Spazio e convivenza. Come nasce la marginalità urbana 9788860815651

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Spazio e convivenza. Come nasce la marginalità urbana
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Franco Ferrarotti

SPAZIO E CONVIVENZA Come nasce la marginalità urbana

ARMANDO EDITORE

FERRAROTTI, Franco Spazio e convivenza. Come nasce la marginalità urbana ; Roma : Armando, © 2009 224 p. ; 22 cm. (Modernità e società) ISBN: 978-88-6081-565-1 1. Storia sociale di Roma 2. Marginalità urbana 3. Periferia e urbanizzazione CDD 300

Fotografie di F. Ferrarotti: “Borgate, borghetti e baracche anni ’60 a Roma”.

© 2009 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 02-06-024 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]

Sommario

Prefazione I. II. III. IV. V.

VI. VII. Vili. IX. X. XI. XII. XIII.

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La città monocentrica classica 13 La città industriale agglutinante 17 La città come modo di vita 22 Il caso di Roma 26 Roma: dati e riflessioni sull'antefatto storico 32 1. La situazione socio-economica 37 2. Roma capitale 40 3. La struttura urbanistica 45 4. Il peso dell'aristocrazia fondiaria nella gestione urbanistica di Roma capitale 49 5. L'Agro Romano come area di sotto-sviluppo. Opera di bonifica e lievitazione della rendita assoluta 59 6. Ritardi dell'edilizia pubblica 61 7. La "lettera ai romani " di Luigi Pianciani 64 8. La vittoria degli interessi privati 68 9. La crisi del 1887 76 L'esclusione sociale delle classi subalterne 80 Comparazioni interculturali 92 La distinzione fra momento analitico e intervento terapeutico 97 Le concezioni prevalenti del fenomeno urbano 99 La città come molteplicità dialettica di sistemi 101 Vecchie e nuove forme di sfruttamento 103 Romafobia 112 Le astuzie della speculazione edilizia 115

XIV. Note sul Libro bianco sulla casa, a cura del Min. LL.PP. - maggio 1986 XV. Sul concetto di "marginalità" XVI. La nuova povertà

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Appendici

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Appendice I: Rapporto Marzano e breve commento critico Appendice IL L'evoluzione del rapporto centro-periferia nella città di Roma Appendice HI: La partecipazione umana alla pianificazione in una società in sviluppo (1962)

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Prefazione

È dagli anni ’50 che mi occupo del “mondo periferico”, da turista senza fissa dimora e senza prenotazioni, con un’attenzione particolare alle borgate di Roma, da quando erano la «cintura rossa», nei primi anni del secondo dopoguerra, salvo poi a farsi, se non nera, piuttosto grigia, tanto da perdere la compattezza della cintura e frammentarsi invece in una serie di casette tirate su in una notte e in anonimi condomini, in cui il mio antico collaboratore e assistente, Marcello Lelli, scorgeva i termini, economici e politici, della “dialettica del baraccato” (se ne veda il libretto omonimo, pubblicato da Diego De Donato). Le ricerche romane e le loro risultanze hanno avuto fortuna, in Italia e all’estero, da Roma da capitale a periferia (1970) a Vite di baraccati (1973), La città come fenomeno di classe (1975), Vite di periferia (1981), Roma madre matrigna (1991), Periferia da problema a risorsa, con M.I. Macioti (2009), Il senso del luogo (2009). Storici accreditati, non sempre teneri con la sociologia (si veda, per tutti, Vittorio Vidotto, Roma contemporanea, 2001) considerano le ricerche romane, da me condotte, fonti utili per la ricostruzione della quotidianità e del contesto specifico. Architetti e urbanisti, come Scandurra e Ilardi, ne prendono buona nota. Il carattere contraddittorio di Roma, città eterna e nello stesso tempo capitale dell’effimero, ne esce, se non esaurientemente spiegato, almeno chiarito nei suoi termini propri e nella sua «estetica inintenzionale». Nella «Rivista di Sociologia», organo della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali, un tempo nota con il nome Pro Deo, escogitato per essa dal suo fondatore, padre Félix Morlion, 7

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Alceo Martini dedica a quelle ricerche un lungo, documentato saggio, cui riservo qui un cenno, ma che in altra occasione andrà, come si merita, approfondito (cfr. Alceo Martini, La marginalità sociale nella città di Roma, in «Rivista di Sociologia», n. 1-3, gennaio-dicembre 1976, pp. 269-294). Martini si rende conto del carattere inevitabilmente riduttivo di molte ricerche che spiegano la marginalità in termini puramente urbanistici. «La struttura urbanistica – scrive Martini – è considerata fattore principale della condizione di marginalità sociale. […] L’attribuzione di tale funzione è stata però ritenuta riduttiva, mentre è stato rilevato che altri dati sociologici, come la situazione di classe, il livello di reddito, l’accesso al potere, i livelli di istruzione, la cultura, debbano essere presi in considerazione […] È stata assunta come ipotesi la definizione di marginalità urbana desunta dalla elaborazione teorica del Ferrarotti, secondo cui è marginale quel gruppo sociale insediato in un’area geograficamente distante dal centro, costituito da individui con situazioni di lavoro precario o mal retribuito, con consumi limitati …» (pp. 269-270). Merito precipuo del saggio di Martini consiste, a mio giudizio, nel sottolineare, in primo luogo, la realtà contraddittoria del tessuto sociale romano e nel prendere in seria considerazione la scoperta degli anni ’60 e ’70, vale a dire che i ghetti di miseria non appaiono destinati a venire assorbiti dal benessere, che si allargherebbe a macchia d’olio fino a coinvolgere la periferia estrema della città; che, al contrario, essi sono funzionali ai quartieri di lusso. In secondo luogo, Martini nota che, almeno dagli anni ’60, i baraccati, con l’occupazione degli appartamenti sfitti e con le manifestazioni di lotta per la casa, hanno dimostrato di prendere coscienza della loro condizione effettiva nella relativa latitanza della sinistra storica. In terzo luogo, Martini comprende i limiti delle ricerche puramente descrittive e quindi incapaci di andare al di là della pur meritoria sociografia. C’è il dato; manca il vissuto. Ci sono le statistiche; non si avverte la presenza delle persone. Martini conclude che «le storie di vita confermano l’immagine di Roma così come si è venuta a configurare in questi ultimi anni, cioè una città dicotomica e contraddittoria, che presenta al suo 8

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interno situazioni di squilibri e di disuguaglianza e che contiene in sé i meccanismi in grado di riprodurre lo stato di marginalità sociale che, come abbiamo visto, colpisce un terzo della popolazione romana. La definizione di marginalità urbana desunta dalle elaborazioni teoriche del Ferrarotti, secondo cui è marginale quel gruppo sociale insediato in un’area geograficamente distante dal centro, costituito da individui con situazioni di lavoro precario o mal retribuito, con consumi limitati, oggettivamente impediti a partecipare alle attività politiche, sindacali e culturali ed esclusi conseguentemente dalle decisioni riguardanti la loro comunità e, più in generale, la vita nazionale, trova piena conferma dall’analisi delle storie di vita. […] Come è noto, Ferrarotti ha definito ‘semiproletari’ i baraccati, i quali dal 1969 in poi, con l’occupazione degli appartamenti sfitti e con le manifestazioni di lotta per la casa e per le riforme sociali, hanno incominciato a prendere coscienza del loro status. Giudicare concluso il processo di coscientizzazione dei baraccati significherebbe esprimere un giudizio poco fondato, anche in considerazione del fatto che alla raggiunta coscienza di classe avrebbero dovuto corrispondere adeguate attività politiche che, come abbiamo esaminato, sono notevolmente limitate. Si può tuttavia sostenere che il processo iniziato nel 1969 continua e segna punti al suo attivo». Questo libro riprende il discorso di quarant’anni fa, lo documenta, ne ricostruisce l’antefatto e cerca di rispondere all’inquietante domanda: come mai la sinistra ha perduto il contatto con la periferia romana? Per quali vie la solidale “cintura rossa” di ieri è scomparsa per lasciare il posto a una mentalità individualistica e piccolo-borghese, soprattutto paurosa di perdere il minimo benessere conquistato? È possibile, per le classi subalterne, sottrarsi allo “sfruttamento desiderante”, tipico degli aspiranti padroncini, pronti a sfruttare, come un tempo essi stessi erano sfruttati, i nuovi immigrati extra-comunitari? Nessun dubbio che su scala planetaria le periferie nascano da un processo di urbanizzazione spuria, vale a dire da una urbanizzazione senza industrializzazione. Sono diverse a seconda dei contesti storici specifici. Hanno in comune una caratteristica di 9

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base: lo stato di esclusione sociale e quindi di scarsa o nulla possibilità di partecipazione alla vita politica e culturale, in senso lato, della città. Il caso di Roma è atipico, non nel senso metaforico e para-poetico di cui hanno favoleggiato scrittori e cineasti, da Pier Paolo Pasolini a Nanni Moretti, interessati alla periferia come materia prima su cui dar prova della propria bravura stilistica. Novità: a Roma la periferia non è più periferica. Dei due milioni e ottocentomila abitanti a Roma, circa un terzo abita in periferia. Se si fermasse la periferia, si bloccherebbe tutta la città. La conseguenza logica è intuibile: bisogna portare il centro in periferia. Contrariamente a quanto pensano urbanisti e architetti di grido, già corresponsabili degli scempi di ieri, non si tratta solo di «rimodellare»; la contrapposizione centro-periferia non tiene più così come è in parte caduta la contraddizione città-campagna, a causa dell’“effetto di padronanza” che la città esercita, ormai in modo sempre più assorbente, sulla campagna o hinterland rurale. Si sta passando dalla città monocentrica all’aggregato metropolitano policentrico. Si veda in proposito Corrado Barberis (a cura di), La rivincita della campagna (2009). Il processo non è però, ovviamente, automatico. Lo spontaneismo del laissez-faire, per cui il solo volano dello sviluppo sarebbe il mercato, non è sufficiente. Si pone oggettivamente in una posizione di alleanza, se non di complicità, con la speculazione privata. Ad evitare che si riduca a mera espansione, va orientato dai piani regolatori che però, a Roma, fin da quello del 1873, ancora prima del piano risalente a Ernesto Nathan, sono sempre stati sconfitti e piegati agli interessi dominanti della rendita fondiaria mediante tre misure: a) la deroga; b) la variante; c) la sanatoria – autentica terapia di ogni abusivismo. Roma rischia di trovarsi decrepita prima di riuscire industrialmente matura. Chi la definisse un rumoroso, sporco e disordinato garage meriterebbe probabilmente le attenuanti. Conserva una certa validità la definizione a suo tempo data da Francesco Saverio Nitti: «la sola città medio-orientale priva di un quartiere europeo». Difficile resistere alla tentazione di sottoscriverla. 10

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Per i dati e le riflessioni sull’antefatto storico mi sono valso della collaborazione di assistenti e colleghi che per anni, con una dedizione mai mortificata dalle esigenze dell’obiettività scientifica, hanno condotto con me ricerche sullo straordinario pianeta, nello stesso tempo storico remoto e vivacemente contemporaneo, eterno e immediato, che è Roma, il luogo in cui ci è capitato di lavorare e di vivere. Ma non posso sottacere che, senza le cure profuse da Bianca Spadolini ben al di là delle sue responsabilità editoriali, difficilmente questo libro sarebbe stato pubblicato. Roma, 25 luglio 2009 Documento acquistato da () il 2023/04/23.

FRANCO FERRAROTTI

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I. La città monocentrica classica

Cos’è la città? Urbs? Oppidum? Polis? L’indimenticabile amico Ludovico Quaroni, negli ultimi tempi della sua vita, quando ci si vedeva dalle parti di Porta Pia, consumando un rapido pasto da Coriolano, mi domandava, ansioso: «Ma che cos’è una città? Non si può avere una città senza un’idea di città. Dov’è l’idea di questa città?». La domanda di Quaroni non riguardava solo Roma, non era cronaca. La domanda di Quaroni è oggi una domanda a portata planetaria. Il fenomeno urbano è in movimento. Gli schemi mentali sono in ritardo. Le categorie della sociologia urbana appaiono insufficienti. Il vissuto sembra più ricco del pensato. Occorre che questo ritardo non diventi così grave da impedire la comprensione piena del fenomeno. Storicamente, conosciamo due grandi tipi di città: a) la città classica monocentrica, la polis; b) la città industriale agglutinante. Esempio paradigmatico di città monocentrica è Atene. La città nasce e si sviluppa intorno all’agorà. La piazza è il suo cuore e insieme il suo centro nervoso. Si presenta come una forma perfetta, quasi un cristallo, in cui nulla si può cambiare senza chiamare in causa il tutto oppure come un componimento poetico in cui è sufficiente mutare o spostare un aggettivo per determinare la crisi del testo. Si pensi, per esempi ancora vivi e presenti nella realtà odierna, a Volterra, a Cortona o anche a Urbino e a Orte. All’estremo opposto troviamo la città industriale che cresce pezzo a pezzo, quartiere dopo quartiere, disordinatamente, incurante 13

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della forma, sotto l’impulso del principio tecnologico-produttivo. L’esempio, in questo caso, è Los Angeles, che si potrebbe anche definire, paradossalmente, come centonovanta sobborghi in cerca di una città. Ma si potrebbe citare anche Chicago, che dal lago Michigan si estende e protende verso la pianura dell’Indiana (a Gary sorgevano le acciaierie della US Steel Company) e dell’Illinois, fino a Springfield, la capitale dello Stato. Le nuove funzioni urbane non rientrano in questi due tipi. Stiamo passando dalla città monocentrica, in sé conchiusa, all’aggregato metropolitano policentrico. Metamorfosi straordinaria, spesso caotica, per molti aspetti imprevedibile. Le istituzioni consolidate segnano il passo. Lo sviluppo urbano procede, si fa espansione, a macchia d’olio o a pelle di leopardo. A ben guardare, neppure la Roma classica rientra nel tipo urbano monocentrico. In questo senso, non è solo lontana da Atene. Le è contraria e simmetrica. Roma nasce socialmente meticciata, etnicamente disomogenea, economicamente stratificata. Inventa lo jus soli come rifugio per i fuggitivi. Tito Livio a questo proposito non lascia dubbi. Il suo racconto è ripreso quasi letteralmente dagli storici accreditati. In sintesi, Roma nasce come la terra di salvezza, una sorta di scialuppa di salvataggio per criminali in fuga dalla giustizia, miserabili indebitati, nobili ridotti in povertà, frodatori e lestofanti, spergiuri, persino schiavi. Se dobbiamo credere a Polibio, il graeculus alla corte degli Scipioni, almeno fino ai tempi della tarda Repubblica, presso i Greci, politicamente sconfitti da Roma, anche se doveva restare vero che Graecia capta ferum victorem cepit / et artes intulit agresti Latio («La Grecia conquistata conquistò il rozzo vincitore e importò le arti nel Lazio rustico»), le origini dell’Urbe continuavano a essere circondate da dubbi e sospetti, a parte il fatto che è difficile accettare la leggenda della lupa senza pensare al lupanare. Machiavelli, d’altro canto, si vale dell’uccisione di Remo da parte del fratello gemello Romolo non solo per confermare la necessità che il potere non sia minato da equivoci e si fondi su un responsabile unico. Il ragionamento di Machiavelli è più sottile e inquietante nello stesso tempo: al fondo di ogni legittimità formale ci sarebbe, come insegna la storia 14

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della grande Roma, caput mundi, un atto di illegittimità sostanziale. Roma è un pianeta ibrido. Dopo molti anni che vi soggiorno, ammetto che mi riesce sempre più difficile scrivere di Roma. C’è indubbiamente una défaillance personale, di cui mi assumo tutta la responsabilità. Ma non è solo questo, non siamo sul terreno, accidentato e malfido, dell’idiosincrasia ipocondriaca. Accanto ai problemi psicologici individuali, si fanno avanti e premono quelli strutturali, oggettivi. A James Joyce, residente per qualche tempo a Roma quale modesto e probabilmente annoiatissimo impiegato di banca, Roma faceva venire in mente un tale che sbarca il lunario esibendo, dietro compenso, il cadavere della nonna. È piuttosto inutile scandalizzarsi. Invocare il Palatino serve a poco. Le rovine classiche hanno una loro grandiosità, che però sottolinea la mediocrità presente. Nell’anno di Roma capitale, nel 1970, ho pubblicato da Laterza un libro che si intitolava, con poco rispetto, Roma da capitale a periferia. Sono passati quasi quarant’anni, ma non ho cambiato granché parere. Non so se sceglierei, oggi, quel titolo, ma è ancora vero che il mio atteggiamento verso Roma è oscillante. Soffro di “romafobia” la mattina presto, quando vado al lavoro e nell’autobus mi vengono incontro le facce stazzonate della gente pigiata oltre l’umanamente sopportabile (e il fisicamente compatibile), ma cado vittima docile di uno stato di «romafilia» verso sera, quando l’opalino dei tramonti invernali disegna a ponente, dalle parti del Gianicolo, tenui portali del paradiso. Subito dopo, pieno di rimorsi, mi domando se si possa vivere di sola bellezza fisica, se la vita di una grande capitale moderna possa riassumersi tutta in una cifra estetica, magari soffusa di feste popolari o popolareggianti. Mi domando anche, con l’angoscia sottile di un piemontese romanizzato (ma è possibile?), se Roma, di questo passo, non rischierà di trovarsi decrepita prima di essere stata industrialmente matura. E poi, quale Roma? Si dice Roma e si pensa alla burocrazia, ai “misteri dei ministeri” e agli altri misteri di cui ha scritto, con brillante, amara ironia, Augusto Frassineti, degno erede, con una punta di crudeltà, di Vittorio Bersezio, il creatore di Monsù Travet. Ma a Roma – le 15

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mie ricerche lo testimoniano1 – ci sono almeno due burocrazie: quella pubblica, con poche eccezioni la burocrazia del cappuccino alle 11 e del “dottore è fuori stanza”, che attualmente la Legge Brunetta vorrebbe riformare, ma è piuttosto ingenuo, se non fatuo, illuderci di cambiare il costume a colpi di decreti-legge, e la burocrazia privata, quella delle industrie, nazionali e multinazionali, dinamica, funzionale, aggressiva, pronta a surrogare il braccio esecutivo di uno Stato che ha perso il passo con la realtà di oggi. Di quale Roma stiamo dunque parlando? La Roma burocratica, la Roma turistica, la Roma latino-americana, filippina, indiana, romena, albanese delle grandi anonime periferie? Perché questa è la verità. Può darsi che Roma non sia più una capitale che si va degradando in periferia, come scrivevo negli anni ’60. Sta però di fatto che il massacro urbanistico della città è sotto gli occhi di tutti. Chi voglia risparmiarsi un viaggio alle favelas di Rio può rivolgersi al Borghetto Latino o all’Idroscalo a Ostia Mare. La situazione va migliorando. Il Comune ha fatto molto per le fognature e l’elettricità. Ma non bisogna dimenticare che vi sono a Roma, oggi, settecentocinquantamila vani abusivi in cui vive più di un quarto della popolazione. Se con la metropolitana i borgatari possono raggiungere facilmente Piazza di Spagna, la città appare ancora circondata da un enorme slabbrato formicaio che si colloca fra il garage e il dormitorio. I «mali di Roma» sono ancora lontani dal porsi come ferite cicatrizzate. E tuttavia, milanesi e torinesi farebbero male a fregarsi le mani cedendo alla naturale soddisfazione di un confronto antagonistico per loro in apparenza vittorioso. C’è infatti una Roma operaia e artigiana con la quale sarà necessario fare i conti. Nel libro che avevo pubblicato nel 1985, Cinque scenari per il 2000, documentavo che non esisteva in Italia soltanto la “Silicon Valley” di Torino-Ivrea o l’area ad alta industrializzazione di Milano-Bergamo-Brescia, che c’era anche a Roma una sorta di Tiburtina Valley. 1

Si veda, oltre a Roma da capitale a periferia, 1970; Vite di baraccati, 1974; La città come fenomeno di classe, 1978; Vite di periferia, 1981; Roma madre matrigna (1991), Periferia da problema a risorsa (con M.I. Macioti – 2009); Il senso del luogo (2009).

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II. La città industriale agglutinante

In altra sede ho notato che le due categorie concettuali cui si fa generalmente ricorso per analizzare e per interpretare i fenomeni urbani, dopo la Rivoluzione industriale, iniziata in Inghilterra nel primo Settecento, sono le categorie della concentrazione spaziale e della divisione sociale del lavoro. Quest’ultima comporta la suddivisione dei compiti e la specializzazione delle mansioni. Per offrire un esempio al riguardo, tratto dalla teoria economica, si pensi agli effetti sociali della concentrazione spaziale. Grazie ad essa, viene ridotta grandemente, se non eliminata, la distanza fra gli individui e in generale fra gli operatori economici. Si verifica, in altre parole, l’abolizione di quella che Adam Smith chiamava la “frizione dello spazio”. È appena necessario osservare che, anche se è Adam Smith, nella Ricchezza delle nazioni, ad usare questa formula, il fenomeno è antico. È stato osservato che «Catone, il famoso statista romano e scrittore di agricoltura scientifica, comperò un frantoio per olive a Pompei per 384 sesterzi. Trasportarlo dalla città alla sua fattoria, una distanza di circa settanta miglia, gli costò circa 280 sesterzi! In tali circostanze non c’è da stupirsi che sovente l’industria migrasse verso il mercato invece di inviarci i suoi prodotti»1. Sta di fatto che, agli albori della città industriale, con la concentrazione spaziale degli individui che questa comporta, gli imprenditori si trovano ad avere a loro disposizione ragguardevoli risorse umane, da cui scegliere le persone più adatte a certi compiti produttivi. Nello stesso tempo 1

Cfr. V.G. Childe, Il progresso nel mondo antico, trad. it., Torino, Einaudi, 1949, p. 256.

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la concentrazione spaziale determina vaste aggregazioni umane che costituiscono di per sé un grande mercato per lo scambio e il consumo delle merci prodotte. La città non può dunque essere considerata una semplice «area costruita», come a lungo ritenuto da alcuni esponenti della «scuola ecologica» di Chicago. Questa scuola distingue quattro tipi di «comunità urbana», sottacendo la differenziazione, terminologica e concettuale insieme, che corre fra “comunità” e “società”, secondo le note teorizzazioni di Ferdinand Toennies2: a) la comunità a servizio primario, con il centro agricolo o minerario, e le comunità fondate sulla pesca o sul commercio del legname; b) la comunità che svolge la funzione secondaria nel processo distributivo delle merci; c) la città industriale in senso proprio, sede per la fabbricazione di merci, caratterizzata dalla preminenza dell’industria sulle altre attività; d) le comunità prive di una specifica base economica, che derivano invece i mezzi di sussistenza da altre parti del mondo3. Alla “scuola ecologica”, specialmente forte e diffusa fra gli analisti sociali del mondo anglosassone, non sono state risparmiate le osservazioni critiche4. Questi rilievi si possono essenzialmente riassumere nel rimprovero di avere trascurata, se non addirittura elisa, la dimensione storica del fenomeno urbano e inoltre di avere sottovalutato l’aspetto politico della questione, intendendo il termine “politico” in senso pieno, in quanto implicante l’incontro e lo scontro fra gli interessi economici prevalenti e le loro rappresentanze sul piano politico-amministrativo nelle zone urbane analizzate. Sulla scorta del magistrale saggio di Georg Simmel5, è stato osservato che, stando alla teoria ecologica e 2

Cfr. F. Toemies, Comunità e società, trad. it., Milano, Comunità, 1963.

3 Cfr. R.E. Park, E.W. Burgess, R.D. McKenzie, La città, Torino, Einaudi, 1999,

pp. 61-63. 4 Si veda in proposito F. Ferrarotti, Roma da capitale a periferia, Bari, Laterza, 1970; passim, ma specialmente l’Appendice. 5 Cfr. G. Simmel, «Die Grossstadt und das Geistesleben» in Th. Petermann (a cura di), Die Grossstadt, Dresden, 1903.

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alle posteriori teorizzazioni del funzionalismo, la concentrazione spaziale della popolazione tende a compromettere l’equilibrio fra popolazione e risorse, che era caratteristico della vita artigianale e contadina tradizionale, e acutizza pertanto la concorrenza interpersonale, per sfuggire o almeno per mitigare la quale gli individui sono spinti a specializzarsi. Georg Simmel approfondisce questa nozione, al di là delle apparenti conseguenze negative che essa comporta secondo il buon senso. Lungi dal costituire un fattore di alienazione e quindi un impoverimento della vita di relazione a carico degli individui, Simmel scopre nella specializzazione della vita urbana e nel tipo di individuo blasé, liberato dagli idiotismi della angusta vita rurale e dalle costrizioni del controllo sociale, caratteristiche della vita di villaggio, che rende di fatto possibile un arricchimento anche psichico, e non solo una spinta dinamica per lo sviluppo economico, ossia la possibilità, per l’individuo, di partecipazioni multiple, una visione della vita più articolata, più libera e spregiudicata di quella tradizionale. Secondo l’analisi di Simmel, la concentrazione spaziale degli individui nella città ne moltiplica i contatti, anche se si tratta di contatti spesso brevi e psicologicamente poco impegnativi, e rende quindi possibili le “lealtà sovrapposte”, o overlapping loyalties. Vi sono però anche altri aspetti da considerare. Nel mondo urbano, sul piano della divisione del lavoro, anche in senso puramente tecnico – e pertanto al di là dei termini in cui la questione si configura nelle opere classiche di Karl Marx in polemica con Pierre-Joseph Proudhon e nella Division du travail social (Paris, 1893) di Émile Durkheim – quanto più si differenzia e si specializza tanto più l’individuo tende a farsi insostituibile, e quindi a mettersi relativamente al riparo da una concorrenza senza quartiere, ossia dalla cut-throat competition che richiama la struggle for survival, o “lotta per la sopravvivenza”, di ascendenza darwiniana. Usando la città di Chicago nei primi decenni del secolo XX, che furono quelli del suo più rapido, travolgente sviluppo, come un “laboratorio sociale”, la Scuola di Chicago degli anni ’30 ha 19

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analizzato questo aspetto della vita urbana in modo approfondito, tanto da trarne gli elementi per un paradigma di significato generale, specialmente con riguardo alla città europea e nordamericana: «Senza la disposizione a trafficare, a barattare e a scambiare, ogni uomo avrebbe dovuto procurarsi ogni cosa necessaria e comoda della vita di cui avesse bisogno. Tutti avrebbero avuto gli stessi doveri da svolgere e lo stesso lavoro da compiere, e non avrebbe potuto esserci quella diversità di impieghi, che sola può dare origine a una forte diversità di talenti. Poiché è la capacità di scambiare che dà origine alla divisione del lavoro, l’ampiezza di questa divisione deve sempre essere limitata dall’ampiezza di quella capacità. […] Nelle condizioni della concorrenza personale il successo dipende dalla concentrazione su un singolo compito; questa concentrazione stimola la richiesta di metodi razionali, di strumenti tecnici e di eccezionali abilità. […] Tutto ciò serve, direttamente o indirettamente, a selezionare e nello stesso tempo ad accentuare le differenze individuali. […] Questo processo ha condotto a rompere e a modificare la vecchia organizzazione sociale ed economica della società, che era fondata sui legami familiare, sulle associazioni locali, sulla cultura, sulla casta e sulla posizione sociale, e a sostituire ad essa un’organizzazione sociale fondata sull’occupazione e sugli interessi professionali. Nella città ogni occupazione, anche quella del mendicante, tende ad assumere il carattere di una professione»6. La specializzazione, in parte almeno determinata dalla concentrazione spaziale, è dunque alla base dello sviluppo economico in quanto si tratta di un processo globale fondato da una spinta innovativa che spezza l’equilibrio delle forme economiche tradizionali, giustificate da quella che Max Weber definiva suggestivamente “l’autorità dell’eterno ieri”. Ed è probabilmente sulla base di queste prime osservazioni intorno al problema posto dalla città che si è potuto affermare che solo chi è nato in città può non capirne il fascino: questo fascino appare scontato – le vie affollate, le vetrine dei negozi, il ritmo, anche il più congestiona6

Cfr. R.E. Park, E.W. Burgess, R.D. McKenzie, La città, cit., pp. 15-16.

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to e caotico, del traffico – in una parola, il movimento, le novità, l’imprevisto; ci si lamenta del rumore cittadino, ed è giusto, ma per chi viene dalla solitudine, immota e spesso stolida, del villaggio, il rumore è vita, presenza umana, stimolo, messaggio e scambio7.

7 Cfr. F. Ferrarotti, «La città come molteplicità dialettica di sistemi» in F. Ferrarotti (a cura di), La città come fenomeno di classe, Milano, Franco Angeli, 1975, p. 17.

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III. La città come modo di vita

Oltre che un’“area costruita”, la città è dunque un modo di vita, una forma culturale nel senso di un insieme di simboli significativi, di memorie storiche, di edifici, pubblici e privati, di monumenti e chiese, di uffici e fabbriche; in altre parole, la città è un complesso di esperienze e di valori condivisi e convissuti. Per questa ragione, allo scopo di esplorare criticamente la realtà e il senso della città, è necessario, in via preliminare, non confondere il piano storico, rispetto a quello analitico-sistematico. Dal punto di vista storico, concentrando l’attenzione specialmente sulla tradizione culturale europea occidentale e nordamericana, abbiamo conosciuto la città-stato della Grecia classica e la città-capitale imperiale, la caput mundi, della romanità antica; la città murata, o fortezza, medioevale; la città-mercato rinascimentale; la città industriale come luogo privilegiato della concentrazione e della disponibilità delle risorse produttive, umane e materiali; infine, la città-regione come forma urbana decentrata. La confusione fra il piano analitico-concettuale astratto e quello dei contenuti storici specifici inficia gravemente la validità degli schemi storiografici che si legano alla concezione evoluzionistica ingenua, quale è quella di Herbert Spencer, alle impostazioni meccanicistiche del marxismo dogmatico de-dialettizzato e al concetto di razionalità come esito automatico del processo storico, caratteristico del neo-idealismo e, più in generale, del razionalismo metafisico-dialettico. Secondo questi schemi evolutivi, lo sviluppo della città passerebbe attraverso fasi o stadi nettamente separati gli uni dagli altri e tali che il precedente stadio 22

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sarebbe sempre, storicamente e operativamente, giustificato dal susseguente. In questo senso, il progresso viene necessariamente a porsi come una sorta di fatalità cronologica e la storia stessa perde il suo carattere drammatico per presentarsi come una forza dinamica, dotata di immanenti poteri di organizzazione, per così dire, garantita. La storia si “sacralizza”. L’impostazione evoluzionistica ingenua è probabilmente responsabile di contrasti interpretativi circa l’origine della città che, nel loro stesso porsi come problemi non solubili, mostrano il carattere ozioso dello schema esplicativo, specialmente quando facciano perno sul cosiddetto “fattore dominante”. È questo il caso della polemica che ha a lungo e duramente contrapposto la sociologa canadese Jane Jacobs e lo studioso americano Lewis Mumford. Rivoluzionando un modo di considerare la nascita delle città piuttosto comune e ormai tradizionalizzato, Jane Jacobs rilegge, ribaltandolo, il rapporto campagna-città: «L’attività che abitualmente consideriamo rurale è nata non nelle campagne ma nelle città. La teoria corrente in molte discipline – economia, storia, antropologia – sostiene che le città si fondano su una base economica rurale, ma, se le mie osservazioni e i miei ragionamenti sono corretti, è vero il contrario: le economie rurali, compresa l’attività agricola, si fondano direttamente sulle economie urbane e sul lavoro della città. […] La sequenza – villaggio agricolo, cittadina, città – spiega soltanto l’origine delle prime città. Ma l’assunto ha influenzato le idee riguardanti la natura delle città e il posto da esse occupato nello schema economico generale»1. Secondo Lewis Mumford, invece, l’origine delle città va ricercata altrove: da nomade l’uomo si fa stanziale non tanto, o non solo, per sviluppare i famosi principi di cooperazione e utilità in senso economico, quanto per poter attendere al culto dei morti. Sarebbero questi a obbligare i vivi a divenire sedentari: «Il rispetto per i defunti […] contribuì forse più che le necessità puramente 1

Cfr. J. Jacobs, L’economia delle città, trad. it. Milano, Garzanti, 1971, pp.

7-8.

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pratiche a fargli (all’uomo primitivo) cercare un luogo permanente di riunione e, in un secondo tempo, una sede stabile. Negli irrequieti vagabondaggi dell’uomo paleolitico, i morti furono i primi ad avere una dimora stabile»2. La ricerca di un singolo «fattore dominante», capace di spiegare esaurientemente l’origine della città, è plausibilmente destinata a restare infruttuosa. La fondazione della città comporta certamente la definizione di miti e archetipi che tornano, singolarmente univoci, nella narrazione delle origini – tipico in questo senso è il racconto, in Tito Livio, delle origini di Roma, della Urbs, o città per eccellenza, ripreso e commentato in più luoghi da Niccolò Machiavelli, il quale, come osservato più sopra, scorge nell’uccisione di Remo da parte di Romolo il necessario sacrificio che presiede alla fondazione della realtà urbana. Senza cadere nelle note aporie del funzionalismo acritico, il quale tende inconsapevolmente a bloccare lo sviluppo storico in nome di un astratto equilibrio, più produttiva sembra la ricerca storica che si interroghi sulle caratteristiche degli agglomerati urbani alla luce delle esigenze – etiche, politiche e operative – cui devono servire. Nessun dubbio che Roma ponga un problema peculiare legato alla sua lunga storia. Centro e periferia non sono più categorie utili, se meccanicisticamente intese. Tenuto conto che, oggi, un terzo circa della popolazione romana abita in periferia e che, se si fermasse la periferia, il centro storico e tutta la vita della città sarebbero bloccati, occorre persuadersi che la periferia non è più periferica e che bisogna portare il centro nella periferia, aprire gli occhi su una realtà urbana in movimento: siamo passati dalla città monocentrica alla regione metropolitana policentrica. Il centro storico cambia pelle. Mentre si difende il centro storico, lo si rinnova e lo si tira a lucido, di fatto lo si impoverisce umanamente intaccandone il tessuto sociale, scacciandone i vecchi abitanti, generalmente 2

Cfr. L. Mumford, La città nella storia, trad. it., Milano, Bompiani, 1967, vol. I, p. 17.

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artigiani poveri e piccoli dettaglianti, per far posto a nuovi ricchi o a turisti danarosi e per ridurre il “centro storico” a museo privo d’una vita che non si limiti alla retrospettiva nostalgia del vissuto.

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IV. Il caso di Roma

Il caso di Roma è in proposito illuminante. Qui la speculazione fondiaria ha dato prova di una flessibilità e di risorse straordinarie. Assicurandosi buoni appoggi politici ed esercitando un monopolio pressoché assoluto sulle riserve di capitale disponibile, aiutata da contatti diplomatici e di consanguineità con le grandi famiglie dell’aristocrazia tradizionale e con i rappresentanti accreditati del potere ecclesiastico, la speculazione fondiaria a Roma ha dapprima proceduto agli sventramenti massicci di alcuni rioni centrali caratteristici, da Borgo Pio al Campidoglio e al Colosseo. Qui la speculazione e gli interessi che la costituivano e che sono ancora oggi attivi si sono alleati con la retorica imperialistica del regime fascista. Interi quartieri sono stati letteralmente distrutti per sostituirvi ampie strade asfaltate, luci al neon e fronzoli pseudo monumentali di falsa “modernità” che hanno avuto come costo umano e sociale la deportazione degli abitanti verso la periferia. Con le “case minime”, costruite dal fascismo, nascono le borgate ufficiali, presto circondate da costruzioni abusive, che saranno i borghetti, le baracche e le formicolanti baraccopoli. Superata la fase degli sventramenti del centro realizzati in nome dell’igiene e della viabilità, in realtà tali da consacrare la “vittoria del tecnigrafo” e di una impoverita razionalità lineare che mortifica gli antichi monumenti isolandoli nel vuoto sociale causato dal deperimento forzato del tessuto urbano e commerciale, la speculazione ha investito le zone periferiche. Qui le operazioni immobiliari hanno avuto la loro sagra. Il verde agricolo è 26

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scomparso sotto le colate di cemento. I terreni privati intermedi sono stati valorizzati dagli investimenti pubblici che hanno costruito i mostruosi quartieri-dormitorio della periferia (si pensi al quartiere Tuscolano, per esempio). Il traffico è divenuto caotico; l’ambiente, inquinato; i servizi essenziali, insufficienti; la convivenza, impossibile; i litigi condominiali, feroci; la città, nel suo insieme, una prigione di asfalto e di cemento. Si delinea allora, nel ciclo della speculazione fondiaria, una nuova fase che sembra indicare una paradossale inversione di tendenza. Viene riscoperto il “centro storico”. Palazzi nobiliari e antiche dimore dai nomi illustri vengono risanati con le opportune precauzioni: se ne conserva la facciata, che viene anzi rimessa a nuovo secondo criteri di stucchevole fedeltà al passato, ma tutti gli interni saltano, si rifanno piani e soffitti, si calano scomparti e porte a vetri. Cacciati i vecchi abitanti, il palazzo antico debitamente rinnovato è pronto a trasformarsi in abitazione di lusso, sede di istituti di credito, grandi società, negozio esclusivo per una clientela scelta, quartier generale di attività terziarie e direzionali. Le tecniche seguite per dar corso all’espulsione sistematica dei vecchi abitanti si legano alle circostanze della situazione politica generale. Nel quadro del regime fascista non vi sono ovviamente problemi apprezzabili: basta, per esempio, caricare su camion gli abitanti di Borgo Pio e le loro povere suppellettili e scaricarli al Quarticciolo, nel centro della borgata Alessandrina. In regime democratico le cose si complicano, ma non troppo: è sufficiente acquistare un intero isolato, per esempio, e non procedere per qualche tempo ad alcun restauro, ad alcuna miglioria; quando comincerà a piovere loro in testa, i vecchi abitanti se ne andranno da soli. La differenza fra i due regimi non è sostanziale, almeno per questo aspetto. Coercizione diretta e manipolazione e oppressione indiretta si corrispondono. Ai fini della speculazione fondiaria e dei suoi obiettivi, gli effetti sono gli stessi. Ma non è soltanto il suolo, non sono solo i palazzi in mano ai tecnografi e agli speculatori. Non si tratta solo di problemi derivanti da un’insufficiente pianificazione urbanistica o da deficienze tecnico-operative. Qui la questione tocca il potere, acquista 27

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una innegabile dimensione politica. I piani non sono mancati. Quella che è mancata, clamorosamente, è stata ed è l’attuazione pratica dei piani. Caratteristica comune della urbanistica romana dal 1873 (data del primo piano regolatore) al 1967 (anno della ultima “variante generale” al piano del 1962) è stata l’inattuazione dei piani stessi dovuta alla speculazione fondiaria, strettamente connessa a quella edilizia. Attraverso il meccanismo della deroga (e qui si dovrebbe aprire tutto un discorso sulle collusioni parassitarie tra potere economico e potere politico) i piani si sono trasformati da elementi di programmazione e regolazione dello sviluppo urbano a strumento di speculazione e artata valorizzazione delle aree. Ogni altra innovazione, quale la creazione delle “isole pedonali” nel centro storico o la creazione di ipotetici ammodernamenti nell’ambito dei trasporti (metropolitana), è stata strumentalizzata in senso squisitamente capitalistico. La stessa politica di intervento sul centro storico, consistente essenzialmente in una serie di “sventramenti” attuati tra il 1873 (Corso Vittorio) e l’ultimo compiuto nel 1950 (Via della Conciliazione), risponde alle stesse leggi di speculazione che coprendosi di un manto modernizzante ed in realtà “ideologico” prosegue la sua azione capillare. Il centro impoverito urbanisticamente vede stravolto il suo tessuto sociale: masse di persone vengono così ricacciate nei ghetti periferici di miseria e di impossibile fruizione della città. L’apparente maschera di volontà di intervento socio-urbanistico sembra in effetti celare una programmata non-programmazione, volta giustificare la realtà del conflitto accettato perché esistente, ed esistente perché ritenuto “naturale”. Come abbiamo più sopra osservato il caso di Roma è emblematico: dal 1970 ad oggi le costanti dello sviluppo economico e urbanistico sono state la mancata pianificazione dovuta alla pressione economica esercitata dalla rendita fondiaria, dalla speculazione edilizia e dal parassitismo economico-politico. Scelta come capitale per il valore storico-simbolico accumulato nel tempo, Roma è divenuta una città specializzata nel settore terziario e burocratico, una città cioè non 28

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portante economicamente e stagnante dal punto di vista culturale. D’altra parte, appare evidente la funzionalità della situazione terziarizzata di Roma al sistema economico-politico attuale, che tende a tenere lontano dal centro del paese masse di lavoratori fortemente politicizzate quali sono quelle operaie. È d’altronde chiaro come burocratizzazione, terziarizzazione, sottoccupazione e lavoro marginale siano strettamente interconnessi. Roma è così divenuta l’habitat ideale per lo sviluppo del lavoro marginale (lavoro a domicilio, lavoro minorile) e precario e della sottoutilizzazione della forza-lavoro a tutti i livelli di istruzione, da quello inferiore a quello universitario, il che contribuisce a configurare situazioni di quella che in genere è definita sottoccupazione. Questa situazione precaria e frustrante contribuisce a emarginare economicamente, socialmente e – di riflesso – urbanisticamente gli strati sociali subalterni. A differenza dei piccoli centri della provincia, dove il fenomeno è pressoché inesistente, a Roma la stratificazione sociale si riflette sullo sviluppo urbano, provocando la zonizzazione della città su basi sociali. Al prevalere economico del settore terziario della pubblica amministrazione corrisponde socialmente la dilatazione della classe piccolo-borghese ed impiegatizia. A sua volta, l’insufficienza di una attività di tipo industriale determina come conseguenza la relativa scarsità di classe operaia e l’estendersi abnorme del sottoproletariato e di quello che ho definito come “proletariato intermittente”. Sottoproletariato e proletariato intermittente vivono ovviamente in condizioni di esclusione sociale e di marginalità. A questa situazione corrisponde urbanisticamente la relativa mancanza di quartieri operai, comparabili ad esempio con quelli esistenti nelle città del triangolo industriale, ed il proliferare di quartieri intermedi, di ghetti veri e propri, accanto e dirimpetto ai quali numerosi sono i quartieri extra-lusso. La città si configura così secondo due unità singolarmente contrapposte: da una parte la città (il centro storico e commerciale); dall’altra l’anticittà (borgate, borghetti, baracche e paradossalmente anche quartieri di lusso). Fra le due “città” vi è diversità strutturale (a livello di servizi, di tipologia edilizia, di classi so29

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ciali), ma una logica comune le unisce: l’interfunzionalità economica ed ideologica. La connotazione dei quartieri di lusso appare tuttavia ambigua. Apparentemente essi farebbero parte di diritto della “città”. In realtà essi si trasformano spesso in ghetti di lusso per l’estraneazione volontaria nella quale i loro abitanti si collocano. Se per i ghetti dei poveri si potrebbe parlare di emarginazione involontaria prodotta dall’alto, nel secondo caso la autosegregazione (il tenersi lontano dagli “altri”) è voluta. In entrambi i casi si ha un “dimezzamento” a livello strutturale e culturale che colpisce – secondo modalità diverse – poveri e ricchi. Sembra lecito affermare che la ghettizzazione, esistente anche al livello di classi e zone intermedie, investe così tutto il vivere sociale della città. Il fenomeno, di per sé originato da una matrice economico-politica, può risolversi attraverso la mediazione urbanistica ed edilizia in determinazioni socio-psicologiche impreviste. In altre parole, possono divenire oggetto dell’alienazione urbana anche quelle classi egemoni autrici o comunque responsabili della specializzazione della città, della sua divisione in zone, dell’emarginazione delle classi subalterne. Più difficili da individuare e definire, i cosiddetti quartieri intermedi si frappongono alla polarità ghetti dei poveri-ghetti dei ricchi. Si dovrebbe innanzitutto individuare la collocazione topografica delle zone intermedie, comprese in linea di massima tra i confini del centro storico, da una parte, e la periferia suburbana, dall’altra. Inoltre, si potrebbe individuare una tipologia dei quartieri intermedi costruita in base a parametri “statici” (demografici, edilizi) e “dinamici” (sociali e urbanistici) che li caratterizzino rispetto alla società globalmente intesa come sistema. Dopo aver determinato le caratteristiche demografiche, edilizie, sociali, urbanistiche delle zone intermedie, è necessario individuare la funzione che esse esercitano nell’ambito della dialettica sociale complessiva, con particolare riguardo al problema dell’emarginazione e della marginalità sociale. In che misura questa è presente nei quartieri intermedi? Da che cosa è generata? Quali sono i valori ed il gruppo di riferimento degli abitanti di queste zone? Quali le loro aspettative, la loro “ideologia”? I quartieri romani intermedi si 30

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configurano come quartieri dormitorio, dotati solo dei servizi essenziali alle prime necessità (negozi alimentari, scuole primarie, chiesa); sono quartieri in alcuni casi all’apparenza pretenziosi, caratterizzati da costi elevati di acquisto, abitati dal cosiddetto “ceto medio” che, spesso grazie alla vendita di un immobile precedentemente posseduto, cerca con l’acquisto della casa di mettere radici nella città. Il centro, abbiamo più sopra rilevato, è stato “riscoperto”. La parola d’ordine è “salvare il centro”: come? Perché? Si tratta spesso, anche per questo problema, di interventi culturologici, di denuncia parziale e insufficiente, di grave miopia sociologica e politica. Non si è compreso che ci stiamo muovendo verso un aggregato metropolitano policentrico. Se il centro storico non ha costituito un fattore determinante di condizionamento dello sviluppo urbanistico della città, occorre invece riconoscere il ruolo significativo da esso esercitato nell’interscambio di popolazione all’interno di Roma. Si è verificato infatti (ma era un processo già iniziato forzatamente sotto il fascismo) un sempre più marcato processo di allontanamento e segregazione, esclusione sociale e culturale, delle classi subalterne dal centro alla periferia. Quest’ultima si configura pertanto, oltre che come filtro dall’esterno all’interno della città, anche quale sacca di emarginazione per coloro che vengono allontanati dal centro. L’emarginazione sociale nell’ambito urbano passa quindi a diversi livelli e la conseguente condizione di marginalità viene vissuta in modo diverso in funzione di norme, valori e modelli di comportamento di cui le classi sociali emarginate – più o meno subalterne – sono latrici. È dunque necessario riconsiderare il rapporto centro-periferia. In particolare, a medio termine, bisognerà portare il centro in periferia. Per comprendere il moto evolutivo della realtà urbana romana, in senso longitudinale, sarebbe necessario analizzare i vari piani regolatori, a partire da quello di Ernesto Nathan fino ai giorni nostri. Inutile farsi illusioni. La storia dei piani regolatori di Roma, dai primi anni del 1900 ai giorni nostri, è una storia di parziali fallimenti, dovuti essenzialmente a tre cause: a) le deroghe; b) le varianti; c) l’abusivismo edilizio, condonato in base alle varie sanatorie. 31

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V. Roma: dati e riflessioni sull’antefatto storico*

È interessante seguire la dinamica demografica di Roma per verificarne uno stato di stasi pressoché costante al paragone di altre città, tenendo conto della complessità della situazione storica e seguendo la traccia del libro di Lodovico Quaroni1. Nel periodo che va dal 1200 al 1527, vale a dire da Innocenzo III a Clemente VII, si possono trovare fonti che riportano il numero degli abitanti a cifre di migliaia senza dare, però, precise notizie. La città si trovava in una condizione di isolamento quasi totale. L’espansione economica era praticamente bloccata: per la posizione geografica rispetto alla rete di traffici commerciali sempre più a Nord2; per la situazione delle sue zone limitrofe, quasi interamente paludose e malariche. Nessun dubbio che il trasferimento della sede papale ad Avignone nel 1307 abbia contribuito a ridurre il numero degli abitanti. Al ritorno del papa la popolazione non superava i 17.000 abitanti. Il primo censimento attendibile risale al XVI sec. sotto il pontificato di Leone X e riporta il numero approssimativo di 40.000 “anime” (1513), divenute 60.000 nel 1517; 50.000 nel 1520; 60.000 nel 1523 sotto Clemente VII. Nel 1527, dopo il saccheggio di Carlo V, la popolazione diminuirà del 50% per ridursi a 33.000 anime. Negli 80 anni successivi ebbe un accrescimento, *

Fonte: Atti del Consiglio del Comune di Roma (1870-1908). Mi piace qui ricordare l’apporto prezioso dei miei assistenti Maria Michetti e Corrado Antiochia, cui più tardi si unirono Marcello Lelli e Simonetta Piccone Stella. Con Antiochia e con me all’epoca ha spesso collaborato Achille Pacitti che compare nella terzultima fotografia riprodotta più avanti. 1 2

L. Quaroni, Immagini di Roma, Bari, Laterza, 1969. H. Pirenne, Storia d’Europa, Firenze, Sansoni, 1984.

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arrivando a toccare 109.729 abitanti nel 1600, lo straordinario secolo del mecenatismo delle famiglie pontificie e dell’urbanistica romana del Borromini. Ancora una volta Roma emerge centro artistico d’Europa. Gli abitanti passano dai 149.447 del 1700 ai 157.882 del 1750, ai 166.280 del 1797. Con la Rivoluzione francese e le conquiste napoleoniche si nota una tendenza negativa mentre appaiono in ascesa altre città italiane (Torino, Milano, Genova) e principalmente straniere per le quali la trasformazione economica dovuta al nuovo, vigoroso impulso industriale si riflette sull’espansione della struttura urbana. Ecco i dati degli ultimi quattro censimenti effettuati sotto il governo pontificio:

1831

150.000 ab.

1850

170.000 ab.

1863

200.000 ab.

1869

220.532 ab.

È interessante il confronto con i valori, al 1860, di tre grandi città:

New York più di 1.000.000 ab. Parigi più di 2.000.000 ab. Londra più di 3.000.000 ab.

Lo sviluppo ulteriore di Roma, che raddoppia la popolazione in trent’anni, si lega alla costituzione del Regno d’Italia (1861) e al nuovo ruolo di capitale (1870), non più di uno Stato a carattere religioso, ma di uno Stato a carattere nazionale di tipo moderno. Il primo censimento di Roma italiana, effettuato il 31 dicembre 1871 ad un anno di distanza da Porta Pia, riporta il dato di 33

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244.484 ab., con netta prevalenza maschile (139.267), data la presenza di ecclesiastici, impiegati, funzionari, militari. Si riportano di seguito i dati relativi alla dinamica demografica negli anni 1871-1911:

Anni

Censimento

Numero di abitanti

Indici di incremento

1871

I

213.633

100

1881

II

275.637

129

1901

III

424.930

198,9

1911

IV

522.123

244,4

L’incremento demografico non avviene secondo un ritmo costante. Incremento medio annuo della popolazione residente:

Periodo

Incremento medio annuo per 1.000

1871-1881

25,8

1881-1891

34,3

1891-1901

9,5

1901-1911

20,7

Il massimo incremento si verifica durante il decennio 18811891 in corrispondenza ad una forte espansione della città; nel decennio successivo l’indice risulta nettamente più basso in corrispondenza alla crisi edilizia, mentre in seguito si manterrà pressoché costante (salvo una punta nel periodo 1921-’31, in concomitanza con i grandi lavori edilizi intrapresi durante il periodo fascista). Il confronto tra i dati di incremento medio annuo mostra che per Roma l’aumento della popolazione segue un ritmo molto più 34

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sostenuto rispetto alle altre città italiane ed è particolarmente interessante notare per la città di Firenze la situazione di calo e poi di stagnazione verificatasi dopo il trasferimento della capitale. Eccedenza del movimento naturale e migratorio per un quinquennio:

Quinquennio

Eccedenza nati vivi

Eccedenza immigrati

Complesso

1872-1876

9.182

26.059

16.877

1877-1881

4.948

37.784

32.836

1882-1886

4.191

47.405

51.596

1887-1891

10.284

54.508

64.792

1892-1896

11.157

28.263

39.420

1897-1901

12.214

32.345

44.559

1902-1906

10.823

42.329

53.152

1907-1911

14.548

44.584

59.132

Proporzione dei censiti nei censimenti 1881-1901-1911, secondo il luogo di nascita: Luogo di nascita

1881

1901

1911

Comune di Roma

44,97

46,38

46,60

Altri comuni provincia di Roma

13,62

12,94

14,42

Italia Settentrionale

9,8

7,97

7,64

Italia Centrale

25,53

23,30

21,04

Italia Meridionale e isole

6,85

6,63

8,33

Estero

2,21

2,58

1,97

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Da questi dati si possono ricavare alcune considerazioni: 1) l’aumento della popolazione romana è determinato in misura notevole, nel primo decennio, dall’afflusso di immigrati e non dall’accrescimento naturale, che anzi fa registrare un valore negativo, per cui, nel 1881, cioè in soli 10 anni, il numero dei romani nati a Roma è inferiore alla metà della popolazione, mentre nel ventennio successivo la tendenza si inverte in concomitanza con il forte fenomeno dell’urbanesimo, comportando un imponente sviluppo edilizio, con un movimento in parte artificioso, che infatti si sgonfiò con la crisi edilizia nel ventennio 1883-1903, durante il quale l’accrescimento segnò una battuta di arresto per poi riprendere fino al periodo bellico (1913). 2) La percentuale maggiore di nuovi venuti è costituita da funzionari e impiegati, una parte minore da mano d’opera non qualificata di origine rurale attratta dai lavori edilizi intrapresi per soddisfare le principali esigenze della capitale, ed infine da una ristretta aliquota di professionisti e benestanti che hanno interesse a vivere nella capitale. 3) Il numero di nuovi venuti di provenienza settentrionale è alquanto ridotto rispetto a quelli provenienti dall’Italia centrale anche se nei primi anni del decennio la percentuale era più bilanciata. Il flusso maggiore dei nuovi abitanti di Roma proviene dai comuni del Lazio, delle Marche, dell’Umbria, che, già appartenenti allo Stato pontificio, continuano a mantenere legami stretti con la Capitale, e dagli Abruzzi; tra gli emigranti del Sud e delle isole una forte percentuale viene dalla Sardegna. Dato particolarmente interessante, tenendo conto del modesto numero degli abitanti dell’isola, per la quale Roma, con gli importanti lavori edilizi e successivamente di bonifica, costituì il primo naturale sbocco migratorio.

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1. La situazione socio-economica «Roma, per tanti aspetti famosa non si può mettere nel novero delle città commerciali e industriali»3. «Tutta la vita municipale e la parte non artistica di Roma sono indietro di trent’anni rispetto alle città più progredite del settentrione e del centro»4, “città morta”, questi sono alcuni dei tanti giudizi negativi che storici moderni, viaggiatori del tempo, artisti, economisti hanno formulato nei riguardi della situazione socio-economica di Roma nell’ultimo periodo del potere temporale del papa. Tale situazione, aggravatasi nel decennio 1860-’70 anche per un certo qual fatalismo sulla conclusione della “questione romana”, risulta cronica per la struttura dello Stato del tutto caratteristica. Il dato principale per definire l’economia dello Stato pontificio e di Roma in particolare è quello della produzione economica che, proporzionalmente al numero degli abitanti, risulta assai inferiore rispetto alle città italiane e straniere. L’industria di tipo manifatturiero è costituita da imprese antiche con un carattere di semplice trasformazione dei prodotti agricoli e di immediata necessità o da complessi produttivi a carattere di beneficenza (Ospizi di Termini e di San Michele a Ripa, Conservatori dei poveri)5 che non sono assolutamente al passo con l’industria moderna straniera, soprattutto dal punto di vista “imprenditoriale”. Il numero delle manifatture (per lo più botteghe artigiane) ha avuto una lenta erosione dall’inizio del secolo (518 nel 1803, 450 nel 1826, 394 nel 1840, 330 nel 1857 cui corrisponde un numero di circa 4.000 addetti). Principali industrie sono le tessili (187 nel 1840), naturale sbocco della produzione laniera nell’agro ro3 V. Garrigos, Industria e commercio in Monografia della città di Roma, Vol. II, Roma, 1881. 4 A. Caracciolo, Roma. Dal Risorgimento alla crisi dello stato liberale, Roma, Edizioni Rinascita, 1956. 5 Tra le varie attività a carattere artigianale che venivano svolte nell’Ospizio di San Michele a Ripa, particolarmente importante era quella dell’arazzeria che ebbe il suo massimo sviluppo artistico nella seconda metà del sec. XVIII. A quel periodo risalgono i quattro grandi arazzi conservati nel palazzo del Conservatori al Campidoglio.

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mano, protette da dazi ed incoraggiate da premi con un notevole costo economico da parte dell’erario. La produzione tessile subisce una continua diminuzione con conseguente chiusura degli opifici che dai Sessanta ai Settanta del 1800, si riducono ai 18 nel 1870 comportando un parallelo fenomeno per l’occupazione che vede passare gli addetti dalle 12.000 unità del 1800 alle 1200 del 1870. A questo fenomeno di crisi nel settore di trasformazione è collegabile la diminuzione della produzione laniera nonostante il continuo aumento del terreno destinato a pascolo con detrimento delle altre colture. Le cause di questo panorama negativo sono da ricercarsi nella cessazione delle tradizionali correnti di esportazione verso il napoletano e il Veneto, nella concorrenza che si avvantaggia con l’introduzione di macchinari di tipo moderno di contro a una produzione basata ancora sul lavoro manuale a domicilio (basti pensare che gli stessi produttori reclamano quando si tenta di introdurre nuove macchine in qualche stabilimento), nel contrabbando che raggiunge anche il valore di 1/5 della produzione. Le industrie meccaniche e siderurgiche sono del tutto inesistenti, per cui i pochi, nuovi macchinari (quali quelli agricoli e ferroviari) sono tutti d’importazione. Le uniche attività industriali che mostrano segni di sviluppo evidenti sono quella tipografica e quella dei laterizi, la prima per una maggiore necessità dell’amministrazione burocratica e per l’aumento dell’attività editoriale, la seconda per i lavori intrapresi dopo il 1860 da Monsignor de Mérode. L’agricoltura non va al di là di una normale attività, senza movimento di capitali e senza migliorie tecniche, con una produttività media inferiore a quella registrata nell’Italia Settentrionale. La situazione dell’agricoltura è determinata da fattori naturali, quali la presenza di notevoli aree collinose, montuose e paludose, e da fattori legati alla proprietà vincolata della mano-morta, dai fidocommessi, dal latifondo, il cui progressivo estendersi porta all’abbandono della terra da parte dei piccoli contadini ed al parallelo aumento degli abitanti nella città (in particolare Roma), formando così una massa di disoccupati, di servi, di assistiti dalle opere di beneficenza, quelli che a Roma venivano chiamati “burini”. 38

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La proprietà agricola è principalmente in mano agli ecclesiastici ed è in generale esente da tasse (nelle zone di Roma al 1870 sono di proprietà di ecclesiastici 5.000 ettari per una percentuale del 23%, di Opere Pie e Congregazioni per una percentuale del 40%), alla nobiltà pontificia (Boncompagni, Aldobrandini, Borghese, Antonelli, Ferraioli, Torlonia); mentre alla borghesia appartenevano aree agricole per una percentuale del 15%, in mano soprattutto ai grandi mercanti di campagna che tanta parte ebbero nella vita politica ed edilizia romana prima e dopo il 1870. Il clero conta 50.000 persone con un nucleo ricchissimo e una massa assai povera, al primo appartiene una forte percentuale degli edifici di Roma (40%), mentre un’altra notevole aliquota è di proprietà di Opere Pie e Congregazioni. È da ricordare il peso che hanno nell’economia romana le varie attività religiose attorno alle quali vivono schiere di avvocati, inservienti, artisti in un diffuso parassitismo6 e le diverse forme e istituzioni di beneficenza che interessavano ben 70.000 persone e costituivano un importante capitolo di spesa per le casse dello Stato e del Senato7. Le attività di maggior interesse per la cittadinanza sono quelle del pubblico impiego, dell’artigianato e del turismo, legati questi ultimi alla storia artistica e religiosa, dei servizi urbani, attività tutte che ancor oggi costituiscono una voce importante nell’economia della città. Sull’apporto valutario dei pellegrini e dei turisti vive una parte della popolazione dedita all’industria alberghiera e una ancora maggiore all’artigianato pregiato; nel 1870 si contavano a Roma 1500 orefici, 18 officine di mosaico, numerosi negozi di arte e di antichità. Oltre a queste fonti di reddito legate in misura maggiore o minore al lavoro c’è da ricordare quelle legate alle elemosine, alle contribuzioni, alle donazioni che giungevano da tutto il mondo cattolico, ultimo ricordo delle decime dei benefici, dei contributi 6 7

N. Nisco, Roma prima e dopo il 1870, Roma, Barbera, 1878. Municipio di Roma, Atti Consigliari.

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che erano stati forse la principale risorsa dello Stato Pontificio durante i secoli. Il bilancio dello Stato e di Roma in particolare sono in continua perdita e al disavanzo si fa fronte con prestiti di banche spesso straniere e istituti privati e il capitale che proviene dalle varie attività è immediatamente speso, non investito, non circola e non si riproduce per cui appare giusta la definizione del Caracciolo che «Roma resta una città che molto consuma e poco produce»8. Lo sviluppo delle ferrovie dovuto all’afflusso di capitali stranieri, attratti dall’arretratezza generale dello Stato pontificio, porta una nuova possibilità di potere per la nobiltà e per la borghesia legata alla curia, mentre i lavori edilizi spingono ad una corsa agli appalti, alla fornitura di materiali e di manodopera, facendo sì che la grossa borghesia sia attirata sempre più nell’orbita di attività speculative (servizi, urbanistica) trascurando settori più propriamente produttivi. Questa situazione conformatasi in termini precisi nel decennio 1860-’70, andrà via via consolidandosi negli anni successivi, malgrado il cambiamento di regime, e ci sembra uno dei presupposti per la situazione socio-economica e urbanistica della Roma di oggi.

2. Roma capitale Dopo il 1870 Roma sembrava sul punto di un vero decollo economico per la frenesia con la quale si svolgevano operazioni di vendita di terreni, di progetti per interi quartieri, di domande di concessioni, di permessi per nuove attività produttive. Questa accelerazione che tanto stupì i contemporanei facendoli scrivere elogi sperticati per il «nuovo progresso», risultò in pratica solo apparente, malgrado l’espansione demografica e urbanistica. La realtà è che in tutto questo movimento economico l’unica merce scambiata è il terreno «fabbricabile», non i prodotti in8 A. Caracciolo, Continuità della struttura economica di Roma – 1°: dal 1830 al 1870, in «Nuova rivista storica», a. XXXVIII, genn.-sett. 1954; fasc. 1°, Roma, Dante Alighieri, 1954.

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dustriali, non la creazione di nuovi opifici; quindi non un vero progresso ma soltanto un continuare, a livelli estremi, la tendenza delineatasi nell’ultimo decennio di vita dello Stato pontificio e che con maggiore o minore intensità si è mantenuta fino ad oggi. La situazione di crisi, che Alberto Caracciolo definisce “forse insanabile perché insita nel sistema”9, fu accentuata dal deperimento delle industrie esistenti, dalla mancanza di nuove imprese, da un calo della produzione tanto che la speranza della quasi totalità degli scrittori “romanisti” e di taluni politici riposta in «un avvenire industriale per la Città Eterna»10, risultò vana perché con l’unificazione vennero completamente alla luce i mali endemici dell’industria romana «non appena entrò dalla breccia di Porta Pia, con le altre libertà, anche quella di commercio»11, svantaggiata nei riguardi di quella settentrionale dalla fine del protezionismo e dalla mancanza di forti incentivi dall’introduzione del sistema tributario italiano ben più duro di quello precedente che si riflesse in un forte aumento dei prezzi dovuto alle nuove imposte12. Tale situazione negativa si riflette sul livello occupazionale che rimane pressoché costante nei primi dieci anni del nuovo regime nonostante l’aumento di popolazione e il divario che separava Roma dalle altre città si può dire vada progressivamente aumentando come si può vedere dai dati del rapporto popolazione addetti all’industria che rende nota, almeno in un’economia non ancora terziarizzata, la reale situazione del Paese considerando che l’attività industriale è quella a maggior reddito. Percentuale popolazione addetti industria (valori al 1881):

9

Cfr. Ibidem. V. Noghera, L’avvenire di Roma capitale. Lettere indipendenti al principe Doria per V. Noghera, Milano-Venezia-Roma, 1971. 11 Cfr. N. Nisco, op. cit. 12 Da un conteggio eseguito nel 1878 risulta che Roma pagava per dazio consumo, tasse e diritti diversi 40 lire per abitante; Genova £. 37/ab.; Milano £. 31/ab.; Livorno £. 29/ab.; Napoli e Venezia £. 25/ab.; Palermo e Padova £. 24/ab.; Pisa £. 23/ab.; Torino e Mantova £. 22/ab.; Messina £. 15/ab.; Lucca £. 14/ab. (discorso On. Brunetti, cfr. Camera dei Deputati, Atti parlamentari, seduta dell’11.3.1881). 10

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Città

%

Roma

18,27

Milano

28,92

Torino

23,25

Particolarmente grave risultò la rapida dissoluzione dell’industria tessile (Ellena) sempre più arretrata tecnicamente e costretta a praticare prezzi non concorrenziali (dei 18 opifici che sorgevano a Roma nel 1870 se ne chiusero 10 in appena 5 anni e gli altri 8 procedettero ad una forte riduzione del personale, per cui l’occupazione nel settore laniero scese a sole 210 unità con un’incidenza dello 0,68% sul totale degli occupati, mentre le percentuali di Milano (2,52%), Torino (1,46%), Napoli (1,03%) mostrano il diverso potere produttivo nelle altre città italiane). Le altre attività industriali vanno per lo più progressivamente languendo e il numero delle nuove è molto limitato, con prevalenza di quelle legate al servizio di pubblica utilità o addirittura promosse dallo Stato per proprie necessità (per es. lo stabilimento dell’Unione Militare e quelli delle officine di costruzione e riparazione di carri ferroviari). Il settore edilizio è forse l’unico che presenti una forte espansione fino al periodo del conflitto del 1914 con momenti però di assoluta stagnazione durante gli anni della crisi; l’occupazione in questa attività raggiunge anche le 80.000 unità, vale a dire 1/5 degli abitanti, anche se bisogna notare come la grande massa degli addetti sia proveniente dalla campagna romana, dalle Marche e dagli Abruzzi, in condizioni di lavoro saltuario e quindi di un’immigrazione parziale (una relazione della Camera di Commercio del 1887 riporta che solo 1.000 operai sono originari di Roma). Il fenomeno già notato nel periodo 1860-’70 di un aumento di servizi prosegue in misura sempre maggiore con capitali ancora stranieri, cui si affiancano ora capitali vaticani e di enti religiosi che trovano nel campo dell’illuminazione, dell’approvvigionamento idrico e soprattutto dell’edilizia lo sbocco per il denaro 42

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accumulato con le rapide vendite che precedettero l’introduzione a Roma delle leggi per l’abolizione dell’Asse ecclesiastico. L’attività burocratica, tradizionale a Roma, ha una continua evoluzione, interessando nel 1871 settemila addetti alla pubblica amministrazione, che raggiungono nel 1901 il numero di 17.000, a cui si devono aggiungere 11.000 uomini inquadrati nelle forze armate e di polizia. Roma si va sempre più delineando, quindi, non già come città industriale, ma come città di servizi; questo processo risulta nella sua reale ampiezza se esaminiamo le cifre del rapporto fra la popolazione e gli addetti alle varie attività dell’Amministrazione dello Stato.

Città

% degli addetti alla Pubblica Amministrazione sul totale della popolazione (dati al 1901)

Genova

19,47 per mille

Milano

10,5 per mille

Torino

14,07 per mille

Firenze

18,47 per mille

Napoli

16,51 per mille

Roma

40,32 per mille

È una burocrazia di provenienza centro-settentrionale; in nessuno dei censimenti a partire dal 1881 i nati a Roma toccano il 50% degli abitanti. Vediamo poi però che il rapporto fra i provenienti dal Nord e i provenienti dal Sud in pochi decenni s’inverte:

Anni

Nati nel nord

Nati nel Centro

Nati nel Sud

1881

14,33

25,82

12,67

1901

11,89

25,75

13,40

1911

11,52

25,93

13,93

43

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In particolare, si nota che gli originari del Piemonte che formavano nel 1881 il l3,16% dei censiti, sono il l2,07 nel 1901 e l’1,78 nel 1911, mentre i siciliani salgono negli stessi anni dallo 0,68% all’1,03% e all’1,54%. Il processo di terziarizzazione della struttura socio-economica della città di Roma non è un movimento spontaneo, ma nasce da una strategia politico-economica, cioè risulta in pieno funzionale al sistema economico e politico sottostante che ha teso (o tende) ad inserire anche l’economia romana in quell’ambito di arretratezza di struttura e quindi di sudditanza in cui era già riuscito a confinare il Mezzogiorno. A questo disegno risultano alleati i grossi gruppi industriali che vedono nell’industrializzazione di Roma la fine di un lucroso monopolio; i gruppi finanziari che destinano i loro capitali ad attività solamente speculative quali la compravendita di terreni e la costruzione di edifici; la mentalità di certa nobiltà che ha intravisto a sua volta il miraggio di rapidi arricchimenti; il Vaticano che rapidamente “stringe la città in tre monopoli” (illuminazione, trasporti e distribuzione idrica); il Governo che scorge nella concentrazione industriale a Roma il motivo della formazione di un proletariato combattivo e “pericoloso” come nelle altre capitali europee, ed anzi taluni uomini di Governo si rallegrano pubblicamente della “felice situazione di Roma”, senza scioperi, senza violenze operaie, un’oasi di tranquillità in mezzo alla bufera che si scatena in Italia. Una simile tacita alleanza tra il potere politico e il potere religioso che può apparire straordinaria a pochi anni di distanza dalla “conquista” di Roma è in pratica la cartina di tornasole della realtà urbana che ha continuato ad essere soggetta a due padroni, con interessi non sempre coincidenti con quelli della cittadinanza intera ma solo di alcuni gruppi collegati all’uno e all’altro dei poteri (e ad ambedue). Si può dire quindi che avere seguito la politica indicata da Quintino Sella di una capitale, «luogo dove si debbano trattare molte questioni che vogliono essere discusse intellettualmente, che richiedono l’opera di tutte le forze intellettuali del Paese, ma non sarebbero opportuni gli impeti popolari di grandi masse operaie», sia stato il presupposto di Roma votata all’arretratezza produttiva 44

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e sociale e di conseguenza fattore essenziale della conservazione dell’assetto burocratico amministrativo, in fondo parassitario, che il nuovo Stato ha avuto in eredità e ha purtroppo saputo ben sviluppare nel corso dei suoi centocinquant’anni di vita.

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3. La struttura urbanistica La fisionomia urbana di Roma nel 1870 si può dire che conservasse ancora l’impronta cinquecentesca impressale dai piani di Sisto V, nonostante le opere intraprese nel secolo successivo, quello della grande architettura barocca, e i piani del periodo Napoleonico del Valadier che, se attuati, avrebbero modificato completamente l’aspetto esteriore della città portandola di colpo ad assumere un carattere di moderna metropoli rispetto al pittoresco, romantico grosso paese che era a quel tempo. Nel ’700 l’ampliamento della città era avvenuto in direzione della piazza del Popolo che aveva la funzione di ingresso urbano per le correnti di traffico che provenivano dal Nord mentre nella seconda metà dell’800 le iniziative edilizie tendevano soprattutto ad interessare i colli ad Est della città verso la stazione ferroviaria di Termini sulla spinta delle fortunate operazioni edificatorie intraprese da Monsignor de Mérode. Fino al 1870 la città era tutta chiusa nella cerchia delle mura Aureliane e occupava principalmente l’ansa del Tevere, con la parte più densamente popolata verso il settore Nord-Ovest dove le abitazioni toccavano le mura, e le due propaggini di Borgo, antica cittadella militare, e Trastevere. La città abitata era costituita da un groviglio di vie strette e tortuose, con forti pendenze, tranne la via del Corso, Babuino e Ripetta che costituivano un sistema di penetrazione urbana di tipo più moderno, e la via Giulia a ridosso della sponda sinistra del Tevere le cui rive non offrivano alcuna resistenza all’impeto delle acque, per cui la città si trovava facilmente soggetta ad inondazioni soprattutto nelle sue parti più basse (zona del Pantheon). 45

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Non si può ancora notare nella città una divisione spaziale in funzione della ricchezza, non essendosi ancora formati i quartieri che a Roma sono ben caratterizzati dal punto di vista dell’estrazione sociale degli abitanti, anche se una parte dei nuovi ricchi e dei nuovi nobili (soprattutto di provenienza agraria) si andava per lo più attestando tra il Corso e piazza di Spagna; né dal punto di vista del lavoro in quanto la funzione abitativa e quella lavorativa erano sufficientemente compenetrate, dato il tipo di economia della città in cui non si era formata ancora una struttura di tipo neo-industriale. A questo proposito ci sembra non particolarmente attendibile l’interpretazione della città divisa per ceti13, in quanto caratteristico della forma urbana era proprio un continuum abitativo nel quale risaltavano alcuni palazzi aristocratici intorno ai quali, o per puro e semplice clientelismo o per rapporti di lavoro, si formavano agglomerazioni di case, abitate da ceti minori, che rapidamente si saldavano fra loro, inghiottendo i giardini e gli orti. Amministrativamente Roma era ancora divisa in 14 rioni che risalivano al XII secolo e non avevano alcun rapporto con l’antica divisione in regiones. Nel 1874 tale assetto venne modificato con la separazione dall’Esquilino del rione Monti e con la creazione di quest’ultimo a unità amministrativa autonoma. Si può notare una divisione tra i rioni più periferici fino alle mura e i 6 più centrali (Ponte, Parione, Regola, Sant’Eustachio, Pigna, S. Angelo) nei quali la densità abitativa è più forte e manca quella possibilità di una notevole espansione che invece potrebbe aversi nei primi anche se, dietro la spinta della richiesta dei nuovi arrivati alle abitazioni del centro e secondo le indicazioni comunali, si satureranno completamente e irrimediabilmente i rioni centrali compromettendo l’avvenire urbanistico della città. Dopo i primi anni di corsa alle zone centrali, cui fa da contrasto una spinta all’urbanizzazione in zone più periferiche intraprese con ritmo sempre maggiore dalle imprese edilizie e dalle attività 13

I. Insolera, Roma Moderna. Un secolo di storia urbanistica, Torino, Einaudi,

1993.

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speculative, si verifica un fenomeno inverso di incremento degli abitanti nei rioni più esterni a detrimento del centro. Questa tendenza, rilevabile dai dati degli aumenti nelle varie circoscrizioni dal 1871 al 1911, si può dire che sia rimasta costante fino ad oggi, anche se al naturale processo di maggiore crescita della periferia e di decadimento della funzione abitativa nel centro di Roma, hanno contribuito grandemente gli sventramenti del periodo fascista e l’azione speculativa verificatasi in questi anni dei grossi gruppi finanziari con il conseguente esodo degli antichi abitanti cacciati dagli alti fitti e dalla mancanza dei servizi primari. Riportiamo di seguito i dati14 sugli aumenti e diminuzioni percentuali della popolazione suddivisi nelle varie circoscrizioni e che si riferiscono agli anni dal 1871 al 1911. Aumenti e diminuzioni della popolazione per circoscrizioni:

Circoscrizioni

1871-’81

1881-’01

1901-’11 (%)

1. Monti

+ 13,19

+ 12,98

+ 11,03

2. Esquilino

-

+ 314,18

+ 26,41

3. Trevi

+ 7,01

+ 158,21

+ 18,57

4. Colonna

+ 2,14

+ 71,18

- 10,59

5. Campo Marzio

+ 7,50

+ 26,34

+ 3,31

6. Ponte

+ 9,25

+ 26,05

+ 10,54

7. Parione

+ 7,57

- 19,67

+ 7,17

8. Regola

+ 16,55

- 16,20

+ 4,92

9. S. Eustachio

+ 1,00

- 10,30

- 0,45

10. Pigna

- 1,56

- 13,66

- 12,06

11. Campitelli

+ 26,95

+ 33,86

+ 9,97

14

I dati sono ricavati dagli studi di F. Martinelli, Ricerche sulla struttura sociale della popolazione di Roma (1871-1961), Pisa, Libreria Goliardica, 1964 e L. Maroi, La popolazione industriale e commerciale della città di Roma, in «Roma. Rivista di Studi e di vita romana», Bologna, Cappellio, fasc. VIII, agosto 1934.

47

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12. S. Angelo

+ 14,59

- 49,53

+ 2,40

13. Ripa

+ 18,58

+ 132,61

+ 42,44

14. Trastevere

+ 29,84

+ 24,40

+ 17,71

15. Borgo

+ 23,58

+ 205,49

+ 53,15

Totale aumenti e diminuzioni percentuali della popolazione presente tra i censimenti 1871-1911 per circoscrizioni:

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Circoscrizioni

Città

(%)

1. Monti

+ 41,99

2. Esquilino

+ 523,55

3. Trevi

+ 227,62

4. Colonna

+ 56,33

5. Campo Marzio

+ 40,32

6. Ponte

- 10,68

7. Parione

- 6,70

8. Regola

+ 2,48

9. S. Eustachio

- 9,81

10. Pigna

- 25,26

11. Campitelli

+ 86,81

12. S. Angelo

- 40,78

13. Ripa

+ 292,89

14. Trastevere

+ 90,12

15. Borgo

+ 129,76

1871-’81

1881-’01

1901-’11

1871-’11

+ 23,86

+ 56,19

+ 18,76

+ 129,76

L’espansione urbanistica della città, concomitante con il notevole aumento della popolazione dal 1871 in poi, si è realizzata 48

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verso una direzione geografica prevalente (Sud-Est). Questa tendenza è risultante dai singoli spostamenti del baricentro15 della popolazione durante il periodo 1871-1911. Nel 1871 il centro abitato è costituito dai soli rioni che occupano una superficie di 1.456,52 ettari per una popolazione complessiva di 219.608 con una densità media di 150,78 ab. per ettaro; il baricentro è individuabile a via S. Ignazio (Piazza del Collegio Romano). Nel 1881 il centro abitato è costituito ancora dai soli rioni che occupano una superficie pressoché uguale mentre la popolazione aumenta raggiungendo le 275.788 unità con una densità di 185,39 ab. per ettaro; il baricentro è individuabile in piazza Grazioli. Nel 1911 la superficie del centro abitato è aumentata per la presenza dei quartieri e raggiunge i 5.190,71 ettari per una popolazione complessiva di 504,56 ab. per ettaro; il baricentro è ora individuabile in via della Dataria (Quirinale) tra il 1871 e il 1881; gli immigrati cercarono, per quanto consentito dai fitti, di stabilirsi nelle zone centrali e quindi si rileva un aumento (anche se modesto rispetto a quelli periferici). Nel 1901 i rioni centrali registrarono una diminuzione di popolazione, mentre gli altri incrementi di popolazione appaiono cospicui per effetto dell’espansione dell’area fabbricativa. Lo stesso trend vale fino al 1911.

4. Il peso dell’aristocrazia fondiaria nella gestione urbanistica di Roma capitale L’unità politica dal 20 settembre era un fatto compiuto. Ora nasceva l’esigenza di realizzare per Roma quella trasformazione e modernizzazione che le avrebbero permesso di assumere, non solo idealmente, ma in concreto, il ruolo di città capitale di Stato. Non vi è dubbio che, se dalla proclamazione a capitale dopo l’oc15 Il baricentro della popolazione o demografico è un indice che sintetizza taluni caratteri quantitativi della distribuzione della popolazione nel territorio. Sta a indicare la posizione di centro della distribuzione demografica considerata e può pertanto considerarsi «il centro territoriale della popolazione» (G. Andreoli).

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cupazione delle truppe di Cadorna si fossero lasciati trascorrere alcuni anni per trasferirvi l’apparato amministrativo e politico del Regno, sicuramente Roma avrebbe potuto, con maggiore precisione e minore assillo, attendere allo studio dei problemi connessi con il suo nuovo ruolo e con la politica del suo sviluppo futuro. L’impreparazione, il programma di costruire la «terza Roma» sostenuto vivacemente negli ambienti dominanti della finanza italiana e straniera, hanno fortemente condizionato lo sviluppo urbanistico della città incanalandolo sulla via della speculazione fondiaria ed edilizia. Le vicende relative all’adozione del Piano Regolatore mostrano l’incapacità, o la connivenza, delle forze politiche cittadine ad opporsi alle spinte private che speculavano intorno alla nuova realtà. L’urgenza di provvedere di proprie sedi le amministrazioni, i corpi militari dello Stato, costruire alloggi per tutti coloro costretti a trasferirsi nella capitale, fa calare a Roma un esercito di appaltatori, ben appoggiati dalle banche che hanno capito quali vantaggi economici comportino tali necessità dopo la fruttuosa esperienza del trasferimento della sede dello Stato da Torino a Firenze. La forte spesa per le prime necessità (oltre 17 milioni di lire), la sempre più cospicua domanda che determina il rialzo dei prezzi, travolgono la proprietà fondiaria ed edilizia. In questa frenesia speculativa hanno il primo posto gli enti e le corporazioni religiose16. Essi colgono l’occasione per disfarsi di tutto ciò che non è loro strettamente necessario prima che siano estese a Roma 16 Si riportano le principali operazioni di vendita e di svincolo di servitù decimali che presentano particolare importanza perché si riferiscono ad aree urbane sulle quali maggiormente si verificherà il fenomeno di espansione con conseguenze notevoli per lo sviluppo urbanistico della città: – i Gesuiti e i Padri della Certosa vendono i loro terreni all’Esquilino a £. 5 o 6 al mq. alla Società di Credito Provinciale e Comunale di Firenze; – i terreni fuori di Porta del Popolo sono affrancati dal diritto di enfiteusi verso la Reverenda Camera Apostolica a seguito dell’acquisto operato dalla Compagnia Fondiaria Romana; – i terreni della ex villa Altoviti nella zona dei Prati di Castello sono affrancati dai canoni dovuti al Capitolo dei SS. Celso e Giuliano, ai Padri Agostiniani irlandesi e alla Chiesa di S. Agnese a piazza Navona con la vendita al consorzio per l’edificazione dei Prati.

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le leggi sull’eliminazione dell’Asse ecclesiastico, introdotte peraltro con notevole ed “incomprensibile” ritardo solo nel giugno 1873. I compratori di tali aree sono sempre gruppi capitalistici, società fondiarie ed immobiliari con alle spalle gli onnipresenti capitali delle banche (Banca di Torino, Banca di Credito Romano, Banca Generale di Roma, Banca Romana, Banca Tiberina) nei cui consigli di amministrazione si possono trovare molti degli uomini politici e degli amministratori che ebbero parte attiva in quegli anni. Nel periodo 1870-1873 gran parte dei beni immobili della città sono passati da un proprietario all’altro con aumenti di prezzo ad ogni passaggio. I nuovi grandi proprietari di aree, e dietro di loro le banche, costituiscono il fattore determinante della vita della città. Basti pensare alla vicenda del Piano Regolatore di Roma italiana: approvato dal Consiglio Comunale, sotto la presidenza del sindaco Pianciani il 17 dicembre 1873, resta inattuato per nove anni, durante i quali si consolida la prima, forte espansione della città risoltasi, proprio per l’inosservanza di un piano di coordinamento, nelle crisi edilizie degli anni ’80. È istruttivo, a questo proposito, l’esame del processo evolutivo che porterà al Piano regolatore del 1873. Il processo ha inizio il 30 settembre 1870 quando la Giunta provvisoria del Governo17 istituisce una «Commissione di Architetti-Ingegneri, la quale si occupa di progetti di ampliazione e di abbellimento della città, per poi sottoporli all’approvazione della Giunta municipale. Sua prima cura sarà di studiare i progetti di costruzione dei nuovi quartieri in quella parte che maggiormente si presta alle nuove edificazioni. La Commissione è composta dai 17

La Giunta provvisoria di Governo era composta da: sei nobili: Principe Michele Caetani, presidente; Principe Francesco Pallavicini; Duca Francesco Sforza Cesarini; Principe Emanuele Ruspoli; Principe Baldassarre Odescalchi; Principe Ignazio Boncompagni di Piombino; – quattro borghesi: Prof. Carlo Maggiorani; Avv. Biagio Placidi; Avv. Raffaele Marchetti; Avv. Vincenzo Tancredi; – otto possidenti e mercanti di campagna: Vincenzo Fittoni, Vincenzo Rossi, Pietro De Angelis; Achille Mazzoleni; Felice Ferri, Augusto Castellani, Filippo Costa, Alessandro Del Grande. –

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signori: Camporesi, Vespignani, Fontana, Bianchi, Jannetti, Carnevali, Viviani, Partini, Trevellini, Cipolla, Mercandetti». Già questa premessa istitutiva mostra quali interessi si siano messi in moto. Con la frase «costruzione di nuovi quartieri in quella parte che maggiormente si presta alle nuove edificazioni», si intende chiaramente indicare le aree già interessate dalla attività speculative del famigerato Monsignor de Mérode (Esquilino) e al cui confine sorge la nuova Stazione di Termini. Le decisioni della Commissione puntualmente indicano in tali zone quelle di prima espansione, escludendo esplicitamente l’edificazione verso i Prati di Castello con la farisaica motivazione di «essere contraria all’idea di spingere la popolazione ad abitare nella parte meno salubre delle vicinanze di Roma». La tesi dell’espansione verso i quartieri alti della città sono quelle sostenute dalla grossa finanza, da uomini politici (da ricordare Quintino Sella) legati a gruppi capitalistici settentrionali che avevano forti interessi per i recenti, massicci acquisti di aree fabbricabili, e addirittura da conservatori e papalini che vedevano nella soluzione dei Prati un accerchiamento del Vaticano e l’affermazione pericolosa della nuova realtà secondo cui «le mura di Roma Pontificia non segnano più i confini della città, ma che un’altra tutta nuova va sorgendo»18. La Commissione indicava inoltre le zone intorno a Monte Testaccio come aree «per le arti clamorose, grandi officine, depositi e fabbricati per abitazioni di operai» secondo un disegno che, se da un lato si giustifica con valide ragioni tecniche (vicinanza del fiume e quindi possibilità di afflusso delle merci per via d’acqua, vicinanza con l’erigenda Stazione di Trastevere), dall’altro è conseguente alla linea di emarginazione della classe operaia nel timore di pressioni e sommosse. Nascono intanto altre due Commissioni con l’incarico, la prima, di redigere un Piano Regolatore «in cui siano rispettati i quartieri già adottati: De Merode (via Nazionale) ed Esquilino»; 18

A. Caracciolo, Roma capitale. Dal Risorgimento alla crisi dello stato liberale, cit.

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l’altra, di esaminare i vari progetti presentati da privati che stanno letteralmente assalendo il Comune con richieste di concessioni, di convenzioni, di permessi edificatori che le autorità concedono con straordinaria larghezza. È singolare il caso di una città che, mentre tenta faticosamente di darsi uno strumento tecnico (Piano Regolatore) che orienti il suo sviluppo, è vittima di speculazioni edilizie che mirano a creare vasti quartieri in aree d’interesse privato. Al momento dell’approvazione del P. R. sono state già stipulate ben sette convenzioni; prima fra tutte quella del 28 febbraio 1871 con Monsignor de Mérode: il Comune, accollandosi per la prima volta le spese di urbanizzazione in cambio della sola cessione gratuita delle aree stradali, apre la via a tutta la serie di operazioni di trattativa con i privati che si rivelerà un disastro dal punto di vista dell’interesse della città. Le altre convenzioni riguardavano l’edificazione di nuovi quartieri: al Celio (convenzione presentata da uno stesso membro della Commissione: G. Guerrini, il cui testo è riportato in nota19, fra il Colosseo e S. Stefano Rotondo), all’Esquilino, a nord delle Terme di Diocleziano e della Stazione di Termini, a Testaccio (per sventare il pericolo di crearvi una zona industriale) per un totale di oltre 1.000.000 di mq. e circa 50.000 abitanti. L’unica convenzione accantonata è quella presentata da un consorzio di nuovi proprietari per l’ubicazione dei Prati di Castello, con un progetto dell’architetto 19

Progetto Guerrini: «Per fabbriche nell’area scoperta fra la via dei SS. Quaranta e S. Stefano Rotondo». «Il sottoscritto proprietario di alcune superfici di terreno, desiderando ridurle ad aree fabbricabili, propone di cedere gratuitamente al Comune la proprietà di tutte le superfici stradali che si trovano nei suoi terreni alle seguenti condizioni: 1) che il Municipio si obblighi a sistemare, lastricare, illuminare e fare le relative fogne nel corso del corrente anno alle strade che gli vengono donate dal sottoscritto; 2) che nel corso di tre anni lo stesso Municipio si obblighi ad aprire e sistemare la nuova strada che dal Colosseo conduce a piazza della Navicella in conformità a quella progettata sul piano regolatore di Roma; 3) che sia lasciata facoltà al sottoscritto secondo le condizioni del terreno di aprire le sue strade parallele o di aprirne una sola di uguale larghezza intermedia fra le due suddette, ciò che potrà egli decidere nel corso di giorni dieci da oggi correnti. Roma 20 aprile 1871. Firmato: Giuseppe Guerrini».

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Cipolla, già membro della passata Commissione, con la motivazione che tali aree risultano al di fuori del perimetro assegnato al disegno del P. R. Il piano del 1873, opera di Alessandro Viviani, in pratica è soltanto un atto formale di legalizzazione delle determinazioni dei potenti gruppi privati, vale a dire dell’accoglimento dei quartieri da loro previsti, come lo stesso Viviani riconosce laddove confessa candidamente: «Di questo vasto progetto noi amiamo dichiararci compilatori anziché autori, perché il merito del concetto è in gran parte dovuto a tutti coloro che con appositi disegni, o con lo scritto ed anche con i ragionamenti ci prepararono materia e ci manifestarono idee …»20. La città, secondo il piano, avrebbe dovuto avere un incremento di popolazione di 150.000 abitanti in 25 anni, pari ad oltre il 65% della popolazione al 1870, quando l’incremento reale fu del 100%. Questa sproporzione tra le previsioni e la dinamica demografica è una delle cause del fallimento del piano e della sua inattuazione per cui Roma si trovò per altri dieci anni senza uno strumento pianificatorio21. Di particolare gravità è la proposta di estendere la fabbricazione in tutte le zone dell’abitato e tra i nuovi quartieri e il vecchio nucleo, cioè proponendo un’espansione pluri-direzionale nella quale veniva compreso anche il quartiere dei preti di Castello per un’estensione di 65 ettari e 35.000 abitanti, considerato “adattissimo alla fabbricazione e bonificabile”, per il quale era previsto un collegamento con il centro attraverso tre erigendi ponti e con 20

Cfr. Municipio di Roma, Atti Consigliari, seduta dell’11 ottobre 1873. L’on. Ravioli nella seduta del 10 ottobre 1873 (cfr. Municipio di Roma, Atti Consigliari, Vol. III 1872-’73), si dice convinto che Roma come capitale potrebbe raggiungere in un ventennio 500.000 abitanti ma cinque ragioni lo impediscono: 1) le strade ferrate porteranno a Roma una popolazione agiata che però non si stabilirà nella capitale; 2) sorgeranno a Torino, Genova, Milano, Firenze, Terni e Tivoli fiorenti opifici che impediranno gli aggruppamenti della classe operaia a Roma; 3) il suolo d’Italia impedirà a molti di aggrupparsi a Roma accrescendo il vagabondaggio e la corruzione; 4) pochissimi abbandoneranno i loro posti per cercare fortuna nella capitale; 5) il costo della vita che anzi farà emigrare molti nelle province. 21

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Trastevere attraverso i borghi intorno al Vaticano. Questo vecchio problema, che sembra ora finalmente risolto, è uno dei punti di maggiore contrasto tra i vari amministratori per lo più contrari alla sua esclusione dal piano con le motivazioni più diverse22. Oltre alla creazione di varie vie di collegamento, di parchi e zone verdi (all’Esquilino sull’area delle Terme di Tito, a Forte S. Angelo, al Gianicolo), ai lavori di ampliamento del Tevere che «faranno scomparire quella sequela di indecorose e luride fronti di caseggiato che […] rendono tristissimo l’aspetto del Tevere», il piano del Viviani propone una serie di sventramenti nella città antica (Tor di Nona, Fontana di Trevi, Pantheon, piazza Navona). I più vistosi sono la demolizione di Forte S. Angelo con la conservazione dei soli muri del pentagono e quello di Borghi «che impedivano di ammirare da una distanza conveniente la superba cupola di Michelangelo», progetto che in seguito verrà spesso ripreso con la stessa motivazione e che purtroppo sarà intrapreso durante il periodo fascista e terminato alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Manca evidentemente una volontà pianificatoria che, anche tenendo conto delle limitazioni culturali in cui poteva trovarsi l’urbanizzazione della seconda metà dell’800 (nonostante esempi come quello del piano di Parigi di Haussmann), avrebbe probabilmente potuto indicare l’ubicazione dei ministeri e degli altri organi dello Stato, come poli di sviluppo per l’intera nuova città. A questo proposito c’è da rilevare la totale abdicazione delle prerogative comunali anche davanti alla volontà dello Stato che dispone da sé le sedi della propria burocrazia travalicando così i limiti istituzionali di competenza; parallelamente a questo potere 22 Nella seduta del 13 ottobre 1873 il consigliere Alibrandi, ricordando le espan-

sioni verso i quartieri alti, afferma che esse sono largamente sufficienti per la futura popolazione; il consigliere Angelici ritiene addirittura che l’inserimento nel P. R. favorirebbe solo la speculazione e propone che il Comune costruisca le opere di urbanizzazione primaria solo dopo l’edificazione delle case; il consigliere Astengo giudica che un progetto isolato possa avere più rapida attuazione e propone che la città sia «ampliata da una parte e dall’altra»; il consigliere Piperno ricorda il forte impegno finanziario del Comune per i quartieri alti che impedirebbe ulteriori lavori da intraprendersi in altre parti (cfr. Municipio di Roma, Atti Consigliari, seduta del 13 ottobre 1873).

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decisionale esterno alla città degli agenti pianificatori pubblici23, si nota la loro totale assenza nel campo finanziario (17.000.000 di lire nei primi due anni per le sole necessità degli edifici da adibire a sedi di organi dello Stato, quando la spesa prevista per l’attuazione del P. R. supera i 160.000.000). Questa sarà una delle cause del sempre maggiore incremento del disavanzo comunale di fronte a necessità che sono quelle proprie di una città e di una capitale. La conseguenza fondamentale e più evidente del progetto del P. R. è la nascita di quel processo di espansione indifferenziata, responsabile dello strangolamento del centro storico e dell’intera città. Questo allargamento compatto e indifferenziato della città ha dentro di sé una ben precisa motivazione economica: non ammettendo linee preferenziali di sviluppo si dà modo di poter valutare sullo stesso metro le aree fabbricabili di qualunque parte della città, senza toccare gli interessi dei proprietari che sono in stretto contatto con l’amministrazione capitolina o addirittura ne fanno parte. Errori che in prima analisi appaiono di natura tecnica nascono invece da una realtà che pone dalla stessa parte le forze del denaro (e quindi del potere) e l’architetto che deve tradurre graficamente i loro interessi. Da notare che saranno proprio coloro che avevano fornito «materia ed idee» al Viviani ad affossare il piano, mettendo in minoranza l’amministrazione e “silurando” il sindaco Pianciani quando aveva tentato, con una politica di demanializzazione dei suoli edificabili, di sottrarre la rendita fondiaria dalle mani degli speculatori, cominciando a costruire strade e servizi pubblici nelle zone dell’Esquilino non coperte da convenzioni. L’azione del sindaco, evidentemente ispirata da una visione democratica del problema dei suoli, non ha potuto che trovare coalizzate contro di essa le forze immobiliste tradizionalmente legate alla proprie-

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Cfr. R. Ledrut, Sociologia urbana, Bologna, Il Mulino, cap. 2°, “Controllo dello sviluppo e pianificazione urbana”; ma si veda anche il mio Roma madre matrigna, Roma-Bari, Laterza, 1991, specialmente cap. 4, “L’urbanista e il sociologo: al servizio della comunità o servi del potere?”, pp. 69-87.

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tà24 e quindi il coro delle opposizioni è rimbalzato dalle aule del Comune (dove anche taluni sostenitori di Pianciani mostrarono un non disinteressato agnosticismo) a quelle del Parlamento (interpellanza dell’On. Sorrentino dell’11 maggio 187425) a quelle della Giustizia (con le sentenze del 6 ottobre 1873 in Corte d’Appello di Roma e poi con quella dell’1 marzo 1873 in tribunale, entrambe negative verso l’intenzione del Municipio di espropriare i terreni per poi rivenderli). La vicenda del P. R., se da un lato ha del paradossale per la sua conclusione, che vede la proprietà privata, pur soddisfatta dalle deliberazioni del comitato tecnico presieduto da Viviani, ribellarsi perché ha capito che un piano regolatore può essere uno strumento pericoloso in mano ad amministratori non asserviti, dall’altro dimostra esemplarmente l’impossibilità in cui le amministrazioni locali e centrali si trovano, ieri come oggi, a fare applicare le loro decisioni di fronte a una società manovrata, attraverso tutti i canali di pressione, quasi sempre dalle stesse persone. Il piano del 1873, finalmente approvato quando già il meccanismo di formazione della città si era messo in moto sotto le spinte speculative, risultò subito bloccato con la legge dell’amministrazione Venturi. Questa ne frenò l’iter, impedendone la ratifica da parte delle autorità governative. Tale strumento urbanistico significava, se non altro, una certa definizione degli interventi, un certo controllo. Ma soprattutto agitava lo spauracchio dell’esproprio. Il consigliere Pietro Venturi, già sindaco prima dell’amministrazione Pianciani e poi suo successore, poteva affermare: «Un piano regolatore definitivo della città includeva l’idea di demolire ed ora demolire 24 Nella sua relazione sul P. R. Pianciani conclude sollecitando l’approvazione del piano affermando: «Non trovo che una sola ipotesi nella quale riconosco perfettamente logico ridire: non parliamo di piani regolatori, non parliamo di spese; ed è questa l’ipotesi di coloro che possono aggiungere: aspettiamo il ritorno del Governo del Papa. Avete ragione voi che sperate in quel ritorno o che solo credete possibile di non cambiare nulla. Roma tale quale il governo dei preti l’avevano ridotta corrispondeva perfettamente ai bisogni di una magnifica capitale da sagrestia; conservatela pur tale per l’avvenire. Questa opinione non può allignare nel cuore di nessuno» (cfr. Municipio di Roma, Atti Consigliari, seduta del 6 ottobre 1873. 25 Interpellanza dell’On. Sorrentino, 11 maggio 1874, in Atti della Camera, Leg. XI, sessione 3°, volume IV, p. 3518.

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mancando le abitazioni sarebbe improvvido. Solo quando si saranno costruite nuove abitazioni si potrà avanzare la richiesta di pubblica utilità e pertanto per il momento conviene prima stabilire un piano di massima […] senza inceppare la proprietà con un piano regolatore definitivo»26. Gli veniva in soccorso il consigliere Spada per il quale un piano regolatore si deve limitare ad opere di prima categoria27, senza prima pronunciarsi per il futuro. Durante i nove anni di “vacanza del piano regolatore”, la vita della città si sviluppò costantemente secondo la logica degli interessi privati in una sempre maggiore corsa all’aumento dei prezzi delle aree fabbricabili. I terreni del consorzio dei Prati di Castello28 passarono da £. 7 al mq. del 1873 alle 75 del 1883, quelli delle ville Capranica e Grazioli presso Castro Pretorio, vendute per edificazione alla Soc. di Credito Provinciale e Comunale d’Italia nel 1871 a £. 5 o 6 al mq. con un aumento del 100% rispetto al prezzo che avrebbero ottenuto l’anno precedente, passarono alle £. 15 nel 1872 nella cessione ad una società per azioni emanazione della predetta, poi alle £. 30 nel 1876 nella vendita alla Banca Tiberina, per toccare il vertice di £. 100 al mq., fu rivenduta dalle £. 70 alle 120 al mq. Parallelo al fenomeno della lievitazione dei prezzi delle aree fabbricabili è l’aumento degli affitti in conseguenza all’aumento 26

Cfr. Comune di Roma, Atti del Consiglio Comunale di Roma dell’anno 1873, seduta del giorno 11 ottobre. 27 La Giunta Comunale, decidendo sulle proposte avanzate dalla Commissione sul P. R., stabilì che le opere da eseguirsi fossero classificate in due categorie: quelle che il Consiglio riconosce si debbano comprendere nel P. R. e quelle che il Consiglio ritiene non necessarie (da Municipio di Roma, Atti del Consiglio, cit.). Con tale suddivisione si ignora del tutto l’importanza della successione delle varie opere, la necessità di un programma riguardante i tempi di attuazione, lasciando come unica politica d’intervento quella settoriale e contingente, “alla giornata”. 28 Il consorzio dei proprietari dei terreni dell’area di Prati di Castello era stato formato da: J.E. Texeira de Celattes; per la Società generale del Credito Immobiliare e Costruzioni in Italia, l’ing. Faustino Anderloni; per la Soc. Napoletana di Costruzioni, E. Cahen, Emilio Parente; per l’Epotein di Vienna, J.R. Texeira de Celattes, Leopoldo Lieben di Vienna; la Soc. Italiana di Costruzioni di Torino, Texeira de Celattes; per Meuricoffre & C., E. Cahen; per Giuseppe Calvan di Amsterdam, E. Cahen; per Morpurgo e Parente di Trieste, il comm. C.M. Morpurgo di Nelma; per il barone A. Reinach di Francoforte sul Meno, Texeira de Celattes; il nobile del Weil Weis di Torino; B. Tanlongo; L. Gualdi, G. Barbosi; G. Baldini.

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della richiesta di alloggi. In soli due o tre anni si verifica una variazione di oltre il 30% tra il valore medio delle pigioni di Roma e di Firenze. Dato interessante, perché riferito a due città in cui si è verificato contemporaneamente lo stesso sconvolgimento socio-economico dovuto allo spostamento della sede centrale degli organi statali29. In questo contesto, le iniziative pubbliche, quelle interessanti il Comune o lo Stato, sono trascurate o accantonate anche a causa della lentezza di una burocrazia legalistica, pletorica e inefficiente. 5. L’Agro Romano come area di sotto-sviluppo. Opera di bonifica e lievitazione della rendita assoluta Agro Romano e bacino del Tevere sono un solo problema. La bonifica dell’Agro riemerge con una varietà di progetti fin dai tempi dello Stato Pontificio. Finalmente la legge del 1883 stabilisce l’obbligo di interventi oltre un raggio di 10 miglia dal centro cittadino, impone l’esproprio dei terreni, che però non è attuata per la solita azione ritardataria dei proprietari terrieri. Sembrava a costoro preferibile un territorio malsano, paludoso e una agricoltura ancora primitiva ad un’opera che avrebbe comportato ingenti spese. Posizione paradossale. Si rinuncia da parte dei proprietari a effettuare opere di miglioria che avrebbero aumentato il valore dei terreni. Perché? La situazione del regime di proprietà e di conduzione vigente nell’Agro Romano risaliva a forme di tipo feudale. Oltre la metà dei terreni apparteneva ad ecclesiastici, monasteri, ordini religiosi, un terzo a principi, la restante aliquota a vari proprietari minori. Le terre degli istituti religiosi e della nobiltà, secondo About30, risultavano «affittate in grandi partite a 29

Ghino Valenti, riportando alcuni dati comparativi tra il costo delle abitazioni nelle più importanti città europee, riferisce che l’incidenza dell’affitto di appartamenti era a Roma superiore al 35% dello stipendio medio di un impiegato, mentre in città estere, ad esempio a Londra, dove il costo della vita risultava anche superiore a quello romano, l’incidenza non superava il 12% (cfr. G. Valenti, A proposito della crisi edilizia nella città di Roma, in «Giornale degli economisti». 30 E. About, Roma moderna, 1861; 1° ed. Cap. VI (“Il ceto medio”) e XII (“Le bestie”).

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de’ ricchi industriali che si chiamano mercanti di campagna31… Il proprietario consegna loro il suolo nudo, con contratti a breve scadenza, sicché l’affittaiolo non ha nessun interesse a costruire edifici né a piantar alberi, né procurare il miglioramento del suolo. D’altronde le comunità religiose non mancano d’interdire la coltura delle buone terre con una clausola espressa nel contratto. E ciò fanno per timore che il suolo non si impoverisca e il reddito degli anni a venire non ne venga scemato». In questa situazione il discorso sulla bonifica non può avere presa, anche perché la terra ora interessa maggiormente in funzione dell’edificazione, e di conseguenza i proprietari32 che siedono in Campidoglio o nei consigli di amministrazione delle banche puntano i loro interessi 31 I nomi più grossi dei mercanti di campagna, che spesso divengono proprietari terrieri acquistando le terre da essi coltivate, i Fittoni, Silvestrelli, Senni, Piacentini, Franceschetti ecc. si ritrovano quasi tutti nel novero degli imprenditori edili di Roma e in quello degli amministratori comunali fino dalla prima Commissione insediata da Cadorna nel 1870. Giustamente About attribuisce ad essi la qualifica di “industriali” se si pensa che davano lavoro, anche se temporaneo, a 1.000 e 2.000 operai agricoli occupati nei raccolti durante i quali si verificavano vere e proprie trasmigrazioni nelle campagne. Ancora oggi (2009), l’uso del territorio dell’Agro romano è motivo di tensioni, soprattutto a proposito del “mattone”, o diritto di edificare, e dei vincoli ambientalistici: «L’impressione è che una scelta culturale avanzata, quella dei vincoli a protezione di verde e ambiente, […] arrivi questa volta in ritardo […] coniugare sviluppo e tutela del territorio è sempre stato difficile» (Giuseppe Pullara, Lo spariglio dell’Agro romano, in “Corriere della Sera”, 9 luglio 2009). 32 La proprietà terriera, in seguito alla legge del 27 marzo 1873 sull’abolizione dell’Asse ecclesiastico, cambia rapidamente di configurazione, sostituendo agli ordini religiosi i ricchi mercanti di campagna e i nobili anche se taluni acquirenti, che per lo più acquistano in blocco enormi estensioni di terreno, risultano dei semplici prestanome degli stessi ordini religiosi. È interessante notare che nella corsa all’acquisto dei beni ecclesiastici si distinsero proprio le famiglie patrizie più vicine al Vaticano nonostante il divieto papale di partecipare all’opera di alienazione dei beni ecclesiastici. Tra i mercanti di campagna si possono ricordare ad esempio: Mezzadonna a Sutri, Gori Mazzoleni a Sant’Oreste, Dell’Uomo e dell’Orco ad Alatri, Mazza e Giminiani ad Anagni, G. Sbarra a Cave, P. Parenti al Piglio, C. Serafini ad Acqua Pendente, Piacentini e De Angelis ad Anguillara, Sili, Paletti, ecc. Tra le grandi famiglie patrizie si ricordano: Capranica del Castro Pretorio, Massimo dell’Esquilino, Borghese, Chigi, Theodoli, ecc. È in seguito a questi enormi cambiamenti di proprietà che si formano i patrimoni della borghesia rurale romana e di quelle famiglie patrizie che hanno saputo mettere da parte gli scrupoli di fedeltà al Papa per inserirsi nel grande gioco speculativo.

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verso l’espansione della città. Le leggi relative alla sistemazione agraria interessano solo nella misura in cui da questa si possono ottenere nuove aree fabbricabili. La legge del 1879 investiva aree già interessate dalla speculazione edilizia, sempre più decisamente lanciata nella lucrosa espansione in tutte le direzioni. Secondo questa direttiva, cara agli speculatori e fatta propria dalle autorità comunali, sorgono i quartieri già convenzionati intorno a via Nazionale prolungata fino a piazza Venezia (1875), alla Stazione di Termini, all’Esquilino33, al Castro Pretorio, al Celio, sul Colle Oppio, ai Prati di Castello. Nel 1874 un nuovo consorzio di proprietari, rappresentato dal Conte E. Cahen, propone ed attua in proprio un ponte provvisorio in ferro lungo 100 metri in asse con S. Girolamo degli Schiavoni, presso il porto di Ripetta, con il quale si assicura una via di comunicazione con l’altra sponda del Tevere. Si risolve così la principale difficoltà all’edificazione di nuove aree.

6. Ritardi dell’edilizia pubblica Viene intanto allargato un tratto di via del Corso, tra via delle Convertite e Palazzo Sciarpa. È sventrata una larga fascia della zona rinascimentale, lungo il tracciato del futuro corso Vittorio 33

Dalla relazione al Consiglio tenuta dal sindaco Ruspoli nella seduta del 26 ottobre 1878 (cfr. Atti del Consiglio) si ricavano i seguenti dati sull’edificazione nelle zone di espansione: – la società dell’Esquilino ha edificato 53 fabbricati per un totale di 729 appartamenti, 4753 camere, 475 botteghe e locali terreni; aveva inoltre in costruzione 8 fabbricati, mentre i privati avevano costruito per un totale di 1500 ambienti; – al Castro Pretorio la società concessionaria aveva costruito 18 casamenti, 130 appartamenti e 31 botteghe per un totale di 910 locali e 9 villini; 22 edifici erano stati costruiti da privati per un totale di 1100 camere e 110 botteghe; – al celio edificati 17 fabbricati per complessivi 680 ambienti; – nel centro furono effettuate 593 sopra-elevazioni per un totale di 2967 camere; furono restaurate 136 case, ampliati 421 di 2105 ambienti; furono costruiti ex novo 145 fabbricati per un totale di 5800 ambienti. La cifra impegnata dai privati ammontò a circa £. 15.000.000.

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Emanuele con abbattimento di edifici di importanza architettonica. Dopo via Cavour, nel cui primo tratto si rispecchia il carattere piemontese della Roma Umbertina, si aprono via Arenula e via Tomacelli mentre proseguono i lavori di costruzione dei muraglioni sul Tevere. In contrapposizione al forte ritmo delle costruzioni private, l’edilizia pubblica si mantiene a un livello piuttosto modesto, preferendo usufruire delle numerose proprietà religiose come sedi degli organi dello Stato34, in una serie di interventi frammentari, legati alla tendenza all’espansione indifferenziata. Tenacemente sostenuta da Quintino Sella, la tendenza a operare uno spostamento dei ministeri dal centro urbano verso le zone orientali, dove avrebbero potuto costituire il fulcro di una nuova città, fu seguita solo in minima parte, riuscendo a far sorgere il Ministero delle Finanze, criticato per la sua posizione eccentrica, ma utile agli imprenditori edili che di colpo si videro valorizzate le zone limitrofe del Castro Pretorio, del Viminale, di Termini, con il risultato di una rapida edificazione dei quartieri nei pressi della via XX Settembre. Invece della fortificazione del Tevere, caldeggiata da Garibaldi, il Governo mise mano alla costruzione di una serie di fortificazioni intorno alla città35 su proposta di Depretis e Mezzacapo, tanto dispendiose quanto inutili dal punto di vista militare. Questi interventi si attuano senza il consenso del Comune, che spesso deve concorrere alle spese quando già la sua finanza rischia il tracollo sotto il peso delle opere di urbanizzazione. Il Governo, dedito alla politica della lesina, non ha ancora capito la diversità esistente fra gli interventi nelle varie città dello Stato e quelli ne34

Furono sistemati edifici esistenti: il Ministero dell’Istruzione a Palazzo della Minerva, il Ministero di Giustizia a piazza Firenze, il Ministero dell’Industria e Commercio a Palazzo Stamperia, il Ministero dei Lavori Pubblici a piazza San Silvestro in Capite, la Camera dei Deputati a Palazzo Montecitorio, il Senato a Palazzo Madama, la Provincia a Palazzo Valentini, la sede del Sovrano a Palazzo del Quirinale. 35 I lavori riguardano la costruzione di una cinta fortificata per uno sviluppo di 40 Km e i forti di Monte Mario, Trionfale, Portuense, Ostiense, Ardeatino, Appia Antica, Casilino, Prenestino, Tiburtino, Pietralata, Antenne nonché le batterie Nomentana, Pignatelli e Porta Furba.

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cessari per Roma, la sua capitale. Per dieci anni, dal 20 settembre, le somme che lo Stato ha speso per Roma risultano frutto di una visione legata al particolare: sono fondi di carattere straordinario, come i miliardi stanziati per le prime necessità inerenti al trasferimento da Firenze a Roma o di urgenti soccorsi. Solo verso la fine del decennio incomincia a maturare quel movimento di opinione a favore dell’intervento dello Stato a Roma che vide fra i suoi sostenitori Sella, Crispi e poi Depretis, Minghetti, Cairoli e si concretò nella legge del 20 maggio 1881, in base alla quale lo Stato concedeva al Comune di Roma 50 milioni di lire “come concorso nelle opere edilizie e di ampliamento”. La somma stanziata, piuttosto cospicua, sarà erogata in 20 rate annue di due milioni e mezzo, subordinata però all’approvazione del “piano edilizio regolatore” che dovrà essere presentato all’approvazione governativa non più tardi del 31 dicembre 188136. Questa legge faceva seguito ad una convenzione annunciata da re Umberto I il 17 febbraio 188037. Stipulata tra il Governo e il Comune di Roma, la città doveva costruire a suo carico una serie di edifici e di opere pubbliche a carattere governativo (Palazzo di Giustizia, Accademia della Scienza, Policlinico, Piazza d’Armi e quartieri militari per un totale di 1000 posti letto) con una 36 È veramente singolare la reale portata finanziaria di quella famosa legge tanto lodata dagli uomini politici e dalla stampa, che in pratica risultò un’accorta truffa perpetrata dallo Stato con il consenso più o meno deciso delle autorità comunali. Infatti il Comune avrebbe dovuto sostenere una spesa di 30 milioni mentre lo Stato concedeva una somma di 2.500.000 per 20 anni. Il Comune perciò, a meno di rinunciare a qualche opera, doveva procurarsi per il primo decennio in media 3.000.000 all’anno, per far fronte alle spese per opere riguardanti lo Stato, salvo a rimborsarle nelle annualità successive. Da ciò si può notare che il valore finanziario del concorso governativo si riduceva a soli 8 milioni, se il Comune avesse potuto procurarsi le somme da anticipare allo Stato all’interesse del 5%, riducendosi ulteriormente se gli interessi avessero raggiunto il l6% (cfr. G. Valenti, op. cit.). I 50.000.000 non sono quindi altro che una leggenda e la stessa Commissione senatoriale doveva dichiarare solennemente che con quel progetto «Il Governo del Re non credeva di avere adempiuto l’ufficio suo» (Senato del Regno, Atti Parlamentari, seduta dell’11 ottobre 1881). 37 Nel discorso tenuto in occasione dell’apertura della XIII legislatura, il Re indicò come scopo del progetto di convenzione: «le opere indispensabili alla salubrità e al decoro di Roma, la quale creò l’unità e la grandezza della prima Italia e non deve ospitare l’Italia nuova solo in mezzo ai ricordi delle passate fortune».

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spesa iniziale di 30.000.000 da completarsi, entro 20 anni, con il restante fondo cassa 2 ponti sul Tevere, demolizione del Ghetto, riforma della rete fognaria e risanamento del sottosuolo, mercato generale, proseguimento della via Nazionale da piazza Venezia al fiume per la creazione del corso Vittorio Emanuele II. La legge, passata all’approvazione del Parlamento dopo un lungo dibattito38, fu accolta come un formidabile strumento di speculazione per i gruppi finanziari e per i costruttori. Riprese quindi con maggior vigore la politica di accaparramento delle aree e di pressione sulle autorità comunali per ottenere concessioni, appalti, contribuendo a far salire la febbre edilizia a livelli superiori anche a quelli dei primi anni del decennio 1870-’80.

7. La “lettera ai romani” di Luigi Pianciani Pochi mesi dopo l’approvazione della legge per il finanziamento di opere pubbliche a Roma, le vicende politiche riportano Luigi Pianciani alla carica di sindaco, non per designazione dell’Assemblea Consigliare né del Governo, preoccupato per la maggioranza «clerico-conservatrice» installatasi al Campidoglio in seguito alle elezioni amministrative del 1880 nelle quali era riuscita a prevalere l’Unione Romana. Il nuovo sindaco si trova nella condizione di poter disporre dei fondi statali, ma non intende utilizzarli “a pioggia”, dietro le pressioni dei gruppi politici e finanziari ansiosi di spartirsi la torta. Vuole un piano generale, che renda chiaro il disegno della futura Roma. Deciso avversario del Vaticano, attaccato dalla stessa coalizione di forze politiche ed 38 Numerosi furono gli oppositori, i quali basavano le loro argomentazioni quasi

esclusivamente sui pericoli di un accentramento di tutta la vita italiana sull’esempio di Parigi, e sulla mancanza di equità verso le altre città italiane. Tra i più «straordinari» interventi bisogna ricordare quello dell’On. Sanguinetti che, dopo avere lamentato l’ingiustizia della legge che “spoglia il povero a favore del ricco”, giunge ad affermare, sempre per quella “giustizia” che egli evidentemente persegue con tanto fervore «di pretendere che Roma avrebbe dovuto imitare la città di Berna, la quale, per diventare capitale della Confederazione Elvetica, aveva versato allo Stato 500.000 lire a titolo di regalia» (da Camera dei Deputati, Atti Parlamentari, vol. V, seduta del 6 marzo 1881).

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economiche che lo aveva portato alla prima elezione, Pianciani si dimette dopo essersi rivolto direttamente alla cittadinanza con una sua “lettera ai romani”: «L’idea di fare i lavori che occorrono per Roma alla spicciolata, senza un concetto del suo insieme, non sarà mai la mia. Non vi accontentate di approvare un’opera o l’altra volta per volta; approvate un piano completo, armonico di quanto dovete fare; guardatevi dal designare, in previsione, categorie di lavori più o meno urgenti: riservatevi, anno per anno, il decidersi quali siano i lavori da farsi in quell’esercizio: giudicherete allora urgenti quelli che oggi non vi apparirebbero tali, o viceversa. Se farete altrimenti la città nostra sarà in continuo stato di riordinamento senza mai essere riordinata. Si continuerà come in passato a disfare oggi il fatto di ieri: si obbligherà il Comune a fare spese enormi che avrebbero potuto evitarsi o a rinunciare ad opere la cui utilità sarebbe pure evidente». Pianciani sostiene inoltre il diritto di espropriazione per pubblica utilità, uno dei cardini della politica e da sempre lo spettro dei proprietari terrieri, sul quale era naufragato il P. R. del 1873. Soprattutto esprime il suo desiderio di una città come centro di produzione, poiché «quando in una città sono riuniti forti capitali, sorgono le industrie, si moltiplicano gli opifici …». Pianciani, in altre parole, concepisce lo sviluppo futuro in termini di progresso sociale, complessivo, non soltanto di espansione edilizia, di convenzioni, di decreti. Nessuna meraviglia che, come già otto anni prima, Pianciani sia sconfitto sul terreno del nuovo P. R., affidato di nuovo al Viviani. Come otto anni prima, la maggioranza si schiera contro di lui su una questione di importanza irrilevante, quasi a sottolineare l’intransigenza dei gruppi di potere verso uno strumento che concepisce solo come emanazione propria, e non della cittadinanza. Pianciani viene sostituito, quale facente funzione di sindaco, dall’assessore duca Leopoldo Torlonia. Proveniente dalla Sinistra, ma orientandosi poco dopo verso la Destra, secondo una costante della vita politica e intellettuale italiana (l’eterno trasformismo, ancor prima di Agostino Depretis) è sem65

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pre stato dall’altra parte della barricata, essendo un ricco proprietario terriero, fautore delle scandalose convenzioni che erano la massima spinta durante il suo governo, dopo l’approvazione del nuovo P. R., diventata legge dello Stato l’8 marzo 1883. Gli indirizzi politici ed economici del Piano sono dettati da una commissione39, che fissa i criteri generali di massima e prevede lo sviluppo demografico della città di 5.000 abitanti per anno, tanto da raggiungere, nei 25 anni di attuazione del piano, la quota di 450.000 unità con un aumento della superficie urbana di 350 ettari e conseguendo, quindi, la densità di 500 ab. per ettaro40. Il maggior punto di frizione in seno alla Commissione risultò l’annosa questione dei Prati di Castello, ancora ignorati ufficialmente nonostante la costruzione di numerosi edifici, di vie e servizi concepiti senza alcun ordine, ma con palese disegno di profitto. Nella seduta del 16 giugno 188241, la Commissione enuncia la situazione esistente e gli obiettivi futuri: «Nei Prati di Castello, per opera di privati possidenti dei terreni, si sono venute costruendo fogne, strade, marciapiedi con alberature e con illuminazione a gas, nonché fabbricati, alcuni dei quali importanti o per mole o per decorazione». Ma il Comune è assente, pur avendo fin dall’anno 1873 studiato e approvato un piano di ampliamento. Le conseguenze sono intuibili: i proprietari, lasciati a se stessi, non stimarono di loro tornaconto seguire le linee del progetto municipale, tranne che per la direzione dell’arteria che chiamarono via Reale. A questa assegnarono soli metri 16. Quanto al resto, un autentico scempio: frazionati i loro terreni in piccoli spazi, divisi da strade piuttosto; fogne costruite nel modo più economico possibile, con la cunetta di 3 metri al di sotto dei piani stradali, mentre in tutti gli altri nuovi quartieri era di 6 metri, per bonificare il 39

Composta da Nobili, Vitelleschi, Ottoloni, De Rossi, Bianchi, Benassi, Bracci, Bompiani, Brassi, De Vecchis, vi prevaleva un indirizzo clerico-moderato. 40 La moderna urbanistica fissa come valore ottimale per aree intensive i 300350 ab. per ettaro anche se i quartieri popolari di Roma presentano densità superiori anche a 1.000 ab. per ettaro (nel quartiere della Magliana, al termine delle edificazioni, si raggiungerà ad esempio il valore di 1.800 ab. per ettaro, superiore di tre volte a quello fissato dal vigente piano regolatore). 41 Cfr. Municipio di Roma, Atti Consigliari, seduta del 16 giugno 1882.

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sottosuolo e facilitare gli scoli dei sotterranei e delle cantine delle fabbriche. Per valorizzare i terreni, a loro spese, i proprietari costruirono il ponte a Ripetta, ponendo la città in diretta comunicazione col nuovo quartiere. Naturalmente divennero più frequenti le domande dei terreni a destra del fiume. Le aree in breve tempo furono tutte vendute a speculatori. Era necessario risolvere una questione di principio. Si doveva includere nel piano di ampliamento la contrada di Prati di Castello? Contro l’inclusione, due considerazioni: non prendere alcun impegno di espropriare i terreni per le strade, impiantarvi i pubblici servizi, ecc., a meno che i proprietari di Prati di Castello non offrissero gratuitamente quei terreni, tenuto conto dell’aumento del valore fondiario dei terreni edificabili; i proprietari avrebbero dovuto attenersi alle indicazioni del piano, invece di costruire a loro arbitrio. Una volta, peraltro, che il quartiere, benché costruito non secondo le regole del Piano, fosse abitato, è chiaro che il Comune sarebbe stato costretto ad occuparsene e a provvedere perché la polizia, l’igiene, la sicurezza vi siano tutelate. La Commissione finì dunque per essere unanime nell’ammettere la necessità del Piano per il quartiere in Prati. A parte le pressioni di privati, esercitate sulle autorità per ottenere vantaggi nelle aree al di là del Tevere42, si verificarono numerosi tentativi di corruzione fra i tecnici comunali addetti alla valutazione delle aree da espropriare e addirittura lo stesso Leopoldo Torlonia si oppose alla vecchia proposta, ora ripresentata, di un quartiere industriale a Testaccio, ritenendo che «non può ammettere per massima che si renda obbligatorio 42 «Nell’elenco delle opposizioni al P. R., il signor Cahen, rappresentante del consorzio dei proprietari di aree ai Prati di Castello, ove sono state costruite per iniziativa privata parecchie strade, lamenta che il P. R. modifica una parte di dette strade; ritiene pertanto di reciproco interesse lasciare inalterato il tracciato attuale delle vie. Il Consiglio risponde che tali cambiamenti sono subordinati all’ubicazione del Palazzo di Giustizia. Qualora questo venisse destinato altrove, si rispetterebbero in generale le strade iniziate dai proprietari. Ad ogni modo, se le varianti recassero danni, la legge tutelerebbe gli interessati danneggiati non obbligando a modificare le opere da eseguirsi per pubblica utilità» (da: Municipio di Roma, Atti Consigliari, vol. XII, parte II; seduta del 9 agosto 1882).

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l’impianto di stabilimenti industriali in un dato quartiere». Ciò naturalmente per difendere i terreni posseduti dai Torlonia in quella zona43.

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8. La vittoria degli interessi privati Il nuovo piano regolatore è una fotocopia di quello precedente e ne accoglie le determinazioni. Si è conclusa la vendita del “Demanio Pianciani”44; la via Nazionale è interamente costruita; è tracciata la lottizzazione al Celio, anche se le case costruite non sono più di una decina (un sistema già sperimentato in altre parti della città secondo il quale è sufficiente l’edificazione di poche costruzioni per costringere le autorità locali a provvedere ai servizi di urbanizzazione dei quali potrà usufruire l’intera lottizzazione che di conseguenza subirà una valorizzazione fortissima senza alcun esborso di capitali da parte degli «accorti» speculatori). Le previsioni del piano riguardano la realizzazione di quartieri45, da edificarsi sull’Aventino, “allora contrada quasi deserta”, in modo da «provvedere alla continuità dell’abitato e collegare alla Bocca della Verità, ai Mercati, al Campidoglio e al Celio il quartiere operaio e industriale di Testaccio, che altrimenti resterebbe isolato e quasi impedito di partecipare alla vita giornaliera cittadina», nella zona Flaminia, fuori Porta del Popolo, fra la sinistra della via Flaminia e il fiume. «La sua ragione sta nel 43

Cfr. Municipio di Roma, Atti del Piano Regolatore, seduta del giorno 9 agosto 1882. 44 Con la frase “demanio di Pianciani” si intende definire tutte le aree acquistate dal Comune mediante espropriazione e fornite di opere di urbanizzazione in modo da essere rivendute ai privati costruttori, mettendo in tal modo a frutto le somme immobilizzate dal Comune. Le zone interessate da tale intervento furono due: l’area compresa fra le vie Bixio e Manzoni, ove sorgono ancora case di abitazione edificate da cooperative private, e la zona tra le vie della Consulta e Magnanapoli, attorno alle vie dei Serpenti e Nazionale (ma qui probabilmente l’operazione di demanializzazione riuscì appena ad uscire dalla fase dell’impostazione). 45 La superficie investita da tale previsione era all’Aventino di 22 ettari per oltre 10.000 ab., con densità 460 ab. per ettaro; nella zona Flaminia 18 ettari per 9.000 ab. pari a 500 ab. per ettaro; a Testaccio circa 12 ettari per 6.000 ab., pari a 500 ab. per ettaro.

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fatto che la privata iniziativa l’ha trovato opportuno per la fabbricazione di nuove case». Questa esplicita dichiarazione dell’autorità comunale sta a dimostrare la sua sudditanza ai voleri di taluni privati, i quali vedono nello sviluppo urbano esclusivamente la fonte di sempre maggiori guadagni. Un altro episodio della sopraffazione privata si ha proprio a proposito del quartiere operaio di Testaccio, in gran parte sottratto alla sua originaria destinazione industriale per iniziarvi l’edificazione di abitazioni in modo da “compensare” i proprietari degli espropri, che devono subire per l’installazione delle attrezzature annonarie. Testaccio46 è l’esempio più evidente dell’incapacità di realizzare un quartiere operaio valido e non un quartiere di poveri, nonostante che si avverta il problema più angoscioso della periferia 46 È interessante riportare le considerazioni sullo sviluppo del quartiere Testaccio che Italo Insolera svolge nel suo libro Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica e che si possono facilmente estendere a tutti i quartieri: «Per trent’anni Testaccio visse in uno stato di provvisorietà; socialmente e urbanisticamente le conseguenze di questo fatto accompagneranno tutta la vita del quartiere. 30 anni significa che i primi padri entrati nelle case di Testaccio erano diventati nonni, che i primi nati avevano già finito i servizio militare. Tutta una generazione aveva vissuto in un quartiere provvisorio, in un mezzo quartiere senza, tra l’altro, la scuola. Questo lunghissimo periodo patologico non può non avere avuto una grande influenza sulle persone che lo hanno vissuto: escluse da quella pienezza di vita cittadina facilmente ottenuta da altri, costretti a uno sforzo continuo, a un dispendio di energie e di beni, per completare singolarmente le mancanze collettive. Anche i quartieri hanno un’età e non si può mutare la loro crescita, il loro invecchiamento, senza alterarne la struttura e la conformazione […] Gli scambi di popolazione attutiscono naturalmente l’andamento dei fenomeni di crescita, di invecchiamento dei quartieri; dopo tre o quattro generazioni al massimo, tutti i fenomeni si presentano pareggiati e omogenei. Ma non è così nei primi anni: e sono proprio questi i più determinanti. Bisogna che un quartiere sia pronto ad offrire fin dai primissimi tempi tutto ciò che occorre per lo svolgimento pieno della vita, delle funzioni che in esso si sviluppano e si svolgono. E bisogna poi, mano a mano che gli abitanti mutano di età e di necessità, che il quartiere li accompagni e muti con loro e per loro i propri servizi, la propria organizzazione. Altrimenti è scontato in partenza il fallimento del rapporto tra l’abitante e l’abitato; senza la quale unità manca la vera partecipazione ai diritti della nostra civiltà urbana».

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di Roma: l’inesistenza delle fonti di lavoro, la mancanza di un rapporto topografico chiaro tra residenza e lavoro47. La vanificazione di questo programma sembra dovuta all’assoluta mancanza di interesse da parte del capitale privato per un investimento assai meno lucroso di quello che si indirizza verso i ceti più agiati. A parte la definizione dei nuovi quartieri, l’accoglimento di quello di Prati e la bonifica del Ghetto48, il P. R. si preoccupa di soddisfare le clausole della legge per il concorso finanziario dello Stato (cui si aggiunge il cospicuo fondo di dotazione di 150 milioni dovuto alla legge del 1883), concernenti l’ubicazione degli edifici pubblici, disposti secondo tutte le direzioni previste dalle linee di sviluppo urbano, ad evitare un accrescimento di valore delle aree di un quadrante rispetto agli altri in ossequio alle “tacite” regole imposte dai proprietari. In base a questa miope politica di decentramento delle funzioni amministrative si “dispongono” ai Prati di Castello il Palazzo di Giustizia e quattro caserme, al Macao altre attrezzature militari, al Celio l’ospedale militare, a via XX Settembre il Ministero della Guerra, a via Nazionale il Palazzo delle Esposizioni, a piazza Vittorio Emanuele l’Archivio di Stato, a Porta Maggiore il Policlinico, costellando così la pianta di Roma di tanti punti singolari che potrebbero essere assunti come centri di addensamento degli interessi economici privati nelle varie zone della città. Il P. R. del 1883 piace ovviamente ai detentori di cospicui capitali, perché valorizza le aree convenzionate e quelle da convenzionare. Promette inoltre nuove speculazioni nel territorio suburbano in cui si va sviluppando la corsa alla compravendita 47

I. Insolera, op. cit., passim. Per la zona del Ghetto la relazione del piano riporta la necessità di «demolizione dell’attuale quartiere che giace nella più depressa e umida zona della città ove circa 4.000 persone sono agglomerate in uno spazio che non dovrebbe contenerne che una quota parte, e in case mal distribuite, di cattiva costruzione, anti-igieniche, intramezzate appena di luridi vicoli […] Il tollerarlo più oltre sarebbe cosa contraria all’umanità e alla civiltà […] Il piano prevede il risanamento del terreno, il suo innalzamento e la costruzione di case per 1.000 ab.» (cfr. Municipio di Roma, Atti Consigliari, seduta del 16 giugno 1882). 48

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di aree, anche perché non vi è dazio sui materiali da costruzione e gli affaristi possono altresì beneficiare di due importanti facilitazioni: la mancanza di un P. R., che permette ogni abuso, e l’esenzione decennale dalle tasse per le nuove costruzioni. Questo «felice paradiso» attrae rapidamente le banche, i costruttori, le società, che lasciano in disparte le aree interne alle mura per le nuove, più redditizie speculazioni, fidando (e sempre a ragione) sull’acquiescenza comunale per ottenere in seguito tutti i benefici derivanti dalle opere di urbanizzazione. Vengono iniziati quindi lavori in 10 nuove zone suburbane creando i primi nuclei dei futuri quartieri: Nomentano, Salario, S. Lorenzo, Pinciano, Portese, S. Giovanni, Flaminio, Trionfale. Interessano una superficie di 898.000 ettari, molti dei quali comprendenti ville e parchi privati che creavano delle vere oasi nel panorama urbano e che avrebbero dovuto porsi come dei diaframmi tra le direttrici di espansione fornendo in tal modo la struttura ordinatrice dello sviluppo di Roma. Tra le numerose ville e vigne private sacrificate dai proprietari sull’altare della speculazione si possono ricordare le Ville Torlonia, Patrizi fuori le mura verso Porta Pia, Villa Montalto all’Esquilino, Altieri, Astalli, Giustiniani a San Giovanni, Albani ridotta di dimensioni ed ancora minacciata, nonostante il vincolo del P. R. generale, Massimo e Ludovisi, la più famosa di tutte per la bellezza dei suoi alberi e dei suoi viali. La distruzione di questo capolavoro della scuola paesaggistica del ’700 è sintomatico: dà la misura della mancanza di scrupoli dei proprietari e dell’ignavia o della connivenza delle autorità capitoline. A riprova, basti pensare che il piano del 1883 prevedeva l’intangibilità della villa, ma, nonostante le relazioni del Viviani, il principe Rodolfo Boncompagni Ludovisi stipulò nel 1886 una convenzione49 con il Comune e la Società Generale 49

«Convenzione con la Soc. Gen. Imm. in ordine alle sistemazioni stradali del nuovo quartiere già Villa Ludovisi». «Il comm. Giuseppe Giacomelli, amministratore della Società Generale Immobiliare e nella qualità di Procuratore Generale di S.E. Don Rodolfo Boncompagni Ludovisi principe di Piombino, presentava un progetto di quartiere nella Villa già Ludovisi, in base al quale si proponeva di fare eseguire le nuove costruzioni.

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Immobiliare per la lottizzazione dell’area e per la costruzione L’Amministrazione, nell’intento di favorire l’iniziativa privata e ad un tempo di tutelare il suo diritto di disciplinare la costruzione dei nuovi quartieri nei rapporti edilizi, di viabilità, di igiene e di economia, non esitò di far conoscere con quali norme e a quali condizioni avrebbe consentito alla costruzione del nuovo quartiere. Queste norme sono le stesse che dopo lunga e matura discussione vennero approvate da una Commissione scelta nel seno del Consiglio fra le persone che avevano una speciale competenza in materie giuridiche, amministrative e igieniche. Dopo molte pratiche intercedute fra la Società e l’Amministrazione, sia per appianare le difficoltà planimetriche ed aritmetiche del nuovo quartiere, sia per persuadere la Società degli obblighi ad esse spettanti, si addivenne al compromesso che fa seguito e che dalla Giunta venne unanimemente approvato, sia perché utile alle finanze comunali, sia, e molto di più, perché col medesimo vengono confermate e tradotte in atto le norme suddette. Nella fiducia che il Consiglio vorrà sanzionarlo con la sua approvazione, la Giunta glielo propone domandando l’autorizzazione a compiere gli atti ulteriori per la stipulazione del contratto definitivo». Segue quindi il “Compromesso per l’edificazione di un quartiere di abitazione di ragione privata nella Villa già Ludovisi”, Compromesso che prevedeva i seguenti punti: «1) Il Comune di Roma darà licenza al Comm. Giacomelli, quale amministratore delegato della Soc. Gen. Immobiliare e rappresentante del sig. principe di Piombino, di edificare un quartiere di abitazioni nella villa già Ludovisi, secondo il tipo allegato A […]. 2) Il Comm. Giacomelli eseguirà a sua cura, spese e pericolo, con quell’ordine e quel tempo che reputerà di suo interesse, i lavori per le sistemazioni di tutte le strade del nuovo quartiere, eccetto le due di interesse pubblico, per le quali provvedono i successivi articoli da 16 a 10. Tali lavori comprendono: a) il movimento di terra per disporre i piani stradali secondo le livellette risultanti dalle ordinate altimetriche scritte sulla pianta, e riferite all’idrometro di Ripetta; b) le fogne a lungo sotto gli assi delle strade per l’accolta delle acque fluviali e degli espurghi delle case; c) i fognaioli dalle fronti delle case alle fogne, da costruirsi o direttamente o per mezzo dei cessionari dei lotti fabbricabili quando vi edificassero; d) il consolidamento della partita carrabile con pietrisco e ghiaia e la selciata delle fiancheggiatore; e) i marciapiedi con sottoposto cunicolo e con ciglio di travertino, ove saranno intagliate le bacchette di scolo, sistemando il piano dei marciapiedi stessi o con asfalto o con ghiaiuola. 3) Tutti gli indicati lavori dovranno essere eseguiti in conformità dei tipi, che a seconda del progresso del quartiere saranno consegnati al Comm. Giacomelli dall’Amministrazione municipale, e che saranno compilati con le stesse norme di quelli adottati dal Comune per gli altri quartieri. 4) Siccome i lavori suddetti hanno per iscopo di agevolare non solo l’edificazione del quartiere stesso e delle singole abitazioni, così il Comune, mediante il

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di case per abitazione. Al posto dei bellissimi viali ombrosi di querproprio ufficio d’arte, ne sorveglierà l’esecuzione e avrà il diritto di sospenderli, ogni qualvolta si riscontrassero non conformi ai tipi e alle buone regole dell’arte. 5) Le strade del quartiere privato sistemate nel modo prescritto dovranno essere a cura e spesa del Giacomelli conservate in buono stato di manutenzione e di nettezza fino al momento in cui venissero cedute al Comune. Questa cessione potrà aver luogo progressivamente e il Comune si impegna a prendere in consegna le singole strade, quando si verifichino tutte le seguenti condizioni: a) che ogni strada o tronco di strada da cedersi si trovi in comunicazione immediata di una delle strade pubbliche, o di altra strada che fosse stata ceduta anteriormente; b) che almeno la metà della lunghezza complessiva dei 2 lati stradali compresi nella strada o tronco di strada da cedersi, siano coperti di fabbriche compiute ed abitabili; c) che i relativi lavori di fognatura e di sistemazione stradale siano previamente collaudati; d) che la cessione tanto dell’area stradale che dei manufatti, compresa la fogna, sia gratuita, intendendosi che il corrispettivo pel Comm. Giacomelli sta nel complesso dei vantaggi a lui procurati colla licenza del Comune a costruire un quartiere, che non era compreso nel piano regolatore, nel maggior valore acquistato dai lotti di terreno resi fabbricabili appunto dall’apertura di strade ben costituite e bonificate dalla fognatura; finalmente dall’assicurazione dei servizi pubblici, ai quali si sobbarca il Comune colla presa di possesso della rete stradale del quartiere. 6) Il sig. Comm. Giacomelli, contestualmente al contratto di convenzione, che fosse per stipularsi a seguito di questo Compromesso, cederà gratuitamente al Comune di Roma le aree cadenti entro il perimetro della villa, che occorrono per la strada longitudinale larga m. 20 diretta alla Porta Salaria e per l’altra strada trasversale larga m. 35 diretta alla Porta Pinciana, rimanendo la spesa dei movimenti di terra a carico del Comm. Giacomelli, salvo le disposizioni dell’articolo seguente. 7) In corrispettivo della predetta cessione, ed anche perché le due strade si considerano di interesse pubblico, il Comune concorrerà in sole £. 30.000 nella spesa del maggiore stesso occorrente pel cambiamento dell’ordinata, ed assumerà l’onere della fognatura e della sistemazione delle stradea stesse; ed il Comm. Giacomelli ne eseguirà i lavori in appalto, secondo i disegni e i modi che saranno stabiliti dall’ufficio d’arte municipale nel termine di 3 mesi dal contratto definitivo ed ai patti qui appresso specificati. 8) I lavori di conto del Comune per le due strade sopradette dovranno essere compiuti nel termine massimo di anni 3 dal giorno che il presente compromesso fosse tradotto in formale contratto, e saranno accreditati al Comm. Giacomelli coi prezzi della tariffa annessa al capitolato normale per gli appalti dei lavori stradali nella città, […] approvato dalla Giunta Com. con delibera del 16 luglio 1879 e con ribasso del 5% a titolo di tara e misura. Il suddetto capitolato, salvo in quanto sia modificato dai patti presenti, avrà forza di contratto e reggerà tutto l’appalto dei lavori. 9) L’importo dei lavori eseguiti dal Comm. Giacomelli per conto del Comune sarà provvisoriamente e approssimativamente liquidato alla fine di ogni anno a contare dalla data del contratto; e l’ammontare dei medesimi, comprese le £. 30.000 di

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ce e di allori tanto ammirati ed amati dagli scrittori straniecui all’art. 7 sarà pagato per 9/10 al Comm. Giacomelli se questi 9/10 non superino la somma di £. 100.000 e il resto si riporterà sull’anno seguente, di guisa che il Comune non sia mai obbligato a sborsare annualmente somma maggiore delle 100.000 fino a liquidazione finale dei lavori appaltati. 10) Il collaudo dei lavori avrà luogo nei modi stabiliti dal capitolo richiamato nell’articolo antecedente; dopo di che si farà luogo alla restituzione dei decimi o al pagamento delle eccedenza degli acconti dati anteriormente, sempre nella condizione di non superare annualmente le rate di £. 100.000. 11) Il Comune prende impegno, se il presente Compromesso riporterà le volute approvazioni, di fare senza ritardo tutte le pratiche per venire in possesso del terreno occorrente all’apertura e al prolungamento del viale diretto alla Porta Pinciana nel suo tronco inferiore sino all’alberata dei Cappuccini, in conformità dell’annesso tipo; e qualora occorresse ne domanderà la dichiarazione di pubblica utilità come aggiunta al piano regolatore; come pure prende impegno di provvedere in seguito nel più breve tempo possibile ai relativi lavori di sistemazione, senza però che dal Comm. Giacomelli possa giammai affacciarsi pretesa alcuna di risarcimento di danni o di compagni, per ritardo o lentezza delle pratiche, o anche nel caso che le pratiche stesse riuscissero infruttuose. Uguali pratiche si obbliga di fare con tutta sollecitudine il Comune domandando al caso la dichiarazione di pubblica utilità per venire in possesso del piccolo tratto dell’Orto di S. Isidoro, che andrebbe a cadere, secondo il tipo allegato, nella strada larga m. 20 assunta dal Comune stesso. 12) La licenza generale della costruzione del quartiere non esonera il Comm. Giacomelli, o i suoi aventi causa, dall’obbligo delle particolari licenze da ottenersi per le varie costruzioni, e per le singole case, il tutto a norma dei regolamenti di edilità, di igiene e di polizia municipale. 13) Tutti gli oggetti pregevoli per antichità, storia, arte o valore che si rinvenissero nell’esecuzione dei lavori, per ciò che riguarda le due strade che sono fatte a spese del Comune, si intendono riservati in assoluta proprietà del Comune stesso, che provvederà all’estrazione e al trasporto degli oggetti. Per le altre strade del quartiere, siccome quelle che devono essere consegnate al Comune soltanto dopo la costruzione, i proprietari di Villa Ludovisi intendono di riservare, come si riservano, in loro proprietà se e come loro spetta per diritto gli oggetti suddetti che vi si trovassero. 14) Tutte le spese di questo atto e della convenzione che fosse per seguirne, e quelle di registrazione, copie, ecc. saranno ad intero carico del Comm. Giacomelli. 15) Si dichiara che il presente compromesso è impegnativo soltanto per il sig. Comm. Giacomelli, ma non è ugualmente impegnativo pel Comune, fino a che non abbia riportate le approvazioni della Giunta, del Consiglio Municipale, e dell’autorità tutoria; e mancando una qualunque di tali approvazioni lo si riterrà come nullo o non avvenuto. Sarà invece tradotto in formale e definitiva convenzione non appena ottenesse tutte le sanzioni suindicate. Roma lì 29 gennaio 1886. L’Amministratore Delegato della Soc. Gen. Immobiliare, anche in rappresentanza del principe di Piombino: G. Giacomelli. L’Assessore municipale del Piano Regolatore: G. Balestra».

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ri si sostituisce il quartiere Ludovisi, completando il disegno dell’accerchiamento del centro, che si troverà ben presto chiuso completamente da un mare di costruzioni senza soluzione di continuità, in un processo di sviluppo sempre più indifferenziato. I successivi piani regolatori non potranno più modificare questa situazione. Di fronte alla nuova tempesta speculativa le autorità comunali devono ancora una volta arrendersi per l’accorta politica di penetrazione dei gruppi bancari negli uffici comunali e soprattutto in Consiglio, nel quale sono presenti addirittura alti dirigenti di istituti finanziari o di credito. Questo connubio tra potere pubblico e privato non può avere altro effetto se non quello di rendere vano ogni tentativo di mettere un freno alle iniziative apertamente contrarie agli interessi generali. Il deputato romano Valle lo riconosce esplicitamente in un suo discorso alla Camera: «Noi dichiarammo che non avremmo riconosciuto mai questi quartieri, né accordato i servizi pubblici. Ma si capisce che certe minacce è facile farle a parole, ma non è così facile mantenerle e quando bene o male quei quartieri cominciarono a sorgere, il Comune […] non poté esimersi da certi servizi pubblici come l’illuminazione e la spazzatura, e talora dal fare le fogne là dove mancavano»50. Gli anni che seguono l’adozione del Piano Regolatore sono caratterizzati da una frenesia di compravendita e di costruzioni51 notevole. Appare impegnato un giro di capitale enorme52, 50 Camera dei Deputati, Atti Parlamentari, seduta del 27 giugno 1890, Leg. XVI, sess. 4°; vol. IV, p. 4620. 51 Ghino Valenti a proposito del fenomeno di forte movimento nel settore delle aree fabbricabili, nota: «Si arrivò a considerare l’acquisto dei terreni fabbricabili non più come mezzo ma come fine. Da molti anni non si pensò più alla costruzione delle case, ma si fece consistere la speculazione nel comprare i terreni a un prezzo minore per rivenderli ad un prezzo maggiore. Si giocò al rialzo delle aree come alla borsa si gioca sul rialzo dei fondi pubblici …». Cfr. G. Valenti, A proposito della crisi edilizia della città di Roma, in «Giornale degli Economisti», vol. V, pp. 314-333. 52 Il numero delle opere pubbliche intraprese nel periodo 1883-1889 va aumentando anno per anno non tenendo conto del procedere delle costruzioni già iniziate che spesso subiscono ritardi proprio per le nuove intraprese. Nel 1883 sono iniziate 8 opere; nel 1884, 7; nel 1885, 10; nel 1886, 9; nel 1887, 13; nel 1888, 13; nel 1889, 2, per un totale di 72 (Il numero delle costruzioni registratesi nel 1889, esiguo ri-

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al centro del quale stanno poche società o istituti bancari53. Di fatto, questi controllano la maggior parte delle aree fabbricabili, provocando aumenti di prezzo puramente speculativi. Le banche seguono una politica fortemente espansiva, fornendo prestiti per le costruzioni ad interessi dell’8-9% con la garanzia degli stessi edifici da intraprendere, in un giro di cambiali che coinvolge tutta l’Italia e alcune nazioni estere (Francia e Germania)54. Il giro economico diventa sempre più grande, mentre aumenta la partita di cambiali, che costringe le banche ad una pesante azione di difesa dei propri portafogli edilizi. Nel settore pubblico si verifica un forte disavanzo nel bilancio comunale (una spesa di 127.000.000 di lire di fronte a entrate per 114.500.000), ma ciò non basta a frenare gli amministratori comunali55 nella corsa agli investimenti, fidando nell’aiuto dello Stato.

9. La crisi del 1887 La crisi scoppia nel 1887 e si può averne una prova in termini pratici nella forte stasi che subiscono le costruzioni del settore

spetto a quelli degli anni precedenti, è dovuto alla recessione verificatasi alla fine del 1887, i cui effetti si riscontrano subito nel settore degli investimenti pubblici). 53 Fra le grosse società e istituti bancari si ricordano: la Compagnia Fondiaria Italiana, la Banca Generale, la Banca Romana, la Banca Tiberina, la Soc. Generale Immobiliare. 54 La terza emissione del prestito del Credito di Roma, per soli 10.000.000 di lire riservati all’Italia e alla Germania, raccolse una sottoscrizione di 103.000.000 con un’alienazione dei titoli ad un tasso di 90,95%. La quarta emissione del maggio 1886 di 36.000 obbligazioni, pari a £. 18.000.000, raccolse una sottoscrizione di 66 milioni. La quinta emissione del marzo 1887 di 48.000 obbligazioni, pari a 24.000.000, trovò 400.000 sottoscrittori di cui 147.000 a Londra e 135.000 a Berlino fruttando £. 22.140.000 a quote di 95,25%. La sesta emissione del marzo 1889 di 54.000 obbligazioni, pari a £. 27.000.000, fu ceduta a 92,50% ritraendone £. 25.000.000 (cfr. F. Clementi, Roma accattona, Roma, Enrico Voghera Editore, 1902). 55 «Una sospensione di lavori – diceva l’assessore Re – è impossibile […] Bisogna anzi affrettare l’esecuzione e il compimento perché nelle condizioni attuali la massima attività è imposta al Comune» (cfr. Municipio di Roma, Atti Consigliari, seduta del 14 luglio 1885).

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privato56 a seguito del mancato sconto delle cambiali sui mercati stranieri, soprattutto in Francia, dopo la rottura delle relazioni economiche. A seguito di questa brusca interruzione di un sistema ormai consolidato, si sviluppò una catena di reazioni che coinvolse un numero sempre maggiore di fallimenti di varie banche e istituti finanziari che avevano accreditato il movimento in loro favore e con la loro garanzia. A questo collasso finanziario segue un contraccolpo fatale per le industrie (soprattutto quelle dei materiali da costruzione)57 e per il commercio per i quali si inaridì di un tratto ogni fonte di credito dopo le larghe aperture finanziarie degli anni precedenti. Una tale situazione di crisi trae la sua primaria ragione per alcuni autori58 nella fabbricazione spinta a livelli sproporzionati alle esigenze locali, per altri (ad es. Caracciolo) nella sovrabbondanza relativa di alloggi, cioè una situazione di mercato satura per l’offerta di abitazioni di tipo mediosuperiore, mentre del tutto deficitaria in quello di tipo economico-popolare di fronte ad una richiesta fortissima proveniente dai ceti proletari. Tra le due concezioni di tipo assoluto per Valenti e relativo per Caracciolo, è evidente la diversa importanza econo56 Su 470 cantieri in attività, 88 risultano fermi nel solo mese di ottobre, 101 a dicembre, 149 nel 1° bimestre 1888, 180 nel bimestre marzo-aprile dello stesso anno. Alla fine dell’88, su 406 fabbriche, ne risultano sospese 200; nel settembre 1889, su 367, ben 220. 57 Nel settore dei materiali da costruzione erano largamente presenti i capitali finanziari che spingevano per una sempre maggiore edificazione; l’importanza di tali industrie nel panorama economico romano era notevole e a ciò basti ricordare che in esse trovavano occupazione oltre 12.000 addetti (cfr. Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, Elenco delle cave e fornaci in esercizio nei dintorni di Roma al 31 dicembre 1887, Firenze, 1889). 58 G. Valenti nota che in 6 anni, di fronte a 1.218 espropriazioni per demolizioni con conseguente allontanamento di 4.381 famiglie, si sono eseguite 2.194 ricostruzioni e ampliamenti e 1.366 nuovi edifici capaci di 115.277 ambienti, contro i 47.000 ambienti del periodo 1870-1882. La città ha pertanto un aumento degli abitanti di 190.000 unità (1870-’89) proporzione che il Valenti ritiene eccessiva. Lo stesso, esaminando il mercato degli affitti, rileva, contro la tendenza liberista ad aumentare al massimo i nuovi appartamenti onde produrre una riduzione dei prezzi di locazione, che «il ribasso avrebbe condotto in ogni caso al fallimento i costruttori, dato l’alto prezzo di acquisto delle aree e più ancora degli alti interessi accumulati dalle sovvenzioni, sì che per i più neppure una rendita netta del 10% sarebbe bastata a coprire il servizio dei prestiti» (cfr. G. Valenti, op. cit.).

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mica e soprattutto sociale che riveste la seconda perché analizza una situazione imputabile non ad un eccessivo sviluppo del sistema, sviluppo che si potrebbe teoricamente correggere, anche in regime liberista, con strumenti pianificatori o di riduzione degli incentivi, ma ad una caratteristica propria dell’economia capitalista, cioè quella degli investimenti nei settori a massimo indice di profitto59. Di fronte ad una situazione di recessione che peggiora di giorno in giorno, le autorità comunali si rendono conto della realtà deficitaria in cui versa l’economia della città. Finalmente gli amministratori si accorgono che la politica delle speculazioni, della corsa all’edificazione, ovunque e comunque, che ha visto in primo piano il sindaco Torlonia e i suoi assessori, non ha fatto altro che far precipitare una situazione «strutturale» per la città; si accorgono della trappola in cui hanno cacciato la finanza comunale accettando il prestito dei 150.000.000 dallo Stato, con le scadenze di pagamento che esso comportava60; si accorgono della politica anticomunale seguita dallo Stato in materia di espropriazioni61, che ha causato perdite incalcolabili. 59 La tendenza del capitale privato verso un mercato di abitazioni di livello superiore è riscontrabile in misura ancora maggiore anche in questi ultimi anni nei quali si verifica nuovamente un processo di crisi del settore dovuto alla mancanza di un efficace politica per la casa da parte dello Stato che contrasti il modello di sviluppo proposto dai costruttori privati. A ciò valga il solo dato degli investimenti pubblici nel settore edilizio, che sono scesi dal 23% del 1959 a meno del 6% di questi anni. 60 Il Consigliere Comencini rileva in assemblea: «Il Comune si troverebbe in condizioni eccellenti se non si fosse sottoposto al servizio di un prestito gigantesco per lavori edilizi. […] È giunta l’ora dei soccorsi». E l’onorevole Ruspoli: «Tutto quello che fu fatto non fu fatto per ragioni municipali, ma per ragioni di Stato». E l’onorevole Grimaldi: «Anche ad ammettere che Roma fosse diventata un Eldorado, essa non avrebbe potuto presentare un aumento di attività tale da coprire le tasse, gli ammortamenti, gli interessi del prestito» (cfr. Municipio di Roma, Atti Consigliari, sedute del 27 e 30 giugno 1890). 61 Per le espropriazioni si può rilevare che, mentre tra i prezzi offerti e quelli concordati tra Comune e proprietari non si riscontra che una differenza dell’11%, fra quelli offerti e quelli pagati per sentenze dei tribunali dello Stato la differenza sale al 48%; inoltre, i prezzi di esproprio pagati dal Comune vanno da £. 400 a 800 al mq., mentre per le espropriazioni eseguite dallo Stato per mezzo del Genio Civile i prezzi superano £. 1.000 al mq. (cfr. Camera dei Deputati, Stampati della Camera, XVI sess. 4, «Relazione della Commissione Ministeriale per l’inchiesta sulla situazione del Comune di Roma»). È per lo meno strana la diversità di trattamento

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La crisi che colpisce le banche, i piccoli e grossi imprenditori, le società di costruzioni, getta sul lastrico soprattutto i lavoratori dei cantieri e delle fabbriche di materiali. Sono 70.000 persone che non trovano lavoro e si affollano ai banchi di pegno e alle opere di assistenza e sfilano nei cortei per chiedere di riprendere l’attività e tumultavano nel centro cittadino (8 febbraio ’89) facendo così il gioco dell’autorità: a chi chiede pane e lavoro si offre una bella carica di regi carabinieri o un foglio di via per essere rispedito al paese. Ai lavoratori edili la città dà il benservito, dopo avere negato un’abitazione a loro che faticavano tutto il giorno per fornirla ai suoi abitanti. A loro la città aveva concesso di servirsi come alloggio di caratteristiche arcate, di sottoponti, di loggiati di chiese e conventi oppure, ai più fortunati, di una bella baracca fuori le mura, magari costruita dalla stessa amministrazione comunale, al Mandrione, a Porta Portese, poi fuori Porta S. Giovanni, Porta Maggiore, a viale della Regina, al Trionfale alla stazione di S. Pietro, al Ponte Nomentano, cioè dove la città costruita non era ancora arrivata. Negli anni in cui si edificava la nuova grande Roma si formava spontaneamente una Roma parallela, una città ai margini della vita dell’altra, il prodotto più evidente di un sistema per il quale sono necessarie le baracche. I quartieri di tono medio-elevato e ogni possibile intervento urbanistico appare soltanto come un fatto sovra-strutturale e quindi già inserito nel contesto del profitto, che di fatto lo promuove, non per risolvere il problema ma per spostarlo geograficamente o temporalmente.

offerto ai proprietari delle aree da espropriare dalle due autorità e visti i risultati delle transazioni tra Comune e privati bisogna concludere che gli organi tecnici dello Stato gonfiavano i prezzi di rimborso.

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VI. L’esclusione sociale delle classi subalterne

Roma inizia nell’ultimo ventennio del sec. XIX un processo di diversificazione spaziale in funzione del ceto sociale e soprattutto del grado di inserimento nel ritmo produttivo urbano, vale a dire di tutti quei rapporti di maggiore e minore integrazione che nascono da strutture di tipo economico. Da una parte, quindi, abbiamo i baraccati, che non hanno un legame di lavoro sicuro, costante con la cittadinanza, che sono «sospesi fra mondo cittadino che si dissolve e una cultura industriale che tarda a crescere»; dall’altra, le classi invece completamente inserite. Verso le nuove abitazioni dei quartieri Rinascimento, Ludovisi, Prati si dirige prevalentemente una richiesta di tipo borghese, impiegatizia e commerciale. Nelle zone centrali non ancora bonificate, nelle vecchie case a due o tre piani di Parione, di Trastevere e della Suburra continua invece ad abitare “il popolo”, che ha mantenuto il senso dell’antica città pontificia, non avendo subìto praticamente lo scossone degli anni dopo Porta Pia soprattutto per la continuità dell’occupazione sempre di tipo artigianale (fabbri, carrozzieri, osti, ebanisti, bottai, piccoli negozianti). Ai margini della città costruita si dirigono le richieste del ceto operaio, organizzato in cooperative e associazioni di mutuo soccorso, che costituisce la punta del movimento dei lavoratori romani. È proprio dall’azione unitaria degli operai sul problema della casa che nasce una alternativa alla Roma dei gruppi finanziari e delle speculazioni. Si pone in atto un tipo di sviluppo della città che ha origine dal basso, dalla constatazione di una comunanza di lavoro e di interessi, e quindi di solidarietà. Sono i ferrovieri, i tranvieri, i netturbini che organizzano le cooperative edilizie per 80

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la costruzione di case economiche, dando vita ai quartieri di S. Croce e del Tiburtino. Traggono la loro motivazione urbanistica dalla vicinanza col quartiere delle attrezzature e dei pubblici servizi che si era andato formando, fuori piano e in alternativa a quello di Testaccio, nella zona di Porta Maggiore, costituendo il nucleo industriale1 più compatto e confuso della città, che nessun intervento riuscirà mai a recuperare a livelli di accettabile organizzazione. Negli anni dopo la grande crisi l’economia romana tenta faticosamente di riprendersi. Come sempre, al primo posto nel panorama industriale sono le compagnie che forniscono i servizi urbani2, ancora controllati dai gruppi clericali, quegli stessi che formavano il governo della città. Nel settore dell’edilizia pubblica praticamente si tira avanti per 15 anni, durante i quali vengono inghiottiti i fondi delle leggi del 1882 e del 1883 senza peraltro giungere al completamento delle opere previste dal P. R.3, spesso derogando ad esso, come l’apertura di Viale del Re (ora Trastevere) che, proseguendo le direttrici indicate dal nuovo Ponte Garibaldi, collega la stazione ferroviaria di Trastevere con la parte 1 Nella zona di Porta Maggiore, sulla via Casilina e Prenestina, si erano formati lo scalo merci, i serbatoi idrici degli acquedotti, i depositi dei tram, degli autobus, della nettezza urbana, gli stabilimenti della Cisa Viscosa e delle officine Tabanelli per la manutenzione dei mezzi pubblici. La tendenza a concentrare in tale zona le attività industriali si è mantenuta nei successivi decenni con la costruzione del pastificio Panzanella. 2 È potenziato il servizio della distribuzione dell’energia elettrica iniziato a Roma nel 1891 con l’introduzione delle prime 45 lampade, mentre nel 1900 cominciano a circolare i tram elettrici. 3 Sono realizzati in quel periodo il risanamento del quartiere dell’Oca presso piazza del Popolo, quello del Ghetto, continua la costruzione del Palazzo di Giustizia e del monumento a Vittorio Emanuele II anch’esso previsto nel P. R., che comportò la distribuzione di parte del Colle Capitolino e una serie di sventramenti e di spostamenti di edifici, si lavora sotto il Quirinale per il traforo che collega via Nazionale alla nuova arteria del Tritone che ha provocato la valorizzazione delle aree occupate dalle ville di cui ci siamo precedentemente occupati. Sono eseguiti sventramenti e trasformazioni arbitrarie che hanno cambiato le fisionomia del nucleo antico della città, mentre nel settore Sud, ove maggiormente si verificano i segni di una ripresa dell’attività edilizia, prendono forma alcune opere viarie che avranno grande influenza nelle successive fasi dell’ampliamento: viale Tiziano, viale Parioli, viale Liegi, via dell’Acqua Acetosa.

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centrale della città, costituendo la dorsale della futura edificazione verso il settore Sud. Nei nuovi quartieri rimasti incompleti per la crisi edilizia degli anni precedenti vivono malamente decine di migliaia di persone in una assoluta mancanza di servizi, che il Comune non era in grado di fornire. I primi anni del nuovo secolo propongono per Roma la possibilità nuova di organizzarsi efficacemente, di difendersi dalla speculazione fondiaria e quindi da coloro che, perseguendo un obiettivo di massimizzazione del profitto, spingono la città a scelte particolaristiche impopolari. Attribuire al suolo la magica parola di “edificabile” significa aumentarne il valore, non attraverso un miglioramento prodotto dal lavoro e quindi giustamente remunerabile, ma attraverso una convenzione divenuta norma d’uso sulla cui scia si possono poi verificare tutte le infinite azioni di pressione, di corruzione, di prevaricazione per fare della città non più che “uno strumento di accumulazione e di profitto”4. Con le leggi dell’8 luglio 1904 e 11 luglio 1907, lo Stato consente infatti alla comunità urbana di riprendere i vantaggi della “fabbricabilità”, vale a dire dell’aumento di valore non attribuibile al singolo proprietario5. Dal punto di vista urbanistico viene sancito, sempre sul metro della precedente concessione, che la fabbricabilità e la non-fabbricabilità dei suoli è stabilita dal P. R., e quindi questo strumento pianificatorio costituisce la base del nuovo sistema di tassazione e del meccanismo di indennizzo in caso di espropriazioni delle aree da parte delle autorità comunali o statali6. 4

R. Ledrut, Sociologia urbana, Bologna, Il Mulino, 1969, passim; si vedano anche i lavori di Paolo Guidicini, Franco Martinelli, Giandomenico Amendola. 5 Legge 8 luglio 1904, n. 320. L’art. 7 della legge 11 luglio 1907, n. 502 recita: «Agli effetti della presente legge sono considerate quali aree fabbricabili tutte quelle comprese nel perimetro del nuovo piano regolatore della città». 6 Per quello che riguarda la tassazione delle aree fabbricabili, l’art. 8 sancisce: «L’accertamento degli enti soggetti alla tassa sulle aree nel Comune di Roma sarà fatto in conformità a denuncia del proprietario, il quale dichiarerà con effetto non variabile per tutti i 25 anni di durata del piano regolatore suddetto, il valore da attribuirsi all’area. All’omissione della denuncia suppliranno le autorità comunali con accertamento d’ufficio, da farsi in base al regolamento da approvarsi per decreto

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Queste leggi rappresentavano per Roma la prima possibilità di recuperare parte dei capitali profusi dal Comune per valorizzare le zone più distanti e disparate della città e soprattutto di evitare o almeno di limitare il ripetersi di quella corsa al rialzo delle aree che era stata una delle cause della crisi. In questo panorama di rinnovamento nella vita politica e cittadina si verifica la sconfitta subita nelle elezioni amministrative del 1907 dai conservatori clericali e dai loro alleati (che detenevano il monopolio dell’assemblea capitolina dai tempi del sindaco Pianciani) per opera del “blocco popolare”, formato dalla confluenza di radicali, repubblicani e (fino al 1911) dai socialisti che porterà alla carica di sindaco Ernesto Nathan, un mazziniano alto esponente della massoneria, presentato isolatamente come proprio candidato da “Il Messaggero”. Questo cambiamento nella gestione del potere costituisce un fatto importante. Segna infatti un deciso mutamento negli indirizzi e negli obiettivi dell’Amministrazione, soprattutto nei riguardi del problema della tassazione delle aree, su cui evidentemente si scontrano due opposte posizioni: quella della grossa proprietà fondiaria e dell’ambiente cattolico più conservatore, da sempre alleato con quel settore economico; quella favorevole, cui fanno capo le correnti laiche e democratiche, genericamente collegate al “blocco Nathan”. Per la prima volta, a parte il breve periodo del sindaco Pianciani, si vede a Roma un’amministrazione contraria all’azione dei gruppi che tradizionalmente detengono il potere economico della città, potere che va dall’edilizia alle banche, alle società dei servizi, in un’organizzazione che ha come fondamento strutturale il monopolio dei suoli urbani7. reale». Per quanto riguarda l’esproprio, l’art. 9 sancisce: «Il municipio di Roma è autorizzato ad espropriare le aree fabbricabili comprese nel perimetro del nuovo P. R. ad un prezzo corrispondente al valore dichiarato dal proprietario delle aree agli effetti della tassa sulle aree stesse e in mancanza di tale dichiarazione al prezzo corrispondente al valore accertato d’ufficio ai sensi dell’articolo precedente». 7 Nell’elenco delle proprietà fondiarie redatto dal Comune in applicazione alle nuove leggi si può trovare un quadro riassuntivo della proprietà delle aree che si può dire concentrata nei portafogli di 6 compagnie finanziarie per oltre il 50% della superficie investita dal P. R. (929.000 mq.): 1) Soc. Italia per Imprese Fondiarie, 89.000 mq.; 2) Soc. Gianicolo, 142.000 mq.; 3) Soc. Italia per il Commercio degli Immobili, 115.000 mq.; 4) Banca d’Italia

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L’applicazione delle norme tecniche riguardanti le aree è condizionata esplicitamente, come si è notato, all’esigenza di un nuovo P. R. (in sostituzione di quello del 1883 prossimo alla scadenza del suo periodo 25ennale di validità) che viene affidato dal Sindaco ad un ingegnere milanese, Edmondo Sanjust di Teulada, capo del Genio Civile di Milano. L’ing. Sanjust cerca di associare la Giunta presente, quella futura e quanti si interessano alla città, permettendosi di aggiungere una raccomandazione8 ad agire al di fuori di ogni sterile polemica. Il piano del 1909 prende le mosse da un esame obiettivo della realtà, condizionata in parte dal precedente strumento urbanistico e in più larga misura da tutti quegl’interventi legali o illegali che praticamente hanno organizzato la città al di fuori di ogni previsione. Non tenta, in altre parole, alcuna azione che possa e Istituto Romano Beni Stabili, 87.000 mq.; 5) Soc. Gen. Imm., 86.000 mq. (di cui 47.300 appartengono a un suo consigliere, Vittorio Bardi); 6) Eredi Weil Weiss, 23.000 mq. 8 «In qualche città italiana ove la vita è più intensa che a Roma ed in molte città estere ove il progresso è stato rapido e fortunato, i lavori che riguardano l’edilizia cittadina sono rapidamente decisi e più rapidamente condotti. Raramente si vedono, in città veramente progredite, i tentennamenti e le oziose, talora acri discussioni che accompagnano a Roma l’esecuzione di qualsivoglia lavoro importante. Dicesi da molti che le discussioni più vive sorgano per l’amore dell’arte, anzi per la suprema ragione della sua difesa. Non lo credo, e non lo credo perché la conseguenza di tale deplorevole sistema non è stata la difesa dell’arte; ma talora la sua completa disfatta. Io adunque vorrei che si discutesse ponderatamente le più gravi questioni, queste fossero risolte con rapidità da chi è competente di farlo: e una volta risolto ne fosse la risoluzione onestamente accettata da tutti, amici ed avversari, e non fosse l’attuazione continuamente insidiata da coloro che vorrebbero una soluzione diversa e che non sanno acconciarsi a quella prescelta. Quando a Roma si potrà lavorare liberi da questo genere di ostruzionismo che paralizza le migliori iniziative, si sarà fatto un passo più importante di qualsiasi studio di piano regolatore. Mi auguro adunque che le questioni che inevitabilmente sorgeranno nell’esecuzione di questo immenso lavoro, siano alte ed ispirate a quel santo rispetto per l’arte che dovrebbe essere il retaggio di tutto il popolo d’Italia, e che a queste proficue discussioni segua, senza ostacoli e senza battaglie, la più rapida e fortunata esecuzione. Roma, 22 ottobre 1908». Dalla “Relazione al Piano Regolatore e d’ampliamento della città di Roma” presentata dall’ingegner Sanjust al Consiglio Comunale il 22 ottobre 1908 (Atti Consigliari); su Ernesto Nathan, cfr. M.I. Macioti, E. Nathan, un sindaco che non ha fatto scuola, Roma, Ianua, 1983.

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impedire il processo dell’espansione a “macchia d’olio”. L’unico tentativo di evitare la completa dequalificazione dell’ambiente si attua cercando di spezzare la monotonia di un’informe distesa di caseggiati sempre della stessa altezza, senza soluzioni di continuità. In questo senso il P. R. affida la sua validità alla diversificazione dei tipi edilizi9 abitativi che permettono di variare la scala urbana tentando di dare anche alle nuove zone quel carattere di varietà che è riscontrabile nei vecchi quartieri. Pur senza innovazioni rivoluzionarie, senza andare a colpire i grossi interessi, il piano, come al solito, viene assalito da tutte le parti ed in particolare il colpo mortale è dato dai proprietari delle aree con destinazione d’uso di minore densità (“villini” e “giardini”). Con l’accoglimento delle loro richieste da parte della nuova Amministrazione, che sostituirà quella Nathan, sconfitta alle elezione del 1914 da una coalizione di clericali, di moderati e di nazionalisti, si apre una nuova fase per la città, quella della «palazzina»10, che praticamente costituisce l’elemento base 9

I tipi edilizi previsti dal P. R. del Sanjust erano tre: 1) “Fabbricati” che, tenuto conto dell’ampiezza delle strade antistanti, possono raggiungere i m. 24 di altezza; 2) “villini” che possono avere solo due piani oltre quello terreno e sono circondati da piccoli giardini; 3) “giardini” sui quali possono essere costruite abitazioni di lusso con percentuale di occupazione non maggiore al 20%. Le principali zone destinate ai «fabbricati», quelle, per intenderci, che il Sanjust considera intensive, sono cinque e coprono complessivamente 615 ettari: Piazza d’Armi – ceduta dallo Stato al Comune –, Flaminio, Salario, quella a Nord del Verano e quella fuori Porta S. Giovanni, alle quali sono da aggiungere altre aree minori maggiormente decentrate per complessivi 195 ettari. Le zone destinate a «villini» sono quelle dell’Aventino, S. Saba, Gianicolense ed altre a ridosso di una strada di circonvallazione orientale. Quelle a «giardini» coprono le aree ancora inedificate del settore Nord orientale, tra la Salaria e l’attuale piazza Bologna; a Nord, tra la Salaria e la Flaminia; e a ad Ovest, le Alute Gianicolensi. Secondo i calcoli del Sanjust le zone a «fabbricati» assorbiranno i ¾ dell’incremento di popolazione previsto in circa 400.000 persone nei 25 anni di validità del P. R., mentre le altre due zone ne assorbiranno il restante quarto. 10 La “palazzina” è una tipologia di invenzione dell’Ufficio Tecnico Comunale che consiste in una costruzione di quattro piani che può raggiungere i m. 19 di altezza, salvo parziali sopra-elevazioni che “rendano armonico e variato il profilo dell’edificio”. Il giardinetto, rispetto a quello dei villini si riduce a meno di 6 metri di profondità e scompare del tutto verso la strada. È evidente la maggiore redditività per i proprietari rispetto al tipo “villini”, la sostituzione dei due tipi edilizi ha portato a conseguenze notevoli per l’organizzazione dei quartieri perché ha aumen-

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dell’ulteriore sviluppo. La città si costruisce elemento per elemento, chiusa dietro la sua recinzione, senza rapporti con l’esterno, senza servizi comuni. Con l’affossamento del P. R., con la sconfitta della giunta Nathan e l’eliminazione della sua azione antispeculativa, con la vanificazione della legge sulla tassazione delle aree11, il campo rimane aperto all’assalto degli speculatori di nuovo presenti nell’amministrazione12 che non abbandoneranno più per poter continuare ad libitum la loro politica di rapina. Si assiste, così, all’involuzione che vede uno slittamento di poteri dalla classe imprenditoriale edile a quella che specula sulla rendita parassitaria. All’origine delle baraccopoli romane la ricerca ha accertato che esiste uno scarto oggettivo fra le esigenze del flusso di immigrati e la capacità della struttura economico-produttiva di farvi fronte. Questo scarto è stato aggravato in maniera tragica dalla politica dei gruppi economici e politici dominanti che si è sostanzialmente risolta, a parte gli occasionali tributi verbali ad una vaga socialità, in una resa incondizionata allo sviluppo spontaneo della situazione di fatto, ossia allo sviluppo così come è stato determinato e in base alle convenienze classicamente predatorie degli interessi economici tradizionalmente dominanti a Roma: interessi arcaici, retrivi, sovente legati a proprietà fondiarie gestite in absentia, esempi da manuale di privilegi parassitari. La subordinazione della politica urbanistica del comune di Roma a questi interessi, con rare, sporadiche eccezioni, è stata fino a tempi recenti commovente. Gli attuali riorientamenti, indubbiamente necessari e lodevoli, tato la densità abitativa di questi senza parallelamente aumentare la dotazione di infrastrutture e servizi. 11 Le denunce dei proprietari su valore tassabile delle proprie aree, presentate spontaneamente al Comune, furono in numero irrisorio, mentre i ricorsi contro gli accertamenti d’ufficio superavano i 2.500. La prima rata delle tassazioni fu riscossa solo nel 1921 e il gettito fiscale dell’intero periodo di attuazione della legge (1909-1923) fu di appena 16.864 dai quali bisogna detrarre le forti spese sostenute dal Comune per azioni legali, rilevazioni, ecc. 12 Il nuovo sindaco, principe Prospero Colonna, era uno dei maggiori oppositori sulle aree fabbricabili e aveva in corso un’azione legale per le imposte su sue proprietà.

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fanno tuttavia sorgere un interrogativo circa la loro tempestività. La subordinazione alla rendita ha contribuito a scoraggiare investimenti industriali volti a massimizzare funzionalmente il profitto e quindi ha oggettivamente contribuito a mantenere Roma, almeno in parte, in un lamentevole stato di pre-capitalismo facendo ad essa correre il rischio di non realizzare pienamente le sue potenzialità produttive e di trovarsi di fatto in una situazione economica e sociale decrepita prima di raggiungere la maturità tecnica, industriale e civile. Non stupisce che attualmente non sia possibile parlare di Roma come di un centro metropolitano relativamente omogeneo e dotato di una capacità di riverbero culturale a largo raggio. Si deve invece parlare di una città che cresce ma che, nell’atto stesso in cui cresce e per il modo e la logica con cui cresce, genera una anti-città parallela, che la fronteggia, l’assedia e la isola dal suo hinterland naturale, che la frena e che potrà anche, a scadenza più meno ravvicinata, soffocarla. Rispetto ai dati messi in luce e interpretati negli anni ’60 e ’70, la Roma di oggi presenta una situazione economica, sociale e culturale diversa. Condotta criticamente e con la consapevolezza del peso della variabilità storica, la replica delle ricerche pubblicate in Roma da capitale a periferia13 ha consentito di accertare un cambiamento notevole. La “cintura rossa”, a suo tempo costituita da circa 70.000 operai dell’edilizia, non esiste più. È stata distrutta: a) dalle innovazioni tecnologiche delle imprese dell’edilizia; b) dalla nuova immigrazione extra-comunitaria. La replica delle ricerche degli anni ’60 e ’70 è consapevole del carattere straordinario di Roma, città essenzialmente atipica, nata storicamente come città decentrata, composita e multietnica, a differenza del modello monocentrico, caratteristico della città greca classica. Gli storici più accreditati convergono su questo punto: «Roma rimase sempre una città accogliente ed etnicamente composita. […] La prole meticcia non veniva considerata come una generazione della stirpe. […] La leggenda dell’asilo è paradigmatica: essa non parla solo di mescolanza etnica, ma anche 13

Cfr. il mio, Roma da capitale a periferia, cit.

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di mescolanza sociale. La prima Roma, infatti, accolse individui sradicati, nobili decaduti e persino schiavi. Roma, potremmo dire, nacque come una città aperta ai talenti»14. Nel corso degli ultimi trentacinque anni il Quarticciolo, la Borgata Alessandrina e l’Acquedotto Felice hanno avuto e oggi presentano, rispetto alla prima ricerca, modificazioni profonde. Questa prima fase della ricerca documenta ciò che in passato non era prevedibile: se non la fine, certamente una riduzione di quella che resta la caratteristica fondamentale di tutte le periferie: l’esclusione sociale e la discriminazione classista. Soprattutto a proposito della Borgata Alessandrina e dell’Acquedotto Felice è stato notato un riavvicinamento tra centro e periferia, tanto da non poter più sostenere, come invece era necessario trentacinque anni fa, che periferia e centro si configurano come due realtà insanabilmente divise, estranee l’una all’altra – come città e anti-città. Cade anche l’idea, oggi ancora accarezzata da architetti e urbanisti, di limitarsi semplicemente a “rimodellare” la periferia. La ricerca documenta che non è più possibile parlare genericamente di periferia come contrapposta al centro. Trentacinque anni fa, con una popolazione complessiva di circa tre milioni di abitanti, si ipotizzava, per il 2003, una popolazione complessiva di circa cinque milioni di abitanti. Roma registra invece, oggi, una diminuzione della popolazione residente e conta circa duemilioni ottocentomila abitanti. L’errore era all’epoca dovuto a un’indebita estrapolazione basata sui ritmi immigratori dal Sud d’Italia e dalle zone limitrofe (Abruzzo, Campania, Ciociaria). In realtà, la situazione odierna ci dice che non è più possibile parlare di città e campagna, che va invece colto l’effetto di padronanza dell’espandersi urbano in modo da poter ipotizzare un continuum urbano-rurale, una urbanizzazione, che coinvolge anche il tessuto della città e induce a portare il centro nella periferia in vista di una regione metropolitana dotata di un tessuto sociale dinamico come molteplicità dialettica di sistemi, reattiva e policentrica. 14

Cfr. A. Giardina, Roma antica, Roma, Laterza, 2000, p. XI.

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Tutta l’area comunale romana – la più grande d’Europa con circa 129.000 ettari – è in movimento. La periferia, lungi dall’essere una frangia suburbana esclusa, è centrale. Se si fermasse la periferia, si bloccherebbero il centro storico e tutta la vita cittadina. Nel territorio delle borgate di una volta, quelle che oggi vengono ufficialmente definite “quadranti urbani privi di funzioni pregiate”, vivono tuttora circa due milioni di romani, vale a dire circa due terzi della popolazione. La rivisitazione critica dell’area romana servirà probabilmente a documentare e a interpretare la realtà della periferia odierna, che è una risorsa e non un peso morto. Il Comune di Roma – 22 rioni, 32 quartieri, 6 suburbi, 3 quartieri marini, 59 zone dell’Agro – è una realtà varia e complessa in cui più ricca che altrove è forse apparsa la presenza umana. Contrariamente alle esperienze di New York, con Harlem vent’anni fa e oggi con il Bronx, della banlieue di Parigi e delle favelas, barriadas, villas miserias dell’America Latina, delle verminose periferie di Bangkok e di Calcutta, la periferia romana d’oggi sembra che possa riuscire ad essere, per tutta la città, una grande risorsa e un fatto positivo, ma si presenta con una varietà notevole di tipi professionali e di stili di vita, con richieste di partecipazione e di mobilità sul territorio che attendono di essere soddisfatte e che vanno pazientemente indagate nella loro specificità. Il rischio di oggi è, infatti, quello di considerare la baracca e la baraccopoli di ieri, come il prodotto di un sottosviluppo che ormai è stato superato e che si tratterebbe solo di procedere a un’astratta, razionalizzante programmazione dell’area comunale. La fine delle borgate e delle baracche non significa di per sé la fine dell’emarginazione metropolitana. La povertà e l’esclusione sociale si autoriproducono. Non solo: le autorità, ai vari livelli, tendono ad esportare il disagio urbano il più lontano possibile; a Roma, per esempio, oltre il Grande Raccordo Anulare. Come dire: nascondere la spazzatura sotto il tappeto. È chiaro che non è sufficiente portare nelle ex-borgate i servizi essenziali – luce, acqua, gas – la segnaletica stradale, i “segni esterni” della modernità. Occorre un processo di autopromozione, economica ma anche culturale, servizi sociali 89

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essenziali, ma anche scuole migliori, luoghi di ritrovo interetnico, cinema, biblioteche, attività di aggregazione per i giovani con i loro tipici concerti e la loro musica. Per ridurre sempre più il divario centro-periferia bisogna portare il centro nella periferia. La prima fase della ricerca riconferma che la situazione sociale degli anni ’60 e ’70 è profondamente mutata. La «cintura rossa» della classe edilizia non c’è più. La stratificazione sociale è molto più varia e frastagliata. All’epoca, la ricerca aveva messo in luce un tipo relativamente inedito di attore sociale: era il proletario intermittente, sospeso fra operaio con posto fisso e inquadramento razionale nella forza-lavoro, e sottoproletario, costretto a scegliere l’espediente come mezzo di sussistenza e sopravvivenza. Oggi la situazione è diversa. La ricerca conferma la scomparsa della classe degli operai dell’edilizia, determinata, come si è detto più sopra, dall’evoluzione della tecnologia produttiva delle grandi ditte della costruzione edilizia (Gabetti, Tronchetti Provera, e altri), che hanno soppiantato e spinto fuori mercato i “palazzinari”, grandi e piccoli, con la divisione del lavoro, la specializzazione delle mansioni produttive, i nuovi materiali e le nuove tecniche del processo produttivo. Il ghetto edile, di cui si parlava ancora in Vite di baraccati, non c’è più. Anche l’immigrazione è cambiata. Non viene più dall’Abruzzo, dalla Ciociaria o dal Sud. Sono arrivati gli immigrati extra-comunitari. Non ci sono più le baracche dove si dovrebbero trovare gli attrezzi agricoli elementari; oggi vi dormono, un tanto al letto, gli extra-comunitari. Non ci sono più i proletari intermittenti. La ricerca documenta che vi sono al loro posto, specialmente nella Borgata Alessandrina, i nuovi medi e piccoli borghesi. La Borgata Alessandrina e l’Acquedotto Felice hanno compiuto progressi notevoli nel superamento del divario centro-periferia. Paradossalmente, il Quarticciolo appare penalizzato dal fatto che è compreso fra strade di rapido scorrimento che, in qualche modo, lo tagliano fuori dal resto del tessuto urbano e finiscono per isolarlo, mantenendolo in una situazione di relativo distacco che, mentre ne conserva la comunità naturale, lo priva d’altro canto dei possibili apporti positivi che stanno invece dinamicizzando le altre zone già perife90

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riche. L’analisi delle interviste riserverà probabilmente qualche sorpresa. Si è fatto molto, per la vecchia generazione, venendo incontro ai bisogni, oggettivi e psicologici, di una popolazione che appare contrassegnata da una longevità crescente, di per sé fatto positivo, ma che pone peraltro problemi di assistenza non indifferenti. Ma i giovani si sentono abbandonati. Mancano, per loro, luoghi di ritrovo che presentino le caratteristiche da essi preferite, e non è per puro capriccio che ogni fine settimana questi giovani si rovesciano, a frotte sempre più numerose, soprattutto valendosi della metropolitana, sul centro storico e sui quartieri semicentrali, da Piazza di Spagna a Piazza Fiume e a Via Ottaviano. La “notte bianca” è stata un’occasione importante, per giovani e meno giovani, allo scopo di riscoprire e di riappropriarsi del territorio urbano. Ma questo recupero della città va reso continuativo nel tempo. Non può ridursi ad esperienza effimera, a un dono del caso o della benevolenza discrezionale degli amministratori. I temi ricorrenti e le aree problematiche che emergono dalle interviste ai testimoni privilegiati sono: 1) Quarticciolo: nostalgia per un passato comunitario – senso di chiusura e di isolamento – carenza di negozi e di luoghi di interazione – latitanza delle istituzioni – le famiglie abbandonate a se stesse – i giovani, annoiati, si danno alla droga – tendenza allo spopolamento – lavoro precario – orgoglio di appartenere al Quarticciolo, vecchia periferia operaia (da parte di alcuni degli anziani). 2) Alessandrino: il degrado urbano è stato bloccato, ma i fitti sono alti – presenza degli stranieri e barriere linguistiche – carenza del senso di comunità – la scuola e le chiese sono attive, ma la mobilità sul territorio è problematica. 3) Acquedotto Felice: scomparse le baracche, ma per i giovani le case hanno prezzi proibitivi – si affittano abituri a stranieri per prezzi esosi – in via di risoluzione il problema scuola, ma mancano biblioteche – manca un ufficio postale locale – al Quadraro resiste un forte senso di comunità (“noi siamo il centro storico della periferia”) – speranze nel “Parco degli Acquedotti”. 91

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VII. Comparazioni interculturali

La crisi finanziaria, e quindi economica, che a partire dall’ottobre 2008 sta sconvolgendo le strutture socioeconomiche su scala planetaria, provoca un salutare ritorno alla “logica dell’abitare” e una riconsiderazione critico-comparativa dei vari modelli di città, in particolare fra le città “storiche” europee e quelle “industriali” nordamericane. Le città europee classiche, legate al loro retroterra storico, hanno le mura; quelle americane si aprono ai grandi spazi, dilagano in senso orizzontale. Le città europee sono chiuse in se stesse, self-enclosed, inerpicate talvolta su cocuzzoli di difficile accesso, battute dal vento, assorte in una riflessione che ne concentra l’essenza fino all’ossessione, ne perfeziona la forma in una staticità di cristallo, nella compiutezza di un disegno cui una qualsiasi modifica significherebbe decadenza, assurdità e crollo. Si pensi a Volterra, alla conchiusa forma di Orte o di Orvieto, alle dannunziane città del silenzio e della pietra. In America la città è agglutinante. Non ha il cuore, la “piazza”, da cui partire e a cui tornare in un gioco coerente di dimensioni concentriche. È una città che non cresce su se stessa, ma per aggiunte successive ad infinitum. Si pensi a Los Angeles: come più sopra abbiamo osservato, centoventi sobborghi in cerca di una città. Anche per questa ragione, e contro i luoghi comuni più radicati – autentici luoghi di perdizione – New York non è ancora America, bensì un’affascinante anticamera: un cocktail di stili, di razze e di lingue. L’insularità di Manhattan e la concentrazione dello spazio “inventano” il grattacielo. La città dilaga verso l’alto. 92

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Città aperta contro città chiusa: la porta di Brandeburgo a Berlino come le porte Scee a Troia. L’America non conosce porte. Non ha il passato feudale. Ha valicato le colonne d’Ercole. Il suo sogno di libertà non consente il senso del limite, neppure quello della morte (il morto è imbalsamato nel gesto di telefonare; l’infortunio tecnico della morte è cancellato non per la gioia degli scrittori satirici alla Evelyn Waugh, ma più semplicemente per la sua inconcepibilità). Mi colpisce la correlazione fra casa e città. È una correlazione che unisce, come un punto ardito e improbabile a un tempo, mondi che la passione accademica per il lindore sistematico ama vedere contrapposti: comunità contro società; consuetudine contro contratto; sangue e suolo contro calcolo formale; tradizione contro ragione. La vita è più complessa e passa oltre, con allegra indifferenza per le teorizzazioni professorali. Privato e pubblico si mescolano. L’individuo non è un atomo indivisibile; è un universo singolarizzato. La nozione aristotelica di oikos recupera qui tutto il suo valore. Come aveva correttamente intuito Leon Battista Alberti, nel libro primo del De re aedificatoria: «La città è una sorta di grande casa, la quale è a sua volta una piccola città». Vedo in questa affermazione un caveat che va attentamente considerato, una diffida salutare contro il ragionare astratto, a tematismo puro, ossia contro il ragionare fino a sragionare. «Pazzo – avvertiva saggiamente Chesterton in Orthodoxy – è colui che ha perduto tutto fuorché la ragione». Il vincolo fra casa e città è stretto. My home is my castle: così dicono gli inglesi e certi europei del continente. Non così gli americani. Ho vissuto a lungo negli Stati Uniti. Per gli americani la casa è un luogo pubblico, aperto, senza frontiera e senza mura come le loro città. La cosa mi ha sempre sorpreso. C’è nella casa media americana, in quella uni-familiare dei sobborghi, che è la regola, contrariamente all’atmosfera ovattata che si respira intorno, un’aria da fiera, un brusìo costante, un andare e venire fra le varie stanze e i vari piani che rendono impossibile raccoglimento, silenzio, concentrazione, privacy. Come i giardini fra le varie villette non sono separati da siepi o da qualsivoglia ostacolo o muretto o palizzata, così, nella casa, 93

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i vari ambienti sono inter-comunicanti e chiunque può entrare e passare dall’uno all’altro. Quel senso di intimità chiusa, calda, indifferente, se non ostile, al mondo esterno, al “fuori”, a tutti gli effetti percepito come “terra straniera”, qui è sconosciuto. Paradossalmente, quando vuole la privacy, quando ne avverte, in un momento di crisi, il bisogno, l’americano esce di casa, sale in automobile. La casa non l’aiuta. La casa è il luogo, lo spazio deputato a quell’incredibile istituzione americana che è il dropping in. Chiunque arrivi, invitato o meno, preannunciato o meno, è il benvenuto e la casa è a sua disposizione. Non è l’ospitalità orientale né c’entra una qualche eredità antropologico-culturale di ascendenza araba. È probabilmente un riflesso, ancora oggi vivo, dell’esperienza e dello spirito della frontiera, la sola, grande eredità storica della nazione americana. Ancora più strano, alla mentalità europea – quella stessa mentalità che fa rispondere a un francese al telefono, interrogato su come va: on se défend – è che il dropping in sfiori il suo zenith proprio nei giorni e nelle ore in cui più sacri all’europeo sono la solitudine, la comodità e il silenzio di casa sua. Penso alla domenica mattina e a quella contaminazione sincretistica di prima colazione (breakfast) e di colazione di mezzogiorno (lunch) che è il brunch. Come a un pasto tribale, casual e caldo e ciarliero e lievemente folle insieme, il brunch è aperto a tutti, può durare da una a cinque ore, tutti si servono come possono e come credono, alternandosi attorno alla tavola delle vivande e a quella delle bevande, sedendo o ciondolando e caracollando per tutta la casa fino a debordare nell’atrio e in giardino, se il tempo lo permette. L’europeo che abbia un problema si ritira nel suo studio, sbarra porte e finestre, stacca il telefono. L’americano non può fare altrettanto. Lo spirito della frontiera glielo impedisce. L’ospite avventizio, anche il più improbabile degli ospiti, va trattato con ogni cura. L’americano in crisi deve lasciare la casa, buttarsi per la strada, smaltire lì il suo problema, lanciato a folle velocità (polizia stradale permettendo) verso gli orizzonti aperti. Lo studio, raccolto e in penombra, dell’americano è l’automobile. Qui, mentre guida con aria trasognata e il paesaggio gli corre 94

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ai lati, solo nella scatola metallica che è un che di mezzo fra la bara e l’alcova, l’americano è finalmente solo e può pensare in pace i suoi pensieri. Il vecchio Ford aveva dunque visto giusto. La vera, unica rivoluzione americana è arrivata su quattro ruote. Ha unito in un vincolo non facilmente dissolubile meditazione e movimento, strumento meccanico e risorse spirituali. Con il suo caratteristico strabismo intellettuale, Marshall McLuhan ha detto in proposito cose giuste e sbagliate nello stesso tempo. Difficile dargli torto quando scrive con amabile self-deprecation: «È probabilmente fondata l’affermazione che l’americano è una creatura a quattro ruote, nonché la constatazione che per il giovane americano è assai più importante arrivare all’età in cui può ottenere la patente di guida che a quella in cui può votare, ma è anche vero che l’auto è diventata un articolo d’abbigliamento senza il quale nel composto urbano ci sentiamo incerti, nudi e incompleti»1. Ma il socio-filosofo canadese – amico e interlocutore indimenticabile – continua imperterrito nella sua analisi corrosiva. Il futuro dell’automobile, pur così importante da poter legittimamente aspirare a rappresentare emblematicamente tutta una nazione – anzi, una “nazione di nazioni” – è problematico. Già la ruota, nota McLuhan, nell’età elettronica è alquanto obsoleta: «Nell’industria automobilistica ci sono uomini i quali sanno che l’auto sta per scomparire con la stessa inevitabilità con la quale fu condannata la sputacchiera quando nel mondo degli affari fece il suo ingresso la dattilografa»2. McLuhan però, preso dalla logica cogente del suo determinismo tecnologico, estrapola e generalizza indebitamente su una base di osservazioni empiriche piuttosto fragile. Non si rende conto del rapporto di condizionamento dialettico che globalmente coinvolge gli aspetti differenziati del sociale. Preconizza la trasformazione e l’obsolescenza non solo dell’automobile, ma della casa stessa e in generale delle strutture produttive. Non si rende conto che la crisi dell’energia, 1

Cfr. M.M., Understanding Media, trad. it., p. 226; si vedano inoltre il mio Il senso del luogo, Roma, Armando, 2009; Un popolo di informatissimi idioti, in «Lettera Internazionale», IV Trimestre 2008, pp. 31-34. 2 Ivi, p. 229.

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nel momento in cui contrae la funzione sociale e le stesse dimensioni dell’automobile anche negli Stati Uniti, comporta simultaneamente, e necessariamente, la riscoperta della casa. Esiste un buon uso della crisi che bisognerebbe imparare a praticare. La crisi dell’energia non ci ha soltanto costretti a riscoprire l’uso delle gambe. Ha sfatato il mito delle vacanze lontane, dei week-end in auto. Dopo le ebbrezze della velocità, ci ha costretti a gustare il piacere, forse più sottile, dello star fermi, in silenzio, a contemplare; ci ha fatto ritrovare e apprezzare la virtù dei parroci di campagna, la stabilitas loci. Ma per questo ci vogliono case comode, non necessariamente di lusso, ma razionalmente disegnate, solide, che ti tengono fra le braccia e nelle quali sprofondi, come in una dolce voragine di velluto, mentre fuori la pioggia autunnale batte insistentemente sui vetri. È un ideale ancora lontano per molti italiani, un popolo di ex-contadini che accetta tutto – la distruzione del verde e le colate insensate di cemento – pur di frapporre ostacoli insormontabili fra sé, la propria recente inurbazione e l’inferno della vita rurale di un tempo, le sue condizioni servili e umilianti, la sua fatica bestiale. Si parla spesso del gentiluomo di campagna inglese e della vita serena, ancor oggi, nei cottage, anche a poche miglia da Londra. Si dimentica per lo più di aggiungere che il cottage inglese è fornito di ogni comodità, che i servizi comunitari, dalla distribuzione dei giornali al telefono, funzionano mediamente in campagna come in città, che anche in città, del resto, la casa uni-familiare non è considerata una stravaganza, ma semplicemente il luogo della vita – lo spazio in cui si realizza la fusione fra privato e pubblico e l’individuo incontra la sua società senza esserne schiacciato.

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VIII. La distinzione fra momento analitico e intervento terapeutico

Nei primi anni ’50, a Chicago, ho avuto la fortuna di lavorare con Ernest W. Burgess e Louis Wirth, all’epoca ancora attivi nel solco a suo tempo aperto dalla Scuola di Chicago. La fecondazione reciproca fra elaborazione teorica e ricerca sul campo era esperienza quotidiana. Mi era già chiaro allora il limite, probabilmente invalicabile, del concetto di città come pura processualità, senza alcun tentativo di sondare le matrici profonde del movimento o, anzi, nel caso di Chicago, dell’esplosione urbana. Non è sufficiente tuffarsi nel “mare dell’oggettività”. Ma in proposito è da vedersi l’“Appendice”, con le mie istanze critiche all’impostazione dello studio della città politicamente adiafora, nella prima edizione di Roma da capitale a periferia (1970), che ebbe quasi immediatamente una certa risonanza in Europa, in particolare nella rivista di Henri Lefebvre, Espaces et sociétés, e nel volume La question urbaine (Maspero, Paris 1975) di Manuel Castells, all’epoca ancora marxista, ossia prima di convertirsi alla mitologia della information society. Negli Stati Uniti le ricerche romane riscossero particolare interesse in Metropolis, a cura di Philip Kasnitz (MacMillan, London 1995; cfr. F. Ferrarotti, “Civil Society as a Polyarchic Form: the City”, pp. 450-468) mentre in Italia è nel saggio di Giuliano La Pergola La conflittualità urbana1 che si trovano osservazioni pertinenti.

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Cfr. G. La Pergola, La conflittualità urbana, Milano, Feltrinelli, 1972, pp. 80-81.

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Quando F. Ferrarotti – scrive Della Pergola – in Roma da capitale a periferia, superando il livello di analisi corrente, riesce ad esprimere uno studio che restituisce come e perché Roma si è trasformata da un certo stadio territoriale ad un altro stadio territoriale più contraddittorio e complesso, non fa che applicare, finalmente in modo corretto, una sociologia intrinsecamente politica ad una condizione metropolitana. Ferrarotti dice che in una città come Roma non potrebbero esistere le baracche se non ci fossero i quartieri di lusso. L’ipotesi è, al limite, ovvia. Ma per spiegarla, egli è costretto a vedere come si è giunti a questa situazione, attraverso quali gradini la rendita si è manifestata, chi ha costretto la speculazione, quali forze politiche hanno permesso lo scempio, e con quali finalità generali (se per corruzione o perché tale corruzione era parte di un modello più complesso di vita) ed infine, chi sono questi proletari e semiproletari urbani, cosa fanno per emanciparsi dalla loro condizione storica, quali nodi politici debbono sciogliere, con quali forme di intervento collettivo, ecc. Alla fine del volume non si può dire che Ferrarotti non abbia fatto della sociologia urbana. Ma per ben farla è stato costretto a superare tutti gli steccati teorici, classificatori e astratti della sociologia urbana. Una sociologia che metodologicamente sia in grado di restituirci “la cultura” e “la struttura di potere” di una città, è un’indicazione che resta, per i nostri studi, la direzione di un lavoro ancora tutto da sviluppare. Per approfondirlo degnamente ci vorranno ancora molti anni.

È probabile che Della Pergola abbia ragione. Ma intanto occorre non cadere nella fallacia dell’immediatismo politico (“volere tutto e subito”): un rischio sempre attuale per la sociologia urbana militante. La distinzione tra momento analitico-interpretativo e intervento terapeutico resta essenziale, se si intende evitare l’indistinto teorico che regolarmente dà luogo al confusionarismo pratico. Lo sdegno morale o la protesta, quando sia anche fondata sull’analisi dei dati, non è ancora un progetto. Può esserne la premessa. Ma niente di più. 98

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IX. Le concezioni prevalenti del fenomeno urbano

Un catalogo delle concezioni prevalenti della città è stato dapprima tentato nel classico studio, La città, di R.E. Park, E.W. Burgess e R.D. McKenzie (Chicago 1925), specialmente a partire dal cap. X, ma si tratta pur sempre di uno sforzo di sistemazione più bibliografica che teorico-concettuale. Un primo tentativo in questa direzione potrebbe dar luogo alle seguenti indicazioni: a. la concezione ecologica o meccanicistica della città, ossia la città come organismo che si sviluppa impersonalmente in base alle sue leggi interne, in maniera ineluttabile, spontanea, del tutto simile a un processo naturale, sostanzialmente immodificabile e impermeabile rispetto agli sforzi volontari, economici e politici dei gruppi sociali organizzati; b. la concezione materialistica ingenua della città, ossia la città come riflesso, meccanico e passivo, della struttura degli interessi economici sottostanti; c. la città come centro dell’interazione e della transazione economica, ossia “la città come mercato” (M. Weber); d. la concezione spiritualistica della città, ossia la città come espressione della comunità umana, dei suoi valori, della sua civiltà, e quindi la città come realtà ideale, autonoma rispetto alla propria base economica e ai rapporti materiali di vita, cioè la città come sede della élite dominante, come centro nervoso del potere, come metropoli rispetto alla quale tutto il resto è per definizione periferia. Queste concezioni corrispondono puntualmente ai principi di preferenza personale dei singoli ricercatori e ne costituiscono la 99

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proiezione ideologica, ma sono seriamente inadeguate. Il fenomeno urbano è un fenomeno complesso, che richiede di venir constatato e compreso come una realtà sociale globale, i cui differenti aspetti appaiono legati da un nesso dialettico che li pone necessariamente in una situazione di condizionamento reciproco. Si propone qui una concezione della città come fenomeno sociale globale, ossia come una molteplicità di sistemi interrelati e interreagenti, dotati di una autonomia e di logiche di sviluppo relativamente (ma solo relativamente) indipendenti le une rispetto alle altre. Il fenomeno urbano appare così costituito da: a. un sistema economico-ecologico o produttivo in prima istanza (uso del territorio e delle risorse, sia naturali che umane; organizzazione sociale della produzione; creazione e distribuzione della ricchezza); b. un sistema politico (accesso e gestione del potere; organizzazione del consenso; elaborazione delle decisioni importanti e loro applicazione pratica); c. un sistema culturale (sistema scolastico e mass media; trasmissione e perpetuazione dei valori tradizionali; elaborazione di nuovi valori, ecc.); d. un sistema familiare, o riproduttivo e relativamente formativo (dalla famiglia estesa alla famiglia coniugale o nucleare; esaltazione delle funzioni puramente affettive e psicologiche; socializzazione primaria come tecnica per inculcare i valori sociali tradizionali e gli atteggiamenti socialmente rispettabili); e. un sistema simbolico, determinato dalle fedi religiose, sacre e profane, ossia rivelate o immanenti; dal bisogno di comunione agapica dei conviventi, come tecnica per rinsaldare i legami della convivenza stessa (religio significa “legame”, ma, naturalmente, come in gran parte dei casi, l’etimologia è incerta).

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X. La città come molteplicità dialettica di sistemi

Questa molteplicità di sistemi non si sviluppa nella realtà storica su un piano orizzontale, in base a degli scatti razionalmente prevedibili mediante calcoli puramente teorici, come forse amerebbero filosofi e sociologi urbani da tavolino. I differenti sistemi, che nel loro insieme costituiscono il fenomeno urbano globale, entrano necessariamente in collisione gli uni con gli altri e sono precisamente questa collisione, questo scontro e questo conflitto che stanno alla base e che rendono possibile lo sviluppo della città. In altri termini, e più precisamente, lo sviluppo della città è una funzione del conflitto di cui la città stessa è teatro. La lacerazione e il conflitto sono insieme la condizione essenziale e il prezzo che la città paga per il suo sviluppo. Ciò è vero perché questo sviluppo non è nulla di impersonale, di automatico; e non è neppure ipotizzabile come un parto indolore e neppure come lo sbocco della cieca sequenza di impulsi evoluzionistici impersonali. È invece semplicemente un fatto politico. È l’esito dello scontro di forze sociali specifiche, storiche, non astratte, bensì storicamente determinabili e individuabili. Alla base e alle origini della città moderna c’è un bisogno tecnologico (ma esistono anche e non vanno dimenticate le città contadine, Matera e Madras per esempio, né la polis integrata dell’antichità classica né le città feudali e signorili). Per produrre occorre una mano d’opera fisicamente concentrata, quindi abbastanza varia quanto alle attitudini e vicina al luogo di produzione così da rendere meno negative le conseguenze della “frizione dello spazio”. Del resto, così è stato ricavato dagli studiosi della prima “rivoluzione industriale”, la stessa fonte maggiore di ener101

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gia, il vapore, è facilmente dissipabile e richiede un alto grado di concentrazione. Tutto questo è vero, ma una spiegazione puramente tecnica delle città non spiega gli aspetti più importanti del fenomeno perché non riesce a spiegare il contesto politico e gli effetti sociali dei rapporti di produzione. Quando infatti nuove fonti di energia, come l’elettricità, consentirebbero un efficace decentramento, questo non si verifica perché sulla concentrazione originaria, tecnicamente giustificata, è già cresciuta una rendita parassitaria di posizione che, costituendosi in privilegio di classe, blocca la logica di sviluppo puramente tecnica, pervertendola e facendone uno strumento prezioso di mistificazione per giustificare l’indefinita prosecuzione di una situazione sociale profondamente asimmetrica, di sfruttamento e di espropriazione, per cui il tessuto della città viene lacerato, la città si configura come una realtà sociale divisa, dicotomica: c’è chi sta sopra e chi sta sotto, chi vende forza lavoro e chi la compra. La città diviene la scena permanente di una violenza lenta, istituzionalmente coperta, che solo di tanto in tanto esplode in rapide fiammate di conflitto aperto. La grande trasformazione di poi seguita e verificatasi mediante l’organizzazione scientifica del lavoro e della produzione di massa è contrassegnata dall’esigenza di vedere nella città lo sbocco naturale della produzione su vasta scala, ossia di vedere nella città il centro del consumo di massa.

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XI. Vecchie e nuove forme di sfruttamento

Ciò comporta una evoluzione importante delle forme di sfruttamento. Nell’Ottocento lo sfruttamento in fabbrica era genuino e diretto. L’operaio vendeva la sua forza lavoro, erogava energia muscolare. Oggi lo sfruttamento è più sottile, è meno diretto; oggi il lavoratore subalterno vende energia nervosa più che sforzo muscolare; è sfruttato più in termini di monotonia e di assenza di significato che in termini di affaticamento fisico. Oggi non si compra semplicemente della forza lavoro; si comprano, cioè si condizionano gli atteggiamenti, le motivazioni, i gusti, le tendenze psicologiche. È una specie di imperialismo verticale; siamo forse entrati nell’epoca, prevista con angoscia da M. Weber, della “proletarizzazione dell’anima”? Ciò è possibile solo nella misura in cui la logica dello sviluppo sociale basata sulla divisione del lavoro, dal punto di vista tecnico, e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dal punto di vista sociale, va oltre il luogo immediato della produzione, esce dalla fabbrica e investe la città nel suo complesso. È chiaro che la città si presenta ancora differenziata, profondamente stratificata, con i suoi quartieri residenziali, silenziosi e verdi, e le sue periferie opache. Ma è ormai da considerare, almeno tendenzialmente, l’ipotesi della città come fabbrica sociale. La struttura dicotomica della fabbrica appare ora ingrandita e combacia con l’intera fisionomia della città. Come in fabbrica vi è chi comanda e chi è comandato e lo stacco tecnico funzionale, oggettivamente necessario, si traduce in distanza psicologica e in una divisione classista, così, nella grande città odierna, quartieri di lusso e ghetti di miseria 103

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sono necessari gli uni agli altri, appaiono in qualche modo legati ad un comune destino, sono il prodotto della stessa logica di sviluppo. La città naturalmente armonica, quasi idilliaca, quella di cui si discorre nei manuali di sociologia urbana, è un mito, non esiste; è il patetico tentativo di offrire una giustificazione pseudoscientifica ad una situazione di fatto, politica e storica di nudo dominio ma le differenze fra lotta di fabbrica e lotta di quartiere sono differenze sostanziali che solo l’impeto vitalistico, generoso ma tendenzialmente irrazionale, può valere. Le lotte di fabbrica esaltano il momento della solidarietà e sono per definizione aggregative mentre la lotta per la casa si inscrive in una logica strettamente privatizzante, che al limite spezza la solidarietà di classe e crea il piccolo borghese. Viene qui da domandarsi la ragione del carattere irreale e talvolta francamente irritante di molte analisi, discussioni, ricerche di programmazione urbana, di lotta per il verde, di salvezza o di recupero dei valori estetici della città. Le buone intenzioni sono fuori discussione, ma è chiaro che l’irrealtà di questi sforzi, il carattere retorico di molta programmazione e pianificazione derivano dal fatto che si chiudono gli occhi sulle realtà strutturali, cioè sulla città come realtà dinamica, in movimento, che può progredire solo nella misura in cui riesce a fare i conti con le proprie condizioni materiali di vita e con i rapporti sociali contraddittori da cui quelle condizioni in ultima istanza dipendono. I risultati specifici delle ricerche dei tardi anni ’60 sono confluiti nei due volumi, Roma da capitale a periferia (1970) e Vite di baraccati (1973). Nel primo c’è la struttura. Nel secondo c’è il vissuto. La formazione del reddito a Roma; la sua aleatorietà e gli effetti socio-psicologici delle insufficienze dei mezzi di sussistenza; la degradazione delle borgate “ufficiali”, o case minime, volute dal fascismo per costringervi la parte della popolazione cacciata dal centro per aprire Via dell’Impero e Via della Conciliazione, in borghetti e baracche, costruite con mezzi di fortuna su scampoli di terreno fra i palazzi della nuova speculazione edilizia, totalmente emarginate dal resto della città, sia topograficamente che politicamente, culturalmente e civilmente. Le ricerche 104

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hanno consentito, al di là di ogni vaga denuncia, di delineare la figura del borgataro in base ai seguenti accertamenti: 1) i poveri pagano due volte: perché sono poveri e perché non hanno accesso ai grandi centri commerciali a prezzi scontati; data la carenza dei mezzi pubblici di trasporto, devono provvedere personalmente alla propria mobilità (fenomeno generale, per cui si veda Theodore Caplow, Poor pay more); 2) non c’è una sola immigrazione; ce n’è una povera, tradizionale, dagli Abruzzi, dalla Campania, anche dalla Calabria, per tutti quelli che non riescono ad arrivare al Nord del boom, ossia al triangolo Torino, Milano, Genova; ma a Roma c’è anche una immigrazione ricca, tipica di una “doppia capitale” (Stato italiano e Vaticano); 3) non c’è solo il lavoro subalterno, ossia il proletariato razionalmente organizzato, da una parte, e il sottoproletariato, “fascia putrefatta della società” (Marx), dall’altra; la situazione è più complessa; la ricerca mette in luce una inedita figura sociale, vale a dire il “proletario intermittente”, prima e antica forma di precariato che porta alla 4) situazione della povertà endemica, non più distinguibile nei tre classici livelli a) povertà; b) indigenza; c) miseria, ma una situazione sociale obiettiva in cui l’espediente è l’unico mezzo di sussistenza; 5) le “classi differenziali”, forma di “aiuto” ai ragazzi di famiglie sottoproletarie, che però, stante l’assenza di periodici esami per uscirne, finisce per essere una stigmatizzazione di inferiorità sociale permanente; 6) lo “sfruttamento desiderante”: il baraccato, non appena può, diventa un piccolo borghese e pone il problema di come si possa evitare l’autopromozione che trasforma il baraccato di ieri in un piccolo borghese – egocentrico e gretto – di oggi; 7) l’assenza dei giovani; negli anni ’50 e ’60 non esisteva l’adolescenza, invenzione tipicamente borghese, che invece nelle ricerche di oggi sembra la preoccupazione dominan105

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te di pedagogisti, sacerdoti, professori, politici. In Vite di baraccati si racconta di A. che viene risucchiato dal treno in corsa mentre fa i suoi bisogni lungo la massicciata della ferrovia. Il fatto non emerge, sembra cronaca trascurabile. La stessa indifferenza avevo notato a Bombay (inverno 1957) quando un bambino sui cinque anni viene stritolato dalle ruote di un tram. Nelle prime ricerche sulle borgate romane il punto fondamentale era costituito dal rapporto fra il contesto socio-economico e il testo, ossia il racconto delle storie di vita: rapporto problematico, che non si può considerare risolto per via ideologica o dottrinaria, eventualmente invocando la relazione meccanicistica, tipica del marxismo ingenuo, fra struttura e sovrastruttura. Osservavo a quell’epoca (1965-1970) che, dentro la datità strutturale, nel quadro ferreo delle cadenze e dei ritmi istituzionali la cui ampiezza oltrepassa l’arco biografico di una vita singola, circola e si stempera il vissuto. Ho già osservato altrove che la marginalità, conseguenza e conferma d’uno stato cronico di povertà e di miseria, non piove dalle nuvole e non dipende solo dalla buona o dalla cattiva volontà. Se così credessimo, rischieremmo di cominciare ad occuparci dei poveri e degli esclusi e finiremmo puntualmente per dare agli stessi poveri ed esclusi la colpa di tutto. Chiunque abbia studiato anche solo superficialmente le condizioni di vita nelle baracche, nelle favelas, nelle villas miserias, nelle barriadas o nella banlieu, nei quartieri-ghetto o nei villaggi dimenticati, che pagano i pochi chilometri che li separano geograficamente dai centri metropolitani con un abbandono e una distanza sociale da misurarsi in anni-luce, sa che la marginalità è un fenomeno strutturale. E quindi, che la marginalità si autoriproduce. Dopo due generazioni un gruppo umano ghettizzato è probabilmente perduto per sempre. Bisogna rompere per tempo la spirale nel punto di maggior delicatezza, là dove si formano i tratti fondamentali della personalità e gli orientamenti di valore che dureranno nell’individuo per tutta la vita, condizionandolo per sempre. Bisogna colpire la spirale dell’auto-riproduzione della marginalità nell’anello più debole e più sensibile: nel momento 106

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della socializzazione primaria. Ma a questo scopo non servono le dichiarazioni di principio. Vanno aggredite e mutate radicalmente le circostanze oggettive, le situazioni di fatto. Fra i baraccati e i non-baraccati non vi è alcuna differenza soggettiva. La differenza, dura, palpabile, c’è, ma non riguarda la sfera delle percezioni soggettive, riguarda le fonti di sussistenza, l’ambiente in cui si vive, l’ammontare e la regolarità del salario, la condizione igienica dell’abitazione, la possibilità pratica di partecipare, «come tutti gli altri», alla vita comune. I baraccati sognano l’ordine, la stabilità, la sicurezza. Perché sono uomini in fuga, uomini che devono fare ogni giorno l’invenzione artistica per sopravvivere, che devono scommettere tutto quello che hanno, tutta la loro vita di oggi su una vita futura che forse non verrà mai, che basterà un nulla imprevisto a rendere impossibile. Il miglioramento effettivo, realistico delle loro presenti condizioni di vita ha la stessa fragilità di un incontro con la cometa. I baraccati sono uomini in fuga. Vivono in prigione e fuggono nel sogno. La datità, le circostanze oggettive in cui versano sono il loro carcere. L’inutilità è la loro condanna. Esclusi come sono dal ciclo produttivo regolare o “normale” non possono neppure venire sfruttati nel modo classico, non appartengono alla forza lavoro razionalmente inquadrata nelle fabbriche, nei campi o negli uffici. Desiderano di venir sfruttati pur di essere riconosciuti; torna nelle loro storie di vita come un ossessione il bisogno di un’occupazione vera, regolare, normale, “con tutto in regola”. Incarnano invece l’avanguardia di una umanità superflua in cui si realizza la grande transizione dallo sfruttamento capitalistico ottocentesco all’inutilità; sono i primi reparti di un esercito di emarginati sulla pelle dei quali si consumeranno le nuove forme del genocidio perfetto, la «proletarizzazione dell’anima», la regressione da cittadini a neo-iloti nel paradiso al neon della società consumistica. Un commento critico interpretativo delle storie di vita raccolte andrà svolto e steso a suo tempo. Qui ci contentiamo di poche osservazioni preliminari. La precarietà, il senso del provvisorio appaiono generalizzati; il bisogno della casa costituisce una per107

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cezione comune ed elementare. Ma non solo non è, sorprendentemente, la preoccupazione esclusiva; non è neppure quella dominante. Domina invece la richiesta dell’occupazione. Non si può dire: del lavoro. Perché nelle baracche la parola lavoro conserva tutto il suo significato primordiale di fatica, di ricerca difficile, talvolta spasmodica e sempre penosa, poco controllabile dei mezzi di sussistenza. L’occupazione è invece il posto di lavoro pagato regolarmente e a tariffa più o meno normale. È la sistemazione. Aver casa, ma non poter contare sulla occupazione e su un reddito stabile è una presa in giro. Il baraccato lo sente benissimo, lo capisce meglio e più profondamente di molti urbanisti, operatori sociali, programmatori. Esiste naturalmente una buona dose di scetticismo a proposito delle autorità e della loro seria volontà di cambiare le cose. Ma è singolare, in situazioni oggettive così drammatiche e spesso esasperate, il sostanziale equilibrio delle valutazioni politiche che si riscontrano nei baraccati. Regna fra di essi un realismo politico, certamente legato ai minimi margini di sopravvivenza, che risponde con grande sensibilità alle iniziative politiche che non si limitino a discorsi ideologici generali bensì affrontino i bisogni immediati: l’acqua, le fognature, la luce, la scuola, il telefono pubblico, l’ambulatorio, le condizioni igieniche. Ciò che colpisce nei baraccati di Roma è appunto questa preoccupazione non strettamente personale, ma a respiro comunitario. Si sa che il baraccato deve difendersi anche dal vicino con un grosso cane, come succede talvolta, oppure con complicate barriere di filo spinato, come avviene più spesso. Ma accade anche di cogliere la preoccupazione che ci sia in giro troppa sporcizia o che non si badi a proteggere i monumenti, magari recingendoli con una rete metallica. Pur nella sua ingenuità a volte disarmante, a sentir parlare Salvatore, per trent’anni all’Acquedotto Felice, sembra di ascoltare l’intervento di una signora di Italia nostra. L’immagine ufficiale, quella corrente, del baraccato, è tutta da rifare, è una menzogna diffamante. Vi è naturalmente un nesso fra marginalità e devianza. È chiaro che i travestiti, per esempio, vivono più tranquillamente all’Acquedotto Felice che in un quar108

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tiere cittadino normale. Lo stesso si può dire per le prostitute. E anche per certi tipi di ladri. Ma guai a generalizzare. L’uomo della baracca è alienato, emarginato. Ma non per una sua colpa individuale. L’uomo della baracca vuol cominciare a vivere, a partecipare. Che egli riesca a realizzare questa sua aspirazione profonda, cioè a dare la piena misura della sua umanità, o che invece ricada nella quieta disperazione del ghetto non dipende solo da lui. Nelle interviste qualitative di Vite di baraccati si cerca di cogliere il condizionamento della datità sul vissuto dei singoli individui e dei nuclei famigliari. Le testimonianze dell’abbandono da parte della società, ossia della “ghettizzazione”, sono di grande evidenza insieme con la netta sensazione di essere dimenticati, se non “perseguitati”, dalla “burocrazia”, in generale dalle “autorità”. Per esempio, parlando della “distanza burocratica”: come, dove si incarna? « – È l’ACEA. (Perché, a quale scopo?). – Perché dice che gli abbiamo rubato la luce, quella che abbiamo messo abusivamente. Noi volevamo pagare, se c’era un contributo da pagare, loro sanno quanta luce gli manca e noi bonariamente la pagavamo. No, ci vuole per forza portare in tribunale. Ci sono i fogli già dai carabinieri, firmati … Noi siamo come l’acqua dopo il temporale. L’acqua delle pozzanghere. Sta lì. Nessuno ci bada. Cerca… Per non sporcarsi. (Ieri infatti ho visto che c’erano i carabinieri che giravano). – Ogni famiglia è andata là ed ha fatto… (La Pina dopo, diciamo, dopo venti venticinque anni di residenza all’Acquedotto Felice, è la più vecchia residente, trova che le condizioni non sono migliorate; anzi, sono peggiorate, nonostante l’acqua, la luce; per esempio, la situazione fognature, com’è?). – Niente, zero. (Cioè?). – In mezzo alla strada qualcuno ci ha fatto il pozzo nero per conto suo. 109

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(Qui ci sono malattie infettive?). – Ci sono; anzi, quaggiù ci sta una famiglia, se va da don Roberto, che gli ha levato un ragazzino come questo, perché ha la meningite, ed allora don Roberto, dato che questa ha tanti figli si è preso un ragazzino a mangiare e dormire. E poi ci sono tanti bambini che vanno a finire al Bambin Gesù, non c’è proprio assistenza per niente. Ieri siamo andati da don Sisto e ci ha cacciato come cani. (Mi racconti un po’ bene questo episodio che mi ha molto colpito. L’altra sera, tre giorni fa, ho visto che lei tornava dalla parrocchia…). – Ero arrabbiata, perché prima ci ha detto: venite lunedì; vi daremo un buono per andare a fare un po’ di spesa per Natale come hanno fatto gli altri anni; invece siamo andati giù tutti quanti per via che ci dava questo buono, e il buono non ce l’ha dato più. Ci ha detto: venite mercoledì, adesso basta, quando venite mercoledì ve lo diamo mercoledì. Siamo andati giù mercoledì e stavamo parlando tanto bene con il bambino mio se fa la comunione, sì gli ho detto si deve preparare e gli faccio fare la comunione e la cresima. Come sono venute due dell’INA CASA, questa è l’INA CASA, sono andate dentro da don Sisto ed è uscito fuori proprio una belva … (Quando le dame di S. Vincenzo venivano, venivano solo per portare qualcosa oppure si preoccupavano anche di trovarvi un lavoro?). – Di lavoro niente, solo ci portavano un chilo di pasta, un barattolo d’olio, fagioli, zucchero, dove ci stavano i bambini ti portavano i biscotti, qualche indumento necessario … Nessun interesse per lavoro, magari! (Il problema vero invece qui, mi sembra, è proprio il lavoro). – Però a me mi hanno aiutato tanto le dame di S. Vincenzo. Tanto, tanto. Mo’ ormai, ma a me mi hanno aiutato dal primo anno che sono venuta all’Acquedotto Felice. Mi hanno fatto pure casa, mi hanno mandato una decina di esploratori, in due giorni mi hanno fatto casa. Anni fa… Sì, allora 110

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c’era madre Raffaella, te la ricordi? Era tanto brava. Mo’ ormai non c’è più nessuno. La gente pensa che si stia in borgata qualche anno soltanto; invece si passano gli anni, molti anni… – Per forza qui devono passare gli anni, perché qui non ci passano stranieri, non ci passano treni, autobus non ci passano, è una borgata isolata, non è che viene la gente da fuori… Ha fatto un po’ di pubblicità don Roberto… ecco sì, ha fatto pubblicità don Roberto perché eravamo proprio nascosti da tutti. Ti promettono le case e come ti promettono le case viene il terremoto e le danno prima a loro che a noi, e noi stiamo sempre qua. Adesso per esempio c’è stato il terremoto in Toscana e ci avevano promesso che per il ’71-’72 incominciavano a dare le case a qualcuno, ma dove stanno? Qui hanno dato le case ad una decina, ma hanno fermato per via del terremoto che c’è stato in Toscana». È bene darsi un’occhiata alle spalle. L’antefatto storico, spesso dimenticato dai sociologi, è invece essenziale. È probabile che il richiamo dell’Europa al rispetto dei parametri di Maastricht costringa a riscoprire e a riparlare delle «piaghe» di Roma. Era accaduta la stessa cosa all’epoca del centenario di Roma capitale. Ma riscoprire e riparlare non vuol dire rimediare e sanare, e neppure comprendere, cioè cogliere i meccanismi oggettivi che stanno dietro alla situazione esistente. È tipico di Roma lasciar marcire, magari con una punta di sentimentalismo auto-deprecativo, i problemi, farne delle dimensioni familiari del paesaggio, adattarsi così bene alle proprie malattie da innamorarsene. Dopo i meritori seminari di Italia nostra su “Roma sbagliata”, dopo le battute notturne di Ennio Flaiano e i fotogrammi di Federico Fellini sembra che tutto sia stato detto su Roma come contraddizione o città-paradosso. Ma appunto il taglio prevalentemente estetizzante o autobiografico o intellettualistico, quando non di vacua celebrazione classicheggiante, dei giudizi su Roma ne ha bloccato una comprensione più profonda, non moralistica.

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XII. Romafobia

Lo stesso Giuseppe De Rita (segretario generale del CENSIS, già presidente del CNEL), che andrebbe tenuto a sicura distanza dalle trappole letterarie, dopo aver enumerato le carenze oggettive, economiche e sociali di Roma, termina lo schema di relazione preparato per il Vicariato e il cardinal Poletti con una caratteristica scivolata moraleggiante: non drastiche modificazioni della struttura economica, bensì un’opera lunga, diuturna, di educazione, di attivazione culturale, di associazionismo sociale, e così via, che è come dire “Arrivederci alle calende greche!”. Nel frattempo, Roma rischia di trovarsi decrepita prima di essere stata industrialmente matura. Non si intenda con ciò che la maturità industriale sia uno stato idilliaco di armonie prestabilite. È una situazione di conflitti di classe e di lotta di interessi, ma i conflitti e la lotta obbediscono ad una logica produttiva dotata di un suo disegno e di una sua razionalità. A Roma la lotta degli interessi, reale e determinante per capire la città, è una lotta regressiva, giocata in termini retorici e con falsi scopi che ne oscurano i termini, in cui si incrociano piani ed epoche storiche così differenti da introdurvi un’aria di schizofrenia che dà un lieve senso di vertigine: agglomerato urbano, anzi Urbe per eccellenza, senza essere industriale; centro della cristianità ma anche sede della speculazione fondiaria più feroce e ottusa; antica e “nuova”, anzi al neon, senza essere moderna. Su Roma potranno forse a breve termine scaricarsi le tensioni e gli svantaggi sia della società industriale che di quella pre-industriale. In questo senso, la crisi di Roma ha caratteristiche originali. Al fondo di essa c’è una capitale che stenta a trovare la via dell’in112

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vestimento produttivo per farsi ingoiare da rendite parassitarie apparentemente insaziabili. La periferia romana non ha nulla in comune con la banlieu parigina o con la cintura di Francoforte o quella di Milano e di Torino. Roma attrae un flusso di immigrati ancora forte, quasi sempre disperatamente poveri, cacciati dalle campagne dalla crisi agricola centro-meridionale, ma non riesce a dar loro posti di lavoro stabili, ossia legati ad un ciclo produttivo funzionale. Di qui la burocratizzazione ipertrofica, la terziarizzazione fasulla, la modernizzazione spuria. A parte l’edilizia, che ha caratteristiche particolari di attività post-agricola e para-industriale, la sola vera industria romana è quella della sistemazione improduttiva. La formula che la descrive accuratamente è quella usata per le metropoli latino-americane: urbanizzazione senza industrializzazione. Per capire la dinamica di questa situazione bisognerebbe avere i dati in quantità e qualità sufficiente concernenti la composizione professionale e la struttura di classe della popolazione romana. Questi dati non li abbiamo. Ma intanto si può osservare quanto segue: la popolazione attuale di Roma è calcolata in circa 2.800.000 unità. Di queste, 25 su 100 hanno meno di 15 anni. La popolazione attiva è in grave declino: nel 1959, il quoziente di attività era, nel Lazio, del 40,3 per cento; nel 1966 era già sceso al 35,1 per cento; attualmente si aggira sul 33 per cento. In Romacittà gli attivi non superano le 900.000 unità. Di queste, la grande maggioranza appare occupata nei servizi e nella burocrazia. Il piccolo commercio, da solo, conta ben 130.000 addetti; senza tener conto dei dipendenti retribuiti che sfuggono a qualsiasi tipo di indagine; 110.000 ne ha l’artigianato. Per converso, l’industria, esclusa l’edilizia, non va oltre gli 80.000 dipendenti mentre ben 270.000 sono gli impiegati statali e parastatali, vale a dire più di un quarto della popolazione attiva di Roma. Il carattere psicologico dei romani, che si vuole bonaccione e indolente, se non pigro e svogliato, non c’entra. Nessuna “romafobia” riuscirebbe a provarne il peso decisivo. Urbanizzazione senza industrializzazione, declino conseguente della popolazione attiva, crisi dei servizi pubblici e fallimento, o pura e semplice 113

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mancanza, delle infrastrutture fondamentali, indebitamento del Comune e conseguente degradazione sociale e culturale non sono fenomeni che piovono dalle nuvole o che possono farsi derivare da una qualche stortura del carattere. Credo di aver dimostrato nei miei libri Roma da capitale a periferia e Vite di baraccati che questi fenomeni hanno al contrario una matrice causale precisa e individuabile, corrispondono con impressionante puntualità a condizioni storiche e politiche determinate, possono esprimersi con una frase: costituiscono il risultato della tensione fra rendita e profitto e da ultimo sfociano in una sistematica privatizzazione del pubblico.

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XIII. Le astuzie della speculazione edilizia

La rendita derivata dalla proprietà dei suoli urbani e para-urbani si costituisce come pesante manomorta parassitaria, dissangua attraverso gli affitti e l’intensità eccessiva delle costruzioni il reddito e la qualità della vita della popolazione, entra in conflitto e di fatto blocca le iniziative imprenditoriali produttive basate su un calcolo razionale a media e a lunga scadenza. Per questa ragione, una visione puramente estetica o moraleggiante del problema di Roma, sia pure nei termini, legittimi e importanti, di scarsità di verde pubblico, sovrappopolazione, scuole insufficienti, vita culturale inesistente, ecc., rischia di riuscire puramente estetizzante o evasiva, si condanna a non capire nulla delle cause profonde della crisi di Roma. La formazione del plusvalore delle aree urbane di Roma cui tutti concorriamo, mentre arricchisce una proprietà fondiaria arcaica e retriva, spesso assenteista, crudamente privatistica, ossia priva di un qualche senso di responsabilità sociale, costituisce una tragica emorragia e un quotidiano impoverimento del bene comune di Roma come comunità umana. Le esortazioni moralistiche anche le più toccanti non hanno denti in questa situazione strutturale. Possono anzi arrivare ad effetti nettamente opposti a quelli sperati. Siamo al grottesco. Per esempio, l’umanitarismo, le iniziative filantropiche a favore dei baraccati e dei loro bisogni elementari si risolvono in uno strumento potente di valorizzazione dei terreni urbani intermedi, in mano alla speculazione privata, che si collocano fra il centro cittadino e la periferia estrema dove sono costretti a vivere i baraccati. Tutto ciò che si fa per migliorare, doverosamente, la condizione dei baraccati entra così nella for115

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mazione del plusvalore delle aree urbane controllate dagli speculatori. Un piano regolatore serio sarebbe la risposta, ma la storia dei piani regolatori della città di Roma è una storia, oltre che di lacrime e di sangue e di denaro, di subordinazione commovente della politica urbanistica agli interessi privati dominanti, fra i quali hanno da sempre fatto spicco quelli della proprietà ecclesiastica sia direttamente che attraverso l’opera efficiente ed aggressiva dei più svariati bracci secolari. Chi paga più duramente per tutto questo, cioè per il fallimento della città come comunità umana, sono quelli che stanno al fondo della piramide sociale: gli esclusi, la popolazione detta marginale, i baraccati. L’uomo della baracca è alienato, emarginato. Ma non per una sua colpa individuale. Si può dire con esattezza che è stato tradito: venuto in città per trovarvi lavoro continuativo e sistemazione decorosa ha dovuto contentarsi di vivere di espedienti e dormire in un rifugio elementare, per sé e per i suoi, contro il freddo e la notte. Si trattasse solo di qualche sporadico gruppo di persone con l’istinto del nomade, vagabondi impenitenti, come molti amano pensare, la cosa potrebbe anche risolversi solo nel pittoresco. Ma a Roma le persone che vivono in condizioni anomale, tra borgate, borghetti e baracche, si aggirano su circa un terzo della popolazione, 900 mila esseri umani. È chiaro che non possono essere abbandonati al loro destino.

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XIV. Note sul Libro bianco sulla casa, a cura del Min. LL.PP. – maggio 1986

Il disegno generale del Libro bianco sulla casa si presenta classicamente suddiviso in due parti: la prima offre un ricco corredo diagnostico e cerca meritoriamente di far luce su una situazione ancora poco nota nei suoi aspetti empirici precisi; segue poi, nella seconda parte, una serie di indicazioni terapeutiche legate a obiettivi e a strumenti di politiche per la casa. È noto infatti come il tema delle abitazioni sia vissuto da molti come poco mobile e funzionale, come si ritenga che esso sia già gravemente compromesso. Mancano però, nello steso tempo, notizie e cifre precise circa la gravità del fenomeno, manca una radiografia della situazione, in Italia. Questo testo si propone di venire incontro a una prioritaria esigenza di tipo conoscitivo, che non può che prendere le mosse dalla valutazione dei vari esiti intercorsi. Prevalente, nell’economia del libro, appare l’insistenza sui provvedimenti necessari e il richiamo al soggetto politico, unico legittimo referente per gli interventi opportuni, abilitato a prendere decisioni. Già in Cinque scenari per il 2000 notavo come, negli ultimi anni, la letteratura sui temi di futurologia sia straordinariamente aumentata, come ci si preoccupi, ai limiti dell’angoscia, del futuro e del suo choc. A mio parere, non è tanto il cambiamento quanto invece la mancanza di cambiamento a costituire il nodo problematico più difficile di questa epoca. Non perché non ci siano cambiamenti in senso assoluto, ma perché si tratta per lo più di mutamenti settoriali che rischiano di provocare squilibri e portare a dimensioni e intensità patologiche, per cui la socie117

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tà odierna si presenta come una realtà internamente scissa. Ed è, in parte, quanto avvenuto sino ad ora per quanto attiene alla politica della casa. Difficile, in una situazione siffatta, avanzare una corretta previsione sociale: sfuggono spesso alle più accurate indagini statistiche i gruppi apparentemente marginali, dotati però di forte vitalità, suscettibili di futuri sviluppi. Difficile, ancora, la distinzione fra moda passeggera e ricerca di fondo. Il settorialismo delle scienze sociali non concorre, inoltre, con gli steccati e le chiusure che comporta, a fondare l’attendibilità delle previsioni sociali, spesso basate su estrapolazioni che portano a una rarefazione della realtà, a un impoverimento dei processi sociali. Previsioni e pianificazioni richiedono quindi il concorso di studiosi e specialisti, cui non deve però restare estraneo un processo di partecipazione democratica che, sola, può arricchire le interpretazioni, sostanziare le linee programmatiche, basate sulla corposità del reale, sui fattori anche qualitativi, sui valori che hanno portato al mutamento sociale, che hanno permeato un certo iter storico. Meritoriamente quindi i compilatori del Libro bianco cominciano col tratteggiare degli “scenari di riferimento”, si avventurano tra le difficoltà e le insidie della previsione sociale, al fine di indicare obiettivi e suggerire strumenti. Va sottolineata la correttezza del procedimento, che riconosce la impossibilità di programmare senza preventivamente conoscere e senza una valutazione ipotetica dei probabili sviluppi futuri della specifica situazione, pur nella consapevolezza delle difficoltà cui va incontro la previsione, tanto più se la si vuole legata a interventi terapeutici. Quando si parla di “specifica situazione”, va richiamata la necessità di un ampliamento del concetto di storicità, in cui bisogna dare lo spazio che loro compete agli aspetti economici e sociali, alla vita quotidiana, alla gente che in qualche modo “subisce” il potere. Da questo punto di vista il Libro bianco lascia impliciti alcuni temi, alcune situazioni, poiché non si ha una ricostruzione storica del problema della casa in Italia, i cui termini tra l’altro sono mutevoli con il variare dei nuclei familiari e della loro estensione. 118

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Fa invece il punto sui dati di fatto, proponendoli all’attenzione dell’opinione pubblica e di chi ha svolto un ruolo da protagonista in queste vicende. Apre la ricerca un primo dato relativo al rapporto fra abitanti e stanze. Dall’inizio del secolo fino alla metà (censimento 1951) ogni abitante residente ha avuto – in media – l’uso di una parte di stanza pari a due terzi; trent’anni dopo (1981) quello spazio privato si è raddoppiato e per ognuno, in media, c’è la disponibilità di una stanza e mezza. Negli stessi trent’anni si è invertito il rapporto tra affitto e proprietà della casa. Gli alloggi in proprietà nel 1951 raggiungevano il 40% del totale, nel 1981 si sono attestati sul 60%. È su questi dati di partenza che l’indagine costruisce i suoi approfondimenti, ne svela le molteplici ambiguità. Su alcuni di questi fatti in particolare mi sembra opportuno richiamare l’attenzione per le implicazioni che hanno comportato e tuttora comportano. In primo luogo, l’afflusso del risparmio privato e familiare verso l’investimento e l’immobilizzo in unità di abitazione, precondizione che ha consentito il forte aumento della proprietà della casa. Sono state acquistate nel corso dei trent’anni esaminati, dal 1951 al 1981, oltre 6 milioni di abitazioni. Oggi si è arrivati a superare i 10 milioni, per cui la crescita risulta del 240%. Quindici anni fa, e non è difficile ricordarlo, la domanda insisteva sull’uso dell’abitazione in affitto e tendeva a sottrarre il cittadino alla logica ricattatoria dell’accumulo selvaggio dei suoi risparmi per pagare anticipi, ammortamenti e interessi e acquisire una casa in proprietà. Si deve allora ritenere fallimentare quella ipotesi, o si deve piuttosto supporre che siano intervenuti fattori all’epoca non previsti? L’indagine documenta che una parte consistente di questo patrimonio acquistato ha un carattere di opulenza e, quindi, è consumo – spesso consumo vistoso – da parte di gruppi privilegiati. La seconda casa, adibita alle vacanze, secondo le stime della Banca d’Italia per gli anni Ottanta, è in proprietà di circa una famiglia italiana su dieci. Ma soprattutto sembra di poter affermare che la corsa alla proprietà della casa è stata favorita da 119

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un andazzo che ha consentito una privatizzazione diffusa di beni pubblici e sociali che sono connessi al bene casa. Sotto questo aspetto il fenomeno riconduce alle caratteristiche del potere politico in Italia, alla sua capacità di costruire consenso sull’assenza di provvedimenti e norme, sulla mancanza di controlli effettivi ed efficienti. Il riferimento d’obbligo è all’abusivismo edilizio. Ancor prima che l’indagine specifica sia terminata, nel Libro bianco si afferma che negli ultimi trenta anni sono stati costruiti tre milioni e trecentomila alloggi abusivi, pari al 14% di tutto il patrimonio abitativo e quindi alla metà di tutto l’incremento che si è avuto nell’intero parco alloggi. Ora, se è vero che non tutti coloro che hanno in uso tali alloggi sono proprietari e parecchi pagano un affitto, è vero anche che se non ci fosse stato l’abusivismo si sarebbero ridotte di molto le abitazioni di proprietà, dal momento che – come documenta il Libro bianco – il mercato parallelo dell’abusivismo parte da costi di costruzione che sono attorno al 50% rispetto a quelli dell’edilizia legale di pari qualità. Ma è fuori di dubbio che un’espansione così generalizzata dell’abusivismo edilizio non sarebbe stata possibile se non ci fossero state molte cecità, molti silenzi, gravi specialmente quando, negli anni Settanta, non ci si è trovati più di fronte ad “auto-costruttori” di case povere, con materiali rimediati, ma di fronte a imprese piccole e agili che si sono date a tirar su costruzioni molto confortevoli e spesso ricche e ricercate. In questo equivoco del resto erano caduti a suo tempo Alberto Clementi e Francesco Perego, curatori della mostra e del catalogo su La metropoli «spontanea». Il caso di Roma. 1925-1981: sviluppo residenziale di una città dentro e fuori dal piano. Né si tratta solo di questo macroscopico e visibile processo di appropriazione privata delle decisioni circa l’uso dei suoli, la forma delle città, l’indirizzo delle spese di urbanizzazione che se non verranno eseguite porteranno inevitabili ulteriori danni. Si pensi infatti al regime fiscale, cui sfuggono almeno il 40% degli immobili abitativi, che vengono colpiti solo nel momento dei trasferimenti di proprietà. 120

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Si pensi ancora al patrimonio immobiliare abitativo della mano pubblica, così assottigliato ormai dai riscatti che, al momento, il numero dei riscatti nuovi supera quello dei nuovi affitti. A ben vedere l’unico freno che ha funzionato contro la corsa all’acquisto di alloggi è stato il comportamento assunto dagli istituti di credito dopo la crisi del 1974, in una situazione inflattiva caratterizzata da tassi di interesse elevati e variabili. Il risparmio privato sembra aver preso altre strade: quelle che consentivano di godere, appunto, degli alti interessi per di più garantiti dallo Stato. Aver celebrato, in questo contesto, la caduta della febbre del mattone è stato discutibile e quanto meno avventato. Tanto è vero che, proprio a partire dagli anni Settanta, il fenomeno dell’abusivismo edilizio è dilagato, spesso alimentato anche dalla lievitazione dei capitali privati investiti in titoli finanziari. Ragione, questa, non ultima del carattere diverso, documentabile, dell’edilizia abitativa illegale costruita negli ultimi dieci anni: dall’auto-costruzione anarchicheggiante alla speculazione capillarmente diffusa. Sarebbe ingenuo e soprattutto errato evincere da quanto detto l’esistenza di una volontà politica, di un disegno razionalmente definito e completo, che ha agito per raggiungere, in Italia, il più alto livello di investimenti – in Europa (forse nel mondo industrializzato?) – in case di proprietà. Forse è più vicino al vero pensare all’intreccio di molteplici fattori. Ha giocato certamente un suo ruolo la volontà di deviare la forte domanda per il diritto alla casa che nel periodo a cavallo degli anni Sessanta e Settanta si era espressa facendo maturare nel senso comune la consapevolezza di quali fossero le forze che dominavano la struttura, la forma, le modalità della vita privata e collettiva nella città e nelle case. A proposito di Roma da capitale a periferia, uscito in prima edizione per i titoli della Laterza nel 1970, nel momento quindi delle celebrazioni per il centenario di Roma capitale, c’è stato chi ha parlato di “un contributo di conoscenza sulla anticittà”. Ma se in quegli anni i rapporti sociali tra le forze in gioco manifestavano una tendenza al mutamento e si orientavano verso dislocazioni non tradizionali, i rapporti politici sostanzialmente resistevano: il 121

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diritto di proprietà – dei suoli urbani, degli alloggi – veniva confermato di fatto senza limitazioni, anzi usciva rafforzato se non altro per aver superato denunce e contestazioni. In pari tempo però, come si è detto in precedenza, quello stesso potere politico accettava, in una certa misura, la sua stessa delegittimazione. Era sempre più evidente che la necrosi delle città e il disagio dei cittadini aveva la sua centrale riproduttiva nel venir meno dell’idea e della pratica di “pubblico” e nella sua “privatizzazione”, ossia la riduzione a cosa privata, di difficile e ristretto accesso, di beni e possibilità in astratto aperti a tutti. Non venivano colpiti i privilegi che consentivano tali comportamenti, ma si accettò che lo stesso privilegio venisse sminuzzato, parcellizzato, goduto a piccole quote semplicemente attraverso la messa in mora di fatto di ogni regola e norma pubblicamente elaborata e sancita. C’è senza dubbio un dato culturale profondo in tale atteggiamento dell’autorità pubblica e statale. Così come c’è un dato culturale nell’adesione, nell’omologazione che quell’atteggiamento ha trovato in ampi strati della società italiana, in tanti cittadini per altri versi rispettati e rispettabili che hanno ritenuto di non dover tenere conto delle leggi scritte, quasi ci si trovasse di fronte a un articolo aggiuntivo che prevedesse una sorta di generalizzazione del silenzio-assenso. Qualche sociologo, come ad esempio Edward Banfield, si è spinto a teorizzare l’esistenza di un certo amoralismo familistico, vale a dire quell’insieme di valori e comportamenti che non ha ancora scoperto l’interesse pubblico e considera tutto ciò che giova, a breve scadenza, alla famiglia, dall’evasione fiscale alla raccomandazione nepotistica smaccata, come moralmente giustificato e anzi altamente raccomandabile. È evidente che le considerazioni fin qui svolte hanno come retroterra l’opinione che l’abitare in un alloggio di cui si ha titolo di proprietà non è un valore in sé, ovvero che la salvaguardia del diritto alla proprietà della casa di abitazione non può in nessun caso trasformarsi in un dovere. E questo innanzitutto per ragioni di carattere sociale, dal momento che una sola via, quella dell’affitto, è aperta a coloro che sono nelle fasce basse della 122

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scala del reddito individuale e familiare. Il Libro bianco offre ripetute quantificazioni al riguardo. Esso sottolinea, anzi, che nella presente congiuntura si è già venuto riducendo il «grande esodo» dall’affitto alla proprietà, mentre cresce la domanda per abitazioni da locare in fitto. Né può essere diversamente, dal momento che negli ultimi trenta anni, nonostante l’aumento della popolazione e l’inurbamento dalle campagne, gli alloggi presenti sul mercato dell’affitto sono aumentati di poco più di 500 mila: nel 1981 sono risultati, in totale, 7 milioni e 200 mila, pari, come si è detto, al 40% del totale degli alloggi. Nello stesso anno, 1981, oltre 3 milioni di stanze – su un totale di 15 milioni di stanze non occupate come abitazioni primarie, ma destinate alle vacanze, al lavoro o del tutto abbandonate – avrebbero potuto essere disponibili per l’affitto, ma invece sono restate vuote. Si è cioè preferito tenere il patrimonio inutilizzato, piuttosto che correre il rischio di vederlo congelato dai vincoli della legge sulle locazioni o in itinerari giudiziari che vengono percorsi fino in fondo da inquilini che, spesso, non possono lasciare un alloggio che hanno in affitto per la impossibilità di trovarne un altro disponibile o che trovano più conveniente resistere il più a lungo possibile alle ingiunzioni di sfratto. La diversità di necessità e di situazioni non è infatti sufficientemente salvaguardata nell’attuale situazione. Un’idea in merito si può evincere dalla lettura di La casa sparlata di Giuseppe Mannino, raccolta di “lettere di protesta, minacce e proposte dall’Italia dell’equo canone”. Ne consegue un fenomeno su cui chi ha scritto il Libro bianco si sofferma a lungo, perché condensa tutte queste situazioni: la drastica riduzione della mobilità abitativa, sia in coloro che vivono in case di proprietà sia in coloro che alloggiano con contratti di affitto. Fra l’altro, si attira l’attenzione sulle conseguenze dannose che ne derivano; nel corso degli anni, infatti, l’abitazione diventa necessariamente troppo piccola o troppo grande, con la variazione del nucleo familiare e, in ambedue i casi, è destinata a degradarsi. C’è inoltre da domandarsi quale grado di rigidità comporti per l’intera società l’ancoraggio forzoso e così stretto di tanti gruppi 123

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familiari, di tanti esseri umani per un lungo arco di anni, in uno stesso ambiente, dentro uno stesso perimetro domestico. Mentre nella società tradizionale prevale la staticità e ogni mutamento viene percepito come anomalo, ogni processo di modernizzazione è caratterizzato da dinamismo in tutti i campi della vita sociale e politica, così come negli atteggiamenti individuali. E del resto così è stato anche in Italia nella seconda metà del secolo scorso; oggi, alle soglie della seconda decade del XIX secolo, potrà continuare la spinta al cambiamento, o si profila invece un ristagno? La propensione a restare nella stessa casa può essere, anche contemporaneamente, una costrizione che viene subita o una scelta di difesa da incertezze, paure, prevaricazioni. Il regista e autore Woody Allen si sente appagato solo dentro Manhattan e tanti che abitano a Roma hanno bisogno di sentirsi in vista delle Mura Aureliane, all’interno o all’esterno del loro perimetro. Ma questa è un’altra questione. Qui emerge il bisogno complessivo di vivere nella città, di poterla abitare nella sua determinatezza storica, di viverla nel suo patrimonio simbolico. Ma anche questo attribuisce ulteriore alienazione al radicamento obbligato di quote significative per il proprio tempo di vita in uno stesso spazio, che solo per pochi si aprirà in una dimora opulenta; per i più sarà sovraffollato (per il 30% afferma l’indagine), degradato (per il 20%), senza riscaldamento (per il 40%), in contesti territoriali carenti di servizi a cominciare da quelli di trasporto (per milioni di famiglie). Che la troppo fissa dimora non sia necessariamente un bene, che provochi disagi e guasti sembra sia cosa largamente avvertita sia da chi vive in case di proprietà sia da chi alloggia con contratti di affitto. La documentazione parallela dello stato delle abitazioni e dello stato delle famiglie offre ripetute conferme, dal momento che mentre gli alloggi hanno un fortissimo indice di rigidità per i vincoli di proprietà, per lo scarto tra domanda e offerta, per la inamovibilità degli assegnatari nel comparto pubblico, per i condizionamenti del regime delle locazioni e perfino per la presenza di norme che ostacolano vivacemente le modifiche interne degli alloggi e delle abitazioni, contemporaneamente le famiglie che 124

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occupano quegli spazi hanno subito e subiscono trasformazioni profonde. Nel decennio degli anni Settanta sono state prodotte abitazioni con un numero medio di stanze superiori a 4, di dimensioni quindi ampie, mentre contemporaneamente si è avuta una forte riduzione nel numero dei componenti il nucleo familiare. Tale riduzione all’interno delle singole famiglie si è tradotta in una crescita assai forte dei singoli nuclei familiari. Nel decennio considerato la popolazione italiana è diminuita di 46 mila persone, mentre le famiglie sono aumentate di 62 mila unità, come ricordava Antonio Golini nella sua relazione al convegno “La famiglia in Italia” promosso dall’Istat e dal Comitato Nazionale per la Popolazione, nell’ottobre del 1985. A suo parere, tale evoluzione sarebbe stata conseguente a «due tendenze fondamentali: la fortissima riduzione delle nascite (dal 1964 al 1984 si è scesi in Italia da 2,6 a 1,5 figli per coppia) e il consistente incremento della durata media della vita, che è arrivata a 71 anni per gli uomini e a 77 per le donne». Il dato quantitativo sintetizza una trasformazione accelerata dovuta a un complesso di fattori, per alcuni dei quali non è prevedibile una involuzione verso lo stato precedente, pur essendo tutti in un rapporto di interdipendenza nello scenario complessivo della società. Ciò vale, innanzitutto, per le modifiche intervenute non solo nello status della donna, in relazione al momento della produzione, ma soprattutto alla entrata in crisi del tradizionale ruolo femminile nella sfera dei rapporti sessuali e quindi della riproduzione. Un certo mutamento abbastanza generalizzato del costume sessuale, la diffusione della contraccezione, la tendenza a un rapporto simmetrico nella vita di coppia, il ricorso all’istituto della separazione e del divorzio hanno comportato e probabilmente comporteranno anche nel futuro che uomini e donne vivranno nel corso della loro vita più situazioni familiari. E questo non può essere visto come patologia della famiglia anche se non tutte le scelte individuali e gli eventi che sopraggiungono a condizionarle non sempre vengono vissute da soggetti capaci di una sostanziale autodeterminazione. La composizione familiare 125

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muta col mutare delle condizioni storiche e sociali. Se questa è la situazione, tanto più diventa pesante e costosa in termini umani, sociali, economici la tendenza a ospitare (o rinchiudere?) i tanti possibili percorsi di una vita dentro le stesse mura, senza possibilità di soluzioni alternative. Il sovraffollamento così come il sotto-utilizzo di un alloggio comportano conseguenze pesanti sulla qualità della vita. La famiglia oggi, secondo i demografi, è da intendersi come un insieme di persone che abitualmente coabitano e dimorano nello stesso comune, la cui coabitazione non sia determinata da rapporti negoziali. Per ognuno di questi gruppi di persone, quasi sempre ristretto nel numero dei componenti e frequentemente ridotto a un solo individuo (è da ricordare il fenomeno sempre più diffuso dei single, mercato che interessa sempre più la pubblicità e i consumi), la casa è la sede materiale in cui si organizzano le condizioni della vita quotidiana, attraverso un sistema complesso di aggiustamenti e strategie. La riflessione teorica e la ricerca empirica tendono a riconoscere nella famiglia, che in genere sembra aver perduto la funzione produttiva, non solo funzioni psicologiche e affettive, di consumo, ma anche di servizio, e quindi di collegamento con l’esterno, con le decisioni economiche e politiche, con la società globale. La casa, secondo le ricostruzioni di Laura Balbo, che si è occupata a lungo di questi temi, è il luogo in cui le persone che vi si raccolgono elaborano e organizzano reti di parentela, di vicinato, di amicizia… reti inattese, flessibili, spesso innovative, per soddisfare i propri bisogni. Questo tipo di analisi non semplifica il quadro di riferimento entro cui collocare il problema della casa e le sue possibili ricerche di soluzione, perché ne rende più evidente la complessità dei termini. E questo almeno per tre ordini di motivi. In primo luogo perché la cosiddetta “autocertificazione” dei bisogni può presentare momenti innovativi laddove non siano indotti dall’esterno, ma godano invece di autonomia e consapevolezza, di attenzione anche ai bisogni collettivi, soprattutto quando dall’accertamento si passa al loro soddisfacimento. 126

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In secondo luogo, perché questi nuovi tipi di famiglia e le relative reti di comunicazione e comportamento possono essere funzionali alla società esterna non meno dei vecchi tipi di famiglia. Si dipana infatti un gioco da parte dei protagonisti – nei ritmi del vissuto quotidiano – tra la risposta, spesso di difesa, alle condizioni coercitive e oppressive che vengono dal sistema sociale e le domande innovative di cui essi si sentono espressione. In terzo luogo, perché tutto questo sforzo di nuove analisi ci riconduce sempre con durezza alla condizione materiale primaria in una società fondata, come la nostra, sul mercato. La casa deve rispondere alle necessità umane di soggetti che sono in condizioni materiali assai diverse. Le famiglie che si è costretti a chiamare «privilegiate», perché composte da due o più persone che hanno tutte un’attività da cui percepiscono redditi, sono poco più di 22 su 100 del totale delle famiglie con due o più componenti (su un totale di oltre 15 milioni sono 3 milioni 377 mila). In 42 famiglie su 100, sempre sul totale delle famiglie delle stesse classi, una sola persona che lavora deve sostenere famiglie di due o più persone, così come risulta dai dati proposti da M. Grazia Arangio Ruiz nel convegno dell’Istat e del Comitato Nazionale per la Popolazione (ottobre 1985) citato in precedenza. Gli oltre 3 milioni di famiglie cosiddette unipersonali sono per oltre il 75% costituite da persone fuori dal lavoro, quindi, per la maggior parte dei casi, con redditi di pensione. Il Libro bianco è percorso da una persistente consapevolezza: far leva sul problema della casa per rimettere in movimento iniziative e azioni generali, collettive e individuali, con particolare attenzione a tante “vite di periferia”. La casa, quindi, come leva su cui poggiare per dare una qualità (per riqualificare, con parola più tecnica) a tutto ciò che, comunque, mani umane hanno costruito, ma che non è sufficiente ad una dignitosa e piena vita quotidiana: nei diffusi hinterland delle città, nelle grandi periferie urbane così come, a volte, nei centri storici. Tale l’obiettivo che i compilatori del Libro bianco si pongono e per il quale avanzano proposte concrete, rivolte alle sedi decisionali politiche. Le proposte sono molte non soltanto perché 127

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attengono a tutti i momenti che intervengono nella produzione del bene casa – dal suolo, ai materiali, dalle tecniche costruttive agli interventi finanziari, dal regime fiscale alle locazioni – in un intrecciato e complesso rapporto di pubblico e privato. Il fatto è che il groviglio di contraddizioni, degli interessi economici e delle aspettative, che si avvolge e infittisce attorno al “problema casa” può essere sciolto solo attraverso un’azione che – tenendo fermo l’obiettivo – sia, per così dire, “intelligente” in ogni momento, sappia essere articolata, differenziata, flessibile. Il soggetto abilitato ad emettere tali azioni deve essere per definizione il soggetto politico. Un potere politico che sia produttore di decisioni e non abdichi al suo ruolo. Un potere politico che, nel caso del problema che abbiamo di fronte, sappia crescere in razionalità e scientificità, che sappia differenziare gli interventi e le decisioni e in pari tempo sia in grado di fare verifiche contestuali all’applicazione e quindi proceda con tempestività agli aggiustamenti necessari, a partire dalla tutela degli interessi e delle necessità della popolazione. Un potere politico che si arricchisca di strumenti consoni che, attraverso il ricorso a metodologie scientifiche di cui avvalersi, conducano non solo al momento della decisione, ma possano concorrere a misurare la effettività delle decisioni, nella quantità e nella qualità. Una dotazione permanente di apparati di indagine e di ascolto: cosicché l’auto-percezione dei bisogni sia una facoltà insopprimibile tendente all’innovazione di rapporti sociali, sempre più umani, e non conduca all’auto-legittimazione di atti individualistici e di comportamenti non privi di chiusure e di interessi settoriali. Fin dal suo primo costituirsi nel 1960, l’Istituto di Sociologia di Roma ha condotto ricerche multidisciplinari sul territorio romano, concentrando l’attenzione sulle borgate, i borghetti e le baracche. I concetti di “emarginazione”, “discriminazione”, “marginalità” non sono stati dedotti da principi aprioristici; sono stati elaborati induttivamente nel corso della ricerca sul campo.

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XV. Sul concetto di “marginalità”

Che cosa si intende con il termine “marginalità”? Ad una prima approssimazione, può dirsi “marginale” quel gruppo sociale che vive e si è insediato lontano dal “centro”. In generale questa accezione relativamente semplice, tanto da equivalere ad una connotazione topografica, si applica alla popolazione rurale, nel senso che la struttura urbana è la struttura dominante e che per i suoi bisogni funzionali di sviluppo sono messe a disposizione le risorse fondamentali della collettività. La novità della situazione attuale è la estensione del concetto di marginalità e la sua applicazione allo stesso ambiente metropolitano. Il concetto di marginalità ha così acquistato una pluralità di accezioni e viene usato secondo numerosi significati: 1) in senso puramente ecologico-topografico; 2) in quanto si connette alle condizioni non solo di insediamento, ma di lavoro (lavoro marginale perché precario e non garantito, non continuativo, non regolare, non inquadrato in una organizzazione industriale propriamente intesa, quindi caratterizzato da guadagni saltuari, con caratteristiche prive di prestigio o umilianti, con un tasso di sfruttamento fisico e psichico piuttosto alto; lavoro a domicilio, lavoro minorile, lavoro “nero”, cioè senza contratto, ecc.); 3) in quanto collegato non solo con le condizioni del lavoro, ma anche con quelle del consumo (meno prestigioso, più limitato, irrazionale nel doppio senso che la precarietà dei guadagni non consente un bilancio razionale delle risorse nel tempo e che la pressione pubblicitaria enfatizza i consumi indotti, non necessari); 129

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4) in quanto è connesso con le condizioni del partecipare alla vita politica e sostanzialmente le nega, risultando in una impossibilità oggettiva di presenza politica e di capacità di rappresaglia sul piano politico; 5) in quanto si connette con le condizioni che riducono o annullano la partecipazione alla vita sindacale; 6) alla vita culturale, nel senso più ampio, cioè in definitiva 7) alle decisioni importanti sia per la comunità locale che per la collettività nazionale; 8) in quanto riguarda e definisce la posizione di determinati gruppi sociali, in particolare i giovani e i vecchi, nonché i gruppi delle persone handicappate di vario genere e tipo, ossia quei gruppi sociali che non appaiano prontamente utilizzabili in condizioni standardizzate, dell’apparato produttivo in base ai suoi imperativi tecnologici. Le nostre ricerche nell’area di Roma (si vedano in particolare Roma da capitale a periferia, Vite di baraccati) confermano che, come nel colonialismo classico le risorse umane e materiali venivano sfruttate a vantaggio esclusivo dei centri metropolitani, così anche nelle società odierne che si dicono sviluppate lo sviluppo e il benessere di una parte della popolazione sono pagati dallo sfruttamento e in generale dallo stato di precarietà e di esclusione di quella parte della popolazione che appunto si definisce come marginale. Nel corso degli anni tra il 1964 e il 1970, l’Istituto di Sociologia dell’Università di Roma “La Sapienza”, da me diretto, ha condotto ricerche intorno alla vita quotidiana della Periferia di Roma. I risultati sono stati pubblicati nei già citati Roma da capitale a periferia e Vite di baraccati, nonché in altri significativi volumi. Insieme ai miei collaboratori ho avuto a suo tempo vasta risonanza anche all’estero. A trentacinque anni di distanza, grazie a un generoso appoggio dell’assessore alla Cultura, Gianni Borgna, siamo tornati in borgata e abbiamo replicato quelle ricerche, con particolare riferimento a tre zone urbane periferiche: il Quarticciolo, la Borgata Alessandrina, l’Acquedotto Felice. Perché questa replica? La 130

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ragione sostanziale va cercata nel fatto che, mentre è vero che le scienze sociali, a differenza delle scienze naturali, consentono una limitata cumulabilità dei risultati, altrettanto vero è che le istantanee, pur necessarie, non sono sufficienti, occorre cogliere il moto evolutivo dei fenomeni sociali. Nella letteratura sociologica accreditata si conoscono due sole repliche criticamente fondate. La prima è quella che fa perno sull’American Soldier di Samuel Stouffer; la seconda riguarda la Authoritarian Personality, curata da Theodor W. Adorno. In entrambi i casi, è stato possibile stabilire interessanti continuità nei fenomeni sociali. Le ricerche sulle condizioni di vita nelle periferie urbane sono ricerche su fatti sociali per descriverne, interpretarne, spiegarne e prevederne sia lo stato di fatto sia le tendenze di sviluppo. La vita delle periferie è un fatto sociale “totale” (M. Mauss), vale a dire una realtà che va esplorata in tutte le sue componenti fondamentali. Ma è anche un fenomeno sociale diveniente ossia dotato di una particolare potenzialità di sviluppo. Per questa ragione, è bene replicare le ricerche: per coglierne la dimensione longitudinale e la continuità nel tempo. Roma è, in questo senso, un laboratorio sociale di prim’ordine. Essa sfugge alle due categorizzazioni prevalenti: a) la città classica, murata, che non tollera modificazioni senza chiamare in causa la forma e la struttura urbana complessiva; b) la città “agglutinante” industriale e la città come mercato, che possono espandersi indefinitamente, quartiere dopo quartiere, sotto la spinta degli interessi prevalenti, della produzione e della speculazione edilizia. Roma è, nello stesso tempo, una città storica, classica e una città moderna, ossia una molteplicità di sistemi interrelati e interagenti. La replica delle ricerche degli anni ’60 e ’70 è consapevole del carattere straordinario di Roma, città essenzialmente atipica, nata storicamente come città decentrata, composita e multietnica, a differenza del modello monocentrico, caratteristico della città greca classica. Gli storici più accreditati sono concordi nel ritenere che Roma rimase sempre una città accogliente ed etnicamente composita. I “mezzi sangue” e in generale i meticci non erano 131

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considerati come una degenerazione della razza. Lo jus soli di Romolo è esemplare. Si determinano una mescolanza etnica e insieme una mescolanza sociale. La Roma delle origini accolse individui apolidi, nomadi, nobili decaduti e persino schiavi. Roma, si potrebbe dire, nacque come una città aperta non solo ai fuggitivi, ma agli uomini di coraggio, in cerca del nuovo, capaci di iniziative inedite, bisognosi di presenza femminili, cui provvederanno con il leggendario “ratto delle Sabine”. Come abbiamo più sopra rilevato, negli ultimi trentacinque anni il Quarticciolo, la Borgata Alessandrina e l’Acquedotto Felice hanno avuto e oggi presentano, rispetto alla prima ricerca, modificazioni profonde. La prima fase della nuova ricerca documenta ciò che in passato non era prevedibile: se non la fine, certamente una riduzione di quella che resta la caratteristica fondamentale di tutte le periferie: l’esclusione sociale e la discriminazione classista. Soprattutto a proposito della Borgata Alessandrina e dell’Acquedotto Felice è stato notato un riavvicinamento tra centro e periferia, tanto da non poter più sostenere, come invece era necessario trentacinque anni fa, che periferia e centro si configurano come due realtà insanabilmente divise, estranee l’una all’altra – come città e anti-città. Cade anche l’idea, oggi ancora accarezzata da architetti e urbanisti, di limitarsi semplicemente a “rimodellare” la periferia. La ricerca documenta che non è più possibile parlare genericamente di periferia come contrapposta al centro. Alla fine degli anni Sessanta, con una popolazione complessiva di circa tre milioni di abitanti, si ipotizzava, per il 2003, una popolazione complessiva di circa cinque milioni di abitanti. Previsione errata, dovuta a un’estrapolazione indebita. Roma registra, oggi, una diminuzione della popolazione residente e conta circa duemilioni ottocentomila abitanti. L’errore era all’epoca dovuto a un’indebita estrapolazione basata sui ritmi immigratori dal Sud d’Italia e dalle zone limitrofe (Abruzzo, Campania, Ciociaria). In realtà, la situazione odierna ci dice che non è più possibile parlare di città e campagna, che va invece colto l’effetto di padronanza dell’espandersi urbano in modo da poter ipotizzare un continuum 132

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urbano-rurale, una urbanizzazione, che coinvolge anche il tessuto della città e induce a portare il centro nella periferia in vista di una regione metropolitana dotata di un tessuto sociale dinamico come molteplicità dialettica di sistemi, reattiva e policentrica. Tutta l’area comunale romana – la più grande d’Europa con circa 129.000 ettari – è in movimento. La periferia, lungi dall’essere una frangia suburbana esclusa, è centrale. Se si fermasse la periferia, si bloccherebbero il centro storico e tutta la vita cittadina. Nel territorio delle borgate di una volta, quelle che oggi vengono ufficialmente definite “quadranti urbani privi di funzioni pregiate”, vivono tuttora circa due milioni di romani, vale a dire circa due terzi della popolazione. La rivisitazione critica dell’area romana servirà probabilmente a documentare e a interpretare la realtà della periferia odierna, che è una risorsa e non un peso morto. Il Comune di Roma – 22 rioni, 32 quartieri, 6 suburbi, 3 quartieri marini, 59 zone dell’Agro – è una realtà varia e complessa in cui più ricca che altrove è forse apparsa la presenza umana. Contrariamente alle esperienze di New York, con Harlem vent’anni fa e oggi con il Bronx, della banlieue di Parigi e delle favelas, barriadas, villas miserias dell’America Latina, delle verminose periferie di Bangkok e di Calcutta, la periferia romana d’oggi sembra che possa riuscire, per tutta la città, una grande risorsa e un fatto positivo, ma si presenta con una varietà notevole di tipi professionali e di stili di vita, con richieste di partecipazione e di mobilità sul territorio che attendono di essere soddisfatte e che vanno pazientemente indagate nella loro specificità. Il rischio di oggi è, infatti, quello di considerare la baracca e la baraccopoli di ieri come il prodotto di un sottosviluppo che ormai è stato superato e che si tratterebbe solo di procedere a un’astratta, razionalizzante programmazione dell’area comunale. La fine delle borgate e delle baracche non significa di per sé la fine dell’emarginazione metropolitana. Non è sufficiente portare nelle ex-borgate i servizi essenziali – luce, acqua, gas – la segnaletica stradale, i “segni esterni” della modernità. Occorre un processo di autopromozione, economica ma anche culturale, servizi sociali essenziali, ma anche scuole mi133

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gliori, luoghi di ritrovo interetnico, cinema, biblioteche, attività di aggregazione per i giovani con i loro tipici concerti e la loro musica. Per ridurre sempre più il divario centro-periferia bisogna portare il centro nella periferia. La prima fase della nuova ricerca riconferma che la situazione sociale degli anni ’60 e ’70 è profondamente mutata. La «cintura rossa» della classe edilizia non c’è più. La stratificazione sociale è molto più varia e frastagliata. All’epoca, la ricerca aveva messo in luce un tipo relativamente inedito di attore sociale: era il proletario intermittente, sospeso fra operaio con posto fisso e inquadramento razionale nella forza-lavoro, e sottoproletario, costretto a scegliere l’espediente come mezzo di sussistenza e sopravvivenza. Oggi la situazione è diversa. La ricerca conferma la scomparsa della classe degli operai dell’edilizia, determinata, come si è detto più sopra, dall’evoluzione della tecnologia produttiva delle grandi ditte della costruzione edilizia (Gabetti, Tronchetti Provera, e altri), che hanno soppiantato e spinto fuori mercato i “palazzinari”, grandi e piccoli, con la divisione del lavoro, la specializzazione delle mansioni produttive, i nuovi materiali e le nuove tecniche del processo produttivo. Il ghetto edile, di cui si parlava ancora in Vite di baraccati, non c’è più. Anche l’immigrazione è cambiata. Non viene più dall’Abruzzo, dalla Ciociaria o dal Sud. Sono arrivati gli immigrati extra-comunitari. Non ci sono più le baracche dove si dovrebbero trovare gli attrezzi agricoli elementari; oggi vi dormono, un tanto al letto, gli extra-comunitari. Non ci sono più i proletari intermittenti. La ricerca documenta che vi sono al loro posto, specialmente nella Borgata Alessandrina, i nuovi medi e piccoli borghesi, che voteranno a destra e non più a sinistra. La “cintura rossa” è un ricordo. La Borgata Alessandrina e l’Acquedotto Felice hanno compiuto progressi notevoli nel superamento del divario centro-periferia. Paradossalmente, il Quarticciolo appare penalizzato dal fatto che è compreso fra strade di rapido scorrimento che, in qualche modo, lo tagliano fuori dal resto del tessuto urbano e finiscono per isolarlo, mantenendolo in una situazione di relativo distacco che, mentre ne conserva la comunità naturale, lo priva d’altro canto dei possibili 134

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apporti positivi che stanno invece dinamicizzando le altre zone già periferiche. L’analisi delle interviste riserverà probabilmente qualche sorpresa. Si è fatto molto, per la vecchia generazione, venendo incontro ai bisogni, oggettivi e psicologici, di una popolazione che appare contrassegnata da una longevità crescente, di per sé fatto positivo, ma che pone peraltro problemi di assistenza non indifferenti. Ma i giovani si sentono abbandonati. Mancano, per loro, luoghi di ritrovo che presentino le caratteristiche da essi preferite, e non è per puro capriccio che ogni fine settimana questi giovani si rovesciano, a frotte sempre più numerose, soprattutto valendosi della metropolitana, sul centro storico e sui quartieri semi-centrali, da Piazza di Spagna a Piazza Fiume e a Via Ottaviano. La “Notte bianca” è stata un’occasione importante, per giovani e meno giovani, allo scopo di riscoprire e di riappropriarsi del territorio urbano. Ma questo recupero della città va reso continuativo nel tempo. Non può ridursi ad esperienza effimera, a un dono del caso. I temi ricorrenti e le aree problematiche che emergono dalle interviste ai testimoni privilegiati sono: 1. Quarticciolo: nostalgia per un passato comunitario – senso di chiusura e di isolamento – carenza di negozi e di luoghi di interazione – latitanza delle istituzioni – le famiglie abbandonate a se stesse – i giovani, annoiati, si danno alla droga – tendenza allo spopolamento – lavoro precario – orgoglio di appartenere al Quarticciolo, vecchia periferia operaia (da parte di alcuni degli anziani). 4) Alessandrino: il degrado urbano è stato bloccato, ma i fitti sono alti – presenza degli stranieri e barriere linguistiche – carenza del senso di comunità – la scuola e le chiese sono attive, ma la mobilità sul territorio è problematica. 5) Acquedotto Felice: scomparse le baracche, ma per i giovani le case hanno prezzi proibitivi – si affittano abituri a stranieri per prezzi esosi – in via di risoluzione il problema scuola, ma mancano biblioteche – manca un ufficio postale locale – al Quadraro resiste un forte senso di comunità (“noi siamo il centro storico della periferia”) – speranze nel “Parco degli Acquedotti”. 135

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XVI. La nuova povertà

La responsabilità delle baracche non va ricercata all’interno delle baraccopoli. Nel caso di Roma, per esempio, il perdurante fenomeno delle baracche rimanda alla necessità di capire Roma nel suo insieme come centro politico del sistema capitalistico italiano visto nelle sue caratteristiche interne di sistema capitalistico dipendente e quindi nei suoi importanti addentellati internazionali. Nessun dubbio che Roma raccolga la crisi dell’agricoltura dell’Italia centro-meridionale e sia un polo di attrazione per l’immigrazione extra-comunitaria. Roma è la grande cerniera fra Nord e Sud, è la prima tappa alla quale si fermano gli immigrati più poveri e disperati, quelli che non ce la fanno a raggiungere Milano, Torino, la Svizzera, la Germania. Fin qui siamo nei termini d’una spiegazione ormai tradizionale. Resta però in piedi un fatto conturbante. Roma non è Milano, Torino, Francoforte. La periferia di Roma non ha nulla della banlieue parigina. Contro tutti gli schemi esplicativi della sociologia urbana corrente si dà il fatto che Roma cresca ad una tasso accelerato, si sviluppi e costituisca un caso di processo intenso di urbanizzazione senza industrializzazione e con il rischio di una terziarizzazione spuria di tipo clientelare, usata dai partiti politici per garantirsi il consenso. Tuttavia, la povertà forse più grave è quella che non si vede. È la povertà dignitosa, quella che cerca disperatamente di salvare le apparenze. È la neo-povertà del ceto medio, che si vergogna di se stesso. Per un esempio, si pensi a un professore di lettere di scuola media, con moglie e due figli a carico, ancora in età scolare. Lo stipendio non raggiunge i millecinquecento euro al mese. D’altro 136

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canto, la moglie, per decoro sociale, non può certamente andare “a servizio” nel quartiere. La famiglia comincia a dover ridurre i consumi non strettamente necessari. La figlia rinuncerà a praticare lo sport preferito oppure abbandonerà le lezioni di pianoforte. Per il motorino il figlio sarà bene che aspetti. Userà quello degli amici e dei compagni di scuola. È umiliante, ma non si dà alternativa: “Papà non ha i soldi; non ce la fa”. La signora veste sempre con la sua naturale eleganza, ma il guardaroba è sempre più limitato. Si risparmia anche sulla tintoria. Ci si guarda dal frequentare troppo spesso il parrucchiere. Rispetto a questo nucleo familiare, i nuovi ricchi sono gli appartenenti alle famiglie operaie o di estrazione popolare. Possono lavorare occasionalmente nell’economia sommersa; per questa via, integrano i guadagni regolari. Per il professore si sono ridotte, invece, le lezioni private per gli esami di riparazione, che sono stati praticamente aboliti. Non mancano attenti analisti sociali portati a ritenere che la povertà non è materiale e finanziaria, ma immateriale e relazionale. Può anche essere. Salvo che depressione ed esclusione non piovono dalle nuvole. Hanno radici obiettive. Non è sufficiente dire che i nuovi poveri sono dei marginali. Occorre comprendere come si diventa marginali. È un fatto che quote sostanziose di ceto medio, che con ricerche mirate andranno attentamente misurate, vivono nel timore di un declassamento, si sentono scivolare verso uno stato di povertà, solo a fatica arrivano alla fine del mese. Un qualsiasi incidente di percorso, per così dire, come una malattia, specialmente con ricovero in ospedale e intervento chirurgico, anche minore, come tonsille o appendicite, che si verifichi nella vita quotidiana della famiglia, è sufficiente a pregiudicare un equilibrio di bilancio sempre sul filo del rasoio. Il ceto medio vede, giorno dopo giorno, la sua posizione sociale erosa dalla sua crescente impossibilità di far fronte a consumi ritenuti ormai essenziali per un decente, rispettabile tenore di vita. Contrariamente alle più o meno rosee previsioni di gran parte della pubblicistica socio-economica dei Paesi tecnicamente 137

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progrediti, il benessere, proprio in questi Paesi, non solo non si allarga coerentemente fino a lambire e a coinvolgere le frange emarginate della società, ma tende a far aumentare la disuguaglianza fra ricchi e poveri. Paradossalmente, la società dell’informazione e della comunicazione elettronicamente assistita, da cui ci si aspettava una maggiore uguaglianza e una ricchezza più equamente divisa, tanto che si parlava e scriveva di “capitalismo popolare”, emerge oggi come una società dominata da un solo criterio fondamentale: la massimizzazione del profitto nel minor tempo possibile secondo le regole della competizione che ha luogo nel mercato impersonale, tendente a ridurre tutti i rapporti, anche quelli personali più intimi, a puri rapporti contrattuali di tipo utilitario. Gli stessi programmi del welfare, in questa situazione, si giustificano solo come tecniche di conservazione delle risorse umane ai fini di uno sfruttamento sempre più raffinato, in base ai principi del darwinismo sociale che garantisce solo ai più idonei la sopravvivenza. Per molti aspetti, agli inizi del terzo millennio sembra di tornare alla fine dell’Ottocento, quando i poveri erano considerati falliti per loro colpa, socialmente pericolosi, giustamente relegati ai margini come feccia sociale, come dei “percossi da Dio”. La delega in bianco che è stata riconosciuta alla tecnologia per lo sviluppo della società sembra ignorare il fatto di palmare evidenza che la tecnologia, nel caso migliore, è una perfezione priva di scopo. Per invertire questa tendenza è illusorio aspettarsi riforme dall’alto. I vertici del potere socio-economico, in posizione di privilegio relativo, non hanno alcun interesse a riformare la situazione esistente. La sola via d’uscita dalla contraddizione attuale di un sistema che, mentre aumenta la produzione e la ricchezza di certi gruppi, emargina e condanna alla miseria quote consistenti della popolazione, sembra essere quella di una diagnosi severa dello stato di povertà, della sua genesi e dei suoi modi evolutivi, affinché i poveri prendano coscienza di se stessi come cittadini a pieno titolo e procedano, eventualmente, alla propria autoliberazione. 138

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A parte la situazione della periferia romana, come fenomeno mondiale il mondo periferico raggiunge dimensioni imponenti. Una tipologia ragionata su scala mondiale del suo habitat non è ancora disponibile, pur offrendosi all’analisi una serie di situazioni sufficientemente circoscritte: a) città nella città o città come anti-città o quasi-città; b) polarità estreme come la barriada di San Cristóbal a Lima, Perù, rispetto al quartiere di lusso di San Isidro; come Monti Parioli, a Roma, contrapposti a Tor Bella Monaca o all’Acquedotto Felice. Come gli Champs-Élysées parigini rispetto alla banlieu e così via. Spesso le baraccopoli occupano un’altura, un piccolo colle, un morro, a favorire il deflusso dei rifiuti liquidi e solidi in assenza di reti fognarie. Questo accade specialmente in Brasile, nelle favelas di Rio. Ma si danno anche costruzioni intensive, dovute alla speculazione edilizia selvaggia, ubicate sotto il livello di corsi d’acqua, come il quartiere della Magliana a Roma, costruito sotto il livello del Tevere e da questo fiume regolarmente allagato. La tipologia abitativa della povertà è varia, frastagliata. Va dalla gente che vive nel fango nero, con i vermi, di Bangkok o di Calcutta al “serpentone” di Corviale a Roma, alle “vele” di Napoli, alla periferia estrema di Francoforte. È una tipologia che attende ancora i suoi analisti dal punto di vista architettonicourbanistico, mentre architetti di grido sognano di “rimodellare i ghetti”. Dobbiamo contentarci di scarni cenni. Accanto alle “borgate ufficiali” con le loro “case minime”, create dal potere costituto per riservare il centro urbano alle cerimonie e ai turisti danarosi (è il caso di Roma) vi sono le bidonvilles africane e asiatiche, le shanty towns del Sudafrica, i borghetti abusivi, le baraccopoli. I nomi variano: a Parigi sono banlieues; a New York e a Los Angeles sono slum e ghettos; poblaciones in Cile; villas miserias in Argentina; barriadas in Perù. Fra tutte le forme e i tipi abitativi, prevale il “tugurio”, non troppo dissimile dal «basso» napoletano. Sono da vedersi, come precoce esempio di indagine sul campo, le ricerche degli anni ’60 di Luciano Cavalli sugli “abituri” 139

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di Genova. Esiste e, anzi, fiorisce una economia della baracca. Naturalmente, è tutta al nero, vale a dire è economia invisibile, senza notai, sempre in contanti “sull’unghia”, sommersa. Al Borghetto Latino, a Roma, negli anni ’60, si pagavano, per una baracca con tetto di lamiera e pavimento in terra battuta, senza luce né acqua, 25 lire al mese: un affare per il “senzatetto”, ma con qualche problema per le sue vie respiratorie. Contro ogni ottimistica previsione dei poteri ufficiali e dei loro maggiordomi, il mondo periferico non si restringe, non indietreggia. Anzi: il mondo periferico avanza. In una ricerca degli anni ’80, di cui davo notizia nel libro Oltre il razzismo (Roma, Armando, 1988), prevedevo il crescere impetuoso dei flussi immigratori verso le sponde dei Paesi tecnicamente progrediti. Non mancarono gli inconsapevoli, anche tra gli studiosi delle migrazioni, che scambiarono la previsione per una metafora. Stando ai dati resi disponibili dagli uffici delle Nazioni Unite, sembra che attualmente circa 924 milioni di persone vivano negli slum e nei tuguri. È un dato impressionante – un quinto della popolazione mondiale – e non può lasciare indifferenti neppure coloro che credono nel progresso come fatalità cronologica e che non si rendono conto che il benessere, prodotto del capitalismo maturo, non si diffonde a macchia d’olio, bensì a pelle di leopardo, accentuando in misura inquietante il divario fra ricchi e poveri, la frattura fra i cittadini in grado di partecipare alla vita della comunità e quelli strutturalmente esclusi e di fatto condannati all’irrilevanza.

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APPENDICI

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Università di Roma Istituto di Sociologia Facoltà di Magistero Corso Trieste, 61 Roma 18.3.07 Spett.le Direzione di LIBERAZIONE – Redazione Roma Fax 06.44183247

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Cari amici, Ho letto con grande interesse le riflessioni e le richieste di don Roberto Sardelli a proposito della condizione umana nelle borgate romane. Insieme con quello di Pier Paolo Pasolini, conservo un ricordo molto vivo di don Sardelli fin dall’epoca in cui, avendo già pubblicato Roma da capitale a periferia, stavo raccogliendo storie di vita nella parrocchia di san Policarpo, all’Acquedotto Felice, che sarebbero poi state pubblicate in Vite da baraccati. È incredibile come tornino richieste e riemergano problemi che sembravano già dati per risolti. L’“Assessorato alle politiche culturali” ha da qualche tempo promosso la replica delle mie vecchie ricerche e il Rapporto finale, in due grossi volumi, corredati da fotografie sia del ’70 che recenti, sta per essere pubblicato. In questo rapporto si insiste, con dati e riflessioni, sulla necessità che i problemi di Roma, soprattutto della sua periferia, siano affrontati con provvedimenti strutturali, che non si risolvano solo in manifestazioni o iniziative frammentarie, una tantum, che possono intrattenere per una sera o una settimana, ma poi lasciano il tempo che trovano. In particolare, sembra che i giovani, nonostante gli indubbi progressi realizzati in tutta la periferia romana a partire dalla Giunta Petroselli, quindi da quella di Rutelli fino all’attuale di Walter Veltroni, siano ancora, se non allo sbaraglio, certamente allo sbando. Occorrono centri di ritrovo permanenti, anche interetnici per non dar luogo a situazioni di ghettizzazione, luoghi di 143

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attività culturale, discussioni sociali e politiche, in grado di colmare il vuoto lasciato dalla crisi delle istituzioni tradizionali, dalle parrocchie ai partiti politici, ai sindacati. Per fortuna, a parte la replica della mia ricerca del 1970, altri gruppi sono ora attivi a Roma e stanno meritoriamente raccogliendo documenti di storia orale, interviste dirette con gli abitanti, ormai protagonisti e non più soltanto beneficiari più o meno passivi di iniziative dall’alto, giocate sull’immagine e non sempre garantite rispetto al pericolo di manipolazioni psicologiche di massa. Fra questi gruppi mi sembra di dover menzionare quelli che fanno capo al prof. Alessandro Portelli, che da anni si occupa di storia orale con risultati positivi. Ricordo inoltre la prof. Lidia Piccioni che, alla “Sapienza”, ha organizzato un Laboratorio di storia urbana, con particolare riguardo alle molte identità di Roma nel Novecento, di cui la Franco Angeli ha già pubblicato studi riguardanti la Borgata Gordiani, la Garbatella e Torpignattara. In questo fervore di ricerche mi è di grande conforto che l’impostazione adottata faccia perno sul metodo qualitativo che, nelle ricerche sociologiche, non è ancora un metodo maggioritario e che, peraltro, ha il notevole vantaggio di basarsi su una concezione della cultura non come capitale privato e su un atteggiamento che riconosce nei gruppi umani indagati dei collaboratori essenziali del processo di indagine, tanto da porre i presupposti per una presa di coscienza rinnovata e di un concetto di cittadinanza inclusiva e non esclusiva. Con viva cordialità Franco Ferrarotti

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Appendice I

Rapporto Marzano e breve commento critico

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ANTONIO MARZANO

La Commissione per il Futuro di Roma Capitale è stata istituita con ordinanza del sindaco di Roma Gianni Alemanno del 25 settembre 2008. Ha fin dall’inizio suscitato molto interesse presso i mezzi di stampa e l’opinione pubblica in generale. Il mandato della Commissione andava assolto entro il mese di marzo 2009. Ciò ha comportato un lavoro intenso per i suoi componenti, che si sono riuniti in sedute plenarie o di “gruppo”. Infatti i suoi membri si sono organizzati in sei gruppi di lavoro tematici, con i rispettivi coordinatori e così denominati: “Economia e Imprese”, “Servizi, Infrastrutture, Trasporti”, “Demografia, Integrazione e Coesione sociale”, “Cultura, Archeologia, Turismo”, “Sport, Spettacolo, Moda”, “Innovazione, TLC, Sviluppo sostenibile”. La Commissione è politicamente bipartisan, e cioè composta da personalità di vario orientamento politico, e comunque invitate come esperti oltre che rappresentanti di associazioni produttive, di organizzazioni sindacali, del mondo universitario e bancario, e, ancora, come tecnici e professionisti, e rappresentanti di culture e religioni diverse. Ne è seguito un carattere multidisciplinare, multiculturale oltre che politico, che ha comportato scambi di vedute anche vivaci, che hanno arricchito le posizioni finali prese. Nell’ambito della Commissione si è cercato di rappresentare il più possibile il mondo produttivo e sociale, al fine di comprendere meglio le problematiche della città dai diversi punti di vista e di evidenziare le proposte ritenute dall’insieme della Commissione come 145

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le più qualificate per ripensare la città di Roma nel medio-lungo termine. Sono state ascoltate personalità esterne, si è tenuto conto delle segnalazioni e suggerimenti provenienti dai cittadini. L’orizzonte temporale prescelto è di medio-lungo periodo, e cioè ulteriore rispetto al mandato dei componenti il Consiglio e la Giunta comunale. L’obiettivo perseguito è quello di rendere Roma competitiva e più internazionale, al pari di grandi città come Londra o Parigi. Per andare in questa direzione bisogna incidere sulla struttura economica e sociale della città, e ciò richiede tempi lunghi. Si tratta di adeguare infrastrutture materiali e immateriali, di valorizzare il patrimonio archeologico che Roma possiede, di migliorare la coesione sociale, e ancor prima, o per tutto ciò, di disegnare una nuova e diversa gestione del territorio. °°° Globalizzazione e urbanizzazione hanno rafforzato il peso delle città e delle aree metropolitane: più del 50% della popolazione mondiale vive nelle regioni urbane. Oggi grandi città o aree metropolitane costituiscono gli spazi principali nell’economia globale, al punto che si parla di «un mercato comune delle economie metropolitane». Le dimensioni della città di Roma hanno pochi confronti in Europa. La sua popolazione residente (2005) è di 2.547.677 persone. La seconda città d’Italia, Milano, ha una popolazione residente di 1.271.860 persone. L’estensione del comune di Roma è di poco meno di 1.300 Km ed è cioè pari ai territori del Comune di Milano, Bologna, Torino, Genova, Padova, Cagliari, Firenze, Bari. In Europa solo Londra ha una dimensione maggiore. Il ruolo delle grandi città, secondo le visioni più recenti, è di funzionare come motore di sviluppo della crescita economica e del miglioramento della qualità della vita e del benessere, anche perché vi si concentra larga parte del popolazione, del capitale strutturale, delle attività economiche. Questo fenomeno non è nuovo. Memphis, Alessandria, Atene e Roma sono state le protagoniste della civiltà, dell’educazione e della potenza per millenni. E la rivoluzione industriale del XIX secolo ha rafforzato il ruolo delle grandi città. È 146

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significativo che l’Expo che si svolgerà nel 2010 a Shangai tratti il tema Better city, better life. °°° Dal punto di vista economico la maggior parte delle aree metropolitane ha un PIL pro-capite più alto della media nazionale (66% delle 78 aree metropolitane secondo l’OECD), un livello della produttività più elevato (65%), e più alti tassi di crescita rispetto a quelli nazionali. Il PIL pro-capite di Roma è stimato pari a 34.021 euro rispetto a una media italiana di 25.921 euro e la Capitale si pone al sesto posto nella graduatoria delle province italiane per l’anno 2007. Le migliori performance economiche delle aree metropolitane sono attribuibili a alcuni vantaggi specifici. Le economie di agglomerazione permettono di attrarre iniziative produttive e rappresentanze delle grandi aziende, che possono beneficiare di una scelta più ampia di risorse finanziarie, lavorative e di una più ampia gamma di contributi professionali, di una maggiore prossimità ai centri pubblici decisionali, della specializzazione dei servizi e di una più ricca dotazione di infrastrutture. Le economie di agglomerazione trovano conferma nella correlazione positiva tra area metropolitana e reddito, soprattutto quando vi si concentra oltre il 20% del PIL nazionale. Nelle città che sono capitali della nazione questa correlazione è ancora più evidente. Ci sono vantaggi in termini di specializzazione nelle attività ad alto valore aggiunto, derivanti dalla possibilità di beneficiare di attività di ricerca e sviluppo, e di produrre innovazioni. Più dell’81% dei brevetti derivano dalle aree urbane. Le aree metropolitane hanno, poi, più disponibilità di capitale fisico (dallo stock immobiliare, alle reti immateriali, alla trasportistica). Ma le grandi città, oltre a questi indiscussi vantaggi, presentano anche diseconomie di scala, tipiche delle grandi aree urbane: tassi di disoccupazione spesso più elevati di quelli nazionali; esclusione e povertà dovuti a fenomeni di immigrazione o alla presenza di periferie; disuguaglianza socio-economica tra le diverse categorie della popolazione. Tra le esternalità negative vanno ricordati i costi della congestione urbana, e talvolta il degrado delle infrastrutture. I costi di conge147

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stione riguardano il traffico, forme di inquinamento che peggiorano la qualità dell’aria e dell’acqua, alti livelli di rumore e il degrado di aree verdi. La qualità delle infrastrutture risente di difficoltà di manutenzione, soprattutto in luoghi in cui c’è un’alta concentrazione di persone e di attività economiche.

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°°° La combinazione di vantaggi economici e delle difficoltà presenti nelle aree metropolitane pone al policymaker un problema di scelte strategiche. La Commissione per il Futuro di Roma Capitale suggerisce come obiettivo quello di immaginare vie di massimizzazione dei vantaggi e di minimizzazione delle criticità. Ci è sembrato importante proiettare Roma, per la sua storia, per la sua collocazione geografica, verso «ambizioni» forti, alte, che, se condivise, potrebbero ispirare strategie di medio-lungo periodo da parte dell’amministrazione comunale (ma non solo). Roma è unica al mondo grazie alla stratificazione senza eguali del patrimonio storico-artistico. È infatti la sola città dell’Occidente in cui è ancora possibile rintracciare testimonianze monumentali che vanno senza soluzioni di continuità dalla nascita dell’Impero Romano a oggi. La particolarità che la contraddistingue nel panorama delle capitali è la sua enorme ricchezza artistica, architettonica e archeologica contenuta non solo all’interno del centro storico, ma diffusa capillarmente in tutto il territorio: caratterizzato da un tessuto di acquedotti, strade, ville, cisterne, sepolcri, ruderi, torri medioevali, disseminati lungo un tempo quasi senza soluzione di continuità e all’interno di un ambiente naturale, la cui suggestione e bellezza ne rafforzano l’unicità. Il centro monumentale di Roma è patrimonio dell’Umanità nella lista dell’UNESCO. L’area archeologica centrale è la zona più ricca e famosa nel mondo per la concentrazione di monumenti. Il Foro Romano, il centro politico, economico e religioso della città antica, del Mediterraneo e dell’emisfero Occidentale; il Palatino, il luogo di nascita di Roma; i Fori imperiali, costruiti per ampliare il Foro romano; e poi il Colosseo, la Domus Aurea, il Circo Massimo, le Terme di Caracalla, le Terme di Diocleziano. 148

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Roma si può considerare, dal punto di vista storico-artistico, un gigantesco giacimento prodigiosamente conservato, in cui si può fare esperienza dei momenti più alti del Medioevo e del Rinascimento in tutte le loro fasi, fino all’epoca barocca ed alla neoclassica che annoverano sul territorio romano esempi tra i più importanti in tutta la storia dell’arte occidentale. A ciò si aggiungono i patrimoni artistici di appartenenza della Città del Vaticano, come le Basiliche di S. Pietro, S. Maria Maggiore, S. Giovanni in Laterano e il Sancta Sanctorum, S. Paolo fuori le mura. Straordinario è il patrimonio dei Musei Vaticani, pure extraterritoriale: straordinari sono i capolavori come la Cappella Sistina e le Stanze di Raffaello. Roma è infatti unica al mondo anche per essere il centro della cattolicità. Roma è al tempo stesso città dello spirito e dei tempi, elemento dell’immaginario universale ma ancora accessibile, in tempi ormai globalizzati e omologanti, Roma contribuisce all’umanizzazione del mondo come città dell’incontro di storie, culture, religioni diverse. °°° Nel corso dei lavori della Commissione, è stata segnalata la possibilità di valorizzare l’archeologia di Roma, rendendola non solo contemplativa ma “funzionale” alla vita sociale e culturale dell’oggi. Tecnologie avanzate permetterebbero, nella rigorosa salvaguardia di monumenti e palazzi, di ospitarvi manifestazioni culturali ed artistiche, ma anche nuove e permanenti attività politiche e civili. Le moderne tecniche della luce potrebbero restituire visibilità, vitalità, funzionalità alla nostra tecnologia. A Roma è ancora conservato il maggiore numero, senza tema di paragoni, di Palazzi monumentali esistenti in qualunque altra città del mondo. Molti di questi palazzi sono ancora abitati o detenuti dalle famiglie aristocratiche originali, o nella loro proprietà; molti sono divenuti sedi istituzionali del Vaticano o di Ministeri, sedi governative, ambasciate o di musei: altro fenomeno unico al mondo è proprio la presenza di veri e propri musei in Palazzi ancora privati, di valore e significato paragonabile, in proporzioni diverse, a quello dei grandi musei statali. 149

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Il turismo culturale di Roma ha una lunga tradizione, come altre attività, dall’edilizia al commercio. Roma e provincia sono anche territori con una forte presenza del settore agro-alimentare (la quota del territorio dedicata a colture biologiche è la più alta d’Italia) e di piccoli esercenti commerciali. Molti sono i marchi storici della città di Roma, che ancora oggi arricchiscono la reputazione della nostra città o della Regione, e che, in molti casi risalgono al 1800. Altra positività di Roma è la specializzazione innovativa. Roma è tra le otto città fulcro di innovazione del mondo, come emerge da una classifica del Global Innovation Agency del 2008. Anche in questo senso le grandi città assumono il ruolo trainante di sviluppo e investimento, fino a diventare delle vere e proprie Tecnopoli, dove conoscenza, ricerca e cultura si confrontano con l’economia della globalità. Roma ha poli di eccellenza (ad esempio, il distretto aerospaziale o il polo tecnologico Tiburtino) e un forte flusso di turismo congressuale. Roma è centro di valenza internazionale nelle produzioni cinematografiche, in quelle dell’elettronica (soprattutto militare) e, considerando l’intera area metropolitana, nelle produzioni chimicofarmaceutiche. La programmazione e l’ispessimento della rete di relazioni tra la città delle produzioni innovative e quella della cultura e della scienza è una pre-condizione necessaria per attivare ulteriori processi di innovazione e crescita. La stessa attività fieristica dovrebbe essere programmata tenendo conto del ruolo e del posizionamento che la città vuole svolgere sul mercato mondiale. Per poter trasformare Roma in una “città globale”, cioè in un nodo di quella rete mondiale di città interconnesse alla quale già appartengono con funzioni molto specifiche le più grandi città del mondo (come New York, Tokyo, Parigi, Londra, Seul, Pechino, Shangai ed altre poche ancora), bisognerà fare scelte oculate e adottare una strategia di inserimento della città in queste molteplici centralità. Una delle specializzazioni forti di Roma, già oggi, è quella connessa alla cultura. Nella rete mondiale delle città globali Roma potrebbe rappresentare il luogo di elaborazione e valorizzazione della cultura che dovrà, però, essere declinata in tutte le sue accezioni: 150

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distretto culturale, dell’audiovisivo, della ricerca, della formazione universitaria e del turismo, del restauro. A questo riguardo, l’eccezionalità del patrimonio culturale della Capitale “imponeva” la creazione di un “momento” che ne assicurasse la corretta conservazione. L’Istituto Centrale del Restauro ha avuto sede a Roma fin dalla sua fondazione, nel 1939. Il legame dell’Istituto con Roma si è articolato nel corso dei decenni, anche cogliendone la tradizione plurisecolare di “capitale internazionale delle arti”, con lo sviluppo delle attività all’estero. La presenza di un forte terziario, di un settore delle costruzioni in espansione, della presenza di grandi imprese nelle telecomunicazioni, nell’energia, nel petrolchimico, nel farmaceutico ha conferito una forte varietà all’economia romana, rendendola meno soggetta alle fluttuazioni economiche nazionali e internazionali. °°° Completano e contraddistinguono la fisionomia di Roma la vasta presenza di organismi internazionali, un’amministrazione pubblica molto articolata sul territorio, il numero elevato di associazioni e organizzazioni non governative. Roma, in quanto Città Capitale, è anche la sede delle funzioni di rappresentanza e di governo dell’intera collettività nazionale. L’impatto economico di queste funzioni è importante per l’economia della città. Gli occupati nei Ministeri, nelle Agenzie, nella giustizia amministrativa e negli organi costituzionali che svolgono la loro attività a Roma risultavano al Censimento del 2001 poco meno di 240 mila unità, peraltro ridotti di circa 10 mila unità negli anni più recenti. A tutt’oggi il settore statale assorbe, quindi, intorno al 20% dell’occupazione totale della città. Oltre all’impatto diretto sull’occupazione e sull’economia della città, le funzioni istituzionali costituiscono anche un notevole polo di attrazione per l’insediamento sia di altre istituzioni pubbliche che di specifiche attività private. Questa capacità attrattiva è sia diretta che indiretta. La funzione di Città Capitale spinge, in modo diretto, ad insediare in città istituzioni quali le ambasciate, i centri culturali, le scuole internazionali, la Banca d’Italia, le altre autorità di vigilanza e molte altre ancora. Indirettamente, il ruolo di Città Capitale diventa un elemento di 151

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attrazione per molte attività rappresentative di interessi. L’impatto economico dell’indotto del ruolo istituzionale di Roma non è di agevole stima ma è comunque rilevante. Si è già ricordato che in tutte le grandi città ci sono esternalità negative, che rendono complessa la vivibilità. Parliamo dei problemi relativi alla mobilità, all’hinterland, al degrado delle periferie con connessi problemi di sicurezza e di criminalità, ai fenomeni di integrazione e di coesione sociale. Oggi a Roma il problema dei problemi è il traffico. Circa 2000 anni fa, Roma aveva inventato il sistema della mobilità. I Romani costruirono ponti, strade, porti, sistemi logistici. La mobilità costituì il veicolo fondamentale per la formazione e per la diffusione della civiltà romana. In confronto alle altre metropoli europee, Roma ha la peggiore ripartizione modale, il più elevato tasso di motorizzazione, le peggiori prestazioni di trasporto pubblico e la minore presenza di trasporto pubblico su ferro. Ma il dato in assoluto più penalizzante è che a Roma ogni cittadino dispone mediamente di circa 2 spostamenti al giorno, mentre i cittadini delle altre metropoli arrivano a disporre anche più del doppio. L’avvio a soluzione di questo problema attraversa e condiziona la realizzabilità di tutte le “ambizioni” che hanno ispirato la Commissione. Le ambizioni sono molteplici, muovono da vocazioni che ci sono sembrate “naturali” per Roma, e traspaiono dalle aggettivazioni stesse che le abbiamo conferito. Roma città policentrica, Roma, città dei saperi e delle conoscenze, Roma città del turismo, dell’entertainment e dell’economia del tempo libero, Roma città coesa e solidale, Roma città competitiva e internazionale. Le proposte che sono emerse sono di alto valore aggiunto non solo economico ma anche sociale. Si ispirano ad una società consapevole della propria storia e del patrimonio che ha ereditato. Che vuole raggiungere traguardi ulteriori, e necessari, di efficienza nell’organizzazione complessiva del territorio; valorizzare le istituzioni preposte alla formazione e al processo della conoscenza; riconoscere il merito, i talenti, la capacità di intraprendere; tutelare la sicurezza, la salute, l’ambiente; integrare le differenze e rafforzare la coesione sociale. Il progetto è ambizioso, ma bisogna pur cominciare. Il rapporto è articolato in cinque ambizioni tese ad interpretare, attraverso la loro articolazione in obiettivi e decisioni, un sogno co152

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mune a tutti i cittadini romani: quello di vivere, studiare, lavorare e progettare il futuro proprio e dei propri figli, il futuro di medio e lungo periodo, in una città dove tutto questo sia possibile in un modo migliore. In vista di ciò, si possono riscontrare alcune linee di azione già proposte in altre sedi programmatiche, o che non sono di stretta competenza del Comune. La Commissione può averle considerate importanti nel disegno complessivo del futuro di Roma, e quindi da segnalare nel primo caso per condivisione e nel secondo per una sollecitazione rivolta a chi di competenza. Ambizioni, obiettivi e decisioni costituiscono la tecnica di analisi che si riscontra nel noto Rapporto Attali, e che metodologicamente è stata condivisa. La loro successione non vuole rappresentare un’indicazione di priorità, la cui formulazione compete unicamente agli organi politici deputati. In alcuni casi, le “decisioni” sono reciprocamente alternative, e richiedono quindi una specifica scelta “politica”. A parte, rispetto al Rapporto, vengono trasmesse molte “schede progettuali” e progetti, a cura di singoli proponenti, che valgono anche come esempi di pratica applicabilità delle proposte avanzate. Spero che il lavoro della Commissione per il Futuro di Roma Capitale sia d’aiuto per chi ha il delicato compito di definire le priorità. Spero anche che le proposte ritenute idonee siano tradotte in concreti progetti, in misure di riforma o in un Piano strategico di sviluppo della Città.

Guida alla lettura Gli esiti del lavoro della Commissione per il Futuro di Roma Capitale sono organizzati in 5 Ambizioni a loro volta articolate in 14 Obiettivi e 142 Decisioni. Pensate per disegnare una città più competitiva e solidale, efficiente e sostenibile, le ambizioni sulle quali si ritiene debba essere imperniato il futuro di Roma sono le seguenti: 1. Roma città policentrica, per una diversa e più efficiente organizzazione funzionale del territorio comunale da ottenersi raggiungendo i seguenti obiettivi: 153

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• Promuovere la qualità del territorio con cui si intende porre le basi per una città vivibile, sostenibile, attraente, solidale ma competitiva e capace di ospitare un sistema economico forte e articolato; per far questo si immagina, attraverso 11 decisioni, quale dovrà essere il suo sviluppo sul territorio, come intervenire per facilitare la creazione di nuove funzioni urbane e metropolitane, quali le infrastrutture necessarie, come ridare identità alle periferie, come valorizzare e rendere fruibile l’immenso patrimonio storico e ambientale: • Potenziare la mobilità integrata e sostenibile con cui, attraverso le 8 decisioni dell’obiettivo, si intende dotare la città di una efficiente rete di trasporto migliorandone la mobilità; • Sviluppare le infrastrutture che, con la formulazione di 4 decisioni, punta a valorizzare l’inserimento della città di Roma nelle grandi reti di comunicazione. 2. Roma città dei saperi e delle conoscenze, per una valorizzazione delle competenze territoriali che, se adeguatamente sostenute, rappresentano il motore della capacità competitiva dell’economia locale: • anzitutto si esprime la volontà che Roma rilanci il suo sistema formativo che deve qualificarsi per interventi innovativi e di supporto ai percorsi educativi tradizionali (con le 8 decisioni dell’obiettivo Potenziare l’istruzione di qualità); • per Sviluppare la ricerca e l’innovazione si definisce, nella stesura di 7 decisioni, un Piano strategico dell’innovazione che coinvolga i settori della ricerca e della produzione; • individuando l’obiettivo Valorizzare le culture è convinzione della Commissione l’opportunità di valorizzare (in 18 decisioni), anche a livello internazionale, l’enorme patrimonio culturale, investendo nei settori chiave, quali beni culturali, archeologici, ecc. 3. Roma città del turismo, dell’entertainment e dell’economia del tempo libero, per un definitivo rafforzamento del potenziale di attrazione che il brand di Roma è in grado di esercitare attirando grandi flussi di visitatori: • il primo obiettivo, Promuovere il turismo e i turismi, mette 154

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in rilievo, attraverso 17 decisioni, che la naturale vocazione di Roma come città turistica non evita una serie di problemi che vanno affrontati nell’ambito della più generale strategia di crescita della città; • invece, per Sostenere l’economia del tempo libero sono formulate 8 decisioni nell’ottica di elevare la qualità dell’offerta delle industrie deputate a questo mercato le quali dovranno ulteriormente valorizzarsi: il cinema, la moda, lo sport. 4. Roma città coesa solidale, per una città e un tessuto sociale che, soprattutto in una fase di crisi economica trovi strumenti di sostegno e capacità di riconoscersi in una comunità compatta: • attraverso un primo obiettivo che si preoccupa di Ridurre il disagio sociale e tutelare le fasce deboli. Le 14 decisioni riguardano, a tal fine, un insieme di azioni atte a contenere i costi della spesa alimentare, alcuni progetti di welfare locale e la riorganizzazione dell’offerta sanitaria della città: • il secondo obiettivo è volto a Realizzare una nuova politica per la casa, descrivendone il cosiddetto social housing (5 decisioni); • infine, lavorando per Promuovere la qualità della vita nella città, si intende mettere all’ordine del giorno (con 11 decisioni) tematiche ambientali, l’istituzione di sportelli informatizzati destinati alle procedure burocratiche e le politiche per la riduzione del divario esistente tra chi può accedere alle nuove tecnologie e chi non può (digital divide) attraverso la diffusione territoriale di punti wireless e la diffusione delle nuove tecnologie. 5. Roma città competitiva e internazionale, per un rafforzamento del sistema di impresa e della proiezione internazionale della città: • l’obiettivo Realizzare nuovi distretti produttivi individua, in 13 decisioni, i fattori che possono concorrere allo sviluppo di Roma: la riorganizzazione del territorio, gli investimenti ad alto contenuto tecnologico e le modifiche normative; • invece, le 12 decisioni contenute nell’obiettivo Promuovere la vocazione internazionale, sollecitano la sinergia tra nuovi 155

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laboratori e centri di ricerca presenti sul territorio, al fine di favorire il dialogo e la coesione di risorse umane ed economiche provenienti dai Paesi del bacino del Mediterraneo, del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale; • infine per Rendere Roma competitiva in Europa, con 6 decisioni, si individuano i principali metodi o motivi di successo raggiunti finora e si tracciano i suggerimenti per proseguire ed estendere questa prima analisi di best practices. Nella seconda parte del documento conclusivo sono pubblicate 22 schede progettuali redatte, secondo un format unico per facilitarne la lettura e la valutazione, da alcuni membri della Commissione che hanno delineato, così, i principali elementi di fattibilità delle decisioni proposte.

Roma Porta dei Tempi Porta aperta, un segno nello spazio che delimita e al tempo stesso mette in contatto ambiti e mondi. Centro e periferie, Nord e Sud, Europa continentale e Mediterraneo, Occidente e Oriente. Porta aperta su una città dove tutti siano partecipi e beneficiari, perché tutti sono indispensabili e nessuno deve essere escluso. Porta d’ingresso nella storia, nelle culture, nelle religioni, nelle arti, nei saperi, nelle conoscenze, nelle imprese, nei lavori. Porta d’ingresso in una città dove tutti gli aspetti e gli ambiti sono presi in considerazione, perché tutti contribuiscano a migliorare la sua qualità. Porta di comunicazione, nodo di scambio, spazio di ricerca, tramite delle esperienze, indirizzo dell’innovazione, luogo della convivenza, sede della cooperazione, residenza dell’ospitalità, soglia dell’accoglienza. Porta che guarda verso questi orizzonti, dove definire e condividere le scelte e le responsabilità che ne derivano. Passato, presente e futuro. I tempi del genio antico e quelli delle nuove eccellenze che si incontrano a Roma. Tutti i tempi – passato, presente e futuro – continueranno a passa156

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re attraverso questa porta, lasciando i loro segni, trasformati in uno spazio definito eterno. Ora è tempo di affermare l’idea che competitività, solidarietà e sostenibilità siano i principali fattori del successo di Roma, perché in grado di valorizzarne lo spazio e il tempo, di aprire le sue porte a tutte le risorse necessarie a renderla il luogo migliore per studiare, lavorare, vivere.

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Breve commento critico 1. È una fatica meritevole di attenta considerazione ed è anche il risultato di una ricerca su materiali secondari ampia e apprezzabile. La presentazione dei vari temi, con le relative soluzioni e decisioni, sembra, tuttavia, richiamare a tratti le merci disposte negli scaffali di un ben fornito supermercato. Si avverte la mancanza, probabilmente voluta dai curatori, di una, sia pur provvisoria, tavola delle priorità logicamente ragionata. Il peso, vale a dire il costo, della scelta fra le decisioni, che per avventura risultassero incongrue o incompatibili, viene demandato espressamente ai politici. Ciò riduce notevolmente, e inevitabilmente, il valore operativo della ricerca e forse spiega il fatto che analisi, proposte, decisioni, siano tutte poste sullo stesso piano. Non si intende con ciò affermare che si tratta di un libro dei sogni. E neppure che il rapporto si esaurisca in un elenco di pii desideri. Il punto emergente è dato, tuttavia, a lettura ultimata, dall’impressione che si tratti di una rassegna di scopi altamente desiderabili, ma non precisamente collegati con i mezzi disponibili. Non solo: sembra affiorare in qualche passo un problema di coerenza o quanto meno di compatibilità interna. Per esempio, non sembra logico insistere nello stesso tempo su Roma industriale e su Roma turistica, essendo noto che le due vocazioni non sono necessariamente convergenti. Si potrebbe sostenere, in questo senso, che le estemporanee teorie odierne circa una presunta “società liquida”, siano la “deregulation sociale di segno reaganiano”, ormai screditata e fallita di fronte all’odierna crisi finanziaria ed economica, e all’inevitabile intervento dei governi a tamponare le falle più gravi del “libero mercato”. Di fatto, oggi, forse in buona fede e con le migliori intenzioni, la teoria della “socie157

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tà liquida”, smussando surrettiziamente le asprezze oggettive della lotta degli interessi, offre un contributo non indifferente a quello che ormai è lecito segnalare come il genocidio di tutta una generazione di giovani privi di prospettive, prigionieri della logica di un precariato diffuso che ne limita gravemente la possibilità di progettare razionalmente la propria vita. 2. La lettura del Rapporto mi ha costretto a ricordare le discussioni degli anni ’50 all’Università di Chicago con Friedrich August von Hayek, esponente di primo piano della “Scuola austriaca” (con Ludwig von Mises e Karl Popper), coerente cultore dell’individualismo metodologico, che può contare su zelanti discepoli anche in Italia, per cui la società sarebbe un’astrazione (forse “liquida”) e nient’altro che il risultato inintenzionale dei comportamenti dei singoli individui, attivi nel libero mercato (da foro di negoziazione, perfettamente legittimo, trasformato e idealizzato come supremo volano e garante dell’armonia sociale). Alle mie obiezioni, che esisteva una “pianificazione” sotterranea, talvolta clandestina, delle compagnie private, Hayek reiterava la sua condanna dogmatica di qualsiasi tipo di “pianificazione” come un inevitabile Road to Serfdom. La risposta del collega e carissimo amico Herman Finer (The Road to Reaction) lo lasciava indifferente, tanto più che la sua posizione gli avrebbe valso di lì a poco il premio Nobel per l’Economia. Un equivoco andava già allora dissipato: nessuna preclusione alla voluntary action, di cui scriveva Lord Beveridge, tipico “liberale radicale” all’inglese; ne avevo tradotto il libro, con Marisa Bulgheroni, per le Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti, con un’ampia “Introduzione”, che chiariva come l’azione volontaria dovesse fungere da mediazione in ogni intervento pianificatore (e quindi correggere lo spontaneismo del mercato, supposto “libero”) ad evitare ingessature burocratiche e distacco fra cittadini e istituzioni. La mia “Introduzione” (del 1953) è stata ripresa e aggiornata nella rivista «Economia e Lavoro», diretta da Enzo Bartocci per la “Fondazione Giacomo Brodolini”. 3. In Italia, un accenno all’esigenza pianificatrice per correggere, deflettere, bloccare le storture del supposto “libero mercato” si ebbe con il primo Centro-sinistra e la “Nota aggiuntiva” alla Leg158

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ge finanziaria di Ugo La Malfa (che in proposito riconobbe il mio apporto; cfr. il mio Nelle fumose stanze. La stagione politica di un cane sciolto, passim). Ma il dibattito sulla pianificazione si tradusse presto in una sterile diatriba ideologica, a tutto vantaggio degli interessi privati consolidati e dominanti. La prima riunione dell’IRES (CGIL) cui partecipai, diretta da Giuliano Amato, non andò al di là di un’impostazione meramente giuridico formale. A parte le disquisizioni verbali, la pianificazione, detta anche pudicamente programmazione, indica un processo di trasformazione guidata (al di là e contro ogni spontaneismo più o meno fideistico), in vista di scopi non incompatibili, basata quindi su scelte e rinunce e scandita nel tempo. Se ne possono distinguere varie forme: a) p. centralizzata – vincolante – espressione diretta del potere politico; b) p. tecnocratica – o degli ingegneri, urbanisti, architetti; c) p. indicativa, con ampie aree lasciate al gioco del libero mercato; d) p. flessibile, ossia legata al “giudizio della comunità”, partecipata dai cittadini ai vari livelli. Nessuna di queste forme ha profondamente attecchito nella pratica politica italiana. 4. I quattordici obiettivi, proposti e analiticamente esposti nelle loro linee costitutive e operative, sono ovviamente tutti positivi e accettabili, ma non possono considerarsi sullo stesso piano, dotati della stessa valenza e urgenza, senza lasciare al potere politico una libertà di scelta che ammonta e consolida la sua tradizionale tendenza alla pura discrezionalità, con le note conseguenze in termini di opportunismo e trasformismo, se non d’arbitrio. Non si vuole con ciò confondere i ruoli. Si richiama, semplicemente, l’esigenza di una esplicita tavola delle priorità. Per la città di Roma, retorica a parte, specialmente di fronte agli odierni flussi di immigrati extra-comunitari e ai rigurgiti di xenofobia (paradossalmente nelle regioni in cui il loro lavoro appare essenziale), occorre affrontare il perdurante dualismo centro-periferia e la questione del come nasca la marginalità urbana e come si riproduca la povertà (un mio testo sul tema vedrà probabilmente la luce a fine 2009 o nei primi mesi del 2010). 159

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È noto che su scala planetaria le periferie nascono da un processo di urbanizzazione spuria, vale a dire da una urbanizzazione senza industrializzazione. Sono diverse a seconda dei contesti storici specifici. Hanno in comune una caratteristica di base: lo stato di esclusione sociale e quindi di scarsa o nulla possibilità di partecipazione alla vita politica e culturale, in senso lato, della città. Il caso di Roma è a-tipico perché a Roma la periferia non è più periferica. Dei due milioni e ottocentomila abitanti a Roma, circa un terzo abita in periferia. Se si fermasse la periferia, si bloccherebbe tutta la città. La conseguenza logica è intuibile: bisogna portare il centro in periferia. Non basta “rimodellare” i ghetti. La contrapposizione centro-periferia non tiene più. Gli schemi mentali prevalenti sono in ritardo. È caduta la contraddizione città-campagna, a causa dell’effetto di padronanza che la città esercita, ormai in modo sempre più assorbente, sulla campagna o hinterland rurale. Si sta passando dalla città monocentrica all’aggregato metropolitano policentrico. Ma il processo, ovviamente, non é automatico e chiama in gioco tutti gli agenti sociali (sindacati, grazie ai necessari aggiornamenti, in prima linea). Lo spontaneismo del laissez-faire e laissez-passer, per cui il solo volano dello sviluppo sarebbe il mercato, non é sufficiente. Si pone oggettivamente in una posizione di alleanza, se non di complicità, con la speculazione privata. Ad evitare che si riduca a mera espansione, lo sviluppo va orientato dai piani regolatori. A Roma però, fin da quelli di fine Ottocento, ancor prima dell’amministrazione di Ernesto Nathan, sono sempre stati sconfitti e piegati agli interessi dominanti della rendita fondiaria mediante tre misure: a) la deroga; b) la variante; c) la sanatoria, autentica terapia di ogni abusivismo. Gli obiettivi del Rapporto trasudano in proposito un ottimismo che attende conferma. Di fatto, Roma rischia di trovarsi decrepita, prima di riuscire industrialmente matura. Chi la definisse un rumoroso, sporco e disordinato garage meriterebbe probabilmente le attenuanti. I servizi pubblici sono carenti. Le strade hanno il colesterolo alto. Conserva una certa validità la definizione a suo tempo formulata da Francesco Saverio Nitti: “La sola città medio-orientale priva di un quartiere europeo”. Difficile resistere alla tentazione di sottoscriverla.

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5. Ho accennato più sopra all’effetto di padronanza della città sulla campagna. Corrado Barberis, l’ottimo sociologo rurale, ritiene che stiamo invece assistendo alla “rivincita delle campagne” (cfr. il libro, curato da C. Barberis, dal titolo omonimo). Può darsi che abbia ragione. Salvo che non si dà rivincita che non sia preceduta da una sconfitta. Sta di fatto che oggi si deve parlare, ricorrendo ad un neologismo di dubbio gusto, di rurbanization, ossia di un continuum città-campagna. Il Rapporto coglie questa nuova realtà, ma si limita a discorrere di “vere e proprie tecnopoli”, insistendo meritoriamente sugli aspetti innovativi, ma forse senza rendersi pienamente conto che, in mancanza di investimenti massicci, le tre università romane di oggi rischiano di riuscire più elitarie e oligarchiche delle università del nonno. Volere l’università per tutti, senza risorse adeguate, significa non averla più per nessuno. Di più: Roma è indubbiamente una doppia capitale (dello Stato italiano e della Città del Vaticano), ma solo recentemente è stata ad essa riconosciuta questa doppia funzione. Il Rapporto afferma, inoltre, correttamente che il traffico è “il problema dei problemi”. Resta da osservare che il traffico convulso e disordinato di Roma non piove dalle nuvole, ma rimanda puntualmente alla speculazione edilizia selvaggia del secondo dopoguerra. Il Rapporto riconosce anche che in alcuni casi le “decisioni” sono reciprocamente alternative e richiedono quindi una specifica scelta “politica”. Ma il Rapporto dovrebbe chiarire il costo, economico e sociale, delle scelte e quindi determinare, in limine, i nodi delle contraddizioni, pur lasciando ai politici l’onere di una decisione che non è mai neutra né indolore. Riguardo alla sostanza, mi colpisce il silenzio sui percorsi di integrazione dei flussi di immigrati sia extra-comunitari che dall’est europeo. La politica dei “respingimenti” non è in realtà una politica. Semmai, un rimedio di emergenza. Riguardo alla periferia, rimando al mio, con M.I. Macioti, Periferie, da problema a risorsa. A proposito dell’entusiasmo per la cablatura della città, per le reti, la scuola in rete e l’informazione in tempo reale, non andrebbe dimenticato quanto deciso a suo tempo da Tony Blair in Inghilterra (proibire computer e calcolatori nelle classi elementari per imporre agli allievi lo studio della tavola pitagorica). La stessa telescuola evoca problemi seri, funzionali e pedagogici, (per cui si veda il mio La 161

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perfezione del nulla), a parte il licenziamento di un numero notevole di personale insegnante (che non dovrebbe lasciare indifferenti i sindacati-scuola).

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Appendice II

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L’evoluzione del rapporto centro-periferia nella città di Roma

Tentare l’analisi comparativa delle periferie urbane su scala mondiale, oggi, non richiede solo un insieme di dati comparabile che nelle condizioni attuali non è ancora disponibile, neppure attraverso gli uffici studi delle organizzazioni internazionali. Comporta anche, con riguardo ai singoli ricercatori, un’informazione storica fuori del comune nonché una straordinaria dotazione di “immaginazione sociologica”1. È forse possibile, tuttavia, muovere un primo passo o, per così dire, dare un primo colpo di sonda in questa direzione, supplendo alla carenza di dati empirici aggiornati con un impianto teorico sufficientemente robusto o tanto imprudente da consentire la formulazione di ipotesi storico-evolutive da considerarsi a tutti gli effetti come appuntamenti dati allo sviluppo urbano del futuro. In via preliminare si può porre come presupposto che lo sviluppo urbano sia destinato a contrassegnare in maniera precisa e distintiva le società umane del dopo duemila. I tre fenomeni decisivi del secolo XX – modernizzazione, industrializzazione, urbanizzazione – sembrano destinati a indicare termini e realtà essenzialmente correlativi per quanto storicamente differenziati e specifici. Sarebbe però un’indebita concessione all’idillio considerarli come evolventi 1 Era questa la dote che C. Wright Mills riteneva di fondamentale importanza per la ricerca sociale; con questa formula egli intendeva la capacità di stabilire connessioni con serie di dati a prima vista e secondo il senso comune non collegati né collegabili; in particolare, Mills tendeva a stabilire un rapporto fra problemi di milieu, sostanzialmente socio-psicologici, e problemi di struttura, vale a dire non tanto legati a stati d’animo quanto a istituzioni formalmente codificate e a costruzioni normative relativamente impersonali.

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e progredienti di pari passo, con lo stesso ritmo e ad identica velocità, in base ad una qualche misteriosa “legge” di armonie prestabilite. Tradizioni e consuetudini, contesto storico, collocazione geografica, struttura economica e politica, risorse demografiche e dell’ambiente sono variabili che incidono in varia ma certa misura sul loro effettivo inverarsi storico e organizzativo. In altra sede ho notato che si danno modelli forme storiche di città differenti, dalla città-Stato della Grecia classica a quella italica, romana, bizantina, dell’Asia e dell’Estremo Oriente, e così via, dalla città come mercato e come forma perfetta, in sé conchiusa e autosufficiente, dotata di una tale integrata funzionalità che ogni aggiunta, per quanto minima, ne turberebbe l’intimo equilibrio, alla città industriale e post-industriale, dilagante in senso orizzontale secondo una logica agglutinante praticamente indefinita – una città che si viene storicamente realizzando senza un’idea di città2. Questa forma di città. Originariamente legata ad esigenze tecnologiche che richiedono la concentrazione di uomini e mezzi produttivi, non solo dà vita a un tipo umano specifico – il tipo blasé – come hanno visto, tra gli altri, George Simmel e Willy Helpbach, ma già nel suo vorticoso dinamismo reca il segno inquietante di una fretta priva di scopo, tanto che analisti sottili e sensibili come Lewis Mumford hanno potuto leggere il senso complessivo della drammatica sequenza metropoli-megalopoli-necropoli3. A parte il pathos romantico di consimili visioni catastrofiche, le ricerche di sociologia urbana documentano che la città industriale può essere analizzata sulla base di due impostazioni nettamente contrapposte che qui indichiamo schematicamente come a) l’impostazione del descrittivismo acritico; b) l’impostazione dialettica. Per la prima impostazione il problema delle periferie, a rigore, 2

Cfr. il mio Cinque scenari per il Duemila, Roma-Bari, 1985, in cui si riportano anche i dati relativi alla redistribuzione della popolazione mondiale e il suo concentrarsi negli agglomerati urbani; ma per questo aspetto sono da vedersi gli studi fondamentali di Kingsley Davis, E.E. Lampard, L. Wirth. Per i rapidi incrementi della popolazione urbana e delle dimensioni urbane, anche nel Terzomondo e, anzi, soprattutto in situazioni in cui il processo di urbanizzazione non è accompagnato, tanto meno «preparato», dall’industrializzazione, cfr. il mio libro Oltre il razzismo, Armando, Roma, 1988. 3 Cfr. G. Simmel, Die Grossstaedte und das Geistesleben, trad. it. in C.W. Mills, Immagini dell’uomo, Comunità, Milano, 1969.

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non si pone neppure. Lo stile di vita urbano, le risorse di cui la città dispone, la stessa partecipazione ai servizi collettivi fondamentali, dalla scuola all’attività culturale, politica e sindacale e all’uso creativo del tempo libero, sono considerati costitutivamente come risorse comunitarie che si espandono “naturalmente”, a macchia d’olio, a poco a poco, secondo una logica di gradualità che alla lunga scadenza dovrebbe necessariamente coinvolgere i quartieri popolari e le frange estreme della periferia come già avviene per i centri del potere e per i quartieri dell’opulenza, poiché si ritiene che la città, in quanto tale, sia una comunità mana reale, una compagine sociale integrata ed essenzialmente unitaria. È appena necessario osservare che la dimensione economica e, politica e storica viene così elìsa. Il discorso si fa astorico e acriticamente universaleggiante. La pubblicazione di questo scritto la cui stesura risale alla seconda metà degli anni Ottanta, riuscirà probabilmente utile per dare un’idea longitudinale del fenomeno. Ipostatizza il dato empirico che, chiuso in se stesso, feticizzato, isolato dal più ampio contesto, non ha più senso, resta come il frammento di un inventario astratto4. La seconda impostazione tende invece a recuperare il nesso dialettico tra dati empirici e significato globale, non perde di vista la città come totalità o come molteplicità di sistemi interagenti in movimento. Il contrasto tra le due impostazioni riguarda i presupposti di valore e gli strumenti analitici cui fanno ricorso. Ma sembra indubbio che una descrizione accurata di una dato processo di sviluppo urbano, qualora sia storicamente provveduto, conduce a risultanze compatibili con l’impostazione dialettica. La conflittualità dello sviluppo della città ne esce ampiamente confermata. Persino autori tendenzialmente conservatori, ma non prevenuti, come il geografo sociale Pierre George, rilevano i profondi mutamenti dell’habitat urbano a causa delle “cittadelle del denaro”. L’aumento del costo dei suoli, infatti, ributta verso l’esterno e verso la cinta periferica la popolazione attiva impegnata nei lavori «direttamente» produttivi5 e 4

Mi permetto di rimandare in proposito alle istanze critiche che ho formulato rispetto alla “Scuola di Chicago”, per cui si veda l’“Appendice I” del mio Roma da capitale a periferia, Roma-Bari, Laterza, 1970, “Osservazioni sulla sociologia urbana”. 5 Mi permetto di usare questa terminologia paleo-merxistica pur sapendo, come in più luoghi ho notato (da ultimo nella «prefazione» a J. Borja, Le contraddizioni

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nei servizi mentre le funzioni direzionali e le attività di comando si concentrano nei luoghi finanziariamente più cari (che non sono necessariamente né sempre quelli centrali, se si pensa ai “suburbi” nordamericani), e per questo solo fatto – il mito della “location”, vale a dire l’importanza dell’ubicazione – rivalutano i terreni attraverso la propria presenza e quella misteriosa aureola che, valendoci della formula vebleniana, potranno definire lo status di prestigio derivante dallo “sciupìo vistoso”, o conspicuous waste. La speculazione edilizia, cui spesso sociologi urbani accreditati non osano accennare evidentemente per un eccesso di pudore, giuoca su questi valori intangibili, tipici d’altro canto dell’“economia di carta”6. George nota correttamente che contro questa tendenza speculativa invano sarebbe intervenuta l’urbanistica con i suoi “piani regolatori” puntualmente disattesi o opportunamente “derogati” – ma non tutti gli urbanisti hanno, del resto, levato la loro voce, forse più preoccupati di porsi come zelanti apologeti dei grandi interessi o anche perché più ligi al loro tornaconto immediato che pensosi della oggettiva pericolosità sociale della situazione. A giudizio di George – un giudizio che mi sembra largamente condivisibile e che oltretutto fornisce una chiave esplicativa o quantomeno interpretativa della genesi delle periferie – la società urbana ha risposto a questi tentativi con diverse forme di rifiuto, le quali hanno contribuito in maniera determinante a ristabilire una gerarchia sociale nell’uso dei suoli urbani e peri-urbani. Spontaneamente esso si organizza e si redistribuisce spazialmente in funzione dei redditi e delle somiglianze o affinità sociali. La città moderna – conclude George – si ristruttura spontaneamente in ghetti, ognuno con i propri modi di vita, i suoi modelli culturali specifici, le sue abitudini e lealtà “politiche”7. Se però la situazione si ponesse veramente in questi termini, non sarebbe poi così degradata come i dati odierni fanno temere. Certamente dello sviluppo urbano, trad. it., Napoli, Liguori, 1975), che la costruzione marxiana non va concepita in termini dicotomitici rigidi o “pietrificati” e che del resto la contrapposizione fra lavoro produttivo e lavoro non produttivo non tiene più nelle attuali condizioni. Il “mondo della periferia” è assai più vario e composito di quanto non sembri se considerato attraverso le griglie dell’ideologia, sia di destra che di sinistra. 6 Mutuo questa efficace espressione dal titolo di David Bazelon. 7 Cfr. P. George, Fine di secolo in Occidente – Declino o metamorfosi?, trad. it., Bologna, Patron, 1987, passim.

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la città ne emergerebbe come un vero e proprio fenomeno di classe, ma conserverebbe una sua logica, una sua coscienza e probabilmente anche una sua solidarietà di classe. La situazione odierna, appare anche più negativa nelle zone periferiche delle metropoli americane ed europee. Non vi sono solo ghetti socialmente chiusi, ma a loro modo integrati e culturalmente coerenti8. Si hanno invece situazioni di disgregazione sociale in cui disoccupazione, sottoccupazione, occupazione precaria, non occupabilità, disadattamento cronico costringono le persone a puntare sull’espediente come mezzo di sussistenza, generano isolamento etnico-sociale, provocano solitudine, incomprensione e paura. Di qui la scomparsa, per gli abitanti della periferia, della città come unità sociale e culturale, ossia come reale «bene comune», il distacco dalle iniziative di cooperazione è d’interesse collettivo, l’aumento incontrollato dell’asocialità, del vandalismo e dell’aggressività verso l’ambiente e le persone, il dividersi della città e il suo frantumarsi fra “museo”, “vita attiva”, “precarietà” ed “estraneazione”. C’è un habitat collettivo. Manca una vita collettiva. L’ambiente urbano, sa fisico che umano, sembra avviato ad un’inevitabile degradazione. Sarebbe ingenuo o superficiale supporre che queste tendenze regressive si presentino con chiarezza tale da consentire la categorizzazione entro le linde tipologie predisposte dalla sociologia urbana corrente. Come ho notato altrove, la degradazione di una città, specialmente della sua periferia, è un processo per certi aspetti fondamentali ancora misterioso. Sembra evidente che esso implichi il venir meno dell’idea e della pratica di “pubblico” e la sua “privatizzazione”, ossia, detto in altre parole, la riduzione a cosa privata, di difficile e ristretto accesso, di beni e possibilità in astratto aperti a tutti. In questo senso, la degradazione urbana riposa su meccanismi di discriminazione e di esclusione, vale a dire di emarginazione sociale. Occorre però aggiungere subito che la spiegazione dell’emarginazione non è possibile facendo ricorso esclusivamente a determinanti tradizionali. L’emarginazione sociale è indubbiamente connessa con la struttura di classe, da non confondersi con la pura e semplice composizione professionale o fascia di reddito. Ma la 8

È utile a riguardo il concetto elaborato dall’antropologo Oscar Lewis, “cultura della miseria” (the culture of poverty).

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spiegazione di essa esclusivamente in termini di rapporti di produzione non sembra esauriente. Roma è al riguardo un caso istruttivo. Fin dalle ricerche mie e dei miei collaboratori nei tardi anni Cinquanta la complessità del suo mondo periferico ci era apparsa evidente. Distinguevo all’epoca a) le borgate dette “ufficiali” o anche “case minime” frutto degli sciagurati sventramenti del regime fascista al Colosseo e a Via della Conciliazione; b) i borghetti, autentici nuclei di case fortuna, ma ancora in muratura, se pure prive di intonaco e spesso con pavimenti di terra battuta; c) infine, le baracche vere e proprie, rifugi contro il freddo, la pioggia e la notte, talvolta appoggiate alle antiche mura di costruzioni famose dell’epoca classica (per esempio dell’Acquedotto Felice), più spesso messe in piedi in un precario equilibrio nel giro di una notte sugli scampoli di terreno che la febbre della speculazione edilizia e dell’abusivismo selvaggio non riusciva a bruciare completamente. La situazione si presenta oggi, a partire dai primi anni Ottanta, profondamente mutata e per certi aspetti cosi «complessificata» che risulta difficile, se non impossibile, racchiuderla nelle linde caselle dell’apriorismo ideologizzante. Una revisione positiva della prospettiva marxista tradizionale non può essere seriamente condotta se non sulla base di una ricerca empirica della divisione sociale del lavoro che abbracci tutta la città, a garantire il nesso dialettico fra “centro” e “periferia”. In mancanza di questa ricerca si corrono alcuni rischi interpretativi gravi. Può affermarsi la tendenza, mistificatoria, a trasferire la funzione di “classe generale” dalla classe operaia, ormai minoritaria come anche a sinistra ci si affanna a dimostrare, ai ceti intermedi, che sarebbero la nuova classe generale in ascesa e la cui riluttanza ad assumere questa funzione di guida sarebbe responsabile secondo alcuni, per esempio il CENSIS e la Civiltà Cattolica, dell’“appiattimento culturale e civile” della città resta sol in piedi il dubbio legittimo se Roma sia solo “intellettualmente appiattita” o non anche semplicemente attaccata da concretissimi e specifici interessi socialmente settoriali ed economicamente imponenti. È noto che in tutte le metropoli si formano “sacche”, aree di emarginazione involontaria, zone periferiche cui il “centro” appare lontano e negato, caratterizzate dal vandalismo, dalla violenza, dalla carenza dei servizi elementari per qualsiasi comunità civile. Ad Am168

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sterdam il problema della droga sembra sfuggito totalmente di mano alle autorità pubbliche e interi quartieri non sono più accessibili agli abitanti. La Grande Londra ha conosciuto in tempi recenti un afflusso straordinario di immigrati di colore; Brixton, con il 30% della popolazione nera, Bethal Green e Bayswater a partire dal 1981 sono stati teatro di vere e proprie guerriglie urbane tra giovani di colore, bianchi e polizia. Un movimento migratorio, non coordinato, verso la cinta esterna della città, specialmente verso i ghetti della periferia, mancanti di adeguate infrastrutture, caratterizzano Bonn mentre la banlieue parigina, che offre abitazioni meno care, manca però, come Bonn, dei servizi di prima necessità. La stessa crisi degli alloggi si verifica a Bruxelles e a Madrid, dove però si sono recentemente costruiti quartieri-dormitorio, mentre a Lisbona la frattura tra centro e periferia appare totale. Ma Roma si presenta con caratteristiche sue proprie. Non bisogna dimenticare che fino ad anni recenti l’emarginazione sociale era “cintura rossa”; aveva, in altre parole, una precisa localizzazione e morfologia, segnata una forte omogeneità di condizione sociale proletaria e sottoproletaria; aveva una storia, un ruolo politico antagonistico, aveva una sua memoria collettiva. La periferia romana odierna è cambiata, soprattutto socialmente, forze varie ed eterogenee sono intervenute sul tessuto sociale della borgata ed hanno dato luogo ad una situazione ricca di contraddizioni. Se è vero che la realtà urbana è una realtà dialettica e in costante movimento, non dovrebbe stupire che, dopo gli anni della forte immigrazione (1958-1961)9, quelli in cui Roma giunge a sfiorare i tre milioni di abitanti partendo dal milione seicentocinquantamila del 1951, e dei quali mi sono occupato in Roma da capitale a periferia, negli anni Settanta comincia invece ad espandersi in direzione sud-ovest e nord-est mentre il centro storico perde la sua vecchia popolazione di artigiani, piccoli bottegai, e così via, per diventare la mèta preferita di famiglie affluenti, sede di ambasciata, uffici di rappresentanza delle industrie e servizi vari. Centro e periferia, dopo un periodo di netta separazione abbastanza lungo, entrano in una fase di osmosi che rende necessaria l’analisi globale della composizione professionale e della struttura sociale. La periferia stessa 9 Sono gli anni in cui, come deputato alla Terza Legislatura, avevo presentato e contribuito a far approvare dalla Camera l’abrogazione delle leggi fasciste contro l’urbanesimo.

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cambia i suoi connotati di base; non appare più connotata dagli insediamenti del proletariato, del sottoproletariato e di quello che in altra sede abbiamo chiamato il “semi-proletariato”, o “proletariato intermittente”110. La sua struttura sociale appare più complessa e frastagliata rispetto al passato. Non è più possibile analizzarla separatamente dall’insieme della città. Senza un esame globale della città odierna, il discorso sulla periferia rischia il luogo comune, si arena nei ritardi dei dati statistici ufficiali, perde il suo spessore problematico. L’osmosi fra centro e periferia e gli iniziali segni di quella che altrove (nei cit. Cinque scenari per il Duemila) ho chiamato la “città policentrica” non dànno automaticamente luogo all’integrazione del tessuto sociale urbano. Credere in questa integrazione automatica e probabilmente indolore significa peccare di un ottimismo che farebbe impallidire quello del dr. Pangloss; significa anche, da un punto di vista contrario e simmetrico, invitare all’idillio, cedere alla tentazione di una visione arcaica della realtà urbana. Con riguardo a Roma restano in piedi interrogativi inquietanti: non ha forse il processo di terziarizzazione goduto di una sorta di amplificazione del suo sviluppo? Quali sono le dimensioni di una “terziarizzazione spuria”, connessa con la “modernizzazione imperfetta”? La questione è tutt’altro che nuova. In altra sede avrò modo di chiarirne nel dettaglio i termini, ma intanto il nodo problematico si profila con sufficiente chiarezza: come riformulare il rapporto tra il sociale e il politico in una fase evolutiva in cui la gestione clientelare del potere sembra minare alla base la democrazia italiana; inoltre in che misura la gestione della città di Argan e di Petroselli è riuscita ad “eliminare le baracche” e non semplicemente a riprodurle, allontanandole e respingendole ai limiti estremi della città oppure a cancellarle con una operazione meravigliosamente toponomastica di tipo burocratico esterno, tale da non incidere sulla qualità di una emarginazione annosa, strutturalmente determinata. D’altro conto, molti sono gli interrogativi che si intrecciano, 10 Questa terza categoria sembra specialmente utile per trascrivere, interpretare e almeno per qualche aspetto avviare la spiegazione di quel fenomeno elusivo che resta tipicamente italiano e che si è comunemente convenuto di chiamare “economia sommersa” o “invisibile”, benché sotto gli occhi di tutti; si vedano in proposito gli studi di Massimo Paci e di Paolo Calza Bini.

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oggi, attorno al problema delle città, nelle diverse situazioni sociali, economiche, politiche nelle quali esse hanno preso corpo nella storia umana. Quale la realtà concreta delle città, soprattutto quale il loro futuro, a quale funzione esse rispondono, oggi, quale destino è ipotizzabile per domani? Soltanto qualche anno fa simili domande si affollavano al solo pronunciare il nome di Roma e la querelle per noi, cittadini di uno Stato che l’aveva voluta come capitale, attraversava, vivace e persistente, almeno tutto l’ultimo secolo della storia nazionale11. Ma oggi, quasi per paradosso, sembra che questi interrogativi non riguardino Roma con riferimento a quell’elemento portante che è, per ogni città e metropoli, il suo specifico sistema economico, inteso come insieme dei processi istituzionalizzati tra coloro che vivono nella città e l’ambiente naturale e storico che fornisce in modo continuativo i mezzi necessari alla loro esistenza sociale. Da questo punto di vista – nel quadro di una scelta interpretativa del momento economico di stampo neo-classico – va sottolineata la novità della cessazione delle contrapposizioni e dei dibattiti sulla struttura produttiva di Roma capitale. La ricerca storica e quella sociologica avevano verificato, con saldi elementi, che l’urbanizzazione senza industrializzazione caratteristica della crescita di Roma e, quindi, il suo gigantismo burocratico erano stati il frutto, se non di una congiura, comunque di un intreccio di scelte politiche e di interessi economici, cui non erano mai venuti meno forti supporti ideologici. A fronte di ciò, la vita della città e dei suoi abitanti, nel vissuto delle persone e dei gruppi sociali così come nelle analisi degli studiosi, si era sempre rivelata in grado di esprimere dissenso, resistenza e lotta per difendere ed affermare quei diritti che le decisioni del potere avevano offeso o minacciavano e per mutare la città secondo un’ispirazione democratica della sua scrittura, delle sue forme e del suo ruolo non utopistico anche quando essa non ha trovato realizzazione o è apparsa sconfitta. Da qualche tempo sembra invece che l’antico conflitto sui fini si sia quietato e che la sua composizione sia avvenuta su una doppia constatazione: 1) se c’è una certa enfasi nell’affermazione di Roma 11 Si vedano specialmente le sintesi operate dall’autore Alberto Caracciolo ai paragrafi 3 e 4 dell’ultimo capitolo dell’opera Roma Capitale, Roma, Editori Riuniti, 1974.

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“terza città industriale”, sta di fatto che negli anni Ottanta il settore industriale, nel Comune e ancor più nel suo hinterland, ha segnato un’evoluzione in termini di valore aggiunto ed ha sostanzialmente conservato i livelli occupazionali; 2) Roma è, oggi, in Italia la più alta concentrazione di economia del terziario ed accresciute sono le funzioni di capitale12. Da queste acquisizioni deriverebbe: che il terziario è un settore produttivo al meglio, perché non è ad esso necessariamente congiunto il meccanismo burocratico autoriproducentesi; che una consistente base industriale non solo non è antitetica allo sviluppo del terziario in termini economici, ma nemmeno con riferimento ai rapporti sociali; e, in terzo luogo, che Roma può già oggi essere definita come una metropoli di tipo post-industriale dal momento che il suo futuro è nella produzione di servizi che assumano l’innovazione tecnica come elemento costitutivo e irreversibile. In conclusione, le connotazioni storiche dell’economia romana non devono essere percepite come un vizio di origine, ma anzi su di esse si può lavorare come condizione privilegiata nell’affrontare i processi evolutivi del sistema, già in atto. La concordanza delle analisi e delle opinioni è spesso pressoché totale anche quando viene da sponde tra loro lontane13. […] Il primo aspetto da approfondire è quello delle strutture scientifiche e della conoscenza. Roma ha 172.000 studenti nelle scuole superiori, e 140.000 studenti universitari, 8.000 studenti di università ecclesiastiche. Le biblioteche sono 422, cui vanno aggiunte altre 585 strutture culturali; 7.500 sono gli addetti alla ricerca e allo sviluppo, 80.000 gli addetti all’istruzione […]. i dati della vocazione transnazionale di Roma sono questi: 10.500.000 presenze turistiche in un anno […] 58.000 aerei arrivano ogni anno da paesi stranieri, scaricando a Roma 6 milioni di viaggiatori; 61.000 aerei atterrano da altre città italiane, scaricando 4 milioni di viaggiatori; 71.000 permessi di soggiorno vengono concessi ai turisti stranieri ogni anno di cui 2.600 per il turismo 12 Le due affermazioni, che di continuo rimbalzano sulla stampa cittadina, sono nei documenti del Censis, nelle relazioni dell’Unione degli industriali, sono riprese anche da esponenti politici e sindacali. 13 Cfr. Federlazio – Camera di Commercio di Roma, Roma, città dell’informazione, 1985, p. 66 e segg.

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e il resto per altri tipi di attività; 34.000 gli addetti alle comunicazioni […]. infine l’industria del tempo libero; 138 miliardi all’anno introitati per spettacoli, di cui il 31% per il cinema, il 14% per teatro e musica, il resto per altri tipi di divertimento; 61 sale cinematografiche, 79 teatri, 41 sale di musica, 67 musei, 303 impianti sportivi, 338 associazioni culturali, 35.000 addetti ai servizi ricreativi […].

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Da tutt’altro versante, il Sinodo della Diocesi di Roma proponendosi di comprendere e definire «quali sono i meccanismi evolutivi oggi vincenti […] che stanno caratterizzando la rapida trasformazione di Roma» li individua: […] Un forte ispessimento del tessuto economico non più segnato prevalentemente dal terziario burocratico e turistico, ma caratterizzato da una buona presenza di industria avanzata e di terziario di qualità […]; una forte spinta all’internazionalizzazione dovuta non solo al turismo, ma anche alla finanza, al trading, al terziario avanzato, alla crescita di aziende straniere […]; una evidente crescita della ricchezza monetaria e dei consumi […]: una chiara tendenza a ricercare livelli medio-alti di consumo, di servizi di qualità della vita collettiva […]14

Non può sorprendere la contemporaneità e le analogie delle analisi: valgono queste voci solo come esempio – dal momento che non sono solitarie – di una umanità di vedute circa quello che viene definito come lo sviluppo di Roma moderna secondo strategie di innovazione. La consistenza di accertamenti statistici ne comproverebbe le tendenze. Come indicatori, significativi e semplici, delle tendenze della economia romana, basandosi sulle rivelazioni dei censimenti, si è soliti usare i dati relativi, da una parte, ai luoghi di lavoro e, dall’altra, alla popolazione attiva residente. Negli ultimi 25 anni, mentre la popolazione della città è aumentata di un terzo, nei luoghi di lavoro censiti (unità locali) del settore 14

Vicariato di Roma – Sinodo Pastorale Diocesano, Roma, una città che cambia, Quaderni, 6, 1988.

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primario e di quello secondario (agricoltura e industria) il numero assoluto degli addetti è rimasto pressoché costante, con un certo consolidamento interno dovuto alla caduta delle prestazioni di più bassa qualifica nell’edilizia; nel commercio il numero degli addetti, invece, aumenta del 40%; nel resto del terziario (esclusa la pubblica amministrazione) il numero degli addetti raddoppia. Questo tipo di rilevazione raccoglie le informazioni relative all’economia formale, censibile e censita. I dati, invece, relativi alla popolazione residente, in quanto raccolti presso le abitazioni consentono di dare una qualche visibilità anche al lavoro informale, sommerso, non localizzato, non continuativo. Le tendenze ricostruibili su questa base confermano il quadro precedente: la popolazione attiva, nel 1951, risultava occupata nel settore terziario per il 66,8 % sul totale, nel 1981 quella percentuale è salita all’80%. Gli esempi di analisi da cui siamo partiti e i dati che abbiamo esposto scontano un limite strumentale, perché formulano proposizioni generali e giudizi riferendoli al complesso del settore terziario, sulla base del criterio “residuale” rispetto alle attività del settore primario – agricoltura – e del settore secondario – industria –. A portare l’attenzione all’interno del terziario romano si vedono emergere dinamiche assai complesse e contraddittorie. Un primo livello di approfondimento è offerto dalle informazioni raccolte con l’ultimo censimento. Nel censimento dell’industria, del commercio, dei servizi e dell’artigianato a Roma15 sono state operate rilevazioni che consentono di suddividere il terziario in 7 rami di attività economica, a loro volta disaggregati in 27 classi e 121 sottoclassi. Questo lavoro classificatorio dà già un’idea della molteplicità delle realtà economiche, dei mestieri, delle professioni: dai commercianti all’ingrosso delle più diverse merci agli insegnanti di ogni ordine e grado di scuole, dai bottegai ai bancari, dai piloti d’aereo ai parrucchieri, dagli addetti ai contratti di leasing agli operatori della giustizia, e così via. Le specificazioni, utilissime quanto più minuziose, sono però di difficile lettura. Utile ci sembra, allora, dare un quadro riassuntivo per le 27 classi di attività dei 4 rami che costituiscono il comparto del terziario: 6. commercio, 7. trasporti e 15 Comune di Roma – Ufficio Statistica e censimento, Il 6° censimento dell’industria, del commercio, dei servizi e dell’artigianato a Roma (26 ottobre 1981), Roma, 1986.

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comunicazioni, 8. credito e assicurazioni, 9. pubblica amministrazione e servizi pubblici e privati. Una radiografia sufficientemente chiara che consente di cogliere aspetti significativi16 con una avvertenza. I dati del censimento classificano i servizi secondo l’attività economica: è impossibile su tale base distinguerli facendone emergere la struttura interna: servizi vendibili e non vendibili ovvero di comparti tradizionali o di comparti avanzati. Ambedue queste distinzioni, del resto, non sono e non possono essere molto nette quando si esamina una dimensione grande, macroeconomica. I servizi per l’istruzione e la sanità, ad esempio, quando siano erogati tramite le amministrazioni pubbliche vedono, oggi, anche l’intervento di capitali privati, in misura crescente. Il terziario avanzato, d’altra parte, ha spesso una connessione diretta con il settore industriale, anche quando è esterno alle imprese. Il tentativo sarà, quindi, quello di descrivere una forma specifica di economia terziaria: quella romana. A Roma, nel settore terziario, centrale è il posto che occupano quell’insieme di attività e di addetti che assolvono a servizi organizzati per soddisfare diritti civili e personali, individuali e collettivi: diritti di istruzione, salute, giustizia, assistenza, previdenza, cittadinanza, ecc. le risorse economiche necessarie solo in parte provengono da rapporti privati; così è per le attività ricreative, sportive, culturali, per i servizi di pulizia, per quella parte di servizi assistenziali e sanitari cui si acceda al di fuori delle strutture pubbliche, per i corsi di istruzione privati. Sta di fatto, però, che la grande maggioranza degli addetti all’insieme delle attività della pubblica amministrazione e dei servizi pubblici, il cui reddito viene dalle entrate fiscali e dalle altre forme di privilegio previste, non sempre appaiono consapevoli di questa situazione. Una gran parte di queste attività e servizi sono destinate a coloro che vivono a Roma, sono, per così dire, le strutture del welfare state 16 Una avvertenza. Mentre le informazioni del 6° Censimento dell’industria, del commercio, dei servizi e dell’artigianato riproducono i dati raccolti sui luoghi di lavoro (unità locali), le informazioni del contemporaneo 12° Censimento della popolazione vengono raccolte presso il luogo di abitazione. In relazione all’attività economica non c’è, quindi, concordanza tra i due censimenti specialmente per due motivi: perché, per lo stesso soggetto, può aversi il Comune di residenza diversa da quello in cui ha sede il luogo di lavoro e perché presso le famiglie e le abitazioni possono essere individuate attività lavorative non localizzabili, di tipo precario, ecc. ambedue queste osservazioni non indicano il tipo di analisi che viene proposto.

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per la città. Infatti la domanda-offerta di servizi, anche per quella parte della popolazione che ha redditi elevati e alto benessere, non può essere organizzata sempre e soltanto nell’ambito privato, ma esige anche’essa l’intervento della decisione e della gestione pubblica. I ruoli direzionali e rappresentativi, al servizio di tutti i cittadini italiani, le funzioni statuali non assorbono più di un terzo delle risorse di lavoro impiegate in un complesso di attività che sono riconducibili alla burocrazia romana e al pubblico impiego. In precedenti ricerche sul fenomeno burocratico a Roma non si sono potute utilizzare rilevazioni statistiche disaggregate come quelle oggi disponibili e, forse, non era potuto emergere che una parte consistente dei pubblici dipendenti servono alla riproduzione della vita quotidiana nella città17. Nel 1981 le attività della pubblica amministrazione e dei servizi pubblici dipendenti e privati hanno occupato 288.409 addetti, in 21.206 unità locali: si tratta del 40% di tutti gli occupati nel settore terziario e quasi il 33% di tutti gli occupati (in totale 885.958). Nella capillare e vastissima articolazione del commercio, la media degli addetti è di 3 occupati per unità locale: queste sono 67.372 con 204.724 occupati. Il commercio al minuto copre più della metà dell’occupazione e quasi il 70% dei luoghi di attività: la gran parte di questa rete commerciale è per il commercio urbano, mentre non è così per una gran parte del commercio all’ingrosso, delle intermediazioni, delle attrezzature turistiche. Un’analoga distinzione tra servizi per la vita quotidiana della città e dei suoi abitanti e ruoli e funzioni di altra scala (nazionale, internazionale) si può fare anche con il ramo dei trasporti e delle comunicazioni e con il ramo del credito e delle assicurazioni: in ambedue questi grandi comparti prevalgono, comunque, le funzioni nazionali e internazionali, pur non trascurando il rilievo che hanno nella formazione del prodotto lordo dei redditi individuali così come nelle relazioni umane la rete dei trasporti urbani, dei servizi telefonici e delle comunicazioni a distanza, la diffusione degli sportelli bancari, l’accesso al piccolo credito, e così via. 17 Ci riferiamo al saggio di Chiara Sebastiani, Il quadro strutturale: Roma burocratica, in Franco Ferrarotti e AA.VV., La città come fenomeno di classe, Franco Angeli, Milano, 1975, p. 86 e segg.

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Questo tipo di lettura dentro il terziario mira a sollecitare alcuni punti di riflessione. Roma è la conferma di un problema – non risolto, forse, in nessuna parte del mondo – quello delle grandi città, la cui gestione, costosissima anche solo per la sopravvivenza, non riesce a trovare strumenti e forme che garantiscono ai cittadini democrazia ed efficienza al livello di maturazione dei bisogni e delle coscienze18. Quasi sempre nell’erogazione e acquisizione dei servizi, centrale è il rapporto diretto tra chi riceve la prestazione e chi la fornisce. Mediatrice del rapporto umano è l’attività lavorativa, dalla quale, nello scambio, una delle parti si attende un reddito o un profitto certo. Con due possibili esiti. Se chi offre un servizio è un privato, varrà la legge della domanda e dell’offerta; se l’operatore è un dipendente pubblico il rapporto con il destinatario del servizio sarà un rapporto asimmetrico e di potere. Quel dipendente pubblico, che dovrebbe essere, per definizione, al servizio del cittadino, sa che su di sé il controllo opera su base gerarchica, quindi dall’alto: la norma avrà più peso delle aspettative19. Ci siamo soffermati su questi aspetti che sono generali per tutte le grandi città perché a Roma è più alta che altrove la quota di popolazione attiva nei servizi diretti alle persone. Basti ricordare che solo l’amministrazione comunale e delle aziende municipalizzate ha oltre 75.000 dipendenti (esclusi, quindi, il settore scolastico e quello sanitario). Un noto econonista20 opportunamente riflettendo sul rapporto “tecnica e dominio” avanza l’ipotesi di un «dirottamento delle forze economiche, attraverso la mano pubblica verso la produzione di servizi anziché di beni», nella visione di un lavoro che «venga tolto dalla posizione di dominato dalle cose» e venga «ripristinato come elemento e media18 Una ricerca sul comportamento elettorale con particolare riferimento al «non voto» (astensionismo) che ha avuto come campo dell’indagine empirica la città di Roma mette in luce che nelle elezioni per il Comune è più bassa la partecipazione dei cittadini e che questo indice sarebbe in relazione ad una percezione più diffusa dell’inutilità del voto. La ricerca è in corso di stampa per tutti i tipi della Siares. 19 In Franco Ferrarotti e AA.VV., Studi e ricerche sul potere, 3 volumi, Ianua, Roma, 1980, la ricerca empirica, condotta a Roma, ampiamente documenta e motiva il rapporto non soddisfacente del cittadino con i pubblici uffici e le autorità pubbliche. 20 Claudio Napoleoni, La liberazione dal dominio e la tradizione marxista, in «Bozze 86», IX, n. 5-6, 1986, p. 38.

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zione del rapporto umano». Ma, appunto, non basta la prevalenza di un’economia di servizi per migliorare le forme e i contenuti della convivenza umana; rapporti umani e liberi nella città non sono in relazione meccanica con l’espansione del terziario e dei servizi. A Roma la particolare composizione del terziario comporta una obiettiva condizione di privilegio, in quanto a sicurezza del porto di lavoro, per tutti coloro che sono dipendenti di istituzioni e strutture pubbliche. L’amministrazione centrale dello Stato ha più di 85.000 dipendenti, 61.000 sono le aziende statali (ferrovie, poste, telecomunicazioni, ecc.), il Comune di Roma ha 35.000 dipendenti più altri 40.000 nelle aziende di servizi che controlla, oltre 70.000 sono nel comparto dell’istruzione e almeno 50.000 nel servizio sanitario nazionale, alcune migliaia sono dipendenti del Parlamento, della regione Lazio, della RAI Tv, ecc. almeno metà, quindi, degli occupati nel terziario non conosce il pericolo del licenziamento. La dinamica del reddito, però, appare ferma in tutto questo comparto di servizi non vendibili e pubblici, anzi, gli ultimi dati di cui si dispone (per il triennio 1980-1982) danno un calo dell’1,1% in termini di prodotto interno lordo21. In sostanza, a partire dagli anni Settanta, l’economia romana manifesta la crisi del suo tradizionale modello di crescita, proprio per la stasi che perdura nel settore pubblico in termini di livelli occupazionali e di reddito; non sembra che a quel modello si torni, né ciò sarebbe augurabile. È al terziario avanzato che si rivolge, da parte del potere economico come da parte del potere politico, per la verità senza un adeguato corredo critico, per il decollo dell’economia romana e della vita cittadina, per “Roma capitale moderna”22. 21 Fonte: Unioncamere, in Comune di Roma, relazione previsionale e programmatica 1986-1988, Roma, 1986, p. 55. 22 Si vedano ad esempio molti saggi apparsi negli Atti di due convegni, uno promosso dall’Irspel e l’altro dal Cripes: l’unica preoccupazione che talvolta emerge è in relazione ai livelli occupazionali dal momento che le nuove occasioni che dovrebbero aprirsi nel terziario avanzato non potrebbero compensare la minore occupazione negli altri settori. Le pubblicazioni cui si riferiamo sono: Irspel – Istituto Regionale di studi per la programmazione economica del Lazio, Roma e il suo Hinterland: scenari e proposte, Atti del convegno svoltosi a Roma nel dicembre 1984, Roma, Fratelli Palombi, 1985; Cripes – Centro ricerche politiche economiche e sociali «Agostino Novella», Una strategia per lo sviluppo di Roma Capitale, Atti del IV seminario annuale di studi, Roma, Pubblicazione del Cripes, 1986.

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Incorporata nel terziario avanzato c’è la nuova tecnica, quel’insieme di conoscenze e strumenti straordinari che in pochi decenni hanno dimostrato di essere pervasivi nei più diversi campi del lavoro e della vita, cosicché, non a torto, si parla di ingresso in una seconda rivoluzione industriale. I processi innovativi che sono stati innescati sono tuttora in corso e però presentano situazioni assai contraddittorie, ed anche preoccupanti con riferimento ai rapporti sociali. Sembra accertato, ormai, che accanto a “nicchie” di personale altamente qualificato si moltiplicano le qualifiche basse degli addetti ai servizi di pulizie, di custodia; la divisione del lavoro tende a spezzettarsi sempre più; si può prevedere che un’automazione accelerata negli uffici, particolarmente a Roma, potrebbe portare a costi sociali assai pesanti in fatto di occupazione. Alcune di queste situazioni emergono da uno studio organizzato dall’Ufficio Studi del Comune di Roma23. L’analisi del terziario avanzato si scontra con difficoltà ben più elementari per la mancanza di dati anche semplicemente quantitativi, perché i dati del censimento dal 1981 sono pochi e già invecchiati: a Roma, le ricerche più ampie hanno utilizzato come fonte di partenza le Pagine gialle, edite dalle SEAT e distribuite agli utenti dei telefoni urbani. Il censimento del 1981, infatti, individua 11.749 unità locali con 53.884 addetti nella classe “Servizi alle imprese”: il condizionamento della domanda appare assai forte, a prima vista, dal momento che prevalgono i servizi legali, fiscali, amministrativi, di contabilità e così via. Se fosse arbitrario inserire tutto questo comparto nel terziario avanzato, non deve però sfuggire che l’economia romana ha partecipato in pieno al movimento di crescita dei servizi alle imprese e che il processo di integrazione tra produzione di beni e produzione di servizi non appare davvero reversibile. L’altro tipo di rilevazione offre un quadro più selezionato delle imprese di terziario avanzato “esterno”: sono state censite, nel 1982, 2.449 unità sensibilmente accresciute di numero rispetto a cinque anni prima, nel 1977, quando erano 1.628; a Milano, Torino ed anche Bologna nello stesso arco di tempo l’aumento è stato più forte. 23

Comune di Roma Ufficio studi e programmazione economica – (Uspe), Il terziario avanzato, nemero speciale di Ricerca e informazione, n. 2, maggio-agosto 1984; la ricerca è stata svolta in collaborazione con il Centro Ricerche economiche del lavoro (Crel).

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Due caratteristiche rilevanti. La prima è data dal grande numero di strutture destinate alla consulenza amministrativa e commerciale chiaramente omogenea all’economia di servizi. La seconda è data dal numero e dall’alta qualità dei 104 centri e istituti di ricerca. Godono spesso questi di finanziamenti pubblici perché spesso rispondono ad una domanda pubblica, anche in collegamento con referenti tecnici di Ministeri, Organi costituzionali, Amministrazioni, Enti24. La pubblica amministrazione, infatti, nella sua parte più tradizionale è in ritardo nell’uso delle tecniche avanzate e là dove sono state introdotte hanno avuto applicazioni sostanzialmente di tipo amministrativo e di contabilità; applicazioni più avanzate di carattere conoscitivo, programmatorio, progettuale si trovano solo in sei centri su un totale di 163 strutture informatiche con circa 17.000 addetti. Così nel 198425. Di qui anche, come si è detto, il ricorso a centri e istituti esterni che lavorano su committenza degli apparati dello Stato affinché questi siano in grado di giocare ruoli decisionali e direzionali in aree strategiche. L’area nella quale forse è più complesso e avanzato l’intreccio tra pubblico e privato è quella delle comunicazioni. Qui il “pubblico” è il vertice dello Stato e il “privato” sono le grandi società con forte proiezione internazionale e, direttamente, le multinazionali, i colossi cioè che dominano nell’elettronica, nel trattamento delle informazioni e della loro distribuzione. Nel 1984, dopo Milano, Roma è la seconda città italiana per la produzione nel settore informatico con 500 aziende e 7.500 addetti: i dati dell’ultimo censimento sono già invecchiati, la maggior parte di queste aziende sono sorte infatti dopo il 198126. Avendo l’occhio a tutta l’economia dei servizi nell’area romana e ai mutamenti che sono intervenuti negli ultimi decenni e in misura ancora più accelerata negli ultimi anni le accurate analisi condotte negli anni Settanta sulla burocrazia romana, se da una parte pensiamo che, nelle linee interpretative, possano essere estese a tutto il settore dei servizi, dall’altra però esse esigono un aggiornamento e uno sforzo maggiore di differenziazione. 24

Le classificazione di queste istituzioni per aree di ricerca è in: Cripes, Una strategia…, cit., p. 89. 25 Fonte: Provvedimento Generale dello Stato. 26 Indagine della Federlazio, in Cripes, Una strategia…, cit., p. 102.

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La ricerca empirica, infatti, era approdata alla scomposizione del fenomeno burocratico in due burocrazie: l’una tradizionale, l’altra più moderna, la prima rivolta ai cittadini per l’offerta e la gestione dei consumi collettivi esercitando controllo e acquisendo consenso, la seconda dinamica ed efficiente « al servizio del potere economico e suo autentico braccio esecutivo»27. A quel tipo di analisi si adeguava l’ipotesi conclusiva. La coesistenza delle due burocrazie non andava interpretata come complementarità, nel senso che la disfunzione di alcuni settori era funzionale alla migliore conservazione del sistema di potere. Piuttosto bisognava individuare nelle novità del fenomeno burocratico una fase di transizione verso nuove forme di gestione del potere. La lotta per uno sviluppo alternativo della città avrebbe dovuto mirare l’azione verso le nuove forme di controllo burocratico dal momento che doveva prevedersi che alla maggiore efficienza non avrebbe corrisposto maggiore democrazia, di per sé. Che l’espansione dell’economia dei servizi avrebbe portato a problemi di tale natura era stato in qualche modo previsto, ma i processi hanno avuto una velocità e una carica di innovazione tecnica che non erano state messe in conto. Né era stato messo in conto che il tessuto sociale della città mutasse così radicalmente da far cadere tutte le esperienze storiche e tutte le ipotesi teoriche elaborate, affinché le forze detentrici del potere fossero costrette a misurarsi, a correggere, a rinunciare ai propri obiettivi esclusivi. Per restare nell’arco di temi finora accennati, basterà, come esempio, riflettere a quanto sia mutata la qualità della composizione sociale della forza-lavoro attiva: questa è per l’80% nei servizi, il 50% di tutti gli occupati è di dirigenti o di impiegati, i lavoratori dipendenti nelle cui prestazioni resta qualche forma di manualità sono al minimo storico del 37%; la classe operaia propriamente intesa è all’interno di questa già minima quota insieme con le basse qualità del terziario (personale di fatica e di pulizia, personale di sorveglianza e custodia, ruoli subalterni nei trasporti, nella sanità, nella scuola, ecc.). Nel quadro che la città oggi presenta non ci pare che emerga quali siano le forze sociali in grado di esprimere una qualità nuova di 27

Franco Ferrarotti, Le ricerche romane, in «La Critica sociologica», n. 24, inverno 1972-73, p. 89.

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capacità e di consapevolezze per intervenire nell’innovazione, nella tecnica, nel difficile presente. Eppure urgono una cultura ed un agire politico rinnovati, nelle forme di democrazia e della scienza critica, che non si lascino catturare dall’ideologia dell’innovazione e della tecnica. Non si tratta certo di regredire ad ipotesi oscurantiste, antimoderniste, come accade in certe espressioni e manifestazioni di rifiuto e condanna; occorrerebbe, però, riscoprire un arco di principi valutativi più ampio che si raccolga e organizzi attorno alla centralità dell’essere umano. È vero che oggi – ho già notato in Vite di periferia – le baracche sono sparite. Per due generazioni erano state il perno di una spinta potente verso la realizzazione di una città senza baracche né baraccati. I ghetti delle baracche contrapposti agli attici di lusso oggi non sono più “visibili”. La struttura di Roma non è più riassumibile con un’immagine semplice. Ma è certo tuttavia, che la fine delle baracche non ha comportato, e non comporta, necessariamente la fine dell’emarginazione sociale e si registrano nuovi tipi di povertà. In un vecchio articolo (“Corriere della Sera” del 21 novembre 1976) dal titolo redazionale alquanto forzato (“Dal Campidoglio rosso non si vedono le borgate”) approfondivo questo punto cruciale. Notavo che a Roma quasi tutti gli abitanti della baraccopoli dell’Acquedotto Felice erano stati spediti a Spinaceto e a Ostia Nuova. Naturalmente ci voleva ben altro che qualche colpo di ruspa per seppellire il discorso sulle borgate, sui borghetti e sulle baracche. Questa differenza verso i trionfalismi delle autorità amministrative è valida oggi più di ieri. Quella che poteva apparire come niente più che una frangia, da assorbirsi a poco a poco e senza traumi nel generale miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici, va rivelandosi come un osso duro, come una “contraddizione oggettiva”. Non da oggi, in questa prospettiva, vado osservando che le ricerche sociologiche sulla marginalità tendono ad interpretare le condizioni oggettive delle periferie e dei suoi abitanti come risultanza o, quanto meno, come situazioni rafforzate da una specie di atteggiamento degli stessi emarginati in termini di “subalternità soggettiva”. Questa subalternità si suppone legata a una particolare apatia politica e a una radicata diffidenza verso il sistema istituzionale prevalente. Essa viene vista come il presupposto e insieme la giustificazione delle condizioni oggettive di segregazione in cui una parte della popolazione è costretta a vivere. In questo modo la re182

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sponsabilità della segregazione e della conseguente emarginazione viene ribaltata e attribuita agli stessi emarginati. Il vicolo cieco della spiegazione soggettivistica e “culturologica” diviene manifesto. Con ciò non intendo sottoscrivere senza riserve la polemica risposta e l’analisi, ispirata più dal fervere ideologico che dai dati empirici, di Franco Rodano (si veda “Le borgate viste dal Campidoglio – La cintura rossa della capitale”, in “Paese Sera”, 14 dicembre 1976). Mi limito a sottolineare la necessità di adeguati controllo empirici mediante ricerche sul terreno che fino ad oggi sono mancate e, quando ci sono state (come nel caso di P.L. Severi, Doppia Capitale, e di F. Martinelli, Roma nuova), si sono a mio giudizio sottomesse con eccessiva prontezza a tesi precostituite. Con maggiore modestia mi sembra invece opportuno procedere ad una prima tipologiapilota della periferia, in grado di offrire un’idea della sua complessità polidimensionale. In primo luogo, sembrano da distinguersi i quartieri-dormitorio, vale a dire i quartieri che non sono quartieri veramente collegati con il tessuto urbano semicentrale e centrale, con le sue dotazioni di servizi e di strumenti per l’uso creativo del tempo libero, dalle palestre ai cinematografi e alle biblioteche, ma anche con i suoi mezzi di produzione e di distribuzione dei beni su vasta scala. Questi quartieri sono per lo più abitati dai pendolari e solo un’informazione scarsa e acritica potrebbe farli sommariamente equiparare ai suburbi del mondo sociale anglosassone dove la mitizzazione della casa unifamiliare (“my home is my castel”, “Home, sweet Home”) ha avuto come effetto positivo la dotazione del suburbio di servizi mediamente efficienti, da quelli sanitari ai trasporti e alle poste. In un tipico quartiere dormitorio romano come Spinaceto, tuttora si lamenta la mancanza di un ambulatorio medico e addirittura di un posto di telefono pubblico. Vi sono poi, in secondo luogo, da considerarsi i quartieri periferici ma produttivi, la vera a propria banlieue, tipica della metropoli di origine industriale, che hanno però un importante retroterra storico, dotato di valori simbolici, che trova nel centro e nei suoi monumenti il suo luogo privilegiato ed esclusivo; si tratta di città industriali, ma non di tipo nordamericano, bensì caratteristicamente europeo, con passato classico medievale che ancora parla all’immaginazione popolare. Questo tipo è ben rappresentato dalle periferie di Parigi e di Francoforte, mentre i quartieri marginali di Roma, per esempio, 183

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in quanto conseguenze di una sfasatura grave fra incremento demografico urbano e capacità di assorbimento con sviluppo del tessuto e delle attrezzature della città, non si possono paragonare ad una banlieue. Essi sono invece direttamente collegati con a) le borgate per lo più “ufficiali”, nel senso che sono insediamenti non abusivi, bensì costruiti per decisione politico-amministrativa del centro con b) i borghetti, nati per lo più spontaneamente a ridosso delle borgate ufficiali, e infine con c) le baraccopoli, ossia con gli agglomerati di baracche e case improprie, prive di pareti in muratura, con pavimenti in terra battuta, assolutamente prive inoltre dei servizi igienici essenziali, di elettricità, acqua corrente, fognature. È questa frangia dolente, che alla periferia esterna della città vive d’una sua vita clandestina, spesso ignorata dalle statistiche ufficiali, che ho definito l’anti-città, in quanto costituisce la negazione della città in senso moderno. Essa pone alla città una sfida che va raccolta. Occorre portare la città nella periferia. La città italiana è nata attorno alla piazza che ne è il cuore. La speculazione edilizia, in periferia, ha “consumato” perfino i marciapiedi. Bisogna invece fare le piazze, spezzare la prigione di cemento con gli spazi verdi, portarvi non solo i servizi essenziali, dalla farmacia al telefono, ma anche i luoghi dei Malls che nelle città nordamericane ha funzionato, determinando una salutare de-congestione. Bisognerebbe tentarlo anche in Europa, dove solo Amburgo, per il momento, può vantare una vera e propria isola pedonale di dimensioni ragguardevoli. A Roma si pensa troppo in termini di “grandi progetti” avveniristici mentre intanto la città si degrada, i quartieri, paralizzati dal traffico, non riescono più a comunicare, le strade sembrano avere il colesterolo, viene meno quella permeabilità fra gli spazi che definisce la metropoli moderna.

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Appendice III

La partecipazione umana alla pianificazione in una società in sviluppo*

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FRANCO FERRAROTTI

Il mio compito consiste nell’offrire solo alcune considerazioni, che toccano la funzione dei centri sociali rispetto alla programmazione dello sviluppo economico1. È un compito limitato, ma singolarmente imbarazzante. L’imbarazzo mi sembra nascere dalla necessità in cui mi trovo, di dover parlare della funzione dei centro sociali, cioè di una realtà allo stato sperimentale, essenzialmente sporadico, rispetto alla programmazione, cioè rispetto ad una realtà che non c’è ancora. Nego infatti che in Italia si possa parlare di programmazione dello sviluppo economico-sociale in senso proprio: non che manchino le polemiche intorno ai piani, le sottili distinzioni tra pianificazione e programmazione (già in sede di Assemblea Costituente, Einaudi negava ci fosse una differenza fra pianificazione e programmazione col Tommaseo alla mano). In realtà, nell’opinione comune, il termine “programmazione” è ritenuto meno eterodosso e per così dire meno offensivo.

* Da

«Esperienze amministrative», IV, aprile-giugno 1962.

1 Il testo riproduce la relazione introduttiva al 3° Convegno Nazionale della Federazione Italiana dei Centro Sociali, di cui l’On. Ferrarotti è presidente. Il Convegno si è svolto a Milano nei giorni 18, 19 e 20 maggio 1962.

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Il dibatttito politico sulla pianificazione Fin dal tempo dell’Assemblea Costituente il dibattito è in corso, come voi sapete; ma si tratta di un dibattito ricco di dichiarazioni di principio e povero di verifiche che rischia, per più versi, di scivolare in un nominalismo bizantino, cioè di diventare una vera guerra di parole. Il carattere dottrinario di questo dibattito si manifesta nelle varie posizioni politiche allora assunte, in primo luogo nella posizione dei comunisti; una posizione secondo la quale non si dà pianificazione che non sia pianificazione totale, ossia centralizzata e rigida. Più complessa, invece, più sofferta, appare la posizione dei socialisti, già al tempo della Costituente: questa posizione fu illustrata soprattutto nella parola e negli scritti di Rodolfo Moranti, ed è notevole, in particolare, per aver colto dichiaratamente il nesso che lega il piano e le riforme di struttura, in modo da non cedere ad alcuna messianica visione di una palingenesi sociale, per un verso, ma – nello stesso tempo – in modo da sottrarsi all’antica trappola del riformismo spicciolo, frammentario, in definitiva necessariamente clientelistico. Ma incerta, bisogna dire, reticente, qualche volta contraddittoria è emersa, a quel tempo, la posizione dei Cattolici. Però, per più versi, questa posizione (soprattutto qualche anno più tardi attraverso il dibattito promosso dalla rivista «Cronache Sociali», di cui possiamo oggi avere una succosa antologia nei due volumi curati da Marcella Glisenti) apre, pur fra le sue contraddizioni, nuove prospettive: e forza, in qualche modo, le angustie dell’economia ortodossa o neoclassica che, ancora a quel tempo, si esprimeva per bocca di illustri rappresentanti della destra liberale, come Einaudi oppure come il prof. Jannacone o, al limite, attraverso i bons mots pittoreschi di un paladino della destra estrema, come il marchese Lucifero. Ciò che colpisce nel dibattito della pianificazione, che ha preceduto, che ha poi accompagnato e che segue immediatamente i lavori dell’Assemblea Costituente, un dibattito che doveva sboccare, per quanto riguarda l’Assemblea Costituente, nella formulazione dell’art. 41 della Costituzione, non particolarmente esplicito, starei per dire un po’ infelice che, come voi sapete, recita il testo seguente: «la legge determina i programmi ed i controlli opportuni per186

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ché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata ai fini sociali», ciò che colpisce, in questo dibattito, può venire agevolmente riassunto, a mio parere, nelle caratteristiche seguenti: in primo luogo si nota un ritardo culturale che impedisce al dibattito, a mio sommesso parere, di raggiungere il piano della discussione critica in senso proprio. La pianificazione sovietica è ancora da taluni additata come modello, indipendentemente e senza tener conto degli studi del Bettelheim, dello stesso economista marxista Dobb e più ancora senza tener conto, da parte di altre parti politiche, di quegli studiosi appartenenti al laburismo ed al socialismo fabiano-inglese, quali il Durkin e la Wootton, i quali fin dagli anni tra il 1930 ed il 1935, nella scia e sulla scorta della pesante lezione della grande crisi del 1929, si pongono il problema della compatibilità fra pianificazione e democrazia. Notate bene, si pongono il problema non sul territorio dei principi assoluti al modo di von Hayek, per es., o al modo di certi Cattolici, bensì si pongono il problema al livello delle decisioni operative, e delle strutture istituzionali che possono o meno garantire una tale conciliabilità fra pianificazione, cioè giudizio dell’esperto, e democrazia, cioè giudizio della maggioranza. E, fra gli sviluppi più recenti, poi, è strano che in quel dibattito non si spenda una parola intorno agli studi importantissimi urbanistico-territoriali ma anche di pianificazione economica in senso moderno, che abbiamo in Francia, per es., nell’opera di Gravier oppure intorno agli studi dell’economia regionale che ancora recentemente ci sono stati offerti da François Perroux. Seconda caratteristica: un orientamento essenzialmente nominalistico, e cercherò di spiegare cosa voglio dire. Un atteggiamento ed un orientamento nominalistico, a mio avviso, sono definiti dalla tendenza a risolvere i problemi oggettivi, strutturali, in formule letterarie. Questa è una caratteristica, noi tutti lo sappiamo, che viene da molto lontano e che chiama in causa tutta la nostra tradizione culturale e civile. Essa converte, sostanzialmente, tutti i problemi etici in atteggiamenti estetici, i problemi politici reali (politici in senso grande, problemi sociali, cioè i problemi che sono generati dai rapporti interpersonali e dalle strutture oggettive della convivenza quotidiana) in formule letterarie in cui l’eleganza è per lo più direttamente proporzionale alla mancanza di impegno. È la grande valvola 187

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di sicurezza che noi ben conosciamo per l’intellettuale, per l’uomo politico italiano: è una ben collaudata tecnica di evasione rispetto alla durezza dei problemi pratici della vita sociale ed alle drastiche scelte che di tanto in tanto essi impongono. Questo è un atteggiamento che viene da lontano: noi sappiamo, anche dai nostri studi classici, come per lunga tradizione l’intellettuale italiano ha sempre più valutato, in cuor suo, uno scherzo oppure un sonetto ben rifinito, una splendida lettera dedicatoria ad una qualsiasi ricerca di pensiero di filosofia pratica, tanto meno un gesto di fredda, non retorica, potente moralità. Così, oggi ancora, in una situazione politica pur tanto diversa, abbiamo sovente lo spettacolo non particolarmente edificante di un furore alessandrino che cerca nel conio minuzioso, paziente, quasi macerante di nuove formule e frasi, nella rilevazione di distinzioni la cui sottigliezza pare talvolta sconfinare nella cavillosità se non nell’ipocrisia, la soluzione dei problemi di struttura della società italiana: notate che non si tratta solo di lamentare qui la elusione di questi problemi; le soluzioni verbali non sono soltanto pseudo-soluzioni: esse costituiscono degli ostacoli obiettivi alla comprensione del processo politico e quindi alla partecipazione ad esso da parte dei cittadini. In altri termini, le soluzioni verbali, il linguaggio ideologico cifrato, questa specie di “verbiage” che suona come il gergo di una iniziazione con le sue formule sacramentali e la sua liturgia (l’apertura, la chiusura, la svolta, la convergenza, la reazione, la “socialità” generica) contribuiscono a mantenere, se non a rafforzare, il carattere discrezionale e sostanzialmente oligarchico dell’esercizio del potere.

L’analisi degli strumenti Il dibattito sulla pianificazione in Italia è, in terzo luogo, contraddistinto, a mio giudizio, dalla mancanza di analisi strumentale. È una mancanza sintomatica, che si ricollega, d’altro canto, senza elusione di continuità, alle osservazioni avanzate dinanzi. Non mancano naturalmente le dichiarazioni di principio e non manca l’indicazione degli scopi generali; manca l’indicazione dei modi e degli strumenti per raggiungerli, mancano i criteri di giudizio specifici, mancano i 188

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parametri significativi, essenziali, per una valutazione razionale del piano nelle sue fasi, cioè mentre si svolge, non solo in sede di generale consuntivo. In Italia abbiamo, dunque, i piani ma non la pianificazione; abbiamo la parola, ma sovente non la sostanza: stiamo ancora, per così dire, cercando il piede nella scarpa. L’esigenza di un ordine razionale nella spesa è ormai di dominio pubblico e risulta universalmente accettata, ma è solo di alcune settimane fa la nomina da parte del Ministero del Bilancio della Commissione della Priorità. Quale che sia l’avvenire del Governo di centro-sinistra, io credo che voi tutti converrete che resterà come un suo merito quello di aver fatto cadere, se non il potere delle oligarchie economiche, almeno il terrore di certe parole che fino a tempi recentissimi bastavano a gettare in uno stato d’angoscia tanta parte della nostra classe dirigente e che oggi, invece, sono motivo di allarme per una parte meno significativa di questa classe politica ed intellettuale dirigente. Fra queste parole redente dal centro-sinistra, credo che la parola “piano” meriti una considerazione particolare: potrebbe questa parola segnare l’inizio di una rivoluzione di fondo nel linguaggio politico e nella stessa meccanica parlamentare, sostituendo così ad una esperienza politica vissuta in termini di magia e di retorica una serie di criteri di valutazione razionale di problemi amministrativi, in base ai quali forse il 50% della classe politica italiana, oggi, rischierebbe di non aver più nulla da dire e cadrebbe obiettivamente in una situazione di disoccupazione tecnologica. La destra italiana è ben consapevole di questa situazione e se dobbiamo prendere nota delle sue manifestazioni più canore, la destra paventa il centro-sinistra (l’attuale governo italiano) per via del neutralismo dei socialisti che lo appoggiano dall’esterno. In realtà io credo non infondato ritenere che si tratti di una ragione formale, forse di un alibi; sostanzialmente la destra sa benissimo che il centro-sinistra ha un margine d’azione significativo solo sul piano della politica interna, e questo margine lo si può riassumere ancora una volta con un termine: realizzare nel nostro Paese una politica di piano. Il compito si presenta, all’apparenza, facile se non addirittura scontato, l’Italia sembra essere diventata la terra dei piani. Fin dal ’49 abbiamo il piano del lavoro, poi abbiamo il piano Vanoni, abbia189

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mo il piano Scuola, il piano Verde. Insieme con gli interventi della Cassa per il Mezzogiorno, l’opera dei vari enti di Riforma, che sono in parte qui rappresentati: sono questi gli esempi macroscopici, ma non si possono poi dimenticare tutti gli altri piani che noi troviamo nelle raccolte di leggi: dai piani urbanistici, fino ai piani paesistici, piani di bonifica, di riconversione produttiva, di sistemazioni fondiarie, di ricostruzioni stradali; un piano per l’ammodernamento delle Ferrovie, e così via. Gli esempi potrebbero continuare ma quelli citati mi sembrano già sufficienti per chiarire che parlare di piani, approvare dei provvedimenti per scopi particolari non significa, ovviamente, fare una politica di piano, perché per definire correttamente una tale politica, una politica di piano, non è sufficiente prospettare una politica che si prefigga certi fini e che, grosso modo, al livello della spesa generica, predisponga i mezzi finanziari per raggiungerla. Saremmo ancora nel vago, nel generico e qualsiasi attività, non tanto politica ma semplicemente umana, rientrerebbe in una tale definizione: qualsiasi iniziativa che affronti consapevolmente il futuro, indubbiamente, ha bisogno di pianificazione, di programmazione: non v’è dubbio che, ridotta al suo nocciolo essenziale, la pianificazione in fondo cosa vuol dire? Vuol proprio dire un certo processo, e cioè un modo razionale contro i modi intuitivi, quindi discrezionali ed arbitrari. Questa caratterizzazione è necessaria, indubbiamente, ma non è sufficiente: il problema che la pianificazione pone a noi ha una sua dimensione particolare, e questa dimensione particolare riguarda semplicemente la compatibilità fra i valori, le strutture, le scelte sociali, da una parte e dall’altra la varietà, la imprevedibilità delle vocazioni e quindi delle scelte dei piccoli gruppi e dei singoli individui.

La pianificazione in una società in fase di sviluppo Per quanto riguarda le società di tipo tradizionale, le società cioè che sono caratterizzate da bisogni essenzialmente stazionari, da una struttura relativamente liscia, il problema non ha rilievo: la libertà di scelta individuale gioca su margini così ridotti, in questo caso, 190

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da apparire irrilevante e giustamente l’antropologo Reklield osserva che, nell’ambito delle grandi tradizioni, non si può parlare di vere e proprie scelte individuali: l’individuo si realizza, in questo caso, nell’adesione costantemente rinnovata al gruppo cui territorialmente, fisiologicamente, socialmente appartiene. In altre parole, l’individuo si realizza dissolvendosi come individuo nella comunità organica, accettandone senza riserve tutte le regole, vivendo ed esaurendo in essa il proprio destino: evidentemente si tratta di una comunità statica, di una comunità non in sviluppo: ciò sembrerebbe spiegare l’unità ferrea delle società, quella ferrea unità e coesione con le quali noi a volte giochiamo un po’ troppo disinvoltamente: una unità che non differisce, sostanzialmente, da quella di una poesia, se volete, con la sua economia di vocali, le sue leggi metriche, in cui ogni vocabolo implica assai più del suo significato letterale, ma nella quale – d’altro canto – nessun vocabolo può venire spostato ed alterato senza mettere in crisi tutta la costruzione. Diverso è il caso della nostra società che è ormai entrata in una fase di sviluppo e di sviluppo apparentemente irreversibile per cui le nostalgie medievaleggianti di alcuni letterati puri ci possono anche lasciare indifferenti. È essenzialmente mobile questa società, con una consapevolezza sociale in rapido aumento rispetto ai bisogni ed alle aspettative psicologiche dei gruppi: il senso dei diritti nuovi maturati. Una società questa dominata da tecniche produttive che come voi ben sapete rompono gli antichi legami per cui terra e contadino, mastro di bottega, artigiano, committenti, mercato, si integravano in maniera per lo più armonica. Questa società si vede costretta a surrogare l’ordine naturale della comunità organica che è venuto meno con l’organizzazione formale esplicita, modellata su schemi razionali ed impersonali. In altre parole: per sopravvivere la società moderna ha bisogno di pianificare la propria vita. Ed è qui veramente che incontriamo una antinomia fondamentale: la pianificazione è motivata dall’esigenza di garantire uno sviluppo ordinato, ma può essa stessa dare luogo ad un apparato burocratico o a dei modi di intervento che sono intrinsecamente lesivi dello sviluppo, in quanto sboccano nella paralisi dell’iniziativa spontanea dei cittadini e della vita di quegli organismi intermedi che stanno fra i singoli cittadini e lo Stato. In questo senso io credo che sia esatto ritenere che il tema speci191

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fico della pianificazione consiste nel garantire un adeguamento costante dello Stato, delle sue strutture istituzionali, dei suoi strumenti operativi e dei centri di potere privati che si vengono via via formando alle esigenze della società, a quelle inedite che sono il riflesso di una nuova consapevolezza acquisita dai cittadini ed a quelle strutturali, derivanti da particolari salti e squilibri fra regione e regione, fra area cittadina e area della campagna circostante, fra Nord e Sud o all’interno della stessa regione. È un tema straordinariamente difficile, sia dal punto di vista concettuale che da quello operativo, perché questo tema implica un tipo di pianificazione su cui non abbiamo ancora alcun modello e per il quale non possiamo ancora far ricorso ad alcuna compiuta esperienza ma solo a qualche parziale esperimento, a qualche sporadica anticipazione.

Democrazia diretta e pianificazione Per una prima grossolana caratterizzazione, possiamo dire che si tratta di una pianificazione flessibile, essenzialmente democratica nel senso che si garantisce la possibilità di prendere in tempestiva considerazione il giudizio dei gruppi umani direttamente coinvolti nel processo di trasformazione. Direi quindi che è democratica nel senso di una democrazia quasi diretta, non di una democrazia rappresentativa nel senso parlamentare tradizionale. È un tipo di pianificazione che per ciò stesso viene a contrapporsi quindi, radicalmente, alla pianificazione centralizzata dei Paesi socialisti, tradizionalmente detti socialisti e di democrazia popolare, tendenzialmente totalitaria, in quanto è a senso unico dal vertice alla base, ed inoltre viene a contrapporsi a quella pianificazione invisibile, così la chiamava Adriano Olivetti, ma realissima degli uffici Studi, delle Consulenze, dell’elaborazione di progetti, di analisi di consumo e di ricerche di mercato, di quella pianificazione che io chiamerei anarcoide, sfiorando la contraddizione in terminis, di cui ha pur bisogno, un bisogno vitale, l’economia capitalista. È in questa prospettiva che si fa luce – ed io mi scuso di dare un quadro così ampio che apparirà forse sfuocato, ma credo che questa sia la prospettiva vera – dicevo, la funzione dei centri sociali nella 192

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programmazione economica. Ed è qui, d’altro canto, che si fanno più evidenti i limiti dei tentativi di programmazione economica. Ed è qui, d’altro canto, che si fanno più evidenti i limiti dei tentativi di programmazione a tutt’oggi compiuti in Italia. Questi limiti coinvolgono le caratteristiche e l’azione dello Stato, in primo luogo. E prima ancora della costruzione dell’areoporto di Fiumicino, ben noto, essi erano stati duramente sottolineati nel corso del dibattito parlamentare sulla Cassa del Mezzogiorno, nel febbraio 1961. Io credo che veramente il caso della Cassa per il Mezzogiorno sia un caso da manuale: esso costituisce un punto di riferimento obbligato, se si considera che in un momento in cui potevamo già disporre delle interessanti esperienze della Gran Bretagna, dell’Olanda, degli Stati Uniti d’America con la loro famosa, forse troppo famosa, Tennessee Valley Authority, e degli ultimi sviluppi, perfino di taluni Paesi di democrazia popolare, come la Polonia, noi abbiamo invece preferito fare esperienza sulla nostra pelle, e siamo caduti in pieno nella classica fallacia dell’impostazione settoriale. È difficile, probabilmente impossibile, rimediare ad un tale errore senza dar conto ad una serie di ricerche che reinterpretino la questione meridionale al di fuori dell’interpretazione di comodo. Badate, quando parlo di ricerche non è che lamenti la mancanza di dati: di dati ne abbiamo troppi, ma i dati non parlano da soli. Ciò che manca non sono i dati, è la capacità di organizzare i dati in maniera significativa; ciò che ci manca sono i dati pertinenti, significativi. Per esempio sappiamo pochissimo sulla composizione reale dei nuclei familiari; sul come si distribuisca l’autorità all’interno di tali nuclei familiari; sappiamo troppo poco sulla mobilità, sulla stratificazione sociale, sulla struttura reale del mercato del lavoro, sul tessuto sociale ed urbanistico di base: sono dati fondamentali questi, per un processo di industrializzazione e di ammodernamento agricolo.

Infrastrutture e sviluppo del Mezzogiorno Il Governo, forse anche il governo di centro-sinistra, continua ad illudersi di poter attirare gli imprenditori del Nord nel Mezzogiorno con il miele dello sgravio fiscale e con la preparazione delle infra193

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strutture, ma questo vuol dire molto semplicemente che il governo ha capito molto poco della logica della industrializzazione; che il Mezzogiorno stia rapidamente diventando un cimitero di infrastrutture non è opera del demonio, è la conseguenza diretta di una politica e di una serie di interventi sbagliati: l’infrastruttura, il servizio pubblico, è un capitale sociale di estrema importanza, ma non è sufficiente di per sé ad attirare le industrie, è una premessa necessaria, ma non rappresenta e non può rappresentare quell’insieme di economie esterne, ossia quel particolare contesto socio-economico e culturale di cui una nuova industria, nelle condizioni odierne, ha pur bisogno per svilupparsi: credere che dopo il tempo dei sussidi agricoli, dopo la fase delle opere pubbliche e delle infrastrutture si possa avere finalmente il terzo tempo, quello della industrializzazione vera e propria, è piuttosto ingenuo. È tipico di una concezione meccanicistica e statica che riesce ad afferrare globalmente il problema: ma l’industrializzazione non la si può prendere con il contagocce. L’industrializzazione ha una sua logica inesorabile. Rispetto al mondo contadino preindustriale essa rappresenta non solo il cambiamento nel modo di produrre e di distribuire la ricchezza: essa rappresenta in realtà un salto storico, ossia implica un cambiamento qualitativo nel modo di vivere, di pensare, di ragionare della gente. L’industrializzazione non comincia col fatto finanziario economico; comincia nella testa della gente. Per questo non bastano le infrastrutture. Lasciate a se stesse, queste infrastrutture famose, non inserite come una parte integrante in un piano organico circoscritto di sviluppo, queste opere pubbliche fanno semplicemente da decorazione per lo status quo, peggio, costituiscono un puro passivo, la voce di spesa di una manutenzione spesso insufficiente perché è noto che fra le caratteristiche mentali delle aree depresse poco sviluppate c’è anche questa mancanza: la mancanza del senso della manutenzione. Per questo non basta: non bastano le sporadiche nuove industrie, le prime pietre ma arrivo a dire che, per sfruttare appieno l’aspetto cumulativo rispetto ad una stagnazione secolare, richiamandomi ad una genialissima intuizione di Adriano Olivetti, arrivo a dire che bisognerebbe costruire delle vere e proprie città industriali, i comprensori industriali. In altre parole, occorre creare una cultura industriale. L’industria194

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lizzazione, ripeto, non la si può fare a rate. O è un processo organico e globale, o non è niente; è una dissociazione. Ciò che invece fastidiosamente colpisce, nel bilancio consuntivo della Cassa, ma vale anche per altri settori dell’intervento dello Stato, è la dispersione della spesa: una somma ingente rispetto al reddito medio del nostro Paese, che giorno per giorno si disperde in mille rigagnoli, in mille direzioni diverse dietro la pressione praticamente incontrollabile, pur con la miglior buona volontà, di mille richieste di contributo: bonifiche, bacini montani, acquedotti, fognature, viabilità ordinaria, opere di interesse turistico, oppure ferroviarie e marittime, miglioramenti fondiari, infine contributi a fondo perduto di piccole e medie industrie. Come i clienti, vien da pensare, un tempo premevano alle porte del patrono, così oggi il cittadino, il piccolo industriale, il comune attende l’esito della sua richiesta, aspetta questo misterioso messaggio dell’imperatore: verrà o non verrà? Io non voglio neppure insistere su questo aspetto necessariamente clientelistico dell’operazione: mi basta però osservare che quando non vi sia una visione dinamica d’insieme, con un piano territorialmente definito e tecnicamente motivato, preceduto da una adeguata preparazione sociale, il clientelismo è uno sbocco inevitabile. Bisogna, a questo punto, prendere atto che il Governo di centrosinistra, ad opera soprattutto del Ministero del Bilancio che si chiamerà appunto Ministero del Bilancio e della Programmazione, si è posto il problema, il problema di una programmazione globale, sul piano nazionale, ed articolata in sede locale.

La sostanza umana dello sviluppo Il problema è stato posto con serietà; in particolare ci si sta rendendo contro di due fatti importanti: in primo luogo, che lo Stato non dispone a tutt’oggi di strumenti di accertamento immediato e tempestivo, cioè accertamenti ex ante, non a posteriori. Secondo: che l’espansione non è sinonimo di sviluppo, che non è sufficiente rallegrarsi dell’incremento del 9,2% del nostro reddito, che è invece essenziale, politicamente e socialmente significativo procedere ad un esame analitico della distribuzione del reddito per 195

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alte e medie zone territoriali, così come d’altro canto non appaiono sufficienti i grandi piani di economisti, gli elaborati (tanto per non far nomi) della commissione Papi, i quali piani si limitano a ragionare per grandi schemi macroeconomici, perdendo di vista la sostanza umana dello sviluppo: i grandi piani sono sempre a lunga scadenza, non tengono conto che alla lunga scadenza la gente è morta, non è interessata così vitalmente alla lunga scadenza è interessata anche a quella, ma non solo a quella. Questi piani perdono dunque di vista la sostanza umana dello sviluppo e perdono di vista la questione che è fondamentale, cioè l’articolazione specifica del piano al livello della comunità omogenea, concepita come una unità funzionale, vale a dire economicoproduttiva da un lato e nel contempo organicamente urbanisticoterritoriale. Il Governo di centro-sinistra, anche qui, come a proposito della pianificazione generale, ha il merito indubbio della presa di coscienza. Per ora non è molto, ma dobbiamo riconoscere che è meglio di niente. Gli sviluppi futuri sono quelli che più interessano il nostro convegno e questi sviluppi non avranno nulla di automatico: questi sviluppi dipenderanno a mio giudizio da tre condizioni strettamente indipendenti ai fini di un esito socialmente positivo: la prima è la elaborazione iniziale di sviluppo industriale ed agricolo organici, consentiti per un’area territoriale definita, adeguati tecnicamente e globali, vale a dire tali da concentrare simultaneamente e coordinatamente industrie ed opere pubbliche, aspetto ecologico-urbanistico ed aspetto funzionale-produttivo; tali quindi da garantire la trasformazione strutturale sia del modo di produzione sia del modo di vita, sulla base di particolareggiate analisi e di stime preventive che quindi ci diano la possibilità di un giudizio su quanto avviene, e non semplicemente la consolazione che tutto è stato fatto bene dal punto di vista formale-legalistico. La seconda condizione consiste nell’apprestamento di adeguati strumenti metodologici e di attuazione e propulsione per far fronte alle eventuali strozzature e distorsioni che non si possono mai escludere e che, d’altro canto, non si possono mai prevedere specificatamente in qualsiasi piano di sviluppo. La terza condizione, infine, riguarda la partecipazione diretta delle popolazioni interessate al processo di razionalizzazione ed 196

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ammodernamento agricolo ed industriale. Una partecipazione che non piova dalle nuvole, che è da prepararsi, da realizzarsi attraverso una serie di ricerche del servizio sociale sistematiche, da condursi preventivamente, cioè prima che l’attuazione del piano abbia inizio, intorno ai temi culturali ed ai comportamenti collettivi e rilevanti di tali popolazioni, in modo da poter prevedere le reazioni psico-sociologiche e le aspettative, mitiche a volte, che sono poste in essere dal processo di sviluppo e dall’incombente trasformazione ambientale, in modo da evitare che l’industrializzazione o il processo di ammodernamento agricolo semplicemente sostituiscano questo mito del babbo statale che viene a elargire dall’alto i suoi regali, i suoi doni; una preparazione che possa prevedere i conflitti e le frizioni dovute alla rottura dei comportamenti tradizionali e quindi preparare le modalità di adattamento psico-fisico ai nuovi ritmi di lavoro e di vita. Questa terza condizione, è ovvio, è di gran lunga per noi, ed io credo obbiettivamente e non soltanto per ragioni professionali, vorrei dire per ragioni di deformazione professionale, la più importante ed è quella per cui, paradossalmente, non si è fatto praticamente nulla. È quasi, direi, una condizione non prevista negli schemi a livello politico generale. Vi confesso il mio imbarazzo: non riesco a rendermi conto di dove scaturisca una così massiccia, così grande cecità.

La partecipazione umana ad una politica di piano Ad una classe dirigente che è fin troppo incline a fare dichiarazioni di rispetto, di difesa dei diritti della persona, non dovremmo essere noi, certo non dovrei essere io, non dovrebbe essere la nostra Federazione a ricordare che appunto le persone non sono né possono essere mai mero oggetto di una politica, sia pure la più illuminata e piena di avvenire fra tutte le politiche. Io mi domando, a volte, se un tale atteggiamento mentale che può persino passare per moderna spregiudicatezza, da uomini aggiornati, concreti, che non hanno tempo da perdere, efficienti, non abbia le sue radici in quella mezza cultura che certamente è più nociva dell’assoluta ignoranza. Vi è, vedete, una specie di marxismo ingenuo degli antimarxisti odierni, che io mi permetto di rilevare e di denunciare: si suppone, in altre parole, che mutate con drastici, efficienti interventi esterni cer197

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te strutture, automaticamente mutino anche gli atteggiamenti, le abitudini mentali tradizionali, legati al costume, invece che ad esigenze funzionali di sviluppo. Questi anti-marxisti sono dunque, in realtà, dei marxisti di complemento ed in ritardo, che ragionano secondo gli schemi meccanicistici e sbrigativi di un materialismo storico di terz’ordine che è, fra l’altro, la caricatura dell’autentico marxismo. Forse la semplice verità è che lo sviluppo non è un processo automatico, esso è solo una impresa umana esposta allo scacco del fallimento. Non basta andare avanti per andare bene; lo stesso processo di industrializzazione, di cui tanto oggi si parla, non è una panacea per tutti i mali. I luoghi comuni dei quali si nutre la pigrizia mentale di troppi uomini politici e di troppi intellettuali sono responsabili di una doppia, tragica mancanza. Mancano gli strumenti conoscitivi delle dimensioni umane dello sviluppo, così come mancano o sono insufficienti gli strumenti che rendano possibile ed efficace la partecipazione popolare. Io vorrei qui, se me lo permettete, chiarire un equivoco largamente diffuso. La creazione del potere regionale, delle regioni, regioni a statuto ordinario, a cui il centro-sinistra si è impegnato, la stessa attività dei partiti politici sono modi e strumenti di partecipazione popolare alla vita collettiva, sono in altri termini modi e strumenti di sviluppo della società civile, necessari ma non esclusivi. Certamente non sufficienti. Essi non costituiscono un “prius” assoluto. Il «prius» assoluto per qualsiasi sviluppo di qualsiasi società civile è dato dall’insieme di esperienze e di valori condivisi e convissuti che fonda in radice e giustifica qualsiasi ordine civile. La stessa scelta partitica, cioè la scelta politica in quanto si manifesta in una scelta di partito, ha senso, se ci pensiamo un momento, ed è un gesto significativo allorché avviene sul solido fondo di un preesistente tessuto sociale vitale. Se tale tessuto non esiste, se non esiste, in altre parole, una intensa vita di relazioni sociali direi allo stato puro, spontaneo, o questo tessuto esiste ma non è abbastanza vitale, la scelta partitica non è in realtà una scelta. L’attività politica non può allora che oscillare tra la faziosità ed il clientelismo; le strutture dello stato amministrative e politiche girano, ma girano a vuoto: girano in senso legalistico, formano circolari, documenti, ma non mordono nella realtà del Paese, nel tessuto sociale di base perché il tessuto sociale di base non è reattivo, non è 198

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pronto, in altre parole, a dar corso ad un ricambio, ad una rigenerazione costante di ogni giorno. L’odierna crisi dello sviluppo della società civile non è quindi a mio giudizio riconducibile alla pura e semplice crisi della rappresentanza politica: le sue ragioni sono più profonde, esse riguardano anche, ma non soltanto, l’apparato statuale, i modi di attività, le strutture organizzative dei partiti politici, le motivazioni sezionali che guidano la lotta per il potere, ma riguardano altre cose, e – del resto – la stessa natura della crisi della rappresentanza politica è, a mio giudizio, fraintesa. Io credo che si possa considerare degna di considerazione l’ipotesi che la rappresentanza politica odierna sia in crisi non tanto perché, secondo la comune credenza, sarebbe poco fedele agli interessi che rappresenta, ma perché lo è troppo. In particolare, come già altra volta, in altra sede ho potuto notare, perché questa rappresentanza politica, se mi permettete una parola poco chiara, “mitifica”, cioè rende mitici gli interessi sezionali, gli interessi che sono in realtà di gruppi particolari, fino a farne degli incomodi ed intoccabili assoluti. Ora vi è in ogni interesse economico e politico un aspetto negativo di difesa, ma vi è insieme un aspetto positivo non competitivo, cioè una dimensione positiva di dinamica che è quella che interessa proprio nello sviluppo. La rappresentanza politica odierna tende ad accentuare l’aspetto difensivo negativo competitivo, ossia tende a volere il potere senza volerne la responsabilità e quindi a strumentalizzare tutti i rapporti sociali in base ad un ristretto criterio utilitaristico che, per nostra disavventura, è d’altro canto il criterio di giudizio di base di una società industriale e con ciò blocca la tensione ideale verso la meta comune che è presente in tutti gli interessi, anche nei più sezionali ed a breve distanza. Mi pare, se non erro, che questa osservazione ci porti al cuore del problema; nel momento stesso in cui la politica ha messo le mani su tutto, essa ha perduto forse irrimediabilmente il contatto diretto con le sue basi di esperienza umana diretta: è diventata un fatto burocratico, è diventata il retaggio di impiegati. Alcuni cultori di “giornalismo sociologico” lamentano in questi giorni la scarsa partecipazione politica delle masse, la loro apatia per ciò che concerne i rituali partitici, ma le masse così, semplicemente dimostrano di 199

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essere assai più sagge, più vive, spontanee dei loro presunti redentori: la gente istintivamente si rifiuta alla strumentalizzazione a priori; non vuol saperne dello stupido gioco di una partecipazione ipocrita che è propagandata ma non vissuta, in cui tutto è scontato prima che avvenga.

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Un’azione dalla base per lo sviluppo sociale Forse possiamo ora comprendere la funzione dei centri sociali nella programmazione dello sviluppo e tentare di valutarne il significato. Io non entrerò certo nei meriti delle varie funzioni: cerchiamo di stare al significato. Cos’è il significato di questa funzione? Non si tratta certo di una funzione marginale, se anche solo in parte è vero quanto è stato detto finora, più o meno decorativa. In altre parole, non si tratta di un artificio per rendere più accettabile, più fotogenica la programmazione e le inevitabili sanzioni che essa comporta, con le sue scelte: è una cosa seria. Né si tratta semplicemente di fare del bene alla gente, alla care popolazioni delle aree depresse, alle povere famiglie immigrate nei quartieri sovraffollati, secondo un cliché doloristico di pietà tutta italiana che è paternalistica ed autoritaria nello stesso tempo. Si tratta sì, questo è vero, di salvare la società dandole i mezzi per riconoscersi e per aprirsi per quanto faticosamente una strada nuova. Nella pianificazione flessibile, al livello della comunità omogenea, cui accennavamo più sopra, il centro sociale cos’è dunque? Consiste nell’aiutare il sorgere di una consapevolezza comune intorno ai problemi comuni, al di fuori di qualsiasi criterio utilitaristico, specialistico, sezionale, pratico, ideologico, confessionale o di altro genere. Forse in Italia, più che in altri Paesi, abbiamo bisogno di tale consapevolezza: la consapevolezza che vada al di là del “particolare” del singolo cittadino o del singolo nucleo familiare o del partito; della chiesa, della setta. Alcune recenti ricerche, come quella di Edward Banfield, nell’Italia Meridionale dimostrano come in alcune regioni italiane la depressione economica e la consapevolezza della scarsità possano raggiungere un grado tale da bruciare tutti i margini della cooperazione inter-individuale e da oscurare la nozione stessa 200

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del bene comune, ossia di un bene che non coincida con l’interesse immediato della ristretta cerchia dei propri familiari, dei propri cugini, compagni e così via. Per queste ragioni mi sono sovente domandato se l’Italia veramente esista come società di tipo moderno, se non sia invece una costellazione di potentati. Una società di tipo moderno, cioè una società contrattuale in sviluppo, composta di gruppi differenziati, beninteso, ma tutti attivi nel quadro di un più largo e comunemente riconosciuto interesse pubblico. Se noi consideriamo la peculiare natura della rigidità della struttura della società italiana (che è una rigidità che prescinde dal grado di mobilità, notate bene: il figlio dello spazzino può diventare ingegnere, ma ancora questa società è chiusa in qualche modo); se noi consideriamo questa particolare chiusura forse potremo ritenerla connessa con chiusure che sono tipiche di una società ancora essenzialmente amenistica, cioè che non ha ancora scoperto la sfera del pubblico come attività di merito, come un giudizio basato puramente su dati tecnici e su diritti e doveri, in senso depersonalizzato. Una società in altre parole in cui le funzioni non sono ancora depersonalizzate, sono ancora cioè legate al legame personale clientelistico, al giudizio quindi discrezionale, alla felice intuizione del direttore, del capo che sa, che sa meglio dei sudditi. Una società la cui struttura quindi rispecchia con maggiore o minore coerenza una costellazione di gruppi familiari, un insieme di subculture chiuse in se stesse. Una tale ipotesi se fosse vera (naturalmente io ve la do con beneficio d’inventario, è una ipotesi puramente impressionistica) indicherebbe come problema tipico dell’Italia quello dell’attivazione sociale di base, ossia della partecipazione diretta dei gruppi di base e quindi della ridistribuzione del potere, della sua socializzazione e dell’organizzazione funzionale della vita sociale al livello della comunità concreta, territorialmente definita e circoscritta. Se nulla avviene a questo livello, tutto il resto di cui stiamo parlando, la programmazione dello sviluppo, le grandi riforme legislative, i nuovi corsi di politica economica, tutto il resto rischia di riuscire un puro alibi verbale o, nel migliore dei casi, un vano dispendio di energie. Proprio perché permarrebbe questo dualismo fra decisione centrale e livello politico generale e la comunità naturale, omoge201

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nea, circoscritta, concreta. In questo senso, ripeto, il centro sociale è l’organi tecnico, lo strumento cruciale della pianificazione al livello della comunità. Esso consente in primo luogo ai gruppi sociali di base di dar corso ad un lavoro sociale continuativo fondato su una costante autoanalisi della comunità che prende così coscienza, in maniera autonoma, dei propri problemi. Il piano nazionale può così venire articolato in sede locale, ossia fatto proprio dai gruppi umani che in luogo di esserne beneficiari passivi ne diventano, in qualche modo, dei protagonisti. E corrisponde quindi ai bisogni concretamente accertati, invece che ideologicamente predicati a scopi diversi e quindi strumentalizzati rispetto al altri fini, pur legittimi nella loro sfera, qual è quella della concorrenza per l’accaparramento del potere politico. Io ho avuto modo di scorrere solo alcune delle relazioni presentate al convegno e devo dire che mi sono reso conto, anche da una rapida scorsa, di tutta una serie di attività corrispondenti ad altrettante funzioni che i centri sociali vanno svolgendo, in particolare come promotori di iniziative comunitarie, attraverso la scoperta dei capi naturali, cioè della leadership locale, che consiste proprio nel trovare, in altre parole, un tipo di dirigenza non utilitaria, non tesa al potere per il potere ma al contrario allo stato sorgivo più spontaneo possibile. Promotori di iniziative comunitarie in primo luogo, dunque, ma poi anche fattori di coordinamento fra le istituzioni, gli organismi ufficiali operanti localmente e che, sovente, come del resto accade al livello dei ministeri, si ignorano in maniera sovrana o, peggio, si combattono con una ferocia degna forse di miglior causa. In questa seconda tipica funzione, il centro sociale agisce più che da intermediario da stimolatore, cioè richiama la istituzione che gira a vuoto, la richiama alle sue origini, alla sua ragione sociale propria, cioè la costringe a funzionare bene riempiendone l’attività non tanto di moduli o di carta stampata quanto di sostanza e di problemi umani. Infine i centri sociali, da quanto è dato leggere nelle relazioni, appaiono strumenti di mediazione fra il piano locale e quello nazionale, fra comune e provincia e Stato, fra la comunità omogenea ed il differenziato, necessariamente differenziato, apparato della pubblica amministrazione a cui non si consente mai, pur riconoscendo 202

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la necessaria specializzazione delle sue funzioni, di porsi come un insieme di paratie stagne, non intercomunicanti. Il compito del convegno credo che possa essere indicato semplicemente dicendo che bisogna approfondire questo insieme di problemi; insieme di problemi tali da far tremare le vene ed i polsi, ma a cui, per nostra fortuna, uomini particolarmente preveggenti, gruppi, hanno già dedicato uno sforzo costante, in questi ultimi anni in Italia, in particolare dalla fine della guerra ad oggi. Fra questi io non posso tacere proprio in nome della Federazione, di Adriano Olivetti, le cui intuizioni ancora ci stimolano nella quotidiana resistenza alle vie facili del clientelismo politico, a pensare in qualche modo una convivenza diversa, più libera e nel contempo più sicura. Perché si fa presto a dire: beh, si tratta di utopia. A parte il fatto che l’utopia ha una funzione sociale di prim’ordine e che se il nostro mondo forse muore per la mancanza di parole d’ordine utopistiche, di carica ideale non direttamente motivata da una ricompensa a breve scadenza; a parte questo fatto, quando io ascoltavo le affermazioni pronunciate a Bari dal ministro Pastore sulla necessità dell’ appoggio globale per risolvere i problemi, quando ascoltavo e seguivo il grande scalpore che era stato sollevato fra gli economisti e gli uomini d’università da una serie di articoli dell’economista Vera Lutz sulla necessità del principio della concentrazione per rompere la routine della stagnazione psicologia sociale di un dato ambiente, mi veniva da pensare che da ormai 12/13 anni con molta modestia il Movimento ispirato da Adriano Olivetti nel Canavese faceva questi riferimenti, cioè aggrediva il problema non sezionalmente, non settorialmente ma lo investiva in maniera globale, coordinata, attraverso un approccio integrato che andava dal risanamento amministrativo all’intervento industriale, alla pianificazione urbanistico-territoriale, alla previsione degli sviluppi futuri, alla dimensione umana, sociale, dell’individuo, al gruppo, alla famiglia, all’uso del tempo libero, al comune; dal comune rimbalzava sulla provincia: si faceva forza alle porte dello Stato attraverso la lega dei Comuni del Canavese, attraverso un istituto che io ritengo ancora unico in Italia che sta andando al di là della lettera e dello spirito del Codice Civile, l’Istituto per il rinnovamento urbano rurale del Canavese, che pone in essere un nuovo tipo di azienda che vive nel mondo capitalistico ma che ne ha già superato di gran lunga la motivazione, la funzione perché ricono203

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sce ormai come superata la definizione dell’azienda come domicilio privato – l’azienda che ormai pesa sul destino di decine di migliaia di persone – e ne riconosce, invece, e ne traduce nella lettera degli statuti e nello spirito delle sue operazioni produttive quotidiane, la missione sociale, la funzione sociale. Questi uomini ci sono stati ma il cammino è ancora molto lungo. Io credo che oggi il convegno, meditando sulle sue esperienze, avrà soprattutto modo di porre a fuoco il problema dell’autonomia, dell’autonomia di questa nuova professione del servizio sociale che risponde ad un nuovo bisogno. Le società si evolvono, hanno continuamene nuovi bisogni: le professioni non piovono dalle nuvole. Noi abbiamo avuto un lungo prologo in cielo; questo prologo in cielo continua. Si parla di assistenza sociale, si parla di assistenti sociali, si parla delle loro varie funzioni, si parla di ciò che spetta loro e di ciò che dovrebbero dare alla società, ai comuni, alle industrie presso cui lavorano, agli Enti pubblici presso cui vengono impiegati, e non sappiamo chi, che cosa siano. Non sappiamo esattamente dove siano: mi pare che non si possa parlare di autonomia del servizio sociale, cioè non si possa parlare di un suo rifiuto ad essere strumentalizzato a priori per altri fini che non siano quelli del servizio sociale, se prima, in qualche modo, non abbiamo dato una base, una piattaforma precisa su cui fondare, per l’avvenire, il nostro lavoro e possiamo sottrarci consapevolmente di pieno diritto ai tentativi di manipolazione che vengono fatti nella sfera privata e in quella pubblica.

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