Metamorfosi. La svolta ontologica in antropologia
 8822902866, 9788822902863

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Quodlibet Studio Antropologia

e

filosofia

Metamorfosi La svolta antologica in antropologia A cura di Roberto Brigati e Valentina Gamberi

Qyodlibet

Prima edizione: febbraio 20I9 © 20I9 Quodlibet srl

Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62 I oo Macerata www. quodlibet.it Stampa a cura di NW srl presso lo stabilimento di LegoDigit srl, Lavis (TN) ISBN 978-88-229-0286-3 l e-ISBN 978-88- 229- Ioio-3

Quodlibet Studio. Antropologia e filosofia Serie diretta da Roberto Brigati Comitato scientifico Bruno Accarino (Firenze) , Stefano Allovio ( Milano Statale), Claudia Baracchi (Milano Bicocca) , Stefano Besoli ( Bologna) , Barbara Chitussi (Modena e Reggio Emilia), Felice Cimatti (Università della Calabria), Stefania Consigliere ( Genova) , Piergiorgio Donatel­ li (Roma La Sapienza) , Roberta Dreon (Venezia), Alessandro Duranti (UCLA), Rossella Fabbrichesi (Milano Statale), Cristiana Facchini (Bologna), Roberto Frega ( Paris CNRS) , Hans Joas ( Berlin Humboldt), Claudio Paolucci (Bologna) , Luigi Perissinotto (Venezia), Giovanni Pizza ( Perugia), Cesare Poppi (Lugano SUPSI) , lvo Quaranta (Bologna) , Vallori Rasini (Modena e Reggio Emilia).

Indice

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Premessa dei curatori Valentina Gamberi

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Metamorfosi: decolonizzazione vera o apparente ? Antefatto ( n ) ; Rivoluzionare il concetto di persona: i germi storici dell'on­ tological turn e le riflessioni ad esso parallele (I 6); Vontological turn: i pro­ tagonisti e le sue ramificazioni (3o); Un > ( 204 ) ; Due passi verso una ripartenza antologica ( 207); Precedenti nell'antropologia maussiana ( 2 I 3 ) .

Martin Holbraad 22 5

Il potere della polvere . Molteplicità e movimento nella cosmologia divinatrice dell'ifa cubano ( o, di nuovo, mana) limana nel dibattito ( 229 ) ; Vaché nell'ifa cubano ( 243 ); Il potere della pol­ vere ( 246); Conclusione: le cose mobili sono concetti mobili ( 2 6 6 ) .

Eduardo Viveiros de Castro 27 5

Chi h a paura del lupo antologico ? Alcuni commenti su un dibattito antropologico in corso Imparare a parlare a Cambridge ( 2 7 5 ) ; Sulla delega antologica ( 277); Uno solo o molti lupi? ( 2 8 3 ); La descrizione sufficientemente buona ( 289 ) .

Roberto Brigati 299

La filosofia e la svolta antologica dell'antropologia contemporanea Quel che c'è dietro l'angolo ( 29 9 ) ; Preparativi per la partenza ( 3 04 ) ; Svol­ tare da dove (po); Svoltare verso dove ( 3 2o); Voltarsi indietro e guardare avanti ( 3 3 3 );

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Elenco delle fonti Indice dei nomi

Premessa dei curatori

Seguendo direzioni diverse, abbiamo avuto la possibilità di incro­ ciare i nostri cammini accademici spinti da un interrogativo comune : perché oggi si parla tanto di svolta antologica o antologica! turn in antropologia e, più generalmente, nelle scienze umane ? Perché questa svolta spaventa tanto o, al contrario, infiamma i discorsi ? Che rica­ dute ha rispetto al futuro delle scienze umane? Che cosa può dare alla filosofia, alle scienze cognitive, alla fenomenologia, e che cosa queste discipline possono dare all'antologica! turn ? Abbiamo quindi deciso di intraprendere uno studio approfondito su questo movimento di pensiero all'interno della disciplina dell'an­ tropologia. Abbiamo iniziato cercando di affrontare la copiosa pro­ duzione che ci stava davanti - fatta anche di interventi italiani: in particolare a Stefania Consigliere e Alessandro Mancuso va ricono­ sciuto un ruolo di apripista in questo contesto - senza idee preconcet­ te. L'intento è stato in primo luogo quello di comprendere il pensiero degli antropologi della svolta antologica, analizzando le cause filo­ logiche e le necessità epistemologiche alle quali essa ha cercato di ri­ spondere. La traduzione di alcuni dei testi fondamentali dell' antolo­ gica! turn, ancora non disponibili al pubblico italiano, ci è sembrata la giusta via attraverso cui imbastire queste riflessioni : come si vedrà, l'idea del > è proprio il nodo centrale in cui le divergen­ ze tra l'antropologia interpretativa e l'approccio antologico si sono concretizzate . Il movimento di pensiero in questione è frastagliato, e in continuo dialogo, a volte costruttivo, a volte polemico, con cor­ renti di ricerca diversamente ispirate (l' antropologia fenomenologi­ ca, l' antropologia interpretativa ) . Di conseguenza la selezione è stata ampia. Non ci si è limitati agli autori che esplicitamente rivendicano l'etichetta di > per descrivere la propria ricerca (il

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cosiddetto gruppo «di Cambridge» in cui spicca la figura di Martin Holbraad ), o ai loro ispiratori diretti ( Eduardo Viveiros de Castro, o due studiosi come Marilyn Strathern e Roy Wagner, qui non antolo­ gizzati ma costantemente presenti sullo sfondo ) ; si è scelto invece di estendere lo sguardo a testi che, nell'oggetto e nella metodologia, si collegano di fatto agli intenti di tale proposta, pur distinguendosene negli esiti (è il caso del lavoro di Tim lngold che apre la raccolta, ma anche degli interventi di Eduardo Kohn o di Philippe Descola, tutti esempi di riflessioni a loro modo « antologiche», e ciascuna con un proprio orientamento originale) . Il libro vuole così riflettere l'imma­ gine di un'antropologia contemporanea in movimento, le cui correnti si intersecano più spesso di quanto i loro esponenti siano disposti ad ammettere. Una particolare cura è stata rivolta a rendere il volume accessibile a due tipi ( almeno ) di pubblico, gli antropologi e i filosofi: perché una corrente antropologica che dispiega nel suo vessillo una parola carica di storia come « antologia » non può non interessare entrambe le pla­ tee, che forse potranno scoprire punti in comune in precedenza inso­ spettati. Gli autori che promuovono la « svolta» conoscono piuttosto bene una parte alquanto " personale " della storia della filosofia, il che vuol dire che talvolta lasciano dei sottintesi, e talvolta lasciano parlare le proprie idiosincrasie . Una messa a punto, in tal senso, era necessa­ ria; ciò spiega anche l'abbondanza di note esplicative e bibliografiche, tali da rendere il testo più agevole anche ad un pubblico studentesco. Tradurre per noi significa prima di tutto incarnare gli immaginari di cui si sono nutriti antropologi come Eduardo Viveiros de Castro e Martin Holbraad, insieme agli altri autori raccolti nel volume, cerca­ re le matrici di senso dei loro discorsi e sperimentar/e. Riteniamo che questo esercizio di traduzione sia fondamentale anche per i lettori, per non schierarsi a favore o contro la svolta antologica senza una reale consapevolezza di cosa essa comporti, rispondendo a simpatie per altre scuole di pensiero che riflettono la propria formazione pro­ fessionale . Queste risposte « istintive » non aiutano lo sviluppo futuro dell'antropologia o della filosofia ma, orientando il discorso in ter­ mini difensivi od offensivi, fanno perdere di vista le conquiste finora conseguite. Perciò le critiche alla svolta antologica - che nei nostri rispettivi contributi non abbiamo risparmiato, pur con distinzioni anche tra di

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noi - devono essere comprese in questi termini: come il risultato di una sperimentazione. Ci siamo resi conto dei limiti e dei rischi che può correre l'antropologia pensata dall'antologica! turn : mantenen­ do la duplice professionalità che mettiamo in campo - antropologica da una parte, filosofica dall'altra - la presente raccolta testimonia il fatto che abbiamo preso sul serio quanto questa corrente ha da dire. Ed è con tale spirito che vogliamo presentarla : lungi da noi, quindi, rinfocolare una polemica già esistente e che già da tempo ha perso fecondità . Cosa possiamo utilizzare della svolta antologica, cosa può insegnarci pur con tutti i suoi ( piccoli e grandi ) limiti ? Come sarà poi chiarito da Valentina Gamberi nel suo saggio introduttivo, quella che si vuole offrire ai lettori è una metodologia di critica: non ha alcun senso evitare l'antologica! turn perché non si è d'accordo con le sue teorizzazioni . È necessario affrontarlo, riteniamo, nel senso positivo e negativo del termine perché l'antropologia e le scienze umane tut­ te possano continuare a procedere. Dal canto suo Roberto Brigati, nel contributo finale, ha cercato, nei limiti dello spazio concesso, di mostrare come la filosofia potrebbe contribuire a calibrare questa proposta in riferimento ad universi di discorso teorici e metodologici affini e tuttavia poco esplorati. Una delle caratteristiche salienti di questa corrente, infatti, è l'intento d'iscrivere pensieri geopolitica­ mente marginali nell'agenda della filosofia contemporanea. Ebbene, se è così, deve anche essere possibile discuterli filosoficamente . Dopo quasi un ventennio durante il quale queste idee hanno circolato tra reciproche incomprensioni, è tempo di dialogo. Questo volume esce parallelamente a un altro libro, che racco­ glie le lezioni di Viveiros de Castro sul Prospettivismo cosmologico, corredate da un saggio di Roy Wagner. Se non lo impedissero motivi di spazio, quelle lezioni, straordinariamente influenti, potrebbero e dovrebbero in linea di principio trovare posto in questa raccolta, se non altro perché si tratta di un autore e di un testo che fanno da punto di riferimento costante per molti degli interventi qui raccolti. La stessa parola metamorfosi, che dà il titolo a questo volume, va considerata un omaggio al pensiero visionario e controverso dell'an­ tropologo brasiliano, presente qui con due testi altrettanto rilevanti. Idealmente, in ogni caso, questi due volumi fanno parte di un proget­ to unitario . Col presente libro s'inaugura la collana dei cosiddetti materia! culture studies, il filone antropologico su quella che viene definita - non senza ambi­ guità e reticenze disciplinari - come cultura materiale . Secondo la pastura assunta da autori come Appadurai ( 1 9 8 6 ) , l'oggetto museale assume una nuova vita o, come si esprimerebbero alcuni autori ( In­ gold e Hallam 20 1 4 ), una « non-vita » : da oggetto di scambio e con valore d'uso, il manufatto museale diviene un'ipostatizzazione, una rappresentazione ormai astratta e liofilizzata del suo « contesto d'o­ rigine » . Quello che invece emerse dalla mia ricerca è che quest'ope­ razione di « purificazione » (Latour 1 99 3 ) dell' oggetto esposto nel­ la teca museale non si può considerare come un processo portato a compimento : per i visitatori - specie se afferenti al sistema di creden­ ze che l'oggetto starebbe a rappresentare, per esempio il bronzo di uno Shiva danzante per gli induisti o la statua di un Buddha seduto per i buddhisti - l'oggetto che loro vedono al di là dei vetri o delle transenne talvolta conserva le caratteristiche « sacrali» del suo conte­ sto d'uso . Per quanto questo comportamento sociale o, se vogliamo, post-religioso in sede museale abbia diverse sfumature - le reazioni maggiormente « religiose » come il contatto fisico con la statua o l'of­ ferta di fiori o monete provennero prevalentemente da occidentali convertiti alle religioni orientali -, è in linea con quanto emerso dalla letteratura museale nell'ambito dell'Asia meridionale ( Bhatti 20 1 2; Elliott 2006) o, più generalmente, dell'Asia tutta ( Robson 20 1 o ) . È chiaro come i l manufatto museale non sia facilmente manipo­ labile dai curatori museali nella loro missione educativa e le cornici concettuali finora adottate non siano in grado di affrontare la com­ plessità delle relazioni tra umano e non-umano: vi è quello che Jack Goody ( 1 9 9 7 ) definirebbe un paradosso cognitivo o, ancor meglio, una relazionalità con il materiale al confine tra fenomenologia e se­ miotica. Il manufatto materiale è sia una rappresentazione sia un'in­ terfaccia ( Morgan 20 1 4 ) concreta che ingenera determinate forme di coinvolgimento corporeo che, al contempo, sono portatrici di for-

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me di credenza specifiche 1 • Mi accinsi quindi ad affrontare gli au­ tori della svolta antologica nel mio tentativo di esplorare e fare luce su impostazioni teorico-metodologiche alternative per l'analisi della materialità più generalmente intesa. L'oggetto materiale, infatti, se­ condo una pastura « antologica » , non è semplicemente un « testo » da decifrare : una rappresentazione di una credenza, per intenderei. Una rappresentazione che, badiamo bene, rimanda ad una suddivisione categorica di piani che devono essere distinti: da un lato il materiale, ciò che permette un'interazione fisica o quotidiana, come il valore di scambio economico, dall'altro lo spirituale, ovvero un sistema di concezioni sul mondo e sul soprannaturale. Per fare un esempio con­ creto, l'ostia consacrata è sia un oggetto commestibile, funzionale all'espletamento del rito di comunione, attraverso cui la comunità religiosa rafforza i propri legami sociali e la sua professione di fede, sia un oggetto simbolico: rappresenta il corpo di Gesù Cristo e il sa­ crificio che fece nei confronti dell'umanità . L'ostia rimanda, quindi, al corpus biblico e ai precetti che delimitano un discrimine tra chi è credente e chi non lo è, ma lo fa operando su un piano interpretati­ va: quello che si assume durante la comunione non sarebbe, per la pastura antropologica tradizionale, realmente il corpo di Cristo, ma rifletterebbe una logica funzionale e simbolica. Il fatto che i credenti dicano che essa è effettivamente il corpo di Cristo, quindi, diviene un'affermazione che deve essere decodifìcata : quello che essi voglio­ no dire all'antropologo è su un piano altro, un piano che probabil­ mente è chiaro soltanto allo scienziato sociale, il quale è al di fuori di quel sistema di pratiche, rituali e no, che vanno a definire l' identità del credente e che restano su un livello di ortoprassi ( Bell 1 99 7 ) . Il passaggio che richiedono gli antropologi dell'ontological turn è un altro: prendiamo sul serio (Willerslev 2007) quello che il credente ci dice . L' ostia consacrata è effettivamente il corpo di Cristo, non rimanda ad un piano simbolico accessibile solo all'etnografo detenI Per gli scopi della seguente prefazione, non mi addentro nella riflessione di Pierre Bourdieu ( 1 9 7 2 ) sul concetto di habitus come sapere incorporato, né nella vasta letteratura della cosiddetta antropologia fenomenologica (cfr. Jackson 1 9 9 6; 20 1 3 ; Csordas 1 9 9 0; 1 994a; 1 994b; Ram e Houston 201 5 ) e delle sue interazioni con le teorie bourdieusiane. Per affrontare il discorso della cultura materiale, si deve necessariamente fare riferimento a questa letteratura, ma qui si presenta al lettore solo l'evoluzione accademica che ha fatto sì che mi occupassi della svolta antologica. Si rimanda quindi ai titoli in bibliografia per ulteriori approfondimenti.

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tore della « scientificità » , ma piuttosto ad un determinato essere-al­ mondo che, per poter essere compreso, necessita di un cambiamento metamorfico dell'etnografo che impegni il suo corpo e le sue moda­ lità di ragionamento. Quello che l'antologica! turn mi sembrava offrire in quel momen­ to era una messa in discussione di un paradigma, quello cartesiano, operante nell'esemplificazione della realtà della materialità da parte sia dei curatori che degli studiosi di cultura materiale: l'oggetto ma­ teriale è una res extensa, una materia inerte che non è altro che uno schermo sul quale proiettare i contenuti della res cogitans, ovvero astrazioni razionali della realtà. L'ostia, in realtà, non è semplicemen­ te un simbolo di una credenza ma, piuttosto, crea la credenza nel mo­ mento stesso in cui agisce nel rituale : come rendere conto di questa dimensione fondamentale del materiale senza cadere in una « fallacia epistemocentrica » ( Bourdieu 1 9 7 2 ) ? Quale tipo di museografia può nascere se non si prendono in considerazione la complessità e le sfide che la materialità pone alla descrizione etnografica e alla riflessione antropologica ? Nell'approfondire il tema, mi resi conto della problematicità della svolta antologica e dei suoi limiti . Su questo tornerò nella parte finale di questa prefazione . Per ora è fondamentale soffermarmi sulle mo­ tivazioni che hanno spinto me e Roberto Brigati a comporre questa raccolta : la ricezione che l'antologica! turn ha avuto, sia in ambito prettamente antropologico che nelle discipline umanistiche in genere, non ha mai toccato in modo consapevole o esplicito, o entrambi, le conseguenze filosofiche che tale svolta può comportare. Mi spiego meglio : gli autori dell'antologica! turn hanno fondato la loro cornice intellettuale, come sarà più chiaro nelle pagine a seguire, in modo dichiaratamente filosofico, attingendo a piene mani a determinati pensatori della filosofia continentale moderna - penso ad esempio a Deleuze e Guattari, a Heidegger e Merleau-Ponty, per citarne solo alcuni - reinterpretandoli. È chiaro che una critica costruttiva all' an ­ tologica! turn deve necessariamente passare da una consapevolezza filosofica della riflessione maturata fino ad ora, non restando più in ambito meramente antropologico/etnografico: Viveiros de Castro, Holbraad ed altri autori di spicco hanno effettivamente presentato la loro pastura teorica su un piano che va al di là dell' aspetto me­ todologico. Se vogliamo, la loro proposta va nella direzione di una

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determinata etica, di un dato modo di essere antropologi: chiaro che il fare antropologia va di pari passo con questa nuova - perdonate il gioco di parole - antologia dell'antropologo, ed un'analisi pienamen­ te consapevole non deve disgiungere i due aspetti. Ma quello che ci siamo chiesti è: cosa comporta tutto questo nell'antropologia e nelle scienze umane negli anni a venire ? Quali problematicità possono ge­ nerarsi da un approccio antologico ? Riteniamo che queste domande possano affrontarsi soltanto se si parte dalla matrice filosofica sulla quale questi autori hanno lavora­ to, ed è soltanto con una chiave che integra antropologia e filosofia che tale matrice può rivelarsi nella sua complessità. La raccolta ha quindi un aspetto duplice, quattro diversi occhi che hanno intera­ gita diversamente sulla base delle loro competenze, del loro saper guardare ( Grasseni 200 8 ) : da un lato l 'antropologa, che colloca la riflessione antropologica all' interno della storia del pensiero antro­ pologico e delle motivazioni antropologiche che hanno spinto alcuni etnografi e/o antropologi ad indossare le lenti antologiche; dall 'altro il filosofo, che è in grado di disarticolare la riflessione finora prodotta individuando le matrici filosofiche sulle quali questi antropologi han­ no lavorato e, quindi, di fornire delle chiavi di lettura che, il più delle volte, restano implicite o poco chiare agli antropologi . Questa raccolta diviene quindi un laboratorio a cielo aperto per i lettori : pur non avendo la pretesa di risolvere la confusione che tale svolta ha prodotto, sia in ambito antropologico sia in quello più gene­ rale delle scienze umane, la nostra intenzione è quella piuttosto di for­ nire una metodologia di critica. In altre parole, riteniamo che un'oppo­ sizione o una difesa dell' antologica! turn debba essere filosoficamente consapevole, e, in quanto tale, aprirsi sia all'interdisciplinarità, cioè al lavorare insieme ad altre figure professionali, sia ad una metodologia che cerchi di illuminare le varie angolature della portata teorica del movimento in modo da offrire un'alternativa costruttiva e, soprattut­ to, basata su un approccio diacronico: l'antologica! turn si è prodotto lungo una traiettoria storica ben precisa, utilizzando determinate fonti filosofiche invece di altre e riflettendo perciò una specifica concezione storico-culturale, e si evolverà in futuro a partire dalla genesi di tali matrici filosofiche. Riteniamo quindi che questa fase di disamina sia necessaria per una riflessione radicale sulla disciplina antropologica, da una parte, e sulle scienze umane, dall'altra.

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In questo mio contributo mi accingo a contestualizzare la svolta antologica all' interno dei diversi fermenti storici che hanno interessa­ to l' antropologia a partire dagli anni Settanta : è in questi anni che si fa strada l'esigenza di ripensare ai modi di fare antropologia e di es­ sere antropologi . Vorrei che il lettore traesse spunto da questa pano­ ramica per chiedersi : cosa ha prodotto l'antropologia in questi anni? Quali tipi di politiche e di etiche ha messo in campo? Ricordiamo che la teoria non è semplicemente un' astrazione all'interno delle torri d'avorio accademiche, ma è, soprattutto, espressione di determinate dinamiche sociali: non dimentichiamoci che l'antropologia è parte di tutto questo . Come ha ben detto Zoe Todd ( 20 1 8 ) - autrice che riprenderò spesso in questa sede -, l'antropologia non è stata e non è tuttora una disciplina asettica, scevra dai giochi di potere e dalle diseguaglianze esistenti. Togliamoci i guanti di velluto o il paraocchi e spogliamo l'antropologia del velo - vagamente ipocrita e paternali­ sta - dell'immunità. Vediamo, invece, cosa essa possa ancora offrire in termini trasformativi, per seguire il filone di ragionamento che ha portato alla recente conferenza a Perugia in onore di Tullio Seppilli: «Un'antropologia per capire, per agire, per impegnarsi» 2 •

Rivoluzionare i l concetto di persona: i germi storici del/'ontologi­ cal turn e le riflessioni ad esso parallele

Vontological turn viene spesso descritto come se fosse un peccato del nostro tempo: un > preso da un gruppo ristretto di antro­ pologi per mettere a soqquadro le conquiste finora ottenute dalla disci­ plina. In realtà, se si può parlare di un malanno dell'antropologia - e, come vedremo, non è un'espressione soltanto metaforica - lo si può scorgere nella sua stessa storia. È a partire dalla fine degli anni Novan­ ta che comincia a farsi strada un'alternativa rispetto all'antropologia interpretativa alla Clifford Geertz o rappresentazionalista pre-Geertz, alternativa che poi si ramifica secondo diverse scuole di pensiero: l'an­ tropologia fenomenologica, la Actor-Network-Theory (ANT) di La­ tour, l'ontogenesi di Ingold e di Christina Toren, i New Materialisms, 2 Conferenza organizzata dalla Società Italiana di Antropologia Medica ( SIAM) pres­ so l'Università di Perugia, 1 4 - 1 6 giugno 20 1 8 : antropologiamedica.itlwp-contentluplo­ ads/ 201 8/o6/Libro-degli-abstracts-REV7giugno. pdf.

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per citarne solo alcuni. In questa sezione, più che tracciare una crono­ logia degli eventi, se così si può dire, mi focalizzerò sull'evoluzione di alcuni concetti chiave che mi permettono di introdurre, con maggior consapevolezza per il lettore, autori centrali di questo periodo storico che è ancora in auge e che ospita la svolta antologica, la cui portata è quindi più comprensibile proprio in quanto contestualizzata. Dopo l'epoca post-moderna ci si rese conto che non era affatto vero che i nativi fossero inconsapevoli portatori di un sapere che sta­ va all' antropologo alle loro spalle - per riprendere la similitudine isti­ tuita dallo stesso Geertz ( r 9 7 3 ) - interpretare e dotare di un senso. Ciò metteva in seria discussione le modalità conoscitive dell'etnogra­ fo, in particolare l'assunto di partenza che la razionalità tipicamente occidentale coincidesse, in realtà, con il metodo scientifico, conside­ rato come l'unico tipo di sapere al quale quello del nativo doveva uniformarsi nell'interpretazione antropologica . Esempi di questa « superiorità epistemologica » dell'antropologo­ etnografo costellano la letteratura immediatamente precedente o an­ teriore di qualche decennio alla svolta antologica . Si pensi ad opere come quelle del già citato Jack Goody ( 1 9 9 7 ) 3 : le asserzioni dei « na­ tivi » rispetto a determinate credenze vanno prese sul serio soltanto a livello formale . Quando un informatore ti racconta del suo rapporto mistico con la statua religiosa che gli sta di fronte, quello che bisogna operare è una traslazione di senso: i paesaggi oltremondani che si costruiscono intorno alle parole dell'informatore sono in realtà rap­ presentazioni di qua/cos'altro, per cui le dichiarazioni di natura an­ tologica - ovvero una descrizione di un determinato fenomeno come, per ripetere un'espressione cara all'antropologia, «i gemelli sono uc­ celli » ( Evans-Pritchard 1 9 5 6) - vengono svuotate del loro contenuto antologico e trasformate in metafore cognitive buone da pensare. Celebre, a questo proposito, è l' analisi che Claude Lévi-Strauss fa della relazione curante-paziente in un parto difficile tra i Cuna di Pa­ nama, così come descritto in Antropologia strutturale ( Lévi-Strauss 1 9 5 8 , tr. it. pp . 2 1 0- 2 3 0 ) : il viaggio della partoriente nel mondo di Muu è in realtà da intendersi come uno spostamento semantico del 3 > : gli antropologi allarga­ no il loro sguardo analitico alla dimensione esperienziale e trasforma­ riva dei singoli soggetti. Il soggetto non è più un elemento spurio del collettivo, da mettere tra parentesi per raggiungere le astrazioni collet­ tive, ma diviene materiale primario del collettivo, la stoffa con la quale il collettivo può esprimersi, secondo un processo di introflessione ed estroflessione: il collettivo e il soggettivo sono in una relazione inti­ ma, tale per cui si costruiscono a vicenda assorbendo elementi l'uno dall'altro. In altre parole: «l'individuo e il gruppo sono false alterna­ tive, doppiamente implicate perché ciascuna implica l'altra >> (Wagner I 99 I , p. I 62) . Non è un caso che uno degli esponenti chiave di questa fase storica, Roy Wagner, faccia riferimento ad Antonio Gramsci ( cfr. Wagner I99 I , p. I 59 ) : quest'ultimo, infatti, maturò una riflessione sull'interpenetrazione del soggettivo e del collettivo coniando il concet­ to di egemonia. L'egemonia è quella particolare relazione che permette alle rappresentazioni e pratiche collettive - le quali non possono essere distinte - di trasformare l'individuo, non soltanto a livello di codici culturali, ma nella fisicità del corpo, un fenomeno che Gramsci chiama « molecolare >> ( Gramsci I 9 7 5 ; Pizza 20 I 2), ovvero una trasformazione emica e, soprattutto, totale. Per ricorrere ad un esempio caro agli afri­ canisti, Achille Mbembe ( 2ooo), quando parla delle dittature africane, applica una descrizione gramsciana alla sua analisi : l'efficacia di una dittatura si basa soprattutto sull'intrusione della figura - simbolica ma

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anche corporea - del dittatore nella vita quotidiana, dalla creazione di battute umoristiche ai costumi sessuali, legittimando determinate pratiche e modalità di essere-al-mondo invece di altre . Viceversa, il dittatore cessa di essere una figura simbolica con valore sacrale, ma di­ viene un uomo che è sì carismatico e con poteri eccedenti la norma, ma che, al tempo stesso, è fortemente umanizzato nei suoi vizi e necessità corporali. Ecco quindi che parlare di soggettivo e di culturale perde senso, in quanto si tratta di elementi inscindibili. La conseguenza più immediata di questa nuova lente d'analisi è una formulazione alternativa della categoria di persona : da criterio di discrimine tra umano e non-umano o, meglio, tra soggetto con diritti di proprietà a oggetto di proprietà del primo ( Mauss 1 9 2 3 - 1 9 24 ) 4, la persona diventa un termine pronominale, cioè all'interno di una relazione che determina la sua qualità di persona e che è necessaria­ mente contestuale e, quindi, cangiante . La persona assume perciò caratteristiche polimorfe, riproducendo l' intelaiatura delle relazioni senza essere una semplice somma di queste ultime, né riducendosi ad una sola parte di esse : « un'entità con la relazione integralmente im­ plicata [ . . . ] che replica la sua figurazione come parte del tessuto del campo, attraverso tutti i cambiamenti di scala » (Wagner 1 9 9 1 , pp. 1 63 - 1 66 ) . È proprio a causa del suo carattere necessariamente ibrido che la persona viene ora definita utilizzando metafore spurie : ecco che la persona diventa un , ovvero una dimensionalità che non può esprimersi attraverso numeri interi (Wagner 199 1 , p. 1 62), o un cyborg, ovvero un'entità che non può definirsi né interamen­ te macchina, né interamente organismo e che coniuga coppie con­ cettuali che sarebbero, secondo l 'impostazione cartesiana, separate, come maschile e femminile, umano ed animale (Haraway 1 9 99 ) . Le due metafore tornano estremamente utili per addentrarci ulte­ riormente nelle teorizzazioni prodotte in questi anni. Se si analizza il concetto di frattale così come descritto dal matematico che coniò il termine ( Mandelbrot 1 9 7 5 ) , un frattale designa una forma geome­ trica in cui ogni parte riproduce approssimativamente la forma prin­ cipale : un ago di pino riflette la forma del suo albero, così come un 4 della persona­ lità di quest'ultimo -, Gell indaga le interdipendenze tra gli oggetti materiali e gli esseri umani, definendo quindi arte il loro rapporto di relazioni. Sarà capitato a tutti di inveire contro una stampante che non fotocopia la pagina che ci interessa, ad un computer che va in crash o un' automobile che ci pianta in asso nel momento del bisogno: sono tutte interdipendenze che rivelano, sostiene Gell, una struttura fondamentale di agentività. In altre parole, l'agentività non può es­ sere attribuita come qualità distintiva di un ente specifico, come gli umani, ma è distribuita, ovvero si trova all'interno dell'azione stessa ed è ripartita in gradazioni diverse tra gli attori che determinano l'a­ zione : si hanno agenti attivi, che iniziano l' azione, ed agenti passivi che la subiscono o, meglio, consentono all'azione di svolgersi e, in questo senso, la loro agentività è secondaria, derivata dagli agenti at­ tivi. Questa struttura è elaborata secondo principi semiotici, cioè l'es­ sere agenti attivi o passivi è un ruolo interscambiabile: la macchina è agente passivo quando collabora con me portandomi nella località di villeggiatura di mia scelta e, quindi, in quel momento sono io l'agente attivo; viceversa, quando ha un guasto tecnico che non sono in grado di riparare e, perciò, mi impedisce di spostarmi dal punto A al punto B essa è l'agente attivo e io sono quello passivo. Nel primo caso, l'oggetto materiale quasi scompare dalla mia percezione : non avverto l'interdipendenza con esso, che diventa perciò un fatto « abituale » . In tal senso, Daniel Miller ( 200 5 , p. 5 ) parla di «invisibilità» o « umiltà » degli oggetti: essi sono talmente adattati alle mie esigenze psicomoto­ rie che, a livello percettivo, cedono il passo a queste ultime. Centrale nell'analisi di Gell, anche se non espresso in termini espli­ citi da lui stesso, è il ruolo che gioca l'antropomorfismo in tutto que­ sto: le azioni che compiono gli oggetti sono comprese dalla prospet­ tiva umana dando loro una « vita umana » , riproducendo cioè l'idea di una mente o di un nucleo pensante che innesca l'azione rispetto ad un corpo che la porta a compimento. Gell mostra tutta una serie di manufatti, come, per esempio, le maschere o gli assi portanti delle capanne melanesiane, che riproducono questa dinamica concentrica mente-corpo: sono raffigurate secondo varie scale di miniatura. In altre parole, perché gli umani possano capacitarsi delle azioni degli oggetti inanimati indipendenti dal loro volere, devono immaginare i manufatti come contenitori di un qualcosa che è invece vitale e che cor-

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risponde ad un « omuncolo » , se così possiamo esprimerci. Per fare un esempio vicino alla nostra quotidianità : una bambina attribuisce alla sua bambola dei sentimenti e, quando questa non collabora rispetto ai suoi desideri e necessità, ecco che diventa « cattiva » . In altre parole, la bambina proietta sé stessa sulla bambola, antropomorfizzandola 5 . U n approccio simile a quello d i Geli, anche s e secondo una pro­ spettiva teorica diversa - non si fa riferimento a Mauss, né alla feno­ menologia husserliana è quello di Bruno Latour e della cosiddetta Actor-Network-Theory (ANT) : alla base della ANT vi è l'idea che le interazioni tra umano e non-umano siano fatte su un piano di equità che rende i loro ruoli interscambiabili, in quanto possono ricopri­ re un ruolo maggiormente passivo od attivo e viceversa (cfr. Latour 1999; 200 5 ) . L'azione sociale non si può ascrivere ad un attore spe­ cifico ma è distribuita e possibile soltanto se umano e non-umano si relazionano in assemblaggi. Se prendiamo l'esempio della pistola, utilizzato da Latour in Pan­ dora 's Hope ( 1 999, pp. 1 7 7- 1 8 0 ) , l'omicida non è soltanto l'uomo che impugna la pistola : senza quest'ultima, non potrebbe compiere il gesto di uccidere. Non si può nemmeno considerare la pistola la sola artefice : senza una mano che aziona il grilletto, un proiettile non potrebbe colpire da solo un oggetto o un essere vivente in movi­ mento. La pistola reca in sé, indubbiamente, un determinato > : essa è stata fabbricata per sparare, colpire, uccidere, difendere o difendersi. Ci sono quindi tutta una serie di azioni che la pistola suggerisce e tutta un'altra serie di funzionalità che la pistola, invece, esclude : con una pistola non si possono tagliare gli alimenti . Magari il calcio della pistola può essere usato per stappare una bottiglia di birra, ma, sicuramente, non è questo il contesto d'uso primario che giustifica la produzione di una pistola. Tuttavia, queste azioni che sono scritte nella conformazione materiale della pistola non possono essere effettive senza un essere vivente dotato di pollice apponibile che la fa azionare . Così come le azioni compiute da quell'assemblag­ gio del tutto particolare vivente-pistola assumono un diverso senso a seconda delle intenzioni del soggetto che impugna la pistola: posso -

5 Non faccio, in questa sede, una disamina puntigliosa del testo di Geli, in particolare di come utilizza la temporalità husserliana per indagare la relazione tra le opere d' arte e l'artista. Ai fini di questa prefazione è importante focalizzarsi sulla logica generale dell'o­ pera. Per un approfondimento si rinvia a Geli 1 9 9 8 .

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utilizzare una pistola per spaventare - mettere in fuga un assalitore sparando in alto - o per esercitare la mia precisione mirando ad un bersaglio in un contesto di gara o al poligono di tiro. Sicuramente l'assemblaggio uomo-pistola assume tutt'altra funzione quando ci si appresta ad uccidere una persona. Come si vede, Latout; con i concetti di attante e di assemblaggio, cerca di evidenziare la complessità delle interdipendenze umano/non­ umano e della stessa agentività: si sta ancora una volta demolendo il vecchio assunto antropologico della persona come soggetto giuridico umano, nonché della società come una rappresentazione collettiva che si aggiunge, in senso giustappositivo, all'individuo singolo . Quello che, invece, emerge è l'importanza della rete di relazioni, tale per cui ci si può addentrare nella comparazione di contesti che fino ad allora erano considerati separati, come quello rituale e quello artistico: se la rela­ zione ha dinamiche simili, ecco che si possono allargare gli orizzonti d'analisi ed osservare un fenomeno da un punto di vista alternativo6• Posto il fatto che, con la metafora del frattale, il termine persona diviene puramente nominale, l'umano e il non-umano sono in una relazione paritaria ed interdipendente, così come il soggettivo e il collettivo in una relazione simbiotica, che prospettiva adottare se ci poniamo il problema della temporalità e, quindi, dell'adattamento delle reti relazionali e dei singoli soggetti al mutare delle condizioni, spaziali e no ? Come descrivere più nel dettaglio una relazione tra due soggetti all'interno di una rete o di un sistema di relazioni più gran­ de ? Per rispondere a queste domande, possiamo tornare alla secon­ da metafora che abbiamo menzionato, quella di cyborg. Haraway elaborò il concetto a seguito del suo interesse per la biologia dello sviluppo (Haraway 1 9 76 ) : concentrandosi su quello che Deleuze e Guattari ( 1 9 80 ) hanno definito come « divenire» , ovvero lo sviluppo del singolo soggetto come organismo posto in un ambiente dato e con il quale si ibrida7, Haraway arriva a formulare una nuova idea 6 Si veda, per esempio, questo passaggio in Severi ( 20 I 7, p. I 9 ) : , tale per cui essa assume diverse dimensioni e quali­ tà a seconda del soggetto che la esperisce, dimensioni che si autoesclu­ dono quando si passa da una prospettiva all'altra e, quindi, da un cor­ po all'altro. Per fare un esempio caro al pensiero amazzonico ripreso da Viveiros de Castro, una pozza di sangue lasciata dal cadavere di un armadillo è birra di maniaca per il giaguaro e sangue per noi e per gli altri armadilli (Viveiros de Castro 20 1 2, pp. 97 e passim ) . Se fossimo giaguari, quel sangue sarebbe soltanto birra di maniaca, non sarebbe possibile la compresenza tra sangue e birra, pena il venir meno del sen­ so della prospettiva. Per l'antropologia fenomenologica, al contrario, quella pozza di sangue comprende sia il sangue così come lo intendia­ mo noi, sia la birra di maniaca, così come la intende il giaguaro, ma al contempo non si riduce a quelle due prospettive : la realtà fenomenica è indeterminata. Lo è sia perché non c'è l'intervento del linguaggio ad esplicitarla, sia perché tutte le esperienze hanno uguale peso proprio per quella caratteristica fondamentale di fusione ed ibridazione dell'e­ sperienza stessa. La differenza tra l'ontological turn e l'antropologia fenomenologica è sottile ma cruciale: Il metodo fenomenologico è soprattutto una comprensione diretta e descri­ zione in profondità - un modo di accordare peso uguale a tutte le modalità dell'esperienza umana, in qualsiasi modo esse si chiamino, e decostruire i ri­ vestimenti ideologici che assumono quando sono teorizza te [ . . . ]. La fenome­ nologia è lo studio scientifico dell'esperienza. Essa è un tentativo di descrivere la coscienza umana nella sua immediatezza vissuta, prima che sia soggetta ad elaborazione teoretica o sistematizzazione concettuale. Nelle parole di Pau! Ricceur, la fenomenologia è > , si osserverà che non si ha una discon­ tinuità tra mente e corpo, razionalità e materia, quanto un'indistin­ zione tra quella che è la soggettività-razionalità e l'ambiente esterno: la prima si trova immersa nel secondo. Si ha quindi un unico tessuto connettivo che è esso stesso vita: non si ha una sovrapposizione di vi­ talità da parte di un'intelligenza esterna 8 , quanto un unico materiale­ vita che si differenzia in diversi materiali-vite attraverso un processo di ontogenesi (cfr. lngold 2oo6; 200 7; 20 r 3 ) . L'operazione di lngold è, perciò, livellatrice rispetto all'umano e al non-umano e, compito dell'antropologo diventa quello di descrivere l'interpenetrazione dei diversi materiali-vite e il loro processo ontogenetico. Gli esponenti della svolta antologica, invece, partono da un as­ sunto diverso, ovvero dalla capacità creativa insita nella differenza: 8 Per questi motivi lngold è fortemente contrario al concetto di agentività: esso pre­ suppone, secondo il suo modo di vedere, un'attribuzione o aggiunta esterna, continuando a reiterare l'idea di una materia inerte.

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in altre parole, pur interrogandosi, come fa lngold, sulla materialità in sé e sulla sua forza vitale o, meglio, sulla materia-forza vitale ( per distinguerla dagli approcci > che vedono la forza vitale come un attributo aggiunto esternamente in un secondo momento) , l'intento d i questi antropologi è di capire come l a materialità-forza vitale si trasformi in diverse materialità-vite . Il processo è esatta­ mente l'inverso: lngold parte dalle differenze per evidenziare inve­ ce la connessione intima ed essenziale; questi antropologi partono invece da quest'ultima per seguire i processi di individualizzazione o, come direbbe Marilyn Strathern, di ( Strathern 1 9 8 8 , p . 22 1 ) . In realtà, se si legge più a fondo Ingold, si può notare come questo procedimento inverso rispetto all'antologica! turn sia molto sottile. Partendo dalla tesi che la realtà sia un tessuto connettivo che si diffe­ renzia ramificandosi, il passaggio da un ramo all'altro prevede un cam­ biamento, ontogenetico in lngold, antologico per l'antologica! turn. A differenza del vecchio modello interpretativo, secondo cui la differenza era da porsi a livello cognitivo, del tutto disgiunto dal « materiale >> , né in lngold né nell' a n tologica! turn c'è l'idea della traduzione: ovvero, la realtà fenomenica è la stessa, ma la si intende in modo > (intellettualmente, cognitivamente, teoricamente, tutti piani tra loro equivalenti) diverso, per cui bisogna trovare gli strumenti cogniti­ vi (metafore, aggiustamenti linguistici ecc. ) che traspongano la lettura altra della stessa realtà in termini comprensibili. La realtà è per lngold, come per Viveiros de Castro e Holbraad ( per citare i due autori > dell'antologica! turn ) fenomenica, in intima connessione, se non coincidente, con la razionalità-corporeità del singolo. Per cui essa varia al variare del soggetto, della sua esperienza. Si passa perciò dal regno della traduzione a quello della metamorfosi (Viveiros de Castro 20 1 2, tr. it. pp . 1 3 2 sgg. ) : capire l'altro e la sua visione del mondo significa dissipare la nostra costruzione di realtà a livello sistemico e strutturale, se non molecolare, per riprendere la metafora gramsciana alla quale era già ricorso, come abbiamo visto, Wagner ( cfr. lngold 2ooo; Vivei­ ros de Castro 20 1 2, 20 1 5 ) . Da un lato, arrivare alla metamorfosi significa far compiere una torsione all'accezione comune di corpo: esso non è più un involucro materiale, organo della mente, ma è un insieme di affezioni, propen­ sioni, disposizioni, sentimenti . Siamo quindi nel dominio della feno-

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menologia . In particolare, della biologia teoretica di von Uexkiill, per quanto non sempre riconosciuto esplicitamente né da lngold, né dalla svolta ontologica9. Il biologo estone parte infatti dall'assunto che cia­ scuna specie abbia determinate predisposizioni - o un Bauplan - che costruiscono un ambiente confacente all'organismo stesso, le cosiddet­ te Umwelten: quello che per una mosca è dotato di senso - e, quindi, le connessioni tra determinati elementi e la mosca stessa - non corri­ sponde necessariamente a quello che per noi è significativo. Facciamo l'esempio del gatto domestico : la reazione della sua retina alla luce gli fa vedere solo determinati colori (il rosso, il giallo ecc.), così che alcuni oggetti non hanno per lui un colore. Per tornare alle espressioni care a Holbraad, il concetto di colore viola non ha ragione di esistere, perché il gatto non vede il viola. Per capire la percezione felina dei co­ lori, quindi, suggeriva von Uexkiill, bisogna operare un ragionamento induttivo, escludendo tutto ciò che è viola e tramutandolo in grigio, per esempio. Abbandonando il piano cognitivo, questo comprendere i colori del gatto diviene una metamorfosi antologica, non più in un universo di significati disincarnati: non vedere il viola è essere gatto. La comunicazione tra Umwelten diverse, quindi, può essere estrema­ mente complicata, come descritto da Kohn: perché i cani capiscano di comportarsi male verso i loro padroni devono attraversare una sper­ sonalizzazione di loro stessi mediante droghe, divenendo quindi altro e guardandosi dall'esterno. Dall'altro, metamorfosi significa «prendere i nativi sul serio» ( cfr. Willerslev 200 7 ) : è chiaro che la comprensione dell'altro non è più su un piano di validazione di una credenza. Descrivere la particolare re­ lazione degli indovini cubani con la polvere efficace aché in termini di credenza significa togliere realtà a quella determinata Umwelt, negarla e, al contempo, proiettare la nostra. Lo scarto tra una Umwelt e l'altra si trasforma da antologico/fenomenologico (la realtà che vedo io è diversa da quella che vedi tu) a valoriale/epistemologico (la mia realtà è intrinse­ camente vera, la tua non esiste, quindi vivi la mia stessa realtà, ma non la capisci come la intendo io) : una relazione è «scientificamente vera », l'altra > . Se invece le si ritengono entrambe possibili, non si sta più dibattendo su una > ma su come entrare in empatia con l'altro, un'empatia che implica la trasformazione di noi stessi. 9

Un'eccezione è rappresentata dal saggio di Kohn presentato in questo volume.

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Si ha quindi un'unità fenomenologica che permette a me di trasfor­ marmi e di vedere una realtà diversa. Qui entra in gioco il prospettivi­ smo, così come spiegato da Viveiros de Castro ( 2o i 2 ) : si ha un'unità fenomenologica perché la condizione di soggetto è data dall'occupare un determinato punto di vista. In altre parole, io e il mio gatto, per riprendere l'esempio, viviamo in due mondi diversi: in uno, io sono il padrone e lui un mio amico non umano che mi fa le fusa quando lo accarezzo o mi fa compagnia mentre lavoro al computer. Nell'altro, io sono l'amico-servitore del gatto, dal quale può ottenere cibo. In un mondo, la mosca è una fastidiosa seccatura. Nell'altro, è invece un gioco divertente . In entrambi i mondi c'è un soggetto in relazione immersiva nel suo ambiente: di qui la comunanza fenomenologica, da una parte, e, dall'altra, l'assoluto carattere pronominale-contestuale di concetti come soggetto-oggetto. L'idea di prospettiva sarebbe con­ fermata, secondo Viveiros de Castro, da una serie di miti amazzonici (confermati da Santos-Granero 2009 ), secondo i quali tutti, umani e non-umani, viventi e non-viventi, sarebbero fatti della stessa sostanza che si è poi trasformata: siamo una trasformazione di qualcos'altro e ci siamo originati per una differenza interna ( suddivisione interna della materia, direbbe Ingold) che, proprio in quanto tale, ci mette in correlazione. Si vede quindi come la riflessione di lngold sia poi stata elabo­ rata diversamente dalla svolta antologica : al carattere processuale della materia vivente, senza una suddivisione esplicita in Umwelten, si sostituisce la differenza come strumento di comprensione, creazio­ ne e, al contempo, dialogo. Degli esponenti della svolta antologica, Descola è quello che ha portato la riflessione su toni meno estremi. Il suo contributo alla svolta è stato la tripartizione delle relazioni in totemiche, animistiche e naturalistiche, ponendo quindi in dubbio l'idea di natura come opposta alla cultura. Viveiros de Castro dissen­ tirà rispetto a questa tripartizione, considerandola ancora imbevuta di un'impostazione occidentale ( cfr. 20 I 2, tr. it. pp . 70-7 5 ) . Molto significativo, a questo proposito, è il parallelo che Viveiros de Castro ( 2o i 2, tr. it. p. I 2 2 e passim) istituisce tra l'approccio an­ tologico e la maschera : essa - come evidenziato dalla letteratura spe­ cialistica sull' argomento ( Campione 200 I - 2oo2; Lommel I 9 72; Na­ pier I 9 8 6; Poppi I 9 8 I ), che stranamente Viveiros de Castro non cita - permette a chi la indossa di divenire il personaggio che la maschera

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raffigura . Si ha una giustapposizione tra simbolo e cosa rappresenta­ ta: la maschera da sola è un'iconografia ma, una volta indossata, si fonde con l'indossatore al punto da essere quell'elemento invisibile che si vuole evocare . La maschera indossata si comporta infatti come una membrana che filtra le istanze dell'Io e dell'indossatore : si ha a che fare con ciò che Viveiros de Castro definisce come delega antolo­ gica o, nel linguaggio d'uso comune, uno smettere i propri panni per indossarne altri . Non si ha la trasposizione nella realtà che si vuole evocare, ma piuttosto una rievocazione: l'indossatore sperimenta su sé stesso, a livello fenomenologico, il mondo abitato dal suo perso­ naggio . In questa simulazione, l'indossatore attua una « genuina im­ personificazione » , mediante la quale una semplice rappresentazione diventa un fatto reale, concreto. Questa dimensione sperimentale, che permette, per usare un termine deleuziano, la ripetizione crea­ tiva del mondo altro, determina anche il carattere inventivo della cosa-concetto o realtà fenomenica-concetto : non si ha il raggiungi­ mento di una realtà oggettivamente/obiettivamente vera, quanto una possibilità dell'esistente che rimette in discussione, arricchendolo, il nostro mondo . La raccolta di testi che abbiamo selezionato è tenuta insieme da un filo rosso che coincide con il tentativo di mostrare la svolta onta­ logica come idea, per quanto ramificata, stratificata e differenziata: la riflessione di Viveiros de Castro, per esempio, affonda le radici già negli anni Settanta ( S eeger, Da Matta, Viveiros de Castro 1 9 79 ) . È soltanto riunendo i vari tasselli, tuttavia, che è possibile avere un'i­ dea organica di questo determinato approccio all'antropologia, una costruzione antologica della disciplina, degli etnografi e delle loro pratiche . Come vedremo, sarà proprio l'assenza di un vero e proprio incontro sul e nel campo, quanto una torsione progressiva e sempre più stretta del ragionamento dell'antropologo-etnografo, a determi­ nare la critica più dura alla svolta antologica e, al contempo, la sua caratteristica precipua. La raccolta si apre con uno dei capitoli più significativi di The Perception of the Environment di Tim lngold: per ragioni di spazio, non abbiamo incluso Marilyn Strathern nel novero dei saggi. È una mancanza consapevole, ma crediamo che il suo pensiero sia già più volte estrinsecato dagli altri autori della svol­ ta antologica, in particolare da Viveiros de Castro. Ugualmente, ci sembrava che Ingold potesse far cogliere al lettare come l'ontological

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turn non sia altro che i l risultato di un'estremizzazione della rifles­ sione fenomenologica, e che sottolineasse in modo chiaro il modello di persona che i vari autori hanno cercato di contrastare : è proprio perché il dibattito antropologico ha cercato di porre in una relazione di reciproca influenza l'ambiente non umano (e con esso anche il mondo degli artefatti materiali) con l'umano, quest'ultimo non più soltanto identificato con la razionalità, che l'antologica! turn ha po­ tuto costruire una propria nicchia teorica. Posta la ricerca antropologica su queste premesse decostruttive, il passo successivo sarà riconoscere una pluralità di punti di vista: non si tratta più di ritrovare una spiegazione ultima della realtà che abbia valore di veridicità assoluta, quanto di intendere la realtà stessa come un intrico di qualità molteplici che, di volta in volta, vengono captate o meno dall'organismo percipiente. Si arriva così al secondo contributo della raccolta, quello del francese Philippe Descola e al suo concetto di «mondiazione >> : > ( questo volu­ me, p. 3 9 3 ) . Che questa posizione sia fortemente discuti bile è stato, come vedremo, argomentato su più fronti . Ritenevamo interessante,

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in ogni caso, mettere al corrente il lettore delle giustificazioni che gli esponenti della svolta antologica si danno ed avere una visione il più possibile completa della querelle metodologica, epistemologica ed etica che infiamma il dibattito antropologico odierno . Querelle che sicuramente questo libro non è in grado da solo di dirimere, ma per la quale, umilmente, si offrono le stampelle o, per utilizzare l'am­ bientazione da Alice nel Paese delle Meraviglie del saggio di Viveiros, le mazze-fenicotteri con le quali giocare la partita .

Un «decolonial turn» ? Per una critica della svolta antologica Come abbiamo visto, l'antologica! turn si caratterizza per aver portato alle estreme conseguenze il lavoro di decostruzione opera­ to negli ultimi decenni dagli antropologi: l'uguaglianza tra umano e non-umano, tipica di analisi come la ANT o del sistema di agentività di Gell, viene applicata alla relazione che si instaura tra antropologo e «nativo » : non solo le riflessioni ed idee del secondo hanno lo stesso peso del primo, ma esse hanno una propria « consistenza>> antologi­ ca . Invece di liquidare le credenze « native >> sul piano delle metafore e delle rappresentazioni, esse vengono « prese sul serio» e, quindi, intese come le intendono i > , ovvero come una forma del tut­ to particolare di integrazione/fusione del pensiero con l'esteriorità materiale; per tornare all'asserzione > , una posizione antologica porta ad accettare quest'asserzione come vera e come un' indicazione rispetto alla comprensione di un fenomeno . Bi­ sognerà quindi tramutarsi in pappagallo per comprendere la prospet­ tiva dei gemelli o, forse, un pappagallo sarà in grado di parlare il loro stesso linguaggio. Altro esempio già citato: la polvere del babalawo non è semplicemente un medium del concetto di potenza o di effica­ cia, ma è potenza ed efficacia e, capire questi concetti significa utiliz­ zare la polvere . > le persone con le quali si entra in una relazione di tipo etnografico, quindi, implica un ripensamento delle nostre cornici intellettuali occidentali: esistono realtà in cui le polveri sono potenti e in cui l'acqua non riscaldata o non proveniente da una bottiglia sigillata non provoca diarrea se bevuta ( vedi questo val urne, pp . r 3 8 sgg . ) . Questa rivalutazione dei nostri preconcetti non è un semplice relativismo, ma, come abbiamo già avuto modo di

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far notare, una costruzione d i mondi paralleli : relativizzare significa porre in dubbio una realtà che viene comunque pensata come ogget­ to, mentre antologizzare, se così si può dire, significa moltiplicarla e diversificarla all'infinito . Questo, almeno, secondo le intenzioni degli antropologi della svolta antologica, è il loro manifesto programma­ tico, per così dire . L'impressione complessiva delle loro cogitazioni, tuttavia, è in di­ scrasia rispetto a tale programma di intenti: l'Altro manca del tutto. Per quanto considerata un principio cardine della trasformazione antologica, la differenza viene presentata come se fosse il frutto del ragionamento dell'antropologo-etnografo : a parte il saggio di Kohn, che presenta in qualche modo una relazione tra Eduardo e Hilario, il padrone del cane che ha dato vita alla riflessione, per quanto sempre sotto traccia rispetto alla teorizzazione, gli scritti di chi è nel novero di « quelli » - per riprendere il rimbrotto di Cesare Poppi - presen­ tano etnografie sottodimensionate rispetto all'analisi . È come dice Ingold ( 20o 8 ), che l'antropologia non ha più bisogno dell 'etnogra­ fia ? O si tratta piuttosto di una nuova « fallacia epistemocentrica » , forse anche più pericolosa d i quella nella quale era caduta l' antro­ pologia interpretativa ? L'Altro diventa un pungolo teorico : fa posto ai « materiali», da una parte, e allo sbugiardamento dell 'impianto cartesiano, dall' altra. I desideri dell'Altro, le sue paure, la sua vita quotidiana spariscono del tutto o, meglio, vengono condensati in un' > spersonalizzante . Paradossalmente, anche l'antropo­ logo sul campo diventa puramente astratto: sì, si parla di corpo come bandolo di affezioni, ma dove sono queste affezioni nella descrizione che gli antropologi fanno delle loro metamorfosi ? L'impressione è spesso quella di trovarsi di fronte ad un esercizio filosofico invece che ad una descrizione etnografica . Cosa che spiegherebbe perfetta­ mente, a posteriori, il boicottaggio di quel seminario da parte degli antropologi dell'Università di Bologna. In altre parole, la comprensione di « antologie >> altre e la trasfor­ mazione delle nostre non avviene in modo asettico: l'errore che fanno spesso gli esponenti della svolta antologica è quello di estraniare la riflessione antologica da quelle che sono le contingenze del lavoro di campo . Come Slavoj Z izek ha più volte ricordato ( Zizek 20 1 2, p. 9 2 5 ; 20 1 5 ; 20 1 6, p. 1 84 ) , lo studioso, che sia un antropologo, un filosofo o uno scienziato sociale, per restare nell'ambito delle scienze

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umane, è parte integrante della realtà, è coinvolto in modo molto pratico-materiale in essa. Una realtà che si dà come inevitabilmente distorta perché il suo accesso è possibile soltanto attraverso un'aper­ tura soggettiva, parziale. Non siamo elementi neutrali o vuoti specchi (:Zizek 20 1 5 ), bensì posizionalità. Posizionalità che definiscono i pro­ cessi storici, politici e culturali che hanno portato a quella particolare relazione etnografica: lo spostamento del baricentro dall'esperienza, come nel caso dell'antropologia fenomenologica, all'antologia, o, meglio, all'ontologizzazione dell'esperienza, ha comportato lo scarto di tutte quelle sfumature ed ambiguità che sono imprescindibili per una consapevole decolonizzazione della disciplina antropologica . Si ha quindi una doppia manchevolezza: la soggettività dell'etnografo, e con essa tutto il retroscena che sta dietro a quella soggettività (dalle dinamiche politiche di potere su macra-scala alle micro-idiosincrasie che si producono sul campo e che rendono l'intera esperienza unica ed irripetibile ) e quella del , in quanto è il risultato di un continuo processo, in senso diacronico, di ibridazione con pratiche esterne e tale dialogicità si mantiene anche nella stessa descrizione che emerge dalle interviste etnografiche : Nel XVII secolo, a quanto pare, il fanafody includeva anche le scritte in arabo. Nel XVIII e XIX, all'apice della tratta degli schiavi, gli amuleti erano tipicamente composti di due elementi: legni pregiati, e collane da commercio o ornamenti in argento (questi ultimi ottenuti dalla fusione dei talleri di Maria

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Teresa o monete simili ) . Sia l e collane che l'argento i n origine arrivarono in Madagascar come denaro straniero. ( Graeber 2 0 1 5 , p. r o )

Una conseguenza diretta dell'errore epistemologico, ma anche etico, degli autori della svolta antologica è quello di reiterare una forma di colonialismo, come ha acutamente osservato Zoe Todd ( 20 1 6 ) : dal mo­ mento che la relazione etnografica specifica viene trascesa per parlare in senso generale di antologie, per poi arrivare ad una migliore compren­ sione di quella occidentale, senza quindi esplicitare la propria posizione politica rispetto agli informatori sul campo, si ha spesso la sensazione, leggendo gli scritti relativi alla svolta antologica, di trovarsi di fronte ad una forma leggermente più raffinata di bottino o razzia coloniale. L'Altro viene, paradossalmente, livellato su un presente etnografico, così come enucleato in Fabian ( 1 9 8 3 ), per descrivere un'antologia che il più delle volte viene presentata come statica: la preponderanza data, per esempio, alle analisi di miti «fondativi» invece che alla produzione contemporanea di accademici con origini in comune con i «nativi » - si pensi alla stessa Todd, discendente da indiani canadesi - fa sì che la di­ visione tra > e > non venga mai trascesa, continuando così la tradizione del > , reificante e stereotipizzante. Sto scrivendo questa prefazione proprio nei giorni in cui la rivista che ha fatto da portavoce all'antologica! turn, > , 2 1 , 3, pp. 64 1 - 6 5 9 · Coole, Diana, Samantha Frost 2010 Introducing the New Materialisms, in Diana Coole, Samantha Frost (eds. ) , New Materialisms. Ontology, Agency, and Politics, Duke University Press, Durham, pp. 1 -4 3 ·

VALENTINA GAMBERI

Csordas, Thomas J. I990 Embodiment as a Paradigm far Anthropology, , I 8 , I, pp. 5 -47· The Sacred Self: A Cultura! Phenomenology of Charismatic Healing, Univer­ I 994a sity of California Press, Berkeley. I 994b Embodiment and Experience. The Existential Ground of Culture and Self, ed. by Thomas J. Csordas, Cambridge University Press, Cambridge. Deleuze, Gilles, Félix Guattari Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Minuit, Paris, tr. it. di Giorgio I 9 8o Passerone, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Cooper & Castelvecchi, Roma 200 3 . Descola, Philippe Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris. 2005 Modes of Being and Forms of Predication, « HAU: Journal of Ethnographic 20I4 Theory >> , 4, I , tr. it. di Roberto Brigati in questo volume, Modi di essere e forme di dipendenza, pp. 9 3 - Io6. Durkheim, Émile Le suicide, Alcan, Paris, tr. i t. di Rosantonietta Scramaglia, Il suicidio. Studio I 897 di sociologia, BUR, Milano 20 I 4 . Elliott, Mark 2oo6 Side Effects: Looking, Touching, and Interacting in the India Museum, Kolka­ ta, «Journal of Museum Ethnography» , I 8, pp. 6 3 - 7 5 · Evans-Pritchard, Edward E. I9 56 Nuer Religion, Clarendon Press, Oxford. Fabian, Johannes Time and the Other: How Anthropology Makes Its Object, Columbia Univer­ I983 sity Press, New York. Geertz, Clifford The Interpretation o f Cultures, Basic Books, New York, tr. i t . d i Eleonora I973 Bona, rev. di Marco Santoro, Interpretazione di culture, ii Mulino, Bologna I 9 8 8; I 9 9 82• Geli, Alfred I998 Art and Agency. A n Anthropological Theory, Oxford University Press, Ox­ ford. Goody, Jack Representations and Contradictions. Ambivalence Towards Images, Theatre, I997 Fiction, Re/ics and Sexuality, Blackwell, Oxford, tr. it. di Maria Gregorio, L'ambivalenza della rappresentazione. Cultura, ideologia, religione, Feltrinelli, Milano 2000. Graeber, David Radica! Alterity is just Another Way of Saying « Reality>>, « HAU. Journal of 20 I 5 Ethnographic Theory» , 5, 2, pp. I -4 1 . Gramsci, Antonio I975 Quaderni del carcere, Einaudi, Torino. Grasseni, Cristina ( a cura di) 2oo8 Imparare a guardare. Sapienza ed esperienza della visione, Franco Angeli, Milano.

METAMORFOSI: DECO LONIZZAZI ONE VERA O APPARENTE ?

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con qualche pericolo e difficoltà . Gli stregoni, per esempio, possono trasformarsi in orsi per meglio compiere le loro nefande attività. Tuttavia, per la maggior parte degli umani, la metamorfosi signi­ fica morte: infatti l'unico cambiamento di forma a cui tutti gli esseri umani sono soggetti accade al momento della morte . Come in ogni metamorfosi, la morte comporta un'alterazione dell'apparenza ma­ nifesta, mentre l'essenza vitale della persona continua la sua esistenza in qualche altra forma. Gli spiriti dei morti sono molto più potenti e possono manifestarsi sotto le spoglie o di fantasmi ( che sono visibili o udibili) o di animali, spesso uccelli?. Ma mentre il potere delle per­ sone umane aumenta sempre quando muoiono, durante la vita c'è un solo modo in cui possono crescere in potenza, e cioè attraverso la tutela o l'egida di uno o più nonni. Per gli uomini in particolare, l'as­ sistenza dei nonni è considerata cruciale per far fronte alle peripezie della vita . In passato, ogni ragazzo, al raggiungimento della pubertà, cominciava un lungo periodo di digiuno. Da solo nella foresta, spera­ va di sognare il suo futuro tutore, dal quale avrebbe ricevuto in dono facoltà che gli avrebbero fatto superare ogni tipo di difficoltà nella vita successiva, purché avesse rispettato certi obblighi nei confronti del nonno stesso. In un racconto, ad esempio, un ragazzo incontrò in sogno una figura d'aspetto umano, che poi si trasformò in un' aquila reale. Questa persona era il « signore >> delle aquile. Anche il ragazzo nel sogno fu trasformato in aquila, e, così alato e piumato, volò ver­ so sud col suo nuovo protettore, per poi tornare al punto da cui era partito ( Hallowell 1 9 5 5 , p. 1 7 8 ) . L'idea che u n essere umano possa trasformarsi i n u n orso che si aggira nella foresta, o in un' aquila che svetta nel cielo, è semplice­ mente inconcepibile entro i normali canoni del pensiero occidentale . Ogni creatura nata da genitori umani, si suppone, ricade nei limiti della struttura corporea umana, a prescindere dalle circostanze am­ bientali che può incontrare nella vita. Sono queste peculiarità cor­ poree che sono fisse e durature, mentre i modi di pensare, sentire, parlare e comportarsi - così come ciò che è convenzionalmente noto come > - sono variabili, anche all'interno della storia di vita di un singolo individuo . Questo sembra l'esatto contrario del model7 È significativo che, mentre gli spiriti dei morti e dei nonni hanno la stessa struttura duale, nell'essenza interna e nella forma esterna, solo i primi possono apparire come fanta­ smi, dato che i secondi non muoiono mai (Hallowell 1 9 5 5 , pp. 1 79-r 8 o ) .

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lo ojibwa della persona, in base al quale il corpo, variabile, riveste un'essenza spirituale costante, che comprende le facoltà dell 'auto­ consapevolezza, intenzionalità, sensibilità e parola. Nel loro incontro con gli euro-americani, gli Ojibwa sono stati evidentemente turbati dall'incompatibilità tra queste diverse antologie dell 'essere persona­ le. John Tanner, un bianco cresciuto tra gli Ojibwa all'inizio del XIX secolo, autore poi di un resoconto delle sue esperienze, sostiene che lo stregone-orso, che si aggirava di notte, era in realtà un uomo ve­ stito con una pelle d'orso ( Hallowell 1 9 5 5, p. 1 7 7 ) . Questa e altre dichiarazioni simili da parte d'informatori, nativi e no, possono es­ sere intese, secondo Hallowell, come « razionalizzazioni proposte da individui che stanno tentando di riconciliare le credenze e le osser­ vazioni degli Oj ibwa con l'incredulità incontrata nelle loro relazioni con i bianchi » (Hallowell 1 9 60, p. 3 7 ) . Immaginare la metamorfosi come una sorta di travestimento è certamente un modo per spiegarla - o meglio eliminarla per via di spiegazione - in termini che gli occidentali capirebbero . La forma corporea della persona in realtà non cambia : è semplicemente na­ scosta sotto un indumento esterno, un travestimento. Tuttavia, come ha notato Viveiros de Castro ( 1 99 8 ), l'idea della metamorfosi come travestimento dell'anima, lungi dall'essere una risposta peculiare alla divergenza antologica, è ampiamente riportata nell'etnografia dei popoli nativi amerindi . Contrariamente all'interpretazione di Hallo­ well, sembra che l' idea di travestimento non sia, di per sé, estranea alla comprensione indigena. Ciò che è estraneo è piuttosto l'idea che la funzione dell'abbigliamento sia quella di camuffare o nascondere. Nella cosmologia amerindia, l'abbigliamento non copre il corpo, è un corpo (Viveiros de Castro 1 99 8 , p . 4 8 2 ) . Serve, insomma, non a nascondere ma a rendere capaci: fornisce le attrezzature specifiche ­ fra cui capacità e disposizioni, nonché meccanismi anatomici - grazie alle quali una persona può condurre un particolare tipo di vita nel mondo . Viveiros de Castro (ibid. ) paragona l'adozione di una speci­ fica forma fisica all'indossare una muta da subacqueo, il cui scopo non è di camuffare da pesce chi la indossa, ma di permettergli di nuotare come un pesce . Quindi la metamorfosi non è una copertura, ma un'apertura della persona al mondo. Una persona che può assu­ mere molte forme può presentarsi in ogni genere di situazione ora in una forma, ora in un'altra, e ciascuna forma offre una prospettiva

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diversa. Quanto maggiori sono i poteri di metamorfosi della persona, tanto più ampia è la gamma delle sue possibilità pratiche di essere, e di conseguenza tanto più ampia è la sua esperienza e la portata della sua presenza fenomenica . L'idea che, rivestendosi con le forme corporee di sempre nuovi animali, si possa procedere attraverso una serie di prove che richie­ dono diversi tipi di forza e capacità, è magnificamente illustrata da una storia ojibwa raccolta da Homer Huntington Kidder negli anni Novanta dell' Ottocento. Il narratore era Jacques LePique, un perso­ naggio di origini miste, che parlava correntemente inglese e francese canadese, oltre che l'ojibwa e il cree . Il racconto riguarda un uomo di nome Iran Maker che, insieme a undici compagni, affondò in un lago dopo che la loro barca si era capovolta . Dopo aver incontrato un vecchio, una vecchia e un serpente sul fondo del lago, Iran Maker si ritrovò a cercare spasmodicamente di respirare alla superficie . Pensò al castoro, e allora il castoro venne da lui e gli diede il propri o corpo. Nuotò verso la riva, ma prima che potesse raggiungerla, sentì che stava perden­ do il potere di mantenere la forma del castoro. Quindi pensò alla lontra. Allora la lontra gli diede il suo corpo, e in quella forma egli raggiunse la terra. Lì Iron Maker si ritrovò nudo nel suo stesso corpo. Il clima era gelido [ . . . ] Sarebbe morto di freddo, se non fosse stato per l'aiuto di altri quattro animali che, uno dopo l'altro, gli prestarono i loro corpi per tornare a casa: prima l'orso, nella cui forma fece parecchia strada, poi la lince, poi il procione, e dopo il bue ( bisonte) . Quando Iran Maker perse il potere di mantenere la forma del bue, era già molto vicino a casa. Corse nudo verso casa, fino a stramazzare mezzo morto dal freddo sulla soglia. ( Bourgeois 1 99 4 , p. 69)

Come Puck nel Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare - i cui versi aprono questo capitolo -, che minacciava di apparire nelle forme, successivamente, di un cavallo, un segugio, un maiale, un orso senza testa e un fuoco, Iran Maker riesce a tornare a casa dal fondo del lago, prima come castoro, poi come lontra, poi orso, lince, procione e bue . Tutto ciò ci mette davanti al seguente problema. Possiamo accettare che una persona possa cambiare forma a volontà, finché sappiamo che un tale personaggio esiste solo, come il Puck shakespeariano, come dramatis persona, in una mascherata o in una recita, impersonato da un comune attore umano. Ma se dovessi riferire, in tutta sincerità, di aver incontrato un personaggio come Puck o Iran Maker nella vita

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reale, dubito che si darebbe molta credibilità alle mie affermazioni. La gente direbbe che, se proprio non sto mentendo, allora ho delle alluci­ nazioni, che mi rendono incapace di distinguere i fatti dalla fantasia, o la realtà dal sogno. Eppure questo è esattamente il tipo di affermazioni che fanno gli Ojibwa. Sono, quindi, bugiardi, o deliranti ? Entrambe le accuse sono state mosse abbastanza spesso, sia contro gli Ojibwa sia contro altri che pensano come loro; ciò ribadisce lo stereotipo dell'indiano primitivo che non sa pensare logicamente e di cui non ci si può fidare . Gli antropologi, per temperamento e adde­ stramento, sono inclini ad essere più comprensivi verso ciò che dicono i nativi . In generale, tuttavia, adottano una strategia espositiva non dissimile da quella dello spettatore che assiste a una rappresentazione del Sogno di Shakespeare, cioè una volontaria sospensione dell'incre­ dulità. Questa strategia permette di assolvere il compito di compren­ dere ciò che le persone ci stanno dicendo, senza doverci preoccupare se ci siano fondamenti nella realtà per quello che hanno da dire ( cfr. lngold 2ooo, p. q ) . Lo stesso Hallowell fa proprio questo, quando sostiene che quelli che per gli Ojibwa sono attributi della personalità fanno parte di una complessiva « visione del mondo >> che viene proiet­ tata sulla realtà-come-noi-la-conosciamo. A lui interessa comprendere questa visione del mondo, non la natura fondamentale della realtà. Tuttavia egli prosegue sottolineando che gli Ojibwa stessi non > come categoria del pensiero occidentale . Sin da Platone e Aristotele, è consuetudine in Occidente imma­ ginare il mondo della natura come costituito da una moltitudine di oggetti discreti, le cose, ciascuna con la sua integrità e le sue proprie­ tà essenziali. Queste cose possono essere raggruppate in classi più o meno inclusive sulla base di proprietà selezionate che sono percepite come comuni a tutta la classe. Una classe importante, quella detta delle cose « animate » , comprende tutte quelle cose che si dice posseg­ gano la proprietà della vita. Tutte le altre cose, che non possiedono questa proprietà, sono « inanimate » . C'è stato molto dibattito su ciò che è richiesto perché qualcosa sia vivo : i vitalisti sostennero l'esi­ stenza di una misteriosa forza vitale che secondo loro è infusa in tut­ ti gli organismi; i meccanicisti liquidarono l'idea come una fantasia ascientifica, ma nella loro foga di ridurre gli organismi a meccanismi dissolsero di fatto gli animati nella categoria degli inanimati. Il pro­ blema fu risolto, in un certo qual modo, dalla scoperta della mole­ cola del DNA, popolarmente salutata come > . E in effetti una tale testimonianza può essere addotta: Hallowell sentì parlare di un caso in cui, durante una cerimonia, si osservò una pietra rotolare a lungo, seguendo il mae­ stro della cerimonia attorno alla tenda; in un altro caso, un masso che aveva un contorno simile a una bocca avrebbe effettivamente aperto la > nel momento in cui il suo proprietario la toccò con un coltello; in un altro ancora, un uomo domandò a una certa pietra se appartenesse a lui e ricevette una risposta negativa! Il tratto cruciale di tutti questi esempi è che la proprietà vitale del­ le pietre emerge nel contesto del loro stretto coinvolgimento con certe persone, anzi con persone relativamente potenti. L'animazione, in altre parole, è una proprietà non delle pietre in quanto tali, ma della loro collocazione all'interno di un campo relazionale che include le persone come punti focali di potere8 . Detto altrimenti, il potere concentrato nelle persone trasmette vita a ciò che rientra nella sua sfera d'influenza. Quin­ di la pietra animata non è tanto una cosa vivente quanto un . Ciò rende immediatamente sensata l'osservazione del vecchio, perché il fatto che una pietra sia viva o meno dipenderà dal contesto in cui è collocata e esperita. Ciò spiega anche perché l'animazione è attribuita a dei manufatti ( come pentole e pipe) che sono strettamente legati alla vita delle persone. Ma, per lo stesso motivo, ciò rende insensata la di­ stinzione categorica tra cose viventi e non viventi. Semplicemente non è

8 Nurit Bird-David fa un'osservazione quasi identica nella sua analisi della nozione di devaru tra i Nayaka, cacciatori-raccoglitori dell'India meridionale. Una certa pietra può rivelarsi devaru se viene verso una persona o, come in un caso segnalato, le salta in grem­ bo. Che sia devaru o una pietra comune dipenderà dal fatto che si impegni in un qualche tipo di relazione coi Nayaka. Quindi «i devaru non sono limitati a certe classi di cose. Sono certe cose-in-situazione di qualunque classe o, ancor meglio, sono certe situazioni » ( Bird-David 1999, pp. Sy4-7 5 ) .

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vero, come afferma convinto Scott Atran, che le persone universalmente dividono gli in due classi, di modo che ogni oggetto appartiene o meno al (Atran 1 990, p. 5 6) . Il punto non è che gli Ojibwa traccino le distinzioni classificatorie lungo linee diverse, ma piuttosto che, nella loro antologia, la vita non è affatto una proprietà degli oggetti, ma una condizione dell'essere. In effetti, in senso stretto, nel mondo degli Ojibwa non ci sono da classificare. Come ha mostrato Mary Black, ria­ nalizzando l'etnografia di Hallowell, non è sulla base della loro natura che gli Ojibwa identificano gli oggetti nel loro ambiente quotidiano, come se ciascuno di essi fosse indipendentemente dotato di una com­ binazione fissa di caratteristiche distintive . Piuttosto, tali oggetti sono afferrati > . La natura delle cose che si incontrano, la loro essenza, non è data in anticipo, ma si rivela solo post factum, e talvolta solo dopo un cospicuo intervallo di tempo, alla luce dell'esperienza successiva, che naturalmente può differire da una persona all'altra. Questo modo oj ibwa di trattare la percezione, come dice Black, è fon­ damentalmente anti-tassonomico e vanifica ogni tentativo di racchiu­ derlo in un sistema regolarmente ordinato di divisioni classificatorie (Black 1 9 7 7a, pp. r o r - r o4 ) . La ricerca di campo condotta dalla stessa Black tra gli Ojibwa negli anni Sessanta dà appoggio a queste con­ clusioni. L'unica cosa su cui erano d'accordo i suoi informatori era il rifiuto delle ordinate classificazioni dell'analisi linguistica formale: non consideravano le classi > e > come mutuamente esclusive, e gli oggetti potevano liberamente spostarsi da una classe all'altra, a seconda del contesto (Black r 9 77b, p. 14 3 ) . In modo ancor più significativo per quanto ci concerne qui, Black osserva anche che il termine oj ibwa bema. diziwa. d, che è quello che si avvicina di più a > , si traduce letteralmente come > . Eppure il termine potrebbe essere più correttamente tradotto, suggerisce Black, come > . Ora, Hallowell ci dice che la parola ojibwa per la vita > , che include salute, longevità e fortuna, è pimadaziwim. In quanto tale, essa è qualcosa che ogni persona si sforza di raggiungere ( r 9 6o, p. 4 5 ) . Ma la vita in questo senso non è data, non è già costituita come un attributo dell'essere che può quindi essere espresso in un modo o nell'altro. È piuttosto un pro-

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getto a cui si deve continuamente lavorare. La vita è un compito9 . In quanto processo continuo di rinnovamento, la vita non esprime semplicemente il modo in cui le cose sono, ma è essa stessa il generare essere. E il potere, in effetti, è il potenziale che il processo vitale ha di generare esseri dalle forme molteplici. Così concepito, esso è una proprietà non di individui isolati ma del campo totale delle relazioni in cui sono situati. Solo all'interno di un tale campo una persona può sforzarsi di raggiungere pimdddziwim ( Hallowell 1 9 60, p. 4 8 ) . Torniamo per un momento al caso della pietra rotolante che seguì il suo padrone attorno alla tenda cerimoniale. In base a che cosa essa fu considerata viva ? Chiaramente, il criterio decisivo era l'osservazione che si muoveva. Non si muoveva di sua propria volontà, poiché era controllata dal potere del padrone; tuttavia la pietra agiva, non era agi­ ta, come, ad esempio, se fosse stata spinta o trascinata. Ma ancora una volta, nell'affrontare questo fenomeno, dobbiamo diffidare dell'idea ti­ picamente occidentale che il mondo è pieno di cose che possono o meno muoversi di propria iniziativa, a seconda che siano della classe animata o inanimata. Come abbiamo visto, per gli Ojibwa non avrebbe più senso che per noi supporre che la pietra esista come una cosa vivente, come se la proprietà della vita fosse un aspetto della sua natura sostanziale, della sua « cosalità» , in quanto distinta dal suo movimento nel mon­ do 1 0. Il movimento non è un'espressione esteriore della vita, ma è lo stesso processo in cui la pietra è viva. Lo stesso si può dire degli alberi, che sono inclusi da Hallowell nella lista di cose formalmente classificate nella grammatica oj ibwa come « animate>> (Hallowell r 9 6o, p. 23 ) . Un 9 I popoli Cree, vicini degli Ojibwa che parlano una lingua algonchina strettamente imparentata, hanno una parola praticamente identica che significa «vita » , pimaatisiiwin. Colin Scott ( r 9 89 , p. 1 9 5 ) riferisce che un uomo cree tradusse la parola come « nascita continua» (vedi Ingold 2000, p. 5 r ). Questa traduzione sembra in perfetta consonanza con le nozioni degli Ojibwa. Io In una discussione sull'attribuzione dell' anima alle pietre, ]. Baird Callicott suggeri­ sce che è altrettanto ragionevole supporre che tutte le cose corporee, inclusi gli animali, le piante e persino le pietre, abbiano una « coscienza associata » , quanto supporre che nessuno ce l'abbia ( con la singola eccezione degli esseri umani ) . Egli identifica la prima ipotesi con «l'atteggiamento indiano» e la seconda con l'atteggiamento degli europei ed euro-america­ ni. Ma, nel creare questo contrasto, Callicott rimane imprigionato nel suo preconcetto oc­ cidentale per cui «essere "vivo " , cioè cosciente, consapevole o in possesso di uno spirito » è una proprietà intrinseca alle cose in quanto tali, invece di pensare la vita come movimento generativo in cui le cose vengono in essere attraverso lo sviluppo di campi di relazione più ampi (Callicott 1 9 8 2, pp. 3 0 1 - 3 0 2 ) .

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biologo occidentale sarebbe senza dubbio più incline a considerare come l'albero che la pietra, facendo leva su certi aspetti della sua natura sostanziale come il DNA o la chimica del carbonio. Per un cacciatore delle foreste, tuttavia, ciò che rende vivo un albero sono i suoi movimenti caratteristici, così come sono registrati nell'esperienza: l'ondeggiare dei suoi rami al vento, lo stormire delle foglie, il tendere dei rami verso il sole. Ricordiamo che per gli Ojibwa i venti e il sole sono persone e possono muovere gli alberi proprio come certi umani potenti possono muovere le pietre . Esseri diversi, che si qualifichino o meno come persone, hanno scherni caratteristici di movimento - modi di es­ sere vivi - che li rivelano per quello che sono. Il sole, per esempio, ha il suo schema regolare di alba e tramonto, una regolarità che, come dice Hallowell, > ( 1 9 60, p. 29 ) . Se dovessimo considerare il sole astraendolo dal suo movimento osservabile nel cielo, allora apparirebbe davvero come un semplice corpo fisico, e il suo movimento come uno spostamento mec­ canico. Ma questo non è il modo in cui esso ci si presenta nell'esperienza immediata. Piuttosto, il movimento appartiene al modo di essere del sole, come i miei movimenti abituali fanno parte del mio modo di essere. E questi movimenti, del sole nei cieli, degli alberi nel vento, degli animali e degli esseri umani mentre svolgono i loro compiti quotidiani, non si svolgono sullo sfondo di una natura pre-fissata, con le sue posizioni e distanze tutte predisposte in anticipo, perché sono parte integrante del processo di vita totale, di una generazione continua, attraverso la quale il mondo stesso è sempre sul punto di nascere. In breve, gli esseri viventi non si muovono sul mondo, ma si muovono insieme ad essor r .

Il significato dell'esperienza A questo punto vorrei tornare all'osservazione di Hallowell, a pro­ posito della vitalità delle pietre, secondo cui > alternativi, vale a dire come (vedi lngold 2ooo, p. 1 9 ) . Quindi si deve invo­ care un principio ulteriore, la mente o coscienza, per spiegare i poteri di intenzionalità e consapevolezza che normalmente attribuiamo alle persone . In sistemi animisti come quello degli Ojibwa, questi poteri sono, a quanto si dice, proiettati su tipi di entità non umane. Finché seguiamo Descola nel presupporre che, in realtà, essi sono riservati agli esseri umani, tale proiezione risulta inevitabilmente antropomorfica. Se, in altre parole, solo gli umani hanno davvero intenzioni, rappresen­ tare dei non-umani, ad esempio gli orsi, come se fossero persone con intenzioni vuoi dire necessariamente rappresentarli come umani ( cfr. Kennedy 1 9 9 2, p . 9 ) . Ecco perché Descola inserisce una componente di antropomorfismo nella sua stessa definizione di animismo, come sistema che assegna capacità umane agli enti naturali. Solo gli esseri provvisti di queste doti, a quanto pare, possono avere relazioni sociali. Partendo da una nozione oj ibwa di animismo, inteso non come una proprietà empirica delle cose ma come una condizione esistenziale dell'essere, la mia argomentazione ha seguito un percorso alternativo. Questo è consistito nel concepire il mondo dal punto di vista dell'essere al suo interno, come campo totale di relazioni il cui dispiegarsi equiva­ le al processo stesso della vita. All'interno di questo campo, ogni essere emerge - con la sua particolare forma, disposizione e capacità - come luogo di una crescita, o, in termini ojibwa, come centro di potere. La

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mente, quindi, non è aggiunta alla vita m a è immanente nell'impegno intenzionale, nella percezione e nell'azione, degli esseri viventi con ciò che costituisce i loro ambienti. Quindi il mondo non è un campo ester­ no di oggetti a cui io guardo, o su cui faccio certe cose, ma è piuttosto in corso o in continua generazione, con me e intorno a me . Poiché tale impegno primario è una condizione dell'essere, deve anche essere una condizione della conoscenza, indipendentemente dal fatto che la co­ noscenza in questione sia considerata «scientifica» . Ogni conoscenza propriamente scientifica si basa sull'osservazione, ma non può esserci osservazione senza partecipazione: senza cioè che l'osservatore com­ bini il movimento della propria attenzione coi flussi d'attività circo­ stanti . Quindi l'approccio che ho seguito qui non è un'alternativa alla scienza, come l'animismo è alternativo al naturalismo; cerca piuttosto di ripristinare le pratiche della scienza nei contesti della vita umana nel mondo . Perché è da tali contesti che si sviluppa ogni conoscenza. Questo approccio ha altre due implicazioni che vorrei esplorare brevemente . La prima ci riporta alla questione dell 'antropomorfi­ smo, la seconda riguarda quello che chiamerò il « modello genea­ logico » . La scienza naturale, come ha detto von Bertalanffy ( I 9 5 5 , pp. 2 5 8 - 2 5 9 ) , si accosta al mondo attraverso una « progressiva de­ antropomorfizzazione » , cioè, attraverso il tentativo di cancellare dal­ la propria nozione di realtà tutto ciò che può essere imputato all'e­ sperienza umana. Così purificata, la natura si rivela a una ragione umana distaccata come ambito delle cose in sé stesse . Anche l'anto­ logia ojibwa potrebbe essere considerata un processo di de-antropo­ morfizzazione, che però funziona in una direzione completamente diversa. Invece d'interrompere il legame tra la realtà e l'esperienza umana, l'antologia ojibwa riconosce la realtà dell'esperienza di es­ seri altro-che-umani20• Ogni esperienza dipende dall'assumere una posizione nel mondo, legata ad una particolare forma di vita, ma per gli Oj ibwa quella umana è solo una forma tra tante . Ciò, ovviamen­ te, scalza l'assunto fondamentale di Descola nel descrivere i sistemi animisti come intrinsecamente antropomorfici : cioè che l'esperienza dipenda da poteri di consapevolezza e intenzionalità che contraddi­ stinguono chi li possiede come univocamente umano.

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In altri termini, essa rinuncia al presupposto antropocentrico che automaticamente ren­ de antropomorfiche tutte le attribuzioni di intenzioni e sentimenti a esseri non umani (cfr. n. 5 ) .

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Il modello genealogico è un modo di pensare le relazioni tra esseri animati che si fonda sull'idea che ognuno di essi è specificato, nella sua natura essenziale, prima di iniziare la sua vita nel mondo. Secon­ do questo modello, gli elementi di tale specificazione sono ricevuti come una sorta di dotazione, trasmessa indipendentemente dall'in­ terazione dell'essere con il suo ambiente . Ed è nella trasmissione o «eredità >> di questa dotazione, di generazione in generazione, che le relazioni sono costituite . Prenderò in considerazione più estesamente questo modello e le sue implicazioni nel capitolo 8 21 • Basti dire a questo punto che il modello è centrale non solo per il modo in cui la biologia moderna intende le specie e le loro connessioni filogene­ tiche, ma anche per la convenzionale concezione antropologica della parentela. Quindi una semplice linea su un diagramma di parentela indica che qualche componente dell'essenza di una persona è ricevuta per trasmissione al momento del concepimento, prima della crescita di quella persona in un ambiente . Ora, dal modello genealogico, è facile ricavare le seguenti proposizioni: primo, l'appartenenza alla specie umana, o a qualsiasi altra, è fissata per nascita; secondo, gli animali più strettamente legati agli umani sono quelli con cui hanno le connessioni genealogiche più strette ( cioè le grandi scimmie ); terzo, le relazioni umane di parentela non possono attraversare la barriera tra le specie . Dal punto di vista ojibwa, nessuna di queste proposizioni è valida. Abbiamo visto che gli esseri possono mutare da una specie all'al­ tra, che gli animali più vicini agli umani sono quelli, come gli orsi e le aquile, che partecipano allo stesso mondo-della-vita, e che una specifica categoria di parenti - i «nonni >> - ammette persone di en­ trambi i generi, umani e altro-che-umani . L'antologia ojibwa è però incompatibile con il modello genealogico anche a un livello più fon­ damentale . Infatti, se le forme degli esseri non sono espresse ma gene­ rate all'interno del processo di vita, allora queste forme non possono essere trasmesse come parte di una specificazione indipendente dal contesto . In altre parole, non si può stabilire la forma che un essere prenderà indipendentemente dalle circostanze della sua vita nel mon­ do . La parentela, in particolare, non è una questione di trasmissione di componenti di una certa specificazione della persona, ma ha a che 21

[ Qui non tradotto, cfr. lngold 2ooo.]

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fare coi modi in cui altre persone che sono nel mio ambiente, attra­ verso la loro presenza, le loro attività e la cura che forniscono, contri­ buiscono al processo della mia crescita personale e del mio benessere . E poiché questi altri possono essere sia non-umani sia umani, non c'è niente di strano nell'estensione delle relazioni di parentela attra­ verso i confini delle specie, né dobbiamo stabilire una distinzione tra parentela > e > per far posto a casi di questo tipo. Per ricevere benedizioni dai miei nonni altro-che-umani, non è necessario supporre che io discenda da loro in senso genealogico.

Conclusione Da Darwin in poi, la scienza occidentale ha strettamente aderito alla teoria che gli umani differiscono dagli altri animali per grado anziché per tipo . Eppure è una teoria che ha sollevato più problemi di quanti ne abbia risolti. Perché se chiediamo su quale scala si debbano misura­ re queste differenze di grado, scopriamo che la scala è quella che pone gli esseri umani inequivocabilmente in cima. È la scala dell'ascesa della ragione, e del suo graduale trionfo sulle catene dell'istinto. Il punto su cui Darwin differiva da molti dei suoi predecessori ( anche se certamente non tutti) era il fatto di attribuire dei poteri di ragionamento agli animali subumani, e nel contempo riconoscere il forte dominio dell'istinto anche sul comportamento degli esseri umani. Come Darwin sosteneva in The Descent ofMan ( 1 8 7 1 , capp. 3 e 4 ) , gli inizi della ragione possono essere rinvenuti molto in basso nella scala della natura, ma solo con l'emergere dell'umanità la ragione ha iniziato a prendere il sopravvento. In breve, per Darwin e per i suoi numerosi seguaci, l'evoluzione delle specie in natura è stata anche un'evoluzione che ha progressivamente liberato la mente dagli impulsi delle disposizioni innate. Inoltre, nell'includere l'av­ vento della scienza e della civiltà sotto lo stesso processo evolutivo che aveva formato gli umani dalle scimmie e le scimmie da creature più bas­ se nella scala, Darwin fu costretto ad attribuire l'ascesa della ragione in Occidente a dotazioni innate, una conclusione che oggi è assolutamente inaccettabile . La scienza moderna ha reagito, in gran parte, dissociando il processo storico di civilizzazione dall'evoluzione della specie, compro­ mettendo così la tesi della continuità . Gli esseri umani vengono fatti apparire diversi per grado e non per tipo dai loro antecedenti evolutivi

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attribuendo il cammino della storia a un processo che differisce per tipo, non per grado, dal processo di evoluzione! In questo capitolo ho cerca to un modo per compre nde re la continuità delle relazioni tra gli esseri umani e tutti gli altri abi­ tanti della terra che non ignori le difficoltà dell'argomentazione basata sul grado . Questa argome ntazione non si perita di essere antropocentrica nel considerare i poteri intellettuali umani come misura di tutte le cose, né può comprendere l'evoluzione delle spe­ cie in natura se non supponendo un' evoluzione della ragione che le estrae dalla natura stessa; inoltre , se applicata coerentemen­ te , è incompatibile con qualsiasi impegno etico alla condivisione del potenziale umano . Ho cercato di mostrare che l ' antologia di un popolo non occidentale, gli Oj ibwa, indica la via verso una soluzion e . Non intendo affatto suggerire che l 'atteggiamento de­ gli Oj i bwa verso la vita sia privo di paradossi propri, né voglio sostenere che fornisca un sostituto praticabile della scienza . Più sopra ho sugge rito che ciò a cui sono arrivati gli Ojibwa non è una scienza alternativa della natura, be nsì una poetica de ll ' abita­ re . In passato c'è stata la tendenza a liquidare questa poetica come cascame di una me ntalità primitiva, ormai superata dall' avvento della moderna visione de l mondo scientifica . La mia conclusione, viceversa, è che l ' attività scientifica è sempre e nece ssariamente ra­ dicata in una poetica dell'abitare . lo credo che que sto fatto sia da celebrare, invece di nasconderlo con imbarazzo, e che far questo ci aiuterebbe anche a fare scienza in modo migliore .

Riferimenti bibliografici

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non proceda a caso, ma che sia principalmente basato sulla dipen­ denza [predication] antologica . Ecco perché contrapporre il mondo come totalità delle cose, da un lato, e i mondi multipli della realtà esperita, dall'altro, è fuorviante, pur essendo diventato un assunto di base dell'epistemologia moderna, nonché fondamento implicito di gran parte di ciò che va oggi sotto il nome di antropologia. lo sostengo che > , « analogismo >> e «naturalismo>> , dando i n questo modo significati nuovi a concetti antropologici di vecchia data . Esaminiamo alcune proprietà di queste modalità d'identificazio­ ne . L'animismo, inteso come continuità di anime e discontinuità di corpi, è molto comune in America del Sud e del Nord, in Siberia, e in alcune parti del Sud-Est asiatico, in cui le persone attribuiscono soggettività a piante, animali e altri elementi del loro ambiente fisico, e stabiliscono con questi enti le più varie forme di relazioni personali: amicizia, scambio, seduzione, ostilità. In questi sistemi animisti, gli umani e la maggior parte dei non-umani sono concepiti come dotati dello stesso tipo d 'interiorità. È per via di questa soggettività comune che si dice che animali e spiriti posseggano caratteristiche sociali: vi­ vono in villaggi, obbediscono a regole riguardanti la parentela e a co­ dici etici, si dedicano ad attività rituali, si scambiano dei beni. Tutta­ via il riferimento comune della maggior parte delle entità del mondo è l'umanità come condizione generale, non l'umano come specie . In

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altri termini, gli umani e tutti i tipi di non-umani con cui gli umani in­ teragiscono hanno ciascuno una diversa fisicità, nel senso che le loro identiche essenze interne sono alloggiate in diversi tipi di corpi, spes­ so descritti come vesti che si possono indossare o togliere, per meglio sottolineare la loro autonomia dalle interiorità che le abitano. Ora, come ha giustamente osservato Eduardo Viveiros de Castro ( 1 9 9 6 ) , spesso queste vesti specifiche generano prospettive contrastanti sul mondo, in quanto le limitazioni fisiologiche e percettive di un certo tipo di corpo impongono a ciascuna classe di esseri una posizione ed un punto di vista specifico nell'ecologia generale delle relazioni. Le persone umane e non umane hanno una visione integralmente « cul­ turale » della propria sfera vitale, perché queste entità condividono sì lo stesso tipo d'interiorità, ma il mondo che apprendono è diverso perché hanno strumentazioni diverse . La forma dei corpi è dunque qualcosa di più della conformazione fisica : è l'intero strumentario biologico che permette a una specie d'occupare un habitat e di con­ durvi la vita caratteristica in base alla quale è identificata. Per quan­ to molte specie abbiano in comune una data interiorità, ciascuna di esse possiede quindi la propria fisicità, sotto forma di un particolare etogramma che ne determina l 'ambiente ( Umwelt, nel senso dato al termine da Jakob von Uexkiill) 9 . In altri termini, le caratteristiche sa­ lienti dell'ambiente di ciascuna specie sono quelle che si combinano coi suoi specifici utensili corporei, quali le modalità di locomozione, di riproduzione, di acquisizione del cibo, e così via . Passiamo adesso alla seconda modalità d'identificazione, in cui al­ cuni esseri del mondo condividono insiemi di attributi fisici e morali che attraversano i confini di specie. La chiamo totemismo, ma in un senso molto diverso da quello che si è associato al termine dai tempi in cui Lévi-Strauss tentò di smontare ! ' « illusione totemica » ro. Que­ sto perché il totemismo è più che un meccanismo di classificazione universale : è anche, e forse principalmente, un'antologia molto origi­ nale, che si trova esemplificata nel modo migliore nell'Australia abo­ rigena. In quel contesto, il totem principale di un gruppo di umani, di 9 [Di cui cfr. in particolare la Theoretische Biologie, Berlin 1 9 20, 1 9 28', tr. it. di Luca Guidetti, Biologia teoretica, Quodlibet, Macerata 20 1 5 ( N.d. T. ).] ro [Su ciò Lévi-Strauss, Le Totémisme aujourd 'hui, Puf, Paris 1 9 62, tr. it. di Danilo Montaldi, Il totemismo oggi, Feltrinelli, Milano 1 9 64; e si veda la discussione di Martin Holbraad nel saggio tradotto in questo volume ( N. d. T. ) .]

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solito un animale o una pianta, e tutti gli esseri, umani e non umani, che sono affiliati ad esso sono considerati come aventi in comune cer­ ti attributi generali di conformazione fisica, sostanza, temperamento e comportamento, in virtù di un'origine comune ubicata nello spazio. Ora, questi attributi non sono derivati da ciò che impropriamente è chiamato entità eponima, dato che la parola che designa il totem in molti casi non è il nome di una specie, cioè di un'unità tassonomica, ma il nome di una proprietà astratta presente in quella specie e così pure in tutti gli esseri sussunti sotto di essa in un raggruppamento totemico . Ad esempio, le metà totemiche dei Nungar dell'Australia sud-occidentale si chiamavano rispettivamente maarnetj, che si può tradurre « il prenditore» , e waardar, che significa «l'osservatore » , e questi due termini si usano anche per designare i totem di queste due metà, il Cacatua Bianco e il Corvo ( von Brandenstein 1 9 77) . In questo caso i nomi delle classi totemiche sono termini denotanti proprietà che si usano anche per designare le specie totemiche, anzi­ ché l'inverso, cioè nomi di taxa zoologici da cui inferire gli attributi tipici delle classi totemiche . La differenza fondamentale è quella tra aggregati di attributi che sono comuni a umani e non umani entro classi designate da termini astratti, non quella tra generi naturali che fornirebbero naturalmente, in virtù delle loro manifeste discontinuità di forma e comportamento, uno schema analogico da usare per strut­ turare delle discontinuità sociali. La terza modalità d'identificazione, l' analogismo, dipende dall'i­ dea che tutte le entità del mondo siano frammentate in una molte­ plicità di essenze, forme e sostanze, separate da minuscoli intervalli, spesso ordinate lungo una scala graduata, come nella Grande Catena dell'Essere, che ha costituito il principale modello cosmologico del Medioevo e del Rinascimenton . Questa disposizione consente di ri­ combinare i contrasti iniziali in una densa rete di analogie che col­ legano le proprietà intrinseche di ciascuna entità autonoma presente nel mondo . L'aspetto più cospicuo di questi sistemi è l'accortezza con la quale tutte le somiglianze suscettibili di fornire una base per infe­ renze sono attivamente individuate, specialmente in quanto applica­ bili a campi cruciali della vita, in particolare la prevenzione e il trat11

[L'espressione è stata resa celebre da Arthur Lovej oy, The Great Chain of Being, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1 9 3 6, tr. it. di Lia Formigari, La G rande Ca­ tena dell'Essere, Feltrinelli, Milano I 9 6 6 (N. d. T. ) .)

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tamento delle malattie e delle sventure. L'ossessione per l e analogie può diventare elemento dominante, come nella Cina antica, in cui, stando a Granet, > ( 1 9 3 4 , tr. it. p . 27 1 ) . Peraltro, l'analogia è qui soltanto conseguenza del­ la necessità di organizzare un mondo composto da una molteplicità d'elementi indipendenti. L'analogia diventa possibile e pensabile solo se i termini che congiunge sono inizialmente distinti, se cioè il potere di scoprire somiglianze tra le cose si applica a singolarità che, me­ diante questo processo, sono parzialmente sottratte al loro originario isolamento . Potremmo considerare l'analogismo come un sogno er­ meneutico di completezza e totalizzazione, che deriva da un'insoddi­ sfazione: nell'asserire che tutti i componenti del mondo sono separati da piccolissime discontinuità, esso accarezza la speranza d'intessere tutti questi elementi lievemente differenziati in una tela di affinità ed astrazioni che abbia tutta l'apparenza di una continuità. Ma lo stato ordinario del mondo è in effetti una molteplicità di differenze che riverberano, e la somiglianza non è che il mezzo da cui ci si aspetta che questo mondo in frammenti sia reso intelligibile e sopportabile. Questa moltiplicazione dei pezzi elementari del mondo, che risuona­ no in ciascuna delle sue parti, inclusi gli umani, suddivisi in numerose componenti in parte ubicate fuori dai loro corpi, è un tratto distinti­ vo delle antologie analogiche ed è il miglior indizio per riconoscerle. A parte il caso paradigmatico della Cina, questo tipo d'antologia è molto comune in varie parti dell'Asia, nell'Africa occidentale, o nelle comunità native mesoamericane e andine. L'ultima modalità d 'identificazione, il naturalismo, corrisponde alla nostra antologia. Il naturalismo non è solo l'idea che esiste la natura, che certe entità debbano la propria esistenza e sviluppo a un principio che è sottratto tanto al caso quanto agli effetti della volontà umana. Il naturalismo non indica soltanto l' avvento, convenzional­ mente situato nel XVII secolo, di un campo antologico specifico, un luogo di ordine e necessità in cui niente avviene senza una causa. Esso implica anche una controparte, un mondo di artificio e di libera volontà, la cui complessità è venuta emergendo attraverso attente analisi fino a quando si è resa necessaria, nel corso del XIX secolo, l'istituzione di scienze speciali, col compito di stabilizzarne i confini e i caratteri. Se consideriamo il naturalismo - ossia la coesistenza di

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un'unica natura unificante e una molteplicità di culture - non come lo schema complessivo che permette l'aggettivazione di ogni realtà, ma come una tra le varie modalità dell'identificazione, ecco che le sue proprietà contrastive risaltano più chiaramente . In particolare, il naturalismo rovescia le premesse antologiche dell'animismo, per­ ché, anziché affermare l' identità dell'anima e la differenza dei corpi, dipende da una discontinuità tra le varie interiorità e una continuità nella materia. Ciò che per noi distingue gli umani dai non-umani è la mente, l'anima, la soggettività, una coscienza morale, un linguaggio, e così via, allo stesso modo in cui i gruppi umani si distinguono re­ ciprocamente per una disposizione collettiva interiore che un tempo era chiamata Volksgeist, o génie d'un peuple, ma che oggi ci è più familiare sotto l'etichetta moderna di > . D'altro canto, sia­ mo tutti consapevoli, specialmente dopo Darwin, che la dimensione fisica degli umani li colloca in un continuum materiale in cui essi non si stagliano come singolarità . Il fatto che organismi non umani, bio­ logicamente a noi molto vicini, siano esclusi dallo status di persone è un indice del privilegio che, nella nostra modalità d'identificazione, è assegnato a criteri basati sull'espressione di una presunta interiorità, anziché a criteri di continuità materiale . Queste maniere di scoprire e rimarcare certe pieghe del nostro ambiente non vanno intese come una tassonomia di ( Latour I 99 I )5 all' antropologia stessa, non per condan­ narla in quanto colonialista, o scongiurare il suo gusto per l'esotico, o minare il suo campo intellettuale, ma per farle dire qualcos'altro ? Qualcosa di altro non solo dal discorso del nativo, perché questo l'antropologia non può evitare di farlo, ma qualcos'altro dal discorso che l'antropologo nel discorrere del discorso del nativo enuncia, di solito sottovoce, riguardo a sé stesso6 ? 5 [Il sottotitolo di Latour ( 1 9 9 1 ), omesso nella traduzione italiana, è appunto Essai d'anthropologie symétrique (N. d. T. ) . ] 6 Siamo tutti nativi, m a nessuno è nativo tutto i l tempo. Come ricorda Lambek ( 1 9 9 8 , p. 1 1 3 ) i n u n commento sulle nozioni d i habitus e simili, «le pratiche incorporate sono svolte da agenti che sono comunque in grado di pensare in modo contemplativo; non c'è niente che "non c'è bisogno di dire" per sempre» . Pensare in modo contemplativo, si noti, non significa pensare come pensano gli antropologi: le tecniche di riflessione differiscono in modo cruciale. l: antropologia a rovescio del nativo (ad esempio i cargo cults melanesiani; cfr. Wagner 1 9 8 1 , pp. 3 1 -3 4 , tr. it. pp. 46 sgg. ) non è come l'auto-antropologia dell'an­ tropologo ( Strathern 1 9 87, pp. 30-3 1 ) : un'antropologia simmetrica fatta dall'interno della

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S e facessimo tutto ciò, direi che staremmo facendo quella che è sempre stata propriamente chiamata . Come risulterà ormai chiaro, la nozione di concetto ha qui un significato ben determinato. Assumere le idee indigene come concetti significa assumerle come dotate di una significazione propriamente filosofica, o come potenzialmente suscettibili di un uso filosofico. Assunzione irresponsabile, si dirà, tanto più che non solo gli in­ dios non sono filosofi, ma non lo è nemmeno - sia rimarcato con for­ za - l'autore di queste pagine . Come applicare, ad esempio, la nozio­ ne di concetto a un pensiero che apparentemente non ha mai trovato necessario rivolgersi su sé stesso, e che rimanda più allo schematismo fluido e variegato del simbolo, della figura e della rappresentazio­ ne collettiva che all'architettura rigorosa della ragione concettuale ? Non c'è notoriamente un abisso storico e psicologico, una > fra l 'immaginario mitico pan-umano e l'universo della ra­ zionalità ellenico-occidentale (Vernant 1 9 9 6, p. 229 ) ? E così pure fra il bricolage del segno e l'ingegneria del concetto ( Lévi-Strauss 1 9 6 2), fra l a trascendenza paradigmatica della Figura e l'immanenza sin­ tagmatica del Concetto ( Deleuze e Guattari 199 1 ), fra un'economia intellettuale di tipo immaginistico-ostensivo e una di tipo dottrinale­ dimostrativo (Whitehouse 2ooo) ? In realtà, ho diversi dubbi su tutto ciò, che è retaggio più o meno diretto di Hegel. E prima ancora, ho i miei motivi per parlare di concetto. Qui mi soffermerò solo sul primo di questi motivi, che discende dalla decisione di assumere le idee nati­ ve come situate sullo stesso piano delle idee antropologiche . Come si diceva, l'esperienza qui proposta comincia con l' affermazio­ ne dell'equivalenza di diritto fra i discorsi dell'antropologo e del nativo,

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così come della condizione reciprocamente costitutiva di questi due di­ scorsi, che accedono all'esistenza in quanto tali solo nel momento in cui entrano in una relazione di conoscenza. I concetti antropologici attualiz­ zano tale relazione, e sono perciò completamente relazionali, nella loro espressione come nel loro contenuto. Non sono dunque né rispecchia­ menti veridici della cultura del nativo (il sogno positivista), né proiezioni illusorie della cultura dell'antropologo (l'incubo costruzionista) . Ciò che essi riflettono è una certa relazione d'intelligibilità tra le due culture; e ciò che proiettano sono le due culture come propri presupposti immagi­ nati. Con ciò, essi operano un doppio sradicamento: sono come vettori che sempre puntano nell'altra direzione, interfacce trans-contestuali la cui funzione è rappresentare, nel senso diplomatico del termine, l'altro nel suo proprio, da una parte come dall'altra. I concetti antropologici, insomma, sono relativi perché sono rela­ zionali, e sono relazionali perché mettono in relazione . Questa origine e questa funzione sono di solito marcate dal fatto che questi concetti hanno come > una parola estranea : mana, totem, kula, potlatch, tabu, gumsa/gumlao ecc. Altri concetti, non meno autentici, hanno una firma etimologica che evoca invece analogie fra la tradizione cul­ turale da cui è emersa la disciplina e le tradizioni che ne sono l'oggetto: dono, sacrificio, parentela, persona, e così via. Altri ancora, altrettanto legittimi, sono invenzioni verbali che mirano a generalizzare dispositivi concettuali caratteristici dei popoli studiati - animismo, opposizione segmentaria, scambio ristretto, schismogenesi - oppure, e in manie­ ra più problematica, dirottano su un'economia teorica specifica certe nozioni diffuse nella nostra tradizione - divieto dell'incesto, genere, simbolo, cultura ecc. - cercando così di universalizzarle26• Risulta quindi che non pochi dei concetti, problemi, entità ed agenti proposti dalle teorie antropologiche hanno origine nell'imma­ ginario messo in campo dalle società stesse che tali teorie pretendono di spiegare . Non sarà forse da cercare qui l'originalità dell'antropo­ logia, in questa sinergia tra concetti e pratiche provenienti dai mondi del > e dell' > ? Riconoscere ciò aiuterebbe fra l'al­ tro ad attenuare il nostro complesso d'inferiorità nei confronti delle > . Come osserva Latour :

26 Circa la «firma » delle idee filosofiche e scientifiche e il « battesimo » dei concetti, cfr. Deleuze e Guattari ( 1 99 1 , pp. I J , 28-29, tr. it. pp. XVI, 1 4- 1 5 ) ,

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La descrizione del kula è sullo stesso piano d i quella dei buchi neri. I sistemi di alleanze complessi sono altrettanto ricchi di immaginazione quanto i com­ plessi scenari concepiti per i geni egoisti. Comprendere la teologia degli abori­ geni australiani è altrettanto importante quanto mappare le grandi faglie sotto­ marine. Il sistema di proprietà terriera delle Trobriand è un oggetto scientifico interessante al pari di un carotaggio della calotta polare. Se si tratta di quel che conta davvero nella scienza - cioè il contributo d'innovazione apportato alle agentività che costituiscono l'arredo del nostro mondo - l'antropologia può figurare benissimo ai primi posti della gerarchia delle discipline27. ( 1 99 6a, p. 5 )

In questo passo, l'analogia è tra le concezioni indigene e gli oggetti delle scienze cosiddette naturali . Questa è una prospettiva possibile, perfino necessaria: bisogna essere in grado di produrre una descrizio­ ne scientifica delle idee e pratiche indigene come se fossero oggetti del mondo, o meglio perché siano oggetti del mondo. ( Non si dimentichi che gli oggetti scientifici di Latour sono tutt'altro che entità > e indifferenti, in paziente attesa di una descrizione ) . Un' altra possibile strategia consiste nel comparare le concezioni indigene e le teorie scientifiche, come fa Horton, secondo la sua > ( 1 9 9 3 , pp. 3 4 8 - 3 5 4 ) , che anticipa alcuni aspetti dell' antro­ pologia simmetrica di Latour. Un'altra ancora è la strategia adottata qui. Credo che l'antropologia sia sempre stata troppo ossessionata dalla > , non solo in rapporto a sé stessa ( se sia o non sia, se possa o non possa, se debba o non debba essere una scienza ), ma soprattutto - e qui sta il vero problema - in rapporto alle concezioni dei popoli che studia : sia per squalificarle come errori, sogni, illusio­ ni, e poi spiegare scientificamente come e perché gli > non rie­ scono a dare spiegazioni scientifiche (o a spiegarsi scientificamente) ; sia per promuoverle come p i ù o meno omogenee alla scienza, come frutti di una medesima volontà di sapere consustanziale all'umanità. Di qui la somiglianza di Horton, di qui la scienza del concreto di Lévi-Strauss ( Latour 1 9 9 1 , pp . 1 3 3 - 1 3 4 ) . L'immagine della scienza - questa specie di controvalore in oro del pensiero - non è tuttavia l'unico terreno, né per forza il migliore, sul quale relazionarsi con l'attività intellettuale dei popoli estranei alla tradizione occidentale. Immaginiamo un'altra analogia rispetto a quella di Latour, o un'al­ tra somiglianza rispetto a quella di Horton. Un'analogia in cui, inve2 7 La citazione e il capoverso che la precede sono tratti, per cannibalismo, da Viveiros De Castro ( 1 999, p. 1 5 3 ) .

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ce di considerare le concezioni indigene come entità simili ai buchi neri o alle zolle tettoniche, le si assume come qualcosa che sta sullo stesso piano del cogito o della monade. Diremo allora, parafrasando la precedente citazione, che il concetto melanesiano di persona come « dividuo » ( Strathern 1 9 8 8 ) è altrettanto ricco d'immaginazione quan­ to l'individualismo possessivo di Locke; che comprendere la « filosofia amerindia della chieftainship» ( Clastres 1 9 74 ) 28 è importante quanto commentare la dottrina hegeliana dello Stato; che la cosmogonia maori è pari ai paradossi eleatici o alle antinomie kantiane (Schrempp 1 9 9 2); che il prospettivismo amazzonico è un nodo filosofico meritevole dello stesso interesse del sistema di Leibniz, e così via. E se si tratta della cosa più importante nella valutazione di una filosofia - la sua capacità di creare nuovi concetti -, allora l'antropologia, senza pretendere di sostituirsi alla filosofia, resta un potente strumento filosofico, capace di ampliare almeno un poco gli orizzonti così etnocentrici della nostra filosofia, e en passant di liberarci della cosiddetta antropologia « filoso­ fica » . Nell'icastica definizione di Tim lngold ( 1 99 2, p. 69 6), che è me­ glio lasciare in lingua originale : « anthropology is philosophy with the people in » . Con people lngold intende qui ordinary people, la gente (ivi ) , ma sta anche giocando col significato di people come « popolo » o meglio ancora « popoli » . Una filosofia con dentro altri popoli, dunque: la possibilità di un'attività filosofica che mantenga una relazione con ciò che non è filosofia - la vita - di altri popoli del pianeta, così come con la nostra29 . Non solo la gente comune, dunque, ma soprattutto i popoli non comuni, quelli che restano fuori dalla nostra sfera di > . Se la filosofia > pullula di selvaggi immaginari, la geofilosofia a cui mira l'antropologia fa della filosofia « immaginaria >> con selvaggi reali. Rea! toads in imaginary gardens, come dice un verso di Marianne Moore. Nella parafrasi che abbiamo offerto sopra, va notato il dislocamen­ to che vi è implicito. Adesso non si tratterebbe più, o non si tratte­ rebbe esclusivamente, della descrizione antropologica del kula (come forma melanesiana di socialità), ma del kula in quanto descrizione melanesiana della socialità come forma antropologica. O ancora, ri2 8 [ Ci si conforma alla scelta di utilizzare il termine inglese, per rendere il francese chefferie, nella tr. it. di Luigi Derla, p. 25 (J\'. d. T. ) .] 29 Circa la « non-filosofia» o piano d'immanenza o vita, cfr. Deleuze e Guattari ( 199 1 , pp. 4 3 -44, 8 9 , 1 0 5 , 205 -206), e i l brillante commento di Prado jr. ( 1 9 9 8 ) .

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mane certamente necessario comprendere la «teologia australiana» , ma stavolta come qualcosa che costituisce d i per s é u n dispositivo di comprensione. Analogamente, i sistemi complessi di alleanza o di pro­ prietà terriera andrebbero ora visti come prodotti dell'immaginazione sociologica indigena. È chiaro che sarà sempre necessario descrivere il kula come una descrizione, comprendere la religione aborigena come una comprensione, immaginare l'immaginazione indigena: bisogna sa­ per trasformare le concezioni in concetti, estrarre i secondi dalle prime e riconsegnarli di nuovo ad esse. E un concetto è una relazione com­ plessa tra concezioni, una messa in azione di intuizioni pre-concettuali. Nel caso dell'antropologia, le concezioni messe in relazione includono in primo luogo quelle dell'antropologo e quelle del nativo: si tratta dunque di una relazione tra relazioni. I concetti nativi sono i concetti dell'antropologo, e lo sono per ipotesi.

Né spiegare né interpretare, ma moltiplicare e sperimentare Roy Wagner, fin dai tempi di The Invention of Culture, è stato tra i primi antropologi a radicalizzare la constatazione dell'equivalenza tra l 'antropologo e il nativo, derivante dalla loro comune condizione culturale . Dal fatto che ci si può accostare a un'altra cultura solo nei termini di quella dell' antropologo, Wagner concludeva che la co­ noscenza antropologica si contraddistingue per la sua « oggettività relativa » ( r 9 8 r , p. 2, tr. it. p. r 6 ) . Il che non vuol dire un'obiettività carente, o soggettiva, o parziale, bensì intrinsecamente re/azionale, come si ricava da questo brano: L'idea di cultura [ . . . ] pone il ricercatore in una posizione di eguaglianza con le persone che studia: entrambi > 3°. Poiché ogni cultura può essere intesa come una specifica manifestazione [ . . . ] del feno­ meno dell'uomo, e poiché non è stato scoperto nessun metodo infallibile per > ; > ) tra pensante e pensato. Sarebbe appropriato dire che, ad esempio, il positivismo o il giusnaturalismo sono stati mentali ? Lo stesso vale per l'animismo amazzonico: non è uno stato mentale di soggetti individuali, ma un dispositivo intellettuale trans-individuale, che per di più assume gli « stati mentali>> degli esseri del mondo come uno dei propri oggetti. Non è una condizione della mente del nativo, ma una « teoria della mente >> applicata dal nativo, e inoltre un modo di risolvere - o meglio dissolvere - il problema eminentemente filosofico delle «altre menti » . S e non si tratta d i descrivere i l pensiero americano indigeno in termini di credenza, allora nemmeno è il caso di relazionarsi a esso secondo la modalità della credenza, per esempio alludendo benevol­ mente al suo « fondo di verità >> allegorico ( un'allegoria sociale, come per i durkheimiani, o naturale, come per i materialisti culturali), op­ pure, peggio ancora, immaginando che esso possa far accedere all'es­ senza intima e ultima delle cose, quasi detenesse una scienza esoterica infusa . «Un'antropologia che [ . . . ] riduce il senso [meaning] a fede, dogma e certezza è costretta all'ingannevole scelta di dover credere o ai significati [meanings] indigeni o ai nostri >> (Wagner 1 9 8 r, p. 3 0, tr. i t. pp. 4 5-4 6 ) . Ma il piano del senso non è abitato da stati psico­ logici di credenza né da contenuti proposizionali logici; e il « fondo >> non contiene verità ma qualcos'altro . Il pensiero nativo non è né una forma di doxa né una figura della logica : né opinione né proposizio­ ne . Qui lo assumiamo come attività di simbolizzazione o pratica di senso, come dispositivo autoreferenziale o tautegorico di produzione di concetti, cioè di « simboli che stanno per sé stessi>> (Wagner 19 8 6 ) . Rifiutare d i porre l a questione i n termini d i credenza mi sembra un elemento cruciale della decisione antropologica . Per inquadrarlo, ritorniamo all' « Altri>> deleuziano. Altri è l'espressione di un mondo possibile; ma, nel corso usuale delle interazioni sociali, questo mon-

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do deve sempre essere attualizzato da un lo; il possibile implicato in altri è esplicato da me. Ciò significa che il possibile passa attraverso un processo di verificazione che ne dissipa, in senso entropico, la struttura . Quando sviluppo il mondo espresso da altri, lo faccio per validarlo ed entrare in esso, o viceversa per smentirlo come irreale : l' «esplicazione » introduce così l'elemento della credenza. Descriven­ do tale processo, Deleuze indicava la condizione limite che gli ha permesso di determinare il concetto di Altri: queste relazioni di sviluppo, che formano sia i nostri punti comuni sia le nostre divergenze nei confronti dell'altro, dissolvono la sua struttura, e lo riducono in un caso allo stato di oggetto, e nell'altro lo promuovono allo stato di soggetto. Questo spiega perché, per cogliere l'altro come tale, eravamo in diritto di reclamare condi­ zioni di esperienza speciali, per artificiali che fossero: il momento in cui l'espresso non ha ancora (per noi) esistenza al di fuori di ciò che lo esprime. L'altro diventa espressione di un mondo possibile. (Deleuze 1 9 69b, p. 3 3 5 , tr. it. pp. 4 1 6-4 1 7 )

E concludeva ricordando una massima fondamentale della sua ri­ flessione: . Supponiamo dunque che il primo enunciato abbia senso, ad esempio, per gli Ese Ej a dell'A­ mazzonia boliviana : niente sui pecari, ma ci dice molto sugli umani che lo dicono. Questa soluzione non è peculiare di Lévi-Strauss: è l'atteggiamento canonico dell'antropologia, da Durkheim o dagli intellettualisti vitto­ riani ai giorni nostri. Gran parte dell'antropologia detta cognitiva, ad esempio, può esser vista come un'elaborazione sistematica di tale at­ teggiamento, consistente nel ridurre il discorso indigeno ad un insieme di proposizioni, selezionare quelle che sono false ( o, detto altrimenti, ) e produrre una spiegazione dei motivi per cui gli umani vi credono, visto che sono false o vuote. Un altro esempio di spiegazione può essere quello di concludere che tali proposizioni sono come intar-

37

Lévi-Strauss ( 1 9 7 1 ,

p. 5 7 1 , tr. it. p. 6o2 ) .

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siate o conficcate nel discorso di chi le enuncia ( Sperber 1 9 74; 1 9 8 2); esse non rinviano cioè al mondo, ma alla relazione degli enuncianti col proprio discorso. Questa relazione è anch'essa un tema privilegiato delle antropologie dette « simboliste » , di tipo semantico o pragmatico: enunciati come questo sui pecari dicono ( o fanno ) > qualcosa riguardo alla società, non riguardo a ciò di cui parlano. Non insegna­ no quindi niente sull'ordinamento del mondo e la natura del reale né per noi né per gli indios. Prender sul serio un'affermazione come >, in questo caso, consisterebbe nel mostrare come certi esseri umani possono prenderla sul serio, e anche credervi, senza per questo mostrarsi irrazionali; e naturalmente senza per questo che i pecari si mostrino umani. Così si fa salvo tutto : salvi i pecari, salvi i nativi, e salvo soprattutto l'antropologo . Questa soluzione non mi soddisfa . Anzi, mi infastidisce profonda­ mente . Sembra implicare che, per prendere sul serio gli indios quan­ do affermano cose come > , sia necessario non credere a quel che dicono, visto che, se lo facessimo, non prenderem­ mo sul serio noi stessi. Bisogna trovare un'altra via d'uscita. Poiché non ho lo spazio e soprattutto la competenza per passare in rassegna la vasta letteratura filosofica sulla grammatica della credenza, della certezza, degli atteggiamenti proposizionali ecc., presento qui solo al­ cune considerazioni suscitate, in maniera più intuitiva che riflessiva, dalla mia esperienza di etnografo. Sono antropologo, non suinologo. I pecari (o, come disse un altro antropologo a proposito dei Nuet; le vacche ) non m'interessano enor­ memente, gli umani sì. Ma i pecari interessano enormemente a quegli umani che dicono che i pecari sono umani. Perciò interessa anche a me l'idea che i pecari siano umani, perché . ( Perché ad esempio i Nue�; viceversa, non dicono che il be­ stiame è umano ? ) . L'enunciato sull'umanità dei pecari, se certamente rivela all'antropologo qualcosa sullo spirito umano, fa anche di più: afferma qualcosa sul concetto di umano. Afferma, tra le altre cose, che la nozione di di pecari e di umano in quella cultura; o meglio, è questa idea che è il vero concetto in potenza, il concetto che deter­ mina il modo di relazionarsi delle idee di pecari e di umano. Perché non ci sono sopravviene l 'idea che i pecari siano umani: al contrario, i pecari, gli umani e la loro relazione sono dati simultaneamente3 8 • 3 8 Qui non mi sto riferendo a l problema dell'acquisizione ontogenetica dei o «categorie», nel senso che la psicologia cognitiva dà a queste parole. La simultaneità delle idee di pecari, di umano, e della loro identità (condizionale e contestuale) è, dal punto di vista empirico, una caratteristica del pensiero degli adulti di quella cultura. Anche se si ammettesse

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La ristrettezza intellettuale che grava sull'antropologia in casi simili sta nella riduzione delle nozioni di pecari e di umano a mere variabili indipendenti di una proposizione, mentre dovrebbero essere assunte - se si vuole prender sul serio gli indios - come variazioni inseparabili di un concetto. Dire che i pecari sono umani non è, come ho già osservato, dire solo qualcosa sui pecari, come se « umano » fosse un predicato passivo e non problematico (il genere in cui rientra la specie pecari, ad esempio) . E nemmeno è una mera definizione verbale di «pecari», come « " surubim" è (il nome di) un pesce» . Dire che i pecari sono umani è dire qualcosa sui pecari e sugli umani, su ciò che può essere umano . Se i pecari hanno una umanità in potenza, gli umani avranno allora una potenzialità-pecari ? lnvero, se si possono concepire i pecari come umani, dev'essere possibile concepire gli umani come pecari: che cos'è essere umani, quando si è «pecari», e che cos'è essere pecari quando si è «umani» ? Quali sono le conseguenze di tutto ciò ? Che concetto si può ricavare da un enunciato come «i pecari sono umani» ? Come trasformare la concezione espressa da una simile proposizione in un concetto ? Questa è la vera questione. Così, quando i suoi interlocutori indigeni gli dicono ( in condizioni che, come sempre, andranno specificate) che i pecari sono umani, ciò che l'antropologo deve domandarsi non è se « ci crede o no » , bensì che cosa gli insegna un'idea come questa sulle nozioni indigene di umanità e > . Ciò che l'idea gli insegna, si noti, su queste nozioni e su altre cose: sulle relazioni tra lui e il proprio interlocutore, sulle situa­ zioni in cui tale enunciato è prodotto « spontaneamente >> , sui tipi di di­ scorso e di gioco linguistico in cui esso è appropriato, e così via. Queste altre cose tuttavia - e su questo occorre insistere - sono ben lontane dall'esaurire il senso dell'enunciato. Ridurlo a un discorso che « parla >> semplicemente del suo enunciante equivale a negare a quest'ultimo la sua intenzionalità e, per giunta, obbligarlo a dare il suo pecari in cam­ bio del nostro umano: pessimo affare per un cacciatore di pecari. In questi termini, è ovvio che l'etnografo deve prestar fede al suo interlocutore (nel senso di fidarsi) . Perché quest'ultimo non gli che i bambini cominciano ad acquisire o manifestare i di pecari e di umano prima che si insegni loro che «i pecari sono umani>>, resta il fatto che gli adulti, quando agiscono o argomentano in base a quest'idea, non rivivono questa presunta sequenza cronologica nella loro testa, pensando prima a umani e pecari, e poi alla loro associazione. Inoltre, e soprattut­ to, tale simultaneità non è empirica ma trascendentale: essa significa che l'umanità dei pecari è una componente a priori dell'idea di pecari (e di quella di umano ) .

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sta dando un'opinione, ma gli sta insegnando cosa sono i pecari e gli umani, gli sta spiegando come l'umano è coinvolto nel pecari . . . La domanda, ancora una volta, dev'essere questa: a che cosa serve quest' idea ? In quali negoziazioni è in grado di entrare ? Che conse­ guenze ha ? Per esempio : se i pecari sono umani, che cosa si mangia quando si mangiano dei pecari ? Ancora : è da stabilire se il concetto costruibile a partire da enun­ ciati come questo si esprima davvero in modo adeguato mediante la forma «X è Y » . Perché non si tratta tanto di un problema di predi­ cazione o attribuzione, ma di definire un insieme virtuale di eventi e sequenze in cui compaiono i maiali selvatici del nostro esempio: i pecari arrivano a branchi . . . hanno un capo . . . sono rumorosi ed aggressivi . . . appaiono all'improvviso e imprevedibilmente . . . sono ingannatori . . . mangiano açaf. . . vivono sotto terra . . . sono incarnazioni dei morti . . . e così via . Non si tratta ora di attribuire le stesse proprietà ai pecari e agli umani, ma di qualcosa di completamente diverso. I pecari sono pecari e umani, sono umani in ciò in cui gli umani non sono pecari; i pecari implicano gli umani, come idea, nel loro stesso essere distanti dagli umani. Ho detto prima che l'idea che i pecari siano umani è tutt'altro che evidente. Certo, perché nessuna idea interessante è evidente. Questa in particolare non è non-evidente perché falsa o inverificabile (gli indios di­ spongono di varie maniere di verificarla ), ma perché dice qualcosa di non evidente circa il mondo. I pecari non sono evidentemente umani, lo sono non-evidentemente. Questo vuol dire che questa idea è «simbolica» , nel senso in cui Sperber usa tale aggettivo ? Penso di no. Sperber concepisce i concetti indigeni come proposizioni, anzi, peggio, come proposizioni di seconda classe, «rappresentazioni semi-proposizionali» che ampliano il «sapere enciclopedico>> in una maniera priva di referenzialità. In questo modo si confonde qualcosa che si auto-pone con qualcosa che è referen­ zialmente vuoto; si confonde il virtuale col fittizio, l'immanenza con la chiusura . . . Ma si può intendere il «simbolismo >> anche in maniera diver­ sa da Sperber. Questi lo assume come logicamente e cronologicamente posteriore al sapere enciclopedico e alla semantica, come qualcosa che marca i limiti della conoscenza vera o verificabile, il punto in cui essa si trasforma in illusione. Viceversa, i concetti indigeni si possono chiama­ re simbolici, ma in tutt'altro senso: non sono sub-proposizionali, ma super-proposizionali, in quanto presuppongono le proposizioni enciclo-

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pediche ma ne definiscono il significato vitale, il senso o valore. Sono le proposizioni enciclopediche a essere semi-concettuali o sub-simboliche, non il contrario. Il simbolico non è semi-vero, ma pre-vero, vale a dire è ciò ch'è importante o pertinente. Il simbolico non parla di ciò « di cui si dà effettivamente il caso », ma di ciò che - in ciò che si dà effettivamen­ te - è importante, ha interesse per la vita. Qual è il valore di un pecari ? Questa è la domanda, letteralmente, interessante39 . « Profondo : altra parola semi-proposizionale » , ironizza Sperber ( 1 9 8 2, p. 1 7 3 ) . Ma allora bisognerebbe replicare : banale : altro termi­ ne per « proposizionale » . Certamente i concetti indigeni sono profon­ di, in quanto proiettano un fondo, un piano d' immanenza popolato di intensità; o, se il lettore preferisce il linguaggio di Wittgenstein, un Weltbild [immagine del mondo] intelaiato da «pseudo-proposizioni » di base che ignorano e precedono la partizione tra il vero e il falso, > la propria posizione come « naturale >> ? Non si potrà dire che l'argomentazione basata sul > , proposta dalla donna piro, è già una sorta di concessione ai presupposti dell'insegnante ? Forse; ma non c'è stata una concessione reciproca. La donna piro era d'ac­ cordo nel discordare, ma l'insegnante per nulla . La prima non conte­ stava il fatto che la gente di Lima ( « forse >> ) debba bere acqua bollita, mentre la seconda respingeva perentoriamente l'idea che la gente del villaggio di Santa Clara non debba farlo.

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Il « relativismo » della donna piro - un relativismo « naturale >> , non > - potrebbe essere interpretato alla luce d i certe ipo­ tesi circa l'economia cognitiva delle società non-moderne, o senza scrittura, o tradizionali ecc . : ad esempio nei termini della teoria di Robin Horton ( 1 99 3 , pp. 3 79 sgg . ) . Horton considera caratte­ ristico di queste società ciò che lui chiama « particolarismo della visione del mondo >> ( world-view parochialism ) . Ossia, a differenza dell'esigenza di universalizzazione che è implicita nelle cosmologie razionalizzate della modernità occidentale, le cosmologie dei po­ poli tradizionali appaiono contraddistinte da uno spirito di grande tolleranza, che però è in realtà un'indifferenza a competere con vi­ sioni del mondo discrepanti dalla propria. L'apparente relativismo dei Piro non indicherebbe quindi la loro larghezza di vedute, ma all'opposto la loro miopia : a loro importa poco di come stanno le cose altrove4°. Ci sono vari motivi per respingere una lettura come quella di Hor­ ton. Fra l'altro, il fatto che il cosiddetto relativismo primitivo non è solo interculturale, ma intra-culturale e « auto-culturale » , e non esprime né tolleranza né indifferenza, ma piuttosto esteriorità asso­ luta all'idea cripto-teleologica di « cultura» come insieme di « creden­ ze » ( Tooker 1 9 9 2; Viveiros de Castro 1 99 3 ) . Il motivo principale, comunque, è perfettamente prefìgurato nelle considerazioni di Gow: cioè che questa idea del > traduce il dialogo di Santa Clara nei termini della posizione dell'insegnante, col suo universa­ lismo naturale e il suo differenzialismo ( più o meno tollerante ) cul­ turale . Ci sono varie visioni del mondo, ma c' è un solo mondo - un mondo in cui tutti i bambini devono bere acqua bollita ( se, ovvia­ mente, si trovano in una parte del mondo in cui la diarrea infantile è un reale pericolo ) . Invece d i questa lettura, n e propongo un'altra . L'aneddoto sui corpi diversi invita a sforzarsi di determinare il mondo possibile espresso nel giudizio della donna piro . Un mondo possibile nel quale i corpi umani sono diversi a Lima e a Santa Clara; anzi, nel 4o E infatti la risposta della donna piro è identica a un' osservazione degli Azande, immortalata nel libro che è la bibbia degli antropologi dell'orientamento di Horton: dire- 3 Persona > (il latrato fatto quando i cani stanno cacciando gli animali ) r.5

ama llulla-nga

IMPERATIVO NEGATIVO mentire- 3 PERSONA DEL FUTURO > (ovvero il cane non dovrebbe abbaiare come se stesse caccian­ do animali quando in realtà non lo sta facendo) H

Siamo ora in grado di spiegare perché questo sia un modo estre­ mamente strano di parlare36• Quando consigliano i propri cani, i Runa non si rivolgono a loro direttamente, ma in terza persona. Questo sembra simile alla forma usted spagnolo, per cui le costru­ zioni grammaticali alla terza persona sono usate al posto della se­ conda in contesti pragmatici per comunicare lo status. Il quichua, tuttavia, manca di un tale costrutto di deferenza . Ciononostante, i Runa piegano il quichua per improvvisarne uno. Che stiano usando costruzioni grammaticali in modi nuovi è molto evidente alla riga 1 . 2 qui sopra . In quichua, ama è tipicamente utilizzato alla seconda persona dell'imperativo negativo, così come nei congiuntivi negativi, ma mai in combinazione con la desinenza della terza persona del fu­ turo, come viene utilizzata qui. Chiamerò questo comando negativo anomalo un > 3 7 .

3 5 Ucucha, alla riga r . I , s i riferisce alla classe dei piccoli roditori che include topi, ratti, istricomorfì, ed opossum nani. In questo caso è un eufemismo per sicu, la classe dei grossi roditori commestibili che include gli aguti, i paca e gli acouchy. 3 6 Quello che segue è un altro esempio, non discusso nel corpo di quest'articolo, del modo avilano di dare consiglio ai cani usando gli imperativi canini mentre si somministra la tsita: 2. I tiutiu-nga n i-sa inseguire-3 FUTURO dire-COREFERENZIALE pensare/desiderare che inseguirà 2 . 2 ama runa-ta capari-nga ni-sa IMPERATIVO NEGATIVO persona-ACCUSATIVO abbaiare-3 -FUTURO dire-CO­ REFERENZIALE pensare/desiderare che non abbaierà alla gente. 37

Ringrazio Bill Hanks di avermi suggerito questo termine.

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I Runa devono risolvere questo problema: perché l e persone possa­ no comunicare con i cani, questi devono essere trattati come soggetti umani consapevoli; tuttavia, i cani devono essere contemporaneamen­ te trattati come oggetti, nel timore che possano rispondere . Questo, a quanto pare, è il motivo per cui Ventura usò un imperativo canino per rivolgersi indirettamente a Puntero3 8 • E questo sembra essere anche parte della ragione per la quale il muso di Puntero era legato durante il procedimento. Se i cani fossero nella condizione di « rispondere » , le persone entrerebbero in una soggettività canina e perderebbero, quin­ di, il loro status privilegiato di umani. Legando i cani - in effetti, ne­ gando loro il loro corpo animale - i Runa permettono ad una sogget­ tività umana di emergere . Gli imperativi canini, allora, permettono ai Runa di parlare con maggior sicurezza a questo Sé umano emergente e parzialmente individualizzato che riguarda quello canino, parzialmen­ te de-individualizzato e temporaneamente sommerso39. La relazione gerarchica che si ottiene tra i cani e gli umani è analoga a quella tra gli umani e gli spiriti-padroni degli animali. Nello stesso modo in cui le persone possono comprendere i loro cani, i padroni degli animali possono facilmente comprendere il discorso degli uma­ ni: è sufficiente che i Runa parlino loro. Di fatto, come ho osservato in diverse occasioni, nella foresta i Runa si rivolgono a questi spiriti 3 8 Riguardo all'uso anomalo dell'imperativo negativo in combinazione con la desi­ nenza della terza persona del futuro alla riga r . 2 nel testo ( cfr. le righe r. 5 a p. I 7 2; 5. 3 a p. I 77; 2. 2 a p. I 72 nella nota 3 6), quelle che seguono sono costruzioni collegate che sarebbero considerate grammaticamente corrette nel quichua di Avila ordinario: Se ci si rivolge ad un cane nella seconda persona: 3 atalpa-ta ama cani-y-chu pollo-ACCUSATIVO IMPERATIVO-NEGATIVO mordere-2-IMPERATIVO-NEGATIVO non mordere i polli Se ci si rivolge ad un'altra persona rispetto al cane: 4a ata/pa-ta mana cani-nga-chu pollo-ACCUSATIVO NEGATIVO mordere-3 -FUTURO-NEGATIVO non morderà i polli oppure 4b atalpa-ta ama cani-chun pollo-ACCUSATIVO NEGATIVO mordere-CONGIUNTIVO così che non morderà i polli. 3 9 Ho sentito un paio di resoconti e leggende circa uomini runa che si svestono prima di lottare contro i giaguari che incontrano nella foresta. Così facendo, ricordano al giagua­ ro che sotto il suo habitus corporeo felino - di cui ci si può « spogliare » come coi vestiti - è anch'esso umano (cfr. Wavrin I 9 27, p. 3 3 5 ) .

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direttamente . In circostanze normali, tuttavia, gli umani non possono comprendere con facilità i padroni degli animali. Esattamente come ai cani serve la mistura allucinogena tsita per comprendere l'ampia gamma delle espressioni runa, anche gli umani ingeriscono allucino­ geni, specialmente ayahuasca, per poter conversare normalmente con questi spiriti4°. I Runa usano quest'opportunità per cementare i legami di obbligazione con gli spiriti-padroni così che questi, a loro volta, permetteranno ai Runa di cacciare i loro animali. Un modo importante di stabilire tali legami è attraverso le figlie degli spiriti-padroni. Sotto l'influenza degli allucinogeni, i cacciatori runa tentano di stabilire rela­ zioni amorose con le figlie così che queste persuaderanno i loro padri a dare ai Runa l'accesso alla selvaggina. La relazione tra queste amanti-spiriti e gli uomini runa è molto simile a quella tra i Runa e i loro cani. I Runa consigliano i propri cani in terza persona e, in aggiunta, legano i loro musi, rendendo loro impossibile rispondere. Per ragioni collegate, un'amante-spirito non permetterà mai al suo partner runa di chiamarla per nome. Il suo nome proprio può essere pronunciato solo dagli altri esseri del regno degli spiriti-padroni. In effetti, i Runa sanno che, come mi disse un uomo, «non si chiedono i loro nomi » . I cacciatori possono solo interpellare le loro amanti-spiriti con il titolo di seiìora. Ad A vila, questo termine spagnolo è utilizzato per riferirsi alle donne bianche ed interpellarle, a prescindere dal loro stato civile . Proibendo ai Runa di rivolgersi a loro direttamente, le figlie dei padroni degli animali possono proteggere la propria prospettiva antologicamente privilegiata come spiriti e, in un certo senso, anche come bianche. Questo è analogo ai modi con cui i Runa comunicano con i propri cani per proteggere la propria posi­ zione privilegiata come umani4 1 • A tutti i livelli, quindi, l'obiettivo è di essere in grado di comunicare attraverso i confini antologici senza destabilizzarli.

4 ° � ayahuasca è prodotta dalla liana Banisteriopsis caapi (Malpighiaceae ), talvolta mischiata con altri ingredienti. 4' Secondo Janis Nuckolls (comunicazione personale, 21 gennaio 2004 ), i parlanti quichua della regione Pastaza dell'Ecuador amazzonico si riferiscono a o interpellano que­ sti spiriti nelle canzoni utilizzando le costruzioni della terza persona del futuro. Questa è un'altra ragione per sospettare che l'uso del seiìora per rivolgersi alle amanti-spiriti ad Avila sia legato all'uso degli imperativi canini.

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Pidgins trans-specifìci I Runa usano forme indirette di comunicazione, come gli imperativi canini, per porre dei freni ai processi di sfumatura antologica. Tuttavia il linguaggio che usano quando parlano ai loro cani è simultaneamen­ te un'istanza di quello stesso processo di sfumatura. Di conseguenza, ho cominciato a pensare ad esso come a una sorta di «pidgin trans­ specifico >> . Come un pidgin, esso è caratterizzato dalla ridotta struttura grammaticale; non è pienamente coniugato e presenta nessi di su bordi­ nazione minimi e flessione della persona semplificata . Inoltre, i pidgins spesso emergono in situazioni coloniali di contatto. Dato il modo in cui, ad A vila, le relazioni cane-umano sono sempre già intrecciate con quelle Runa-bianchi, questa valenza coloniale è appropriata . Indicativo di questa condizione di pidgin trans-specifico, il di­ scorso che i Runa rivolgono ai cani incorpora elementi di modalità comunicative provenienti sia dal regno umano sia da quello cani­ no . Poiché usa grammatica, sintassi e lessico quichua, esso mostra elementi di linguaggio umano, tuttavia adotta anche elementi di un preesistente linguaggio trans-specifico cane-uman o . Per esempio, tiu tiu (riga I . I sopra ) è un'espressione usata esclusivamente per spingere i cani a cacciare la selvaggina e non è mai utilizzata nel di­ scorso umano-umano (eccetto che nella citazione ) . In accordo con la sua identità paralinguistica, qui tiu tiu non è declinato . Questo pidgin trans-specifico incorpora anche elementi della parlata cani­ na . Hua hua ( riga 1 .4 sopra ) è un elemento del lessico canino. I Runa lo incorporano nei loro discorsi soltanto attraverso la citazio­ ne : loro, cioè, non abbaiere bbero mai . Hua hua non è mai declinato e non è, perciò, pienamente integrato nella grammatica umana. Sia tiu tiu che hua hua implicano la ripetizione, l'iterazione iconica del suono . Anche questa è un'importante tecnica semiotica mediante la quale i Runa cercano di entrare in modalità referenziali non-umane e non-simboliche 42• Il pidgin trans-specifico Runa-cane è anche simile al particolare lin­ guaggio col quale gli adulti si rivolgono ai bambini di cui si prendono cura. Infatti esso presenta una semplificazione grammaticale e si rivol4 2 Questa tecnica è frequentemente utilizzata ad Avila nell'imitare i richiami degli uccelli e in nomi onomatopeici di uccelli ( si veda anche Berlin 1 99 2; Berlin et al. r 9 8 r ) .

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ge ad un soggetto che non ha piene capacità linguistiche43 . Questo è un modo ulteriore in cui esso manifesta la propria valenza coloniale . In molti contesti coloniali e post-coloniali, come quello avilano, i nativi vengono trattati in rapporto ai coloni come i bambini sono trattati in rapporto agli adulti. Per esempio, durante uno dei miei più recenti viaggi ad Avila, un ingegnere del Ministero dell'Agricoltura (Ministe­ rio de Agricultura y Ganaderia) visitò il villaggio insieme a sua moglie e a suoi figli per conferirgli lo status di « persona giuridica» (personer{a jur{dica) in quanto comunità indigena riconosciuta dallo Stato (camu­ na) . Diverse persone mi dissero che era venuto per dare loro 5.2

amu amu amu imapata caparin

( ibid. ) . Da un punto di vista semiotico ( e qui seguo Deacon 1 9 9 7, pp . 4 0 3 -4 0 5 ) , mentre è relativamente semplice comunicare la ne­ gazione secondo un registro simbolico, è piuttosto difficile farlo secondo le modalità comunicative indessicali tipiche della comuni­ cazione non umana . C ome si può dire ad un cane di non mordere quando gli unici modi sicuri di comunicazione disponibili passano attraverso la somiglianza e la contiguità ? Come si può negare una somiglianza o una relazione di contiguità senza uscire dalle forme strettamente iconiche ed indessicali di referenza ? Dire > in forma simbolica è semplice . Poiché il regno simbolico è distacca­ to di un livello rispetto ai regni indessicali ed iconici, esso si presta facilmente a simili meta-asserzioni . Attraverso le modalità simbo­ liche, negare un'asserzione da un livello interpretativo superiore è relativamente semplice . Ma come si può dire > indessi­ calmente ? L'unico modo di farlo è ricreare il segno indessicale, ma senza il suo effetto indessicale. E l 'unico modo per esprimere indessicalmente l' imperativo ca­ nino pragmatico di tipo negativo ( o, nella forma di deferenza del pidgin trans- specifico dei Runa, > ) è riprodurre l'atto del mordere, ma in un modo dissociato dalle sue abituali associazioni indessicali . Il cane quando gioca mordicchia. Questo > è un indice del morso reale, ma in forma para­ dossale . Pur essendo indice di un morso reale e di tutti i suoi effetti reali, esso costringe ad una rottura in una catena indessicale che sarebbe altrimenti transitiva. Poiché non vi è un morso, il gioco non è nulla di più di un gioco . La lieve morsicata è indice di un morso ma non è indice di quello che il morso stesso indicizza . Ricreando l' attacco a mia cugina, Hilario e Lucio tentarono di entrare in que­ sta logica canina di gioco, seppur limitata, attraverso le proprietà formali caratteristiche del riferimento indessicale . Essi costrinsero il cane a mordere Vanessa di nuovo, ma questa volta col muso ben le­ gato. Il loro era un tentativo di rompere il collegamento indessicale

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tra il morso e le sue implicazioni e, in questo modo, di dire al loro cane > attraverso un pidgin trans-specifico che, in quel momento, andava ben al di là del linguaggio . Se i cani potessero facilmente capire gli umani, non ci sarebbe alcun bisogno di somministrare loro gli allucinogeni . Ciò che voglio sostenere è che i pidgins trans-specifici costituiscono proprio un terreno interme­ dio (si veda White 199 1 ) . Non è abbastanza immaginare come parlino gli animali o attribuire loro un linguaggio umano. Gli umani devono anche affrontare e rispondere alle limitazioni imposte dalle caratteristi­ che particolari delle modalità semiotiche che gli animali utilizzano per comunicare tra di loro. A prescindere dalla sua efficacia, l'intervento di Hilario e Lucio rivela la sensibilità runa rispetto alle limitazioni formali (si veda Deacon 2003 b) di una modalità semiotica non simbolica.

Soggetti conoscenti non-umani In alcuni incontri con i non-umani, come gli animali ci rappresen­ tano fa la differenza. Questo è evidente dal modo in cui lo status è espresso attraverso i confini delle specie tramite modi diretti o indiretti di comunicazione non linguistica. Anche questo è un parametro del campo di funzionamento degli imperativi canini. Per esempio, secondo i Runa, se si incontra un giaguaro nella foresta, non si deve mai disto­ gliere lo sguardo. I giaguari uccidono le prede con un morso sul retro della testa. Per questa ragione, fui spesso ammonito a non dormire mai a faccia in giù nella foresta. Ricambiando lo sguardo del giaguaro, i Runa gli negano la possibilità di trattarli come prede e, perciò, man­ tengono una parità antologica con esso come predatori. Anche questo, in un senso molto reale, è divenire un giaguaro . Si noti che la parola puma nel quichua di A vila non si riferisce soltanto specificatamente ai giaguari e ai felini collegati ad essi ma anche, più generalmente, a qual­ siasi essere considerato un predatore. Divenire giaguaro, cioè diven­ tare > , come dice la gente (e Runa, ricordiamocelo, non è soltanto un etnonimo: significa anche ) è semplicemente un modo di sforzarsi di assicurare la propria posizione come predatore44. 4 4 Uno studioso d i comportamento animale che f u attaccato d a i lupi descrive come ri­ uscì a non essere sbranato assumendo una postura remissiva, che, in larga parte, implicava l'evitare un contatto visivo con i lupi: «Mi fermai e mi raggomitolai per farmi piccolo - in

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Mentre puma si riferisce ai predatori - con il giaguaro come esem­ plare prototipico -, aicha, letteralmente carne, è il modo comune per riferirsi agli animali predati, come aguti e pecari. Ricambiando lo sguardo del felino, i Runa costringono i giaguari a trattarli, in un certo senso, come interlocutori, cioè come soggetti. Se invece i Runa distol­ gono lo sguardo, saranno trattati come, e potrebbero in effetti diven­ tare, oggetti: letteralmente, carne, aicha. Il linguista Émile Benveniste ( 1 9 8 4 ) nota che i pronomi io e tu posizionano gli interlocutori in senso inter-soggettivo attraverso il reciproco rivolgersi. Di conseguenza, essi sono per lui pronomi di persona autentici, mentre la terza persona è più esattamente una « non-persona» ( Benveniste 1 9 84, p . 2 2 1 ) , poiché si riferisce a qualcosa al di fuori dell'interazione discorsiva. L'esten­ sione di questo ragionamento alla comunicazione inter-specifica sug­ gerisce che esattamente come i Runa, in questo scambio nella foresta, diventano giaguari, così anche i giaguari diventano persone. In tali incontri, sia il giaguaro sia i Runa sono coinvolti in pericolosi atti di rappresentazione. Come il giaguaro interpreta la situazione ha conseguenze significative. Un Runa che è trattato da questo predatore come un predatore diventa un predatore. I Runa che sopravvivono a questi incontri con i giaguari diventano per definizione runa puma e questo nuovo status si traduce in altri contesti e crea nuove possibilità . Voglio sottolineare l e implicazioni radicalmente costruttiviste dell'as­ serzione che sto facendo: noi umani viviamo in un mondo che non è sol­ tanto costruito secondo il modo in cui lo percepiamo e secondo le azioni che queste percezioni suggeriscono. Il nostro mondo si definisce anche per come siamo imbricati in questi mondi interpretativi, nelle molteplici nature - le Umwelten - degli altri tipi di esseri con i quali ci relazionia­ mo . Per questa ragione, la distinzione che Ian Hacking ( 1999, p. 22) fa tra l'antologicamente soggettivo e l'epistemologicamente oggettivo per riferirsi a cose come l'affitto (che sono i prodotti di pratiche umane e, perciò, reali od oggettivi per noi come creature epistemiche anche se soggettive in un senso antologico più ampio) deve essere espansa per includere il dei cani - poiché i Runa, attraverso le anime dei loro cani, estendono la loro interazione agli esseri che abitano il mondo della foresta e oltre.

Conclusioni Seguendo le interazioni che Amériga, la sua famiglia e il vicinato hanno con i loro cani, spero di aver fatto intravedere un tipo di antropologia che risulta possibile quando permettiamo alle esigen­ ze poste da un'etnografia trans-specifica di farci uscire dal circolo vizioso che intrappola gli umani come oggetti analitici all'interno di una cornice d' analisi che è esclusivamente umana . Spero anche di aver mostrato perché il ricorso alla riduzione biologica non è un'al­ ternativa percorribile . Un tale approccio cancella precisamente quello che è distintivo degli umani ( il linguaggio e la cultura e, per estensione, la specificità storica delle nostre interazioni con altri tipi di esseri viventi) e tende a presupporre che la sola cosa che abbiamo in comune con i non-umani siano i nostri corpi . Le vite sono più dei corpi, anche se non possono essere mai pienamente disincarnate . Le difficoltà frapposte a un'antropologia della vita, che, credo, è richiesta da queste interazioni, sono al momento pressoché insormon­ tabili se restiamo all'interno dei confini ristretti della nostra cornice multi-culturalista e dualista. Ho suggerito invece che un approccio più promettente potrebbe essere quello di guardare ad una cornice multi­ naturalista amazzonica, in cui la cultura - e, per estensione, l'umano - cessa di essere il marcatore più saliente della differenza. Ho anche suggerito che tutto ciò possa essere proficuamente situato in un più am­ pio approccio semiotico che non considera il linguaggio come il suo punto di partenza e che per questo può rendere conto più precisamente di come le nostre modalità di rappresentazione siano sen­ sibili alle qualità, eventi e forme che sono nel mondo, di come gli altri Sé rappresentino il mondo, e di come interagiamo con questi altri Sé in virtù dei modi in cui le nostre propensioni semiotiche si sovrappongono. I fenomeni che ho discusso qui sono più che culturali, anche se non sono esattamente non culturali. Essi sono biologici fino in fon-

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do, ma non riguardano soltanto corpi. I cani divengono veramente umani ( biologicamente e in modi storicamente molto specifici) e i Runa divengono realmente puma; ciò è richiesto dalla necessità di sopravvivere agli incontri coi Sé semiotici felini . Tali divenire cam­ biano ciò che significa essere in vita: cambiano ciò che significa essere umani così come cambiano cosa vuol dire essere un cane o persino un predatore. L'approccio che difendo cerca di fare attenzione ai tentativi estremamente pericolosi, provvisori e deboli di comunicare : in bre­ ve, alle politiche coinvolte nelle interazioni tra diversi tipi di Sé che abitano posizioni molto diverse, e spesso diseguali . Il pidgin trans­ specifico Runa-cane non si limita a incorporare in senso iconico i latrati e a inventare nuove grammatiche umane adeguate al compi­ to rischioso di parlare in un modo che possa essere compreso attra­ verso i confini delle specie ma senza invocare una risposta . Questo pidgin si conforma anche a qualcosa di più astratto, che riguarda le possibilità referenziali disponibili per qualsiasi tipo di Sé, indi­ pendentemente dalla sua condizione antologica di essere umano, organico, o persino terrestre, e questo implica tutte le costrizioni richieste da certe forme semiotiche47. Quando Hilario tentava di dire « non farlo » senza il linguaggio, poteva farlo soltanto in un modo: lui e il suo cane sono venuti a costituire una forma unica, che si esemplifica nell 'umano così come nell'animale, ma che anche li sostiene e li eccede48 •

Per i limiti serniotici delle grammatiche extraterrestri, si veda Deacon ( 2oo3 b ) . Ringraziamenti. L a ricerca di campo è stata finanziata d a una graduate fellowship del­ la National Science Foundation e da borse della Fulbright-Hays Commission e della Wenner­ Gren Foundation. Vorrei inoltre ricordare una borsa pre-dottorato della School of American Research, una borsa post-dottorato della Woodrow Wilson Foundation alla University of California di Berkeley, nonché il sostegno della Michigan Society of Fellows. Precedenti ver­ sioni di queste idee sono state presentate nei dipartimenti di antropologia della University of California di Berkeley e di Davis, della University of Chicago, della Cornell University, della University of Michigan, nonché alla sezione ecuadoregna della Facultad Latinoamericana de Ciencias Soci ales. Sono molto grato per tutte queste opportunità. Voglio ringraziare Stanley Brandes, Manuela Carneiro da Cunha, Lawrence Cohen, Terry Deacon, Virginia Dornin­ guez, Maurizio Gnerre, Nelson Graburn, Rob Hamrick, Donna Haraway, Bill Hanks, Jean Lave, Bruce Mannheim, Janis Nuckolls, Michael Puett, Hugh Raffles, Ernesto Salazar, Pete Skafish, Lisa Stevenson, Katie Stewart, e Terry Turner per i commenti, i quesiti e le conversa­ zioni che mi hanno aiutato a chiarire i dubbi che avevo. Dedico questo articolo all a memoria di Amériga Aj6n. 47 48

COME SO GNANO l CANI

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Riferimenti bibliografici Agamben, Giorgio Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino. I99 5 2002 I:aperto. I:uomo e l'animale, Bollati Boringhieri, Torino. Arendt, Hannah I959 The Human Condition, Doubleday Anchor Books, Garden Ciry. Ariel de Vidas, Anath 2002 A Dog's Life among the Teenek lndians (Mexico}: Anima/s' Participation in the Classifìcation of Self and Other, , nei modi e nei tempi in cui si presentano, di offrire possibilità teoriche; e avremo subito modo di precisare perché il termine , > e > . Il termine si caratterizza per la sua peculiare vacuità, come suggerisco­ no i rilievi di Lévi-Strauss riguardo a truc e machin ( > , > ) come > ( Lévi-Strauss 1 9 50, tr. i t. XLVII; si veda anche Holbraad, in questo volume ) 3 -, sebbene noi replicheremmo ovviamente che anche chiamare il termine > un > , fluttuante o meno, vuol dire caricarlo di un particolare peso teorico. L'uso puro e semplice del termine > in TTT vuol quindi segna­ lare uno slittamento dello status di questa parola, che qui indichere-

3 [li saggio di Holbraad in TIT è qui tradotto col titolo Il potere della polvere. Moltepli­ cità e movimento nella cosmologia divinatrice dell"ifd cubano (o, di nuovo, mana) (N.d. T. ).]

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mo come il passaggio dalla « cosa in quanto analitica » alla « cosa in quanto euristica>> . Invece di andare sul campo armati di un insieme di criteri teorici predeterminati in base ai quali misurare le « cose » che già ci s i aspetta d i poter incontrare, s i propone d i lasciare che le «cose » che si presentano assumano il ruolo di un'euristica, median­ te la quale identificare un particolare campo di fenomeni che solo allora daranno luogo a una teoria. Dunque la differenza tra l'uso analitico e l'uso euristico del termine « cose» è che, mentre il primo implica un repertorio di classificazione, aperto a ulteriori affinamenti ed espansioni, il secondo serve a mettere in rilievo le cose (da inten­ dere qui come un sinonimo, opportunamente vuoto, di « oggetti » o « artefatti » ) in quanto campo da cui tali repertori possono emergere. L' analitica seziona, l'euristica localizza soltanto4 . Consideriamo, ad esempio, il saggio di Holbraad dal titolo Il po­

tere della polvere. Molteplicità e movimento nella cosmologia divina­ trice dell'ifa cubano (o, di nuovo, mana) . La cosa attraverso la quale egli si mette a pensare è l' aché, un tipo particolare di polvere usata dagli indovini cubani durante le loro sedute . Questa polvere, dicono gli indovini, costituisce il loro potere di divinazione. Ora, se prendes­ simo questa polvere come una « cosa» nel senso analitico, l' etnografo dovrebbe trovare una connessione fra due entità distinte ( polvere e potere ) , una sola delle quali appare casale in modo ovvio, stando alla nozione preconcetta di « cose » . Il compito diventa allora quello di interpretare, cioè spiegare a chi non ha mai incontrato prima una tale > . Ma questo com­ pito comporta un'ulteriore, cruciale mossa. Avendo accettato la polvere come potere, e avendo fatto sì, grazie a un'accorta descrizione, che altri possano avvicinarsi ai suoi contorni inconsueti, l'etnografo è poi obbli­ gato a fronteggiare le implicazioni teoriche del suo impegno euristico. Una possibilità, intrapresa qui, è quella di usare l'analisi etnografica del­ la polvere come occasione per proporre una teoria tale da rifiutare già da subito la dicotomia tra materialità e potere . Lo schema di classificazione adeguato all'analisi della polvere non è dunque più una precondizione della strategia analitica, ma il suo prodotto. In sintesi, dunque, dietro la speranza che un'etnografia delle cose porti a una revisione dei nostri assunti analitici su ciò che costituisce una > , c'è la possibilità che tali assunti siano inadeguati, e che le concezioni in proposito proprie di altre popolazioni (cioè non solo le loro idee sulle cose ma anche i loro stessi assunti) siano diverse da quelle che consideriamo come nostre quando scriviamo di antropolo­ gia. L'approccio euristico qui proposto cerca di dare corpo a queste possibilità. Un uso euristico del termine > è stato adottato anche da Bru­ no Latour, il quale, sulla scorta di Heidegger, si è adoperato per spo­ stare l'accento semantico del termine > da > a ciò che egli chiama 5 ( 2004a ) . Basandosi 5 [ « Matters of fact» , «matters of concern» . In Politique de la nature ( La Découverte, Paris 1 9 9 9 ) , Latour lascia le due locuzioni in inglese, e tali restano anche nella traduzione italiana ( Politiche della natura, Raffaello Cortina, Milano 2ooo ) . Per rendere qui la secon-

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su ipotesi etimologiche più antiche, in cui « cosa » denotava un luogo di riunione, uno spazio di discussione e negoziazioné, Latour ha ri­ abilitato questo senso del termine come via di fuga dal duplice vicolo cieco del costruttivismo e dell' oggettivismo. La sua tesi secondo la quale non siamo mai stati moderni fa perno sull'individuazione di una separazione duale, in base alla quale la modernità è solo capace di depurare (cioè separare) gli oggetti dai soggetti, i non-umani dagli umani, escludendo la proliferazione di ciò che egli chiama « ibridi» o « quasi-oggetti >> : cose che sono simultaneamente naturali e culturali, soggetti e oggetti, ideali e materiali. Ma il punto è che non si può « de­ purare >> - o separare umano e non umano - senza nello stesso tempo creare altri ibridi. Questi si costituiscono nella tessitura vivente di un mondo che non è soltanto costituito mentalmente o dato fisicamente, ma unisce entrambe le modalità insieme, e altre ancora. La loro ri­ luttanza a essere ritagliati in categorie antologicamente > fornisce in effetti le condizioni di possibilità stesse per i tentativi di suddividere persone e cose, come è caratteristico della modernità: perché, infatti, dovrebbe esserci bisogno di una purificazione se non ci fosse una precedente contaminazione ? In tal modo Latour denun­ cia la menzogna delle nostre propensioni moderniste, e così facendo propone una nuova antologia, che è disposto a proclamare universa­ le e indifferente al tempo e allo spazio. Dal suo punto di vista, la con­ figurazione antologica che noi presupponiamo si rivela inadeguata; ma egli ne offre di nuove, attraverso le quali pensare . Il punto in cui l'approccio di TTT diverge da quello di Latour è lo status assegnato al mondo nuovo e più > che emerge dal suo uso euristico delle > . Anche se i nostri scopi possono apparire relativamente modesti rispetto alla sua impresa di riscrivere la ( 2oo4 b ) , il nostro orientamento antologico fa una proposta molto differente. Perché, alla fin fine, Lada espressione ci si è ispirati alla traduzione castigliana di Latour 2004a (Porque se ha que­ dado la critica sin energia? De las asuntos de hech o a las cuestiones de p reocupaci6n, tr. di A. Arellano Hermindez in « Convergencia. Revista de Ciencias Sociales» , I I , 3 5, 2004 ) . « Materie i n questione » è invece la traduzione proposta d a A. Mattozzi i n B . Latour, Un Prometeo cauto? Primi passi verso una fìlosofìa del design, e « antologia>> , sono tanto usati e abusati nel discorso contemporaneo, è importante dire molto esplicitamente quale lavoro intendiamo far loro svolgere per il nostro argomento circa le « cose >> . La formulazione forse più chiara della distinzione è stata data da Eduardo Viveiros de Castro nell'ultima delle quattro lezioni tenu­ te al Dipartimento di antropologia sociale a Cambridge nel 1 9 9 8 , quando gli autori d i TIT erano studenti (Viveiros d e Castro 1 99 8 ) . Nel concludere le lezioni, che riguardavano l'alterità radicale della 7 Per una dichiarazione programmatica circa questo obiettivo, ispirata alla filoso­ fia di Gilles Deleuze, si veda Viveiros de Castro ( 2002 ) . Cfr. Deleuze e Guattari ( 1 99 1 ); Holbraad ( 2003 ) .

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cosmologia amerindia, Viveiros de Castro offriva una diagnosi circa i motivi per cui gli antropologi, nonostante l' impegno professionale che profondono in questo compito, trovano tanta difficoltà a trattare simili casi di alterità: l'antropologia sembra credere che il suo compito capitale sia spiegare come essa arrivi a conoscere ( a rappresentare) il suo oggetto - un oggetto anche de­ finito come conoscenza (o rappresentazione) . È possibile conoscerl o ? È appro­ priato conoscerlo? Lo conosciamo davvero, o vediamo soltanto noi stessi come in uno specchio, in modo oscuro? (Viveiros de Castro 1 9 9 8 , p. 1 4 0 )

L'angoscia epistemologica degli antropologi, per Viveiros de Ca­ stro, è il sintomo di una tendenza più profonda nella storia del pen­ siero moderno: La rottura cartesiana con la scolastica medievale ha prodotto una sem­ plificazione radicale della nostra antologia, ponendo soltanto due principi o sostanze: il pensiero non esteso e la materia estesa. Tale semplificazione è an­ cora con noi. La modernità ha esordito con essa: con l'ingente conversione delle questioni antologiche in questioni epistemologiche - cioè questioni di rappresentazione - una conversione spinta dal fatto che ogni modalità di es­ sere non assimilabile alla > irremovibile doveva essere assorbita dal > , mentre la cultu­ ra è 9 . Gli accenni retorici a qualche vaga idea per cui la cultura ha qualcosa a che fare con «l'essere >> sono uno spauracchio del dualismo. Essi non fanno che confermare l'idea che le differenze - riguardo all' > o altro - sono questione di prospettiva culturale, cioè di prospettiva sul mondo ( con l'articolo determinativo) 1 0 .

« Visioni del mondo» versus «mondi» La via d'uscita dalla stretta epistemologica dell'antropologia co­ mincia dalla negazione dell' assioma principale dell' antologia duali­ sta, cioè che la differenza debba stare alla somiglianza come la rap­ presentazione sta al mondo . Infatti, se si rifiuta di attribuire la diffe­ renza o diversità alla cultura e la somiglianza alla natura, la cogenza circolare del dualismo si smorza . Perciò, nello schema qui proposto, l'assunto della unità naturale e della differenza culturale - di cui 9

Siamo grati a Morten Pedersen per averci chiarito questo punto. In effetti questa è una differenza fondamentale tra la posizione adottata qui e una più heideggeriana. Benché si possa dire che Heidegger ammette la possibilità di , senza dover concedere che queste parole siano solo abbreviazioni di > . Questo cambio di orientamento potrebbe forse avere un'aria di preziosismo scolastico . Le due opzioni - considerare la differenza come una proprietà della rappresentazione oppure del mondo - non sono semplicemente simmetriche ? E la scelta tra antologia ed episte­ mologia non è puramente terminologica ? Alla fine, queste differenze a proposito della differenza fanno davvero differenza ? La risposta è sì, perché l'apparente simmetria è soltanto grammaticale . Ciò risulta chiaro quando si aggiunge alle equivalenze suddette una terza cop­ pia di termini, tradizionale corollario di rappresentazione vs. mon­ do: cioè la dualità tra apparenza e realtà . È proprio questa ulteriore implicazione, nella sua formulazione tradizionale (rappresentazione = apparenza, mondo = realtà), a rendere la forza del dualismo tanto perniciosa per il pensiero antropologico. Perché, se le varie culture restituiscono apparenze diverse della realtà, ne segue che una di esse è speciale e migliore delle altre, cioè quella che riflette meglio la real­ tà. E siccome la scienza - la ricerca di rappresentazioni che riflettano la realtà nel modo più fedele e trasparente possibile - è di fatto un progetto della modernità occidentale, quella cultura speciale è, guar­ da caso, la nostra ( cfr. Latour 2002 ) . Questa implicazione è ovviamente al centro del tenace programma positivistico della . Le differenze tra le varie rappre­ sentazioni possono essere spiegate ( o, in uno spirito più missionario, appianate ) richiamandosi alle nostre rappresentazioni privilegiate, la cui principale differenza rispetto alle altre è che sono vere, vale a dire fedeli al > . Ma un'idea molto simile è sottesa anche all' usua­ le risposta antropologica al positivismo, cioè il relativismo culturale ( cfr. Sperber 1 9 8 5 , pp. 3 8-4 1 ; Latour 1 99 1 , tr. it. pp . 1 3 5 - 149 ) . È vero che i relativisti negano che certe rappresentazioni abbiano una pretesa alla realtà superiore alle altre. Se il mondo si può apprendere solo mediante rappresentazioni, essi argomentano, allora > o > sono solo proprietà di cui noi lo investiamo, in modo rap­ presentazionale. La natura è uno specchio, prosegue il ragionamento,

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e noi diamo alla realtà un senso che è fatto a nostra immagine, esat­ tamente come altri lo fanno a loro immagine. Eppure, paradossalmente, i relativisti sono altrettanto inclini dei positivisti ad accordare uno status speciale alle proprie rappresenta­ zioni. Essendosi vietati di appellarsi alla > , si appellano invece a ciò che la filosofia delle scienze sociali chiama > (cfr. ad es. Taylor 1 9 7 1 , pp. 4 - 5 ) . Secondo questa concezione, poiché tut­ to quel che abbiamo sono visioni del mondo alternative, la pretesa immaginaria di spiegare va sostituita con la necessità d'interpretare, cioè di rendere le rappresentazioni degli altri nel nostro linguaggio. Una tale immagine del lavoro antropologico è chiaramente più plu­ ralista del positivismo ( in quanto l'interpretazione è un gioco che chiunque può giocare, anche gli scientisti) , ma a guardar meglio si rivela essere non meno universalista. Questo perché, come i positivi­ sti amano rimarcare (cfr. ad es. Sperber 1 9 8 5 , pp. 4 1 -4 9 ) , affinché la nozione d'interpretazione possa star in piedi (e in particolare evita­ re la trappola logica di quell'agnosticismo culturale che chiamiamo , non appare ossimorica ai nostri teorici altrimenti ferocemente anti-cartesiani. Ed è sempre per questo motivo che possono essere altrettanto presuntuosi circa i meriti della propria analisi e dei propri > interpretativi quanto i positivi­ sti lo sono circa le proprie > . Anche se ciascuno di noi parla in

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modo parziale, tutti parliamo del mondo, e dunque possiamo parlare anche delle versioni degli altri. Una svolta antologica nell'analisi antropologica confuta radical­ mente questi presupposti. L'idea, così misteriosa, di « mondi multi­ pli >> è tanto diversa da quella ben nota della pluralità di visioni del mondo proprio perché fa leva sull'umile (ma logicamente ovvia, in questa concezione ) ammissione che i nostri concetti (non le nostre «rappresentazioni>> ) non possono, per definizione, che essere inade­ guati a tradurre concetti diversi. Questo, secondo la nostra proposta, è l' unico modo di prendere sul serio la differenza l'alterità in quanto punto di partenza dell'analisi antropologica. Si deve accetta­ re il fatto che, quando qualcuno ci dice che, mettiamo, la polvere è potere, il problema antropologico non può essere quello di spiegare perché mai quella persona può pensare ciò riguardo alla polvere ( cioè chiarire, interpretare, mettere la sua asserzione nel contesto ) . Si deve piuttosto accettare che, se veramente è così, allora semplicemente non sappiamo di che polvere sta parlando. Questo è un problema antologico in tutto e per tutto . Infatti non si troverà una risposta ad esso cercando «nel mondo>> ( magari a Cuba ? ) una qualche speciale polvere dotata di potere . Il mondo in cui la polvere è potere non è una regione inesplorata ( e assurda ! ) del nostro mondo (cfr. Viveiros de Castro 200 5 ; Ardener 1 9 8 9 ) . È un mondo diverso, in cui quella che consideriamo polvere è effettivamente potere, o, più esattamen­ te, un terzo elemento destinato a restare ineffabilmente paradossale finché insistiamo a commentarlo coi nostri concetti di partenza; non è né > né > , ma in qualche modo entrambe le cose, o meglio ancora un'unica cosa . -

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Due passi verso una ripartenza antologica Dunque, se questi > non si trovano in qualche ango­ lo dimenticato del nostro, dove sono ? La risposta a questa domanda, che va al cuore del metodo del , implica due parti: due passi, per così dire, verso una ripartenza antologica. Per comprendere il primo passo, pensiamo a quale potrebbe essere una risposta epistemologicamente orientata . Poiché mondi diversi non sono parti del mondo, allora devono essere una funzione delle

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nostre rappresentazioni: cos'altro potrebbero essere ? Una tale replica, evidentemente, non è che una ricaduta nell'ortodossia epistemologica: un mondo, tante visioni del mondo . Ma, nella sua apparente inelut­ tabilità, essa serve a capire che le conseguenze logiche della nozione di > . Fintanto che le nostre ordinarie in­ tuizioni di cosa sia « il mondo >> restano ingenue, la nozione di « mondi diversi>> resterà contraddittoria (mondi siffatti, si dirà, possono solo essere immaginati, cioè rappresentati, perché l'unicità è parte integran­ te della definizione stessa del mondo ) . Quindi, perché abbia un senso la nozione di « mondi diversi», bisogna intenderla senza far riferimento al suo supposto contraltare, cioè quella di rappresentazioni diverse. Anzi, la difficoltà di questa nozione, nonché la sua coerenza logica, sta appunto nel fatto di negare del tutto la contrapposizione tra rappre­ sentazione e mondo, anziché rovesciarne meramente le implicazioni n . È per tale ragione che, ad esempio, l'affermazione per cui gli in­ dovini cubani, nel dire che la polvere è potere, stanno parlando di una polvere diversa ( nonché di un diverso potere) non è un'afferma­ zione «costruttivista >> ( cfr. Latour I 9 9 9 , pp. 2 I - 2 3 ) . Detto in termini foucaultiani, il punto non è che le affermazioni discorsive ( come « la polvere è potere >> ) ordinano la realtà in maniere diverse - o secondo diversi « regimi di verità >> - ma che creano nuovi oggetti ( come la polvere potente ) nell'atto stesso di enunciare nuovi concetti ( come quello di polvere potente ) . Anche Foucault direbbe che i discorsi cre­ ano i propri oggetti, tuttavia egli parte ancora dal presupposto che là fuori c'è una qualche materia prima appartenente al mondo reale. Ad esempio, anche se un corpo può non essere maschile o femminile fin quando un discorso di genere non invoca tale distinzione operati­ va, c'è pur sempre un corpo a cui il discorso si riferisce 1 2• Viceversa, II

Forse il rovesciamento analogico in questione si può descrivere nel modo migliore come metonimico, piuttosto che metaforico. Un'inversione metaforica della formula « dif­ ferenza : somiglianza : rappresentazione : mondo » non potrebbe che suonare come una contraddizione in termini: « differenza : somiglianza : mondo : rappresentazione» . Un'in­ versione metonimica è un procedimento del tutto diverso, che comporta la fusione di parti di un lato dell'analogia con parti dell'altro. Questa operazione logica si potrebbe rendere così: « differenza : somiglianza : rappresentazione : mondo » « differenza : mondo » Si noti che questo è un aspetto comune alla nozione foucaultiana di discorso e alla fenomenologia ( si veda la precedente nota Io). =

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la proposta qui avanzata, se vogliamo, è un genere completamente diverso di costruttivismo: un costruttivismo radicale non lontano da quello delineato da Deleuze ( Deleuze e Guattari 1 9 9 1 , tr. it. xv, 2 5 2 6 ) 1 3 . I l discorso può a vere effetti non solo perché « sovradetermina la realtà » , ma perché fin dall'inizio non c'è alcuna distinzione anto­ logica pertinente tra «discorso » e « realtà » . In altri termini, i concetti possono produrre cose perché concetti e cose sono semplicemente tutt'uno ( sono una sola « cosa» , potremmo dire, usando il termine in senso euristico ) . In sintesi, il sillogismo è il seguente . Partiamo dall'ordinario as­ sunto ( rappresentazionistico-epistemologico) che i concetti siano il luogo della differenza. Poi argomentiamo che, per prendere sul serio la differenza ( come « alterità>> ), bisogna lasciar cadere l 'assunto che i concetti siano antologicamente distinti dalle cose a cui ordinaria­ mente sono detti > che non sono la stessa cosa, contrariamente a quanto ( apparen­ temente ) affermano gli indovini cubani. Questo, a nostro avviso, è un punto di partenza che permette la creazione concettuale ( forse l'unico che la permette) . Fino a che punto e in quale direzione dobbiamo cam­ biare i nostri concetti prima di poter dare il nostro assenso alle affer­ mazioni inizialmente bizzarre dei nostri informatori ? Fino a che punto dobbiamo mutare i nostri assunti su cosa siano « polvere >> e «potere >> prima di poter dire anche noi, coerentemente, che sono la stessa cosa ? Va notato che la « nostra>> capacità di concepire sia la polvere sia la polvere-potere non ci conferisce improvvisamente una superiorità antologica sui nostri informatori . Non è che il vecchio presuppo­ sto di un' antropologia come « episteme di tutte le epistemi>> sia stato semplicemente sostituito con un'antologia di tutte le antologie . Anzi,

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gravati d a un'antologia dualista, e dal razionalismo scientifico a cui essa dà luogo, gli antropologi hanno bisogno di un metodo per re­ cuperare un'abilità che i loro informatori probabilmente hanno già. Dob biamo adottare una metodologia che permetta la produzione concettuale capace di formare mondi . E questo è un metodo che ren­ de umili, nella misura in cui ci fa ammettere che i nostri concetti non sono adeguati e devono quindi essere trasformati facendo ricorso a quelli dei nostri informatori . Come illustreremo nel prossimo paragrafo, gli autori dei contri­ buti a TIT esplorano il potenziale di questo tipo di creazione con­ cettuale in svariati modi, anche perché le cose attraverso le quali essi pensano sono «diverse » e variegate . Per maggior chiarezza, comun­ que, è utile chiarificare la precedente discussione sulla svolta onta­ logica in antropologia mediante un richiamo a quello che è forse il tentativo più precoce di pensare attraverso una cosa in antropologia: il famoso resoconto di Marcel Mauss sulla relazione tra persone e cose nel > maori ( Mauss 1 9 2 3 - 24 ) . Il discorso di Mauss può essere interpretato in modo tale da gettare luce sui fondamenti del compito antologico del « pensare attraverso le cose » . Eppure alcuni dei suoi successori immediati formularono la sua argomentazione su persone e cose in termini « epistemologici » (come li abbiamo definiti in precedenza ) , dando un buon esempio della facilità con la quale questioni antologiche possono essere ricollocate sul terreno più fa­ miliare dell'epistemologia.

Precedenti nell'antropologia maussiana Il contributo fondamentale di Mauss per le questioni qui esplorate sta nel fatto di prendere sul serio l'identificazione « primitiva» di certi aspetti dell'essere persona e delle cose che egli descrive collettivamente come « doni» . Invece di liquidare artefatti e oggetti ancestrali imbevuti della personalità dei precedenti possessori come un indizio di animismo primitivo o di superstizione, egli accolse queste entità poco familiari e le presentò nella forma di una critica delle concezioni prevalenti nella pro­ pria società. Il capitolo di Henare in T1T ( 2007 ) rivisita il classico brano su cui Mauss basò la sua analisi dello scambio di doni maori, tratto da una lettera di un anziano maori di nome Tamati Ranapiri all'etnologo

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Elsdon Best. Come ogni studente di antropologia è tenuto a impara­ re, l'identificazione da parte di Ranapiri dei taonga ( oggetti di valore ) con hau ( lo « spirito del dono>> ) spinse Mauss a sviluppare la sua teoria dell'obbligazione sociale come fattore che impone reciprocità r s . Esatta­ mente come noi proponiamo di usare le « cose>> che emergono nel cor­ so dell'etnografia come strumenti euristici, Mauss esaminava i taonga maori, tra l'altro, per esplorarne il potenziale teorico. Vi sono però due modi, considerevolmente differenti, ed entrambi at­ testati nella letteratura antropologica, d'interpretare il pensiero di Mauss circa l'alterità dei e i modi in cui essi legano e fondono persone e cose. Il primo, che vorremmo chiamare epistemologico, comincia trat­ tando le categorie di > e come analiticamente separate, cercando poi di spiegare perché queste entità apparentemente separate sono per i Maori la stessa cosa. Un esempio particolarmente influente di questo approccio è l'esplicazione in chiave marxista dei doni come data da Chris Gregory ( 19 8 2 ) . Unitamente ad altri criteri, la questione dell'alienabilità dovrebbe far risaltare la differenza tra visti come doni (inalienabili) e come merci (alienabili) . La differenza è data, nel primo caso, dall'aggiunta delle persone alle cose e, nel secondo, dalla loro separazione. Il dono si presenta così come un ossimoro analitico : una cosa che è dissimile dalle cose, in quanto inalie­ nabile dalle persone. La logica aggregativa di questo tipo di analisi ( cosa + persona ) si può definire epistemologica in quanto il compito dell'ana­ lisi antropologica in questo schema è determinare come possa un insie­ me di concetti analitici ( ad esempio > e ) collegarsi ad ambientazioni etnografiche diverse (l'economia del dono implica cose + persone, quella delle merci implica cose) . L'antropologo, insomma, stabilisce come i concetti ( analitici ) si applicano alle rappresentazioni dei suoi informatori: un esercizio essenzialmente interpretativo. Un discorso simile si potrebbe fare a proposito dell'influente tenta­ tivo di Alfred Gell, in Art and Agency, di elaborare quella che egli stes­ so chiama, come Gregory, una teoria maussiana degli artefatti ( Gell 1 9 9 8 , p. 9; cfr. Pinney e Thomas 200 1 ) . Riproponendosi di ( Geli 199 8 , p. 20) . Tuttavia, in definitiva, come argomenta Leach ( 2007 ), Geli elabora gli oggetti come > , la cui capacità di agire viene resa metaforica, in quanto dipende dal contesto delle relazioni sociali ( Geli 1 9 9 8 , p. 1 7 ) . Nella misura in cui la loro agentività ha origine nelle menti dei loro creatori ( almeno quanto nel ) , i suoi oggetti d'arte non arrivano fino al punto di revisionare le nostre nozioni correnti di > o . Infatti qui l'agire resta irriducibilmente umano in prima istanza, e la sua propagazione alle cose è necessariamente derivata. Le cose acquistano agentività sociale in quanto sono coinvolte in relazioni sociali tra persone . Anche se l'in­ tenzione dichiarata di Geli è di di Mauss come un atto di produzione concettuale anziché di mera aggregazione. Lo stesso lavoro di Geli può essere anche letto in questa chiave, come sostiene Morten Pedersen ( in TIT, cit . ) . In tal senso, e non sono che etichette euristiche per dar conto di qua/cos 'altro, cioè ciò a cui Geli si riferisce col termine e che Ranapiri cercava di comunicare di­ cendo che il taonga lo hau del dono. Il motivo per cui l'affermazione di Ranapiri è di difficile comprensione, e ha dato esca a un dibattito an­ tropologico lungo un secolo, non è necessariamente la sua sfida alle con­ cezioni tradizionali riguardo alle e alle > - che richiede ai ricercatori d'ampliare i propri concetti per includervi, ad esempio, pezzi di legno animati - ma la definizione completamente alternativa

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che offre degli elementi che compongono la relazione di dono: hau e taonga, invece di persone e cose. Leggendolo in questo modo, Ranapiri non stava supponendo che Best condividesse la sua idea di cosa siano persone e cose, per poi limitarsi a spiegare come, in certi contesti, una cosa ( una speciale cosa maori, detta taonga) possa equivalere a una per­ sona. Stava invece mostrando che, quando si tratta di doni di taonga, questi concetti sono del tutto insufficienti . Perché in gioco, qui, per l'an­ tropologia, c'è un terzo concetto, che emerge quando le nostre nozioni di «cosa » e «persona» si trasformano reciprocamente nell'incontrarsi con l'affermazione di Ranapiri che > . Questo mette in luce la differenza che abbiamo in mente tra epistemologia e antologia: mentre la prima cerca dei modi per applicare concetti già noti a occor­ renze inconsuete, la seconda sfrutta tale carattere inconsueto come occa­ sione per trasformare dei concetti in modo tale da dar luogo a concetti nuovi . Non è che i termini e > come concetti mediante i quali apprendere lo scambio di doni melanesiano e la tratta come opportunità di trasformare quegli stessi concetti. Se il dono incar­ na la relazione sociale anziché esserne meramente una rappresentazione simbolica, ne segue che le melanesiane non possono più esser concepite come esistenti antecedentemente alle relazioni in cui poi ven­ gono implicate attraverso lo scambio. Le persone melanesiane devono invece essere concepite di per sé stesse come relazioni (donde la famosa idea stratherniana del come : 1 9 8 8 , pp. 1 3 , 1 5; 199 1 , p. 5 3 ) . Questo ci costringe a ripensare il nostro concetto di persona e in particolare la sua rilevanza per situazioni sociali poco fa­ miliari. In contrapposizione all'individualismo possessivo, centrato sul­ la supposizione che le persone siano entità discrete in grado di entrare in relazioni, Strathern ha efficacemente creato un nuovo concetto della , che asseconda i Melanesiani nell'idea che l'essere una perso­ na sia qualcosa che ha luogo nelle relazioni implicate dallo scambio 1 6• Nondimeno, le differenze tra Strathern e Mauss sono altrettanto significative delle somiglianze . Dinanzi all'apparente inadeguatezza di > e > rispetto a hau, Mauss è spinto a sovvertire tali categorie, ma non arriva fino a formulare categorie alternative. Consideriamo questo brano dal Saggio sul dono: Possiamo spingerei, però, ancora più lontano di quanto non abbiamo fatto finora. È possibile scomporre, rimescolare, colorire, definire diversamente le principali nozioni di cui ci siamo serviti. I termini da noi adoperati: presente, regalo, dono non sono del tutto esatti. Non ne troviamo altri, ecco tutto. Sa­ rebbe bene rimettere in un crogiolo tutti i concetti giuridici ed economici che ci compiacciamo di contrapporre: libertà e obbligo, liberalità, generosità, lusso e risparmio, interesse, utilità. Al riguardo, possiamo dare solo delle indicazio­ ni: scegliamo, per esempio, le Trobriand. È ancora una nozione complessa a

I6 Peraltro Strathern si fa scrupolo di notare che i suoi nuovi concetti non intendono fotografare quelli dei suoi informatori, ma sono piuttosto il prodotto dell'incontro etno­ grafico. Geli ha detto la stessa cosa col suo famoso commento per cui The Gender of the Gift è un'etnografia del « sistema M » , «in cui M può stare per Melanesia o per Marilyn, a vostro piacere» ( 1 99 8 , p. 3 4 ) .

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ispirare tutti gli atti economici che abbiamo descritti; e tale nozione non è né quella della prestazione puramente libera e puramente gratuita, né quella della produzione e dello scambio puramente interessati all'utile, ma una specie di ibrido colà formatosi. (Mauss 1 9 2 3 - 1 924, tr. it. pp. 27 8 - 2 79)

Mauss qui presenta vividamente il carattere > del concet­ to trobriandese, quale punto finale della sua analisi. Ciò rientrava adeguatamente nel suo progetto politico, che era un tentativo di usare la sovversione analitica dei concetti di persona e cosa per promuovere una sovversione politica . Il nostro programma prende spunto più dagli sforzi di Strathern di oltrepassare l 'idea negativa dell' > , come dice il sottotitolo del libro (Wagner 1 9 72; cfr. 19 8 1 , pp . xi v-xv ) . Una simile relazione ricorsi­ va - fra quel che fanno gli informatori e le tecniche applicate dagli antropologi quando li studiano - è decisiva anche per la strategia di TTP 1 •

La questione nasce da un'incomprensione basilare di ciò a cui mira Wagner. Infatti egli non dice che l'invenzione sia semplicemente lo stiracchiamento di vecchi concetti su nuovi contesti - un impulso epistemologico euro-americano - ma qualcosa di più radicale: ogni qual volta i concetti vengono nel senso più let­ terale possibile, in quanto, come vedremo, è il loro stesso significato

3 [I: Introduzione al volume in cui questo saggio fu originariamente pubblicato è qui tradotta alle pp r 9 r -224 (N. d. T. ) .]

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che è sempre stato in questione per gli antropologi. In altre parole, se il dibattito antropologico è motivato dall'incomprensione, che è quanto io sostengo, allora quello riguardante il mana è un dibattito esemplare. A differenza di altri dibattiti canonici, in cui si è dovuto dimostrare che la difficoltà di fondo era un'incomprensione - come fece Mauss per i doni, Dumont per la gerarchia, Strathern per il ge­ nere, e così via -, il dibattito sul mana ha riguardato fin dall' inizio la difficoltà di comprendere. In questo lavoro il mio scopo è di trarre profitto in termini teorici dal mana, in rapporto al tema di TTT, cioè la possibilità di revi­ sionare i nostri assunti riguardanti gli > , come gli antropologi talvolta li chiamano, o le > , come noi preferiamo dire, al fine di mantenere le nostre opzioni antologiche il più aperte possibile ( si veda l'Introduzione a ITT) 4 . Come vedremo, una delle fonti dell'incomprensione costruttiva dei termini-mana da parte degli antropologi è che tali termini travalicano sistematicamente i concet­ ti con i quali un'analisi può demarcare concetti come > , o , i n effetti, > . I n questo modo, occuparsi i n chiave antropologica di ciò che la gente intende per mana fa presagire un la­ voro enorme quando si tratterà di revisionare questi concetti. In par­ ticolare, sosterrò che i termini-mana ci danno un appiglio per analiz­ zare l'assunto comune che le > debbano necessariamente essere pensate come antologicamente distinte dai . Tale mossa è possi bile soltanto perché l' > del mana travalica siste­ maticamente questa distinzione : esso è sia una cosa che un concetto . In questo senso la mia argomentazione sul mana si ispira diretta­ mente alla riflessione di Mauss sul termine maori hau. Se il concetto di hau ha fornito l' occasione per negare che la distinzione tra cose e persone sia un assioma auto-evidente (come si è sostenuto nell'In­ troduzione a ITT) , allora i termini-mana fanno lo stesso per quanto riguarda la distinzione tra cose e concetti. La principale differenza, tuttavia, tra la strategia de Il dono e quella portata avanti qui ha a che fare con gli scopi ultimi. Avendo sovvertito la distinzione tra le persone e le cose in riferimento all'etnografia sullo scambio di doni, Mauss non arrivò mai a fornire una sistemazione analitica alterna­ tiva che potesse render conto di tale fenomeno, se non postulando 4

[Tradotta in questo volume alle pp.

1 9 1 -224 (1\'.d. T. ) . ]

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implicitamente e in chiave negativa che i doni presuppongano un collasso delle nostre distinzioni fondamentali ( Mauss 1 9 23 - 1 9 24, tr. it. p. r o 5 ) . Dopotutto, in chiave positiva, il suo progetto era politico : usare la sovversione della distinzione tra le persone e le cose offerta dall'etnografia dei doni per accendere una polemica altrettanto sov­ versiva contro l'ethos moderno del mercato ( si veda l'Introduzione a TIT) . Viceversa, lo scopo positivo di questo saggio rimane analitico . Dopo aver mostrato che il mana non può essere articolato nei ter­ mini della distinzione comune tra concetti e cose, voglio considerare la possibilità che l'etnografia del mana potrebbe dettare a sua volta una cornice analitica alternativa - quella che va al di là della distin­ zione tra concetti e cose. Così la domanda è questa: se, come è stato ampiamente commentato nella letteratura, il mana è sia, diciamo, un sasso, sia un'efficacia rituale - sia cosa, sia concetto, potremmo dire -, allora il pensare attraverso di esso potrebbe fornirci un punto di vista analitico dal quale non avremmo più bisogno di fare questa distinzione ? Potrebbe esserci un'impostazione analitica in cui il mana non appaia come un'anomalia antologica, come quando diciamo, con sorpresa, che è sia cosa che concetto ? Prendendo spunto dai primi autori che consideravano il mana semplicemente come la versione oceanica di un fenomeno molto più ampio, quest'argomentazione sarà sviluppata da un punto di vista etnografico circoscritto in un altro modo, cioè quello dell 'ifa cubana, un culto divinatorio maschile d' origine centro-africana che sto studiando nella zona centrale dell'Avana dal r 99 8 . Come si mostrerà, il ricorso, apparentemente oscuro, che i divinatori ifa fanno al concetto di aché mostra « anomalie >> apparenti che sono analoghe a quella che gli antropologi hanno associato al mana . Ma prima di arrivare all ' etnografia, deside ro identificare più in detta­ glio quello che assumo essere il significato, così come i difetti, del dibattito attorno al mana, come si sviluppò all' epoca .

Il mana nel dibattito Il dibattito antropologico sul mana si è sviluppato lungo due tra­ iettorie, che corrispondono grosso modo alla proverbiale dualità tra il razionalismo francese e l'empirismo britannico. In Francia, fin dai

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tempi di Comte, i concetti primitivi di « forza » , di cui il mana si riten­ ne essere un caso esemplare, vennero presi come punti centrali di ri­ flessione nei dibattiti sopra le origini del pensiero stesso. Sebbene tali idee a bbiano esercitato qualche influenza sulle speculazioni evoluzio­ nistiche di figure come Tylor, Frazer e Marett, in particolare nei loro dibattiti - ora considerati bizzarri - sulla relazione tra « religione >> e « magia >> , la preoccupazione degli antropologi britannici per il mana è stata principalmente etnografica, fin da quando il missionario an­ glicano Robert Henry Codrington mise in circolazione il termine nel 1 8 9 1 . La strategia del presente capitolo - trarre profitto analitico dai particolari etnografici incontrati a Cuba è sospesa tra i due cam­ pi: persegue finalità razionalistiche con mezzi empirici, per così dire, mettendo a repentaglio i fondamenti di entrambi. Ma dal momento che i miei scrupoli empirici sono limitati a Cuba, ben al di là della portata delle controversie etnografiche classiche (i cui campi erano principalmente Oceania e Nord-America ), la mia focalizzazione qui sarà sul dibattito di marca francese sull' apporto concettuale generale dei termini-mana. Detto questo, una buona sede da cui riprendere il dibattito con­ cettuale è precisamente la sua relazione con la controversia etnogra­ fica. Si consideri, per esempio, la lamentela impeccabilmente anglo­ sassone di Malinowski a questo riguardo : -

la teoria del mana come essenza della magia e della religione primitiva era stata così brillantemente difesa e così avventatamente discussa, che ci si deve innanzitutto rendere conto che la nostra conoscenza del mana, specialmente in Melanesia, è alquanto contraddittoria e particolarmente che non abbiamo in pratica nessun dato che ci mostri che questo concetto entra nel culto e nella fede religiosa o magica. (Malinowski r 9 5 4, p. 7 8, tr. i t. p. 8 3 )

Oltre a quella di Marett ( 1 9 14 ; 1 9 1 5 ) , la teoria che Malinowski aveva in mente era, certamente, quella proposta nell' «Année Sociolo­ gique » da Mauss e Hubert ( 1 9 0 2 ) , ed elaborata da Durkheim ne Le forme elementari della vita religiosa ( 1 9 1 2) . Ma, mentre le sue idee sui meriti del lavoro sul campo hanno avuto buona accoglienza da al­ lora in poi, le lamentele di Malinowski sull'atteggiamento sprezzante dei teorici del mana nei riguardi dell'etnografia erano fuori bersaglio. Per i francesi, la contraddizione del mana non era un infortunio etno­ grafico ma un dato etnologico. Era il mana ad essere confuso, non la

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nostra comprensione di quest'ultimo. In realtà, l'idea che le « nostre » contraddizioni fossero dovute alla debolezza etnografica ( e che il mana fosse realmente lì in attesa di essere conosciuto ) semplicemente non fu confermata dall'ulteriore ricerca . Come scrive Bradd Shore in una rassegna più recente del dibattito etnografico sul termine poli­ nesiano, « persino uno sguardo superficiale alla letteratura sul mana suggerisce quanto difficile [ . . . ] sia stato attenerne una comprensio­ ne » ( Shore 1 9 8 9 , p. 1 3 7) . Così, mentre la sfida « britannica » - por­ tata avanti da Hocart ( 1 9 1 4 ) , Hogbin ( 1 9 3 6), Firth ( 1940), Keesing ( 19 8 4 ), e dallo stesso Shore, tra i tanti altri - era mettere ordine in quello che appariva loro come un pantano etnografico, quella « fran­ cese» era spiegare efficacemente perché tali tentativi fossero destinati a fallire . Ciò che rendeva il mana così affascinante a livello teorico era precisamente il fatto che, essendo « singolarmente ambiguo » 5, come scrissero Mauss e Hubert, risultava « del tutto estraneo al no­ stro modo di intendere di adulti europei » ( Mauss e Hubert 1 902, tr. it. p. 1 09 ) . Naturalmente, il fatto di parlare di un intendere « adulto>> esprime la strategia antropologica che all'epoca veniva automatica di fronte all'alterità : quella di relegarla ad una fase filo-ontogenetica precedente . Il fatto che il mana fosse invariabilmente spinto indie­ tro fino in fondo, all'inizio di qualunque cosa fosse in discussione per ciascun teorico (cioè, come vedremo, la religione e la magia in Mauss, la società in Durkheim e la conoscenza in Lévi-Strauss e Sper­ ber) , non fa che provare la mia affermazione precedente circa la sua alterità estrema . Ma mettendo da parte le considerazioni cronologi­ che, qui voglio considerare la forma che l'alterità del mana prende in questi dibattiti, e la sua intrigante relazione con la forma delle sue > antropologiche. Come tutti i buoni dibattiti, quello francese sul mana ruotava in­ torno a una premessa comune, cioè che l'elusività del mana - la sua > - dipendesse da quello che si potrebbe chia­ mare il suo eccesso. Riassumendo la situazione corrente sul mana, Lévi-Strauss spiega che il problema che i termini-mana pongono agli antropologi è sempre stato una questione di > del mana era una funzione del­ la relazione tra i propri strumenti analitici ed il loro oggetto, gli ana­ listi imputarono il problema all'oggetto stesso. Invece di domandarsi come mai trovassero il mana eccessivo, essi si chiesero perché il mana potesse essere eccessivo. E così la confusione in cui il mana lasciava gli antropologi stessi veniva proiettata come « misticismo nativo>> , da spiegare come un > che lascia confusi. 6 Per esempio, Mauss e Hubert notano a proposito del mana ( specificatamente nella sua accezione melanesiana) : « In primo luogo, è una qualità. È qualcosa che appartiene alla cosa mana; non è questa cosa stessa. [ . . . ] In secondo luogo, il mana è una cosa, una sostan­ za, una essenza docile, ma anche indipendente [ . . . ]. È per natura trasmissibile, contagioso; si comunica il mana, che si trova in una pietra da raccolta, ad altre pietre, mettendolo in contatto con esse. È rappresentato come materiale: lo si sente, lo si vede sprigionarsi dalle cose in cui risiede [ . . . ]. In terzo luogo, il mana è una forza e specialmente quella degli esseri spirituali, cioè quella delle anime degli antenati e degli spiriti della natura. È il mana che ne fa degli esseri magici » (Mauss e Hubert 1 9 02, tr. it. pp. 1 1 0-1 1 1 ) . Lévy-Bruhl usa l'esempio degli Arunta i n Australia che hanno ( Lévi-Strauss 1 962b) . Il dibattito sul totemismo, argomentava Lévi-Strauss, era spurio per­ ché prendeva avvio dall'assunto che il significato dei simboli totemici potesse essere identificato esaminando la loro relazione con i gruppi sociali che simboleggiavano. Così inquadrate, le risposte degli an­ tropologi erano arbitrarie come quelle stesse relazioni, in quanto la connessione tra il totem e il clan non era più rivelatrice di quella che c'era tra, diciamo, il significante > e la categoria animale che

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esso significa . I significanti non acquistano il loro senso per mezzo delle loro relazioni bilaterali con i significati . Essi lo acquistano per mezzo delle loro relazioni multilaterali con altri significanti. Il senso è una funzione, nel senso algebrico ( Lévi-Strauss I 9 s o, tr. i t. p. XL), di una posizione del significante in una serie strutturata . Fornite come tali, soltanto allora le serie di significanti possono essere usate per decifrare una serie di significati stabilendo relazioni biunivoche tra i loro rispettivi elementi ( da -significante-a -significato ) . La classifica­ zione totemica è un esempio di questo principio generale, e perciò non pone problemi più di qualsiasi altro caso di significazione. La dissoluzione da parte di Lévi-Strauss del dibattito sul mana è simile ( anche se lui dal canto suo non stabilisce l'analogia) . La fasci­ nazione degli antropologi per le antinomie che i termini-mana pon­ gono - astratto e concreto, concetto e cosa, e così via - era motivata dall'aspettativa che, per quanto ambiguo e difficile da discernere, il significato di tali termini potesse essere identificato dal riferimento ai fenomeni (o almeno al campo dei fenomeni ) che significano. L'ar­ gomento aveva di mira Mauss - istigatore e insieme bersaglio dell'a­ nalisi di Lévi-Strauss nell'articolo eponimo del 19 50 - ma si applica ugualmente agli altri etnografi e teorici preoccupati di interpretare nel modo migliore il significato di mana. Il suggerimento di Mauss che l'ambiguità del mana è ciò che lo rende « magico >> , dal momento che la magia stessa è un fenomeno intrinsecamente ambiguo (si veda sot­ to) , paradossalmente pone dei limiti all'ambiguità del mana legandolo al magico come il significante al significato ( Lévi-Strauss 19 50, tr. it. pp. XLV-XLVI ) . Secondo una concezione strutturalista, tuttavia, la que­ stione dell'ambiguità del mana non può essere sistemata appellandosi ai fenomeni ambigui che esso significa (cioè l'illusione totemica) , ma piuttosto deve essere vista nei termini delle relazioni tra il mana e gli altri significanti . Così, se, come gli etnografi riportano per pura dispe­ razione, i termini-mana non hanno nessuna posizione fissa all'interno delle strutture semiotiche indigene, consistenti in « una serie di idee instabili che si confondono le une con le altre >> ( Mauss e Hubert 1 902, tr. it. p. I Io), allora ne segue che questi termini hanno meno significato invece che di più. Essi sono significanti che possono da una posizione semiotica all'altra precisamente perché, di per sé, non hanno alcun significato. Dopo aver commentato i vari (antinomici) significati che gli etnografi hanno annesso a questi termini, Lévi-Strauss scrive:

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E, infatti, il mana, è tutto questo insieme; e lo è appunto perché non è niente di tutto ciò, ma semplice forma o, più esattamente, simbolo allo sta­ to puro, suscettibile, perciò, di caricarsi di qualsivoglia contenuto simbolico. ( Lévi-Strauss 1 9 5 0 , tr. it. p. LI I )

Ora, per quanto ingegnosa sia una tale dissoluzione del problema del

mana, l'idea che i termini-mana siano senza senso, come lo sono parole come o > ( 1 9 5 0, tr. it. p. XLVII; si veda anche l'Introduzio­ ne a TIT), può essere considerata capziosa secondo due accezioni. Prima di tutto, una delle ragioni per cui gli etnografi hanno con­ siderato così importanti i concetti come mana è che lo fanno i loro informatori. Qualsiasi cosa possa essere il mana , esso certamente non è un né un « aggeggio>> per coloro che sono coinvolti con esso. La provocazione di Lévi-Strauss, a questo proposito, è deliberata, ma non per questo più convincente. La seconda capziosità della sua ana­ lisi, meno evidente, ha a che fare con quanto abbiamo asserito più in generale sopra, circa il confronto tra il carattere trasgressivo del mana e gli strumenti analitici utilizzati per render conto di esso. Se ciò che desidero sostenere qui è una strategia in cui i concetti analitici sono modificati dal materiale etnografico, allora Lévi-Strauss occupa il polo diametralmente opposto. La distinzione che dà adito alla sua analisi - l'opposizione del significante rispetto al significato - non soltanto non è modificata dal mana , ma lo contraddice categoricamente, poi­ ché, anche se l'ambiguità trasgressiva del mana potesse pensarsi paci­ ficamente come un > , il punto è che tale fluttuare attraversa la divisione assiomatica tra significanti e significati, che è certamente soltanto una variante delle altre famose > del mana , come concreto/astratto e cosa/concetto?. Certamente, sarebbe circolare se io presentassi questa contraddi­ zione come un delitto capitale: fa parte degli scopi di questo saggio mostrare che lo è . Forse dovremmo semplicemente ammettere che l'al­ terità etnografica è lì soltanto per essere pacificata, come lo erano i selvaggi che per primi ce la presentarono. Ma non se l'armamentario 7 La discussione di Sahlins sui significati cangianti del mana e del tabu in Polinesia, a se­ guito degli eventi legati all'arrivo del capitano Cook, si può considerare come un tentativo di correggere la prima «capziosità>> dell'analisi di Lévi-Strauss difendendo la seconda (Sahlins 1 9 8 5 , passim ). Avendo fornito una ricca discussione sui significati del mana e del tapu, egli prosegue spiegando gli slittamenti di questi significati in termini di relazioni alterate tta i « sensi>> e i «referenti » , i «significati » e le «cose » ecc. ( ivi, pp. r 3 6-r 5 6) .

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che usiamo contraddice sé stesso ( questo dovrebbe, in base ai nostri stessi criteri, rendere noi selvaggi; cfr. Lévi-Strauss 1962a ) . Anzi, ben­ ché una critica serrata dell'analisi strutturalista vada al di là dei nostri limiti in questa sede, sono dell'avviso che l'attrazione di Lévi-Strauss per i significanti fluttuanti indichi una frattura profonda nel suo edifi­ cio teoretico8 • Da un lato, il significato è postulato come funzione delle relazioni semantiche tra i significanti, diversamente dalle relazioni se­ mantiche biunivoche tra i significanti e i significati, che sono arbitrarie. Dall'altro lato, la relazione tra la serie dei significanti e dei significati, presa come totalità, non può essere considerata arbitraria, in quanto ciò sarebbe semplicemente dire che i significati non hanno alcuna presa sui significanti, rendendo con ciò non soltanto superfluo il concetto stesso di significato, ma anche escludendo la possibilità che i signifi­ canti possano essere usati per esprimere « conoscenza» o «verità » sul mondo che essi significano (Lévi-Strauss 1 9 50, tr. it. pp. L-LI ) . Ora, si potrebbe sostenere che questa frizione tra le richieste contrastanti della semiotica e della semantica si sia sviluppata nei termini più forti storicamente sotto forma di duplice eredità lévi-straussiana: il « post­ strutturalismo » , da una parte ( che si compiace dei significanti senza radici) , e la teoria cognitiva, dall'altra (decisamente ossessionata dal fornire loro un radicamento, nell'interesse della ragione) : si veda ad esempio Barthes ( 1 9 5 7 ) , Sperber ( 1 9 8 5 ), Boyer ( 1 9 8 6)9. Ma nel 19 5 0, Lévi-Strauss pensava che l'idea del > potesse migliorare questa tensione, che egli proiettava come una caratteristica dell'evoluzione del pensiero umano: permane una situazione fondamentale che dipende dalla condizione umana; l'uomo dispone, cioè, fin dalla sua origine di una integralità di significante, che lo pone in grande imbarazzo quando deve assegnarlo a un significato, dato come tale senza essere, per questo, conosciuto. Tra i due c'è sempre una inade­ guazione, riassorbibile soltanto per l'intelletto divino e che risulta nell'esisten­ za di una sovrabbondanza del significante in rapporto ai significati, sui quali essa può collocarsi. (Lévi-Strauss 1 9 5 0 , tr. it. pp. L I - L i r ) 8

it. pp. 9

Per due critiche eloquenti si veda Godelier ( I 999, pp. 2 3 -29) e Deleuze ( I 9 69 a, tr.

so-s2).

L a relazione di filiazione tra Lévi-Strauss e Sperber appare essere particolarmente stretta. L'analisi che Sperber vorrebbe dare del simbolismo non come > ne Le forme elementari della vita religiosa ( I 9 I 2 ) . Durkheim mira a mostrare che, contrariamente all'affermazione di Comte che i concetti scientifici di forza sono illusori a causa delle loro origini «teologiche >>, queste idee sono « reali>> precisamente perché trovano origine nella re­ ligione (Durkheim I 9 I 2, tr. it. pp. 26 I - 262; cfr. Comte I 9 7 5 , pp. I 3 8I 5 I ) . Questo colloca l'argomentazione sulla forza al cuore dell'analisi durkheimiana della religione, che, notoriamente, ha cercato di fornire una fondazione obiettiva alle rappresentazioni religiose basandole sulla realtà dei gruppi sociali che si formano collettivamente tali rappresen­ tazioni. Con uno sguardo al dibattito, caldo a quel tempo (si veda per esempio Marett I9oo), sulla sequenza evolutiva delle diverse forme reli­ giose, egli rintraccia le origini delle rappresentazioni religiose nel concet-

MARTIN HO LBRAAD

to di una « sorta di potenza vaga, dispersa attraverso le cose » (Durkheim 19 1 2, tr. it. p. 2 5 6 ) . Fornendo concetti austronesiani come il mana e nord-americani come il wakan ( Sioux) e l'orenda ( lrochesi ) come esempi di questa (ivi, tr. it. p. 24 6), egli argo­ menta che tale nozione è anche al cuore della forma più elementare della vita religiosa, il totemismo aborigeno. Qui, tuttavia, la forza non è con­ cepita astrattamente, né le si attribuisce un nome generico, ma prende la forma di una >, il totem (ibid. ) . Ma >, scrive Durkheim: (ibid. ). Così, argomenta, il totemismo ( ivi, tr. it. p. 249 ) . L'argomento di Durkheim secondo i l quale, nonostante le loro con­ notazioni illusoriamente mistiche, questi concetti di forza si riferisco­ no ai poteri del tutto reali che i gruppi sociali esercitano sui membri è ben noto ( 1 9 1 2, tr. it. pp. 26 3 -28 8 ) . Qui potremmo attirare l'attenzione sulle implicazioni di quest'argomentazione per la questione delle > del mana. La preoccupazione centrale di Durkheim è rivolta a ciò che egli chiama > delle forze religiose (ivi, tr. it. p. 28 7), più chiaramente incarnata nel totemismo, ma anche caratteristica di concetti come il mana, nella misura in cui questi sono considerati . Gli assiomi analitici usuali sono certamente costruiti su tale approccio. Dal momento che le cose sacre non sono identiche alle forze che le emanano (il totemismo, si veda ivi, tr. it. pp. 24 5-246) o che le permeano (i concetti di mana, si veda ivi, tr. it. pp. 249- 2 5 3 ), e che il carattere sacro di queste forze è in ogni caso illusorio (ivi, tr. it. p. 267), le credenze opposte dei nativi devono essere spiegate come una qualche forma di proiezione (ivi, tr. it. p. 26 3 ) . Ma quello che è inusuale della spiegazione di Durkheim è che, basando queste proiezioni su un proces­ so di aggettivazione - quello delle - che considera come reale, egli sta effettivamente negando che tali rappre­ sentazioni presentino una qualsiasi antinomia. Infatti il contrasto tra un regno in cui le cose non sono imbevute di forze astratte 1 0 ed uno in cui 10

La generale tendenza a tradurre i termini-mana come «forza», «energia » , «potere» è efficace nella misura in cui tali concetti sono il punto in cui i moderni euro-americani (e, come vedremo, anche cubani ) arrivano più prossimi a obliterare la distinzione tra i concetti

IL POTERE DELLA P O LVERE

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lo sono non è, per Durkheim, un contrasto tra realtà ed illusione, quanto tra la realtà fisica e quella sociale . La sola illusione da parte del religioso è quella di scambiare delle origini sociali per origini sacre. Perciò, in ef­ fetti, la trasgressione del mana è assorbita nella teoria sociologica sotto forma del concetto centrale di quest'ultima, quello di società. Soltanto un polinesiano che parla di mana poteva trasgredire la distinzione tra il concetto e la cosa in modo più netto di quanto fece Durkheim stesso nel delimitare il campo particolare della sociologia1 1 : C'è una regione della natura i n cui la formula dell'idealismo s i applica qua­ si alla lettera: è il dominio sociale. Qui l'idea fa la realtà, molto più che altrove. (Durkheim 1 9 1 2, tr. it. p. 2 8 6 )

L'ultimo passo indietro nel dibattito, d a Durkheim a Mauss e Hu­ bert, è breve, e non soltanto per le ragioni più ovvie . Il modo canonico di collegare Le forme elementari alla Teoria generale della magia - il testo fondativo della teoria francese del mana - sarebbe il riferimento al sociologismo dell' «Année» . Infatti la demistificazione da parte di Durkheim del mana come forza sociale appoggia pesantemente sulla tesi di suo nipote nella Teoria generale: la tesi per cui, anche se l'i­ dea del mana è illusoria, > (Mauss e Hubert 1 9 02, tr. it. p. 1 4 2 ) . Ma questa prima versio­ ne di quello che oggi si chiamerebbe costruttivismo sociale è la parte meno interessante del saggio ( cfr. Lévi-Strauss 19 5 0, tr. it. p. XLviii ) . Molto più convincente, per l'argomentazione che sto svolgendo, è il ruolo che Mauss e Hubert assegnano al mana non come un fenomeno da spiegare (una tentazione alla quale soccombono soltanto alla fine del saggio), ma come uno strumento analitico a sé stante . Mauss e Hubert sono espliciti sul perché il mana debba occupare una posizione centrale nella loro teoria della magia : perché, secondo le parole di Lévi-Strauss, : dove i non- sciamani vedono soltanto animali nella foresta, per esempio, gli sciamani vedono spiriti (Vi­ veiros de Castro 2004 , p. 4; Pedersen 200 7 ) . Questo ha senso, dal momento che il > che gli spiriti presentano agli umani è che in essi c'è più di di quel che vede il non-sciamano : in quanto differenze intensive, essi sono sempre di più della somma delle loro apparenze antiche istantanee (ad esempio gli animali della foresta, che sono soltanto una forma del loro divenire ) . Il problema con gli orishas, d'altro canto, non è tanto il fatto che sono invisibili, quanto il fatto che non sono pienamente > . Dopo tutto, nella misura in cui gli orishas sono visibili, non occorrono poteri speciali per vederli. Le divinità-idoli in cui si manifestano cerimonialmente, le caratteristiche naturali di cui sono i patroni, i credenti i cui corpi sono posseduti da loro durante i rituali della santeria, così come la polvere aché che Orula segna durante la divinazione : tutte queste concrezioni sono lì per essere viste . Il problema è come invocare la presenza della divinità in queste forme concrete : come suscitare immanenza, avendo posto la trascendenza. Si potrebbe dire che se il compito dello sciamano è vedere ciò che è presente, quello del divinatore è di rendere presente quello che è già visto . Ne segue che mentre il concetto di Viveiros de Castro della differen­ za intensiva è, come già mostrato, presupposto dall'idea della motilità, una tale nozione è ciononostante insufficiente di per sé per rendere conto della verticalità peculiare delle trasformazioni antologiche delle divinità ifa: è il problema della trascendenza. È vero che un tale con­ cetto è per questo aspetto un miglioramento dell'idea di presente negli studi sulla Melanesia, idea che preclude del tutto la pos­ sibilità della distanza antologica ( si veda sopra) . Tuttavia, la distanza ammessa dalle relazioni > del virtuale non è del genere che ci permette di comprendere pienamente la trascendenza delle divinità. Una questione di forma antica piuttosto che una condizione antologi­ ca, la potenzialità degli spiriti virtuali è quella di trasformare sé stessi orizzontalmente in quello che non sono ( > ), mentre l'as­ se verticale dalla trascendenza fino all'immanenza implica trasforma­ zioni che sono anche costituite come cambiamenti tra gli ordini dell'al­ terità ( > , se vogliamo) .

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L'idea della motilità, a mio avviso, è in grado di catturare queste differenze di differenza . Infatti, distribuendo i divenire virtuali lungo un continuum di movimento, con la propria particolare capacità di « auto-scalarsi » , per così dire, nei termini delle relazioni formali di > e > (che, come a bbiamo visto, il concetto di direzione implica) , possiamo aggiungere in effetti una seconda di­ mensione al concetto stesso di > . Forse il modo più chiaro di esprimere questo è nei termini della distinzione strutturalista tra relazioni > e > . I continuum virtua­ li collegano le differenze paradigmaticamente . Quelli mobili le col­ legano sintagmaticamente, cioè in senso ordinale, in sequenze che forniscono loro una direzione nei termini di relazioni asimmetriche ( posizionali) di > e > . Così, non meno > delle loro controparti virtuali, le differenze mobili sono tuttavia più sofi­ sticate da un punto di vista logico, in quanto sono capaci di rendere due dimensioni di differenza - > paradigmatica e > ( o ) sintagmatico - al contempo. Entrambe l e dimensio­ ni servono al fine di articolare il problema della trascendenza, che, come abbiamo visto, è così centrale nella cosmologia ifa. Le trasfor­ mazioni delle divinità mobili permettono loro di entrare in relazione con gli umani. E il fatto che queste trasformazioni si auto-regolino come cambiamenti di status antologico mostra che le relazioni divi­ nità-umano non sono date come fatti compiuti cosmologici ( come relazioni virtuali che sono lì per coloro che possono vederle, come nello sciamanesimo orizzontale ) , ma piuttosto devono essere portate a termine evocando le divinità dalla relativa distanza antologica della trascendenza alla relativa prossimità dell'immanenza.

Conclusione: le cose mobili sono concetti mobili Così, la risposta alla domanda sul perché la polvere aché sia po­ tere è che, nell'ifa, la polvere fornisce la condizione alla quale le divi­ nità possono manifestarsi in modo immanente . Se i movimenti delle divinità verso l'immanenza sono una funzione della loro mobilità, allora la polvere aché è un ingrediente essenziale per ottenere tali movimenti, dal momento che permette loro di articolarsi come tali - articolarsi in modo letterale, come abbiamo visto, sulla superficie

IL POTERE DELLA P O LVERE

della tavoletta divinatoria, sotto forma di una serie di movimenti intensivi ( spostamenti interni) della polvere che rivelano le « figure » dell'oddu di Orula. Ora, c'è un'ovvia obiezione a questa linea di ragionamento, che desidero affrontare a guisa di conclusione, poiché riporta questa di­ scussione sull'aché esattamente al tema che le ha dato origine, ovvero la relazione tra i concetti e le cose . Una recriminazione automatica contro il concetto di potere mobile dell' aché è che esso appare alta­ mente « metaforico » . Forse le divinità sono davvero pensate al meglio come movimenti, dice quest'obiezione, e forse la polvere serve davvero a registrare questi movimenti a scopi divinatori. Ma ciò non è una prova del potere della polvere, poiché il fatto che le sue caratteristiche fisiche peculiari (i movimenti intensivi delle sue particelle ) ci hanno dato un indizio analitico sul ruolo della motilità nella cosmologia ifa non implica che le polveri aché contribuiscano realmente alla motilità delle divinità, né, se è per questo, al potere del babalawos di chiama­ re all'immanenza queste divinità mobili. Anzi, l'intera strategia della nostra pretesa di dimostrare ciò non è forse completamente circolare ? Non è solamente perché abbiamo già presunto - con un > ) . O è meglio limitare l'antologia all'uso aggettivale ( « antologico» ) anziché sostantivale ? O ancora, le antologie si comportano come so­ lidi rigidi e impenetrabili, solipsisticamente «ritirati» nella propria incommensurabilità, o invece esibiscono - come suggeriscono Jensen e Marita ( 20 1 2, p. 9) a proposito della versione giapponese della svolta antologica - una dovizia di « interazioni complesse attraverso le quali antologie diverse spesso interferiscono alacremente l'una con l'altra [ . . . ] le antologie non sono mai ermeticamente sigillate, ma fanno sempre parte di una molteplicità di scambi » . Trovo impossibi­ le dissentire da questa affermazione, ma aggiungerei che talvolta può essere pragmaticamente ( cioè politicamente) vitale descrivere le anto­ logie come insiemi non trattabili di presupposizioni, che contrastano aggressivamente altri insiemi, oppure che s' incrociano nel pre-spazio del caos senza avere alcuna interferenza reciproca . Come ha osservato Holbraad nello stesso spirito, nell' espressio­ ne antologica! turn, 1 4, cioè Altri come espressione di un mondo possibile. L'antropologia può far buon uso di questo consiglio: mantenere impliciti i valori di Altri non significa rendere omaggio a un sacro mistero che è racchiuso forse in essi. Significa piuttosto rifiutare di attualizzare le possibilità espresse dal pensiero indigeno, ossia decidere di mantenerle indefinitamente come possibili, senza liquidarle come fan­ tasie di altri né fantasticare noi stessi che possano acquisire realtà per noi. (Non potranno acquisirla, almeno non > . Non è soltan­ to una posizione anti-olistica, né un modesto rifiuto dell'onniscien­ za etnografica. Ne va di quella che vorrei chiamare la , un'espressione che di fatto mi è stata ispi­ rata dall'intelligente connessione fatta da Grae ber, nel brano citato, tra il paradosso del potere e il paradosso della creatività. L'espres­ sione > mi ha fatto pensare all'opera di Donald Winnicott (ad es. 1 9 6 4 } e al suo fondamentale concetto di spazio transizionale : quella zona di mezzo tra l'esperienza puramen­ te soggettiva-interna e puramente oggettiva-esterna del bambino, la zona dalla quale, secondo Winnicott, scaturisce tutto ciò che è arte, creatività e cultura . Questa zona contiene un paradosso, anzi si co­ struisce su di esso, aggiunge Winnicott, come in una specie di nastro di Mobius in cui non si riesce a distinguere l'interno dall'esterno, perché tale distinzione non c'è . Ma è un paradosso che noi dobbiamo rifìutarci di spiegare. In un certo senso, se comprendo bene Winni­ cott, quest'ultimo paradosso è ciò che ci rende umani, benché non ci sia motivo di insistere sulla sua specificità unicamente umana ( si ricordi il problema del > in Bateson ) I 9 . Sia come sia, Winnicott ( 19 5 3 ) è anche quello che ha coniato il meraviglioso concetto della > , la madre che non è sempre presente, non è praticamente perfetta in ogni senso, ha qual­ che lacuna rispetto ai desideri del bambino, e perciò finisce per alle­ vare - quasi inconsapevolmente - un bambino normale . Una madre I 9 [Cfr. tra l'altro il saggio A Theory of Play and Fantasy ( orig. 1 9 5 5 ) , rist. in Gregory Bateson, Steps to an Ecology of Alind. Collected Essays in Anthropology, Psychiatry, Evolution, and Epistemology, Ballantine Books, New York 1 9 72; tr. it. di G. Longa e G. Trautteur, Verso un 'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1 977 ( N. d. T. ) .]

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che sia « più che sufficientemente >> buona alleverebbe un bambino > . Mi piace pensare che una buona descrizione etnografica è una . Anzi, in un senso profondo, una delle conseguenze dell'OT potre bbe essere la riorganizzazione dell'idea di natura 1 8 in un'ac­ cezione non più dualistica né basata sulla separazione tra umano e non-umano, ma nondimeno in grado di « restituire gli esseri umani al mondo della vita organica >> ( lngold 2oooa, in questo volume, p . 5 5 ) . La biologia di von Uexkiill ( cfr. i n questo volume il saggio di Kohn) , l a teoria della percezione di Merleau-Ponty ( Holbraad e Willerslev 200 7 ) e la psicologia ecologica di Gibson (lngold 20oob) potrebbero fare da sfondo a questo tentativo. In ogni caso, nella prospettiva an­ tologica, ciò che va superato, almeno nella stessa misura, è l'idea di cultura intesa come sistema organizzato di visioni e interpretazioni che vertono sulla realtà. In altri termini, ormai per i teorici dell'OT non basta più il pluralismo culturale: è superato dal pluralismo anto­ logico . Nel senso più profondo, l'OT è un attacco contro la piattafor­ ma su cui si era stabilita la pax, vale a dire il modello che contempla uno stesso mondo oggettivo visto da prospettive soggettive diverse .

Svoltare da dove Sulla critica al modello Natura/Culture convergono decisamente tutti gli autori legati all'OT, i quali possono mostrare invece alcune distinzioni più o meno sottili e più o meno esplicite sulla pars con­ struens, su cui ci tratterremo in seguito . Ma in cosa consiste, più esattamente, la pars destruens ? Che cosa viene messo in discussione dall'OT e per quali motivi ? Tenterò qui una schematizzazione ad uso dei profani in fatto di antropologia, in particolare dei filosofi (né potrei fare diversamente ) . Consideriamo ad esempio l'elaborazione IB Si è costretti a servirsi ancora di questo termine, dato che le eventuali alternative (una delle quali potrebbe essere il dwelling di lngold 2ooob) non si sono ancora stabilizza­ te. Viveiros, dal canto suo, osserva: «La sola nozione autenticamente ontologica di natura che io conosca è quella di Wagner [ . . . ] in The Invention of Culture, proprio perché include la variazione delle nature in parallelo con quella delle culture>> ( Vìveiros de Castro 201 5 , tr. it. i n questo volume, p. 2 8 7 ) . Va almeno segnalato, inoltre, i l ritorno d i terminologie centrate sulla «materia >> , come i New Materialisms, su cui cfr. il saggio introduttivo di Valentina Gamberi a questo volume.

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teorica di un oggetto materiale, preso in quanto fonte d'informazione antropologica . Il tipo di antropologia da cui gli autori dell'OT vo­ gliono distaccarsi avrebbe potuto affrontare una tale fonte secondo uno schema di descrizione come il seguente : [S] L'oggetto-fonte F rappresenta x per un gruppo G. Questa relazione di rappresentazione si può mettere in luce attraverso un processo d'interpretazio­ ne, cioè di comprensione delle intenzioni o significati propri di G e sottostanti alla produzione di F. La materia di cui è fatto F è irrilevante, o marginale, ri­ spetto ai significati che gli vengono conferiti. La relazione di rappresentazione può essere ignota a G, oppure in certi casi i membri di G, se richiesti di fornire spiegazioni di tale rappresentazione, danno varie versioni, x i , X2 ecc . , che an­ dranno a loro volta interpretate per giungere a x.

Il capoverso precedente raccoglie - certo in forma piuttosto sommaria, forse caricaturale - buona parte dei tipi di enunciato che l'OT intende ritirare dalla circolazione . È facile riconoscere in esso gli assunti fondamentali del modello Natura/Culture : infatti qui la materia - assegnata senza esitazione alla sfera della natura - è una; i significati sono molteplici . Il presupposto, ancora una volta, è che il mondo naturale che abitiamo sia lo stesso per tutti, ma che innumerevoli siano i modi di vederlo e di attribuirgli significato. Ne segue che un oggetto materialmente identico ( una quercia, un serpente, un corpo celeste, un pezzo di legno con una certa forma, un suono ) può assumere significati completamente diversi da una cultura all'altra. C ' è una sola natura, ma una pluralità di culture . O meglio, una pluralità di rimandi che F può effettuare . Si noterà infatti che in [S] ho evitato di esplicitare il tipo di significato che F esprime . Questo perché lo spazio del significato può essere riempito in modo diverso da diversi programmi di ricerca antropologici, per lo più legati a tradizioni nazionali: ad esempio, ciò a cui la fonte ri­ manda può essere, come dice Viveiros de Castro, > ; mi limito a proporlo come restituzione almeno parziale dell'immagine che ne hanno gli autori dell' OT. Viveiros de Castro scrive, è l'immagine della conoscenza antropologica come risultato dell'applicazione di concetti estrinseci all'oggetto: sappiamo in partenza che cosa sono le relazioni sociali, o la cognizione, la parentela, la religione, la politica e così via, e andiamo a vedere come tali entità si realizzano in un certo contesto etnografico; come si realizzano, ovviamente, dietro le spalle degli interessati ( 2002, in questo volume, p. I 1 2 ).

Ora, cos'ha che non va questo modello della conoscenza antropo­ logica ? Niente, risponde ancora Viveiros, e tutto ( ivi, pp. I I I - I I 2 ) . Rileggendo la descrizione che ne ho dato, non è difficile accorgersi che in esso facciamo tutto noi. Nostra è l' esigenza di comprendere, cioè la costituzione di x come incognita; nostre sono le categorie gra­ zie alle quali l'alterità viene ridotta. Tutti sanno cos'è un amuleto o un'alleanza. O meglio, tutti noi lo sappiamo. Questa è la forza e in­ sieme la debolezza di questo modello . In esso, il soggetto conoscente non rompe mai con sé stesso : definisce un oggetto senza esserne de­ finito; e gli applica categorie che estrae dal proprio bagaglio teorico anziché dall'oggetto così com'è categorizzato dagli informatori, che dovrebbero essere l'obiettivo indiretto del suo atto di conoscenza. Il soggetto dunque designa un altro soggetto, un Altri, solo per revo­ carne l'alterità subito dopo, e questo rivela che fin dall'inizio muove­ va da una teoria dell'alterità, per quanto implicita: la soggettività che riconosce all 'altro è la propria. Qui siamo di fronte a un ulteriore, forte rischio di equivoci, che conviene affrontare prima che produca danni irreversibili. La reazio' 9 Sto deliberatamente evocando il concetto del re-enactment di Collingwood ( 1 9 4 6 ) , che ha la rara proprietà di funzionare ugualmente bene come metafora e come descrizione del processo di comprensione.

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ne dei teorici dell'OT, o almeno di alcuni tra i più rappresentativi, di fronte a questo modello è stata spesso quella di rifiutare il concetto di interpretazione : non dell'interpretazione in antropologia, ma a tutto campo ( o almeno questa è l' impressione che si ricava leggendo affermazioni che non delimitano il proprio ambito, forse perché gli autori non ne sentono l'esigenza) . Interpretare, secondo i curatori di Thinking Through Things, è «estendere categorie già familiari per illuminare circostanze meno familiari» ( Henare et al. 2007, in que­ sto volume, p. 1 9 8 ) 20, e dunque non può costituire un'attività > , come dice, contribuendo ad aumentare l'ambiguità, Holbraad ( 2007, in questo volume, passim ) . 2 3 In altre parole, i l circolo ermeneutico non è mai un o : «Di più, noi scorgiamo qual­ cosa dell'essere interpretato soltanto in un conflitto delle ermeneutiche rivali: una anto­ logia unificata è tanto inaccessibile per il nostro metodo quanto un'antologia separata; ciascuna ermeneutica scopre ogni volta l'aspetto dell'esistenza che la fonda come metodo» (Ricceur r 9 69, tr. i t. p. 3 3 ) . 24 Per un inquadramento cfr. Romer ( 2o r 6, p. 9 1 ), che parla persino di un «ontologi­ cal turn» nell'ermeneutica, in particolare con Heidegger e Gadamer.

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ai teorici dell'OT, ma d'altra parte l'ermeneutica non ha bisogno di di­ fensori d'ufficio. Piuttosto chiediamoci: è questo il punto ? Non rischia­ no anche i filosofi d'incorrere qui in un fraintendimento per la troppa familiarità delle categorie applicate ? Gli antropologi dell'OT non stan­ no parlando nel cielo della filosofia, ma stanno cercando di rendere più fruttuosa una pratica di conoscenza; ora, di pratiche i filosofi ne hanno indagate tante, ma non ne hanno mai costruita una. Malgrado le loro stesse dichiarazioni, i fautori dell'OT non mettono in questione il concetto di interpretazione, ma la pratica dell'analisi antropologica così come pensano sia istanziata nella loro disciplina. E lamentano che questa non solo si svolga « dietro le spalle degli interessati » , ma lasci l'oggetto analizzato ( quello che ho chiamato F) in un limbo antologico in cui ha l'ambiguo statuto di un attrezzo per l'analisi; e trovano che, in definitiva, l'impatto dell'etnografia sulla pratica stessa sia inferiore a quello che potrebbe essere. Il punto allora non è quale sia il miglior concetto di interpretazione, il più ricco e articolato, se quello filoso­ fico o quello degli antropologi in questione; il punto è che finché a interpretare sarà un soggetto unico e pre-designato il risultato sarà più povero e meno « denso » 25, e minori saranno le occasioni « euristiche » , d a intendere come occasioni d i cambiamento e crescita d i conoscenza. La richiesta che viene da questi antropologi è quella di una svolta pratica, non di una nuova teoria . L' equivoco nasce dal fatto che, con ogni evidenza, l'OT è un movimento teorico che reclama una svolta sul piano etnografico . Lo ammette candidamente ad esempio Morten Pedersen : la svolta antologica è sempre stata innanzitutto u n progetto teoricamente ri­ flessivo, il quale [tuttavia ] 26 si concentra sui modi in cui gli antropologi po­ trebbero impostare correttamente le proprie descrizioni etnografiche. La sua ambizione è di elaborare un nuovo metodo d'analisi a partire dal quale le do­ mande etnografiche classiche possano essere ripresentate in una nuova chiave. ( Pedersen 20 1 2 )

Questo è il paradosso costitutivo della svolta, messo bene in luce da Gamberi nel suo lavoro introduttivo in questo volume. Ma se si 2 5 V allusione è al concetto di descrizione densa in Geertz ( 1 9 7 3 ; cfr. la N. d. T. in De­ scola, in questo volume, p. 9 6, n. y ) , dunque a uno dei cardini dell'impostazione interpre­ tativa del discorso antropologico. 2 6 Vinterpolazione di un'avversativa è mia; Pedersen non sembra sentirne il bisogno.

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legge l'OT con una disposizione a cogliere quel che ha da insegnare, si vedrà che la sua richiesta non è una nuova teoria dell'umano, anzi non è una richiesta teoretica in generale . Non servirebbe a niente una nuova teoria messa in pratica dagli stessi soggetti, con le stesse pretese di conoscenza . Al contrario, la richiesta è di un décalage del soggetto conoscente: non procedere più in base al presupposto che ci sia una conoscenza da ottenere. Non che la filosofia con ciò risulti assolta, per­ ché il presupposto che ci sia una conoscenza da ottenere, un presup­ posto che può anche avere la forma dissimulata di un ottimismo della volontà, ha caratterizzato per intero il progetto filosofico della moder­ nità. Aspettarsi una conoscenza in fondo al cammino ( il positivismo), o agire come se questa conoscenza ci fosse (il pragmatismo almeno in alcune sue versioni, penso a Hans Vaihinger [ r 9 r r ] ) , non sono poi due atteggiamenti così diversi. E se cominciassimo ad agire come se questa conoscenza non ci fosse ? Non sarebbe questa la condizione migliore per cogliere una conoscenza nuova, se mai fosse conoscibile qualcosa di nuovo ? L'eredità kantiana ci ha lasciati con una conoscenza che è sempre conoscenza del possibile, non nel senso di possibile logico ma di possibile categoriale : se conosciamo qualcosa, è perché rientrava nelle nostre capacità di cognizione . Che noia . Questi strani antropolo­ gi ci chiedono di rompere con questa eredità. Anche se avesse ragione il kantismo, non si perderebbe niente a dar loro retta: le nostre capa­ cità sono ancora lì. Ma se avesse ragione l'OT, potremmo incontrare qualcosa di sorprendente . È questa specie di scommessa di Pascal che propongo di adottare, come filosofi, nel nostro atteggiamento verso la svolta antologica. In questo senso si tratta appunto, entro certi li­ miti, di svoltare, cioè prendere una strada e vedere cosa succede : « La domanda che poniamo è: che succede se si lascia questo stupore [di fronte all'alterità antologica] in uno stato di sospensione, resistendo all'impulso di darne una spiegazione che lo faccia sparire [explain it away] ? » ( Henare et al. 2007, in questo volume p. 1 9 2 ) . Non è difficile vedere che questo è solo u n altro modo d i porre la domanda fondamentale dell'antropologia . La sorpresa e l'anoma­ lia sono i suoi elementi costitutivi. Nietzsche afferma, all'aforisma 3 74 della Gaia scienza ( Nietzsche r 8 8 7 ) , che non possiamo guar­ dare oltre l'angolo per vedere quali altri tipi di intelletto potrebbero esistere . In generale, ogni indagine antropologica è un tentativo di fare proprio questo . Per l'antropologia interpretativa, questa era una

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sfida aperta, risolvibile solo, e mai completamente, con una parziale co-costruzione del sapere . L' operazione può riuscire o non riuscire, ma il tentativo va fatto. Per l'antropologia antologica, non si tratta più di costruire un sapere intorno ad altri « tipi d'intelletto » . Si tratta di ridefinire e ristrutturare il nostro campo intellettuale e concettuale in seguito all'incontro con altri spazi. Anche qui l'operazione può riuscire o non riuscire, ma, se riesce, il risultato non sarà un nostro sapere costruito in collaborazione con l'altro, ma la nostra ricollo­ cazione, per quanto parziale, nel mondo dell'altro . ( L'insidia, su cui torneremo, sta nel considerare il mondo dell'altro come già-dato, ma credo sia appunto un'insidia e non uno sbarramento . ) Prima d i esaminare alcuni possibili esiti delle richieste dell'OT - una specie di pars construens - resta ancora da sciogliere un nodo riguardo alla critica che l'OT rivolge al paradigma delle scienze comprendenti. Dovrebbe ora essere più chiaro perché né l'ermeneutica né il costruzio­ nismo sociale soddisfano più questa nuova corrente: perché quel tipo di pratica non si lascia più sorprendere, non crea differenze, asperità, anomalie, bensì le appiana, nella misura in cui continua ad applicare categorie ormai troppo collaudate. Ogni differenza viene ridefinita come una differenza di punti di vista, dunque in linea di principio componi­ bile, purché si trovi un punto di vista più elevato che li ricomprenda. L'OT chiede invece di riscrivere la storia delle scienze comprendenti a partire dall'incomprensione: dalle anomalie, dalle differenze e dalla loro irriducibilità a differenze culturali. Come dice Holbraad in modo un po' colorito, « una volta che si presenti la differenza in termini di cultura, non si può evitare la conclusione che la gente che si studia sia un po' sciocchina » (Holbraad, in Venkatesan et al. 20 1 0, p. 198; si trattava, a onor del vero, di un intervento a voce in un dibattito) . Il motore della discussione è l'alterità, anzi più esattamente la differenza: è questo ciò che il modello [S] trattava, se non come un residuo, almeno come una distanza da tentare idealmente di coprire. Se la differenza è solo cultu­ rale, insomma, vuol dire che non è sostanziale (meglio: antologica), e la distanza non può essere così impossibile da coprire. Questa rassicurazio­ ne è ciò che i nostri autori vogliono scardinare . In questa luce, si capisce anche meglio a cosa serve la rivendica­ zione di un «essenzialismo radicale » che questi autori avanzano (vedi infra ) . Anche qui, si tratta di una mossa pratica e non puramente teorica. Per fare un paragone, si potrebbe dire che, dal punto di vista

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tattico27, la svolta antologica è essenzialista nello stesso modo in cui lo è stato il pensiero della differenza nella storia del femminismo ( almeno secondo certe interpretazioni ), o lo è tuttora il discorso anti­ abilista del movimento disabile . È un uso calcolato di ciò che James chiamava vicious intellectualism, la comprensione di un oggetto uni­ camente in base alla sua definizione o ridefinizione2 8 • Si osservi il modo in cui Viveiros de Castro ( 200 2, in questo volume, passim) , sulla scorta dell' Autrui deleuziano, costruisce l a categoria dell'Altro. È la sua alterità che conta: solo la sua alterità . Dall'alterità si parte, non la si trova mediante analisi; e ciò che è altro non può essere che altro. Quando l' altro dice che il suo corpo è diverso dal « nostro» ( vedi il paragrafo I corpi degli indios in Viveiros de Castro 2002, in questo volume ), questa diversità - per il puro fatto che è affer­ mata dall'altro - soverchia qualunque comunanza biologica che la nostra scienza possa accertare. Se l'antologia nativa è nativa, allora ipso facto è altra, e le sovrapposizioni con altre antologie diventano secondarie: la differenza è la nuova profondità e la comunanza la nuova superficie. È interessante notare come la replica dell'antropo­ logia sociale « non antologica» sottolinei esplicitamente il «progetto comune » in cui sono coinvolti nativi e antropologi (cfr. l'intervento di Michael Carrithers in Venkatesan et al. 20 1 0 ) . Ogni impresa inter­ pretativa si basa sull'assunto che ci sia qualcosa in comune tra il co­ noscente e il conosciuto, in questo caso tra l'antropologo e il nativo; o meglio, se non c'è qualcosa in comune, bisogna presupporlo sotto forma di circolo ermeneutico, dunque correndo dichiaratamente il rischio della circolarità. La svolta antologica toglie questo rischio, ma lo fa mettendo in scena un punto di partenza assoluto: il nativo come puro altro .

2 7 li termine non è da intendersi come una diminutio. Affiora persino in un teore­ tico implacabile come Viveiros de Castro: > degli attori; c'è forse anche una ripre sa di soggettività da parte del ricercatore , con un atteggiamento inclusi­ vo, sì, ma di un'inclusività che appunto è distinta da quella (se c ' è ) d e l nativo . La coperta è corta, n o n s i p u ò contemporaneamente essere presso e nel mondo nativo . Si dirà che ciò è da lungo tempo noto quanto inevitabile, anzi è costitutivo dell'antropologia, ma non si può negare che l'OT avesse fatto sperare in un superamen­ to di questo atto costitutivo ( e sicuramente almeno Viveiros de Castro ci crede ) . I paradossi dell' antropologia classica non sono dunque risolti ( cfr. anche Argyrou 20 1 7 ) ; ma l'antropologia ha bisogno che siano costantemente rimessi all'ordine del giorno, e in questo senso l'OT ha ancora qualcosa da dire 5°.

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so Ringrazio Pia Campeggiani, Valentina Gamberi, Rossella Ghigi, Federico Lijoi, Gior­ gio Volpe per i suggerimenti che mi hanno dato durante la stesura di questo lavoro.

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