Sulla svolta ontologica. Prospettive e rappresentazioni tra antropologia e filosofia 9788855194310

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Sulla svolta ontologica. Prospettive e rappresentazioni tra antropologia e filosofia
 9788855194310

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Prospettive e rappresentazioni tra antropologia e filosofia

A cura di Fabio Dei e Luigigiovanni Quarta

MELTEMI

Il presente volume è pubblicato con il contributo del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell'Università degli Studi di Pisa. Cura editoriale di Claudio D'Aurizio e Lorenzo Urbano.

Meltemi editore www.meltemieditore.it [email protected] Collana: Denkstil, n. 5 Isbn: 9788855194310

© 2021- lilELTEMI PRESS SRL Sede legale: via Ruggero Boscovich, 31 - 20124 Milano Sede operativa: via Monfalcone, 17/19 - 20099 Sesto San Giovanni CMI) Phone: +39 02 22471892 / 22472232

Indice

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Premessa Fabio Dei~ Luigigiovanni Quarta

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Il "prospettivismo" e la "svolta ontologica" nelle discussioni e nei commenti italiani: gli antropologi e i filosofi. Antonino Colajanni

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1. Premessa. I primi commenti antropologici · alle proposte della "svolta ontologica" 2. Discussioni e analisi più recenti, che coinvolgono anche discipline vicine ali' antropologia 3. Una parentesi critica sulla "decolonizzazione del sapere antropologico" 4. I contributi di diversi studiosi di orientamento teorico-filosofico 5. Gli interventi. dei filosofi. e gli ultimi contributi. al dibattito 6. Alcune considerazioni conclusive

Antropologia e rappresentazionalismo. Note genealogiche Roberto Brigati 1. Mondo e cognizione 2. La via delle idee 3. Il rappresentazionalismo nelle scienze cognitive e nell'antropologia

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4. Riflessioni critich~ nelle scienze sociali 5. Il futuro di un'occasione mancata

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La svolta ontologica at home: Bruno Latou.r tra ecologia e metafisica Federico Scarpelli

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1. La ricerca della simmetria 2. "You certainly do have a metaphysics" 3. Il Dio dei Moderni

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Dimenticare Viveiros de Castro? Luigigiovanni Quarta 1. Un sentiero (quasi) comune 2. Contesto e prospettive 3. Altri discorsi, discorsi altri 4. Dalla teoria all'etnografia, e ritorno 5. Dal significato ali' ontologia 6. Un fatto o molti fatti? 7. Conclusioni

L'ambiguità dello sciamano: sul prospettivismo di Eduardo Viveiros de Castro Claudio D,Aurizio 1. Tra filosofi.a e antropologia 2. I plliìti di vista del prospettivismo 3. La convergenza dei mondi 4. Il concetto di Altri e la nozione di immanenza 5. La creazione concettuale

I:anthropologie d,Autrui. Novità, paradossi e limiti di una nuova filosofi.a dell'incontro etnografico 1Vfaririta Guerbo 1. Their mimicry ... And ours 2. Un'antropologia senza gli altri 3. Il posto del morto 4. La proposta: una nuova filosofia dell'incontro etnografico?

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Epistemologie indigene. La svolta ontologica e il ri-orientan1ento sul campo Emanuela Borgnino, Laura Volpi 1. Dal punto di vista del nativo 2. Ri-orientamento metodologico: "Narrare è esistere" 3. Prima sosta etnografica. Mangiare e farsi mangiare 4. Seconda sosta.etnografica. Aloha is about making room 5. Conclusioni: il "tempo delle responsabilità"

Dall'ontologia alla pratica: per una critica alla svolta ontologica Valentina Gamberi 1. Preambolo 2. Gast6n, Augusto e una chiesa che si sfalda: ripensare all'OT 3. Rovine e apocalissi culturali a Xinzhuang 4. Narràtive-strategie: Gi Ai Gong e Wencaizhun 5. Stratificazioni storiche a Wencaizhun 6. Conclusioni

Il fascino discreto del precategoriale: sulla svolta ontologica in antropologia Fabio Dei 1. Ontologia vs. epistemologia 2. Sono i dati etnografici a imporre la svolta ontologica? 3. L'empirico e il simbolico 4. Proposizioni, concetti e il "vitale" 5. Filosofie della storia 6. Da Heidegger al Sessantotto 7. La presenza, l'abisso e lo scalatore

369 Gli autori e le autrici

Premessa Fabio Dez~ Luigigiovanni Quarta

Il presente volume nasce come frutto di un dibattito aperto a Pisa il 16 e 17 Dicembre 2019 con il convegno "Ontologie locali/mondi multipli. Temi e problemi della svolta ontologica". Gli incontri di quei giorni erano volti a discutere una serie di problemi teorici che emergono da un filone di studi ampio ed eterogeneo che, a partire dagli anni Novanta, si è soliti accomunare sotto l'etichetta problematica di "svolta ontologica". Studi che negli ultimi anni si stanno diffondendo anche in Italia, in ambito sia antropologico che · filosofico. Ne sono testimonianza le numerose traduzioni di testi di Eduardo Viveiros de Castro e di Philippe Descola, gli autori forse più rappresentativi della "svolta ontologica", per non parlare di Bruno Latour o Tim Ingold; ma anche le numerose pubblicazioni antologiche, saggistiche e di dibattito specificamente italiane (per una cui rassegna rimandiamo al saggio di Antonino Colajanni nel presente volume) . Dal nostro punto di vista, la svolta ontologica è interessante perché dà nuova voce a una tradizione di rapporti e intrecci fra ricerca antropologica e riflessione filosofica che ha avuto momenti alti nel Novecento e che, tuttavia, nei tempi più recenti si era indebolita. Al cuore della "svolta" stanno 1t7.fatti temi comuni alle due discipline. Da una parte, certamente, vi è il rifiuto di una intera tradizione speculativa - forse troppo velocemente bollata come "occidentale" - in cui si rintraccia la matrice fondamentale di gran parte dei problemi politici contemporanei. Il primato dell' epistemolo-

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gia nel XX secolo, infatti, sarebbe il frutto naturale di un' operazione metafisica di separazione tra il mondo del soggetto e il mondo dell'oggetto. La modernità pretende di aver abbandonato ogni aspirazione metafisica: eppure, secondo gli autori della svolta ontologica, ogni nostra operazione concettuale - e, prima tra tutti, l'imposizione paradigmatica del pensiero scientifico - sarebbe completamente interna a una specifica metafisica di tradizione platonica e cartesiana. Senza questo sdoppiamento tra soggetto e oggetto, tra Natura e Cultura, non si darebbe neppure la possibilità di ipotizzare l'esistenza di un sapere scientifico. Ciò che questi autori chiamano il dualismo ontologico - mondo dell'oggetto e mondo del soggetto - fonda ogni modalità di conoscenza contemporanea. Le conseguenze di un tale dualismo, soprattutto sul versante antropologico, si concretizzerebbero nella produzione di forme specifiche di colonialismo del pensiero e dei corpi, nonché - còsa non secondaria per questi intellettuali - di modelli ecologici e politici fortemente sbilanciati dal lato del soggetto e della cultura. Se, quindi, sul piano teoretico il problema esaminato è la legittimità di un modello di conoscenza dell'altro, con una forte critica al primato istituito dell'epistemologia su ogni forma di ontologia e metafisica, sul piano politico la svolta ontologica si costituirebbe come una specifica ermeneutica delle passate, presenti e venture catastrofi. Più in particolare, della catastrofe ecologica. Non meno ricchi sono gli spunti provenienti dal dibattito puramente filosofico, anche questo popolato da una moltitudi...'1.e di autori e temi. Forte è il tentativo di superare la metafisica platonica, da una parte, e kantiana, dall'altra, . acquisendo come obiettivo polemico tanto il rapporto tra uomo e mondo, mediato da linguaggio e rappresentazione, quanto quello tra trascendentale ed empirico. Si tratta, quindi, di una molteplicità di contributi, spesso "orientati verso l'oggetto", che hanno una marcata caratterizzazione di tipo teoretico e metafisico. Da qui il senso di una riflessione incrociata - in questo volume e nel convegno che ne sta alla base - tra filosofi e

PREMESSA

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· antropologi: con l'idea che ciascuno potesse mettere in gioco le proprie specificità disciplinari e "di scuola", tentando di disegnare un campo comune e delle regole condivise per affrontare i problemi di cui sopra. Per gli antropologi si trattava ad esempio di comprendere quanto potesse -aver senso bollare come inconsistenti tutte le principali tradizioni di ricerca sedimentate nel Novecento (funzionalismo, strutturalismo, ermeneutica, riflessività ... ) e cosa restasse dell'antropologia qualora essa si dovesse interamente trasformare in una ontografia, per usare le parole di Viveiros de Castro. Insomma, si trattava di riconoscere come - quale che sia il giudizio sui singoli autori "ontologi" - fosse stato sollevato nuovamente un problema classico delle scienze umane che riguarda, precisamente, modelli e rapporti di conoscenza (di sé e degli altri). Per i :filosofi, invece, si trattava di scendere più a fondo nel campo della.metafisica; interrogandosi, da una parte, su come il ripensamento del "problema ontologico" abbia effetti sull'ormai egemonica tradizione della :filosofia del linguaggio e, dall'altro, sulle genealogie intellettuali che forniscono elementi comuni di dibattito. Il tema della rappresentazione, da una parte, e quello del rapporto io-mondo, dall'altro. In che modo; ad esempio, un pensatore come Spinoza, nella rilettura offerta da Deleuze, può assurgere a un ruolo di primo piano nella riflessione filosofica contemporanea? Che tipo di rapporto c'è tra etica e corpo? Quali effetti di "moltiplicazione ontologica" produce il linguaggio? I saggi che seguono sono un modo per dare corpo e consistenza a quel dibattito iniziato, tra di noi, ormai due anni fa. È un dibattito che si è sostanziato di ulteriori incontri e discussioni, a volte pubbliche (come nel caso del volume edito nel 2020 dalla "Rivista di Antropologia Contemporanea" e in gran parte dedicato alla svolta ontologica), più spesso private e personali. Grande attenzione è rivoha ai lavori di Eduardo Viveiros de Castro che, forse, più di tutti ha accolto e riprodotto il senso di un'etichetta come "svolta ontologica". Tuttavia, non mancano interventi molto approfonditi sul tema del rapporto tra mente, linguaggio e rappresentazione

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FABIO DEI, LUIGIGIOVANNI QUARTA

così come sulla relazione tra modelli teorici e pratiche etnografiche, nonché su autori più a latere di questo frammentario movimento teorico, come il francese Bruno Latour. Non ci proponiamo, ovviamente, di mettere un punto alla discussione che, per certi versi, è .ancora estremamente aperta e, su molti temi, schierata su posizioni molto diverse se non inconciliabili. Tuttavia, speriamo che quest'opera di riflessione collettiva sia uno snodo, una stazione di transito per mettere a fuoco le poste in gioco - epistemologiche, metodologiche, etiche, politiche e metafisiche - di una serie di interrogativi che accompagnano, necessariamente, la storia della filosofia e dell'antropologia. Ci teniamo a ringraziare, in conclusione, anche i partecipanti al convegno che, per vari motivi, non ultimi quelli legati al periodo pandemico che ancora viviamo, non hanno potuto contribuire con un loro scritto alla costruzione del volume: in particolare Lorenzo Bartalesi, Caterina Di Pasquale, Roberto Gronda, Ge. rardo Ienna, Enrico Schirò e Carlo Severi. Ringraziamo inoltre Claudio D'Aurizio e Lorenzo Urbano per ia preziosa collaborazione alla cura editoriale del volume, e il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell'Università di Pisa per aver sostenuto sia il convegno che la presente pubblicazione.

Pisa, 24 maggio 2021

Il "prospettivismo" e la "svolta ontologica" nelle discussioni e nei commenti italiani: gli antropologi e i filosofi. Antonino Colajanni

1. Premessa. I primi commenti antropologici alle proposte della ((svolta ontologica''

Le discussioni internazionali di teoria antropologica e su aspetti particolari delle società indigene dell'Amazzonia, come il rapporto - materiale e spirituale - tra animali, ambiente e uomini, come le concezioni degli "esseri-persone" e il rapporto tra cosmo e vita individuale, sono state piene di riferimenti- a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, com' è noto - agli scritti, e alle proposte di riflessione generale sui "limiti" della conoscenza antropologica, dell'antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro. Una notevole quantità di commenti, analisi, apprezzamenti entusiastici, ma poche critiche sostanziali, si sono sviluppati nelle più importanti riviste antropologiche internazionali. E termini evocativi come "Prospettivismo" e "Svolta Ontologica" si sono diffusi straordinariamente. Qualcuno ha cercato di spiegare il perché di questo grande successo, che si basa su un approfondimento degli studi sulla ecologia umana ed animale, ma anche su una radicale "auto-critica dell'antropologia" come caratterizzata da idee legate strutturalmente ai difetti dell'Occidente colonialista, e quindi in grado di contribuire in maniera definitiva a una "decolonizzazione del sapere". Sulle discussioni e i commenti internazionali a questi temi si è aperto negli ultimi anni un dibattito molto fitto, che è stato esaminato e valutato in altre sedi (si veda, tra l'altro, Colajanni 2020).

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ANTONINO COLAJANNI

In questo intervento intendo dedicarmi specificamente ai djbattiti e commenti che si sono sviluppati in Italia. Infatti, anche il contributo italiano alle discussioni sul prospettivismo e sulle ont~logie indigene amerindiane è stato abbastanza rilevante, a partire dal 2014. Innanzitutto, conviene ricordare la progressione delle pubblicazioni in. italiano degli scritti di Viveiros de Castro, a cominciare dal saggio su La trasformazione degli oggetii in soggetti del 2000. Ma solo nel 2017 sono iniziate le traduzioni di interi libri dell'antropologo brasiliano: Metafisiche cannibali, poi Esiste un mondo a venire? (scritto in collaborazione con D. Danowski), poi nel 2019 la traduzione del saggio Il nativo relativo, del 2002, e di quello Chi ha paura del lupo ontologico, del 2014, entrambi nel volume a cura di Brigati e Gamberi, Metamorfosi. La svolta ontologica in antropologia, quindi il volume del 2012, tradotto nel 2019, Prospettivismo cosmologico in Amazzonia e altrove. Il primo degli antropologi italiani che si è occupato intensamente del prospettivismo e delle ontologie indigene amerindiane è stato Alessandro Mancuso, dell'Università di Palermo. A partire da un corposo saggio del 2014 (J;animismo rivisitato e i dibattiti sulle :ontologie indigene\ in "Archivio Antropologico Mediterraneo"), Mancuso ha dedicato quattro saggi molto interessanti e un intero volume a questi argomenti. Questo saggio (Mancuso, 2014a) è una ottima introduzione al terna: forse una delle migliori esistenti, anche nel campo internazionale. Letture complete e attente dei materiali pubblicati, ottime capacità espositive e argomentative, eccellente scelta nella documentazione specifica ampiamente citata, fa.rmo del saggio una lettura obbligata per chi voglia approfondire l'analisi di queste innovazioni recenti che hanno anche carattere teorico e metodologico. Non solo vengono presentate esaustivamente Ìe tesi di Descola e Viveiros, e dei loro commentatori, ma vengono anche ben elencate le critiche che i due autori hanno ricevuto. L'autore considera anche il saggio di Hallowell sulla "ontologia degli Ojibwa" una "pietra miliare sul tema", ed esamina a fondo i contributi di questo autore, cosa che nessuno aveva finora fatto, anche se

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· Hallowell era spesso citato rapidamente. Le critiche che Viveiros ha ricevuto da colleghi sono presentate con cura e attenzione documentaria, registrando anche le limitate repliche dell'antropologo brasiliano. Gli argomenti discussi sono stati: l'idea della "predazione" come presupposto· "metafisico" del prospettivismo amerindiano (in opposizione alle frequenti concezioni opposte, della "socialità conviviale"), la continua insistenza sulla opposizione e incommensurabilità tra pensiero amerindiano e pensiero moderno, tra "metafisiche indigene" e "conoscenza scientifica", la ridotta esplorazione delle dimensioni sensoriali nel prospettivismo, il riferimento scarso alle ":figurazioni" e "immagini" degli esseri non-umani, e anche il frequente procedimento di riflettere ed elaborare sulla base di brevi brani e affermazioni estrapolate ·dai contesti, L.1.:fìne la relativa indifferenza nei confronti dei difficili rapporti socio-politici ~d economici delle popolazioni amerindiane con i fronti della forte pressione dall'esterno. In definitiva, Mancuso, dopo aver rigorosamente presentato il "dossier" sui temi indicati, riconosce che nei lavori di Viveiros c'è di sicuro una "stimolazione intellettuale" forte, ma i caratteri del dibattito attuale, che è acceso e aperto, rendono a suo avviso prematuro un tentativo di bilancio. Un successivo saggio dello stesso anno (Mancuso, 2014b) conferma le capacità di presentazione e analisi di dibattiti internazionali sull'argomento generale e costituisce un prezioso contributo sul tema della agency ("agentività"), ovvero del carattere distintivo della "persona" e della soggettività umana, quella di possedere attitudini e capacità di "azione" sugli altri esseri, con poteri accompagnati da coscienza riflessiva, intenzione, e anche secondo molti - da un "senso etico". In Viveiros de Castro questo tema è centrale. Mancuso ripercorre con competenza e precisione gli apporti e le elaborazioni del tema in Descola, in Viveiros e anche in Alfred Gell. Pone in evidenza l'importanza attribuita allo sciamano ("attraversatore di mondi e di esseri diversi") dotato di grandi poteri di azione; poi passa a esaminare gli sviluppi più recenti del paradigma prospettivista con la consueta chiarezza, precisione ed esaustività, non

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ANTONINO COLAJANNI

allineandosi - come invece fa buona parte dei commentatori - con la imitazione del Ji..11.guaggio allusivo e spesso criptico di Viveiros. Vengono dunque esaminate le posizioni di autori come Casey High, Laura Rival, Santos Granero, tutti antropologi con grandi esperienze etnografiche di qualità. Poi l' autore accenna agli accesi dibattiti degli ultimi anni, con critiche a volte aspre contro Viveiros, che hanno caratterizzato la comunicazione scientifica tra gli specialisti di popolazioni amazzoniche. Ma Mancuso dichiara, ancora una volta con grande prudenza, che "non intende entrare nella querelle". Il saggio si conclude con una lunga riflessione sulle opportunità, anzi necessità, di mettere in contatto l'antropologia sociale con la "etnopragmatica" e in generale con l'antropologia linguistica; campo nel quale i contributi e le proposte in tema di agency sono stati molto importanti. Infine, una notazione moderatamente critica alla relativa "insensibilità" del prospettivismo nei confronti delle dimensioni dinamiche e processuali (a vantaggio di quelle "statiche" e rivolte a fattori "strutturali"), conclude il bel saggio. In una nota finale di commento a un successivo numero della rivista "Anuac", del 2016, dedicato a raccogliere alcuni contributi italiani (i primi) al tema dell' ontologica! turn, l\1ancuso presenta alcune notazioni sui saggi di Nadia Breda, di Stefania Consigliere, di Mara Benadusi, di Luigi Pellizzoni, di Francesco Zanotelli. Ciascuno nel suo campo specii-S.co di ricerca (dai movimenti an-ibientalisti alla antropologia dei disastrì, dalle visioni del territorio, alle riflessioni sulla "natura umana"), dimostra come un crescente interesse per il tema dei rapporti trà gli esseri viventi e tra uomo e ambiente si sta lentamente diffondendo, ispirandosi anche alla letteratura specifica generata dai contributi di Descola e Viveiros (]\fancuso, 2016b). Ma è con un corposo saggio di sintesi ben organizzata e non privo di osservazioni valutative, che Alessandro l\1an.cuso conclude questa fase di interventi comperenti e ben scritti sugli argomenti qui trattati (Antropologzà, 'svolta ontologica', politica. Descola, Latour, Viveiros de Castro, del 2016). Il saggio si propone esplicitamente come un esame critico e un. confronto tra i tre autori menzionati, e

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di soffermarsi sui "rapporti di potere" e sulle "ricadute politiche" delle posizioni teoriche proposte. A Philippe Descola è dedicato lo spazio maggiore, identificando il lungo processo di elaborazione della "ripresa dell'animismo" e della proposta della sua tipologia quadripartita dei "modi di identificazione" esistenziale cosmologica delle grandi aree di società umane nel loro rapporto con il mondo dei diversi esseri viventi. Sulla considerazione dei rapporti politici e degli impegni in tal senso dell'antropologia sono bene registrate le oscillazioni e le perplessità dell'antropologo francese. A Bruno Latour è dedicata una attenzione particolare, ricostruendo il suo cammino, da "antropologo di una impresa scientifica" a filosofo della "post-modernità", e quindi a propugnatore dellaActor-Network Theory. Anche ai rapporti tra "ontologia" e politica è dedicato ampio spazio, registrando - come nel caso di Descola - critiche, obiezioni e repliche. A Viveiros de Castro è dedicata una ricostruzione critica intensa, a partire dalla nota tripartizione abbastanza assiomatica degli orientamenti esistiti ed esistenti neìl' antropologia moderna, e collegati con gruppi specifici di società, tra "economia politica del controllo", "economia morale dell'intimità", ed "economia simbolica dell'alterità". Registrato il forte impatto che le posizioni di Viveiros hanno ottenuto in una quindicina di anni nel mondo dell'antropologia, Mancuso mette in grande evidenza i debiti dell'antropologo brasiliano nei confronti di Deleuze, quando dichiara assiomaticamente la sua critica radicale ai "principi della metafisica occidentale, che sono /ons et origo di tutti i colonialismi", anche se considera con attenzione l'idea di fondo di Viveiros di condurre un "esperimento di pensiero" che rientrerebbe tra i compiti specifici di una "nuova antropologia". Ed esamina anche meticolosamente le critiche più aspre ricevute dall'antropologo brasiliano (soprattutto da Alcida Ramose da David Graeber), e le intelligenti ma azzardate repliche di Viveiros; e non manca di proporre, a sua volta, delle critiche molto consistenti. Per esempio, avanza pesanti perplessità sulla legittimità dell'uso del riferimento costante alle "culture native amerindiane" per avanzare un ar-

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gomento teorico che cerca supporti empirici occasionali e approssimativi, critica la tendenza ad assolutizzare la "alteri. tà" del nativo con tattiche argomentative ambigue e spesso basate su giochi linguistici. Accetta anche le osservazioni critiche della Ramos circa lo stile di Viveiros pieno di terpiini ed espressioni iperboliche e di affermazioni stravaganti. E anche molto divertente la citazione di un passo di Graeber che - richiamando Bourdieu - associa Viveiros a Heidegger, sostenendo che si tratta di chi adotta "una strategia che consiste nel buttarsi in avanti per non cadere indietro, nel cambiare tutto senza cambiare nulla": Infine, Mancuso dichiara di non ritenere che la "svolta ontologica" possa rappresentare l'affermazione di un nuovo paradigma per l'antropologia del prossimo futuro: contrariamente a ciò che sostengono i suoi più entusiasti rappresentanti, è da escludere che da qui si proceda verso il consolidamento di un modello teorico e di ricerca a cui l'intera comunità accademica possa ispirarsi negli anni a venire (Mancuso 2016a, p. 120).

E aggiunge poi che, nonostante egli dissenta fortemente dalle posizioni dello studioso brasiliano, riconosce che i suoi lavori sollevano una molteplicità di questioni che possono · contribuire ad alzare il livello del dibattito interno agli studi antropologici. E conclude osservando che in Italia, colpevolmente, siax10 stati tradotti pochi saggi di Viveiros. In questo, dobbiamo dichiararci in disaccordo, giacché oggi, nel 2020, in italiano sono disponibili ben tre volumi di Viveiros e almeno quattro dei suoi saggi. Il che non è poco, se si guarda al panorama delle pubblicazioni sull'antropologia internazionale. Due anni dopo, nel 2018, i saggi precedenti, rivisti e in buona parte integrati, sono stati raccolti da Alessandro Mancuso in un libro che è una fonte fondamentale per gli studi sui temi qui trattati: Altre persone. Antropologia, visioni del mondo e ontologie indigene. Il libro dedica un lungo e ricco saggio a quell'autore che molti hanno considerato il lontano precursore degli studi sulle "ontologie indigene", Irvin.g Hallowell, per le sue ricerche e proposte analitiche sulla ontologia

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· degli indiani Ojibwa. E risistema i dati presentati nei saggi precedenti riorganizzandoli in ricchi capitoli dedicati alla "ontologia intuitiva" che sta alla base dei processi cognitivi, a Philippe Descola e al suo progetto di tracciare frontiere ontologiche tra umano e non umano, alla critica della modernità e alla "politica ontologica" di Latour, e infine alla antropologia e l'animalità, e ai dibattiti sui diritti degli animali. Come si vede, a Viveiros de Castro non è dedicato un capitolo, ma solo un paragrafo nel capitolo riservato a Latour, anche se qua e là nel volume ci sono estemporanei riferimenti alle sue proposte. 2. Discussioni e analisi più recent~ che coinvolgono anche discipline vicine altantropologia Tra gli altri antropologi italiani che si sono interessati a commentare i teini qui trattati è importante segnalare un autorevole studioso della generazione dei fondatori dell'antropologia nel nostro Paese, Francesco Remotti, che ha dedicato una densa nota al libro di Philippe Descola Oltre natura e cultura e ai suoi saggi sull'animismo e le ontologie (Philippe Descola: strutturalismo e ontologia, del 2016). Remotti apprezza molto l'orientamento di Descola di considerare importante e decisivo, per l'antropologia, non limitarsi ali' etnografia e assumere compiti impegnativi di teoria affrontando temi anche molto generali della "condizione umana", riflettendo sugli "altri mondi possibili", e cercando "principi di base" comuni, ma anche diversi. Egli apprezza l'insistenza sull'importanza del concetto di "persona" attribuito ben al di là dei confini dell'umanità. Anche la proposta delle "quattro cosmologie" di Descola merita attenti commenti, e tuttavia Remotti ha qualche dubbio che esse non si configurino come gabbie concettuali alle quali l'inventiva umana non sarebbe in grado di sottrarsi. Infatti, non si può negare a suo parere il rischio della rigidità delle tipologie. In realtà, per Remotti le cosmologie parrebbero essere molte più di quattro, e non partendo dall'unico presupposto del dualismo anima/ corpo,

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bensì da presupposti diversi che occorrerebbe di volta in volta verificare. Inoltre, l'antropologo torinese richiama molto opportunamente l'opinione di Carlo Severi, secondo il quale le distinzioni tra animato e inanimato, umano e animale, maschio e femmina, che spesso gli antropologi designano come ontologiche, non hanno molto a che vedere con la "ontologia in quanto dottrina dell'essere", che risale - com'è noto - al filosofo greco Parmenide. Qubdi, pur apprezzando l'impegno teorico e la vasta conoscenza della filosofia dell'Europa, nonché la qualità dei lavori etnografici di Descola (al quale accomuna brevemente, in parte, Viveiros de Castro), Remotti critica la continua e spesso troppo impegnativa ricerca di "principi strutturali" e di certezze classificatorie, richiamando la ":flessibilità" e le frequenti "incertezze" del nostro sapere, alle quali faceva riferimento nel suo saggio J;ùnper/ezionamento in antropologia, del 2013. Un carattere molto diverso ha l'intervento di Roberto Beneduce, un antropologo specialista di etno-psichiatria e con esperienze di ricerca in Africa Occidentale (Post/azione. Metamorfosi. Le sfide di un'antropologia dei possibili, nella edizione italiana del volume di Viveiros de Castro Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, tradotto nel 2017). Beneduce è un entusiasta apprezzatore dei contributi dell'antropologo brasiliano, e sostiene che essi sono da anni al centro di un "rinnovamento concettuale del sapere antropologico", la cui portata non possiamo ancora misurare, ma il cui impatto è andato oltre ogni attesa. E aggiunge una osservazione molto discutibile, ma che ha molti convinti assertori tra gli antropologi: che l'antropologia, da ancella della penetrazione coloniale dell'Occidente e malinconica guardiana delle culture che l'espansione capitalistica andava demolendo, è chiamata ora a fars-i protagonista di una decolonizzazione del sapere (Beneduce 2017, p. 196).

E non esita ad attribuire all'antropologia di Viveiros, e alla sua filosofia, il compito di "restituire al sapere dell'Altro il posto a lungo negatogli nell'orizzonte della conoscenza,

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· non accontentandosi più di documentarne le complesse architetture simboliche, le eleganti estetiche o i miti" (Ivi, p. 197). Beneduce conosce a fondo gli scritti della tradizione prospettivista e ontologica è accetta senza riserve l'ispirazione diretta da Deleuze e Guattari e la proposta di Viveiros della "equivocità controllata". Qua e là appare nel saggio qualche ammissione sulle "vertigini del prospettivismo, che non sono poche, ma non devono essere esorcizzate", o qualche riferimento al terreno sicuramente "impervio" delle elaborazioni ontologiche che hanno dato origine a non pochi equivoci; e anche qualche raro riferimento all'etnografia clinica e all' etno-psichiatria, campi nei quali invece sarebbe stato molto interessante ascoltare le sue opinioni competenti. L'unico approfondimento etnografico-psichiatrico degno di attenzione è collocato alla fine del saggio, quando l'autore si sofferma sul problema delle insegne del potere in Africa, e commenta con interessanti osservazioni le ricerche di Michael Jackson sui Kuranko della Sierra Leone, collegando i dati africani con i punti di vista di Viveiros de Castro. Beneduce conclude sostenendo che il prospettivismo, a certe condizioni, è un'arma efficace per pensare un'antropologia ali' altezza dei rischi che assediano il nostro presente ... e la novità assoluta delle sue tesi determina l'accresciuta consapevolezza della crisi ecologica del nostro tempo (da qui l'incontro, non sempre lineare, con le teorie dell'Antropocene), e di un'arma legittima per le minacce che incombono sulla riproduzione sodale stessa (Ivi, p. 226).

Come si vede, un allineamento completo con le tesi di Viveiros, senza fare un minimo accenno alle critiche sostanziali, e spesso radicali, che il fondatore del "prospettivismo" ha ricevuto. Una particolare attenzione merita una studiosa di un tipo abbastanza insolito in Italia, Stefania Consigliere, dell'Università di Genova, che ha avuto una formazione originale in antropologia biologica, problemi dell'omìnazione, primatologia, scienze cognitive, etnopsichiatria. A partire dal 2012 si è interessata con notevoli approfondimenti di an-

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tropologia cognitiva. Ha scritto una notevole dispensa per studenti sull'antropologia della conoscenza dominando temi e problemi delle discussioni sulle "ontologie", nel 2012-13, poi in parte confluita in un buon volume dal titolo Antropologiche. Mondi e modi dell1 umano, del 2014. Ha fondato un Laboratorio nel suo Dipartimento, intitolato ai "Mondi Multipli". Nello stesso anno ha pubblicato due volumi antologici molto interessanti dal titolo Mondi multipli (il primo, ·Oltre la grande partizione, contiene un ricco saggio, competente e beri calibrato della curatrice e le traduzioni di saggi di Descola, Viveiros de Castro, Ingold, Stengers, Coppo, Latour; il secondo volume, Lo splendore dei mondi, contiene le traduzioni di altri saggi di Viveiros de Castro, SantosGranero, McCallum, J. e J. Comaroff, Strathern, Holbraad, Singleton). L'orientamento di queste due preziose antologie è quello di favorire e promuòvere le iniziative di ricercatori che si muovono nelle terre di mezzo che stanno tra una disciplina e l'altra, e in particolare in quel "continente di nessuno" che separa le scienze "dure" dalle scienze umane. L'intera sezione di antropologia del dipartimento genovese di Scienze della Formazione ha proposto una pratica della ricerca antropologica come "dispositivo di stranian1ento e una possibilità della scienza come esplorazione accorta e stupita dei mondi degli altri", con il fine di trasformare, almeno in parte, il consueto impianto concettuale ordinario. 1 L'idea di "pensare oltre" e di "apertura alla molteplicità ', contro il "monismo occidentale" ha ovviamente spinto questi ricercatori ad accostarsi al gruppo della "svolta ontologica" e del "prospettivismo" di Viveiros de Castro. Un saggio molto ricco e insolitamente denso di intrecci tra :filosofia e antropologia, per poi concludersi con una adesione ben calibrata alle proposte del prospettivismo di Viveiros; è quello di Alessia Solerio, dottore in antropologia nell'Università di Genova, con esperienze di ricerca in Italia, in antropologia medica, e in India, e con una formazione :filosofica. Il saggio ha come citoìo Dal monismo della ragione alla molteplicità dei mondi pèrcettivi. Un contributo antropologico alla critica

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· della ragione percettiva (pubblicato nella rivista "La Deleuziana. Rivista online di Filosofia", del 2014). È un saggio molto ricco e denso, che si lega in parte alle iniziative culturali e alle posizioni del gruppo fondato da Stefania Consigliere. Affronta con piglio deciso la opposizione tra la logica filosofica e le caratteristiche proprie dell'antropologia: due modi diversi di rapportarsi al "differente". Affronta bene il tema della percezione e della dicotomia soggetto/oggetto e si ispira a Deleuze e a Enzo Melandri (noto per i suoi studi sul "pensiero analogico"); e anche il tema degli "scandali antropologici" e si sofferma, citando Ernesto De Martino, sui "paradossi dell'incontro etnografico": "l'investigatore normalmente proietta idee e categorie concettuali che si trascinano dietro l'intera storia della cultura occidentale, oppure tenta di prescindere totalmente dalla propria cultura e di farsi nudo come un verme e allora diventa cieco e muto davanti ai fatti etnografici". Vale la pena di aggiungere im. mediatamente che questa antica visione del nostro antenato antropologo italiano risulta oggi abbastanza incongrua. Decine e decine di esperienze etnografiche degli ultimi decenni hanno mostrato, al contrario, il difficile sforzo - carico di risultati positivi - degli etnografi di imparare progressivamente, attraverso la convivenza, l'apprendimento della lingua, e l'osservazione continua in tempi medio-lunghi, i costumi, le idee, le "filosofie implicite", degli individui presso i quali svolgono la loro ricerca. Insomma, quella opposizione tra le due estreme possibilità del ricercatore etnografo suona oggi a dir poco paradossale. Ciò vuol dire che si può "apprendere" e perfino "condividere" un sistema culturale diverso pur restando, nel fondo, quello che si era prima; ma tuttavia, è anche da dire che non c'è etnografo che sia ritornato dal campo esattamente "come era prima". L'esperienza etnografica, in altri termini, quando è ben fatta, comporta sempre un effetto trasformativo sul mondo culturale del ricercatore. Il saggio si conclude con una analisi accurata del tema della "antropopoiesi" secondo G. Simondon, e con una adesione diretta alle posizioni del prospettivismo di Viveiros.

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Altrettanto insolito, ma molto ricco di grande competenza sui temi qui affrontati, è il saggio di Giovanni Nubile, un antropologo di intensa formazione filosofi.ca, esperto di Buddismo Zen, dell'Università di Milano Bicocca ("Dell' equivoco e del 'fallimento' in antropologia. Sulla nozione di 'controlled equivocation' di Viveiros de Castro", del 2016). Nubile analizza con molta attenzione il saggio di Viveiros del 2004 e lo colloca molto bene all'interno di tutta la produzione dell'antropologo brasiliano, ma anche e soprattutto nel quadro moito ampio della :fìioso:fìa della scienza (Popper, Kuhn, Latour-Collon, Fayerabend). Egli apprezza molto la natura "provocativa" delle proposte di Viveiros, l'idea della "antropologia del possibile", e anche la "portata etica del prospettivismo", ma soprattutto la spinta energica verso un rinnovato dialogo dell'antropologia con la filosofi.a. Rivede con attenzione il cammino di Viveiros attraverso la discussione del tema della "interpretazione", della "traduzione culturale" (che non solo viene concepita come "metafora" ma esasperando radicaL11:1ente le istanze etico-politiche - si pone come catalizzatore metamorfico), della agency, del "punto di vista che non crea l'oggetto ma il soggetto", della comparazione. Propone anche alcuni commenti molto interessanti sul tema della "efficacia simbolica" di Lévi-Strauss e Severi. In sostanza, Nubile accetta con convinzione le posizioni di Viveiros non accennando, se non rapidamente in nota, alle numerose critiche che il prospettivismo e la "svolta ontologica" hanno ricevute. Le uniche misurate perplessità mostrate sono le seguenti: che la "visione programmatica" prevale spesso in Viveiros su quella analitica, che si osserva nella sua opera una costante tr~smutazione della "etno-antropologia indigena" nella etno-antropologia accademica occidentale, nella quale è continuamente augurato il "contagio;', ovvero la introduzione del potenziale filosofico del "pensiero selvaggio" nell'apparato conoscitivo occidentale, e infine l' evidenza - nella descrizione che Viveiros fa dello sciamanismo e delle sue funzioni di tessitore delle trame inter-specifiche - della proiezione ideale dell'antropologo concepito come

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· "traduttore di mondi", sì che l'antropologo è visto come "uno sciamano che utilizza lo scarto tra le prospettive per produrre conoscenza". Poche perplessità, come si vede, e una accettazione quasi completa delle proposte dell'antropologo brasiliano. A Giovanni Nubile si deve anche una recensione molto accurata del libro di Viveiros Metafisiche cannibali, del 2017 nella rivista "Antropologia" del 2018. Un altro intervento sui temi qui affrontati, con commenti competenti da parte di antropologi, è contenuto in una collezione di brevi saggi a cura di Mara Benadusi, Alessandro Lutri e Circe Sturm, dal titolo: "Composing a common world? Reflections around the ontologica! turn in anthropology", nella rivista "Anuac" del 2016. Gli autori sono stati i curatori di un Laboratorio organizzato presso l'Università di Catania nel 2015, al quale hanno contribuito con loro interventi: Nadia Breda, con uno studio sulle piante, che nella sua declii1.azione antroposofica di matrice analogista apre molte modalità di incontro con gli umani, Francesco Zanotelli con una ricerca sulle contese intorno all'energia eolica nel Messico meridionale indagando in chiave politica l' analogismo cosmologico degli indigeni Huave della regione, e Mara Benadusi con un saggio sul mondo "globale" dei disastri, che opera ricomposizioni ontologiche le quali tendono a spostare verso l' analogismo i confini del naturalismo, disegnando nuovi scenari di rischio per il globo terrestre. I tre interventi sono pubblicati nello stesso numero della rivista "Anuac", con una Postfazione di Alessandro Mancuso alla quale abbiamo già fatto riferimento. Nella loro Introduzione i tre curatori hanno segnalato l'opportunità di superare il carattere molto astratto con cui si tende a concepire l'alterità nella vita sociale, all'interno dell'orientamento più legato alla prospettiva francese all'interno del gruppo dei cultori della "svolta ontologica"; e vi sono anche accenni ai conflitti interni al gruppo e alle critiche che sono apparse di tanto in tanto (Bessire-Bond, Pellizzoni, e in parte Carrithers). I più recenti saggi dedicati da antropologi italiani al prospettivismo e alle ontologie indigene amerindiane sono quelli

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di Paride Bollettin e di Valentina Gamberi. Bollettin è un esperto di etnografie amazzoniche, che ha curato la pubblicazione di tre importanti raccolte di saggi di antropologi latino-americani sugli indigeni dell'Amazzonia, che erano stati presentati in diversi Congressi Internazionali di Americanistica organizzati dal Centro di Studi Americanistici "Circolo Amerindiano" di Perugia (Etnografie Amazzoniche, Vol. I, II, III, Cleup, Padova 2012-2013). Attualmente insegna nella Universidade Federal da Bahia. Il suo saggio ha per titolo: "Miti multispecifìci: mito ed esperienza interspecifica in Amazzonia" (in America Critica del 2019). Il saggio tratta dei miti come storie del tempo in cui gli umani e gli animali non erano ancora separati. Riferisce di alcune concezioni indigene amazzoniche sui rapporti tra gli umani e le tartarughe (soprattutto degli indigeni Mebengokré dell' .AnJ.azzonia orientale brasiliana, presso i quali l'autore ha svolto intense ricerche et. nografiche). Ed esordisce subito citando con approvazione la resi di Viveiros de Castro, secondo la quale le visioni non sono credenze, non sono modi cli vedere consensuali, ma piuttosto mondi visti oggettivamente, non visioni del mondo ma mondi di visione. E aggiunge subito dopo la nota idea di Deleuze secondo la quale non è necessario "spiegare" i mondi alternativi; bisogna assumerli come "possibilità", cioè estendere e moltiplicare le reti di relazioni che li generano. Insomma, Bollettin appare schierato senza riserve con le prospettive di Viveiros che accetta nel suo complesso, solo approvando una delle critiche che gli faceva Terence Turner. Ma la seconda parte del saggio è completamente dedicata a una attenta analisi dei miti e dei rituali dei Mebengokré, senza più riferimenti espliciti alle posizioni di Viveiros. La caccia degli uomini alle tartarughe costituisce il tema centrale, nei miti, nelle pratiche quotidiane e nei rituali della nominazione dei giovani. Emerge la assoluta importanza delle pitture corporali, che sono anche gli strumenti della "comu..11.icazione" tra gli nomini e tra di essi e gli animali. Un lungo racconto di come una tartaruga insegnò agli umani una importante canzone è analizzato e commentato con cura, ed emerge chiaramente che i nomi e la cura

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· del corpo sono strumenti che mettono in relazione gli umani, gli animali terrestri, i pesci; le forme della socialità intraspecifica e interspecifica sono dunque legate a questa ricca e densa canzone della tartaruga. Bollettin riprende alla fine del saggio in parte il "linguaggio viveirosiano", quando afferma che decolonizzando il nostro approccio ai miti come "credenze", possiamo assumere che essi sono sistemi di comunicazione in cui i diversi soggetti sono interrelati in influenze reciproche. I miti amerindiani narrano la traduzione tra diversi regimi semiotici. Di fatto, un soggetto non può esistere senza gli altri. La "Alterità", così, è la fondazione della realizzazione delle "possibilità". In queste relazioni si realizza la incorporazione della conoscenza dell'altro. Si realizza un reciproco e continuativo divenire interspecifico. Come si vede, pùr essendo un seguace delle proposte di Viveiros, Bollettin le ha "metabolizzate" e legate a una sua etnografia intensa e ben analizzata. Valentina Gamberi ha ottenuto un dottorato in una università inglese, una specializzazione in beni demo-etnoantropologici a Perugia e un post-doc in una Università di Taiwan. Ha curato assieme a Roberto Brigati un.a importante antologia della quale ci occuperemo tra poco (Metamorfosi. La svolta ontologica in antropologia, del 2019). In questo volume appare un suo impegnativo saggio introduttivo che merita una attenzionè specifica (Metamorfosi: decolonizzazione vera o apparente?). Dal titolo, il saggio sembrerebbe un intervento concentrato su una critica ai contributi della "svolta ontologica". In realtà, pur contenendo anche alcune critiche, il saggio è soprattutto dedicato a una minuziosa e competente ricostruzione dei contributi dei fondatori e continuatori dell'orientamento menzionato. L'autrice registra un diffuso "rigetto" in Italia dei contributi di questa corrente di studi e si chiede cosa abbia determinato un rifiuto così netto. Ma alla fine del saggio le risposte in proposito sono poche e non del tutto esaurienti. L'interesse per l'ontologia è venuto all'autrice dai suoi studi sulla "cultura materiale" e dalla accettazione delle impostazioni teoriche che suggerivano l'analisi della "materialità" nei suoi intensi e continui

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rapporti con la "spiritualità". E poi dalla constatazione che a partire da Viveiros de Castro gli autori di questo gruppo hanno fondato il loro orientamento in modo dichiaratamente "filosofico", attingendo a piene mani da pensatori come Heidegger e Merleau-Ponty e dai protagonisti della filosofi.a post-moderna come Deleuze e Guattari. Per queste ragioni l'autrice sostiene che si possano discutere i temi proposti da questa corrente di studi solo se si riesce a integrare l' antropologia con la filosofi.a. Ma è anche opportuD.o riconoscere una palese presunzione di questi autori: quella di "ripensare dalle radici i modi di fare antropologia e di essere antropologi". Il punto di partenza, come- noto, è nella ridiscussione radicale del concetto di "persona", e nel far convergere l'attenzione degli antropologi sul "soggetto" come centro delle riflessioni e sulla sua "agentività" (non solo degli uomini ma anche degli animali), nonché sul "corpo" come protagonista assoluto delle "relazioni", di ogni tipo. Ma non mancano, come detto, alcune critiche nella parte finale del saggio. L'autrice nota che la maggior parte degli scritti dei sostenitori della "svolta ontologica" presentano etnografi.e sottodimensionate rispetto ali' analisi. L'impressione è, spesso, quella di trovarsi di fronte a un esercizio fi.losofi.co invece che a una descrizione etnografica e l'errore più frequente è quello di estraniare la riflessione ontologica da quelle che sono le contingenze del lavoro sul campo; infatti sono rare se non nulle le occasioni nelle quali vengono descritte e analizzate le interazioni linguistiche e argomentative tra il ricercatore e gli attori della società studiata. E a proposito della radicale, continua e iperbolizzata "opposizione" tra le concettualizzazioni e le descrizioni degli antropologi e i mondi "altri", si può notare una eccessiva e compatta uniformazione di tutto l'Occidente. E anche la propugnata "decolonizzazione del sapere antropologico" appare solo proclamata. A giudizio della Gamberi si ha spesso la sensazione, leggendo gli scritti relativi alla svolta ontologica, di trovarsi di fronte a una forma leggermente più raffinata di "razzia coloniale", continuando così - in altre forme - la tradizione del "buon selvaggio", reificante

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· e stereotipizzante. Naturalmente, però, a suo parere si può salvare qualcosa di importante della "svolta ontologica": la inclusione nello spettro delle dinamiche poste all' attenzione dell'antropologia degli animali non umani, dei materiali inanimati, nonché la proposta di "lasciar parlare le cose" o i fenomeni per come accadono, senza preconcetti teorici. In conclusione, è bene che si sia proposto un "ritorno alle cose", ma anche alle "relazioni". E conviene sottolineare la "indeterminatezza della realtà". Ma bisogna semmai "correggere" alcuni aspetti dell'antropologia, non auto-sabotarci auto-denigrando l'antropologia. Tra i più recenti contributi italiani ai temi che qui ci interessano, e fondati più su ricerche etnografiche che su discussioni teoriche e filosofiche, credo vadano brevemente citati due volumi che, pur non ispirati direttamente agli orientamenti fondati da Viveiros de Castro, affrontano tuttavia problemi collegati. Sono due antologie con ricche etnografie. La prima, curata da E. Fabiano e G. Mangiameli, è dedicata ai Dialoghi con i non umani e raccoglie resoconti di indagini empiriche in Ghana e Burkina Faso, Congo, India, Perù (Ande e Amazzonia), Alaska (Fabiano, Mangiameli 2019). La seconda è curata da S. Beggiora, ed è dedicata al "cosmo sciamanico e alle ontologie indigene fra Asia e Americhe" e raccoglie saggi etnografici di vari autori internazionali provenienti dalla Siberia, Corea, Giappone, Mongolia, Malesia, India, Paesi Scandinavi e del Nord, Centro e Sud America (Beggiora 2019). Queste due antologie riscattano in parte, con la ricchezza dei contributi descrittivi, la limitata presenza di dati empirici nelle discussioni e commenti apparsi in Italia sul "prospettivismo" e la "svolta ontologica".

3. Una parentesi critica sulla ((decolonizzazione del sapere antropologica11 · Vorremmo adesso dedicare una parentesi, in questa rassegna delle discussioni e commenti sul prospettivismo e le onto-

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·logie indigene, per presentare alcune considerazioni critiche che riteniamo opportune - su una delle proposte più ricorrenti e ambiziosamente ripetute in molti saggi dei "prospettivisti": quèlla della decolonizzazione del sapere antropologico attraverso gli orientamenti e le mobilitazioni concettuali proclamate da Viveiros de Castro e da buona parte dei suoi continuatori. Fin dai primi saggi dell'antropologo brasiliano, un terna ricorrente e ritenuto fondamentale per la identità del nuovo gruppo dei. "prospettivisti" è stato infatti quello della critica radicale e spietata nei confronti delle idee nate e applicate per decenni dall'antropologia, in quanto ritenute collegate e consustanziali alle presunzioni centrornondiste dell'Occidente e ai suoi processi coloniali. L'antropologia dovrebbe quindi accettare la grande "svolta ontologica" anche per la forte ragione che essa sarebbe imbevuta di idee, valutazioni, concetti, tipicamente occidentali, e in quanto tali inequivocabilmente "coloniali" e inadatti a un libero e creativo contatto con i popoli "altri". Così l' anti-occidentalismo iper-critico favorirebbe una operazione nòn facile, quella appunto della "decolonizzazione del sapere". Se escludiamo che la predetta espressione sia semplicemente una affermazione metaforica e una allusione critica generica ai supposti difetti del pensiero antropologico moderno, caratterizzato da un generico "occidentalismo", dobbiamo impegnarci nell'approfondire il possibile rapporto tra "colonizzazione" e "de-colonizzazione", nel campo del sapere, ma anche più in generale come processo socio-politico. Il punto di vista qui discusso è ben lontano dall'essere approfondito dal nostro autore, e il problema non agevole, quello della configurazione di un "sapere coloniale" non viene affrontato in ness1m modo - come dovrebbe - prelirninarmen·te. Sarebbe bene approfondire la risposta a questa domanda: quando un sapere è "coloniale" e quando non lo è? Sembra una domanda dalla risposta ovvia, ma in realtà non lo è. Si potrebbe, per esempio, argomentare che un sapere, una serie di idee e convinzioni sul mondo e sugli uomini, se è proprio di una società impegnata in conquiste e occupazioni coloniali, tende ad assorbire, càncellare, sostituire, i saperi locali. Ma la

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· posizione citata dovrebbe essere motivata con esempi e accompagnata con una ricostruzione storica della formazione di queste idee-concetti "contaminati" dalla loro costituzione in età coloniale. Insomma, né alle idee che avrebbero accompagnato il colonialismo, né al complesso fenomeno del colonialismo come tale, vengono dedicate specifiche attenzioni. E soprattutto vengono sottovalutate le lunghe e continue critiche che__: per esempio -1' antropologia storica ha formulato contro l'evoluzionismo legato a molte specificità delle società coloniali dell'Ottocento, o quelle dell'antropologia dinamista nei confronti di certe posizioni strutturaliste legate a certe filosofie europee, o anche quelle assai numerose delle critiche contro i pregiudizi, le forme diverse di razzismo e di sottovalutazione dei sistemi culturali altrui; o ancora, quelle dell'antropologia "laica" nei confronti delle impostazioni legate a visioni del mondo e concezioni missionarie, infine quelle della "antropologia radicale" degli anni Novanta che ha prodotto forti sottovalutazioni di buona parte delle ricerche non coinvolte nella difesa politica delle popolazioni oggetto di studio. L'impressione che si ricava da queste affermazioni continuamente ripetute senza specificazioni e dettagli è dunque che i loro autori non si siano mai posti seriamente il problema di documentare, comprendere a fondo e interpretare, le diverse forme di colonialismo europeo (negli aspetti materiali e immateriali) che, in lunghi e accidentati decenni - in forme differenti nei diversi paesi europei e lungo complicati processi storico-politico-economici - hanno riguardato i rapporti tra gli europei e le differenti società native delle colonie. Infatti, il colonialismo non viene mai presentato nelle sue fondamentali caratteristiche, che sono soprattutto politico-economiche: conquiste di territori altrui e frequente occupazione degli stessi con coloni venuti dalla madrepatria, estrazione di materie prime determinanti per l'industrializzazione europea, trasmissione di tecnologie europee senza trasferire la loro riproduzione nelle colonie, utilizzazione di forza lavoro locale a basso prezzo, educazione e formazione di classi dominanti locali filo-europee, diffusione di

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costumi, bisogni e abitudini europee che potessero in pochi anni generare domanda di beni tecnici e di consumo europei, e così via. Risulta, così, quanto meno insolito che si possa pretendere di realizzare una "decolonizzazione del pensiero" limitandosi a proporre alternative al livello del solo "pensiero", senza occuparsi più da presso degli aspetti tecnici, materiali, economico-politici. Il fatto che le idee e le "concezioni di mondo" non siano messe in stretto contatto con i cont~sti social-politici ed economici risulta insomma piuttosto incongruo. E del resto la "decolonizzazione" è un . lungo e accidentato processo storico al quale è dedicata una letteratura molto estesa, che non v"'Ìene per nulla discussa. Il che non vuol dire che si debba trascurare il fatto che le imprese coloniali beneficiavano non solo di un apparato tecnico-economico e politico-militare imponente, ma anche di un insieme di idee-concetti-valori che li accompagnavano. Infatti le classi dirigenti coloniali producevano .una serie sistematica di "giustificazioni", motivazioni profonde, che avevano anche il compito di convincere il grande pubblico europeo, e le grandi istituzioni, della legittimità, della "bontà" e fondatezza di queste imprese, nascondendo in qualche modo - o rendendo meno espliciti- quelli che erano gli interessi fondamentali delle dette i_rnprese. Le più importanti di queste ''giustificazioni" erai.7.o: il diritto dei "più forti" di in1padronirsi delle terre dei "più deboli", l' "incivilimento" di società arcaiche e "primitive" e la loro conduzione progressiva verso il mondo "moderno", la ''legittima" utilizzazione di risorse naturali che i popoli extra-c:uropei "non sapevano utilizzare", la conversione al Cristianesimo come obbligazione costante del mondo europeo cristiano, per "salvare" i popoli altri dai legami con esseri diabolici, la opportunità - attraverso la scuola - di far passare queste società locali dalla "oralità" alla "scrittura", e infine la opportunità di ogni potenza europea di competere con tutte le altre, che avevano già da decenni intrapreso conquiste coloniali. Ma tutto ciò non basta per avere una conoscenza approfondita delle imprese coloniali e dei mondi coloniali nelle loro analogie e

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· differenze. Per esempio, risulterà necessario compiere studi accurati sulle congruenze o incongruenze tra le affermazioni, i messaggi, i documenti e le programmazioni dei governi e delle istituzioni internazionali da una parte, e le azioni e convinzioni delle strutture operative in locò, cioè della amministrazione coloniale, riservando una particolare attenzione ai funzionari amministrativi coloniali, che finirono - in quasi tutti i contesti delle colonie - per co~tituire un "corpo socio-culturale" semi-~utonomo; e sarà anche necessario distinguere le colonie di popolamento da quelle che erano solo di "sfruttamento", dedicando ai coloni, al settler colonialism, una specifica attenzione. Del resto, esiste ormai da tempo una serie di ottime pubblicazioni sugli aspetti "culturali" del colonialismo, alla quale si potrebbe fare utilmente riferimento (ricorderò soltanto due volumi che ritengo importanti in proposito: N.B. Dirks, Editor, Colonialism and Culture, Ann Arbor 1992; e N. Thomas, Colonialism s Culture. Anthropology, Trave! and Government, Cambridge 1994). E c'è anche da notare che della amplissima letteratura critica sui rapporti tra antropologia e colonialismo (ci sono più di un centinaio di saggi e libri, spesso pieni di accuse eccessive e mal documentate, su questo argomento) i seguaci,del "prospettivismo" non mostrano di tener conto. E per quanto riguarda l'oggi, le società "postcoloniali", bisogna dire che la situazione è molto cambiata. Infatti, il capitalismo industriale si è molto modificato, l'economia finanziaria ha sostituito in buona parte l'economia reale, la globalizzazione ha in pratica ridotto al minimo il numero dei "mercati", e conferito - attraverso la continua e in parte imprevedibile concorrenza - una grande insicurezza alle società marginali rispetto al centro (oggi euro-americano e in parte russo-cino-indiano) del mondo economico internazionale. E le grandi multinazionali sono i protagonisti inafferrabili delle nuove economie neo-oppressive. In questo modificato contesto, ancor meno può avere senso parlare di una "decolonizzazione del sapere". Certo, quel che dovrebbe fare un antropologo seriamente impegnato nella comprensione e 1

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analisi del mondo contemporaneo - fatto di continui cambiamenti - sarebbe di approfondire l' analisi auto-critica del ricercatore e della sua società di provenienza; e il ricercatore, oggi, può provenire non solo da diversi paesi dell'Occidente, ma anche dall'Africa, dall'India, dall'Ocea11ia, e può essere affiliato, come cittadino pieno del proprio paese, a gruppi politico-ideologici diversi, a forme religiose particolari (cristianesimo cattolico o protestante, maomettanesimo, laicismo radicale, e così via). È quindi ovvio che all'inizio delle sue ricerche di campo il ricercatore possa avere delle "pre-cognizioni" legate al suo mondo di provenienza, e che queste possano condizionare, esercitare influenza sui dati e risultati delle sue ricerche. Ma è assolutamente altrettanto ovvio, nell'antropologia da quasi cinquant'anni, che questo padroneggiamento del "punto di vista di partenza" e questa "auto-analisi preliminare" e concomitante siano un impegno necessario del ricercatore. Del resto, come ci dice una letteratura ormai ampia da decenni, un ricercatore che dedica con totale immersione e partecipazione almeno un anno alla sua ricerca di campo, al ritorno "non è più lo stesso di prima". L'immersione in un mondo "differente" ha sempre degli effetti sostanziali di rifrazione critica sul mondo culturale della propria appartenenza specifica e anche sulle idee portanti dell'insieme delle culture dell'Occidente capitalista. E poi, c'è un'altra considerazione da fare: la ricerca accurata, realizzata con il dominio della lingua nativa su forme di pensiero di popolazioni "altre" (la maggior parte degli aspetti cruciali di un sistema culturale si annidano nelle pieghe della lingua, anche attraverso silenzi, cose non dette, allusioni, cose implicite), condurrà certo a un approfondimento che il più delle volte risulterà in un "contrasto"· o in una consistente "differenza" rispetto alla propria forma di pensiero dell'investigatore antropologo. Ma tutto ciò non autorizza a ritenere che la forma di pensiero estranea sia "migliore" o "più valida" della propria. Né che il lavoro dell'antropologia consista nel far "trionfare" il pensiero indigeno sul proprio, "contaminandolo" decisamente. O che

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· solo in questo modo si potrà contribuire a una vera forma di "decolonizzazione social-politico-culturale" e quindi anche alla "decolonizzazione del proprio sapere". 4. I contributi di diversi studiosi di orientamento teoricofilosofico · Dopo questa parentesi, dobbiamo adesso passare a esaminare i contributi e i commenti al prospettivismo e alle ontologie amerindiane pubblicati in Italia da studiosi esterni al mondo specifico dell'antropologia. Cominceremo con Tiziana Migliore, una importante semiologa, che è stata allieva e poi collaboratrice di Paolo Fabbri. La Migliore ha pubblicato, già nel 2014, un interessante saggio dal titolo "Sul prospettivismo", a seguito di una comunicazione presentata a un Congresso dell' AISS dedicato al tema "Tra natura e storia: naturalismo e costruzioni del reale". L'autrice dichiara in apertura che la nozione di "messa in prospettiva" è di derivazione narratologica, e risale al'analisi del racconto di G. Genette (1972), poi cita Peirce e Deleuze come ispiratori, assieme a Bertrand, Greimas e Courtés. Su queste basi dovrebbe essere distinto il "punto di vista di pertinenza della dimensione cognitiva" dalla "messa in prospettiva che afferisce alla dimensione pragmatica". A questo punto, dichiara che in questi studi la "vera svolta" è stata compiuta da alcuni studi antropologici e cita la "quadri-partizione delle cosmologie" proposta da Philippe Descola che - sostiene - è debitrice delle riflessioni di Eduardo Viveiros de Castro, con alcune radicali differenze. La Migliore accetta l'idea di fondo di Viveiros che "non esiste il soggetto che crea un punto di vista sull'oggetto, ma qualunque cosa permane in un punto di vista sarà un soggetto". E quindi il prospettivismo non è una rappresentazione - un'immagine del mondo o un punto di vista-ma in sé l'assunzione dello statuto di soggetto. Il che vuol dire, come sostiene Deleuze, che in un.a concezione non essenzialista del mondo, ma fenomenica, "il s~ggetto diviene

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avvenimento". L'autrice cita anche la Strathern a proposito della "dividualità" che si oppone alla "individualità", e alla fine propone una stretta connessione fra prospettivismo ed enunciazione, rientrando così nel suo campo specifico di competenza che è la comunicazione e il significato. Alcuni interessanti esempi tratti da analisi puntuali di quadri di Alberto Savinio e Giorgio De Chirico, riguardanti "oggetti" e "prospettive" e "nature", chiudono il saggio. In un contributo successivo la Migliore affronta più direttamente, e mostrando una adeguata competenza antropologica, il problema delle diverse "prospettive" sul corpo e delle teorie dell' embodiment. Tratta naturalmente dei contributi di Deleuze e Guattari, di Lakoff, e ovviamente di Descola e Viveiros, soffermandosi soprattutto sulla "conoscenza incorporata". Al prospettivismo e alla "morfologia della visione" dedica dense pagine, come anche al rituale e alla "enunciazione". Il saggio si conclude con alcune difese delle posizioni di Viveiros dalle critiche ricevute, che però sono indicate sommariamente e non dettagliatamente. In.fine, l'autrice dichiara che l'incorporazione può essere vista come un "vestito temporaneo", come una esteriorizzazione somatica, interconnessa con i punti di vista di altri, di un sistema interno di abitudini, di affezioni e di affetti. Questa è la chiave per comprendere, nella vita di tutti i giorni, la contiguità che esiste tra le costumanze animistiche, naturalistiche, analogiche e totemiche (M..igliore 2017, p. 130). Un altro studioso esterno al mondo dell'antropologia, ma molto interessante e competente su temi come la interculturalità, è Mario Galzigna, che è stato docente di Storii:l della Cultura Scientifica e di Etnopsichiatria e Psichiatria Clinica nell'Università di Venezia. Un suo libro molto apprezzato è La malattia morale. Alle origini della psichiatria moderna (del 1998; la 3° edizione è del 2006). Ha anche scritto molto su Michel Foucault. In questo contesto ci interessa perché ha scritto una ricca prefazione dal titolo Divorare l'altro alla traduzione italiana del libro di Viveiros de Castro Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale (2017).

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· Galzigna esordisce nel suo intervento notando che l'obiettivo centrale di Viveiros è quello di "coniugare Lévi-Strauss con Deleuze" (cioè "l'essere che si coniuga con il divenire"). E accetta immediatamente la prospettiva dell'antropologo brasiliano di "rifondare l'antropologia", poggiandosi su una opzione "anti-narcisistica", capace di infrangere la sovranità del soggetto analizzante e il suo presunto primato sull' oggetto analizzato. Di conseguenza, l'altro, che tradizionalmente viene considerato oggetto d'indagine, diviene invece fonte preziosa di concettualizzazioni, di epistemologie, di punti di vista indispensabili alla sua comprensione. E tutto ciò condurrebbe alla famosa "teoria e pratica della decolonizzazione permanente del pensiero" alla quale ci siamo appena dedicati. Rilevate alcune coincidenze con idee tratte da Foucault, Galzigna non si occupa della verifica specifica di queste importanti asserzioni all'interno degli studi e ricerche antropologiche. Né delle critiche che frequentemente Viveiros ha suscitato nell'ambiente professionale dell'antropologia. Ci sono tuttavia nel saggio alcune interessanti considerazioni sul "rapporto tra corpo e anima" e alcuni preziosi e stimolanti riferimenti agli scritti poetici di Antonin Artaud. Sul "primato della: corporeità" ci sono anche stimolanti osservazioni che riguardano un "attraversamento radicale della alterità" che si può riscontrare nella mens schizofrenica, che l'autore mette in rapporto con l'attraversamento radicale della diversità etnografica come quella amerindiana. A proposito dello sciamanesimo amerindiano, che secondo Viveiros rappresenta un grande esempio di come "conoscere significhi personificare", Galzigna propone un interessante collegamento con alcune opere del grande scrittore brasiliano Joao Guimaraes Rosa, in particolare con alcuni bei passi del grande libro del 1956 Grande Sertéfo. Il saggio si conclude con una approvazione piena della proposta di Viveiros çhe l' antropologia si impegni nel cogliere un modo di pensare non come, ma con gli indigeni dell'Amazzonia, e di "prendere sul serio il pensiero indigeno". E quindi lo scopo della disciplina antropologica dovrebbe "cessare di essere quello di spiegare,

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di interpretare, di contestualizzare, di razionalizzare questo pensiero, e diventare invece quello di utilizzare; di trarne le conseguenze, di verificare gli effetti che esso può produrre sul nostro pensiero". Naturalmente, sarebbe facile per un antropologo professionista dimostrare che buona parte di quanto detto è stato - di fatto - praticato da una grande quantità di studiosi, etnograi-li e teorici delle società indigene. In equilibrio tra studi antropologici e ricerche :filosofiche sono due giovani ricercatori che hanno dato contributi pertinenti ai temi qui affrontati. Si tratta di Paolo Vignola, titolare di un dottorato in filosofia in Ecuador e di un post-doc nel Dipartimento di Filosofia dell'Università di Genova, e autore di saggi su Nietzsche, Derrida e Deleuze, e di Elena Fusar Poli, dottoranda in Filosofia e Scienze dell'Uomo presso l'Università di Milano. Vignola è autore di un. intenso saggio pubblicato nella rivista "La Deleuziana. Rivista online di Filosofia" (2016). Si tratta di un. tentativo di leggere la "geo:filosofia" di Deleuze e Guattari come uno strun1ento concettuale capace di produrre una alternativa teoretica al cosiddetto "Antropocene", cioè alla concezione dell'epoca attuale caratterizzata da un globale e potente intervento dell'uomo nella radicale trasformazione della terra nel suo complesso. Gli scritti di Viveiros de Castro sono utilizzati come strumenti adeguati per disegnare una nuova "ecologia politica", basata sul prospettivismo amazzonico come uno sviluppo interdisciplinare di re-visione globale del tema della "differenza". L'accettazione delle proposte di Viveiros è completa.L'autore sostiene in proposito con una certa esagerazione che studiando il "pensiero selvaggio" degli amerindi Viveiros ha prodotto 1L.'1a sorta di "choc epistemologico" nei confronti della razionalità occidentale. E viene anche approfondita l'idea di Sii-nondon della "individuazione", e discussa ampiamente la posizione di Stiegler. Nella conclusione del saggio si definisce l'Amazzonia una "località neghentropica della differenza biologica", che potrà forse diventare una culla per una nuova epoca della filosofia e per una nuova epoca del processo di identificazione psicliica e collettiva come continua produzione di singolarità attraverso

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· la tecnica. Così si darebbe luogo a una inedita "filosofia della differenza", ma anche si potrebbe promuovere un pensiero dell'individuazione che rimetta, per così dire, l'uomo al suo posto. Il contributo di Elena Fusar Poli ha un carattere diverso. È completamente concentrato su una meticolosa e competente, analiticamente fondata, registrazione delle puntuali e ricorrenti influenze dirette del pensiero di Deleuze e Guattari sulle elaborazioni di Viveiros de Castro (Le Metafisiche cannibali e l1 eredità di Deleuze e Guattari, del 2017). Vìene messo in grande evidenza il debito di Viveiros nei confronti dell' AntiEdipo e delle elaborazioni deleuziane sul desiderio come potenziale costruttivo dell'uomo, e vengono commentate e riconosciute nelle proposte di Viveiros le tre idee fondamentali di Deleuze: la schizofrenia come strumento fondamèntale per il rifiuto della partizione Natura/Cultura, la "sintesi disgiuntiva" come mezzo per.la incorporazione dell'alterità, e la molteplicità come rifiuto e alternativa all'Uno e al Due, nel suo effetto liberatorio. L'autrice registra senza commenti critici la enfatica affermazione di Viveiros della "prigione epistemologica nella quale l'antropologia si è rinchiusa". Al concetto di "rizoma" e alla sua immagine di molteplici "collegamenti e legami", e al suo uso· da parte di Vìveiros sono dedicate molte pagine. Infine, l'autrice sottolinea lo scopo di Viveiros, su suggerimento di Deleuze, di liquidare ogni orizzonte epistemologico di oggettività, rendendo praticamente visibile una "etica della soggettivizzazione", Come si vede, nel saggio c'è una attenta analisi della dipendenza di Viveiros da Deleuze, più di quanto non appaia da altri commentatori; ma direttamente sull'antropologia e sulle concezioni del mondo naturale-umano degli indigeni dell'Amazzonia c'è nulla o quasi. In un saggio successivo la Fusar Poli si dedica più accuratamente a presentare e commentare attentamente - come hanno fatto molti altri degli studiosi italiani - i contributi di Viveiros, concedendo al materiale etnografico uno spazio maggiore (Identità performative tra mito e quotidiano nel prospettivismo amerindiano, 2018). L'autrice esordisce citando il saggio sull'animismo di BirdDavid e le posizioni di Ingold in proposito. Poi impegna un

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certo spazio nei commenti ai saggi di Hallowell sugli Ojibwa e la loro "ontologia", su suggerimento dei lavori di Mancuso. Al prospettivismo amerindiano di Viveiros sono dedicate pagine di presentazione attenta; e vengono accettate senza discussione critica alcune delle affermazioni fondamentali dell'antropologo brasiliano, come per esempio quella che gli indigeni dell'Amazzonia concepiscono gli animali e moltissime entità umane in termini soggettivi, con la certezza che questi identificano se stessi come umani. E ciascuno è umano per sé stesso, ciascuno è preda o predatore per altri (Fusar Poli 2018, p. 4).

Sono queste generalizzazioni improprie, che sono state discusse nella letteratura specialistica, come se l'Amazzonia fosse fatta di genti assolutamente identiche. In realtà le differenze sono molto ingenti e di fatto la base etnogra:f:ìca delle · affermazioni di Viveiros è molto debole e spesso inadeguata. Ad altri temi l'autrice dedica la consueta sintesi accurata (il ruolo del corpo e le identità performative, lo sciamanesimo, il cannibalismo e la mitologia). L'unica debole perplessità sull'impianto complessivo delle proposte di Viveiros appare nel finale del saggio, quando la Fusar Poli accenna al fatto che l' ac+nbiguità intrinseca del prospettivismo trova una importante matrice nel mito, che ha natura costituzionaJmente ibrida, e nel quale la differenza è allo stesso tempo inserita in un continuum insoluto e inasprita nella composizione di ogni suo frammento" (Ivi, p. 13 ).

5. Gli interventi deifilosofi e gli ultimi contributi al dibattito Concludiamo questo panorama delle discussioni e dei comn:ienti dedicati dagli studiosi italiani alle proposte del "prospettivismo" e della "svolta ontologica" con alcuni riferimenti alla filosofia italiana in senso stretto. Uno dei primi saggi dedicati a una intensa comunicazione e scambio tra le ricerche a,.11.tropologiche e la grande tradizione filosofica è quello di Carlo Capello, docente associato di antropologia

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nell'Università di Torino (Dai Kanak a Marx e ritorno: antropologia della persona e transindividualità, del 2012). Il lavoro è dedicato alle "concezioni non occidentali della persona", che - citando Viveiros de Castro -1' autore sottolinea "sono a tutti gli effetti dei veri concetti dotati di un significato filosofico, di potenziali usi filosofici", e tutto ciò in vista della famosa "decolonizzazione permanente del pensiero" sostenuta dall'antropologo brasiliano. L'autore mette in grande evidenza il "ruolo sovversivo dell'antropologia" ed enfatizza, rincorrendo una lunga tradizione antropologica a partire da Mauss, l'importanza delle nozioni di "soggetto", di "persona"; e trova una singolare convergenza tra gli scritti del giovane Marx e le concezioni dell'uomo nelle culture melanesiane, nella idea di una "umanità come r~altà transindividuale", e quindi contro la contrapposizione individuo/società. Un interessante contributo, anch'esso impostato nel quadro dei rapporti tra antropologia e filosofia, è quello di Tommaso Guariento (titolare di una laurea specialistica in Scienze Filosofiche e di un dottorato internazionale in Studi Europei presso l'Università di Palermo), dedicato alle discussioni di "alta ecologia" sui concetti di "limite" e "rottura" negli studi sull"'Antropocene", a partire da S. Lewis, M. Maslin e C. Hamilton (La disarmonia del mondo. I:Antropocene e l'immagine premoderna della natura, del 2016). L'autore contrappone radicalmente la strategia della "decelerazione dei processi di vasta alterazione del Sistema Terra", condivisa da Bruno Latour e da Eduardo Viveiros de Castro (soprattutto nel volume Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, scritto con Deborah Danowski), a quella - opposta della "accelerazione dell'intrusione tecnologica" per riparare ai danni ambientali, del Manifesto Eco-modernista. Sulla opposizione tra "mono-naturalismo" e "multi-naturalismo" l'autore si sofferma a lungo, richiamando Haraway, Latour, Descola e Viveiros, e poi considera il "prospettivismo amerindiano" e la pluralità ontologica delle pratiche di "fare il mondo" come il prerequisito fondamentale per una revisione critica degli usi del concetto di Antropocene. Approva anche

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l'idea del "rizoma" di Deleuze e Guattari, e quindi la opposizione tra un modello gerarchico, centralizzato e oppressivo, e uno reticolare, acefalo e libertario. Per Guariento l'immagine del multi-naturalismo, sostenuta apertamente da Latour e Viveiros de Castro potrebbe costituire ~na "terza via" tra l'ipotesi nostalgica e conservatrice à la'Heidegger e la tecnocrazia capitalista del menzionato Manifesto Eco-modernista.· E avanza, tuttavia, anche qualche dubbio sulla "economia della scarnità" e sulla idea di ogni "ritorno al passato". Ma il più importante dei filosofi italiani che ha accolto con grande interesse e spirito storico-critico i temi qui affrontati è Roberto Brigati, professore di Filosofia morale all'Università di Bologna. Ha scritto molti saggi di rilievo su Wittgenstein, Husserl, Freud, Nietzsche e Dewey, e vari studi sul relativismo e sulle relazioni tra filosofia e psicologia. Si è occupato molto seriamente delle proposte di Viveiros de Castro e del suo gruppo e nei suoi saggi appare finalmente una capacità di analisi attenta e competente sulle radici e le approssimazioni "filosofiche" del gruppo, che sono assai spesso sbrigative, occasionali, solo allusive. Brigati ha curato la pubblicazione in Italia del libro di Viveiros Prospettivismo cosmologico in Amazzonia e altrove, del 2019 (che contiene la traduzione delle famose quattro lezioni tenute da Viveiros al Dipartimento di Antropologia Sociale di Cambridge nel 1998). Ha scritto una ottima introduzione al volume Amazzonia e altrove, ovvero a cosa serve l'antropologia secondo ½veiros de Castro, 2019a). In questo breve saggio Brigati esordisce riconoscendo la considerazione di Viveiros che "l'Amazzonia e il suo prospettivismo servono a mettere in movimento il pensiero" .. Come stimoli intellettuali e anche etico-politici, considerando la crisi ambientale e le distruzioni della deforestazione, che tra l'altro aggrediscono violentemente le popolazioni indigene. Il prospettivismo, dunque, appare in primo luogo come un concetto generativo ed "euristico". Non è tanto una teoria quanto la identificazione di un particolare tipo di fenomeni che forse daranno luogo a una teoria. Il filosofo rintraccia, ovviamente, le radici del termine e dei suoi significati nel-

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· la storia del pensiero europeo (Nietzsche, Merleau-Ponty, Husserl), in particolare in quelle posizioni che propugnano la negazione di un sapere "puro" e affermano che ogni forma di conoscenza è "situata", impura, segnata. Per Viveiros il pensiero amerindiano punta diritto alla metafisica. Brigati nota una certa imprecisione riguardo al concetto di "realtà", e manifesta alcune perplessità sull'uso del termine "multinaturalismo", che rinvia a una equivalenza o sostanziale intersezione di significato tra termini quali "natura", "mondo", "realtà", "essere", "materia", cosa che non è affatto scontata. Egli nota anche l' eri.fasi con la quale i protagonisti di questo orientamento dichiarano che il prospettivismo "è una proposta di rivoluzione", che rimane spesso vaga e non ben delineata. Abbastanza oscura è anche la relazione tra "antropomorfismo" e "antropocentrismo" (che viene abbandonato). La conclusione del filosofo è che, nonostante i dubbi e le incertezze, "è una particolarità del prospettivismo quella di ·proporci una modalità di conoscenza, la 'metamorfosi', che non spiega e non rassicura, ma mette in questione la nostra capacità di essere al mondo. Un'occasione di cui forse dovremmo approfittare" (Ivi, pp. 22-23 }. Ma il suo più impegnativo intervento sui temi qui trattati è la cura, assieme a Valentina Gamberi, della ricca e importante antologia Metamorfosi. La svolta ontologica in antropologia, del 2019. L'antologia contiene le traduzioni di saggi rilevanti di Ingold, Descola, Kohn, Henare-Holbraad-Wastell, Holbraad, e due saggi di Viveiros de Castro. Ma c'è anche un lungo, molto competente e illuminante saggio di Brigati (di ben 55 pagine), che ricostruisce bene i collegamenti, diretti e indiretti, approssimativi, e le connessioni e argomentazioni logiche contenuti nei saggi esaminati (La filosofia e la svolta ontologica deltantropologia contemporanea, 2019b). Il saggio è ben strutturato in tre parti che sono logicamente collegate: nella prima è opportuno soffermarsi sullo status quo ante, sul rapporto tra le vecchie idee e pratiche di ricerca e la nuova proposta. Ma Brigati si limita, ovviamente, alle prospettive strettamente filosofi.che, alle "misture spesso mal amalga-

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mate e indigeste di Heidegger, Merleau-Ponty, Foucault, Nietzsche e \"'Vittgenstein". Ciò che andrebbe fatto, in questa prospettiva - e purtroppo nessuno finora lo ha fatto (è questa una mia opinione ferma) - è una attenta analisi della situazione degli studi antropologici degli ultimi decenni nei campi dei rapporti tra uomini e altri esseri viventi, piante, oggetti, dei problemi della "persona", dell'individuo e dei rapporti con gli altri, delle visioni cosmologiche, della natura degli "esseri" nel loro insieme e nelle loro particolarità, infine della costruzione dei concetti e delle idee dell'antropologo nel corso della ricerca sul campo, prima della irruzione delle proposte di Viveiros de Castro. Nella seconda parte l'autore si impegna nel tratteggiare i caratteri della nuova proposta, e nella terza propone delle riflessioni sui rapporti tra i vecchi studi e le vecchie prospettive e la nuova proposta. Tra i terni che affronta Brigati c'è quello della idea di "natura" che si è sviluppata non solo nella filosofia, ma anche nelle scienze naturali (e che è stata elaborata dal prospettivismo). Appare chiaro che l'idea che la natura non sia o non sia sempre qualcosa di oggettivo, che almeno in parte sia il frutto di una costruzione culturale e sociale, è assai diffusa da decenni, e non c'è nulla di nuovo nel proclamarlo oggi come fosse una scoperta. Anche a proposito della critica alla "interpretazione" che fanr10 i promotori della "svolta ontologica", Brigati sottolinea come sia proprio nell'analisi della differenza interpretativa che si produce la conoscenza; e accanto alla "induzione" come processo conoscitive a volte discutibile, è opportuno considerare anche la "abduzione", intesa come possibilità di inventare ipotesi esplicative nuove per spiegare osservazioni nuove. Risulta anche discutibile la pretesa degli studiosi qui considerati di "riscrivere la storia delle scienze comprendenti" a partire dalla "incomprensione", dalle anomalie, dalle differenze e dalla loro irriducibiìità a differenze culturali. Vengono anche notate diverse ambiguità sul tema centrale della posizione dell'antropologo nella sua ricerca: non dovrebbe più essere "centrale", soggetto conoscente privilegiato; ma attraverso una "metamorfosi" trasformarsi

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· in colui che si lascia guidare totalmente dalla sua fonte, cedendo la parola al "nativo", "prendendolo veramente sul serio" e lasciando che le sue filosofie abbiano effetto Sli di noi. C'è da dire - in verità - che molte di queste considerazioni e suggerimenti metodologici hanno una lunga storia nell' antropologia degli ultimi decenni, e le proposte enfatiche dei prospettivisti non dicono, in ciò, molto di nuovo. E non bisogna dimenticarsi che le affermazioni provenienti dalle fonti etnografiche sono appunto affermazioni provenienti da qualcuno di specifico, non da una concezione astratta e generale teorica. Ma Brigati approva, ogni tanto, alcuni dei caratteri generali delle proposte derivate dal movimento iniziato da Viveiros. Come quando scrive che come filosofi bisogna essere loro grati. Ciò che questi autori ci aiutano a intavolare è il modello di un conoscere che non sia un ri-conoscerè, cioè che respinga direttamente proprio quella che per il neopositivismo era l'unica modalità di conoscenza possibile (Brigati 2019, p. 330).

Però sostiene anche che è sempre arduo dire se una tesi inerisca al pensiero di Viveiros o al prospettivismo in quanto pensiero indigeno; né è chiaro se vi sia un modo di distinguere tra i due. Come antropologo, che rifiuta espressai11ente l'etichetta di filosofo, Viveiros dovrebbe essere intento ad anali:aare il pensiero indigeno; ma c'è di mezzo la sua appassionata volontà di proporlo come sistema filosofico a pieno titolo; e la sua travolgente scrittura suggerisce irresistibilmente che questa sia più di una proposta per conto terzi (Ivi, p. 341).

Considerazioni che non è difficile condividere pienamente. Il saggio contiene, naturalmente, anche altre osservazioni e commenti interessanti e in un certo senso rafforza la convinzione di molti antropologi che sia opportuno e utile rafforzare i rapporti tra antropologia e filosofia, ma sempre rispettando fino in fondo le caratteristiche dell'etnografia, che è la base ineliminabile, con tutte le sue correzioni e problematizzazioni, di ogni antropologia possibile, che naturalmente non si limita

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al lavoro a questo livello di raccolta dei dati. C'è da dire, infine, che l'ottimo volume curato da Brigati e Gamberi, pur presentando una scelta ottimale e ben rappresentativa dei contributi dei diversi autori affiliati alla "svolta ontologica", avrebbe potuto includere anche almeno un saggio critico del movimento in oggetto (Turner, o Graeber, o Ramos, per esempio), e avrebbe anche potuto ricostruire per bene la storia degli studi antropologici sugli stessi temi propugnati dal gruppo in esame, per mostrare come la maggior parte delle accuse e delle proclamazìoni innovative hanno poco fondamento. Tra gli ultimi, e recentissimi, contributi italiani al dibattito sulle "ontologie indigene" ci sono due saggi pubblicati nella rivista "Studi Culturali" del 2020. Il primo è un intervento di Antonio Manconi (Eduardo Viveiros de Castro e l' endoconsistenza del mondo indigeno), il quale ha in corso una impegnativa tesi di dottorato all'Università di Toulouse che ha uno stimolante titolo: Fare filosofia con il popolo dei Szkuani della Colombia. L'intervento precede una lunga intervista a Eduardo Viveiros de Castro, che si è svolta a Toulouse, in occasione di varie conferenze dell'antropologo brasiliano in occasione della pubblicazione in Francia del suo ultimo libro Politiques de la multiplicité, dedicato a una ridiscussione dei contributi di Pierre Clastres sul tema classico degli "indigeni contro lo Stato". Manconi rivela, fin dalle prime pagine del suo testo che precede l'intervista, il suo orientamento, che intende l'antropologia - attraverso le sue provocatorie etnografie - come una costan.te e radicale provocazione per la filosofi.a post-moderna. Egli tende, anche, a esaltare l'elaborazione del prospettivismo, secondo il quale a suo parere: "lo sciamanismo amerindio esce dall'immagine di arcaismo residuale a cui l'aveva condannato la tradizione europea, emergendo come forza speculativa e concettuale ancora tutta da scoprire" (Ivi, p. 9ì). Opinione, questa, molto discutibile, considerando la estesissinia letteratura antropologica recente che ha riflettuto molto intensamente sullo sciamanismo ben lungi dal considerarlo un "arcaismo residuale". L'autore condivide quindi pienamente la sostanza degli argomenti di

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· Viveitos: "Il momento di lasciarsi rivoluzionare dalle idee indigene è arrivato", e "la foresta amazzonica è qualcosa di più di una riserva di ossigeno: si tratta di una riserva 'ontologica' ... una riserva di mondi possibili" (Ivi, p. 98). Il libro di Viveiros Metafisiche cannibali appare in tal modo una sorta di "nuova edizione del Manifesto Antropofago di Osvaldo de Andrade, del 1928, perché propone un divoramento amerindio della filosofia contemporanea" (Ivi, p. 99). Le culture indigene condurrebbero direttamente alla "messa in discussione dell'intero edificio ontologico del mondo occidentale". In sostanza, gli indigeni non avrebbero bisogno delle categorie interpretative della loro cultura da parte degli antropologi, perché "dispongono coscientemente, all'interno del loro mondo, delle forme categoriali appropriate per descriverlo" (Ivi, p. 100). È questa la "endo-consistenza" del mondo indigeno. L'intervista a Viveiros è tutta concentrata sui commenti a Pierre Clastres e ai suoi studi sul rapporto tra capi e indigeni in Amazzonia e le varie società indigene dell'America meridionale, al suo privilegiamento della dimensione politica rispetto a quella economica, al suo successo più tra i :filosofi che non tra gli antropologi. L'ultima parte è dedicata ai temi classici dell'orientamento teorico dell'antropologo brasiliano, come sempre caratterizzati da grandi generalizzazioni che tendono a uniformare una categoria generale e uniforme di "indigeni": la colpevole separazione, nelle culture dell'Occidente, tra "soggettivo" e "oggettivo" ("nel pensiero indigeno l'oggetto è un caso particolare di soggetto"), l'assenza, nel mondo indigeno, di un concetto generale di "animalità", definito in opposizione a "umanità", il fatto che gli indigeni non guardano il mondo da un punto di vista esclusivamente umano. E alla fine ci sono anche delle deboli e approssimative critiche al governo brasiliano attuale sui temi ambientali e sulle politiche nei confronti degli indigeni. Il secondo saggio è di Luigigiovanni Quarta, assegnista presso l'Università di Pisa e docente a contratto di materie antropologiche presso l'Università di Firenze (Solo questione di prospettive. Eduardo Viveiros de Castro e il problema del

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soggetto). È questo un saggio che presenta in maniera ineccepibile e ben coordinata le idee fondamentali proposte da Viveiros, qua e là "ri-sistemate" e rese più coerenti e sistematìche. In tal modo l'antropologo brasiliano appare come un "antropologo-filosofo", impegnato· in una assai impegnativa impresa speculativa, che discute con i grandi :filoso:fì. dell'età moderna (Wittgenstein, Foucault, Blanchot, Deleuze e Guattari) su temi assolutamente impegnativi come "il soggetto", "la rappresentazione", "il mito". Lo scopo principale dell'autore com111entato è dunque quello di "mettere in discussione la tradizione ermeneutica su cui riposa l'antropologia". Espressione, questa, forse un po' eccessiva, considerando che oggi esistono numerose e diverse antropologie che tentano in modi diversi di affrontare i temi e problemi derivanti dal confronto con le alterità culturali e dalla messa in discussione critica del punto di partenza della ricerca antropologica, ma il più delle volte - se non sempre - a partire da .una continuamente rivista e discussa "etnogra:fì.a". Lo stesso vale anche per la ulteriore convinzione di Viveiros, che "l'antropologia stabilisce prossimità e differenze a suo piacimento, garantendo la legittimità della propria discorsività solo a prezzo di un 'declassamento' del pensiero nativo" (Ivi, p.118), che sarebbe meglio non fosse dichiarata così, semplicemente, senza una discussione critica. I COill,_"J.1enti di carattere :filoso:fì.co sono serrati e ben condotti, nel complesso; anche se sono limitati ad alcune affermazioni e posizioni teoriche di certi antropologi, non sempre ben identi:fì.cati, e non passano quasi mai per una ricognizione meticolosa e sistematica degli apparati empirici (cioè delle ricerche etnogra:fì.che approfondite) che in qualche modo li hanno fondati. La distinzione tra soggetto e oggetto, come anche le concezioni del multiculturalismo, e l'idea delle molteplicità di rappresentazioni del mondo, e quella della prospettiva che - nella cosmologia nativa - soppianterebbe la rappresentazione, sono anch'essi temi ti-presentati con cura dalle proposte di Viveiros, senza approfondimenti docu..rnentari dalle fonti etnografiche né accenni alle molte critiche ricevute dall'antropologo brasiliano. Il saggio costi-

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· tuisce insomma una ottima e fedele presentazione dei punti di vista del "prospettivismo", che l'autore approva palesemente, e che viene sintetizzata efficacemente riportando una delle affermazioni cruciali di Viveiros: Il mondo amerindiano ci obbliga a una serie significativa di ripensamenti e la sua presa in considerazione da un punto di vista filosofico ci aiuta a compiere l'operazione antropologica per eccellenza: espandere il nostro mondo accogliendovi, all'interno, mondi altri (Ivi, p. 123).

Come si vede, una buona sintesi delle posizioni di Viveiros che rafforza l'idea di una antropologia-filosofica poco attenta alle fonti documentarie che avrebbero dovuto fondare le conclusioni generali, e che :;;ono superficialmente alluse e spesso uniformate indebitamente. Comunque, rimane la grande utilità del saggio, che spinge in ogni modo gli antropologi a riflettere sulle connessioni e sugli aspetti filosofici del loro lavoro di ricerca sulla "condizione umana nei suoi rapporti con il resto del cosmo". Infine, non possiamo tralasciare di commentare i saggi, appena pubblicati, nella nuova rivista antropologica "Rivista di Antropologia Contemporanea" diretta da Fabio Dei. Il primo numero contiene, oltre al saggio di chi scrive (Colajanni 2020), altri tre saggi riguardanti i nostri temi. Il primo è di Alessandro Mancuso, i cui contributi precedenti sugli argomenti del "prospettivismo" e della "svolta ontologica" sono stati commentati nelle pagine precedenti. Quest'ultimo saggio è dedicato a La 'svolta ontologica, e le questioni epistemologiche in antropologia. Mancuso registra la notevole quantità di differenze tra i sostenitori della radicale trasformazione dell'antropologia sulla base, anche, di un intenso dialogo con le discipline biologiche, ètologiche, ecologiche e cognitive. Il saggio identifica ed espone con chiarezza quello che è in realtà il livello al quale si collocano quasi tutti gli studi e i contributi del gruppo variegato dei prospettivisti e dei tenaci sostenitori della svolta definitiva dell'antropologia: è il livello epistemologico e teorico-fio-

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losofico generale, caratterizzato da un costante confronto con le filosofie dominanti nella tradizione euroamericana degli ultimi decenni. Nonostante ci sia nel saggio un paragrafo dedicato alla "Etnografia come 'sperimentazione con' mondi possibili", di fatto ·viene fuori con chiarezza che, a partire da Viveiros de Castro, c'è una diffusa convinzione che l'antropologia degli ultimi decenni non si è impegnata a "prendere sul serio" le idee e i concetti indigeni, che andrebbero considerati come "idee filosofiche". Il che non corrisponde a verità. C'è infatti una amplissima letteratura etnografica che si è sforzata di rendere nel proprio linguaggio (spesso anche usando a fondo il linguaggio indigeno) le idee, le concezioni-mondo, le filosofie native. E del resto, la tesi prospettivista che gli antropologi hanno finora lavorato producendo una "asimmetria di valore conoscitivo" tra i concetti del ricercatore e quelli dell'indigeno, non ha gran fondamento. Gli esempi concreti, di indagini veramente approfondite sul "pensiero indigeno", ii-i questi orientamenti sono rarissimi e abbastanza approssimativi. Anche l'idea degli ''altri mondi possibili", non ha molto di nuovo, come è stato varie volte osservato. Mancuso identifica bene la importante proposta di una "nuova ecologia politica", dovuta soprattutto a Latour, e conferma dunque che il vero livello di riflessione del gruppo dei prospettivisti è proprio la filosofia e non l'antropologia nella sua solida base costitutiva che è i' etnografia, con tutte le possibilità di correzione e di integrazione critica. L'autore conclude sottolineando che: [ ... ]ho proposto un possibile percorso di lettura della "svolta ontologica" in. antropologia, incentrato sulla ricostruzione· dei nessi tra questioni epistemologiche, ontologiche e politiche nelle prospettive teoriche di Holbraad, Viveiros de Castro e Latour ... Parallelamente, ho suggerito l'opportunità di esplorare, soprattutto in riferimento a terreni concreti di ricerca e di analisi, le possibilità di- composizione tra gli approcci teorici maturati all'intemo della "svolta ontologica" e altri indirizzi, come quello foucaltiano o quello di Wittgenstein, dell'antropologia interpretativa e cli quella postmodema (Mancuso 2020, pp. 80-81).

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A proposito delle proposte molto generali e radicali dei principali teorici dèl lYiodernity and Coloniality approach, Mancuso richiama la tesi che:

[... J l'espansione e la dominazione capitalista su scala globale è strettamente collegata a un dispositivo generale di "colonialità" che costituirebbe il "lato oscuro" della Modernità. Questo dispositivo avrebbe informato e articolato in modo pervasivo, ben al di là dell'epoca coloniale propriamente intesa, la produzione e legittimazione della conoscenza di matrice europea, le pratiche di governo, la strutturazione di gerarchie di potere basate sulla classificazione incrociata di razze, gruppi etnici, generi e classi sociali. La "colonialità" come dispositivo di sapere/potere ha permesso e prodotto così la delegittimazione e l'invisibilizzazione . tanto cognitiva quanto etico-politica e, in fin dei conti, ontologica di tutto ciò che non vi si uniformava (Ivi, p. 77). In realtà queste tesi hanno un che di "ovvio", perché in sostanza dicono con grande enfasi ciò che si sa quasi da sempre: e cioè che le società più "forti" militarmente e politicoeconomicamente tendono a controllare e dominare le società vicine e lqntane con le quali vengono in contatto, non solo sul piano dell'organizzazione e gerarchizzazione social-politica, ma anche in quello della diffusione delle idee e concezioni del mondo. E questo a me pare che non sia affatto un "lato oscuro", e non sia proprio un carattere esclusivo della Modernità. Il che non vuol dire che non si debbà favorire, appoggiare, sostenere, ogni forma di rivendicazione di autonomia e indipendenza da parte delle società di quello che una volta si definiva "Terzo Mondo", e anche ogni forma di libertà creativa e di rifiuto di idee e visioni del mondo imposte dai potenti dell'Occidente. Il secondo saggio è di Federico Scarpelli, ed è dedicato a !}antropologia culturale e le due ontologie. Anche Scarpelli si concentra, con grande intensità, sui problemi filosofici e sul linguaggio filosofico mobilitato dagli autori qui discussi. Si sofferma bene sull'uso del termine "ontologia" e sui tentativi piuttosto approssimativi di questi di affrontare e

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discutere il dualismo cartesiano. Come anche della pretesa che l'antropologia si traduca in una costante "sperimentazione concettuale", volta a mettere in crisi la metafisica che sarebbe propria dell'Occidente moderno. L'autore descrive anche bene la "opposizione" tra due antropologie diverse e incompatibili sulla quale insiste più volte Viveiros: quella tra una posizione che si baserebbe sull'applicazione di concetti "nostri" ai mondi nativi, e una posizione che si sarebbe concentrata sulla capacità di "pensare attraverso i concetti nativi". Scarpelli nota le contraddizioni e le imprecisioni in questa impostazione. Infatti, "prendere sul serio il nativo" è quanto in verità hanno cercato si fare la maggior parte degli antropologi, e le proiezioni di concezioni europee sulle società native risalgono in verità soprattutto al secolo passato. Le critiche alla "epistemologia" di Viveiros sono nu._rnerose e ben argomentate nel saggio, e un approfondimento dei temi proposti è presentato discutendo intensamente la "ontologia sociale" di J.R. Searle, basata su una approfondita analisi della "intenzionalità" e del "linguaggio". Anche sulla rigida e normativa posizione dei sostenitori dell'ontologica! turn, di negare recisamente che si possa parlare per le concezioni e idee dei nativi di "errore", ci sono commenti critici ben fondati. Ci sono anche osservazioni sul rapporto, solo in apparenza centrale e costitutivo, con la pratica etnografi.ca. I nativi sono infatti valorizzati solo come "pungolo teorico", ma in quanto persone reali, invece, mancano del tutto. Come si vede, anche questo saggio si colloca sul piano teorico-filosofico ed esamina attentamente le pretese epistemologiche dei cultori della "svolta ontologica", e non si esercita . a provare le supposte innovazioni teorico-metodologiche di questi autori in un contesto etnografico dettagliato e intenso, per metterne a nudo la efficacia analitica. · Il terzo saggio, di Carlo Severi, è in realtà la traduzione italiana di un intervento del 2014 nella rivista "HAU. Journal of Ethnographic Theory" (La trasmutazione degli esseri. Proposta per un antropologia del pensiero). Si tratta di un contributo di grande livello, originale e ricco di propo1

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· ste di riflessioni impegnative su temi teorico-metodologici, del rapporto tra antropologia e linguaggio, della natura del "pensiero degli esseri umani". E ha il pregio, molto raro all'interno delle discussioni e dibattiti ai quali. ci siamo dedicati, di fondarsi su una intensa e competente analisi dei contributi di Wittgenstein, Vygotsky, J akobson, su argomenti come "pensiero e linguaggio", "traducibilità delle lingue e di aspetti delle culture", "potere dei sistemi simbolici" ed "espressività", natura e caratteri degli "esseri" (e quindi "ontologia"). Ma questi argomenti vengono discussi attraverso l'analisi accurata, intensa e dettagliata, di tre corpus etnografici amazzonici di grande qualità e ricchezza, degli indigeni Yekwana, Wayana e Wayampi. La guida teorica che orienta il testo è il concetto di "trasmutazione" di Jackobson (una traduzione intersemiotica che è interpretazione dei segni verbali per mezzo di segni che appartengono a sistemi semiotici non verbali). Infatti, ne deriva un nuovo modo di definire il concetto di "ontologia culturale". Presso i popoli menzionati il modo di vedere, pensare e parlare degli esseri del mondo (uomini, antenati mitici, animali), non si basa solo su quanto viene "detto" attraverso il linguaggio parlato, ma deriva da un complicato collegamento tra forme iconografiche (disegni, forme e colori dell'arte dell'intreccio), strutture narrative dei miti, canti rituali, musica. Ciò che è visto, insomma, viene posto in stretta relazione con ciò che è costruito con le mani degli artigiani, con ciò che è udito. Il che conduce inevitabilmente a uno speciale tipo di "cognizione ontologica", che deve però tener conto anche della potenziale e incessante trasformazione di tutti gli esseri. Quindi, le creature sono "plurali" e ogni "teoria dell'essere" ne deve tener conto. La conclusione di Severi è la seguente: Sono arrivato alla conclusione che un'analisi di questo concetto nella filosofia occidentale [il concetto di "ontologia"] ci porta a riconoscere che le visioni del mondo studiate dagli antropologi non sono ontologie ma filosofie naturali prive di ontologia. In breve, se ignoriamo le implicazioni teoriche di questo concetto corriamo il rischio di confondere le concezioni del mondo me-

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lanesiane o amazzoniche, fondate su "uno sfondo di assunzioni comunemente condivise riguardo a fenomeni osservabili di tipo fisico e sociale", con ontologie pseudo-parmenidee ... E di conseguenza rischiamo di intenderle come sistemi coerenti di pensiero: uniche, immobili e immutabili come il concetto parmenideo di Essere (Severi 2014; trad. it. 2020, pp. 145-146).

Le conseguenze di queste argomentazioni e di questo ottimo studio sulle concezioni di Viveiros de Castro in tema di "ontologie indigene" sono evidenti. Ne risulta una critica radicale, che però risulta impHcita e facilmente derivabile dall'insieme delle argomentazioni e dei dati etnografici, anche se non appare formalizzata e dettagliata. Di fatto, i tre casi amazzonici esaminati dall'autore dimostrano che "se ci si concentra sulle iconografie legate ali' azione rituale e sugli specifici processi di · trasmutazione che le mobilitano, emerge un modo ontologico del tutto diverso di 'ordinare gli esseri'" (Ivi, p. 148). Severi propone, dunque, una "nuova teoria antropologica·del pensiero", che si distacca nettamente dalle proposte di Viveiros de Castro e dei suoi, numerosi e diversi tra loro, seguaci.

6. Alcune considerazioni conclusive Dobbiamo, alla fine di questo lungo cammino, notare che i contributi, le discussioni e i commenti sulle proposte del "prospettivismo" e delle concezioni delle "ontologie indigene", proposti da autori italiani, sono apparsi certo ricchi, competenti e ben articolati, in modo da costituire una parte rilevante del dibattito internazionale, e anche un punto importante di riferimento per quel dibattito. Ma bisogna anche osservare che la maggior parte di questi contributi si sono limitati sostanzialmente alla dimensione teorica generale e :filosofi.ca; e vengono soprattutto da non-antropologi, o da antropologi con scarsa esperienza di ricerca empirica, cioè da studiosi con formazione filosofi.ca o psicologico-psichiatrica. E quasi tutti hanno accettato in pieno l'impostazione di Vìveiros de Castro e dei suoi continuatori, con poche e

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· misurate osservazioni critiche. Si ha insomma l'impressione che le idee e le proposte di Viveiros e dei "prospettivisti", pur venendo sostanzialmente dall'antropologia, siano servite come ad "allargare gli orizzonti" della :filosofi.a contemporanea, piuttosto che a proporre effettive :integrazioni propositive alla ricerca antropologica nel suo complesso. E non hanno, del resto, affrontato direttamente, con esperimenti concreti di ricerca, il campo dell' etnografi.a. Infatti, nessuno degli studiosi del nostro paese ha utilizzato fino in fondo i suggerimenti dell'antropologo brasiliano e del suo "movimento teorico di riforma dell'antropologia", come stimolo per nuove ricerche empiriche etnografi.che orientate da nuovi spunti teorici, in contesti nazionali o di "alterità culturali", sui temi molto importanti del rapporto tra gli umani e il mondo della natura (piante, animali, ecosistemi diversi, fenomeni atmosferici) e sui concetti di "persona", di "individuo", di "relazione". Invece, in altri paesi, come in Brasile per esempio, l'influenza di Viveiros ha determinato la nascita di decine di ricerche empiriche orientate dalle nuove idee e proposte del fondatore del "prospettivismo". Insomma, ha finito per prevalere una visione dell'antropologia come strumento· di una costante ed energica "provocazione" delle idee generali e suppostamente diffuse nell'Occidente contemporaneo, che viene spesso presentato come uniforme e omogeneo; come destinatario di una stimolazione critica, e spesso iper-critica, di tutto l'insieme complesso delle idee-concetti-pratiche del mondo dell'oggi, che avrebbe la disponibilità a essere "contaminato" con le idee e i concetti provenienti da un diverso mondo visto nella sua ipotetica "uniformità", quello degli indigeni (e in particolare degli indigeni dell'Amazzonia); questi indigeni avrebbero la straordinaria attitudine a far "ri-orientare" il discusso e discutibile mondo contemporaneo nel quale noi tutti oggi viviamo. E inoltre, pochi hanno notato che le basi empiriche, documentarie, delle proposte teoriche di Viveiros e dei suoi seguaci sono esili, il più delle volte mal gestite e gremite di generalizzazioni indebite; oltretutto raramente ben approfondite. Sono

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frammenti di etnografi.e approssimative che vengono lanciati come "sassi" contro l'Occidente. È doveroso riconoscere, mi sembra, che temi teorico-filosofi.ci come quelli qui indicati dovrebbero avere come supporto un apparato empirico molto ricco e raffi.nato, che dovrebbe essere condizione necessaria per delle conclusioni generali estratte dai modi di pensiero e di azione delle società indigene. Ci si aspetterebbe di aver conto di indagini osservative accurate e continue, di conversazioni lunghe e ripetute con la conoscenza della lingua indigena (tutti sanno quante trappole si nascondano nelle traduzioni di interpreti, e quanti raffi.nati approfondimenti vengano dalle sottigliezze, dalle allusioni, dalle cose non dette), della raccolta e del confronto di diversi e numerosi "testi" indigeni, della "contestualizzazione" delle idee e informazioni all'interno del quadro più ampio delle relazioni sociali, degli oggetti, dell'analisi puntuale delle narrazioni mitologiche, infine dai controlli in tempi diversi delle informazioni raccolte. E proprio sul rapporto (materiale e spirituale) tra uomini, animali e piante, e parti diverse degli ecosistemi, è difficile proclamare concezioni generali, "punti di vista", "filosofie indigene", senza una accurata, meticolosa e densa etnografia di base; come del resto hanno fatto autori come Laura Rival tra i Huaorani, Terence Turner fra i Kayapò, Kay Arhem fra i Makuna, eJeanPierre Chaumeil fra gli Yagua. Solo una attenta e approfondita comparazione fra questi dati etnografici dovrebbe permettere alcune generalizzazioni sulle "ontologie indigene" e i rapporti "uomini/mondi non-umani'' nella regione Amazzonica. Senza questo tipo di materiali è molto difficile che un antropologo possa attingere i livelli teorico-filosofi.ci ai quali abbiamo fatto riferimento. Queste obiezioni sono state naturalmente fatte in buona parte - dai critici che sono sistematicamente trascurati dai seguaci di questo orientamento, come Terence Turner, Alcida Ramos, David Graeber, Carlos Reynosò; essi le avevano ben presentate, con ricche e convincenti argomentazioni, nei loro saggi eh commento (per i quali rimando a Colajanni, 2020). Ri.'Tiane dunque la convinzione che il "prospettivismo" e la "svolta ontologica" siano soprattutto, in realtà, efficaci sti-

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· molazioni intellettuali, provocazioni di una certa forza comunicativa, per le riflessioni generali dell'antropologia contemporanea. E soprattutto che per il gruppo di autori menzionato il problema centrale dell'antropologia non sarebbe tanto quello di sforzarsi di "conoscere" mondi sociali lontani e diversi, ma invece quello di "farsi contaminare", "trasformare" da questi mondi, approssimativamente conosciuti. Insomma, l' antropologia riformata, proposta dagli orientamenti qui discussi, non dovrebbe essere altro se non un nuovo "strumento" di critica radicale al pensiero contemporaneo. Bibliografia Beggiora, S. (a cura di) 2019 Il cosmo sciamanico. Ontologie indigene fra Asia e Americhe, Franco Angeli, Milano. Benadusi, M., Lutri, A., Sturm, C. 2016 Composing a common world? Reflections around the ontologica! tum in anthropology, in "Rivista ANUAC", 5, 3, pp. 79-98. Beneduce, R. 2017 Postfazione. Metamorfosi. Le sfide di un'antropologia dei possibili, in E. Viveiros de Castro, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-struttuale, Ombre Corte, Verona, pp. 195-226. Bollettin, P. 2019 Miti multi specifici: mito ed esperienza interspecifica in Amazzonia, in "América Critica", 3, 1, pp. 91-112. Brigati, R. e Gamberi V. (a cura di) 2019 Metamorfosi. La svolta ontologica in antropologia, Quodlibet, Macerata. Brigati, R. 2019a Introduzione. In Amazzonia e altrove, ovvero a cosa serve l'antropologia secondo Viveiros de Castro, in E. Viveiros de Castro, Prospettivismo cosmologico in Amazzonia e altrove, Quodlibet, Macerata, pp. 9-23. 2019b · La filosofia e la svolta ontologica del!' antropologia, in R. Brigati, V. Gamberi (a cura di), Metamorfosi. La svolta onfologicain antropologia, Quodlibet, Macerata, pp. 299-354. Capello, C. 2012 Dai Kanak a Marx e ritorno: antropologia della persona e transindividuale, in "DADA. Rivista di Antropologia post-globale", 2, pp. 99-114.

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Antropologia e rappresentazionalismo. Note genealogiche Roberto Brigati

l. Mondo e cognizione

Nel panorama dell'antropologia contemporanea - in particolare, ma non solo, nell'ambito della cosiddetta svolta ontologica - è pressoché scontato il rifiuto di una posizione teorica che di solito è identificata come "rappresentazionalismo" 1 . Tuttavia la letteratura in questione ne dà definizioni sommarie e, a un occhio filosofico, non appare sempre consapevole né della storia né di tutti gli aspetti analitici di questa concezione. Per giunta c'è un continuo passaggio tra diverse accezioni del termine, alcune delle quali sembrano essere specifiche alla disciplina antropologica, benché la sinonimia tra di esse non venga sostanzialmente argomentata. Ce n'è abbastanza perché valga la pena di ripercorrere la genealogia di questa concezione - almeno per quanto possibile, dato che le sue radici sono piantate troppo in profondità per una trattazione completa. Mi occuperò di questa genealogia nel prossimo paragrafo, mentre dapprima vorrei inquadrarne brevemente il rapporto - che è storico e non logico - con una famiglia di concezioni ontologiche. Per-dirla in maniera leggermente drammatica, è da quando Parmenide ha separato essere e apparire che la conoscenza è questione di far collimare il secondo col primo. 1

Nell'ambito della "svolta", uno dei primi a esplicitare questo rifiuto è stato Pedersen (2007). Tra i primi studi filosofici si segnala quello di Martin Palecek e Mark Risjord (2012).

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Se questa mossa ha un qualche significato inaugurale nella filosofi.a occidentale, è rivelatore il fatto che parta da una preoccupazione epistemologica. Si tratta, fin dall'inizio, di mettere al sicuro la conoscenza. La soluzione comincia dando un nome al problema: conoscere significa avere nella mente una rappresentazione esatta o adeguata dell'essere; e si può aggiungere il requisito di credere a tale rappresentazione, ossia riconoscerne l'adeguatezza2 • È all'incirca l'analisi del concetto presentata nel Teeteto platonico: conoscere significa credere le cose giuste per le ragioni giuste. Malgrado l'aria modesta, questa posizione contiene una cospicua serie di premesse: c'è una mente, c'è un'entità di qualche tipo in essa contenuta, c'è una relazione di adeguazione con l'essere. Questi sono già gli ingredienti del rappresentazionalismo. Ma le premesse sono d'importo ontologico oltre che epistemologico. Che dire infatti dell'altro elemento della relazione, l'essere? È qui che questo abbozzo di teoria esce dal campo ristretto della mente, e comprensibilmente gli "impegni ontologici" si diversificano, cioè le correnti filosofi.che divergono su quel che sono disposte a comprare come arredamento dello spazio esterno. A quanto pare l' ontologia è sottodeterminata dall'epistemologia. Non tutte le ontologie sono parsimoniose come quella di Parmenide, che ammette un solo essere intatto e indifferenziato. Tuttavia una forma più debole di monismo, che non ha nemrneno una denominazione tecnica, sembra collegata in modo quasi naturale al precedente complesso formato da mente-rappresentazione-adeguazione. È semplicemente la supposizione che, qualunque cosa o insieme ci sia all'altro . capo della rappresentazione, è suscettibile di essere unificato in un unico complesso, di solito chiamato realtà o mondo. La messa in sicurezza della conoscenza sembra richiederlo. Dev'esserci u11 solo mondo, altrimenti non si può stabilire, se non arbitrariamente, con quale "essere" debba collimare •

2

In Brigati (2020) ho analizzato alcuni aspetri problematici della relazione cli adeguatezza tra si.rigole rappresentazioni e singoli enti, su cui non tornerò qui.

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· la rappresentazione, anzi nemmeno dove andare a cercare questo essere, dove dirigere lo sguardo: in breve, non si può evitare l'equivocità della relazione. Così in quanto segue intenderò il monismo in modo insolitamente debole: non come la tesi che esista uno e un solo ente indistinto, né che l'essere non contenga parti proprie e indipendenti; piuttosto, per la presente discussione è sufficiente la tesi per cui c'è un principio di unificazione di tutte queste parti e questo principio gode di una precedenza tanto semantica, quanto esperienziale, quanto teorica, sulle rispettive differenze tra le parti3. In effetti il bersagliò più ampio degli attacchi di parte antropologica è questo nesso formato da rappresentazionalismo e monismo ontologico debole (che abbrevierò con R+M). Meno "naturale", ma ugualmente presente tra i presupposti dell'epistemologia sottesa a gran parte delle nostre scienze, è un insieme di assunti che riguardano l'altro lato, il conoscente. Per evitare che l'equivocità ricompaia all'altro capo della relazione, è necessario che il sistema che effettua la rappresentazione - chiamiamolo il soggetto - sia sufficientemente invariante e unitario. Le rappresentazioni possono esser diverse, ma, se sono rappresentazioni di un'unica cosa, devono essere intertraducibili. Ciò presuppone, per un verso, che le rappresentazioni abbiano una forma linguistica di qualche tipo; per l'altro, che il soggetto possieda o possa ottenere un codice tale da riunificare la varietà delle rappresentazioni: questo codice è fornito dal sistema delle scienze, che nelle impostazioni materialistiche devono essere riducibili almeno idealmente alla· fisica. Il codice compensa anche le eventuali variazioni del soggetto, postulato come imperfetto: nel modello platonico, attraverso Agostino fino a Kant, e per questo aspetto anche nella linea aristotelica di Tommaso, solo l'intelletto divino contiene rappresentazioni archetipiche, cioè tali da produrre la cosa nel concepirla, ç; dunque per 3

Grosso modo, questa versione sarebbe una forma attenuata di ciò che chiama "monismo di priorità". Il monismo così inteso include quasi tutte le metafisiche occidentali, con poche eccezioni: forse Bruno, James, l'ultimo Deleuze, Viveiros de Castro.

J onathan Schaffer (2018)

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definizione vere e inalterabili4 • Un sistema umano può invece cambiare e anche degenerare (ad esempio per invecchiamento), ma resta la possibilità di tradurre le rappresentazioni così ottenute nel linguaggio fìsicalistico di base, introducendo un quoziente individualizzato per correggere la variazione, in tal modo ridefinita come distorsione. Così, l'incapacità di mettere a fuoco gli oggetti a distanza non è un "punto di · vista" personaìe sul mondo, ma un disturbo che può essere corretto per via chirurgica o protesica. Un buon modello di tale correzione è l'equazione personale nell'astronomia pre-elettronica (cfr. ad es. Schaffer 1988), che. quantifica lo scostamento di ciascun singolo osservatore dall'oggettività, e compensa anche la presenza di sistemi distinti all'interno del medesimo soggetto (vista, udito, tatto). Qui l'oggettività è un valore presuntivo; e in tal senso l'introduzione dell' osservazione strumentale elettronica non è altro che una realizzazione del codice suddetto. Talvolta il singolo soggetto "degenerato" non sarà in grado di applicare il quoziente di correzione, ma potranno farlo per lui soggetti esperti e titolati a explain away, come si dice, cioè dissolvere il disturbo "spiegandolo". Questi soggetti (che siano medici o etnologi) assumono allora la posizione di soggetto trascendentale. In sintesi, la conoscenza ideale è una relazione uno-uno: un soggetto che si affaccia su un unico mondo. Questo affacciarsi è di natura osservazionale, cioè suppone la separazione di soggetto e oggetto. La pluralità degli esseri è compensata dal fatto che il soggetto ne inquadra uno solo alla volta, nel senso che ogni acquisizione di conoscenza complessa dev' essere riducibile a una somma di cognizioni singole, come ogni . computazione è riducibile al calcolo effettuato da una macchina di Turing, che compie una sola operazione alla volta; La variabilità e la pluralità del soggetto sono ammesse, ma contenibili: se il soggetto si altera o si muove, ha comunque un modo per tornare concettualmente a casa, traducendo nel 4

La posizione di Descartes in questo intreccio, più complessa di quanto si pensi, è spiegata bene da Edmund Heller (2006).

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· linguaggio di base o in un linguaggio traducibile in esso le cognizioni acquisite nel corso del suo spostamento. In realtà, in questo modello il mondo potrebbe perfino essere definito in termini di movimento, o meglio di limitazione del movimento. Un moto - èfa premessa -·non è pensabile senza uno spazio in cui sia contenuto, perché il moto definisce lo spazio nel percorrerlo. Una definizione di mondo in chiave monistica potrebbe allora essere la seguente:. W è un mondo se e solo se partendo da W e muovendomi con qualunque mezzo a mia disposizione mi troverò in W alla fine del movimento. Da questo si può inferire la proposizione che ognuno di noi ha (accesso a) un solo mondo inteso in questo senso, perché ogni tentativo di uscirne e/o accedere a un altro mondo ricade nella definizione di "mezzi a mia disposizione". Come si può intuire, questa proposizione ha la cogenza di un argomento or;i.tologico (nel senso di Anselmo): cioè mette in scena la necessità di qualcosa a partire unicamente dalla definizione che ne diamo. Non è in senso assoluto una prova del monismo, dato che non è priva di presupposti: l'unità e continuità tanto del soggetto quanto dello spazio definito dal movimento sono ipotizzate. Ma l'idea che il mondo è uno (M) resta·una tesi forte, connessa con assunti profondi del nostro modo di pensare, e non è facile abbandonarla. Per esempio, non sembra possibile confutarla semplicemente dislocandosi - perché c'è quel "si", quel me stesso che mi porto dietro quando vado in altri mondi. Cartesianamente, la continuità del cogito fa sì che il semplice dislocamento in realtà confermi Md, perché allora sarò proprio io a collegare i luoghi che attraverso facendone un solo mondo. Potrei arrivare in un luogo in cui non c'è assolutamente niente di quel che c'era nel luogo di partenza: niente tranne me stesso. Non posso arrivare in un luogo in cui non ci sono io, perché il mio atto di arrivare ha la forma logic;1 "io arrivo". Questo è effetto del linguaggio che usiamo, che è fatto in questo modo: il dispositivo è quindi tautologico, e il monismo non racconta niente che non potessimo già dedurre dal linguaggio che usiamo. C'è però un aspetto teorico da chia-

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rire, prima di generare equivoci. L'apparente inevitabilità di Md deriva dal fatto che, muovendomi, io arredo lo spazio in cui vengo a trovarmi. Se "ontologia" vuol dire "che cosa c'è nel mondo", allora è difficile sottrarsi a questa conclusione. Ma se è così bisogna ammettere che ci stiamo ponendo in una prospettiva in cui interrogarsi sull'essere significa piuttosto interrogarsi sugli enti: sull'arredamento del mondo. Ogni cultura, ogni linguaggio s'impegna, nella sua stessa terminologia, ali' esistenza di certi enti piuttosto che altri: questo è il suo "impegno ontologico" (Quine 1961). Nella prospettiva di Heidegger, tuttavia, un interrogativo come questo è ontico, non ontologico5. Che io sappia la "svolta ontologica" non si chiede che cosa significa essere, e assume senza troppe analisi la prospettivà ontica. Nel seguito, accetterò questo gioco e, quando parlerò di ontologia, intenderò all'incirca "quali enti arredano il mondo" 6. Per superare l'argomento che fa perno appunto sull' arredamento del mondo occorre dislocare anche il "si", cioè pervenire a una trasformazione del soggetto e del suo sguardo. Si potrebbero esprimere le condizioni cli questo tentativo rovesciando la definizione di prima: un mondo W è un altro mondo se e solo se andando in \V non sono più io. Il nostro linguaggio sembra opporsi a questo: com'è possibile non essere sé stessi? E qual è il soggetto di "andare" in questa proposizione? Perché questo sia intelligibile bisogna che il 5 Qui è possibile solo un cbarimento molto sintetico di questi termini. Ontico è il catalogo degli enti, di "ciò che vi è", come appunto s'intitola ì'influente saggio di Quine (1961). Nel linguaggio di Heidegger, "ontologia" è invece l'interrogazione del discbudersi o venire ali' essere; anziché chiedersi che cosa significa essere, la metafisica occidentale ha inventariato gli enti stabilendo di volta in volta "che cosa davvero contiene" il mondo: idee per Platone, sostanze per Aristotele, monadi per Leibniz, materia per il fisicalismo, ecc. 6 Carlo Severi (2013) ha giustamente messo in guardia dal considerare le cosmologie o visioni del mondo melanesiane o amerindie come sistemi coesi di pensiero, tantomeno come ontologie nel senso parmenideo. Versioni più recenti della svolta ontologica sembrano proporsi come studi "trascendentali" sulle "condizioni di possibilità della conoscenza antropologica" (Pedersen 2020, p. 633). Anche questo credo sia un equivoco: direi che si tratta piuttosw di una sorta di metafisica descrittiva (Strawson, 1959) applicata ai discorsi nativi.

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·soggetto - il focus dell'identità - non sia l'io-penso, la tenue soggettività trascendentale che collega il filo di ogni momento della coscienza. Bisogna decidere che l'io trascendentale è · secondario rispetto all'io che interagisce momento per momento coll'ambiente e ne è definito. Il focus dell'identità viene spostato ih un io più denso, che è carico di habitus e di partiti presi, tra cui anche teorie e modelli conoscitivi, e che è suscettibile di essere trasformato nel momento in cui negozia la propria cognizione dell'ambiente. Nemmeno questa, certamente, è una prova del pluralismo, anzi bisognerebbe evitare di farne un argomento ontologico .di cogenza anselmiana, perché, se spostarsi vuol dire sempre ridefinirsi, la pluralità diventa altrettanto poco interessante quanto il monismo. Occorre collocare il primato nell'esperienza vissuta, lasciare che la storia della nostra interazione col mondo o i mondi si racconti da sola. Qualche volta l'esperienza sarà di trasformazione: è così almeno che intendo (lo dico molto sommariamente) l'appello alla metamorfosi che fanno alcuni antropologi, che si autodefiniscono con un richiamo esplicito all'ontologia e forse talvolta propongono un argomento ontologico che sarebbe bene evitare. Ma in un certo senso la metamorfosi è quel che fa l'antropologia stessa. Non pretendo di dire che l'ha sempre fatto, né che lo faccia in modo compiuto, ma diciamo che è arrivata a proporsi di farlo, attraverso un percorso che ha avuto i suoi tempi. (Ne segue che non credo che sia in atto una vera e propria svolta nell'antropologia di oggi, o se c'è è stata preparata da lungo tempo.) In ogni caso, dovrebbe essere chiaro perché la conoscenza antropologica è di primaria rilevanza in questo contesto: perché è da sempre una conoscenza in movimento, che si pratica dislocandosi e articolando descrizioni dense (la versione di Geertz è solo una di esse), e assumendo piuttosto che risolvendo la distorsione sistematica dovuta al carico individuale portato con sé dal ricercatore. In breve, l'antropologia ha già dovuto affrontare i problemi che abbiamo messo in luce fin qui, e, se non ha messo consapevolmente in discussione la continuità del cogito, di fatto l'ha sfidata

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ripetut~ente (e rion importa se non ha sempre vinto la sfida). E quindi quantomeno un terreno interessante per una critica filosofi.ca al complesso R+Md. A proposito di questo, ci si potrebbe chiedere: il rappresentazionalismo implica il monismo? Ho detto in precedenza che il collegamento è "naturale", ma è obbligato? Probabilmente no. È possibile cioè sostenere che ci formiamo rappresentazioni con funzione conoscitiva, ma che queste rappresentazioni non hanno un importo ontologico, cioè non sono raffigurazioni di una realtà sottostante. Un esempio può essere il relativismo filosofico, da non confondere con ciò che la "svolta ontologica" chiama relativismo, probabilmente avendo di mira il culturalismo antropologico del primo Novecento: cioè all'incirca una concezione per cui esiste una realtà unica e universale, la quale è (di fatto o per principio) conosciuta e descritta solo attraverso punti di vista fra loro alternativi. Non ho modo di approfondire qui la questione, ma questa non è una posizione che potrebbero sottoscrivere Protagora o Feyerabend. Il relativismo filosofico classico non è realista, e di conseguenza è indeterminato rispetto al monismo, anzi rispetto al problema stesso dell'impegno ontologico. Può permetterselo proprio perché il suo motore non è la preoccupazione di mettere al sicuro la conoscenza: deve quindi affidarsi a un' epistemologia pragmatista che si costituisce in termini di utilità e non di adeguatezza alla realtà. In questo senso non è giocoforza o rendere posizione rispetto all'esistenza o meno di uno o più mondi reali7. Oggi il relativismo in filosofi.a è oggetto di 7 Un'epistemologia dell'"utile" (chrestos) è difesa da Protagora (per bocca di Platone) in Teeteto, 167 cl, e costituisce uno dei principali assi di contatto tra rèìativismo e pragmatismo, che pure sono due cose distiJ1te. Joao de Pina-Cabral osserva che un antropologo non è interessato a "negare il mondo" come fanno certi "metafisici" (2017, p. 3), dato che i soggetti studiati in etnografìa non lo fanno. Prçibabilmente è ragionevole che tra antropologi e metafìsici le poste in gioco siano diverse; ma nella misura in cui c'è una convergenza tra relativismo e pragmatismo, l'indicazione da ricavarne dovrebbe essere appunto quella di un ·disimpegno dalla metafìsica. Perciò, se in etnografi.a dovesse presentarsi un soggetto che nega il mondo, il relativismo sarebbe preparato a dargli un senso.

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· anatema da parte di un po' tutti, e forse per questo quasi nessuno si è dato la pena di correggere l' equivoca8. Questa peraltro non è l'unica possibilità di abbando~ nare Md conservando un modello rappresentazionale. Ad esempio si può sostenere che le rappresenta:zioni di soggetti diversi identificano realtà diverse incomunicanti tra loro. Questa in effetti è una posizione a cui si avvicinano molto sia il "multinaturalismo" di Viveiros de Castro sia gli autori del testo che ha scatenato la "svolta" (Henare, Holbraad, Wastell 2007), quando sostengono che i concetti creano (o meglio "sono") "cose", esistenti in realtà distinte dalla nostra, per esempio in mondi in cui la polvere è potere. È vero che questi aÙtori si premurano di .affermare che i concetti non sono rappresentazioni, perché appunto creano e non raffigurano; ma di fatto con ciò stanno dando qualità archetipica alle idee, nella miglior tradizione che abbiamo visto sopra. Il concetto di concetto, anche nell'ambito di una richiesta di pluralità ontologica, non sembra affatto così . chiaramente estraneo al rappresentazionalismo. Tanto che in un recente articolo Mark Risjord rimprovera a Holbraad . e Pedersen di esservi rimasti ancorati, "sostituendo meramente una forma di rappresentazione con un'altra" 9 • In breve, non ci sono ragioni cogenti di rappresentare le rappresentazioni sempre e solo come punti di vista diversi su un'unica realtà di base. Un modello che non privilegia la nozione di realtà o un modello disposto ad ammettere più realtà potrebbero andare altrettanto bene. D'altra parte, nemmeno Md implica R. Le epistemologie alternative al rappresentazionalismo che si sono profilate di recente, in particolare le teorie della cognizione incorporata e attiva (Newen, De Bruin, Gallagher, 2018), recuperano

un

8 Si veda però perspicace articolo di Terence Rajivan Edward (2016, pattie. 146 ss.) che descrive un'epistemologia simile a quella che ho accennato, senza esplicitamente abbracciarla e senza usare il termine "relativismo", ma citando Kuhn al riguardo. 9 Risjord (2020, p. 597). Beninteso, la critica di Risjord non fa leva sul carattere archetipico dei concetti ma su altri aspetti.

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idee fondamentali della fenomenologia, del pragmatismo e della psicologia ecologica e per lo più considerano un solo mondo, un unico ambiente in cui avviene la cognizione (non direi che siano vincolate a questa premessa, ma finora non mi risulta che l'idea di una pluralità ontologica giochi un ruolo nell'ambito di queste prospettive). E in antropologia, PinaCabral, che ha importato da Donald Davidson il concetto di monismo anomalo (all'incirca, la tesi per cui tutto è fisico, ma ciò non implica che tutto può essere ridotto a una descrizione fisica), nota del tutto giustamente che esso non implica, o forse esclude, "la pretésa di poter avere accesso all'unica e sola Vera Ontologia" (2017, p. 24) 10 • Non posso trattenermi su questo, ma prima facie è possibile lavorare su un solo mondo senza pensare che la conoscenza di esso sia fatta di (e mediante) rappresentazioni che lo rispecchiano. Risulta quindi che R e Md sono logicamente indipendenti. Se è così, queì collegamento non è tanto "naturale" quanto storico, e proprio per questo tanto più rilevante dal punto di vista delle scienze umane: la rarità e la novità delle alternative a esso, che ho appena menzionato, suggeriscono già la portata dell'influenza che il complesso R+Md ha avuto sul nostro pensiero scientifico e filosofico. Nel seguito non tornerò sul monismo. È tempo invece di tentare un esame più disteso del rappresentazionalismo. 2. La via delle idee

Un chiarimento del rappresentazionalismo richiederebbe innanzitutto una precisazione di cosa s'intende per "rappre- · sentazione (mentale)" in filosofia. Qui sono possibili solo alcuni cencrii. Il termine è di origine scolastica, tanto che i fondatori stessi di ciò che oggi chiamiamo "rappresentazionalismo" - avversari della vecchia filosofia delle università rn Per un diverso uso di Davidson in teoria antropologica cfr. anche Palecek e Risjord (2012).

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· gli preferirono inizialmente il termine platonico "idea". Nella tradizione rilevante per la nostra discussione, quella che include Descartes, Locke e Kant, le idee sono "tutto ciò che è nella nostra mente (esprit) quando concepiamo una cosa, non importa in che maniera la concepiamo" 11 . Per apprezzare il pieno impatto di queste semplici parole bisogna però risalire alle loro condizioni: perché ci sono alcune mosse fondamentali, alcuni assunti che rendono plausibili, anzi necessarie, queste entità. La prima mossa è la separazione di soggetto e oggetto, una separazione che prosegue subito alla ricerca di ciò che è propriamente soggettivo all'interno del soggetto stesso: la mente. Il primo dualismo ne richiama cioè un secondo più specifico: quello mente/corpo, o in termini più strutturali, quello interiorità/esteriorità, con le sue radici agostiniane. Da questa sequenza di mosse deriva la grande metafora architettonica della mente come spazio arredato, contenitore di contenuti; a cui si aggiunge, a partire quantomeno dalla psicologia settecentesca di Herbart, l'idea di una "soglia" che le occorrenze psichiche devono oltrepassare per entrare in uno spazio ulteriore, quello di cui si è coscienti: la coscienza, scrivono amabilmente Bruner e Feldman (1990, p. 232), "come atrio ben illuminato al centro del terripio chiamato mente". Così le idee sono contenuti elementari della coscienza che hanno la capacità di entrare in questo atrio e stare per un oggetto o uno stato di cose, ed è questa la capacità descritta dal termine "rappresentazione". La nozione del rappresentare in questo senso è molto letterale; quasi non ha bisogno di tecnicizzazione per entrare nel vocabolario filosofico. "Rappresentare", come verbo nelle lingue europee moderne, ha avuto dapprima il significato di "far comparire" fisicamente (per esempio qualcuno davanti a un giudice), poi "richiamare alla mente", e in seguito "stare per qualcosa che non è presente" 12 • l\;1a la tendenza alla sovrappo11

Descartes a Mersenne, luglio 1641, in Descartes (1899, pp. 392-393). GDLI, s.v. "rappresentare". Sostanzialmente corrispondente sembra essere il tragitto dell'inglese represent (cfr. Williams 1983, s.v. "Representative"). Il francese représenter già nel Duecento è attestato nel senso di "stare per" (Littré, s.v. "représenter"). 12

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sizione di questi tre passaggi è molto forte, è la nozione filosofi.ca di rappresentazione ne è forse la miglior testimonianza. I contenuti della mente "vanno a prendere" le cose del mondo esterno, le presentano alla mente, e nel contempo sono rappresentanti delle cose all'interno della coscienza. Che cosa motiva quest~ scelta teorica? Perché servirsi di un rappresentante o intermediario, mettendo a distanza l'oggetto stesso? Questa strategia indiretta sembra una mossa che qsomai indebolisce.l'efficienza cognitiva, se non la rende impossibile: tanto che il paladino del common sense, Thomas Reid, attaccherà la "via delle idee" come una caduta nello scetticismo 13 , e oggi forse diremmo relativismo, dato che non c'è garanzia prima facie che le rappresentazioni nella mia mente siano le stesse che sono nella tua, anzi esse sono quantomeno numericamente distinte. È cruciale per la nostra discussione comprendere che questa scelta è deliberata, e finalizzata ad assicurare la certezza. Intanto, la teoria intermediaria della cognizione è la chiave attraverso cui Descartes si libera dall'ormai imbarazzante psicologia scolastica, per la quale, nella percezione, "delle specie intenzionali vol[a] no da[ll'oggetto] sino all'occhio" 14 • La visione aristotelica funziona perché c'è letteralmente qualcosa in comune tra la cosa e l'anima. Nella teoria della visione e di conseguenza nell'intera epistemologia cartesiana, tra oggetto e mente non c'è comunanza né somiglianza, ma appunto rappresentanza. I.: epistemologia aristotelica credeva alla sensazione, quella cartesiana solo alla ragione. L: oggetto è cognitivamente nullo nei suoi aspetti sensibili, mentre è definito solo dai suoi aspetti matematizzabili, estensione e movimento, che sono afferrabili dalla mente senza residui né ambiguità perché coincidono con operazioni mentali ottenibili per via unicamente sintattica. Una lunghezza n nella mente è esattamente idèntica a una Cfr. Reid (2002). L'espressione "the way of ideas" fu largamente usata dai critici secenteschi di Locke; lo studio classico su questo è Yolton (1956). 14 Descartes (2013, p. 1231). La teoria cartesiana della visione è interpretata magistralmente da Merleau-Pontv (1960; trad. it. 1989). Per uno studio sintetico cfr.Judovitz (1993). · 13

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· lunghezza n nella realtà, e in entrambi i regni è la metà di 2n, il doppio di n/2, con tutte le altre concepibili trasformazioni che prendono significato unicamente dalle regole di manipolazione dei simboli in gioco. Circa una lunghezza o una velocità non c'è altro da sapere che il loro valore numerico; questa sembra un'affermazione epistemologica, ma individua subito un impegno ontologico: "Per Descartes (come per Galileo), un corpo materiale non è altro che ciò che la misura ci permette di dirne" (Guenancia 2015; corsivo mio). La conoscenza si risolve così tutta all'interno della mente: "il metodo cartesiano è fondamentalmente un'auto-ispezione della mente [ ... ] poiché la mente è simultaneamente ciò che conduce la ricerca e ciò che è ricercato" 15 . La nozione di rappresentazione è perfettamente funzionale a questo programma, perché non ha doppi fondi, non riserva sorprese, non ha bisogno di rimandi a cose esterne anche se è causata dalla cosa esterna. A questo proposito è da tener presente che, pur svalutando in generale la sensibilità, Descartes considera comunque il tatto più veridico della vista, proprio perché nel caso del tatto è fuori questione qualunque somiglianza tra l'oggetto e la rappresentazione: "il modello cartesiano della visione è il tatto", scrive Merleau-Ponty. Dopo aver separato soggetto e oggetto, l'epistemologia cartesiana ha bisogno di unificazione, o rischia il dissolvimento. Per questo l'ideale della visione è l'aderenza tattile. La rappresentazione, in quanto oggetto interno, risponde all'esigenza di unificazione: massimizza il contatto colla mente perché ne fa parte. Da questo punto di vista l'empirismo d'età moderna non cambia prospettiva. La teoria intermediaria della cognizione rimane intatta da Locke a Hume a Russell al cognitivismo contemporaneo, così come perdura la metafora spaziale della mente/contenitore e il principio per cui conosciamo solo ciò che è presso/ dentro di n,oi. In breve, la rappresentazione rimane una relazione a due posti: un 15 Ivi. Si noti che Guenancia è un forte difensòre della "filosofia della rappresentazione" (cfr. Guenancia 2009).

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soggetto (una coscienza) si relaziona a (è conscio di) un oggetto in quanto lo rappresenta (Schmid 2014, p. 10). La separazione di soggetto e oggetto è il motore segreto di tutta la corrente centrale dell'epistemologia moderna, che si può leggere come un immenso sforzo per colmare questo diva. rio, ossia sempre di nuovo il divario aperto da Parmenide tra apparenza ed essere. La distinzione lockiana tra qualità primarie e secondarie, e la conseguente espulsione di queste ultime dall'ordine della conoscenza propriamente detta, porta a compimento una tendenza presente nella metafisica occidentale sin dall'atomismo democriteo. Essa certifica la separazione fondamentale, dato che le qualità secondarie sono quelle che un oggetto possiede soltanto in connessione col soggetto: le qualità del gusto, il colore, l'odore, e a maggior ragione le qualità terziarie, quelle che danno luogo a emozioni o che sono soggette a valutazioni. A differenza di una lunghezza, un gusto dolce al palato ha una. relazione semantica solo approssimativa e congetturale col gusto che "ha" Ìa cosa stessa, posto che abbia senso questa espressione. Tutt'al più nella cosa ci sono caratteristiche meccaniche (primarie) che possono causare l'esperienza del dolce, ma nessuna comunanza semantica tra i due regni è possibile. A maggior ragione la malinconia di un tramonto o la maestà di una montagna sono qualifiche incerte, senza una collocazione ontologica precisa, di cui è consigliabile la rimozione dalla sfera cognitiva. Il mondo non è malinconico o maestoso, ma può causare in noi questi stati d'animo, la cui ontoìogia è esclusivamente interna. Dall'espulsione delle qualità secondarie e terziarie risulta una realtà che è intelligibile per principio e nel contempo semanticamente ed esperienzialmente inerte. Per questo all'altro capo deve stare un soggetto titolare dell'unica possibile fonte d'intelligibilità e dell'unico possibile potere significante, la razionalità. Ed è interessante notare che una delle critiche più potenti a questa ontologia, quella di Dewey, s'iscrive spesso in contesti discorsivi tratti dall'antropologia (del suo tempo): "Il mondo [delle tribù germaniche] è uno scenario di rischio; è

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· incerto, instabile, in una maniera inquietante. [. .. ] Il mondo è precario e periglioso" (Dewey 1981, pp. 43-44), e non solo l'esperienza vissuta del mondo. · Non è il caso di ripercorrere qui lo sviluppo del dualismo/meccanicismo occidentale, che è stato oggetto di ricostruzioni già classiche (Merchant 1980). È utile notare solamente che le teorie della cognizione prevalenti nel secondo Novecento aggiungono due cose solo parzialmente o potenzialmente in contrasto tra loro: da un lato il riferimento al linguaggio, che fornisce il modello più conveniente per la funzione rappresentativa; dall'altro il riferimento al cervello e ai suoi stati, peraltro presente anche nel cartesianesimo. Così per un verso abbiamo una proliferazione di modelli linguistici per descrivere la funzione della rappresentazione, beninteso senza che di questi modelli venga riconosciuto lo statuto metaforico: ad esempio dire che certi stati mentali codificano stati del mondo, o che hanno una funzione simbolica, o godono di proprietà semantiche, o anche intenzionali16 • Per l'altro verso, esiste una tendenza "eliminativista" che ipotizza di far a meno delle rappresentazioni come enti intermedi, per assegnare proprietà psicologiche, e in particolare epistemiche, direttamente agli stati cerebrali (Churchland 1989). La complessità dell'argomento non consente qui una trattazione, ma è chiaro che l' eliminativismo di per sé non è ancora una posizione filosofica completa: ha di fronte a sé due strade,· quella di superare il rappresentazionalismo, o quella di ripeterne abbastanza grottescamente lo schema. In altri termini, dal punto di vista epistemologico un modello cerebrale rischia di essere str~tturalmente analogo a un modello mentalerappresentazionale, se è inteso ad assolvere le stesse funzioni. Un'operazione teorica condotta in questi termini condurrebbe ancora una volta a supporre che tutta la nostra 16

Il cognitivismo per lo più non distingue tra proprietà simboliche e proprietà intenzionali: cfr. ad es. Fodor e Pylyshyn (1988, p. 7); la distinzione è invece strategica per la psicologia descrittiva di Brentano e la fenomenologia.

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conoscenza empirica (e a maggior ragione quella "razionale") passa attraverso le nostre teste. Vale a dire, tutto quel che sappiamo del mondo lo sappiamo in quanto ci troviamo in un determinato stato, poco importa se sia uno stato fisico o simbolico. E per converso, se c'è qualcosa fuori di noi che non può corrispondere a un "nostro" stato, non ne sapremo mai nulla, e poco importa se questa corrispondenza sia una codifica o un'istanziazione d'altro genere. Del resto anche il mentalismo utilizza un chiaro apparato metaforico di tipo fisico: si dice in modo pressoché sinonimico che l'informazione è codificata oppure immagazzinata, depositata, nonché recuperata, trasferita, distrutta. In questo senso, elimin.are il fantasma nella macchina non serve a molto se la macchina resta qualcosa che funziona isolatamente; e se invece non è chiusa h7. sé stessa ma in interazione coli' esterno, allora non è una macchina ma un corpo organicamente inserito nell'ambiente. Con ciò si porrebbero le basi per un abbandono del rappresentazionalismo, e questo esula dal presente discorso 17 •

3. Il rappresentazionalismo nelle scienze cognitive e nell1antropologia Per quanto sommaria, la trattazione precedente dovrebbe almeno costituire una base per comprendere. l'impatto del rappresentazionalismo sulle scienze sociali di oggi. Se è così, dovrebbero tanto più risaltare anche l'ambiguità e l'incompletezza con cui ci si serve del termine in gran parte della letteratura in questione. È il caso di distinguere alcuni modi · in cui è usato il termine. 17 N aturalmeme non ogni concezione ecologica fa a meno del rappresentazionalismo. Il cognitivismo ecologico di Ulrich Neisser, ad esempio, riprende aspetti della psicologia ecologica di Gibson, ma insiste sul fatto che il soggetto · deve "possedere uno schema anticipatorio in grado di accettare i.riJormazioni di tipi determinati e dirigere l'esplorazione in modo da rendere disponibili ulteriori informazioni'' (N eisser 1977, p. 27).

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1. Il primo senso (R1) è implicito in quanto abbiamo detto :finora. Il suffisso -ismo vale già a indicare che la nozione di rappresentazione appena descritta diventa il perno di una teoria della mente, iscritta peraltro in un sistema metafisico complessivo, un'ontologia dualistica. In sintesi, il rappresentazionalismo così inteso è quindi la concezione per la quale l'attività della mente (non solo quella cognitiva, ma va almeno segnalata la tendenza a schiacciare la vita mentale sull'attività cognitiva) consiste sostanzialmente nell'acquisizione, nell' elaborazione e nello stoccaggio di rappresentazioni intese nel senso descritto. In alcune versioni, per esempio quella diJerry F odor, è specificata anche una fase di in/ormation retrieval o recupero dell'informazione dal deposito in cui è immagazzinata. Il modello di questo sistema di operazioni è il computer come mezzo per manipolare informazioni; e, come per altre grandi metafore antropologiche del passato (il vasaio dell' antichità, l'orologiaio del meccanicismo settecentesco), questo modello non è affatto sottaciuto ma apertamente rivendicato come riferimento direttamente chiarificante. Menzionando la macchina di Turing, in precedenza, stavo divagando solo parzialmente: uno dei primi modelli computazionali della mente, quello di Miller, Galanter e Pribram (1960), postula la riducibilità di ogni operazione mentale a una sequenza più o meno lur1ga di unità TOTE (test-operate-test-exit). Il modello computazionale è l'ipotesi che sta dietro a certe speculazioni teoriche o esperimenti mentali (il cervello in una vasca che riceve stimoli artificialmente generati: cfr. Barman 1973 ), ma anche a un certo immaginario artistico-tecnologico (il download della mente, da The Matrix a Dollhouse) in cui si può osservare molto bene come tale modello funga da narrazione esplicativa18 • Posto che i contenuti hanno una forma linguistico-simbolica, e che ogni conoscenza del mondo passa per la scatola cranica, allora in linea di principio la mente può essere cancellata, riscritta, trasferita a piacere. Questo comporta una specie di franchigia narrativa per la 18

Sui problemi teorici connessi a quest'ipotesi cfr. Cappuccio (2017).

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rappresentazione come entità autonoma: si può raccontare la storia di un'esperienza vissuta senza raccontare la storia di un corpo, né di un soggetto-persona. Questa possibilità si fonda su una proprietà importante attribuita alle rappresentazioni: queste infatti sono pensate come portatrici di significato intrinseco, e non dipendente da un atto arbitrario di stipulazione o donazione di senso da parte di qualcuno in carne e ossa. È questo l'ultimo residuo della proprietà archetipica delle idee divine: la rappresentazione proposizionale ha un'intenzionalità (in-tende lo stato di cose) 19 intrinseca, e non ha bisogno di prenderla a prestito dal soggetto. Deve esistere infatti un "linguaggio del pensiero" o "mentalese" (Fodor) che a dilierenza del linguaggio di superficie (la lingua storicamente data, o "linguaggio naturale") cattura con precisione, o meglio s'identifica con, i processi mentali. Senza questa codifìca interna non sarebbe possibile la comprensione, dato che la comprensione è un programma che recupera l'informazione contenuta in una proposizione di superficie traducendola nella sua forma grammaticale profonda. I contenuti mentali proposizionali veicolano dunque i processi di significazione in maniera immediata: "Le rappresentazioni [ ... ] devono essere anche di uno specifico formato: devono essere formule del Mentalese, enunciati mentali la cui sintassi dà luogo alla semantica combinatoria del contenuto che essi veicolano" (Ferretti 2014). Il significato inteso sta già nella mente, inequivoco e derivante unicamente dalle proprietà rappresentative dei segni mentali coinvolti, che sono segni-tipo (types). Il problema dei parlanti è conservare per quanto possibile questa struttura nelle lingue, che sono segni-realizzazione . (tokens), di modo che gli ascoltatori possano decodificare il token ritraducendolo nel mentalese: Si tratta dell'accezione scolastica di intentio, che traduceva il termine ma'na di Avicenna per indicare ciò che la mente ha "di mira", cioè ha per oggetto. Quest~. è l'accezione ripresa dalla psicologia di Brentano e conseguentemente da HusserL Il significato è quindi più ampio di quello di "intenzione" nel linguaggio quotidiano, con cui ancora viene i:alvolta confuso specialmente nelle scienze sociali. Per un chiarimento cfr. Duranti (2002). 19

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La comunicazione verbale è possibile perché, quando U è la realizzazione (token) di un tipo linguistico in una lingua che entrambi comprendono, la produzione/percezione di U è in grado di produrre un determinato tipo di corrispondenza tra gli stati mentali del parlante e dell'ascoltatore (Fodor ~975, p. 103 ).

Si vede chiaramente che l'argomento di Fodor, e alla fin fine di tutte le teorie rappresentazionali della mente, ha la forma che in filosofia è detta trascendentale: sappiamo che la comunicazione (la cognizione, la comprensione) riesce; a quali condizioni ciò è possibile? La risposta di Fodor è che die. tro il linguaggio esperibile· ce ne dev'essere un altro, che non presenta problemi d'interpretazione: una specie di motore immobile. Un enunciato di una lingua può essere ambiguo, ma il suo "messaggio" o contenuto è per definizione privo di ambiguità, perché sciogliere un'ambiguità vuol dire risalire alla struttura mentale della significazione. Comprendere un enunciato è averne nella mente il messaggio, ma questo messaggio è a sua volta di natura linguistica, è un messaggio in mentalese, benché non si possa identificare se non attraverso la sua formulazione in una lingua storicamente data20 . Ed ecco perché la possibilità teorica del download della mente non è esclusa, dato che un download è una riproduzione di una stringa di simboli e comandi. È sulla base di questa soluzione a uovo-di-Colombo che la rappresentazione riesce a giocare il ruolo che l'architettonica della teoria le ha assegnato: quello di produrre condizioni sicure per la cognizione e la comunicazione. Bisogna ribadire, infatti, che R 1 non è "s9lo" una teoria della mente, ma della conoscenza stessa. E importante specificarlo, perché si tende a dar per scontata anche una concezione rappresentazionalista del rappresentazionalismo: all'incirca quella che nel dibattito si chiama a volte "concezione epistemologica della conoscenza" (Frega 2006, pp. 94 ss.), e che è proprio 20

Questa posizione, tipica del primo Fodor, è analizzata in chiave wittgensteiniana da Bruce Goldberg (1991): un linguaggio che non ammette l'ambiguità, obietta Goldberg, non è un linguaggio.

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quell'assunto che il relativismo, come indicato sopra, non adotta, per indirizzarsi invece verso una teoria pragmatica della conoscenza. Quello che si dà per scontato è quindi un modello che non solo rappresenta la mente come fabbrica di rappresentazioni, ma che funziona esso stesso come rappresentazione, nel senso che postula un principio di adeguazione ali' essere (ali' ontologia della mente). Se il modello si rivelasse non corrispondente alla realtà effettiva della mente se ne troverà un altro, ma resta il primato del modellare: resta l'idea che l'unico modo di significare è ospitare un referente che corrisponda o rispecchi una realtà. In questo caso il referente è appunto un modello teorico, quindi può essere mentale ma anche materiale, per esempio sotto forma di diagramma, formulazione verbale, ecc. Allora in effetti la relazione rappresentazionale non è a due, ma a tre posti: perché la relazione stessa, il modelio adeguativo, 1o specchio, si autonomizza e diventa un elemento del sistema. Di nuovo, l'ottenimento della conoscenza dipende dallo stato del sistema. Se il modello dovesse essere sostituito, il ri...1npiazzo sarà comunque un modello del conoscere. Ciò fa sempre parte del contratto capestro di cui la filosofia fatica a liberarsi: una volta separati l'essere e il conoscere, non si riesce più a tornare indietro, perché ogni ritorno sarà sempre visto come un tentativo di conoscere meglio l'essere. Le variabili in considerazione restano di natura esclusivamente cognitiva, e le condizioni della loro validità restano le stesse, così come resta invariata la posta in gioco, che è la certezza piuttosto che l'utilizzabilità (Frega 2006, p. 94). La rappresentazione realizza così una formidabile concentrazione di caratteristiche: è causata dalla cosa, è codificata linguisticamente, è comunicabile in linea di· principio senza residui, è reale e razionale.

2. L'escursione lungo la via delle idee è stata prolungata, ma credo necessaria proprio perché la mancanza di una comprensione genealogica del rappresentazionalismo non giova alla chiarezza del posizionamento teorico in antropologia. Di fatto non sono molti gli antropologi che si sono confrontati

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· direttamente con R 1 nella sua struttura argomentativa. Influenti critiche dell'antropologia cognitivista, come il celebre Three in One di Tim Ingold (2003 ), si concentrano piuttosto sulla concezione dei moduli cognitivi come qualcosa d'innato e derivante da un processo evolutivo che sul senso e la struttura del rappresentare. Per dirla in modo molto semplicistico, qui il bersaglio di Ingold è più un certo tipo di naturalismo che di culturalismo. Se guardiamo invece a usi più specificamente antropologico-culturali della qualifica di "rappresentazionalismo", solitamente considerato come qualcosa di fuorviante o comunque da superare, scopriamo di trovarci di fronte a un panorama singolare, in cui spesso si fa un rimando a volte esplicito a ~' eppure, osservando più da vicino, l'aggancio rimane generico e soprattutto non capitalizza e a volte ignora del tutto i caratteri salienti di ~ che abbiamo messo in luce. Quanto segue è il risultato del mio posizionamento osservativo esterno alla disciplina in un percorso non certo sistematico, che ha esaminato una sezione non certo esaustiva ma perlomeno trasversale della letteratura antropologica e ·di altre scienze sociali. Una certa dose di generalizzazione sarà inevitabile: Naturalmente le sfumature dell'uso antropologico del termine sono numerose, tuttavia non mi pare che siano intese dai proponenti come posizioni teoriche alternative. Le sole polemiche che ho riscontrato riguardano l'attribuzione della qualifica, nella sua forma più estremizzata, come accusa reciproca, per esempio tra Viveiros de Castro e Graeber. Questo forse testimonia un uso leggermente feticistico del termin.e, o quantomeno la disposizione a usarlo come un' etichetta tuttofare piuttosto che ad analizzarlo concettualmente. In primo luogo chiediamoci comunque che cosa s'intende per rappresentazionalismo in antropologia. A grandi linee, il termine "rappresentazionalismo" appare utilizzato il più delle volte per indicare, beninteso contrapponendovisi, l'assunto che una cultura sia costituita da un sistema di simboli, credenze e modi di rappresentare il mondo. Questo (che indicherò con R) è soprattutto da intende-

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re come un modo d'identificare l'oggetto antropologico, di :fissare la direzione dello sguardo su "cosa conta in ultima analisi" in antropologia. Ad esempio G.E.R. Lloyd, uno storico della scienza che ha incrociato l'antropologia più volte e con largo credito, comincia un suo testo divulgativo sulla "visione del mondo" della Grecia antica chiedendosi: "Quali erano le convinzioni degli uomini e delle donne dell'antica Grecia? Come vedevano il mondo nel quale vivevano e se stessi al suo interno?"; e si rammarica di non avere metodi empirici "per scoprire in che cosa credessero gli antichi Greci" (Lloyd 1996; trad. it. 2007, p. 26). Naturalmente da questo non si può evincere direttamente che per Lloyd questa sia l'unica cosa che conta nel fare storia o altre pratiche delle scienze umane. Con buona pace di alcuni teorici che gravitano intorno alla "svolta ontologica" (vedi oltre), non c'è alcun rappresentazionalismo nel dire che i Greci o i Nuer credono, chi più chi meno, a certe cose e non ad altre, ed è perfettamente legittimo far di ciò un oggetto d'indagine. Si può criticare l'assunto che un Greco o un Nuer siano definiti da tali credenze, ossia che i processi cognitivi e le scelte individuali siano interamente determinati dal sistema delle credenze e predicibili in base a esso. Queste posizioni di solito si chiamano essenzialismo e determinismo, ma nessuna delle due è implicata dal semplice parlare di rappresentazioni. Per giustificare l'aggiunta del suffisso -ismo occorre un secondo passo: potremmo allora descrivere più precisamente ~ come la convinzione, implicita o meno, che studiare una data popolazione o gruppo voglia dire precipuamente venire a sapere che cos'hanno in mente o come "vedono" il mondo. E. che que~ta conoscenza abbia forza esplicativa: cioè, se i Nuer dicono che i gemelli sono uccelli, uno studio delle loro idee ci mette in condizione di stabilire che "in realtà non c'è contraddizione in tale affermazione; al contrario essa appare del tutto sensata e perfino vera a chi si rappresenta [presents to hùnself] l'idea nella lingua nuer e nel quadro del loro sistema di pensiero religioso" (Evans-Pritchard 1956, p. 131). In generale l'atteggiamento di Evans-Pritchard è sicuramente uno dei

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più citati come esempio di rappresentazionalismo antropologica21, e a lungo ha incarnato il paradigma che permetteva di superare le precedenti soluzioni irrazionalistiche, che, come dice lo stesso Evans-Pritchard, sono esemplificate nel modo migliore dagli scritti di LévyBruhl, [per il quale] quando una popolazione dice che qualcosa è qualcosa d'altro, che però è differente, sta contravvenendo alla legge di non-contraddizione e sta sostituendo ad essa una legge corrispondente· al proprio modo di pensare prelogico, quella della partecipazione mistica. Spero di aver mostrato almeno che i Nuer non asseriscono un'identità tra le due cose [gemelli e uccelli] (Evans-Pritchard 1956, p. 140).

La comprensione del punto di vista nuer non accoglie la contraddizione ma la dissipa: è una comprensione migliore, una rappresentazione più adeguata della realtà. Una conseguenza ulteriore di ~ è che le differenze culturali sono differenze di rappresentazione del mondo; in altri termini, l'alterità consiste nel credere vere certe cose e non altre (e non solo è deducibile dall'assenso concesso a certi enunciati e non altri). Per i "relativisti", dice Holbraad, "tutto quel che c'è sono i diversi punti di vista: punti di vista sui punti di vista, rappresentazioni di rappresentazioni, cultura al quadrato, sparizione della natura" 22 . Le pratiche stesse non ci sarebbero se non fosse presente la credenza che sono efficaci, o dotate di qualche valore. (Bisogna almeno riconoscere, tuttavia, che anche per i rappresentazionalisti le pratiche e le esperienze possono avere un'efficacia specifica. Quando Evans-Pritchard dice che ha "imparato di più dai Nuer che a casa propria circa la natura di Dio e il travaglio umano" (1976, p. 245), evidentemente non vuol dire che i Nuer gli hanno insegnato la dimostrazione dell'esistenza di Dio a partire dal ca gita cartesiano). Detto sinteticamente, in questo quadro le persone fanno certe cose perché appartengono a una certa cultura, e appar21 Cfr. ad es. Risjord (2020); Holbraad e Pedersen (2017, p. 221). Più lontana nel tempo è la lettura critica di Clifford Geertz (1988). 22 In Venkatesan (2010, p. 182), corsivo mio. Cfr. PalecekeRisjord (2012, p. 5).

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tengono a una certa cultura nella misura in-cui hanno certe credenze e valori, che sono stati loro trasmessi per inculturazione e che fanno di essi ciò che essi sono, cioè persone appartenenti a quella cultura. Da un punto di vista filosofico, i problemi che mi saltano agli occhi in una simile impostazione sono innanzitutto due. Il primo è una certa circolarità logica, che risulta più evidente se si prende un esempio dall'archeologia, un settore che ha usato il termine "cultura" in un modo estremamente localizzato e nello stesso tempo oggettivante, in pratica con valore di (si direbbe in filosofi.a) definizione re~ile. Fino agli anni Sessanta, scrive un autore, l'"approccio dominante" era press'a poco questo: Le persone avevano nelle loro rrìenti delle idee - la loro identità culturale - che esprimevano facendo oggetti materiali. Così, un vaso Beaker - una delle forme di ceramica associate con la prima attività metallurgica in Gran Bretagna - era una rappresentazione della cultura di Beaker fatta da urta persona Beaker (Harris 2018, pp. 85-86).

Insomma un agente realizza un certo prodotto perché appartiene a una certa cultura (e dunque ha in mente certi schemi) e appartiene a quella cultura perché (è una persona tale che) fa quel prodotto. Sto dando un'immagine caricaturale, e certamente legata in parte anche alle limitazioni del sapere archeologico, ma la questione della circolarità va almeno posta. Non vi tornerò, dato che in questo momento m'interessano di più le reazioni a questa presunta impostazione. Dician10 che occorre fare attenzione al trasferimento all'antropologia di un modulo esplicativo che in archeolo-. gia è forse obbligato (anche se l'articolo citato fa parte di un'intera sezione dedicata a metterlo in questione), ma in antropologia è a. forte rischio di circolarità. In· archeologia l'aver prodotto un certo tipo di vaso può essere letteralmente l'unico elemento d'identificazione di un agente; in antropologia il letterale diventerebbe metonimico, e gli antropologi della "svolta" avrebbero ragione di individuare qui un caso flagrante del "non prendere sul serio" i soggetti.

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Il secondo problema che intravedo è più connesso alla nostra questione. Se lo sguardo si dirige verso la mente, stiamo evidentemente incrociando la via delle idee. Si presuppone che ci sia una mente e che contenga qualcosa, e questo qualcosa avrebbe funzione di explanans nel discorso antropologico. Se però questo qualcosa è di natura rappresentazionale nel senso di Ri> stiamo dando per risolto un problema che affligge il rappresentazionalismo fin dalla ghiandola pineale cartesiana: il problema di come una stringa di simboli produca l'azione. Il rappresentazionalismo antropologico (R) s'incarica così di incarnare quel che R 1 affida principalmente a un argomento per analogia tramite il modello computazionale, cioè suppone che gli atti interni alla: mente possano muovere il corpo "allo stesso modo" in cui i comandi di un software possono muovere un arto meccanico. Così la cultura non è solo una collezione di rappresentazioni, né solo un'immagine complessiva della realtà o Weltanschauung, ma una serie d'istruzioni dotate di potere causale sul comportamento nel mondo. Si noti come ~ fornisca a R 1 non solo una sponda, ma una prova, grazie a un sottile slittamento semantico, legato al duplice significato del verbo "modellare" (più chiaro in inglese; che ha termini distinti): il modello computazionale può affermare di rispecchiare il funzionamento umano proprio come (proprio perché) la mente modella il comportamento, come si vede dalle produzioni culturali umane. La cultura è insieme forma, forza, e riscontro empirico della forza di tale forma; è un dispositivo che scolpisc~ e che verifica. In breve, quando si dice che i sistemi di credenze/valori modellano i soggetti ci si potrebbe e dovrebbe interrogare sulle condizioni di possibilità di questo modellare. Lo fanno i critici di ~? Per quanto posso scorgere, una riflessione specifica non è ancor~ stata completata. La forma più estrema del rappresentazionalismo nelle scienze sociali sarebbe quella "sostitutiva", o - per usare l'immagine violentemente critica di cui si sono serviti in molti, a partire da Geertz e, con altra veemenza, Donna Haraway (2004), fino a Viveiros de Castro (e, come

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ho detto, ai suoi critici) - quella dell'antropologo come "ventriloquo" 23 . In questo caso sarebbero le produzioni linguistico-testuaii dell'antropologia stessa che diventano rappresentazioni delle rappresentazioni dei soggetti studiati. Questo andrebbe forse distinto come un terzo modo di usare la parola "rappresentazionaiismo" (R3), e alcuni antropologi sembrano ritenere che sia una conseguenza inevitabile per quanto inconfessabile di ~- Se le differenze culturali sono differenze di rappresentazione del mondo, allora il compito della scienza antropologica non può essere che q1,1ello di tradurìe nella nostra differenza specifica, decodificando le rappresentazioni e ricodificandole in un sistema rappresentazionale comprensibile a un pubblico occidentale. Con le parole di Pina-Cabral, che pure certamente non è ascrivibile alla svolta ontologica: [. .. ] si presuppone che il compito etnografico sia di catturare i concetti delle persone (di solito rappresentati, nei nostri testi, da specifici termini nativi che estraiamo dal contesto) e di spiegarli al nostro pubblico colto in modo tale che anch'essi possano "pensarli" (Pina-Cabral 2017, p. 59).

Non sono sicuro che questa sia una conseguenza necessaria di ~' ma certo ne è l'ultimo atto: in esso, almeno secondo i critici, traspare dietro il velo del relativismo la riduzione a un li__riguaggio epistemologicamente privilegiato. La pluralità non solo dei mondi, ma delle visioni del mondo è stata una digressione: il ruolo dello scienziato è di ricondurre tutto non solo al monismo ontologico ma anche a un linguaggio monologico, quello del fisicalismo. Il ventriloquismo certamente realizza la . convergenza tra~ e~' ma in maniera banale, semplicemente assumendo che la traduzione di credenze e concetti sia trasparente, cioè rappresentativa dei concetti originari (cioè ne sia una rappresentazione sufficientemente corretta). Conseguentemente la critica al ventriloquismo non ha bisogno di entrare 23

Viveiros de Castro (2015, p. 65). L'accusa di ventriloquismo è stataritorta contro Viveiros de Castro da David Graeber (2013).

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· nel merito di cosa siano le rappresentazioni, perché si limita a criticare la pretesa di correttezza della tràduzione. Torniamo adesso a esaminare la pertinenza del nesso da molti evocato tra R 1 e ~4. Riflessioni critiche nelle scienze sociali

Tra gli anni Settanta e Ottanta - l'epoca d'oro del postmoderno - una nozione di cultura di tipo~ è stata certamente messa in questione come conseguenza di una critica della capacità stess~ dell'antropologia di rappresentare l'oggetto assegnatole per eredità disciplinare, cioè appunto le culture, in maniera trasparente e scientificamente neutra. Si è trattato di un movimento che ha coinvolto le scienze umane a partire probabilmente da quelle, storiche, e in antropologia è culminato in un volume di forte impatto come Writing Culture (Clifford, Marcus 1986). In seguito, come accade, la pregnanza di questa cdtica si è in parte stemperata: a volte, in certe formulazioni standardizzate, "rappresentazionalismo" sembra essere usato come sinonimo di intellettualismo in generale, e più in particolare per deprecare un atteggiamento che privilegia in qualunque forma il linguaggio e specialmente la testualità. Un esempio: La scuola è quindi fondamentale nel disciplinare i giovani indirizzandoli verso modi di apprensione del mondo orientati in senso testm1Je. Certe forme istituzionali modellano poi ulteriormente la conoscenza accademica nella scuola in senso rappresentazionale e oggettifì.cato (Gjelstad 2016, p. 160).

Qui non sembra cli poter rinvenire un legame intelligibile con~: da un certo punto di vista un rappresentazionalismo alla Fodor potrebbe addirittura condurre a negare il primato del testo (il primato epistemologico spetta al rnentalese, che per definizione sta dietro il testo, e qualunque sua formulazione in una lingua concreta è imperfetta). Al di là di questo particolare caso, comunque, la critica dell'appello al concetto di cultura come categoria esplicativa in antropologia e nelle scienze umàne, per

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quanto motivata e urgente, non implica di per sé una critica specifica al rappresentazionalismo. I linguaggi e le credenze esistono, e per metterne in questione l'oggettività e l'evidenza come elementi indagabili in modo neutro non c'è bisogno di considerarli fatti di rappresentazioni nel senso di ~. Si può anche negare l'oggettività tout court, come forse fanno certi sviluppi del postmodernismo, oppure al contrario trasferire l'oggettività altrove saltando la mediazione del linguaggio, ad esempio privilegiando la determinazione evoluzionistica delle rappresentazioni individuali24 • (Si dovrebbe cogliere qui un'analogia colla precedente argomentazione circa l'indipendenza logica di monismo e rappresentazionalismo. Non ho qui il tempo di argomentare la reciproca: che può esserci rappresentazionalismo senza che al centro dell'attività scientifica stia la scoperta di sistemi di credenze, cioè si può avere~ senza~.) Una critica molto netta a ~ è venuta da antropologi che si richiamano alla fenomenologia e alla conoscenza come processo incorporato. Elementi di plateale intellettualismo presenti in ~' e in particolare la messa in secondo piano delle pratiche, hanno indotto a una nuova attenzione al corpo e alla sua attività vitale. Come scrive Ivo Quaranta (2019, pp. 114115), con rimando a Thomas Csordas, con questa mossa "la cultura cessa di essere intesa solo come un sistema di simboli, di significati, di norme, di comportamenti per essere apprezzata anche nei termini di sensazioni, di movimenti, di intuizione, di intenzionalità, di intersoggettività". Questo programma ha un punto d'interesse cruciale per il nostro tema nella misura in cui si oppone direttamente all'espulsione delle qualità secondarie, di cui abbiamo parlato. Nelle scienze sociali questa. espulsione è stata accolta da quello che a volte si chiama "modello classico", che discende da Durkheim e \X'eber, e almeno su questo punto non è stato modificato dal costruzionismo: Mi pare che Risjord (2020, p. 591) abbia in mente questo punto quando cita quella cli Dan Sperber come una posizione che respinge la centralità della cultura mantenendo però la teoria rappresentazionale della cognizione. Ciò nonostante Risjord continua a considerare l'approccio "writing culture" come una critica del rappresentazionalismo (Ivi). 24

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I proponenti di questo modello presuppongono che l'informazione percettiva raccolta direttamente attraverso i sensi sia "priva di significato" in quanto costituita da stimoli preconcettuali e "grezzi" che richiedono di essere elaborati, trasdotti, schematizzati e collegati a struttute simboliche per poter diventare significativi. [ ... ] Il significato proviene solo dalle categorie simboliche collettive che si apprendono tramite la cultura (Lizardo 2015, p. 577).

In questa impostazione, nel percetto in quanto tale non c'è niente di significativo. L'esperienza e l'intenzionalità non solo sono condizionate dalla cornice linguistica e culturale, ma ne ricevono ogni determinazione che possiedono: tolta la cultura, ammesso che sia possibile, l'esperienza delle cose è muta e indistinta. Di fronte a quest'immagine irrealistica dell'esperienza non si può che sottoscrivere la richiesta di ripQrtare in primo piano una comprensione più completa e concreta della presenza umana nell' ambiente. Il cammino è però inverso rispetto a quello che stavo invocando: sono le conseguenze poco plausibili di R 1 a motivare il rifiuto di ~' mentre non è ancora chiaro come le proprietà rappresentazionali dei contenuti mentali secondo R 1 si traducono in visioni del mondo direttamente motivazionali nei termini di ~Anche gli autori della "svolta ontologica" hanno talvolta presentato il proprio lavoro come una critica della nozione di cultura che va al di là dell'approccio "writing ·culture". Senza voler giudicare di questa affermazione, registro però che nemmeno qui c'è necessariamente una presa d'atto del rappresentazionalismo ~ come radice del problema. Vi è certamente una consapevolezza dell'esistenza di R 1 come quadro epistemologico generale. Ad esempio Rane Willerslev descrive uno degli scopi della propria ricerca sull'animismo siberiano come il tentativo di sradicare una visione rappresentazionalista della conoscenza, secondo la quale le persone non possono conoscere o relazionarsi col mondo direttamente ma solo indirettamente, attraverso la me-

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diazione delle proprie rappresentazioni culturali. Le persone acquisiscono queste rappresentazioni man mano che sviluppano l'uso del linguaggio [ ... ]. Ciò significa che il modo in cui le persone percepiscono il mondo [ ... ] è fornito dal linguaggio che adoperano (Willerslev 2007, p. 147). Qui la critica sembra promettente, nella misura in cui riguarda esplicitamente la teoria della rappresentazione come entità intermedia e della cognizione come codifica degli stimoli. Ma non mi pare che Willerslev dimostri che, per questa posizione che intende criticare, sia cruciale intendere la codifica come una codifica mentale. Di certo il "linguaggio che le persone adoperano" non è e forse non può essere il mentalese (che, come ho detto, è per definizione un linguaggio sotteso). Willerslev scrive ancora: Da questa linea teorica segue che il fatto che la conoscenza di una particolare tradizione culturale sia condivisa da un gruppo di persone è soprattutto dovuto alla lingua. Con la perdita della lingua si perderà inevitabilmente anche la visione del mondo che è espressa in esso (Willerslev 2007, p. 147). Questa sembra essere una critica a un certo linguisticismo che inconsapevolmente resta legato a qualcosa che all'incirca si può assimilare all'ipotesi Sapir-Whorf. È una critica che si può condividere, ma, ancora una volta, tutto ciò vale per le produzioni linguistiche comunque intese, e non necessariamente in chiave "R1 ". Se è così, manca ancora un aggancio specifico al quadro epistemologico complesso che ho delineato prima. 1

5. Il futuro di un occasione mancata Nel panorama legato alla svolta ontologica si registrano anche tentativi di eliminare tanto il ventriloquismo quanto il rap. presentazionalismo attraverso scorciatoie metodologiche (o teoriche?) poco convincenti, ad esempio l'evitare qualunque uso del concetto di rappresentazione o di credenza o di pensie-

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· ro proposizionale, qualunque riferimento a ciò che qualcuno ha in mente. È utile soffermarsi su queste proposte di "riforma del linguaggio" perché rivelano non soltanto una certa ingenuità, come se si potesse abolire un uso linguistico per decreto, ma anche il permanere di un equivoco. Se è vero che, come scrivono Palecek e Risjord, "gli antropologi ontologicamente orientati cercano di caratterizzare gli oggetti nel modo in cui lo fanno i loro interlocutori, senza ascesa semantica a locuzioni come 'crede che .. .'" (2012, p. 8; gli autori riassumono così le proposte di Henare, Holbraad e Wastell in Thinking Through Things), quèsto atteggiamento paradossalmente mostra quanto poco sia stato superato il rappresentazionalismo (~)25 • Il fatto è che si sente il bisogno di vietare questa "ascesa" proprio perché non si vede un'alternativa all'assunto che ogni credenza sia un'entità nella testa dei parlanti, sicché la mossa della disperazione è la cura del silenzio. Qui probabilmente il focalizzarsi sulla lotta all'intellettualismo (R) ha impedito di rintracciare la genealogia effettiva del problema. L'"errore" rappresentazionalistico, se c'è, sta nel teorizzare che una credenza sia un bit d'informazione presente nella mente e capace di orientare ex ante tanto l'esperienza quanto l'azione. Ma se si pensa che ùna credenza è il punto d'arrivo, non di partenza, di una serie di motivazioni, di abiti, di pratiche e di esperienze, e anche d'incontri fortuiti, non c'è ragione di proibire l'uso del termine, che a quel punto non è più una categoria esplicativa ma un explanandum che l'etnografia può mettere in luce. Così, quello di non abusare dell'aggiunta di livelli metalinguistici al linguaggio praticato dagli informatori può essere tutt'al più un consiglio utile, ma non un enunciato teorico né un precetto metodologico: basta ricordare che in generale ci sono 25 Risjord propone una specie di espulsione della credenza anche in (2020). Un'analoga costruzione intellettualistica della crede·nza sta alla base della raccolta a cura di Galina Lindquist e Simon Coleman (2008). I richiami ad abbandonare la nozione di credenza o fede datano almeno da Needham (1972). Altrove ho cercato di mostrare che evitare l'uso di locuzioni come "crede che ... " o "è un simbolo di ... " rende impossibile dar conto di certi fenomeni (cfr. Brigati2019).

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casi in cui il linguaggio della credenza è perfettamente appropriato anche da parte degli interlocutori. In certe circostanze avrà senso per un Nuer dire che crede che i gemelli sono uccelli, per esempio se un interlocutore gli dice che non ci crede. Così un cristiano avrà bisogno talvolta - per i propri scopi - di dire che ha fede in Dio, che i pelagiani sono miscredenti, e che i pagani sono idolatri, cioè credono cose sbagliate. In questo caso il salto al metalinguaggio darebbe luogo a un enunciato incorretto ("i cristiani credono di credere in Dio"), mentre evitare accuratamente di dire che i cristiani credono in Dio darebbe luogo a un'etnografia incompleta. D'altra parte possono esserci casi in cui anche il salto al metalinguaggio è etnografìcamente rilevabile, come quando un cristiano si chiede se crede davvero, e il non sapere se crede è per lui un problema. Per inciso, va segnalato che nella letteratura legata alla "svolta" le nozioni di credenza e di sigriifìcato intenzionale non sono affatto assenti, anche se inavvertite. Ad esempio scrive Vìveiros de Castro (2011, p. 143): "La missione dell'antropologia [ .. .] è descrivere le forme mediante le quali, e le condizioni alle quali, verità e falsità si articolano a seconda delle diverse ontologie che sono presupposte da ciascuna cultura". Questa missione rientra esattamente nella classica definizione di significato di Donald Davidson (1994). Il significato di un enunciato sono le condizioni alle quali esso è vero: questo è il meaning, ciò che l'enunciato (e il parlante) intende nella misura in cui lo reputa vero. • In breve, se inquadriamo la credenza nella sua relazione con l'azione, non ;,è bisogno di espungerla. Qui il recupero di Peirce operato da alcuni antropologi può avere profili d'interesse, perché per Peirce la credenza è propensione ad agire, un abito che diventa oggetto d'attenzione solo in presenza di un ostacolo ali' azione2 6. L'espressione "credo che ... " esiste e ha conseguenze solo perché esiste" dubito che ... ", con tutte le sue conseguenze. La credenza è tanto reale quanto l'esperien-

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Nessuno dei testi citati alla nota precedente tiene in considerazione Peirce; che è invece centrale nel lavoro di Eduardo Kohn (2013). Ringrnzio Matteo Samarelli per i suoi chiarimenti su Peirce.

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· za del dubitare e del non riuscire a credere, che si dà persino nella forma patologica del disturbo ossessivo-compulsivo27 . Se partiamo dalle conseguenze del dubbio, o dell'impossibilità di credere, possiamo forse ripensare la questione nei termini corretti. Credere è una prestazione, la cui assenza può avere effetti distruttivi, e la cui presenza non è assicurata da un percorso cartesiano puramente interiore, la via del cogito. Le condizioni della credenza non sono trascendentali, quanto di natura ontogenetica, psicologica, storica. Per credere che psi deve imparare a farlo; si deve anche imparare a credere ad altre cose, esser disposti a biasimare certe cose, approvarne altre e così via. Nessuno "crede che p" e nient'altro. In questo senso anche l'attribuzione di una credenza non ha significato di per sé, senza specificare a cosa serve, in rapporto a cosa e in quale contesto: anche attribuire credenze è una cosa che s'impara. Un merito delle critiche a~' da Writing Culture al più netto rifiuto del ventriloquismo, è l'aver portato alla luce il fatto che l'attribuzione di credenze ai soggetti studiati nel discorso antropologico non è mai stata astratta e trasparente, bensì parte di una pratica che vedeva coinvolti, a diverso titolo, i sistemi di credenze degli analisti stessi. Nel caso dell'antropologia evoluzionista le credenze prelogiche degli altri servivano a confermare e strutturare le credenze razionali e positive del ricercatore. L'antropologia interpretativa ha tentato d'istituire un circolo ermeneutico che permettesse di dare un senso alle credenze altrui senza credervi, su un modello che era sostanzialmente ripreso dalle scienze della testualità. Anche prima dell'appello alla "metamorfosi" lanciato dalla svolta ontologica, l'etnografia ha sempre comportato una negoziazione delle proprie credenze, fino alla trasformazione: ho già ricordato la reviviscenza dell'esperienza religiosa di Evans-Pritchard dopo il contatto coi Nuer2 8• Un altro esempio che trovo icastico è la famosa analisi che Lévi-Strauss fa 27 Lo riconosceva già la psichiatria ottocentesca sotto il nome di folie du doute o Grubelsucht. Cfr. Shorter (2005, pp. 198-199). 28 Il secondo capitolo di Pina-Cabral (2017) contiene un lungo e istruttivo sondaggio in questa intricata storia.

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di un canto terapeutico presso i Cuna panamensi29 . Dopo aver descritto il procedimento (in termini piuttosto ventriloquistici), Lévi-Strauss conclude sorprendentemente che "la cura sciamanistica si colloca a metà strada fra la nostra medicina organica e certe terapie psicologiche come la psicoanalisi". Lévi-Strauss - senza dubbio fortemente immerso in una cultura che fu un'epoca d'oro per la psicoanalisi francese - fa qui una piccola metamorfosi, anticipando letture narrative della psicoanalisi che a quei tempi erano state abbozzate solo da Wittgenstein in riflessioni non pubblicate30 . La parola d'ordine della metamorfosi è stata oggetto di troppa eccitazione, ma il suo nocciolo non è estraneo all'impresa antropologica in quanto tale, e in più consente di riproporre la critica al rappresentazionalismo in termini nuovi. Torniamo allora alla spiegazione classica del perché i Nuer dicono "i gemelli sono uccelli", cioè che questo è sensato nella loro cultura o sistema di credenze. Ora, se i processi cognitivi non sono concepiti in termini rappresentazionali, ma sono di natura incorporata ed ecologica, si dovrebbe vedere meglio perché questa spiegazione è insufficiente. Non basta credere qualcosa (aver in mente un messaggio), bisogna essere qualcosa o diventare un certo tipo di essere, con certi tipi di interazione con altri soggetti ed enti nell'ambiente. Risjord nel saggio citato ha visto bene questo punto, e conseguentemente sembra assegnare all'antropologia il compito non tanto di spiegare, ma di scoprire e descrivere come gli individui di un dato gruppo diventano quel tipo di esseri che, ad esempio, possono essere uccelli o avere altre caratteristiche che non rientrano. nell'arredamento del mondo occidentale (nel caso che utilizza come esempio, quello degli Ojibwa studiati da Ingold, attraverso un insieme di riti ed esperienze di trasformazione). L'indicazione non va sottovalutata, anche se Risjord la 29 Cfr. Lévi-Strauss (1958; trad. it. 2015, cap. 10). Varie critiche sono state avanzate da Severi (cfr. per es. Severi 2000), ma non riguardano il presente discorso. 30 · E che saranno riscoperte dalla psicoanalisi ermeneutica degli anni Ottanta e Novanta. Mi permetto di rinviare su questo a Brigati (2001).

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· combina con una sorta di pessimismo epistemologico che forse non è necessario. Nel finale del suo intervento, osserva: "Io non posso andare a vivere nel loro mondo semplicemente facendo filosofia. [ ... ] Dovrei piuttosto avere una certa relazione ecologica con l'ambiente, costituita attraverso un insieme specifico di pratiche" (Risjord 2020, p. 607). Il corsivo, nell'originale, segnala un'impossibilità che però suona in parte essenzialistica. "E per avere questo - conclude Risjord - dovrei essere stato allevato come un ragazzo Ojibwa". Questa separazione dei mondi, se interpreto bene, conferma una forma di monismo ontologico per ciascuno di noi: ci sarà anche una pluralità, ma ognuno di noi conosce solo un mondo, dato che la conoscenza è un processo incorporato e biografico-ecologico, e ciascuno di noi ha solo una vita e solo un corpo. Questo però toglie terreno e specificità al tipo d'impresa scientifica che si esprime nel metodo etnografico. Certo sarebbe ingenuo pensare che un'esperienza di campo, per quanto immersiva, possa senz'altro valere quanto il tragitto biografico di un insider. Ma il campo è pur sempre un momento biografico: è un tragitto, è un dislocamento. Se la cognizione non è manipolazione di simboli ma vita incorporata, possibile che quel tratto di vita che è il campo non abbia conseguenze? Da questo punto di vista - che, ripeto, è quello di un filosofo - il dislocamento è l'elemento cruciale del sapere antropologico: il suo soggetto, quali che siano i suoi punti di partenza, non è fermo ma in movimento e di conseguenza in trasformazione. L'idea di andare sul campo è da prendere sul serio: è ora che i filosofi ne vedano il potenziale metaforico, un po' come Dewey aveva visto il potenziale della pratica sperimentale e ne aveva ricavato una rivoluzione epistemoiogica. In fondo è una metafora semplice: l'antropologo va sul campo, attraversa dei confini. Se questo significa che il confine nari è ontologicamente invalicabile, significa anche che quell'antropologo non è più lo stesso: come minimo non è più una persona che non ha mai valicato quel confine. Tutta la conoscenza è un immischiarsi con l'oggetto, e

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l'antropologia semplicemente dà un senso speciale a questo "con-essere", lo svolge anziché solo teorizzarlo. Poco prima del passo citato, Risjord aveva giustamente criticato l' essenzialismo dell'approccio classico: trattare le culture come sistemi di credenze e simboli costringe o a supporre un' omogeneità empiricamente non osservabile in nessun gruppo, o a rendere misteriose le differenze individuali. Ma non c'è motivo di pensare che, avendo compiuto certi riti e attraversato un certo percorso biografico e formativo, un Nuer affermerà invariabilmente che i gemelli sono uccelli. Allo stesso titolo, e per gli stessi motivi, anche escludere la possibilità di metamorfosi nell'esperienza etnografica è in :fin dei conti essenzialistico. I.: assunzione di un paradigma non epistemologico della conoscenza permette sia di pensare le differenze radicali, sia Ìe convergenze almeno parziali. In termini epistemologici, si può dire tutt'al più che l'esistenza di un dato percorso biogra:fìco è un predittore più o meno buono di certe affermazioni a livello individuale. fa termini ontologici, il requisito per la conoscenza antropologica non è quello di essere un Nuer - o, poniamo, una persona con una malattia cronica o una persona nello spettro della neurodiversità - più di quanto uno che è un Nuer sia necessitato a dire che i gemelli sono uccelli, o a fare quel che l'etnologia si aspetta o non si aspetta da lui. Mal' esperienza di campo è o può essere un divenire, e, da filosofo, ho l'impressione che a volte gli antropologi - come gli psicoanalisti, o altre figure sciarnanizzanti (Guerbo 2019) e suscettibili di metamorfosi - diventino qualcosa che con la fìloso:fìa non si diventa31 .

Bibliografia Brigati, R. 2001 Le ragioni e le cause. Wittgenstein e la filosofia della psicoanalisi, Quodlibet, Macerata.

31 Ringrazio Pia Campeggiani, Stefania Consigliere, Valentina Gamberi, Alessandro Lutri, Luigigiovanni Quarta, Matteo Santarelli per i loro consigli su una prima stesura di questo lavoro.

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· 2019 La filosofia e la svolta ontologica dell'antropologia contemporanea, in R. Brigati e V. Gamberi (a cura cli) Metamorfosi. La svolta ontologica in antropologia, Quodlibet, Macerata, pp. 299-354. 2020 Verum Jactum? Sull'incertezza nelle scienze umane, in V. R.asini, G. Scarpelli (a cura cli) Nel bosco di Psiche. Filosofie della natura umana, Meltemi, Milano, pp. 89-108. · Bruner, J., Feldman Fleisher, C. 1990 Metaphors of Consciousness and Cognition in the History of Psychology, in D.E. Leary (a cura cli) Metaphors in the History o/Psychology, Cambridge University Press, Cambridge, pp. 230-238. Cappuccio, M.L. 2017 Mind-Upload. The Ultimate Challenge to the Embodied Mind Theory, in "Phenomenology and the Cognitive Sciences", 16, pp. 425-448. Churchland, P. Smith 1989 Neurophilosophy: Toward a Unified Science Òf the Mind-Brain, MIT Press, Stanford. Clifford,J., Marcus, G.E. (a cura cli) 1986 Writing Culture: The Poetics andPolitics o/Ethnography, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London; trad. it. Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell'etnografia, Meltemi, Roma, 2005. Davidson, D. 1994 Verità e significato, in Id., Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, pp. 63-86. Descartes, R. 1899