll. 397-399.

GOCHET, Gochet PAUL. – N. a Bressoux (Belgio) il 21 mar. 1932. Ha ottenuto la licence in filologia e in filosofia presso l’Université Libre di Bruxelles, rispettivamente nel 1954 e nel 1959 e, nel 1968, il dottorato in filosofia all’università di Liège, dove ha svolto la sua attività accademica e dove è attualmente professore emerito. È vice-presidente dell’Institut International de Philosophie. Studioso del movimento analitico contemporaneo, di esso si sforza di evidenziare in modo particolare la rilevanza delle indagini logiche, a partire dalle posizioni di J.L. Austin, di W.V.O. Quine, di R. Montague e del suo progetto di formalizzazione del linguaggio naturale. Con la nozione di «logica epistemica», al centro dei suoi interessi attuali, Gochet intende sottolineare le potenzialità stesse di un discorso in grado di dare soluzione formale ai paradossi tradizionali. Da essa trarrebbe pure giovamento tanto la teoria dei modelli che la semantica dei mondi possibili. Il suo pensiero, oltre che in numerosi saggi, è esposto in: Esquisse d’une théorie nominaliste de la proposition, Paris 1972; Quine en perspective, ivi 1978;

Ascent to Truth, München 1986; (con P. Gribomont e A. Thayse), Logique, Paris 1990-2000, 3 voll. C. Vinti

GOCLENICO, Goclenico

SORITE. – Polisillogismo progressivo ideato da Goclenio. ➨ SORITE.

GOCLENIO, RODOLFO (Rudolph Göckel, RuGoclenio dolf Goclenius). – Filosofo, n. a Corbach (Waldeck) nel 1547, m. a Marburgo nel 1628. Professore nell’università di Marburgo, vi viene chiamato «Platone di Marburgo» e «Aristotele cristiano», soprattutto per le doti espositive. È un divulgatore della filosofia aristotelica, interpretata con senso critico e senza chiusure dogmatiche; influenzato dall’antiaristotelico Ramo, viene annoverato tra i «semiramisti». Si occupa soprattutto di logica, di storia della filosofia e di problemi di psicologia razionale. Dà un contributo originale con l’Isagoge in Organon Aristotelis (Francofurti 1598; rist. col titolo Isagoge in peripateticorum et scholasticorum primam philosophiam, Hildesheim - New York 1976; ed. a cura di H.G. Zeckl, Würzburg 2005) in cui elabora la formulazione del sorite progressivo, detto «goclenico». Scrive anche una Yucologiva, hoc est de hominis perfectione, animo et in primis ortu eius, commentationes ad disputationes (Marpurgi 1590), che introduce nel linguaggio filosofico il vocabolo «psicologia», i Problemata logica (Francofurti 1597; ripr. Frankfurt 1967), il Lexicon philosophicum, quo tamquam clave philosophiae fores aperiuntur (Francofurti 1613; ivi 1615; ripr. Stuttgart 1962; ripr. Hildesheim 1964), un dizionario filosofico che risente delle questioni logico-linguistiche trattate negli ambienti ramisti e semiramisti, il Conciliator philosophicus (Cassellis 1609; rist. Hildesheim - New York 1977). È detto «il Vecchio» per distinguerlo dall’omonimo medico e matematico (1572-1621). M. Schiavone BIBL.: H. FREUDENTHAL, s. v., in KÖNIGLICHE AKADEMIE DER WISSENSCHAFTEN (a cura di), Allgemeine deutsche Biographie, Leipzig 1875-82, vol. IX, pp. 308-312; W.J. ONG, Ramus. Method and Decay of Dialogue. From the Art of Discourse to the Art of Reason, Cambridge (Massachusetts) 1958; P.-F. MOREAU, Wolff et Goclenius, in «Archives de Philosophie», 65 (2002), pp. 714.

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Gödel GÖDEL, ARGOMENTO ONTOLOGICO DI. – Forse Gödel perché desiderava che non andasse perduta con la sua morte, che credeva imminente, nel 1970 Kurt Gödel mostrò al collega Dana Scott una sua versione formale dell’argomento ontologico per l’esistenza di Dio. Sebbene presumibilmente attribuisse al suo tentativo un qualche valore all’interno della sua aspirazione a una «metafisica religiosa», Gödel non scelse mai di pubblicare la prova, forse per il timore di una sua dissonanza con i «pregiudizi del tempo» (H. Wang, Reflections on Kurt Gödel, Cambridge [Massachusetts] 1987, cap. 8). Ci pensò però lo stesso Scott a renderla nota, mostrandone una variante in un seminario a Princeton e in tre pagine manoscritte che circolarono negli anni ottanta. H. Wang (op. cit., p. 195) presenta questa variante in forma sintetica e J.H. Sobel (Gödel’s Ontological Argument, in J.J. Thomson [a cura di], On Being and Saying, Cambridge [Massachusetts] 1987, pp. 242-261) la analizza a fondo, includendo in appendice una trascrizione – basata sulla sua consultazione del Nachlass di Gödel – delle tre pagine di Scott, nonché di una pagina autografa di Gödel, datata 10 febbraio 1970, che presenta molto schematicamente la dimostrazione. Appare evidente dall’analisi di Sobel che la prova di Gödel da un lato è logicamente valida e mostra indubbi elementi di novità e di interesse rispetto a quelle tradizionali di Anselmo e Cartesio, ma dall’altro presenta alcuni nodi problematici di una certa entità. È divenuta quindi oggetto di molti studi e la letteratura su di essa è in continua crescita (cfr. J.H. Sobel, Logic and Theism, Arguments for and against Belief in God, Cambridge [New York] 2004; M. Fitting, Types, Tableaus, and Gödel’s God, Dordrecht 2002). Nel frattempo, il manoscritto di Gödel è stato ufficialmente pubblicato tra le sue opere (K. Gödel, Collected Works, vol. III, ed. a cura di S. Feferman et al., Oxford 1995, tr. it. a cura di E. Ballo et al., Opere, Torino 2001), con un’introduzione di R.M. Adams che fornisce i dettagli storici di questa vicenda intellettuale. Secondo la ricostruzione di Sobel e della letteratura successiva, Gödel presuppone un sistema formale con operatori modali di necessità e possibilità governati dalle regole del sistema S5 e un «principio di comprensione» (o qualcosa di equivalente), tipico della logica del second’ordine e della teoria dei tipi, che postula per ogni formula aperta una corrispondente 4936

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proprietà. In effetti, la prova di Gödel ha bisogno di due principi cruciali di S5, per avallare il passaggio dal possibilmente necessario al necessario e dal necessario al reale. Inoltre, utilizza variabili vincolate e costanti predicative che rimandano, assumendo la teoria dei tipi, a entità del secondo (proprietà di individui) e del terzo tipo (proprietà di proprietà di individui). Sullo sfondo formale testé delineato, l’argomento si avvale di tre definizioni e cinque assiomi, che qui presentiamo informalmente («sse» abbrevia «se e solo se» e « ¬ » indica negazione): (Def. D) x è divino sse x possiede tutte le proprietà positive. (Def. E) La proprietà F è un’essenza di x sse x possiede F e F implica necessariamente ogni altra proprietà di x. (Def. NE) x esiste necessariamente sse ogni essenza di x è necessariamente esemplificata. (A1) Una proprietà F è positiva sse non è positiva ¬ F. (A2) Se una proprietà F è positiva e implica necessariamente la proprietà G, allora anche G è positiva. (A3) Una congiunzione di proprietà positive è essa stessa una proprietà positiva. (A4) Se una proprietà è positiva, allora è necessario che sia positiva. (A5) La proprietà di esistere necessariamente è positiva. A cominciare da Sobel, la maggior parte della letteratura secondaria si è però concentrata sulla versione di D. Scott, dove l’assioma (A3) è rimpiazzato da (A3') la proprietà di essere divino è positiva. Ciò non cambia molto le cose, perché, assumendo S5 e gli altri assiomi escluso il quinto, (A3) e (A3') sono equivalenti. Sulla base dei primi quattro assiomi si dimostra che è possibile che un essere divino esista, tesi che per altro risulta essere equivalente al quarto assioma, in entrambe le sue versioni, presupponendo i primi tre. Utilizzando infine il quinto assioma, si dimostra che la stessa possibilità di un essere divino implica la sua necessità. Ne segue quindi che un essere divino esiste. Si può infine dimostrare la tesi monoteista che può esserci al massimo un unico essere divino, concludendo così che Dio esiste. La nozione di positività è assunta come primitiva da Gödel, il quale però accenna abbastanza cripticamente che essa si può intendere sia

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Gödel

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in senso «logico-ontologico», che «esteticomorale», laddove la prima delle due interpretazioni «permette una prova più semplice». Come nota Sobel (J.H. Sobel, Gödel’s Ontological Argument, cit.; Id., Logic and Theism..., cit.), forse ciò indica, da parte di Gödel, una qualche accettazione dell’ideale platonico dell’equivalenza di essere e bene. Secondo lo stesso Sobel e altri commentatori, la nozione gödeliana di proprietà positiva si riallaccia a quella leibniziana di perfezione, intesa come «proprietà che esprime valore senza vincolo di limite. Ad esempio la razionalità» (S. Galvan A. Giordani, La logica del predicato di esistenza nell’argomentazione filosofica, Milano 1999, p. 124). In ogni caso l’interesse teologico della dimostrazione dipende da quanto gli assiomi e le definizioni siano compatibili con un’interpretazione eticamente accettabile della nozione di positività che permetta di considerare degno di adorazione un essere dotato di tutte le proprietà positive. È a questo livello che sorgono delle perplessità, al di là di quella scontata ma discutibile che l’argomento sia una petitio principii. In primo luogo, Sobel ha provato che, sulla base delle assunzioni sopra considerate, si può anche dimostrare il collasso delle modalità, ossia che P è equivalente a necessariamente P. Questo toglie ogni contingenza al mondo e nega al Dio di Gödel, si potrebbe pensare, il privilegio di essere un garante del libero arbitrio, una conseguenza per molti teologi inaccettabile. In secondo luogo, Sobel ha accennato al fatto che (A2) e (A4) vanno contro «la dottrina di Leibniz - Moore dell’intero organico», secondo il quale la positività in senso etico può essere accordata a una proprietà non tanto se presa singolarmente, ma all’interno di un contesto più generale. Altri poi hanno rilevato che (A2) implica, implausibilmente, la positività della proprietà disgiuntiva di essere divino o demoniaco (P.P. Hàjek). È stato anche da molti sottolineato che lo stesso (A1) è contestabile, perché implica la non esistenza di proprietà eticamente neutre. Infine, G. Oppy (Gödelian Ontological Arguments, in «Analysis», 56, 1996, pp. 226-230) ha fatto notare che, considerando sottoinsiemi della classe delle proprietà positive, si può «scimmiottare» la prova di Gödel, dimostrando troppo facilmente l’esistenza di un numero indefinito di «divinità». A.C. Anderson (Some Emendations of Gödel’s Ontological Proof, in «Faith and Philosophy», 7,

1990, pp. 291-303) ha suscitato un certo interesse, cercando di ovviare ad alcuni di questi problemi. In primo luogo, propone di prendere come primitiva la nozione di perfezione e di definire positiva una proprietà la cui assenza in un’entità la rende imperfetta e la cui presenza non la rende tale. Inoltre, partendo dalla versione di Scott, sostituisce (Def. E), (Def. D) e (A1), rispettivamente, con (Def. E') E è un’essenza di x sse per ogni proprietà F, x possiede F necessariamente sse E implica necessariamente F. (Def. D') x è divino sse x ha un’essenza che implica necessariamente tutte e soltanto le proprietà positive. (A1') Se F è una proprietà positiva, allora non è positiva ¬ F. Questo nuovo sistema non soffre del collasso delle modalità e consente ancora di dimostrare che la proprietà di essere divino è (necessariamente) esemplificata. Inoltre, con la nuova nozione di positività, (A2) appare accettabile, come riconosce lo stesso Sobel (Logic and Theism..., cit.), che però continua ad avanzare dei dubbi su (A3). Sulla scia di questo sistema, P.P. Hàjek ne propone un altro che sembra offrire gli stessi benefici, senza dover ricorrere alla nozione di positività di Anderson. Queste revisioni non toccano l’obiezione di Oppy, al quale però ha cercato di rispondere M. Getting (Gödel’s Ontological Argument: A Reply to Oppy, in «Analysis», 59, 1999, pp. 309-313). Come mostrano questi contributi, il dibattito sulla rilevanza teologica della proposta di Gödel rimane aperto. F. Orilia BIBL.: P.P. HÀJEK, A New Small Emendation of Gödel’s Ontological Proof, in «Studia Logica», 71 (2002), pp. 149-164. ➨ LOGICA MODALE; TIPI, TEORIA DEI.

GÖDEL, KURT FRIEDRICH. – Logico austriaco, Gödel n. Brno (Repubblica Ceca) il 28 aprile 1906, m. a Princeton (USA) il 14 gennaio 1978. Gödel è considerato unanimamente il più grande logico del Novecento e tra i più importanti di tutti i tempi. Nato a Brünn (in Moravia, oggi Brno nella Repubblica Ceca) da una famiglia di lingua e cultura tedesca e di agiata condizione, Gödel si formò intellettualmente a Vienna dove si iscrisse all’università con l’intenzione di studiare fisica. Ben presto però decise di dedicarsi alla matematica mentre andava maturando, contemporaneamente, una se4937

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Gödel rie di interessi filosofici. H. Hahn, brillante matematico della facoltà, accortosi delle capacità del giovane Gödel lo invitò a partecipare alle riunioni del gruppo di ricercatori di diverse discipline che prese il nome di Circolo di Vienna. Nonostante Gödel non approvasse l’orientamento filosofico dei circolisti tuttavia prese parte regolarmente agli incontri dal 1926 al 1928 conoscendo, tra gli altri, Carnap e von Neumann. Nel 1930 ottenne il dottorato con una tesi in logica in cui dimostrava la completezza del calcolo dei predicati del primo ordine. Nella dissertazione, Gödel seguì in un certo senso l’indirizzo hilbertiano ottenendo un risultato fondamentale per la formalizzazione delle teorie. L’anno seguente, lavorando sulla possibilità di estendere questo risultato a teorie più potenti quali l’aritmetica e l’analisi, Gödel dimostrò proprio l’impossibilità di un’assiomatizzazione completa di teorie formali non banali. Ogni sistema formale di questo tipo è sintatticamente incompleto; esistono, cioè, proposizioni non dimostrabili né refutabili all’interno del sistema. Il corollario di questo teorema dimostra che l’affermazione di consistenza di una teoria non è derivabile all’interno della teoria stessa. I teoremi di incompletezza sono sicuramente il risultato logico matematico più rilevante del Novecento: la matematica si configura come essenzialmente aperta e svanisce il tentativo hilbertiano di fornire una prova di consistenza finitaria. Dal 1938 al 1940 Gödel si occupa principalmente di teoria degli insiemi dimostrando la non contraddittorietà dell’assioma di scelta e dell’ipotesi generalizzata del continuo. Per la dimostrazione Gödel utilizzò l’idea di «modello interno», un modello, cioè, costituito da tutti gli insiemi costruibili. A causa dell’invasione nazista e dello scoppio del secondo conflitto mondiale molti esponenti del Circolo di Vienna si trasferirono negli Stati Uniti. Gödel arrivò a Princeton nel 1940 dove divenne prima membro ordinario e poi permanente dell’Institute for Advanced Study. Dagli anni quaranta in poi Gödel si occupò di tematiche non solo strettamente tecniche e formali ma approfondì i suoi interessi in filosofia della matematica e della logica. Nella produzione di questo periodo (articoli e testi di conferenze) Gödel assunse una posizione di forte realismo nei confronti degli oggetti della matematica ed è pos4938

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sibile notare una notevole sensibilità filosofica verso le problematiche suscitate dai risultati logico formali. Il platonismo di Gödel si oppone radicalmente a tutti i tentativi di riduzione operati dal formalismo e dal logicismo; i sistemi formali non costruiscono gli oggetti dell’universo matematico ma descrivono strutture indipendenti dal pensiero umano. Gödel sostenne, in base a considerazioni simili, la superiorità dell’uomo sulla macchina in quanto in grado di superare i limiti del formalismo. Si occupò anche di fisica teorica proponendo un modello cosmologico alternativo a quello classico relativistico e di filosofia del tempo con un’analisi sul problema dell’illusorietà o realtà del mutamento. È probabile che l’amicizia con Einstein sia stata decisiva per questo breve ritorno alla fisica. Invecchiando, Gödel si avvicinò sempre di più a questioni prettamente filosofiche e ontologiche; studiò Husserl, Leibniz e Kant e propose anche un’originale variante dell’argomento ontologico modificando la versione di Leibniz. Nonostante la varietà dei suoi interessi Gödel pubblicò molto poco, a causa della sua precisione maniacale nella consegna del materiale. Nel Nachlass ci sono più di cento quaderni di appunti su argomenti sia tecnici che filosofici. I disturbi nervosi di cui Gödel soffriva fin dalla giovinezza si fecero sempre più acuti fino a condurlo a una vera e propria paranoia psicotica. Morì, di inedia, nel 1978 a Princeton. C. De Florio BIBL.: Collected Works, a cura di. S. Feferman et al., Oxford 1986-2003, 5 voll., tr. it. a cura di E. Ballo et al., Opere, Torino 1999-2002, voll. I-II. Su Gödel: H. WANG, Reflections on Kurt Gödel, Cambridge (Massachusetts) 1987; H. WANG, A Logical Journey: From Gödel to Philosophy, Cambridge (Massachusetts) 1996; J. DAWSON, Logical Dilemmas. The Life and Work of Kurt Gödel, Wellesley (Massachusetts) 1997, tr. it. a cura di P. Pagli, Dilemmi logici. La vita e l’opera di Kurt Gödel, Torino 2001.

GÖDEL, Gödel

TEOREMA DI: V. TEOREMI DI INCOMPLE-

TEZZA.

GODOY, PEDRO Godoy

DE. – Teologo domenicano, n. a Aldenueva (Plasencia) nel 1608, m. a Sigüenza il 2 genn. 1677. Insegnò filosofia e teologia tomistica a Salamanca. Fu vescovo di Osma e poi di Sigüenza. Scrisse 7 voll. di commenti alla Somma (Disputationes theologicae,

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Osma 1666-72; Venetiis 1686). Gonet usò le lezioni di Godoy per il suo Clypeus. Red. BIBL.: G. DIAZ DIAZ, Hombres y Documentos de la Filosofía Española, Madrid 1980 ss., vol. III, pp. 502-503.

GODWIN, WILLIAM. – Scrittore e pensatore Godwin inglese, n. a Wisbeach (Cambridge) il 3 mar. 1756, m. a Londra il 7 apr. 1836. Dopo gli studi teologici e letterari divenne pastore della comunità dissidente di Ware; sociniano fino al 1788, lasciò la carriera ecclesiastica e si dedicò all’attività letteraria e pubblicistica, vivendo stentatamente. Oltre ad alcuni romanzi volti a divulgare le sue idee, pubblicò a Londra nel 1793 l’Enquiry concerning Political Justice, in cui teorizzò uno stato di anarchia pura, che per rimuovere ogni ostacolo alla libertà umana prevede l’abolizione delle leggi, del governo, della proprietà privata e di ogni vincolo, compreso il matrimonio: per tale via l’uomo può raggiungere la perfezione, vivendo secondo i dettami della pura coscienza, guidata dalla ragione. Pur condividendo i principi della Rivoluzione francese, le si oppose per il metodo violento con cui tali principi furono messi in atto. G. Piaia BIBL.: D.H. MONRO, Godwin’s Moral Philosophy. An Interpretation of William Godwin, Westport (Connecticut) 1978; D. LOCKE, A Fantasy of Reason. The Life and Thought of William Godwin, London 1980; P.H. MARSHALL, William Godwin, New Haven (Connecticut) 1984; G.P. MEDDA, Sul concetto di società in William Godwin, Cagliari 1986; M. PHILIP, Godwin’s Political Justice, London-Ithaca 1986; F. ROSEN, Progress and Democracy. William Godwin’s Contribution to Political Philosophy, New York 1987; G. CROWDER, Classical Anarchism. The Political Thought of Godwin, Proudhon, Bakunin and Kropotkin, Oxford 1991.

GOEDEWAAGEN, TOBIE. – N. ad AmsterGoedewaagen dam il 15 mar. 1895, m. a Gravenhage l’1 apr. 1980. Allievo di Ovink, addottoratosi nel 1923 (De logische rechtvaardiging der zedelijkheid bij Fichte, Schelling en Hegel [La giustificazione logica della moralità di Fichte, Schelling e Hegel], Amsterdam 1923), divenne libero docente (1923), poi professore all’università di Utrecht (1943-1945) e aderì al nazionalsocialismo. Seguace del criticismo olandese ispirato alla scuola di Marburgo, Goedewaagen sostenne nella sua Summa contra metaphysicos, Leyden

Goethe 1931, che la filosofia ha senso solo come dottrina della scienza. Più tardi considerò la dialettica hegeliana come l’unico metodo di questa dottrina. M. Marlet BIBL.: F. SASSEN, Tobie Goedewaagen, in Wijsgerig Zeven in Nederland in de twintigste eeuw (Vita scientifica in Olanda nel ventesimo secolo), Amsterdam 19603, pp. 24-28.

GOES, MANUEL DE. – Pensatore portoghese, Goes gesuita, n. a Portela nel 1547, m. a Coimbra il 13 febbr. 1593. È l’autore principale del Corso Conimbricense. Si attribuisce a Pedro da Fonseca l’averlo indicato per tale opera. Buon umanista e metodologo, gli si deve l’efficienza dei principi di selezione dottrinaria e sistemazione che hanno determinato il successo dei primi quattro volumi del Corso. J. Bacelar

GOETHE, JOHANN WOLFGANG. – Filosofo e Goethe scrittore tedesco n. a Francoforte sul Meno il 28 ag. 1749, m. a Weimar il 22 mar. 1832. SOMMARIO: I. Vita di ricerca. - II. La filosofia della natura. - III. Incontri con la filosofia e con l’estetica. - IV. Archetipi goethiani. - V. Filosofia della Bildung. I. VITA DI RICERCA. – Di famiglia salita, da un paio di generazioni, a un elevato livello borghese (il padre, Johann Kaspar, era consigliere imperiale), fruì di un’eccellente educazione generale, in particolare grazie alla madre, Katharina Elisabeth. Si impadronì giovanissimo di varie lingue, tra cui l’italiano (ebbe famigliarità col Petrarca e col Tasso) e un po’ di ebraico. Frequentò l’università a Lipsia e prese servizio a Wetzlar come praticante presso il tribunale imperiale (1772); ma il suo entusiasmo per la giurisprudenza era scarso. Approfondì le sue conoscenze letterarie a Strasburgo (1770-71), dove concepì il suo primo lavoro di successo, il Goetz von Berlichingen, un drammone medievale. Nel 1769 sembrava dovesse morire tisico, ma si riebbe mirabilmente, curato dalla sorella Cornelia e da Susanne von Klettenberg. Da loro fu familiarizzato col pietismo, che nelle sofferenze dei malati vedeva l’immagine della passione del Cristo. Goethe lo apprezzò, quale momento di passaggio verso la sensibilità per la natura, ma presto gli parve come un «cercar fiori in inverno». Coltivò anche studi esoterici 4939

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Goethe e fu massone, peraltro tiepido e a tratti «in sonno». Un romanzo epistolare ispirato da un episodio reale, Die Leiden des jungen Werthers (1774), lo proiettò di colpo sulla scena del mondo. Fu allora invitato alla corte del piccolo ducato di Sassonia-Weimar (1775) con compiti generici di ministro di stato. Nel 1782 ottenne il von nobiliare, necessario per frequentare gli ambienti aristocratici, ma non prese mai troppo sul serio le proprie mansioni, salvo quella di sovraintendere al teatro, dove recitò anche come attore. Nel 1786 partì da Carlsbad per l’Italia, sotto il falso nome di Möller, limitandosi ad avvertirne il duca. Sentiva il desiderio dell’Italia, come terra dell’originario, dove natura e cultura erano ancora fuse. Le Elegie romane (uscite in «Die Horen», 1795) rispecchiano questa unità, associando, con ironia e ingenuità a un tempo, le reminiscenze classiche agli incontri con le popolane di Roma. Fin lì Goethe aveva avuto con le donne rapporti o esclusivamente fisici (spesso in compagnia del duca), o tutti intellettuali, come con Carlotta von Stein, del cui figlio fu precettore. Ma al ritorno dall’Italia (1788) Goethe trovò a Weimar la sua «romana» in Christiane Vulpius, da cui nel 1789 ebbe un figlio, e che sposò nel 1806. Goethe, maschilista, si serviva delle donne per perfezionare se stesso. Esprimeva poi in stupende ballate rimorso (ma mai pentimento) per averle abbandonate e (forse) neppure sedotte. Solo da ultimo Bettina von Arnim Brentano saprà servirsi di lui come lui di lei. Il poeta rifuggiva da qualsiasi legame che limitasse la sua libertà, tanto che, nel 1775, troncò un fidanzamento molto gratificante con Lili Schönemann. Al ritorno dall’Italia riprese con molto distacco le sue funzioni ufficiali. Si proponeva, almeno sulla carta, di curare le terre del duca e una tenuta da lui stesso acquistata. In realtà si dedicava sempre più assiduamente a studi naturalistici. Lentamente riprese un Bildungsroman, o «romanzo di formazione», che idealizza la sua stessa formazione: i Wilhelm Meisters Lehrjahre (1796). Anche qui, come nel Werther, ma con maggior pacatezza, Goethe proietta in un’opera letteraria i suoi problemi esistenziali. Fin da bambino aveva sentito il bisogno irresistibile di coincidere col tutto; e, insieme, l’impossibilità di farlo. Pur rendendosi conto di essere un «favorito degli dei», si sentiva frustrato da una «impossibilità di essere», che è 4940

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quella che porta Werther al suicidio. Di qui il frammento giovanile su Prometeo, che rifiuta di essere il vicario di Giove, perché vuole la realtà stessa. Di qui anche la prima redazione del Faust, ritrovata nel 1887 e battezzata Urfaust, con tutto il dramma di Margherita. Col tempo Goethe assumerà un atteggiamento «olimpico», di apparente indifferenza (descritto mirabilmente da Thomas Mann in Carlotta a Weimar), ma conserverà pur sempre il senso tragico della vita. Anche del Meister vi furono versioni giovanili, con cui fu identificato (a mio parere a torto) un manoscritto trovato nel 1909 e battezzato Wilhelm Meisters theatralische Sendung. Meister è il terzo grado della gerarchia massonica («maestro»), a cui si giunge a partire da quello di «apprendista» (Lehrling). Wilhelm-Goethe suppone, dapprima, di potersi formare e perfezionare attraverso il teatro, al punto di firmare un contratto che lo lega all’impresario Serlo. Ma accanto a lui è un’enigmatica creatura, Mignon, che lo trattiene e lo indirizza verso una verità non più «mentita» (erlogen) come quella del teatro. Mignon è il simbolo della poesia, ma soprattutto (si potrebbe dire) è l’Urkind, il fanciullo originario, analogo alla Urpflanze trovata da Goethe in Italia: come tale è «dal sesso incerto», nata dall’incesto di un frate italiano con la sorella suora. Lo si scoprirà nella seconda parte del romanzo, dove tutte le vicende di Meister si rivelano una artificiosa costruzione della massonica Società della Torre. (Di tale conclusione i contemporanei non colsero la natura allegorica, e rimasero terribilmente scandalizzati.) Il personaggio di Mignon – che si dissolve nella sua veste finalmente di fanciulla, dopo che Wilhelm ha trovato la sua sposa in Natalie, che lo indirizza al culto della natura – fu certamente concepito prima del viaggio in Italia, ma non con il significato allegorico che assunse dopo. Quanto al parallelo tra artificio e natura, esso diverrà fondamentale per il romanticismo: al punto che F. Schlegel accosta il Meister alla Dottrina della scienza di Fichte e alla Rivoluzione Francese, come segni della svolta di un’epoca. Ma il romanticismo, pur nascendo come una risposta all’«impossibilità di essere Goethe», (cioè un classico), non è una sintesi hegeliana tra lo Sturm und Drang e l’antitesi della Klassik di Goethe e Schiller maturi. Goethe, a Strasburgo, aveva bensì condiviso la polemica dei «giovani tedeschi» contro la falsa classicità del «secolo di Luigi XIV», ma non fu

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mai uno Stürmer, neppure nello stile e del romanticismo apprezzò solo la forma neoclassica assunta nei paesi latini. In Goethe va rintracciata, piuttosto, l’origine del bieder Meier (alla lettera «probo massaro»), che diverrà uno stile d’arredamento, ma che dai rivoluzionari del Quarantotto sarà visto anzitutto come l’ottuso «borghese pantofolaio». In Goethe è un «probo massaro» il protagonista dell’ultimo suo dramma veramente popolare, lo Hermann und Dorothea (1797, su cui scrisse pagine non eccelse W. von Humboldt). Hermann è figlio di un imprenditore agricolo, «sa ciò che vuole»: esattamente al contrario di Werther. Trae a sé Dorothea, pur fidanzata a un altro (che è lui, questa volta, lo Schwärmer rivoluzionario, che va a farsi ghigliottinare a Parigi). Il paradosso di questa commedia borghese è che il suo linguaggio, benché in esametri (sul modello della Luise del Voss, 1795) appare naturalissimo. In Dichtung und Wahreit (1811-14) Goethe ripercorre in parte il lungo cammino della propria vita («Aus meinem Leben») su appunti, ricordi e notizie avute dalla madre attraverso Bettina Brentano: una «verità» molto trasfigurata, ma letterariamente stupenda. La parte sulla Italienische Reise (1816-17) fu stampata a sé nel 1716-17. II. LA FILOSOFIA DELLA NATURA. – In Italia (a Padova e a Palermo) Goethe trovò vivente la Urpflanze, che gli suggerì gli scritti sulla Metamorfosi delle piante (1790) e degli animali. La natura è un continuo processo di trasformazione, non prodotto da forze esterne, bensì da una spinta interiore (Bildung und Umbildung organischer Natur, 1807). La parentela dinamica delle forme, suggeritagli dall’anatomista olandese Petrus Camper, gli fece scoprire anche nell’uomo l’esistenza di un residuo dell’osso inframascellare: unica sua scoperta riconosciuta come «scientifica» dalla scienza ufficiale. La metamorfosi non è solo successiva, ma anche contemporanea, come nelle vertebre, e l’originario può sussistere accanto al derivato (la foglia è l’Urpflanze della pianta). In natura troviamo un succedersi di livelli, ciascuno polarizzato in due opposti, l’uno col segno +, l’altro col segno –, che ricordano le coppie della tradizione pitagorica. Da un livello all’altro si passa con un moto di elevazione (Steigerung), o potenziamento, dopo il quale la natura si riposa (come nella sistole e diastole del cuore).

Goethe Come scritto giovanile goethiano sulla natura venne a lungo ritenuto Die Natur, che lo stesso Goethe non disconobbe, ma ormai è certo ciò che già Ludwig Geiger (Die Gegenwart, 1910, p. 249) aveva sospettato: il testo non è di Goethe bensì di un pastore protestante di Zurigo, Tobler. Un’interpretazione globale della natura è la Teoria dei colori (1810), che Goethe giudicava la sua opera più importante. Non è una teoria fisica della luce (come quella di Newton), bensì una teoria fisiologica della percezione, di cui in tempi recenti anche qualche scienziato ha ripreso gli esperimenti e i suggerimenti. Peraltro le interpretazioni dei pochi che le diedero credito (Schopenhauer, Hegel e il fido Eckermann) non furono trovate da Goethe fedeli del tutto. I colori si formano attraverso la polarità tra il giallo della luce e il turchino del fondo dell’occhio. Gli opposti in tensione polare sono uno maschile e uno femminile. La prima coppia è formata dal granito con l’acqua. Goethe è un «nettunista»: vedeva le terre modellate dai mari, contro i «vulcanisti», che le vedevano modellate dal fuoco. La polarità più alta è quella tra uomo e donna, congiunti dal matrimonio: e le tarde Wahlverwandschaften (1809) – giocando sul termine «affinità», che in tedesco copre anche il rapporto tra coniugi e tra parenti – mostrano come i composti possano ricombinarsi, sia per scelta («affinità elettive») sia per affinità chimica. Due composti stabili, AB e CD, messi in presenza l’uno dell’altro, si ricompongono come AC e BD. Così le due coppie del romanzo, in una congiunzione pur legittima, commettono un adulterio di desiderio, da cui nasce un figlio spurio, che annega sfuggendo di mano alla madre ideale (Ottilia). Allora Ottilia, letteralmente, «sublima» (cioè passa direttamente allo stato gassoso), mentre il suo compagno di desiderio diviene «gesso» inerte, e cerca distrazione nella vita militare. Le affinità elettive vogliono farci capire come i rapporti in natura siano analoghi a tutti i livelli. III. INCONTRI CON LA FILOSOFIA E CON L’ESTETICA. – Per la filosofia tecnica Goethe ebbe scarsa sensibilità. In una lettera a Jacobi del 23 novembre 1801 scrive: «Quando la filosofia si dà di preferenza al dividere, non riesco a venirne a capo [...]; quando unisce, esalta, assicura, e converte in una intuizione calma e profonda la nostra impressione originaria di essere una 4941

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Goethe sola cosa con la natura, mi torna gradita». In Kant Goethe non poteva, dunque, venire a capo della Critica della ragione pura, mentre apprezzava la Critica del Giudizio, pur non afferrandone del tutto i tecnicismi. Kant lo indusse quanto meno a staccarsi dal pastore Herder, con cui Goethe aveva intrattenuto buoni rapporti a Weimar. Come Jacobi giovane, Goethe si sentiva vicino a Spinoza (interpretato naturalisticamente). Ma da Spinoza Jacobi si staccò subito, mentre Goethe gli rimase fedele per tutta la vita, pur non apprezzandone l’aspetto «acosmistico». Tra i postkantiani avrebbe potuto apprezzare Schelling. Protesse Fichte, al tempo della polemica sull’ateismo, ma prese a detestarlo; e del tutto estraneo gli fu Hegel, la cui dialettica non ha nulla a che fare con la «polarità» goethiana. Più autentica in Goethe che in Hegel fu la sensibilità per Eraclito, di cui lo Schleiermacher dedicò a Goethe un’edizione dei frammenti. Verso Schiller ebbe un’iniziale diffidenza, dovuta all’interpretazione rivoluzionaria che se ne dava comunemente: ma si ricredette, e ne venne una sincera amicizia, oltre che una collaborazione per ridare al pubblico il senso della vera classicità (Die Horen). Ripulsa totale ebbe per il materialismo del barone d’Holbach, «in cui scompare la terra con tutti i suoi esseri e il cielo con le sue stelle» (Dichtung und Wahrheit). Il campo in cui Goethe tradusse più fedelmente la propria esperienza in concetti, come è ovvio, è la filosofia dell’arte, segnatamente del teatro. Il genio artistico è la più alta incarnazione della natura: comincia imitandola, poi si forma una propria «maniera», infine raggiunge lo stile (Einfache Nachahmung, Manier, Stil, ed. di Weimar, vol. 47, pp. 77-83). «Le leggi dell’arte si trovano nella natura del genio, così come la natura in genere ha in sé le leggi organiche, eternamente in atto (a proposito del saggio di Diderot sulla pittura). La fedeltà alla natura non consiste, dunque, nel riprodurla, bensì nel generarla: non si spiegherebbe altrimenti che possa riuscir naturale il recitar cantando del melodramma» (Über Wahrheit und Wahrscheinlichkeit der Kunstwerke). Per diffondere questi principi Goethe fondò la rivista «Propiläen» (1798-1800). Nella, più che secolare, «disputa degli antichi e dei moderni» Goethe, d’accordo col Winckelmann (Winckelmann und sein Jahrhundert, 1806), prese posizione per gli antichi, capaci di rivelare l’umanità senza troppi artifici (Antik und Modern, ed. 4942

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cit., vol. 49, pp. 149-160). Rispetto a questa «arte ingenua» Schiller (1794) aveva rivendicato ai moderni una superiorità tutta morale, mentre i romantici avevano dichiarato possibile anche una classicità moderna ottenuta, paradossalmente, attraverso lo studio della storia. Il paradosso non piacque a Goethe, benché anche lui cercasse una nuova genuinità attraverso una faticosa elaborazione. Questa culmina nel seguito del Meister (W.M. Wanderjahre), il cui sottotitolo è die Entsagenden, «i rinuncianti», nel senso di chi rinuncia a volere tutto insieme. IV. ARCHETIPI GOETHIANI. – Il pensiero profondo di Goethe si coglie attraverso archetipi che ricorrono in tutta la sua produzione: anche in opere e personaggi lontani, che apparentemente non hanno rapporto con la filosofia. Anche in questi si manifesta una almeno incoativa polarizzazione. Primo archetipo è la contrapposizione tutto-parte e luce-tenebra. Mefistofele si dice «parte» della tenebra «che all’inizio era il tutto», e a cui la «superba luce» contende lo spazio. Dice il vero mentendo perché «iniziale» non equivale a «originario». L’origine – in una personale interpretazione goethiana del fiat divino – è illustrata dal canto di Suleika del tardivo Westöstlicher Diwan (1819): «Con sublime voglia di creare Dio disse la parola es werde [...]. La luce si squarciò e se ne separò la tenebra. Dividendosi, gli elementi fuggono l’uno dall’altro» (vv. 6-20). Alla separazione rimedia il ritrovarsi (Wiederfinden è il titolo del poemetto) del maschile e del femminile: ora «Allah non ha più bisogno di creare [...] e un secondo fiat non tornerà a separarci» (vv. 30-48). Il ricongiungersi è l’aurora («rosa del mattino», Morgenröte) che, mediando tra il giallo della luce e il turchino dell’occhio, li indirizza verso il rosso porpora del divino. Dunque, il momento femminile è salvezza per il maschile: Gretchen salva Faust. Ma, anzitutto, il momento femminile si polarizza in se stesso, tra un negativo e un positivo: tra la donna civetta (che incontriamo in tutte le opere di Goethe: tipica la Philine del Meister) e un momento celestiale (Aurelia, Ottilia, das Ewigweibliche, o femminile eterno). Entrambi i momenti coesistono in Gretchen senza conciliarsi; e, scontrandosi, danno luogo al suo dramma, ma anche alla salvezza finale, sua e di Faust. Individuazione temporanea del momento femminile negativo è lo stesso Mefistofele, chiamato dal Padreterno der Schalk, il

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briccone, così come Schalk, o bricconcella, è chiamata continuamente nel Meister Philine. Un dialogo del 1800, Le donne ammodo, si domanda espressamente se Schalk si riferisca anche a una donna, e risponde di sì: a una donna che agisce «negando». Dunque anche Mefistofele, «lo spirito che sempre nega» (v. 1338), è incarnazione del polo femminile negativo, e in questa veste contribuisce alla salvezza di Faust. Al livello primigenio il momento femminile è acqua (di per sé) neutra (das Wasser); che, non ancora polarizzata col granito, è distruttiva: come tempesta, e ancor più come bonaccia (Meeresstille) o, peggio, come fatale attrazione narcisistica (ballata Il pescatore). Le opere di Goethe, infatti, sono piene di annegamenti: doloso quello del figlio di Gretchen, fatale quello provocato da Ottilia, sventato in extremis quello del figlio di Meister nei Wanderjahre: tutti allusivi. Il sacrificio del momento tellurico al momento uranico, nel femminile, reca salvezza anche al polo maschile. Faust è salvato (senza molto suo merito) dalle tre donne «sant’amanti penitenti» (v. 11943). Nella surrealistica Fiaba (Märchen, che conchiude i Conversari di emigrati tedeschi, 1795) i due momenti femminili si trovano divisi, all’inizio, come le due sponde del fiume della storia: sono la serpe (Schlange, che è anche «zia materna» di Mefistofele: v. 335) e la donna liliale (die Lilie). Grazie a un portatore di luce massonica, alla fine la serpe si scioglie in una catena di pietre preziose, che forma un ponte sul fiume e libera il giglio dall’incantesimo che le impediva il congiungimento col principe azzurro (poco modestamente, il poeta). Ciò che dapprima tiene vivo il maschio è l’andare: il Wandern germanico del dio Wotan, il non fermarsi mai, non appagarsi. Un tendere (streben) continuamente al di là, anche a costo di sbagliare (irren, o «errare»). Faust scommette con Mefistofele che a questo non verrà mai meno. Solo alla fine chiederà all’attimo di «indugiare», quando fa costruire un argine, una diga all’irrompere delle acque: dunque quando accetta il finito. Eppure, contestualmente, Faust compie un ultimo atto vergognoso: fa distruggere da tre energumeni la capanna di Filemone e Bauci, solo perché gli preclude per un breve tratto la vista del tutto. Nell’incendio muore, con i due vecchi, anche il viandante, che un tempo essi avevano salvato dal mare, e che è palesemente figura di Goethe stesso:

Goethe che, dunque, chiude la sua vita terrena a opera del suo principale personaggio; ma trapassa, al tempo stesso, all’immortalità aristocratica dell’«eroe», descritta dalle coretidei a proposito di Elena (atto III); nonché da Goethe nell’ode Euphrosyne (1797), in memoria di una sua giovane allieva attrice, Christiane Neumann. Anche chi è «senza nome» continua a esistere: ma solo nella perennità della natura. Goethe, dunque, non solo non è il teorico dell’attivismo della cosiddetta «civiltà faustiana», ma ne è il critico. L’impegno che pone nel concludere il Faust è dovuto al bisogno di fare i conti con il suo egotismo giovanile del Prometeo. Già là Prometeo aveva riconosciuto che il tutto si può avere, tutto insieme, solo «nel punto della morte». Poi Mefistofele aveva insegnato che il tutto è «solo per un dio»: a noi tocca l’alternarsi del giorno e della notte (vv. 1780-84). Questo alternarsi della luce, tipico del Werther, corrisponde a un alternarsi ciclotimico di esaltazione e depressione in Goethe (cfr. Consolazione nelle lacrime e innumerevoli altri poemetti). Ma alla fine il sacrificio di Margherita, «sant’amante penitente», salva Faust e persuade alla «rinuncia» Goethe stesso. Involontariamente a ciò ha contribuito anche il polo negativo del femminile, «la serpe», cioè Mefistofele, che ha impedito a Faust di fermarsi e ha rivelato a Faust il vuoto del suo attivismo. Adempiuto a questa funzione, ingannando gli altri e insieme se stesso, la momentanea personificazione di Mefistofele scompare, senza capirne il perché. V. Mathieu

V. FILOSOFIA DELLA BILDUNG. – Dalle poetiche di Goethe traspare, vivida e possente, un’idea di Bildung, ossia di formazione dell’uomo, che contrassegnerà di sé l’intera pedagogia goetheiana e la cosiddetta età di Goethe, ossia il grande secolo tedesco. Il neoumanesimo dell’ultimo Settecento e del primo Ottocento trova la propria espressione più compiuta nella liricità di quella Bildung che è sentimento del bello e del sacro, del bene e del mondo. Ich bin Weltbewohner: io sono abitatore del mondo, annuncia Goethe, e così dicendo riconduce l’uomo alla sua esperienza della vita, ma anche alla cosmicità dell’esistente. La natura costituisce il presupposto della riflessione del grande romantico. Il cosmo nella sua infinita unità suggella la tensione dell’uomo verso il mondo. Il mondo è anche il luogo dell’utopia, da cui emerge una visione onnilaterale della 4943

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Goethe vita e dell’uomo. Il viaggio fa da sfondo alla formazione: sia per quella che conduce verso l’intima profondità dello spirito, sia per quella che si esplica nell’incontro con gli altri uomini. Un sentimento umano anima le pagine del Die Leiden der jungen Werther (Berlin 1982 [1774], tr. it. di P. Bianconi, I dolori del giovane Werther, Milano 1999), disegna nel Wilhelm Meister (Leipzig 1860 [1809], tr. it. di T. Gnoli, Le esperienze di Wilhelm Meister, Milano 1954) il cammino formativo degli anni di noviziato e degli anni di pellegrinaggio, si schiude con il Faust ([prima parte 1775-1808, seconda parte 182432] Stüttgart 1881, tr. it. di A. Casalegno, Faust, Firenze 1997), il quale paradigmaticamente annuncia i luoghi di sofferenza che la formazione umana vivrà nel corso della modernità. Alla Bildung, in Goethe, segue sempre l’Umbildung: la trasformazione dell’animo umano che le esperienze cesellano, la natura fonda, lo spirito esprime con linguaggi non distratti dal sacro e dal mistero. Un impegno di ricerca, un anelito vitalistico, una tensione interiore sono la testimonianza del vivere orientato verso la conoscenza e la saggezza, verso la pace e l’amicizia, eppure di un vivere percorso anche da un’angosciosa tensione al superamento di sé, al traguardo impossibile di ciò che non si dà nella vita ma tuttavia si ascolta, a volte, nei recessi della coscienza. Goethe pone, per primo, la Bildung umana nel solco di una testimonianza dove gli affanni, le ansie, le angosce afferrano l’uomo riuscendo anche a sradicarlo dalla piena, adeguata e consapevole formazione di se stesso. Qui giunge la poetica di Goethe e fin qui la segue la sua pedagogia che rinnova l’idea decisiva di una Bildung intesa come armonia, ma anche dissonanza, squilibrio, dissidio interiore. «Tanto la storia quanto l’attimo fanno da confine alla formazione dell’uomo» (M. Gennari, Storia della Bildung, Brescia 1995, p. 89): nel segno d’entrambi quest’ultima combatte con la vita, ora l’asseconda ora la ostacola, riconducendo, però, sempre tutto al tutto: vom All ins All. Il romanticismo dell’Ottocento sarà debitore verso tale intuizione goethiana, che la letteratura, il teatro, la scienza, l’arte, la poesia celebreranno consapevoli di come soltanto nell’uomo abiti la sua formazione. M. Gennari BIBL.: delle numerose edizioni delle opere di Goethe resta tuttora fondamentale la Weimarer Ausgabe (detta anche Sophien-Ausgabe perché promossa

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dalla granduchessa Sophie di Sassonia-Weimar), Werke, Weimar 1887-1919 (143 voll.; ripr. Tübingen 1975). Notevoli anche la Jubiläums-Ausgabe, Sämtliche Werke, a cura di E. von der Hellen, Stuttgart-Berlin 1909-12 (40 voll. e 1 vol. integrativo); la Propyläenausgabe, Sämtliche Werke, a cura di C. Höfer - C. Noch, München-Berlin 1909-32 (45 voll. e 4 voll. integrativi: le opere vi sono disposte in ordine cronologico); la Gedenkausgabe o Artemis-Ausgabe, Werke, Briefe und Gespräche, a cura di E. Beutler, Zürich 1948-64 (24 voll. e 2 voll. integrativi). Si raccomandano, per il ricco commento, la Hamburger Ausgabe, Werke, a cura di E. Trunz, Hamburg 1948-64; poi München 1973-78, 14 voll. ampiamente antologici e la Berliner Ausgabe, Berlin-Weimar 1961-78, 22 voll. Gli scritti scientifici hanno la loro migliore raccolta (commentata) nella Leopoldina Ausgabe, Die Schriften zur Naturwissenschaft, a cura di D. Kuhn - R. Matthaei - G. Schmidt - W. Troll - K.L. Wolff - W. Engelhardt (Weimar 1947 ss.); in tr. it.: Teoria della natura, a cura di M. Montinari, Torino 1958 e La teoria dei colori, a cura di R. Troncon, Milano 1979. Fra le molte traduzioni di singole opere goethiane, va segnalata in particolare la raccolta Opere, a cura di L. Mazzucchetti, Firenze 1944-61, 5 voll. Più ridotta la scelta in un vol. curata da V. Santoli, Opere, Firenze 1970. Su Goethe: in generale, per la bibliografia goethiana si veda K. GOEDEKE, Grundriss zur Geschichte der deutschen Dichtung, vol. IV, sezioni 2-4, Dresden 191013: bibliografia goethiana fino al 1912, sezione 5 (Berlin 1960: bibliografia goethiana fino al 1950, ripr. Berlin 1975; e la Goethe-Bibliographie, fondata da H. Pyritz, vol. I, Heidelberg 1965, vol. II (1955-1964), Heidelberg 1968. Per gli anni seguenti: Goethe. Neue Folge des Jahrbuchs der Goethe-Gesellschaft, Weimar 1955 ss. Per gli studi italiani su Goethe, rimane fondamentale strumento di consultazione G. AVANZI G. SICHEL, Bibliografia italiana su Goethe (17791965), Firenze 1972. Si tenga anche presente il Repertorio bibliografico della letteratura tedesca in Italia (1900-1965), vol. I: 1900-1960; vol. II: 1961-1965, con supplementi e indici, Roma 1966-68, aggiornato al 1973 da C. di Gesù in «Studi Germanici» (nuova serie), anno XV, nn. 1-3, febb.-ott. 1977. Una panoramica ragionata sugli studi goethiani in Italia nel secondo dopoguerra è stata stesa, in lingua tedesca, da M. FANCELLI, nel «Goethe-Jahrbuch», 92 e 93 (1975-76), sotto il titolo Dreissig Jahre Goetheforschung in Italien (1945-1974); ora anche in it., in versione ampliata: In nome del classico. Goethe e il classicismo tedesco nella critica italiana del dopoguerra, Firenze 1979. Fra i moltissimi studi: C.G. CARUS, Goethe. Zu dessen näheren Verständnis, Leipzig 1843, nuova ed. a cura di H. Krug, Dresden 1955; H.-G. GADAMER, Goethe und die Philosophie, Leipzig 1947; K. JASPERS, Unsere

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Zukunft und Goethe, Zürich 1948; L. KLAGES, Goethe als Seelenforscher, Zürich 1949, tr. it. a cura di G. Lacchin, Goethe come esploratore dell’anima, Milano 2003; E. SPRANGER, Goethes Weltanschauung, Wiesbaden 1949; K. VIËTOR, Goethe Dichtung, Wissenschaft, Weltbild, Bern 1949; G. LUKÁCS, Goethe und seine Zeit, Berlin 1950 (Bern 1947), tr. it. di E. Burich, Goethe e il suo tempo, Firenze 1974; J. ORTEGA Y GASSET, Goethe desde dentro. El punto de vista en las artes (1933), in Obras completas, Madrid 19502, tr. it. di A. Benvenuti, Goethe. Un ritratto dall’interno, Milano 2003; H.J. SCHRIMPF, Das Weltbild des spaten Goethe, Stuttgart 1956; E. STAIGER, Goethe, Zürich 1957-59, 3 voll.; E. BUCHWALN, Naturschau mit Goethe, Stuttgart 1960; R. FRIEDENTHAL, Goethe. Sein Leben und seine Zeit, München 1963, tr. it. di E. Croce, Goethe, la vita e i tempi, Milano 1966; H. FLAMM, Der theoretiker Goethe, Berlin 1975; I.A. CHIUSANO, Vita di Goethe, Milano 1981 (con un’amplia notizia bibliografica); T.J. REED, Goethe, Oxford 1984; M. FRESCHI, Goethe. L’insidia della modernità, Roma 1999; V. MATHIEU, Goethe e il suo diavolo custode, Milano 2002. Studi comparati: R. NEUMANN, Goethe und Fichte, Stuttgart 1902; D. MAHNKE, Goethe und Leibniz, Erfurt 1924; F. KOCH, Goethe und Plotin, Leipzig 1925; G. RABEL, Goethe und Kant, Wien 1928; W. SAYNGER, Goethe und Giordano Bruno, Berlin 1930; F. SEIDEL, Goethe gegen Kant, Berlin 1948; H.E. GERBER, Nietzsche und Goethe, Bern-Stuttgart 1954; T.Q. VAN STOCKUN, Goethe en Spinoza, Leiden 1956; J. ORTEGA Y GASSET, Triptico. Mirabeau o el politico. Kant. Goethe, Madrid 19645; G. von MOLNÁR, Goethes Kantstudien, Weimar 1993; E. CASSIRER, Rousseau, Kant, Goethe, ed. it. a cura di G. Raio, Roma 1999. Sulla filosofia della natura: M. LOESCHE, Grundgedanke in Goethes Naturwissenschaft, Leipzig 1944; R. STEINER, Goethe, the Scientist, New York 1950; J. WAASER, Natur und Geist, Tübingen 1951; G.A. WELLS, Goethe and the Development of Science: 1750-1900, Alphen aan den Rijn 1978; P. GIACOMONI, Le forme e il vivente. Morfologia e filosofia della natura in J.W. Goethe, Napoli 1993; G. GIORELLO - A. GRIECO (a cura di), Goethe scienziato, Torino 1998; F. MOISO, Goethe. La natura e le sue forme, Milano 2002; B.E. CAMONI (a cura di), Il paradigma vegetale. La scienza e l’arte contemporanea rileggono la «Metamorfosi delle piante» di Goethe, Bologna 2003; W. v. ENGELHARDT, Goethe im Gespräch mit der Erde. Landschaft, Gesteine, Mineralien und Erdgeschichte in seinem Leben und Werk, Weimar 2003. Sull’estetica: P. MENZER, Goethes Aesthetik, Köln 1957; M. MARACHE, Le symbole dans la pensée et l’oeuvre de Goethe, Paris 1960; N. BOYLE, Goethe: The Poet and the Age, Oxford 1991; G. BAIONI, Goethe. Classicismo e rivoluzione, Torino 1998; L. FARULLI, L’occhio di Goethe. La teoria dei colori, Pisa 1998; L. PAREYSON,

Goffman Estetica dell’idealismo tedesco. Vol. 3: Goethe e Schelling, Milano 2003. Sulla filosofia della formazione: E. ZEISSIG, Goethe als Erzieher und Lehrer, Attenburg 1920; H. LESER, Das pädagogische Problem, München-Berlin 1925; L. KIEHN, Goethes Begriff der Bildung, Hamburg 1932; C. GÜNZLER, Bildung und Erziehung im Denken Goethe, Köln 1981; G. BÖHME¸ Goethe: Naturwissenschaft, Humanismus, Bildung: ein Versuch über die Gegenwart klassischer Bildung, Frankfurt am Main - New York 1991.

GOFFMAN, ERVING. – Sociologo canadese, Goffman n. a Mannville (Alberta) l’11 giu. 1922, m. a Filadelfia il 20 nov. 1982. Dopo aver studiato chimica ed essersi interessato al cinema, si specializzò in sociologia a Chicago. Dal 1957 al 1968 svolse la sua carriera accademica all’università di Berkeley, fino a divenire professore ordinario di Sociologia. Nel 1968 si trasferì all’università di Filadelfia, dove rimase fino alla morte. La carriera di Goffman fu tardiva ma rapida, poiché già il suo primo libro, The Presentation of Self in Everyday Life (Harmondsworth 1959, tr. it. di M. Ciacci, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna 1969), ebbe un immediato successo di critica e di pubblico. L’ordine dell’interazione tra gli attori sociali, che è il tema centrale dell’intera e variegata riflessione teorica di Goffman, vi viene efficacemente descritto attraverso la metafora della rappresentazione teatrale. La vita quotidiana è come una lunga recita che mettiamo in scena ogni giorno di fronte al pubblico rappresentato dagli altri individui, e attraverso la quale cerchiamo di indirizzare e governare la loro interazione con noi. Perciò l’approccio di Goffman alla sociologia è stato definito un approccio «drammaturgico». A differenza di altre concezioni simili, tuttavia, quella di Goffman non nega la libertà individuale: se è vero che nella loro vita quotidiana in pubblico gli individui seguono un copione, essi sono però anche gli autori di quello stesso copione. Le rappresentazioni che mettono in scena sottostanno tuttavia a delle regole che di volta in volta indicano i comportamenti più appropriati per consentire la conservazione di un ordine sociale e l’integrazione dei singoli nell’ordine stesso. È attraverso simili codici di comportamento individuale che la collettività, nel suo complesso, trova una forza di coesione. La figura di Goffman resta piuttosto anomala nel panorama della teoria sociologica contem4945

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Goffredo di Aspall poranea. Affine per molti versi alla sociologia fenomenologica, per altri all’interazionismo simbolico, per altri ancora all’etnometodologia, e dunque pienamente inquadrabile nel panorama delle microsociologie, essa è stata sotto altri aspetti collocata anche nella tradizione del funzionalismo durkheimiano e parsonsiano. È comunque certo che il carattere vario, estemporaneo e poco sistematico delle acute trattazioni di Goffman in tutte le sue opere più famose (Asylums, New York 1961, tr. it. di F. Basaglia, Asylums, Torino 1968; Frame Analysis, New York 1974, tr. it. di I. Matteucci, Frame Analysis, Roma 2001) ne fa un autore eccentrico rispetto al main frame della disciplina. P. Volonté BIBL.: T. BURNS, Erving Goffman, London 1992; L. BOVONE - G. ROVATI (a cura di), L’ordine dell’interazione. La sociologia di Erving Goffman, Milano 1992; G.A. FINE - G.W.H. SMITH (a cura di), Erving Goffman, London 2000, 4 voll.

GOFFREDO DI ASPALL (Galfridus). – MaeGoffredo di Aspall stro oxoniense del XIII secolo, m. l’11 giugno 1287. Studiò e insegnò quasi certamente a Oxford tra il 1243 e il 1263, quando abbandonò la carriera accademica e intraprese quella di consigliere regio. Discepolo di Adamo di Buckfield, ne subì l’influsso, particolarmente evidente nelle prime opere: l’esposizione per modum commenti della Physica e del De caelo. Sono giunti fino a noi anche le sue esposizioni per modum quaestionis a buona parte del Corpus aristotelicum vetustius e due brevi trattati di astronomia e fisica. Al contrario, non sono stati ritrovati o identificati i suoi commenti ad alcuni libri della Physica, ai Meteorologica e al De vegetalibus. Le fonti di Goffredo di Aspall sono numerose. Nell’esposizione della Metaphysica egli cita espressamente Alberto Magno e dal commento di quest’ultimo al De anima trae l’argomento per dimostrare la maggior nobiltà della metafisica rispetto a ogni altra scienza. Da Roberto Grossatesta deriva la sua teoria sulla luce. Particolarmente profonda è la sua dipendenza dal De ortu scientiarum (ca. 1250) di Roberto Kilwardby. Goffredo condivide le tendenze speculative dei maestri delle Arti di Oxford del terzo quarto del XIII secolo, dell’ambiente dei quali fornisce importanti testimonianze. La sua influenza si estende in qualche modo anche a Parigi, come prova il riassunto delle sue notulae al compendio al De 4946

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generatione et corruptione a opera di Sigieri di Brabante. M. Forlivesi BIBL.: R. PLEVANO, Richard Rufus of Cornwall and Geoffrey of Aspall. Two Questions on the Instant of Change, in «Medioevo», 19 (1993), pp. 167-232.

GOFFREDO DI FONTAINES (Godefridus de Goffredo di Fontaines Fontibus; Leodiensis). – Filosofo e teologo scolastico, n. a Fontaines-les-Hozémont vicino a Liegi, m. dopo il 1306. Compì gli studi filosofici e teologici a Parigi dove conobbe Tommaso d’Aquino, Sigieri di Brabante, Gerardo di Abbeville; tra i suoi maestri vi fu Enrico di Gand. Pare abbia ottenuto il magistero prima del 1285, e insegnò a Parigi almeno fino al 1304 prendendo parte attiva alla vita universitaria. Proposto nel 1300 quale vescovo di Tournai, rinuncia ai propri diritti dinanzi alla candidatura ufficiale di Guido di Boulogne. Tra i primi scolari contò Giovanni di Pouilly, Guido Terrena e Giacomo di Bruges. Membro della Sorbona, lasciò a tale istituzione non pochi manoscritti, passati adesso alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Gli si debbono: un gruppo di quindici Quodlibeta (cinque dei quali frutto di una reportatio), l’opera principale; tre Quaestiones ordinariae; note varie aggiunte alla Summa contra Gentiles di Tommaso d’Aquino, come risulterebbe da un esemplare della stessa lasciato in eredità alla Sorbona (cfr. Thomae Aquinatis Summa de Veritate Catholicae Fidei contra Gentiles, ed. a cura di P.A. Uccelli, Roma 1878, Appendix 1-31). Goffredo di Fontaines è l’avversario dichiarato di Enrico di Gand e dell’agostinismo. La sua speculazione è infatti fortemente impregnata di aristotelismo e largamente aperta all’influenza di Tommaso d’Aquino, per il quale Goffredo professa la più viva ammirazione. Non abdica per ciò stesso alla propria iniziativa; anzi non esita a contraddire, là dove lo ritiene opportuno, il grande maestro domenicano. Si rifiuta così di introdurre una distinzione reale tra l’essenza e l’esistenza, opponendosi al riguardo forse più alle esagerazioni di Egidio Romano, che ne aveva fatto una composizione di res addirittura separabili, che non alla tesi tomistica nella sua schiettezza. Ritiene poi di dover trovare nella forma, e non nella materia, il principio di individuazione. Forse ancora in ossequio alla condanna del 1277, non osa difendere l’unicità della forma sostanziale. In fatto di psicologia accentua, nel processo

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astrattivo, la passività dell’intelletto nei confronti del fantasma, e nella dinamica dell’atto volontario, quella della volontà nei confronti del valore che la sollecita, evitando appena di stretta misura il determinismo dei motivi. Critica anche Tommaso Sutton e Giacomo di Viterbo, come risulta da una tabula delle sue innovazioni e divergenze nei confronti dei suoi contemporanei, conservata da più di un manoscritto del secolo XIV e recentemente presa in considerazione (J. Hoffmans, La table des divergences et innovations doctrinales de Godefroid de Fontaines, in «Revue Néoscolastique de Philosophie», 1934, pp. 412-436). P. Stella BIBL.: i primi XIV Quodlibeta, ed. a cura di M. De Wulf - A. Pelzer - J. Hoffmans, «Les philosophes belges», voll. II-V, Louvain 1904-32; il XV e le Quaestiones ordinariae, ed. a cura di O. Lottin - J. Hoffmans, «Les philosophes belges», vol. XIV, Louvain 1937; altre Quaestiones sono edite in J.F. WIPPEL, Godfrey of Fontaines’ Disputed Questions 9, 10 and 12, in «Franciscan Studies», 33 (1973), pp. 351-372; O. LOTTIN, Les vertus morales acquises sont-elles de vraies vertus? La réponse des théologiens de saint Thomas à Pierre Auriol, in «Recherches de Théologie Ancienne et Médiévale», 21 (1954), pp. 101-129 (pp. 113-122); O. LOTTIN, Psychologie et morale aux XIIe et XIIIe siècles, LouvainGembloux 1954, vol. IV, pp. 581-588, 591-597. Su Goffredo di Fontaines: M. DE WULF, Un théologien-philosophe du XIIIe siècle. Étude sur la vie, les oeuvres et l’influence de Godefroid de Fontaines, Bruxelles 1904; M. DE WULF, L’intellectualisme de Godefroid de Fontaines d’après le Quodlibet VI, q. 15, «Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters», suppl. I, Münster i.W. 1913, pp. 287-296; P. GLORIEUX, Répertoire des Maîtres en théologie de Paris au XIIIe siècle, Paris 1933, vol. I, pp. 396-399; O. LOTTIN, Le libre arbitre chez Godefroid de Fontaines, in «Revue Néoscholastique de Philosophie», 40 (1937), pp. 213-241, 554-573; O. LOTTIN, Psychologie et morale au XIIe et XIIIe siècles, Louvain-Gembloux 1942-60, vol. I, pp. 307-339; vol. II, pp. 267-269; vol. IV, p. 889; vol. VI, pp. 393-402 (Un Quodlibet inconnu de Godefroid de Fontaines); P. STELLA, Teologi e teologia nelle «reprobationes» di Bernardo d’Auvergne ai Quodlibeti di Goffredo di Fontaines, in «Salesianum», 19 (1957), pp. 171214; B. NEUMANN, Der Mensch und die himmlische Seligkeit nach der Lehre Gottfrieds von Fontaines, Limburg 1958; J.J. DUIN, La bibliothèque philosophique de Godefroid de Fontaines, in «Estudios Lulianos», 3 (1959), pp. 21-36; B. BRASWELL, Godfrey of Fontaines’ Abridgement of Boetius of Dacia’s «Quaestiones supra librum Topicorum Aristotelis», in «Mediaeval Studies», 24 (1964), pp. 302-314; J.F. WIPPEL, Godfrey of Fontaines and the Real Distinction between Essence

Goffredo di Fontaines and Existence, in «Traditio», 20 (1964), pp. 385-410; P. TIHON, Foi et théologie selon Godefroid de Fontaines, Paris-Bruges 1966; J.B. SCHNEYER, Repertorium der lateinischen Sermones des Mittelalters für die Zeit von 1150-1350 (Autoren: E-H), «Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters», vol. XLIII-2, Münster i.W. 1970, p. 206; J.F. WIPPEL, Godfrey of Fontaines: The Date of Quodlibet 15, in «Franciscan Studies», 31 (1971), pp. 300-369; J.F. WIPPEL, Godfrey of Fontaines and the Act-Potency Axiom, in «Journal of the History of Philosophy», 11 (1973), pp. 299-317; J.F. WIPPEL, Godfrey of Fontaines and Henry of Ghent’s Theory of Intentional Distinction between Essence and Existence, in T.W. KÖHLER (a cura di), Sapientiae procemur amore. Mélanges Médiévistes offerts à Dom Jean-Pierre Müller O.S.B. à l’occasion de son 70ème anniversaire (24 février 1974), Roma 1974, pp. 289-321; E.D. SYLLA, Godfrey of Fontaines on Motion with Respect to Quantity of the Eucharist, in A. MAIERÙ - A. PARAVICINI BAGLIANI (a cura di), Studi sul XIV secolo in memoria di Annelise Maier, Roma 1981, pp. 105-141; J.F. WIPPEL, The Metaphysical Thought of Godfrey of Fontaines. A Study in Late ThirteenthCentury Philosophy, Washington 1981; J.F. WIPPEL, Godfrey of Fontaines’ Disputed Questions 9 and 10 (Bruges 491): by Godfrey or by Giles de Rome?, in «Franciscan Studies», 42 (1982), pp. 216-247; J.F. WIPPEL, Possible Sources for Godfrey of Fontaines’ Views on the Act-Potency «Composition» of Simple Creatures, in «Mediaeval Studies», 46 (1984), pp. 222-244; J.F. WIPPEL, The Role of the Phantasm in Godfrey of Fontaines’ Theory of Intellection, in C. WENIN (a cura di), L’homme et son univers au moyen âge, «Actes du septième Congrès internationale de Philosophie Médiévale, 30 août - 4 septembre 1982», Louvain-la-Neuve 1986, vol. II, pp. 573-582; E.P. MAHONEY, Duns Scoto and Medieval Discussions of Metaphysical Hierarchy: The Background of Scotus’s «Essential Order» in Henry of Ghent, Godfrey of Fontaines and James of Viterbo, in L. SILEO (a cura di), Vita Scoti. Methodologica ad mentem Joannis Duns Scoti, «Atti del Congresso Scotistico Internazionale Roma 9-11 marzo 1993», Roma 1995, vol. I, pp. 359-374; E.-M. FABER, s. v. in W. KASPER (a cura di), Lexikon für Theologie und Kirche, Freiburg i.W. 1993-20013, vol. IV, col. 948; P. SCHULTHESS - R. IMBACH, Die Philosophie im lateinischen Mittelalter, Zürich-Düsseldorf 1996, pp. 192, 199, 214, 224, 236, 433-434; J.F. WIPPEL, s. v. in G. AVELLA-WIDHALM et al. (a cura di), Lexikon des Mittelalters, Stuttgart-Weimar 1999, vol. IV, col. 1603; J.F. WIPPEL, Godfrey of Fontaines at the University of Paris in the Last Quarter of the Thirteenth Century, in J. AERTSEN - K. EMERY - A. SPEER (a cura di), Nach der Verurteilung von 1277. Philosophie und Teoogie an der Universität von Paris im letzten Viertel des 13. Jahrhunderts. Studien und Texte, Berlin-New York 2001, pp. 359-389; J.F. WIPPEL, s. v. in J.E. GRACIA -

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Goffredo di Poitiers T.E. NOONE (a cura di), A Companion to Philosophy in the Middle Ages, Oxford et al. 2003, pp. 272-280.

GOFFREDO DI POITIERS (Godefridus PorGoffredo di Poitiers retanus). – Scolastico, m. a Poitiers intorno al 1225. Fu scolaro di Langton e quindi maestro nello studio parigino nei primi anni del XIII secolo. La sua opera principale è la Summa theologica, ancora inedita (1212-15 ca.), che riprende le dottrine di Langton e di Roberto di Courçon. Goffredo fece parte della commissione di teologi incaricati da Gregorio IX di studiare la riforma degli studi. C. Vasoli BIBL.: R. AUBERT, s. v., in A. DE MEYER, Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastique, Paris 1912-, vol. XXI, col. 399; G. ENGELHARDT, Die Entwicklung der dogmatischen Glauben-Psychologie in der Mittelalterlichen Scholastik: von Abaelardsteit (um. 1140) bis zu Philipp dem Kanzler (gest. 1236), Münster i.W. 1933; O. LOTTIN, Psychologie et morale au XIIe et XIIIe siècle, Louvain-Gembloux 1941-48, vol. I, pp. 62-63; vol. II, pp. 115-119, 513-515; A.M. LANDGRAF, Introduction à l’histoire de la littérature théologique de la scolastique naissante, Montréal-Paris 19732, pp. 25, 5051, 124, 156-157, 165-166, 171-172, 174, 181-183 (a cura di A.-M. Landry); J. ARNOLD, s. v., in W. KASPER (a cura di), Lexikon für Theologie und Kirche, Freiburg i.B. 19953, vol. IV, col. 948; G. D’ONOFRIO (a cura di), Storia della teologia nel Medioevo, vol. II: La grande fioritura, Casale Monferrato 1996, pp. 481, 517, 555, 556, 558, 651; P. SCHULTHESS - R. IMBACH, Die Philosophie im lateinischen Mittelalter, Zürich-Düsseldorf 1996, pp. 256, 434; J. SCHNEIDER, s. v., in G. AVELLAWIDHALM et al. (a cura di), Lexikon des Mittelalters, Stuttgart-Weimar 1999, vol. IV, coll. 1604-1605.

GOFFREDO DI SAN VITTORE (Godefridus Goffredo di San Vittore de Sancto Victore). – N. intorno al 1125-30, entrò a San Vittore dopo il 1155 (agli inizi dell’abbaziato di Acardo); fu quindi costretto ad allontanarsi per effetto della politica di Gualtiero intorno al 1180; tornato infine a Parigi, vi morì nel 1194. Le sue opere principali sono il Fons philosophiae (1178 ca.; ed. a cura di A. Charma, Caen 1868; P. Michaud-Quantin, Namur-Louvain 1956; frammenti in J.-P. Migne, Patrologiae cursus completus, Series II: [Patres] Ecclesiae Latinae, Paris 1845-55, vol. CXCVI, coll. 419422), che è un manuale in versi rimati di classificazione delle scienze con informazioni relative allo stato della questione degli universali, e il Microcosmus (1185 ca; ed. a cura di Ph. 4948

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Delhaye, Lille-Gembloux 1951), trattato filosofico-ascetico in tre libri in forma di commento al cap. I del Genesi, che fonde ai motivi classici della scuola vittorina i motivi della scuola di Chartres. Difatti l’umanesimo, già vivo e presente nel Fons philosophiae, nel Microcosmus si allarga a una più vasta considerazione della natura. In passato si identificava Goffredo di San Vittore, autore delle due opere, con Goffredo di Breteuil, che invece risulta esser stato sottopriore di Sainte-Barbe-en Auge (Normandia). Cfr. testi in AA.VV., Grande antologia filosofica, Milano 1954, vol. IV, pp. 810-813. Goffredo è uno dei primi scolastici che cerchi di darci un concetto dell’ordine della natura come distinto da quello della grazia: i primi tre giorni della creazione simboleggiano la creazione della natura, e gli ultimi tre l’opera della grazia. La natura umana costituisce una tappa verso il soprannaturale; essa non è peccato e ha beni e perfezioni inerenti al suo grado. Goffredo, pur accettando i principi della psicologia platonica, è lontano dal considerare il dualismo anima-corpo come opposizione di bene e di male. Egli ammette quattro principi dell’anima (preferiamo parlare di principi e non di facoltà, per non incorrere in anacronistiche anticipazioni aristoteliche, ancora assai lontane dalla psicologia di Goffredo): sensualitas, imaginatio, ratio, intelligentia. La natura razionale e spirituale dell’uomo trova il suo pieno appagamento nella filosofia. Ma se il fine naturale dell’uomo risiede nella scienza teoretica, il suo fine soprannaturale risiede nell’amore. Goffredo di San Vittore mostra chiaramente le conseguenze deleterie del peccato originale, che ha, pur senza distruggerla, incrinato la natura. I modi dei doni della grazia sono tre: la gratia illuminationis, la gratia affectionis, la gratia facultatis. Il grado più alto dell’illuminazione è la verità; dell’affezione è la virtù; della facoltà è il possesso di una duratura forza nell’operare, forza che costituisce ormai una natura. P. Mazzarella BIBL.: alle edd. delle opere già citate si deve aggiungere quella del Praeconium Augustini, a cura di P. Damon, in «Mediaeval Studies», 22 (1960), pp. 92107. Su Goffredo di San Vittore: P. DELHAYE, Le «Microcosmus» de Godefroy de Saint-Victor: étude théologique, Lille-Gembloux 1951; V. CILENTO, Il metodo e la dottrina del «Microcosmus» di Goffredo di San Vittore, Napoli 1959; F. GASPARRI, Godefroy de Saint-

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Victor, une personnalité peu connue du monde intellectuel et artistique parisien du XIIe siècle, in «Scriptorium», 39 (1985), pp. 57-69.

GOFFREDO DI VINSAUF (Godefridus de ViGoffredo di Vinsauf nosalvo). – Poeta latino del XIII secolo, di origine inglese; la sua vita è pressoché sconosciuta. Si sa solo che fu per qualche tempo in Italia, dove godette del favore di Innocenzo III. Gli vengono attribuite la Poetria nova, poema in versi latini di ampia circolazione (a giudicare dal numero dei manoscritti esistenti), e un manuale sull’arte di comporre versi, il Documentum de modo et arte dictandi et versificandi. La Poetria nova è un’interpretazione della poesia attenta ai fatti stilistici e sensoriali, alla parola e alle regole della sua struttura empiricofisica, che segna un’epoca nuova negli studi estetici medievali. E. Oberti BIBL.: Poetria nova, ed. in E. FARAL, Les arts poétiques du XIIe et du XIIIe siècle. Recherches et documents sur la technique littéraire du moyen âge, Paris 1924, pp. 194-262; tr. inglese a cura di M.F. Nims, Toronto 1967; Ars dictandi, tr. inglese a cura di R.P. Parr, Milwaukee 1968. Su Goffredo di Vinsauf: E. DE BRUYNE, Études d’esthétique médiévale, Bruges 1946, vol. II, pp. 24-29, 181-183 (rist. Paris 1998, vol. II, pp. 394-399 e 551553).

GOGARTEN, FRIEDRICH. – Teologo tedesco Gogarten n. a Dortmund il 13 genn. 1887, m. a Göttingen il 16 ott. 1967. La sua formazione ha luogo presso le università di Jena, Berlino e Heidelberg. Terminati gli studi, si dedica a partire dal 1917 al suo ufficio di pastore protestante in alcune parrocchie di campagna fino al 1931 quando ottiene la cattedra di teologia dogmatica. Insegna dapprima all’università di Breslau e nel 1935 all’università di Göttingen dove rimane per vent’anni finché deve abbandonare il suo insegnamento per limiti di età. Gogarten è presente nel mondo culturale europeo per più di cinquanta anni: dal 1914, data del suo primo scritto filosofico-teologico sul pensiero di Fichte fino al 1966, data del suo ultimo studio sulla figura di Gesù Cristo. Il pensiero filosofico-teologico di Gogarten affonda le sue radici culturali nel terreno della filosofia della esistenza e nel terreno dello storicismo. Si possono ricordare i suoi seminari con Heidegger, Gadamer e Bult-

Gogarten mann. In particolare negli scritti giovanili di Gogarten si nota la presenza di M. Buber, F. Ebner, E. Grisebach. Negli scritti più maturi si nota la presenza di W. Dilthey e soprattutto quella di E. Troeltsch che Gogarten stesso riconosce come il suo maestro. Come tutti questi pensatori esistenziali, Gogarten parte dal presupposto che l’uomo si trova nel mondo. Di conseguenza non ha senso ricercare il fondamento ultimo dell’uomo al di fuori del mondo e quindi della storia. Nel suo scritto giovanile Io credo in un Dio trino (Ich glaube an den dreieinigen Gott, 1926) si legge che l’uomo è per essenza un essere storico. Il fatto che la problematica del mondo sia centrale nel pensiero di Gogarten comporta soprattutto che il momento autentico della fede venga messo a fuoco proprio nell’ambito del mondo e non già in un contesto concettuale qualsiasi. Questo spiega la critica continua che Gogarten muove al pensiero idealistico, come si può vedere già nel suo primo scritto del 1914, Fichte come pensatore religioso (Fichte als religiöser Denker). Gogarten, come Kierkegaard, è convinto che il fenomeno dell’ateismo, visto nella sua forma più radicale, abbia luogo proprio nell’orizzonte dell’immanenza che è tipica del pensiero idealistico. Gogarten è perciò coerente quando prende le distanze dalla teologia liberale, che si fonda appunto sul pensiero idealistico, per aderire con entusiasmo alla teologia dialettica, nel cui ambito si rivela come un pensatore quanto mai originale. I rappresentanti più noti della teologia liberale sono notoriamente F.D.E. Schleiermacher e H. von Harnack. I rappresentanti principali della teologia dialettica sono R. Bultmann, P. Tillich, E. Brunner, S. Merl, ma in modo particolare K. Barth e Gogarten. Quando si parla di teologia dialettica si cita, per lo più assieme alla seconda edizione della Epistola ai Romani di Barth del 1921, lo scritto di Gogarten La decisione religiosa (Die religiöse Entscheidung) che è pure del 1921. Un anno prima, nel 1920, Gogarten aveva già pubblicato un prezioso articolo Tra i tempi (Zwischen den Zeiten) nella rivista della teologia liberale, «Mondo cristiano». Il titolo di questo articolo diventa, due anni dopo, nel 1922, il titolo della nuova rivista della teologia dialettica che si esaurisce dopo dieci anni, nel 1933, precisamente quando Barth, in polemica con Gogarten, si congeda dai suoi collaboratori con lo scritto Esistenza teologica oggi. Il motivo del dissidio tra Barth 4949

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Gogarten e Gogarten è dato dalla nuova situazione politica del 1933 che segna la data della ascesa di Hitler al potere. La chiesa evangelica si divide in due gruppi, quello che approva il nuovo potere e quello invece che lo combatte. Gogarten aderisce al gruppo evangelico dei «Cristiani tedeschi» che condivide appunto alcuni aspetti della nuova ideologia. Gli altri collaboratori della teologia dialettica invece costituiscono con Barth il gruppo evangelico della «Chiesa confessante» che si schiera contro la nuova ideologia. Gogarten abbandona solo dopo alcuni mesi in modo clamoroso il suo gruppo evangelico. Del resto, la sua scelta dei primi mesi può forse essere giustificata a livello pastorale e non già a livello filosofico-teologico. Da parte sua Barth non si meraviglia della posizione politica di Gogarten che è, a suo avviso, del tutto coerente con la sua impostazione teologica, fondata appunto sullo storicismo. Il punto di partenza del pensiero di Gogarten consiste nel mettere in luce il senso autentico della cultura per poter superare la posizione nichilistica della cultura del proprio tempo. Gogarten sostiene a riguardo che la causa principale del fenomeno culturale del nichilismo può essere colta nella crisi che da circa due secoli investe il fenomeno storico del cristianesimo, che fino ad allora rappresentava il fondamento del mondo occidentale. Un mondo privo di tale realtà culturale non può essere che aperto al caos. D’altronde, anche quando venga riconosciuta al cristianesimo ancora una qualche validità, resta sullo sfondo un rapporto poco chiaro tra il cristianesimo della tradizione e la cultura scientifico-tecnica del mondo occidentale. Di qui la domanda di fondo di Gogarten, semmai vi sia tra il cristianesimo della tradizione e il pensiero moderno un contrasto inconciliabile. Si avverte facilmente questo contrasto, se si constata l’autonomia illimitata di cui ha coscienza l’uomo moderno nei confronti del mondo. A riguardo Gogarten fa presente che nella cultura del suo tempo è andato perduto il senso autentico del fenomeno della «secolarizzazione» dove si può manifestare il senso autentico del sacro. Al suo posto si assiste al fenomeno del «secolarismo», dove l’uomo celebra sempre più il trionfo della sua autonomia proprio nella misura in cui procede sempre più il processo culturale e storico di scristianizzazione. In questo ambito la fede tradizionale viene considerata come momento alienante. Il tramonto di tale fede si rivela per4950

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ciò la condizione necessaria affinché venga messa a fuoco la libertà dell’uomo. La secolarizzazione si rivela pertanto come il terreno più adatto per avvicinarsi a una autentica fede. Più precisamente, secolarizzazione vuol dire mondanizzazione del mondo. Vuol dire non cogliere nel mondo tracce del sacro, non venerare il mondo in senso religioso. Per superare tale posizione angosciante Gogarten propone di avvicinarsi alla visione culturale dello storicismo, in particolare alle posizioni filosofiche di Dilthey e di Troeltsch. In tale contesto culturale l’uomo è nel suo fondamento unità dialettica di due modalità esistenziali, «autonomia» e «dipendenza». Gogarten sostiene a riguardo la tesi che l’autonomia del mondo moderno, dominato dalla scienza e dalla tecnica, non è affatto in opposizione ma è anzi conforme al fenomeno culturale del cristianesimo. Gogarten chiarisce questa sua posizione con una analisi che non è solo filosofica ma pure teologica. Egli fa presente che l’esistenza umana è a partire dalla sua origine un «essere-dipendenteda». Questo significa in altre parole che nel suo fondamento l’uomo non può nutrire la pretesa di godere di una libertà assoluta. Ciò implica che il conoscere non può essere senza limiti e che perciò deve lasciare il posto al fenomeno del non-conoscere. In tal modo l’uomo ha coscienza di essere nel piano del fondamento come «dipendente-da». Ma questo non pregiudica il fatto che come essere-nel-mondo l’uomo abbia coscienza di essere autonomo rispetto al mondo della natura e a quello della storia. In tal modo l’autonomia è illimitata solo rispetto alla concezione culturale della scienza. Tale autonomia non è perciò in contrasto con la fede cristiana ma è il frutto di essa, dato che il mondo viene del tutto affidato all’uomo di scienza. La sua responsabilità nei confronti di Dio non è in contrasto con la responsabilità verso il mondo. Anzi è resa possibile proprio da questa responsabilità della fede cristiana nei confronti del sacro secolarizzato. G. Penzo BIBL.: Glaube und Wirklichkeit, Jena 1928; Politische Ethik, Jena 1932; Einheit von Evangelium und Volkstum?, Hamburg 1933; Das Bekenntnis der Kirche, Jena 1934; Die Verkündigung Jesu Christi, Heidelberg 1948; Der Mensch zwischen Gott und Welt, Heidelberg 1952; Verhängnis und Hoffnung der Neuzeit. Die Säkularisierung als theologisches Problem, Stuttgart 1953; Entmythologisierung und Kirche, Stuttgart

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1953; Was ist Christentum?, Göttingen 1956; Die Wirklichkeit des Glaubens, Stuttgart 1957; Jesus Christus, Wende der Welt, Tübingen 1966; Die Frage nach Gott, Tübingen 1968. Su Gogarten: TH. STEINMANN, Zur Auseinandersetzung mit Gogarten, Brunner und Barth, in «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 5 (1929), pp. 220-237, 452470; T. SIEGFRIED, Die Theologie der Existenz bei F. Gogarten und R. Bultmann, Gotha 1933; G. JACOB, Gericht oder Skepis. Zu F. Gogarten gleichnamiger Streitschrift gegen K. Barth, in «Theologische Rundschau», 5 (1938), pp. 1-23; H. THIELICKE, Die Krisis der Theologie, Leipzig 1938; C. FUCHS, Begegnung mit dem Wort. Eine Rede für F. Gogarten, Stuttgart 1955; H. FISCHER, Christlicher Glaube und Geschichte, Gütersloh 1967; K. BARTH, Theologie und Säkularität. Die theologischen Ansätze Gogartens und Bonhoeffers, Frankfurt am Main 1990; M. KRÖGER, Friedrich Gogarten. Leben und Werk in zeitgeschichtlicher Perspektive, Stuttgart 1997; G. PENZO, F. Gogarten, Brescia 2004.

GOGOCKIJ, SIL’VESTR SIL’VESTROVIC. – HegeGogockij liano russo, n. a Kamenez-Podol’sk nel 1813, m. nel villaggio di Nekraty, vicino a Kiev, nel 1889. Figlio di un arciprete, studiò all’accademia ecclesiastica di Kiev, dove rimase poi a insegnare; nel 1863 ebbe la cattedra di filosofia in quella università. Fra le numerose opere di filosofia segnaliamo: Filosofskij leksikon, ivi 1857-73; Obozrenie filosofskoj sistemy Gegelja (Rassegna del sistema filosofico di Hegel), Kiev 1860; Vvedenie v istoriju filosofii (Introduzione alla storia della filosofia), ivi 1871; Kriticeskij vzgljad na filosofijtt Kanta (Saggio critico sulla filosofia di Kant), ivi 1897. Lasciò un’analisi assai precisa, anche se non molto originale, del criticismo. La principale difficoltà del criticismo (frattura tra essere e pensiero) sarebbe stata superata solo nella dialettica hegeliana, benché non definitivamente, in quanto il pensiero nella sua dialettica attuazione non può essere realmente identificato con il Logos, che è al di là della storia. Di qui l’esigenza di una nuova ontologia teistica. L. Gancikov BIBL.: B. ZENKOVSKY, Histoire de la philosophie russe, Paris 1953, vol. I, pp. 346 ss.

GOGOL’, NIKOLAJ VASIL’EVIC. – Prosatore e Gogol’ drammaturgo russo, nato a Sorocincy (Ucraina) il 20 mar. 1809, morto a Mosca il 21 febbr. 1852. Proveniente da una famiglia di piccoli proprietari terrieri, dopo un infelice esordio, che lo

Gogol’ porta a bruciare la sua prima opera (Hans Küchelgarten, 1829), si dedica alla carriera burocratica; la passione del raccontare all’infinito, con il reale descritto sin nei particolari più microscopici, non gli lascia però tregua e tra il 1831 e il 1832 esce la sua prima raccolta, le Veglie alla fattoria presso Dikan’ka, una rivisitazione spensierata del mondo ucraino, abitato da diavoli ancora capaci di generare benevolenza nell’umano consorzio. È il grande successo, seguito nel 1835 da altre due raccolte, Mirgorod (con Taras Bul’ba) e Arabeschi (con La Prospettiva Nevskij, Il diario di un pazzo e Il ritratto); nel 1836 uscirà poi Il naso, accompagnato dalla messa in scena dell’Ispettore generale. Rispetto all’inizio, l’atmosfera cambia sempre più radicalmente, via via che alla solare e doviziosa Ucraina si sostituisce la nebbiosa e lugubre Pietroburgo, con i suoi rapporti sociali artefatti, gerarchizzati e corrotti, dove al fantastico si sostituisce l’inautentico. L’unica via per opporsi a questo tralignamento è il riso: non il semplice comico e neppure la satira o la critica sociale, ma il rovesciamento del reale (il mondo a gambe all’aria) che, attraverso la gratuità dell’arte, porta gli uomini a scoprire una vita diversa. Deluso della ricezione delle sue opere (viste spesso come un puro divertimento), Gogol’ parte per l’estero (si fermerà a lungo a Roma) e si dedica a una nuova opera: Le anime morte, il cui primo volume uscirà nel 1842 (nello stesso anno esce anche Il cappotto). È l’ossessione del denaro e del possesso, con un mondo di liberi che muore, mentre i soli esseri vivi sembrano i servi morti, che il protagonista compra per mettere in piedi una colossale truffa. Al primo volume non ne succederanno altri perché Gogol’, insoddisfatto di quanto aveva scritto, lo brucerà e al suo posto, nel 1846, farà uscire una raccolta di massime e riflessioni (i Brani scelti della corrispondenza con gli amici) il cui tono moralistico e conservatore solleverà le proteste della critica impegnata. Alla riduzione estetizzante era così succeduta quella utilitaristica, cui lo stesso Gogol’ non saprà far fronte, sempre più schiavo non di una crisi religiosa (come spesso dice la critica), ma di un vero e proprio smarrimento dei motivi della sua arte, che era tutta nel fascino della realtà, percepita come il luogo di un mistero infinito da accogliere e narrare attraverso l’evocazione allusiva ed enigmatica dei particolari («realismo mistico»). A. Dell’Asta

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Gökalp BIBL.: Polnoe Sobranie Socinenij (Opere complete), Moskva 1937-52, 14 voll.; Moskva 2001 ss., 23 voll. Traduzioni italiane: Opere, a cura di S. Prina, Milano 1994, 2 voll.; I racconti di Pietroburgo, a cura di S. Vitale, Milano 200315. Su Gogol’: V. NABOKOV, Nikolaj Gogol’, Norfolk 1944, tr. it. di A. Pelucchi, Nikolaj Gogol’, Milano 1972; P. EVDOKIMOV, Gogol et Dostoievsky, ou La descente aux enfers, Paris 1961, tr. it. di G. De Dominicis Jorio, Gogol’ e Dostoevskij, ovvero la discesa agli inferi, Roma 1978; A. SINJAVSKIJ, V teni Gogolja, London-Paris 1975, tr. it. a cura di S. Rapetti, Nell’ombra di Gogol’, Milano 1980; JU. MANN, Poetika Gogolja (La poetica di Gogol’), Moskva 1978; J. ZELDIN, Nikolaj Gogol’s Quest for Beauty. An Exploration into His Works, Lawrence 1978; J.B. WOODWORD, The Symbolic Art of Gogol. Essays on His Short Fiction, Columbus 1982; I. ZOLOTUSSKIJ, Gogol’, Moskva 1984; A. D’AMELIA, Introduzione a Gogol’, Roma-Bari 1995.

GÖKALP, MEHMED ZIYA. – Sociologo e poeta Gökalp turco, nazionalista, n. a Diyarbekir (Anatolia) nel 1875, m. a Istanbul il 25 ott. 1924. Insegnò dal 1915 filosofia e sociologia a Istanbul; nel 1920 fu dagli inglesi esiliato a Malta; ritornato in patria aderì al movimento dei kemalisti e fu deputato. È autore di numerose opere; alcune sono in versi e illustrano le sue dottrine. La più nota è Türkgülüyün esaslarï (Fondamenti del turchismo, Angora 1923). Da una posizione iniziale in cui, per necessità politiche e per solidarietà religiosa, vagheggiava una riunione dei vari popoli che formavano l’impero ottomano, il pensiero di Gökalp andò evolvendosi verso una forma di nazionalismo più realistico, trasformando il programma panturco in un ideale spirituale di armonizzazione tra cultura musulmana e cultura europea. Contribuì notevolmente sul piano teorico ai programmi di secolarizzazione e modernizzazione dello stato turco. In sociologia fu un seguace delle teorie di Durkheim, che tentò di applicare alla storia lontana e recente della Turchia. A. Cardin BIBL.: F. ZIYA AL-DIN, Ziya Gökalp. Sa vie et sa sociologie, Paris 1935; U. HEYD, Foundations of Turkish Nationalism. The Life and Teachings of Ziya Gökalp, London 1950; A. Bambaci, Storia della letteratura turca, Milano 19622.

GOLDMAN, ALVIN. – N. il 27 febbr. 1938 a Goldman New York. Professore di filosofia e scienza cognitiva all’università dell’Arizona (USA), si è occupato di teoria dell’azione (A Theory of Hu4952

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

man Action, Englewood Cliffs [New Jersey] 1970), di epistemologia e di filosofia della mente nella sua connessione con le scienze cognitive (Epistemology and Cognition, Cambridge [Massachusetts] 1986; Philosophical Applications of Cognitive Science, Boulder [Colorado] 1993; tr. it. di M. Riccucci, Applicazioni filosofiche della scienza cognitiva, Bologna 1996; Pathways to Knowledge. Private and Public, Oxford 2002) e con le scienze sociali (Knowledge in a Social World, Oxford 1999). Negli ultimi anni si è occupato anche di temi compresi tra filosofia e neuroscienze (V. Gallese - A. Goldman, Mirror Neurons and the Simulation Theory of Mind-reading, in «Trends in cognitive sciences», 12, 1998, pp. 493-501). S. Nannini

GOLDMANN, Lucien. – N. a Bucarest nel Goldmann 1913, m. a Parigi nell’ott. 1970. Ha sviluppato il marxismo soprattutto nella direzione di un’epistemologia sociologica e di concrete indagini di sociologia letteraria e filosofica. In Sciences humaines et philosophie (1952) e nei saggi raccolti nelle Recherches dialectiques (1959), Goldmann dichiara di aver mutuato dal giovane Lukács categorie come quella di «struttura significativa» e di «coscienza possibile»: alla prima sarebbero riconducili le visioni del mondo, ma anche le classi sociali che ne costituirebbero l’«infrastruttura»; alla seconda la capacità dell’opera di esprimere la visione del mondo propria di una determinata classe sociale con una profondità e una coerenza precluse alla «coscienza reale» di quella classe, sempre soggetta a limitazioni e a deviazioni di ordine naturale e sociale. In Le Dieu caché (1955), Goldmann sostiene che la filosofia di Pascal e il teatro di Racine rappresenterebbero il massimo di coscienza possibile della visione tragica del mondo propria della nobiltà togata del Seicento francese, divisa tra fedeltà al monarca e fedeltà alle proprie origini piccolo-borghesi. Tale visione tragica del mondo si ritroverebbe anche in Kant, ma la sua instabilità strutturale verrebbe poi superata