Somiglianze. Una via per la convivenza 9788858136355

Dopo "Contro l'identità" e "L'ossessione identitaria", Francesco Remotti decostruisce anco

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Italian Pages 382 Year 2019

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Somiglianze. Una via per la convivenza
 9788858136355

Table of contents :
Indice......Page 4
Frontespizio......Page 2
Introduzione......Page 7
Parte prima......Page 23
1. Il mito della caverna......Page 24
2. I lacci dei costumi......Page 25
3. L’uscita stretta dall’identità......Page 27
4. Le motivazioni di base: coerenza, stabilità, riconoscimento......Page 28
5. L’identità: dai bisogni reali all’illusione dell’essenza......Page 32
6. I guai dell’identità......Page 33
7. L’identità: una cultura impoverita e sostituibile......Page 36
8. La somiglianza nei soggetti......Page 37
9. La somiglianza con gli altri......Page 39
1. Pregi dell’identità......Page 43
2. Crepe dell’identità......Page 47
3. L’affiorare della somiglianza e il “come se” dell’identità......Page 52
4. I guasti dell’identità (nel suo uso costitutivo)......Page 58
5. Identità e coesistenza (uso regolativo)......Page 64
6. Fare a meno dell’identità: verso la convivenza......Page 69
Parte seconda......Page 77
1. Una parola modesta, ma molto versatile......Page 78
2. Nozioni preliminari......Page 81
3. Troppo simili o indiscernibili in apparenza?......Page 83
4. Uguali......Page 88
5. In mezzo a somiglianze e differenze......Page 99
6. Il totemismo dei Wanindiljaugwa......Page 107
1. Un antico dibattito......Page 114
2. Un abbozzo di teoria e il concetto di SoDif......Page 117
3. Anthropos e gli interventi sul SoDif......Page 123
4. Somiglianze siderali......Page 127
5. Un antico viaggio tra le culture......Page 134
6. Etnologia sì, ma di Stato......Page 144
7. Le somiglianze ridotte in servitù......Page 153
8. Il riemergere delle somiglianze......Page 161
1. Ingolfarsi nelle somiglianze......Page 166
2. La resilienza......Page 170
3. Più che “mormorio”, più che resilienza: una mente intessuta di somiglianze......Page 176
4. Dal passato al futuro: l’aiuto e la trappola delle somiglianze......Page 180
5. L’imperfezione delle somiglianze......Page 187
6. Somiglianze scientifiche......Page 194
7. Omologie e analogie......Page 203
8. Fasci di somiglianze e differenze......Page 213
9. Un pullulare continuo di analogie......Page 226
10. Non solo le analogie: modi diversi di trattare il SoDif......Page 233
Parte terza......Page 240
1. Le somiglianze dentro le cose......Page 241
2. Dalle cose alle persone: la critica dell’autenticità......Page 249
3. Somiglianze nel sé......Page 257
4. L’io non identico, ma simile a sé......Page 263
5. Il “dividuo” e il “SoDif” soggettivo......Page 272
6. Processi di soggettivazione......Page 278
7. Rappresentazioni più o meno congruenti......Page 285
1. Rappresentazioni e configurazioni dell’io......Page 294
2. Prospettive sull’individualismo......Page 304
3. Individuo: tra dio e.........Page 310
4. ...nulla......Page 319
5. Il dividuo e la rete delle partecipazioni......Page 324
6. Il condividuo: una proposta epistemologica......Page 335
7. Il “con” e la tenuta del condividuo......Page 345
8. Appendice: un atto di nascita in punto di morte......Page 356
Riferimenti bibliografici......Page 369

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Tempi Nuovi Francesco Remotti

Somiglianze Una via per la convivenza

Editori Laterza

© 2019, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: gennaio 2019 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858136355 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata

Indice

Introduzione Parte prima I. La caverna dell’identità 1. Il mito della caverna 2. I lacci dei costumi 3. L’uscita stretta dall’identità 4. Le motivazioni di base: coerenza, stabilità, riconoscimento 5. L’identità: dai bisogni reali all’illusione dell’essenza 6. I guai dell’identità 7. L’identità: una cultura impoverita e sostituibile 8. La somiglianza nei soggetti 9. La somiglianza con gli altri

II. Un bivio: tra identità e convivenza 1. Pregi dell’identità 2. Crepe dell’identità 3. L’affiorare della somiglianza e il “come se” dell’identità 4. I guasti dell’identità (nel suo uso costitutivo) 5. Identità e coesistenza (uso regolativo) 6. Fare a meno dell’identità: verso la convivenza

Parte seconda III. Cos’è la somiglianza? 1. Una parola modesta, ma molto versatile 2. Nozioni preliminari 3. Troppo simili o indiscernibili in apparenza? 4. Uguali 5. In mezzo a somiglianze e differenze 6. Il totemismo dei Wanindiljaugwa

IV. La guerra contro le somiglianze 1. Un antico dibattito 2. Un abbozzo di teoria e il concetto di SoDif

3. Anthropos e gli interventi sul SoDif 4. Somiglianze siderali 5. Un antico viaggio tra le culture 6. Etnologia sì, ma di Stato 7. Le somiglianze ridotte in servitù 8. Il riemergere delle somiglianze

V. La forza delle somiglianze 1. Ingolfarsi nelle somiglianze 2. La resilienza 3. Più che “mormorio”, più che resilienza: una mente intessuta di somiglianze 4. Dal passato al futuro: l’aiuto e la trappola delle somiglianze 5. L’imperfezione delle somiglianze 6. Somiglianze scientifiche 7. Omologie e analogie 8. Fasci di somiglianze e differenze 9. Un pullulare continuo di analogie 10. Non solo le analogie: modi diversi di trattare il SoDif

Parte terza VI. Somiglianze dell’io 1. Le somiglianze dentro le cose 2. Dalle cose alle persone: la critica dell’autenticità 3. Somiglianze nel sé 4. L’io non identico, ma simile a sé 5. Il “dividuo” e il “SoDif” soggettivo 6. Processi di soggettivazione 7. Rappresentazioni più o meno congruenti

VII. Individui, dividui, condividui 1. Rappresentazioni e configurazioni dell’io 2. Prospettive sull’individualismo 3. Individuo: tra dio e... 4. ...nulla 5. Il dividuo e la rete delle partecipazioni 6. Il condividuo: una proposta epistemologica 7. Il “con” e la tenuta del condividuo 8. Appendice: un atto di nascita in punto di morte

Riferimenti bibliografici

a Diotima, nel caso fosse mai esistita (o anche no)

Introduzione

Se l’amico lettore («mio simile, mio fratello»1) avrà la curiosità di iniziare questo libro dedicato alle somiglianze, noterà ben presto che esso si inoltra sovente in manifestazioni di pensiero antiche: navigheremo insieme tra Protagora e Platone, tra Anassagora e Diotima (la sacerdotessa di Mantinea, a cui abbiamo voluto dedicare il libro). Affronteremo inoltre il pensiero moderno tra Settecento e Ottocento, dal filosofo scozzese David Hume a Charles Darwin, che se ne andò in giro per il mondo alla ricerca di somiglianze tra le specie naturali, per poi approdare nel Novecento a Ludwig Wittgenstein con le sue somiglianze di famiglia, a Claude LéviStrauss con la sua idea di struttura come trasformazione, e ai nostri contemporanei Douglas Hofstadter ed Emmanuel Sander con la loro esaltazione dell’analogia. Faremo qualche puntata etnografica: dal totemismo dei Wanindiljaugwa dell’Australia al concetto di persona dei Kanak della Nuova Caledonia, ma non disdegneremo di scoprire e di meravigliarci di fronte all’individualismo estremo di alcuni monaci francescani del Medioevo (Duns Scoto e Guglielmo di Ockham), per poi soffermarci, in pieno Ottocento, su Max Stirner e sulla sua dissoluzione dell’individuo. In questo viaggio non mancheranno i riferimenti all’attualità: tra tutti – in pieno discorso antichistico tra Protagora, Erodoto e l’etnologia di Stato di Platone – la nostra brama di scovare “nostri simili” persino nello spazio siderale, dove ruota l’esopianeta Kepler 452b, a 1400 anni luce da noi. È indubbio, però, che la ricerca delle somiglianze – il pensiero delle somiglianze e delle differenze (ciò che abbiamo voluto chiamare SoDif) – ci porta altrove rispetto alla nostra società e alla nostra epoca, così poco propense a cogliere e a coltivare le somiglianze (Reboul 1985), così ossessionate invece dal pensiero dell’identità (Remotti 2010). Proprio per questo vorremmo partire da noi, dalla nostra attualità, da quanto avviene

tra noi in questi giorni, durante i quali è stata scritta questa Introduzione (agosto 2018). Cominciamo allora con questa gioiosa dichiarazione: Fa piacere [...] vedere rimesso in auge quel concetto di identità che per tanto tempo il benpensante progressista ha giudicato alla stregua di qualcosa che andava assolutamente espulso dalla storia e dalla politica per bene (Galli della Loggia 2018: 13).

All’autore di questo libro, invece, non fa per niente piacere che si insista sul concetto di identità e soprattutto che gli identitarismi di vario tipo e gradazione abbiano continuato imperterriti a sussistere ed abbiano addirittura ripreso slancio, incoraggiati e legittimati non solo dagli stili della politica oggi imperante, ma anche da quello che possiamo chiamare un diffuso pensiero unico, condiviso senza ritegno dalle diverse parti politiche. Ernesto Galli della Loggia avrà tratto ulteriore piacere dalla lettura delle seguenti frasi di un politico, il quale, dichiarandosi di «sinistra», ha inteso valorizzare l’«identità» del partito di cui è stato segretario. Il politico è Matteo Renzi, e il tema che fa da contesto argomentativo al suo discorso è «il controllo dell’immigrazione» (Renzi 2017: 206). Anche Renzi si dimostra insofferente verso il «buonismo filosofico» tipico di una «certa classe dirigente» e di alcuni «raffinati “ceti riflessivi”» (vi è da supporre che costoro coincidano, almeno in parte, con i “benpensanti progressisti” di prima). È contro di loro che egli fa valere il pensiero dell’identità, affermando che è ora di mettersi in testa, una buona volta e per sempre, che «la parola “identità” è una parola positiva, non negativa». In effetti, l’autore di questa Introduzione si sente tirato in ballo, avendo egli pubblicato più di vent’anni or sono un libro intitolato Contro l’identità (Remotti 1996) e avendo sostenuto in uno scritto successivo che questa parola, in apparenza così «nitida, limpida, elegante, pulita», è però «una parola avvelenata» (Remotti 2010: X-XI). Lungo tutto questo periodo, ormai più che ventennale, chi scrive ha cercato, nei limiti dei propri mezzi intellettuali, di mettere in guardia i suoi interlocutori circa l’uso acritico, se non addirittura sconsiderato e disinvolto, del concetto di identità. Avendo sotto gli occhi il libro di Renzi, proviamo a vedere che cosa succede quando si maneggia questa “bella” parola. Lo facciamo in relazione ai giovani (gli altri che nascono da noi) e in relazione agli immigrati (gli altri che vengono presso di noi da altrove), due argomenti su cui Renzi concentra la sua attenzione.

Rivolgendosi agli immigrati, egli afferma in maniera perentoria (quasi velatamente minacciosa): chi viene qui deve fare i conti con la nostra identità. Che è innanzi tutto identità culturale, civile, spirituale, sociale (Renzi 2017: 206).

Se «è innanzi tutto...», vuol dire che manca qualcosa all’elenco. Dopo tutti questi aggettivi, perché, in effetti, non aggiungere qualcosa che abbia a che fare con la nostra biologia, qualcosa di genetico? Se possediamo davvero tutti questi tipi di identità culturale, perché mai non dovremmo avere anche un’identità biologica? Visto che parliamo di identità, proviamo a chiederci cosa c’entrano gli immigrati dal Darfur con noi: non solo con la nostra identità spirituale, ma anche con la nostra storia biologica, con le nostre genealogie, le nostre ascendenze, i nostri antenati. Fino a qualche tempo fa incuteva spavento, agli identitaristi, evocare un’identità biologica: meglio dunque mantenersi sul piano culturale, per non finire dritti dritti nel razzismo. La storia del Novecento, la nostra storia, ci ha insegnato quali sono i guasti del razzismo; e ci sono persino leggi (che qualcuno di questi tempi, in nome della libertà di opinione, vorrebbe però abrogare) che ci impongono di non essere razzisti. Ma c’è poi tanta differenza tra una più o meno vaga identità biologica (razza, appunto) e una altrettanto vaga identità culturale? Cambiano i contenuti dell’identità (dalla biologia siamo passati alla cultura); ma non rimane forse intatta l’idea, il principio dell’identità? E non ci sono forse alcuni segnali preoccupanti, nella società attuale – in Italia e in Europa –, di un ritorno indietro, dalla cultura alla biologia, di uno scivolamento da identitarismi culturali a identitarismi razziali? Nel quadro più generale degli identitarismi, le posizioni si mescolano, sfumano le une nelle altre. Esistono infatti anche i razzismi culturali, per così dire de-biologizzati (Taguieff 1994), su cui Ugo Fabietti (2013: 19) aveva richiamato l’attenzione. A nostra volta, vogliamo mettere in evidenza come sia facile scivolare da una posizione all’altra: gli identitarismi si somigliano troppo, perché ciò non avvenga. Torniamo agli immigrati e proviamo a chiederci che cosa significhi che essi devono “fare i conti con la nostra identità” culturale. Se non è questione di razza, in cosa consiste la nostra identità, con cui chi sbarca sul nostro suolo deve fare i conti? Dalle argomentazioni svolte subito dopo, appare chiaro che essa coincide nella sua sostanza con «le radici cristiane

dell’Europa» (Renzi 2017: 207). Renzi prosegue affermando che la mancata menzione di queste radici nei testi fondativi dell’Unione Europea ha rappresentato «un tragico errore», in quanto ha nascosto appunto la «nostra identità», ovvero «quello che siamo dal punto di vista oggettivo della cultura continentale» (c.m.), generando così una insopportabile «babele di differenze». A parte il fatto che diversi immigrati sono di religione cristiana, per cui condividerebbero già una buona fetta della nostra identità, torniamo a chiedere: cosa vuol dire “fare i conti”? Convertirsi, da parte di chi non è cristiano? O che altro? Non è molto chiaro, e proprio per questo la frase sembra nascondere una qualche minaccia. Ma la questione non finisce qui: anzi si complica, e di molto. Renzi è infatti per il dialogo, per l’apertura: dunque i benpensanti progressisti e riflessivi (categoria di cui l’autore di questo libro amerebbe comunque fare parte) dovrebbero starsene tranquilli. Solo che «senza identità» da parte nostra «non è possibile alcuna apertura» (2017: 206). E prosegue: Senza identità la contaminazione sarebbe semplicemente annullamento. Può dialogare, contaminare e farsi contaminare chi ha un’identità forte, della quale non si vergogna.

Cerchiamo di capire il ragionamento. All’origine ci sono persone che, provenendo da altri continenti, arrivano qui da noi: costoro – portatori, vi è da presumere, di una loro identità (avranno anche loro uno straccio di identità!) – devono fare i conti con la “nostra” identità, in quanto mettono piede nel nostro territorio, nella nostra società. Noi, a nostra volta, dobbiamo affermare e rivendicare la nostra identità, la quale, come abbiamo visto, coincide sostanzialmente con le nostre «radici cristiane». Renzi non invoca però il ghetto, le separazioni; Renzi non è – tanto per cominciare a usare le categorie di questo libro (cap. II) – per la semplice “coesistenza” tra noi e loro. Al contrario, è (o sembra essere) per il dialogo, per un dialogo intenso, impegnativo, non un dialogo da niente, che non cambierebbe nulla, che lascerebbe gli interlocutori uguali a quelli che erano prima (ognuno con la propria identità). È per un dialogo in cui ci si mette in gioco, che altera e che addirittura “contamina” gli interlocutori: e – si badi – non sono solo gli “altri” che dovrebbero farsi contaminare; è previsto che anche “noi” veniamo contaminati, segno o prova di vitalità e di apertura. Si ha l’impressione che a Renzi piacciano – o non dispiacciano – le «logiche meticce», di cui Jean-Loup Amselle ci parlava negli anni

Novanta a proposito delle culture africane (Amselle 1999). Se dunque Renzi non è per la semplice e banale “coesistenza”, sembra di poter dire che egli sia per la “convivenza”, e quindi per il coinvolgimento tra noi e loro, tra i nostri progetti di vita e i loro. È evidente che a Renzi piace provocare. È un po’ come se volesse dire ai “buonisti”, ai “ceti riflessivi”: volete il dialogo? Anch’io lo voglio. Noi di sinistra siamo migliori e ci distinguiamo dalla destra, in quanto vogliamo l’apertura; essendo di sinistra, non possiamo non essere aperti. Lasciamo a quelli di destra la chiusura. Apriamoci, dunque, con fiducia ed entusiasmo. Ma se non vogliamo sparire e annullarci nella “babele delle differenze” o addirittura nella pratica del dialogo – un dialogo che trasforma, che contamina –, ci vuole identità, un forte senso di identità, come ce l’hanno senza dubbio quelli di destra. Non dobbiamo lasciare alla destra il monopolio di questa parola così bella e accattivante, una parola che funziona così bene nei discorsi politici, una parola che suscita consenso, che scalda i cuori, che dà un senso meraviglioso di appartenenza al “noi” (di qualunque “noi” si tratti). Le parole possono anche essere belle; i concetti però hanno una loro cogenza, e l’esperienza può – anzi deve – insegnare qualcosa. È bene che intervengano a questo punto i “ceti riflessivi” e facciano “riflettere” il lettore su questo snodo: siamo davvero per un dialogo aperto e trasformativo, quello che Renzi chiama con coraggio “contaminazione”? Siamo davvero per una “logica meticcia” nell’incontro con gli altri? Se è così, dobbiamo essere disposti a vederci trasformati dal dialogo stesso, non necessariamente in quello che sono gli “altri”, ma in qualcosa di inedito, in qualcosa di diverso sia da quello che eravamo noi, sia da quello che erano gli altri prima del dialogo. Se siamo per la trasformazione, dobbiamo essere disposti a rinunciare non solo e non tanto alla nostra identità, ma all’idea stessa di identità. Se invece non siamo disposti a far questo, se riteniamo di dover mantenere e difendere l’identità (l’idea di identità), allora abbiamo semplicemente giocato con le parole, abbiamo barato: avevamo detto di essere per il dialogo trasformativo e “contaminante”, ma lo eravamo soltanto in apparenza. Non si può mettere insieme il diavolo e l’acqua santa, il dialogo trasformante e l’identità, così come non ci si può abbarbicare all’identità e nel contempo proporre con forza l’apertura verso il «futuro», verso le

trasformazioni, verso una società diversa da quella attuale, in cui i nostri giovani stentano a prefigurare il proprio avvenire (Renzi 2017: 198-199). Ha ragione Renzi a sostenere che mancano, da noi, «il gusto e la curiosità per il futuro». Ha ragione a dire che nella nostra società «il futuro non va più di moda» perché «incute timore, angoscia, preoccupazione». Ha più che ragione a preoccuparsi, da politico, da cittadino, da padre di famiglia – come talvolta ama sottolineare –, per questa mancanza di futuro che la nostra società riserva ai giovani. Ma perché non chiedersi se uno dei fattori che ci inducono a chiudere gli occhi verso il futuro non sia proprio l’identità, anzi l’ossessione per l’identità? Per sua natura l’identità ci inchioda al passato, a un presente tutto impregnato di passato. Molto più credibile, allora, chi ha in proposito idee chiare e progetti lineari, del tipo: all’identità, alla nostra identità, non rinunciamo per niente, e del dialogo con gli “altri”, sinceramente, non sappiamo che farcene. Gli altri – tutti gli altri, neri o bianchi che siano – se ne stiano fuori, non importa dove: nei loro paesi assolati e affamati, nel deserto del Sahara, nei lager libici o in mezzo al mare. È talmente rassicurante la nostra identità – questa identità che ci raggruppa, ci racchiude, ci difende, ci protegge, ci riempie completamente il cuore e la testa di “noi” – che quello che succede agli altri non può che esserci del tutto indifferente: è un’alterità che non ci riguarda. Di questi tempi l’Italia ha persino la fortuna di avere un gioviale e facondo ministro “dell’Interno” il quale ha assicurato ai suoi concittadini che provvederà in tutti i modi e con tutti i mezzi a salvaguardare questo “interno”, chiudendo per bene porte e porti, in modo che tutti “noi” possiamo vivere sereni e dormire sonni tranquilli. I problemi – gli altri – sono fuori: devono rimanere fuori. Tra i due discorsi identitari – quello di Matteo Renzi e quello di Matteo Salvini (l’attuale ministro dell’Interno) – qual è più convincente? È più convincente il secondo, per il semplice fatto che – qualunque sia il contenuto dell’identità del noi (contenuto biologico oppure culturale, sociale, religioso, o entrambi) – il suo discorso fa agire l’identità per quella che è, ovvero come taglio e separazione rispetto agli altri: e beninteso, come taglio non solo rispetto agli altri che stanno fuori, ma anche rispetto agli altri che, malauguratamente, sono capitati tra noi (non solo gli immigrati, ma anche i Rom, gli omosessuali: tutti coloro che rechino segni di alterità). Non sarà un fatto del tutto casuale che da quando la

Repubblica italiana ha potuto avvantaggiarsi di questo suo ministro dell’Interno (il 1° giugno 2018 il governo ha giurato fedeltà alla Repubblica), gli atti criminosi nei confronti degli “altri” siano aumentati in maniera preoccupante. Potremmo dire che ci sono due aspetti o due volti dell’identità: una faccia interna e una faccia esterna. La faccia interna riguarda i contenuti, ossia è la risposta alla domanda “chi siamo noi?”, mentre la faccia esterna è l’atteggiamento che il noi adotta verso gli altri. È abbastanza facile notare che, mentre la faccia interna molto spesso rimane nel vago (a cominciare dai razzismi più fantasiosi per finire agli ancora più vaghi e intricati contenuti culturali), la faccia esterna si esprime invece in gesti netti, taglienti, inequivocabili: a ben guardare, nessun noi sa bene che cosa sia la propria identità, ma ogni noi identitario sa usare le proprie armi da taglio (fisiche, mentali, sociali, giuridiche, politiche) nei confronti di chi decidiamo che non fa parte di noi. In definitiva, l’identità è qualsiasi elemento, reale o presunto, ricostruito o inventato, storico o mitologico, che serve a separarci – con la maggiore nettezza possibile – dagli altri: noi siamo noi e gli altri sono altri. Ecco perché, sul piano dell’identità, Matteo Salvini risulta più convincente di Matteo Renzi. Ma il mondo – il mondo sociale, il mondo umano (tanto per limitarci a noi, rappresentanti di Homo sapiens) – è fatto soltanto di identità e di alterità? La risposta sarebbe sì, se il mondo fosse fatto soltanto di “noisfere”, di noi compatti, senza differenze all’interno, e per giunta completi, pieni soltanto di sé stessi, cioè di noi che non avvertono alcun bisogno di relazione e di apporto dall’esterno. Beninteso, c’è chi ha sognato e tuttora sogna un mondo siffatto, paragonabile – come diceva Eric Wolf (1990: 38) – a un tavolo da biliardo, in cui i “noi-sfere” «si respingono reciprocamente, come altrettante palle da biliardo, rotonde e dure». Tuttavia, un mondo siffatto non è mai esistito, nemmeno quando taluni noi volevano davvero che esistesse. I noi – alcuni noi – possono benissimo avere mirato a una condizione di totale chiusura e autarchia, ma – come sostiene Jean-Loup Amselle (2001: 27) – «non sono mai esistite società chiuse», nonostante tutta la loro volontà di chiusura; e Amselle aggiunge: «tutte le società hanno sempre comunicato, anche nel loro rifiuto di comunicare» (2001: 34). Condivisibile o non condivisibile che sia, l’identità – l’essere sé stessi, e

nient’altro che sé stessi, da parte di un noi – non è dunque altro che un’aspirazione. Ma se l’identità è un’aspirazione, un obiettivo, che i soggetti, singoli o collettivi, intendono perseguire, la domanda è: fino a che l’identità non viene conseguita – sempre ammesso che prima o poi venga davvero conseguita – cosa c’è al suo posto? Il vuoto, il nulla, una semplice mancanza di identità? Se un soggetto – un io o un noi – non ha ancora raggiunto un’identità (la sua identità), di che cosa è fatto nel frattempo? Riteniamo che la domanda sia legittima, specialmente per tutti coloro che sono disposti a concedere che l’identità non è un dato di fatto, una realtà acquisita, ma sia appunto da intendersi più saggiamente come un’aspirazione (cap. II, § 3). Ebbene, questo libro vuole essere una risposta chiara e meditata al quesito di prima: al posto delle identità (condizione a cui forse e talvolta si aspira) ci sono somiglianze, o meglio somiglianze e differenze; meglio ancora: intrichi di somiglianze e differenze. È vero che noi siamo talmente obnubilati dal mito dell’identità e dall’ossessione politica dell’identità, talmente affascinati dalla “bella” identità, dal suo aspetto nobile e illusoriamente positivo, rassicurante, che abbiamo del tutto screditato le somiglianze: le abbiamo emarginate, ridotte a nulla, rese innocue, indicanti fenomeni del tutto superficiali e ininfluenti, fatte persino scomparire dal nostro linguaggio. Per esempio, il lettore non troppo giovane converrà che, un tempo, l’espressione “i nostri simili” aveva un certo corso nel parlare comune. Oggi è invece un’espressione desueta, quasi del tutto scomparsa, sostituita da “gli altri”: i nostri simili sono diventati semplicemente “altri”. Se la si volesse ripristinare – per esempio, nei confronti dei rifugiati e degli immigrati odierni – suonerebbe probabilmente strana e stonata. In ogni caso, troverebbe l’opposizione di un autore come François Jullien, secondo il quale «anche il celebre insegnamento “ama i tuoi simili” non significa nulla» (2010: 15). Avrebbe probabilmente l’approvazione di papa Francesco, della Conferenza dei vescovi italiani e di quei giornali cattolici (come «Avvenire» e «Famiglia cristiana») che di questi tempi si sono permessi di criticare il ministro Salvini per la sua eccessiva politica identitaria nei confronti di stranieri e di Rom. Ma qui – sia chiaro – non è questione di buonismo. L’assenza di questa espressione è infatti un sintomo: è un campanello d’allarme di natura linguistica in mezzo a tanti

altri campanelli che risuonano nel frattempo. Quando vengono meno le somiglianze, o meglio il senso, il riconoscimento, l’affermazione delle somiglianze, entriamo in un periodo in cui si fanno valere solo le differenze, le opposizioni, ossia ciò che abbiamo chiamato il volto esterno e truce delle identità. Entriamo in una sorta di età del ferro. Una voce che proviene da molto lontano nel tempo, dalla Beozia dell’VIII-VII secolo a.C., ci avverte circa i pericoli sociali del diradarsi delle somiglianze. Nella Beozia di allora Esiodo, poeta contadino, descriveva l’età del ferro, coincidente con la sua epoca, proprio attraverso il venir meno delle somiglianze nei rapporti umani. Vale la pena leggere le sue parole, contenute in Le opere e i giorni (vv. 182-189): il padre non sarà simile [omoios] ai figli, né i figli saranno simili a lui; lo straniero-ospite [xeinos] non sarà simile allo straniero-ospite, né il compagno al compagno; il fratello non sarà caro al fratello, come invece lo era prima. Non verranno onorati i genitori appena invecchiati, che saranno, al contrario, rimproverati con dure parole. Sciagurati questi uomini! [...] Il diritto per loro consisterà nella forza ed essi si distruggeranno a vicenda le città (Esiodo 2010: 107, trad. modificata).

Con queste parole Esiodo ci fa capire quanto sia importante il senso di “somiglianza” per garantire la “convivenza” tra gli esseri umani: la somiglianza è infatti, per sua natura, condivisione. Se la somiglianza viene meno, l’esito è la reciproca indifferenza, fino ad arrivare alla reciproca distruzione. Agli occhi di Esiodo questo processo di contrazione delle somiglianze è devastante, in quanto va a colpire non solo i rapporti tra le città e con gli stranieri (quegli “stranieri” che dovrebbero diventare “ospiti”, secondo il doppio significato di xeinos), ma persino i rapporti intrafamiliari e intergenerazionali. Al venir meno delle somiglianze corrisponde un aumento di disumanità nei rapporti sociali. Esiodo grida di non voler fare parte di questa «stirpe di uomini», una «stirpe di ferro», una stirpe disumana (2010: 105). Di questi tempi, anzi proprio in questi giorni, si sono alzate voci tra noi, che hanno inteso denunciare «l’ossessione» da parte del governo attuale «per il problema dei migranti, ingigantito oltre ogni limite, gestito con inaccettabile disumanità», con una visione politica che rende «ogni uomo un’isola» (Cacciari 2018: 28). Ciò che noi ci sentiamo di fare, in aggiunta all’intuizione dell’antico poeta Esiodo e alla denuncia del filosofo Massimo Cacciari e di altri intellettuali evidentemente “riflessivi”, è ricondurre il diradarsi delle

somiglianze – con gli effetti distruttivi e disumanizzanti che esso comporta – alla logica dell’identità. Anche noi siamo entrati in un’età del ferro, perché non pensiamo più in termini di “nostri simili”: al posto dei “simili” abbiamo messo gli “altri”. E abbiamo messo gli altri perché l’identità, che opera in modo così profondo nelle nostre menti, ha tagliato via – con taglio netto e sicuro – i legami di somiglianza che ci collegano ai “noialtri” o agli “altri-noi”, quegli altri che, fino a quando vediamo in essi qualcosa di noi, e in noi qualcosa di loro, sono appunto non semplicemente e puramente altri, ma nostri simili. Le somiglianze collegano; le identità invece recidono: se si adottano visioni identitarie non si creano legami tra noi e loro ma, al contrario, taglio, divisione, frattura. Tagliando le somiglianze, l’identità produce alterità: un’alterità pura, quanto pura è, o pretendiamo che sia, l’identità. Se esiste l’intrico delle somiglianze e delle differenze, l’alterità in quanto tale non si dà “in natura”: essa è invece l’effetto artefatto, mentale, sociale e politico dell’identità. Tra noi identitari, tra noi i quali siano vicendevolmente “altri”, privi di somiglianze, è impossibile progettare la convivenza. Non vogliamo essere catastrofici. Se nel capitolo I parliamo della caverna identitaria, in cui gran parte del nostro pensiero sociale si è autoimprigionato, nel capitolo II facciamo vedere come l’identità possa anche dare luogo a forme di coabitazione, che – insieme ad altri autori (come Gustavo Zagrebelsky e Carlos Giménez Romero) – abbiamo voluto chiamare “coesistenza” in quanto distinta dalla “convivenza”. Ma ciò è possibile solo in quanto l’identità venga affiancata dalla tolleranza, e quindi dal riconoscimento e dal rispetto nei confronti degli “altri”, che rimangono pur sempre tali. È sufficiente però che questi fattori vengano meno ed ecco che i noi identitari si incamminano velocemente sul sentiero scivoloso che dall’indifferenza si spinge fino al respingimento o addirittura all’annullamento degli altri. È in vista della convivenza – di ogni forma di convivenza, non solo tra noi umani, ma anche e in primo luogo con la natura – che abbiamo intrapreso questo impegnativo cammino a ritroso: dall’identità alle somiglianze, dal predominio del pensiero identitario alla riscoperta e rivalorizzazione di forme di pensiero che fanno leva sul binomio “somiglianze e differenze”, anziché sul binomio “identità e alterità”. Il presupposto è che la convivenza, posta come valore primario, è resa possibile

soltanto dal riconoscimento delle somiglianze. Certo, non basta dire o riconoscere somiglianze, non basta dire “sono nostri simili”: la convivenza richiede uno sforzo ben maggiore; richiede un’ideazione accurata e consapevole, una vera e propria progettazione di modalità, tipi, contenuti, significati del convivere. Nemmeno è sufficiente evocare le somiglianze in quanto tali, dati i rischi di ogni tipo che si annidano in esse. Ma il riconoscimento delle somiglianze – o meglio ancora dell’“intrico” delle somiglianze e delle differenze, da trasformare in un “intreccio” – è pur sempre una base di partenza imprescindibile. Questo libro è diviso in tre parti. Finora, volendo riassumere il senso della Parte prima (capp. I-II), abbiamo mostrato come la somiglianza possa emergere da una critica costruttiva del concetto di identità. Ora (Parte seconda) riteniamo indispensabile non più semplicemente evocare le somiglianze, bensì chiederci che cosa esse siano. Una delle acquisizioni più importanti è rendersi conto che non esistono somiglianze senza differenze e che dunque i due termini debbono essere considerati come un binomio inscindibile, a cui abbiamo voluto dare il nome SoDif (cap. III). Altrettanto importante e istruttivo è stato, per l’autore di questo libro, indagare alcuni momenti decisivi del pensiero occidentale, per capire in quali modi, per quali motivi e con quali esiti siano state condotte le battaglie più significative contro le somiglianze (cap. IV). Ma proprio attraverso questa indagine è emersa una caratteristica quasi inattesa: la loro resilienza. Le somiglianze possono essere negate, emarginate, persino recise, ma in un modo o nell’altro rispuntano. Se n’era accorto Michel Foucault nel suo Les Mots et les choses del 1966 (Foucault 1996), dove in effetti viene descritta la guerra che la cultura europea ha condotto contro il principio delle somiglianze tra Rinascimento ed epoca moderna. Abbiamo però voluto andare oltre l’intuizione di Foucault e dimostrare la “forza delle somiglianze” nell’innervare momenti importanti del nostro pensiero scientifico e filosofico (cap. V): dimostrare insomma che le somiglianze non si trovano soltanto nelle forme marginali e per lo più screditate del pensiero umano (la magia, per esempio), ma – come affermano Douglas Hofstadter ed Emmanuel Sander (2015) – nel cuore stesso del pensiero umano. Occorreva tuttavia compiere un passo ulteriore (Parte terza). Non ci bastava – sulla scia di Protagora e in un modo che richiama la teoria della

complessità – suggerire di concepire il mondo come un intrico e poi, se possibile, un intreccio di somiglianze e differenze. Quando noi parliamo di queste relazioni, è inevitabile pensare a un tra: somiglianze e differenze sono in effetti rapporti che intercorrono “tra” cose o soggetti (tra una matita e una penna a sfera, tra un carciofo e una quercia, tra noi e gli esuli del Darfur, sempre che ci decidiamo a pensarli come “nostri simili”). Ma siamo anche molto portati a pensare il tra come una relazione che cozza contro un muro o che esaurisce la propria forza di fronte a una barriera: al di là ci sono le cose o i soggetti, “tra” cui stabiliamo o intravediamo le relazioni SoDif. In effetti, molte sono le relazioni di somiglianza che sfiorano soltanto le cose: sono, inevitabilmente, somiglianze che non vanno oltre la superficie; di questo genere di somiglianze è pieno il mondo (il nostro sguardo, i nostri discorsi). Ma generalizzare questo schema, ossia ritenere che tutte le relazioni di somiglianza e differenza funzionino soltanto nello spazio esterno tra le cose, significa esattamente compiere l’operazione di emarginazione, superficializzazione, esteriorizzazione delle somiglianze che è stata il cavallo di battaglia con cui le somiglianze (tutte le somiglianze, ovvero le somiglianze in quanto tali) sono state screditate. All’inizio del capitolo VI ci siamo avvalsi di Anassagora – dei pochi frammenti rimasti del suo pensiero vertiginoso – per compiere il passo ulteriore, di cui si diceva: somiglianze e differenze non incontrano più punti di arresto, ma al contrario penetrano nell’intimità delle cose; sbaragliano così l’idea di sostanza – qualcosa di duro e indecomponibile – e fin nel profondo trasformano le cose in grumi di partecipazione e di condivisione con tutte le altre cose. E forse che quello che noi chiamiamo la “persona”, l’essere umano, può sottrarsi a questo destino? Il personaggio di Diotima, a cui viene data la parola nell’ultima parte del Simposio di Platone, ci ha aiutato molto a compiere un passo ulteriore, quello di trasferire il plesso delle somiglianze e delle differenze all’interno del soggetto umano, a concepire questo stesso soggetto come un susseguirsi e un comporsi di “copie” senza che esista un modello originario. È stato David Hume – e sulla sua scia Derek Parfit e Douglas Hofstadter – a rendere ancora più chiara l’idea che l’io non è identico, è simile a sé stesso: anche l’io è un fascio di somiglianze e differenze – sincroniche e diacroniche – sia con sé, sia con gli altri. Come non vedere, allora, una netta convergenza con i risultati a cui è pervenuta l’antropologia che studia

il concetto di persona nelle diverse società, ossia la concezione dell’essere umano come una pluralità decomponibile, come un “dividuo”? Questo passaggio dalle “somiglianze tra” alle “somiglianze intra” non poteva non scuotere il concetto di individuo. L’ultimo capitolo è dedicato a questo concetto basilare della nostra cultura. Esso si è talmente incorporato nel nostro modo di pensare e di agire che è quasi impossibile farne a meno. Non si è voluta ricostruire una storia del concetto di individuo: si è invece puntato su alcuni momenti e aspetti significativi di questo strano modo di rappresentare e configurare l’essere umano (strano quanto meno agli occhi degli antropologi) al fine di comprenderne la logica, i limiti, la crisi e la disfatta, ben consapevoli che le “somiglianze intra” disgregano alla radice questo concetto su cui il pensiero occidentale ha invece voluto scommettere la proponibilità di molti suoi valori. Il lettore che abbia la pazienza di seguire le analisi della Parte terza del libro, soprattutto quelle contenute nel capitolo VII, si renderà conto che l’autore di questo libro non si limita a disfare l’individuo e proporre il “dividuo” come rappresentazione alternativa, secondo quanto è suggerito dall’antropologia della persona. La teoria delle somiglianze e delle differenze, che in questo libro prende forma, ha se non altro il pregio di spingere lo sguardo oltre il “dividuo”, oltre la dissoluzione dell’individuo, e di intravedere qualcosa che ci è sembrato giusto e proficuo chiamare “condividuo”. “Condividuo” è l’approdo propositivo di una ricerca sul valore epistemologico delle somiglianze. In altre parole: abbiamo cercato di elaborare una teoria delle somiglianze e, allorché abbiamo preso in considerazione il soggetto umano (l’io, prima ancora del noi), ci siamo trovati tra le mani il condividuo, come concetto su cui si gioca in buona parte il significato di questo nostro lavoro. Nella parte finale del libro il lettore è infatti costretto a prendere in considerazione un punto decisivo, una sorta di bivio. L’individuo sta dalla parte dell’identità (è, sul piano del soggetto, l’espressione di questo principio), mentre il condividuo è l’esito della teoria delle somiglianze in quanto applicata non solo ai soggetti umani, ma a qualsiasi altro essere vivente: il condividuo è costituito da intrecci di somiglianze. Sotto questo profilo, per l’autore è stato molto gratificante scoprire che “condividuo” non è un’invenzione più o meno ingegnosa, ma solitaria, di chi si occupa di antropologia o di scienze umane: “condividuo” è una proposta che

nasce in primo luogo dalle riflessioni dei biologi sugli esseri viventi, allorché si sono accorti che essi sono una endo-simbiosi (Lynn Margulis 1998), una convivenza interna. Con la scoperta del condividuo, mentre per un verso ci allontaniamo decisamente dal terreno dell’identità, per l’altro verso vediamo aprirsi nuove prospettive di riflessione e di analisi. Il condividuo ci fa intuire che ciò che vale per la materia biologica vale anche per la materia psichica e sociale, di cui sono fatti gli esseri umani. Il “con” di con-dividuo indica infatti non una sostanza, bensì un compito, una funzione di coordinamento e di armonizzazione di una molteplicità. L’io non è più io, è un “noi”; e la “noità”, lungi dall’essere una sostanza, è un assemblaggio, una composizione, un intreccio (più o meno riuscito). Eravamo partiti dalla convivenza, considerata come valore primario: una convivenza tra “noi” umani e – si diceva – pure tra noi e la natura. Abbiamo finito per ritrovare il tema della convivenza all’interno di ciò che da lungo tempo si è soliti chiamare “individuo”. Forse non è male affrontare il problema della convivenza tra condividui, arricchiti dalla consapevolezza che nel cuore stesso degli esseri umani (e più in generale degli esseri viventi) c’è un problema di convivenza intra. La convivenza non è soltanto un problema esterno, politico, a cui potremmo sottrarci rifugiandoci nel nostro “io” solitario (l’individuo): è un problema che ci riguarda assai più da vicino, fin nel nostro intimo più profondo, e la teoria delle somiglianze ci fa capire – o per lo meno intuire – quanti e quali ponti ci siano tra i problemi della convivenza tra (tra noi e i nostri “simili”) e i problemi della convivenza intra (quella che prende forma nella nostra intimità). Dal modo con cui decidiamo di trattare gli “altri-noi” (gli altri sono solo “altri” oppure gli altri sono “simili” a noi?) scaturiscono conseguenze sulla forma di “noi” – di condividui – che noi stessi siamo. Per converso, negare, o cercare di negare, il “con” di condividuo, pensando di essere individui, ovvero un concentrato di essere e di identità, significa negare, o rendere del tutto superficiale e aleatoria, la trama delle somiglianze, su cui si regge ogni possibile convivenza. Se la vita è per forza di cose e in ogni modo – anche in modo conflittuale – convivenza, il condividuo è la smentita fattuale di ogni illusoria pretesa di identità. L’identità – sosteneva Diotima – è una prerogativa divina, un attributo riservato agli dèi. Gli umani non sono altro che intrecci di somiglianze e differenze, come del resto gli altri esseri

mortali: intrecci che si compongono e si scompongono sia nel corpo sia nell’anima. I condividui sono esattamente questi intrecci, che “tengono quel tanto che tengono e fino a che tengono”. La teoria delle somiglianze finisce per ricollocare gli umani in mezzo agli altri esseri viventi e mortali: il condividuo ci ricorda la nostra mortalità e dunque la nostra somiglianza con gli esseri naturali. Anche per questo abbiamo pensato di dedicare il presente lavoro alla sacerdotessa di Mantinea. A Platone questo libro deve molto: non solo per averci fatto conoscere Diotima (cap. VI) e averci fatto riflettere con Protagora sulla tesi secondo cui siamo “simili a qualsiasi altra cosa” (cap. IV), dunque sull’intrico delle somiglianze, e persino sul loro carattere infido e scivoloso. A Platone dobbiamo anche la conoscenza del tentativo opposto: quello di provare a pensare l’essere umano – o una sua parte (l’anima) – come qualcosa di “non scomponibile”, dunque di “individuale”, dotato di identità, di immortalità, in grado addirittura di rivendicare una natura divina. In Platone è visibilissimo il bivio: se la teoria delle somiglianze e del condividuo ricolloca l’essere umano nella natura e tra gli esseri mortali, la teoria dell’identità e dell’individuo cerca di trascinarlo invece verso la divinità. Proprio per questo è assolutamente indispensabile rendersi conto di come le idee sull’identità e sull’individuo umano si siano originate, abbiano attecchito e preso forma, abbiano costituito un tema costante della tradizione di pensiero che è giunta fino a noi. In definitiva, non è proprio questo il “mito dell’identità” di cui finalmente prendere coscienza, non è forse questa la caverna platonica da cui provare a liberarci (cap. I)? In vista di ciò, abbiamo voluto riservare il paragrafo finale di questo libro all’ardito e ostinato tentativo platonico di inventare un’identità per gli esseri umani: un tentativo a cui abbiamo pensato di opporre il pensiero della somiglianza, facendo valere il SoDif, gli innumerevoli intrecci di somiglianze e differenze, la loro forza, la loro irriducibile resilienza. Torino, agosto 2018

Avvertenza Questo libro ha avuto una lunga gestazione, e alcuni capitoli o parti di capitoli si avvalgono di alcuni scritti anticipatori, pubblicati sotto forma di articoli o brevi saggi, quasi sempre rivisti, approfonditi e riadattati al discorso più generale. In particolare: il capitolo I è la revisione del saggio Uscire dalla caverna: la somiglianza invece

dell’identità, in Santo Arcoleo, a cura di, Salvare l’identità? Le regole, la giustizia, le relazioni con l’altro, Novara, Quintessenza, 2011, pp. 87-123. Il capitolo II riprende con diverse integrazioni e approfondimenti il saggio Identità o convivenza?, in Tecla Mazzarese, a cura di, Diritto, tradizioni, traduzioni. La tutela dei diritti nelle società multiculturali, Torino, Giappichelli, 2013, pp. 55-83. Alcune parti del capitolo IV (in particolare i paragrafi 1-3 e 5-6) sono state anticipate nell’articolo Il nodo delle somiglianze e il destino dell’etnologia. Protagora, Erodoto, Platone, «Teoria politica», n.s., Annali VII, 2017, pp. 315-343. I paragrafi 3-7 del capitolo VI sono una revisione e un approfondimento di quanto esposto nel saggio Simili a sé. Critica dell’identità ed elogio della somiglianza, in Paolo Cotrufo e Rossella Pozzi, a cura di, Identità e processi di identificazione, «Quaderni del Centro Napoletano di Psicoanalisi», n. 5, Milano, Franco Angeli, 2014, pp. 153-179. Infine, parte del paragrafo 1 e il paragrafo 2 del capitolo VII riproducono con alcune modifiche il breve saggio Individui, piccoli dèi. Per un’antropologia dell’individualismo moderno, in Claudio Gianotto e Francesca Sbardella, a cura di, Tra pratiche e credenze. Traiettorie antropologiche e storiche. Un omaggio ad Adriana Destro, Brescia, Morcelliana, 2017, pp. 149162. L’uso delle virgolette caporali è riservato alle citazioni, mentre gli apici doppi sono usati per porre in evidenza determinati termini o concetti. I corsivi all’interno delle citazioni vengono riprodotti senza alcuna segnalazione se si tratta di corsivi degli autori citati. Se invece si tratta di corsivi aggiunti dall’autore del presente libro vengono segnalati con “c.m.” (corsivo mio). 1 Come si ricorderà, Charles Baudelaire, al termine della poesia iniziale di Les Fleurs du Mal, così si rivolgeva al suo lettore: «Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!» (Baudelaire 1959: 6).

Parte prima

I. La caverna dell’identità

1. Il mito della caverna Uno dei miti più famosi, influenti e fondativi del pensiero occidentale è senza alcun dubbio il mito della caverna, raccontato da Platone nella Repubblica (libro VII): un racconto che descrive da un lato la condizione in cui versa normalmente l’umanità, dall’altro la possibilità di uscirne. Secondo Platone, la «natura» (physis) dell’uomo è tale che fin dall’infanzia gli esseri umani si trovano incatenati nel fondo di una caverna, legati in modo tale da essere costretti a guardare soltanto davanti a sé, senza poter volgere lo sguardo indietro o attorno. E davanti a sé non vedono altro che ombre, cioè immagini proiettate sulla parete di fondo della caverna da un fuoco che brilla all’esterno: gli uomini non vedono il fuoco e nemmeno vedono le cose reali che, passando tra il fuoco e l’imboccatura della caverna, danno luogo alle ombre. Così imprigionati, gli uomini scambiano perciò le ombre con la realtà, le immagini con le cose reali. Di norma, anzi per la loro stessa «natura», la mente degli uomini si trova ad essere imprigionata, occupata e posseduta da «vuoti simulacri» (515 d): in essa si muovono soltanto «ombre vane» (520 c)1. Il mito della caverna è anche, però, il racconto dell’uscita dall’antro, del cammino verso la salvezza. Platone immagina, a questo proposito, che qualcuno venga «sciolto» dai legami originari, «costretto di colpo ad alzarsi, a girare il collo, a camminare, a guardare verso la luce» (515 c). Il cammino non è facile: la luce abbaglia e fa male; la tentazione di tornare indietro e di considerare vere le ombre a cui costui era abituato è molto forte e pressoché inevitabile (515 d). Platone insiste molto sulla “sofferenza” che il cammino comporta e sul fatto che occorre “costringere” questo qualcuno «per l’aspra ed erta via» che conduce «alla luce del sole» (515 e). La

sofferenza è tale da indurre persino questo individuo a “ribellarsi”, tentando di tornare indietro: se qualcuno lo costringesse a guardare la stessa luce, non pensi che gli farebbero male gli occhi e fuggirebbe indietro, volgendosi a quelle cose che invece può guardare e le riterrebbe davvero più chiare di quelle che gli vengono mostrate? (515 e).

La costrizione di cui parla Platone finisce però per avere successo, dal momento che «l’anima di ciascuno ha in sé questa potenza d’apprendere»: vi è infatti – per natura – un occhio dell’anima che «deve essere volto via, insieme all’anima tutta, da quello che è il mondo del divenire, fino a che sia capace di resistere e contemplare quello che è l’Essere in sé» (518 c). Il mondo del divenire è il mondo del sensibile e della conoscenza sensibile, il mondo della mutevolezza e della molteplicità. Gli esseri umani, per natura, si trovano imprigionati in questo mondo; ma – altrettanto per natura – possono svincolarsi dai lacci di questo mondo e accedere alla verità. «Fin dall’infanzia» – secondo Platone – si possono tagliare via questi lacci, questi «pesi di piombo» che «in basso volgono la vista dell’anima»; così «liberata», l’anima potrebbe volgersi definitivamente «verso la verità» (519 a-b). La storia non finisce qui, perché – come è ben noto – coloro che hanno avuto la possibilità di accedere alla luce della verità dovranno poi «discendere nel comune mondo degli altri» per illuminarli e fare in modo che la società, o lo Stato, sia «governato da svegli e non in sogno», impedendo che i cittadini lottino tra loro per «vane ombre» (520 c). 2. I lacci dei costumi Da questa breve ricostruzione del mito platonico si possono ricavare i seguenti temi: 1) la mente degli esseri umani è abitualmente avvolta da lacci (la caverna); 2) la mente umana può tuttavia essere sciolta da questi legami (l’uscita dalla caverna); 3) questo processo di liberazione implica sofferenze, ostacoli, ripensamenti (difficoltà di svincolamento); 4) il percorso di liberazione si conclude con un approdo alla verità (possesso della verità); 5) chi è entrato in possesso della verità si assume (o dovrebbe

assumersi) il compito di costringere gli altri a compiere lo stesso percorso che conduce alla verità (costrizione). La tesi che vorremmo ora sostenere è che, nelle scienze umane e sociali, il tema della caverna ha preso piede in maniera molto consistente: il pensiero umano è di norma imprigionato. Imprigionato da che cosa? Se per Platone si tratta dei lacci del mondo del sensibile e del divenire, per il pensiero moderno e contemporaneo questi lacci sono determinati soprattutto dai costumi (o dalla cultura, in senso antropologico). All’inizio della filosofia moderna Michel de Montaigne sosteneva che il «costume» è ciò da cui nascono le leggi della coscienza, le strutture del pensiero: il costume ha forza e potere, in quanto esso «ci afferra e ci stringe in modo che a malapena possiamo riaverci dalla sua stretta» (Montaigne 1982: 150). Noi beviamo i costumi della nostra società fin dalla nascita e così – continua Montaigne – vediamo il mondo con i principi e le categorie che i costumi infondono in noi. E aggiunge: «sembra che noi siamo nati a condizione di seguire quel cammino». Potremmo dire: sembra che siamo fatti apposta per vivere nella caverna, avviluppati e ottenebrati dai nostri costumi. Lo svincolamento per Montaigne è un’impresa molto difficile: la possibilità di sottrarsi alla presa dei costumi è ammessa, ma è una via molto stretta, molto più stretta di quanto sospettato da Platone. Saltiamo nel Novecento. Per molte scienze umane e sociali è come se non si possa dare un pensiero libero, svincolato dai costumi, nonché dalle categorie e dalle leggi che questi imprimono. Secondo gli etnolinguisti Edward Sapir (1969, 1972) e Benjamin Whorf (1977), il linguaggio conferisce una forma sempre particolare al pensiero: il pensiero si configura così non come un’attività naturale, ma come un costrutto culturale. Secondo l’antropologo Clifford Geertz, il pensiero umano è profondamente sociale: nelle sue origini, nelle sue funzioni, nelle sue forme, nelle sue applicazioni. Alla base il pensare è un’attività pubblica – il suo habitat naturale è il cortile di casa, la piazza del mercato e quella del municipio (Geertz 1987: 337).

L’uomo appare «disperatamente dipendente» dai sistemi simbolici che pervadono la sua vita, e per questo viene definito da Geertz come «un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto» (1987: 86, 41). Geertz è uno degli antropologi che hanno maggiormente sottolineato il carattere funzionale dei sistemi simbolici, sempre inesorabilmente particolari e locali, mediante cui l’uomo dà forma al

proprio pensiero e alla propria umanità. Per Geertz non c’è alcuna verità universale al di là della caverna. Per questo, egli è un rappresentante molto significativo di una corrente cospicua delle scienze sociali contemporanee per la quale non si pone il problema dell’uscita dalla caverna (tema n. 2) e nemmeno, quindi, quello delle difficoltà dello svincolamento (tema n. 3). 3. L’uscita stretta dall’identità Tutto questo lungo preambolo per sottolineare che cosa? Per fare capire che le idee prodotte nel cortile di casa, nella piazza del mercato o in quella del municipio si instillano nelle nostre menti e ne risultiamo quindi dipendenti (Geertz), a tal punto che, per citare ancora Montaigne (1982: 150), ciascuno, venerando intimamente le opinioni e gli usi approvati e accolti intorno a lui, non può disfarsene senza rimorso né conformarvisi senza soddisfazione.

Ebbene, l’idea di identità – un’idea così diffusa nei nostri cortili di casa (per quanto grande possa essere questa casa) – si è talmente radicata nel nostro modo di pensare che appare molto difficile, praticamente impossibile, farne a meno. Siamo nati a condizione di divenire “dipendenti” dalle idee che noi stessi produciamo nelle piazze dei nostri mercati (locali o internazionali che siano)? Sembrerebbe di sì (Girotto, Pievani, Vallortigara 2008). Ma il fatto che le scienze sociali sostengano spesso che gli esseri umani vivono normalmente nelle caverne dei loro pensieri e considerino assai poco la possibilità che essi ne vengano fuori non significa che gli esseri umani rimangano per sempre imprigionati nelle proprie idee: questo fatto denuncia, semmai, un limite preoccupante di tali scienze. Il tema dell’uscita dalle idee, dello svincolamento – per quanto doloroso, faticoso e probabilmente sempre parziale – dalla propria stessa cultura, è bene che assuma invece una posizione centrale nel dibattito attuale2, in relazione soprattutto all’idea imperante e omnipervasiva dell’identità. Lo studio di come gli individui possano sganciarsi dai «ceppi» delle loro convenzioni, dai vincoli delle loro tradizioni, era considerato da Franz Boas, il fondatore dell’antropologia culturale nord-americana, come assolutamente fondamentale (Boas 1940: 638). Il fatto è che l’idea di identità – come avremo modo di vedere meglio in seguito – è esattamente

ciò che inibisce questo studio e questa pratica, ciò che rende impensabile l’uscita. Quanto sia difficile liberarsi dalle idee approvate e accolte attorno a noi (Montaigne), dalle idee che anzi costituiscono l’intelaiatura mediante cui vediamo il mondo (Sapir e Whorf), è dimostrabile dalla stessa vicenda intellettuale di chi scrive, vicenda che si può riassumere in tre fasi. In una prima fase, il concetto di identità è stato utilizzato in maniera del tutto “normale”, ovvero come un concetto facente parte del linguaggio “normale” delle scienze sociali, e in particolare dell’antropologia, a tal punto da considerare i processi di reificazione come miranti a garantire l’identità sociale: «ciò che viene reificato nel processo di costruzione della società è la sua identità» (Remotti 1993a: 112). In una seconda fase si è voluto invece porre in luce i rischi – epistemologici e politici – che emergono da un uso unilaterale del concetto di identità. In Contro l’identità si è infatti ammesso che l’identità è «irrinunciabile», ma si è pure giunti alla conclusione che «di sola identità si muore» e che «l’unica via praticabile sembra davvero quella dell’uscita rigorosa dalla sua logica»: «si può vivere, e in effetti si vive, anche al di fuori della cappa dell’identità, riducendo [...] gli espedienti di identità a poca cosa» (Remotti 1996: 57 e 103). In altri termini: l’identità non può essere eliminata, ma può, e anzi deve, essere ridotta, contrastata, da un’altra logica, quella dell’alterità e dell’alterazione. In una terza fase (coincidente con il volume L’ossessione identitaria) si è pervenuti a una posizione ancora più radicale: L’identità non è più, per noi, qualcosa di irrinunciabile, e la critica dell’identità non si limita più a contrastarne un uso unilaterale, che non tiene conto di altre esigenze e di altri princìpi. Oggi, siamo disposti a sostenere che si può fare a meno dell’identità [...]. Oggi, noi diciamo che non si tratta più di contrastare l’identità [...], ma – con gesto più radicale – di liberarsene: non solo allentare la sua presa, ma scioglierla del tutto (Remotti 2010: XVIII).

4. Le motivazioni di base: coerenza, stabilità, riconoscimento Per liberarsi di un’idea, per sfuggire alla sua presa, specialmente quando essa ci possiede come un’ossessione, una mossa indispensabile è cercare di coglierne le motivazioni più profonde. La domanda fondamentale a questo punto è la seguente: quali sono le esigenze rispetto a cui l’identità si configura come risposta? Qui proviamo a suggerire due tipi di esigenze che

possono ispirare le richieste di identità: la stabilità e il riconoscimento. Per analizzare queste categorie occorre inoltre riferirsi ai soggetti che avvertono tali esigenze e che avanzano richieste identitarie. A loro volta i soggetti possono essere di due tipi: soggetti individuali (“io”) e soggetti collettivi (“noi”). Le scienze umane e sociali concordano nel ritenere che non soltanto i “noi” ma anche gli “io” siano costruzioni sociali. Detto in altri termini, non vi sono “io” naturali (come non vi sono “noi” naturali), entità pre-sociali, dotati per natura di autonomia e stabilità. Anche i soggetti individuali si costruiscono via via mediante un lungo processo, nel quale intervengono disposizioni fisiche e mentali, esperienze di vita, relazioni sociali. Molte società stabiliscono vere e proprie tappe di un simile percorso, riservando il concetto di persona ai soggetti che hanno raggiunto un adeguato riconoscimento sociale. In un certo senso, diremmo che la costruzione sociale dei soggetti individuali può subire accelerazioni e rallentamenti, ovvero in certi periodi la costruzione può essere più intensa e coinvolgente e in altri periodi meno: periodi in cui c’è molto da costruire e periodi in cui c’è meno da costruire. Tipicamente, infanzia e giovinezza sono periodi di intensa costruzione (si pensi, per esempio, ai rituali di iniziazione giovanili, veri e propri rituali antropo-poietici, di “costruzione” dell’essere umano), a cui fanno seguito periodi di maggiore stasi o di maggiore stabilità, come quando, in diverse società, un individuo, sposandosi e mettendo al mondo dei figli, raggiunge un più elevato e stabile riconoscimento sociale. Se l’io è un costrutto sociale, occorre ammettere che nell’io c’è in primo luogo molteplicità. Se l’io non è una sostanza già data in natura, ma il risultato di un processo a cui mettono mano tanti fattori, o in cui interagiscono molti elementi, l’unità appare come una sorta di miraggio o, se si vuole, come un’idea-guida che emerge dallo stesso processo e in un certo senso lo orienta. In questo contesto, l’unità è di per sé irraggiungibile, e se la si raggiungesse (se ci si intestardisse a raggiungerla o ci si illudesse di averla raggiunta) essa sarebbe la fine del processo, il blocco della vita. L’io non è mai “uno”, l’io è “molti”. Per meglio dire, l’io è un “molti” parzialmente unificato. Infatti, proprio in quanto è “molti”, l’io ha bisogno non di annullare la molteplicità, ma di organizzarla in qualche modo, di ridurla in una certa misura.

Potremmo chiamare tutto ciò “coerenza”. Ma anche la coerenza è graduata: ci può essere tanta coerenza o poca coerenza, ci si può sforzare per raggiungere un elevato grado di coerenza (qualcosa che si avvicina di più all’unità) o, al contrario, ci si può accontentare di un grado basso di coerenza, in corrispondenza del quale la molteplicità risulta meno organizzata. Ciò che stiamo descrivendo con il concetto di coerenza è qualcosa che si situa tra due estremi: da un lato l’unità che annulla la molteplicità, dall’altro la molteplicità senza alcun elemento unificante; da un lato una concrezione monolitica, dall’altro la dispersione. La virtù sta nel mezzo, un mezzo che però non coincide con un punto dato (un punto di equilibrio perfetto), bensì con una banda di posizioni entro cui il soggetto – a seconda dei momenti, delle attività, dei livelli – tende a oscillare. La molteplicità di cui è fatto un io, però, non si dispiega soltanto in una dimensione sincronica: la coerenza di cui si tratta non riguarda unicamente un insieme di elementi compresenti. Se l’io è una costruzione sociale, ciò significa che vi è anche una dimensione diacronica da prendere in considerazione. Che rapporto c’è tra il mio “io” di oggi e quello di ieri, oppure dell’altro ieri, di un anno fa, dieci anni fa, cinquant’anni fa? Qui la coerenza riveste l’aspetto della stabilità. Sono lo stesso io che in questo momento scrive queste parole e quello che ieri ha compiuto una passeggiata in montagna, o quello che sessant’anni fa giocava a pallone per le strade di un paese dell’Italia settentrionale? Anche qui è bene introdurre fin da subito una concezione gradualistica. È indubbio che per un soggetto – anzi, per la costruzione di un soggetto – c’è bisogno di coerenza e di stabilità. Ma quanta coerenza e quanta stabilità? È bene rendersi conto che un’eccessiva valorizzazione della stabilità ritarderebbe e persino bloccherebbe il processo di costruzione del soggetto, processo il quale necessita di alimentarsi di molteplicità e di variazione, oltre che di stabilità e di coerenza. La nostra società ha una visione tutto sommato continuista del processo di costruzione del soggetto; altre società vedono invece il processo come costituito da tappe molto diversificate, discontinue, staccate tra loro da rituali che operano veri e propri tagli nel processo. Un esempio per tutti: tra i Samburu del Kenya vi è una divisione molto netta tra coloro che non sono ancora circoncisi e coloro che invece hanno subìto la circoncisione,

così come vi è una netta separazione e diversificazione tra la forma di umanità dei moran, con i loro comportamenti “selvaggi” e “scostumati”, e la forma di umanità che si acquisisce dopo, con il raggiungimento del matrimonio e dell’età adulta, segnata dai valori nkanyt, quelli del rispetto e dell’autocontrollo (Nazionale 2002). Se ora ci trasferiamo sul piano dei soggetti collettivi, vediamo che anche qui per la costruzione di un “noi” i valori della coerenza e della stabilità risultano fondamentali; ma altrettanto fondamentali appaiono i valori della molteplicità e del mutamento. Nelle ricerche storiche ed etnografiche non è difficile riscontrare la presenza di “noi” che si impegnano molto nel costruire sé stessi come fortezze, come corpi solidi, internamenti coerenti, capaci di attraversare indenni epoche diverse, di combattere il tempo, di permanere come edifici stabili e persino imperituri. Sono “noi” che, proprio per questo, delimitano in modo inequivocabile i propri territori, che erigono barriere nei confronti degli altri, che segnano i propri confini così da renderli invalicabili. Gli Statinazione, e più in particolare i regimi totalitari, che hanno contraddistinto gli ultimi secoli della storia europea, sono esempi di “noi” che hanno cercato in tutti i modi di fare prevalere l’unità sulla molteplicità. Ma due notazioni sono a questo punto indispensabili. In primo luogo, si è visto come questi tentativi di chiusura e di salvaguardia del proprio “noi” si siano spesso risolti in massacri (guerre totali, etnocidi, genocidi), con effetti di auto-eliminazione. In secondo luogo, uno sguardo antropologico sui tipi di struttura sociale costruiti dagli esseri umani ci fa vedere come molti “noi” vengano pensati non già come entità chiuse, bensì come soggetti che entrano in reti di scambio con l’esterno e per i quali i confini sono concepiti come zone di comunicazione con gli altri, anziché come barriere. Non v’è dubbio che la costruzione di qualsiasi soggetto (si tratti di “io” o si tratti di “noi”) non può prescindere dalla delineazione di confini: un soggetto deve guadagnarsi una sua riconoscibilità e i confini svolgono una funzione insostituibile in questo senso. Ma – come si è detto – ci sono confini e confini: confini fatti per chiudere, per proteggere e per impedire l’accesso ai rispettivi territori, e confini fatti invece per organizzare lo scambio e la comunicazione con gli altri. Anche qui, a proposito dei confini, possiamo immaginare una scala

graduata, quella che conduce dall’apertura alla chiusura, con tutta una serie di posizioni intermedie. 5. L’identità: dai bisogni reali all’illusione dell’essenza E l’identità? Quando i soggetti – individuali o collettivi – fanno ricorso all’identità, essi si spostano decisamente verso gli estremi dell’unità, della coerenza, della stabilità, della chiusura. Anzi, quando i soggetti non si limitano a invocare l’identità, ma affermano la propria identità, fanno qualcosa di più: essi non dichiarano semplicemente un’esigenza, ma sostengono una realtà; non ammettono soltanto un bisogno, un’esigenza o una necessità, ma stabiliscono che quel bisogno di coerenza, quell’esigenza di stabilità, quella necessità di permanenza sono già soddisfatti dal loro essere. In questo modo, i soggetti non ammettono di essere nell’incompletezza del bisogno, ma nella completezza della loro essenza. Affermare la propria identità significa andare oltre il bisogno, oltre la scala graduata delle posizioni intermedie. Significa perciò fare una richiesta di riconoscimento fortissima; significa richiedere senza esitazione di essere riconosciuti nella propria sostanza, non nella propria mancanza. Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, ogni soggetto – in quanto costruzione sociale – comporta una qualche richiesta di riconoscimento. All’inizio dell’Ottocento, Georg W.F. Hegel aveva in effetti concepito il riconoscimento come momento sociale fondante di ogni soggetto. Interpretando Hegel, possiamo sostenere che i soggetti fanno richieste di riconoscimento in primo luogo relativamente al loro esistere: ogni soggetto – individuale o collettivo – che si affaccia al mondo richiede infatti che gli altri riconoscano la sua esistenza (non la sua identità); dopodiché richieste di riconoscimento riguarderanno ruoli, caratteristiche, bisogni, diritti. Si tratta di elementi in effetti tutti “riconoscibili”, nel senso che sono individuabili, circoscrivibili, e proprio per questo proponibili e negoziabili. Tutt’altra faccenda è quando un soggetto passa alla richiesta di riconoscimento della propria identità. La prima cosa che si constata in questo passaggio è la mancanza di definibilità: quale soggetto ha mai potuto definire in che cosa consista davvero la propria identità? Come posso definire la mia identità? Farò ricorso al mio nome, alla mia professione, al mio status

sociale, ai miei ruoli parentali e familiari, alla mia propensione politica, alla mia fede religiosa, ai miei orientamenti sessuali, alle mie preferenze sportive o a che altro? E se dovessimo chiederci in che cosa consiste l’identità italiana (così come quella padana o quella europea), quale risposta saremmo in grado di dare? ‘Identità’ è una parola tremendamente ingannatrice: dà l’illusione della massima definibilità (identità dovrebbe essere infatti la risposta più chiara e definitiva alle domande: “chi sono?”, “chi siamo?”, “chi siete?”); ma quando viene messa alla prova, svela l’inganno in cui consiste o a cui dà luogo. Essa infatti fa passare per realtà (per qualcosa di acquisito e stabilito una volta per sempre) ciò che non è altro che un’aspirazione. Noi desideriamo giustamente (un po’ di) stabilità, coerenza, definibilità, riconoscibilità. L’affermazione dell’identità compie invece una doppia illusoria trasformazione: trasforma quel desiderio in realtà ed elimina quel un po’ di offrendoci tutta la stabilità, coerenza, definibilità, riconoscibilità. Certo, per ogni soggetto stabilità, coerenza, definibilità, riconoscibilità sono esigenze ed obiettivi per i quali ci si deve attrezzare: appartengono cioè all’area dei problemi in cui i soggetti – con tutta la loro molteplicità interna – si dibattono. L’identità non è una risposta a questi problemi: è, per così dire, una super-risposta; è un modo non per affrontare i problemi, ma per superarli in un colpo solo; essa non offre strumenti, ci regala invece una soluzione definitiva (illusoriamente definitiva). Forse sta qui la potenza mistificante dell’identità, la sua capacità di presa sulle menti dei soggetti individuali e collettivi. 6. I guai dell’identità Così facendo, l’identità combina parecchi guai. In primo luogo, ci acceca. Eliminando quel prezioso un po’ di prima di stabilità, coerenza, definibilità, riconoscibilità, non solo ci illude di offrirci la completezza di questi beni, ma ci impedisce di scorgere i valori che si collocano sull’altro lato, e che tuttavia sono altrettanto indispensabili per la costruzione e per lo stesso mantenimento dei soggetti, ovvero la molteplicità, la variabilità, persino il disordine, il caos, l’incoerenza (beninteso, “un po’ di...”). L’identità ci impedisce di capire che i soggetti «imbarcano in ogni modo e

in ogni circostanza [...] l’alterità: sono fatti di alterità e di alterazione»; anzi, «spesso bramano l’alterazione» (Remotti 2010: 50). In secondo luogo, l’identità ci fa vedere gli altri come appartenenti del tutto all’alterità. Occorre riflettere bene sulle conseguenze logiche dell’identità. Dire identità significa dire anche, e nello stesso tempo, alterità: l’alterità è una categoria che viene istituita dalla stessa identità. I due concetti formano una coppia indissolubile, con una barriera in mezzo. I soggetti che affermano la propria identità inventano la categoria degli altri nello stesso istante in cui stabiliscono i confini che li recingono. È una categoria che riunisce tutti gli altri, messi indifferentemente tutti insieme per il semplice fatto che sono considerati non-noi. È quel non degli “altri” rispetto a “noi” ciò su cui occorre riflettere: gli “altri” sono riconosciuti solo in quanto non sono noi.

C’è una negazione che li riguarda. Essi non contengono qualcosa di positivo, ma di negativo. Gli altri, così, rischiano davvero di diventare un “inferno” (l’enfer c’est les autres, «l’inferno sono gli altri», fa dire Jean-Paul Sartre a Garcin, un personaggio di Huis clos, del 1944 [Sartre 1960: 239]). Ma è il “noi”, con l’identità, che rappresenta gli altri come tali. Se gli altri sono altri (e solo altri), portatori di sola alterità, essi sono inevitabilmente una minaccia per la nostra identità. L’identità si sente accerchiata e minacciata: nessuna identità potrà mai sentirsi amata dagli altri. Per la loro stessa essenza gli altri sono infatti fonte di “alterazione”. Non c’è bisogno che ci facciano la guerra: la loro sola presenza è minacciosa. L’identità diviene così la protagonista di un dramma a tinte fosche, nel quale un “noi” teme l’avvicinamento, l’arrivo, la presenza, l’infiltrazione degli “altri”. Ci vuole poco perché questa paura dell’“alterazione” si traduca in un’ossessione per la propria integrità e la propria purezza; e ci vuole poco perché questa ossessione ispiri azioni e politiche di respingimento e, se non basta, di annientamento. Il Novecento è stato, in Europa e altrove, un secolo in cui i drammi dell’identità si sono tramutati in tragedie immani. Non, dunque, “l’inferno sono gli altri”, ma l’inferno sono i “noi” che istituiscono gli “altri” e, avvertendoli come minaccia, si spingono fino a distruggerli. 7. L’identità: una cultura impoverita e sostituibile L’identità è un destino? Si può fare a meno dell’identità? Possiamo liberarcene? Possiamo scioglierci dai suoi lacci, dalle sue costrizioni, dalle sue mistificazioni? Possiamo uscire dalla caverna dell’identità? L’identità è forse una legge della coscienza, una struttura naturale del pensiero, a cui non potremmo sottrarci, oppure è un modo di pensare che ha dominato il nostro mondo, la nostra epoca storica, la nostra società? Propendiamo per questa seconda alternativa: l’identità è una cultura. Ma per essere più precisi e più analitici, diremmo anche che è una cultura impoverita, sintomo e nello stesso tempo causa di impoverimento culturale. L’identità si fonda infatti su una ben misera antropologia, fatta di due semplici categorie (identità e alterità) e di una relazione di negazione (di opposizione) tra le due. L’identità è una cultura povera, in quanto non

vede le potenziali relazioni di scambio e di comunicazione – senza escludere il conflitto – tra i soggetti, i loro possibili modi di convivenza. È una cultura povera anche nel senso che priva i “noi” di strumenti adeguati per fronteggiare, e anzi organizzare, il mutamento, l’alterazione. L’identità si riduce infatti a opporre dinieghi alle proposte innovative e alle risorse rappresentate dagli altri, anche quando gli altri non provengono da altrove, bensì scaturiscono dall’interno dello stesso “noi”. L’identità fa volgere lo sguardo al passato, congela il presente ed è nemica del futuro. E così le società dominate dall’identità si rivelano incapaci – come la nostra società sta a dimostrare – di aprire il futuro ai propri discendenti (quegli “altri” che nascono da “noi”). Una società dominata dall’identità diventa una società invivibile non solo per gli “altri” stranieri, ma persino per i propri figli. Se l’identità è un pensare culturale (una cultura povera, come si è appena detto), allora c’è modo di uscire dalla sua caverna. Nella parte conclusiva di questo primo capitolo proviamo a fare una proposta, pur consapevoli – come ci ha avvertito Platone – che il processo di liberazione è molto faticoso, persino doloroso, e che la tentazione di ricadere indietro è assai forte, dato che l’identità è certamente una delle idee più “venerate”, “approvate” e “accolte” intorno a noi, così che – per citare ancora Montaigne (1982: 150) – «non possiamo disfarcene senza rimorso né conformarvici senza soddisfazione». La sfida è dunque quella di superare una serie di ostacoli, tra cui il conformismo delle idee, soprattutto quando queste danno l’illusione immediata di risolvere i nostri problemi, le nostre esitazioni, i nostri inevitabili disorientamenti. La proposta è in definitiva molto semplice, almeno detta a parole. Essa consiste nel sostituire il concetto di identità con quello di somiglianza. Vogliamo provare? 8. La somiglianza nei soggetti C’è da dire che i due concetti sono piuttosto vicini, e questo forse ci potrà aiutare. Come abbiamo visto, l’affermazione di identità instaura una coppia di categorie opposte, che sono “identità” e “alterità”. La sostituzione che intendiamo proporre riguarda entrambe le categorie, ovvero si tratta di mettere il concetto di “somiglianza” al posto tanto dell’identità, quanto dell’alterità. Cominciamo con la prima sostituzione. Possiamo davvero dire di un

singolo soggetto – un “io” o un “noi” – che è identico a sé stesso? All’inizio del Settecento, il filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz sosteneva, nei suoi Nouveaux Essais sur l’entendement humain, che le cose – prima ancora che gli esseri umani – si alterano sempre, diventando diverse rispetto a quello che erano prima. È vero che noi conosciamo solo in modo molto confuso questo continuo mutamento, ma intuiamo che c’è e che queste infinite diversificazioni avvengono senza posa (1988: 14). A maggior ragione, gli esseri umani – gli “io” o i “noi” a cui abbiamo accennato – non sono spettatori inalterabili e impassibili di questo flusso continuo, ma avvertono in loro stessi questa incessante alterazione. Anche se confusamente, gli uomini sanno che né le cose del mondo in cui vivono né essi stessi permangono identici nel tempo e questa più o meno oscura consapevolezza genera in loro un sentimento di disagio, di «inquietudine», di «instabilità continua» (1988: 141). Qualche decennio più tardi, il filosofo scozzese David Hume, in pagine memorabili di critica dell’identità personale, poneva in luce come l’io non solo è paragonabile a una repubblica, a una società (la molteplicità invece dell’unità), ma anche come questa specie di repubblica veda mutare di continuo gli elementi che la compongono e persino le leggi che la costituiscono (Hume 2001: 523). Le pagine di Hume – le quali riecheggiano del resto i pensieri di Blaise Pascal sulla continua mutabilità del soggetto – ci fanno capire quanto illusorio e fittizio sia sostenere l’identità del soggetto: io, che scrivo queste righe, non sono identico a colui che ieri, vent’anni fa, cinquant’anni fa... (cfr. § 4). Qualcosa è rimasto e qualcosa è cambiato: per questo non posso dire che sono “identico”; dirò invece, con molta maggiore precisione, che sono “simile” a me stesso di ieri, di dieci o di cinquant’anni fa (cap. VI). L’identico non può sopportare l’alterazione; il simile, invece, contiene in sé tanto la dimensione della continuità quanto quella della discontinuità, tanto la permanenza quanto la variazione. Non solo, ma – come è facile intuire – l’identità è una faccenda di sì o di no: si è identici o non si è identici. La somiglianza invece è inevitabilmente graduale: si può essere poco simili o tanto simili; gli elementi in comune (tra il me di oggi, per esempio, e il me di sessant’anni fa) possono ridursi quasi a zero, oppure, al contrario (tra il me di oggi e il me di ieri), le somiglianze possono sovrastare le differenze. Ovviamente,

queste considerazioni riguardano anche i soggetti collettivi, i quali assommano ai mutamenti individuali i mutamenti generali. Vedere i soggetti sotto il profilo della somiglianza non è forse più aderente alla realtà delle cose di quanto non sia il principio dell’identità? E, allora, non siamo forse giustificati nell’asserire che l’identità è un mito? L’identità è il punto estremo della scala graduata, ovvero il punto in cui le differenze si annullano del tutto e due cose, o due stati di una medesima cosa, sono assolutamente simili. Questo estremo è pensabile, certo, ma si verifica mai nelle cose del mondo? 9. La somiglianza con gli altri A questo punto, diventa più facile – si suppone – compiere la seconda sostituzione: mettere cioè la somiglianza al posto dell’alterità. Se i soggetti non sono mai identici, ma sono soltanto simili a sé stessi, anche gli altri vengono per così dire trascinati in rapporti di somiglianza. L’identità ci fa usare espressioni come “noi” e gli “altri”, istituendo – come si è visto – un rapporto di opposizione e di negazione. Ma gli “altri” non sono forse simili a “noi”? Con l’identità il “noi” elimina i rapporti di somiglianza che gli altri intrattengono con “noi”: la diversità, privata della dimensione della somiglianza, si trasforma in “alterità”, ottenendo l’effetto di collocare tutti gli altri nella categoria di ciò che ci è “alieno”. Introdurre il principio della somiglianza ci fa capire invece che: 1) gli altri sono in realtà simili: sono i “nostri simili”; 2) gli altri non sono tutti “altri” nello stesso modo, ma – anche qui – ci sono gradi diversi di somiglianza e di differenza; 3) i “noi” intervengono di continuo su queste fasce di somiglianze/differenze. Quest’ultimo è un punto importante e decisivo per il nostro discorso. Chiediamoci infatti: come i “noi” intervengono? Intanto, possono intervenire sul piano ideologico e concettuale, così come sul piano pratico; e poi possono intervenire per aumentare o per diminuire la quantità di somiglianza e di differenza. Adottare il paradigma dell’identità significa ridurre a zero – o tentare di ridurre a zero – le somiglianze di “noi” con gli “altri”. Ma i “noi” possono adottare anche strategie più duttili e diversificate, strategie per esempio per le quali, se su un certo piano i

“nostri” simili sono sospinti nella categoria dell’alterità, su altri piani vengono invece “assimilati” a noi o noi ci “assimiliamo” a loro. Portiamo un esempio concreto, su cui chi scrive si è già soffermato (Remotti 2000: 59-79). Nella foresta dell’Ituri (nella Repubblica Democratica del Congo) convivono i coltivatori Lese e i cacciatori Efe (pigmei). Sul piano ideologico, i Lese allontanano da sé gli Efe, fino a considerarli poco al di sopra delle scimmie: gli Efe sono decisamente “altri”, una forma di umanità non solo estranea, ma opposta, una forma anzi di disumanità (sono considerati selvaggi, sporchi, sregolati, uomini della foresta, non del villaggio). Sul piano pratico, invece, si stabilisce tutta una serie di relazioni, che avvicinano moltissimo gli Efe ai Lese: le loro vite risultano anzi intrecciate, e si instaurano rapporti di amicizia tra famiglie lese e famiglie efe che durano tutta la vita e che si tramandano alle generazioni successive, e quando un individuo (lese o efe) muore i membri dell’altra famiglia si sentono colpiti nei loro affetti più profondi. Del resto, che dire del cannibalismo dei Tupinamba (nel Brasile del Cinquecento), un cannibalismo per il quale era importante non tanto mangiare il nemico, quanto il fatto che i guerrieri si lasciassero mangiare dal nemico (Remotti 1996: 69-104)? Che cos’è in effetti il mangiare i propri nemici se non un “assimilare” nella maniera più inglobante l’alterità? Il cannibalismo rituale è un esempio estremo di assimilazione, un tentativo di sottrarre i nostri nemici a una situazione di alterità, di estraneità e di lontananza, riportandoli a una situazione di somiglianza estrema ed estremamente intima. Anche certi aspetti dei rituali della caccia alle teste in Nuova Guinea sembrano rientrare in una strategia di assimilazione. Tra i Marind-Anim le spedizioni mensili di caccia alle teste avevano lo scopo, uccidendo i nemici, di procurarsi, oltre alle teste, anche i loro nomi, da utilizzare nella propria società (Harrison 2002: 215). Tra gli Asmat i nomi dei nemici uccisi venivano dati ai giovani durante le cerimonie di iniziazione, e quando i parenti delle vittime li incontravano li chiamavano con il nome dell’ucciso, eseguivano canti e danze in loro onore e offrivano loro doni. Non si tratta forse anche qui di una pratica di vera e propria “assimilazione”, ovvero un modo di superare l’estraneità originaria tra nemici? In un certo senso, cannibalismo e caccia alle teste rappresentano l’ideologia e la pratica antitetiche a quelle che governano il nesso

identità/alterità: sono l’estremo opposto, quello dell’assimilazione spinta all’estremo mediante la negazione dell’alterità; ossia, tutto il contrario del respingimento, a cui le politiche delle nostre società ci hanno abituato. Con queste ultime considerazioni vogliamo dire che la somiglianza è un terreno molto instabile e anche infido, in cui i “noi” cercano di continuo di trovare un qualche punto di equilibrio, nel quale però sono sempre in bilico, tentati come sono, per un verso, di aumentare le somiglianze e praticare gli avvicinamenti e, per l’altro verso, di incrementare le differenze e provocare gli allontanamenti. Lungi dall’essere imprigionati nelle categorie opposte e ossificate dell’identità e dell’alterità, a ogni istante delle loro vite i soggetti – io o noi – assimilano o distanziano, e spesso fanno l’una cosa e l’altra nello stesso tempo. In effetti, il concetto di somiglianza è ciò che ci consente di uscire dalla prigione dell’identità. Esso però non ci conduce di fronte al sole platonico della verità, bensì nei territori degli intrecci, della complessità e della costante instabilità, in quella selva intricata delle somiglianze la cui percezione – secondo l’interpretazione di Carlo Augusto Viano (1985) – è alla base della filosofia greca e delle opposte strategie a cui essa ha dato luogo (cfr. cap. IV). Abbiamo cominciato con il mito platonico della caverna, condividendo con Platone il principio secondo cui è possibile, e anzi auspicabile, uscire dalla caverna dei propri costumi mentali. In un’altra sede si è persino teorizzata l’idea del carattere vitale e indispensabile per ogni cultura del provare a saltare fuori da sé stessa e di produrre «meta-cultura» (Remotti 2011a: capp. I-II; 2011b: 61-66). Qui però dobbiamo svelare il trucco, o sciogliere un equivoco. Se con Platone apprendiamo e condividiamo la procedura del trascendimento, occorre ammettere di trovarci su posizioni opposte per quanto riguarda i contenuti dell’operazione. Per Platone, infatti, si trattava davvero di uscire dalla caverna delle somiglianze per raggiungere, in pieno sole, la contemplazione dell’unità e dell’identità, ovvero della verità assoluta ed eterna, mentre qui si propone un cammino diverso e anzi contrario: uscire dalla prigione dell’identità per addentrarci, con sufficiente sagacia e avvedutezza, negli intrecci sempre relativi, instabili, umbratili, infidi, delle somiglianze e delle differenze. Per Platone la caverna è fatta di somiglianze ingannevoli, e il sole è quello dell’identità; qui invece è l’identità a configurarsi come un mito pernicioso e a costituire una prigione da cui sarebbe bene liberarsi.

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La traduzione di cui ci si è avvalsi è quella di Francesco Adorno (Platone 1953) e le citazioni qui riportate si trovano alle pagine 407-416. 2 Chi scrive ha insistito molto, in diversi suoi lavori, su questo tema. L’invito a trasformarlo in argomento visibile sotto il profilo teorico è stato ora accolto da Adriano Favole in un libro esplicitamente dedicato alle «vie di fuga» dalle proprie culture (Favole 2018).

II. Un bivio: tra identità e convivenza

1. Pregi dell’identità Per Platone l’identità era dunque il sole: le “ombre vuote” appartenevano al mondo delle somiglianze cangianti. In effetti, identità è parola nitida, apparentemente luminosa, pulita, rassicurante. L’identità si presenta come un concetto positivo, che conferisce forza, stabilità, senso di “essere”, e dunque convinzione di valere, di contare in non importa quale contesto, ai propri occhi e agli occhi degli altri. Da queste notazioni appare evidente che l’identità è un valore che si applica tanto all’interno di un soggetto quanto all’esterno, essendo un attributo che riguarda sia la struttura di un soggetto, sia i suoi rapporti con gli altri soggetti. In Identity: Youth and Crisis, del 1968, Erik Erikson, lo psicoanalista che maggiormente ha contribuito a divulgare questo concetto tra le scienze umane, definisce l’identità come «senso soggettivo di una rinfrancante coerenza e continuità» (Erikson 1995: 20). Vantare identità da parte di un “io” significa essere assicurato che le diverse parti, fattori o elementi che lo compongono non costituiscono una molteplicità disordinata e caotica, bensì un tutt’uno, dotato di coerenza, se non proprio di un’assoluta unità. Significa anche essere assicurato che tra i diversi stati o periodi attraversati dal soggetto nella sua storia vi possono essere sì differenze e trasformazioni, ma non tali da mettere in discussione una fondamentale continuità. Erikson ci fa quindi capire che l’identità di un soggetto si declina in due modi: in senso sincronico (coerenza) e in senso diacronico (continuità); e in entrambi i modi l’idea di una raggiunta identità da parte dell’io è «rinfrancante». Quando Talcott Parsons – pure lui nel 1968 – decide di utilizzare il concetto di identità, appare evidente che il suo campo di applicazione è il

soggetto singolo: il termine identità designa infatti «il sistema centrale dei significati di una persona individuale», grazie al quale il soggetto è in grado di rispondere adeguatamente alla domanda «Chi e che cosa sono?» (Parsons 1983: 70)1. Se la risposta non può che fare riferimento a una molteplicità di fattori, quali il sesso, l’età, i genitori, il partner, i figli, l’occupazione (una situazione alquanto complicata, come ammette lo stesso Parsons), allora vuol dire che l’identità coincide non solo con la coerenza, ma con un aspetto ancora più potente, cioè con «l’integrità della persona» (1983: 75). Lungi dall’essere qualcosa di ereditato geneticamente, l’identità va inoltre «appresa», essendo «un prodotto dell’esperienza di vita dell’individuo» (1983: 81). Frutto di un processo di apprendimento e di esperienza, il «sistema di identità», una volta che si sia costituito, «possiede il livello di stabilità più alto di qualsiasi altra componente primaria della personalità», in quanto l’identità è «il sistema dei codici di mantenimento del modello della personalità individuale» (1983: 82). L’identità viene così a configurarsi come il nucleo stabile della personalità di un soggetto. Poiché gli esseri umani, come in generale gli esseri viventi, sono costretti a vivere in un mondo molto instabile, l’identità non può certo garantire la stessa stabilità di una «solida montagna di granito», e tuttavia per Parsons essa è la risposta più rassicurante, necessaria e irrinunciabile che gli esseri umani possano dare al bisogno di stabilità. Anche quando ci spostiamo dai soggetti singoli ai soggetti collettivi, il ricorso all’identità sembra avere dalla sua «valide ragioni». È così che si esprime il sociologo Burkart Holzner, allorché prende atto dell’esistenza di una «tendenza mondiale alla riaffermazione di identità razziali ed etniche primordiali» (Holzner 1983: 119-120). La riaffermazione di identità viene fatta coincidere con la convinzione che esista, per un soggetto collettivo (un “noi”), «una tradizione culturale comune, un destino comune, e sovente una comune discendenza biologica», e per l’appunto «sembrano esservi valide ragioni che portano attori individuali e collettivi a rivendicare varie identità particolari» (1983: 120). In effetti, se il fenomeno rivendicatorio è così esteso, se la rivendicazione di identità particolari, spesso «in contrapposizione a quelle nazionali», costituisce una tendenza mondiale, gli scienziati sociali non potranno che sentirsi «costretti» a indagare le buone ragioni dell’identità. Che l’identità abbia dunque i suoi “pregi” viene confermato da una

ulteriore osservazione di Holzner, quella secondo cui l’identità diviene una rivendicazione strategica anche per quei movimenti – come per esempio il black power negli Stati Uniti – che mirano a cambiare le relazioni di potere dal punto di vista di gruppi svantaggiati. Se dunque l’identità rappresenta per i vari tipi di soggetti «rifugio e sostegno», costituisce anche un’arma particolarmente efficace – potremmo aggiungere – per quei gruppi per lo più minoritari o comunque marginali che aspirano a un più completo e definitivo riconoscimento. Non è forse in questo modo, vale a dire ricorrendo all’affermazione della propria “identità”, che per esempio movimenti femminili e di omosessuali hanno richiesto il riconoscimento dei propri diritti? Holzner mostra poi un altro aspetto “positivo” dell’identità, quello che concerne insieme la solidità della struttura interna dei soggetti collettivi e la loro definibilità verso l’esterno. L’identità è un concetto ovviamente fuori luogo per aggregati indistinti e dai confini nebulosi; essa attiene invece a quelle entità sociali che, proprio ricorrendo all’identità, provvedono a tracciare con precisione i propri confini esterni, a salvaguardare la propria «coesione interna», a rimanere sé stesse nel tempo o nella storia, a esaltare la propria «capacità di resistenza alle intrusioni» (Holzner 1983: 126). Lo spettro di possibilità delineato da Holzner, che va dagli aggregati indistinti alle strutture robuste e ben delimitate, contribuisce in maniera significativa e quasi inoppugnabile a far comprendere le buone ragioni dell’identità. L’identità è infatti per Holzner un fattore che non concerne soltanto il nostro senso di «sicurezza e insicurezza»: essa riguarda la stessa «sopravvivenza» degli attori sociali, individuali o collettivi che siano (1983: 129). Insomma, senza identità si muore. Alessandro Pizzorno, nel soffermarsi sulla formazione di gruppi che intendono rappresentare e far riconoscere interessi fino a quel momento ignorati, gruppi che desiderano «conquistarsi l’ingresso nel sistema», sostiene che l’obiettivo non è semplicemente quello della formazione del gruppo, ma della formazione della sua identità: e – aggiunge – «tale obiettivo non è negoziabile» (Pizzorno 1983: 144). Non è dunque soltanto questione di efficacia delle rivendicazioni; è invece, anche qui, questione di sopravvivenza. L’identità drammatizza: e fa capire che è questione di vita o di morte; ma l’identità – secondo queste analisi – si schiera dalla parte della vita. Per formarsi, per farsi riconoscere, per sopravvivere e per

raggiungere i propri obiettivi, un “noi” deve dotarsi di una propria identità. I suoi obiettivi specifici – afferma Pizzorno – sono negoziabili; l’identità invece non è negoziabile, perché si configura come la condizione dell’esistenza dello stesso “noi” e quindi della possibilità di raggiungere i suoi obiettivi più qualificanti. Senza identità i soggetti – siano essi individuali o collettivi – scomparirebbero. L’identità è un valore, un bene inalienabile: l’identità è un diritto. Occorre dunque tutelare l’identità anche sotto il profilo giuridico. Dicendo questo, non facciamo altro che ripetere quanto affermato dalla Corte di Cassazione italiana in una sentenza del 22 giugno 1985, la prima e decisiva sentenza della Corte che interviene su un caso di violazione del diritto all’identità personale (Pino 2003: 79). Nella sentenza si legge tra l’altro che «l’identità personale integra un bene essenziale e fondamentale della persona», anche se – come ammette la stessa Corte – la regolamentazione di tale diritto va dedotta, per analogia, dalla normativa che regola il diritto al nome, non essendovi una legge appositamente prevista per tutelare il diritto all’identità (2003: 83). In modo analogo, la Corte Costituzionale in una sentenza del 3 febbraio 1994 (n. 13) sostiene che il diritto all’identità personale coincide con il «diritto ad essere sé stesso» e che dunque «l’identità personale costituisce [...] un bene per sé medesima» (2003: 95). Seguendo l’analitica ricostruzione proposta da Giorgio Pino, è facile constatare come il diritto all’identità personale sia passato, nel contesto giuridico italiano, da un periodo di «penombra» a un momento di vera e propria «esplosione giurisprudenziale», come se – in assenza di una formulazione giuridica apposita – si avvertisse l’esigenza profonda e irrinunciabile di tutelare un bene ormai riconosciuto socialmente (2003: 34-42). Pino parla a questo proposito di ruolo «creativo» che le diverse istanze giurisprudenziali hanno svolto nel fare emergere a livello giuridico questo nuovo diritto, nel determinare la sua autonomia e nel favorire persino il suo rango costituzionale: diverse sono infatti le circostanze in cui il diritto all’identità personale viene desunto dall’art. 2 della Costituzione italiana. Nella citata sentenza n. 13 del 3 febbraio 1994 leggiamo questa impegnativa affermazione: «è certamente vero che tra i diritti che formano il patrimonio irretrattabile della persona umana l’art. 2 Cost. riconosce e

garantisce anche il diritto all’identità personale», nonostante che di esso non si faccia esplicita menzione (Pino 2003: 95). Ma l’esplosione giurisprudenziale descritta da Pino coincide con un decennio che, a partire dalla sentenza della Corte di Cassazione del 1985, vede la giurisprudenza di merito applicare «la definizione consolidata dalla Cassazione alle più disparate fattispecie»: ovunque si ravvisi una deformazione dell’immagine sociale di un soggetto (non solo di una persona, ma anche di un gruppo, di un partito politico, di un ordine professionale, di una società commerciale, «e perfino delle contrade di Siena») si ritiene di dover intervenire per tutelare il diritto all’identità personale (2003: 91). Il risultato – afferma Pino – è l’elaborazione di una casistica «eterogenea e fantasiosa, talvolta ai limiti del grottesco». Si è trattato – sostiene ancora il nostro autore – di una «stagione ruggente», caratterizzata da un senso di «urgenza» per riconoscere e difendere un bene che si riteneva di dover imporre come diritto autonomo (2003: 78). Stagione tuttavia che ha poi conosciuto un suo declino, i motivi del quale possono forse essere individuati in una certa evanescenza e inconsistenza concettuale, se è vero che per alcuni critici «il diritto all’identità personale ha un contenuto indeterminato e quasi misterioso» (2003: 181), nonostante tutti gli sforzi “creativi” della giurisprudenza e l’esigenza di una definizione inequivocabile. 2. Crepe dell’identità Quando si dice “mi sembra”, vuol dire che non si è del tutto sicuri: vuol dire che qualche dubbio fa capolino. Dopo il breve excursus nella giurisprudenza italiana, riprendiamo il discorso da Parsons, il sociologo americano che aveva definito l’identità come il nucleo acquisito della personalità di un soggetto, garante della sua integrità nel dispiegamento dei suoi molteplici ruoli (dimensione sincronica) e delle diverse fasi della sua storia (dimensione diacronica). Nelle due occasioni in cui si impegna in una definizione formale dell’identità, Parsons si esprime in questo modo: «Ci sembra utile e corretto usare il termine identità...»; «Mi sembra appropriato usare il termine “identità” per designare...» (Parsons 1983: 70, 81). Con questa lieve esitazione Parsons ci fa riflettere su un’importante distinzione tra il

significante (in questo caso il termine identità) e il significato (ciò che vogliamo designare con questo termine), così come ci induce a porre la questione se il significante sia davvero appropriato o adeguato rispetto al significato. È vero, come ci ha insegnato Ferdinand de Saussure, che tra significante e significato vi è un rapporto di arbitrarietà (non dunque un vincolo necessitante, ma un accoppiamento convenzionale), ed è anche vero quanto sostiene Ludwig Wittgenstein, ossia che il significato delle parole dipende dall’uso che se ne fa. Ma in questo caso non abbiamo a che fare con un significante, per così dire, del tutto “libero” o “neutro”: il termine identità contiene dei grumi semantici, di cui nessun uso, per quanto disinvolto, potrà mai liberarci del tutto. Per questo motivo la domanda sull’utilità e sulla correttezza del termine “identità” sembra, a sua volta, “appropriata”. Qualcuno potrebbe obiettare che la parola “atomo”, il cui significato originario è “indivisibile”, si applica ormai a una realtà che si è dimostrata divisibile. Ma possiamo dire la stessa cosa per la parola identità? I significati originari di identità si sono davvero perduti per strada, sostituiti ora da significati del tutto diversi e persino opposti? Proviamo a fare un piccolo esperimento. Prendiamo una definizione “colta” di identità, una definizione fornita da alcuni antropologi. Nel commentare ricerche svolte su “gruppi etnici” e “identità etniche” da esponenti dell’antropologia sociale britannica, Vanessa Maher afferma che tali gruppi o tali identità sono intesi (dagli studiosi) come «entità fluide» (Maher 1994: 22). Ma un’identità può essere fluida? Se è fluida, può ancora essere un’identità? Saussure ci viene in soccorso con il suo principio dell’arbitrarietà del segno. Come i fisici, a furia di studiare l’atomo – un’entità per definizione “indivisibile” –, hanno scoperto che può essere “diviso”, così gli antropologi, a furia di studiare l’identità, hanno scoperto che è un’entità fluida. Ovvero, il significante “identità”, il cui significato originario è dato da stabilità, permanenza, unità, definitività, può essere accoppiato a qualcosa di instabile, mobile, molteplice, fluido. Il significante, come un’etichetta, rimane, ma il suo significato cambia: non è più un’entità fissa, ma è un’entità fluida, proprio come il significante “atomo”, che dapprima (fase A) veicola il significato “indivisibile” e poi – con il progresso della scienza (fase B) – indica un significato quasi opposto, cioè qualcosa che può essere “diviso”.

Progresso della scienza A

B

significante “atomo”

significante “atomo”

significato “entità indivisibile”

significato “entità divisibile”

significante “identità”

significante “identità”

significato “entità fissa”

significato “entità fluida”

Non è male questa idea del progresso della scienza, della fisica o delle scienze naturali in un caso e dell’antropologia culturale o delle scienze sociali in un altro: ci rassicura che il mutamento del significato – da “indivisibile” a “divisibile” e da “stabile” a “fluido” – non è un capriccio culturale (il variare delle culture, delle loro visioni del mondo), ma è determinato da osservazioni, da analisi, da esperimenti, ovvero da metodi scientifici. È la scienza – fisica, chimica; oppure sociologica, antropologica – che ci autorizza a cambiare i significati, mentre i significanti (atomo, identità), come gusci vuoti in attesa di essere riempiti, permangono. È la scienza, è il progresso della scienza, che ci suggerisce di infischiarcene dei significati originari dei nostri significanti: significati vetusti, superati, obsoleti. È ancora la scienza – questa volta la scienza linguistica o la filosofia del linguaggio – che ci tranquillizza sulla fattibilità di questa operazione, cioè della sostituzione di un significato originario con uno opposto (indivisibile/divisibile, fisso/fluido): il nesso tra significato e significante è infatti convenzionale, quindi revocabile, modificabile, sostituibile, in base a tutte le ragioni che ci offre la scienza. Forse le cose stanno proprio così per l’atomo. Ma per l’identità? Nelle faccende umane, le cose al solito si complicano. E ciò per il semplice fatto che, mentre nel caso dell’atomo il set – come si usa dire – è composto soltanto dai fisici o dagli scienziati, da un lato, e da quelle cose che essi appunto chiamano atomi, dall’altro, nel caso dell’identità il set è composto da un lato dagli scienziati sociali (antropologi, sociologi, psicologi) e dall’altro non da entità che essi chiamano identità, ma da “attori” o, più semplicemente, da soggetti umani che intrattengono qualche rapporto con l’identità. Quale rapporto? Si può forse dire che i soggetti umani – siano essi individuali (io) o collettivi (noi) – hanno un’identità e che questa identità è in qualche modo descrivibile da parte degli osservatori e degli scienziati? Si tratta forse di un’identità incorporata nei loro organismi,

stampata nelle loro azioni, nei loro comportamenti, nei loro pensieri? Qual è l’identità dei BaSwagha o quella dei BaTangi (entrambi gruppi dei BaNande del Congo)? Esiste un’identità degli italiani? O non dobbiamo piuttosto parlare di un’identità dei siciliani e dei piemontesi? Oppure, più analiticamente, dei catanesi? E, scendendo ulteriormente, è legittimo parlare dell’identità degli abitanti di Librino (quartiere di Catania)? E che dire di uomini e donne che abitano, appunto, a Librino? Di giovani e di vecchi, e così via... A quale livello analitico dobbiamo fermarci? Ma poi, noi antropologi non avevamo detto che l’identità è “fluida”? Fluido è qualcosa che ti scappa da tutte le parti. È qualcosa di inafferrabile. Dire (scientificamente) che l’identità è fluida non è la stessa cosa che dire che è appunto inafferrabile? Inafferrabile o inesistente? Qui torniamo al discorso del rapporto tra i soggetti umani (io o noi) e l’identità. Forse è più sensato dire non che i soggetti umani hanno un’identità, bensì che certi soggetti umani – individuali e collettivi – in determinate circostanze aspirano ad avere un’identità oppure affermano di avere un’identità. Ovvero, l’identità non appartiene alla sfera di ciò che è dato, di ciò che è osservabile indipendentemente dalle intenzioni dei soggetti; come sostiene Ugo Fabietti, l’identità non è «qualcosa di empiricamente individuabile» (Fabietti 2005: 218). Appartiene invece alla sfera delle intenzioni, delle aspirazioni, delle richieste, delle dichiarazioni o delle asserzioni dei soggetti. Se è osservabile e descrivibile, lo è a quest’ultimo livello. Ma a questo livello – il livello proprio dell’identità – essa è forse pensata come qualcosa di fluido? Quando i soggetti dichiarano di avere una propria identità, essi dicono forse che hanno un’identità fluida? Quando i soggetti aspirano ad avere un’identità, si accontentano forse di qualcosa di mutevole e di sfuggente? Quando i soggetti dichiarano di avere un’identità o aspirano a un’identità, non intendono forse superare (o non pensano forse di avere già superato) la condizione di fluidità? L’identità non esiste al di là delle intenzioni dei soggetti: essa è una rappresentazione mediante la quale i soggetti compiono un passo che li porta oltre la fluidità. L’identità è un espediente ideologico per contrastare tutto ciò che può essere chiamato fluidità, instabilità, precarietà. Non è l’identità a essere fluida; fluida è invece la realtà (individuale o collettiva, naturale o sociale) contro cui l’identità, o meglio i soggetti che la invocano o la brandiscono, combattono le loro battaglie e affermano le loro pretese di

stabilità. Dire che l’identità è fluida è una grave confusione concettuale: fluida è la realtà che l’ideologia identitaria vuole negare e contrastare. Ovviamente si capisce l’intenzione che è alla base della tesi “l’identità è fluida”: ovvero si vuole trasmettere l’idea che, nonostante le rigidità identitarie, la realtà è pur sempre mutevole e cangiante e che di fatto gli stessi individui o gruppi mutano abbastanza facilmente le loro appartenenze o le loro asserzioni. In effetti occorre davvero tenere separati il piano dei comportamenti reali, il piano di come i soggetti si comportano, il piano della praxis (come avrebbero detto i marxisti alcuni decenni or sono) e quello dell’ideologia e delle rappresentazioni, ossia il piano di ciò che i soggetti dicono, pensano, dichiarano di fare. Dire che “l’identità è fluida” è davvero un modo per confondere il piano dell’azione e quello dell’ideologia, il piano del comportamento e quello delle rappresentazioni. Non solo, ma così facendo si apre – anche se involontariamente – la strada alle reificazioni concettuali: dire che “l’identità è fluida” è trasferire l’identità sul piano dei soggetti, farla passare come un’entità, di cui appunto si dice che è fluida. Quante volte, in effetti, si parla di identità che si pongono «in relazione ad [...] altre identità» (Maher 1994: 22), si scontrano, entrano in conflitto, come se davvero esse fossero soggetti che agiscono, anziché modi in cui i soggetti rappresentano sé stessi e gli altri e orientano le loro azioni e i loro comportamenti. Porre esplicitamente l’identità sul piano delle rappresentazioni e delle ideologie apre la strada invece alla considerazione di ciò che l’identità non è, ovvero di ciò che con l’identità si vuole camuffare. Questa operazione solleva dubbi sulla stessa identità, non già sul suo ruolo “finzionale” (che svolge assai bene), ma su ciò che l’identità vuole fare passare: a proposito dell’identità sarebbe bene dunque attivare una filosofia del “sospetto”, i cui maestri – secondo Paul Ricoeur (1967) – sarebbero Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud. Se l’identità trasmette l’idea della stabilità, dell’integrità e della definibilità del soggetto, forse è proprio perché la realtà del soggetto è tutt’altra; e se il soggetto individuale o collettivo ricorre a questa idea, apparentemente inscalfibile, di unità e di coerenza, forse è perché non sopporta tanto di essere una realtà fluida, oppure non ha strumenti adeguati per fare fronte e per governare questa stessa fluidità. Jean Claude Ameisen, medico immunologo, il quale pure salva e utilizza in alcune pagine il concetto di «identità individuale» (Ameisen

2001: 37-40), ci offre un quadro impressionante del mutamento continuo a cui il nostro corpo è sottoposto a causa della morte cellulare. Il nostro corpo – egli afferma – è una realtà composita ed eterogenea, fatta di «cellule effimere, che nascono, muoiono e rinascono continuamente, e di cellule più durature che persistono in noi settimane, mesi, anni, decenni e in qualche caso, forse, per l’intero arco dell’esistenza» (2001: 102). Dunque, come diceva Eraclito (evocato da Ameisen), noi stessi «siamo un fiume», in mezzo al quale «ci sono isole immobili, che persistono per un certo tempo in noi». A un’indagine più serrata, queste stesse isole si rivelano tuttavia «essere della stessa natura del fiume che scorre lungo le loro rive» (2001: 109). Non solo, ma riflettendo sulla natura delle cellule che compongono in modo così dinamico il nostro organismo, Ameisen ci propone un tema su cui avremo modo di tornare in diversi altri punti di questo libro (in particolare, nei capp. VI e VII): «ogni cellula – afferma infatti il biologo francese – è un essere simbiotico in cui coesistono e interagiscono in permanenza componenti straniere» (2001: 262, c.m.). La vita della cellula è dovuta esattamente a questa sorta di simbiosi, mentre la morte della cellula – la sua autodistruzione – sarebbe da addebitare alla «rottura di una serie di associazioni simbiotiche». 3. L’affiorare della somiglianza e il “come se” dell’identità Molteplicità ed eterogeneità da un lato, flusso e mutamento continuo dall’altro, sembrano essere gli aspetti della realtà dei soggetti che l’identità vorrebbe celare, o quanto meno ridurre. Se ora dalle cellule che compongono l’organismo passiamo all’organo che per la sua complessità maggiormente qualifica l’essere umano, è facile constatare come l’idea dell’identità sia davvero fuori luogo. Dopo anni di studi e di esperimenti nel campo della neurobiologia, in un libro di alcuni anni fa Lamberto Maffei è giunto a sostenere che «la stessa persona a età diverse ha un cervello diverso, sia funzionalmente che strutturalmente», in quanto «sono diverse le sue esperienze e quindi la sua memoria, le sue emozioni e quindi il suo lobo limbico, le sue attività intellettuali e quindi la sua neocorteccia» (Maffei 2011: 35). È vero che «ogni cervello è un prodotto unico, irripetibile, tanto sotto l’aspetto del corredo genico, quanto sotto l’aspetto fenotipico»: persino due gemelli

monovulari finiscono per manifestare differenze, oltre che somiglianze, a causa delle loro esperienze diverse nell’ambiente intrauterino e poi nel mondo esterno (2011: 135). Ma l’irripetibilità, di cui parla Maffei, non è la stessa cosa che l’identità; l’irripetibilità si combina invece tanto con il mutamento incessante nel corso del tempo, quanto con la molteplicità che ci caratterizza a ogni istante dato. Noi «non siamo un solo individuo ma numerosi, infiniti individui, uno accanto all’altro, e tutti insieme si chiamano “la nostra vita”» (2011: 35). Eppure, «noi [...] siamo così attaccati alla nostra persona che giureremmo di essere entità stabili» (2011: 36): giureremmo – potremmo aggiungere – di essere sempre lo stesso individuo, dotato della sua inscalfibile identità. Maffei sostiene che ognuno di noi non è un individuo, ma la somma di tanti individui. Forse qui, a proposito di individuo, potremmo provvedere a una modifica terminologica che non è stata compiuta a proposito di “atomo”. Come si ricorderà, atomo in origine voleva dire “indivisibile”, un’entità unica, compatta, che non può essere suddivisa. Ma atomo indica ora – almeno nel linguaggio scientifico – una realtà che, al contrario, può essere divisa e che accoglie in sé la molteplicità. Similmente, noi continuiamo a usare “individuo” per indicare gli esseri umani e le loro persone, persino quando – come nel caso della frase sopra citata di Maffei – riconosciamo che in noi c’è flusso, mutabilità e molteplicità. L’espediente a cui ricorre Maffei è quello di moltiplicare gli individui in ciascuno di noi. Ed è lo stesso espediente a cui ricorre Amartya Sen a proposito dell’identità, quando afferma che ciascuno di noi è portatore non di una, ma di molte identità (Sen 2006). Ma in riferimento all’individuo è importante registrare una proposta terminologica, nata dall’esigenza di adeguare il significante a un nuovo significato. La proposta viene dall’antropologia culturale, la quale nello studiare i diversi modi di intendere la persona – specialmente in alcune culture dell’India e della Nuova Guinea – ha pensato di utilizzare il termine dividuo, anziché individuo (Remotti 2009: 333-334; Capello 2016: cap. II). Secondo queste culture, l’essere umano è infatti strutturalmente relazionale e quindi “composto” dalle molteplici relazioni e dalle diverse esperienze che entrano nella sua vita. Riprenderemo in esame il concetto di dividuo nei capitoli VI e VII, dove però si farà un passo ulteriore e decisivo per questa nostra ricerca

fondata sulle somiglianze: non più soltanto dall’individuo al dividuo, bensì dal dividuo al condividuo. Ciò che qui vogliamo sostenere è che la dividualità può prospettarsi come un concetto verso cui convergono non soltanto società per noi alquanto strane ed esotiche, ma anche tendenze e modi di pensare gli esseri umani che troviamo in diversi momenti sia delle scienze contemporanee, sia della filosofia, sia della letteratura. Dividualità vuol dire in primo luogo molteplicità nell’io: essa è la negazione più esplicita della individua substantia con cui Severino Boezio e Tommaso d’Aquino intendevano la persona umana. Dividualità significa che «il soggetto è molti» e che la divisibilità dell’io «non è una malattia» (Bencivenga 1992: 76, 78). Dividualità significa che l’io in realtà è un “noi”, una “società” (come direbbero Marvin Minsky e Douglas Hofstadter), una città (secondo l’immagine di Blaise Pascal), una “repubblica” (come sosteneva David Hume), la quale non solo vede mutare continuamente la sua popolazione, ma – forse più lentamente – anche le sue leggi e persino la sua costituzione (Remotti 2010: 51 sgg.). Secondo Ermanno Bencivenga, «il soggetto è non un individuo ma piuttosto una comunità», e per giunta non una comunità endogena, essendo essa costituita da «pezzi che vengono da fuori», da «altri presumibili aggregati di diversità» (Bencivenga 1992: 93, 94, 89). Data questa molteplicità ed eterogeneità, molti dubbi nascono sull’impiego del concetto di identità: potremmo quindi dire che il soggetto è un aggregato di diversità e di somiglianze. E la somiglianza, o meglio il dosaggio di somiglianze e di differenze, ritorna allorché Hume pone in luce come tra i diversi momenti dell’io non c’è affatto un rapporto di identità, ma semmai di somiglianza. Rimandiamo al capitolo VI l’approfondimento di questo punto, là dove esamineremo la somiglianza nell’io con l’aiuto sia di Hume, sia di Diotima, la sacerdotessa a cui Platone dà la parola nel Simposio. Proprio Diotima ci fa capire che l’identità è una prerogativa soltanto divina, mentre umano, molto umano, è desiderare la stabilità contro la mutevolezza, così come provvedere a una certa coerenza per porre rimedio alla molteplicità e all’eterogeneità. L’identità è una risposta a questa duplice esigenza, ma una risposta per così dire “eccessiva”: fa passare per realtà ciò che invece è soltanto un’aspirazione. Anche sul piano giuridico occorre riconoscere che l’identità è soltanto

una finzione. Tra il soggetto di oggi e il soggetto di ieri c’è in realtà un rapporto di mera somiglianza: il senso di identità si ottiene provvedendo a eliminare (mentalmente, burocraticamente, ufficialmente, ovvero mediante una convenzione o una finzione) le differenze tra le varie condizioni esistenziali di una persona. L’importante è rendersi conto che si tratta di un’operazione di selezione, cioè di un intervento che incide sulla complessità del reale, riducendone drasticamente le dimensioni: negare il “divenire” (il flusso) per istituire – in maniera “finzionale” – un “essere”, a cui si possano imputare azioni compiute in un altro tempo, lo stesso essere che oggi viene indagato o a cui si addebitano determinati fatti o a cui si riconoscono determinati diritti. Qui non si pone in discussione la funzionalità e persino la ragionevolezza di questa operazione. L’importante è però che si riconosca la funzionalità giuridica di questa nostra finzione. Il diritto è luogo – come si sa – di finzioni: tra le varie finzioni che si ritengono funzionali al nostro sistema giuridico vi è anche quella dell’identità. Come avremo modo di argomentare meglio nei capitoli VI e VII, l’io è un grumo mobile e instabile di somiglianze e di differenze. Sotto il profilo giuridico, l’identità individuale, a cui questo grumo viene “ridotto”, non è altro che una finzione per poter amministrare nel tempo la giustizia. Per usare un’espressione ricorrente in Immanuel Kant, e poi resa famosa dal filosofo neokantiano Hans Vaihinger, potremmo dire che l’identità, in quanto finzione, è semplicemente un “come se” (als ob): essa potrebbe rientrare assai bene nelle «finzioni giuridiche» e nelle «finzioni personificative» di cui tratta nel suo libro (Vaihinger 1967: 44-49). Ciò che Kant, a questo proposito, ci ha insegnato è il diverso uso del “come se”, ovvero delle nostre finzioni: un uso costitutivo e un uso regolativo. Noi “fingiamo” – secondo Kant – l’esistenza di un “io” come sostanza semplice (non divisibile) e dotata di identità (cioè di unità e di permanenza nel tempo), anche se un io siffatto non può «esser dato in alcuna esperienza» (Kant 1967: 333, 338). Noi non facciamo esperienza di un io fornito di questa identità: «la permanenza dell’anima» come sostanza semplice «rimane indimostrata, anzi indimostrabile»; se si volesse dimostrare ciò, ci si perderebbe «in una pretesa illusoria» (1967: 341, 347). Tuttavia, per Kant occorre riconoscere che «l’umana ragione ha in sé una spinta naturale a varcare» i limiti dell’esperienza e a dare luogo quindi a

«idee trascendentali» (1967: 508). È visibile il dibattersi di Kant. Da una parte egli afferma che tali idee, come quella appunto dell’identità dell’io, consistono in una illusione, in una «mera parvenza [Schein]», tale da produrre un «inganno». Dall’altra, al riconoscimento che si tratta di una «spinta naturale» si accompagna l’affermazione che questa «mera parvenza» è «tuttavia irresistibile» e che l’inganno da essa generato «può venir a stento rimosso con la critica più penetrante». L’identità dell’io è dunque una finzione, un’idea costruita dalla ragione; ma, oltre che esservi una spinta naturale in tutto ciò, Kant afferma che «la legge della ragione che ci conduce a cercare l’unità», ovvero l’identità dell’io, è una legge «necessaria», di cui non si può fare a meno (1967: 513). Kant è chiaramente in bilico: l’identità dell’io è il prodotto di una legge naturale e razionale, e tuttavia questa finzione rischia di tramutarsi in un inganno, per salvarsi dal quale c’è bisogno di una critica penetrante. L’inganno coinciderebbe per Kant nell’«uso costitutivo» dell’idea dell’identità dell’io, quello per il quale si riterrebbe l’identità un attributo reale dell’io (1967: 509). Ci si sottrae invece all’inganno e a questa «illusione» soltanto ricorrendo a un «uso regolativo», secondo il quale l’idea dell’identità e dell’unità dell’io viene a configurarsi appunto null’altro che come un’idea, come un «focus imaginarius», così da conferire ai concetti «la massima unità ed estensione possibile». Se non si facesse ricorso a questa idea unitaria, la nostra conoscenza dell’io si sbriciolerebbe in un insieme disarticolato. Certo, si tratta di una «unità» soltanto «proiettata», e «da non assumersi come data», da interpretare cioè come «regola» per «introdurre la massima unità possibile nelle conoscenze particolari»; proprio in questo l’uso regolativo si rivela «vantaggioso e imprescindibile» (1967: 511, 509). Kant offre dunque un salvagente a tutti coloro che ritengono l’identità un’idea o una dimensione necessaria e inevitabile: per non finire vittime di un’illusione e di un inganno, occorre fare accompagnare al principio della sua necessità il riconoscimento che essa è soltanto una “proiezione”, una “approssimazione”, un’unità «solo ipotetica», un progetto a cui «tener dietro per così dire asintoticamente» (Kant 1967: 511, 512, 520). Può essere significativo ricordare che Claude Lévi-Strauss aveva proprio inteso in questo modo, rigorosamente kantiano, l’identità: non una sostanza, bensì «un fuoco virtuale [foyer virtuel]», privo di qualunque esistenza reale,

«un limite cui non corrisponde in realtà alcuna esperienza» (Lévi-Strauss 1980: 310-311, trad. modificata). Ci sono alcune domande che premono a questo punto. Per Kant – e per i kantiani, consapevoli o meno che siano – l’identità è una finzione, e per giunta una finzione inevitabile. Kant fa però intravedere un bivio: si può cadere vittima dell’illusione e dell’inganno dell’identità, se la si intende come corrispondente a qualcosa di reale, a una sostanza semplice, indivisibile, permanente (uso costitutivo); oppure ci si può salvare da questa trappola, se invece si riconosce il suo carattere meramente ipotetico e finzionale, per quanto inevitabile e necessario esso sia (uso regolativo). La prima domanda è allora: cosa succede, se si cade nella trappola dell’illusione? Quali sono le conseguenze dell’inganno identitario? Cercheremo di far vedere gli effetti tragici degli inganni identitari nei paragrafi successivi, partendo dal presupposto che tali trappole non sono innocue: esse determinano effetti che spesso sfuggono al controllo delle persone, delle società, delle istituzioni. La seconda questione è la seguente: visto che per Kant l’uso costitutivo dell’idea di identità è un atteggiamento naturale (la «spinta naturale a varcare i limiti» per immaginare un’entità unitaria), e visto che il passaggio dall’uso costitutivo all’uso regolativo richiede un grande sforzo intellettuale, un aumento di consapevolezza e una capacità di controllo non da poco (solo «con la critica più penetrante» si può rimuovere l’«inganno»), è legittimo chiedersi di chi sia appannaggio l’uso regolativo: dei filosofi, degli scienziati sociali, in genere degli intellettuali, o anche della gente comune, delle comunità e delle società nel loro insieme? Ma la domanda di fondo, il bivio principale, è ancora un’altra: la finzione dell’identità è davvero inevitabile, oppure si può pensare che non solo gli “io” ma anche i “noi” possano farne a meno? Le alternative sono dunque le seguenti: A) IDENTITÀ NECESSARIA A1) uso costitutivo A2) uso regolativo B) IDENTITÀ NON-NECESSARIA.

Nel primo capitolo di questo libro – in linea del resto con quanto già argomentato altrove (Remotti 2010) – abbiamo sostenuto che possiamo vantaggiosamente fare a meno dell’identità; che possiamo liberarci da questo mito pernicioso; che possiamo uscire dunque dalla caverna in cui

non per natura, ma per cultura e per storia, ci siamo infilati. Si tratta ora di capire un po’ meglio come si possa farne a meno. Sarà la “somiglianza” a dare contenuto e fondamento alla soluzione B. 4. I guasti dell’identità (nel suo uso costitutivo) Da questo punto in avanti prenderemo in considerazione l’identità dei soggetti collettivi, dei “noi”, anche perché i guasti delle loro finzioni identitarie sono assai più palesi e vistosi sul piano storico. Guasti? Davvero l’identità produce dei guasti? Come fa a produrne? In fondo, l’identità è la risposta a bisogni ed esigenze reali. Se è vero che i soggetti – persino i soggetti “in/dividuali” – sono dominati dalla molteplicità e dall’eterogeneità, nonché dal flusso e dal mutamento, è inevitabile pensare che essi avvertano l’esigenza di porre rimedio a questi fattori di disgregazione. Come abbiamo già visto all’inizio di questo capitolo (§ 1), sul piano sincronico si tratta di un’esigenza di coerenza, mentre sul piano diacronico si avverte il bisogno di continuità. Ma a questi bisogni si può rispondere in maniera graduata, decidendo di volta in volta quanta coerenza e quanta continuità siano necessarie (Remotti 2010: XXII). Sotto questo profilo, l’identità – specialmente nel suo uso costitutivo (non critico, non sorvegliato) – è una iper-risposta, una risposta eccessiva, che va al di là delle reali esigenze e delle effettive disponibilità umane: ricorrere all’identità è un non accontentarsi di quel un po’ di coerenza e di continuità di cui i soggetti hanno effettivamente bisogno e che sono in grado di raggiungere (cap. I). L’identità va decisamente oltre gli sforzi di coerentizzazione e di stabilizzazione e assicura che tali processi sono stati portati a compimento. Ma, così facendo, va oltre la realtà: l’identità crea un’illusione di raggiunta compattezza, solidità, integrità, permanenza, e la pone al posto dei progetti e degli sforzi che invece vanno in direzione di un po’ di coerenza e di continuità. Nel suo uso costitutivo, l’identità è una finzione che si ammanta di realtà, dando l’impressione di una realtà già acquisita e consolidata. Altrove abbiamo detto che identità «è una parola avvelenata» e il motivo di questa tossicità – ben celata dalla sua nitidezza, bellezza, dignità concettuale – consiste nel fatto che essa «promette ciò che non c’è» (Remotti 2010: XI-XII). I guai probabilmente cominciano da qui, da questa finzione

non riconosciuta come tale. Sono questi gli effetti dell’uso costitutivo. Proviamo ora a farne un elenco. 1) Proprio perché l’identità trasferisce i soggetti al di là delle loro effettive esigenze, disponibilità e capacità, essa li distoglie dalla considerazione virtuosa di quel un po’ di coerenza e di continuità, ossia dalla considerazione e dalla valorizzazione di un certo grado anche di incoerenza e di discontinuità. I soggetti hanno infatti bisogno sia di coerenza che di incoerenza, sia di continuità che di discontinuità, sia di ordine che di disordine, sia di omogeneità che di eterogeneità. I termini indicati negativamente (incoerenza, discontinuità ecc.) non sono affatto disvalori; sono invece valori che impediscono un’eccessiva chiusura e staticità dei soggetti, assicurando al contrario apertura, flessibilità, elasticità, disponibilità al mutamento, persino progettualità e creatività. 2) In quanto finzione (e finzione totalizzante), l’identità da un lato impedisce di scorgere la molteplicità, e anzi il groviglio di somiglianze e di differenze che è in noi, e dall’altro elimina i rapporti di somiglianza/differenza che legano i noi agli altri. Da un lato trasforma illusoriamente i soggetti (i noi) in entità piene, compatte, compiute, dall’altro trasforma la rete delle relazioni intersoggettive in un vero e proprio deserto, in uno spazio in cui si profila un unico tipo di relazione, ovvero la relazione che oppone noi agli altri. Così facendo, gli altri non sono più nostri “simili”, in quanto incarnano semplicemente e soltanto l’alterità, un concetto di per sé negativo (essendo ciò che si oppone all’identità), un disvalore rispetto al valore dell’identità. Nella simbologia della logica classica, la logica che ha assunto l’identità come principio fondamentale e originario (A = A), l’alterità è infatti indicata da un non, da un segno negativo (A ≠ non-A). Se proviamo a tradurre questa procedura logica in una procedura socio-logica, ci rendiamo conto della enorme violenza che questa riduzione comporta. Tutto il mondo viene semplicemente suddiviso tra la categoria iper-positiva dell’identità e quella iper-negativa dell’alterità. 3) Sul piano socio-logico i guasti cominciano così a rendersi evidenti. Eliminati i rapporti di somiglianza (rapporti di mediazione e finanche di complicità), ridotti gli altri a essere null’altro che alterità, gli altri si configurano inevitabilmente come pericolo. Gli altri “alterano”. Il senso del loro esistere non è altro che un minaccioso rischio di alterazione, tanto

più avvertito quanto più finzionale e illusoria è l’assicurazione della pienezza e della completezza del noi: ovvero, quanto più si esalta la propria identità, tanto più gli altri, con la loro semplice presenza, costituiscono una minaccia. Per converso, dichiarazioni tenui di identità abbassano il pericolo di alterazione rappresentato dagli altri. 4) C’è dunque una gradualità nella rappresentazione della propria identità, ma è bene tenere presente fin da subito che in questo mondo rappresentazionale e ideologico gli slittamenti da una posizione all’altra sono di estrema facilità e gli aggravamenti possono essere prodotti persino da parole apparentemente innocue. Una di queste parole che possono accompagnarsi facilmente alle rivendicazioni identitarie è “purezza”, ed è grazie a questa parola così seduttiva che passano i guasti più terribili dell’identità. Contro i pericoli dell’alterazione, la purezza diventa la parola d’ordine in difesa dell’integrità del noi e di ciò che si ritiene essere la sostanza o il nucleo della sua identità, ovvero ciò che si pensa faccia essere il noi quello che è. 5) Allorché l’identità si ammanta di purezza, è prevedibile un arroccamento rispetto all’alterità e ai pericoli dell’alterazione. In questo caso i guasti dell’identità sono prodotti dalle politiche di chiusura e si traducono nei danni che la chiusura provoca sullo stesso noi, privandolo di strumenti e prospettive che gli consentano di affrontare il futuro. Si tratta di danni che provengono dal fatto di vedere negli altri non già risorse, ma problemi, privandosi quindi della ricchezza che la diversità potrebbe offrire sul piano culturale, sociale, demografico, economico e politico. Danni per il noi e tragedie per gli altri, allorché le barriere erette in difesa del noi, del proprio territorio, trasformano per esempio il Mediterraneo in un cimitero collettivo e anonimo in cui gli “altri” – non importa chi siano e da dove giungano – affogano senza che la coscienza del noi abbia un sussulto (Remotti 2011c). Danni e tragedie anche per il noi, allorquando un’identità eretta a difesa del noi non viene riconosciuta, seguita o difesa da tutti i membri del noi. Nel Rwanda del 1993 la Radio Télévision Libre des Milles Collines, che ebbe un’enorme importanza nel fomentare ed esacerbare l’odio degli Hutu contro i Tutsi, trasmetteva con grande successo una canzone della pop star Simon Bikindi (un Hutu), dal titolo Odio questi Hutu. E chi erano questi Hutu da odiare? Odio questi Hutu, questi Hutu arroganti, sbruffoni, che disprezzano gli altri Hutu, cari

compagni... Odio questi Hutu, questi Hutu non più Hutu, che hanno rinnegato la loro identità, cari compagni... (Gourevitch 2000: 103).

6) Guasti più vistosi e drammatici si producono allorché i noi non si limitano a un ripiegamento su sé stessi, non si accontentano di utilizzare l’identità per definire sé stessi o la propria cultura, bensì proiettano l’identità nell’alterità. In questo caso, per i noi non è più sufficiente istituire la categoria generica dell’alterità, in quanto essi provvedono a ritagliare nell’alterità categorie più specifiche. Si tratta – come è evidente – di un passaggio ulteriore, nel quale l’identità non è più un espediente per difendersi, un bastione dietro cui arroccarsi, ma si configura come un mezzo tagliente per individuare nella massa dell’alterità i propri nemici. Da argomento di difesa o di autodifesa l’identità diviene così un’arma di offesa. Le maggiori tragedie di cui la storia del Novecento si è macchiata (il nazismo, gli eccidi della ex Jugoslavia, il conflitto Hutu/Tutsi nell’Africa dei Grandi Laghi, per citarne solo alcune) si sono verificate infatti con quest’applicazione rigorosa dell’identità non più soltanto a sé stessi, ma anche agli altri. E, beninteso, tragedie simili insanguinano anche il nuovo secolo, e capitano persino sotto i nostri occhi, nelle nostre stesse città. Esempio di tragedia sfiorata: Torino, 10 dicembre 2011. I giornali riportano la seguente notizia: una ragazza di 16 anni sostiene di essere stata violentata da due Rom l’8 dicembre (per i cattolici giorno dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria) e di avere così perso la verginità. Nel quartiere in cui vive (Le Vallette) la voce corre di casa in casa e la sera del 10 dicembre si organizza una fiaccolata, a cui partecipano circa 500 persone. In testa al corteo due striscioni, uno dei quali è di sostegno alla ragazza («Piccola non mollare»), mentre l’altro dice: «No al razzismo, sì alla giustizia» (Peggio 2011: 20). Il corteo si dirige verso La Continassa, una cascina in gran parte diroccata, dove aveva trovato riparo un gruppo di Rom. Durante il giorno nel quartiere si ripete: «Qui non siamo razzisti», ma nel frattempo si fa circolare un volantino su cui è scritto: «Adesso basta. Ripuliamo la Continassa» (Coccorese e Peggio 2011: 61). Nel pomeriggio circolano ordini di questo genere: «Donne e bambini a casa. Si va alla Continassa a cacciare gli zingari. Bruciamo tutto». Nel corteo, formato da giovani e da intere famiglie, tra cui donne indignate che urlano «A morte»,

si notano giovani incappucciati che brandiscono spranghe, bastoni, bottiglie, sassi, e si sentono frasi del tipo: «Li dobbiamo ammazzare, perché sono dei bastardi» (Longhin 2011: 19). Il corteo incrocia un Rom, il quale riesce a sfuggire alla rabbia degli assalitori: «Bastardo, devi morire. Vieni qua che ti diamo fuoco». Quando il corteo giunge nei pressi della Continassa, un gruppo dà l’assalto alle baracche, che vengono incendiate. Si sentono grida del tipo: «Dove siete? Venite fuori schifosi!». Qualcuno domanda: «Ma se ci sono dei bambini?», e la risposta di un ragazzo è: «E che problema c’è? Bruciamo anche loro». Il cronista annota: «Fuori dalla cascina si intonano cori da stadio: “Sì, bruciateli”». Le forze dell’ordine avevano fatto sgombrare La Continassa. Non ci sono stati né morti né feriti. Poco dopo la folla si è dispersa. Proprio nelle ore di quegli eventi – una sorta di pogrom – la ragazza confessa di non essere stata violentata: né dai Rom, né da altri. Da quanto riportano i giornali, si intuisce che la ragazza aveva voluto coprire con una “innocente” bugia la perdita della propria verginità in un rapporto consensuale: verginità, un valore a cui la famiglia teneva in modo particolare. Per dovere di cronaca, aggiungiamo che per l’incendio della Continassa vi è stato un processo presso il Tribunale di Torino: sono state inflitte sette condanne, fra i tre e i sei anni e mezzo di reclusione, e nelle motivazioni non soltanto si evoca un «atavico e mai sopito odio etnico nei confronti degli “zingari”», ma si sottolinea come questo abbia «fatto sì che normali cittadini ponessero in essere atti di disumana violenza» (Italiano 2015: 52, c.m.). Nella bugia raccontata dalla ragazza si intravede nitidamente l’identità dei Rom: un’identità costruita e appioppata loro. A quanto pare, la ragazza aveva affermato: «Erano in due. Mi hanno preso alle spalle e trascinata tra i cespugli. Avevano una puzza terribile» (Coccorese e Peggio 2011: 61). Nella cultura a cui appartiene e in cui è cresciuta, la ragazza ha trovato a disposizione un’identità verso cui dirigere le sue accuse: chi più dei Rom può essere accusato di stupro? I Rom o gli zingari in generale sono infatti dei “bastardi” – come gridano i suoi coetanei di quartiere –, gente che prende proditoriamente alle spalle e che usa violenza. Per rendere ancora più credibile l’utilizzo della categoria identitaria “rom”, aggiunge il dettaglio della “puzza terribile”. Il fratello, che in un primo tempo aiuta la giovane nella costruzione della bugia, sostiene inoltre di avere intravisto i due e che uno di essi aveva sul volto «una grossa cicatrice». Una categoria

identitaria già pronta, che i due fratelli rendono più vivida, incisiva e credibile, con i particolari di cui si è detto. Una categoria disponibile, di uso immediato, se è vero che anche il quotidiano «La Stampa» il 10 dicembre 2011 usa questo titolo per raccontare lo “stupro” delle Vallette: Mette in fuga i due rom che violentano sua sorella. In un trafiletto di autocritica e di scusa, Guido Tiberga scrive: Un titolo che non lasciava spazio ad altre possibilità... Probabilmente non avremmo mai scritto: mette in fuga due “torinesi”, due “astigiani”, due “romani”, due “finlandesi”. Ma sui “rom” siamo scivolati in un titolo razzista. Senza volerlo, certo, ma pur sempre razzista (Tiberga 2011: 61).

È assai rivelatrice l’ammissione “siamo scivolati”, perché sta a significare che la categoria “rom”, fornita della sua identità, è lì pronta ad essere usata per individuare il nemico, per riconoscere mentalmente – prima che fisicamente – coloro che ci arrecano del male, che violano la purezza delle nostre ragazze, che rubano i nostri bambini e così via. Anche i giovani che hanno organizzato il corteo delle Vallette non hanno fatto altro che utilizzare questa categoria identitaria. Giustamente essi dicono “non siamo razzisti”, perché la categoria identitaria è più subdola: non coincide necessariamente con una razza, ma individua nell’alterità – un’alterità privata di somiglianze con noi – la categoria dei propri nemici. Nel suo commento a caldo, Chiara Saraceno (2011: 19) intravede proprio nel rivolgersi alla categoria rom la dinamica del pogrom. I giovani delle Vallette non intendevano nemmeno ricercare i colpevoli e punirli con le loro mani: «come già era successo altre volte, in altre città, bastava punire tutti gli abitanti del campo per il solo fatto di essere zingari, di esistere e di essere lì» (c.m.). La creazione di una identità “altrui” – in questo caso, lo zingaro come «colpevole per antonomasia di ogni nefandezza nell’immaginario collettivo» – si traduce in una «reificazione del gruppo come altro e come nemico da distruggere». Prima di Kant, nel Settecento David Hume sosteneva che l’identità è sempre fittizia e finzionale, in quanto è opera dell’immaginazione. Hume si riferiva, beninteso, all’identità personale, quella che ognuno di noi costruisce per sé stesso; ma che l’identità – anche, e forse ancor più, l’identità costruita per gli “altri” – sia una questione di finzione è comprovato dall’episodio torinese su cui ci siamo soffermati. Probabilmente si tratta di un episodio ormai scomparso dalla memoria degli eventuali lettori di questo libro. Tuttavia, nella sua dinamica interna, esso non può non richiamare – come ricorda

opportunamente Saraceno – «i pogrom contro gli ebrei un tempo non lontano, i linciaggi e gli incendi contro i neri nel Sud degli Stati Uniti». Per rimanere tra gli zingari, non si può non ricordare il porrajmos – il “grande divoramento”, in lingua romaní –, ovvero la soluzione finale a cui i nazisti volevano destinare anche gli zingari, insieme agli ebrei e agli omosessuali. Tempi lontani? L’episodio del 2011 a Torino suona come un angoscioso campanello d’allarme, a cui si può aggiungere una testimonianza semplicemente agghiacciante. Alcuni anni fa, a tavola tra amici, una ragazza di famiglia perbene, studentessa di 17 anni, parlando degli zingari, a cui chi scrive aveva dedicato le sue prime ricerche etnografiche, ebbe a dire con assoluto candore e innocenza, persino senza parvenza di odio e di cattiveria: «gli zingari, bisogna farli fuori tutti». La categoria identitaria del nemico, privato di ogni somiglianza, dunque da sopprimere, è davvero lì, pronta, già confezionata, tanto da affiorare nelle parole senza malizia e senza inganno di una diciassettenne del tutto normale in una tranquilla serata in pizzeria. Uso costitutivo di una “finzione” innocente e terribile, di un’identità attribuita agli altri: con le conseguenze che, per logica e senza turbamento emotivo e morale, ne derivano2. 5. Identità e coesistenza (uso regolativo) Per illustrare ulteriormente i guasti dell’identità – soprattutto dell’identità costruita e gettata addosso agli altri – ci possiamo avvalere delle analisi che Martha Nussbaum ha dedicato a un episodio verificatosi in India, nello Stato del Gujarat, a partire dal 27 febbraio 2002. Ci limitiamo qui ad alcuni accenni. Quel giorno, nella stazione di Godhra, un treno, carico di pellegrini induisti che provenivano da Ayodhya, prese fuoco e morirono 58 persone. Gli induisti addossarono la colpa ai musulmani. «Nei giorni che seguirono, ondate su ondate di violenza devastarono il Gujarat» (Nussbaum 2009: 50). Al grido di «ammazza, distruggi!», «sgozza», più di 2.000 musulmani furono ammazzati nel giro di pochi giorni, molti bruciati vivi nelle loro abitazioni o per strada. Nessuno fu risparmiato: i bambini vennero bruciati insieme alle loro famiglie. Particolarmente efferati furono gli stupri di massa e le mutilazioni delle donne. [...]

Durante le violenze furono rase al suolo molte aree musulmane di città e villaggi, in zone dello stato lontanissime dal luogo dell’incendio ferroviario (Nussbaum 2009: 51).

È bene tenere presente che i pellegrini induisti provenivano da Ayodhya, dove si ritiene che sia nato il dio Rama e dove da diversi decenni si concentra il sentimento anti-musulmano degli induisti. Proprio qui, nel 1992, una folla di induisti distrusse con le proprie mani la moschea di Babri, risalente al XVI secolo, sostenendo che essa sorgeva sulle rovine di un precedente tempio induista (Nussbaum 2009: 47). Agli occhi di Nussbaum l’episodio del 2002 sembra però segnalare un’ulteriore intensificazione di crudeltà ed efferatezza. Persino induisti di casta inferiore parteciparono alle violenze contro musulmani altrettanto poveri: la religione prende il sopravvento sulle differenze di casta e di classe. Secondo Nussbaum, «la violenza fu indirizzata contro tutti i musulmani in quanto tali [...], come se fossero un pericoloso nemico interno»; essi «furono colpiti non per una loro supposta complicità negli avvenimenti di Godhra, ma semplicemente perché erano musulmani» (2009: 52, 80, c.m.). È con la costruzione di questa categoria identitaria (il musulmano come nemico interno) che prende piede – secondo l’analisi di Nussbaum – «un accurato piano di sterminio totale» da parte della destra induista, un piano che richiama in maniera per noi inquietante «le idee di pulizia etnica e di genocidio» (2009: 52). Rinviamo al libro di Martha Nussbaum per un approfondimento degli avvenimenti del febbraio 2002, dei loro presupposti, implicazioni, significati rientranti in una logica di identità in contrapposizione. Qui vogliamo segnalare almeno un tema: la compresenza di musulmani e induisti in India non è un fenomeno recente; recente è invece la violenza che caratterizza tale compresenza. Il che significa che la differenza di religioni non costituisce di per sé motivo di scontri e desiderio di annientamento dell’altro. Nussbaum non indulge affatto nella delineazione di un passato armonioso: troppo scoperta è l’operazione ideologica degli induisti, che accreditano a sé la pace e l’armonia, mentre addebitano ai musulmani la rottura della pace e la violenza religiosa. Il quadro di una società induista immutabile e unitaria è falso; diversità, polimorfismo e cambiamento sono caratteristiche di tutte le religioni autentiche, e della religione induista forse più delle altre (Nussbaum 2009: 302).

Non solo, ma uno storico onesto non potrà sottrarsi all’obbligo di mettere in luce «le tensioni e i conflitti interni di ogni cultura» (2009: 345-

346). E tuttavia sembra difficile trovare nel passato della compresenza in India di induisti e di musulmani un’esacerbazione dell’odio e una volontà di fare fuori l’altro quali si riscontrano nella società attuale. L’immagine che scaturisce dalle ricerche storiche più serie è quella di una «eterogeneità delle tradizioni dell’India» che si traduce nella «coesistenza di religioni, etnicità e culture regionali diverse», più in particolare nella «possibilità di coesistenza e cooperazione fra induisti e musulmani» (2009: 344). Se l’impero Moghul rappresenta il culmine dell’influsso musulmano in India (1525-1707), non si può non ammettere che nell’India settentrionale «genti diverse vi hanno vissuto a lungo e in amicizia, con ricchi e fruttuosi scambi culturali»: tra l’altro, architettura e arti figurative «denotano un grande sincretismo e [...] una sapiente mescolanza di elementi tratti dalle differenti tradizioni religiose» (2009: 310). Akbar, il sultano che regnò dal 1556 al 1605, «fondò una religione di stato che era un singolare amalgama di tutte le religioni che egli conosceva», e il poeta sufi Kabir rendeva omaggio nelle sue liriche tanto ad Allah quanto a Rama (2009: 311). Non solo dunque «grande tolleranza religiosa», ma addirittura «sincretismo religioso» sembrano essere, per quel periodo, i segni più caratteristici della compresenza in India di induisti e di musulmani. Nel discorso di Nussbaum si intravede un’oscillazione tra due possibilità, da lei individuate con i termini “tolleranza” e “sincretismo”, possibilità che d’ora in avanti terremo ben distinte e che denomineremo con i termini “coesistenza” e “convivenza”. La tesi che vogliamo qui sostenere è che l’identità può combinarsi con la coesistenza, non con la convivenza. Se nel paragrafo precedente (§ 4) e nella prima parte di questo paragrafo abbiamo illustrato i guasti dell’identità nel suo uso costitutivo, è ora di riequilibrare il quadro ricorrendo alla possibilità di un uso regolativo (più consapevole e controllato): lo scopo è far vedere come l’identità non necessariamente e non sempre si configura come un’identità armata e aggressiva. Con il controllo e la vigilanza interviene anche la tolleranza, e all’identità può così essere tolto il suo carattere aggressivo, consentendo una coesistenza pacifica. La tolleranza agisce come un freno, impedendo all’identità di prendere la via della repressione degli altri. In fondo, si tratta di controllo e di autocontrollo da parte dei soggetti, ovvero di una politica fondata sul riconoscimento e sull’accettazione reciproca delle differenze.

Proviamo a questo punto a elaborare uno schema delle possibilità di comportamento dei soggetti, rientranti nella logica dell’identità: un’identità ritenuta pur sempre necessaria dai soggetti che vi fanno ricorso, ma considerata nelle due versioni dell’uso costitutivo (A1) e dell’uso regolativo (A2). Nello schema proposto, a sinistra, contrassegnate con segno negativo (–), troviamo le posizioni che l’identità può fare assumere in assenza di un principio di tolleranza. A destra, contrassegnate con segno positivo (+), si collocano invece le posizioni che si determinano allorché identità e tolleranza si combinano e in cui dunque si può articolare la coesistenza. Poiché affronteremo dopo la distinzione tra coesistenza e convivenza, lo schema si limiterà alle due colonne dell’identità, prevedendo per uno schema successivo la colonna della convivenza. Concentriamoci dunque sulle prime due prospettive, che possiamo chiamare le prospettive identitarie secondo l’uso costitutivo (A1) e secondo l’uso regolativo (A2). A1) Identità senza tolleranza

A2) Identità con tolleranza

Rifiuto dell’alterità: “solo noi” Coesistenza con l’alterità: “noi e gli altri” –1: indifferenza –2: disprezzo –3: segregazione –4: respingimento –5: annientamento

+1: indifferenza +2: accettazione +3: delimitazione +4: autonomia +5: rispetto

Come si vede, la presenza o meno della tolleranza cambia del tutto il quadro delle possibilità. Può quindi suscitare una certa perplessità la voce “indifferenza” posta sia nel quadro A1 sia nel quadro A2. Dove non c’è tolleranza, e dove il noi è “solo” (quadro A1), l’indifferenza assume il significato di un pressoché totale disinteresse riguardo ai destini dell’alterità. Perlopiù si tratta di un disinteresse rivolto a quanto succede altrove, lontano da “noi” (per esempio, la tragedia del Rwanda nel 1994) o anche vicino a “noi”, senza però che l’alterità sia entrata nello spazio sensibile del “noi” (per esempio, i morti annegati nel Mediterraneo in seguito all’affondamento dei barconi di profughi). L’indifferenza del quadro A2 è invece un atteggiamento rivolto agli altri, nei cui confronti già si determina un inizio di coesistenza: qui indifferenza significa che non si è o non si vuole essere turbati da vicende e da consuetudini che riguardano gli altri compresenti nel nostro stesso territorio. L’indifferenza del quadro A1 è il punto di partenza di una serie di atteggiamenti che si aggravano

sempre di più, fino ad arrivare all’annientamento, come abbiamo messo in luce parlando dei “guasti” dell’identità. La serie di atteggiamenti del quadro A2 è invece concepita in termini sempre più positivi nei confronti dell’alterità. Se l’indifferenza è per così dire il grado minimo della tolleranza, gli atteggiamenti che via via si succedono migliorano sempre più i rapporti tra “noi” e gli “altri”. All’indifferenza subentra un più esplicito riconoscimento degli altri, i quali vengono accettati nella loro diversità. Ma la logica dell’identità abbinata alla tolleranza può fare qualcosa di più: può accettare che gli altri fruiscano di spazi e risorse propri, tali da garantire il mantenimento delle loro differenze (ciò che abbiamo chiamato “delimitazione” in alternativa alla “segregazione” del quadro A1). Può inoltre procedere verso un più esplicito riconoscimento dell’autonomia degli altri, attribuendo loro la stessa qualità identitaria che il noi conferisce primariamente a sé stesso. Ovvero, gli altri non sono più genericamente gli altri, non si confondono più in una indistinta alterità, verso cui si prova una generalizzata indifferenza: acquistano invece una loro identità. L’identità viene distribuita anche agli altri, e quando questo avviene in un regime di tolleranza si ottiene l’effetto opposto di quanto già esaminato nel quadro A1. In un regime di assenza di tolleranza, la determinazione dell’identità degli altri assume inevitabilmente il significato dell’individuazione di un “nemico”, sia esso esterno o interno, e come si è visto la determinazione dell’identità altrui è il preludio di forme di pulizia etnica, di eliminazione, di massacri. Nel quadro A2, la determinazione dell’identità altrui volge invece verso il riconoscimento della loro autonomia, persino della loro dignità, nei riguardi della quale si prova rispetto. Il rispetto, il riconoscimento della dignità altrui, è probabilmente il punto più elevato a cui si può spingere una logica identitaria fondata sul principio di tolleranza. Non v’è dubbio, dunque, che la tolleranza svolga un ruolo decisivo nelle politiche ispirate all’identità. La tolleranza – potremmo dire – è una sorta di bivio, che si viene a determinare entro la logica dell’identità: la sua presenza o la sua assenza provocano una divaricazione rilevantissima nei rapporti tra “noi” e gli “altri”. Se infatti entrambe le vie partono da una situazione apparentemente comune – quella dell’indifferenza –, vediamo però che le strade via via si allontanano, tanto da pervenire la prima (A1) all’estremo dell’annientamento e la seconda (A2) all’estremo del rispetto.

6. Fare a meno dell’identità: verso la convivenza Se ci fermassimo a questo punto, se ci accontentassimo di affermare che non c’è solo la strada che conduce agli stermini, ma vi è pure la strada che porta al reciproco rispetto, avremmo dato ragione a coloro i quali sostengono che l’identità domina l’intero universo sociale: identità come principio irrinunciabile, che si diversifica verso l’intolleranza (A1: uso costitutivo) o verso la tolleranza (A2: uso regolativo). Si tratta di un bivio all’interno dell’identità. Questo libro nasce però dall’idea che vi sia un bivio più fondamentale, quale abbiamo descritto alla fine del § 3, ovvero che, come vi è una logica identitaria, così vi è una logica non-identitaria, fondata appunto sulla “somiglianza” invece che sull’identità. In altri termini, si parte dal principio che dell’identità si può fare a meno e che, anzi, il fare a meno dell’identità non è affatto una diminutio del noi, degli altri e dei rapporti tra noi e gli altri: esso è al contrario un incremento di questi rapporti, comportando l’apertura di ulteriori possibilità. Come abbiamo preannunciato nel paragrafo precedente, intendiamo proporre una distinzione piuttosto netta tra “coesistenza” e “convivenza”. Il quadro A2 coincide infatti con la coesistenza di “noi e gli altri”, e senza dubbio rappresenta un’alternativa molto forte rispetto al quadro A1, dove il “noi” si schiera contro gli “altri” al fine di garantire soltanto la propria esistenza. Dobbiamo però ora prevedere un quadro ulteriore (B), sulla base del principio che si può fare a meno dell’identità e che, perciò, si possa andare oltre la tolleranza, oltre la stessa coesistenza. Prima di procedere nell’esame del quadro B è opportuno sottolineare che, in modo reciprocamente indipendente, anche altri autori si sono avvalsi della distinzione terminologica tra coesistenza e convivenza, distinzione che alcune lingue (come l’italiano e lo spagnolo) offrono l’opportunità di sfruttare anche sul piano lessicale. Infatti, come già ha chiarito Gustavo Zagrebelsky, coesistenza e convivenza possono essere usate per riferirsi a due situazioni distinte: «una è la mera co-esistenza senza con-vivenza», ovvero la «compresenza in regime di separazione», mentre la seconda è contrassegnata da «interazione», da «disponibilità a costruire insieme» (Zagrebelsky 2007: 118, 122). Anche l’antropologo spagnolo Carlos Giménez Romero (2005) ha messo in evidenza che “convivenza”

indica un di più rispetto a “coesistenza”: se coesistenza coincide con una compresenza di soggetti che potrebbero anche ignorarsi gli uni gli altri (l’indifferenza di cui abbiamo già parlato), convivenza evoca invece un contesto di interazioni e di scambi, un intrecciarsi di vite e di interessi, un coinvolgimento reciproco. Proponiamo quindi di riservare il termine “coesistenza” a una situazione fondamentalmente statica, dove i soggetti esistono gli uni “accanto” agli altri e dove le esistenze degli uni non interferiscono più di tanto con le esistenze degli altri, e di designare invece con “convivenza” una situazione intrinsecamente dinamica, dove i soggetti vivono le loro vite – almeno in parte – “insieme” alle vite degli altri. Affinché questo succeda occorre però rinunciare all’affermazione della propria identità, anzi al concetto stesso di identità, si tratti dell’identità propria o dell’identità altrui, e di collocarsi in una prospettiva dominata dal principio della “somiglianza”. Prendendo spunto dalle osservazioni di Zagrebelsky citate prima, è importante rendersi conto che la differenza fondamentale tra la prospettiva della coesistenza e quella della convivenza sta nel fatto che la prima si costruisce sul predominio di una logica di categorie, mentre la seconda si affida maggiormente alle relazioni. C’è un nesso profondo tra le categorie e il «regime di separazione» di cui parla Zagrebelsky. Le categorie si costruiscono infatti con due operazioni: separando e mettendo insieme3. Si mettono insieme, cioè ponendole nella stessa categoria, le cose che riteniamo essere molto simili o addirittura identiche; queste stesse cose vengono separate da altre, che per la loro diversità verranno poste in ulteriori categorie. Entrambe queste operazioni contengono inevitabilmente elementi di arbitrarietà: gli assembramenti da un lato e le separazioni dall’altro sono molto spesso forzature del reale, nel senso che nel primo caso vengono esaltate in varia misura le affinità, le somiglianze, i tratti comuni, sottovalutando le differenze, mentre nel secondo caso si esaltano le differenze, molto spesso recidendo ciò che invece accomuna. L’identità appartiene esattamente a questo tipo di operazioni: ovvero l’identità costruisce categorie, di cui l’una è l’identità stessa e l’altra è l’alterità (cfr. cap. I, § 6). È sufficiente soffermarsi su questi due concetti per rendersi conto di come dalla categoria “identità” si eliminano le diversità interne e di come

il rapporto tra questa categoria e la categoria dell’alterità sia un rapporto di opposizione. Dentro la categoria identità c’è “fusione” di elementi, così da dar luogo a un tutto tendenzialmente completo, coeso e indistinto, e tra la categoria identità e la categoria alterità c’è invece null’altro che “separazione”. L’identità contribuisce così a produrre categorie, tra le quali vi sarà coesistenza se viene fatto intervenire il principio della tolleranza (quadro A2), e vi sarà opposizione, ostracismo, negazione se il principio della tolleranza viene meno (quadro A1). Molte società si presentano ai nostri occhi come ordinamenti di categorie e non c’è dubbio che molte società costruiscano categorie (per esempio clan, caste, classi) per contrastare il flusso e mettere ordine nella molteplicità (Remotti 1996: 11). Se noi pensiamo quanto il pensiero sociale (prodotto dalle società) e il pensiero sociologico (prodotto dai teorizzatori) abbiano privilegiato l’ordine rispetto al flusso, la coerenza o addirittura l’unità rispetto alla molteplicità, ci rendiamo conto di come facilmente l’identitarismo si sia innestato nella nostra cultura. In effetti, è molto più semplice e appagante descrivere l’ordine che non il disordine, l’unità piuttosto che la molteplicità, le categorie invece che le relazioni. Ma le categorie, per quanto provochino “tagli” nel reale (il reale della natura e il reale della società), non riescono a eliminare del tutto l’intreccio delle relazioni e il flusso della realtà. L’identità – la categoria delle categorie – appartiene non al livello della realtà, bensì al livello delle rappresentazioni della realtà e – come già abbiamo argomentato in questo stesso capitolo, evocando niente meno che Kant – è una “finzione”. Potremmo anche dire, a questo punto, che l’identità è uno strumento molto potente (e avvincente) di riduzione della complessità. Ma la domanda che ora dobbiamo porci è quanto questo strumento di riduzione incida sul reale, quanto questa “finzione” – specialmente nel suo uso costitutivo – produca degli effetti sui comportamenti individuali e collettivi, sulle pratiche sociali e sulle politiche nei confronti della molteplicità. L’analisi che abbiamo condotto nei paragrafi precedenti ci ha fatto capire che i discorsi identitari – per quanto illusori e ingannevoli – guidano senza dubbio le scelte dei singoli e dei gruppi, fornendo loro motivazioni, giustificazioni, obiettivi. Un punto però su cui sarebbe bene riflettere è che rappresentazioni e ideologie non trasformano del tutto il reale a loro immagine e somiglianza. Vedere il mondo con le categorie

dell’identità e dell’alterità non significa che tutto il mondo sia ridotto a queste categorie tanto elementari, sommarie e grossolane. La complessità può essere ridotta – sia sul piano concettuale sia su quello pratico –, ma non viene eliminata del tutto. Le categorie costruiscono recinti ed alzano barriere, ma spunti di relazioni, accenni di coinvolgimento, abbozzi di interessi reciproci possono perforare muri e barriere e dar luogo a rapporti di qualche tipo: ovvero, possono esserci relazioni, e relazioni coinvolgenti (persino inquietanti), nonostante le barriere dell’identità. La complessità ha una sua incoercibile resilienza (Remotti 2011a: cap. VI) e – come avremo modo di vedere nel nostro libro – questa caratteristica concerne anche la somiglianza. Altra cosa è una rappresentazione del reale in cui esplicitamente venga dato spazio alle relazioni, in cui le differenze tra gruppi diversi, con culture diverse, anziché divenire motivo di erezione di barriere, alimentano le relazioni stesse. Beninteso, le barriere non cadono del tutto: le differenze, per essere utilizzate e valorizzate, vengono ricondotte a certe categorie. Ma un conto è pensare a un mondo strutturato in categorie, tra cui – ben che vada – si può produrre coesistenza (A2); un altro conto è pensare un mondo in cui le relazioni si dimostrano più importanti delle barriere e le categorie assumono un carattere strumentale, espedienti per conferire un certo ordine alla convivenza (B). Detto in altri termini, questa terza prospettiva (quadro B del nostro prossimo schema) richiede l’attivazione di una vera e propria “cultura della convivenza”. Come sostiene Andrea Riccardi, si tratta di un’«arte del convivere», nella quale confluiscono sforzi ideativi, progettazioni, tentativi e verifiche, adozione di tecniche e modelli, così da dare luogo non a una semplice situazione istantanea, ma a configurazioni destinate a durare a lungo nel tempo (Riccardi 2006: 156). La tesi che intendiamo sostenere in questo libro è che l’arte del convivere o la cultura della convivenza si fondano sul principio della “somiglianza”. Nell’Africa precoloniale erano molti i contesti per i quali gli antropologi hanno usato termini come “convivenza” o addirittura “simbiosi”. Uno degli studi più significativi è quello che l’antropologo Siegfried F. Nadel aveva dedicato a Kutigi, un centro nella Nigeria settentrionale, dove per diversi secoli quattro gruppi di origini storiche diverse, lingue diverse, religioni differenti (uno di essi aderente all’Islam) hanno dato luogo a un sistema in cui tutti i gruppi, legati tra loro da scambi

economici e matrimoniali, ponevano a disposizione di tutti le loro credenze religiose e le loro competenze rituali (Nadel 1938; 1949). Se pensiamo alle violenze di Boko Haram nelle stesse zone della Nigeria, ci rendiamo conto dell’abisso che si è venuto a creare tra la simbiosi di allora (un modello anche teorico di convivenza) e la situazione di oggi, che non potremmo descrivere altrimenti che nei termini non solo del respingimento, ma anche dell’annientamento. Sotto il profilo storico, è come se si fosse passati drasticamente dalle possibilità fornite dalla colonna B (quella della convivenza) agli esiti elencati nella colonna A1. Vorremmo concludere questo capitolo riprendendo in mano un altro caso di simbiosi, su cui ci siamo già soffermati alla fine del capitolo I (§ 9), oltre che, più diffusamente, in altri testi precedenti (Remotti 2000: 5979): quello dei coltivatori Lese e dei cacciatori Efe della foresta dell’Ituri (Repubblica Democratica del Congo). Perché soffermarci ancora su questo caso? Perché con esso riemerge il tema dei passaggi tra le logiche e le posizioni descritte nel nostro schema: non solo le possibilità di transizione da una posizione all’altra all’interno di una medesima colonna, ma anche le possibilità di transizione da una colonna all’altra. A1) Identità (senza tolleranza)

A2) Identità (con tolleranza)

B) Somiglianza (senza identità)

Rifiuto dell’alterità: “solo noi”

Coesistenza: “noi e gli altri”

Convivenza: “noi insieme agli altri”

–1: indifferenza –2: disprezzo –3: segregazione –4: respingimento –5: annientamento

+1: indifferenza +2: accettazione +3: delimitazione +4: autonomia +5: rispetto

+1: interesse +2: relazione +3: coinvolgimento +4: dipendenza reciproca +5: progettazione comune

In effetti, abbiamo già visto – a proposito della Nigeria – il passaggio storico da B ad A1, dalla convivenza all’intolleranza e all’annientamento. Con il caso dei Lese/Efe vediamo invece un passaggio inverso (da A1 a B), e non in senso storico, diacronico, bensì – per così dire – in senso sociologico, sincronico. Su un piano ideologico, i coltivatori Lese allontanano i cacciatori Efe, disprezzandoli e respingendoli in un’alterità (il mondo della foresta) da cui l’umanità lese, racchiusa nei propri villaggi, si sente minacciata. Quando si comincia a esaminare il rapporto tra Lese ed Efe, la prima impressione che si ha è quella di muoverci fondamentalmente nel quadro A1: i Lese denigrano duramente gli Efe (come in generale fanno le società di villaggio nei confronti dei Pigmei). Più in particolare, i

Lese considerano gli Efe come una forma di umanità decisamente inferiore: il loro “disprezzo” giunge fino al punto di considerare gli Efe come paragonabili alle scimmie; essi vivono a contatto diretto con la foresta, sono sporchi, puzzolenti, sregolati per quanto riguarda cibo e sesso (i Lese dicono che gli Efe commettono incesto). Ma il disprezzo (punto –2 della colonna A1) non è affatto l’anticamera del “respingimento” e tanto meno dell’“annientamento” (punti –4 e –5). Lese ed Efe vivono in ambienti contigui e separati: i Lese nei loro villaggi, concepiti come mondi chiusi, gli Efe appena fuori del villaggio, là dove inizia la foresta. Nonostante la denigrazione e il disprezzo, i Lese sembrano ora spostarsi nel quadro A2, dove prevale il senso della separazione e della delimitazione (punto +3), ma anche dell’accettazione della diversità e persino dell’autonomia dei due mondi (+2 e +4). Non appena si approfondisce il rapporto tra Lese ed Efe, vediamo poi – con sorpresa – che il modello non è soltanto quello di una mera “coesistenza” (A2). Tra Lese ed Efe vi sono scambi continui di ordine economico e commerciale: se i Lese danno agli Efe i prodotti dei loro orti e del loro artigianato, gli Efe forniscono invece proteine animali (selvaggina), miele selvatico e altri prodotti della foresta (vi è un “interesse” reciproco: punto +1 della colonna B). Non solo, ma questi scambi, lungi dall’essere anonimi e puramente utilitaristici, si verificano nell’ambito di rapporti fortemente personali (punto +2). Ogni famiglia lese instaura infatti un rapporto privilegiato con una particolare famiglia efe, un rapporto che non soltanto assicura di trovare sempre un proprio partner di scambio al momento del bisogno, ma si carica di una forte intensità affettiva: ciò che si viene a determinare è un rapporto di profonda amicizia e di lealtà, destinato a perpetuarsi anche dopo la morte dei rispettivi capifamiglia. Si tratta di un rapporto di partecipazione (e dunque di coinvolgimento, punto +3) alle vicende delle due famiglie, come appare soprattutto in occasione della morte: «il mio cuore è morto. Dove mai troverò un altro muto?» – così si esprimeva un Efe al funerale del suo partner Lese: e muto si carica di un profondo senso di “umanità”, dato che significa «persona», «essere umano» (Grinker 1997: 161). Con l’attribuzione di muto si viene cioè a determinare un’importante “condivisione”: la partecipazione a una comune umanità. Denigrazione dunque sì (A1), ma decisamente bilanciata dall’affettività

e persino dall’intimità che i rapporti Lese/Efe vengono ad assumere (B). Non sono infatti da sottovalutare – sotto questo profilo – i rapporti di natura sessuale e perfino coniugale che possono generarsi tra uomini lese e donne efe, così come è importante rendersi conto dei servizi di ostetriche e di balie che le donne efe possono offrire in favore della comunità lese. Ma c’è un’intimità ancora più intensa. Quando muore un uomo lese, gli Efe sono chiamati nel villaggio: sono essi che trattano e lavano il morto; sono essi che sovrintendono ai rituali funebri ed eseguono le danze previste. Soprattutto, gli Efe non si limitano ad addentrarsi fisicamente nel villaggio, ma – incaricati di scoprire il kunda, il “male” che ha provocato la morte – entrano nei segreti delle relazioni personali. È questo il punto di collaborazione più profondo e delicato: è come se gli Efe avessero in mano il destino del villaggio lese, ed essi in ogni caso si incaricano periodicamente – ovvero in occasione di ogni decesso – di liberare il “noi” dei Lese dal kunda che si viene a formare al loro interno. Quale servizio più grande gli Efe possono fornire e quale rapporto più intimo si può venire a determinare? Nonostante tutta la denigrazione di cui abbiamo parlato all’inizio di questa analisi, e che fa collocare il rapporto Lese/Efe al punto –2 della colonna A1, tra questi due gruppi si instaura un principio di complementarità (+4 di B), e persino un senso di indispensabilità e di superiorità degli Efe nelle faccende che maggiormente attengono al cuore nascosto della vita sociale lese. In modo molto opportuno, Roy Grinker sottolinea come «i Lese e gli Efe siano incompleti gli uni senza gli altri» (Grinker 1994: 193, c.m.). In effetti, la convivenza richiede l’ammissione della propria incompletezza, e l’incompletezza è il criterio che maggiormente ci induce a fare a meno dell’identità, a spostarci dagli schemi identitari (quelli delle colonne A1 e A2) alla prospettiva della convivenza (colonna B). È l’incompletezza (il riconoscimento della propria incompletezza) il criterio che apre la strada e ci fa “intuire” la somiglianza tra noi e gli altri. E solo con la somiglianza si può tentare, infine, di costruire una qualche forma di convivenza. 1

Per l’esame delle posizioni di Parsons e degli altri sociologi mi sono avvalso dei testi e dei commenti raccolti da Loredana Sciolla in un volume pionieristico per quanto riguarda il dibattito in Italia sul concetto di identità (Sciolla 1983). 2 Poiché ciò che abbiamo esposto in questo paragrafo sono fatti di cronaca risalenti ad alcuni anni fa, si potrebbe avvertire l’esigenza di un qualche aggiornamento. Torino, giovedì 5 luglio

2018: Francesca Bolino, collaboratrice di «la Repubblica», racconta il seguente episodio, a cui ha assistito sulla metropolitana due giorni prima (Bolino 2018). La giornalista sale sulla metropolitana e si siede accanto a una donna (più o meno cinquantenne), che ha la testa coperta da un foulard. Dopo qualche fermata, sale a sua volta un uomo, più o meno settantenne, capelli bianchi, con un cane al guinzaglio. La donna con il foulard, a disagio per il cane che le è vicino, si allontana. L’uomo a voce alta la apostrofa in questo modo: «Cosa vuoi tu? Ti fa schifo il cane? Stai zitta, ora lo sguinzaglio e ti faccio sbranare. Ha ragione Salvini. Io sono un leghista convinto. Che cazzo ci fate qui in Italia?». La donna, spaventata, mostra la sua carta di identità, da cui risulta che è italiana. L’uomo continua a sbraitare: «E chi se ne frega. Io ci vado a Porta Palazzo e vedo tutta quella gente come te che gira senza fare niente. Chi lavora? Nessuno. Vi manteniamo noi. Dovete andarvene tutti fuori. Dovete morire. Viva Salvini. Sempre». La giornalista è l’unica persona che prende le difese della signora con il foulard: tutti gli altri guardano dall’altra parte, fanno finta di niente, o sono immersi nel proprio smartphone. L’uomo attacca anche la giornalista: «Stai zitta tu, collaborazionista». La giornalista e la marocchina con cittadinanza italiana (come lavoro fa la sarta) scendono alla stessa fermata. La signora con il foulard si mette a piangere e si confida in questo modo: «Per me e per la mia famiglia è diventato un inferno. Quasi ogni giorno veniamo insultati. Ma perché?». Già: perché? ...in attesa di ulteriori aggiornamenti. 3 Per un approfondimento della tematica categorie/relazioni rinviamo a Remotti 2015 e 2016a.

Parte seconda

III. Cos’è la somiglianza?

1. Una parola modesta, ma molto versatile La prima parte di questo libro (capp. I-II) si è conclusa con una implicita scommessa: quella di pensare la convivenza (obiettivo irrinunciabile quant’altri mai) a partire dalla somiglianza. L’identità – ben che vada – ci conduce alla coesistenza. Se vogliamo di più, se vogliamo non solo coabitare gli uni accanto agli altri (con il rischio di scivolare dall’indifferenza al disprezzo e oltre), se riteniamo che sia meglio cercare di coinvolgere “noi” e gli “altri” in progetti di vita condivisi, sarà opportuno – anzi, indispensabile – che gli altri non siano soltanto “altri”, ma che noi e loro siamo e ci sentiamo “simili”. In realtà, nel profondo, e chissà per quanti motivi, già lo siamo (anche se non lo vogliamo ammettere): si tratta però di riconoscere questo fatto e, subito dopo, di programmare vere e proprie politiche di somiglianza. Come si vede, stiamo attribuendo alla somiglianza un ruolo strategico di grande rilievo, “simile” o analogo (giusto appunto) a quello svolto dall’identità nelle politiche pacifiche della coesistenza o in quelle nefaste dei respingimenti (v. schema del cap. II, § 6). C’è dunque una certa somiglianza tra identità e somiglianza (non è un mero gioco di parole), nel senso che l’uno e l’altro concetto riguardano modi fondamentali di concepire le relazioni tra le cose e tra le persone: essi possono assumere un ruolo strategico nelle visioni del mondo e nei modi di organizzare la politica e la società. A parte la diversità delle implicazioni che scaturiscono da questi concetti, è inutile nascondere però che, a confronto con identità, “somiglianza” è parola modesta e di scarsa attrazione nel nostro linguaggio: a tutta prima, non sembra che si possa affidare a questa nozione una

responsabilità quale è stata qui indicata. In ciò sta la scommessa a cui si è accennato. Come abbiamo già visto, “identità” è invece parola nitida, lucida, attraente: oltre a trasmettere un senso di sicurezza e quasi di certezza (cap. II, § 1), è carica di significati e di problematiche teoriche di grande rilievo. Ammettiamolo: “somiglianza” non ha affatto queste caratteristiche; nel nostro linguaggio e nel nostro pensiero riveste ruoli molto umili, a cui di solito non facciamo caso. Occorre anche ammettere che espressioni come “i nostri simili” hanno perso la pregnanza che forse un tempo avevano: sembrano espressioni desuete, improntate a un buonismo stantio e di poco conto. L’importanza che il concetto di identità ha assunto ha fatto sì che agli “altri” non si attribuisca più il carattere della somiglianza rispetto a “noi”: gli altri sono appunto altri, non nostri simili, e, in coppia con l’identità, sembra che l’alterità abbia fatto fuori la somiglianza dal nostro pensiero. Un bell’esempio di atteggiamento addirittura spregiativo nei confronti della somiglianza è fornito da François Jullien, là dove sostiene che l’uniforme non è altro che «una riproposizione senza fine del simile»: una ripetizione insulsa e ingiustificata, poiché nell’uniforme «nulla [...] suscita interesse o sembra essere degno di nota» (Jullien 2010: 14). E quando Jullien si rivolge al simile in quanto tale, rincara la dose: D’altro canto, analizzando anche solo sommariamente la nozione di “simile” sulla quale l’uniforme si sostiene, ci si accorge di quanto essa sia un concetto povero, che demanda all’altro la propria giustificazione e che, di conseguenza, non è in grado di fondare alcunché. È un concetto superficiale in quanto puramente esteriore, che si limita a rimandare un’immagine e non possiede nemmeno il rigore totalizzante di ciò che è generico. Anche il celebre insegnamento “ama i tuoi simili” non significa nulla (2010: 14-15).

Se dovessimo dare ragione a Jullien, questo intero libro non avrebbe senso: avrebbero sbagliato l’autore a scriverlo, l’editore a pubblicarlo e il lettore a leggerlo. È vero: la somiglianza è concetto apparentemente umile e modesto, ma può darsi che Jullien sia esponente di un pensiero che – incautamente, volutamente, o per sbaglio – ha decretato l’ostracismo nei confronti della somiglianza, a tutto favore dell’altro e dell’alterità. In una collana di libri intitolata «Lessico della filosofia», a cura di Massimo Mori, vediamo, in effetti, ben rappresentata l’alterità, con un libro appositamente dedicato all’argomento (Costa 2011): non così per la somiglianza. E se diamo uno sguardo ai principali dizionari o enciclopedie filosofiche, constatiamo il ripresentarsi di questo squilibrio, a vantaggio

delle voci Identità e Alterità. Del resto, non era stato Platone a stabilire nel Sofista (254 d-e) che i cinque generi sommi di un’ontologia degna di questo nome sono appunto: l’essere, la quiete, il movimento, l’identico (tauton) e l’altro o il diverso (heteron), non certo il simile (Platone 2007: 421-423)? Nel libro dedicato all’alterità, Vincenzo Costa sostiene che «il tema del totalmente altro [...] percorre [...] l’intera storia della filosofia»; non solo, ma – come esordisce nella sua Introduzione – «la questione dell’alterità sembra essere divenuta un tema centrale nella discussione contemporanea», a tal punto che «il termine alterità» pare «abbia assunto un enorme potere disseminativo» (Costa 2011: 39, 7). Lo stesso autore avverte che l’alterità non ha soltanto un significato strettamente filosofico (metafisico, ontologico e così via); essa ha anche un significato eticopolitico, in quanto inerisce alle modalità con cui può essere organizzata la società umana (2011: 10). In maniera quasi inaspettata, a causa del predominio accordato all’alterità, vediamo però emergere la somiglianza. Questo succede quando Costa inserisce il dibattito sull’alterità in una problematica più ampia, quella relativa alla «tenuta del legame civile», per la quale l’alterità alla fine si configura soltanto come una delle possibilità di organizzazione. Quali sono allora le opzioni fondamentali a questo proposito? Le risposte possono essere assai diverse, oscillando all’interno di uno spettro i cui estremi sono costituiti da una parte dall’idea secondo cui il rapporto all’altro è conflitto e violenza e dall’altra dall’idea secondo cui l’altro appare originariamente come nostro simile e si è in relazione con lui nell’esperienza del rispetto, della responsabilità e del riconoscimento. Inutile dire che in questi modi di pensare il rapporto all’altro si radicano opzioni di filosofia (e di prassi) politica del tutto diverse (2011: 10, c.m.).

In queste parole troviamo espressa in modo molto chiaro l’alternativa che abbiamo già affrontato nei capitoli precedenti, ossia da un lato la logica dell’identità e dell’alterità (quella che – se non controllata dalla tolleranza – conduce al conflitto e alla violenza), e dall’altro la logica della somiglianza e della convivenza. Ma nel brano citato sopra abbiamo messo in corsivo un elemento su cui avremo modo di ritornare e che per noi è estremamente importante: vale a dire che la seconda opzione filosofica, coincidente con la somiglianza, ritiene gli stessi rapporti di somiglianza come prioritari e originari rispetto a qualsiasi altra relazione; non solo dunque un punto di arrivo, ma una base di partenza. Sarà – come avremo modo di vedere – un punto nodale del nostro

discorso. Per ora, dopo avere appurato che a) la marginalizzazione, a cui il concetto di somiglianza è stato condannato, si combina curiosamente e paradossalmente con b) il suo ruolo prioritario e originario, aggiungiamo che il concetto in questione possiede due altre caratteristiche invidiabili, su cui dovremo senz’altro tornare a riflettere. Da un lato, somiglianza è concetto c) molto versatile, in quanto conosce una molteplicità indescrivibile di applicazioni e apre un numero strabiliante di vie e di percorsi. Dall’altro, così facendo, essa d) rispunta sempre e in ogni dove, ovvero conosce in sommo grado la caratteristica della resilienza, nonostante la marginalizzazione di cui soffre. Esiti tutt’altro che trascurabili ai fini della nostra scommessa. Dalla posizione ideologicamente dominante e teoricamente alta dell’identità, la somiglianza appare nozione umile, secondaria, persino banale, relegata a pensieri non impegnativi, a discorsi tipici della vita quotidiana, su cui forse non meriterebbe riflettere più di tanto; ma – come ora si intuisce – promette di essere molto fertile e per questo merita di essere indagata. 2. Nozioni preliminari In linea con il suo carattere dimesso, non dovrebbe risultare difficile definire la somiglianza. Noi diciamo infatti che due o più cose sono simili quando hanno qualcosa in comune, ovvero quando condividono un certo numero di tratti, di caratteri, di elementi, di aspetti. Come spesso succede per i nostri concetti, siamo soliti fare ricorso alla filosofia greca per trovare in essa una qualche definizione autorevole. Se ci comportiamo così anche per la somiglianza, o meglio ancora per l’aggettivo “simile”, è quasi obbligatorio rifarsi alla definizione che ne fornisce Aristotele nel libro X della Metafisica. Qui (X, 3) Aristotele fa vedere come si possa usare la nozione di somiglianza in tanti modi diversi: tutti però sono contraddistinti dal fatto che le cose si dicono “simili” quando appunto condividono, per esempio, la stessa forma geometrica, sia pure di dimensioni diverse; quando, sia pure con forme diverse, condividono lo stesso aspetto nello stesso grado, per esempio il colore bianco; quando condividono lo stesso aspetto con gradi diversi; quando condividono una pluralità di tratti in misura variabile (Aristotele 2009: 1343). Non è facile determinare se l’elenco dei modi di intendere la somiglianza da parte di

Aristotele sia chiuso (sistematico) o aperto (esemplificativo o inerente ai modi principali). I criteri della somiglianza che sembrano emergere sono comunque fondamentalmente due, cioè la compresenza a) di elementi “comuni” e b) di elementi o circostanze “differenzianti”: c’è somiglianza tra due cose quando viene condiviso qualcosa, ma non tutto. Proviamo a formalizzare quanto detto finora. In linea generale, abbiamo affermato che due cose si somigliano quando hanno sia tratti in comune sia tratti non in comune, come si vede dallo schema seguente, che chiameremo situazione I. Qui le lettere maiuscole (A, B) indicano le cose di cui sosteniamo la somiglianza; a loro volta, i numeri (1, 2, 3... 10) indicano i tratti “in comune”, quando ricorrono sia in A sia in B, e “non in comune”, quando ricorrono soltanto in A o soltanto in B: A

=

B

=

1

2 2

4

5

3

7 6

7

9 8

10

9.

In questo prospetto, A e B si somigliano perché, su dieci tratti individuati, ne hanno in comune tre, e precisamente i tratti 2, 7, 9. Gli altri tratti appartengono invece in modo esclusivo ad A (i tratti 1, 4, 5, 10) oppure a B (i tratti 3, 6, 8). Se i tratti “in comune” producono la somiglianza, sono i tratti “esclusivi” o “non in comune” a generare la differenza tra A e B. Chiameremo i primi “fattori di somiglianza”, i secondi “fattori di differenza”. Ovviamente, potremmo anche avere una situazione II, rappresentabile in questa maniera: C

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9

D

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9.

10

Diremo allora che C e D si somigliano tra loro molto di più che non A e B, in quanto C e D hanno ben nove tratti in comune su dieci, il tratto 10 appartenendo soltanto a C. Dal che si deduce che la somiglianza, come la differenza, è tipicamente una faccenda di gradi. Proviamo ora a immaginare una situazione III, che formuleremo in questo modo: E

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

F

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10.

Qui E e F hanno tutti i tratti in comune. Possiamo dire che E e F sono tra loro indistinguibili? In effetti, come faccio a distinguere due bicchieri di

vetro, prodotti dalla stessa fabbrica in base a un unico e medesimo modello, recanti nessun segno particolare, nessuna scalfittura, nessun difetto di fabbricazione? Beninteso, E e F (i nostri due bicchieri) sono due cose distinte, tant’è vero che nell’ordinare la tavola pongo un bicchiere in corrispondenza del posto dove siede il mio ospite e l’altro in corrispondenza del posto dove siedo io. Ma una volta che, dopo l’uso, siano stati perfettamente lavati, asciugati, collocati su un ripiano insieme agli altri bicchieri dello stesso tipo, essi tornano a ciò che potremmo chiamare uno stato di “indistinguibilità relativa”. E e F (i nostri due bicchieri) non sono la stessa e medesima cosa: un conto infatti è riconoscere che essi sono relativamente indistinguibili – o difficilmente distinguibili – e un altro conto è ritenere che siano identici. Nel caso di E e F potremmo sostenere che la somiglianza (una faccenda di gradi, come abbiamo riconosciuto appena sopra) raggiunge un livello altissimo, tanto da rendere relativamente indistinguibili ai nostri occhi gli oggetti tra cui intercorre. Lavati, puliti, sottratti all’uso, E e F non presentano differenze, se non per il fatto che occupano pur sempre due posti diversi nello spazio. Questa differenza spaziale e numerica è senza dubbio importante, ed è esattamente ciò che impedisce di considerare E e F come se fossero la stessa cosa. E e F non sono la stessa cosa, in quanto – se non altro – occupano due diverse e distinte porzioni di spazio: se fossero una stessa cosa, verrebbero a coincidere anche sotto il profilo spaziale. A parte questo insopprimibile elemento di differenziazione, però, non riscontrando altre differenze tra i nostri due oggetti, stentiamo a dire che E e F sono simili: invece ci spingiamo a dire che E e F sono “uguali”. Non sono la stessa cosa, in quanto occupano porzioni diverse dello spazio (per questo non sarebbe giusto dire che sono identici); ma è “come se” fossero la stessa cosa, in quanto, in virtù della loro “uguaglianza”, risultano intercambiabili: se non ho provveduto a marcarlo con qualche segno differenziante, il bicchiere che ieri ho usato per me mi può capitare di usarlo oggi – senza che me ne accorga e al di là delle mie intenzioni – per il mio ospite. 3. Troppo simili o indiscernibili in apparenza? Volevamo mantenerci su un piano discorsivo comune, ma siamo finiti

dritti dritti nella questione filosofica degli “indiscernibili”. In epoca rinascimentale, Nicola Cusano o da Cusa (dal villaggio tedesco Kues, presso Treviri, in cui nacque) così si esprimeva nel suo De Docta Ignorantia, del 1440 (II, 11): «neanche due sole cose nell’universo possono essere perfettamente uguali in tutto» (Cusano 1998: 145). Quindi, come la mettiamo con i nostri E e F che hanno tutti i tratti in comune, e per i quali abbiamo detto che sono “uguali” tra loro? Alla questione delle cose che non siamo in grado o abbiamo difficoltà a distinguere, Gottfried Wilhelm Leibniz aveva dedicato riflessioni importanti e suggestive. All’inizio del Settecento, nel Proemio dei suoi Nouveaux Essais sur l’entendement humain, egli sosteneva la necessità di considerare «l’immensa sottigliezza delle cose», ovvero le «variazioni insensibili», in virtù delle quali «due cose individuali non possono essere perfettamente simili e devono sempre differire più che numericamente» (Leibniz 1988: 13), cioè devono differire per qualche altro fattore, di ordine qualitativo, oltre al fatto di essere due cose, che occupano due porzioni distinte dello spazio. Leibniz sostiene che soltanto Dio, la «mente suprema, cui nulla sfugge», può penetrare e quindi conoscere, fino negli infimi dettagli, le infinite diversità di cui è fatto il mondo (1988: 14). Agli uomini è consentito soltanto intravederle: «tutto ciò che noi possiamo rispetto alle infinite diversità è conoscerle confusamente»; ma, oltre a ciò, siamo in grado di «sapere chiaramente che esse esistono». Alla visione confusa delle infinite diversità (o diversità infinitesimali) si accompagna comunque la chiara consapevolezza della loro esistenza: sappiamo che ci sono, anche se le distinguiamo troppo poco. Se noi consideriamo le molte cose che fanno parte della medesima specie – aggiunge Leibniz (1988: 212) – «è pur sempre vero che non se ne danno mai perfettamente simili». Occorre dunque ammettere che vi è una «diversità intrinseca delle cose» (1988: 212), ed è ciò che la principessa evocata da Leibniz intende dimostrare: Mi rammento che una nobile Principessa, d’ingegno speculativo, disse un giorno, passeggiando nel suo giardino, che non credeva vi fossero due foglie perfettamente simili. Un gentiluomo, che faceva parte della comitiva, credette, invece, che gli sarebbe stato facile trovarle; ma, benché cercasse a lungo, fu convinto dai propri occhi, che una qualche differenza c’era sempre. Da queste considerazioni, che finora furono neglette, si vede quanto in filosofia ci si sia allontanati dalle idee più naturali, e quanto dai grandi principi della vera metafisica (1988: 213).

Il gentiluomo si pone a cercare due foglie “perfettamente simili”,

dunque indistinguibili, e non le trova. Ma se le avesse trovate? Se invece di cercare foglie si fosse imbattuto nei due bicchieri di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente? Leibniz si muove nel mondo naturale (giardini, piante, foglie, onde marine [1988: 10]). Noi però viviamo in mezzo a oggetti “industriali”, perfettamente uguali (i nostri bicchieri che, oltre tutto, sono più di due, fino a che continua la loro produzione). In maniera concisa e acuta, Carmela Pignato (1987: 4) aveva formulato questa osservazione: solo la produzione industriale, molto recentemente nella storia dell’umanità, ha riempito il pianeta di un numero teoricamente infinito di oggetti identici.

In effetti, «le izbe russe» (prodotti culturali della industriosità umana, non però della industrializzazione) «sono milioni, ma non possono essercene – e non ce ne sono – due perfettamente identiche» (Grossman 2013: 13). Natura e artigianato sono mondi della somiglianza; l’industria è il mondo degli oggetti tutti uguali, se non identici. Cosa avrebbe detto Leibniz non di fronte alle izbe russe, bensì di fronte alle montagne di oggetti tutti uguali con cui oggi viviamo? Si sarebbe arrestato stupito e perplesso davanti agli oggetti della produzione industriale, ammettendone la “somiglianza perfetta”, se non addirittura l’identità? Il gentiluomo che nel giardino va alla ricerca di due foglie “perfettamente simili” non le trova. Come si ricorderà, «fu convinto dai propri occhi». È dunque sufficiente il suo occhio nudo, la sua capacità di osservazione “naturale”, non strumentale, per cogliere un qualche “fattore di differenza”, un qualche minuscolo elemento che rende le due foglie soltanto “simili”: simili a un grado elevato, ma non “perfettamente simili” (come direbbe Leibniz), non “uguali”. Ci sono però dei casi più difficili, per i quali sarebbe necessaria una capacità di osservazione maggiore. Infatti, messo di fronte a «due gocce d’acqua o di latte», il nostro osservatore difficilmente sarebbe in grado di cogliere differenze a occhio nudo; ma – secondo Leibniz (2000: III, 510) – queste stesse gocce, se «osservate al microscopio, si troveranno discernibili». L’indiscernibilità per Leibniz è dunque una questione relativa, in quanto dipende dalla nostra capacità di osservazione, che può essere più o meno penetrante a seconda dei soggetti e delle circostanze, così come può essere accresciuta da un’adeguata strumentazione. Se due cose ci sembrano uguali, ciò è dovuto al fatto che non riusciamo ad andare

oltre un certo livello di osservazione e a cogliere le differenze infinitesimali che caratterizzano tutte le cose del mondo. Tutt’altra faccenda, rispetto alle cose di cui facciamo esperienza, sono – per Leibniz – le sostanze metafisiche, per le quali invece vale il principio dell’identità degli indiscernibili. Mentre per due gocce d’acqua, in apparenza perfettamente simili, anzi identiche, vale il principio secondo cui è possibile – a seconda dei livelli di osservazione – cogliere fattori che le differenzino, sia pure di pochissimo, e quindi le rendano “simili”, e solo simili, ancorché molto simili, non è concepibile la contemporanea esistenza di due sostanze indiscernibili: se sono indiscernibili, esse sono un’unica e medesima sostanza (Martinello 2006: 47-48). Ma questo è un pensiero squisitamente metafisico, tutto dominato dal principio dell’identità e fondato sul presupposto, altrettanto metafisico, delle sostanze individuali come qualcosa di non scomponibile. Noi invece siamo alla ricerca di nozioni elementari con cui inquadrare la tematica della somiglianza, e questa riguarda soltanto le cose del mondo di cui abbiamo esperienza e di cui noi stessi facciamo parte, non le sostanze della metafisica. Proviamo dunque a raccogliere le nostre idee, quali sono sorte (anche grazie a Leibniz) dall’analisi della situazione III, che – come si ricorderà – era stata formulata in questa maniera: E

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

F

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10.

1) Leibniz direbbe che, almeno ai nostri occhi (e in dipendenza dalla nostra capacità di osservazione), E e F risultano “perfettamente simili”. Qui noi proviamo a correggere un poco la terminologia e a proporre di considerare i due bicchieri non come perfettamente simili, ma come “uguali”. In altre parole, quando la somiglianza aumenta fino al punto che non si intravedono elementi o criteri di differenziazione, tendiamo a non usare nemmeno più il termine “somiglianza”: diremo invece che E e F sono “uguali”, mentre C e D (il caso esaminato in precedenza – situazione II) permangono in un regime di somiglianza, dato che vengono differenziati dal possesso o meno del tratto 10. 2) Ciò significa che, almeno nella terminologia qui proposta, “somiglianza” implica sempre qualche grado di “differenza”. Perché due

cose possano dirsi somiglianti, occorre che siano, o appaiano, anche un po’ differenti. Per questo non ci pare appropriata l’espressione “somiglianza perfetta”1: se una somiglianza è talmente somigliante da vedere scomparire la differenza, la somiglianza – lungi dall’essere perfetta – non è più una somiglianza. In altri termini, una somiglianza è sempre, e non può che essere sempre, “imperfetta”, dato che si combina sempre con qualche elemento – anche se minimo, infinitesimale, difficilmente percepibile – di differenza. Se la differenza scompare, come nel passaggio dal caso di C e D (situazione II) al caso di E e F (situazione III), scompare anche la nozione di somiglianza, sostituita da quella di “uguaglianza”. 3) Torneremo sul tema – ovviamente molto importante – dell’uguaglianza. Per ora notiamo come, insieme all’uguaglianza, siano emerse nozioni utili, come quella della indistinguibilità (o indiscernibilità) e della intercambiabilità. In questo contesto abbiamo anche avanzato la nozione di indistinguibilità relativa, del resto perfettamente in linea con le riflessioni di Leibniz, per il quale l’indiscernibilità delle cose (non delle sostanze metafisiche) dipende dal grado di acutezza della capacità di osservazione: in diversi casi, è sufficiente munirsi di un microscopio per vedere l’indiscernibilità dissolversi e, nel contempo, emergere differenze più o meno rilevanti, tali comunque da ripristinare la nozione di somiglianza. Torniamo ai nostri bicchieri, tutti uguali, collocati in bell’ordine sul loro solito ripiano. Sono proprio indistinguibili e ci sarebbe bisogno di un microscopio per dissolvere la loro apparente indiscernibilità? Potremmo dire che essi sono intrinsecamente, o di per sé, indistinguibili, almeno ai nostri occhi; ma elementi di distinguibilità, o fattori che li rendono distinguibili, sono anche dati a) dal fatto di occupare spazi diversi; b) dall’uso che ne facciamo. Ovvero, la manipolabilità delle cose determina fattori di differenziazione di non poco conto. Per esempio, i nostri bicchieri risultano differenziati dal gesto di assegnare questi stessi bicchieri agli ospiti che siedono a tavola, di modo che un certo bicchiere – di per sé indistinguibile dagli altri – diviene il bicchiere “di” X o “di” Y, e da quel momento non è più interscambiabile, almeno fin che si è tutti a tavola e i bicchieri sono sottoposti all’uso personale dei banchettanti. L’uso li rende distinguibili, e questa loro distinguibilità fa persino da ostacolo a una indifferente e disinvolta intercambiabilità. Aggiungiamo un’avvertenza: è

evidente che queste considerazioni hanno un carattere non ontologico, ma fenomenologico e situazionale, del tutto appropriato alla stessa nozione di somiglianza. 4) La domanda “sono proprio indistinguibili?” in riferimento a E e F ha però un ulteriore significato. E e F ci risultano relativamente indistinguibili, o anche relativamente interscambiabili, in quanto entrambi possiedono la stessa serie di tratti (da 1 a 10). Leibniz però ci avverte che, a un esame più ravvicinato e approfondito (per esempio, mediante il microscopio), l’osservazione di E e F potrebbe superare una certa soglia, al di là della quale essi rivelano ulteriori tratti (da 11 in avanti). Così può succedere che alcuni di questi tratti assumano un valore differenziante, tale per cui, per esempio, il tratto 11 appartiene in esclusiva a E, mentre il tratto 12 è una faccenda soltanto di F: E

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

| 11

F

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

|

12.

Se così fosse, il rapporto tra E e F perderebbe il suo significato iniziale di “uguaglianza” ed acquisterebbe invece il significato di “somiglianza”: spuntando le differenze 11 e 12, E e F non sarebbero più “uguali”, ma diventerebbero “simili”, esattamente come lo erano A e B (situazione I) o C e D (situazione II). Il che ci consente di mettere a fuoco un nodo importante del nostro discorso, che articoleremo nei seguenti punti: – le “differenze” annullano l’“uguaglianza”; – l’uguaglianza esiste soltanto là dove non ci siano (o non appaiano, non risultino) differenze; – c’è dunque incompatibilità tra uguaglianza e differenze; – le differenze, al contrario, istituiscono le “somiglianze”; – affinché si possa parlare di somiglianze, occorre infatti che esistano differenze; – c’è dunque implicazione necessaria tra somiglianze e differenze. 4. Uguali Dopo avere cercato di analizzare ciò che Leibniz chiama impropriamente “somiglianza perfetta”, ossia il grado estremo della somiglianza, è bene mettere a fuoco la nozione di “uguaglianza”, che – come abbiamo visto – spunta fuori quando c’è, per così dire, un eccesso di

somiglianza o quando si vuole spingere la somiglianza tanto avanti da annullare – non vedere, non voler vedere, non ammettere – le differenze. Ribadiamo che qui facciamo un discorso non ontologico, ma fenomenologico, relativo cioè alle esperienze possibili dei fenomeni di somiglianza e di differenza. Abbiamo appreso che, quando la somiglianza aumenta fino a fare scomparire la differenza (situazione III), la stessa somiglianza tende a eclissarsi e viene sostituita dalla nozione di uguaglianza. Poiché si tratta di una questione fenomenologica, ossia di esperienza vissuta che viene tradotta in nozioni, sarà bene chiarire che i confini non sono mai netti e inequivocabili, come ora appunto vedremo a proposito di somiglianza e di uguaglianza. Basta poco perché si passi da una nozione all’altra e si assista quindi – senza particolare sgomento – a oscillazioni, incertezze, parziali sovrapposizioni. Ciò che qui si propone vuole essere un tentativo di messa a fuoco concettuale, che tenga conto anche di queste apparenti imperfezioni (se così vogliamo chiamarle). I dodici bicchieri di cristallo che, tutti uguali, fanno bella mostra di sé su un ripiano a vista della credenza in sala da pranzo, le cinquanta copie dell’ultimo libro di successo sul bancone delle novità di un book store, le centinaia di autovetture anch’esse tutte uguali che occupano un enorme piazzale in attesa di essere esportate in vari paesi del mondo, costituiscono – è bene ricordarlo – situazioni estreme e, fino a epoche recenti, praticamente impossibili: soltanto con la produzione industriale gli esseri umani sono riusciti a produrre oggetti in serie, il cui pregio è appunto l’uguaglianza (di materia, forma, dimensioni, colore e così via). Tutti questi oggetti sono, e devono essere, uguali, non simili2. Un semplice difetto di fabbricazione, che introduca una sia pur minima differenza, una variazione non programmata, farebbe considerare l’oggetto in questione come “fallato”, portatore di una “falla”, segnato da un errore, e quindi come qualcosa di intollerabile sia per il produttore che per il consumatore, di non commerciabile (o di commerciabile a un prezzo decisamente ridotto), al limite come un sotto-prodotto da scartare. Quella falla – fattore di differenza – farebbe degradare l’oggetto in questione dalla condizione, normale e richiesta, di uguaglianza alla condizione inferiore di somiglianza: esso sarebbe solo “simile” rispetto al prototipo, non “uguale”, come invece dovrebbe essere. Per la produzione in serie – che possiamo definire come la «riproduzione del sempre uguale» (Horkheimer e Adorno 2010: 142) –

l’obiettivo da perseguire è la perfetta uguaglianza dei prodotti (prova tecnica di perfezione del processo lavorativo), non la loro maggiore o minore somiglianza (segno di approssimazione e di difettosità). Sarà bene ricordare che in natura, invece, si dà soltanto la somiglianza, non l’uguaglianza: l’indiscernibilità – come sosteneva Leibniz a proposito delle sue foglie e delle sue gocce d’acqua (§ 3) – non è intrinseca nelle cose; essa dipende soltanto dai limiti della nostra capacità di osservazione. Se la natura è il dominio della somiglianza (nel senso che nei suoi diversi settori non vediamo altro che somiglianze e differenze) e se, viceversa, la produzione industriale è in grado di sfornare merci perfettamente uguali (almeno così a noi appaiono e così di solito le valutiamo), forse è lecito chiedersi se l’uguaglianza non sia un fenomeno propriamente e tipicamente umano, o addirittura esclusivamente umano: in modo più preciso, se l’uguaglianza sia qualcosa che attiene soltanto ad alcuni ambiti delle culture umane. Prima ancora dei prodotti in serie delle nostre industrie, l’uguaglianza è infatti uno dei più elementari concetti matematici: potremmo dire che, in primo luogo, essa è stata pensata dal pensiero matematico; è un’invenzione matematica. Come abbiamo appreso dai libri di scuola, il concetto di uguaglianza designa una relazione binaria (indicata dal simbolo di uguale “ = ”), la quale comporta una proprietà riflessiva (a = a), una proprietà simmetrica (se a = b, allora b = a) e una proprietà transitiva (se a = b e b = c, allora a = c). Come è noto, si parla anche di uguaglianza di insiemi, allorché due insiemi comprendono gli stessi elementi; di uguaglianza di figure geometriche, quando due figure (per esempio, due triangoli) risultino essere perfettamente sovrapponibili; di uguaglianza di espressioni algebriche, nel caso in cui, scritte in modi diversi, abbiano però gli stessi valori. L’uguaglianza è dunque possibile, anzi è contemplata, nel mondo puramente astratto e ideale della matematica. Vi è da ritenere infatti che due triangoli uguali siano uguali in quanto oggetti ideali, cioè a partire dal presupposto dell’uguaglianza delle loro dimensioni; in quanto oggetti fisici – quelli tracciati dalla mia matita e col mio righello su un foglio di carta – sono approssimativamente uguali (verrebbe da dire “simili”, “molto simili”). A confronto con l’uguaglianza data per presupposta in matematica, persino gli oggetti fisici, prodotti in serie dall’industria, sarebbero uguali solo in grado approssimato: un grado tanto alto di

approssimazione all’uguaglianza che nessuna capacità manuale aveva mai raggiunto nella storia dell’umanità e che tuttavia la mente umana aveva già immaginato, ritenuto possibile e formulato come idea, tanto da farne uno dei capisaldi del pensiero matematico. Se le cose stanno più o meno così, forse possiamo dire che, quando l’uguaglianza affiora anche in altri ambiti culturali (oltre a quello matematico), essa appare pur sempre sotto forma di idea, di ideali, di principi, ossia di affermazioni fatte valere per un verso come presupposti e, per l’altro verso, come obiettivi. Come presupposti, esse si trovano “prima” e in qualche modo a prescindere da come si configura il presente. Come obiettivi, esse si collocano “dopo” il presente, in un futuro in cui si trova l’idealità da realizzare, ovvero “oltre” la realtà effettiva in cui viviamo, in un altro luogo, anzi in un’utopia, un “luogo buono” (in greco eu-topeia), che è anche un “non luogo” (u-topeia). Tra i presupposti (prima) e gli obiettivi (dopo) si estende la vasta realtà (fisica, naturale, ambientale, sociale, culturale, psichica), l’ampia gamma di tutte le possibili esperienze, in cui dominano somiglianze e differenze, e in cui le uguaglianze, rivendicate o imposte che siano, possono essere presenti soltanto come approssimazioni. «All men are created equal» (“tutti gli uomini sono creati uguali”). L’espressione suggerita a Thomas Jefferson dall’immigrato italiano Filippo Mazzei, fatta propria da Benjamin Franklin e contenuta nella Dichiarazione d’Indipendenza americana del 4 luglio 1776, trova un’eco in Francia nell’espressione analoga con cui inizia (art. 1) la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino) del 1789: «Les hommes naissent et demeurent libres et égaux en droits» (“Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”). È importante fare notare che, nel testo della Dichiarazione d’Indipendenza, l’espressione «All men are created equal» viene posta fin dall’inizio come una delle «verità» da considerarsi come «di per sé evidenti»: quindi come un presupposto, come una verità che si impone da sé, indiscutibile, non una verità a cui si giunga a seguito di esperimenti, di osservazioni, di induzioni. Non per niente, subito dopo, il testo prosegue affermando che gli uomini, creati tutti uguali, «sono dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti», come quelli della «vita», della «libertà» e del «perseguimento della Felicità» (La Dichiarazione... 1999: 69). Anche sotto il profilo del contenuto di questa

verità, ritenuta già di per sé auto-evidente, l’uguaglianza attiene a un atto preventivo e originario, compiuto oltre tutto non dall’uomo, ma dalla divinità che l’ha creato. Già nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1776 l’uguaglianza dunque non soltanto appare come un presupposto, ma si configura anche come un’uguaglianza di “diritti”, come del resto viene ribadito nella Dichiarazione francese del 1789: «liberi e uguali nei diritti». E tutti sanno che un conto è il livello dei diritti (da affermare, rivendicare, fare valere, difendere) e un altro conto è il livello di attuazione dei diritti: un’approssimazione, che non può non richiamare le somiglianze. Del resto, proprio nel 1789, il pastore protestante Jean-Paul Rabaut SaintÉtienne (deputato girondino, difensore della libertà religiosa, ghigliottinato nel 1793) ebbe a scrivere nelle sue Idées sur les bases de toute constitution: Poniamo, come principio nella formazione di una società, che tutti gli uomini che vi partecipano siano uguali. Con questo non vogliamo dire che sono tutti uguali di taglia, di talento, di industria, di ricchezze, il che sarebbe assurdo; ma che sono uguali nella libertà (cit. in Rosanvallon 2013: 37).

La precisazione di Rabaut Saint-Étienne è importante, in quanto aggiunge un ulteriore elemento di riflessione. Non soltanto occorre valutare lo scarto, e dunque il grado di approssimazione, tra la dichiarazione dell’uguaglianza come diritto e la sua realizzazione sul piano sociale; occorre anche sapere in relazione a quali e quanti diritti si dichiara e si richiede l’uguaglianza. Per Rabaut Saint-Étienne si è uguali soltanto in relazione al diritto alla libertà, mentre François Gracchus Babeuf si pronuncia per una «uguaglianza perfetta» (égalité parfaite) in materia sociale (Schiappa 1991: 74). Nel Manifeste des Égaux, redatto nel 1796 da Sylvain Maréchal, amico e sodale di Babeuf nella Congiura degli Uguali, si denuncia chiaramente l’uguaglianza come «una bella e sterile finzione della legge». Preconizzando l’ultima, più autentica e definitiva rivoluzione dell’umanità, si richiede a gran voce una «uguaglianza reale», una «uguaglianza di fatto» (Maréchal 1966: 56-57): Noi non abbiamo soltanto bisogno di questa uguaglianza, quale risulta dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino: la vogliamo in mezzo a noi, sotto il tetto delle nostre case (1966: 57).

Ma affinché si compia questa «ultima» rivoluzione, occorre che l’uguaglianza sia estesa a tutti gli aspetti, settori e momenti sociali: a partire dalla «comunità dei beni» e dall’abolizione della «proprietà privata della terra», fino al «godimento comune dei frutti della terra» (1966: 58). Ciò

che si richiede è la sparizione delle «disgustose distinzioni fra ricchi e poveri, fra grandi e piccoli, fra padroni e servi, fra governanti e governati». Redatto nel 1796, ma pubblicato solo nel 1828, il Manifeste des Égaux si configura come il testo base del socialismo moderno (Rosanvallon 2013: 92-93). C’è un altro punto di interesse in questo scritto. Qui vediamo l’uguaglianza lavorare in modo esteso all’interno della società, quasi fino a coprirla del tutto, secondo il principio dell’égalité parfaite di Babeuf: Giacché tutti hanno medesimi bisogni e medesime facoltà, non ci sia dunque più per essi che una sola educazione, che un solo nutrimento. Tutti si accontentano di un unico sole e di una sola aria: perché le stesse quantità e qualità di alimenti non dovrebbero bastare a ciascuno di essi? (Maréchal 1966: 58).

Eppure c’è un limite, oltre il quale l’uguaglianza non può spingersi: «Tra gli uomini non vi sia più altra differenza che quella data dall’età e dal sesso» (c.m.). Insomma, tutte le differenze devono essere abolite, in particolare quelle dovute all’economia, all’educazione, alla politica. Età e sesso sono però fattori di differenziazione, rispetto ai quali l’egualitarismo protocomunista di Maréchal e di Babeuf non può che arrestarsi. Nel suo libro dedicato al concetto di Uguaglianza, Riccardo Caporali (2012) fa in effetti notare quali siano i limiti dell’uguaglianza nelle varie proposte e concezioni che si sono storicamente succedute: schiavi e donne sono stati molto spesso i soggetti tenuti a margine o addirittura esclusi dai programmi egualitari. Nel caso specifico di Maréchal può essere importante rilevare che egli non si limita a riconoscere “differenze di genere”, come oggi si direbbe. Egli va ben oltre: nel 1801 redasse un Projet d’une loi portant défense d’apprendre à lire aux femmes (Progetto di legge per vietare alle donne di imparare a leggere), nel quale viene negata alla donna la possibilità di esprimere la sua soggettività, a tutto vantaggio degli uomini, destinati a divenire, al contrario, soggetti autonomi e consapevoli (Caporali 2012: 144). Anche così si dimostra che una “perfetta uguaglianza” è impossibile non solo nel mondo reale, ma persino nel pensiero dei suoi massimi teorizzatori. Un’ultima osservazione a proposito del Manifeste des Égaux. In due occasioni, noi vediamo che l’autore usa accoppiati i termini “simili” e “uguali”, in particolare là dove sostiene che da troppo tempo meno di un milione di individui ha a propria disposizione quanto appartiene a più di venti milioni di loro simili [semblables], di loro eguali [égaux]

e là dove afferma che basta che, sulla terra, un sol uomo sia più ricco e più potente dei suoi simili [semblables], dei suoi uguali [égaux], e l’equilibrio è rotto: il delitto e la sfortuna sono nel mondo.

Perché questo accoppiamento? E perché questo binomio, in cui il termine “simile” precede il termine “uguale”? Forse perché il termine “simile” rinvia a una condizione di più diffusa “normalità” e il termine “uguale” a una condizione di eccezionalità. Potremmo dire che la somiglianza è la base, il terreno, su cui si può innestare l’uguaglianza (o le richieste, i progetti di uguaglianza). Ma dobbiamo qui richiamare e ribadire una precisazione molto importante: somiglianza è sempre anche differenza; se la somiglianza è il terreno di base, lo è in quanto è mischiata alla differenza. Se l’uguaglianza viene fatta intervenire – sia come richiesta e aspirazione dal basso, sia come imposizione dall’alto –, si tende a diminuire i fattori di differenza a tutto vantaggio dei fattori di somiglianza. Se c’è o vogliamo che ci sia uguaglianza, siamo senza dubbio portati a privilegiare la somiglianza rispetto alla differenza e dunque ad abbinare “simili” e “uguali”: i simili si trovano incamminati – per così dire – sulla strada che conduce all’uguaglianza; essi per un verso ne sono i promotori e per l’altro verso ne sono gli effetti. Vi è da supporre che sia per questo motivo che l’espressione “simili e uguali” ricorre con tanta frequenza in Alexis de Tocqueville. All’inizio del suo De la Démocratie en Amérique del 1835 troviamo la seguente frase: Fra le cose nuove che attirarono la mia attenzione durante il mio soggiorno negli Stati Uniti, una soprattutto mi colpì assai profondamente, e cioè l’eguaglianza delle condizioni (Tocqueville 2011: 19).

In particolare, egli ritiene che «l’eguaglianza delle condizioni» sia «il motivo generatore» a cui occorre fare risalire le diverse circostanze sociali, una sorta di «punto centrale» dell’organizzazione della società. Del resto, anche in Europa – sia pure in forme meno accentuate – è possibile riscontrare un «progresso dell’eguaglianza», che assume un carattere «provvidenziale» e «universale» (2011: 21-22). A tal punto questo «universale livellamento» si configura, agli occhi di Tocqueville, come un processo inarrestabile, da indurlo a porre la questione: «Dove andiamo dunque?», quale tipo di società verrà generata da questo processo, visto che si tratta di qualcosa di inedito? Per Tocqueville, è il Cristianesimo ad avere innescato questo processo: I geni più profondi e grandi di Roma e della Grecia non hanno mai potuto raggiungere questa

idea generale, ma anche tanto semplice, della somiglianza degli uomini e dell’eguale diritto alla libertà che ognuno ha fin dalla nascita [...] bisognò che Gesù Cristo venisse sulla terra per fare comprendere che tutti i membri della specie umana sono naturalmente simili ed eguali (2011: 433, c.m.).

Ritroviamo questa espressione pure in diversi altri luoghi del libro di Tocqueville (2011: 439, 442). E soprattutto quando prefigura una sorta di punto culminante della democrazia – là dove uguaglianza e libertà si congiungono –, Tocqueville fa vedere assai bene che è l’aumento della somiglianza, ovvero l’eliminazione delle differenze, ciò che genera l’uguaglianza: a quel punto «nessuno sarà [...] differente dai suoi simili»; tutti gli uomini «saranno interamente eguali»; ma «saranno tutti perfettamente eguali, perché saranno interamente liberi» (2011: 511). Qui Tocqueville ci fa capire un punto estremamente importante: ovvero che la somiglianza può aumentare, fino a raggiungere l’uguaglianza perfetta; ma – nella visione da lui auspicata – si tratta di una uguaglianza limitata alla libertà. Ciò che egli teme è che nel processo di livellamento, in cui ci si è incamminati, prevalga «l’amore per l’eguaglianza stessa», l’uguaglianza in quanto tale (2011: 511). «Specialmente in Francia – egli osserva – questa passione dell’eguaglianza» sembra occupare «ogni giorno un posto più grande nel cuore umano», fino al punto da asserire che «i nostri contemporanei provano un amore molto più ardente e tenace per l’eguaglianza che per la libertà». Più in generale, egli afferma che «abitualmente gli uomini» sono indotti «a preferire l’eguaglianza alla libertà» (2011: 512). Un’uguaglianza svincolata dalla libertà, un’uguaglianza diffusa nell’intero corpo sociale, può «facilmente combinarsi con istituzioni» che non sono affatto libere. In questo Tocqueville intravede «i pericoli dell’eguaglianza», ovvero «i mali che possono essere prodotti dall’estrema eguaglianza» (2011: 513). In termini formali, potremmo dire che questi mali sono sintetizzabili nella scomparsa delle differenze e quindi anche delle somiglianze: in quel tipo di società, gli uomini non sarebbero più “simili e uguali”, ma soltanto “uguali”. Una prova del carattere intermedio ed equilibratore della somiglianza viene fornita dallo stesso Tocqueville quando, al contrario, prende in considerazione le società aristocratiche. In queste società prevalgono le differenze, a tal punto da oscurare le somiglianze: «È vero che, in questi stessi secoli [quelli dell’aristocrazia], la nozione generale del simile è oscura» (2011: 516). Non si tratta soltanto delle società

aristocratiche tradizionali. Anche nel caso dell’«aristocrazia industriale», quella che si forma nelle società democratiche industrializzate, «padrone e operaio non hanno [...] nulla di simile e ogni giorno differiscono maggiormente» (2011: 574). In generale, In un popolo aristocratico ogni casta ha opinioni, sentimenti, diritti ed esistenza a parte; perciò gli uomini che la compongono non rassomigliano a tutti gli altri; non hanno lo stesso modo di pensare e di sentire; è molto se credono di fare parte della stessa umanità (2011: 579).

In breve, la somiglianza si trova in mezzo ai due estremi: quello delle differenze più accentuate e quello dell’uguaglianza più estesa e capillare. Le società sembrano oscillare tra questi due estremi (l’estremo aristocratico e l’estremo democratico, per usare la terminologia di Tocqueville), anche se non potranno mai spingere i fattori di differenza fino a negare del tutto i motivi della somiglianza (la condivisione di almeno alcuni tratti o proprietà comuni) e non potranno mai rendere tutti talmente uguali da non vedere più alcuna differenza (2011: 695-696, n. 2; 742). Ciò che in un caso e nell’altro si viene a determinare è, appunto, un “oscuramento della somiglianza”. La somiglianza però è, per Tocqueville, un elemento strutturale, comprimibile e dilatabile in misura considerevole, e tuttavia mai del tutto sopprimibile. Supponiamo che sia per questo che egli propone in maniera convinta una «società di simili» (Rosanvallon 2013: 29), dove – in gradi e modi diversi – le spinte all’uguaglianza vengono temperate dalle differenze e dove le differenze vengono a loro volta attenuate dalle somiglianze. Per concludere, ci pare di poter proporre il seguente schema sintetico: 1) Mentre le somiglianze e le differenze sono oggetti di osservazione e di analisi tanto nel mondo naturale, quanto nel mondo sociale e culturale umano, l’uguaglianza è un’idea, un principio, un ideale che emerge soltanto in ambiti e momenti specifici delle società e delle culture umane. 2) Che si tratti della matematica o del diritto, l’uguaglianza è un’invenzione (non per niente, molti ideali ugualitari trovano espressione nella formulazione di utopie, come quelle di Moro, Campanella, Bacone [Caporali 2012: 86-88]). 3) In campo giuridico, politico e sociale l’uguaglianza può cercare di trovare applicazione sostanzialmente in quattro modi: a) astraendo dalle differenze, come se queste non esistessero, rendendole comunque ininfluenti, per quanto riguarda il riconoscimento e

l’esercizio dei diritti. Si consideri, per esempio, l’art. 3 della Costituzione italiana: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

Si noti: sono “eguali”, non sono “simili”. Se fossero simili, significherebbe che permangono tra loro – di fronte alla legge – delle differenze, delle disparità, delle distinzioni. Ovviamente, si potrebbe aggiungere che tale uguaglianza è oggetto di una dichiarazione di principio: si tratta quindi di una uguaglianza «prescrittiva», non «descrittiva» (Gianformaggio 1995: 145). Con ciò si potrebbe anche intendere che, mentre si è tutti uguali di fronte alla legge, di fatto nell’applicazione della legge si è – o si rischia di essere – soltanto “simili” (più o meno simili); b) abbattendo le differenze. Portiamo un esempio di icastica e immediata comprensione. Nelle società tradizionali della Melanesia era previsto che un uomo emergesse, si arricchisse, diventasse particolarmente influente, svettasse con il suo potere sopra tutti gli altri, cioè diventasse un “grande uomo” (big man). Era anche previsto – come ha descritto assai bene Marino Niola (1981) – che il suo potere conoscesse una parabola discendente, in modo da ripristinare condizioni di uguaglianza. Nel caso dei Kapauku il ripristino dell’uguaglianza era particolarmente efficace: “Tu non devi essere il solo ricco, dovremmo essere tutti uguali, perciò sii uguale a noi”. Con queste parole i Kapauku delle Highlands della Nuova Guinea occidentale uccidono il loro leader all’apogeo del suo potere (Niola 1981: 20);

c) promuovendo e costruendo condizioni di maggiore eguaglianza, ovvero riducendo differenze e aumentando somiglianze (per esempio, attraverso una più equa distribuzione di risorse economiche). Si veda, in questo senso, la seconda parte dell’art. 3 della Costituzione italiana, già citato: È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese;

d) imponendo modelli e condizioni di vita “uniformi”. I regimi totalitari del Novecento forniscono una molteplicità impressionante di esempi con i loro tentativi di uniformazione di pensieri, stili, comportamenti. Si pensi anche alla formazione degli eserciti moderni, con

«la irreggimentazione e la produzione in serie di soldati» (Mumford 1964: 109): Ogni soldato doveva avere gli stessi vestiti, lo stesso cappello, lo stesso equipaggiamento, di tutti gli altri membri del suo reparto: l’esercizio li faceva agire nello stesso modo, la disciplina li faceva reagire nello stesso modo, l’uniforme li faceva apparire uguali (1964: 110).

4) L’uguaglianza può essere invocata e favorita (a e c) o può essere brutalmente imposta (b e d). In ogni caso, il problema è quello di vedere quanto le differenze possano essere abbattute, quante e quali differenze comunque insorgano, in quale misura le somiglianze si lascino trasformare in uguaglianze. Il problema è quello della misurazione del grado di applicazione e di realizzazione dell’uguaglianza. La stessa violenza dei casi di abbattimento delle differenze (b) e di imposizione dell’uguaglianza (d) ci fa capire quanto ampio sia lo scarto tra l’uguaglianza come idea e il vasto campo di realizzazione, dove dominano somiglianze e differenze di ogni genere. 5) La tesi dunque è che non solo negli ambienti naturali, ma anche in ambito umano (nelle società e nelle culture dell’uomo) valga il principio leibniziano della “infinita diversità” delle cose, nonostante la brama di uguaglianza che spesso invade gli esseri umani (Tocqueville 2011: 511514). 6) L’uguaglianza ha sempre qualcosa di problematico, per quanto riguarda non solo la sua realizzabilità, ma anche la sua pensabilità. In un capitolo intitolato “I turbamenti dell’uguale”, Gabriele Lolli sostiene che in matematica l’uguaglianza è un concetto infido; in un certo senso anche paradossale, se non si fanno le dovute distinzioni. Si pensi all’assurdità apparente di dire “se due numeri sono uguali [...]”. Se sono uguali non sono due (Lolli 2014: 71).

Per questo suo carattere infido, Lolli propone di interpretare l’uguaglianza soltanto come «un simbolo definito» e non come «quella relazione misteriosa che dovrebbe valere solo tra un elemento e sé stesso» (2014: 72). Sembra di assistere così a una sorta di depotenziamento dell’uguaglianza, onde evitare di conferirle quella specie di aura metafisica che le è stata così spesso assegnata. Del resto, lo stesso procedimento di dimostrazione, lungi dall’essere inteso come «un flusso diretto lineare ininterrotto di formule matematiche», secondo una linea obbligata e inflessibile, viene paragonato a «una passeggiata», da svolgersi «senza fretta», caratterizzata da «deviazioni e ritorni e visite su percorsi laterali, in un

paesaggio abitato da pensieri e da parole» (2014: 74). Anziché in mezzo ai paradossi dell’uguaglianza, ci troviamo forse sul terreno delle somiglianze e delle differenze? 5. In mezzo a somiglianze e differenze Ci siamo dilungati sul caso E e F (situazione III) a causa delle implicazioni di non poco conto che ne scaturiscono, soprattutto per quanto riguarda il concetto di “uguaglianza”. Proviamo ora ad affrontare un caso “simile”, simmetrico e contrario. All’estremo opposto dello spettro delle somiglianze, dovremmo trovare infatti la situazione IV: G

=

H

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10 11

12

13

14

15

16

17

G e H non hanno nulla in comune, e quindi nessun elemento di condivisione che li leghi. Tra di loro non sembra esistere alcun grado di somiglianza; avendo ognuno i propri tratti esclusivi, c’è invece una totale estraneità. Si ha l’impressione di avere qui oltrepassato i confini della somiglianza e di essere entrati nel regno opposto a quello dell’uguaglianza, nel regno cioè della diversità pura. Eppure, proprio come nella situazione III abbiamo ipotizzato che, a un esame più ravvicinato, E e F (i due bicchieri del nostro esempio) avrebbero dimostrato di avere delle differenze, di essere distinguibili se non altro nell’uso che ne facciamo, così forse, a una considerazione più attenta e mirata, G e H potrebbero dimostrare di avere dei tratti in comune. E e F sono, nel nostro esempio, due bicchieri fatti della stessa materia e della stessa foggia, mentre G e H potrebbero essere – a caso – la luna e una bicicletta. Che cosa mai possono avere in comune questi due ultimi oggetti? Sforzandoci un po’, potremmo trovare, per esempio, un certo tratto di rotondità in comune tra le ruote della bicicletta e il corpo della luna, così come potremmo collegare la rotondità di questi elementi alla funzione motoria che caratterizza sia un oggetto che l’altro: la bicicletta si muove sul terreno, la luna si muove nello spazio extraterrestre. Procedendo a un esame fisico-chimico, potremmo trovare che alcuni elementi della materia della luna sono rinvenibili anche nella materia di cui sono fatte diverse parti della bicicletta. Non è escluso quindi che tra G e H spuntino – a un’osservazione più attenta e tecnologicamente potenziata –

elementi di condivisione, cioè che affiorino somiglianze impreviste, le quali provocherebbero la conseguenza di far passare G e H dal regno della “diversità pura” a quello delle “differenze”. Se tra G e H non ci sono somiglianze, essi sono semplicemente “diversi”; se invece tra G e H affiorano somiglianze, essi non sono diversi in senso assoluto: sono “differenti”. È evidente che qui stiamo forzando un po’ la semantica delle nozioni che normalmente utilizziamo. Nel nostro linguaggio comune “diversità” e “differenza” sono spesso usati come sinonimi, come è attestato da molti dizionari della lingua italiana. Tuttavia, sembra di poter precisare e fare nostra l’idea di Aristotele (X, 3; 2009: 1345), secondo cui, mentre “diversità” è nozione più generica, “differenza” presuppone una più specifica messa a confronto, e proprio per questo comporta un’implicazione necessaria con la nozione di somiglianza. Lo stesso gesto di messa a confronto di due cose implica che le due cose (G e H nel nostro caso) non siano del tutto irrelate e che, quanto meno per l’ipotesi che sostiene il confronto, possiedano qualcosa di comune ovvero alcune potenzialità di condivisione e di somiglianza. Si potrà obiettare che abbiamo scelto la luna e la bicicletta non a caso, avendo già un retro-pensiero diretto alla forma arrotondata della luna, da un canto, e delle ruote della bicicletta, dall’altro. Facciamo allora un esempio più “difficile”: quello, per esempio, tra la luna e una penna stilografica. Se – com’è probabile – non troviamo in questo caso degli elementi comuni a portata di mano, potremmo tuttavia prendere in considerazione un’altra possibilità, quella di inserire tra la luna e la penna stilografica cose intermedie, che facciano per così dire da tramite in una catena più o meno lunga di somiglianze. Proponiamo quindi di considerare due tipi di somiglianze: quelle dirette, che collegano direttamente un oggetto a un altro, e quelle indirette, attivate da collegamenti intermedi. Anche questo è un punto importante, perché è vero che, per comodità di analisi, noi abbiamo finora considerato soltanto rapporti a due (A e B, C e D e così via). Ma una considerazione un po’ meno astratta e ristretta ci consente di cogliere e di fare valere una visione decisamente più complessa e più aderente alle situazioni che via via si presentano nelle nostre esperienze. È lecito, anzi è doveroso, pensare che per ognuno degli oggetti assunto come base o punto

di partenza non ci sia soltanto un altro oggetto, bensì una molteplicità praticamente indescrivibile di altri oggetti con cui esso potrebbe intrattenere rapporti di somiglianza e di differenza, i quali a loro volta saranno rapporti di somiglianza più stretta o meno stretta, rapporti di somiglianza più evidente o meno evidente, oltre che rapporti di differenza più o meno accentuata. Proponiamo uno schema in cui si vedono ramificazioni di somiglianze e differenze in una molteplicità di direzioni, tenendo ben presente che i rapporti qui immaginati sono già di per sé frutto di selezioni molto consistenti e del tutto arbitrarie. Ovviamente, occorre chiedersi: quante altre ramificazioni avremmo potuto aggiungere?

Avremo modo di tornare su questa nuova possibilità che ci si apre, quella cioè di una trama fittissima di somiglianze e di differenze: un groviglio certamente inquietante sotto il profilo epistemologico (e non solo). In questo capitolo, dedicato a proposte di definizione e all’elaborazione di una certa terminologia, ci limitiamo a fare intravedere questo passaggio da semplici relazioni lineari e bipolari (A e B, C e D ecc.) a relazioni che, da un punto qualsiasi del nostro spazio mentale, si dipartono in una molteplicità di direzioni possibili, innescando oltre tutto catene di somiglianze dirette e di somiglianze indirette. Un ultimo accenno di ordine generale è qui opportuno. Fino a che la considerazione delle somiglianze si svolge a coppie (appunto A e B, C e D ecc.), è come se ogni coppia costituisse di per sé un mondo chiuso e definito in sé stesso. Non appena ci si apre alla considerazione dei grappoli di somiglianze che, a partire da un oggetto qualsiasi, si dipartono in ogni direzione, innescando catene di somiglianze dirette e di somiglianze indirette, sarà assolutamente inevitabile porre il problema del “fino a che punto” tali catene possono spingersi: c’è un confine a cui le somiglianze si arrestano? E se esiste questo confine, chi lo stabilisce? In questo paragrafo il nostro discorso ha scopi più circoscritti, per cui ritorniamo alla considerazione delle relazioni di somiglianza a due, concentrandoci ora su questa possibilità (situazione V): I

=

L

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10 10

11

12

13

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17

18

Come si vede, I e L hanno in comune soltanto un tratto (il tratto 10). Come ci comportiamo sotto il profilo linguistico? Diremo forse che sono “simili” o piuttosto che sono “differenti”? Già Aristotele aveva fatto notare questo tipo di differenza tra “simile” (homoios) e “differente” (diaphoros), a seconda che tra due cose siano più numerose le somiglianze o siano più numerose le differenze. Potremmo allora sostenere che simile e differente appartengono allo stesso campo semantico, di cui costituiscono due varianti. Probabilmente siamo inclini a dire che due cose sono “simili” tra loro quando sono molti i tratti in comune, o quando i tratti in comune sono maggiori dei tratti differenzianti (tipica è la situazione II, nella quale C e D condividono 9 tratti comuni su 10). Diremo invece che due cose sono “differenti” tra loro quando prevalgono i tratti differenzianti su quelli

accomunanti (come appunto nella situazione V, dove I e L hanno un solo tratto in comune). Il nostro discorso si fa a questo punto più articolato, se facciamo intervenire un ospite rimasto finora dietro le quinte: la nostra considerazione deve rivolgersi infatti non soltanto alle “cose” (A e B, C e D... I e L), tra cui intercorrono i rapporti di somiglianza e di differenza, ma anche ai “soggetti” – singolari o collettivi – che esprimono i loro giudizi di somiglianza e di differenza. Può succedere infatti che agli occhi di un qualunque soggetto siano più importanti i tratti accomunanti (i fattori di somiglianza) che non i tratti differenzianti (i fattori di differenza), o viceversa, e ciò a prescindere dall’effettiva proporzione tra i due tipi di fattori. Addirittura può succedere che certi soggetti scorgano somiglianze in situazioni in cui altri soggetti non vedono altro che differenze, e viceversa. Conosciamo tutti – per fare un esempio – gli effetti di uniformazione del nostro sguardo sul piano “razziologico”: i neri (o i cinesi) ci sembrano tutti uguali. Siamo così poco addestrati in certi casi a riconoscere le differenze che queste scompaiono o tendono a retrocedere, e in effetti – come abbiamo visto più sopra – quando scompaiono le differenze anche le somiglianze tendono a dar luogo a un’impressione, ovviamente illusoria, di uniformità, di uguaglianza. Soltanto una maggiore assiduità, familiarità, frequentazione, e nel contempo una maggiore attenzione osservativa, consentono di fare emergere le differenze e così di valutare con maggiore precisione le somiglianze. Del resto, la visione “razziologica” è un ottimo esempio anche del processo inverso. Se paragoniamo “noi” (per esempio, bianchi) a “loro” (per esempio, neri), saremo senza dubbio portati a esaltare a dismisura le differenze, fino al punto da espungere o cancellare le somiglianze, e così creare entità nettamente separate: in effetti, è grazie a questa illusione ottica che si sono venute a determinare le “razze”. Anche questi processi molto spinti, e diciamo pure “eccessivi”, di assomigliamento e di differenziazione saranno argomenti su cui avremo modo di tornare. Qui ci è sufficiente indicare un’ulteriore tappa del nostro discorso, che articoleremo in questo modo: – somiglianze e differenze costituiscono reti molto intricate e complesse, di cui non è certo facile stabilire preventivamente i confini; – queste reti non includono soltanto delle “cose”, tra le quali si

sviluppano i rapporti di somiglianza e di differenza, ma comprendono necessariamente anche dei “soggetti” che, almeno entro certi limiti, valutano e decidono l’incidenza di questi rapporti; – detto in altri termini, i rapporti di somiglianza e di differenza non esistono da soli, ma si attivano – anche soltanto in maniera speculativa – grazie a dei soggetti; – in altri termini ancora, guardare somiglianze e differenze non consiste in una registrazione passiva, ma è già da subito una selezione e un’attivazione; – i soggetti intervengono dunque attivamente nella matassa delle relazioni di somiglianza e differenza, fino al punto di annullare o cercare di annullare – sul piano conoscitivo come su quello dell’azione – le une o le altre. Leibniz (ancora lui) aveva intuito assai bene alcune motivazioni che spingono i soggetti a intervenire sulle relazioni di somiglianza e differenza. Egli aveva notato, per esempio, che a proposito delle diversità noi abbastanza spesso dimostriamo la nostra «ignoranza», nel senso che tendiamo a ignorarle in buona parte e ad avere di esse «percezioni confuse» (Leibniz 1988: 139). Ma ignoranza e percezioni confuse non sono soltanto aspetti negativi sul piano gnoseologico: esse svolgono una funzione importante e in gran parte ineliminabile nell’organizzazione della nostra vita (anzi, per Leibniz, è lo stesso «Autore infinitamente saggio del nostro essere» ad avere «voluto ciò per nostro bene»!). Ignoranza e percezioni confuse riducono infatti la gamma delle diversità che possono essere percepite. A sua volta, la riduzione della gamma delle diversità fa sì che noi non siamo «incomodati da sensazioni troppo distinte di numerosi oggetti che non ci riguardano» e questo ci consente di «agire più prontamente per istinto» (1988: 139-140). Che tiriamo in ballo la divinità (come fa Leibniz) o che invece si voglia evocare l’evoluzione (come potrebbe fare ora un biologo), è comunque importante non essere «incomodati da sensazioni troppo distinte». L’ignoranza e la confusione – la riduzione delle diversità – risultano dunque funzionali alla prontezza dell’agire: un’attenzione troppo acuta per le diversità farebbe da ostacolo alla funzionalità e all’efficacia del nostro comportamento. Vale la pena citare alcuni esempi proposti dallo stesso Leibniz (1988: 140): Quanti insetti non inghiottiamo senza rendercene nessun conto? Quante persone non vediamo

che sono incomodate dal loro odorato troppo sottile; e quanti oggetti nauseanti vedremmo, se la nostra vista fosse più acuta?

Ignoranza e percezioni confuse sono per così dire indotte, non precisamente volute (se non dal nostro Autore); il nostro spirito – secondo Leibniz – compie però una serie di operazioni, il cui esito consiste non solo in una riduzione di diversità, ma anche in un’organizzazione delle cose. Si tratta di operazioni di tipo relazionale, in quanto si stabiliscono «relazioni» tra le cose (1988: 112). In particolare, con l’astrazione si procede a ricavare ciò che vi è di comune tra un certo numero di cose e con la comparazione si instaurano rapporti sia di somiglianza e di eguaglianza, sia di disuguaglianza e di differenza. Inoltre, il nostro spirito tende anche a mettere insieme o riunire certe cose, stabilendo per esempio dei legami di causa ed effetto o di tutto e di parte. Il mondo così risulta essere ridimensionato, sfoltito, de-complessificato nella sua diversità a causa delle nostre “provvidenziali” percezioni confuse, ma anche organizzato mediante le “operazioni dello spirito”, in cui gli esseri umani intervengono in modo più attivo e consapevole. Grazie a queste riflessioni di stampo leibniziano, appare imprescindibile per ogni approccio interessato alle reti di somiglianze e di differenze tenere conto dei “soggetti” che vi intervengono per modellare, fare esistere, istituire o, al contrario, ridurre, negare e distruggere tali rapporti. È partendo da questo tipo di presupposti che l’antropologia si è spinta a considerare la somiglianza come qualcosa che viene non già meramente registrato, ma “istituito”. Per esempio, Berardino Palumbo ha efficacemente intitolato un suo recente scritto La somiglianza è un’istituzione (2011). In esso il riferimento teorico più consistente è alla tesi di Mary Douglas (1990: 93), secondo cui «solo le istituzioni possono definire l’identità: la similarità è un’istituzione» (Palumbo 2011: 208). Qui non entreremo nel merito delle analisi di Palumbo, il quale intende dimostrare come il partito politico della Lega di alcuni anni fa trasformasse «una molteplicità di differenze dialettali, economiche, storiche, territoriali (il Friuli e il Piemonte, le valli lombarde e Venezia)» in una immaginaria «“somiglianza” (identità) padana» (2011: 211). Ciò che a noi interessa è sottolineare, insieme alla validità di un approccio teso a individuare i soggetti istituenti le somiglianze, la necessità di elaborare prospettive teoriche e strumenti di analisi ulteriori, i quali consentano di

mettere maggiormente a fuoco le nozioni di “identità” e di “somiglianza”, considerandole non già come termini equivalenti e intercambiabili (come succede in Palumbo e in Mary Douglas), ma come appartenenti a domini distinti. Di questo abbiamo già discusso nei capitoli precedenti e discuteremo ancora nei prossimi capitoli. Proprio in vista di questa discussione, obiettivo di questo capitolo è quello di evitare la confusione tra questi termini, conferendo alla tematica della somiglianza e della differenza un carattere nettamente prioritario rispetto a quello dell’identità. Si tratta in fondo di un invito – rivolto beninteso non solo agli antropologi – a non cadere vittime del processo di marginalizzazione a cui la somiglianza è stata sottoposta (come nel caso già esaminato di François Jullien e come vedremo ancor più nel capitolo IV), a non vederla assorbita dall’identità, e a conferire esplicitamente ad essa il ruolo fondamentale e prioritario che le compete. Importante e indispensabile è la nozione di “istituzione”, così come quella dei “soggetti” che istituiscono. Ma i soggetti (singolari o collettivi) istituiscono – sono tenuti a istituire – somiglianze e differenze, prima delle identità. Anzi, mentre non possono fare a meno di istituire somiglianze e differenze, possono anche non coltivare preoccupazioni identitarie, non essere posseduti dall’ossessione dell’identità (cap. II e Remotti 2010). 6. Il totemismo dei Wanindiljaugwa Dunque, quando si afferma che “la somiglianza è un’istituzione”, si allude a qualche soggetto che istituisce i rapporti di somiglianza. In un certo senso è vero che somiglianze e differenze esistono per un determinato soggetto. Ma questo soggetto – anche un soggetto collettivo – ha forse il dominio sull’intero regno delle somiglianze e differenze? Può percorrere con lo sguardo questo territorio nella sua estensione, da un confine all’altro, da un capo all’altro? Riteniamo di no; riteniamo anzi che si peccherebbe di ego-centrismo, di socio-centrismo o di antropo-centrismo (a seconda dei livelli rispetto a cui ci si posiziona) se si supponesse che l’insieme delle somiglianze e differenze considerate dai soggetti interessati coincida con tutte le somiglianze e differenze possibili. I soggetti che istituiscono le somiglianze non sono onnipotenti: soltanto Dio – sosteneva

Leibniz – conosce fin nei minimi dettagli l’infinita diversità delle cose, sia nella loro estensione, sia nelle loro più minute e nascoste differenze e somiglianze. A noi, invece, succede di stare letteralmente “in mezzo” alle somiglianze e alle differenze (§ 5), sommersi in esse, come se fossimo in mezzo a un oceano o – se si vuole – a una foresta, di cui non conosciamo né l’estensione né i confini. È vero che possiamo dotarci da un lato di microscopi e dall’altro di telescopi per andare oltre la capacità di percezione dei nostri sensi. Ma sarebbe una presunzione dal sapore teocentrico pensare che sia sufficiente avvalerci della nostra tecnologia – anche la più potente e raffinata – per padroneggiare in lungo e in largo, oltre che in profondità, l’intero territorio delle somiglianze e delle differenze e quindi fare coincidere i confini di questo territorio con i limiti della conoscenza che noi ne abbiamo. Come potremmo dire che questo territorio termina esattamente nel punto dove si spinge il nostro sguardo, per quanto tecnologicamente potenziato? Inoltre, non è solo questione dei limiti esterni della foresta; è anche questione dei percorsi all’interno della foresta, cioè delle catene delle somiglianze e differenze che abbiamo intuito, attivato, istituito. Quali e quanti sentieri avremmo potuto prendere e non abbiamo nemmeno iniziato? Su quali e quante altre somiglianze e differenze avremmo potuto soffermarci e invece non le abbiamo nemmeno viste? Per fare capire questo forte senso di disorientamento e, nello stesso tempo, la casualità dei percorsi di somiglianza che potremmo “istituire”, ci viene in soccorso uno studio che diverso tempo fa l’antropologo inglese Peter Worsley ha dedicato al totemismo di alcuni aborigeni australiani, in particolare i Wanindiljaugwa di Groote Eylandt, isola del Golfo di Carpentaria (territorio del Nord dell’Australia), che egli aveva studiato nel 1953. In primo luogo, Worsley sintetizza con proprie parole il pensiero di Claude Lévi-Strauss, secondo il quale in tutte le società l’uomo percepisce, seleziona, ordina intellettualmente e struttura socialmente le similarità e le differenze in entrambi i regni culturale e naturale rispettivamente (Worsley 1975: 180).

In base alla tesi di Lévi-Strauss e di altri antropologi, questo assiduo lavoro di selezione e ordinamento delle somiglianze e differenze percepite sia in ambito naturale, sia nell’ambito della società, avrebbe poi lo scopo di dare luogo a una classificazione, mediante cui «l’uomo organizza la sua esperienza» (1975: 181). Come è noto agli antropologi, le varie forme di

totemismo – vale a dire le concezioni che istituiscono rapporti di parentela, e dunque di somiglianza, tra elementi della società ed elementi della natura – non sarebbero altro per Lévi-Strauss (1964a; 1964b) che modalità di classificazione del mondo umano e del mondo naturale. E – secondo quanto avevano insegnato all’inizio del Novecento Émile Durkheim e Marcel Mauss (1974) – l’attività di classificazione si esprime normalmente in sistemi. Peter Worsley cerca dunque un qualche sistema di classificazione nel totemismo dei Wanindiljaugwa, ma non lo trova. Non trova nemmeno criteri di classificazione di tipo alimentare, né di più generica rilevanza sociale: l’echidna e il corvo – pur considerati come totem – non sono commestibili, e che dire del vento di nord-ovest, e addirittura della diarrea, del vomito e delle zanzare (Worsley 1975: 182-183)? Beninteso, gli aborigeni non vivono affatto in un mondo concettualmente sconclusionato, dato che «possiedono una prodigiosa conoscenza delle specie naturali» e fanno uso di «centinaia di piante ed animali» (1975: 183). Ma tornando alla congerie di cose che si trovano collocate in una qualche posizione totemica, la tesi di Worsley è che in queste faccende «c’è veramente poco che sia sistematico» (1975: 186). Oltre tutto, i totem non sono esclusivi di determinati clan e quindi non hanno la funzione di porre un ordine nell’universo naturale e sociale (1975: 190-191). La conclusione di Worsley è quindi quella di evitare l’idea di un «sistema totemico», in quanto l’insieme delle connessioni totemiche non si determina attraverso un «ordinamento logico del mondo aborigeno», per esempio attraverso l’applicazione sistematica di opposizioni binarie, tanto care a Lévi-Strauss (Worsley 1975: 192). Non si tratta di un sistema, ma piuttosto di una raccolta, di una «collezione» (collection): la “collezione” totemica aggrega, accumula, forma agglomerazioni di elementi non connessi nella logica sistematica o nella Natura, secondo una varietà di principi di associazione. Quindi, invece di considerare lo schema totemico come una totalità ordinata, l’ho definita “agglomerativa, arbitraria e fortuita” (1975: 192).

Anche i grandi compendi totemici, come quelli degli Aranda e dei Loritja (Spencer e Gillen 1904: 767-773), «sembrano essere dello stesso tipo e non più “sistematici”» di quello dei Wanindiljaugwa. Una conferma può essere trovata nelle stesse analisi di Durkheim e Mauss, i quali – tesi a rintracciare il carattere sistematico del totemismo australiano – non possono non riscontrare in diverse occasioni uno «sbriciolamento», «una

dispersione delle cose» (Durkheim e Mauss 1974: 77-79). Per i due studiosi francesi si tratterebbe degli effetti di un processo di frammentazione a cui storicamente il sistema sociale degli aborigeni australiani sarebbe andato incontro. Anche un’autorità etnografica come Adolphus Peter Elkin pone in evidenza il «carattere frammentario e particolaristico» del totemismo australiano in generale, offrendone tuttavia una spiegazione assai diversa, non storica e contingente, bensì strutturale (Elkin 1956: 137). Secondo Elkin, con il totemismo «l’australiano [...] porta la natura nella sua vita sociale e rituale». Non si tratta tuttavia della natura «in senso universale», come se fosse un’entità generica, un tutt’uno: la natura è invece pensata «in modo animistico, anzi personale». Gli aborigeni australiani sentono di dipendere dalla natura e proprio per questo «condividono la sua vita e stabiliscono mutue relazioni con essa». Ma le relazioni con la natura coincidono con rapporti «tra un individuo o un gruppo da un lato e dall’altro una o più specie naturali, vale a dire una o più parti della natura»: di qui discende il carattere necessariamente «frammentario» del totemismo australiano, che lo rende distinto da un naturalismo generico. A leggere attentamente le osservazioni di Elkin, sembra di poter reinterpretare in maniera positiva (e non come un effetto di decadimento o sbriciolamento di un sistema) il carattere a-sistematico del totemismo australiano. Se è vero che il totemismo consiste in una «relazione fra un individuo o gruppo da un lato e un oggetto o specie naturale dall’altro» (Elkin 1956: 137), e se queste relazioni sono di condivisione, di parentela, dunque di somiglianza, si può intuire assai bene come, a partire da un singolo gruppo e persino da una singola persona, si dirami una molteplicità di relazioni che penetrano in diversi settori della natura: non solo specie animali, vegetali, commestibili o non commestibili, ma pure oggetti ed eventi che sembrano non avere alcuna rilevanza sociale agli occhi degli stessi aborigeni. Non si tratta di una concezione a «mucchio» (heap), un ammasso, una «congerie non organizzata», come sostiene Worsley (1975: 193). Schierandosi invece con Elkin, si sarebbe più portati a sottolineare la molteplicità di direzioni che le relazioni di somiglianza possono prendere. Beninteso, Worsley afferma a più riprese il valore intrinsecamente scientifico del sapere botanico e zoologico degli aborigeni australiani, e quindi la loro capacità di elaborare un pensiero logico e concettuale (1975:

194). Ma il totemismo per Worsley appartiene a un’altra sfera, mitologica e simbolica, non scientifica, non concettuale (1975: 195). Qui noi non vogliamo asserire che il totemismo australiano sia la scienza degli aborigeni australiani, ma nemmeno pensiamo che sia un pensiero dove prevale il “mucchio”. Forse, potremmo dire che è un pensiero pre-scientifico, nel senso che si limita a intuire, intravedere, sostenere, istituzionalizzare, elaborare ipotesi di somiglianza in una molteplicità di settori del mondo e della natura. Al di qua, al di là o tutto attorno al loro stesso pensiero scientifico – di tipo botanico e zoologico, su cui giustamente insiste Worsley anche in testi più recenti (Worsley 1997) – gli aborigeni australiani gettano intuitivamente ancoraggi esplorativi in diversi ambiti del mondo in cui abitano, probabilmente consapevoli che, oltre a quanto appurato e convalidato dal loro sapere scientifico, esiste una molteplicità quasi incontrollabile di possibilità di connessioni. In questo contesto è opportuno tenere presente quanto sostiene lo stesso Worsley (1975: 184), vale a dire che gli aborigeni vivono in un ambiente in cui «la cultura prodotto-dell’uomo» (man-made culture) è veramente «esigua». Tra la loro esistenza e l’ambiente naturale il contatto è assai meno mediato rispetto ad altre società, le quali frappongono costruzioni culturali artificiali molto più estese e consistenti (si pensi, per esempio, alle città e al mondo industriale). Ciò che si vuole sostenere è che, nella situazione degli aborigeni, è plausibile e quasi obbligatorio agganciare settori diversi della natura, con cui occorre convivere e coabitare, oltre a quelli più minuziosamente indagati dal loro sapere scientifico. Le relazioni di condivisione, parentela, somiglianza – le tipiche relazioni totemiche – offrono un fascio di collegamenti ulteriori e, nello stesso tempo, con il loro carattere frammentario, arbitrario, contingente fanno intuire quanto il campo delle possibili connessioni e delle possibili ulteriori esplorazioni sia ben maggiore di quello determinato dal sapere scientificamente più consolidato. Non solo, ma queste ipotesi di somiglianze, questi legami più o meno arbitrari fanno anche capire – a noi e agli stessi aborigeni – quanto vasto sia il campo in cui non si possono costruire dei sistemi. Gli aborigeni, descritti talvolta come autentici ingegneri sociali, si sarebbero dimostrati grandi esperti nella costruzione di sistemi nell’ambito delle strutture sociali, dell’organizzazione della parentela, delle formule di scambi matrimoniali

(Lévi-Strauss 1984). E allora, con il loro totemismo “frammentario”, è come se volessero convincersi che esistono campi in cui il sistema non vale, in cui invece valgono le ramificazioni, gli intrecci, le implicazioni più disparate. Nella “selva delle somiglianze”3 è inutile cercare o progettare un sistema: se si vuole il sistema occorre sfrondare le somiglianze, ridurre o abbattere la selva. Mantenere e coltivare, intuire o inventare somiglianze avrebbe dunque il significato di lasciare aperte possibilità ulteriori non contemplate dal sistema. Un pensiero che voglia essere solo sistematico procederebbe a una sorta di desertificazione, di inaridimento del terreno tutto attorno a sé: occorre invece lasciare crescere – anche e soprattutto in modo arbitrario – una selva di somiglianze, a cui attingere, oltre alle relazioni stabilite dal sistema. Visto che parliamo di “selva delle somiglianze”, difficile non evocare a questo punto il “pensiero selvaggio” di Lévi-Strauss, un pensiero che «non è per noi il pensiero dei selvaggi, né quello di un’umanità primitiva o arcaica, bensì il pensiero allo stato selvaggio» (1964b: 240). Definizione perfetta, se non fosse che Lévi-Strauss attribuisce al pensiero selvaggio un’eccessiva propensione all’ordine, alla classificazione, al sistema, mentre a noi pare importante affermare – per ogni pensiero, per ogni cultura, soprattutto per ogni sistema – la presenza e la preservazione del groviglio, del disordine, dell’incolto. Anche per il pensiero sembra valere il principio dell’importanza, anzi del carattere indispensabile e vitale, dell’incolto, che André Georges Haudricourt (1964) – coetaneo di Lévi-Strauss – ci ha insegnato a riconoscere per molti sistemi di coltivazione in Oceania, e che Adriano Favole ha di recente rivalutato per ogni sistema culturale (Favole 2018: 93 sgg.). Worsley conclude in modo interessante e argutamente polemico il suo saggio sul totemismo dei Wanindiljaugwa. Egli non vede in esso il sistema e non vede nemmeno l’ossessione per le opposizioni binarie, che secondo Lévi-Strauss rappresenterebbero un tratto universale del pensiero umano. Ci sono certamente le opposizioni binarie, sono anzi assai diffuse nelle diverse società, così come sono importanti per il pensiero logico. Ciò che occorre evitare, tuttavia, è per Worsley (1975: 199) la «moda» numerologica: un tempo la moda era di tipo ternario (Vico, Hegel), mentre ora sarebbe di tipo binario (Lévi-Strauss e gli strutturalisti). Farne una «metafisica assoluta e universale» significherebbe non accorgersi delle

somiglianze e delle differenze che hanno la capacità di attraversare i confini delle categorie che i sistemi di classificazione mettono in ordine e in opposizione. Protagora, grande teorico delle somiglianze, pare avesse detto qualcosa del genere nell’Atene del V secolo a.C.: ed era qualcosa di sconvolgente. 1

Il tema dell’improponibilità dell’espressione “somiglianza perfetta” sarà ripreso più avanti, in relazione al pensiero di David Hume (cap. V, § 5). 2 Anche su questo punto dissentiamo dal quadro che François Jullien delinea a proposito del mondo globalizzato, «dominio dell’uniforme», dove l’uniformazione è spinta all’estremo (Jullien 2010: 16-17). Siamo perfettamente d’accordo quando afferma che «in tutti gli angoli del mondo ritroveremo immancabilmente le stesse vetrine, gli stessi alberghi, le stesse chiavi, gli stessi stereotipi, le stesse insegne». Ma che si tratti di «un mondo dominato dalla Somiglianza (e dalla piattezza)» è tesi valida per la piattezza, non per la somiglianza. Il nostro è un mondo dell’uniforme, del (quasi) identico, dell’uguale, o – se si vuole – di una somiglianza snaturata, spinta all’estremo, appunto verso l’uniformità e l’identità: il nostro non è il mondo della Somiglianza in quanto tale. Su questo punto, vale – a nostro parere – quanto affermato da Olivier Reboul, secondo il quale il nostro mondo tende a divenire sempre più un «regno senza somiglianza», più precisamente un regno in cui «la somiglianza lascia il posto all’identità» (Reboul 1985: 515). 3 Prendiamo a prestito l’espressione “selva delle somiglianze” dal libro di Carlo Augusto Viano (1985), che utilizzeremo soprattutto nel cap. IV.

IV. La guerra contro le somiglianze

1. Un antico dibattito Considerando chi non ha voluto scrivere nulla (Socrate) e chi ha prodotto diversi scritti, nessuno dei quali ci è però pervenuto (come è il caso di Protagora, di Democrito, di Anassagora, e di molti altri, ovviamente), forse è il caso di ammettere che l’immagine che noi abbiamo del pensiero greco è irrimediabilmente distorta. Intenzionale o meno che sia, l’effetto è che vi sono dei grandi vincitori (Platone e Aristotele, sopra tutti, che indubbiamente sono “grandi” e indubbiamente sono stati dei “vincitori”) e vi sono dei perdenti, la cui voce giunge fino a noi in maniera frammentata (è proprio il caso di dirlo), indiretta, flebile, incerta. Vincitori e vinti solo per casi fortuiti (gli incidenti casuali della storia) oppure perché è stata condotta una guerra? Forse entrambe le possibilità si sono verificate. In particolare, per capire che cosa sia la somiglianza (cap. III), per comprendere le implicazioni che scaturiscono dal paradigma “somiglianza”, è importante rendersi conto che su questa nozione è stata condotta – e tuttora si conduce – una lotta, che può anche sfociare in guerra. Nel suo straordinario libro La linea e il circolo, del 1968, Enzo Melandri sosteneva che l’Analogia risulta sempre «coinvolta in una lotta intestina con la Logica» e aggiungeva che si tratta di una «lotta che l’analogia non può perdere; anche se probabilmente non può neppure vincere» (Melandri 2012: 3). Non siamo in grado di scansare una lotta di questo genere, dal momento che le somiglianze sono un groviglio inestricabile. Il rischio è che il groviglio fagociti il nostro intelletto, annulli le nostre capacità di orientamento. Si tratta dunque di una lotta inevitabile, di una tensione costante e insopprimibile. Tutto sta a vedere, però, con quali obiettivi, con

quali mezzi, con quali misure, con quali effetti, secondo quali prospettive questa lotta viene condotta. Tutto sta a vedere se è una semplice lotta o se invece si trasforma in una guerra. Lotta e guerra non sono infatti la stessa cosa, anche se si può scivolare con una certa facilità dall’una all’altra, specialmente dalla prima alla seconda. Non è dunque soltanto per l’esigenza di una ricostruzione storica, per un desiderio erudito di risalire alle origini del pensiero filosofico occidentale, che ci si soffermerà in questo capitolo IV su alcuni pensatori che hanno animato il pensiero greco. Il fatto è che – nonostante tutte le devastazioni della storia – troviamo in certi momenti di quel pensiero tesi e contro-tesi molto illuminanti e decisive sulla faccenda della somiglianza, sulla lotta che inevitabilmente essa suscita o sulla guerra che eventualmente si decide di ingaggiare. Come abbiamo preannunciato alla fine del cap. III, Protagora è figura di riferimento e a introdurci nel dibattito è il libro di Viano (1985), sulla cui espressione “selva delle somiglianze” ci siamo già soffermati, in quanto contiene quel tanto di “selvaggio” e persino di “incolto” che abbiamo voluto intravedere nell’intrico delle somiglianze e delle differenze. Fin da subito, Viano ci presenta il sofista Protagora come colui per il quale «tutte le cose sono legate da relazioni di somiglianza e dissomiglianza», in opposizione alla figura di Socrate, per il quale invece è l’identità a prevalere (Viano 1985: IX). Vissuto tra il 486 e il 411 a.C., il sofista Protagora – va ricordato – non era ateniese, anche se soggiornò diverse volte ad Atene, e qui fece parte del circolo di Pericle. Come poi anche Democrito (460-370 a.C.), Protagora era nato ad Abdera, in Tracia. Ed è probabile che la sua origine straniera rispetto ad Atene, il suo essere nato ad Abdera, un «crocevia geografico» da cui era possibile osservare «la variabilità delle tradizioni» (Cambiano 1971: 59), la pratica del viaggiare per tutta la Grecia e nel Mediterraneo, lo abbiano indotto ad assumere una visione del mondo in cui prevalgono gli elementi di connessione, piuttosto che le separazioni e le opposizioni, le somiglianze che attraversano i confini e che connettono, piuttosto che le differenze invalicabili (Remotti 2013a: 146). L’ateniese Platone (428-347 a.C.) dedica a Protagora un dialogo, in cui si assiste a un dibattito tra il sofista e Socrate (il maestro di Platone) a proposito della virtù. In questo dialogo, infatti, Protagora si propone come «maestro di virtù», sulla base del presupposto che la virtù si possa insegnare (Protagora 327e-328c). Ma

Socrate pone la questione di cosa sia la virtù: è un’unica cosa o più di una? è una cosa di cui si può predicare l’identità o è un insieme di cose in cui prevale la molteplicità? Non sapremo mai che cosa Protagora – a prescindere dalla ricostruzione di Platone – abbia effettivamente sostenuto nel dibattito con Socrate (sempre ammesso che il dibattito sia davvero avvenuto): Protagora, come del resto lo stesso Socrate, è letteralmente nelle mani di Platone, il quale raffigura il sofista come spesso ondeggiante e in certi casi persino contraddittorio. Ciò che emerge fin da subito è certamente l’animosità di Socrate, il quale incalza «lo straniero» che pretende di venire a insegnare la virtù (areté) ai giovani di Atene, ammaliandoli con il suo eloquio e facendosi per giunta pagare. A noi qui non interessa ricostruire i vari punti del dibattito tra i due personaggi. Preso atto però che Protagora inclina ad adottare una visione pluralistica della virtù, vediamo che Socrate – in modo maieutico, ironico, talvolta sarcastico – lo induce, tra gli altri effetti, a enunciare una tesi di ordine generale sulle somiglianze, al di là cioè delle somiglianze e delle differenze tra le virtù: una tesi estrema, conseguenza della radicalizzazione argomentativa impressa da Socrate al dibattito. Protagora in effetti ha tutta l’aria di ammettere che non solo «c’è qualche somiglianza tra la giustizia e la santità», ma che le due virtù si somigliano per un motivo più generale, in quanto, cioè (ecco la tesi generale), in certo modo ogni cosa è simile a ogni altra. È possibile, infatti, che il bianco in qualche modo somigli al nero e il duro al molle e così le cose che sembrano completamente opposte tra loro (Platone 331d; 1970: 331).

Anche Viano sostiene che Protagora, il quale per carattere appare incline a soluzioni «non radicali», è però «disposto ad ammettere» quanto sopra (1985: 37). A proposito di somiglianze, questa sembra essere la proposizione più impegnativa di tutto il dialogo e tale da configurarsi come presupposto di una possibile teoria generale. Qui non ci si limita ad affermare una diffusa e generica presenza di somiglianze nel mondo, come se il mondo, la natura, gli esseri umani avessero la tendenza a essere simili. Dietro l’incalzare senza tregua delle domande di Socrate, Protagora si spinge fino al punto di affermare che non vi è cosa che non rientri in un insieme di somiglianze. Anche le virtù su cui i due discutono (la giustizia, la sapienza, la saggezza, la santità, il coraggio) e che Protagora aveva dichiarato essere “diverse” l’una dall’altra, proprio come sono diverse

(“non simili”) le parti di un volto – occhi, orecchie, naso, bocca –, ciascuna con la sua particolare funzione (330a-b), ora invece possono essere definite simili: Anche le cose che poco fa dichiarammo fornite di funzioni diverse e diverse l’una dall’altra, cioè le parti del volto, in certo modo sono simili e equivalenti l’una all’altra, sicché in questo modo tu potresti mostrare, se lo volessi, che tutte le cose sono simili tra loro (Platone 331d-e; 1970: 331, c.m.).

Si tratta di una semplice oscillazione o, peggio, di una contraddizione tra quanto sostenuto in 330a-b e quanto affermato in 331d-e, o non si tratta piuttosto di un approfondimento della stessa nozione di somiglianza (ottenuto, beninteso, sempre grazie al pungolo dell’argomentazione di Socrate)?1 L’approfondimento consiste nel collegare diversità e somiglianze, cioè nel rendersi conto che ciò che in un primo tempo, o sotto un certo aspetto, appare diverso, può apparire simile in un secondo tempo, o sotto un altro aspetto. Somiglianze e differenze sarebbero così le due facce di una stessa medaglia, i due risvolti di una stessa relazione. Proprio per questo, Protagora si spinge a sostenere, subito dopo l’affermazione di prima: non è giusto chiamare simili le cose che hanno qualcosa di simile e dissimili le cose che hanno qualcosa di dissimile, per esigua che sia la loro somiglianza (331e).

In altri termini, non sono proponibili due categorie ontologicamente separate: la categoria delle cose simili e la categoria delle cose dissimili. Le virtù, di cui i due interlocutori continuano a discutere, sono nello stesso tempo simili e dissimili tra loro. Non si tratta dunque di una contraddizione, ma dello sviluppo di una profonda consapevolezza teorica concernente la problematica delle somiglianze: si tratta del processo mediante cui – con l’aiuto e i pungoli di Socrate – Protagora perviene alla consapevolezza del nodo, o dell’intreccio, che lega in maniera indissolubile somiglianze e differenze. 2. Un abbozzo di teoria e il concetto di SoDif Sarebbe possibile estrarre una teoria delle somiglianze dal dibattito non facile, né lineare, che ad Atene nel V secolo avrebbe visto opporsi Socrate e Protagora sull’unità delle virtù? A noi sembra che, sfruttando gli spunti presenti in quell’antico dibattito, sia ricavabile quanto meno un abbozzo di

teoria, che – intitolandola a Protagora – vorremmo formulare sulla base dei seguenti sette punti (A-G). A) Non vi è cosa che sia esente da rapporti di somiglianza, ossia che non intrattenga rapporti di somiglianza con qualche altra cosa. B) I rapporti di somiglianza espressi da una qualsiasi cosa la collegano a “ogni altra” cosa. Ovvero, i rapporti di somiglianza non coprono parti delimitate del mondo, non formano isole circoscritte, non si arrestano di fronte a determinate barriere. Se è vero che “ogni cosa intrattiene rapporti di somiglianza con tutte le altre cose”, ciò significa che i rapporti di somiglianza coprono il mondo intero, a prescindere dalle divisioni in cui esso si articola. Nel dialogo di Platone, Protagora provvede però, per un verso, ad attenuare un poco la portata delle sue affermazioni e, per l’altro, a fornire dei chiarimenti che approfondiscono il senso ulteriore del suo discorso. C) Egli ipotizza infatti l’esistenza di criteri o aspetti in virtù dei quali le cose si somigliano tra di loro. Rileggiamo la sua tesi iniziale: «in certo modo ogni cosa è simile a ogni altra» (331d). Ovvero tutte le cose si somigliano tra loro, ma non si somigliano in base a tutti gli aspetti possibili. In effetti, se così fosse, se cioè le cose si somigliassero tra loro in tutti i modi possibili, le cose si fonderebbero in un unico indistinto: non ci sarebbero più le cose, nella loro ampia, frastagliata e variegata molteplicità; la molteplicità delle cose verrebbe soppiantata da un insieme confuso e inintelligibile. Sembra poco, ma quel “in certo modo” è assolutamente decisivo, in quanto ci fa capire che, se è vero che tutte le cose si somigliano tra loro, non tutti i criteri di somiglianza sono attivati, non tutte le possibilità di somiglianza sono attuate. Per chiarire questo punto, riprendiamo lo schema descritto nella situazione III di cui abbiamo parlato in precedenza (cap. III, § 2): E

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

F

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

e proviamo a immaginare che le cose E e F si somiglino non soltanto per i dieci aspetti da noi individuati, ma per tutti gli n criteri possibili: E

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

n

F

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

n.

Ebbene, E e F non sarebbero più due cose simili e distinte, ma si

fonderebbero in un’unica, indistinta cosa X. Se non ci fosse quel “in certo modo”, tutte le cose tra loro somiglianti pensate da Protagora perderebbero non solo la loro somiglianza, ma anche la loro distintività e la loro stessa esistenza: non sarebbero più cose “in qualche modo” simili e “in qualche modo” distinte; semplicemente non esisterebbero più. Dal che possiamo fissare un altro punto assolutamente decisivo, ossia: D) La somiglianza è sempre parziale e graduale, ed è sempre misurabile con un più o un meno: la somiglianza non è mai piena, totale, assoluta, perfetta. Come sostiene il filosofo Gonzalo Rodriguez-Pereyra (2002: 65), «un aspetto rilevante della somiglianza è che si tratta di una questione di gradi». Se noi prendiamo diverse paia di cose somiglianti (A-B, C-D ecc.), possiamo constatare che esse tendono ad assomigliarsi in misure diverse: per cui, per esempio, la somiglianza A-B è più stretta della somiglianza CD. Non solo, ma ognuna di queste cose, per esempio A, può intrattenere nello stesso tempo rapporti di somiglianza stretta con una cosa (per esempio B) e rapporti di somiglianza lasca con un’altra (per esempio C). Se, per esempio, prendiamo due mele – prosegue Rodriguez-Pereyra – è indubbio che esse si somigliano l’un l’altra più strettamente che non ciascuna di esse con Socrate o con un cammello. Dire che tutte le cose sono “in qualche modo” simili tra loro è uno snodo importante e decisivo, in quanto: E) Oltre alla gradualità, la delimitazione di Protagora introduce necessariamente – anche senza evocarla in modo esplicito – la differenza. E e F non si fondono tra loro e la loro somiglianza è sempre una questione di gradi, proprio perché tra loro ci sarà pur sempre e inevitabilmente qualche criterio e qualche aspetto non condiviso: criterio o aspetto che determina la loro differenza, non importa quanto grande o quanto piccola essa sia. F) Tutto il ragionamento di prima ci fa capire, ancora una volta, che la somiglianza è impossibile se non si prevede anche la differenza. Dobbiamo dire grazie a Platone, se – attribuendo le semplici parole di cui sopra a Protagora – egli riesce a introdurci nella logica delle somiglianze. Potremmo rappresentare il principio di questa logica con una formula, che utilizzeremo spesso in questo libro, ottenuta accostando e saldando insieme in maniera indissolubile, quasi a formare un’unica parola, la prima sillaba di “somiglianza” (So) e la prima sillaba di “differenza” (Dif): “SoDif”. Per Protagora – quanto meno per il Protagora del dialogo

platonico – tutto il mondo è dunque fatto di SoDif: tutto il mondo si presenta come un immenso e intricato SoDif. Tutto il mondo è una vera e propria “selva di somiglianze e di differenze”. Abbiamo detto che Protagora attenua la portata metafisica della sua teoria della somiglianza universale (“tutte le cose si somigliano tra loro”) con l’introduzione tacita o implicita della differenza: è la differenza che fa sì che le cose si somiglino sempre e soltanto “in qualche modo”. È importante però rendersi conto che, proprio delimitando la somiglianza con la differenza, essa viene messa al sicuro: la differenza fa sì che le cose vengano salvate dall’indifferenziazione, salvaguardate nelle loro somiglianze e nelle loro differenze, anziché precipitare in un buco nero. Possiamo sostenere quindi che la differenza fa esistere la somiglianza, e la fa esistere rendendola imperfetta, incompleta (che è esattamente la sua natura). A sua volta, però, la somiglianza delimita la differenza e le fornisce senso: se non ci fosse somiglianza, le differenze farebbero esplodere il mondo fino al punto che le differenze stesse non esisterebbero più. Che senso avrebbero le differenze se non tra cose somiglianti? Anche Gilles Deleuze, in un libro troppo difficile (a nostro modesto avviso) per poter essere pienamente utilizzato in questo contesto, sembra giungere allo stesso tipo di conclusioni, come quando afferma che il principio di differenza [...] non si oppone, ma al contrario lascia il massimo gioco possibile all’apprendimento delle somiglianze (Deleuze 1997: 21)

o come quando accosta le seguenti due proposizioni: solo ciò che somiglia differisce; solo le differenze si somigliano. La prima formula pone la somiglianza come condizione della differenza (1997: 152).

Non seguiremo ulteriormente Deleuze nelle sue complicate elucubrazioni, soprattutto là dove sembra inclinare verso un primato ontologico della differenza (1997: 287-288, 311, 314). A noi qui pare sufficiente attestarci su una sorta di equilibrio – meglio, un legame indissolubile di complementarità, un intreccio appunto – tra somiglianza e differenza. La somiglianza agisce infatti come collante, avvicinando in qualche modo le cose tra loro e impedendo che esse si scompongano e si sbriciolino all’infinito, mentre la differenza è ciò che impedisce l’eccessivo avvicinamento tra le cose, che altrimenti si fonderebbero fino ad annullarsi. G) Come abbiamo anticipato, Protagora provvede poi a fornire una ulteriore specificazione della sua tesi sulla somiglianza. E questa specificazione consiste nel fare intervenire una dimensione che abbiamo

già preso in esame nel capitolo precedente, al § 5, allorché abbiamo visto che la trama delle somiglianze e delle differenze (il SoDif, come abbiamo cominciato a chiamarlo) dipende, nella sua attivazione, nella sua estensione e nelle sue articolazioni, dai soggetti che vi sono implicati e che con la loro stessa presenza inducono interventi modificatori. Da un punto di vista generale, è bene tenere presente che per ogni SoDif vi sono agenti di modificabilità che vanno ben al di là dei soggetti umani, a cominciare dagli eventi naturali: un fulmine che si abbatte sulla cima di un albero modifica il quadro delle somiglianze in cui fino a quel punto l’albero era inserito. Gli agenti di modificabilità del SoDif rappresentano una categoria ampia, entro la quale possiamo scorgere, oltre a eventi e fattori naturali, autori e soggetti, sia umani, sia non umani, intenzionali e non intenzionali. Per quanto riguarda i soggetti umani, occorre precisare che – qualunque cosa essi sentano, pensino, facciano, dicano – i loro interventi anche minimi determinano sempre una qualche modificazione del SoDif in mezzo a cui si trovano. Per esempio, vediamo le conseguenze immediate, in termini di somiglianze e differenze, di un episodio in cui un soggetto di pelle chiara A pronuncia un epiteto denigratorio nei confronti di una persona di pelle scura (soggetto B) incontrata per strada. Intanto, l’epiteto denigratorio produce in termini socio-psicologici un netto distanziamento, un aumento di differenza tra A e B, che potrebbe giungere fino al punto di negare una qualsivoglia somiglianza tra i due. B avverte questo distanziamento da parte di A e può reagire in vari modi: ricercare, nonostante la denigrazione, una somiglianza, una comunicazione, una condivisione con A, oppure accettare la differenza con i bianchi, da un lato, e dall’altro accentuare la somiglianza con i “fratelli” neri. Un soggetto C, che eventualmente assistesse all’episodio, potrebbe a sua volta condannare A, assimilandolo a coloro che chiamerà “razzisti”, differenziarsi quindi da A e avvicinarsi lui stesso a B, oppure al contrario identificarsi (come spesso si dice) con A, approvare e fare proprie le parole denigratorie di A e contribuire in tal modo a scavare ulteriormente la differenza da B. Non è detto che gli attori qui in gioco siano del tutto consapevoli delle loro azioni e delle conseguenze che ne possono scaturire: sono comunque molte le direzioni in cui gli effetti di un intervento possono propagarsi in termini di aumento

di differenze o aumento di somiglianze, così come di diminuzione di differenze e diminuzione di somiglianze. È opportuno allora precisare che gli interventi umani sul SoDif possono essere sia consapevoli, sia inconsapevoli, essere dotati di intenzionalità e di progettualità, oppure essere casuali e inintenzionali. Prendiamo in esame la frase di Protagora citata sopra: «in questo modo tu potresti mostrare, se lo volessi, che tutte le cose sono simili tra loro» (331de). Può darsi che anche qui Protagora faccia una concessione a Socrate, del tipo “se proprio vuoi”2. Ma se anche si trattasse di una mera concessione, che senza dubbio indebolirebbe l’argomentazione, la struttura del ragionamento non viene scalfita. A questo punto delle sue considerazioni, Protagora ha ormai chiaro il SoDif, l’intrico delle somiglianze e delle differenze, e qualunque significato psicologico abbia quel “se lo volessi”, qui sta a indicare un tipo di intervento sul SoDif, intenzionale e conoscitivo. Protagora prende in considerazione la dimensione soggettiva dell’intervento nel suo aspetto programmatico, progettuale, consapevole, ma è bene tenere presente che gli interventi sul SoDif possono avere anche una natura non conoscitiva, bensì attiva e pragmatica, così come – tornando ad allargare il quadro – possono essere inconsapevoli, ed essere esercitati da soggetti, attori, fattori non umani. In altri termini, quando consideriamo le modificazioni del SoDif, sarebbe corretto non avere una prospettiva esclusivamente antropocentrica ed esclusivamente centrata sulla coscienza degli esseri umani. Evitare una visione esclusivamente antropocentrica (ed esclusivamente centrata sulla coscienza) presenta l’indubbio vantaggio di mettere a fuoco con maggiore precisione i tipi di interventi umani, i quali operano spesso su un SoDif dotato di una sua oggettività. Per Leibniz, i concetti generali si basano sulla «somiglianza reciproca delle cose particolari» e questa «somiglianza è una realtà» (Leibniz 1988: 284). La rete delle somiglianze e delle differenze può essere diversamente sollecitata e configurata dallo sguardo di chi indaga e osserva: somiglianze e differenze hanno dunque una loro oggettività, e tuttavia non si impongono alla coscienza in maniera perentoria, indiscutibile, inequivocabile, necessitante, come se la coscienza funzionasse soltanto a guisa di specchio. In effetti, si può assumere un duplice atteggiamento nei confronti delle somiglianze-differenze: un atteggiamento che tende a negare le somiglianze, che ne vede poche, che

soprattutto rimarca o esalta le differenze, e un atteggiamento più propenso a scorgere somiglianze, anche là dove le differenze appaiono più forti ed evidenti. Affermare la relativa oggettività delle somiglianze e delle differenze (come la pelle chiara del personaggio A e la pelle scura del personaggio B, a proposito dell’esempio di cui sopra) significa capire meglio i tipi di interventi dei soggetti umani, i quali, per esempio, già su un piano linguistico, trasformano la pelle più chiara di A in “bianco” e la pelle più scura di B in “nero”. Sotto un certo profilo, sembra quasi di poter dire che non si può parlare di somiglianze e differenze in assoluto, ma sempre in relazione allo sguardo, alle intenzioni e alle azioni degli attori. In altri termini, il SoDif viene di continuo modificato da una grande molteplicità di fattori e di attori (tra cui i soggetti umani), e proprio per questo occorre considerare con maggiore precisione i tipi di interventi umani sul SoDif, in quanto da essi dipendono, oppure con essi prendono forma, la visione del mondo nonché il tipo di cultura, di società, di umanità degli stessi soggetti umani. 3. Anthropos e gli interventi sul SoDif Se ritorniamo alle due citazioni da cui siamo partiti, vediamo che il “se tu volessi” di Protagora riconfigura il SoDif in due direzioni diverse: a) una riconsiderazione critica delle dicotomie e delle opposizioni (il bianco e il nero, il duro e il molle, di cui si parlava nella prima citazione); b) l’estensione delle somiglianze a tutte le cose. Per quanto riguarda il punto a), è sufficiente disporsi in un certo qual modo verso la realtà, per non lasciarsi imprigionare dalle opposizioni e dalle dicotomie: anche i contrari possono così manifestare somiglianze tra loro. Le opposizioni e i contrasti tra le categorie, che si erigono sulla base di differenze esclusive, si attenuano o addirittura svaniscono a uno sguardo intenzionato a scorgere somiglianze, parentele, affinità (Remotti 2013a: 146). La teoria delle somiglianze qui abbozzata mette in discussione il metodo di stabilire ordine nel mondo che consiste nel dividere, nel separare e nell’opporre: le coppie di opposizione (bianco e nero, freddo e caldo, alto e basso, destra e sinistra, maschile e femminile, e così via), garanzie di ordine conoscitivo e morale, e perciò ben presenti nel pensiero di Socrate e di Platone, appaiono strutture logiche fragili e posticce, le

quali vengono proiettate nel mondo e sovrapposte al SoDif, all’intrico delle connessioni sottostanti, per convenzione e opportunità di semplificazione. È sufficiente però che “tu lo voglia” e vedrai questo mondo tagliato in riquadri svanire e lasciare il posto all’intrico delle relazioni che attraversano le categorie dell’ordine, persino e soprattutto (forse) quando queste categorie sono messe in opposizione tra loro. Ovviamente, non si tratta soltanto di una visione più o meno metafisica del mondo naturale. Si pensi al pensiero dicotomico, al pensiero che separa e produce categorie oppositive, quale viene fatto valere nelle e tra le società umane (mondo sociale, a cui del resto Protagora era decisamente più interessato), e ci si renderà conto quanto la teoria delle somiglianze possa gettare scompiglio, a cominciare dalla semplice opposizione “noi” e gli “altri”, opposizione che all’epoca di Protagora e di Socrate si esprimeva nei termini noi “elleni” e gli altri “barbaroi”, e che ritroviamo – come è ben noto – in un’infinità di formulazioni equivalenti: noi “ebrei” e gli altri “goyim”, noi “cristiani” e gli altri “pagani”, noi “bianchi” e gli altri “neri”, noi “rom” e gli altri “gagé”. È sufficiente volerlo – possiamo ribadire con Protagora – e sotto queste sovrastrutture ideologiche bipartite affiorerebbe tutta una trama di somiglianze e di differenze. Allo stesso modo, con questa disposizione mentale si può (punto b) andare oltre le somiglianze note e collaudate, e inoltrarsi in territori sconosciuti, dove le somiglianze fanno un po’ da guida, se – come Protagora afferma – “tutte le cose sono in qualche modo simili tra loro”: non uguali, non identiche, né puramente ripetitive, ma simili, contenenti cioè una dose di differenza più o meno accentuata rispetto a quanto preventivamente conosciuto, oltre che qualcosa di comune. Si potrebbe chiedere a Protagora come faccia ad affermare che “tutte le cose sono simili tra loro”. Qui è allora il caso di proporre le seguenti precisazioni, da cui si vede che la tesi di Protagora è soprattutto un’ipotesi, avente un valore euristico e paradigmatico: 1) la tesi di cui sopra nasce dalla considerazione della limitatezza della nostra conoscenza, dalla consapevolezza dei confini entro cui di volta in volta ci muoviamo: al di là di ogni nostra sfera di conoscenza, coincidente con le trame di somiglianze e differenze a noi note, si estendono territori ignoti; 2) si può procedere al di là di questi limiti non certo per conoscere

tutto, ma seguendo alcune traiettorie, alcune direzioni di ricerca possibili; 3) se ci chiediamo da che cosa è data la possibilità di procedere oltre, la risposta sarà questa: dalla capacità di estendere la rete di somiglianze e differenze già in nostro possesso; 4) più precisamente, questa capacità di estensione è data dalle somiglianze: sono le somiglianze che vengono estese, prolungate. Varcato il confine, le somiglianze che saremo in grado di cogliere sono spiragli a cui accedere per inoltrarsi in un mondo o in un luogo sconosciuto, sono appigli a cui aggrapparsi, paletti che ci consentono di proseguire nel nostro cammino; 5) a loro volta, le differenze sono l’ignoto, che è totale fino a che non avremo messo un piede sul suo territorio e non avremo colto le prime somiglianze; 6) l’estensione della rete delle somiglianze e delle differenze (SoDif) è dunque ciò che determina la trasformazione dell’ignoto in qualcosa di parzialmente noto; 7) questa estensione non può essere però una mera ripetizione, una reduplicazione, una proiezione di ciò che è già noto nei territori dell’ignoto: il risultato dovrà essere invece una riformulazione del SoDif di partenza. A ben vedere, ogni nuova differenza, piccola o grande che sia – la novità dell’ignoto –, riverbera i suoi effetti in almeno alcuni punti della rete; 8) queste estensioni della rete e queste riverberazioni non sono però automatiche. Intervengono qui i soggetti, a cui abbiamo alluso in precedenza, con la loro intenzionalità a) di estendere il SoDif o, al contrario, di bloccarlo, b) di nascondere la trama delle somiglianzedifferenze o, al contrario, di lasciarle affiorare, c) di favorire gli effetti di ritorno delle nuove scoperte o, al contrario, di ribadire le conoscenze già acquisite. Che lo vogliano o no, che ne siano consapevoli o meno, questi soggetti umani – soggetti singoli e soggetti collettivi – si assumono una grande responsabilità nei confronti di una realtà così “complessa”, molteplice, malleabile, dilatabile, la quale, lungi dall’imporre il proprio ordine intrinseco alla mente che la indaga, esige essa stessa che vi si intervenga. Secondo quanto riportato da Diogene Laerzio (IX, 51), il libro sulla Verità di Protagora iniziava con la frase grazie a cui egli è diventato famoso:

L’uomo [anthropos] è misura [metron] di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono (Diogene Laerzio 2005: 1089).

Ovviamente sono molti i commenti che si sono prodotti su questa tesi, a cominciare dal Teeteto (152a) di Platone. Qui ci limitiamo a sostenere che essa si inquadra bene nella teoria delle somiglianze esposta in queste pagine. Inteso sia come soggetto singolo, sia come soggetto collettivo, e dunque nel suo insieme come anthropos, è l’uomo infatti che decide se riconoscere e fare valere l’intrico delle somiglianze (le cose che sono) o se, invece, imporre su di esse, quasi a nasconderle, un ordine finto, fatto di categorie oppositive (le cose che non sono): che lo voglia o no, è lui il metron. E sono ancora i soggetti umani che, con le loro decisioni, la loro intelligenza, la loro cultura, sono in grado di trasformare (ingaggiando una sorta di lotta) l’intrico delle somiglianze in intrecci, il garbuglio in reti di connessioni, passando dal caos iniziale a trame maggiormente vivibili, sopportabili, comprensibili, estensibili anche verso l’ignoto. Ancora un’osservazione per concludere queste pagine dedicate a una teoria protagorea delle somiglianze. Abbiamo considerato due prospettive: a) l’ordinamento squadrato del mondo, cioè l’ordine che si ottiene con un numero finito di categorie, architettonicamente gerarchizzate secondo rapporti di sovra-ordinazione e di sub-ordinazione; b) la trama delle relazioni di somiglianze e differenze, le quali attraversano sia i confini delle cose, sia i confini delle categorie in cui esse sono collocate. L’ordine imposto alle cose (a) è tendenzialmente e preferibilmente un mondo chiuso: rassicurante nel suo ordine, proprio perché chiuso e perché la sua conoscenza può vantare fin dall’inizio il pregio (illusorio) della completezza. La fitta trama di relazioni (b) è invece, per forza di cose, un mondo aperto e non finito. Le relazioni tendono a spingersi al di là delle cose e delle categorie note, verso territori in cui si presume di incontrare pur sempre somiglianze e differenze. La visione (b) è senza dubbio più inquietante, nella sua inevitabile apertura all’ignoto, poiché non si sa quanta somiglianza e quanta differenza incontreremo. Nell’ignoto potremo infatti trovare gradi incolmabili di diversità: differenze che, proprio in quanto non rapportabili a somiglianze, assumono il volto terribile del mistero. Inoltrarsi in mondi ignoti: lo si fa, probabilmente, interpretando la tesi di Protagora sull’universalità delle somiglianze come una scommessa,

quella cioè di trovare un certo numero di somiglianze, le quali avrebbero la funzione di trasformare una generica e irrelata “diversità”, o una minacciosa “alterità”, in un insieme di “differenze” domesticabili sia sotto il profilo scientifico, sia sotto il profilo più vastamente culturale. Le differenze sono domesticabili nella misura in cui vengano accoppiate a somiglianze, nella misura in cui possano essere riconosciute come compagne essenziali e indissolubili di alcune somiglianze. Penetrare nell’ignoto, riducendone la portata, trasformando un po’ di ignoto in qualcosa di conosciuto, significa quindi intravedervi o instaurarvi un SoDif, un complesso di somiglianze e di differenze in qualche misura verificabili, comunicabili, condivisibili. 4. Somiglianze siderali Mentre l’autore di questo libro si apprestava a concludere il paragrafo precedente, il 23 luglio 2015 la Nasa (National Aeronautics and Space Administration degli Stati Uniti d’America) dava l’annuncio che nella costellazione del Cigno, a 1400 anni luce dalla Terra, era stato trovato un pianeta assai simile a quello su cui abitiamo. Al pianeta fu dato il nome Kepler 452b, essendo stato scoperto dal telescopio spaziale che porta il nome dell’astronomo tedesco Johannes von Kepler, il quale tra il XVI e il XVII secolo aveva studiato le leggi delle orbite dei pianeti. Nel 2009 il telescopio Kepler era stato lanciato nello spazio esattamente allo scopo di indagare se nella Via Lattea sia possibile trovare pianeti simili al nostro, che girino attorno a stelle a loro volta simili al nostro Sole. La notizia della scoperta si sparse immediatamente in tutto il mondo, in quanto – nonostante l’enorme distanza che ci separa – la somiglianza era apparsa impressionante. Ovviamente non si sa se su Kepler 452b esista una qualche forma di vita, e tuttavia Kepler 452b – secondo il comunicato della Nasa – «è il primo pianeta di dimensioni simili alla Terra che si trova nella cosiddetta zona abitabile di una stella simile al Sole» (Bencivelli 2015a: 18). È opportuno tenere presente che, dall’inizio della sua missione, Kepler ha già individuato un numero molto elevato di pianeti, i quali – in modo simile alla Terra – girano attorno alla propria stella. Secondo il resoconto giornalistico a cui facciamo riferimento, un primo catalogo di questi “esopianeti” ne comprende ben 4200, a cui più di recente se ne sono

aggiunti altri 500. Nel suo annuncio del 23 luglio 2015, la Nasa ha però presentato un elenco molto più ristretto. Tra queste diverse migliaia di pianeti che girano attorno al proprio sole, ce ne sono soltanto dodici dotati di due caratteristiche chiave: hanno dimensioni simili alla Terra e orbitano intorno alla loro stella nella cosiddetta «zona abitabile», ovvero «a una distanza tale da permettere l’esistenza di acqua allo stato liquido» (Bencivelli 2015a: 18). Tra questi pianeti “abitabili” (non troppo vicini, né troppo lontani dalla loro stella), il caso di Kepler 452b si impone però per un aumento di somiglianze con il sistema Terra-Sole. Queste somiglianze aggiuntive riguardano in primo luogo a) le dimensioni di Kepler 452b, il quale pare abbia un diametro del 60 per cento superiore a quello della Terra (il che significa che «non è proprio uguale al nostro pianeta, ma insomma non è nemmeno tanto più grande»). Anche il sole di Kepler 452b e il nostro sole presentano tra loro somiglianze particolari: b) il sole di Kepler 452b è una stella «solo il 4% più massiccia, il 20% più luminosa e con un diametro del 10% maggiore». Inoltre c) Kepler 452b gira attorno al suo sole «per un tempo molto simile all’anno terrestre, cioè 385 giorni». Infine, d) la distanza tra Kepler 452b e la sua stella è «praticamente uguale a quella che separa noi dal Sole, cioè 150 milioni di chilometri». Come si vede, abbiamo a che fare con somiglianze, non con situazioni identiche: e le somiglianze – lo ribadiamo – sono sempre parziali (non riguardano tutti i possibili aspetti) e graduali (i tratti in comune sono condivisi in gradi diversi). A giudicare dall’elenco delle somiglianze proposte sopra, la somiglianza “più forte” potrebbe essere quella del punto d), cioè la distanza “praticamente uguale” tra la Terra e il Sole e tra Kepler 452b e la sua stella. Dire che le somiglianze sono sempre parziali e graduali significa dover sempre fare posto alle differenze, le quali aumentano o diminuiscono in senso inverso alle somiglianze. Come già abbiamo sostenuto nel capitolo III, forse siamo più propensi a parlare di differenze allorché queste aumentano rispetto alle somiglianze. Così – rifacendosi ancora al resoconto giornalistico utilizzato finora – sembrerebbe che «la stella di Kepler 452b» abbia «sei miliardi di anni, quindi un miliardo e mezzo più della nostra» (Bencivelli 2015a: 19). In questo caso, ha più senso parlare di differenza o di somiglianza? Dipende, come è ovvio, dalle strategie di sfruttamento dell’insieme delle somiglianze e delle differenze (del SoDif): è proprio tenendo conto delle somiglianze già elencate che la

differenza di età tra i due sistemi (quello della Terra e quello di Kepler) può diventare significativa. Leggiamo il commento di Jon Jenkins, a capo del team autore della scoperta di Kepler 452b, applicando le nostre minuscole categorie So e Dif: Possiamo pensare a Kepler 452b come a un cugino della Terra più anziano di lei [Dif], che ci dà l’opportunità di capire e di riflettere su come sarà l’ambiente terrestre in futuro [So] (Bencivelli 2015a: 19).

Il ragionamento è dunque il seguente: c’è una considerevole differenza di età tra i due sistemi; essi non sono coetanei. Dato però che i due sistemi presentano notevoli somiglianze, non è irragionevole pensare che Kepler 452b possa dirci qualcosa sul futuro della Terra, cioè che possa anticipare, o farci intravedere, qualcosa del nostro futuro. La differenza (Dif) tra Kepler 452b e Terra anticipa dunque una futura somiglianza (So) di condizioni. Il caso Kepler 452b si presta a ulteriori riflessioni. Il telescopio spaziale Kepler opera all’interno di un programma volto esplicitamente alla ricerca di “somiglianze”: il telescopio continua a esplorare nelle costellazioni della Lira, del Cigno e del Dragone (facenti parte della nostra galassia) per catturare pianeti il più simili possibile al nostro3. Nella sintesi di un’intervista rilasciata da Isabella Pagano, subito dopo l’annuncio della Nasa, si legge: Sarà anche lontano, mancheranno tanti dettagli, sembrerà una storia da sognatori di mondi lontani, ma la scoperta di Kepler 452b è davvero importante. Soprattutto perché dimostra che vale la pena cercare: perché significa che pianeti come il nostro lassù ce ne sono eccome. Isabella Pagano è astrofisica dell’Inaf [Istituto Nazionale di Astrofisica] e responsabile in Italia del Progetto Plato, con cui anche l’Agenzia Spaziale Europea si prepara a cercare i pianeti fratelli della Terra (Bencivelli 2015b: 18).

Questo significa, ovviamente, che Kepler 452b, finora l’esopianeta “più simile” alla Terra, non è, o non dovrebbe essere, l’unico “fratello” della Terra. Secondo le ipotesi e le previsioni di astronomi e astrofisici, altri pianeti fratelli della Terra spunteranno fuori: il caso di Kepler 452b dovrebbe essere considerato come una sorta di auspicio e di apripista, perché l’obiettivo è proprio quello di trovare «una Terra 2.0» (Bencivelli 2015a: 19), un pianeta simile al nostro non soltanto per dimensioni, per distanza dal suo sole, per periodo di rivoluzione attorno ad esso (aspetti quantitativi). Astronomi e astrofisici si stanno impegnando nelle loro ricerche, e stanno impegnando risorse pubbliche di non poco conto, allo scopo di scoprire somiglianze ancora più stringenti: vale a dire, forme di

vita ed eventuale presenza – come si suole dire – di “esseri intelligenti” (aspetti qualitativi). La speranza per niente segreta di questi investimenti e di questi progetti scientifici è proprio quella di giungere a verificare questo secondo tipo di somiglianze con “noi”. Dalle reazioni suscitate dall’annuncio della Nasa si intuisce assai bene che l’aspirazione è quella di giungere a scoprire ciò che abbiamo chiamato somiglianze qualitative: pur scientificamente importante, sarebbe un po’ una delusione individuare un pianeta molto simile alla Terra per il primo tipo di aspetti, quelli più determinabili a distanza (a enormi distanze, come sono i 1400 anni luce che ci dividono da Kepler 452b), e tuttavia privo di forme di vita e di intelligenza. Sono queste – pare di capire – le somiglianze che alla fine contano e per verificare le quali si investono molte risorse. L’obiettivo è trovare una Terra 2.0: un pianeta che sembri il nostro allo specchio e ci faccia sognare la presenza di altre vite che contano il tempo intorno ad altri soli. La stiamo cercando febbrilmente da più di vent’anni, dicono oggi alla Nasa, e forse stavolta l’abbiamo trovata davvero (Bencivelli 2015a: 19).

Nelle stesse pagine del quotidiano consultato nel luglio 2015, il matematico Piergiorgio Odifreddi valorizza molto la scoperta di Kepler 452b, in quanto è un tassello prezioso nella questione della «probabilità che nella Via Lattea ci sia vita simile alla nostra» (Odifreddi 2015: 19). Odifreddi ci informa che già dal 1961 l’astronomo Frank Drake aveva elaborato una formula per calcolare questa probabilità, tenendo conto del numero di stelle nella nostra galassia, del numero di stelle dotate di pianeti, del numero di pianeti aventi condizioni favorevoli alla vita, del numero di pianeti in cui possono essersi evoluti esseri intelligenti. Il risultato – egli afferma – è che «abbiamo quasi la certezza che da qualche parte della Via Lattea ci siano esseri come noi». Finora «Kepler 452b è [...] il miglior candidato che sia stato trovato». Ma sembra di poter dire che, se Kepler 452b non fosse proprio il candidato giusto (potrebbe essere, per esempio, un pianeta gassoso), ci sarebbe da scommettere che un candidato ancora più simile alla nostra Terra, prima o poi, spunterà all’orizzonte: sempre che, beninteso, noi abbiamo le risorse per continuare a cercare e che i problemi che investono l’umanità – molti dei quali prodotti dagli stessi umani – diano modo di non limitarsi a coltivare questo sogno soltanto con l’immaginazione. Con la sua erudizione e la sua invidiabile capacità di sintesi, Odifreddi ci offre un breve panorama evocativo dei sogni riguardanti la vita su altri

pianeti: da Luciano di Samosata all’Ariosto dell’Orlando furioso, alle riflessioni ardite di Nicola da Cusa (lo stesso pensatore da noi già evocato nel cap. III, § 3). Nel suo libro del 1449 il cardinale tedesco privava il sistema solare di qualche sua proprietà esclusiva e straordinaria, ritenendo che esistessero altri sistemi simili e che dunque «da ogni stella si sarebbero visti pianeti che giravano attorno ad essa, abitati da esseri di natura sconosciuta» (Odifreddi 2015: 19). La scienza si sta ora incaricando di dimostrare la “verosimiglianza” di questo tipo di sogno e l’insostenibilità della posizione di coloro che, per motivi teologici, come sant’Agostino, negavano che «potessero esistere esseri viventi altrove nell’universo». Odifreddi sembra anche alludere alla motivazione profonda del sogno: Per una sorta di compensazione astronomica, l’annuncio della Nasa che ci sono più Terre ci rende meno soli (2015: 19).

Grazie alla scoperta di Kepler 452b, noi ora non solo non siamo più soli, ma disponiamo persino di un «fratello gemello». Qui non ci moviamo nel campo dei dati scientifici; abbiamo invece a che fare con immagini e metafore che scienziati e commentatori usano per questo nuovo pianeta, così simile a noi. Odifreddi apre il suo commento con il tema della nostra solitudine: siamo una specie “unica” sulla Terra (questa sembra essere l’idea iniziale, che in effetti troviamo espressa non soltanto a livello di senso comune, ma in diversi ambienti scientifici, filosofici, teologici) e per questo, affacciati sull’universo, sullo spazio siderale, ci siamo da sempre sentiti “soli”. La nostra specie si è autodenominata, da Linneo in avanti, Homo sapiens, facendo dell’intelligenza la nostra caratteristica distintiva ed esclusiva. Come avremo modo di accennare anche in altri punti del libro, gli esseri umani che si sono formati nel nostro tipo di cultura o di civiltà hanno tracciato linee di separazione molto nette – e quasi invalicabili – con il resto del mondo, o del creato, considerando normalmente “inferiori” gli altri esseri e le altre creature. Il nostro senso di solitudine a livello planetario deriverebbe proprio – a quanto pare – dalla profonda separazione che, per motivi spesso teologici, oltre che culturali ed economici, abbiamo operato rispetto agli altri abitanti della Terra. Di qui, il sogno di colmare la nostra solitudine, di trovare cioè esseri che per la loro intelligenza possano dimostrarsi più simili a noi di quanto non siano gli altri esseri viventi della Terra. Avendo creato profonde differenze con gli altri abitanti della Terra, avendo ritenuto che essi siano

soprattutto differenti, piuttosto che simili, rispetto a noi, bramiamo andare alla ricerca di nostri simili, che ancora non conosciamo, nello spazio siderale. Tanto forte è il desiderio della somiglianza, che è sufficiente l’annuncio della scoperta di Kepler 452b per chiamarlo – guarda caso – con termini di parentela. Qui è sufficiente fare notare non soltanto l’uso simbolico di questi termini, ma anche come essi corrispondano a immagini di maggiore o minore somiglianza tra Kepler 452b e noi. Quando Jon Jenkins fa notare la differenza di età tra i due pianeti – una differenza di non poco conto, come si è visto –, egli usa per il pianeta di cui siamo appena ora venuti a conoscenza l’immagine del «cugino della Terra più anziano di lei». Nell’articolo di Silvia Bencivelli, dove vengono riportati i dati relativi sia alle somiglianze sia alle differenze, così come nel riquadro che lo accompagna, viene impiegata l’espressione «il fratello della Terra». Nell’articolo di Piergiorgio Odifreddi, più propenso a rimarcare la novità e l’importanza di queste somiglianze, non solo – come si è visto – per motivi scientifici, ma anche per la funzione di «compensazione astronomica» al senso profondo della nostra solitudine, si fa ricorso addirittura all’espressione «fratello gemello della Terra». In conclusione, vorremmo dire che, prima con i sogni (che, a quanto pare, non costano nulla), ora con le imprese spaziali (della cui dispendiosità economica forse non sarebbe male, democraticamente, avere una maggiore e più partecipata conoscenza), alcuni di noi esseri umani hanno progettato di spingersi alla ricerca di somiglianze addirittura in spazi siderali, nei quali – come nel caso della costellazione del Cigno, dove gira il “nostro fratello gemello” – molto probabilmente non giungeremo mai. Al di qua dei temi della solitudine da noi stessi provocati (essendoci separati così drasticamente dagli altri abitanti della Terra), è il caso di riprendere la tematica che abbiamo trattato nel paragrafo 1 di questo capitolo, ovvero l’idea a) secondo cui le somiglianze sono davvero dappertutto, tra tutte le cose, persino tra le cose che si trovano ben al di là del nostro sistema solare, in altre costellazioni della nostra galassia, a distanze incolmabili non solo per il trasporto, ma anche per la comunicazione. All’idea (a), quasi di ordine metafisico, se così possiamo esprimerci, aggiungiamo una considerazione più epistemologica, ossia b) la propensione, da parte di anthropos, a ricercare le somiglianze e le differenze delle cose al di là di ciò che gli è più o meno noto, al di là della rete già

collaudata, poiché ogni rete, per come è fatta, difficilmente può essere chiusa, in maniera definitiva, su sé stessa: è inevitabile che da essa fuoriescano fili che vanno oltre i nodi già incontrati, sperimentati, analizzati. Proprio per questo, l’impresa di conoscere somiglianze e differenze si configura inevitabilmente come un viaggio. Può essere un viaggio puramente mentale e teorico, oppure un viaggio compiuto di persona, o anche un viaggio eseguito con la nostra attrezzatura esterna, con gli aggeggi tecnologici che mandiamo nello spazio, forniti di esseri umani, ma più spesso soltanto di strumenti che ci consentano di captare un qualche “fratello” del nostro pianeta in zone dell’universo che di persona non riusciremo mai a raggiungere. Una somiglianza tanto impressionante, che si impone nonostante tutta l’enorme separazione interstellare (fisica, spaziale e dunque anche temporale), senz’altro avrebbe incuriosito molto il nostro Protagora, forse l’avrebbe fatto sorridere di piacere e l’avrebbe ulteriormente confermato nella sua teoria delle somiglianze, nonché nell’idea che vale la pena, viaggiando, di andare alla loro ricerca, al di là dei limiti conosciuti. Infine, una considerazione antropologica (c), che fa seguito alla scoperta di Kepler 452b. Si investono molte risorse, economiche e scientifiche, sottraendole – diciamolo pure – ad altre possibili destinazioni, con l’obiettivo di scoprire, al di là del nostro sistema solare, somiglianze non soltanto astrofisiche, ma anche di ordine biologico e persino antropologico: altre forme di vita e, se del caso, altri esseri intelligenti, “simili a noi”. Ciò che guida queste imprese è – al limite – una astrobiologia e, ancor più, una astro-antropologia, entrambe giocate su combinazioni, per ora del tutto imprevedibili e solo ipotizzabili, di somiglianze e differenze. Quanto simili e quanto diverse saranno le altre forme di vita, le altre forme di intelligenza e, se così possiamo dire, di umanità (di simil-umanità)? C’è un desiderio profondo in questi viaggi interstellari, che potrebbero rivelarsi alla fine non certo inutili, ma inconcludenti, quanto ai loro scopi, e senza dubbio molto dispendiosi, quanto ai loro mezzi. «Se vogliamo trovare un pianeta che sia davvero come il nostro, servirà uno sforzo tecnologico enorme»: è il pensiero dell’astrofisica Isabella Pagano, intervistata di nuovo a tre anni dalla scoperta di Kepler 452b (Marini 2018: 2). Proprio per questo si fa estremamente pertinente la domanda sul perché di siffatti programmi eso-

biologici ed eso-antropologici: è forse desiderio di trovare somiglianze e dunque conferme circa le nostre scelte e, nello stesso tempo, desiderio di conoscere in che cosa altri esseri intelligenti potrebbero essere diversi da noi? Il desiderio profondo pare essere quello di proseguire, non certo di completare, un “giro antropologico” iniziato tra i nostri simili, qui sulla Terra (Remotti 2009: cap. I). Ma è come se ormai non ci bastassero più la Terra e le sue diverse forme di umanità per capire meglio chi siamo, come siamo fatti, chi siamo diventati, chi potremmo ancora essere. 5. Un antico viaggio tra le culture Non si viaggia impunemente tra le somiglianze: se ciò che è comune (ciò che determina propriamente la somiglianza) ha di solito un effetto rassicurante, le differenze, che sempre accompagnano le somiglianze, producono invece effetti destabilizzanti. A meno di riuscire a corazzarsi del tutto, il viaggio tra le somiglianze genera cambiamenti nel “come si è” e nel “come ci si rappresenta”. Viaggiare tra le somiglianze non può non provocare un qualche effetto di rimbalzo, più o meno consistente, più o meno traumatico. Ma allora, cos’è che attira nel viaggio: il desiderio di rassicurazione, il desiderio di destabilizzazione, o forse entrambi, o forse, più ancora, il desiderio di capire chi siamo e chi vorremmo essere o potremmo diventare? Gli esseri umani devono avere una buona motivazione, un desiderio profondo e incoercibile di conoscenza, se intraprendono viaggi spesso molto impegnativi e rischiosi tra somiglianze e differenze, verso un SoDif ignoto. Non potremo mai sapere se il Protagora quale è effettivamente esistito avrebbe accettato la teoria delle somiglianze qui esposta, tanto meno come avrebbe reagito di fronte a questa impressionante “brama di somiglianze siderali”, a questa manifestazione di “eso-antropologia”, quale abbiamo esposto nel paragrafo precedente. Sappiamo però che Protagora è stato viaggiatore nel Mediterraneo del V secolo a.C., ed è pure stato non solo contemporaneo, ma anche «conoscente» e «forse persino intimo amico» di un grande viaggiatore tra le società del tempo, cioè di Erodoto (McNeal 1986: 299). Richard McNeal insiste nel sottolineare la partecipazione sia di Erodoto, sia di Protagora, a una cultura comune, entro la quale essi avranno senz’altro «scambiato i loro punti di vista» e dibattuto «le idee» che

«erano nell’aria», così che si sarebbe venuta a determinare «una certa somiglianza» nelle loro concezioni (1986: 316-317). McNeal aggiunge: mi farebbe piacere pensare che due anime così simpatetiche tra loro abbiano condiviso qualcosa di più di un occasionale cratere di vino nella dimora di Pericle (1986: 299).

Per quanto riguarda il discorso che qui stiamo conducendo, possiamo dire che Erodoto è colui che più di altri intraprende una serie di viaggi “tra” le somiglianze e le differenze che le società umane del tempo manifestavano. Nato ad Alicarnasso, sulla costa occidentale dell’Asia Minore, tra il 490 e il 480 a.C., morto in una data successiva al 430 a.C. nella colonia greca di Turi (in Calabria), dove si trovava pure Protagora – incaricato da Pericle di redigere la costituzione della città –, Erodoto compì lunghi viaggi in Asia, in Europa, in Africa. Il risultato sono i quattro libri delle sue Storie, in greco historíai, “investigazioni”, “ricerche”, dal verbo historéo, i cui significati – “domandare”, “interrogare”, “osservare”, “scoprire”, “esplorare”, “visitare” – contengono la dimensione del viaggio. È per questo che non ci si accontenta più di sostenere – insieme a Cicerone (De Legibus I, 5) – che Erodoto è «padre della storia», ma lo si considera come «il primo degli antropologi» (Mercier 1972: 35). Importante, per gli antropologi, sarebbe però non rifarsi a Erodoto «per convenzione e abitudine», come succede in quasi tutte le storie dell’etnologia e dell’antropologia (Remotti 2009: 54). Importante è invece comprendere perché mai sia stato eletto ad antenato degli antropologi un viaggiatore come Erodoto, anziché un pensatore come Platone o Aristotele: questi ultimi hanno infatti teorizzato sulla natura umana ben più di Erodoto e in maniera ben più sistematica e teoricamente articolata. Non solo, ma fin dall’antichità i giudizi su Erodoto – sulla sua affidabilità e sul relativo disordine delle sue Storie – non sono stati lusinghieri. Perché scegliere Erodoto, una figura apparentemente poco affidabile e comunque marginalizzata? Da parte di chi scrive si è già argomentato sull’importanza di Erodoto per quanto riguarda la dimensione “viaggio”, rispetto alla dimensione “pensiero”, nella costruzione di una prospettiva antropologica (Remotti 2009: 53-84). Qui si vuole ritornare su Erodoto soprattutto per quanto concerne il suo viaggiare “tra le somiglianze”, ovvero il tipo di pensiero antropologico che questa pratica comporta e che potremmo riassumere nella formula di una “domesticazione” di somiglianze e di differenze,

ovvero in una sorta di produzione di SoDif teorico. Anche per Erodoto, somiglianze e differenze costituiscono una sfida sul piano teorico: per comprenderle occorre ingaggiare una lotta, riuscire non a imporre, ma a fare emergere un senso, una certa misura di ordine, ben sapendo che non tutto il groviglio delle somiglianze e delle differenze può essere ricondotto a un ordine esaustivo: anche gli scarti di queste operazioni tra le somiglianze e le differenze possono risultare significativi. La figura di Erodoto è tuttavia importante anche per un altro aspetto, per un altro tipo di conflitto: non solo la lotta nata come risposta alla sfida delle somiglianze, ma soprattutto la guerra che una parte consistente di pensatori del suo tempo – i “filosofi” per antonomasia – ha voluto condurre contro il suo viaggio tra le somiglianze e più in generale contro i “sofisti”, in particolare contro coloro che pensavano di rappresentare il mondo come una «selva di somiglianze» (Viano 1985) e concepivano la saggezza come la capacità di adattarvisi, cercando di orientarsi in quell’intrico in qualche modo e misura, senza appigli eccessivi. Viaggiando, incamminandosi verso le società che in Asia, in Africa, nella stessa Europa, si trovavano nettamente al di là del mondo greco, Erodoto si imbatte più e più volte in ciò che François Hartog – uno dei maggiori interpreti di Erodoto – definisce fenomeni dell’“alterità”. Per dare risalto a questo tipo di esperienza, Hartog si esprime in questo modo: «Il problema dell’alterità pone quello della frontiera: dove far passare la cesura tra il medesimo e l’altro?» (Hartog 1992: 73). Ma Erodoto, come qualunque viaggiatore che voglia fare comprendere l’alterità, non può limitarsi a segnare la cesura: «inizia, allora, quel lavoro, incessante e indefinito [...], che consiste nel ricondurre al medesimo l’altro» (1992: 185). Secondo Hartog, sono sostanzialmente due i modi con cui Erodoto cerca di dare senso all’alterità: l’inversione e l’analogia. Il primo espediente – «comoda figura» retorica con cui si «trascrive l’alterità in anti-medesimo» – è ampiamente esemplificato nella maniera con cui Erodoto rappresenta gli Egiziani (1992: 185-186). È vero che Erodoto sostiene che «gli Egiziani [...] hanno costumi e leggi contrarie a quelle degli altri uomini» (II, 35, 2; 1984 I: 359). Ma è proprio vero che con «altri uomini» occorre necessariamente intendere i Greci (Hartog 1992: 186)? Non pare che tutti i costumi particolari degli Egiziani esposti con grande precisione e interesse

etnografico siano l’inverso dei costumi dei Greci. Piuttosto, ciò che preme maggiormente a Erodoto è sottoporre a critica l’immagine che i Greci hanno degli Egiziani, dimostrando la “sconsideratezza” di certi loro racconti e come «i Greci si mostrino assolutamente ignari dell’indole degli Egiziani e dei loro costumi» (II, 45, 1-2; 1984 I: 375). Non solo, ma obiettivo di Erodoto è quello di far vedere che molte consuetudini della cultura greca sono «venute dai barbari» e «soprattutto dall’Egitto»: «ho trovato nelle mie ricerche» – egli ribadisce – «che è realmente così» (II, 50, 1; 1984 I: 381). Ovviamente, qui a noi non importa stabilire la fondatezza storica delle argomentazioni di Erodoto, quanto piuttosto l’atteggiamento critico che egli viene ad assumere nei confronti dei Greci, allorché riporta ciò che ha visto e indagato nei suoi viaggi tra le somiglianze. In effetti, per Hartog «l’etnografia erodotea» non è interamente dominata dalla «figura dell’inversione» (1992: 187). C’è in Erodoto un altro espediente, che Hartog descrive in questo modo: Per dire l’altro, il viaggiatore dispone anche della comparazione: si tratta di una maniera di tenere insieme il mondo che viene raccontato e il mondo in cui si racconta e di poter passare dall’uno all’altro. È la rete che il narratore getta sulle acque dell’alterità: la dimensione delle maglie e il montaggio della rete stabiliscono il tipo di pesca e la qualità di ciò che viene preso; il rimorchio della rete è un modo di ricondurre al medesimo l’altro (1992: 194).

Questo espediente è l’analogia, che «stabilisce somiglianze e differenze» tra noi e gli altri e con la quale si giunge a «estendere la conoscenza dal simile al simile», come nel caso dei Giligami, popolazione della Libia, i quali «hanno press’a poco gli stessi costumi che gli altri Libici» (1992: 195). Come si vede, siamo davvero in una logica delle somiglianze, con le loro sfumature, le loro gradualità e anche le loro potenzialità di estensione. La comparazione – sostiene Hartog – «prendendo a prestito la forma dell’analogia, si fa [...] visione analogica»; in tal modo essa «sbocca sulle possibilità (quasi illimitate) di fabbricare altri parallelismi» (1992: 197-198). Ma, nonostante queste possibilità di estensione, l’analogia erodotea finisce pur sempre con il filtrare «l’altro nel medesimo»: questo è – per Hartog – l’esito a cui mette capo l’operazione di “dominio” sulle differenze (1992: 199). C’è da scommettere che, per Hartog, questo esito di “riportare l’altro al medesimo” riguardi non soltanto le historíai di Erodoto, bensì qualunque viaggio tra le somiglianze e le differenze. In effetti, Hartog pone “il medesimo” (le même) e “l’altro” (l’autre) come dati di partenza, quasi

fossero presupposti e categorie indiscutibili: cosa che vedremo riapparire in un maestro a cui Hartog si rifà esplicitamente, vale a dire in Michel Foucault, quando nel capitolo V discuteremo del suo modo di affrontare il tema della somiglianza. Porre il medesimo e l’altro come presupposti di ogni avventura intellettuale significa probabilmente privarsi della possibilità di cogliere appieno l’impatto critico che i viaggi erodotei hanno avuto. Come abbiamo scritto all’inizio di questo paragrafo, “non si viaggia impunemente tra le somiglianze”. Ma, a ben vedere, non sono soltanto le differenze a produrre effetti destabilizzanti: sono anche, e forse ancor più, le somiglianze, soprattutto le somiglianze “inaspettate”, quelle che ci fanno capire quanto siamo simili a coloro rispetto ai quali pensavamo di essere tanto diversi. Ci limitiamo ad alcuni esempi, rinviando per una analisi più estesa ai paragrafi già citati di Noi, primitivi (Remotti 2009: cap. II). Il primo riguarda uno dei momenti più significativi dell’intero discorso di Erodoto (III, 38), quello dell’esplicito confronto, voluto da Dario, re dei Persiani, tra Greci e Indiani Callati per quanto riguarda i loro rispettivi usi funebri: Dario durante il suo regno, chiamati i Greci presso di lui, chiese loro a qual prezzo avrebbero acconsentito di cibarsi dei propri padri morti: e quelli gli dichiararono che a nessun prezzo avrebbero fatto ciò. Dario allora, chiamati quegli Indiani detti Callati i quali divorano i genitori, chiese, mentre i Greci erano presenti e seguivano per mezzo di un interprete i discorsi, a qual prezzo avrebbero accettato di bruciare nel fuoco i loro genitori defunti: e quelli con alte grida lo invitarono a non dire simili empietà (Erodoto 1984 II: 55).

Quale differenza più netta, anzi quale contrasto insuperabile e quale alterità più inconciliabile, manifestati dai rappresentanti delle due culture. L’esperimento di Dario è molto significativo: egli vuole vedere se questa “alterità”, questa barriera, fomentata oltre tutto non solo dal senso della diversità, ma anche – come sembra di intravedere assai bene – dal “disgusto” che ognuno dei due gruppi prova per le usanze funebri dell’altro, possa essere superata con uno scambio di costumi e se questo superamento possa essere ottenuto con un premio in denari, lasciando oltre tutto agli interessati di fissare un prezzo. No: la barriera non viene superata neanche col denaro; la differenza rimane e, dal punto di vista dei due gruppi, non solo viene ribadita, ma persino accentuata a causa del confronto diretto. Per quanto riguarda gli usi funebri, Greci e Indiani Callati sono dunque molto diversi e non vogliono saperne anche solo di provare ad adottare i

costumi altrui: addirittura gli Indiani Callati mettono di mezzo l’«empietà», il senso di inviolabilità dei loro costumi. Ma il logos di Erodoto non si arresta affatto alla constatazione delle “differenze” culturali. Sia consentito citare quanto nel 1990 scrivevamo in Noi, primitivi: Dissimili per quanto concerne i modi di trattare i cadaveri – in quanto forniscono soluzioni pressoché opposte al problema del “che fare” dei morti – Greci e Callati sono invece simili per quanto riguarda l’attaccamento ai propri costumi. I Greci come gli Indiani Callati: i Greci reagiscono infatti come gli Indiani Callati, allorché si tratta di porre in questione le proprie usanze. Significativamente Dario (ovvero Erodoto) fa assistere i Greci alla seconda parte dell’esperimento, quella in cui il re persiano rivolge la sua proposta agli Indiani Callati, così che i Greci possano rendersi conto della reazione di rifiuto di questi ultimi; un po’ come dire maliziosamente ai Greci: dov’è la differenza tra voi e questi “barbari”? Loro mangiano i cadaveri esattamente come voi li bruciate; e – voi come loro, o loro come voi – tutti gli uomini tengono ai propri costumi (Remotti 2009: 59-60, c.m.).

Dalla citazione erodotea dell’esperimento di Dario abbiamo espunto la conclusione dell’autore, così come abbiamo omesso il contesto entro il quale si svolgono le sue considerazioni. Cominciamo dal contesto. Dopo avere descritto (III, 37) le «follie» del re persiano Cambise – vessazione e uccisione di sudditi, violazione di templi e di tombe –, dopo avere stigmatizzato la sua «grave follia» nell’avere «preso a schernire religioni e costumi», Erodoto propone la seguente argomentazione (III, 38): se uno facesse a tutti gli uomini una proposta invitandoli a scegliere le usanze migliori di tutte, dopo avere ben considerato ognuno sceglierebbe le proprie: a tal punto ciascuno è convinto che le sue proprie usanze sono di gran lunga le migliori di tutte (1984 II: 53-54).

I nomoi sono differenti, sono fattori e manifestazione di differenze tra gli uomini. Tutta l’impresa di Erodoto è stata una serie di viaggi con cui si è addentrato in una molteplicità di costumi tanto differenti da risultare non solo molto spesso strani e bizzarri, ma anche incomprensibili, e talvolta disgustosi. Tuttavia l’impresa di Erodoto – come sostiene Aldo Corcella – è quella di non dimenticare mai il nesso costante e inscindibile tra «peculiarità, differenze e somiglianze», l’intreccio inestricabile tra «differenza ed eguaglianza», così da creare collegamenti e reti tra i diversi casi (Corcella 1984: 51, 17-18, 74): con l’impiego di uno strumento che per Corcella non è soltanto retorico (Hartog), ma anche epistemologico, cioè con l’analogia, egli ha dato luogo a un’opera fitta di rimandi, di accostamenti, di paralleli, un’opera cioè profondamente comparativa, che non ha eguali nell’antichità (1984: 73). Vediamo però con maggiore precisione come avviene il passaggio dalle differenze, a tutta prima incomunicabili, fattori – potremmo aggiungere –

di “in-comunicazione” quasi totale, alle somiglianze, da intendersi come sentieri, mezzi e possibilità di comunicazione. Se riprendiamo in esame Greci e Indiani Callati e le relative argomentazioni di Erodoto, osserviamo i seguenti passaggi: a) differenze nei costumi funebri, rilevabili a uno sguardo etnografico, o di un semplice osservatore sul campo; b) aumento del senso delle differenze da parte di entrambi i gruppi col rifiuto, accompagnato probabilmente dal disgusto, nei confronti dei costumi altrui e invocazione della inviolabilità dei propri costumi; c) somiglianze sottilmente percepibili tra i costumi funebri dei Greci e quelli degli Indiani Callati a un esame più attento e in una prospettiva antropologica: entrambi sono infatti caratterizzati dalla distruzione violenta e intenzionale dei cadaveri dei propri defunti (Favole 2003; Remotti 2006). Si tratta di un passaggio, o di un approfondimento, che si potrebbe compiere nel discorso di Erodoto, ancorché da lui non esplicitato; d) somiglianze di comportamento tra i due gruppi proprio nel momento di rivendicazione della differenza e dell’inviolabilità dei propri costumi; e) somiglianza di Greci, Indiani Callati e di tutti gli altri uomini nel ritenere i propri costumi come i migliori. Insomma, Greci e Callati si sono comportati non diversamente dagli altri uomini, perché – secondo Erodoto – c’è una somiglianza di fondo nel considerare le proprie differenze, che consiste nell’attaccamento di ciascun gruppo ai propri costumi. E qui dobbiamo inserire ciò che avevamo omesso, ovvero la frase con cui Erodoto conclude il suo rapporto dell’esperimento di Dario: Tale è in questi casi la forza della tradizione, e a me sembra che giustamente Pindaro abbia detto nei suoi poemi, affermando che la consuetudine [nomos] è regina di tutte le cose (Erodoto 1984 II: 55).

Per cui potremmo aggiungere all’elenco di prima un ulteriore punto di somiglianza o di convergenza, cioè: f) il potere di nomos – costume, consuetudine, ma anche legge, nella misura in cui si trasforma in abito acquisito – su tutte le cose umane, sulle idee, sui valori, sulle scelte, sulle azioni e sulle istituzioni degli esseri umani. Ovvero, i nomoi rendono gli uomini culturalmente differenti, ma il potere di nomos su di loro li rende a sua volta molto simili.

È questa centralità di nomos a indurre Erodoto a compiere un’ulteriore – e, per i Greci, inattesa – rilevazione di somiglianza: g) Greci, Persiani, Egiziani e chissà quante altre società si somigliano tra loro per i loro etnocentrismi e per la costruzione delle loro rispettive categorie di “barbari”. I Greci hanno i loro “barbari”: come ci fa notare Hartog (1992: 268), Erodoto non ha certo dovuto inventare una nozione del tutto “normale” e ben presente nel linguaggio e nella mentalità dei Greci. Ma ciò che fa Erodoto è far vedere che anche altri – proprio quelli che i Greci definiscono barbari, ossia i Persiani e gli Egiziani – costruiscono a loro volta, con i loro etnocentrismi, le corrispondenti categorie di barbarie. I Persiani, per esempio, ritengono di essere «di gran lunga i migliori degli uomini in tutto» (I, 134, 2; 1984 I: 231) ed elaborano uno schema di valutazione etnica a cerchi concentrici, di cui essi sono al centro (Remotti 2009: 58). Anche gli Egiziani rivendicano una serie di primati, tra cui una priorità cronologica e genealogica sugli altri popoli, e – osserva Erodoto (II, 158, 5; 1984 I: 507) – «gli Egiziani chiamano barbari tutti quelli che non hanno la loro lingua». Noi Greci, dunque, non siamo tanto diversi dai nostri “barbari”: li abbiamo chiamati così per via di una gerarchizzazione di differenze culturali (“noi, Greci” migliori o superiori ai “barbari”). Ma barbari come i Persiani e come gli Egiziani, da noi considerati diversi e inferiori, si comportano in modo analogo a noi: anch’essi hanno i loro barbari. Proprio riflettendo sulla barbarie – potente criterio di differenziazione e di gerarchizzazione interculturale – veniamo a scoprire, insieme a Erodoto, che quanto ad attribuzione di barbarie siamo tutti molto simili. C’è ancora un’implicazione, contenuta sia nel concetto di nomos sia nella critica ai modelli di differenziazione gerarchizzante: h) fatte salve tutte le loro differenze, Greci e barbari finiscono per l’essere messi sullo stesso piano. Lo si vede molto bene, detto a chiare lettere fin dall’inizio, nel Proemio: Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso perché le imprese degli uomini [ta genomena ex anthropon] col tempo non siano dimenticate, né le gesta grandi e meravigliose così dei Greci come dei Barbari rimangano senza gloria, e inoltre per mostrare per qual motivo vennero a guerra tra loro (Erodoto 1984 I: 75, c.m.).

Il criterio di somiglianza viene del resto confermato allorché Erodoto afferma di voler trattare «ugualmente delle piccole e delle grandi città degli uomini» (I, 5, 3; 1984 I: 83). “Ugualmente” è homoios, che possiamo anche

rendere con “senza differenza”, senza privilegiare l’una, perché grande, rispetto all’altra, perché piccola, e dunque possiamo anche dire “in modo simile”, “in modo analogo”, per far capire che Erodoto, se rifiuta di adottare nella sua ricerca una gerarchizzazione di potere o di importanza politica, non intende nemmeno appiattire tutti i genomena ex anthropon su un piano indifferenziato. Hartog sostiene che Erodoto è stato da sempre fonte di «inquietudine» (1992: 308). Per Hartog l’inquietudine sarebbe determinata dall’«incertezza» della sua figura: «Chi è? Dov’è? Rapsodo? Sofista? Storico?». A noi pare che l’inquietudine di questo strano personaggio sia soprattutto dovuta alla forte destabilizzazione che proviene: a) dal rilevamento delle “differenze”, col senso delle possibilità e dell’arbitrarietà delle scelte che esso comporta (noi facciamo così, ma potremmo comportarci diversamente); b) dalle “somiglianze” inattese con coloro che noi ritenevamo non solo diversi, ma persino inferiori (i nostri barbari); c) dalla dipendenza degli esseri umani – per quanto riguarda le loro vite, le loro istituzioni, le loro mentalità, i loro valori – dalla dimensione nomos, un potere che domina come un “sovrano” (basileus) le faccende degli uomini. Erodoto, però, non si accontenta di questi rilevamenti, che da soli potrebbero tradursi in una sorta di auto-imprigionamento degli uomini nei loro costumi. Un tema importante che Erodoto ha trattato e che si configura come un’ulteriore fonte di destabilizzazione è: d) «l’uscita dai costumi», con due esiti divergenti: d1) la follia, come nel caso di Cambise, e d2) la saggezza (sophíe), esemplificata soprattutto da Solone, il quale acquisisce appunto la saggezza mediante il viaggio (plane) e la theoríe, che nell’accezione di Erodoto coincide con l’osservazione del mondo, con la visitazione attenta di luoghi e di società (Remotti 2009: 6570). Si potrebbe dire che in Erodoto non c’è una via maestra, un itinerario precostituito che conduca a “una” meta: ci sono tante deviazioni, come sottolinea lo stesso autore («fin dal principio il mio racconto richiedeva digressioni» [IV, 30; 1984 II: 215]), così come c’è l’idea che si potrebbe o dovrebbe proseguire oltre, verso terre ancora più lontane e società ancora più ignote. La sophíe di Erodoto è fatta di un viaggio senza limite

precostituito e di una molteplicità ampia di direzioni: il rischio del disorientamento è dunque molto elevato, ma è un rischio che vale la pena correre. Come davanti a Erodoto si aprono una molteplicità di direzioni e confini che richiederebbero di essere superati, così alle sue spalle non v’è alcun potere che lo diriga. Erodoto, fa notare Hartog, non è direttamente l’occhio di nessuno: non è incaricato di alcuna missione, non è il cosmografo di alcun principe [...]. In termini più generali, non esiste alcun contratto con il potere che lo autorizzi o che abbia bisogno di lui per scrivere la propria storia [...]. Contrariamente a quanto si è potuto scrivere, Erodoto non è il vassallo di Pericle, il difensore della sua politica imperialistica nel nome del glorioso passato della città [...] egli non è neppure l’araldo di Atene nella sua fase di preparazione delle guerre del Peloponneso. Non è quindi né cosmografo, né storiografo, né consigliere di principi o di città (1992: 297-298).

Il viaggio tra le somiglianze di Erodoto è dunque un viaggio libero, indipendente e solitario. E questo non fa che aumentare quel senso di inquietudine di cui si diceva e, nello stesso tempo, per reazione la forte diffidenza che ben presto gli esponenti maggiori della cultura e della filosofia greca hanno dimostrato nei suoi confronti. Tucidide ritiene che Erodoto non sia un vero storico; Aristotele lo giudica un narratore di leggende e così in epoca ellenistica si forma tutto un filone di letteratura anti-erodotea, volta a denunciare le sue menzogne (Fausti 1984: 51). Nel I secolo d.C. Plutarco ebbe a scrivere Sulla malignità di Erodoto, operetta nella quale il filosofo di scuola platonica accusa il nostro autore di «avere eccessiva simpatia per i barbari, di essere parziale nei confronti di Atene, di fare racconti sfavorevoli ad altre città greche» (Fausti 1984: 52); «la sua filobarbarie [...] fa di lui un traditore della Grecia» (Hartog 1992: 298). Se si potesse tornare indietro di 2500 anni e compiere una minuziosa verifica sul campo, chissà quanti errori di ordine etnografico si verrebbero a scoprire nelle Storie di Erodoto e chissà, del resto, quante conferme, quante intuizioni e osservazioni convalidate. Ma è questo il punto? Oppure la questione non è forse esattamente quella messa in chiaro da Plutarco, ossia da un lato la simpatia per i barbari e dall’altro il tradimento nei confronti della Grecia? Evocando l’accusa di Plutarco, Hartog chiede a questo proposito: «Ma d’altronde Erodoto è davvero un Greco?» (1992: 250). Greco o non greco, il viaggio “tra” le somiglianze – un viaggio che non riporta l’altro al medesimo e che non lascia indenne il medesimo – è per forza di cose un viaggio che rischia (nel bene e nel male) di non avere un centro, con l’esito che i Greci hanno finito per trovarsi da qualche parte

“in mezzo” ai barbari: “noi, proprio noi, in mezzo agli altri”, non sopra o a parte, ma in mezzo, trattati come loro (Remotti 2009: § 40). A prescindere da tutti gli errori e travisamenti di cui Erodoto potrebbe avere infarcito, colpevolmente o meno, le sue historíai, c’è stato nell’antichità un ateniese che ha colto con grande lucidità la questione più importante e decisiva, cioè i pericoli – oltre che il fascino – che il viaggio di tipo erodoteo e protagoreo “tra” le somiglianze fa correre, la sua impostazione di fondo, i suoi esiti deleteri. Lo vediamo ora, nel paragrafo 6. 6. Etnologia sì, ma di Stato È troppo pericoloso lasciare che le persone, specialmente se giovani, intraprendano dei viaggi tra le somiglianze inter-culturali, come fece Erodoto: da solo, libero, indipendente, senza dovere rispondere ad alcuno dei suoi programmi, delle sue scoperte, delle sue direzioni, dei suoi obiettivi. Perlomeno, è troppo pericoloso per una società bene organizzata, o che voglia essere tale. Questa era l’opinione di Platone, il quale ne parlò in uno dei suoi ultimi scritti, Le Leggi, in greco nomoi. E noi sappiamo che sulla faccenda dei nomoi, della loro variabilità, arbitrarietà o, al contrario, fondatezza, si era giocata una partita decisiva tra la cultura dei “sofisti”, familiare a Erodoto (amico intimo – come si è visto – di Protagora), e i “filosofi”, che si sono costituiti come tali, in quanto avvertivano tutto il pericolo di destabilizzazione che proveniva dal mischiarsi con le somiglianze e anzi dal rivendicare che la “saggezza” scaturisse proprio dal viaggio tra le somiglianze e le differenze. Ovviamente senza mai nominare Erodoto, Platone nel libro in cui intende stabilire quali “costumi” nello Stato debbano avere il valore di “leggi”, cerca su tale faccenda di mettere le cose a posto. E anche questo è un capitolo, interessante e istruttivo, della guerra contro le somiglianze o della guerra contro chi si lascia attrarre dalle somiglianze e differenze tra noi e gli altri, contro chi ama troppo inoltrarsi nel SoDif interculturale, con il rischio di perdere sé stesso e di porre a repentaglio l’ordine e la sopravvivenza della propria polis, della propria società. Somiglianze e differenze comportano sempre una notevole quota di disordine, di incertezza, di ingannevolezza. Viaggiare tra le somiglianze entra subito in contrasto con il principio che Platone pone alla base di uno

Stato, ovvero di una società bene organizzata: si tratta dell’idea di “ordine”, che Platone nelle Leggi (645 b) fa derivare addirittura da «un dio», altro che da mere convenzioni o da accordi umani (Platone 1958: 215). Non solo, ma è la ragione filosofica l’organo che consente di cogliere questo «modello immortale», la cui caratteristica essenziale dovrà essere «l’unità» (739 e; 1958: 359). In uno Stato reso «uno» dai suoi nomoi (leggi-costumi), a tal punto che «occhi, orecchi, mani sembrino vedere, udire, agire in comune», i cittadini potranno vivere serenamente al suo interno: «non altrove [...] è necessario volgersi per trovare una costituzione modello» (739 ce; 1958: 358-359, c.m.). È esattamente l’opposto del plane (viaggio) di Erodoto, ossia della proposta di una saggezza perseguita uscendo dai propri costumi, inoltrandosi tra le somiglianze e le differenze di altri luoghi e altre società. L’“altrove” per Platone, il quale irrigidisce e sacralizza il modello unitario dello Stato, non può che essere minaccioso. Uno Stato – egli afferma (758 a) – è come una nave che «naviga in mezzo alle ondate degli altri Stati», alle ondate formate cioè dal navigare degli altri Stati, e «fra insidie di ogni sorta che continuamente minacciano di travolgerlo» (1958: 383; Cambiano 2016). Platone qui non allude, a quanto pare, alle minacce belliche: allude invece ai “movimenti” ondosi prodotti dal navigare degli altri Stati, indotti dalla loro stessa presenza, e le “insidie” non sono di tipo militare, ma sono “di ogni sorta”. Gli “altri” Stati, per il fatto di essere “altri” e per il fatto di non badare troppo alla loro stabilità, insidiano la stabilità della “nostra” società: l’insidia è dunque quella del “mutamento” che proviene dall’esterno, dalle differenze degli altri, e dalla loro indifferenza alle questioni del mutamento. Su certi argomenti, Platone ha il merito di una grande chiarezza: «non v’è nulla di più pericoloso del mutamento» (797 d; 1958: 437). E qui egli si riferisce persino ai divertimenti, i quali hanno «una preponderante importanza sulla fondazione delle leggi». Se i divertimenti rimangono sempre gli stessi, contribuiscono a far sì che pure le istituzioni «restino stabili», mentre se cambiano di continuo e mutano, per esempio, le mode del vestire e i criteri della decenza, se anzi viene onorato al massimo chi sempre inventa qualcosa di nuovo ed introduce nel comportamento, nei colori, in tutte le altre cose del genere, un che d’inusitato, ebbene noi possiamo dire, tranquilli d’essere più che nel giusto, che non v’è per uno Stato maggiore sciagura di questa (797 b-c).

Al di là dell’inventiva dei giovani, con preoccupazione occorre

guardare all’esterno quale fonte del mutamento, in quanto, come Platone afferma in un altro luogo, le relazioni fra Stati e Stati per loro stessa natura producono in essi una grande e svariata confusione di costumi, a causa delle novità che stranieri introducono fra stranieri (949 e; 1958: 654).

Per uno Stato fondato sui criteri dell’unità e della stabilità il semplice contatto con gli stranieri è visto come motivo di disordine e di confusione, e «questo arreca il più grave danno agli Stati bene organizzati per virtù di buone leggi» (950 a). Per questo, come egli diceva in un passo precedente, occorre che lo Stato di giorno e di notte venga di continuo sorvegliato da guardiani e da magistrati (758 a-b; 1958: 383). Proprio sulla faccenda del contatto con gli stranieri – con l’“alterità”, come si usa dire di questi tempi – si gioca per Platone la differenza tra una società bene organizzata e una società male organizzata. Il primo tipo di società dà luogo a continue attività di controllo, mentre il secondo tipo di società trascura di prendere in considerazione gli effetti di mutamento, nelle più svariate direzioni, e dunque di alterazione, che la frequentazione con l’alterità inevitabilmente comporta. Con preoccupazione, Platone osserva che alla maggioranza degli Stati [...], che sono governati male, non importa affatto che i propri cittadini si frammischino agli stranieri liberamente accolti, e che, essi stessi, a frotte, vadano negli altri Stati, quante volte, a ciascuno di loro, giovane o vecchio, prenda il desiderio di viaggiare, dove e quando gli pare (950 a; 1958: 654).

È importante sottolineare che in questi rilievi Platone si riferisce a uno Stato privo di commerci con l’estero, in quanto trae le sue ricchezze soltanto dal proprio suolo, secondo un ideale di autarchia che corrisponde perfettamente al modello di unità evocato in precedenza. Questa precisazione consente di porre maggiormente a fuoco il tipo di regolamentazione che Platone intende proporre per quanto riguarda la frequentazione con gli stranieri, sia quando essi giungono da “noi”, sia quando i nostri concittadini vanno da “loro”. Eliminate le motivazioni strettamente economiche, appare chiara in Platone l’ammissione che gli esseri umani vengano presi dal «desiderio di viaggiare». È come se Platone riconoscesse, a questo punto, l’esistenza di un fondamento naturale del desiderio del viaggiare altrove; è come se ammettesse ciò che abbiamo già argomentato nei paragrafi precedenti (§§ 4-5), ovvero l’attrazione del SoDif esterno al proprio “noi”, l’attrazione che l’intrico delle somiglianze e delle differenze finisce per esercitare soprattutto sui giovani. Riconosciuto

questo desiderio e il rischio di destabilizzazione che esso comporta, Platone non se la sente però di proporre anche per “noi” il “bando degli stranieri” (la xenelasìa), la legge adottata dagli Spartani a difesa – si direbbe oggi – della propria “identità”: «ne guadagneremmo» – egli afferma (950 b; 1958: 654) – «solo una cattiva fama». Proprio in quanto da “noi”, nella nostra società, «si voglia essere uomo nel senso pieno della parola» (950 c; 1958: 655), occorre non già reprimere un desiderio naturale, bensì sottoporlo a controllo, mediante una regolamentazione che eviti di porlo in conflitto con l’esigenza di ordine e di stabilità. «Non è affatto possibile» – secondo Platone (250 a; 1958: 654) – «vietare assolutamente l’entrata agli stranieri e non permettere ai cittadini di compiere viaggi all’estero». È però possibile e doveroso limitare questi contatti con l’alterità, con il SoDif esterno al noi. È bene avvertire il lettore che, da questo punto in avanti, il discorso di Platone diviene tediosamente e pedantemente normativo, fatto com’è soltanto di divieti e di restrizioni. La regolamentazione comunque si sdoppia: da una parte riguarda i visitatori in entrata, dall’altra i cittadini in uscita dalla polis. Per ognuna delle quattro «categorie di stranieri» che di solito vengono da “noi” (952 d; 1958: 657), egli fissa con animo burocratico una serie di regole, mediante le quali limitare la mobilità spaziale dei “trafficanti”, la permanenza dei “turisti” che vogliono assistere da noi a intrattenimenti culturali, così come assicurare la regolare attività di “diplomatici e funzionari”. In ogni caso, il principio di fondo è chiaro: i magistrati devono «stare attenti che qualcuno di questi stranieri non introduca qualche novità» (952e; 1958: 658, c.m.). A noi interessa però soffermarci soprattutto sulla quarta categoria di stranieri, la più problematica e importante per il nostro discorso: la categoria degli «osservatori» esterni, come li chiama lo stesso Platone. Egli prevede infatti la possibilità che giungano stranieri con lo scopo di osservare come sia fatta la nostra polis. Questi osservatori, afferma, raramente verranno, ma se mai qualcuno ne venga, innanzi tutto non deve avere meno di cinquant’anni e deve dimostrare che il suo scopo è di vedere quello che v’è di bello nel nostro Stato, di particolarmente bello e diverso dagli altri Stati, o di mostrare a noi qualcosa dello stesso valore (953 c).

Qui Platone stabilisce criteri selettivi molto rigidi, che proviamo ora a elencare: a) l’età, in quanto l’osservatore deve essere maturo, anzi piuttosto anziano (non meno di cinquant’anni), così da offrire una sorta di garanzia

anagrafica per quanto riguarda la serietà del suo comportamento, la correttezza e l’autenticità del suo obiettivo; b) l’estrazione sociale e il livello culturale, in quanto egli dovrà dimostrare di essere «ricco e sapiente»; c) contatti sociali esclusivi, visto che, essendo ricco e sapiente, l’osservatore si presenterà «alle porte dei ricchi e dei sapienti» o persino «a casa del ministro dell’educazione» (953 d; 1958: 658-659); d) l’oggetto della sua attività di osservatore, in quanto non si tratta di osservare tutto, ma soltanto ciò che «v’è di bello nel nostro Stato». È importante soffermarsi un istante su questa limitazione, che contribuisce a delineare la figura dell’osservatore straniero. Il suo obiettivo non è infatti quello di cogliere, per così dire, le peculiarità culturali o le curiosità etnografiche del paese in cui è ospitato, ma soltanto ciò che è peculiarmente “bello” nell’ordinamento statale, nella struttura giuridica o nella organizzazione sociale. Questi osservatori dialogano con i ricchi, con i sapienti e con i potenti della polis ospitante, potendo così «mostrare a noi qualcosa dello stesso valore» presente nel loro ordinamento. Ciò che si realizza è dunque un fruttuoso scambio di idee su questioni di elevato ordine politico e sociale. Ma «dopo avere preso contatto» con i sapienti, i ricchi e i potenti della polis, e «dopo avere insegnato e a sua volta imparato», dopo avere dunque espletato la missione per la quale egli è giunto da “noi”, «se ne parta, amico da amici, avendo ricevuto doni ed onori degni di lui» (953 d; 1958: 659). Che cosa dunque l’osservatore avrà osservato? Nelle argomentazioni di Platone c’è un’evidente disparità tra “noi”, lo Stato che (nelle Leggi) si suppone ben ideato e ben retto, la società bene organizzata, solidamente fondata, i cui costumi hanno valore di leggi razionalmente costruite, e gli “altri”, società molto spesso aperte a tutte le novità, ai flussi delle mode, alle alterazioni più perniciose. Con le limitazioni di cui sopra, occorre fare di tutto affinché un Erodoto qualsiasi non possa permettersi di collocare “noi” in mezzo ai “barbari”, di trattare “noi”, la nostra società, alla stessa stregua delle altre società, di considerare le “grandi città” in modo simile (homoios) alle “piccole città”. Questa disparità tra “noi” e gli “altri” dà luogo a un’asimmetria tra le leggi che regolano l’entrata degli stranieri nella nostra polis e le leggi che invece regolano l’uscita dei “nostri” concittadini. Dal punto di vista dell’uscita da “noi”, Platone concepisce infatti le seguenti regole generali:

in primo luogo sia assolutamente vietato recarsi all’estero a chiunque non abbia raggiunto quaranta anni di età; in secondo luogo sia a tutti vietato viaggiare in forma privata; permessi siano quindi i soli viaggi per conto dello Stato, in qualità di araldi, di ambasciatori, d’inviati a consultare oracoli (950 d; 1958: 655).

L’asimmetria risulta evidente dal fatto che, mentre possiamo e dobbiamo accogliere – pur con tutte le cautele e i controlli già considerati – gli stranieri che viaggino per motivi privati o personali (commerci, traffici, intrattenimenti culturali), “noi” non possiamo consentire che i nostri concittadini facciano altrettanto. Il nostro Stato vigila su chi entra, dal momento in cui entra; ma si distingue dagli altri, anche perché sottopone a stretto controllo coloro che desiderino andare altrove, inoltrarsi nel pericoloso SoDif esterno. Tale maggiore rigidità in partenza si spiega col presupposto che siamo “noi” ad avere realizzato un buono Stato ed è preoccupazione di un buono Stato evitare la corruzione (l’alterazione) che i viaggi all’estero possono determinare nei nostri concittadini. È bene che gli “altri” vengano da “noi”, avendo molto da imparare dalle nostre leggi e dai nostri costumi; nel contempo, occorre prestare molta attenzione all’uscita dal “noi”, vietando viaggi di persone troppo giovani (meno che quarantenni) e per motivi privati: si viaggia soltanto “per conto dello Stato”, e i “nostri” cittadini non vanno all’estero ad apprendere alcunché. Anzi, una volta rientrati, coloro che hanno partecipato a giochi e a sacrifici «insegneranno ai giovani che le istituzioni degli altri paesi sono inferiori rispetto a quelle loro» (951 a). Anche da “noi” è prevista però la figura dell’“osservatore” professionale, e l’iniziativa può anche essere dei singoli cittadini: Sarà inoltre opportuno che con il permesso dei custodi delle leggi altri osservatori si rechino all’estero. E se infine taluni cittadini desiderano studiare con maggior tempo a disposizione i costumi degli altri popoli, nessuna legge lo vieti (951 a; 1958: 655).

Non è lo Stato che avverte l’esigenza di studiare i costumi degli altri popoli; sono invece “taluni cittadini” che manifestano tale desiderio. Si direbbe che questo “desiderio” di osservare e indagare i costumi degli altri si abbina o è una variante del più generico “desiderio di viaggiare” già ammesso e riconosciuto da Platone (950 a). L’impulso del viaggio e dello studio, che potremmo dire “etnologico”, è dunque una faccenda individuale, come in effetti il caso di Erodoto starebbe a dimostrare. Lo Stato interviene in seconda battuta a regolamentare e, anzi, a sfruttare a

proprio vantaggio questo desiderio. Da condannare è uno Stato che abolisse la formazione di questo sapere “etnologico”. Uno Stato, infatti, che non abbia alcuna cognizione di altri popoli, di ciò che in essi v’è di buono e di cattivo, non potrà mai, nel suo isolamento, raggiungere adeguata civiltà e perfezione, né potrà mai mantenere intatte le leggi senza farle proprie, non solo per abitudine, ma anche per ragione (951 a-b).

La condanna platonica della chiusura completa e dell’isolamento, sia sul piano pratico (quello dei viaggi) sia sul piano teorico, è molto chiara. Fa parte della perfezione di uno Stato, della sua stessa costituzione, la conoscenza delle altre società. Un’adeguata “civiltà” – «l’essere uomo nel senso pieno della parola» (950 c) – comporta questa sorta di etnologia, di studio dei “costumi” altrui e di comparazione con i nostri. Il punto che stiamo toccando è molto importante. Platone fa capire infatti che una società del tutto chiusa e isolata, priva di conoscenze comparative circa i costumi delle altre società, può mantenere intatte le proprie leggi soltanto grazie alla forza della “abitudine”. Si tratta insomma di una conservazione cieca e ottusa, fondata sul prolungarsi delle tradizioni e sul ripetersi delle abitudini. Al contrario, la costituzione di un’autentica civiltà, di una società in cui si realizzi la vera e propria umanità, esige un’apertura comparativa verso le altre società, così che il mantenimento delle leggi sia garantito non dal semplice “così si è sempre fatto”, bensì dal riconoscimento che le proprie leggi sono davvero le migliori: riconoscimento che si ottiene tramite la comparazione con le altre società. Significativamente, all’“abitudine” Platone oppone la “ragione”, che in questo caso si esplica attraverso l’osservazione e la comparazione: Senza tali osservazioni, infatti, senza tali ricerche la perfezione di uno Stato non sarà mai durevole, né lo sarà se queste indagini verranno mal condotte (951 c; 1958: 656).

L’etnologia dunque è indispensabile e – si badi – è indispensabile un’etnologia condotta mediante osservazioni e ricerche “sul campo”, proprio come aveva fatto Erodoto. Ma lo stesso Platone pone il problema: «osservazioni e ricerche come dovranno compiersi?» (951 c). Tanto per cominciare, la pratica dell’osservazione presso società straniere non è generalizzata, quanto al suo oggetto. Come già abbiamo visto a proposito degli osservatori stranieri presso di “noi”, l’osservazione non riguarda i costumi della gente in generale, bensì si concentra soprattutto nelle frequentazioni e nei dialoghi tra l’osservatore – persona di spicco, appartenente all’élite della propria società – e quegli

uomini divini – non molti – con i quali merita davvero il conto avere consuetudine, uomini che nascono tanto negli Stati bene organizzati quanto negli altri, e chi vive in quei primi deve costantemente seguirne, per mare e per terra, le tracce (951 b).

La pratica dell’osservazione delineata da Platone non è dunque assimilabile all’etnologia di Erodoto, molto più aperta all’osservazione dei costumi della gente comune. Ciò che Platone ha in mente è piuttosto uno scambio elitario tra dotti e sapienti di non importa quali società, e che lascia quasi del tutto fuori i “costumi” dei popoli. A differenza che per Erodoto, la “saggezza” non si forma nel viaggio: non è – per Platone – risultato del viaggio; è invece la sua precondizione. L’osservatore che esce dalla nostra polis, e che va a incontrare altri saggi di altre società, ha da essere infatti «incorruttibile», in grado cioè di «confermare il valore delle proprie istituzioni, ove esse siano ben fondate», e di «correggerle, ove queste siano difettose» (951 b-c; 1958: 655-656). A ulteriore garanzia dell’incorruttibilità dell’osservatore che si reca in paesi stranieri, scatta la clausola anagrafica, secondo cui egli potrà svolgere le sue ricerche in un arco ristretto e ben delimitato della propria vita: «un simile osservatore deve avere oltrepassato i cinquant’anni» e «oltrepassati i sessant’anni nessuno assolva più la funzione di osservatore» (951 c-d; 1958: 656). L’etnologo dello Stato platonico ha dunque a disposizione soltanto un decennio e in un’epoca piuttosto avanzata della sua vita. In questo arco di dieci anni (dai cinquanta ai sessant’anni) egli potrà svolgere le sue osservazioni per tutto il tempo consentito. E qui spunta un’ulteriore limitazione. È vero che Platone ammette una sorta di naturalità del desiderio di viaggiare e di studiare i costumi altrui. Ma non a tutti è consentito darsi a questa specie di etnologia di Stato. Oltre ad avere un’età delimitata, occorre «essere scelto» – evidentemente dallo Stato – «fra coloro che si sono conquistati chiara fama in ogni atto della propria vita e in guerra»; scopo di questa selezione non è, per esempio, la capacità di adattarsi alle avversità o alle differenze di natura sociale e culturale, bensì quella di dimostrare «quel che siano i custodi delle leggi» (951 d). La notevole apertura dimostrata da Platone nel concepire la sua etnologia comparativa subisce – com’è evidente – una restrizione fortissima, allorché stabilisce i criteri della “incorruttibilità” degli osservatori. In fondo, a questo unico principio si riduce la buona conduzione delle indagini. Tant’è vero che, al suo ritorno, l’osservatore

dovrà presentarsi immediatamente al «consiglio dei magistrati», che in seduta perenne affronta anche il tema di «ciò che altrove si venga a conoscere esser degno di particolare rilievo intorno alle leggi» (951 e-952 a). A questo Consiglio, dunque, si presenti, e subito, al suo ritorno, chi è stato all’estero studiando le istituzioni degli altri popoli, e se ha trovato che taluni di essi posseggono qualche importante principio sulla legislazione, l’educazione, l’allevamento, ne dia comunicazione, e se inoltre egli stesso si sia fatta un’opinione in proposito la esponga dinanzi all’intero Consiglio (952 b; 1958: 657).

Ma gli esiti dell’attività dell’osservatore non riguardano soltanto il tipo di informazioni e di considerazioni comparative; riguardano anche i cambiamenti che lo stesso osservatore potrebbe avere subito. L’osservazione etnologica praticata fuori dallo Stato ideato da Platone è un’attività molto rischiosa. Se l’osservatore dimostra di essere tornato «né peggiore né migliore», viene certamente lodato per il suo impegno (952 c). Se dimostra di essere molto migliorato, sarà lodato sia in vita sia morto. Ma se al suo ritorno mostrerà d’essersi corrotto, sia pur dandosi l’aria d’essere un sapiente, non abbia più rapporti con alcuno, né giovane né vecchio; e se obbedisce ai magistrati, viva da privato; altrimenti, se in tribunale viene riconosciuto colpevole di voler introdurre novità riguardanti l’educazione e le leggi, sia condannato a morte (952 c-d).

Poche righe oltre leggiamo: Questo sia dunque, il tipo di cittadino che viaggia all’estero, e queste le condizioni per poter viaggiare (952 d).

È dunque chiara la lezione per chi – come Erodoto – si lascia prendere dal desiderio di viaggiare e di andare a studiare i costumi degli altri, inoltrandosi nel SoDif interculturale? Vi è da supporre che la lezione sia stata ben recepita, se è vero che l’esperienza e l’opera di Erodoto (e di Ecateo di Mileto, prima di lui) non hanno dato luogo nell’antichità classica allo sviluppo di un sapere etnologico, a una tradizione scientifica minimamente continuativa e cumulativa. La prospettiva di Erodoto, fondata – come quella di Protagora – sulla percezione e sulla ricerca delle somiglianze e delle differenze tra le società umane, non ha avuto seguito; è stata anzi screditata e quasi del tutto abbandonata. Secondo l’opinione di Franz Haible, fatta propria da Corcella (1984: 73), è ben difficile trovare nell’antichità altre opere in cui vengano proposti «tanti paralleli», in cui si pratichino «tanti confronti», in cui si dimostrino tante somiglianze e vengano puntualizzate «tante differenze», in cui cioè si dia luogo – nella stessa misura che in Erodoto – a un vero e proprio approccio comparativo (Haible 1963: 209). Certo, esistono opere di netto rilievo etnografico,

come quella di Megastene, originario della Ionia, il quale, dopo le conquiste di Alessandro, giunse in India nel 303 a.C. nel ruolo di ambasciatore di Seleuco I, lasciando un’importante opera sull’India (Indika); come quella di Agatarchide di Cnido, il quale nel II secolo a.C. redasse uno scritto sulle condizioni geografiche ed etnografiche del Corno d’Africa (Sul mare Rosso); come quella, infine, di Posidonio (135-50 a.C.), il quale studiò e descrisse in maniera vivida ed efficace i costumi dei Celti4. Rimane vero, però, che nell’antichità non si assiste allo sviluppo di un sapere etnologico – fatto di ricerca sul campo e di comparazione – a partire dall’esperienza di Erodoto. Contro Erodoto ci fu un fuoco di sbarramento. Come aveva fatto notare molto bene Arnaldo Momigliano, «Erodoto fu tagliato fuori dalla corrente della storiografia antica» perché «Tucidide impose l’idea che l’unica storia seria era la storia politica contemporanea», e le ricerche di Erodoto non rispondevano a questi requisiti (Momigliano 1982: 143). Questo per quanto riguarda l’Erodoto storico. Per quanto riguarda l’Erodoto etnografo ed etnologo, a noi sembra che Platone nelle sue Leggi abbia provveduto – con tutto il peso della sua autorevolezza – a reprimere, a irreggimentare, a isterilire, in definitiva a condannare, un sapere che, in libertà, nascesse dal “desiderio di studiare i costumi altrui”. Se il sapere etnologico si sviluppa viaggiando tra le somiglianze e le differenze, e se esse sono il groviglio da cui si diparte una molteplicità di direzioni possibili, occorre riconoscere a suo fondamento imprescindibile un’ampia dose di libertà, di coraggio e di intraprendenza del ricercatore. Sotto questo profilo, la figura di Erodoto fu senza dubbio esemplare. E Platone, con la sua burocratica etnologia di Stato, fece di tutto per impedire che l’opera del viaggiatore di Alicarnasso si sviluppasse come un paradigma scientifico. 7. Le somiglianze ridotte in servitù Tra i grandi meriti di Platone c’è anche quello di avere capito benissimo i rischi insiti nelle somiglianze. In effetti, tanto più lucidamente si intravedono i rischi di una cosa, quanto più si afferra la logica del suo funzionamento. Platone ha posto in guardia i suoi contemporanei e i suoi successivi lettori contro i rischi delle somiglianze, perché in primo luogo ne aveva colto la natura: il loro carattere molteplice, arbitrario, multi-

direzionale, caotico, spesso illusorio, così come il loro essere scivoloso e ingannevole. Nel Sofista (231 a) Platone avverte colui che abbia a cuore la correttezza del suo agire e del suo pensare, colui che proprio per questo ambisca a raggiungere il massimo grado di sicurezza, di stare molto attento alle somiglianze, di «guardarsi sempre dalle somiglianze», perché le somiglianze – egli afferma – «costituiscono il genere più sfuggente di tutti» (Platone 2007: 273). Nella traduzione francese di Léon Robin si fa risalire il carattere infido delle somiglianze al fatto che non vi è nessun genere di cose che, più delle somiglianze, sia capace di «farci scivolare» da una parte o dall’altra (Platon 1950: 279). In una recente traduzione italiana, viene confermato che le somiglianze «sono il genere più scivoloso» (Platone 2008: 71). Ma vi è anche chi ha proposto una traduzione più intrigante, dove genos non è inteso come un “genere” di cose, ma addirittura come una “tribù”. In diverse traduzioni in lingua inglese troviamo infatti l’espressione «a most slippery tribe» (Cherniss 1977: 208; Lloyd 1990: 21), dove si vede bene – come fa notare Geoffrey Lloyd – l’uso di una metafora (la tribù) proprio quando Platone mette in guardia circa l’uso delle metafore. Probabilmente è questo curioso e interessantissimo gioco che ha indotto anche Douglas Hofstadter ad adottare l’espressione «a most slippery tribe», che i traduttori rendono in italiano con «le somiglianze sono una tribù quanto mai infida» (Hofstadter e Sander 2015: 22). Per noi, reduci dalla lettura di Erodoto, la tribù infida delle somiglianze risuona in modo ancora più significativo e inquietante. Platone aveva comunque ragione a concepire le somiglianze come una sfida continua: se guardi solo alle somiglianze, finisce che non sai più da che parte girarti. C’è dunque bisogno – noi diremmo – di una bussola, di un mezzo di orientamento. Ma di quale strumento si tratta? Che si voglia intendere le somiglianze come un terreno estremamente scivoloso o come una tribù di cui occorre diffidare, sta il fatto che per Platone non era sufficiente affidare all’essere umano – per quanto di sua pertinenza – la responsabilità di orientare, di “misurare”, di essere il “metro” delle somiglianze e delle differenze (Protagora), di vagliare la loro tenuta, la loro consistenza, la loro produttività. Non era sufficiente fare appello alla prudenza dell’uomo, al suo senso della misura. Non era sufficiente fare ricorso a una “saggezza” illusoriamente acquisita accettando, e persino ergendo a principio generale, che tutte le cose siano in qualche modo

somiglianti tra loro (secondo l’insegnamento di Protagora), o addirittura ponendosi in viaggio nella molteplicità senza senso e inconcludente delle somiglianze e delle differenze culturali (secondo l’esperienza di Erodoto). Tutte soluzioni, queste, che non escludono – anzi, esplicitamente ammettono – l’arbitrarietà della scelta. Per Platone c’era bisogno di ben altro; c’era bisogno di una saggezza ben altrimenti fondata. Si trattava dunque di andare alla ricerca di un ordine che si trovasse al di là delle somiglianze e delle differenze: un ordine sicuro, di cui potersi finalmente fidare. Per questo Platone non si è limitato ad avvertire di “stare in guardia” rispetto alle somiglianze. Egli ha dichiarato guerra contro coloro che imprudentemente e persino con entusiasmo frequentano le tribù delle somiglianze e delle differenze, di cui invece sarebbe bene diffidare, contro coloro i quali si muovono sul terreno scivoloso delle somiglianze e delle differenze e per giunta ritengono che esso sia l’unico terreno di competenza degli esseri umani. Ovviamente, Platone non è stato l’unico a diffidare delle somiglianze: prima di lui, si pensi all’incidenza del pensiero di Parmenide, con la sua idea dell’essere come una sfera compatta; e dopo di lui – come vedremo tra un istante – si pensi ad Aristotele, con la sua visione della struttura ordinata del mondo in generi e specie. Ma perché insistere – in questo capitolo – su pensatori così lontani nel tempo? La risposta è molto semplice, e consiste nell’ammettere che a) quella guerra contro le somiglianze – così apertamente dichiarata da Platone – è proseguita a lungo nel pensiero che ci riguarda, quel pensiero che ha generato e continua ad alimentare l’idea di “identità”, e che b) Platone in questa guerra ha riscosso un notevole successo. È legittimo sostenere – come ha fatto Aldo Corcella (1984: 275) – che, se il modello platonico ha registrato un evidente fallimento «sul piano politico immediato», «la sua vera vittoria si ebbe sul piano intellettuale». Quanto il pensiero occidentale è infatti debitore di Platone? E quanto la diffidenza verso le somiglianze – così evidente nelle sue tradizioni più importanti – è dovuta a questa guerra delle origini? Sarà una battuta un po’ esagerata e provocatoria, ma l’opinione di Alfred North Whitehead, secondo cui ciò che maggiormente caratterizza la filosofia europea è il fatto che «essa consiste in una serie di note» al pensiero di Platone (Whitehead 1965: 114), è tutt’altro che da sottovalutare. È con questo spirito che ora ci accingiamo a capire un po’ meglio come

la guerra contro le somiglianze sia stata condotta dai maggiori filosofi dell’antichità, soprattutto Platone e Aristotele, che Whitehead – ancora lui – considera come i «due fondatori di tutto il pensiero occidentale» (1965: 31). Con quali argomentazioni? con quali esiti? Cerchiamo di affrontare queste domande avvalendoci di una ricostruzione particolarmente approfondita e impegnativa, quella che Carlo Augusto Viano ci propone in un libro il cui titolo abbiamo già più volte evocato, La selva delle somiglianze (Viano 1985). Nella ricostruzione di Viano, Platone pare essere l’erede di una tradizione di pensiero che, dal VI secolo in avanti, vede, in maniera preoccupata, «il mondo come un insieme di cose molteplici e disordinate» (Viano 1985: XII). In particolare, alle spalle di Platone si collocano pensatori tanto divergenti come Parmenide ed Eraclito, accomunati dall’obiettivo di proporre una soluzione al disordine, addirittura «un messaggio di salvezza da trasmettere agli uomini» (1985: 79). Per entrambi si tratta di sottrarre gli uomini alla «molteplicità disordinata» del mondo: il primo cercando «un regno dell’identità assoluta»; il secondo ricercando un’identità più mediata, colta passando attraverso «differenze e contrasti» (1985: 80-81). Per Platone la sfida diviene però più impegnativa, e il compito di trovare un «rimedio allo smarrimento» più impellente (1985: 107), in quanto egli ha da fronteggiare coloro che (Protagora, i Sofisti, Erodoto) sostengono che non c’è altro da fare se non inoltrarsi nell’intrico delle somiglianze, accontentandosi di mappe parziali, provvisorie, temporanee, fondate come sono sui rilevamenti di somiglianze e di differenze. Inoltrarsi nel SoDif – come ormai abbiamo deciso di chiamarlo – con strumenti fatti anch’essi di SoDif, è per Platone una soluzione estremamente rischiosa: anzi, una non soluzione. La chiave della soluzione consiste, per Platone, nell’affermazione chiara ed esplicita di un livello di realtà qualitativamente diverso rispetto al SoDif, e Platone non ha esitazione nel fare coincidere questo livello con il concetto di “identità”. Come sostiene Viano (1985: XIII), identità è «un concetto netto e duro, che si oppone subito alle relazioni di somiglianza che intercorrono tra le cose», cioè al SoDif con cui sono fatte le cose del mondo. Per Platone – come sostiene nel Fedone (78 c) – occorre distinguere in maniera precisa e inequivocabile a) «le cose che sono sempre negli stessi identici modi» e b) «le cose che sono di volta in volta in modi diversi e mai nello stesso modo»

(Viano 1985: 124). Ebbene, l’identità è la caratteristica propria delle cose del primo tipo, e vale la pena riportare il brano in cui Platone illustra in maniera perentoria il suo concetto di identità: Ciò che in sé costituisce l’essere [...] è sempre identicamente nello stesso modo [...]. L’uguale in sé, il bello in sé, ciascuna delle cose che sono in sé, l’essere, non vanno mai incontro a un qualche mutamento, a nessuno [...]. Ciascuna di esse rimane identicamente identica, sempre, ciò che è, avendo di per sé un’unica forma, e non riceve alcuna alterazione, mai, assolutamente, in nessun modo (Fedone 78 d; Viano 1985: 125).

A questo punto il problema, per Platone, è quello di stabilire quali cose possono vantare questo tipo di realtà, questa identità così forte da sconfiggere il tempo, il mutamento, la variabilità. Come si sa, la soluzione tentata da Platone consiste nella teoria delle idee: «solo le idee sono realmente invariabili nel tempo, mentre le cose sono sempre diverse sia rispetto a sé stesse sia rispetto alle altre cose» (Viano 1985: 125). Un conto dunque sono le idee, che non mutano mai, e un conto sono le cose, che appaiono costituite da «un intreccio di idee», che anzi sono «localizzazioni di intrecci di idee» (1985: 126). Platone è rimasto certamente affascinato dall’identità di tipo parmenideo, ma rifugge dalla soluzione estrema di Parmenide, quella cioè di ridurre l’essere all’uno: la concentrazione massima di identità. Il sistema delle idee di Platone è «pluralistico e non può ridursi all’unità»: egli si guarda bene dal provocare «il collasso nell’unità di tutto il sistema delle idee» (1985: 127). Se interpretiamo bene, è come se Platone si muovesse tra due estremi: l’Uno di Parmenide, concentrato massimo di essere e di identità, privo di una benché minima scalfittura di differenza, e il mondo del SoDif, un miscuglio disordinato di somiglianze e di differenze. Le idee stanno in mezzo, ricavando dall’Uno di Parmenide l’attributo dell’identità (invariabilità, permanenza nel tempo) e traendo dal mondo del SoDif la caratteristica della molteplicità; non però una molteplicità disordinata, caotica, ma una molteplicità coordinata, organizzata, dunque ridotta (rispetto al SoDif), una molteplicità cioè che si inquadra in un «sistema perfetto di distribuzione di identità e di differenza: ogni idea resta identica a sé stessa e differente da ogni altra sempre nello stesso modo» (1985: 130). Battaglia vinta? Obiettivo raggiunto? La ricostruzione di Viano ci fa capire molto bene le «difficoltà della teoria delle idee» (1985: 135), originate sia dal fatto di non volersi lasciare sommergere dall’Uno – un’idea somma che però avrebbe eliminato le altre idee – sia dalle insidie portate

dalla molteplicità delle idee. Se le idee non si riducono all’Uno, ma sono molteplici, quali relazioni intrattengono tra di loro? Le idee, proprio perché molteplici, non sono certo isolate, ma si combinano, si intrecciano, persino si mescolano tra di loro, dimostrando di intrattenere anche loro rapporti di somiglianza e di dissomiglianza (1985: 133). Se così stanno le cose, il SoDif – l’intreccio delle somiglianze e delle differenze – non appartiene soltanto alle cose, ma si presenta, sia pure in forma più tenue e controllata, meno selvaggia, e tuttavia non per questo meno insidiosa, persino tra le idee. Detto in altri termini, quella distinzione così netta e rassicurante tra il livello a) e il livello b), affermata nel Fedone (78 d), la distinzione cioè tra il mondo delle idee, caratterizzato dall’identità, e il mondo delle cose, caratterizzato dalla variabilità, rischia di perdere la sua credibilità iniziale. Platone ha condotto una grande battaglia contro il SoDif, o meglio contro i teorici del SoDif; ma avendo introdotto in modo convinto e consapevole la molteplicità nel mondo delle idee, si è poi trovato costretto a ospitare il SoDif in quello stesso mondo pensato inizialmente come perfetto. La molteplicità è la porta, o lo spiraglio, attraverso cui il mondo delle cose fa penetrare certe sue caratteristiche nel mondo delle idee: vi è un’«infezione delle cose» che si propaga all’interno delle idee, prendendo la forma di relazioni contraddittorie tra le idee, di una loro molteplicità incontrollata, di un disordine generato dallo stesso pensiero (1985: 139-140). Conferendo molteplicità al mondo delle idee, è come se Platone avesse voluto affermare una sua presa sul mondo delle cose. Ma proprio il possesso della realtà e dell’efficacia, mentre toglieva le idee dall’isolamento, le esponeva alla contaminazione delle cose. Nel momento stesso in cui le cose, modellandosi sulle idee, diventavano simili a esse, anche le idee diventavano simili alle cose e rischiavano di ospitare incompletezze e contraddizioni che caratterizzano le cose. Il mondo vario delle somiglianze avrebbe distrutto del tutto la nettezza delle relazioni che intercorrono tra le idee (1985: XIV-XV).

La somiglianza, inferiorizzata – se così possiamo esprimerci – nel mondo delle cose, prende quasi il sopravvento: essa è presente non solo tra le cose, ma anche tra le idee, e non solo domina il rapporto delle cose rispetto alle idee, ma avvicina pure le idee alle cose. Protagora non rischia di avere ragione, quando afferma che tutte le cose (anche le idee), in un modo o nell’altro, sono simili tra loro? La grandezza di Platone consiste non solo in un grandioso tentativo di sconfiggere il SoDif, ma anche nello sviscerare le difficoltà cui andava

incontro. In ogni caso, Platone non ha certo condotto una battaglia solitaria. Come Viano ha posto in luce, è stato soprattutto Aristotele ad assumersi il compito di proseguire la lotta di Platone, inserendosi in modo esplicitamente critico nel dibattito sulle idee e proponendo una via alternativa, che è poi quella che ha avuto il successo maggiore nella storia della filosofia e del pensiero occidentale. Come già per Platone, anche per Aristotele vi è una «differenza di rango» tra identità e somiglianza, nel senso che l’identità è condizione necessaria e preliminare della somiglianza: come tale, viene “prima”, sia sotto il profilo logico, sia sotto il profilo ontologico. Se, per esempio, due soggetti A e B sono simili, è solo perché essi posseggono qualcosa di identico. Inoltre, l’identità attiene alle idee, mentre le somiglianze, frutto di imitazione, sono solo faccende di cose: per Platone, «ogni idea è identica a sé stessa, mentre le cose che la imitano sono simili tra loro» (Viano 1985: 161, 165). Sia per Platone, sia per Aristotele, l’obiettivo è quello di riuscire a disporre di «unità coerenti [...] che riportino confini precisi tra le cose» (1985: 168). Con la loro molteplicità indefinita e con la loro possibilità di combinarsi e mescolarsi, le idee non offrono sufficienti garanzie di ordine: la proposta alternativa di Aristotele è quella di pensare invece al «sistema dei generi e delle specie» (1985: 180). Esso non si riduce affatto a proiettare dall’alto, nel mondo delle cose, un ordine intellettuale più o meno discutibile; consiste invece nel rintracciare e poi riprodurre sul piano teorico un ordine che ontologicamente già si trova nella realtà. Anche per Aristotele – come già voleva Platone – la somiglianza è «generata dall’identità», anzi è una sua «conseguenza», un suo «riflesso» (1985: 181). Ma questa volta le identità, da cui dipendono le somiglianze, si inseriscono in un sistema gerarchico, che parte dai generi e attraverso le specie arriva agli individui: «differenze e somiglianze tra gli individui agiscono sempre entro generi» e nella visione di Aristotele «individuo, specie e genere sono [...] aree di identità ad ambito crescente» (1985: 183). Rispetto alla selva intricata e disordinata delle somiglianze, il sistema aristotelico dei generi e delle specie fornisce quei «confini precisi tra le cose» che la teoria platonica delle idee non era stata in grado di assicurare. Con il sistema dei generi e delle specie, è come se Aristotele fosse riuscito a selezionare le somiglianze forti e più significative rispetto a quelle che lo sono meno: le somiglianze forti sono quelle che “dipendono”

dall’identità dei generi e delle specie. Per riprendere l’immagine di Platone, è come se Aristotele fosse riuscito a porre paletti sicuri nel terreno scivoloso delle somiglianze, a imprigionare e addomesticare gruppi di somiglianze entro i recinti delle identità dei generi e delle specie: le somiglianze forti e significative sono quelle che si generano entro questi recinti, e non si generano in modo arbitrario e disordinato, essendo il prodotto delle identità di strutture pre-ordinate. Il principio platonico, secondo cui la somiglianza dipende dall’identità, viene così non solo confermato, ma giustificato e argomentato con una struttura concettuale – quella dei generi e delle specie – che ha la forza di imbracare tutto il mondo: un ordine ontologico con cui le somiglianze vengono addomesticate, impedendo che esse scappino da tutte le parti, e con cui si riduce e persino si annulla il carattere infido della loro “tribù”. Ora le somiglianze diventano persino servizievoli. Rimane valido e convalidato il principio platonico secondo cui «la somiglianza dipende dall’identità»; e rimane rispettata la regola secondo la quale ciò che è dipendente è per forza di cose secondario: viene dopo rispetto a ciò da cui dipende (Viano 1985: 184). Rimane infine rispettato l’assunto platonico in base al quale «in assoluto, ciò che viene prima è più conoscibile di ciò che viene dopo» (1985: 185): vale a dire che la priorità ontologica è anche una priorità gnoseologica (è la gallina che spiega l’uovo, e non viceversa). Ma la domesticazione e l’asservimento delle somiglianze fanno sì che esse possano anche venire prima, in quanto segnalano aree di uniformità, di somiglianza e quindi di identità; ovvero a partire “dal basso” preparano e introducono alla visione dell’identità dei generi e delle specie. Le somiglianze funzionano così come ancelle fedeli delle identità. Le somiglianze possono sì venire prima sul piano dei processi conoscitivi empirici, sul piano delle osservazioni, per esempio, delle parti degli animali; ma la loro funzionalità è garantita solo dall’inquadramento entro le strutture identitarie dei generi e delle specie, a cui la guerra prima platonica e poi aristotelica le ha ricondotte. Infatti, è con questa struttura ontologica, gerarchica, identitaria, fondata sul concetto di sostanza, che Aristotele riteneva che si potesse «ricondurre all’ordine la ribelle selva delle somiglianze presentate dalle cose» del mondo (Viano 1985: 192). Grazie a questa struttura ontologica, il mondo si presenta – a ulteriore garanzia – come disposto secondo un solido ordine gerarchico, fatto di

inclusioni e di dipendenze, che riducono fortemente, se non addirittura annullano, l’apparente e sconvolgente libertà delle somiglianze. Al vertice del suo sistema gerarchico – senza tema di incorrere nel rischio grave dell’Uno solitario e onnivoro di Parmenide – Aristotele pone l’Uno e, a decrescere, l’identità, per giungere infine alla somiglianza. Secondo Aristotele, «dall’uno al simile» la struttura gerarchica registra «una sorta di abbassamento o attenuazione: identità e somiglianza sono forme progressivamente più deboli di unità» (Viano 1985: 201). È con questa rassicurante struttura gerarchica che il pensiero aristotelico ha consegnato ai posteri il risultato vittorioso della guerra contro le somiglianze: non una eliminazione delle somiglianze, ma – se così possiamo esprimerci – una loro riduzione in servitù, essendo rese sottomesse e strumentali rispetto alle identità. 8. Il riemergere delle somiglianze Il libro di Viano non si conclude però in questo modo. L’autore porta il lettore in un’altra scena, ben diversa e lontana, anche temporalmente, dal dibattito in Atene tra Socrate e Protagora sull’essenza della virtù nel V secolo a.C., scena da cui il libro aveva preso le mosse e su cui anche noi ci siamo soffermati (§ 1). La nuova scena è ancora quella di un dibattito, che si svolge però tra rappresentanti della medicina razionalistica e rappresentanti della medicina empiristica in ambiente alessandrino nella seconda metà del III secolo a.C., quale è stato ricostruito nel De Sectis di Galeno. Che cos’è che lega le due scene, così distanti tra loro e con personaggi tanto diversi? È – secondo Viano (1985: IX) – il tema, evidentemente centrale e persistente, della somiglianza. Sono medici, non filosofi, che discutono tra loro. In questo ambiente, «l’aristotelismo sembra ormai lontano» (1985: 213) e l’impressione della vittoria aristotelica sulle somiglianze, del loro asservimento all’identità, sembra qualcosa di molto sbiadito, di assai poco pertinente. Da parte dei medici, il cui scopo non è certo la contemplazione dell’universo, bensì la cura delle malattie, diviene più importante l’esperienza imitativa, l’osservazione dei casi simili, piuttosto che la conoscenza di cause (1985: 210). Il procedere del medico – in ciò rifacendosi alla grande tradizione di Ippocrate – consiste

soprattutto in un «passaggio dal simile al simile». Con questo modo di procedere, i medici empirici, come si legge in Galeno, spesso trasferiscono da un malanno all’altro lo stesso rimedio e da luogo a luogo e dal rimedio noto in precedenza passano a quello simile (Galeno 1978: 67 k; Viano 1985: 210).

C’è ovviamente differenza tra la medicina razionalista, intenta a ricostruire un quadro anatomico alla ricerca delle localizzazioni delle malattie, e la medicina empirista, che faceva coincidere il sapere medico con la memoria di casi simili che il medico viene ad accumulare. Pur con le loro divergenze, Viano coglie tuttavia nelle somiglianze il punto centrale delle loro rispettive strategie: l’intreccio delle somiglianze diventava l’oggetto primario della conoscenza e un territorio sul quale era possibile avventurarsi con il solo ausilio dell’analogia o della memoria. L’arte [medica] diventava una conoscenza senza prologo e senza epilogo, e quella delle somiglianze una selva senza mappa [...]. La struttura a livelli costruita dai filosofi non serviva. Il luogo delle somiglianze era l’armamentario che costituisce il tesoro professionale del medico. Caduto il presidio che identità e differenza avevano costruito sulla somiglianza, perfino le analogie anatomiche sembravano azzardate, e l’esperienza del medico diventava l’unico luogo in cui trovare relazioni di somiglianza (Viano 1985: 214-215).

Per quale motivo Viano organizza tutto il suo libro ponendo a confronto la scena iniziale, quella del dibattito ateniese tra Socrate e Protagora, e la scena finale, quella del dibattito tra medici empiristi e medici razionalisti del III secolo in ambito alessandrino? La spiegazione ufficiale è che al centro di entrambi i dibattiti troviamo il tema della somiglianza (1985: IX). Un tema, dunque, che – a quanto pare – non può fare a meno di riemergere, nonostante tutta la guerra che, soprattutto da Platone e da Aristotele, è stata condotta contro il paradigma delle somiglianze, quello esposto in modo chiaro ed esplicito da Protagora. Ciò significa anche che la guerra non si è conclusa con uno sterminio (lo sterminio delle somiglianze). Secondo l’interpretazione che abbiamo dato in questo paragrafo, avvalendoci delle analisi di Viano, Aristotele ha inteso perfezionare e rendere più efficace la strategia di Platone, non già sterminando le somiglianze, ma assoggettandole e asservendole all’identità: il mezzo adoperato è stata la poderosa costruzione di un ordine gerarchico logico e ontologico, avente al centro l’identità garantita dai generi e dalle specie. I medici empiristi evocati da Viano ci fanno capire, però, che la vittoria aristotelica non è stata totale: nei loro dibattiti, il tema delle somiglianze riemerge, e riemerge non solo come tema imprescindibile, avente un

chiaro valore euristico, ma anche come unico espediente in mano a coloro che, a scopi terapeutici, intendono inoltrarsi nel groviglio delle esperienze nosologiche ed esistenziali umane. Altro che diffidare delle somiglianze, come voleva Platone. Le somiglianze non sono soltanto il terreno entro cui inoltrarsi; sono anche gli unici mezzi di cui i medici empiristi dichiarano di disporre: che cos’è l’accumulo delle esperienze attraverso la memoria, se non un abbozzo di mappa con cui affrontare le esperienze del futuro? Un abbozzo, nulla più: un sapere – come dice Viano – senza prologo e senza epilogo; un sapere che tenta con molte difficoltà e molte incertezze di trovare un qualche orientamento nel fitto della selva delle somiglianze. Non vogliamo far dire a Viano qualcosa che potrebbe esorbitare dalle sue intenzioni. Ma quale valore ha quel dibattito di medici alessandrini del III secolo a.C., se non anche quello di una esacerbata consapevolezza che ogni conoscenza è un addentrarsi in una selva rispetto a cui disponiamo di mappe sempre molto parziali? Quei medici – sostiene Viano – non si avvalevano delle grandiose costruzioni dei filosofi che li avevano preceduti. Dobbiamo forse concludere che la guerra condotta prima da Platone e poi da Aristotele alla fine si è risolta in un nulla? Certamente no. Se è vero che sono esistite aree di sapere – come quello dei medici – in cui sono riaffiorate le somiglianze, con tutti i loro rischi e con tutte le loro potenzialità euristiche, non è meno vero che il pensiero platonico-aristotelico ha dato luogo a una tradizione grandiosa e imperante: una tradizione che ha segnato grandissima parte della storia del pensiero occidentale e che ancora oggi viene presentata come avente un valore paradigmatico. L’insegnamento di Platone e di Aristotele si è tradotto in una tradizione non solo esemplare per la filosofia tout court, bensì anche una tradizione da cui il pensiero occidentale non ha voluto o potuto prescindere: e ciò soprattutto in relazione al problema di continuo riemergente delle somiglianze. Quando, contro le somiglianze, la filosofia vorrà riaffermare sé stessa, troverà soprattutto nella tradizione filosofica, o crederà di trovare in essa, l’itinerario complesso che bisogna seguire per risalire lungo i diversi livelli fino alle strutture semplici che regolano la selva sterminata delle somiglianze. Allora non la teoria delle idee e le sue strutture concettuali, non le concatenazioni di materia e forma o le strutture degli animali, ma il ricupero della tradizione filosofica sarà lo strumento per cogliere l’ordine del mondo (Viano 1985: XIX).

Sembra così di poter sostenere che vi è una profonda incompatibilità tra la filosofia occidentale e le somiglianze, e che la diffidenza platonica si è

protratta a lungo. Col porre in evidenza il modo con cui quei medici empiristi del III secolo a.C. hanno riconosciuto le somiglianze sia come problema (l’intrico) sia come risorsa (l’esperienza, la memoria), è come se Viano avesse voluto farci riflettere almeno su questi argomenti: a) altri saperi, alternativi alla filosofia, marginali rispetto ad essa, inevitabilmente e consapevolmente si inoltrano nella selva delle somiglianze; b) nella misura in cui il pensiero occidentale ha voluto proseguire o riprendere la sua guerra contro le somiglianze ha inventato “la” filosofia come tradizione dotata di autonomia e di autoreferenzialità; c) la filosofia a questo punto non ha più da affrontare direttamente il problema dell’ordine del mondo (come Platone con la sua teoria delle idee o Aristotele con il suo sistema dei generi e delle specie), ma prosegue la sua guerra contro le somiglianze facendo ricorso alla sua propria tradizione. Se così stanno le cose, pensiamo di poter sostenere che buona parte della filosofia occidentale abbia voluto premunirsi contro i pericoli delle somiglianze, rifugiandosi nella propria tradizione. Anziché affrontare la selva delle somiglianze, addentrarsi negli intrichi che caratterizzano realtà umane e naturali in non importa quale ambito, essa ha dato luogo a una tradizione che si autoalimenta e che continua a trasmettere un senso di diffidenza, indifferenza, refrattarietà, e talvolta ostilità, verso ogni forma di SoDif. Così facendo, la filosofia occidentale si presterebbe a essere interpretata come un caso di “involuzione culturale”, categoria proposta da alcuni antropologi – come Alexander Goldenweiser (1936) e Clifford Geertz (1963) – non già per svalutare particolari culture o periodi storici, ma per descrivere con una certa accuratezza il tipo di mutamento a cui essi danno luogo: un mutamento in cui (guarda caso) prevalgono le somiglianze sulle differenze, le continuità sulle discontinuità, in cui si verificano non già trasformazioni radicali e l’emergere di nuovi modelli, bensì processi di raffinamento e approfondimento interni, «variazioni nell’uniformità» di fondo, talvolta complicazioni e «virtuosismi nella monotonia» (Geertz 1963: 81). Il concetto di involuzione culturale può essere utile per capire come si forma e come funziona una tradizione, specialmente se si tratta di una gloriosa e consistente tradizione, la quale ha la capacità di ergersi a modello e informare di sé tante parti delle culture presso cui si diffonde. Questa tradizione ha fatto della svalutazione delle somiglianze un suo principio

costante, ed è così che essa non soltanto continua a ispirare un atteggiamento di refrattarietà verso ciò che abbiamo chiamato il SoDif, con i suoi intrichi, le sue difficoltà, le sue complessità, ma continua a fornire un terreno di fondo in cui, anche se spesso in modo lontano e indiretto, trovano di che alimentarsi le ideologie e le brame dell’identità. Come se non si potesse fare altro che continuare a illudersi di rappresentare il mondo e la vita in termini di identità e di alterità – mentre nel frattempo da ogni parte somiglianze e differenze, ancorché non riconosciute, continuano a riemergere. 1

Devo a Giuseppe Cambiano l’avvertenza a non attribuire unilateralmente a Protagora il merito di un’elaborazione autonoma di una teoria delle somiglianze – quale appariva in Remotti (2013a) – come se Protagora si presentasse al confronto con Socrate con una sua teoria compiuta. Spesso contraddittorio e oscillante, il personaggio Protagora dell’omonimo dialogo platonico perviene a certe affermazioni quasi cedendo alle pressioni del suo interlocutore. 2 È un suggerimento interpretativo di Giuseppe Cambiano (comunicazione personale). 3 Aggiornamento su Kepler. Questo telescopio spaziale, il più grande cacciatore di esopianeti lanciato dalla Nasa, dopo nove anni di onorevole servizio «è sul viale del tramonto» (Marini 2018: 2). Poiché la idrazina, il suo combustibile, sta per terminare, è stato messo «in ibernazione», per poi essere risvegliato all’inizio del mese di agosto 2018, così da «scaricare i dati delle ultime osservazioni», in quanto «continuerà a interrogare le stelle fino a che non finirà il carburante». Lo stesso servizio giornalistico ci informa che «il successore di Kepler è già in orbita»: è stato lanciato dalla Nasa nell’aprile 2018 e si chiama Tess: «scandaglierà tutto il cielo per sorprendere i pianeti mentre transitano davanti alle loro stelle». Un ulteriore grande investimento alla ricerca di “somiglianze siderali”. 4 Devo queste indicazioni a Maurizio Giangiulio che, in uno scambio epistolare sul rilievo della figura di Erodoto, ha inteso integrare e riequilibrare quanto da me affermato nella conclusione di questo paragrafo.

V. La forza delle somiglianze

1. Ingolfarsi nelle somiglianze Si deve a Michel Foucault, l’autore di Les Mots et les choses, la descrizione memorabile di una battaglia contro le somiglianze: una battaglia più moderna, rispetto a quella antica che abbiamo preso in considerazione nel capitolo IV (§§ 1, 6-7). Foucault analizza la nascita della filosofia (o meglio, dell’episteme1) moderna «nell’orizzonte di una guerra contro l’inflazione delle somiglianze» (Bottiroli 2011: 184). In effetti, è così che Foucault rappresenta il sapere che si era sviluppato dal Medioevo al Rinascimento: Sino alla fine del XVI secolo, la somiglianza ha svolto una parte costruttiva nel sapere della cultura occidentale. È essa che ha guidato in gran parte l’esegesi e l’interpretazione dei testi; è essa che ha organizzato il gioco dei simboli, permesso la conoscenza delle cose visibili ed invisibili, regolato l’arte di rappresentarle (Foucault 1996: 31).

Nell’episteme rinascimentale – afferma sempre Foucault – «le cose che si somigliavano erano in numero infinito». E tuttavia le stesse somiglianze sono raggruppabili in quattro forme fondamentali, in base alle quali «poteva loro capitare di essere simili le une alle altre». Secondo Foucault, vi è quindi una tipologia di ciò che è ritenuto somigliante, la quale pone un po’ di ordine nella “selva delle somiglianze” del pensiero rinascimentale. Tali forme sono: 1) la convenientia, cioè la vicinanza, che rende simili le cose vicine nello spazio, così come del resto la somiglianza rende vicine le cose che sono simili tra loro. La «convenienza [...] avvicina il simile ed assimila i vicini» e in tal modo è come se il mondo formasse una «catena con se medesimo» (1996: 33); 2) l’aemulatio, grazie alla quale «le cose possono imitarsi da un capo all’altro dell’universo» senza dare luogo necessariamente a un

«concatenamento» e a prescindere comunque da una qualche «prossimità» (1996: 33-34); 3) l’analogia (già riconosciuta nel pensiero greco e medievale), la quale, svincolata dalle somiglianze massicce e visibili delle cose, «può esibire, a partire da un medesimo punto, un numero indefinito di parentele» (1996: 35). Essa solca lo spazio in tutte le direzioni immaginabili e così «ad opera sua tutte le figure del mondo possono essere accostate» tra loro (1996: 36); 4) la simpatia, la quale, in quanto «principio di mobilità», si esprime «attirando le cose le une verso le altre» (1996: 37-38). Proprio in quanto principio dinamico, la simpatia non si limita ad essere «una delle forme del simile». Essa – sostiene Foucault (1996: 38) – «ha il pericoloso potere di assimilare», cioè di «mescolare», di fare «svanire l’individualità» delle cose, di trasformarle, di «renderle estranee a quello che erano». A questo punto si tratta non già di considerare la somiglianza come esibizione di tratti, come prodotto o risultato di un qualche processo, bensì di considerare il processo stesso mediante cui le somiglianze si vengono a formare. Prosegue Foucault: «la simpatia trasforma. Altera, ma nella direzione dell’identico» (1996: 38). E qui emerge il “pericoloso potere” della simpatia, il quale ridurrebbe il mondo «a un punto, ad una massa omogenea, alla smorta figura del Medesimo», se non vi fosse un principio contrastante, «l’antipatia», la quale «serba le cose nel loro isolamento ed impedisce l’assimilazione». Così facendo, l’antipatia «racchiude ogni specie nella sua differenza ostinata e nella sua propensione a perseverare in ciò che è». Secondo il pensiero rinascimentale, il mondo sarebbe dunque retto «dall’equilibrio costante di simpatia e di antipatia», grazie al quale le cose «possono somigliare» le une alle altre e «accostarsi tra loro senza sommergersi in esse e preservando la loro singolarità» (1996: 39). Forse ha ragione Giovanni Bottiroli nella sua critica a Foucault. Da un lato, Foucault intende delineare «una storia della somiglianza» in relazione almeno ad alcuni snodi importanti del pensiero occidentale (1996: 14), dall’altro è però rilevabile che «ciò che manca in questa “storia delle somiglianze” è precisamente una teoria delle somiglianze» (Bottiroli 2011: 185). Forse, anzi è probabile. E tuttavia, una teoria delle somiglianze è rintracciabile nell’episteme rinascimentale, quale è ricostruita da Foucault, come si evince anche da questo brano: La sovranità della coppia simpatia-antipatia, il movimento e la dispersione da essa prescritti

originano tutte le forme della somiglianza. In tal modo le tre prime similitudini [convenientia, aemulatio, analogia] vengono riprese e spiegate. L’intero volume del mondo, tutte le vicinanze della convenienza, tutti gli echi dell’emulazione, tutti i concatenamenti sono sostenuti, serbati e duplicati da questo spazio della simpatia e dell’antipatia che non cessa di avvicinare le cose e di tenerle a distanza (Foucault 1996: 39).

Si direbbe che il pensiero rinascimentale vede una tensione nel mondo e in particolare nei due principi che lo governano, quello dell’attrazione (simpatia) e quello della repulsione (antipatia): una tensione che darebbe luogo a una costante oscillazione tra l’avvicinamento e il distanziamento delle cose, tra il loro assomigliamento e il loro differenziamento, a seconda dei momenti, delle circostanze e dei livelli considerati. Oppure si tratta di un equilibrio perfetto, e dunque statico, tra i due principi? Foucault sembra propendere per quest’ultima soluzione, visto che il brano prosegue e si conclude con le seguenti parole: In virtù di questo gioco il mondo resta identico; le somiglianze continuano ad essere ciò che sono, e a somigliarsi. Il medesimo [le même] resta il medesimo; e sbarrato nella propria identità.

In realtà, a proposito del medesimo che rimane sé stesso, nel testo francese troviamo l’espressione verrouillé sur soi (“inchiavardato su sé stesso”). Ma la traduzione italiana, introducendo il termine “identità”, risponde bene all’idea di Foucault, secondo il quale l’identità alla fin fine sembra dominare sulle somiglianze. Il mezzo con cui si realizza questo dominio è – potremmo sostenere – la differenza rispetto alla somiglianza, la repulsione rispetto all’attrazione, l’antipatia rispetto alla simpatia. Differenza, repulsione, antipatia, le quali agiscono – in senso opposto – con la stessa forza della somiglianza, dell’attrazione, della simpatia, tengono il mondo in un equilibrio perfetto, in una condizione di perenne staticità, in cui le cose continuano ad essere sé stesse, bloccate, appunto, nella loro identità. C’è da chiedersi se questa conclusione corrisponda davvero all’episteme rinascimentale. Ma qui siamo più interessati alle argomentazioni teoriche di Foucault che non alla loro aderenza o pertinenza rispetto alla cultura di cui intende studiare l’episteme. Si ha l’impressione che, per Foucault, un mondo tutto concepito in termini di somiglianze (o meglio: di somiglianze e di differenze, SoDif) sia di per sé insostenibile, e che dunque alla fin fine sia necessario uscirne. Un mondo interamente ricoperto dallo «stupendo rigoglio delle somiglianze», un mondo in cui le somiglianze si muovono tra «ciò che è più evidente» e «ciò che è più celato», un mondo in cui «lo

spazio delle somiglianze immediate diventa una sorta di grande libro aperto [...] irto di grafismi», di «strane figure che s’intrecciano e a volte si ripetono», di segni o di «segnature» che esigono una «loro decifrazione», un mondo quindi che, lungi dall’essere un «grande specchio calmo» nel quale le cose si contemplano e si rinviano, «è in realtà colmo di un brusio di parole», di un persistente rumore di fondo, si configura come un insieme in cui è difficile raccapezzarsi (1996: 40-41). Infatti, anche i segni mediante cui accedere alle somiglianze sono in realtà fondati sulla somiglianza, in quanto «è la somiglianza» ciò che conferisce al segno il «suo singolare valore di segno» (1996: 43). Ma con ciò si viene a formare «un secondo cerchio» di somiglianze: è con i segni delle somiglianze o, se si vuole, con le somiglianze dei segni che ci si addentra «nei cammini della similitudine». Si assiste perciò a una specie di trionfo della «Somiglianza» che «si lascia affiorare e scintillare nella sua luce propria». Non è facile seguire il pensiero di Foucault in questo suo uso costante di immagini, in questa concatenazione e sovrapposizione di metafore (un pensiero che sembra essere molto somigliante al pensiero della Somiglianza, da lui criticato). Egli però fa emergere chiaramente i limiti di questa episteme tutta dominata dalle somiglianze allorché segnala il «reticolo dei segni che da un capo all’altro percorrono il mondo», e perciò il “disorientamento” da cui è colto l’osservatore che voglia introdursi in questa selva: «di colpo la griglia cessa di essere chiara» e l’osservatore è costretto a procedere, «con uno zig zag senza fine, dal simile a ciò che ad esso è simile» (1996: 44). In questo «zig zag senza fine» si percepisce, nello stesso tempo, disorientamento e inconcludenza. Leggiamo infatti le parole con cui Foucault valuta nel suo insieme l’episteme del XVI secolo: Anzitutto il carattere insieme pletorico e decisamente povero di questo sapere. Pletorico in quanto illimitato. La somiglianza non dimora mai stabile in sé stessa; resta fissata soltanto se rinvia ad un’altra similitudine, che a sua volta ne richiede di nuove di modo che ogni somiglianza ha valore solo in virtù dell’accumulazione di tutte le altre, e il mondo intero deve essere percorso perché la più tenue delle analogie sia giustificata e appaia infine certa (1996: 44-45).

Foucault sta descrivendo il fallimento di un sapere, di un’intera episteme che, sedotta dalla molteplicità vertiginosa delle somiglianze, se n’è lasciata sommergere. Anziché giungere a risultati via via consolidati, questo sapere procede infatti «per accumulo infinito di conferme vicendevolmente implicantisi» (1996: 45). Ingolfato nelle somiglianze che non finiscono più di richiamarsi tra loro, questo sapere non è in grado di stabilire alcun

«nesso possibile tra gli elementi» che non sia la loro semplice «addizione»: a casi simili non si fa altro che aggiungere altri casi simili, in maniera monotona e indefinita. Non sapendo uscire dal groviglio delle somiglianze, «il sapere del XVI secolo si è condannato a non conoscere mai altro che la stessa cosa», e per giunta a conoscerla soltanto «al termine mai raggiunto di un percorso senza fine» (1996: 45, trad. modificata). Già qualche riga prima, Foucault aveva sentenziato che «fin dalle sue fondamenta, questo sapere» appare «sabbioso». Come vedremo tra poco, col XVII secolo avrebbe inizio la guerra contro questo tipo di sapere. Ma la ricostruzione di Foucault pone in luce in primo luogo la debolezza intrinseca di questo sapere, la sua insostenibilità, il suo fallimento, la sua auto-condanna: un sapere destinato a implodere su sé stesso, del tutto indifendibile rispetto agli attacchi che l’episteme del secolo successivo gli avrebbe sferrato. E così, in prossimità dell’avvento della nuova episteme, «la somiglianza» – afferma Foucault (1996: 31) – «sta per sciogliere la sua appartenenza al sapere e scomparire, parzialmente almeno, dall’orizzonte della conoscenza». Prendendo in considerazione il Don Chisciotte, Foucault fa vedere – o meglio, ritiene di fare vedere – come «la crudele ragione delle identità e delle differenze» sia in grado di «deridere all’infinito segni e similitudini» (1996: 63). Con la nuova episteme (quella che normalmente diremmo moderna e che invece Foucault definisce “classica”, quella comunque del XVII e del XVIII secolo) «la somiglianza entra così in un’età che per essa è quella dell’insensatezza [déraison] e dell’immaginazione» (1996: 64). Secondo Foucault, sono infatti due le figure che, ai «margini di un sapere che separa gli esseri, i segni e le similitudini», si incaricano di rappresentare ancora il ruolo della somiglianza: il pazzo e il poeta. Essi sono «situati sull’orlo esterno della nostra cultura»: emarginati come la somiglianza, trovano in essa «il loro potere d’estraneità e la risorsa della loro contestazione». Ma in mezzo a loro si è ormai aperto, imposto e consolidato «lo spazio d’un sapere nel quale, in virtù di una rottura essenziale nel mondo dell’Occidente, non si avrà più da fare con similitudini, ma con identità e differenze» (1996: 65). 2. La resilienza

Lo sguardo di Foucault è del tutto concentrato sulla «cultura occidentale moderna», sulle sue rotture, sulle sue «grandi discontinuità» (1996: 64, 12). L’interesse per la somiglianza nasce dal suo approccio “archeologico”, dal suo tentativo di risalire, andando «per così dire controcorrente», all’episteme precedente, rispetto a cui la modernità ha rappresentato una rottura (1996: 11). Risalendo indietro nel tempo, Foucault si imbatte infatti in un’episteme diversa, anzi opposta, quella del Medioevo e del Rinascimento: egli si interessa però soprattutto del pensiero rinascimentale, in quanto è lì, al confine cronologico di questo pensiero, che, tra il XVI e il XVII secolo, si determinerebbe la rottura. Se l’episteme rinascimentale – così come il pensiero medievale – ruotava attorno al principio della somiglianza, l’episteme del XVII e del XVIII secolo è invece contrassegnata dalla decisione di “non avere più a che fare” con la somiglianza e di sostituire ad essa la coppia “identità e differenze”. La rottura è netta e radicale, e dà origine al pensiero moderno, il quale dunque nasce con un gesto polemico di discontinuità nei confronti della somiglianza, intesa come principio ordinatore di una visione del mondo ormai superata. È inevitabile, a questo punto, soffermarci sulla nozione di episteme per cogliere meglio il significato delle analisi di Foucault e le loro implicazioni per quanto riguarda la critica “moderna” al concetto di somiglianza. Foucault connette in modo del tutto evidente episteme a “cultura”, da intendersi in senso antropologico. Egli parla infatti di «codici fondamentali di una cultura», quelli cioè che «ne governano il linguaggio, gli schemi percettivi, gli scambi, le tecniche, i valori, la gerarchia delle sue pratiche»: questi codici «definiscono fin dall’inizio, per ogni uomo, gli ordini empirici con cui avrà da fare» (1996: 10). Si tratta, più in particolare, di «griglie linguistiche, percettive, pratiche», le quali agiscono in maniera anonima e silenziosa, come una sorta di «a priori storico», ossia come condizioni di possibilità da cui dipendono sia le conoscenze sia le pratiche culturali di ogni genere (1996: 11). In un altro punto del suo libro, Foucault sostiene che, alla base, vi è sempre un «sapere oscuro che non si manifesta di per sé in un discorso» (1996: 185). In modo ancora più esplicito e impegnativo, egli afferma che in una cultura e a un momento preciso, non esiste che una sola episteme, la quale definisce le

condizioni di possibilità di ogni sapere: sia quello che si manifesta in una teoria, sia quello che è silenziosamente investito in una pratica (1996: 185).

Per quanto una episteme occupi sovranamente una cultura, la tesi fondamentale di Foucault è che ogni episteme è pur sempre soltanto una configurazione storica: essa agisce come a priori, ovvero come un insieme di condizioni di possibilità delle manifestazioni di una cultura, ma si tratta di a priori che a un certo momento sorgono e si impongono e che in un momento successivo tramontano. In particolare, nella «cultura occidentale moderna» Foucault coglie due grandi discontinuità [...]: quella che inaugura l’età classica (verso la metà del XVII secolo) e quella che, agli inizi del XIX, segna l’inizio della nostra modernità (1996: 12).

Abbiamo già visto che la prima di queste rotture consiste nella sostituzione radicale del principio di “somiglianza” (episteme rinascimentale) con la coppia concettuale di “identità e differenze”. Si tratta di un sommovimento, di una «lacerazione» degli schemi vigenti, con la quale si genera «uno spazio nuovo» (1996: 235). In maniera analoga e anzi «simmetrica» alla prima, ovvero in maniera «enigmatica», «inattesa» e improvvisa, la seconda «alterazione» provoca anch’essa un violento sconvolgimento epistemico, a tal punto che Foucault si chiede: Come accade che il pensiero si stacchi dalle regioni che un tempo aveva abitato [...] e che esso lasci precipitare nell’errore, nella chimera, nel non-sapere proprio ciò che, meno di vent’anni prima, veniva posto e affermato nello spazio luminoso della conoscenza? A quale evento o a quale legge obbediscono quelle mutazioni che fanno sì che all’improvviso le cose non siano più percepite, descritte, enunciate, caratterizzate, classificate e sapute allo stesso modo [...]?

Il sommovimento è talmente improvviso che, «per un’archeologia del sapere» come quella praticata da Foucault, tale «apertura profonda» potrà essere fatta oggetto di analisi, anche minuziosa, ma «non “spiegata”». Si tratta comunque di un «evento radicale che si distribuisce sull’intera superficie visibile del sapere». Se la prima discontinuità esaminata ha visto la sostituzione della Somiglianza con il principio delle Identità e delle Differenze, questa seconda rottura «mostrerà che lo spazio generale del sapere non è più quello delle identità e delle differenze», ma quello delle «organizzazioni» e delle «successioni» (1996: 236). Per dirla in maniera più chiara e immediata, all’episteme dell’«Ordine» – «l’ordine classico», il quale «distribuiva in uno spazio permanente le identità e le differenze» – subentra la «Storia», divenuta ormai il principio imprescindibile del «nostro pensiero» (1996: 237). Foucault insiste nel sottolineare il carattere improvviso ed enigmatico

che accomuna la prima frattura (dalla somiglianza all’identità) e la seconda (dall’ordine alla storia). A ben vedere, egli sfodera tuttavia una diversa impostazione. La seconda discontinuità (quella che conduce dalla modernità “classica” alla «nostra modernità», come egli ama dire) sarebbe dovuta a «un evento fondamentale – probabilmente uno tra i più radicali della cultura occidentale», ma «tale evento [...] ci sfugge in gran parte» (1996: 239). E ci sfugge proprio perché – questa almeno è l’ipotesi di Foucault – «siamo ancora inseriti nella sua apertura». In relazione, invece, alla prima discontinuità (quella che conduce dal rinascimento alla modernità “classica”), Foucault, più che andare alla ricerca di un evento sconvolgente, ha voluto cogliere i motivi interni di disfacimento dell’episteme fondata sulla somiglianza. In fondo, egli insinua l’idea che affidarsi solo alle somiglianze – sia pure sulla base delle quattro modalità indicate – significa finire in un ginepraio ingestibile: le connessioni tra le cose aumentano a dismisura e l’edificio del sapere – costruito sulla “sabbia” – non è in grado di reggere allorché si affaccia un’episteme alternativa, quella che “separa” nitidamente le cose sulla base del principio delle identità e delle differenze. Se volessimo risuscitare Platone, senz’altro egli direbbe: “ve l’avevo detto: delle somiglianze non c’è da fidarsi per niente” (cap. IV, § 7). Del resto, contravvenendo alla sua stessa idea, secondo cui vi è sempre “una” episteme che regna sovrana in una cultura e in un dato periodo storico, lo stesso Foucault ha affermato che una cultura è raffigurabile come un ampio territorio, una vasta «regione mediana», che si distende tra due estremi: da un lato, i «codici fondamentali di una cultura», i suoi “a priori storici” che rendono pensabili certe idee e che organizzano l’esperienza «fin dall’inizio» (1996: 10-11); dall’altro, livelli e posizioni che potremmo definire “metaculturali” (Remotti 2011a: capp. I-II, IX). Diamo la parola a Foucault (1996: 10): All’estremo opposto del pensiero, teorie scientifiche o interpretazioni di filosofi spiegano perché esiste in genere un ordine, a quale legge generale obbedisce, quale principio può renderne conto, per quale ragione si preferisce stabilire quest’ordine e non un altro.

Ma non si tratta soltanto di ribadire, confermare, legittimare un ordine: assumersi il compito di spiegare «per quale ragione» un ordine è preferibile a un altro significa anche “affrancarsi”, sia pure «parzialmente», dalle proprie griglie culturali; significa “liberarsi” in misura sufficiente per essere

in grado di «constatare che tali ordini non sono forse i soli possibili o i migliori». Spie preziose, queste di Foucault, che mettono in questione il carattere “unitario” della sua nozione di episteme: non c’è bisogno di attendere un evento traumatico, sconvolgente e devastante, come quello ipotizzato per la seconda discontinuità dell’epoca moderna, ovvero il passaggio dall’Ordine alla Storia. È probabile che in ogni episteme – se vogliamo ancora conservare questo termine, visto che parliamo di Foucault – esista un lavorio per un verso di consolidamento e per l’altro di disfacimento: un lavorio corrosivo, quest’ultimo, i cui effetti rischiano poi di venire alla luce in maniera forse improvvisa e inaspettata. Avvalendoci di queste considerazioni possiamo meglio sfruttare un altro contributo significativo di Foucault alla problematica delle somiglianze. Finora sono stati due i contributi di Foucault su cui ci siamo soffermati. A) Il primo è l’analisi di come tutto un pensiero (quello rinascimentale) si sia costruito sul principio della somiglianza: il ruolo centrale dunque che può svolgere la somiglianza nell’organizzazione di una visione del mondo, dove affiorano i seguenti temi, che Foucault trae dal giurista Pierre Grégoire: Amicitia, Aequalitas (contractus, consensus, matrimonium, societas, pax et similia), Consonantia, Concertus, Continuum, Paritas, Proportio, Similitudo, Conjunctio, Copula (1996: 31).

B) Il secondo contributo è stato – se non andiamo errati – di tipo platonico, in quanto Foucault ha posto in luce la fragilità intrinseca di un’episteme che si regge totalmente sulle somiglianze e la plausibilità (se non altro) di un’episteme alternativa, quella che si fonda su “identità e differenze”. Essersi sbarazzati delle somiglianze, avere ripulito il campo del sapere dai grovigli delle somiglianze, ebbene «tutto ciò è stato di grande portata per il pensiero occidentale» (1996: 69). Si può allora dire che il pensiero occidentale si contraddistingue per questa sorta di affrancamento dai lacci delle somiglianze? Leggiamo ancora quanto scrive il nostro autore: Tutta l’episteme della cultura occidentale viene in tal modo ad essere modificata nelle sue disposizioni fondamentali. Ed in particolare il campo empirico in cui l’uomo del XVI secolo vedeva ancora intrecciarsi le parentele, le somiglianze e le affinità [...] tutto questo territorio immenso assumerà una configurazione nuova. Si può, se si vuole, designarla col nome di “razionalismo”. Si può anche dire – per chi non ha in testa altro che qualche nozione prefabbricata – che il XVII secolo segna la scomparsa delle vecchie credenze superstiziose o magiche e l’entrata, infine, della natura nell’ordine scientifico (1996: 69-70).

È come se Foucault facesse una sorta di concessione a coloro che ancora si attardano con schemi di vecchio tipo, ossia la distinzione “magia”

e “scienza”: il pensiero della somiglianza sarebbe un pensiero magico e quello che istituisce identità e differenza verrebbe dunque qualificato come scientifico. Foucault è prudente: evita di cadere vittima del mito del progresso. Quando prende in considerazione la seconda discontinuità, quella del passaggio dall’ordine alla storia, egli rifiuta di pensare che sia stata la «ragione» ad avere fatto «progressi» (1996: 12). Ma la prima svolta è un’altra faccenda: è il passaggio da un sapere giudicato «pletorico e decisamente povero», un sapere «sabbioso» (1996: 44-45), pronto a implodere su sé stesso, a un ordine che, al di là delle somiglianze, si mette a misurare e a classificare le cose. Si potrebbe dire che questo secondo contributo sia di natura critica, in quanto consiste nel chiedersi quali siano le condizioni che rendono fragile un sapere e se la somiglianza faccia parte di queste condizioni. C) Esiste però un terzo contributo di Foucault, e riguarda il ruolo delle somiglianze in un’episteme che invece, per programma, intende liberarsene: «all’inizio del XVII secolo [...] il pensiero cessa di muoversi nell’elemento della somiglianza» (1996: 66). René Descartes e Francis Bacon vengono citati come autori di questa svolta critica nei confronti delle somiglianze. Misurare e classificare in base alle identità e alle differenze diviene l’obiettivo fondamentale di un’episteme che trova nel pensiero tassonomico una delle sue espressioni più elevate. La somiglianza, considerata come la dimensione empirica «nella sua forma più trita», viene «ormai estromessa dal campo della conoscenza»; e tuttavia essa è «una cornice indispensabile» (1996: 83). Spinta «sull’orlo esterno del sapere», la somiglianza non può essere fatta sparire: in quanto «rudimento di relazione», essa persiste come «una necessità muta e incancellabile», come un «fondo indifferenziato, cangiante, instabile sul quale la conoscenza può stabilire le sue relazioni, le sue misure e le sue identità» (1996: 84). Per descrivere il ruolo che la somiglianza assume in un’episteme che intende farne a meno, Foucault predilige il termine “mormorio”: «il mormorio insistente della somiglianza [le murmure insistant de la ressemblance]» (1996: 85). In un quadro dominato dalle identità e dalle differenze, è inevitabile avvertire in sottofondo «la somiglianza empirica e mormorante delle cose, la similitudine sorda che al di sotto del pensiero fornisce la materia infinita delle partizioni e delle distribuzioni» (1996: 73). Anche per un sapere che ha inteso puntare tutto sulle identità e sulle differenze, non è possibile fare a meno delle

somiglianze, come materia iniziale da cui attingere e che comunque persiste come fondo inalienabile: La somiglianza, esclusa dal sapere fin dall’inizio del XVII secolo, costituisce pur sempre l’orlo esterno del linguaggio: l’anello che circonda il campo di ciò che è analizzabile, ordinabile e conoscibile. È il mormorio che il discorso fa dileguare, ma senza il quale non potrebbe parlare (1996: 138).

Forse è questo il contributo più importante e significativo che Foucault offre a una teoria delle somiglianze: non soltanto il loro carattere scivoloso e infido (l’aveva già detto Platone), ma anche la loro insopprimibilità. Foucault ci fa vedere un’episteme che conduce una guerra aperta contro le somiglianze a tutto vantaggio dell’identità: ci fa vedere insomma come le somiglianze possano essere respinte, schiacciate, gettate al di là della cerchia del sapere. Ci fa anche vedere, però, come non possano essere del tutto annullate, come anzi esse persistano ai bordi o al fondo oscuro del sapere, e come persistano in quanto materia a cui il sapere è costretto ad attingere. Questo terzo contributo di Foucault alla teoria delle somiglianze consiste dunque nel sottolineare la loro “resilienza”. Avremo modo di ritornare su questo punto, su cui comunque è bene richiamare fin da subito l’attenzione del lettore: per quanto negate, le somiglianze hanno la forza di rispuntare. E di questo occorre tenere conto. 3. Più che “mormorio”, più che resilienza: una mente intessuta di somiglianze Per Foucault è murmure insistant; per noi è invece resilienza. In effetti, se consideriamo l’episteme “classica” di Foucault (quella del XVII e XVIII secolo), avvertiamo qualcosa di più del “mormorio”. Convinto del carattere fortemente unitario di ogni episteme (forte coerenza interna e predominio pressoché esclusivo in una data cultura e periodo storico), Foucault lascia ai margini quei pensatori che avevano posto al centro della loro attenzione esattamente la somiglianza. Intendiamo riferirci soprattutto a David Hume (1711-1776), il quale fa della somiglianza uno dei pilastri del suo pensiero, e Hume non è certo filosofo di poco conto nella cultura europea del Settecento. A noi però non interessa tanto sottoporre a critica l’impostazione di Foucault, quanto piuttosto cogliere i contributi più significativi che Hume è tuttora in grado di offrire a una teoria generale delle somiglianze, ovvero a una visione in cui le somiglianze vengono ad assumere un posto determinante2.

Importante è il modo con cui Hume analizza il funzionamento della mente umana: l’ipotesi è che i temi che egli suscita siano tuttora oltremodo significativi. Per agevolare il lettore, potremmo suddividere l’analisi di Hume in tre fasi distinte: i) i contenuti o gli oggetti della mente; ii) le principali attività della mente; iii) i principi che limitano e regolano tali attività. i) Nella «mente umana» noi troviamo due tipi di contenuti, ossia «impressioni» e «idee»: le prime sono oggetto del «sentire», mentre le seconde sono oggetto del «pensare» (Hume 2001: 27). Le prime sono sensazioni, passioni, emozioni nello stato in cui «appaiono per la prima volta nella nostra anima», ovvero nel momento in cui si “imprimono” in essa. Le seconde, cioè le idee, sono invece «immagini», che si formano a seguito delle impressioni. Avendo così individuato i due tipi di atti mentali, il tema della somiglianza, dal punto di vista di Hume, si impone immediatamente: ciò che balza agli occhi è la grande rassomiglianza che le nostre impressioni e idee hanno in tutto, fuorché nel grado di forza e di vivacità: le une [le idee] sembrano essere, in certo modo, il riflesso delle altre [le impressioni] (2001: 29).

A loro volta, le idee possono essere «semplici» o «complesse» (2001: 31). Mentre nel caso delle idee semplici si può dire che esse siano una copia esatta dell’impressione corrispondente, non altrettanto si può dire per le idee complesse: le idee semplici sono infatti molto «somiglianti» alle impressioni corrispondenti, in quanto ne «differiscono solo nel grado di forza e di vivacità» (2001: 33). Nel caso delle idee complesse le differenze rispetto alle impressioni sono maggiori e quindi la somiglianza è di grado inferiore. E tuttavia – secondo Hume (2001: 31) – sussiste pur sempre «una notevole rassomiglianza tra le nostre impressioni e le idee complesse». ii) Nella mente umana c’è dunque un momento di passività: è il momento dell’impressione. E Hume ribadisce il rapporto di similarità che si viene a determinare tra «questa impressione nella mente» e la «copia», che si viene a formare e che «rimane anche dopo che l’impressione cessa», ossia ciò che «chiamiamo idea» (2001: 39, c.m.). Ma, come si è già visto, ci sono idee semplici e idee complesse, idee originarie o primarie e idee secondarie, e come le idee primarie sono «immagini delle nostre impressioni», così, a loro volta, «le idee secondarie» sono «immagini delle idee primarie» (2001: 37). In altre parole, si parte pur sempre dalle

impressioni, e tuttavia, a partire dalle impressioni, la mente entra in una fase di grande attività, essendo caratterizzata da un intenso processo di produzione di idee, cioè di immagini che “somigliano” ad altre idee, ad altre immagini, primarie o secondarie che siano. La human mind di Hume – come anche quella di Hofstadter e di Sander (§ 9) – si configura perciò come una fucina sempre attiva di somiglianze, la quale produce una quantità indefinita di idee secondarie. Ma questa estrema operosità del principio di somiglianza, così multiforme e multidirezionale, non dovrebbe suscitare una certa preoccupazione? Vediamo come Hume affronta il problema. iii) Vi è, in primo luogo, un ancoraggio iniziale. Le idee semplici sono «copie» delle impressioni che si incidono nella mente, e questo fa sì che vi sia «una solida connessione tra impressioni e idee corrispondenti» (2001: 33): una sorta di intelaiatura di base. L’aderenza alle impressioni impedisce che le idee semplici svolazzino a piacere nella mente o che si formino idee semplici prive del supporto e della corrispondenza con le impressioni sensoriali. In secondo luogo, la produzione di idee è dovuta a due facoltà della mente, la «memoria», memory, e l’«immaginazione», imagination (2001: 41). Le idee della memoria rimangono più fedeli alle impressioni originarie, mentre le idee dell’immaginazione fruiscono di una maggiore libertà. Rispetto alla memoria, vincolata al passato, l’immaginazione fa propria la «libertà [...] di trasporre e cambiare le sue idee» (2001: 43), di «mescolare, comporre, separare e dividere queste idee» (Hume 1980: 65). L’immaginazione, definita anche «fantasia» (fancy), si avvale infatti della «differenza» che sussiste tra le idee semplici, differenza la quale fa sì che esse siano separabili le une dalle altre. L’attività dell’immaginazione consiste dunque nel separare le idee semplici tra loro e nel riunirle e ricombinarle a piacere, in configurazioni inventate dalla stessa immaginazione. Il problema dell’arbitrarietà delle connessioni, o dei legami di somiglianza e differenza tra le idee, è dunque dato dall’immaginazione. La libertà dell’immaginazione è comunque sottoposta a due vincoli. Il primo riguarda i «materiali» su cui opera, che non sono di sua invenzione, in quanto sono «forniti dai sensi e dall’esperienza» (1980: 21). L’immaginazione sembra godere di una libertà «illimitata»; in realtà essa agisce «entro limiti molto ristretti». Il secondo limite riguarda il funzionamento dell’immaginazione: questa facoltà di scomposizione e di

ricomposizione non agisce in modo sregolato, in quanto obbedisce ad «alcuni principi universali», tali per cui essa si dimostra «uniforme con sé stessa in ogni tempo e in ogni luogo» (Hume 2001: 43). Questi principi «sono tre» e Hume li scrive in maiuscolo: «RASSOMIGLIANZA, CONTIGUITÀ nello spazio e nel tempo, e CAUSA ed EFFETTO» (2001: 45). Quando abbiamo parlato di ancoraggio delle idee, abbiamo visto la somiglianza operare nel rapporto tra “impressioni” sensoriali e “idee” semplici, essendo le seconde “copie” delle prime. Questa somiglianzaancoraggio agiva in senso verticale, facendo sì che le idee semplici – non potendo che essere “copie” delle impressioni – non fossero il prodotto arbitrario del potere creativo del pensiero umano. Ora invece vediamo la somiglianza agire in senso orizzontale: oltre che somigliare alle impressioni, le idee si somigliano tra loro e l’immaginazione sfrutta certe loro somiglianze per accostarle e associarle. Qui il grado di arbitrarietà è molto ampio, e se si pongono a confronto i tre principi con cui l’immaginazione agisce per associare le idee tra loro, appare che il principio della Rassomiglianza è il più infido dei tre: Delle tre relazioni sopra menzionate, la rassomiglianza costituisce la fonte più feconda di errori; pochi sono, infatti, gli errori di ragionamento che non abbiano quest’origine (2001: 141, c.m.).

Ancora una volta, l’avvertimento di Platone sul carattere scivoloso delle somiglianze – e dunque sul carattere infido dei ragionamenti che fanno leva su di esse – appare estremamente pertinente. Del resto, per Hume, pur essendo la somiglianza «la principale fonte di errori», gli altri due principi, quello di contiguità e quello di causalità, non ne sono affatto esenti e possono anzi concorrere a incrementare gli errori delle somiglianze (2001: 143). A questo punto il problema risulta particolarmente grave. Quale strada, quale metodo è percorribile? A differenza di Platone, il quale proponeva, a questo punto, di abbandonare il terreno limaccioso delle somiglianze per contemplare il firmamento terso delle identità (cap. IV, § 7), Hume intende rimanere tra le somiglianze, in quanto questo è l’unico terreno su cui è consentito muoverci. A parte le certezze matematiche, per le quali la verità è raggiungibile in maniera sia intuitiva sia dimostrativa, il sapere umano si costruisce in relazione alle «materie di fatto», dove «il contrario» di quanto finora appreso «è sempre possibile, in quanto non può mai implicare contraddizione» (Hume 1980: 38-39). Nel regno del somigliante non

esiste contraddizione (non vale il principio di contraddizione) e il contrario è dunque sempre possibile. Qui il ventaglio delle possibilità si apre fino a comprendere appunto le cose contrarie, anche quelle che finora non si sono mai verificate: Che il sole non sorgerà domani è una proposizione non meno intelligibile e che non implica più contraddizione dell’affermazione che esso sorgerà. Invano tenteremo, dunque, di dimostrare la sua falsità (1980: 39).

Forse la faccenda del sole (sorgerà o non sorgerà?) è una questione ancora un po’ prematura per l’umanità attuale, dotata di un sapere astronomico che la rassicura per ora sulla tenuta di questo astro, ma nel futuro più o meno prossimo degli esseri umani (come degli altri esseri viventi), in relazione a quanti “soli” possiamo disporre di una ragionevole capacità di previsione, tale da fornirci una qualche sicurezza? 4. Dal passato al futuro: l’aiuto e la trappola delle somiglianze Per Hume occorre proprio che la filosofia si occupi del futuro e soprattutto dei mezzi con cui gli esseri umani lo affrontano, anche se «questa parte della filosofia [...] è stata poco coltivata sia dagli antichi che dai moderni» (Hume 1980: 39). In effetti, visto che i sensi ci ancorano al presente e la memoria ci riporta al passato, per inoltrarci nel futuro c’è ben poco a cui appigliarsi, se non le somiglianze. Ma il principio di Rassomiglianza, pur così ricco di potenzialità, è di per sé ingannevole e fonte di errori. Come si ricorderà, per Hume i principi con cui l’immaginazione collega le idee sono – oltre che la Rassomiglianza – la Contiguità e la Causalità. Ebbene, è quest’ultimo tipo di associazione che, superando la mera somiglianza e la contiguità, ci consente di spingere il nostro sguardo nel futuro, di compiere una qualche «inferenza», così da raggiungere un soddisfacente grado di sicurezza: Tutti i ragionamenti relativi a materie di fatto sembrano fondati sulla relazione di causa ed effetto. Soltanto per mezzo di questa relazione possiamo andare al di là dell’evidenza della memoria e dei sensi (1980: 40).

Hume ritiene che le relazioni causali possano prendere una delle seguenti forme: un oggetto A (cosa o evento) è causa di un altro oggetto B allorché determina un movimento, un’azione, dunque una modificazione su B, oppure lo produce, lo porta ad esistere (Hume 2001: 47). La relazione causale si svolge nel tempo: c’è un prima, dove si colloca la causa

(A), e c’è un dopo, dove emerge l’effetto (B). Potremmo dunque dire che la relazione causale non solo si svolge nel tempo, ma comporta anche la produzione di una “differenza”, la quale coincide con la modificazione subita da B (differenza rispetto al suo stato precedente) o con il suo stesso emergere (differenza rispetto al suo non essere). Per Hume questo tipo di conoscenza «non si consegue in alcun caso mediante ragionamenti a priori», in quanto «nasce interamente dall’esperienza», cioè dall’osservazione, ripetuta nel tempo, che «certi particolari oggetti», come i nostri A e B, «sono costantemente congiunti tra loro» (1980: 40-41). Con il ripetersi nel tempo dell’osservazione, la “differenza” (modifica o nuova esistenza di B) perde il suo carattere innovativo, inspiegabile, solitario, assoluto: essa viene per così dire attenuata e, in quanto effetto, inserita in una relazione, che la rende in qualche modo prevedibile con un grado maggiore o minore di probabilità. A tal punto l’osservazione può essere protratta e ripetuta da diventare un fatto abituale, anzi abitudinario: potremmo persino dire che l’osservazione metodica e puntuale viene sostituita da una «consuetudine» a prevedere l’effetto B non appena si verifichi A. Circa gli effetti di questo tipo di consuetudine – anzi, come si legge nel testo inglese, di custom – vale la pena soffermarsi su questa importante notazione di Hume: È tale l’influsso della consuetudine [del costume, custom] che questa, dove è più forte, non soltanto nasconde la nostra ignoranza della natura, ma anche cancella sé stessa, e sembra che non esista, soltanto perché è presente nel più alto grado (1980: 42).

Insomma, le relazioni causali sono tali perché sono ripetitive, sono oggetto di ripetute osservazioni che si protraggono nel tempo, e queste ripetizioni osservative formano una sorta di “costume” o “abito causale”, che ci esime dal controllo puntuale delle condizioni effettive. Si introduce così un automatismo predittivo, il quale, nascondendo la nostra ignoranza e nascondendo nel contempo la natura e il funzionamento della consuetudine, fornisce quel senso di sicurezza che è così importante allorché ci stacchiamo dalle impressioni del presente e dalla memoria del passato per avventurarci nel futuro. Del resto, siamo, per così dire, costantemente trascinati nel futuro. A ogni istante si verificano eventi, per i quali siamo costretti a prevedere le conseguenze, ovvero a «immaginare» altri eventi concepiti come effetti. Ebbene, «in quale maniera» – domanda Hume – «dovrebbe procedere la mente», se non consultando le «osservazioni passate», ovvero «l’esperienza»

da noi accumulata in relazione a eventi simili (1980: 42-43)? Qui si vede bene come a) le “osservazioni” passate debbano essere sufficientemente numerose, affinché b) possano trasformarsi in una “esperienza” da cui attingere indicazioni per il futuro. Ciò che deve avvenire è quindi un lavoro per un verso di accumulo (di dati osservativi) e per un altro verso di riduzione e di semplificazione (dalla molteplicità delle osservazioni all’unità dell’esperienza), e queste operazioni possono essere condotte soltanto avvalendosi dell’analogia. Hume è abbastanza chiaro e incisivo su questo punto: il massimo sforzo della ragione umana è quello di ridurre i princìpi che producono i fenomeni della natura ad una maggiore semplicità, e di risolvere i molti effetti particolari in poche cause generali, per mezzo di ragionamenti desunti dall’analogia, dall’esperienza e dall’osservazione (1980: 44).

È importante rilevare a questo punto un doppio movimento riguardante le somiglianze. In un primo tempo, Hume pone in luce il carattere rischioso delle somiglianze. Come si ricorderà, la Rassomiglianza è considerata come il primo principio di associazione delle idee; ma se ci si affida solo alle somiglianze, disorientamenti ed errori sono di continuo a portata di mano. Le ramificazioni si spingono in una molteplicità incontrollabile di direzioni, dando luogo così a connessioni arbitrarie e spesso errate. Soltanto ricorrendo al terzo principio di associazione delle idee – vale a dire alle relazioni di causa ed effetto – si può legittimamente pensare di elaborare una mappa per il futuro, dotata di sufficiente sicurezza. Attivare il terzo principio, ovvero puntare sulle relazioni causali, significa dunque “selezionare” certi tipi di relazioni tra le idee che, proprio in quanto si svolgono e si ripetono nel tempo, hanno la caratteristica di guidarci nel futuro, abbandonando la pletora indescrivibile e ingestibile delle mere somiglianze. E tuttavia, proprio qui – cioè nella costruzione delle relazioni causali – le somiglianze, dapprima scartate, rispuntano, confermando così, oltre tutto, il principio di resilienza che abbiamo già evocato (§ 2). Una relazione causale ripetibile, tale da generare un’esperienza consistente e significativa, è infatti costruita sulla base della somiglianza di oggetti (o eventi) “causa” e sulla somiglianza di oggetti (o eventi) “effetto” (Hume 1980: 47). Se dopo A1 vediamo prima o poi presentarsi B1, se dopo A2 (simile a A1) osserviamo l’accadere di B2 (simile, a sua volta, a B1), se dopo A3 constatiamo l’emergere di B3..., possiamo ragionevolmente

inferire che dopo An (l’oggetto o evento attuale, simile a A1, A2, A3) si produca in modo simile o analogo l’evento Bn (simile a B1, B2, B3). Allo scopo di ridurre e di semplificare, così da orientarci nella grande complessità del mondo, succederà poi – approfondendo ed esplicitando le considerazioni di Hume (2001: 197) – che: 1) A1, A2, A3... An siano unificati in un’unica categoria “causa” A; 2) B1, B2, B3... Bn siano riuniti e assimilati nella categoria “effetto” B; 3) le azioni tra A1, A2, A3... An e B1, B2, B3... Bn siano incorporate in rcA→B, concepita come “relazione causale” che presumiamo si produca regolarmente tra A e B, e che “inferiamo” debba riprodursi ogni qual volta si presenti un fenomeno che sia assimilabile alla categoria A; 4) una volta istituita la relazione causale rcA→B, essa produca anche un effetto di relativa assimilazione tra A e B, «costantemente congiunti» da un rapporto di causa ed effetto. Abbiamo formalizzato molto il discorso di Hume allo scopo di far emergere, con il dovuto rilievo, il ruolo della somiglianza nella costruzione delle relazioni causali, ossia delle relazioni che dovrebbero prendere il posto delle mere relazioni di somiglianza e di contiguità. Questo ruolo viene ulteriormente confermato, allorché Hume affronta, in maniera radicale, la natura dell’«inferenza» causale. Un conto infatti è affermare: [Proposizione 1] Ho trovato che quel determinato oggetto [A] è stato sempre seguito da quel determinato effetto [B]

e un altro conto è asserire: [Proposizione 2] Prevedo che altri oggetti che sono, in apparenza, simili [ad A], saranno seguiti da effetti simili [a B] (Hume 1980: 48).

Per Hume, è un fatto normale e abituale che si compia questo passaggio dalla constatazione (proposizione 1) alla previsione (proposizione 2). Ma l’inferenza di cui si tratta non ha a che fare con una relazione causale necessaria. Nessuno può infatti escludere che il corso della natura possa cambiare, o che un oggetto, apparentemente simile a quelli che abbiamo già sperimentato [cioè ad A], possa essere seguito da effetti differenti o contrari [rispetto a B] (1980: 49).

Le inferenze che si fondano sull’esperienza possono essere «soltanto probabili» (1980: 50). Certo, non possiamo che «fidarci della passata esperienza» e costituirla a criterio di giudizio sul futuro, ma tutte le nostre inferenze a partire dall’esperienza passata «si fondano sulla supposizione che il futuro sarà conforme [conformable] al passato». Supposizione errata? Si

direbbe di no, in quanto non si tratta di supporre che il futuro riprodurrà tal quale il passato. Una supposizione di “identità”, questa sì, sarebbe errata. Si tratta invece di una supposizione di “somiglianza”, che – come sappiamo – comporta sempre un qualche grado di differenza. Per Hume, alla base di ogni inferenza causale, di ogni ragionamento che dal passato si spinge nel futuro, c’è sempre la somiglianza: In realtà, tutti gli argomenti tratti dall’esperienza sono fondati sulla somiglianza [similarity] che scopriamo fra gli oggetti della natura e dalla quale siamo indotti ad attenderci effetti simili a quelli che abbiamo visto seguire a tali oggetti. [...] Da cause che ci appaiono simili attendiamo effetti simili; questa è la somma di tutte le nostre conclusioni sull’esperienza (1980: 50-51).

Tuttavia questa «supposizione di somiglianza» non è altro, appunto, che una supposizione (1980: 53). E si badi: è lo stesso contenuto della supposizione – cioè la somiglianza – a rendere ancora più incerta e dubbiosa la supposizione. Supporre che il futuro sarà simile al passato – ciò che fa sì che l’«esperienza» guadagni «autorità» e si configuri come la «grande guida della vita umana» (1980: 50) – significa aprire la porta anche alla differenza. Il futuro non sarà identico al passato, sarà soltanto simile, cioè presenterà inevitabilmente degli elementi di “differenza”, oltre che di conformità, rispetto al passato. Quanta differenza? Questo è il punto. Le inferenze causali si fondano allora su una specie di scommessa, ossia che il futuro fenomeno X sia sufficientemente simile a fenomeni precedenti, così da poterlo considerare come un An, da includerlo dunque nella categoria delle “cause” di tipo A, e supporre – con ragionevole sicurezza – che ad esso faccia seguito un “effetto” di tipo B. Se però il quantum di differenza esibito dal fenomeno X dovesse dimostrarsi maggiore rispetto alla “nostra” categoria causale A? Potremmo a questo punto ipotizzare i seguenti esiti: i) la differenza, pur rilevante, non è tale da impedire di collocare il fenomeno X tra le cause di tipo A e supporre quindi che gli effetti siano pur sempre di tipo B; ii) la differenza di X è tale che una sua collocazione tra le cause di tipo A si configura come una forzatura eccessiva, con il rischio di un errore di previsione sugli effetti: ci aspettiamo effetti di tipo B, mentre invece si presenteranno effetti di altro tipo. I motivi per cui X viene indebitamente collocato tra le cause di tipo A possono essere diversi: perché si è più attirati, sedotti, accecati dalle somiglianze (tra il nuovo fenomeno X e la vecchia categoria A), sottovalutando o misconoscendo le differenze,

oppure perché non abbiamo a disposizione categorie causali a cui assimilare il fenomeno X; iii) la differenza di X è tale da indurre a valutare soluzioni alternative e quindi a reperire una categoria causale diversa da A e più adatta ad accogliere X; iv) la differenza di X potrebbe però essere tale da non poter essere assimilato ad alcuna categoria causale disponibile, ponendo in crisi in tal modo il nostro apparato categoriale, ovvero le nostre capacità di previsione, di organizzazione e di controllo. Questa casistica – certamente incompleta e un po’ improvvisata – risponde ad alcune implicazioni, che a noi sembrano importanti, del ragionamento di Hume. Il filosofo scozzese, che anche su questo punto offre un contributo decisivo per una teoria delle somiglianze, pone in gioco gli esseri umani che, di continuo, hanno da affrontare il futuro. Il futuro, per essere tale, per non appiattirsi sul passato o annullarsi nel presente, è caratterizzato sempre da qualche diversità. Il futuro è portatore di diversità. Ovviamente gli esseri umani si troverebbero in grandi difficoltà, in un disorientamento totale, se il futuro non fosse altro che uno sfornare novità, se tutte le situazioni della natura cambiassero continuamente in modo che nemmeno due eventi avessero qualche rassomiglianza l’uno con l’altro, ma ogni oggetto fosse del tutto nuovo, senza alcuna somiglianza con qualsiasi cosa vista prima (Hume 1980: 106).

In un mondo siffatto non solo gli esseri umani, ma nessun essere vivente sarebbe in grado di organizzare la propria esistenza. Hume ritiene a questo proposito che «nelle operazioni della natura» si possa «riscontrare» tuttavia una notevole «uniformità», e questa prende la forma non di identità (che annullerebbe il tempo), ma di somiglianza. Egli poi prende in considerazione non soltanto gli eventi naturali, ma anche quelli della storia umana, assai più movimentati di quelli della natura. Pure qui Hume scommette sull’esistenza di «princìpi costanti ed universali della natura umana», a tal punto da arrischiare le seguenti affermazioni: Vorreste conoscere i sentimenti, le inclinazioni e il modo di vivere dei greci e dei romani? Studiate bene il temperamento e le azioni dei francesi e degli inglesi; non potete ingannarvi molto nel trasferire ai primi la maggior parte delle osservazioni che avete fatto riguardo ai secondi. L’umanità è tanto la stessa, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, che la storia non ci informa di nulla di nuovo o di insolito a questo proposito (1980: 108).

Può essere che l’uniformità della natura in generale e, al suo interno, della natura umana sia un modo – da parte di Hume – per scongiurare il

baratro di differenze non assimilabili che si lascia intravedere ad ogni piè sospinto, ad ogni decisione, ad ogni “supposizione di somiglianza”? Vi è da ritenere di sì, anche perché queste affermazioni sono il frutto di un balzo ardito al di là dei recinti epistemologici in cui – secondo lo stesso Hume – si forma il sapere umano. Ritorniamo allora a questi recinti. Qui vediamo gli esseri umani alle prese di continuo con il futuro, il quale appare come un miscuglio di somiglianze e di differenze: le somiglianze sono quei tratti che consentono di «trasferire il passato al futuro» (1980: 77) o, se si vuole, di calare il futuro nelle griglie del passato, di inserire i fenomeni nuovi (X, Y ecc.) nelle categorie causali che con l’osservazione e l’esperienza abbiamo costruito, così da prevederne gli effetti e regolarci di conseguenza. Addomesticare il futuro, trasferendo in esso il passato, o intrappolandolo, non appena sopraggiunge, nelle maglie predisposte dall’esperienza: questa sembra essere in effetti la soluzione che, secondo Hume, l’umanità ha fatto propria per orientarsi nel mondo. Abbiamo già visto prima come, per Hume, con la ripetizione delle osservazioni si vengano a formare “consuetudini”, “costumi”, “abiti causali”. È indubbio che la formazione di questi abiti sia in grado di offrire un senso di sicurezza e nello stesso tempo di dispensarci dal compito di valutare, in maniera più analitica, il ruolo critico e dirompente delle differenze. C’è infatti un principio che ci esonera dal «ragionamento»: e «questo principio è la consuetudine o abitudine» [This principle is Custom or Habit], un principio che fa parte della «natura umana», che «è universalmente riconosciuto» e che qui si configura come «principio ultimo [...] di tutte le conclusioni derivate dall’esperienza» (1980: 59). Questo principio pone termine all’indagine; oltre non si va. In modo perentorio, Hume sostiene infatti che «tutte le inferenze» ricavate «dall’esperienza [...] sono effetti di consuetudine [custom], non di ragionamento» (1980: 60). Più ancora dell’esperienza in quanto tale, La consuetudine, dunque, è la grande guida della vita umana [Custom, then, is the great guide of human life]. È questo quell’unico principio che ci rende utile l’esperienza e che ci fa attendere, per il futuro, un seguito di avvenimenti simile a quello che ci si è presentato nel passato. Senza l’influsso della consuetudine saremmo del tutto ignoranti di ogni materia di fatto all’infuori di ciò che è immediatamente presente alla memoria e ai sensi (1980: 61-62).

Con questa sua capacità di prevedere il futuro sul calco del passato, di spingere «avanti il pensiero» in un futuro “assimilabile” a quanto già catalogato dall’esperienza, è come se la «natura» avesse «posto in noi un

istinto»: il custom assimilatorio funziona dunque come una sorta di automatismo, «necessario alla sussistenza della specie», «essenziale» alla sopravvivenza «di tutti gli uomini» (1980: 73-74). 5. L’imperfezione delle somiglianze Ripetiamo: il custom, come istinto assimilatorio, indispensabile e funzionale alla sopravvivenza, si incarica di orientarci nel futuro con l’aiuto del passato; in vista di ciò, tende in una certa misura a tagliare le unghie alle differenze degli eventi che sopraggiungono, così da fronteggiarli con gli strumenti che l’esperienza ci mette a disposizione. Questo è un principio tanto generale che, per Hume, anche gli animali si comportano così: Sembra evidente che gli animali, al pari dell’uomo, imparino molte cose dall’esperienza ed inferiscano che gli stessi eventi deriveranno sempre dalle stesse cause (1980: 133).

Anche nel caso degli animali la capacità di inferire deriva da questa “consuetudine”, da questo custom assimilatorio, che «porta la loro immaginazione a concepire» il futuro sul modello di quanto hanno appreso con le loro osservazioni e la loro esperienza del passato (1980: 135). È importante rilevare come un grande teorico delle somiglianze, quale è stato David Hume, sia stato spinto ad “assimilare” uomini e animali sulla base del “costume assimilatorio”, principio universale, equiparato da Hume a una sorta di istinto: tutti gli esseri umani – anzi tutti gli «esseri sensibili», dai generi superiori a quelli più umili (1980: 135) – compiono “per costume” le inferenze dal passato al futuro, indispensabili alla loro sopravvivenza. Esseri umani e animali «derivano soltanto dalla consuetudine [custom]» tutti i «ragionamenti» che ineriscono ai fatti della loro esistenza (1980: 135, nota). Se questo è il principio concepito nella sua struttura generale, ben diverse tuttavia possono essere le sue rese, ovvero il suo funzionamento. Tutti noi siamo costretti a trarre inferenze dal nostro passato, tutti noi «trasferiamo sempre il noto all’ignoto e concepiamo quest’ultimo come rassomigliante al primo», ma i risultati di queste inferenze, di questi ragionamenti, possono essere assai difformi. A leggere la nota di pagina 135-136, si vede bene come Hume sottolinei con forza l’importanza della «attenzione» e della «osservazione», esercitate al di là della «abitudine» (1980: 136). Un po’ come dire che 1) alla base dei “costumi causali” o

delle “consuetudini assimilatorie” ci sono certamente le osservazioni passate; 2) gli “abiti causali” tendono però ad alleviare l’onere e lo scrupolo dell’osservazione e ad esonerarci in una certa misura dall’esercizio critico del ragionamento; 3) per evitare questa sorta di relativo ottundimento occorre quindi prolungare l’osservazione al di là della sfera del “costume” e controllare se e quanta “differenza” sia riscontrabile nelle nuove relazioni causali. È vero che Hume ha parlato disinvoltamente di “uniformità” della natura, e in particolare della natura umana (supra, § 4); ma nella nota su cui ci stiamo soffermando, egli ci propone di considerare la «complessità [complication] di cause» convergenti, la «catena di conseguenze» che si possono snodare oltre il piano dell’osservazione immediata, nonché il sovrapporsi e l’intrecciarsi di circostanze in cui si inseriscono i rapporti di causa ed effetto (1980: 136, nota). Occorre allora dimostrare una grande «accuratezza e sottigliezza» nel prolungare o nell’approfondire l’osservazione oltre i legami causali che siamo “abituati” a generalizzare. Il “costume” presenta l’enorme vantaggio di incapsulare e preservare nel tempo, trasmettendoli così da generazione a generazione, i tipi di ragionamenti e di inferenze che hanno sostanziato una certa esperienza. Ma qui Hume è come se volesse porci in guardia dal rischio di rimanere intrappolati nei costumi consuetudinari e nei ragionamenti da loro veicolati. Ciò che infatti egli sottolinea è l’opportunità di allargare (enlarge) «la sfera dell’esperienza e del pensiero», quali noi ereditiamo dal passato. Ripartiamo da qui, dalla “complessità” delle cause e dagli intrecci delle circostanze da cui dipendono gli effetti. È così che Hume rivede la sua idea dell’uniformità della natura: Non dobbiamo [...] aspettarci che quest’uniformità delle azioni umane possa essere spinta a tal punto che tutti gli uomini, nelle stesse circostanze, siano per agire sempre nella stessa maniera (1980: 110).

Ciò che Hume fa valere a questo punto è «la diversità dei caratteri, dei pregiudizi e delle opinioni». Del resto – egli ribadisce – «un’uniformità in tutti i particolari non si trova in alcuna parte della natura». Su questo sfondo assai meno uniforme, dove sembrano prevalere la varietà e la complessità, dove «le cause non sono congiunte coi loro effetti soliti con eguale uniformità» (1980: 111), si comprende come alla base dei modelli inferenziali o dei costumi causali vi possano essere propensioni e scelte

difformi. Gli esseri umani differiscono tra loro, in quanto – nonostante un “certo” grado di uniformità della natura – variano nella scelta delle relazioni causali, nella selezione dei tipi di inferenze (e quindi di ragionamento) che essi traducono e sussumono nei loro costumi. I modi di vivere degli uomini sono differenti in differenti età e paesi? Di qui impariamo a conoscere la grande forza della consuetudine [custom] e dell’educazione [education], che modellano [mould] la mente umana fin dall’infanzia e formano in essa un carattere fisso e stabile (1980: 111).

Si tratta di uno dei punti più notevoli del pensiero di Hume sotto il profilo antropologico, in quanto dalla diversità delle scelte causali si passa alla formazione dei costumi e alla loro forza di modellamento sulla mente umana: dalla scelta più o meno arbitraria si trascorre all’uniformità e al conformismo culturale; dalla possibilità si transita alla quasi-necessità. I “modi di vivere degli uomini” (le culture umane, direbbero gli antropologi) generano “abiti causali”, ovvero concezioni del mondo che, modellando la mente dei soggetti umani, tendono a perpetuarsi nel tempo e a resistere alle differenze di cui il futuro è gravido. Dall’analisi che abbiamo proposto prima (§ 4) risulta tuttavia il gioco insidioso delle differenze: differenze di poco conto, che consentono di inserire, con qualche sforzo e a costi sopportabili, i fenomeni nuovi nelle categorie predisposte e collaudate, oppure differenze di peso, che rischiano invece di svelare l’inadeguatezza di certe nostre categorie, se non addirittura la mancanza di categorie causali adeguate. Se tutto il patrimonio delle categorie causali di cui disponiamo nasce soltanto da osservazioni contingenti, reiterate e comunque parziali, chi può affermare che l’esperienza, la «grande guida della vita umana» (1980: 50), sia in grado di fronteggiare ogni evenienza? Approfondendo ancora un poco l’analisi, appare chiaro che non è l’esperienza in quanto tale che si pone di fronte al futuro: sono gli esseri umani che, per affrontare il futuro, fanno di solito ricorso, in qualche modo, alla loro esperienza. E qui allora il discorso si sposta sui soggetti (singoli, collettivi, storicamente situati, culturalmente connotati), i quali – aspetto questo poco lumeggiato da Hume, ma implicito nella sua impostazione – compiono scelte sia sul lato del futuro, ossia per quanto riguarda i fenomeni o eventi che vengono loro incontro, sia sul lato del passato, in rapporto cioè al patrimonio di sapere che hanno accumulato nella loro esperienza. Non è detto che gli esseri umani, in ogni circostanza,

siano in grado di valutare bene il peso delle somiglianze e il peso delle differenze. Non è escluso, anzi è piuttosto probabile – secondo Hume –, che essi tendano a privilegiare le somiglianze rispetto alle differenze, e quindi a forzare gli eventi nuovi entro le categorie più familiari, più ovvie e consuete, con il rischio di misconoscere le novità e non saperne prevedere gli effetti. È lo stesso Hume che pone in guardia circa questo rischio: In ogni situazione o evenienza, vi sono molte circostanze particolari e apparentemente minute, che [persino] l’uomo di maggior talento, sulle prime, ha inclinazione a trascurare, sebbene la giustezza delle sue conclusioni e conseguentemente la prudenza della sua condotta ne dipendano interamente (1980: 62, nota).

Non è nemmeno detto che gli esseri umani siano sempre pronti e in grado di attivare le esperienze del passato. Non c’è forse un’usura dei saperi accumulati? Non esiste forse un oblio culturale? Non si registrano forse fenomeni di screditamento e di lesioni, per cause interne o esterne, dei patrimoni culturali? Non sono forse osservabili processi di impoverimento culturale (Remotti 2011a: capp. VII-IX)? Per quanta “sicurezza” possa provenire dal passato, dall’esperienza accumulata, dai costumi collaudati, il futuro è quindi sempre molto aleatorio, non soltanto per sé stesso, ma anche per i mezzi con cui lo si affronta. Per Hume – ribadiamo ancora una volta – le somiglianze sono un terreno scivoloso e tuttavia esse sono l’unico terreno su cui è dato muoverci, beninteso con il massimo possibile di avvedutezza, di accortezza, di sagacia, di “prudenza”. Il baratro, che intravediamo ogni qual volta si prendano decisioni in merito alle somiglianze, è dato dalle differenze che non si lasciano addomesticare dai nostri apparati assimilatori. Il baratro è intuibile esattamente dietro o subito dopo questa affermazione di Hume: tutte le inferenze dall’esperienza suppongono, come loro fondamento, che il futuro assomiglierà al passato e che poteri [causali] simili saranno congiunti con qualità sensibili simili (Hume 1980: 52, c.m.).

E se il futuro non assomigliasse al passato? Se le differenze sfornate dal futuro non fossero assorbibili dalle nostre categorie causali? L’esperienza non è infallibile, e soprattutto è sempre limitata, parziale, contingente. L’esperienza accumulata, a cui “per costume” attingiamo, può essere clamorosamente smentita dal futuro che ci attende dietro l’angolo: può essere che domani il sole non sorga affatto. Certo, le somiglianze ci aiutano

a inoltrarci nel futuro, ma possono anche essere trappole in cui rischiamo di perdere la nostra “prudenza”, la nostra sagacia, la nostra avvedutezza. Affinché i customs non diventino trappole, occorrerebbe qualcosa di più dell’affermazione della loro importanza e insostituibilità come veicolatori di relazioni causali, preventivamente costruite e collaudate. Occorrerebbe rinunciare ad affermare (vedi sopra, § 4) che il custom sia il «principio ultimo» di tutti i nostri ragionamenti inferenziali (Hume 1980: 59). Lo è di fatto in molti casi. Non lo è però di principio e talvolta, quindi, neanche di fatto. Come si riconosce che quelli che abbiamo chiamato gli “abiti causali” si vengono a costituire sulla base di osservazioni ripetute di fatti in successione, così è difficile ammettere che l’osservazione venga del tutto avviluppata nel costume e dunque disattivata. Per gli antropologi, i quali per professione si occupano di cultura (un concetto che, come è noto, ha inglobato i “costumi”), è del tutto fondamentale concepire la cultura non soltanto come un insieme di fatti e di prodotti, ma anche come un fare, un produrre, dunque un mirare e uno scegliere: «e lo scegliere è sempre, almeno in potenza, un andare oltre, un trascendere», che non sempre si muove verso l’alto, in senso verticale, ma spesso e quasi inevitabilmente verso l’altro – altre esperienze, altre culture – e dunque in senso orizzontale (Remotti 2011b: 61-63). In ogni cultura dovrebbe essere sempre ravvisabile una “breccia”, “una via di uscita” dalla gabbia dei costumi, che – nel caso che stiamo discutendo – avrebbe esattamente la funzione di prolungare l’osservazione al di là degli “abiti causali” acquisiti. Come abbiamo visto, Hume tende a scivolare verso la “chiusura” e la stabilizzazione culturale, come se, una volta compiute le “loro” osservazioni iniziali, le culture umane provvedessero a “istituzionalizzarle” nei loro costumi, scommettendo che “il futuro assomiglierà al loro passato” codificato. Beninteso, diverse società hanno intrapreso una strada siffatta e – beninteso – una dimensione “chiusura” è reperibile in ogni società3. Ma qui non è soltanto opportuno, è invece indispensabile capire se le società – al di là di tutte le loro possibili chiusure, che sono indubbiamente tante – dispongano dei mezzi per affrontare in modo sufficientemente adeguato il futuro. Ebbene Hume (ultimo contributo che intendiamo strappargli, in questo capitolo) ci offre appunto uno di questi mezzi, a partire, come al solito, dal concetto di somiglianza. In effetti, è

proprio qui – sulla somiglianza, sul modo di intendere la somiglianza – che si gioca l’apertura verso il futuro. Per cogliere meglio su questo argomento il punto di vista di Hume, ci avvaliamo di uno scritto di Jean-Pierre Cléro, il quale fin da subito sottolinea il carattere onnipresente della somiglianza nel pensiero del filosofo scozzese (Cléro 1995: 498, 502). Per Hume infatti nessuna relazione può sussistere senza un certo grado di rassomiglianza [e] senza questa relazione [di rassomiglianza] non può esistere nessuna relazione filosofica (Hume 2001: 53, 51).

Oltre a queste tesi, Cléro avverte l’interesse di Hume per l’aspetto dinamico della somiglianza, intesa non soltanto o non tanto come una «copia», bensì come una «operazione che assimila – che rende similari – atti mentali eterogenei» (Cléro 1995: 499). Questo spostamento dall’aspetto statico all’aspetto dinamico – dalla somiglianza in quanto tale a ciò che si potrebbe chiamare operazione di “assomigliamento” – solleva fin da subito un elemento di instabilità, implicito nel somigliare, dovuto all’equilibrio instabile con la differenza. Allo stesso modo e nello stesso tempo, si introduce la presenza del soggetto, il quale non fa che aumentare il carattere instabile della somiglianza: «la somiglianza non è mai colta se non in una condizione di instabilità», che si combina del resto con la «complessità» di atti e di ramificazioni che si dipartono dagli oggetti o avvenimenti considerati (1995: 501). Queste riflessioni, che Cléro conduce in riferimento a determinati passi di Hume, portano quindi a sostenere che la somiglianza è pur sempre relativa a un determinato punto di vista e che soprattutto essa è sempre «in qualche modo voluta», ossia è – come si diceva sopra – frutto di una scelta, di una decisione, la quale in definitiva interviene a ridurre, a “troncare”, il gioco della complessità (1995: 502). C’è qualcosa non solo di arbitrario, ma persino di violento, in questo “troncamento” di possibilità, a tal punto che «la somiglianza può dunque essere l’opera di una assimilazione [assomigliamento] forzata». Questo lavoro di assomigliamento (questa decisione di “fare assomigliare”) può fare dimenticare la differenza, che – come ripetiamo dall’inizio di questo libro – è indisgiungibile dalla somiglianza. Affinché ci sia somiglianza, affinché la somiglianza – ancorché forzata – possa essere riconosciuta come tale, e non come identità, occorre che vi sia e che venga riconosciuta la differenza, almeno un qualche grado di differenza. Su questa base, Cléro dimostra che per Hume la somiglianza può essere

sempre e soltanto una somiglianza imperfetta, dovuta all’insopprimibile elemento di differenza che inesorabilmente si insinua tra gli oggetti o avvenimenti presi in considerazione, anche quando tale elemento venga misconosciuto o celato. Questo tasso di differenza è in fondo ciò che rende due cose somiglianti e non (illusoriamente) identiche. Per questo una somiglianza perfetta non può essere che «una chimera» e persino «una contraddizione», qualcosa che «compromette la realtà della somiglianza» (1995: 504). Cléro così articola il suo commento: La somiglianza perfetta è una somiglianza morta, che non ha alcun significato empirico. Per essere viva, la somiglianza ha da essere ricercata, rischiata, trovata e fissata nella differenza; nessuna situazione reale può offrire passivamente una somiglianza.

La soluzione è dunque quella di mantenere ferma l’idea della somiglianza imperfetta, dal momento che l’imperfezione della somiglianza è dovuta alla inseparabilità tra somiglianza e differenza: il SoDif (la formuletta a cui abbiamo già fatto ricorso nei capitoli precedenti) è l’espressione grafica di questo concetto tanto importante e decisivo. Somiglianza significa partecipazione o condivisione di qualcosa; la “non” condivisione di qualcosa è invece la differenza che accompagna come un’ombra inseparabile la somiglianza. È interessante notare che Hume, mentre pone la somiglianza come relazione fondamentale, a capo di tutte le altre relazioni, non considera la differenza come una relazione a parte, da aggiungere all’elenco: naturalmente, ci si potrebbe aspettare che io aggiunga la differenza alle altre relazioni: io la considero, invece, una negazione di relazione, piuttosto che qualcosa di reale o positivo (Hume 2001: 53).

La differenza non è una relazione in più, in quanto è già presente, come risvolto, supporto e condizione “negativa”, in ogni relazione di somiglianza. La differenza è fattore che contribuisce a costruire la somiglianza rendendola imperfetta e – potremmo aggiungere – incompleta. Imperfezione e incompletezza, aspetti essenziali e ineliminabili di ogni somiglianza, sono anche ciò che ne determina l’apertura verso il futuro4. Come si è già detto, questi elementi potrebbero non essere riconosciuti, facendo così cadere i soggetti nella trappola della somiglianza perfetta e, ancor peggio, dell’illusione o del mito dell’identità (Remotti 2010). Riconoscere invece l’imperfezione e l’incompletezza delle somiglianze non solo in generale, ma anche delle somiglianze collaudate dalle “nostre” esperienze e dalle nostre scienze, incapsulate nei

“nostri” patrimoni culturali, è l’atteggiamento che meglio consente di affrontare il futuro. Allorquando il futuro si fa presente – e dunque sempre –, esso rischia di porre in discussione i nostri costumi causali e i nostri apparati categoriali. Per esprimerci con le parole di Cléro (1995: 505): la contestazione operata dal caso presente, nella sua differenza, mettendo in pericolo la serie dei casi passati, è ciò che fa la verità della somiglianza; lo scarto del caso presente rispetto alla serie dei casi passati fa risuonare questa serie come mai prima era potuto succedere.

Soltanto “risuonare”? Il futuro può essere così poco somigliante al passato da fare “saltare” le catene causali che fino a “ora” hanno retto. L’idea dell’imperfezione e quella dell’incompletezza ci obbligano a contemplare anche questa possibilità e inducono quindi gli esseri umani a integrare, se possibile, le nuove differenze e a sovvertire e a mutare, se del caso, i vecchi “costumi causali”. Ebbene, questa elasticità è sostenuta proprio dal lato “negativo” della somiglianza, vale a dire dalla differenza, la “negazione della relazione” (per dirla con Hume), il “non” dove la somiglianza (o la condivisione) si arresta. Si tratta dunque di un “non” prezioso e indispensabile, che non soltanto fa esistere la somiglianza, ma ponendo al bando l’illusione della perfezione, della completezza e dell’identità, rende la somiglianza aperta, dinamica, flessibile, resiliente. Per aprirsi al futuro le somiglianze hanno da essere, e da essere riconosciute, per quelle che sono: imperfette. La forza delle somiglianze consiste esattamente nella loro imperfezione. 6. Somiglianze scientifiche Come forse si ricorderà, Giovanni Bottiroli ha rimproverato a Michel Foucault di non avere fornito una «teoria delle somiglianze» a integrazione della «storia delle somiglianze», in cui lo studioso francese si era impegnato: «una storia delle somiglianze esige una teoria delle somiglianze» (Bottiroli 2011: 185, 190). Forse è per questo motivo che Foucault dedica un’attenzione alquanto scarsa a un grande teorico delle somiglianze, a colui anzi che sulle somiglianze osservabili in natura ha costruito nel XIX secolo un programma scientifico, che i biologi, e non solo, ritengono tuttora valido, una prospettiva pressoché indiscutibile e comunque tuttora ampiamente condivisa: questo grande teorico delle somiglianze era Charles Darwin (1809-1882). Del resto, non è solo Foucault che riserva a Darwin un trattamento un po’ deludente. In un suo recente volume, il filosofo

Michel Onfray formula provocatoriamente la seguente dichiarazione, su cui è difficile non concordare (almeno nella sua prima parte): La filosofia istituzionale si comporta come se Darwin, nel 1859, non avesse mai pubblicato L’origine delle specie, un libro che taglia in due la storia del pensiero occidentale (Onfray 2015: 214).

Aggiungiamo che non è solo Foucault e non è solo la filosofia a comportarsi così: è sufficiente dare uno sguardo d’insieme alle scienze umane e sociali per convincersi che l’osservazione di Onfray è senza dubbio assai pertinente, tale da indurre a chiedersi perché, in questi ambiti di studio, si assuma un atteggiamento di refrattarietà nei confronti del lavoro di Darwin. La risposta ha a che fare, pure qui, con una questione di somiglianze e differenze. Per quanto concerne le scienze sociali, è del tutto evidente, fin dalle loro origini istituzionali, un gesto di netta differenziazione rispetto al sapere biologico: in vista – com’è ovvio – della rivendicazione e della richiesta di riconoscimento di uno statuto di autonomia scientifica. Come è diffusamente noto, questo è stato il passo compiuto da Émile Durkheim negli ultimi anni del XIX secolo, allorché egli distingueva con vigore e determinazione i “fatti sociali” – di cui doveva occuparsi la sociologia (e poi, sulla sua scia, l’antropologia sociale) – dai fatti di ordine psicologico e, prima ancora, di ordine biologico: si tratta di «realtà parzialmente autonome che vivono di una vita propria» e che, per essere spiegate, esigono di essere considerate in base ai loro caratteri peculiari, irriducibili alle caratteristiche dei fenomeni di livello inferiore (Durkheim 1963: 161). Per illustrare in maniera ancora più vivida il gesto di differenziazione, di allontanamento e dunque di dichiarata estraneità che sociologi e antropologi culturali hanno compiuto nei confronti della biologia e di Darwin in particolare, rileggiamo quanto Alfred L. Kroeber scriveva un secolo fa (nel 1917) sull’autonomia della cultura come fatto “superorganico”, ovvero come una dimensione che si situa a un livello ulteriore rispetto alla biologia. Kroeber parlava a questo proposito di un «abisso» e suggeriva ai biologi, da un lato, e agli studiosi del super-organico (antropologi, storici, scienziati sociali), dall’altro, di proseguire il loro «cammino» muovendosi ognuno sulla propria sponda in modo separato e indipendente, senza preoccuparsi gli uni di quello che fanno gli altri e senza nutrire l’illusione di superare lo «iato» che continuerà inesorabilmente a dividere le due comunità scientifiche (Kroeber 1974:

92). Per invocare l’autonomia delle scienze umane e sociali occorreva stabilire una profonda e invalicabile “differenza” rispetto alla biologia; e questo atteggiamento è visibile ancora oggi, non soltanto allorché si tratta di difendere i propri territori scientifici rispetto alle pretese di invasione e ai riduzionismi dei sociobiologi (tipica è la posizione di rifiuto, per esempio, da parte di Marshall Sahlins [1981; 2010]), ma anche, più in generale, allorché antropologi culturali, sociologi, storici manifestano uno spiccato disinteresse per ciò che avviene, o è avvenuto, di importante nel campo della biologia, a cominciare appunto dalla “rivoluzione” darwiniana. Dal punto di vista di quanto stiamo argomentando in questo libro, Darwin è fondamentale, in quanto ci fa capire la “forza” epistemologica delle somiglianze, il loro ruolo imprescindibile nella costruzione del sapere relativo alla storia delle specie naturali. E allora forse abbiamo trovato un altro motivo per cui Darwin non interessa agli antropologi culturali o sociali. Questi ultimi sono assai poco interessati alle somiglianze in generale, non solo in campo biologico, ma anche in campo culturale. Sembra di poter dire che per gli antropologi il grande tema del loro sapere siano le differenze, non le somiglianze. Prendiamo, per esempio, Clifford Geertz, uno dei maggiori esponenti dell’antropologia culturale della seconda metà del XX secolo. Ebbene, per Geertz la «diversità» di costumi e di usanze da un capo all’altro dello spazio e del tempo non è una faccenda di superficie e di apparenza: vuol dire invece che «l’umanità è tanto varia nella sua essenza» quanto lo è nei modi in cui si esprime (Geertz 1987: 77). Le generalizzazioni antropologiche che si può tentare di compiere finiscono sempre con l’affermare che l’uomo «è un animale molto vario» e che se vogliamo scoprire in che cosa consiste l’uomo, possiamo trovarlo solo in ciò che sono gli uomini: e questi sono soprattutto differenti (1987: 81, 94, c.m.).

In anni più recenti, Philippe Descola non è da meno nel sostenere l’importanza delle differenze nel sapere antropologico, in quanto per Descola, esattamente come per Geertz, l’animale culturale che è l’uomo si contraddistingue soprattutto a causa della produzione di differenze culturali: È il compito dell’antropologia quello di fare l’inventario di queste differenze e di tentare di spiegarne le ragioni [...] il problema di cui si occupa l’antropologia [è quello di] comprendere le differenze culturali [... e di] classificarle (Descola 2011: 10, 65).

Che ne è allora delle somiglianze? Visto che abbiamo scelto Clifford Geertz e Philippe Descola come antropologi che privilegiano le differenze culturali, possiamo notare una loro convergenza anche per quanto riguarda la svalutazione, se non proprio il discredito, a cui sottopongono le somiglianze. Se infatti Geertz (1987: 85) sostiene che compito dell’antropologia è la ricerca di «rapporti tra fenomeni diversi», e non di «identità sostanziali» tra fenomeni «simili», Descola per parte sua afferma che l’antropologia si interessa poco delle somiglianze, poiché conosciamo appena le somiglianze della specie umana, e sono piuttosto scienze come la biologia o la psicologia che cercano di metterle in evidenza (Descola 2011: 37).

Tanto per Geertz, quanto per Descola, e chissà per quanti altri antropologi culturali, le somiglianze valgono poco, dal momento che il campo della cultura umana è fatto soprattutto di differenze. Dichiarare la scarsa rilevanza epistemologica delle somiglianze in antropologia (in quanto di pertinenza della biologia), a tutto vantaggio delle differenze culturali, significa avallare, anche senza volerlo, una prospettiva in cui si assiste a una frammentazione delle ricerche, a una pericolosa polverizzazione epistemologica, senza rendersi conto – come avremo modo di vedere ora con Darwin – che le somiglianze fanno da cemento, o sono comunque legami di coordinamento, in un mondo in cui le differenze acquisiscono significato grazie alle somiglianze. Per chi scrive è indispensabile concepire l’antropologia come un tessuto in cui si intrecciano sia le somiglianze sia le differenze. In un libro del 1990, Noi, primitivi, dedicato all’esame della prospettiva epistemologica più consona all’antropologia, si è voluto concepire questo tipo di sapere come formato da «reti di connessioni tra fenomeni simili e diversi nello stesso tempo» (Remotti 2009: 203), condividendo così il presupposto dello strutturalista russo Nikolaj Trubeckoj, per il quale l’antropologia si dispone su un «piano orizzontale», in cui «non ci sono superiori né inferiori», bensì «solo simili e dissimili» (1982: 41). In quel libro, la nozione di reti di connessioni era tratta esplicitamente dalle “somiglianze di famiglia” di Ludwig Wittgenstein (1980), analizzate e adattate al discorso antropologico (Remotti 2009: 203-221; 2013d). Ma quel libro dedicava alcune pagine iniziali alla lezione di Darwin, all’importanza del suo lungo viaggio fisico e mentale al di là dell’“ordine sistematico” dei biologi del tempo: una

lezione significativa per gli stessi antropologi culturali a causa del suo intrinseco valore epistemologico (2009: 24-31). Ora qui si vuole tornare a riflettere su Darwin, in quanto scienziato per il quale le somiglianze, opportunamente osservate, vagliate e analizzate, sono in grado di schiudere un mondo fino a quel momento imprevisto: reti e intrecci di relazioni che l’ordine classificatorio del tempo non consentiva di cogliere. Anche per questo motivo, non ci sentiamo di fare del tutto nostra la tesi di Gilles Deleuze, secondo cui «la grande novità di Darwin fu forse quella di instaurare il pensiero della differenza individuale», facendo oltre tutto vedere in quale modo le differenze «tendano sempre più a divergere» (Deleuze 1997: 320): come se Darwin avesse inseguito soltanto le differenze, dimenticandosi per strada le somiglianze che vi si intrecciano e le illuminano. Anche Telmo Pievani sostiene che «il tema di fondo dell’opera darwiniana è la scoperta della diversità individuale» e si spinge fino al punto di affermare che le monografie di Darwin, «impregnate di ammirazione per la diversità individuale», sono tutte tese a «spiegare le origini di tale stupefacente diversità» (Pievani 2005: 5). Evidentemente non sono soltanto filosofi e antropologi culturali a essere affascinati dalla diversità, in modo però alquanto unilaterale: ovvero, diversità in assenza di somiglianze. Partiamo anche noi da qui, da ciò che Darwin chiama “differenze individuali”: Si possono chiamare differenze individuali quelle piccole differenze che compaiono nei discendenti dai medesimi genitori [...]. Queste differenze individuali assumono per noi la massima importanza perché sono spesso ereditarie [...] e perché forniscono il materiale su cui la selezione può agire, accumulandole (Darwin 1982: 114).

Intanto, si tratta di differenze, anzi di “piccole differenze”, che si manifestano nei discendenti dai medesimi genitori; non solo, ma «queste differenze individuali riguardano generalmente organi che i naturalisti non considerano importanti». Darwin ci obbliga quindi a prendere in considerazione, molto in concreto, le differenze che emergono nel rapporto di riproduzione, tra genitori e figli, quel rapporto che egli designa con i termini di discendenza (descent) e di eredità (inheritance). Queste differenze si innestano su un insieme di tratti (elementi, aspetti) che vengono trasmessi da una generazione all’altra e che sono condivisi da ascendenti (genitori) e discendenti (figli). Il punto importante è che questo rapporto non avviene mai all’insegna dell’identità (i figli non sono mai

identici ai genitori); avviene invece sempre all’insegna della somiglianza. Il rapporto di discendenza trasmette infatti elementi comuni e, nello stesso tempo, ospita sempre delle variazioni; ed è questa compresenza di elementi costanti, permanenti, che si trasmettono da una generazione all’altra, e di elementi varianti, ciò che fa sì che la discendenza sia un rapporto di somiglianza. Darwin riconosce che non vi è discendenza senza qualche elemento di differenziazione, ancorché piccolo e in apparenza di scarso rilievo, e questo riconoscimento viene ufficializzato in ciò che egli chiama «la teoria della discendenza con modificazione [theory of descent with modification]» o della «eredità con modificazione [inheritance with modification]» (1982: 415, 424, 432). E l’eredità – egli sostiene – è la «causa che sola [...] produce organismi del tutto simili l’uno all’altro, o quasi simili» (1982: 432, c.m.). È vero però che le differenze sono la base dell’evoluzione darwiniana: sono il suo «combustibile» (Pievani 2015: 60). Come e perché esse emergano è problema che Darwin consapevolmente lascia in eredità ai suoi posteri. Decisivo è invece il nesso tra la grande, indefinita, incessante produzione di differenze individuali e il lavorio inconscio e altrettanto incessante della selezione naturale, la quale, «giorno per giorno e ora per ora», sottopone «a scrutinio [...] le più lievi variazioni», «scartando» ciò che è inutile e cattivo e «conservando» ciò che invece si rivela utile agli organismi nella loro lotta per l’esistenza (Darwin 1982: 150). Con il lavoro della selezione si verificano dunque i seguenti passaggi: dalla «comparsa di variazioni» alla «selezione» di quelle vantaggiose; dalla loro «accumulazione» e trasmissione per eredità alla loro «fissazione» (1982: 169), ovvero dalla comparsa di ciò che è differente alla stabilizzazione di ciò che accomuna; «la selezione naturale agisce unicamente conservando le variazioni in qualche modo vantaggiose, che di conseguenza persistono» (1982: 172). Detto in altro modo, ciò che prima è “variazione” e “differenza” – anzi, differenza individuale – rispetto ai caratteri ereditati si trasforma, se selezionato positivamente, in qualcosa di permanente, che entra a fare parte dell’eredità trasmessa attraverso la riproduzione e la discendenza. Grazie alla selezione, una differenza si trasforma dunque in somiglianza, in qualcosa di partecipato e di condiviso da più individui e da più generazioni. Accumulandosi e propagandosi, questi caratteri pongono le basi per la formazione di varietà e di nuove specie, correlativamente

all’estinzione di forme precedenti: «secondo la teoria della selezione naturale, l’estinzione di vecchie forme e la produzione di forme nuove e perfezionate sono fatti intimamente connessi» (1982: 405). È importante fare notare come Darwin stabilisca in tal modo un passaggio dalle «piccole differenze» individuali, che si producono nei rapporti di somiglianza ereditari, alle «grandi differenze» (1982: 128), mediante cui si riconoscono le varietà, le specie, gli ordini, ovvero le grandi categorie del mondo naturale. Altrettanto importante è fare notare che il nucleo dinamico, sorgivo e propulsivo risiede pur sempre nelle minuscole e impercettibili differenze individuali. In questa visione, le somiglianze finiscono per essere i “risultati” della selezione: scartate le differenze inutili o dannose, che scompaiono con la morte dei loro portatori, ciò che rimane sono le differenze che, proprio in quanti utili e vantaggiose, si sono trasformate in somiglianze comuni (a una varietà, a una specie, a un ordine). Ovvero, le differenze – fattore dinamico e propulsivo – spezzano la ripetizione e la continuità; le differenze aprono il futuro, introducendo possibilità alternative sia nella struttura organica sia nel comportamento degli individui. Le somiglianze, al contrario, hanno tutto il peso e l’inerzia della ripetizione e della continuità. Si comprende come per questo carattere dinamico, propulsivo, evolutivo i commentatori di prima (Deleuze, Pievani) abbiano perfettamente ragione a esaltare il ruolo delle differenze nel pensiero darwiniano. Ma, a loro volta, le somiglianze svolgono un ruolo altrettanto cruciale, in una pluralità di sensi, che ora intendiamo analizzare. A) Le somiglianze corrispondono in primo luogo ai fattori che frenano, per così dire, la produzione di differenze. Non per nulla Darwin parla di “piccole” differenze, ossia differenze di poco conto, non vistose, non tali da sconvolgere il piano strutturale e i modelli comportamentali degli organismi precedenti. Rifacendoci alle formule contenute nel cap. III, potremmo raffigurare l’insorgere di una piccola differenza tra un organismo X, della generazione precedente, e un organismo Y, della generazione successiva, in questo semplice modo: X

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

Y

=

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11 12.

Nel passaggio riproduttivo (discendenza con modificazione) da X a Y

vengono mantenuti i tratti da 1 a 10, mentre il tratto 11 scompare e viene sostituito (o modificato) dal tratto 12. È sufficiente questa piccola modificazione perché la progenie possa dirsi non identica, ma “simile” ai progenitori. Per Darwin non è possibile prevedere quali differenze insorgano nel passaggio da X a Y (Leibniz direbbe che soltanto Dio è capace di questa previsione). Ma Darwin è abbastanza sicuro che alla tesi della imprevedibilità si aggiungano altre tesi, così da formulare una vera e propria “teoria della discendenza con modificazione”: 1) nel passaggio da X a Y vi sarà sempre una qualche modificazione (una qualche differenza) e ciò rende X e Y non identici, ma simili; 2) per quanto noi conosciamo la struttura di X, non è prevedibile quali differenze si produrranno effettivamente in Y; 3) pur non essendo prevedibili le differenze che si verranno a produrre effettivamente in Y, esse non saranno tali da modificare del tutto la struttura di X, la quale dunque viene trasmessa, con qualche modifica, da X a Y, confermando così il rapporto di somiglianza tra i due organismi; 4) se a partire da X è pensabile che si venga a produrre una qualsivoglia modificazione o differenza in Y, ciò significa che la struttura di X contiene un quadro definito di possibilità di modificazioni, ovvero che la struttura ereditaria – fonte della somiglianza – pone argini al mutamento. Possiamo vedere riassunte le quattro tesi sopra esposte nella famosa affermazione – che Darwin trae da Henri Milne-Edwards – secondo cui «la natura è prodiga di varietà, ma avara di innovazioni» (1982: 253, 537). Si tratta cioè di «variazioni che sappiamo essere nei limiti della possibilità» fornita da una determinata struttura (1982: 503). In altri termini, le somiglianze, che persistono all’insorgere delle differenze (nel passaggio da X a Y), corrispondono a forme di resistenza al mutamento. In quanto tali, esse inducono a collocare le differenze entro il quadro delle possibilità di variazione che definiscono una determinata struttura e a pensare la struttura stessa come una matrice di possibilità. Nessuna struttura si riproduce identica: la riproduzione è sempre fonte di variazioni. D’altro canto, nessuna variazione è tale da provocare «un salto grande ed improvviso» al di là del quadro di variazioni della struttura di partenza (1982: 253). B) Questo non significa tuttavia che le modificazioni vengano di continuo riassorbite dalla struttura preesistente: le piccole differenze,

qualora siano selezionate positivamente, rese ereditarie, accumulate, si trasformano – come abbiamo visto – in grandi differenze. In questo caso, le piccole differenze tra l’organismo X e l’organismo Y danno luogo alle grandi differenze che intercorrono, a questo punto, tra la nuova specie e la specie da cui si è evoluta o le specie che si sono sviluppate in maniera parallela. Anche su questo piano, le somiglianze svolgono un ruolo importante. Le nuove specie sono l’effetto dell’accumulo ereditario delle piccole variazioni; ma che cosa sono le specie se non «gruppi di individui molto somiglianti tra loro» (1982: 123)? La somiglianza ancora una volta – non l’identità – diviene criterio di raggruppamento e di classificazione degli organismi viventi. Anche questo è un punto importante. Darwin fa leva sulla somiglianza, non sull’identità. L’identità condurrebbe verso una visione essenzialistica delle specie e dei generi, quale è quella dei sistematici, «ossessionati dal vago dubbio se questa o quella forma sia una vera specie» (1982: 550). Invece di ingolfarsi in «interminabili discussioni» per stabilire se una cinquantina di rovi inglesi siano o no specie vere, i sistematici avranno solamente da decidere (e non che questo sia facile) se una forma sia sufficientemente costante e distinta da altre forme, per poter essere definita; e in caso positivo, se queste differenze siano sufficientemente importanti per meritare un nome specifico.

Come si vede, la specie è frutto di una “decisione”, ovviamente soppesata, meditata, motivata, che ha a che fare con un grado di somiglianza “sufficientemente” elevato tra i membri di un raggruppamento e un grado di differenza “sufficientemente” accentuato rispetto ad altri individui. Si tratta in fondo di «pesare» e «valutare» con attenzione la «somma» di differenze e di somiglianze. Per questa via ci si libera dalla «vana ricerca della essenza, non scoperta e non scopribile, del termine specie», accontentandosi invece di concepire generi e specie come «mere combinazioni artificiali fatte per comodità», costrutti più o meno arbitrari applicati, «per ragioni di convenienza», a gruppi di individui che presentano un elevato grado di somiglianza tra loro e un significativo grado di differenza rispetto agli altri (1982: 550 e 123). Le somiglianze – a differenza delle identità – non tollerano confini troppo rigidi. Utilizzare la prospettiva delle somiglianze significa che i confini risultano sempre un po’ sfumati. È vero che le specie sono – come abbiamo già visto – «gruppi di individui molto somiglianti tra loro». Ma proprio come all’interno di questi gruppi emergono differenze (differenze

di varietà e differenze individuali), così le somiglianze non si accontentano di stare rintanate esclusivamente entro i gruppi. Siamo noi che “decidiamo” – con tagli più o meno consistenti – quali siano i confini delle specie: una decisione è sempre di per sé arbitraria, ancorché motivata dalla diversa distribuzione delle somiglianze e delle differenze e dal significato che attribuiamo loro. Siamo noi – biologi sistematici – che, “decidendo”, privilegiamo certe somiglianze e ne sottovalutiamo altre, ossia le somiglianze che attraversano i confini delle specie. «Il mondo di Darwin» – sostiene Pievani (2015: 63) – è «un mondo di diversità». Meglio sarebbe dire: “di diversità e di somiglianze”, visto che – come precisa lo stesso Pievani – è «un mondo di relazioni, concorrenziali o di interdipendenza, plasmate dal tempo». Del resto, «se consideriamo la distribuzione degli esseri organici sulla terra», che cosa colpisce in primo luogo se non «la somiglianza [similarity] o la dissomiglianza [dissimilarity] degli abitanti delle varie regioni» del mondo (Darwin 1982: 429)? 7. Omologie e analogie In tutto questo libro non si finisce mai di dire che, proprio perché le somiglianze spuntano da tutte le parti, occorre sempre operare delle scelte, ovvero decidere quali siano i sentieri che si intendono percorrere nella “selva delle somiglianze”, al fine di non lasciarsene invischiare ed essere risucchiati nei vortici che le somiglianze senza controllo vengono a formare. Questo vale tanto nell’organizzazione della vita quotidiana, quanto nelle configurazioni culturali di più ampio respiro: e questo principio vale ancor più nell’organizzazione della scienza. Se ci soffermiamo ancora un poco su Darwin, è proprio perché la sua lezione non consiste soltanto nella visione del mondo naturale come fatto di somiglianze e di differenze, ma anche, e soprattutto, nella profonda e lucida consapevolezza che occorre operare una scelta nell’intrico delle somiglianze, ovvero selezionare le somiglianze – o i tipi di somiglianze – che si dimostrano più fruttuose. Le somiglianze non sono affatto equivalenti sul piano scientifico, ed è perciò inevitabile che – secondo Darwin (1982: 500) – «attribuiamo maggior valore a certe somiglianze piuttosto che ad altre». L’importanza scientifica delle somiglianze – il loro peso, la loro “forza” epistemologica – dipende dai criteri mediante cui esse

vengono selezionate. Vi è così un nesso profondo tra la molteplicità delle somiglianze che innervano il mondo – o quella parte di mondo che si intende indagare – e l’ineludibilità della «scelta» che ogni classificazione comporta (Tort 1989: 458). Non si può fare a meno di scegliere e di attribuire valore a certe somiglianze piuttosto che ad altre. L’importante è capire – e dichiarare – i criteri della scelta. Ma altrettanto importante è soffermarsi, prima o poi, sugli “scarti” che ogni selezione di somiglianze produce: è ciò che tenteremo di fare nella parte conclusiva di questo paragrafo. Ripartiamo dunque da Darwin, dal fascino che lo spettacolo delle somiglianze e delle differenze esercita su di lui: È un fatto veramente meraviglioso [...] che tutti gli animali e tutte le piante, attraverso il tempo e lo spazio siano collegati gli uni agli altri per gruppi, subordinati ad altri gruppi, nella maniera che osserviamo dovunque (Darwin 1982: 194-195).

Che cosa osserviamo? Osserviamo varietà, specie, generi, famiglie, ordini, classi. Ma, a differenza dell’ordine immaginato dai sistematici, i collegamenti osservabili variano di grado e di intensità: certi gruppi sono più strettamente collegati, altri meno; in certi punti si osserva un affollamento di gruppi, in altri un diradamento. In questi collegamenti non c’è un ordine gerarchico perfetto e simmetrico. L’immagine usata da Darwin è quella di «un grande albero», dove sono rappresentate sia le specie viventi che, come i ramoscelli giovani, «tentano di ramificarsi in tutte le direzioni», a scapito delle forme concorrenti, sia le specie estinte, simili a «molti tronchi e rami [...] morti e caduti» (1982: 195): Come i germogli crescendo dànno origine a nuovi germogli, e questi, se vigorosi, si ramificano e superano da ogni parte un ramo più debole, così per generazione io credo sia avvenuto per il grande albero della vita, che riempie la crosta terrestre con i suoi rami morti e rotti e ne copre la superficie con le sue sempre rinnovantisi, meravigliose, ramificazioni (1982: 196).

In questo scenario di ramificazioni, è inevitabile – secondo quanto afferma John Lubbock, qui citato da Darwin – che «ogni specie» rappresenti «un legame fra altre forme affini», e quindi ogni specie, in particolare quelle estinte, finisce per occupare una posizione intermedia fra altre specie (1982: 389, 414). Nel quadro così raffigurato, somiglianze e differenze si presentano secondo «gradi» diversi (1982: 432). Esse non sono però fenomeni casuali e di superficie: insieme, testimoniano «l’esistenza di qualche profondo legame organico», e questo «legame è semplicemente l’eredità [inheritance]», la quale è causa tanto delle somiglianze (persistenza

della struttura), quanto delle differenze (variazioni individuali). Le somiglianze, con le loro rispettive differenze, diventano così segni di «parentela [relationship]» più o meno stretta tra specie, anche se collocate in continenti diversi (1982: 448-449). Ma, soprattutto, ciò a cui stiamo assistendo è la trasformazione delle somiglianze in qualcosa che va spiegato, in quanto per Darwin vi è «un legame più profondo della semplice somiglianza» (1982: 483). Non ci si può accontentare di rilevare il gioco delle somiglianze e delle differenze: «l’unica causa conosciuta della stretta somiglianza negli esseri viventi» è infatti «la comunanza di discendenza [community of descent]», ovvero il condividere una stessa parentela, l’appartenere a una stessa linea di discendenza. È così che Darwin seleziona le somiglianze e introduce un criterio di discriminazione: questo criterio è il legame riproduttivo, la generazione, la comune discendenza, l’eredità trasmessa geneticamente (per appellarci alla genetica). La parentela è dunque ciò che contraddistingue le somiglianze più importanti sotto il profilo scientifico, quelle da perseguire e studiare sopra tutte le altre. La teoria delle somiglianze di Darwin è infatti composta da due momenti, o livelli, fondamentali. A) In primo luogo, e in termini più generali, egli distingue accuratamente la somiglianza dall’identità, ritenendo che nel mondo degli esseri viventi siano le somiglianze a dominare. Su questo punto vale la pena riportare – in aggiunta alla teoria della descent with modification, esposta in precedenza – alcune argomentazioni di Darwin. Partendo dalla constatazione che l’uomo è soggetto a scambiare con certi animali determinate malattie, egli poi prosegue con la seguente affermazione: il che prova la stretta somiglianza [the close similarity] dei loro tessuti, sia dettagliatamente nella struttura, che nella composizione, molto più chiaramente di quanto non faccia un confronto diretto sotto il migliore microscopio o con l’aiuto della più accurata analisi chimica (Darwin 1983: 35).

Come si vede, Darwin parla precisamente di “somiglianza” di tessuti tra uomo e animali. A questo proposito aggiunge una nota molto illuminante: Un recensore (“British Quarterly Review”, ottobre 1871, p. 472) ha criticato con molta severità e disprezzo ciò che ho affermato qui; ma poiché non ho usato il termine identità [the term identity – bensì il termine “somiglianza”], non riesco a vedere in che cosa abbia tanto sbagliato (1983: 35, nota 4).

Darwin non si è sognato di affermare un’identità tra esseri umani e animali inferiori; ha semplicemente sostenuto che vi è una “stretta

somiglianza” per quanto riguarda i tessuti di cui sono fatti, ed è questa somiglianza di tessuti ciò che consente la trasmissione delle malattie tra organismi umani e organismi animali. B) In secondo luogo, Darwin distingue due tipi di somiglianze: le omologie e le analogie. Le omologie sono esattamente le «affinità reali» che si determinano sulla base di una discendenza comune, ovvero dell’«eredità ricevuta da un progenitore comune» (1982: 492, 247). Ciò si verifica tra i membri di una stessa classe, i quali «si assomigliano sul piano generale della organizzazione» (1982: 501). Proprio in quanto discendenti da uno stesso progenitore, specie diverse, e tuttavia appartenenti a una stessa classe, presenteranno organi «omologhi», nonostante le loro differenze superficiali e la diversità degli usi a cui verranno adibiti. Così, per esempio, risultano omologhi tra loro la mano dell’uomo, quella della talpa, la zampa del cavallo, la natatoia del delfino e l’ala del pipistrello, in quanto questi organi – pur dissimili e adibiti a usi tanto diversi – sono costruiti «sullo stesso modello» e comprendono «ossa simili», disposte in maniera simile. Al contrario, le «somiglianze analogiche» si basano non sul legame profondo della discendenza comune, bensì su una «apparenza esteriore», dovuta per lo più a somiglianza di funzione e di adattamento: animali appartenenti a due linee nettamente distinte di discendenza possono essersi adattati a condizioni simili, e avere assunto [a seguito di ciò] una grande somiglianza esteriore; ma somiglianze di questo genere tendono a dissimulare anziché rivelare un rapporto di parentela [such resemblances will not reveal – will rather tend to conceal their blood-relationship] (1982: 403).

In sostanza, le omologie sono di solito più nascoste rispetto alle somiglianze apparenti delle analogie. Inoltre, le prime rinviano a un legame “profondo” e “reale”, quello della blood-relationship (parentela di sangue – noi diremmo genetica) tra le specie, mentre le seconde, le quali si situano al livello dell’apparenza, possono essere spiegate soltanto in termini di adattamento a condizioni simili. Nelle argomentazioni di Darwin è del tutto chiaro il privilegiamento delle omologie. Beninteso, non è affatto agevole «capire le affinità molto complesse e divergenti che collegano [...] tutti i membri di una stessa famiglia», trattandosi molto spesso di «affinità tortuose», e «forse non arriveremo mai a sbrogliare l’inestricabile matassa delle affinità fra i membri di una classe» (1982: 499, 501). Tuttavia, questa è la strada da percorrere: andare alla ricerca delle somiglianze per omologia, poiché soltanto in questo modo, cioè ponendoci sulle «tracce» delle somiglianze originali e fondamentali (original or fundamental resemblance –

1982: 505), non delle semplici analogie, si può tentare di ricostruire, nella sua struttura generale e nei suoi snodi più importanti, l’albero della vita. A confronto, per quanto intriganti e «sorprendenti» possano essere le somiglianze analogiche (1982: 493), è come se – per Darwin – esse conducessero a un vicolo cieco: se non le distinguiamo dalle omologie, rischiano di sviarci rispetto alla ricerca degli effettivi e reali rapporti di discendenza e di parentela. È per questo che Darwin, oltre a considerare le analogie come meramente superficiali, giunge fino al punto di “respingere” questo tipo di somiglianze, se non quando si presentano entro lo stesso gruppo e finiscono quindi per coincidere con le omologie (1982: 501). Respingendo le analogie – che possono essere «una guida ingannevole» (1982: 549) – Darwin individua con maggiore precisione il suo obiettivo, quello di giungere a concepire l’intera natura – ovvero il «sistema naturale» – sulla base di una «classificazione genealogica», in cui ciò che connette l’intero sistema non sono svianti e seducenti analogie di forme, ma «reali affinità [...] dovute alla eredità o comunanza di discendenza» (1982: 524, 543). Grazie alle omologie e al rifiuto delle analogie, l’obiettivo di Darwin diviene quello di trasformare sé stesso in un genealogista della natura. Nello studio degli organismi naturali, noi non possediamo né alberi genealogici, né armi gentilizie e dobbiamo scoprire e tracciare le molte linee divergenti di discendenza nelle nostre genealogie naturali, in base ai caratteri di ogni tipo che da lungo tempo sono stati ereditati (1982: 551).

Adottando le somiglianze per omologia e rifiutando le somiglianze per analogia, Darwin ritiene di avere contribuito a realizzare – insieme ad Alfred R. Wallace – una «considerevole rivoluzione nella storia naturale» (1982: 550). Potremmo sintetizzare questa rivoluzione nell’abbandono di una concezione della natura in termini di un ordine fisso e di una ricerca dell’essenza e dell’identità delle specie, disponendosi invece a considerare ogni organismo naturale come «una produzione che ha una lunga storia» (1982: 551). L’invito che Darwin rivolge ai suoi colleghi è in effetti quello di contribuire a scrivere i vari capitoli della intricata «storia» “arborea” della natura, ricostruendo il suo complicato albero genealogico: «un grandioso e pressoché inesplorato campo di ricerca si aprirà». Stephen Jay Gould ha parlato di «trionfo dell’omologia» e nel contempo ha fatto vedere come il pensiero di Darwin fosse dominato da una profonda considerazione della «storia»: privilegiamento delle omologie

e obiettivo di ricostruzione storica delle genealogie naturali vanno perfettamente d’accordo (Gould 1986: 60; 1989). Potremmo dunque raffigurare in questo modo il percorso compiuto da Darwin: A) Di fronte al bivio identità/somiglianze egli sceglie la direzione “somiglianze” (il mondo naturale è tutto intessuto di somiglianze e differenze). B) Collocatosi tra le somiglianze, egli seleziona le omologie (legami di parentela) e scarta le analogie (somiglianze senza parentela).

Ciò che a noi qui interessa è far vedere, tuttavia, come le somiglianze scartate siano più “forti” delle selezioni che le scartano. Rimangono acquisiti e fermi i presupposti che abbiamo fatto valere in precedenza, ossia 1) la complessità (molteplicità, multi-direzionalità) delle somiglianze, e dunque 2) la necessità di operare delle scelte. Sarà dunque inevitabile 3) che si vengano a prospettare certi tipi di somiglianze su cui valga la pena soffermarsi (le omologie per Darwin) e altri tipi di somiglianze che saranno considerate meno importanti e significative (le analogie per Darwin), se non addirittura «somiglianze spazzatura» (Bottiroli 2011: 183). Ebbene, ci siamo soffermati a lungo su Darwin proprio per dimostrare come, persino nel caso di colui a cui si deve il paradigma più diffuso, condiviso e convincente in biologia, le somiglianze “scartate” abbiano la forza di rispuntare e sollecitare una concezione alternativa e complementare. È al poeta e scienziato Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) che occorre far risalire questa concezione, la quale si avvale delle somiglianze delle forme a prescindere dai loro nessi storici e genealogici. La domanda da porsi, infatti, è proprio questa: perché mai dovremmo concentrarci soltanto sulle somiglianze per le quali è dimostrabile, o quanto meno ipotizzabile, un legame storico? Anzi, non sono proprio le somiglianze prive di un nesso storico plausibile le più «sorprendenti» (Darwin), intriganti, tali da richiedere maggiormente il nostro impegno scientifico? In questo scorcio di paragrafo non dedicheremo a Goethe la stessa attenzione che abbiamo riservato a Darwin. Ci sarà sufficiente indicare alcuni momenti di una prospettiva scientifica che da Goethe si inoltra nel Novecento, e che animerà alcune imprese scientifiche significative, tutte caratterizzate dalla rivendicazione della legittimità dello studio di somiglianze e differenze anche in assenza di nessi storici. Ci viene bene partire da un’idea goethiana di fondo che ci fa tornare a una tesi posta all’origine di questo percorso, la tesi di Protagora, secondo cui – come si ricorderà (cap. IV, § 1) – «in certo modo ogni cosa è simile a ogni altra» (Platone 1970: 331). Anche Goethe afferma infatti che «ogni essere vivente è un analogo di tutto ciò che esiste» (Goethe 2013: 116, § 554); anzi, egli si spinge fino al punto di chiedere: «chi potrebbe negare che tutte le cose esistenti hanno dei rapporti tra loro?» (Goethe 1958: 21). Tuttavia, come già nel caso di Protagora avevamo visto il grande rischio di buttarsi sconsideratamente tra le somiglianze, così vediamo che anche in Goethe si

fa immediatamente sentire l’esigenza di cogliere, insieme alle somiglianze, le differenze. Dire somiglianza significa sempre dire anche differenza, e così per Goethe «l’esistenza ci appare sempre nello stesso tempo separata e collegata» (2013: 116, § 554). Goethe ha ben presente come il SoDif – il miscuglio delle somiglianze e delle differenze – possa essere diversamente manipolato, a seconda che si spinga di più sull’elemento “somiglianza” o, al contrario, sull’elemento “differenza”, con esiti senza alcun dubbio divergenti. Occorre acquisire un punto di equilibrio tra le due tendenze. Infatti, «se si segue troppo l’analogia, tutto si confonde nell’identità»; ma «se la si evita, tutto si disperde all’infinito». Confusione (implosione) da un lato e dispersione (esplosione) dall’altro sono entrambe esiti letali, che danneggiano la capacità fondamentale dell’«osservazione». Federica Cislaghi, autrice di un’approfondita ricerca sulla morfologia di Goethe, ha posto in luce la centralità dell’osservazione nel modo di procedere del poeta tedesco: il morfologo [...] deve operare in modo da mutare ogni vedere in un osservare, l’osservare in un riflettere e ogni riflettere in un collegare (Cislaghi 2008: 123, nota 64).

La ricerca di questo difficile punto di equilibrio tra la rilevazione delle somiglianze e quella delle differenze è un obiettivo esplicito in Goethe, come quando afferma che dovremmo sempre osservare in che cosa gli oggetti di cui acquistiamo la conoscenza si differenziano, piuttosto che ciò per cui sono eguali tra loro. Il distinguere è più difficile, più faticoso, del trovare la somiglianza e, quando si è fatta una distinzione esatta, gli oggetti, proprio allora, si confrontano da sé. Se si comincia con il trovare le cose eguali o simili, si dà facilmente il caso che si trascurino, per amore della propria ipotesi e del proprio modo di pensare, quelle determinazioni per cui le cose sono molto differenti l’una dall’altra (Goethe 1958: 22).

Non ci si discosta molto dal pensiero di Goethe se si afferma che in certi casi saranno le somiglianze, e in altri casi le differenze, a colpirci per prime. L’importante è rendersi conto del condizionamento delle ipotesi che guidano fin dall’inizio le osservazioni, in quanto rispondono all’esigenza ineludibile di «trovare un ordine nella molteplicità dei fenomeni» (Cislaghi 2008: 123, nota 64): ipotesi che possono privilegiare le somiglianze oppure, al contrario, le differenze. Le ipotesi sono ninne nanne con cui il maestro culla i suoi allievi. Il vero osservatore pensante impara sempre più a conoscere i propri limiti; egli vede che quanto più il sapere si allarga tanto più sono numerosi i problemi che sorgono (Goethe 2013: 120, § 579).

Che cosa sono questi problemi che ulteriormente sorgono a mano a mano che il sapere avanza, se non ulteriori grovigli di somiglianze e di

differenze? Differenze inaspettate tra fenomeni pregiudizialmente intesi come troppo simili, somiglianze inattese tra fenomeni concepiti come troppo differenti; somiglianze e differenze che, emergendo da piani più profondi, richiedono analisi più acute, strumenti più raffinati, ipotesi dotate di maggiore penetrazione. Per Goethe non possiamo fare a meno di operare con delle ipotesi, come non si può fare a meno di utilizzare delle impalcature quando si costruisce un edificio: Le ipotesi sono impalcature che si innalzano prima dell’edificio e che si tolgono quando l’edificio è costruito. Per chi lavora sono indispensabili; solo che costui non deve scambiare l’impalcatura per l’edificio (2013: 210, § 1222).

Con grande perspicacia, Goethe sottolinea alcuni momenti fondamentali nell’uso delle ipotesi. Vediamoli in dettaglio: a) le ipotesi forniscono un aiuto indispensabile per l’avanzamento del sapere, ovvero – tornando alla nostra metafora abituale – nella scelta di un percorso all’interno della selva delle somiglianze e delle differenze; b) come è indispensabile questo aiuto, così è inevitabile che esse determinino un occultamento in relazione ad altri possibili percorsi. Infatti, come egli afferma, Tutte le ipotesi impediscono l’Άναϑεωρισμός, la riconsiderazione, l’osservazione degli oggetti, dei fenomeni problematici da tutti i lati (2013: 210, § 1221);

c) è dunque altrettanto indispensabile la “liberazione” periodica dalle ipotesi, dopo – per così dire – che hanno offerto il loro servizio. Ovviamente, c’è ipotesi e ipotesi: ipotesi di scarsa penetrazione e di scarso rendimento o, al contrario, ipotesi che consentono di intraprendere un lungo e fruttuoso cammino. Ma – come abbiamo visto – «tutte le ipotesi impediscono l’Άναϑεωρισμός, la riconsiderazione», e dunque occorrerà procedere a una liberazione anche dalle ipotesi migliori, al fine di «vedere i fenomeni in modo più libero, in nuovi rapporti e collegamenti» (2013: 210, § 1223, c.m.); d) ma per Goethe non esiste una liberazione totale e definitiva (come Platone pretendeva con l’uscita dalla caverna [v. cap. I]). Liberarsi da un’ipotesi significa inevitabilmente procurarsene un’altra. E tuttavia il momento critico e sorgivo della liberazione è assolutamente fondamentale: è «un’occasione [...] inestimabile» (2013: 210, § 1223) al fine di raffinare e approfondire una visione della natura fatta di intrecci e di collegamenti. Non ci addentriamo nelle “ipotesi” di Goethe (quella, per esempio, della pianta originaria, Urpflanze). Ci interessa qui soltanto accennare al

«metodo goethiano» che – come sostiene Cislaghi (2008: 171) – «è innanzi tutto comparativo»: in quanto tale, «utilizza come strumento privilegiato l’analogia». Lo stesso Goethe afferma che «non c’è niente da ridire», se si fa ricorso all’analogia; anzi «l’analogia» – egli prosegue (2013: 112, § 532) – «ha il vantaggio che non chiude e in realtà non vuole niente di ultimo». In effetti, è importante rendersi conto del ruolo di apertura delle analogie nella morfologia goethiana. In virtù dell’analogia, essa da un lato si oppone a una visione della natura secondo un ordine classificatorio, costituito da categorie statiche e definite, dall’altro «lascia aperta la possibilità di nuovi collegamenti che permettono di individuare le connessioni strutturali, anche le più recondite, tra le forme» (Cislaghi 2008: 171). Ciò che emerge è dunque una concezione della natura in termini di somiglianze e differenze sottili e profonde, «dove non vi è più posto per il totalmente altro, ma solo per l’infinitesimalmente analogo». 8. Fasci di somiglianze e differenze Sbaglierebbe chi volesse vedere nelle argomentazioni del paragrafo 7 un tentativo di smentita dell’approccio di Darwin, facendo ricorso a un poeta e a un naturalista di alcuni decenni prima. Federica Cislaghi, la quale ha dedicato il suo libro espressamente a un confronto tra Goethe e Darwin, non si esprime in termini di contrapposizione, bensì di complementarità: poiché colgono aspetti diversi della natura, metodo morfologico (Goethe) e metodo evoluzionistico (Darwin) «convivono nella comprensione del vivente», e dunque «si potrebbe dire che hanno ragione entrambi» (Cislaghi 2008: 211). In realtà, ciò che intendiamo perseguire in questi paragrafi è qualcosa di più elementare e preliminare, ossia la dimostrazione della “forza” delle somiglianze (o meglio, delle somiglianze e delle differenze) contro qualsiasi “ipotesi” che le voglia imbrigliare. In vista di questo obiettivo, ci dedicheremo ora a riflettere su alcuni approcci scientifici che nel Novecento si sono ricollegati alla visione di Goethe, rivendicando in maniera esplicita la liceità dell’analisi di forme e di strutture anche in assenza di connessioni storiche e sottraendo il pensiero di Goethe alla marginalità in cui darwinismo e positivismo l’avevano relegato. Secondo Brian Goodwin, sostenitore convinto di un approccio che si

può definire bio-strutturalismo, «la scienza di oggi sembra saldare il debito» con Goethe, «con questa figura eccezionale» (Goodwin 1998: 447). Grazie al suo strutturalismo, egli invita a riflettere su specie che, pur vivendo in continenti diversi e adattandosi ad habitat differenti, «sono inaspettatamente simili nella loro morfologia», come è il caso della «evoluzione parallela dei marsupiali dell’Australia e dei mammiferi placentali in altre parti del mondo» (1998: 451). Come si ricorderà, per Darwin (1982: 493) si tratta di «sorprendenti somiglianze», che possono essere spiegate soltanto con l’adattamento ad ambienti simili, dunque in termini funzionali ed esterni, non strutturali o interni. Anche per Goodwin (1998: 451-452) sono «sorprendenti somiglianze», che però possono essere comprese «in un’ottica strutturalista», la quale pone in luce che marsupiali e mammiferi placentali dispongono di una «embriologia molto simile» e di una morfogenesi pressoché identica. In fondo, lo strutturalismo in biologia è un modo di rispondere all’emergere di somiglianze sorprendenti e inattese tra specie appartenenti a «differenti linee evolutive», e dunque in assenza di legami storici. Sono due le risposte che lo strutturalismo fornisce alle somiglianze che spuntano al di là dei nessi storici e che dunque, sfidando la nostra capacità di comprensione, sollecitano una spiegazione alternativa. La prima – per usare ancora le argomentazioni di Goodwin – fa leva sull’idea di una «serie ristretta di possibilità che costituiscono il regno della forma biologica» (1998: 451, 437). Torneremo su questo punto. Qui sottolineiamo che l’idea è nettamente reperibile in Goethe. Secondo il commento di Paola Giacomoni (1998: 206), In natura come nell’arte le diverse forme si danno entro un certo spettro di possibilità, che dal punto di vista delle combinazioni è praticamente infinito, ma che rimane entro l’ambito che il tipo prevede.

Possiamo dire che lo strutturalismo è l’applicazione – sul piano dei tipi o delle forme – del “principio delle possibilità limitate”, principio che è stato fatto valere nell’antropologia culturale della prima metà del Novecento, allorché gli antropologi si trovavano di fronte a “somiglianze sorprendenti” in relazione a prodotti culturali (manufatti, idee, istituzioni sociali) di società molto lontane e diverse sotto il profilo storico e geografico (Remotti 1995: 573-575). Alexander Goldenweiser, a cui dobbiamo la formulazione del principio, lo impiegava soprattutto nel

campo della tecnologia (Goldenweiser 1933). A sua volta, Edward Sapir vi faceva ricorso nel campo della linguistica, nel cui ambito giudicava «un fenomeno importante e affascinante», meritevole della massima attenzione, quello dell’emergere delle somiglianze strutturali tra lingue del tutto estranee e indipendenti (Sapir 1969: 144). Allo stesso modo, George Peter Murdock utilizzava il principio delle possibilità limitate nel campo della struttura sociale, e in particolare dei sistemi di parentela, inserendolo in una prospettiva dichiaratamente strutturalistica (Murdock 1971). Il secondo tipo di risposta che lo strutturalismo fornisce all’emergere delle somiglianze a-storiche si basa sul principio della “trasformazione”. Anche su questo concetto si può risalire a Goethe, come quando, presentando la sua «morfologia», sostiene che essa «deve contenere la teoria della forma, formazione e trasformazione dei corpi organici» (Goethe 1983: 103). Ma qui noi ci rivolgiamo immediatamente a colui che, nella maniera più formale e rigorosa, ha cercato di rispondere alla sollecitazione di una morfologia a-storica, di un sapere che cerca di spiegare le somiglianze facendo ricorso a un contesto di relazioni che nulla hanno a che fare con contatti storici. Nel 1917 lo scozzese D’Arcy Wentworth Thompson pubblica On Growth and Form, un volume di 793 pagine, la cui novità «colpisce come una scossa» (Bonner 1969: VII), e la scossa non è dovuta soltanto alla rivendicazione di un’analisi che fa a meno di ricercare «parentele» e «alberi genealogici di esseri morti ed estinti», secondo il tipico approccio darwiniano, ma soprattutto alla rivendicazione di un’analisi delle forme e trasformazioni in base alla fisica e alla geometria (Thompson 1969: 5). Per Thompson, «non esistono altre forme organiche oltre a quelle che rispettano le leggi fisiche e matematiche» (1969: 14), e sono queste leggi che, imponendo vincoli strutturali alle forme, danno luogo a due conseguenze. La prima è la riduzione della «molteplicità delle configurazioni a pochi modelli generali» (Cislaghi 2008: 225). Anche in Thompson agisce dunque il principio delle possibilità limitate, in quanto «la natura esibisce semplicemente un riflesso delle forme rigorose contemplate dalla geometria»: geometria e fisica insieme determinano «l’esistenza di ostacoli o di freni che limitano e guidano l’azione delle forze di crescita» (Thompson 1969: 193, 309). La seconda conseguenza dei vincoli strutturali è l’esistenza di regole di trasformazione o di transizione

da una forma a un’altra. Non si tratta di tracciare alberi genealogici, bensì di avvalersi del metodo delle coordinate, come appare dai numerosi esempi di passaggio da una forma a un’altra proposti da Thompson. In questa prospettiva strutturale, Thompson si pone alla ricerca di «forme matematicamente simili», le quali possono «appartenere anche a forme biologicamente lontane» (1969: 168-169), persino a regni diversi, come l’organico e l’inorganico. Potremmo dire a questo punto che Thompson ribalta addirittura la gerarchia delle somiglianze darwiniana: se per Darwin erano le omologie (somiglianze dovute a nessi storici) a prevalere sulle analogie, qui al contrario vediamo le analogie prendere il sopravvento e relegare le somiglianze storiche a un ruolo secondario, se non del tutto irrilevante. La «teoria delle trasformazioni», ossia «l’analisi comparata delle forme affini», prevede l’applicazione del metodo delle coordinate cartesiane nel procedere alla «deformazione» delle figure, così da analizzare le modalità di trasformazione: questo procedimento di comparazione, che ci porta al riconoscimento di una forma come dovuta alla variazione o deformazione di un’altra [... coincide con] il metodo delle coordinate su cui si basa la “teoria delle trasformazioni” (Thompson 1969: 293).

Quando è stato chiesto a Claude Lévi-Strauss, il maggiore rappresentante dello strutturalismo in antropologia, da dove provenisse la nozione di “trasformazione”, così fondamentale nella sua antropologia strutturale, la risposta è stata la seguente: Né dai logici né dai linguisti. Proviene da un’opera che ha avuto per me un’importanza decisiva, che lessi durante la guerra, negli Stati Uniti: On Growth and Form, in due volumi, di D’Arcy Wentworth Thompson. L’autore, un naturalista scozzese [...], interpretava come trasformazioni le differenze visibili tra le specie o gli organismi animali o vegetali all’interno di un medesimo genere. Fu un’illuminazione, dato che mi sarei presto reso conto che quel modo di vedere s’inscriveva in una lunga tradizione: dietro Thompson c’era la botanica di Goethe, e dietro Goethe Albrecht Dürer con il suo Trattato della proporzione del corpo umano (Lévi-Strauss e Eribon 1988: 161-162).

Lo stesso Thompson in effetti si riferiva non soltanto alla morfologia di Goethe, ma appunto anche al metodo delle coordinate «pienamente descritto e applicato» dal pittore tedesco Albrecht Dürer (1471-1528), metodo comunemente utilizzato nel XVI e XVII secolo e con molta probabilità di uso ancora più antico (Thompson 1969: 312): un metodo – potremmo aggiungere – facilmente collocabile in un’episteme, che ruotava tutt’attorno al principio delle somiglianze e delle differenze, come abbiamo appreso nel paragrafo 1 di questo capitolo. Che cos’è infatti il metodo delle trasformazioni, ottenute «con piccole

variazioni delle grandezze tra le parti» (Thompson 1969: 312), se non un modo per illuminare con precisione analitica la possibilità delle somiglianze? Dürer, Goethe, Thompson vengono rievocati insieme da Lévi-Strauss nel «Finale» di L’Homme nu, il quarto volume delle Mythologiques, là dove egli, giunto alla fine dell’enorme impresa di analisi delle mitologie sud- e nord-americane, dà luogo a una profonda rimeditazione di un po’ tutto il suo percorso: in maniera esplicita, LéviStrauss si propone come prosecutore della genealogia sopra indicata, ed è per questo che egli espone, quale modello epistemologico, una delle tavole di trasformazioni più significative di D’Arcy Thompson (Lévi-Strauss 1974: 638-640; qui a pagina seguente). Lévi-Strauss però non si limita a evocare i suoi antenati e a collocarsi nella loro linea di discendenza. Egli ci invita a compiere un passo ulteriore, sostenendo che le trasformazioni a cui una forma può dare luogo non si collocano “tra” le strutture; esse stesse sono invece “la” struttura di una qualunque forma o di un qualunque sistema. Questo è senza dubbio il punto più qualificante dello strutturalismo di Lévi-Strauss (Valeri 1970: 352, nota 13), su cui abbiamo già riflettuto (Remotti 1995: 575-577) e su cui però intendiamo tornare, in quanto rappresenta un’acquisizione di grande rilievo in questa nostra riflessione sulla “forza delle somiglianze”. Che cosa sono infatti le trasformazioni? Sono – tanto per cominciare – i rapporti di somiglianze e differenze tra le forme. Interpretare le somiglianze e differenze tra le forme in termini di trasformazione significa non limitarsi a una semplice e statica rilevazione di superficie: significa invece a) stabilire un nesso più intimo e profondo, un passaggio, una comunicazione, e b) capire la ragione profonda di somiglianze e differenze, ovvero come esse siano possibili, come possano avere luogo. Nella lezione inaugurale pronunciata al Collège de France il 5 gennaio 1960, LéviStrauss offre una definizione illuminante di struttura. Certamente, in ogni ambito scientifico non si può considerare struttura «una qualsiasi disposizione [arrangement] di parti qualsiasi» (Lévi-Strauss 1967: 66). Sono due le condizioni che legittimano l’uso del concetto di struttura: in primo luogo, occorre che una determinata disposizione sia «un sistema retto da coesione interna»; in secondo luogo (e questa è la parte più innovativa dello strutturalismo di Lévi-Strauss), occorre che tale coesione, inaccessibile all’osservazione di un sistema isolato, si rivel[i] nello studio delle

trasformazioni, grazie alle quali ritroviamo proprietà similari in sistemi diversi in apparenza.

Per comprendere appieno questo punto, occorre sganciare almeno in parte la nozione di sistema da quella di struttura. Un sistema (disposizione retta da coesione interna) è sempre una realtà locale, osservabile in questo o quel contesto, società o periodo storico. Per cogliere la struttura di un determinato sistema non è però sufficiente studiare e analizzare la sua coesione interna. La struttura infatti coincide non con la coesione interna, bensì con l’insieme delle trasformazioni di cui il sistema fa parte. Fare coincidere struttura e coesione interna del sistema significherebbe “isolare” il sistema, presumendo di poterlo studiare nella sua peculiarità, mentre per Lévi-Strauss (1984: 228) «i sistemi non debbono essere trattati come oggetti isolati». Per capire un sistema, anche nei suoi aspetti peculiari, occorre determinare la sua struttura; ma questa, lungi dall’essere la sua intelaiatura interna, è il fascio di relazioni di somiglianze e differenze che lo strappa dal suo isolamento e lo connette ad altri sistemi dello stesso ordine. Nella conversazione con Didier Eribon, Lévi-Strauss ha avuto modo di ritornare su questo punto, chiarendo come molti errori e confusioni sulla nozione di struttura siano nati dal fatto di non avere compreso che a) «la struttura non si riduce al sistema» e che b) «è impossibile pensare la nozione di struttura separata dalla nozione di trasformazione» (Lévi-Strauss e Eribon 1988: 162). La struttura dunque non è ciò che inchioda un sistema nella sua peculiarità storica, etnografica o geografica; al contrario, è ciò che costringe un sistema a connettersi con tutti gli altri sistemi dello stesso ordine, in virtù delle loro somiglianze e differenze strutturali, e dunque a prescindere dai loro legami storici. Significativamente, a suggellare la sua definizione di struttura in termini di trasformazione, nella lezione inaugurale Lévi-Strauss (1967: 66) aveva fatto ricorso al famoso distico di Goethe: Tutte le forme sono simili, e nessuna è uguale alle altre, Cosicché il loro coro guida verso una legge nascosta5.

La legge nascosta, per Lévi-Strauss, è ovviamente l’insieme di regole che rendono possibile il passaggio da una forma all’altra e che illuminano la peculiarità di un determinato sistema come soluzione adottata all’interno di un novero di possibilità strutturali. In base a questa legge nascosta, le somiglianze e differenze strutturali non risultano più essere né aggiuntive, né aleatorie. Le somiglianze e differenze con gli altri sistemi sono, per così

dire, l’anima strutturale di ogni sistema: sotto il profilo strutturale, un sistema è l’insieme delle somiglianze e delle differenze rispetto agli altri sistemi del suo ordine. Come è noto agli antropologi, Lévi-Strauss ha applicato questa sua concezione della struttura/trasformazione soprattutto in due campi: quello della parentela e dei sistemi matrimoniali e quello dei miti dell’America indigena. Se si esamina il modo di procedere di Lévi-Strauss in questi campi, è però facile vedere cosa significhi fascio di relazioni di somiglianze e differenze “strutturali”, cioè le somiglianze e differenze in cui consiste la “struttura”. Anche per Lévi-Strauss non tutte le somiglianze/differenze sono uguali, e tanto meno sono equivalenti. Come nel caso di Darwin, assistiamo pure qui a un forte procedimento selettivo: se per Darwin si trattava di scegliere somiglianze e differenze “storiche”, segni e prodotti di legami di discendenza e di parentela comune tra le forme viventi, per LéviStrauss si tratta di selezionare relazioni formali, astratte, logiche, depurate per quanto possibile dai significati locali, storici, contingenti. Questo «cammino verso l’astrazione», come lo definisce lo stesso Lévi-Strauss (1970: 516), non significa affatto ignorare le condizioni culturali e storiche dei contesti considerati: significa attraversare gli ambienti culturali e persino naturali con tutte le loro particolarità locali, cercando di raggiungere però un sufficiente livello di astrazione, quello che consente di cogliere infine le somiglianze strutturali. Come si può dimostrare analizzando l’atomo di parentela, su cui Lévi-Strauss si era concentrato all’inizio del suo percorso, o le stesse strutture elementari della parentela, lo strutturalismo di Lévi-Strauss richiede, per operare, l’istituzione di un campo limitato di possibilità (Remotti 2013d). Significativamente, anche La Pensée sauvage si conclude con l’affermazione secondo cui «l’intero processo della conoscenza umana assume [...] il carattere d’un sistema chiuso» (Lévi-Strauss 1964b: 290). Ma quando, come nel caso emblematico delle strutture complesse della parentela, così come della famiglia, Lévi-Strauss non riesce a delimitare formalmente il campo delle possibilità strutturali, il suo strutturalismo si arresta e incespica, manifestando così quanto possa essere alto il prezzo delle sue scelte epistemologiche (Remotti 2013d). Siamo arrivati fin qui per sostenere che allora la ricerca delle somiglianze/differenze astoriche è da abbandonare? In due occasioni chi

scrive ha avuto modo di fare vedere come Ludwig Wittgenstein, con la sua teoria delle “somiglianze di famiglia”, sia il filosofo che maggiormente può venire in soccorso agli antropologi (Remotti 2009: cap. V; 2013d). Ernest Gellner aveva messo in luce una certa affinità tra lo strutturalismo e le somiglianze di famiglia di Wittgenstein (Gellner 1985: 138). E – guarda caso – non soltanto Lévi-Strauss si rifà a Goethe, ma molti aspetti del pensiero di Wittgenstein sono riconducibili al poeta tedesco (Cislaghi 2008: passim). Insomma, c’è “aria di famiglia” tra Wittgenstein (18891951) e Lévi-Strauss (1908-2009), anche se – a quanto ci risulta – quest’ultimo non ha mai fatto riferimento al filosofo austriaco. Ma veniamo subito alla questione che ci interessa. In che senso e in che modo Wittgenstein può venire in soccorso a un’antropologia che intenda praticare la ricerca delle somiglianze/differenze anche a prescindere dai nessi storici? Un’antropologia però che voglia evitare di cadere nei due esiti problematici dello strutturalismo di Lévi-Strauss: un’astrazione molto spinta, che riduce le somiglianze e differenze a strutture filiformi, prive in gran parte del peso semantico dei contesti culturali, e l’idea del sistema chiuso, di un numero di possibilità rischiosamente limitate. Partiamo dal punto di sovrapposizione tra lo strutturalismo di LéviStrauss e le somiglianze di famiglia di Wittgenstein: l’uno e l’altro condividono il principio che, se vogliamo definire un concetto (per esempio, gioco) o un sistema (di parentela, una famiglia, un mito), non esiste un nucleo sostanziale da ricercare; al posto del nucleo vi è un fascio di somiglianze e differenze. Vuoi dare una definizione di gioco? Ebbene, per Wittgenstein non si tratta di scovare ciò che vi è di comune tra tutti i giochi, un quid sostanziale che definirebbe l’identità del gioco: se osservi i vari giochi, «non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti», un «qualcosa in base al quale impieghiamo per tutti la stessa parola», un qualcosa che decide automaticamente se una cosa è un gioco oppure no (Wittgenstein 1980: 46). Infatti, «se li osservi», vedrai «che sono imparentati l’uno con l’altro in molti modi differenti»: «vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tutta una serie». Ebbene, non la sostanza, l’identità, bensì «queste parentele», queste somiglianze, ci inducono a chiamare tutti quei fenomeni “giochi”. Le somiglianze si avvinghiano – come sappiamo – alle differenze, e questo fa sì che, se disponiamo in fila una quantità di giochi (o, per un

antropologo, per esempio, di famiglie), non vedremo le somiglianze percorrere uniformemente tutta la serie: a causa delle differenze, noteremo «somiglianze emergere e sparire» (1980: 47). Somiglianze – aggiunge Wittgenstein – «in grande e in piccolo», di vari tipi. Affiora, a questo punto, il tema del “groviglio” delle somiglianze: quasi una minaccia, il rischio cioè di non raccapezzarsi nella “selva” delle somiglianze e delle differenze. Wittgenstein ha ben chiara l’idea della complessità, e del rischio che essa comporta: un rischio che è presente all’antropologo, allorché – privo del quid sostanziale che dovrebbe “definire” per esempio la famiglia – rischia di perdersi nella molteplicità ed eterogeneità dei casi che l’etnografia o l’etnologia gli sottopongono. Ma proprio qui Wittgenstein comincia a offrirci un appiglio a cui aggrapparci. Qual è il risultato di questo continuo «emergere e sparire» di somiglianze? «Vediamo una rete complicata di somiglianze [complicated network of similarities] che si sovrappongono e si incrociano a vicenda». Non un groviglio: una rete. A questo punto non si può non evocare l’attività di chi trasforma un groviglio in una rete. Wittgenstein non accenna all’operazione preliminare che consente di passare dal groviglio alla rete, ossia lo sfrondamento e la selezione di somiglianze. Subito dopo ci fa però capire come siamo “noi” – membri di una società, oppure scienziati, filosofi – che «estendiamo il nostro concetto di [...]» gioco, di numero, o di famiglia, facendo leva sulle somiglianze e sulle differenze: «somiglianze di famiglia», in quanto si comportano come le «somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia», somiglianze cioè che «si sovrappongono e si incrociano» (1980: 47). Ma perché estendere un concetto? Talvolta succede, per esempio, che i membri di una società debbano decidere se il loro concetto di famiglia possa essere esteso fino a comprendere le unioni omosessuali oppure se debba arrestarsi prima di questa possibilità, proclamando – come avviene nel nostro paese – che no, questo tipo di unioni non può entrare nel “nostro” concetto di famiglia (Remotti 2016b). È innegabile che le unioni omosessuali presentino numerose somiglianze con la famiglia eterosessuale. Ciò che Wittgenstein ci fa capire è che, in ogni contesto (sociale o scientifico che sia), si procede a una “definizione” dei nostri concetti: «Che cosa è ancora un gioco e che cosa non lo è più?» (Wittgenstein 1980: 48). Ovvero, che cosa è “per noi” famiglia e che cosa non lo è più? Wittgenstein pone un problema fondamentale, che riguarda

tutti i concetti che noi usiamo nelle nostre pratiche sociali, tanto quanto nelle nostre procedure scientifiche: «In che modo si delimita il concetto di gioco?»; in che modo si delimita il concetto di famiglia o qualsiasi altro concetto? Wittgenstein risponde in maniera molto netta, precisa: noi delimitiamo i nostri concetti non già “indicando i confini”, ma “tracciandoli”, e tracciare i confini significa “tagliare” o negare le somiglianze, decidendo per esempio che le somiglianze tra le famiglie eterosessuali e le unioni omosessuali non siano tali da poter estendere il nostro concetto di famiglia fino a comprendere questo tipo di unione. E l’antropologo? Wittgenstein non ne parla esplicitamente, ma dalle sue riflessioni possiamo ricavare spunti molto importanti. L’antropologo è per vocazione portato a “estendere” i suoi concetti (i concetti che ricava dalla società in cui vive, che prende a prestito da altre società o che egli stesso si fabbrica). Ebbene, perché estendere e che cosa significa estendere? L’antropologo è tenuto a estendere i suoi concetti ogni qualvolta si imbatte in esperienze sociali nuove: società non ancora sufficientemente studiate sotto un determinato profilo o società che innovano in maniera più o meno autonoma. Per esempio, la società in cui viviamo, grazie alle biotecnologie relative a modalità di concepimento e di gestazione, è in grado di dare luogo a forme di genitorialità nuove e quindi a nuove, potenziali forme di famiglia. Si tratta dunque di decidere – come abbiamo visto – se estendere o meno il concetto di famiglia, così da comprendere le nuove situazioni. Wittgenstein ci dice come si fa ad estendere: non si tratta infatti di una semplice dilatazione meccanica del concetto e quindi dell’inclusione, in modo più o meno acritico, dei nuovi tipi di esperienze (una sorta di ammucchiata, un semplice mettere insieme). Si tratta di qualcosa di molto più raffinato. Infatti, noi estendiamo il nostro concetto di numero [o di famiglia, per esempio], così come, nel tessere un filo, intrecciamo fibra con fibra. E la robustezza del filo [strength of the thread] non è data dal fatto che una fibra corre per tutta la sua lunghezza, ma dal sovrapporsi di molte fibre l’una all’altra (Wittgenstein 1980: 47).

La robustezza del filo, la “forza” delle somiglianze, dipende dall’intreccio. È dunque assolutamente importante l’idea dell’“intrecciare”, del “tessere”, che poi corrisponde alla “rete” delle somiglianze, di cui si è parlato prima. Si tratta infatti dell’operazione opposta e complementare a quella della delimitazione (definizione) dei concetti: se per definire, ovvero tracciare i confini dei concetti, si procede al “taglio” (e alla negazione)

delle somiglianze con fenomeni attigui, per dilatare i concetti si impiegano le somiglianze, che come fibre vengono intrecciate tra loro, così da rendere robusto il filo. E beninteso non si tratta (di solito) di un’unica somiglianza, di un’unica fibra, ma di diverse somiglianze che, pur di diversa lunghezza, si vanno a intrecciare tra loro. Il taglio (separazione, scarto) è certamente inevitabile nella selezione delle somiglianze; ma l’intrecciare somiglianze e differenze è assolutamente fondamentale per riuscire a costruire quelle reti di complicate somiglianze che – a parere di chi scrive – sono l’immagine più appropriata per illustrare la struttura del sapere antropologico: una struttura fatta di «reti di connessioni tra fenomeni simili e diversi nello stesso tempo» (Remotti 2009: 203). Per un approfondimento più sistematico di questa tesi rimandiamo al testo ora citato (2009: cap. V). Qui ci basti dire che, rispetto ai “gruppi trasformazione” di Lévi-Strauss, in cui le somiglianze paiono ridursi a esili «fili d’argento» (Remotti 1995: 582) e l’intero orizzonte si chiude attorno a un grappolo di possibilità limitate, le reti di somiglianze e differenze concepite da Wittgenstein si presentano per lo più come ambiti aperti: aperti a innovazioni sociali, a nuove scoperte, a nuove interpretazioni di fenomeni già individuati e studiati. È certamente un vantaggio epistemologico di non poco conto usare un concetto antropologico (come, per esempio, famiglia), in modo che la sua «estensione non sia racchiusa da alcun confine», anziché considerarlo chiuso in «rigidi confini»: «un concetto rigidamente limitato» è intrinsecamente fragile, esposto com’è alle continue novità dell’esperienza (Wittgenstein 1980: 47-48). Si tratta di intrecciare le nuove esperienze (per esempio di famiglia) con i contenuti precedentemente depositati nei nostri concetti, sottoponendo così a un continuo lavorio di aggiornamento le reti già collaudate. Rispetto alle ambizioni di completezza e di chiusura, che hanno portato Lévi-Strauss alle aporie del suo strutturalismo, qui il sapere antropologico, ispirato alle somiglianze di famiglia di Wittgenstein, si presenta come invariabilmente incompleto e imperfetto, a tal punto da designare in termini di «imperfezionamento [...] il destino e la fortuna dell’antropologia» (Remotti 2013d: 89). Nella prospettiva delle somiglianze wittgensteiniane incompletezza e imperfezione divengono addirittura pregi, caratteristiche irrinunciabili del sapere antropologico, e ciò proprio in quanto imperfezione e incompletezza sono caratteristiche

precipue delle somiglianze e differenze, su cui questo sapere si regge. Ripetiamo quanto già affermato alla fine del paragrafo 5: «La forza delle somiglianze consiste esattamente nella loro imperfezione». Spesso i concetti antropologici presentano infatti «contorni sfumati» e Wittgenstein (1980: 49) si chiede se «spesso» non sia «proprio l’immagine sfocata ciò di cui abbiamo bisogno». Vediamo infatti come, secondo Wittgenstein, potremmo «spiegare a qualcuno che cos’è un gioco», una modalità che ben si addice alla strategia dell’antropologo: Io credo che gli descriveremmo alcuni giuochi [nel nostro esempio, alcune famiglie], e poi potremmo aggiungere: «questa, e simili cose, si chiamano “giuochi” [famiglie]» (1980: 48).

Non si tratta di sciatteria epistemologica. Esibire somiglianze (questa e simili cose) è una premessa indispensabile per poi procedere a confezionare reti di connessione, dove i tipi di famiglie possono trovare la loro collocazione negli intrecci di somiglianze e differenze, dove addirittura si sarebbe in grado di far «vedere» – si pensi al contesto italiano, di questi tempi – «come sia possibile costruire per analogia ogni sorta di altri giuochi [famiglie] possibili» (1980: 51). Anche considerando questi sviluppi, viene fatto di pensare che la proposta di Wittgenstein non ci esime affatto dall’utilizzare le somiglianze astoriche, conferendo anzi a questo tipo di somiglianze – come nel caso di Lévi-Strauss – un ruolo epistemologico indispensabile in campo antropologico. Rispetto a Lévi-Strauss e alla rigidità delle sue connessioni un po’ troppo sottili, le somiglianze di Wittgenstein rappresentano un guadagno in due sensi: esse si dispiegano “a rete” in una molteplicità di direzioni ben maggiore e, nello stesso tempo, esenti come sono dagli effetti di formalizzazione dello strutturalismo, si impregnano più facilmente di contenuti specifici dei contesti culturali in cui di volta in volta si manifestano. Anche così, ossia con questa capacità di condurci dai laboratori asettici di Lévi-Strauss alle culture en plein air, dalle forme astratte alle “forme di vita” dell’antropologia appena abbozzata da Wittgenstein (1980: 117), le somiglianze manifestano ancor più quella “forza”, persistenza, resilienza, ossia quel valore epistemologico, di cui siamo andati alla ricerca. 9. Un pullulare continuo di analogie Si direbbe che per Wittgenstein tanto nel pensiero colto (filosofia,

scienza), quanto nella vita quotidiana, noi abbiamo sempre a che fare con i grovigli delle somiglianze. Se siamo minimamente bravi (e non possiamo che esserlo un po’, per sopravvivere), trasformiamo i grovigli in reti, grazie a un paziente e più o meno abile lavoro artigianale di intreccio e di tessitura. Abbiamo visto prima che estendere i concetti è un compito al quale siamo sempre chiamati dall’esperienza in cui viviamo (ce lo diceva anche Hume, come forse si ricorderà [§§ 3-4]). Ma abbiamo pure visto che estendere i concetti implica appunto l’intreccio, non un semplice spostamento meccanico dei confini dei concetti e neanche un mettere insieme i fenomeni nuovi con quelli vecchi dentro “scatole” già predisposte. Di questa opinione sono Douglas Hofstadter e Emmanuel Sander. Abbiamo posto alla fine di questo lungo capitolo la discussione del loro libro così da offrire un ultimo decisivo contributo alla tesi secondo cui le somiglianze sono assai più di un semplice e triste “mormorio”: il pensiero che le tratta – l’analogia – non è qualcosa di pre-moderno e di marginale; per Hofstadter e Sander – come si legge nel sottotitolo del loro libro (2015) – l’analogia è il «cuore pulsante del pensiero umano», da quello infantile a quello più raffinato e scientifico. Se Foucault ha avuto il merito di farci intravedere la forza nascosta delle somiglianze, anche quando esse vengono negate e schiacciate dagli sviluppi del pensiero moderno, per Hofstadter e Sander esse non si riducono affatto a un mormorio sordo e persistente: non si tratta infatti soltanto di resilienza; l’analogia è il funzionamento del pensiero umano quale si esplica nella vita di tutti i giorni, nella vita sociale, così come nel lavoro scientifico. Se per Foucault le somiglianze si trovano ai margini dell’episteme moderna, per Hofstadter e Sander esse sono al centro di qualunque forma di pensiero: il loro libro, uscito nell’edizione americana e in quella francese nel 2013, vuole essere una dimostrazione e una richiesta di riconoscimento di questa centralità. In questo nostro capitolo abbiamo visto però che in piena epoca moderna David Hume aveva già descritto la mente umana come tutta intessuta di somiglianze (§ 3), e ora, prima di introdurre le tesi di Hofstadter e Sander, ci sia consentito dare la parola a un altro, più modesto, filosofo del XVIII secolo, il quale compone un vero e proprio elogio della somiglianza, e non certo per collocarla – come sembrerebbe a Foucault – «all’orlo esterno del sapere», svilirla a «forma appena tracciata», a

«rudimento di relazione» condannata a rimanere indefinitamente «al di sotto della conoscenza» (Foucault 1996: 84). Il filosofo, sulle cui orme ci ha posto lo stesso Foucault, è Johann Bernhard Merian (1723-1807), bibliotecario e poi direttore della classe di filologia dell’Accademia delle Scienze di Berlino, il quale nel 1761, dunque qualche decennio dopo i testi di Hume, così inizia il suo breve scritto sulla somiglianza: Se la somiglianza non è l’unico legame di tutte le nostre conoscenze, tra tutti i rapporti esso è quanto meno quello a cui siamo più debitori (Merian 1761: 1).

Certo, analogie, confronti, somiglianze pullulano nel linguaggio poetico, e la filosofia spesso dimostra di disprezzare lo stile figurato di oratori e di poeti, a tutto vantaggio della precisione analitica del linguaggio dei concetti. Ma «che il filosofo si picchi pure di precisione quanto vorrà»; egli non sarà mai in grado – sostiene Merian – di «compiere un solo passo nella sua carriera senza l’aiuto della somiglianza» (1761: 3). E questo perché «l’analogia», ossia ciò che ci porta a concludere «da una somiglianza all’altra», è «l’anima dei nostri ragionamenti e il veicolo di tutte le nostre conoscenze reali» (1761: 4). Non seguiremo Merian nella sua visione teologica, secondo cui il mondo è tutto costruito da «somiglianze perfette», in alternativa al «caos» che sarebbe prodotto invece dalle «dissomiglianze assolute» (1761: 48). La concezione che abbiamo sostenuto in questo capitolo, avvalendoci delle riflessioni di Hume, è che, invece, è proprio delle somiglianze essere imperfette (§ 5). E l’imperfezione – questo essere sempre questione di più e di meno – è ciò che determina la vitalità, il dinamismo, la forza, nonché il carattere di resilienza, delle somiglianze. Hofstadter e Sander – come del resto lo stesso Merian – sono ben consapevoli del discredito lanciato sulle analogie, e in genere sul pensiero che si avvale delle somiglianze: soprattutto – essi sostengono – a partire da Platone e Aristotele, attorno all’analogia aleggia «un aroma vagamente sospetto», venendo costantemente rimproverata di «inattendibilità», di «tirare a indovinare», di non curarsi delle «gravi trappole» in cui per sua colpa si rimane impigliati (Hofstadter e Sander 2015: 22). Contro questa sdegnosa marginalizzazione dell’analogia, Hofstadter e Sander fanno valere ciò che essi considerano «la tesi centrale» del loro libro, ossia che «la scoperta di analogie pervade ogni momento del nostro pensare»: infatti, le analogie non sono eventi che succedono ogni tanto, come potrebbe essere «una volta a settimana o una volta al giorno o una volta all’ora o magari una

volta al minuto»; «no, le analogie zampillano nelle nostre menti più volte, ogni secondo» (2015: 18). Grande merito di Hofstadter e Sander è quello di scendere «da qualche parte sotto la soglia» della coscienza, così da farci vedere l’incessante zampillio delle analogie in tutti i microeventi di cui la nostra vita è intessuta (2015: 18). Questa intuizione ci porta ad essere molto vicini «al cuore di ciò che significa essere umani»: più precisamente, «il diluvio di analogie che dilaga nei nostri cervelli in ogni momento è parte integrante della condizione umana» (2015: 19; 167). Si è umani proprio perché ad ogni istante scoviamo e cogliamo somiglianze in ogni dove e in ogni modo: la ricerca delle somiglianze definisce uno degli aspetti più peculiari e fondamentali dell’umanità. Per Hofstadter e Sander, le analogie sono un fattore decisivo per la stessa sopravvivenza degli esseri umani. E tuttavia, la prima cosa che occorre rilevare è che il più delle volte esse «nascono nella nostra mente senza che ne siamo minimamente consapevoli» (2015: 277). Non solo, ma le infinite analogie che invadono la nostra mente spesso «non conducono da nessuna parte»: la maggior parte di esse non sono «né profonde né illuminanti», sono anzi perfettamente inutili (2015: 305). Del tutto inutile è, per esempio, il collegamento che balena nella mente di H., un signore (senza alcun dubbio Hofstadter) che, tornando a casa in macchina dopo avere partecipato alla festa dei “sessanta” anni di un amico, non può fare a meno di essere colpito dalla cifra “60” ogni volta che essa compare sul tachimetro digitale della sua auto: «l’idea del sessanta, attivata nella testa di H., silenziosamente in agguato nelle profondità del suo cervello, era avida di analoghi». Analogie minuscole, spontanee, effimere, «evanescenti», condannate a «essere dimenticate pochi istanti dopo essere nate», sorgono di continuo nella nostra mente. Quale può essere il loro significato? Inoltre, perché occuparsene? Ebbene, proprio la loro inutilità, insieme al loro continuo ribollire, assume agli occhi di Hofstadter e Sander un netto significato antropologico: la fatuità, la gratuità e la vacuità dell’analogia che collega i due “60” mostrano in modo ancora più chiaro quanto profondamente l’analogia pervada il pensiero umano; la ricerca di somiglianze tra diverse situazioni è così profondamente connaturata al pensiero che la nostra mente subconscia produce analogie banali e insignificanti senza la benché minima ragione e in modo del tutto inaspettato (2015: 305).

Hofstadter e Sander ci vogliono dire che cogliere somiglianze è un’operazione importante e decisiva per la cognizione e per l’esistenza

umana, a tal punto che la produzione di analogie ha un significato e un valore intrinseci, di per sé, prima ancora che si possa decidere il valore e il significato delle singole analogie. Sarà poi l’esperienza a valutare quali di queste analogie valga la pena trattenere. Ma in tanto la mente umana sforna analogie, in quanto noi siamo portati a notare «in continuazione attorno a noi somiglianze strane e casuali» (2015: 307). In tutto questo ribollire di somiglianze, la maggior parte delle quali sprofonderà «nel vasto oceano della memoria» e si perderà «per sempre», è lecito pensare che prima o poi spunterà «una qualche visione illuminante della realtà», un’analogia che ci farà da guida nel mondo complesso e problematico in cui siamo costretti a vivere. Per Hofstadter e Sander ci sono tante «fatiche sprecate» in questo lavorio incessante della mente umana. I nostri autori non evocano Protagora, ma è come se lo facessero, quando affermano che un’analogia può «essere di fatto stabilita tra ogni cosa e ogni altra cosa», in quanto le «somiglianze si possono annidare praticamente ovunque» (2015: 326). Come si ricorderà, Platone aveva colto molto bene il carattere viscido e dunque pericoloso delle somiglianze (cap. IV, § 7). Per Hofstadter e Sander, collocati su posizioni anti-platoniche, l’incredibile fluidità della nozione di somiglianza permette alle persone di uscirsene con associazioni tra entità che a priori sembrerebbero totalmente scollegate, per la sola ragione che andare a caccia di somiglianze in preda a un’ossessione porta sempre a trovare un qualche risultato (2015: 327).

Lo spreco delle analogie è dunque «il prezzo che paghiamo» per ottenere, prima o poi, analogie sensate, dotate di una qualche utilità (2015: 307). In che cosa consiste l’utilità delle analogie? Rispondere a questa domanda significa indicare in quale direzione esse si muovono. Hofstadter e Sander così si esprimono: A cosa diavolo potrà mai servire questa ininterrotta pioggia di analogie? Il diluvio che dilaga nei nostri cervelli in ogni momento è parte integrante della condizione umana, e il motivo per cui vengono prodotte è che la loro presenza ci aiuta a puntare il dito sull’essenza delle situazioni con cui ci confrontiamo per la prima volta. La nostra compulsione insaziabile a fare confronti tra il nuovo di zecca e il già visto è un prerequisito necessario per restare a galla in un mondo così complesso e imprevedibile (2015: 167).

Nel libro che stiamo esaminando non vi è alcun rimando a David Hume. Ma la teoria della funzionalità della ricerca delle somiglianze, qui esposta, coincide praticamente con la teoria del filosofo scozzese. Dal passato (dal «già visto») guardiamo al presente (il «nuovo di zecca») o al

futuro: le analogie con il passato sono la bussola con cui cerchiamo di orientarci in un mondo caratterizzato da una insopprimibile complessità e imprevedibilità. Per fortuna in ogni angolo, in ogni piega di questo mondo possono essere trovate un’infinità di somiglianze e per fortuna il nostro cervello produce in continuazione analogie «come sottoprodotto automatico dei nostri meccanismi cognitivi» (2015: 305). Poter stabilire delle somiglianze con ciò che abbiamo già vissuto e sperimentato ci consente di inoltrarci con ragionevole sicurezza nel futuro che di continuo ci viene incontro. Volendo schematizzare un po’, potremmo forse sostenere che per Hofstadter e Sander ci sono diversi livelli di filtraggio, dunque di riduzione e di selezione. In primo luogo, il mondo, nella sua complessità, presenta un’infinità incredibile di «stimoli, da cui siamo costantemente bombardati» (2015: 323). Con la produzione naturale e spontanea di analogie, è come se noi cominciassimo a stabilire, anche a livello inconscio, certi collegamenti. Come affermano i due autori, «se i nostri cervelli provassero a prestare attenzione in eguale misura a tutto quello che ci sta intorno, annegheremmo nella confusione». Abbiamo visto però che per Hofstadter e Sander nella mente umana si verifica una sovrabbondanza di analogie. E dunque anche a questo secondo livello è in opera un «processo di filtraggio». Non solo gli stimoli, ma anche le analogie subiscono una riduzione, uno scarto inevitabile. Sono infatti migliaia le piccole analogie, le quali «ogni giorno emergono abitualmente come sottoprodotti della nostra continua e frenetica ricerca di un senso» (2015: 309). Non possiamo farci sommergere dagli stimoli che ci bombardano dall’esterno; ma neppure possiamo annegare nel mare di analogie che zampillano di continuo all’interno della nostra mente. Ci deve essere un filtraggio verso gli stimoli e ci deve essere un filtraggio nei confronti delle analogie. «Non appena si presentano, inconsciamente le scartiamo in quanto non interessanti o irrilevanti e le stronchiamo sul nascere, rifiutate ancora prima di essere notate». Quali sono allora le analogie che vengono trattenute? Quelle che svelano la capacità di dare un qualche senso all’esperienza. La risposta a questa domanda richiede però che si tiri in ballo l’altro concetto a cui ricorrono costantemente Hofstadter e Sander, e che fa coppia con quello di analogia: il concetto di categoria. «Per noi» – essi affermano – «una categoria è una struttura mentale creata nel corso del tempo» (2015: 14).

Potremmo aggiungere che le categorie sono strutture mentali con cui si introduce un po’ di ordine nella complessità del mondo: un certo ordine, un qualche orientamento, una sufficiente stabilità e prevedibilità delle cose. Una categoria infatti mette insieme, «riunisce molti fenomeni», in una maniera che si rivela vantaggiosa, così da pensare di poter comprendere e persino prevedere e anticipare eventi e situazioni (2015: 15). Grazie alla categoria “bicchiere” (oggetto di vetro che se cade a terra probabilmente si romperà), per esempio, afferro al volo il bicchiere che la coda del mio cane ha appena urtato facendolo ruzzolare giù dal tavolo. Un esempio banale come questo è sufficiente per farci comprendere le seguenti affermazioni di Hofstadter e Sander: La categorizzazione [...] aiuta a trarre conclusioni e a fare supposizioni su come una situazione probabilmente evolverà. In breve, un’ininterrotta categorizzazione è tanto indispensabile alla sopravvivenza nel mondo quanto lo è l’ininterrotto battito del cuore. Senza l’incessante pulsare del nostro “motore categorizzante”, non comprenderemmo nulla di ciò che ci sta intorno, non potremmo dar forma al benché minimo ragionamento, non potremmo comunicare con nessun altro e non avremmo alcuna base su cui eseguire una qualunque azione (2015: 15).

Tuttavia, occorre subito chiarire quella che è un’altra importante tesi di fondo del libro di Hofstadter e Sander, ossia che, se è vero che la «categorizzazione» – la costruzione di categorie – «è un aspetto centrale del pensiero», il meccanismo che la istituisce è pur sempre «l’analogia» (2015: 15). Gli autori ci pongono in guardia dall’intendere le categorie come se fossero «scatole» e dunque dal concepire la categorizzazione secondo il senso comune, ossia come un «collocare» oggetti, entità, eventi «all’interno di categorie mentali preesistenti nettamente definite» (2015: 14). Categorizzare non consiste in un mettere dentro a un contenitore: significa invece «collegare», proprio come fanno le analogie, e per giunta si tratta di un collegare in «modo sfumato» e provvisorio. Rifacendosi alle più recenti ricerche psicologiche, Hofstadter e Sander affermano inoltre che «la categorizzazione è soggettiva, incerta e indistinta tanto quanto la creazione di analogie» (2015: 469). Del tutto errata e fallace è dunque l’idea che separa nettamente le due operazioni, come se fossero «due tipi di processi mentali» qualitativamente distinti: da una parte «la categorizzazione, un algoritmo esatto e rigoroso», che sistemerebbe le cose in «scatole appropriate», in contenitori concettuali dai confini netti e precisi; dall’altra il «fare analogie», ossia «una tecnica

soggettiva e soggetta a errori per escogitare ponti fantasiosi e inaffidabili» (2015: 469). Le categorie vengono istituite dalle analogie, così come vengono estese e di continuo modificate da altre analogie: ogni categoria [...] è il risultato di una lunga serie di analogie spontanee; e la categorizzazione degli elementi in una situazione ha luogo esclusivamente attraverso analogie (2015: 41).

Se interpretiamo bene il pensiero di Hofstadter e Sander, le analogie sono il fattore dinamico e formativo delle categorie, mentre le categorie, che – non dimentichiamo – conferiscono pur sempre un qualche orientamento alle cose, sono il risultato senza dubbio provvisorio e temporaneo, e che tuttavia tende a una certa stabilizzazione delle cose. Le categorie mettono insieme le cose in maniera selettiva, fino a che nuove analogie non provocano un’estensione o una modifica dell’assetto categoriale precedente. Nella visione di Hofstadter e Sander questa «categorizzazione tramite la creazione di analogie» prende il posto di ciò che a lungo si è pensato essere il cuore del pensiero umano, vale a dire procedere a una «classificazione», il cui scopo sarebbe quello di «mettere tutte le cose in scatole mentali stabili e rigide» (2015: 20). Rispetto al procedimento classificatorio, che imprigionerebbe la mente in un numero definito di categorie, la categorizzazione per analogie ha il vantaggio di dotare il pensiero umano di una «straordinaria flessibilità»: una flessibilità che consente di affrontare «sempre nuove situazioni», di riconoscere i vicoli ciechi in cui potremmo incappare sulla base di categorie inappropriate, di arricchire ed espandere «il nostro repertorio condiviso di categorie» (2015: 20, 275). «Noi umani» – dicono ancora Hofstadter e Sander – «costruiamo categorie, le estendiamo, le moltiplichiamo, le colleghiamo tra loro, e ci destreggiamo con grazia tra l’una e l’altra» (2015: 273). Questa «speciale capacità» di categorizzare per analogie «distingue gli umani dagli (altri) animali». Infine, questa flessibilità tipicamente umana è ciò che «permette di distinguere l’Homo sapiens sapiens da uno yorkshire» (2015: 275). 10. Non solo le analogie: modi diversi di trattare il SoDif Giungere alla fine di questo capitolo con questa poderosa e magniloquente tesi, secondo cui la ricerca delle somiglianze è ciò che maggiormente contraddistingue l’essere umano, è senza alcun dubbio oltremodo gratificante. Eppure c’è qualcosa che non torna del tutto. Se

quanto sopra detto è vero, perché mai tanto a lungo non vi è stato il riconoscimento di questa verità? Come mai si è dovuta attendere la scoperta di Hofstadter e Sander per «dare all’analogia ciò che le spetta» (2015: 3)? Come mai tanto a lungo si è pensato erroneamente che compito e natura del pensiero umano siano quelli di inscatolare le cose entro categorie predefinite? Come mai non solo persone comuni, ma illustri scienziati e filosofi, anzi intere tradizioni di pensiero, si sono incaponiti nella rozza e «illusoria» separazione tra la classificazione e l’analogia (2015: 470)? La risposta dei nostri autori lascia molto a desiderare. Essi ritengono di potere spiegare «perché così tante persone hanno così tanta difficoltà» ad accettare l’idea che l’analogia sia il cuore del pensiero umano e che l’attività di categorizzazione avvenga grazie alle analogie: il motivo di ciò (a riprova che l’analogia è dappertutto ed è tutto) è che queste «così tante persone» sono vittime di «un’analogia ingenua», cioè di quell’analogia secondo cui «le categorie sono scatole e categorizzare è mettere degli oggetti in queste scatole» (2015: 468). Tutto è analogia, quindi anche l’errore che impedisce di riconoscere l’importanza delle analogie cade sotto il suo dominio. Ma in questo modo Hofstadter e Sander non fanno altro che spostare il problema: visto che non si tratta dell’errore di qualche scolaretto, ma di un modo di vedere storicamente consistente, filosoficamente impegnativo e culturalmente incisivo (si pensi alla «guerra contro le somiglianze» del cap. IV), occorrerebbe sondare di più l’origine di questo errore e di questa illusione, se così vogliamo chiamarli. Ciò che abbiamo argomentato in questo capitolo e anche nei capitoli precedenti ci può aiutare a mettere maggiormente a fuoco la questione. Forse non è irrilevante il fatto che in questo nostro lavoro abbiamo voluto occuparci in primo luogo delle somiglianze, per poi arrivare a cogliere – avvalendoci proprio delle ricerche di Hofstadter e Sander – il ruolo assolutamente fondamentale dell’analogia. Occupandoci prima delle somiglianze e poi del modo (o meglio, dei modi) con cui esse possono venire trattate, siamo stati indotti a concentrarci sulla loro struttura (cap. III), e questa – in estrema sintesi – è data dalla combinazione inscindibile di somiglianza e differenza: ciò che abbiamo voluto chiamare SoDif. A noi sembra che puntare subito e tutto sull’analogia – come invece hanno fatto Hofstadter e Sander – abbia finito con l’assolutizzare questo modo di

procedere, come se l’unico modo di trattare le somiglianze fosse appunto l’analogia: essi parlano infatti di «ubiquità» e di «uniformità» del meccanismo dell’analogia e vedono un continuum ininterrotto tra le analogie più stupide e inutili della vita quotidiana e quelle che sostanziano le attività intellettuali più elevate e raffinate, artistiche o scientifiche che siano (2015: 19)6. In questi autori, l’assoluta centralità dell’analogia per un verso assorbe l’idea di somiglianza, mettendo da parte l’altra faccia, quella della differenza, e per l’altro verso induce a considerare come unica valida e autentica categorizzazione quella che avviene tramite le analogie. Ebbene, pur riconoscendo la strabiliante ricchezza di stimoli, idee, scoperte e intuizioni del lavoro di Hofstadter e Sander, ciò che qui vogliamo proporre è un duplice distanziamento: a) distanziare un po’ di più tra loro il piano delle somiglianze e quello delle analogie; b) distanziare in misura altrettanto ragionevole le analogie e i procedimenti di categorizzazione. Sfruttando questi distanziamenti, si viene infatti a comprendere, insieme all’abbinamento inscindibile tra somiglianze e differenze (SoDif), la molteplicità di modi in cui il SoDif può essere manipolato. Tra questi modi, l’analogia riveste certamente un’enorme importanza; ma occorre anche riconoscere – come ci aveva insegnato Melandri (2012) – la concorrenza che essa può subire da parte di altri modi di procedere e di manipolare il SoDif. Hofstadter e Sander dedicano pagine illuminanti al potere manipolativo che le analogie esercitano sulla mente degli esseri umani (cap. 5: «Come le analogie ci manipolano») e dedicano pagine altrettanto significative alle modalità con cui «noi manipoliamo le analogie» (cap. 6): Noi umani non siamo perciò sempre e solo i burattini, ma anche a volte i burattinai, e come tali costruiamo o scegliamo di proposito l’una o l’altra analogia (2015: 414).

Il fatto è, però, che la relativa libertà di manovra illustrata dai due autori non va oltre – dal loro punto di vista non può andare oltre – il recinto delle analogie: è come se fossimo «prigionieri» (ecco una bella analogia) «di ciò che conosciamo e che ci è familiare»; la libertà di cui possiamo fruire coincide soltanto con «il potere di ampliare la nostra prigione sempre di più» (2015: 341). Cambiano le prigioni, cambiano i condizionamenti esercitati dalle nostre analogie; ma ciò che rimane «invariante» è

«l’onnipresenza dell’analogia» (2015: 415). È davvero difficile non condividere le riflessioni di Hofstadter e Sander sul potere nascosto delle “nostre” analogie: anche se possiamo raccontarci che stiamo regalmente manovrando analogie dall’alto dei nostri troni di consapevolezza, la verità è un’altra: siamo noi ad essere alla mercé delle miriadi di analogie che ribollono nella nostra mente inconscia.

Eppure, a noi pare che l’ambito di manovra di cui godono gli esseri umani sia un po’ più ampio rispetto a quello di cambiare analogie. Il potere manipolatorio degli esseri umani si esercita, prima ancora che sulle analogie, sulle stesse somiglianze. Prendiamo a prestito dall’antropologo Simon Harrison (2002) l’espressione «politica delle somiglianze» per fare vedere come gli esseri umani siano in grado non solo di riconoscere, aumentare, esaltare le somiglianze, ma anche – all’opposto – di misconoscerle e di negarle. Questa libertà di manovra è data esattamente dalla dimensione del SoDif che – a quanto ci risulta – Hofstadter e Sander tendono a trascurare, ossia la dimensione della “differenza”, che sempre accompagna la “somiglianza”. E non è soltanto questione di immaginazione (o di illusione): è anche questione di interventi culturali, sociali, politici sui corpi, sulle menti, sui comportamenti degli esseri umani nelle loro società e nelle loro epoche storiche. Allo stesso modo, quando con Hofstadter e Sander prendiamo in considerazione la categorizzazione, ci sembra un po’ riduttivo relegare la classificazione – ossia la costruzione di categorie rigide con cui si vorrebbe imbrigliare e inscatolare la realtà (naturale o sociale che sia) – a una mera illusione, a una sorta di «analogia ingenua» di cui ora possiamo finalmente liberarci. È probabile che le esigenze di ordine, i motivi di stabilità e di perennità, che sono alla base dei sistemi classificatori meritino un’attenzione più profonda: anche perché davvero possiamo ritenere che gli esseri umani siano in grado di sopravvivere in un ribollire continuo di analogie? Oppure non avvertono forse l’esigenza di “fissare” (privilegiare, stabilizzare) certe somiglianze, tracciando nel contempo dei confini entro cui esse possono valere? Del resto, suggerire – come abbiamo fatto prima – di distanziare maggiormente analogie e categorie significa riconoscere che, anche se non si procede all’inscatolamento del mondo, le categorie funzionano pur sempre come un “mettere insieme” delle cose, stabilendo quindi anche dei confini, per quanto ipotetici e rivedibili essi possano

essere. Come si ricorderà, è stato Wittgenstein a farci notare che siamo noi a “tracciare” dei confini (§ 8): le categorie non possono fare a meno di fissare confini, mentre le analogie hanno la funzione opposta, quella di attraversarli e destabilizzarli, proponendo ponti e collegamenti. È come se la categorizzazione avesse la funzione di rallentare e di ridurre la frenetica attività connettiva delle analogie. Hofstadter e Sander possono dunque avere ragione nel concepire le categorie come prodotti o risultati delle analogie; ma riteniamo opportuno chiarire con maggiore precisione il ruolo diverso e persino contrastante che esse svolgono: le analogie aprono e connettono, mentre le categorie, anche se in maniera provvisoria, chiudono, riducono e stabilizzano. Porre in luce – come finora abbiamo cercato di fare in questo libro – l’onnipresenza delle somiglianze e delle differenze significa anche essere disposti a riconoscere, e possibilmente ad analizzare, la rosa di atteggiamenti che gli umani possono assumere per orientarsi nella “selva delle somiglianze” (cap. IV), nel groviglio in apparenza inestricabile di ogni SoDif. Distinguendo tra analogie e categorie, abbiamo visto che non ci si limita a costruire ponti e collegamenti; ma si possono – anzi, si debbono – anche stabilire confini (ancorché porosi), erigere barriere (per quanto fragili). Gli atteggiamenti che gli umani hanno a disposizione non coincidono dunque soltanto con i collegamenti (i legami, gli intrecci, le connessioni), che sono appunto alla base delle analogie. Del resto, approfondendo questo aspetto, vediamo che, oltre a “legare” – e anzi, forse, prima ancora che legare –, vi è un “tagliare”, un separare, uno sfrondare, un eliminare possibilità di somiglianze e di connessioni: si creano connessioni tra oggetti preventivamente selezionati, eliminando così altre possibilità di connessione. Inoltre, un conto è tagliare come condizione per poi intrecciare, e un altro conto è tagliare per contrapporre, per esempio, “noi” e “gli altri”, erigendo in certi casi confini impenetrabili, barriere maestose e possenti. Non dobbiamo dimenticare infine un altro atteggiamento, il quale consiste nel “mettere insieme”, nel “confondere”, nel “fondere”, nell’“assimilare”, abolendo in questo caso non le somiglianze, ma le differenze. Tutto questo per dire che, se si provvede a distanziare in misura ragionevole il piano delle somiglianze e delle differenze (SoDif) dal piano delle analogie, vediamo emergere diverse possibilità di manovra e di

manipolazione di cui occorre tenere conto e da cui il SoDif non esce indenne. Tra queste vediamo apparire anche le concezioni che privilegiano l’ordine classificatorio: un ordine rassicurante, il quale – come descritto molto bene da Hofstadter e Sander – sistema le cose nelle loro categorie di appartenenza, che ne costituiscono «l’intrinseca identità» (2015: 469). Non è sufficiente sostenere che si tratta di una «analogia ingenua» e nemmeno che essa «è ancora in grado di sedurre». Si tratta di fare capire che questa «visione dell’identità categoriale» è una delle possibilità di manipolazione del SoDif e che la sua motivazione va probabilmente rintracciata nella forte carica di stabilizzazione e di rassicurazione che l’ordine categoriale fornisce, specialmente quando si avverte la natura instabile e infida delle somiglianze. Certo, questo ordine categoriale di identità è puramente illusorio. Ma la questione riguarda non già la sua natura illusoria, bensì 1) perché tale ordine coincida con una «credenza quasi irresistibile», un’«illusione» da cui gli stessi autori dichiarano di rimanere «sedotti» (2015: 469-470); e 2) quale incidenza questa «ossessione identitaria» abbia sul piano delle relazioni sociali e inter-sociali (Remotti 2010). Un ordine classificatorio e identitario – fatto soltanto di “identità” che si contrappongono ad “alterità” – abolisce mentalmente i grovigli delle somiglianze e delle differenze, i fastidiosi SoDif che sporcano e turbano le linee di separazione e le categorie di appartenenza. Occorrerebbe dunque vedere quanto questa visione incida nella realtà psicologica e sociale, quanto il SoDif reale venga compresso, ridotto, eliminato. Ma, pure qui, è opportuno non dimenticare il carattere di resilienza che abbiamo ormai più volte riconosciuto al SoDif: si possono tagliare pesantemente le somiglianze e queste inaspettatamente rispuntano, così come si possono, al contrario, incrementare a dismisura le somiglianze, così da renderci tutti uguali, e in modo altrettanto inatteso le differenze si impongono. In fondo, è il SoDif ad essere sempre comunque più forte di tutte le strategie con cui gli esseri umani intendono trattarlo: dalle varie forme di riconoscimento, adattamento, valorizzazione, oppure di domesticazione e di sfruttamento, alle forme più ottuse e violente di negazione, misconoscimento, distruzione. 1

Nel paragrafo 2 di questo stesso capitolo verrà illustrata e discussa la nozione di episteme, così come viene utilizzata da Foucault. 2 Sarebbe bene porre in relazione i contributi di Hume con quelli di Douglas Hofstadter e di Emmanuel Sander, che analizzeremo nel paragrafo 9 di questo stesso capitolo.

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Qui dunque non adottiamo per nulla l’opposizione – ovvero la differenza qualitativa – tra società chiuse e società aperte di Karl Popper (1973) o tra società fredde e società calde di Claude Lévi-Strauss (1964b). Cfr. Remotti 1993b; 1999. 4 Sul tema fondamentale dell’incompletezza in campo antropologico e filosofico rinviamo a Remotti (2011a, cap. V) e a Veca (2010), nonché al testo fondamentale di Hofstadter (1984). 5 Preferiamo mantenere la traduzione presente nel testo di Lévi-Strauss qui citato, in quanto aderente sia alla traduzione francese del distico di Goethe, sia al testo tedesco: Alle Gestalten sind ähnlich, und keine gleichet der andern; Und so deutet das Chor auf ein geheimes Gesetz. Un po’ diversa, e per noi meno fruibile (anzi sviante), è la traduzione che propone Stefano Zecchi: «Tutte le forme sono affini, e niuna somiglia all’altra, così allude il coro ad una legge occulta» (Goethe 1983: 86). Dire che tutte le forme sono simili tra loro e che nessuna però è uguale alle altre corrisponde in maniera esatta alla definizione di somiglianza che abbiamo adottato in questo libro: somiglianza è anche sempre differenza, e questo dunque impedisce che esse siano uguali. 6 Uno dei momenti più significativi del libro di Hofstadter e Sander è il capitolo 8 («Analogie che hanno fatto tremare la Terra»), dove gli autori interpretano la fisica di Albert Einstein come il risultato rivoluzionario di un procedimento analogico. Su questa tesi – su cui chi scrive non può certo intervenire – sarebbe bene conoscere le reazioni di fisici, epistemologi, filosofi della scienza.

Parte terza

VI. Somiglianze dell’io

1. Le somiglianze dentro le cose Quando Protagora afferma che ogni cosa, per un verso o per un altro, è simile a qualsiasi altra cosa, certamente dà luogo a una visione vertiginosa, che nella Parte seconda di questo libro abbiamo descritto come una «selva delle somiglianze» (Viano 1985), una visione che senza dubbio richiama il groviglio delle relazioni a cui le moderne teorie della complessità fanno costante riferimento. Ma Protagora – quanto meno il Protagora il cui pensiero si trova esposto negli scarsi frammenti e nelle poche testimonianze giunti fino a noi – lascia irrisolto un aspetto della questione, su cui ora dobbiamo concentrarci. Che cosa significa dire che ogni cosa, per un verso o per un altro, è simile a qualsiasi altra cosa? Significa senza dubbio che da una cosa qualsiasi, scelta a caso, si diparte una molteplicità di relazioni, le quali approdano – in maniera diretta o indiretta – a qualsiasi altra cosa. Nella sua semplicità e modestia, lo schema proposto nel cap. III, § 5 vuole trasmettere esattamente questa idea di un’interconnessione generalizzata. Ma qui sorge il problema di cui si diceva: in quale modo e in quale misura le “cose” sono coinvolte in questo groviglio di somiglianze/differenze? La domanda decisiva si prospetta come un bivio: A) le cose hanno una loro sostanza, consistenza, durata, autonomia, compattezza, e perciò un loro isolamento. Possono sì essere simili tra loro, ma le relazioni di somiglianza e differenza si collocano tra le cose, così che il SoDif va ad occupare soltanto lo spazio esterno alle cose stesse; OPPURE B) le somiglianze/differenze non si arrestano ai confini delle cose, bensì penetrano al loro interno, ponendo così in discussione il loro relativo isolamento, la loro autonomia, la loro stessa consistenza ontologica.

Se facessimo nostra la soluzione A, verremmo a introdurre due regimi o due livelli ontologici diversi: il regime delle cose e il regime delle relazioni (di somiglianza ecc.); quello della consistenza e della durata delle cose o degli enti e quello della fluidità, variabilità, molteplicità, arbitrarietà delle somiglianze; un regime interno alle cose e un regime esterno alle cose; il livello di ciò che è più importante e sostanziale e il livello di ciò che invece appare superfluo, cangiante e alla fin fine ininfluente. Non c’è dubbio che la soluzione A si tradurrebbe in un forte ridimensionamento del carattere innovativo della teoria protagorea: è in questo modo – come abbiamo già visto (cap. IV) – che Platone e Aristotele hanno cercato di depotenziare il pensiero di Protagora. Arrestare le somiglianze e le differenze ai confini esterni delle cose è senza alcun dubbio una strategia per limitarne drasticamente l’incidenza. Ma qualcuno potrebbe obiettare che non si tratta di una strategia, bensì di una constatazione: è così che stanno – o starebbero – le cose. Proviamo però, sia pure come ipotesi iniziale, ad adottare la soluzione B e dunque a immaginare che le somiglianze e le differenze abbiano una forza ulteriore, rispetto a quella che abbiamo illustrato nel capitolo V, la “forza” cioè di introdursi all’interno degli enti. Che cosa può succedere? Cambia in notevole misura la nostra visione del mondo e delle cose. E chi ce lo può spiegare è un pensatore del V secolo a.C., molto vicino a Protagora, cioè Anassagora di Clazomene, città della Ionia. Se Protagora di Abdera era non solo «contemporaneo e conoscente di Erodoto», di cui condivideva «interessi e inclinazioni» intellettuali, e di cui era «forse persino amico intimo», è quasi del tutto certo che Protagora e Anassagora, oltre a sapere l’uno dell’altro, si siano più volte incontrati nei loro rispettivi soggiorni ad Atene, ossia tra il 464 e il 458 e di nuovo nel 444 e nel 433 (McNeal 1986: 299, 314). È altrettanto certo – secondo McNeal (1986: 314) – che Anassagora sia stato una «figura chiave» nel porre Protagora in contatto con «la tradizione ionica della ricerca scientifica». Tutto questo per dire che tra questi intellettuali che provengono dalle periferie del mondo ellenico (Protagora dalla Tracia, Erodoto e Anassagora dalla Ionia) e che in diversi momenti si trovano a soggiornare ad Atene, attratti dal circolo di Pericle, vi è un’evidente aria di famiglia, determinata – questa è la nostra tesi – dalla sensibilità e dall’attenzione teorica per il principio delle somiglianze. Aggiungiamo poi che non sarà forse un caso che sia Protagora

sia Anassagora abbiano dovuto lasciare Atene, in quanto entrambi accusati di empietà, e che dei loro scritti non rimangano purtroppo che alcuni frammenti. Con Anassagora le somiglianze/differenze varcano dunque il limite esterno delle cose, quel confine per il quale a noi sembrano a tutta prima dure, consistenti, autonome, sussistenti per conto proprio. Per quanto Anassagora non disponesse di un microscopio, la sua teoria invitava a procedere oltre i confini delle cose che vediamo e tocchiamo nel mondo ordinario e a scorgere al loro interno lo stesso groviglio di somiglianze e di differenze (il SoDif) che siamo più portati a vedere al loro esterno. Con Anassagora è come se le cose, in quanto auto-consistenti, collassassero, facendoci capire che pure esse sono fatte di rapporti, e che la loro consistenza e la loro autonomia sono in gran parte illusorie. Le cose sono relazionali fin nel loro intimo, per cui le reti di connessione non si limitano a mettere in rapporto le cose tra loro in un’infinità di modi, ma penetrano al loro interno, sostituendo l’idea di una loro essenza: fin nel suo intimo, ogni cosa è interconnessa con qualsiasi altra cosa. Anzi, l’interconnessione generale si coglie o si intuisce nell’intimità segreta e a tutta prima invisibile delle cose, mentre la sconnessione, la separatezza, l’autonomia e la dura consistenza delle cose sarebbero soltanto effetti illusori di uno sguardo superficiale. C’è chi afferma che Anassagora è «il più difficile» dei filosofi presocratici (Barnes 1982: 318; Lefebvre 1996: 31). Ma non è soltanto questione di astrusità dovuta alla scarsità di frammenti (se ne contano ventitré nell’edizione Diels-Kranz), a cui le disavventure della storia antica hanno ridotto l’espressione diretta del suo pensiero (Anassagora 2015). È anche questione del fatto che quello di Anassagora è un pensiero per certi aspetti «eccezionale» (Drozdek 2005: 168), un «pensiero vertiginoso», caratterizzato da una «audacia» impressionante, da cui del resto proviene il suo «fascino del tutto particolare» (Lefebvre 1996: 37, 51, 31). Il tema centrale del pensiero di Anassagora – almeno da quanto risulta dalla lettura dei frammenti – è dato dalla compresenza del tutto nel tutto, di ogni cosa in ogni cosa. Anassagora propone di concepire le cose non come entità a sé stanti, ma come costituite dalla compartecipazione alle altre cose. Nel frammento 6 di Diels-Kranz si legge: tutto è in ogni cosa e non è possibile che siano separatamente, ma tutte le cose hanno parte di

ogni cosa [...] come in principio anche ora tutte le cose insieme (Anassagora 2015: 25).

Nel frammento 11 D-K troviamo ribadito il principio già esposto, con l’aggiunta di un nuovo concetto, su cui dovremo tra un po’ soffermarci: in ogni cosa si trova parte di ogni cosa eccetto che dell’Intelletto [Noûs], ma vi sono cose nelle quali si trova anche l’Intelletto (Anassagora 2015: 29).

Proviamo ora a leggere il fr. 10 D-K: Come infatti da non-capello potrebbe generarsi capello e carne da non-carne? (Anassagora 2015: 21).

Qui si vede assai bene che uno dei problemi da cui Anassagora prende le mosse è in effetti quello della generazione: se un capello emerge da qualcosa che non è capello, così come la carne da qualcosa che non è carne, ciò significa che tra capello e non capello, tra ciò che sarà carne e ciò che non è ancora carne, non vi è soltanto differenza, ma vi è anche qualcosa di condiviso e di partecipato, dunque di simile. L’audacia di Anassagora consiste nel generalizzare questa visione e ritenere che in ogni cosa troviamo rapporti di partecipazione o di condivisione con tutte le altre cose. Anassagora parla a questo proposito di «semi» (spermata), anzi di «semi infiniti», di «semi di tutte le cose», dissimili tra loro e che tuttavia entrano nella composizione di tutte le cose (fr. 4 D-K; 2015: 23). Ma i semi di Anassagora non sono la stessa cosa degli atomi di Democrito, cioè entità dure, solide, indivisibili (quale è appunto il significato di “atomo”), oltre le quali non si può procedere. Anche qui, in maniera estremamente ardita, Anassagora ritiene che del «piccolo» (livello microscopico) non vi è «il minimo, ma sempre un minore», così come del «grande» (livello macroscopico) non vi è un massimo, ma «sempre un maggiore», e aggiunge: «per sé stessa invero ogni cosa è sia grande sia piccola» (fr. 3 DK; 2015: 25). Ciò significa che i processi di scomponibilità per un verso e di componibilità per l’altro verso possono proseguire all’infinito. Che cosa dunque si trova in questi processi? Non cose, entità ultime (grandi o piccole che siano), di fronte a cui si arrestano i processi di composizione e di scomposizione, ma – sempre e ancora – rapporti di coinvolgimento, compartecipazione, condivisione, ossia rapporti SoDif. È certamente difficile e vertiginoso pensare a tutto ciò; ne viene fuori infatti una sorta di «filosofia paradossale» (Lefebvre 1996: 44). Questo è comunque l’effetto di un pensiero che audacemente spinge il SoDif dentro le cose, piccole o grandi che esse siano. Per questo pensiero non vi sono enti definiti da confini ontologicamente invalicabili, né sotto il profilo

spaziale, né sotto il profilo temporale. Se «tutto è in ogni cosa» (fr. 6 D-K; 2015: 25), non possiamo immaginare le cose come disposte in uno spazio che semplicemente le ospita, le une accanto alle altre, separate, autonome, secondo quel criterio di “coesistenza” che abbiamo già illustrato (cap. II, § 5). Neppure possiamo immaginare che le cose siano rigorosamente delimitate da confini temporali. Sotto questo profilo è illuminante quanto Anassagora afferma a proposito del nascere e del morire: Ma il nascere e il morire non concepiscono correttamente i Greci; nessuna cosa infatti nasce e muore, ma a partire dalle cose che sono si ha il comporsi e il dividersi. E così dovrebbero correttamente chiamare il nascere comporsi e il morire dividersi (fr. 17 D-K; 2015: 21).

Le cose, in questo caso gli organismi, sono effetti di un comporsi (symmisgetai) da parte di cose preesistenti e in apparenza eterogenee (come il capello che nasce da ciò che non è capello, la carne da ciò che non è carne). Allo stesso modo, ciò che i Greci chiamano morte non è altro che il dividersi (diakrinetai), il quale dà luogo non già a un nulla, bensì ad altre cose che a loro volta emergono e prendono forma a seguito di questa scomposizione. Per Anassagora la nascita di A non è un emergere da un nulla o da un non-A, così come la morte non è un annullarsi di A in un non-A. Come la cosa A non ha confini spaziali che la delimitino in modo insuperabile da tutte le altre cose non-A, allo stesso modo i confini temporali di A sono molto relativi: sotto entrambi i punti di vista (spaziale e temporale) A intrattiene rapporti non di identità/alterità, bensì rapporti SoDif, ovvero rapporti di partecipazione con le altre cose nello spazio, così come rapporti di trasformazione con le cose che la precedono o le succedono nel tempo. Le cose (tanto le cose fisiche, quanto gli organismi) emergono e scompaiono, ma non emergono dal nulla e non scompaiono nel nulla. Invece che il nulla, c’è e permane ciò che noi chiamiamo SoDif e che per Anassagora è la partecipazione, la compresenza di ogni cosa in ogni altra cosa. Ovviamente, Anassagora si rendeva conto molto bene dei rischi a cui andava incontro una concezione di questo genere. Il rischio primo e più evidente è quello di un miscuglio tanto caotico da risultare incomprensibile e persino indicibile. In effetti, come si fa a descrivere tutto questo, a parlare e a ragionare di questo «tutto in ogni cosa», se in qualche modo e misura non se ne è fuori? Come forse si ricorderà, nel capitolo IV (§ 3) avevamo stabilito un nesso tra la visione di Protagora, secondo cui il

mondo è tutto percorso da reti di somiglianze e differenze, e l’affermazione che – a quanto pare – egli aveva posto all’inizio del suo libro sulla Verità, cioè che «l’uomo è misura di tutte le cose»: Protagora assegnava all’uomo il compito di imporre un qualche ordine, ovvero una qualche misura (metron), all’intrico delle somiglianze e delle differenze (al SoDif). In Anassagora troviamo qualcosa di analogo, anzi un modello assai più chiaro ed esplicito. Anassagora distingue infatti due momenti o fasi cosmogoniche. Il primo momento è quello del miscuglio originario di cui parla il fr. 4 D-K (la «mescolanza di tutte le cose»; 2015: 23), un miscuglio (symmixis) talmente fitto che in esso «nemmeno alcun colore era manifesto». Il secondo momento è invece dovuto a operazioni di «separazione», che in una certa misura attenuano la densità del miscuglio, facendo così emergere le cose e la loro discernibilità. Questo lavoro di separazione è dovuto, secondo Anassagora, al Noûs, che di solito viene reso in italiano con “Intelletto”, e che Anassagora si preoccupa di tenere qualitativamente distinto dal miscuglio, dal SoDif. Nel frammento 12 D-K troviamo scritto: Mentre tutte le altre cose hanno parte di ogni cosa, l’Intelletto è invece cosa illimitata, autocrate e non è mescolato ad alcuna cosa, ma, solo, egli è in sé stesso (Anassagora 2015: 27).

Anassagora non si limita a illustrare la natura del Noûs, il quale appare ai suoi occhi come «la più sottile e la più pura di tutte le cose», un’entità incomposta, semplice, «tutta eguale», senza divisioni e articolazioni interne. Egli spiega anche che, se così non fosse, se il Noûs fosse anch’esso una cosa tra le altre, «le cose mescolate lo ostacolerebbero, sì che non dominerebbe alcuna cosa». Il dominio del Noûs sulle cose («tutte domina l’Intelletto») è reso possibile dal suo essere «solo [...] in sé stesso». Da questa sua posizione non intaccata dal miscuglio, dal SoDif, il Noûs «conobbe» e «ordinò» tutte le cose: quelle che furono e «che ora non sono e quante ora sono e quali saranno». È molto ardita la concezione del miscuglio, quella per cui il SoDif non occupa soltanto lo spazio esterno delle cose, ma superandone i confini esterni vi penetra dentro facendo in modo che ogni cosa sia, per un verso o per un altro, in ogni altra cosa. Altrettanto ardita è la concezione del Noûs, un’entità che Anassagora sottrae del tutto al SoDif, così che possa dominare le cose e le loro interrelazioni. La concezione delle interrelazioni tra le cose è talmente innovativa che – secondo Drozdek (2005: 168-169)

– occorrerà attendere un filosofo come Leibniz per imbattersi in una analoga visione della divisibilità infinita della materia. Nel paragrafo 65 della Monadologia (1714) Leibniz sostiene che «ciascuna parte della materia [...] è [...] divisibile all’infinito» e nel paragrafo 67 troviamo scritto: Ciascun frammento di materia può essere raffigurato come un giardino pieno di piante, o come uno stagno pieno di pesci. Ma ciascun ramo di una pianta, ciascun membro di un animale, ogni goccia dei suoi umori è ancor esso un simile giardino, un simile stagno (Leibniz 1986: 50).

In un breve scritto intitolato Principi razionali della natura e della grazia Leibniz afferma che «le sostanze composte, cioè i corpi, sono delle molteplicità» e per giunta non molteplicità fisse (come se la molteplicità si arrestasse a elementi non più scomponibili), ma molteplicità tali per cui i corpi di animali e di piante ospitano altri minuscoli animali e piante (Leibniz 1997: 37, 43). Questa interconnessione generalizzata fa sì che – come già abbiamo visto in Anassagora – vengano meno la rigidità e l’insuperabilità dei confini sia spaziali sia temporali delle cose, per cui anche per Leibniz i confini sono luoghi di passaggio, di transizione, di costante trasformazione: tutti i corpi sono in un flusso perpetuo, come fiumi; sicché in ciascuno entrano ed escono di continuo nuove parti (Leibniz 1986: 51).

È allora significativo notare che sia Anassagora sia Leibniz, così sensibili al SoDif generalizzato, ossia alla compenetrazione delle cose, pongano un limite a tutto ciò mediante l’evocazione di sostanze spirituali. Sia in Anassagora sia in Leibniz vi è un salto dal piano del miscuglio, del flusso, del SoDif, al piano di un’entità (Noûs o Dio), una mente infinita, la quale domina per intero la rete delle connessioni: una mente finita farebbe parte del groviglio e della rete, e non potrebbe dominarla. Per concludere questo breve esame della filosofia “paradossale” di Anassagora, è opportuno sottolineare come anche in questo modo – cioè mediante l’evocazione del Noûs – egli ponga in evidenza alcuni problemi, su cui in questo libro continueremo a riflettere: Problema I: necessità della gestione del SoDif. Per Anassagora è inevitabile che il miscuglio originario vada in qualche modo dominato, padroneggiato, quanto meno amministrato; Problema II: modalità dei tipi di intervento sul SoDif. Per Anassagora è il Noûs a intervenire sul miscuglio originario mediante opportune separazioni. Ma per quanto potente sia il Noûs, esso non può fare altro che diluire il miscuglio, ridurre solo entro certi margini la sua complessità. Esso

«non può portare a termine l’operazione di separazione delle sostanze», poiché il principio secondo cui «“ogni cosa è in ogni cosa” non cessa di rimanere valido» (Drozdek 2005: 165). Anche per le teorie moderne della complessità, la complessità viene soltanto ridotta, non abolita (Remotti 2011a: cap. VI). Il SoDif va senza dubbio domesticato, almeno in parte, non già fatto fuori, o sostituito con categorie rigide, tagli netti, barriere invalicabili. Su questo punto diamo ancora una volta la parola ad Anassagora (fr. 8 D-K): non sono separate le une dalle altre le cose in quest’unico cosmo e non sono recisi con la scure né il caldo dal freddo né il freddo dal caldo (Anassagora 2015: 27),

e questo in quanto, come leggiamo nel fr. 12 D-K, completamente [...] nulla si separa né si divide l’una cosa dall’altra tranne che l’Intelletto (2015: 27).

L’Intelletto taglia, recide, separa, ma non del tutto: per essere vivibile il miscuglio va attenuato, e la comprensione (l’intelligenza, il Noûs, l’esercizio della mente) è essa stessa una riduzione della complessità. Ma Anassagora ci avverte che, per quanto ridotto, il miscuglio rimane: sarebbe illusorio – e quanto nocivo? – perseguire l’obiettivo di eliminare del tutto il SoDif, la rete delle somiglianze e delle differenze, facendo propria una visione rigidamente dicotomica (la “scure” che “recide”, che taglia in due), categorizzante, identitaria; Problema III: l’ultimo problema che Anassagora ci lascia in eredità riguarda la natura del soggetto che con i suoi tagli e le sue separazioni interviene sul SoDif. La soluzione di Anassagora è che la natura di tale soggetto (il Noûs) lo pone a parte dal SoDif: tanto più efficacemente interviene sul SoDif, quanto più esso è fatto di un’altra natura, un ente puro, semplice, incontaminato, autonomo. Su questo punto, prenderemo le distanze da Anassagora e ci chiederemo se, pur intervenendo sul SoDif, il soggetto non continui a farne parte. Partecipare al SoDif, essere fatti di SoDif impedisce forse di modificarlo, di orientarlo in una qualche direzione, di imprimergli una qualche forma? E non è forse così che un soggetto emerge e si costituisce? Non una sostanza a parte, ma una “composizione”, una configurazione che emerge e prende una qualche forma a partire dal miscuglio (originario o secondario che sia). Lo stesso Anassagora afferma che non solo le cose in generale, ma «anche [gli] uomini e tutte le altre cose viventi, quante hanno un’anima», risultano essere «composti», tali per cui anche per loro vale il principio del “tutto in

ogni cosa” (fr. 4 D-K; 2015: 23). Gli uomini non raggiungeranno mai la potenza del Noûs evocato da Anassagora (la «completa conoscenza di tutto» e il dominio su tutte le cose [fr. 12 D-K; 2015: 27]). Ma la saggezza non consiste forse nell’abbandonare qualsiasi forma di hybris e accettare di essere fatti anche noi di SoDif, accontentandosi perciò di esplorarlo, percorrendo certi sentieri, senza la pretesa di giungere alla fine, di abitarlo e coltivarlo qua e là, di capirlo pertanto solo in qualche modo e misura, di sfruttarlo – se si vuole – solo in parte? 2. Dalle cose alle persone: la critica dell’autenticità All’inizio del suo libro dedicato alle teorie dell’io nel pensiero moderno, Michele Di Francesco ci sottopone la seguente constatazione: Qualunque cosa se ne pensi, è difficile negare che per il senso comune il mondo in cui viviamo contiene due grandi classi di entità, le cose e le persone; le prime sono essenzialmente oggetti di azione e di riflessione, dotati di una struttura materiale [...]; le seconde sono (anche) soggetti di azione e di riflessione, capaci di sensibilità, pensiero, volontà (Di Francesco 1998: 1).

Abbiamo già visto affiorare nel paragrafo 1 la questione dei soggetti o delle persone, nel senso che secondo Anassagora anche gli uomini sono “composti” di tante cose e anche per loro vale il principio dell’interconnessione generale. Ma era soltanto un accenno. Ora cerchiamo di studiare meglio il passaggio dalle cose alle persone e vedere come il SoDif entri nella costituzione non solo delle cose, ma anche delle persone. Per intraprendere questo passaggio, partiamo da un famoso paradosso, quello della nave di Teseo, l’eroe che da Atene si recò in nave a Creta per sconfiggere il re Minosse, il quale pretendeva di avere da Atene un tributo di sette giovani e sette fanciulle. Ce ne parla Plutarco, nelle sue Vite parallele (I, 23, 1): Fino ai tempi di Demetrio Falereo gli Ateniesi conservavano la nave su cui Teseo partì insieme coi giovani ostaggi e poi ritornò salvo, una trireme. Toglievano le parti vecchie del legname e le sostituivano con altre robuste, saldamente connettendole fra loro, in modo che essa serviva di esempio anche ai filosofi quando discutevano il problema della crescenza, sostenendo alcuni che era la stessa nave, altri che non era più la stessa (Plutarco 2013 I: 117).

Tutto fa capire che gli Ateniesi misero molta cura per un verso nel “sostituire” i materiali di cui era fatta la nave di Teseo, così da impedire che quel “bene” storico o culturale, a cui tenevano tanto, andasse in rovina, e per l’altro verso nel “conservare” la sua forma originaria. Ma i

filosofi – ci dice Plutarco – non si accontentarono di questo risultato così significativo per la storia di Atene. Al contrario, ne fecero una questione teorica di non poco conto, su cui valeva la pena esercitare il dubbio: quella rifatta è la stessa nave di Teseo o è, invece, una nave differente? Non furono soltanto i filosofi antichi a porsi il problema dell’identità della nave: in epoca moderna anche Thomas Hobbes e Gottfried Leibniz ne discussero, per non dire quanti filosofi ancora oggi ne fanno oggetto di riflessione. Ma allora, l’accurata sostituzione dei materiali e nel contempo la conservazione della forma garantiscono di avere sempre la stessa nave o ne viene fuori una nave diversa? La questione nasce dal presupposto secondo cui le cose, tra cui la nave di Teseo, non possono non avere una loro identità. Se ci poniamo dal punto di vista che abbiamo elaborato in questo libro, possiamo comprendere la perplessità di chi assume una visione identitaria delle cose, ma siamo anche in grado ormai di fornire una risposta che ci fa superare tranquillamente il paradosso: la nave, che gli Ateniesi avevano ricostruito, non era “identica” e neppure era totalmente “altra” e diversa rispetto a quella che Teseo aveva impiegato per andare a Creta; era semplicemente “simile” (e noi sappiamo che simile vuole sempre dire anche differente). Concordiamo quindi con quanti ritengono che «il concetto di identità», quale appare nei più diversi paradossi, tra cui quello della nave di Teseo, debba essere inteso non come identità, ma «in termini di rilevante somiglianza» (Douven e Decock 2010: 60-61): l’errore consiste nello scambiare per identità ciò che invece non è altro che somiglianza. Del resto, la nave di Teseo era forse originariamente un unicum oppure in un modo o in un altro somigliava alle navi in circolazione? Chissà quante triremi greche solcavano le acque del Mediterraneo a quei tempi. E se gli Ateniesi avessero deciso di non intervenire nella sostituzione dei materiali ormai deteriorati, forse non potremmo dire, allo stesso modo, che la nave in rovina non era più la “stessa” di quella originaria, ossia che si era in certa misura “alterata”, anche se continuava ad assomigliarle? Come ormai sappiamo, la somiglianza è sempre una questione di gradi: col passare del tempo, la nave si alterava sempre più ed è proprio a questo inconveniente che gli Ateniesi intendevano porre rimedio con la sostituzione di materiali nuovi, inevitabilmente simili, non identici, a quelli deteriorati. Secondo il nostro punto di vista, la nave di Teseo faceva parte di una

“famiglia” di navi “somiglianti” tra loro (le somiglianze di famiglia di Wittgenstein [cap. V, § 8]), sia che gli Ateniesi avessero deciso di non intervenire, sia che si fossero comportati invece secondo quanto Thomas Hobbes avrebbe immaginato tanti secoli dopo. Nel De Corpore Hobbes immagina infatti che qualcuno, anziché buttare via il materiale dismesso, l’avrebbe risistemato, ricostruendo la nave di Teseo con il legname di recupero (Hobbes 1972: 185). In questo modo, avremmo – almeno nella mente – la nave originaria, quella con cui Teseo andò a Creta; la nave rifatta con i materiali nuovi; infine, la nave rifatta con i materiali vecchi. Come si vede, la famiglia delle navi di Teseo – cioè delle navi che avrebbero in qualche modo titolo a chiamarsi così – si ingrandisce e l’incremento delle navi “somiglianti” apre la questione dell’autenticità: tra tutte queste navi, qual è la vera e “autentica” nave di Teseo, oppure sono tutte navi di Teseo in qualche modo e misura? In effetti, molte volte nella nostra vita siamo indotti a porci questo tipo di domanda (che si tratti di navi, di beni museali o di persone). Paradosso per paradosso, proviamo a immaginare – con un mero gioco intellettuale – che gli Ateniesi, dopo avere rifatto la nave di Teseo (sostituzione dei materiali, conservazione della forma), avessero rivolto domanda all’Unesco, affinché questo oggetto, così prezioso e storicamente rilevante, fosse posto nella lista dei beni appartenenti al patrimonio culturale dell’umanità. La risposta sarebbe stata negativa, in quanto secondo la commissione dell’Unesco la nave rifatta non era la nave “autentica” di Teseo: la nave di Teseo non c’è più e quella ricostruita non è, proprio per questo, quella autentica. Ma veniamo a un fatto più concreto e documentato. A partire dal 690 d.C. a oggi, ogni vent’anni, nei pressi della città di Ise, in Giappone, il santuario della dea del Sole Amaterasuomikani viene rifatto, costruendone uno nuovo accanto a quello vecchio: il legname è del tutto nuovo, ricavato dalla foresta attorno, mentre le tecniche costruttive sono quelle tradizionali e il risultato consiste nel riprodurre rigorosamente la forma architettonica canonica (Bortolotto 2011: 9-10; Sand 2015). Completato il nuovo tempio, la dea viene trasferita nella nuova sede e il tempio precedente distrutto, in modo da ricavare spazio per le ricostruzioni successive. Questo processo ricostruttivo si svolge secondo un preciso e denso rituale: dura otto anni e porta il nome di shikinen sengu.

Per fare comprendere che non si tratta di un caso sporadico e di poco conto, ma di una logica che ha una sua consistenza e plausibilità, diciamo subito che qualcosa di analogo si verificava nei regni dell’Africa bantu precoloniale, dove alla morte del sovrano la capitale – non un agglomerato casuale, ma una vera e propria opera d’arte, riproducente molto spesso una figura (una testuggine, per esempio, nel caso dei Luba del Congo) – veniva abbandonata, distrutta, per poi essere ricostruita, all’avvento del nuovo sovrano, in un altro sito (Remotti 2014)1. Anche qui, si cambiava il sito e si usavano materiali nuovi; veri e propri specialisti dirigevano tuttavia i lavori, affinché venisse rispettato il piano urbanistico tradizionale, via via riprodotto dalle diverse capitali. Ora le capitali mobili africane non esistono più, ma se – riprendendo il paradosso di prima – avessero fatto richiesta di riconoscimento all’Unesco, avrebbero ricevuto un diniego, esattamente come i Giapponesi per il santuario della dea del Sole (un santuario rifatto più di sessanta volte, se teniamo conto dell’ultimo rifacimento del 2013). Perché la nave di Teseo, il santuario scintoista della dea del Sole e le capitali mobili africane non potrebbero rientrare nella famosa lista dei beni dell’Unesco? Perché non rispettano il criterio dell’autenticità. Il programma dell’Unesco aveva infatti posto, nei suoi principi costitutivi, «l’“autenticità”» come «conditio sine qua non per l’iscrizione nella lista del patrimonio mondiale» e come «prerequisito imprescindibile per i beni culturali candidati quello dell’autenticità dei materiali», oltre che «della lavorazione, della concezione e del contesto» (Bortolotto 2011: 10). Alla base di questa scelta vi erano i principi della Carta di Venezia, la quale come modello di restauro «stabiliva che i monumenti fossero trasmessi alle generazioni successive “nella loro completa autenticità”» (compresi dunque i materiali, il sito e così via). Neppure il santuario scintoista di Ise, con tutta l’attenzione posta nel riprodurre la forma architettonica e il rispetto rigoroso delle tecniche tradizionali, ha potuto essere accolto nella lista, in quanto viene meno al criterio dell’autenticità – e dunque storicità e originalità – dei materiali. Che cos’è autentico? Potremmo dire che autentico è una specificazione di identico. In greco troviamo authentikós e l’etimologia individua due elementi: autòs “sé stesso” e entòs “in, dentro”. Prima che alle cose, la parola sembra applicarsi alle persone e agli esseri umani, per cui

“autentico” è ciò che maggiormente designa la consistenza durevole di una persona, privilegiando ciò che essa è nella sua interiorità rispetto a ciò che è esterno, superficiale, cangiante. Più in generale – ritornando a una visione sia delle persone sia delle cose – autentico è qualcosa di genuino, che si mantiene nella sua essenza, nel suo carattere originario e costitutivo, in contrapposizione a ciò che è falso, simulato, imitato, contraffatto, copiato. Beninteso, la copia può anche essere fedele, anzi, rigorosamente fedele, come prevedono il rituale scintoista dello shikinen sengu o i clan degli urbanisti tradizionali nel caso della dislocazione delle capitali mobili africane. Ma – templi o capitali che siano – si tratta pur sempre di copie (più di una sessantina quelle riguardanti il santuario di Ise) e le copie, frutto del copiare, dell’imitare, entrano inevitabilmente in conflitto con l’idea di autenticità. Per noi, che autentichiamo le copie (nel nostro linguaggio e nelle nostre pratiche burocratiche), occorre che vi sia un originale, rispetto a cui una copia – autenticata o meno – è pur sempre una copia: l’autenticità appartiene all’originale e una copia solo se autenticata può assumere un valore molto simile, quasi identico, al valore dell’originale. Ma nel caso del santuario scintoista e delle capitali mobili africane, l’originale dov’è? Abbiamo soltanto copie senza poter disporre dell’originale: nel tempo si succedono le copie, e il rapporto che si instaura tra di loro è di somiglianza (di rigorosa somiglianza), non di identità, proprio come per la nave ricostruita di Teseo. In tutti questi casi, non c’è il mantenimento dell’originale autentico: ci sono soltanto copie che si succedono con un rapporto di somiglianza, la quale può essere ovviamente più stretta, rigorosa, fedele (come nel caso del rituale shikinen sengu) o più lasca (come nel caso delle capitali mobili africane, che subivano variazioni in conseguenza della configurazione dei nuovi siti o delle dimensioni volumetriche e demografiche del tessuto urbano). In sostanza, sembra che emergano due punti di vista: quello dell’autenticità e quello della somiglianza. Se si adotta il punto di vista dell’autenticità, inevitabilmente si viene a creare una gerarchia, la quale colloca in posizione prioritaria il “ciò che è autentico” – ossia ciò che ha un rapporto di identità con sé stesso, che cioè non è una copia né di sé, né di altri – relegando in posizione secondaria le copie, per quanto fedeli possano essere. Sul piano psicologico, Karl Jaspers aveva esposto assai bene questo punto di vista gerarchico. Autentico era infatti definito come

ciò ch’è più profondo in contrapposizione a ciò ch’è più superficiale; per esempio ciò che tocca il fondo di ogni esistenza psichica di contro a ciò che ne sfiora l’epidermide, ciò che dura di contro a ciò ch’è momentaneo, ciò ch’è cresciuto e si è sviluppato con la persona stessa contro a ciò che la persona ha accattato o imitato (Jaspers 1950: 49).

In questo brano di Jaspers è molto evidente la contrapposizione tra autenticità e imitazione, tra l’essere che permane sul fondo e il sembrare volatile, tra l’essere sé stesso e il somigliare, tra l’essere identico a sé e l’essere copia di sé o d’altri: una contrapposizione che si traduce in una esaltazione del primo termine e in una netta svalutazione del secondo. Se invece si adotta il punto di vista delle somiglianze, il fatto stesso di imitare, riprodurre, fare copie, e di distruggere per ulteriormente riprodurre e copiare, lungi dall’essere relegato ad attività secondaria, diviene l’attività fondamentale: è la somiglianza (non l’identità) ciò che lega tra loro le più di sessanta copie del santuario giapponese, o le decine di copie di una qualsiasi delle varie capitali africane, per farne un “processo” oltre modo significativo sul piano culturale2. Come si vede, sono anche due modi diversi di affrontare il tempo: il primo (quello dell’identità) cerca con ogni mezzo di preservare e sottrarre l’oggetto di cui si tratta dalle modifiche del tempo, di espungere il tempo dall’essere – persona o cosa – che ci interessa, provvedendo a restaurare e mantenendo a tutti i costi ciò che c’era prima; il secondo (quello della somiglianza) incorpora il tempo, riconoscendo e anticipando in maniera programmatica i suoi effetti distruttivi, così da garantirsi un continuo e periodico rinnovamento. Distruggendo sia l’originale (o meglio, la prima copia) sia le copie che via via si succedono, i Giapponesi di Ise, così come un tempo gli Africani dei regni precoloniali, riescono ad avere una struttura sempre nuova, vitale, funzionante. Il prezzo di questa scelta consiste nel sacrificare l’originale, ciò che per noi sarebbe l’autentico, rinunciando dunque all’ossessione dell’identità e privilegiando invece il principio della somiglianza. Il caso del santuario di Ise – per certi aspetti «candidato ideale per la lista del patrimonio mondiale» dell’Unesco – non si è esaurito nel diniego, ma ha fatto riflettere e ha contribuito a mettere in discussione il concetto di autenticità (Bortolotto 2011: 9)3. Qui, insieme alla nave di Teseo e alle capitali mobili africane, contribuisce a fare vedere come assai più normale, e anche vantaggiosa, una visione delle cose improntata non già all’identità, ma alla somiglianza. E se ora ci trasferiamo dalle cose ai soggetti umani, alle persone, dobbiamo fare nostra la visione di Jaspers o, anche a proposito delle persone, è

invece percorribile un cammino che ci porta direttamente all’idea di somiglianza, di un SoDif interno e costitutivo dell’io? Abbiamo già accennato nei capitoli precedenti (cap. I, §§ 5-7; cap. II, §§ 2-3) al carattere finzionale dell’identità dell’io, al fatto che l’identità personale vada intesa come una rappresentazione, e per giunta una rappresentazione inappropriata. Riprendiamo ora il tema per un ulteriore approfondimento, facendo notare che l’idea secondo cui gli esseri umani siano flussi di relazione, non solo sotto il profilo fisico, ma anche sotto il profilo psichico e, se si vuole, spirituale, è qualcosa che troviamo in diversi momenti del pensiero umano, persino del pensiero che noi definiamo occidentale e che ha fatto dell’identità uno dei suoi principi più irrinunciabili. Cominciamo con la scena di una commedia, seguendo in questo un importante studio che David Sedley ha dedicato alla discussione sull’identità nella filosofia greca (Sedley 1989). Poiché la ricostruzione di Sedley prende spunto dai dodici versi sopravvissuti di una commedia greca del siracusano Epicarmo (V secolo a.C.), non sarà male darne una lettura preventiva – lievemente accorciata –, quale troviamo nel terzo libro di Diogene Laerzio (2005: 316-319): Se uno a un numero dispari, o se vuoi, invece, anche a uno pari, desiderasse aggiungere un granello di sabbia, o anche toglierne uno che c’è, ti sembra forse che sarebbe ancora lo stesso? – A me, almeno, non sembra. [...]. – Così ora considera anche gli uomini: l’uno infatti cresce; l’altro, invece, deperisce: tutti, insomma, sono in mutamento durante tutto il tempo. Ora, ciò che muta per natura, e non rimane mai nel medesimo posto, questo sarebbe già differente da quello che era. E tu, invero, e io, ieri eravamo alcuni e adesso altri [alloi], e altri ancora domani, e mai gli stessi [outoi], secondo tale ragionamento.

David Sedley si avvale poi di altri autori antichi, i quali fanno riferimento indiretto alla commedia di Epicarmo, e così ci propone la seguente ricostruzione. Immaginiamo due personaggi, A e B. Il personaggio A si dichiara disponibile a partecipare a un banchetto, impegnandosi a pagare la sua parte. Il giorno dopo, il secondo personaggio, B, fa visita al primo, A, e gli chiede di pagare la sua quota, come A in effetti aveva promesso. A, però, in quel momento è a corto di soldi e così decide di incastrare B nell’enigma dei granelli di sabbia, che già conosciamo: «Supponiamo che tu prenda un numero dispari di sassolini, o se tu vuoi un numero pari e che tu scelga di aggiungerne o di toglierne uno: pensi che sia lo stesso numero?». «No», dice B.

[...] «Ebbene – continua A – pensa agli uomini nella stessa maniera. Uno si accresce e l’altro rimpicciolisce: tutti sono sottoposti a cambiamento. Ma ciò che per sua natura cambia e non rimane mai fisso deve essere già differente da ciò che era prima del cambiamento. Tu e io siamo diversi oggi da ciò che eravamo ieri e per la stessa ragione saremo differenti in futuro, e non saremo mai gli stessi». B si dichiara d’accordo. E allora A conclude che egli non è lo stesso uomo di colui che ieri aveva contratto il debito e nemmeno lo stesso uomo di colui che prenderà parte al banchetto. Di modo che ben difficilmente si può ritenere che egli sia vincolato dal suo debito. Esasperato, B dà allora un pugno ad A, il quale protesta contro questo modo di fare. Ma questa volta è B che, in maniera elegante, disarma la protesta di A, facendogli notare che al momento attuale egli è qualcuno del tutto diverso dall’uomo che, un minuto prima, gli aveva sferrato un pugno (Sedley 1989: 513-514, c.m.).

Non c’è che dire: siamo di fronte a un bel disastro sociale. Dalla commedia siamo passati, ridendo, alla tragedia. Se davvero gli esseri umani sono come mucchi di sassolini, a cui basta aggiungere o sottrarre un’unità (un semplice sassolino) per essere diversi da ciò che si era prima, se cioè viene a mancare l’identità delle persone, viene anche meno – come ci dice l’apologo di cui sopra – la base su cui si reggono le relazioni sociali. Scomparsa l’identità dell’io, la stessa persona A o B esplode in una miriade incontrollabile di situazioni diverse: salta per aria la persona, saltano per aria i presupposti della vita sociale. Io B non posso più fare conto su quanto A ha detto e promesso, e la stessa cosa succede per A nei confronti di B. Viene meno la fiducia e viene meno anche il fondamento della giustizia: nessuno sarà più tenuto a rispondere dei suoi atti, in quanto ognuno sarà una serie indefinita di personaggi diversi. Ciò che l’apologo ci prospetta è un’alternativa dura, secca, e molto difficile da sopportare: da una parte, l’idea dell’identità personale, la quale però urta contro la constatazione empirica dei cambiamenti delle persone; dall’altra, la frammentazione, persino la polverizzazione dei soggetti, e dunque il venir meno di un minimo di coerenza, di stabilità non solo dell’io, ma anche – per diretta conseguenza – della vita sociale. Ma è così che stanno le cose? L’alternativa è davvero così irrimediabile, del tipo tutto o niente, ossia il massimo della solidità e della permanenza, da un lato, e dall’altro l’annientamento dell’io e della società? Oppure esiste una via intermedia, quella che consente di barcamenarsi – sotto il profilo sia personale sia sociale – tra un po’ di stabilità e di coerenza, per un verso, e un po’ di modificabilità e innovazione, per l’altro? La somiglianza – il SoDif nell’io – è la via di mezzo: una virtuosa via di mezzo.

3. Somiglianze nel sé Non è facile vedere le somiglianze nel sé; ancora più difficile è capire come il sé possa essere fatto di somiglianze e differenze (SoDif). Ciò che fa velo è l’esigenza profonda di stabilità e di coerenza, un’esigenza a cui possiamo assegnare senza dubbio una rilevanza antropologica. Ciò che fa velo è però soprattutto, sul piano storico, la traduzione di questa esigenza nelle concezioni dell’identità e dell’individuo (inteso come una realtà “semplice”, sostanziale, non scomponibile), che hanno segnato tanto profondamente il pensiero occidentale e con cui si è dato battaglia alle somiglianze. Proprio per questo è importante cogliere certi momenti del pensiero occidentale, in cui si assiste a un riconoscimento delle somiglianze nel sé. Anassagora ci ha avviati per questa strada. Ma troveremo ora un aiuto più consistente ed esplicito prima nel pensiero di una sacerdotessa, Diotima, che compare nel Simposio di Platone, e poi negli scritti di David Hume, il filosofo scozzese del XVIII secolo, a cui abbiamo fatto ampiamente ricorso, come grande teorico delle somiglianze, nel cap. V (§§ 3-5). Sembrerà strano, ma Platone, proprio lui, l’iniziatore e forse il maggiore protagonista della guerra contro le somiglianze (cap. IV), ospita nel Simposio una delle critiche più profonde e convincenti del concetto di identità personale, dando nel contempo spazio alla teoria delle somiglianze nel sé. In questo dialogo – come è noto – vengono illustrate e discusse diverse definizioni di amore (eros), ma la teoria conclusiva, quella che concepisce Eros come figlio di Penìa (povertà, mancanza) e di Poros (intraprendenza, capacità di attraversare i confini), viene esposta con le parole di Diotima, la sacerdotessa di Mantinea, presso cui Socrate si era recato proprio per apprendere che cosa sia l’amore. Di Diotima non sappiamo altro: nemmeno sappiamo se si tratta di un personaggio storico o di pura invenzione. È però il personaggio che, nella maniera più chiara, illustra nella filosofia antica la teoria secondo cui il sé è fatto di somiglianze e differenze. Il significato più importante che Diotima attribuisce all’amore è quello di generare, ossia di procreare, fare nascere, sia «secondo il corpo», sia (come vedremo poi) «secondo lo spirito» (Simposio 206c; Platone 1996: 81). Diotima invita Socrate a considerare come tutti gli esseri viventi

provino l’impulso a procreare: chi è fecondo diviene «smanioso di procreare» e di procreare nel bello, per cui eros è amore «della generazione e procreazione nel bello» (206e). Subito dopo, Diotima invita Socrate a considerare il «turbamento» da cui sono colti tutti gli animali allorché «sentono il desiderio di generare» e di «accoppiarsi tra loro» (207b; 1996: 83), e come questo loro amore non termini affatto con l’accoppiamento e con il concepimento, ma si prolunghi nelle attività di allevamento e di difesa dei nuovi nati, fino a essere disposti a morire per loro e a «sfinirsi di fame pur di nutrirli, e a fare ogni altro sacrificio». Diotima sta affrontando – come si vede – un tema che etologi e sociobiologi del Novecento avrebbero fatto rientrare nella categoria dell’altruismo parentale, e la sua risposta non è poi così lontana da ciò che Richard Dawkins avrebbe argomentato nel 1976 con la sua teoria del «gene egoista» (Dawkins 2009). Il generare è infatti per Diotima l’attività con cui gli esseri viventi e mortali – tra cui gli umani – rispondono al desiderio di immortalità (206e-207a): «la natura mortale» – sostiene infatti Diotima (207d) – «cerca, per quanto può, di divenire eterna e immortale» (Platone 1996: 83), cioè di superare il confine della morte. E può riuscirvi solo per questa via, la via della generazione, perché essa lascia sempre dietro di sé un altro essere nuovo in luogo di quello vecchio (c.m.).

Quale rapporto c’è tra l’essere vecchio (A), il genitore, e l’essere nuovo (B), il figlio, che prende il suo posto? Si tratta di un «altro» essere, non certo identico al primo. Eppure, qualcosa di A sarà stato stramesso a B (per Dawkins è questione di geni): perciò, B non sarà del tutto “altro” rispetto ad A. La generazione fa dunque sopravvivere qualcosa di A in B. Se ha generato B, A non scompare del tutto con la sua morte: qualcosa di A supera la barriera della morte e si ripresenta in B. A e B non sono del tutto diversi e neppure sono identici. Nonostante la morte che li separa, e nonostante siano due corpi diversi, essi condividono qualcosa di comune: sono simili. Come si può notare, Diotima concepisce la generazione nello stesso modo in cui i Giapponesi ricostruiscono i loro santuari e gli Africani le loro capitali mobili: “un essere nuovo in luogo di quello vecchio”. Meglio, Giapponesi e Africani hanno probabilmente tratto ispirazione dai processi procreativi naturali per inventare le loro soluzioni culturali a proposito di santuari e di capitali: processi procreativi che, così come il santuario di Ise e le capitali mobili dei regni africani, sono generatori di

somiglianza. È solo attraverso la generazione di somiglianza che – secondo Diotima (e probabilmente secondo Giapponesi e Africani) – gli esseri mortali, uomini compresi, possono aspirare ad andare un poco oltre la morte. Diotima è molto sensibile all’esigenza di stabilità e di permanenza, che così spesso abbiamo evocato in questo libro per spiegare il ricorso all’identità. Infatti Diotima fa capire a Socrate non solo i processi procreativi come generazione di somiglianza, ma anche la “finzione” di identità, quale emerge nella vita di molti di noi. Nella vita degli esseri umani questo desiderio profondo di permanenza e di identità prende la forma di una convinzione e di un modo di dire che non corrispondono però alla realtà delle cose: si tratta appunto di una finzione, di un “come se” (cap. II, § 3). Infatti, di «ogni singola creatura vivente si dice che vive e resta la stessa» per tutto il tempo della sua esistenza, e così noi diciamo che «è la medesima persona che dalla puerizia giunge alla vecchiaia» (207d, c.m.). La realtà è però ben diversa. Noi diciamo che è la stessa persona, per quanto non conservi mai in sé le medesime cose, ma si rinnovi di continuo, perdendo sempre qualcosa di sé, nei capelli, nella carne, nelle ossa, nel sangue e in tutto quanto il corpo (Platone 1996: 83, c.m.).

Vi è da supporre che Socrate, Platone, Diotima, così come i loro interlocutori, non conoscessero i meccanismi della morte cellulare. È ancor più sorprendente allora come le parole di Diotima si accordino perfettamente con il quadro che Jean Claude Ameisen ci offre a proposito delle «cellule effimere, che nascono, muoiono e rinascono continuamente»: come abbiamo già visto nel capitolo II (§ 2), il corpo viene dunque concepito da Ameisen come una sorta di «fiume» eracliteo, con componenti più fluide e altre più stabili, destinate anch’esse tuttavia a perdersi e a trasformarsi (Ameisen 2001: 102). Diotima, dunque, distingue assai bene il piano della rappresentazione (il “si dice”) da quello della realtà: sul piano della rappresentazione facciamo valere l’identità dell’individuo, cioè l’idea di un’unica persona che rimane la stessa dalla nascita alla morte; sul piano della realtà, invece, assistiamo a una continua trasformazione interna, a un continuo nascere e morire che si svolge all’interno del corpo e che lo trasforma di continuo. Un po’ come dire che per Diotima non c’è soltanto un evento di nascita, quello con cui nasce l’individuo, e un evento di morte, quello con cui lo stesso individuo muore: tra questi due estremi

c’è tutto un succedersi e sovrapporsi di nascite e morti interne, meno drammatiche e vistose, più sottili e invisibili, le quali danno luogo, anch’esse, a una generazione di somiglianze e differenze interne. Per Diotima, tuttavia, non è soltanto il corpo (soma) che nel tempo si corrompe e cambia di continuo in un flusso di somiglianze-differenze interne. Anche l’anima, la mente o lo spirito (psyché), subisce lo stesso destino: modi, consuetudini, pareri, desideri, piaceri, dolori, timori, ognuna di queste cose non rimane mai la stessa nello stesso individuo, ma una nasce e l’altra perisce. Più strano ancora, poi, che pure le cognizioni [episteme], non solo alcune sorgono e altre muoiono in noi – sicché noi non restiamo mai gli stessi [oi autoi] neppure in fatto di cognizioni – ma anche ciascuna di esse, singolarmente, è soggetta alla stessa sorte (207e-208a; 1996: 83-85, c.m.).

Qui Diotima sta toccando un aspetto molto sottile e delicato, ma assolutamente decisivo per le nostre considerazioni. Come si vede – tanto per cominciare –, la sacerdotessa di Mantinea tratta allo stesso modo l’anima e il corpo: ciò che avviene nel corpo (quel nascere e morire di continuo, quel flusso di somiglianze e differenze) avviene anche nell’anima. In questo modo, Diotima non sarebbe d’accordo con chi – come, per esempio, Leibniz nella filosofia moderna – separa nettamente il corpo e l’anima: il primo sarebbe un organismo tutto fatto di SoDif, mentre la seconda verrebbe fatta coincidere con una sostanza “individua” e “semplice” (un “atomo” spirituale). Per Diotima, la nozione di individua substantia (per usare la famosa espressione di Boezio – su cui torneremo nel cap. VII, § 3) non vale per il corpo e non vale nemmeno per l’anima. Diotima, soprattutto, non sarebbe d’accordo, in primo luogo, con il filosofo che l’ha presentata e fatta conoscere, e che forse l’ha inventata. Come vedremo proprio alla fine di questo libro (cap. VII, § 8), Platone fa esporre a Socrate, in punto di morte, la teoria che sottrae l’anima alla categoria delle cose “composte” (syntheta): il corpo è una cosa composta, e quindi decomponibile; non così l’anima, che appartiene invece alla categoria delle cose incomposte (asyntheta) e quindi indecomponibili, e per la quale possiamo dunque rivendicare “identità”, “immortalità” e persino, di conseguenza, una natura divina. Diotima sarebbe invece d’accordo con Anassagora, per il quale – come si ricorderà (§ 1) – «anche [gli] uomini e tutte le altre cose viventi, quante hanno un’anima», non solo un corpo, risultano essere «composti». In particolare, per Diotima il continuo flusso sostitutivo che avviene nell’anima riguarda sia la sfera delle emozioni, dei

costumi e delle consuetudini, sia la sfera più propriamente intellettiva: anche le conoscenze sono sottoposte al ricambio continuo. Se tutto cambia in noi – sia il corpo, sia l’anima e, nell’anima, sia l’aspetto emotivo ed etico, sia l’aspetto dianoetico – Diotima non può che concludere con la negazione chiara e inesorabile del mantenimento dell’identità: «noi non restiamo mai gli stessi». Diotima, però, non si accontenta di segnalare soltanto l’insorgere delle differenze: se così fosse – come abbiamo già visto prima nel caso dei due battibeccanti della commedia di Epicarmo (§ 2) –, l’io esploderebbe con le conseguenze tragiche e assurde, di cui si è detto, sul piano psicologico e sul piano sociale. Proprio a proposito delle «cognizioni», Diotima fa vedere che non si tratta di sostituzioni meccaniche, come se all’idea a si sostituisse l’idea b, e poi c, e via di seguito: una serie frammentata di idee. Diotima invece sottolinea come gli esseri umani si sforzino di contrastare il flusso nelle loro menti. Vediamo infatti come interpreta l’esercizio del pensiero: un modo di trattenere, di conservare le idee, vale a dire i contenuti della propria mente, dando luogo così a un insieme di differenze (che insorgono di continuo) e di somiglianze, che legano e garantiscono un quantum di continuità: Infatti, quel che si dice meditare ha luogo perché la cognizione se ne va: l’oblio è l’allontanarsi della cognizione, e la riflessione, suscitando volta per volta un nuovo ricordo al posto di quello venuto meno, serba in vita la cognizione, tanto da sembrare che rimanga la stessa. Ché in tal modo si conserva tutto ciò ch’è mortale: non col restare sempre assolutamente identico [to auto aei einai], come il divino, ma in quanto quel che invecchiando vien meno lascia al suo posto un’altra copia, giovane, di sé stesso (208a-b; 1996: 85, c.m.).

Se interpretiamo bene, la riflessione gioca qui, all’interno della mente, lo stesso ruolo che la generazione svolge sul piano organico. La riflessione genera infatti una somiglianza rispetto all’idea o alla cognizione che se n’è andata. In questo modo, non tutto viene perduto e cancellato, e non tutto viene sostituito da qualcosa di “altro” e di totalmente “nuovo”. Anche le idee sono sottoposte al flusso, ma con la riflessione è come se il flusso venisse rallentato, così da “serbare in vita” qualcosa della cognizione preesistente. A tal punto la riflessione può agire in questo senso conservativo, che può addirittura «sembrare» che la cognizione di prima «rimanga la stessa». No, non rimane la stessa; ma neppure è sostituita da qualcosa di totalmente altro: ciò che rimane è qualcosa di “simile”. È

dunque «in tal modo», cioè grazie alla generazione di somiglianze, che «si conserva tutto ciò che è mortale». Diotima ha idee molto chiare su questo punto: il flusso interno al corpo e alla mente rende l’identità una meta impossibile per gli uomini. Ma non si limita a negare per i mortali – per gli esseri umani, in particolare – l’identità. È come se Diotima vedesse assai bene il baratro che si aprirebbe, se si limitasse a una negazione dell’identità. Ciò che è consentito ai mortali è prendere – in alternativa all’identità – la strada della somiglianza. Se per gli esseri umani è precluso il «restare sempre assolutamente identico», essendo questa una faccenda soltanto divina, essi possono però sostituire ciò che inesorabilmente cade nell’oblio con qualcosa che gli “assomigli”. Questa sostituzione non del preesistente con l’assolutamente nuovo, ma del simile con il simile, avviene sia nel corpo, sia nella mente della persona finché vive, sia infine per le stesse persone, quando esse, procreando fisicamente o spiritualmente, mettono al mondo qualcosa che a loro assomigli. Secondo Diotima, l’identità è dunque un’aspirazione: è desiderio, è eros di immortalità da parte di chi immortale non è. Ma tutto ciò che si può ottenere, per i mortali, non è altro che somiglianza. E l’amore allora che cos’è? È la ricerca dell’altro con cui generare: non sé stessi, ma i propri simili. Diotima ci fa così vedere due modalità di generazione: la generazione interna, la quale fa sì che ognuno di noi generi somiglianze al proprio interno, e questo generare somiglianze avviene tanto nel corpo quanto nella mente; e la generazione esterna, per la quale unendoci sessualmente ad altri generiamo dei discendenti, degli esseri che in certa misura ci assomiglieranno. Non possiamo pretendere all’identità; ma essere somiglianti o, meglio, generare somiglianze dentro e fuori del nostro corpo e della nostra mente è l’unico modo che ai mortali è concesso per garantirsi un po’ di sopravvivenza nel tempo in cui si vive (somiglianza interna) e nel tempo dopo la morte (somiglianza esterna). Concludiamo questo dialogo con Diotima facendo notare che, secondo il suo insegnamento, 1) non vi sono soltanto la nascita e la morte agli estremi temporali di un organismo, ma vi è anche un flusso, un trasmutare continuo, un continuo morire e rinascere, all’interno del sé, del corpo e della mente; 2) si può fingere l’immortalità (per dopo la morte), come si può fingere

l’identità (per quando si è in vita), ma di reale vi è soltanto la “generazione”, ossia la produzione di somiglianze tanto all’interno, quanto all’esterno del sé. 4. L’io non identico, ma simile a sé A noi pare che Diotima ci abbia consentito di penetrare oltre il velo dell’identità e dell’individuo. Quanto però questo velo, storicamente intessuto, sia fitto e pesante, quanto perciò sia difficile predisporsi per concepire il sé in termini di SoDif interno, appare piuttosto evidente dal modo in cui anche oggi viene affrontato il tema della somiglianza in relazione al sé. Prendiamo il caso, per esempio, dello psicologo italoamericano Luciano L’Abate, proprio in quanto particolarmente interessato al nostro tema. Egli afferma che «la somiglianza è presente, pervasiva e influente nella maggior parte delle relazioni umane» e pertanto sono moltissimi gli studi ad essa dedicati specialmente per quanto riguarda i processi di identificazione (L’Abate 2000: 191). Più in particolare, L’Abate ha proposto un «continuum di somiglianza» in rapporto al processo di differenziazione della personalità. Esso prevede sei momenti o dosaggi diversi, che qui proviamo a riassumere a partire dalle indicazioni e dalle espressioni usate dallo stesso autore (2000: 32, 193): 1. simbiosi (io sono te e tu sei me); 2. uniformità (sii, fai, senti, pensa e comportati come me); 3. similarità (sii, fai, senti, pensa e comportati in parte come me, ma lasciati anche dello spazio per essere diverso da me); 4. diversità (definisco me stesso e non sono come te: sono diverso da te); 5. opposizione (sono l’opposto di quello che tu sei); 6. autismo (non sono).

Da questa matrice di possibilità si vede bene come si proceda da un estremo (qui definito “simbiosi”), in cui il massimo di somiglianza tende a negare la pur minima differenza tra l’“io” e il “tu”, all’estremo opposto (“autismo”), in cui è la somiglianza, e quindi la relazionalità, a essere ridotta a zero. Tutte le posizioni descritte dal continuum dipendono dalla combinazione di “somiglianza” e “differenza” e, se le relazioni sono appunto costituite da dosaggi diversi di queste due componenti, se ne deduce che una relazione sana si basa sia sulle similitudini sia sulle differenze degli individui coinvolti. Al

contrario, una relazione malata è quella in cui i partner sono o altamente simili o altamente dissimili tra loro (2000: 196).

Ciò che L’Abate propone come criterio di valutazione delle relazioni è dunque un «equilibrio integrato» delle due componenti, sottolineando che l’integrazione si realizza «nella [...] identità» del soggetto (c.m.). Da queste brevi notazioni sembra di poter arguire, insieme a una sorta di topografia psicologica, la persistenza di un paradigma identitario, secondo cui esistono sia i soggetti, dotati di “identità”, sia le loro relazioni, fatte di “somiglianze” e di “differenze” in dosaggi variabili. Noi però eravamo approdati a una concezione assai più ardita, secondo un percorso che possiamo schematizzare in questo modo: A) dapprima vi erano, nella nostra immagine, le cose e le relazioni di somiglianza e differenza tra le cose (SoDif esterno alle cose); B) rivolgendoci al pensiero di Anassagora, abbiamo poi visto il SoDif entrare nelle cose, a tal punto che nulla rimane al di fuori del SoDif (eccetto che, per Anassagora, il Noûs, la Mente o l’Intelletto, entità alquanto misteriosa, forse divina); C) con l’aiuto di Diotima, abbiamo infine compiuto un passo ulteriore: il SoDif non solo entro le cose, ma dentro le persone, i soggetti, sia nella loro componente fisica, sia nella loro componente psichica. Già nel capitolo V avevamo visto, con Hume, come le somiglianze siano fittamente presenti nel funzionamento della mente umana (§ 3) e, con Hofstadter e Sander, come l’analogia si ponga al cuore del pensiero umano (§ 9). Qui ora ci tocca soffermarci di più sull’idea di soggetto e su come questo possa essere costituito di somiglianze e differenze. Oltre a Diotima, che ci parla da un’antichità profonda e alquanto oscura, diversi pensatori tra XVII e XVIII secolo ci vengono in soccorso, a conferma di quanto rilevato da D.W. Murray, il quale si oppone allo stereotipo secondo cui nella tradizione occidentale abbia prevalso un unico modo di concepire il Self, inteso come un’entità fatta di un’unica sostanza, «essenziale, autonoma, circoscritta, stabile, permanente, continua, impermeabile, unitaria» (Murray 1993: 6). Vi è infatti tutta una tradizione di pensiero che vede nell’io non già un’unità, bensì una molteplicità ed eterogeneità di aspetti, e la tesi della molteplicità è senza dubbio il primo passo per poi giungere alla concezione dell’io come SoDif. Contro l’idea di una res cogitans, fatta valere da René Descartes, Blaise

Pascal, che abbiamo già evocato nel capitolo I (§ 8), intendeva l’io non come una sostanza unitaria, ma come una città o come una campagna, avvicinandosi alla quale l’osservatore vedrebbe moltiplicarsi «all’infinito» una quantità di parti e di aspetti eterogenei (Pascal 1962: 24; Remotti 2010: 52-54). John Locke, su cui torneremo più avanti, aveva compiuto un’operazione fondamentale, quella di togliere all’io o alla coscienza il supporto di una sostanza pensante: «l’identità personale» consiste «non nell’identità della sostanza, ma [...] nell’identità della coscienza» (Locke 1951: 467; Di Francesco 1998: 65-109; Remotti 2010: 54-58). Denis Diderot, in quello sconvolgente libro che è Le Rêve de d’Alembert, scritto nel 1769, procede a una critica del concetto di individuo e a una visione che richiama da vicino la teoria di Anassagora, secondo cui tutto è in tutto, ogni cosa è presente in ogni altra cosa (Diderot 2002: 99). Non c’è dubbio che la critica del concetto di sostanza tende a trascinarsi dietro quella del concetto di io inteso appunto come una sostanza individuale, dotato di un’identità personale. Così, noi troviamo per esempio in Ernst Mach l’affermazione secondo cui «non c’è un Io isolato, come non c’è una cosa isolata. Cosa e Io sono finzioni provvisorie dello stesso tipo», perché ciò che prevale è l’idea di un insieme di «fili intricati» (Mach 1982: 16, 18). Nel capitolo II (§ 3) abbiamo già visto come Ermanno Bencivenga illustri assai bene la tesi della molteplicità e della divisibilità dell’io, in sostanziale accordo con le immagini dell’io come un “noi”, una “società”, una “repubblica”, proposte da autori come Marvin Minsky (1989) e Douglas Hofstadter (2008), oltre che ovviamente dallo stesso Hume. Preferiamo però concentrarci in modo particolare su David Hume, in quanto la sua analisi del Self è forse quella che maggiormente apre la strada alla teoria del SoDif interno. Hume fa propria, infatti, in maniera rigorosa l’idea che il Sé (Self, come espressamente egli dice) non è una sostanza, dotata di identità, che permane nel tempo, ma è invece «un fascio o collezione di percezioni differenti [a bundle or collection of different perceptions]» (Hume 2001: 506-507)4. In questo modo, egli approfondisce un tema già apparso, nel Seicento, in Blaise Pascal e poi in John Locke, ossia il tema della molteplicità e della variabilità dell’“io” (Remotti 2010: 63). Ma in Hume l’analisi si articola in maniera più stringente sui seguenti punti: a) l’io (o Self) è fatto di una molteplicità, eterogeneità e variabilità di condizioni (percezioni, nel linguaggio del filosofo scozzese), che si

susseguono «le une alle altre con rapidità inconcepibile», dando luogo a un «perpetuo flusso e movimento [perpetual flux and movement]» (Hume 2001: 506-507). L’io dunque non è un’entità permanente, una sostanza: è invece un flusso perpetuo. La stessa concezione del fascio o collezione di percezioni differenti è da intendere soprattutto in senso diacronico, appunto come una sorta di flusso inarrestabile; b) contro la tesi del flusso, Hume è però costretto a registrare una concezione contraria ed opposta: l’io infatti viene di solito concepito come una realtà dotata di «semplicità», di «identità», di stabilità, di permanenza. Questa concezione non dispone – egli afferma – di una valida «dimostrazione». E tuttavia è la concezione prevalente, adottata da molti filosofi (2001: 503). Hume esprime un atteggiamento ironico nei confronti dei suoi colleghi filosofi, i quali – pur senza prove – si «immaginano» l’io come dotato di una «perfetta identità e semplicità [perfect identity and simplicity]». Anziché scartare tale concezione errata, egli riconosce comunque la sua vasta diffusione e le conferisce un significato importante: è dunque una concezione che, per quanto errata, esige di essere spiegata. In vista di ciò, sarà bene sottolineare fin da subito la pregnanza del sostantivo «semplicità». L’io è ritenuto, o immaginato, “semplice”, nel senso di perfettamente integro, unitario, non composto, quindi non scomponibile in elementi o fattori ulteriori, secondo la concezione e il significato etimologico di in-dividuo (non diviso, non divisibile); c) non avendo scartato, e messo da parte, la concezione dell’io come individuo, ossia come identità e semplicità perfetta, Hume è costretto a porsi il problema di come tale concezione o rappresentazione possa coesistere con l’esperienza del Self, il quale si presenta invece come un flusso ininterrotto. L’esperienza del flusso va in un senso, mentre la rappresentazione comune va nel senso opposto: al flusso ininterrotto si oppone l’idea della permanenza, della stabilità, ovvero la rappresentazione di un’entità individuale e inscalfibile. Come è possibile che alla realtà del flusso, ciò che noi constatiamo sulla base della nostra propria «esperienza», quella very experience (2001: 502) che abbiamo di noi stessi, si oppongano, persistano nel tempo e abbiano seguito, asserzioni tanto «contrarie»? Il punto a e il punto b danno luogo per Hume a una «evidente contraddizione e assurdità» (2001: 503), le quali richiedono di essere affrontate e risolte;

d) la soluzione che Hume propone – come avremo modo di argomentare meglio tra poco – consiste nell’illustrare la natura “somigliante” dell’io. La tesi secondo cui l’io è fatto di somiglianze (un “grumo di somiglianze e differenze”) è ciò che consente a Hume di spiegare come sia possibile che una realtà così mutevole, cangiante ed eterogenea, quale è appunto l’io, possa, al contrario, essere concepita in termini di identità (l’identità personale a cui Hume dedica in effetti una sezione apposita di A Treatise of Human Nature)5. Nell’analisi di Hume, tesa a spiegare come sia possibile che all’esperienza della molteplicità e del flusso nell’io si contrapponga la rappresentazione errata dell’individuo semplice e immutevole, vi è un punto di partenza e un punto di arrivo: in mezzo agisce – come vedremo – la concezione dell’io come fatto di somiglianze, non di identità. Il punto di partenza dell’analisi di Hume sono le percezioni, sempre «particolari», eterogenee, mutevoli e «separabili», che costituiscono il Self e che fanno del Self «una perfetta non-entità [a perfect non-entity]»: qualcosa cioè che «non riesco mai ad afferrare» in sé (2001: 504-505). Il punto di arrivo è invece l’idea puramente immaginaria della «semplicità» (individualità) e dell’«identità» del Self. Sfruttiamo bene la distinzione che Hume propone tra l’idea della semplicità e quella dell’identità: la prima ha a che fare con la sincronia, in quanto riguarda la conformazione del Self «in un dato tempo», mentre la seconda ha a che fare con la diacronia, in quanto concerne la persistenza del Self «in tempi differenti» (2001: 507). Hume preferisce prendere la strada della diacronia, allorché si chiede se vi siano «relazioni» tra le diverse percezioni che si succedono nel tempo e di quale tipo esse siano (2001: 509). Egli afferma che, «a uno sguardo accurato» – quello che pone in luce minutamente il carattere eterogeneo delle percezioni in successione –, potremmo pervenire a «una nozione di diversità [diversity] tanto perfetta» da negare qualsiasi relazione tra le percezioni (2001: 509). Lo sguardo che punta esclusivamente sulla diversità è però unilaterale, in quanto esiste un’altra possibilità, quella cioè di cogliere relazioni tra le percezioni. È l’«immaginazione [imagination]» la facoltà umana che pone legami e coglie relazioni; ma le relazioni, a loro volta, vengono stabilite sulla base della «rassomiglianza [resemblance]» tra gli oggetti (2001: 42-43, 50-51). Anzi, come Hume afferma chiaramente, mettendo lui stesso in corsivo la sua

affermazione, «nessuna relazione può sussistere senza un certo grado di rassomiglianza [no relation of any kind can subsist without some degree of resemblance]» (2001: 52-53). Ebbene, che cosa avviene nel Self sia in senso diacronico, sia in senso sincronico? Si verificherebbe un tumulto di percezioni, sensazioni, emozioni che si susseguono in maniera disordinata nel tempo o un caos di percezioni compresenti e irrelate, se tra questi «oggetti» non si venissero a stabilire relazioni, se cioè si facesse valere soltanto il criterio della diversità (diversity), o differenza (difference), la quale viene intesa da Hume non come qualcosa di «reale o positivo», ma come «negazione di relazione» (2001: 53). Vi è dunque opposizione tra “somiglianza” e “differenza”, in quanto la prima stabilisce o pone relazioni, mentre la seconda le nega o le elimina. Ma la somiglianza – sostiene Hume – è sempre una faccenda di gradualità (some degree, come abbiamo appena visto), ovvero non esiste alcuna somiglianza tra oggetti, percezioni e così via, senza una certa dose di differenza. La somiglianza è sempre, e di necessità, un misto tra somiglianza e differenza, e quando si dice che due cose sono somiglianti, si deve intendere che sono anche sempre differenti. Una somiglianza senza differenza perde la sua natura propriamente “somigliante” e diviene identità. Non solo, ma se «nessuna relazione può sussistere senza un certo grado di rassomiglianza», ciò significa che, venuta meno la somiglianza (venuto meno il plesso di somiglianza e differenza), viene meno anche la relazione. Ciò che Hume propone di scorgere in quell’area esperienziale che è il Self è dunque un «fascio» di relazioni costituite necessariamente da somiglianze e differenze, relazioni che si dispiegano tanto nel presente della sincronia, quanto nello sviluppo della diacronia. Per quanto si invochino nozioni come «anima» e «sostanza», garanti dell’identità dell’io (2001: 509), il Self humiano si presenta come un groviglio di somiglianze e di differenze, le quali, oltre tutto, lungi dall’essere statiche e immobili, di continuo variano secondo il «flusso perpetuo» delle percezioni. L’io dunque per Hume non è “identico” a sé stesso: è “simile”. Esso vive in un regime di somiglianze e di differenze: la sua “esperienza” è fatta di questo tipo di relazioni. E tuttavia, per Hume, è indispensabile – come abbiamo visto – cercare di comprendere come dal «flusso perpetuo» si possa transitare, con l’immaginazione, alla negazione dello stesso: questo è il punto d’arrivo

della sua analisi. Per Hume è infatti importante e decisivo non soltanto prendere atto del contrasto tra la rappresentazione dell’identità e l’esperienza del flusso, ma anche spiegare come questa idea, per quanto errata rispetto all’esperienza del Self, possa emergere e imporsi, trasformandosi in un paradigma di interpretazione dominante della vita dell’io. Fino a che noi adottiamo il paradigma della somiglianza, si può facilmente e correttamente sostenere che le relazioni, le quali intercorrono tra un “soggetto” allo stato attuale (S0) e il medesimo soggetto6 in stati precedenti (S–1, S–2, S–3... S–n) o in stati successivi (S+1, S+2, S+3... S+n), sono relazioni di somiglianza e differenza nella diacronia, così come relazioni di somiglianza e differenza sono quelle che raccordano il soggetto tra le diverse condizioni (ruoli, funzioni, emozioni) nella sua sincronia. Alla medesima conclusione perviene, in un testo di alcuni anni fa, Douglas Hofstadter, il quale fa presente che «Douglas Hofstadter oggi e Douglas Hofstadter ieri [...] non sono identici», benché ci possa essere «un consistente grado di sovrapposizione». Questo diverso grado di vicinanza, per cui «sarei molto “vicino” alla persona che ero ieri» e «un po’ meno vicino alla persona che ero due giorni fa, e così via», induce a parlare non già di «continuità psicologica» (Parfit 1989), ma di «similarità psicologica» (Hofstadter 2008: 373, c.m.). La somiglianza di cui si parla è dunque – sia per Hume, sia per Hofstadter – una questione di gradualità, e questo contribuisce a porre in risalto due aspetti, un po’ impliciti nella filosofia di Hume, e che qui invece conviene sottolineare: ovvero, il carattere di “instabilità” e il carattere di “manipolabilità” della somiglianza. Le somiglianze non sono “date” in natura, scolpite – per così dire – nell’essenza delle cose; non sono vincoli insuperabili o percorsi dal cui tracciato non si possa uscire: se così fosse, cadremmo in una visione sostanzialistica, contro cui Hume fa valere il «flusso» continuo dell’esperienza. Proprio perché le somiglianze fanno parte del flusso, esse sono decisamente instabili, e si offrono a – e persino richiedono di – essere amministrate, manipolate, e a seconda dei casi accresciute, diminuite, sostituite, annullate. Anche le somiglianze sono proposte infatti dall’immaginazione; e l’immaginazione può aderire più attentamente alle cose presentate dall’esperienza o invece lanciarsi nel regno della «fantasia» (Hume 2001: 43-45).

Le manipolazioni delle relazioni di somiglianza e differenza, di cui è fatto il Self, possono dunque prendere direzioni diverse. Esse sono però fondamentalmente di due tipi: a) le une si mantengono nell’ordine e nel perimetro delle somiglianze e delle differenze (a seconda che vengano riconosciute, aumentate, esaltate, ridotte, compresse); b) le altre invece vanno oltre il perimetro delle somiglianze e delle differenze, dando luogo all’idea (immaginaria) dell’identità e della semplicità dell’individuo. Hume fa capire come la somiglianza presti facilmente il fianco a questo secondo tipo di manipolazione. Le somiglianze sono infatti una materia estremamente plastica e possono perciò essere manipolate fino al punto di essere negate e di passare dalla condizione “somigliante” alla condizione “identitaria”. Se è vero che la somiglianza è fatta di due componenti o dimensioni – la somiglianza da un lato e la differenza dall’altro –, è sufficiente dimenticare o obliterare quest’ultima, perché la somiglianza si trasformi velocemente in identità. In un certo senso, la stessa somiglianza – se interpretata in maniera unilaterale – induce a passare all’identità: a furia di somigliare, la differenza inerente alle somiglianze scompare ed emerge, imponente e rassicurante, l’identità. È per questo carattere fluido e instabile e, per così dire, intrinsecamente infido e scivoloso della somiglianza (come abbiamo più volte fatto notare), che Hume è portato a scorgere nella «rassomiglianza [...] la fonte più feconda di errori». Questo avviene quando la mente tende a confondere idee tra loro somiglianti, cioè a farle convergere fino a unificarle, dimenticandosi per strada le loro differenze (2001: 141). In particolare, il fatto stesso di porre in “relazione” di successione stati, oggetti, condizioni, può comportare una sorta di prevaricazione sulle “differenze”: si è cioè portati a incrementare le somiglianze e a diminuire le differenze, fino al punto – e questo è il momento decisivo – di compiere una sostituzione di paradigma o di prospettiva, quella che ci fa passare dal regime delle somiglianze (a) a quello delle identità (b). Su questo punto, così importante e decisivo, diamo la parola a Hume: La relazione agevola alla mente il passaggio da un oggetto a un altro, rendendo il passaggio così fluido, come se si contemplasse un oggetto continuato. Questa rassomiglianza è causa di confusione e di errore, poiché ci fa sostituire la nozione di identità a quella di oggetti posti in relazione [di somiglianza e di differenza]. Per quanto possiamo constatare a ogni istante la successione di elementi collegati

come variabile e interrotta [dalle differenze], noi siamo sicuri che soltanto un momento dopo le attribuiremo un’identità perfetta, considerandola ora come invariabile e ininterrotta (2001: 509, c.m.).

La sostituzione subdola, infida, surrettizia approfitta, per così dire, dei caratteri di instabilità e di manipolabilità delle somiglianze. Ma qui non abbiamo a che fare con la sostituzione di relazioni di somiglianze con altre relazioni di somiglianze (regime a), bensì con la sostituzione delle somiglianze con l’identità (regime b), ovvero della sostituzione di un fascio di relazioni (gli «oggetti posti in relazione») con un’entità che ha relazione solo con sé stessa, cioè con un’entità a cui si attribuisce «un’identità perfetta». Per renderci conto di quanto agevole, ancorché oltremodo rischioso, sia questo passaggio, è sufficiente riconsiderare quanto si era detto a proposito degli stati precedenti o delle condizioni attuali del “soggetto” S. Ciò che noi possiamo constatare è soltanto una successione di stati (S1, S2, S3... Sn) o una compresenza di condizioni e ruoli diversi e tuttavia simili tra loro. Ma ci vuole un nonnulla per compiere l’«errore» che ci fa passare dalla somiglianza all’identità: io non sono più simile a me stesso, non sono più un fascio di relazioni (di somiglianze e di differenze); sono stato invece trasformato – con una «finzione (fiction)» – in un’entità che permane nel tempo (2001: 509-511)7. Beninteso, non è che in tal modo il soggetto venga ad acquisire un’identità: la trasformazione di cui si è parlato è un’operazione meramente “finzionale” (ideologica e rappresentazionale, potremmo dire), in quanto si tratta – come Hume non si stanca di ripetere – di una “attribuzione” (non un’acquisizione) di identità. Il nostro principale interesse [...] deve essere provare che tutti gli oggetti a cui attribuiamo identità, senza constatare il loro essere invariabili e ininterrotti, consistono di una successione di oggetti posti in relazione [di somiglianza] (2001: 511).

In altri termini, l’identità non è oggetto di osservazione, ma di attribuzione e di finzione. L’identità in quanto tale si colloca decisamente al di là dell’«esperienza», a cui Hume nell’Introduzione del suo Treatise afferma che occorre attenersi: «non possiamo mai spingerci oltre l’esperienza» (2001: 21). Ciò che fa parte dell’esperienza è invece il fascio di relazioni di somiglianza e di differenza in cui consistono i soggetti umani e, nel contempo, quella «nostra propensione naturale» – un «errore» dunque pressoché inevitabile – che ci induce quasi ininterrottamente a scambiare la somiglianza con l’identità (2001: 507): a trasformare

surrettiziamente un “io simile a sé stesso” in un “io identico a sé stesso”. Ma l’io, pur fintamente trasformato in un’identità sul piano della rappresentazione, continua ad essere null’altro che un insieme di rapporti di somiglianza e di differenza sul piano dell’esperienza: o meglio, continua a essere un insieme di rapporti di somiglianze e di differenze (un SoDif) con – in più – la “finzione” dell’identità. 5. Il “dividuo” e il “SoDif” soggettivo Hume conclude l’Introduzione al suo Treatise of Human Nature con un gesto di condanna da un lato e con un invito dall’altro. La condanna riguarda qualsiasi prospettiva che intenda «trascendere l’esperienza», stabilendo un qualche «principio che non si fondi sulla sua autorità» (2001: 23). Invece di elaborare una qualsivoglia ipotesi, la quale «pretenda di scoprire le ultime qualità originarie della natura umana», Hume invita ad attenersi a «una attenta osservazione della vita umana»8 e a considerare gli «esperimenti», che compongono questa scienza, «così come si presentano comunemente nella condotta degli uomini in società, negli affari e nei piaceri» (2001: 21, 25). Il criterio guida della «science of MAN» che Hume intende proporci è dunque l’osservazione, anzi, «a cautious observation of human life» (2001: 16, 24). Ebbene, l’appello alla cautious observation del comportamento umano dovrebbe indurci a chiedere se la «finzione» di identità – su cui tanto ha insistito Hume – sia un «errore» davvero inevitabile, una «propensione naturale», da cui solo con notevole sforzo filosofico e soltanto in certi momenti ci si può liberare, oppure se si tratti di un costume e di un’abitudine (2001: 521), che ha preso piede per motivi culturali e storici, non per natura. Hume è lontano dal concetto antropologico di cultura, e tuttavia alcuni indizi – tanto per limitarci alle pagine prese in considerazione – possono rivelarsi preziosi. In almeno due occasioni egli parla dei filosofi che hanno speculato sulla «perfetta identità» del sé e che hanno fatto dell’«identità personale» una questione di grande attualità nell’Inghilterra del tempo (2001: 503, 507, 519). In un altro punto sembra volere depotenziare e quasi derubricare la questione dell’identità personale, riconducendola a quelle che egli chiama «difficoltà grammaticali invece che filosofiche» (2001: 525), come se fosse la “nostra” grammatica

(dunque un fatto culturale) a costruire una certa visione del mondo e di noi stessi9. Considerare l’identità personale – come suggerisce lo stesso Hume – alla stregua di un tema divenuto storicamente importante nell’Inghilterra del Seicento e del Settecento significa dubitare che l’identità sia davvero una propensione naturale, riguardante quindi tutti gli uomini e tutte le culture, e collegare invece tale problematica all’emergere e all’affermarsi di ciò che è stato chiamato l’individualismo moderno. Come abbiamo già fatto notare (§ 4), ciò che Hume intende per “semplicità”, insieme a “identità”, dell’io è propriamente il principio della sua unità, ovvero della sua in-dividualità o non-scomponibilità. Su questo punto, la cultura autodefinitasi moderna ha ripreso e fatta propria l’idea scolastica della persona intesa come una individua substantia (così in effetti era stata definita da Severino Boezio e poi da Tommaso d’Aquino), un’entità compatta e inscalfibile, la quale trova “in sé” (oltre che nella divinità) la propria ragion d’essere, la propria integrità e sussistenza. Se l’io è una sostanza individuale, le relazioni risultano esterne a tale entità; e la società (le relazioni sociali) inevitabilmente si configura come una dimensione a parte, secondaria, successiva e tutto sommato strumentale (Remotti 2009: 285). L’individualismo moderno – alla cui analisi ci dedicheremo nel cap. VII – è probabilmente ciò che ha fatto cadere nell’oblio il grande contributo di Hume alla teoria della persona e del SoDif interno. La sua posizione dirompente e innovativa si è in gran parte eclissata tanto nel sapere filosofico (decisiva l’operazione di contrasto da parte di Kant), quanto in quello delle scienze umane e sociali. D.W. Murray ha segnalato l’oblio a cui Hume è stato condannato, chiedendo espressamente ai cultori delle scienze umane e sociali, e in particolare agli antropologi, che si occupano di concezioni alternative della persona, «chi oggi legge Hume?» (Murray 1993: 3). In un importante saggio del 1938, dedicato al concetto di persona e di “io” (testo di avvio dell’antropologia della persona), Marcel Mauss menziona di sfuggita e di malavoglia David Hume, a cui rimprovera di «esitare davanti alla nozione di “io”» (Mauss 1965: 379-380). Non c’è dubbio che Hume avrebbe condotto Mauss in tutt’altra direzione, rispetto a quella intrapresa nel suo saggio del 1938. Qui egli afferma che soltanto «presso di noi», la civiltà moderna, si è pervenuti all’idea dell’io come un’entità unitaria, inscindibile, sacra, completa, indipendente,

incondizionata, cioè come un individuo non scomponibile, mentre le altre società – comprese le civiltà orientali – hanno concepito la persona come un costrutto sociale, come una realtà «componibile», plastica, modellabile, a cui si mette mano socialmente (1965: 381). Nonostante la sua importanza per gli sviluppi dell’antropologia della persona, questo saggio di Mauss si contraddistingue per la tesi secondo cui l’individualità della persona non sarebbe un’invenzione (una finzione) culturale della modernità, bensì un’acquisizione, una vera e propria conquista sul piano scientifico, filosofico e morale, una scoperta che soltanto “noi moderni” siamo stati in grado di compiere. Ripensando alle analisi contenute nel § 4, Mauss darebbe luogo a una smentita della tesi di Hume, secondo cui «quella che attribuiamo alla mente dell’uomo è soltanto un’identità fittizia» (Hume 2001: 519). È toccato a Louis Dumont, un allievo di Mauss, imprimere una vigorosa sterzata a questa impostazione, riprendendo in esame la distinzione tra il concetto sociale di persona, tipico delle società premoderne, e il concetto di persona fondato sull’idea di individuo, caratteristico invece delle società moderne. Dumont non si limita a illustrare la dicotomia e a far notare che, a differenza delle altre società, per i moderni l’Essere umano è l’uomo “elementare”, indivisibile, sotto forma di essere biologico e al tempo stesso di soggetto pensante (Dumont 1991: 82, c.m.).

Come vedremo meglio nel cap. VII, Dumont interpreta infatti l’individualismo moderno come una rappresentazione ideologica, la quale confonde l’ideale e il reale, ovvero fa passare per reale ciò che è soltanto un miraggio (la persona come monade, come individuo distinto e persino opposto alla società). L’osservazione, puntando su «ciò che avviene in realtà» (l’esperienza di Hume), fa capire invece che «una società quale è concepita dall’individualismo non è mai esistita in alcun luogo» (1991: 82-83, c.m.). Ridotto l’individualismo a semplice ideologia e sgretolata la distinzione tra una visione moderna e “scientifica” e una visione pre-moderna e prescientifica della persona, Dumont apre la strada a un’analisi più approfondita delle concezioni di io e di persona elaborate da altre società. A cominciare dallo studio sul concetto di persona dei Kanak della Nuova Caledonia da parte di Maurice Leenhardt – su cui ci concentreremo nel prossimo capitolo –, quello che appare in modo sempre più indubitabile è

l’idea profondamente relazionale di io e di persona: un’idea che non è affatto confinata a società extraeuropee. In effetti, a proposito di scientificità, come non notare una convergenza sempre più netta tra le concezioni relazionali della persona, elaborate dalle società che continuiamo a definire pre-moderne, e le prospettive relazionali che si sono sempre più sviluppate nelle diverse correnti della psicologia del Novecento (Liotti 2005)? Riteniamo importante sottolineare questa convergenza sulla prospettiva relazionale, almeno per le seguenti ragioni: in primo luogo, perché sarebbe ora di sfatare l’idea che le società premoderne siano anche, inevitabilmente, pre-scientifiche, escluse dunque dalla scienza, e in secondo luogo perché, una volta riconosciuto il valore scientifico delle concezioni elaborate da altre società, saremmo anche più propensi a cogliere, nelle loro concezioni dell’io, della persona o dell’essere umano, spunti e temi che possono arricchire le nostre stesse concezioni (filosofiche, scientifiche, culturali o sociali che siano). Uno degli spunti di approfondimento che provengono dalle ricerche antropologiche sul concetto relazionale di persona è la proposta di considerare l’essere umano in termini di “dividualità”, anziché di “individualità”. L’individuo è infatti un’entità integra e compatta, a cui si possono aggiungere relazioni dall’esterno; il “dividuo” è invece un luogo (un’area di esperienza) fatto esso stesso di relazioni. Commentando le analisi di Maurice Leenhardt (1971)e di Marilyn Strathern (1988), si può dire che «la persona coincide non con un individuo a sé, ma con il fascio di relazioni in cui egli è inserito» (Remotti 2009: 333). Vale la pena citare per esteso il brano di Strathern, in cui l’antropologa inglese, specialista dell’area melanesiana, utilizza esplicitamente la nozione di dividuo10: Lungi dall’essere considerate come entità uniche, le persone in Melanesia sono concepite sia in termini dividuali sia in termini individuali. Esse contengono al loro interno una società generalizzata. In effetti, le persone sono di frequente costruite come i luoghi plurali e compositi dove convergono le relazioni che le producono. La singola persona può quindi essere immaginata come un microcosmo sociale (Strathern 1988: 13).

Quale è l’apporto che – sotto il profilo epistemologico – può fornire la nozione di “dividuo”? Esso consiste nell’introdurre esplicitamente la socialità all’interno di ciò che chiamiamo io, persona, sé. In altre parole, non si tratta soltanto di inserire o di collocare gli individui in un contesto relazionale e sostenere che essi non possono farne a meno; si tratta invece di concepire in maniera più radicale gli umani come esseri intrinsecamente

sociali, in quanto essi, lungi dall’essere individui, coincidono con il fascio di relazioni che li formano. È importante rendersi conto della netta differenza tra la nozione di “individuo”, che per la sua indivisibilità (la simplicity di Hume) non può essere di per sé sociale, e la nozione di “dividuo”, che per il suo carattere composito e dunque per la sua scomponibilità contiene invece al suo interno molteplicità e socialità. Come si vede, non si tratta soltanto di rimarcare la molteplicità all’interno dell’io – su cui ci siamo già soffermati –, ma di comprendere come tale molteplicità, lungi dall’essere abbandonata a sé stessa, non possa non assumere una configurazione, che la fa assimilare a una città (Pascal; Scott 1998: 117), a una repubblica (Hume), a una comunità (Bencivenga), a una società (Minsky), a un noi (Hegel), a una qualche forma di convivenza. Una molteplicità senza organizzazione sarebbe ovviamente un disastro per l’io. Si potrebbe continuare a lungo nella ricerca di questo tipo di immagini. Più importante è però cercare degli spunti per capire un po’ meglio la socialità con cui i “dividui” sono fatti al loro interno. Richiamandosi a un certo pensiero marxista, e in particolare a Étienne Balibar (Balibar e Morfino 2014), Carlo Capello ha proposto di scorgere nel trans-individuale la «vera stoffa della realtà umana», ovvero quella socialità o «relazionalità originaria» riconosciuta tanto da Marx, quanto da numerose società africane e soprattutto melanesiane (Capello 2012: 111, 108; 2016). Qui vorremmo fare un passo ulteriore, cercando di interpretare la socialità interna alla luce del concetto su cui ci siamo soffermati nei paragrafi precedenti, ossia il concetto di somiglianza: sostenendo, in altre parole, che i “dividui” sono grumi di somiglianze e di differenze. La loro socialità (interna ed esterna) è fatta principalmente di questo composto. A questo composto abbiamo già dato il nome di SoDif, cioè il miscuglio di somiglianza e differenza. Ancora una volta David Hume ci viene in soccorso, anche se qui ci avvantaggeremo del commento particolarmente significativo di Jean-Pierre Cléro, il quale ha dedicato un articolo all’analisi della somiglianza in Hume intesa come «una relazione dinamica» (Cléro 1995). Cléro chiarisce che la somiglianza per Hume riguarda non tanto uno stato di cose, quanto piuttosto un’operazione che «rende simili» atti mentali eterogenei (1995: 499). Noi diremmo che la somiglianza dipende da operazioni di “assomigliamento”, le quali, se si

mantengono nel regime delle somiglianze (a) e non in quello dell’identità (b) (§ 4), implicano pur sempre una certa quota di differenze11. Se ora consideriamo le operazioni di assomigliamento all’interno dei “dividui”, è facile constatare che praticamente a ogni istante il soggetto si trova implicato in un dinamismo più o meno profondo del suo SoDif, cioè del groviglio di relazioni (somiglianze e differenze) con cui il soggetto coincide in un dato momento. Immaginiamo il soggetto S messo di fronte a un evento E: tale evento, nel momento in cui è vissuto, viene reso “simile e differente” rispetto a eventi precedenti e andrà a sedimentarsi in un SoDif più o meno consapevole12. Il SoDif del soggetto non rimane immobile: anche se di poco, il processo di assomigliamento/differenziamento (AsDif) indotto dall’evento E lo modificherà, provocando così modifiche dello stesso soggetto S. Cléro fa notare che «una somiglianza», per quanto venga concepita come un semplice rapporto tra due eventi o due oggetti, «in realtà mette in gioco una prodigiosa complessità di atti» (1995: 501). Per usare la nostra terminologia, il SoDif di un dividuo non solo è sempre dinamico, in quanto costantemente sollecitato dagli eventi, ma contiene in sé una ramificazione impressionante di relazioni, alcune delle quali consapevoli, altre meno e altre del tutto inconsce. Potremmo azzardare a dire che il SoDif di un dividuo ha la stessa complessità di connessioni dei neuroni del suo cervello: forse, in un certo senso, si tratta delle due facce di uno stesso fenomeno. Proprio come la corteccia cerebrale, il SoDif esibisce una sbalorditiva potenzialità, ovvero una enorme molteplicità di connessioni potenziali, elemento questo che spiega ulteriormente il carattere di “instabilità” che avevamo già colto a proposito delle somiglianze nel § 4, insieme al carattere della “manipolabilità”. È come se il SoDif richiedesse esso stesso degli interventi manipolativi, i quali passano in primo luogo attraverso una “rappresentazione” del nesso delle somiglianze e delle differenze. Approfondendo il concetto di somiglianza in Hume, Cléro sottolinea che non si dà somiglianza se non “rappresentata”, se non colta da un particolare «punto di vista», il quale tuttavia non è meramente contemplativo: notare somiglianze è in un certo senso “volere” quelle somiglianze; e le somiglianze, lungi dall’essere date in natura, risultano «unite arbitrariamente nella fantasia» (Hume 2001: 49), in qualche modo «forzate» dall’immaginazione (Cléro 1995: 502), modellate dalla rappresentazione. Alla base delle somiglianze c’è dunque

sempre una qualche decisione, una qualche scelta, la quale, indipendentemente dal suo grado di consapevolezza, sarà anche sempre più o meno arbitraria. 6. Processi di soggettivazione Abbiamo affermato che il SoDif è l’impasto con cui sono fatti i soggetti; abbiamo però anche sostenuto che le somiglianze e differenze, che vanno ad alimentare il SoDif, sono frutti, più o meno arbitrari, di scelte e decisioni, a prescindere dal loro grado di consapevolezza. Dire scelte e decisioni non significa però ammettere che c’è preventivamente un soggetto che sceglie e decide, un «nocchiero nella nave», per usare l’immagine di René Descartes (Di Francesco 1998: 37)? Non significa forse reintrodurre dalla finestra quel concetto di individuo “sostanza” che, oltre tutto, la tradizione scolastica (Severino Boezio, Tommaso d’Aquino) qualificava come avente una natura razionale (individua substantia naturae rationalis)? Probabilmente questo è lo scoglio più difficile da superare. Occorre infatti riconoscere, ancora una volta, che il SoDif è un terreno molto scivoloso, ovvero che nell’instabilità delle somiglianze la tentazione di fare nostra l’identità di un soggetto stabile e permanente è molto forte. Resistere a tutto questo significa provare a pensare di nuovo il soggetto – non in termini di semplicità, ma di molteplicità; – non in termini di identità, ma di somiglianza; – non in termini di sostanza, ma di processo; – non in termini di individualità, ma di dividualità. Riprendiamo il nostro discorso dalla manipolabilità del SoDif e dalla molteplicità pressoché incontrollabile di direzioni in cui possono spingersi le somiglianze. La situazione può essere descritta con il concetto di complessità: l’essere umano – ci dicono i neurobiologi a proposito del cervello – contiene nel suo cranio il sistema forse più complesso che sia dato in natura (Siegel 2001: 12). Instabilità, potenzialità, complessità sono dimensioni delle somiglianze che richiedono “interventi”, non importa quanto arbitrari. Ma dire arbitrarietà non significa dire esclusione di regole. Come afferma Cléro a proposito della somiglianza in Hume, non importa quanto essa «sia decisa, piuttosto che subita passivamente», quanto «arbitrari possano sembrare» gli assomigliamenti tra esseri differenti: «la

somiglianza non sfugge» per questo alla presa di una qualunque «regola» (Cléro 1995: 552). In quell’area in cui si annodano relazioni, in cui si forma il SoDif che dà luogo a soggetti “relazionali”, “somiglianti” e “dividuali”, vi sono criteri, regole, esigenze. Facendone un breve elenco, abbiamo la presunzione di far vedere come si passi da una molteplicità disorganizzata a una qualche configurazione interna, ovvero come il SoDif interno possa assumere la forma di un soggetto che, lungi dall’essere un iosostanza, un sovrano, un despota, è qualcosa di simile a un noi, una società, una comunità, una convivenza. La prima regola, che proponiamo di porre alla base di ogni processo di soggettivazione, può essere individuata nella riduzione della complessità (Remotti 2011a: cap. VI). La complessità neuronale – come in genere ogni tipo di complessità – è una miniera di risorse, ma per coglierle e sfruttarle occorre orientarsi, scegliendo e decidendo alcuni cammini tra i molti possibili. Con la molteplicità indescrivibile di fattori, di eventi e di istanze di cui è fatto l’io, una seconda esigenza che si impone – ovvero, un secondo criterio di selezione delle somiglianze – può essere individuata nella coerenza, la quale implica in primo luogo una riduzione dell’eterogeneità iniziale: in effetti, si ottiene un maggiore grado di coerenza nello spazio relazionale dividuale allorché si aumenta il grado di compatibilità, di somiglianza, di collaboratività e di convergenza delle diverse componenti del soggetto (tra le sue emozioni e reazioni, così come tra i suoi ruoli e le sue funzioni). Non per niente, coerenza è una qualità che garantisce una relativa «integrazione» del soggetto (Siegel 2001: 312). Leon Festinger affermava che l’incoerenza crea «uno stato di disagio psicologico» e che perciò «l’individuo mira alla coerenza con sé stesso» (1978: 1-2). Lo psicologo americano ritiene più opportuno usare i termini dissonanza al posto di incoerenza e consonanza al posto di coerenza, in quanto termini più neutri, meno connotati sotto il profilo logico. La sua tesi di fondo è dunque la seguente: L’esistenza della dissonanza, provocando un disagio psicologico, spingerà l’individuo a tentare di ridurla per ottenere la consonanza (1978: 2).

L’individuo è quindi portato a comporre le sue opinioni e i suoi comportamenti in complessi consonanti, dotati di una loro intima coerenza. Festinger usava il termine individuo. Se – come ormai noi

facciamo – usiamo il termine “dividuo”, con la sua connaturata molteplicità e scomponibilità, ancor più si può dire che esso avverte questa esigenza e ha quindi di mira il raggiungimento di un certo grado di consonanza o di coerenza. Se la coerenza si esplica soprattutto sul piano sincronico, la terza esigenza che orienta le scelte di somiglianza, cioè la continuità, si manifesta sul piano della diacronia. Senza dubbio, la memoria, con la sua funzione selettiva, consente di collegare, anche in termini dinamici o di sviluppo, i diversi tipi di persona e di prestazioni che il soggetto ha svolto nel tempo, sottolineando e incrementando le somiglianze tra condizioni soggettive spesso molto lontane nel tempo. Infine, un quarto criterio, quale è quello della definibilità del soggetto, e dunque della sua riconoscibilità, interviene a incrementare ulteriormente gli esiti delle operazioni di assomigliamento/differenziamento (AsDif) sia all’interno del sé, sia all’esterno nei rapporti con gli altri. I confini (garanti della definibilità-riconoscibilità) vengono infatti “costruiti” recidendo alcune somiglianze con l’esterno e aumentandone altre all’interno. Questi interventi sulle somiglianze, ovvero queste manipolazioni del SoDif soggettivo, possono avvenire – come si è già chiarito nel § 4 – a) in un regime dove vengono mantenute le somiglianze oppure b) in un regime in cui si “tenta” di sostituire le somiglianze con l’identità, il dividuo con l’individuo. Se ci si mantiene in un regime di somiglianze, l’integrazione, di cui parla per esempio Daniel Siegel (2001: 312), potrebbe essere intesa anche in un altro modo. Se l’io è, tutto sommato, una società, una sorta di club, come direbbero Derek Parfit (1989) e Daniel Dennett (1993), ovvero un Noi, come sosteneva Hegel (2003: 273), potremmo anche usare il concetto di “convivenza” per designare la problematica dell’organizzazione interna dell’io: una vera e propria “politica delle somiglianze” trasferita dallo spazio inter-soggettivo allo spazio intrasoggettivo13. Tutto sta a vedere se il Noi ha poi da essere un Io, un individuo, come appunto doveva essere per Hegel14, o se invece il soggetto è un noi a cui non si fa guadagnare una individualità superiore, ma designa pur sempre un “dividuo” molteplice, relazionale, coerente, organizzato. C’è un punto oltremodo significativo su cui bisogna ora soffermarsi. Il quarto criterio, quello della definibilità-riconoscibilità, se fatto agire in un regime di identità (b) dà luogo alla rappresentazione dell’individuo,

dell’individua substantia; ma se viene fatto agire in un regime di somiglianza (a) a che cosa può dare luogo? Esso non trasforma i dividui in individui (il noi in un io, come appunto avrebbe voluto Hegel), ma conferisce pur sempre ai dividui un carattere di relativa irripetibilità. Irripetibilità e individualità non sono la stessa cosa (si somigliano, ma non coincidono) e non c’è quindi bisogno di divenire o essere individui per essere riconosciuti come relativamente irripetibili, dunque nella propria distintività. L’irripetibilità non è nemmeno propria dell’identità; al contrario, essa si adatta perfettamente al concetto di somiglianza: tutte le cose simili sono in quanto tali relativamente irripetibili. Sia nel SoDif interno, sia nel SoDif esterno, molte cose si possono ripetere e vengono in effetti ripetute per garantire la continuità e la coerenza di cui abbiamo detto. Ma ogni prodotto di ripetizione, ogni “copia” (come abbiamo visto nel § 2 a proposito del santuario di Ise o delle capitali mobili africane), conserva la propria singolarità. Una copia è simile a un’altra o a un modello, ma se è copia, se non è il modello in quanto tale, significa che trattiene una differenza sia pur minima rispetto alle altre copie e al modello. Per questo parliamo non di irripetibilità assoluta, ma di irripetibilità relativa: una irripetibilità che si accompagna inevitabilmente alla ripetibilità. Un “dividuo” in quanto soggetto composito e relazionale è certamente intrecciato 1) a una pluralità di altri soggetti, 2) ad altre configurazioni di sé che si sono succedute nel tempo, così come 3) a diverse configurazioni di sé nella sincronia. Ebbene, possiamo dire che queste configurazioni, tutte più o meno somiglianti tra loro, sono anche e inevitabilmente irripetibili: non saranno, perché non possono essere, ripetute in tutti i loro aspetti. Non solo dunque somiglianza e irripetibilità relativa sono dimensioni compatibili, ma la stessa struttura della somiglianza produce irripetibilità relativa. E questo avviene – come già abbiamo anticipato – in quanto 1) nella somiglianza c’è sempre differenza, la quale non potrà mai essere ridotta a zero, e 2) le somiglianze, o per meglio dire l’impasto di somiglianze e differenze (il SoDif), sono sempre dinamiche. In altre parole, non occorre difendere l’individualità per vedere garantito un criterio fondamentale del riconoscimento, qual è appunto l’irripetibilità relativa. La differenza consiste nel fatto che l’irripetibilità dell’individuo si suppone che sia in qualche modo “per sempre”, mentre l’irripetibilità del dividuo è una qualità che inerisce a una molteplicità indescrivibile di situazioni e

configurazioni in cui il dividuo prende forma: ogni “copia” del dividuo possiede la propria irripetibilità, insieme alla somiglianza con tutte le altre copie. Detto in altri termini, l’irripetibilità dell’individuo è, staticamente e ontologicamente, una qualità esterna (l’individuo è irripetibile nei confronti di tutti gli altri individui), mentre l’irripetibilità del dividuo è una faccenda interna, inerente ai suoi diversi stati, condizioni, trasformazioni. Avendo sottoposto a critica la nozione di individuo, come rappresentazione inappropriata del SoDif interno, diviene per noi molto interessante quanto si legge in un recente articolo di tre scienziati, i quali pongono in netta discussione il concetto di individuo in biologia: una convergenza oltre modo importante. A quanto risulta da questa discussione, la «simbiosi» – dunque la convivenza – ha abbandonato la posizione di marginalità in cui finora si trovava, essendo ormai divenuta un «principio base della biologia contemporanea» (Gilbert, Sapp, Tauber 2012: 326). Non vorremmo esagerare, ma la visione di Anassagora, con cui abbiamo iniziato questo capitolo, fondata sul principio della compresenza delle diverse cose in ogni cosa, trova una sua applicazione nel ribaltamento di posizione a cui la simbiosi è stata sottoposta: da una posizione di marginalità a una posizione di centralità. È decisiva la tesi esposta nell’articolo ora citato, secondo cui gli organismi animali «sono composti di diverse specie che vivono, si sviluppano ed evolvono insieme». Il risultato teorico è di notevole rilievo: il concetto classico di individuo è stato soppiantato e al suo posto è invece emersa l’idea di una «relazione interattiva tra le specie», la quale «rende sfumati i confini degli organismi e fa svanire la nozione di un’identità essenziale» (c.m.). Dato che in biologia ci si chiede ormai se la simbiosi non debba essere considerata come «la regola e non l’eccezione» e se «la cooperazione intima tra specie» non sia «un aspetto fondamentale dell’evoluzione» (Gilbert, Sapp, Tauber 2012: 326), riteniamo che qualcosa di analogo dovrebbe avvenire anche nelle scienze umane. La strada verso questo modo di pensare viene aperta sia dal concetto di “dividuo” come luogo di interazione e di convivenza (in sostituzione dell’individuo, realtà autonoma e compatta, a cui si aggiungerebbero in un secondo momento le relazioni), sia dalla logica delle somiglianze e delle differenze, ovvero dall’idea che il “dividuo” è fatto di un groviglio di somiglianze e differenze

(SoDif), qualunque sia la rappresentazione, congruente o non congruente, che i soggetti elaborano di sé stessi (regime delle somiglianze oppure regime delle identità [§ 4]). Un punto in effetti occorre qui chiarire. La logica delle somiglianze ci ha fatto capire che, se l’io è soltanto simile (non identico) a sé stesso, l’io allora è un noi dove coabitano, nel presente, nel passato e nel rapporto tra presente, passato e futuro, diverse istanze e configurazioni tenute insieme dal SoDif soggettivo, dal groviglio di somiglianze e differenze che occupa sia la sincronia sia la diacronia. Il problema squisitamente psicologico, con indubbie implicazioni psichiatriche, è quello di far “convivere” (e non semplicemente “coesistere”) queste diverse istanze. Come forse si ricorderà, nel capitolo II (§§ 5-6) abbiamo già affrontato la distinzione tra “convivere”, che è un’attivazione di relazioni, e “coesistere”, che presuppone invece l’istituzione e un ordinamento di categorie ed è fondato sul principio della separazione dei soggetti15. Si tratta ora di applicare questa distinzione al SoDif interno e osservare come prenda senso nel distinguere una situazione di normalità, in cui prevale l’armonizzazione della molteplicità che caratterizza ogni sé (Liotti 2005: 207), e una situazione patologica, quale è esemplificata dai soggetti a personalità multipla. Daniel Dennett ha esplicitamente affrontato il problema del Disturbo della Personalità Multipla come una vera e propria «sfida» alla teoria che concepisce il soggetto normale in termini di molteplicità (Dennett 1993: 466). Se la teoria della molteplicità è condivisibile, se tutti i “dividui” sono inevitabilmente molteplici, che differenza ci potrà mai essere tra un soggetto da noi considerato normale e un soggetto a personalità multipla? In effetti – potremmo chiederci – c’è davvero tanta differenza (una differenza incolmabile) o non c’è piuttosto una certa somiglianza, una certa continuità? Sarà per questo legame neanche poi tanto nascosto che Dennett ha voluto occuparsi direttamente di soggetti a personalità multipla. Questi ultimi possono essere descritti come soggetti in rapporto ai quali un singolo corpo umano è «abitato» da parecchi sé, ognuno con un nome proprio e una propria biografia. L’esame delle storie di vita condotto da Dennett gli ha consentito di scoprire che nella maggior parte dei casi si tratta di persone che nella loro prima infanzia avevano subìto abusi sessuali prolungati. Questi bambini – continua Dennett (1993: 467) – per sopravvivere hanno dovuto mettere in atto una strategia, che è consistita in

una «disperata ridefinizione dei propri confini»: hanno creato sé nettamente differenziati, con storie diverse, proprio per mettere da parte l’orrore che altrimenti li avrebbe soverchiati. Oltre che disperazione, c’è creatività (secondo Dennett) in questo tipo di reazione, e qui noi potremmo aggiungere che il processo (doloroso e disperato) di «divisione» ha coinciso con un taglio netto operato sul SoDif soggettivo. Abolendo continuità e somiglianze, si sono venuti a creare sé differenti, e per così dire “individuabili”, ognuno dotato di personalità differenti: invece di “convivere” intrecciando relazioni, questi diversi sé “coesistono” o, meglio ancora, “coabitano” (a tempi alterni) sulla base di un criterio di netta “separazione”. Sulla scia di Dennett, Liotti interpreta molto bene questa sindrome, facendo notare che nel soggetto normale «i “membri del club” sono numerosi e sufficientemente simili tra loro», consentendo così un loro facile e fisiologico avvicendamento, mentre nella personalità multipla i membri del club sono «troppo pochi» (Liotti 2005: 208, c.m.). Sono, egli aggiunge, versioni irrigidite, quasi tragicamente caricaturali, di sé salvatore, di sé persecutore, di sé vittima; versioni di sé, inoltre, prive delle sfumature, delle articolazioni e delle lievi varianti che caratterizzano le molteplici rappresentazioni di sé da cui la maggioranza degli esseri umani continuamente prende le mosse per “narrare” sé a sé stesso e agli altri.

Per Dennett, però, non è questione di quantità di sé ospitabili in un corpo: non è questione di troppi o di troppo pochi sé; «anche uno è troppo» (Dennett 1993: 466). La teoria di Dennett prevede infatti la «possibilità teorica» sia delle personalità multiple, sia delle personalità condivise, come è esemplificato dal caso delle tre gemelle che agiscono, parlano, sentono all’unisono, come se fossero un unico soggetto: «due o più corpi che condividono un unico sé!» (1993: 469). È una questione non di quanti sé abitano un corpo (in regimi di coesistenza oppure di convivenza), ma di «quanto è unificato» il sé di ciascuno di noi (1993: 470). Noi diremmo che è questione di quanto si è provveduto a “tagliare” e a “separare” o, invece, a “integrare” e “unificare” il SoDif soggettivo. Il groviglio di somiglianze e differenze che ci costituisce è infatti per Dennett non un sé unico, compatto, perenne, ma un «quasi-sé, semi-sé, sé transitori» (1993: 472). È insomma una questione di gradualità nella gestione delle somiglianze e delle differenze, un diverso calibrare l’incidenza delle une e delle altre, una diversa composizione del miscuglio, un modo sempre difficile e mai definitivo di decidere se occorra accentuare

le somiglianze o piuttosto rimarcare le differenze16. Dire groviglio significa infatti porre in primo piano un problema di ordine (insieme a coerenza e continuità). Ma se le operazioni sul SoDif si mantengono entro l’orizzonte delle somiglianze (anziché delle identità), l’obiettivo non può essere nulla più che «un po’» di ordine (Remotti 2010: XXII), poiché ciò che rimane fuori dall’ordine non è un semplice scarto inerte e trascurabile: è invece lo spiraglio attraverso cui il soggetto respira, la zona di indecisione che è in grado di accogliere il futuro. Questa (il futuro) è in effetti una dimensione non solo importante, ma decisiva e vitale, la quale va ad aggiungersi alle regole e alle esigenze che abbiamo elencato prima. Infatti, oltre a 1) ridurre la complessità e a garantire 2) coerenza, 3) continuità, 4) definibilità e riconoscibilità del soggetto, il criterio 5), che potremmo chiamare della progettualità o comunque dell’apertura verso il futuro, sfrutta le lacune, le indecisioni e le potenzialità del SoDif soggettivo (il quasi-sé di Dennett) per le trasformazioni che si rivelano opportune, auspicabili, necessarie. Anche su questo punto Dennett ci è di aiuto, allorché sostiene che «lo scopo principale del cervello è quello di produrre futuro» e che occorre «estrapolare un utile futuro dal nostro passato personale» (Dennett 1993: 200-202). Ma questo è possibile se ci si mantiene entro l’orizzonte delle somiglianze, ovvero sul terreno che abbiamo chiamato SoDif. Se invece si persegue l’obiettivo dell’identità, è come se si volgesse il capo unicamente verso il passato, rinunciando al criterio della progettualità, e si volesse ottenere non un po’, ma al contrario il massimo, anzi il tutto, della coerenza, della continuità, dell’integrità, quale è espresso in effetti dalla nozione di individuo. 7. Rappresentazioni più o meno congruenti I processi di soggettivazione, su cui ci siamo soffermati, partono sempre da un groviglio di contenuti di cui è fatta la nostra vita (Dennett 1993: 156). Ma questo groviglio – ce lo diceva già Anassagora (§ 1) – non è mai del tutto superato: come SoDif esso accompagna tutti i progetti, impliciti o espliciti, di soggettivazione, e si ripresenta a ogni risultato provvisoriamente raggiunto. Il SoDif è talmente persistente che, lungi dall’essere soltanto una materia modellabile, entra a costituire lo stesso

soggetto che pretende di imporre in esso un po’ di ordine. Che cosa intendiamo con questo? Intendiamo suggerire qualcosa di difficile da apprendere per la nostra cultura, la quale ha inteso l’individuo come un soggetto sostanziale, dotato di identità (base e fondamento per alcuni, obiettivo da raggiungere per altri, o entrambe le cose). «Difficile, ma non impossibile», sostiene Dennett (1993: 472), se è vero che si tratta pur sempre di cultura, di una tradizione culturale. Sulla faccenda del soggetto è istruttivo leggere quanto ebbe a scrivere nella seconda metà dell’Ottocento Friedrich Nietzsche, un filosofo un po’ sciamanico, il quale, appunto come gli sciamani, si era portato ai confini della nostra cultura, procedendo rischiosamente al di là di questi stessi confini: non esiste alcun “essere” al di sotto del fare, dell’agire, del divenire: “colui che fa” non è che fittiziamente aggiunto al fare – il fare è tutto (Nietzsche 1984: 34).

Judith Butler ritiene che questa tesi sia «una sfida per poter ripensare le categorie di genere al di fuori della metafisica della sostanza» e quindi provare a pensare a «un fare il cui agente» non sia un soggetto «preesistente all’atto» (Butler 2013a: 38). A sua volta, Dennett sostiene che si debba resistere alla tentazione, per noi così naturale, di spiegare l’azione come dovuta «agli imperativi di un comandante interno», così come ritiene che le divisioni e i confini che danno luogo alle personalità multiple non debbano essere ricondotti a un «supervisore centrale» (Dennett 1993: 281, 467). «Adesso ci sono i sé», ma sarebbe un guaio pensare i sé come «animeperle che esistono indipendentemente» e che anzi guidano le operazioni che si verificano nei soggetti (1993: 459). I sé non sono entità autonome e preesistenti; sono invece i «risultati dei processi sociali» che si svolgono dentro di noi e che «ci creano» (1993: 471). Ciò che dobbiamo afferrare per cercare di comprendere i processi di soggettivazione sono allora i seguenti punti: 1) la molteplicità e il groviglio dei contenuti; 2) la necessità di intervenire sul groviglio, affinché si possa pervenire non a un caos intollerabile, ma ad una accettabile e proficua “convivenza” interna; 3) anziché preesistere e dirigere da fuori queste operazioni, i soggetti sono gli stessi interventi che creano un po’ di coerenza, di continuità, di interazione, lasciando nello stesso tempo margini di indeterminazione e potenzialità.

Secondo Dennett, queste operazioni sono soprattutto le autorappresentazioni narrative con cui gli esseri umani si definiscono e si proteggono. Certamente «i nostri racconti vengono tessuti», ma noi non siamo i tessitori prima della tessitura; al contrario, sono i racconti che «ci tessono» (1993: 464). In altre parole, noi ci impegniamo nei processi di soggettivazione, ma come non c’è un soggetto preesistente al processo, così nemmeno possiamo pensare che la soggettivazione metta capo a un soggetto qualitativamente diverso rispetto alle condizioni di partenza: siamo o nasciamo “dividui” e tali rimaniamo. Per gli esseri umani lo status di “individui” (dotati di una identità sostanziale) è null’altro che un miraggio. Ciò che i processi di soggettivazione consentono di acquisire è la condizione di “dividui”, dotati di sufficiente organizzazione, integrazione, riconoscibilità. Ovvero, noi non siamo altro che grovigli di SoDif appena un po’ ordinati. Si può tentare di uscire da questa condizione? Che vengano fatti tentativi non c’è dubbio; ed è effettivamente interessante indagare i modi con cui le culture tentano di sottrarsi ai numerosi limiti della condizione umana. Uno di questi tentativi può essere colto proprio nella rappresentazione di noi stessi che una parte consistente delle tradizioni di pensiero della nostra civiltà ha finora sviluppato, quelle tradizioni cioè che hanno concepito gli esseri umani come “in-dividui” sostanziali, depositari ed esponenti diretti della natura umana. Il problema che si pone, e rispetto al quale ci limitiamo a un semplice accenno, è quali siano le conseguenze che possono scaturire dallo scarto tra la condizione umana, da un lato, e una rappresentazione poco o per nulla congruente, dall’altro, ovvero tra a) una condizione che in questo capitolo abbiamo descritto in termini di dividualità, di grovigli di somiglianze e differenze (il SoDif soggettivo) e b) un modo di rappresentare l’essere umano in termini di individualità e di identità. Sul piano rappresentazionale, l’identitarismo compie infatti le seguenti operazioni: 1) cerca di sciogliere il SoDif, il miscuglio di somiglianze e differenze, separando le une dalle altre; 2) colloca poi all’interno del soggetto le somiglianze, le quali, prive di differenze, tendono a divenire sempre più “somiglianti” e a trasformarsi infine in “identità”; 3) a loro volta, le differenze, collocate al di fuori del soggetto, e private

della componente della somiglianza, si trasformano in “alterità”. In altri scritti (Remotti 1996; 2010), oltre che nel capitolo II di questo libro, si è voluto far vedere come l’ossessione identitaria determini nei contesti inter-soggettivi una opposizione, una vera e propria spaccatura tra identità e alterità. Se tenuta sufficientemente sotto controllo, l’idea di identità può generare situazioni di “coesistenza” (pur essendo ovviamente preclusa la soluzione “convivenza”). Ma se le regole di controllo (individuate soprattutto nella tolleranza) non reggono, la situazione può ben presto precipitare verso atteggiamenti di rifiuto e di negazione (mentale e fisica) dell’altro (cap. II, § 4). Quali siano implicazioni e conseguenze che invece affiorano nei contesti intra-soggettivi a partire da queste impostazioni è qualcosa che possiamo scorgere nelle barriere protettive che l’identitarismo erige in maniera “eccessiva” attorno ai soggetti illusoriamente trasformati in individui, ossia in monadi per le quali la socialità è soltanto esterna e le relazioni risultano fittizie e aggiuntive. Giampaolo Lai ha da tempo preso le distanze dal «pregiudizio identitario», il quale svia lo stesso percorso psicoterapeutico: invece di accettare come «condizione corrente» le differenze che una persona può esibire sia nel suo rapporto con sé, sia nel suo rapporto con gli altri (quelle differenze che, mescolate alle somiglianze, costituiscono il tessuto psichico di base degli esseri umani), la prospettiva identitaria interpreta tutto ciò come «modello e prototipo della pazzia» (Lai 1988: 13). In modo simmetrico e opposto, essa si intestardisce nel «ricercare l’identità smarrita del paziente», così da ristabilirne l’unità (1988: 15). Come si vede, non abbiamo esitazione a interpretare come rappresentazione non congruente la concezione dell’identità rispetto a una condizione tutta fatta di somiglianze e differenze. Ma, quali che siano gli effetti generati dagli scarti tra “esperienza” e “rappresentazioni” non congruenti, qui vorremmo porre in evidenza alcuni punti conclusivi. 1) Ancorché non riconosciuto e mal trattato (si pensi ai “tagli” prodotti nel SoDif dalle rappresentazioni identitarie), il SoDif persiste: con tutto il suo disordine, le sue lacune, imperfezioni, incompletezze, il groviglio delle somiglianze e differenze, come un tesoro prezioso e nascosto, continua a offrire le sue potenzialità per la progettazione di forme e soluzioni umane

diverse. Come abbiamo più volte sostenuto, ciò che va sottolineato con forza e convinzione è la resilienza del SoDif. 2) Certo, non sarebbe male – come altre società hanno fatto, e come vedremo più in dettaglio nel prossimo capitolo – adeguare maggiormente le nostre rappresentazioni dell’io o del soggetto alle condizioni di dividualità e relazionalità su cui ci siamo soffermati, così da evitare gli “eccessi” epistemologici e pratici di una pericolosa cultura dell’identità e dell’individualità. In effetti, le diverse rappresentazioni dell’io o del sé non sono affatto equivalenti o intercambiabili. Un’esplorazione nelle antropologie e psicologie elaborate da altre società – pur prive di scrittura, di accademie, di finanziamenti e di ricercatori professionali, ma più attente alle somiglianze, anziché essere ossessionate dall’identità – può fornire al proposito spunti, temi e suggerimenti che sarebbe semplicemente delittuoso lasciar cadere. 3) I due punti esposti prima ci inducono a una ulteriore considerazione. Riconoscere il SoDif interno, la sua persistenza, le sue potenzialità, e dunque l’inevitabilità di una sua saggia modellazione, induce a rifiutare gli esiti catastrofici a cui metterebbe capo la critica del concetto dell’individuo come sostanza. Ernst Mach, demolitore del concetto di sostanza, era pervenuto alla conclusione che «l’io è insalvabile [Das Ich ist unrettbar]» (Mach 1999: 106), e questa formula è stata utilizzata da più parti per indicare il disgregarsi dell’io. Michele Di Francesco indica anche lui un esito siffatto – «dissoluzione del soggetto di esperienza», «franare del nucleo stabile» dell’io – alla confluenza dell’impostazione anti-sostanzialistica dei cognitivisti e delle riflessioni filosofiche sull’identità personale (1998: 253254). In un convegno svoltosi a Milano il 24 marzo 2011, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dedicato a Robert Musil e a Hugo von Hofmannsthal, si è parlato espressamente di «“dissoluzione” dell’io». Ciò su cui vorremmo fare riflettere è che l’alternativa non è tra l’esistenza di un io-sostanza e il nulla, il vuoto, come se, messa in crisi l’idea dell’io-sostanza, non ci resterebbe altro da fare che assistere alla sua dissoluzione. Ciò che si dissolve in effetti non è l’io, la persona, il soggetto, bensì l’idea del loro carattere sostanziale e identitario. Al posto di un’illusoria compattezza dell’identità, della sostanza individuale, troviamo il SoDif e una sua rappresentazione adeguata. L’alternativa è dunque tra un

io-sostanza e un io-somiglianza, un io identico (un io-identità) e un io somigliante, anzi auto-somigliante ed etero-somigliante. Se opportunamente vagliati e intrecciati, i legami di somiglianza manifestano robustezza e tenacia: «la robustezza del filo» – noi potremmo dire “dell’io” – è data dal «sovrapporsi di molte fibre l’una all’altra» (Wittgenstein 1980: 47). Ciò che tiene, se tiene, non è la roccia: è invece l’intreccio. Un SoDif opportunamente trattato è un intreccio: e l’io è propriamente il risultato dell’intreccio e, nel contempo, la capacità e l’esercizio dell’intrecciare, come del resto aveva suggerito Daniel Dennett. Qui, ovviamente, non c’è nessuna garanzia metafisica, e le ontologie, da cui oggi molti antropologi e altri scienziati sociali – a seguito dei filosofi – si lasciano stranamente affascinare, sono del tutto fuori luogo17. L’io sta in piedi, riesce a reggersi e a camminare, soltanto grazie agli intrecci di cui è fatto e in cui si forma. Si può anche non essere in grado di fare dei buoni intrecci, che tengano. Si può anche fare degli intrecci che tengono troppo, che stringono, trattengono e comprimono. Si può anche assistere al disfarsi degli intrecci che hanno tenuto fino a un certo punto: di qui il disagio mentale, la sofferenza psichica ed esistenziale. Ma anche le smagliature, il non tenere, i parziali cedimenti dei legami di somiglianza, dunque le differenze, sono importanti, in quanto sono gli spiragli attraverso cui si accede al futuro. L’alternativa non è dunque tra la permanenza rocciosa e la dissoluzione, bensì tra il mito della permanenza rocciosa e una tenuta sufficientemente solida, ma non troppo, tale da consentire, per un verso, il ri-conoscimento sociale (un conoscimento che viene confermato e ripetuto), la responsabilità morale e l’imputazione giuridica, e per l’altro verso l’uscita verso il futuro e il cambiamento. 4) Tutto cambia? E quanto cambia? Il SoDif è interpretabile come il «flusso di coscienza [stream of consciousness]» di William James? Il neuroscienziato Sebastian Seung ha di recente proposto la visione di due tipi di sé. Il primo sé ha a che fare con la coscienza, e perciò «muta rapidamente da un momento all’altro» (Seung 2013: 14). Il secondo sé, invece, «è molto più stabile». È il sé che «conserva i ricordi dell’infanzia per una vita intera»; «le sue proprietà [...] perdurano negli stati di incoscienza» ed è peculiare della «sua natura» rimanere «per così dire, costante». Seung fa propria la metafora del fiume proposta da James. Con una correzione, però, importante, in quanto James ha parlato sì del fiume, ma è come se si

fosse dimenticato di distinguere tra il fiume e il suo letto: «ogni fiume ha un letto e [...] senza questo solco nella terra l’acqua non saprebbe in quale direzione scorrere». I partigiani dell’identità vedrebbero senz’altro nel letto del fiume ciò che finora abbiamo negato, cioè appunto l’identità. Ma Seung – come del resto Ameisen, che abbiamo citato nel paragrafo 3 – sottrae il letto del fiume all’idea di una permanenza identitaria: la sua natura è appunto “per così dire” costante, proprio come noi “diciamo” che siamo la stessa persona dalla nascita alla morte (Diotima – § 3). Il letto del fiume indica senz’altro qualcosa di “più” permanente dell’acqua che vi scorre dentro. Ma nel lungo periodo [...] l’acqua del fiume plasma lentamente il letto [...]. Quindi le due concezioni del sé – il fiume rapido e in continuo mutamento e il letto del fiume più stabile ma in lenta trasformazione – sono legate a filo doppio.

Qui si parla di due livelli di sé. Ebbene, potremmo fare altrettanto per il SoDif di ognuno di noi. E questo ci inviterebbe a introdurre la tematica dei SoDif lenti e dei SoDif veloci, ovvero a considerare livelli di SoDif in cui le auto-somiglianze tengono di più, sono più tenaci, forti, indiscutibili, assorbendo fin che possono le differenze che inevitabilmente insorgono, e livelli di SoDif in cui invece le differenze esplodono, incrinando le autosomiglianze, le continuità, le coerenze, e gettando i soggetti nelle avventure del divenire. Barcamenarsi tra lentezza e velocità di trasformazione del SoDif è un altro dei compiti in cui i soggetti – veri e propri equilibristi – prendono forma. 1

Del resto, la storica e teorica dell’architettura Françoise Choay – come Jordan Sand fa rilevare (2015: 146) – rifiuta di concepire il santuario di Ise come un fenomeno prettamente giapponese o asiatico, allargando invece lo sguardo a molte altre parti del mondo, in cui il significato storico dei monumenti va ben oltre la conservazione della forma fisica originaria (Choay 2001). 2 Secondo Jordan Sand, il caso del santuario di Ise farebbe vedere come, fuori dell’Occidente e del suo feticismo, «le copie venivano valorizzate non meno degli originali» e come il rinnovamento periodico del santuario si inscrivesse nella tradizione tipicamente orientale del «copiare» (Sand 2015: 150). Su questo tema Sand cita il volume di Alexander Stille (2003). 3 Per una ricostruzione del dibattito sull’autenticità come criterio del patrimonio materiale e immateriale si può consultare l’articolo già citato di Chiara Bortolotto, la quale se da un lato pone in luce l’abbandono da parte dell’Unesco del criterio dell’autenticità in relazione al patrimonio immateriale, dall’altro lato sottolinea l’insistenza su questo concetto da parte delle comunità che avanzano le loro candidature (Bortolotto 2011). A tutt’oggi – a quanto ci è stato riferito da Chiara Bortolotto (comunicazione personale del 6 agosto 2016) – il santuario di Ise non è stato ancora inserito nella lista dell’Unesco. 4 La doppia indicazione di pagina (per esempio 506-507) è dovuta al fatto che la citazione è tratta sia dalla traduzione italiana sia dal testo originale a fronte.

5

Si tratta della sezione VI (Of personal identity) della parte IV del libro I di A Treatise of Human Nature, del 1739 (Hume 2001: 502-527). Per una esposizione più distesa e completa della critica di Hume all’identità personale, ci sia consentito rinviare a Remotti 2010: 58-65. 6 Dire “il medesimo soggetto” è una vera e propria trappola identitaria, contro cui Hume ci pone in guardia, come vedremo meglio tra poco. Se qui abbiamo usato l’espressione “il medesimo soggetto” è proprio per fare vedere quanto facilmente la nostra mentalità sia indotta a costruire questo tipo di trappole. 7 Si veda la nota 6. 8 Nella traduzione italiana qui utilizzata si legge «una cauta osservazione della vita umana», ma forse «attenta osservazione» per cautious observation è soluzione preferibile. 9 Questo tipo di argomentazione è pure presente in Nietzsche e in alcuni suoi commentatori, i quali sottolineano come «la struttura grammaticale soggetto-predicato rifletta la realtà ontologica originaria della sostanza e dell’attributo» (Butler 2013a: 32). Secondo Michel Haar, «tutte le categorie psicologiche (l’ego, l’individuo, la persona) derivano dall’illusione di un’identità sostanziale», riconducibile alla «superstizione» di credere «nella verità delle categorie grammaticali»: infatti, «il soggetto, il sé, l’individuo, sono solo tanti falsi concetti, in quanto trasformano in sostanze unità fittizie che all’inizio hanno solo una realtà linguistica» (Haar 1977: 17-18, cit. in Butler 2013a: 32-33). Più avanti, avremo modo di vedere che la teoria del SoDif interno ci consente di non lasciarci intrappolare nell’alternativa secca tra l’io come sostanza, tutto d’un pezzo, e l’io come semplice flatus vocis, un nulla (o quasi). 10 Il tema della dividualità è diventato in effetti una sorta di Leitmotiv degli studi antropologici sulla persona, specialmente dopo l’impiego da parte di McKim Marriott (1976: 109-114) nella sua analisi della persona in India. Per una delucidazione ulteriore di questo concetto, si veda l’articolo di Carlo Capello (2012) e, più di recente, il suo lavoro complessivo sull’antropologia della persona (Capello 2016). 11 Riteniamo preferibile usare il termine poco elegante di “assomigliamento”, piuttosto che “assimilazione”, in quanto questa seconda parola allude a un assorbimento e a una trasformazione, a una fase cioè ulteriore, in cui sembra scomparire quasi del tutto la differenza. Assomigliamento, invece, indica soltanto un processo di avvicinamento, di incremento di tratti comuni, che rendono due cose, situazioni o soggetti più simili di quanto non fossero prima, senza che però vada perduta la componente della differenza ovvero del differenziamento. In altre parole, “assomigliamento” è sempre anche “differenziamento”, sia pure in dosaggi diversi. Come il misto di somiglianze e differenze può essere designato con il termine SoDif, così l’insieme di “as-somigliamento” e “dif-ferenziamento” potrebbe essere denominato (volendo) come AsDif. 12 Tali dinamiche sono già state analizzate nel cap. V a proposito del pensiero di Hume (§ 4) e di Hofstadter e Sander (§ 9). 13 Abbiamo già usato l’espressione “politica delle somiglianze”, tratta da un articolo dell’antropologo Simon Harrison (2002), nel capitolo V, § 10, oltre che in scritti precedenti (Remotti 2013a). 14 L’espressione che Hegel usa nella Phänomenologie des Geistes, del 1807, è infatti la seguente: «Io che è Noi, e Noi che è Io (Ich, das Wir, und Wir, das Ich ist)» (Hegel 2003: 272-273). 15 Per un approfondimento della problematica categorie/relazioni ci sia consentito rinviare a Remotti 2015. 16 A noi pare che, nel valutare la personalità di Pietro Abelardo (1079-1142), il suo antagonista Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) avesse effettivamente utilizzato il criterio del SoDif interno, si fosse cioè posto nella prospettiva delle somiglianze e delle differenze, anziché dell’identità. Agli occhi di Bernardo, Abelardo appare infatti un homo sibi dissimilis, «un uomo

dissimile a sé stesso», e per questo totus ambiguus, «completamente ambiguo» (cit. in Gurevič 1996: 167). È notevole rilevare che questa carenza di somiglianza o – se si vuole – questo prevalere della dissomiglianza nel SoDif interno dà luogo non soltanto a una perdita di coerenza, ma anche a una difficoltà di riconoscimento da parte dei suoi stessi amici. A quanto pare, l’epitaffio scritto dagli amici sulla sua tomba recita infatti: «Qui giace Pietro Abelardo. Soltanto lui avrebbe potuto dire chi fosse...». E forse nemmeno lui. Va da sé che questa nota non entra nel merito della psicologia di Abelardo. Intende soltanto porre in luce il modo con cui amici ed avversari hanno considerato la sua personalità, ossia non in termini di identità, bensì di somiglianze e differenze. 17 In antropologia si parla espressamente di “svolta ontologica”, i cui protagonisti più riconosciuti sono Eduardo Viveiros de Castro e Philippe Descola. Dubbi e critiche su questo tipo di impostazione sono stati avanzati, tra gli altri, da David Graeber (2015), Carlo Severi (2013), Francesco Remotti (2016c). Qui intendiamo sottolineare con la maggiore chiarezza possibile che il pensiero attento ai vari tipi di SoDif – alle “relazioni”, dunque, e non agli “enti” – rifiuta in quanto tale di essere descritto in termini di ontologia. Prediligere l’ontologia, e sostenere che ogni società elabori o adotti modi codificati di intendere le «disposizioni dell’essere» (Descola 2014: 145), significa fare proprio, che lo si voglia o no, un pensiero che ha inteso screditare le relazioni di somiglianza e differenza, a tutto vantaggio degli enti e delle loro collocazioni classificatorie o addirittura metafisiche (v. cap. III).

VII. Individui, dividui, condividui

1. Rappresentazioni e configurazioni dell’io Dovrebbe essere abbastanza chiara l’impostazione che intendiamo fornire al problema dell’io o, per meglio dire, del soggetto umano. Noi riteniamo che sia fatto di somiglianze e differenze, ovvero che il “contenuto” dell’esperienza soggettiva sia dato dal SoDif, sia sul versante interno, sia sul versante esterno, mentre la “forma” coincide con le configurazioni, tra variabili e permanenti, che esso viene ad assumere. Nel capitolo VI ci siamo occupati soprattutto del SoDif soggettivo interno (SoDif-In), mentre ora volgeremo la nostra attenzione soprattutto al SoDif esterno (SoDif-E). Parlare di SoDif interno e di SoDif esterno significa alludere inevitabilmente a una linea di confine, quella che divide l’io dagli altri, la propria soggettività dalle altre soggettività, e questa linea fa senza dubbio parte della configurazione che il soggetto assume. Tutto sta a vedere in che cosa consista questo confine, di quale natura esso sia, come venga inoltre tracciato. È possibile separare con un confine netto e invalicabile il SoDif interno (le somiglianze e differenze che un io ha con sé stesso) dal SoDif esterno (le somiglianze e differenze che invece segnano le relazioni che un io intrattiene con gli altri)? Oppure parlare di SoDif interno e di SoDif esterno comporta che la linea di separazione – se c’è – sia alquanto tenue e in ogni caso valicabile in entrambe le direzioni? Se facessimo valere la prima soluzione (confine netto e invalicabile tra SoDifIn e SoDif-E), si prospetterebbero due mondi eterogenei e incomunicabili, la cui compresenza suonerebbe come una smentita del principio stesso delle somiglianze (ovvero di ciò che abbiamo argomentato finora), a tutto vantaggio di una differenza radicale, incolmabile e assoluta tra interiorità da una parte ed esteriorità dall’altra. Se invece adottassimo la seconda

soluzione (non-confine o confine tenue tra SoDif-In e SoDif-E), allora si porrebbe il problema di quanto consistente e incisiva, e di quanto valicabile, possa essere la linea di separazione tra interno ed esterno, di quanta continuità e quanta discontinuità comporti la differenza tra i due ambienti. Philippe Descola – già da noi evocato nel capitolo precedente – ritiene che la distinzione tra interiorità ed esteriorità sia un tipo di esperienza compiuto da «tutti gli umani» e che «tutte le civiltà» l’abbiano «oggettivata a modo loro» nella costruzione delle loro ontologie (Descola 2014: 136). Descola conferisce in effetti a questa distinzione un forte peso ontologico (egli parla, per esempio, di «caratteristiche interne all’essere» contrapposte a quelle dell’esteriorità [2014: 137]), mentre noi abbiamo già preso le distanze dalla cosiddetta svolta ontologica, ritenendola del tutto incompatibile e inadeguata rispetto alle forme di pensiero che si fondano sul riconoscimento delle varie esperienze di SoDif, interno o esterno che sia, e della loro importanza (cap. VI, nota 17). Le ontologie si formano infatti proprio a partire dalla marginalizzazione, se non dalla negazione, delle forme di SoDif e – come Parmenide, Platone e Aristotele hanno insegnato al pensiero occidentale che a loro si richiama – pretendono di andare decisamente oltre l’esperienza infida e scivolosa delle somiglianze e differenze. In altri termini, le ontologie sono senza dubbio rappresentazioni, ma non tutte le rappresentazioni dell’esperienza del sé e del mondo sono ontologie. È inevitabile che gli umani procedano a rappresentarsi in qualche modo ciò che succede in loro e attorno a loro, le cose che compongono la realtà, tanto quanto l’esperienza che essi fanno del mondo; ma – se le parole hanno un senso – non è necessario che essi diano luogo a “ontologie”, ossia a rappresentazioni dell’“essere” o che utilizzino categorie inerenti l’“essere”. Lasciamo le preoccupazioni teoretiche per l’essere a quei filosofi e a quelle correnti di pensiero che effettivamente ne fanno oggetto di interesse prioritario. Molte società – specialmente quelle di cui si occupano di solito gli antropologi – non manifestano affatto questo tipo di preoccupazioni: e non è certo segno di primitività. La tesi dell’inevitabilità della rappresentazione – a prescindere dalle ontologie – vale in modo particolare nel campo della soggettività e dei processi di soggettivazione (v. cap. VI, §§ 6-7). È lo stesso SoDif soggettivo, così plastico, incerto, instabile, informe, multi-direzionale, a

richiedere che si intervenga al fine di farsene un’idea e di rappresentarlo, e quindi di manipolarlo, configurarlo, orientarlo. Abbiamo però anche suggerito che le rappresentazioni – tutti prodotti squisitamente culturali – non siano tra loro equivalenti, intercambiabili senza conseguenze, giacché esse incidono in maniera differente negli stessi processi di soggettivazione (formazione dei soggetti) e quindi nella loro configurazione. Soprattutto, non abbiamo avuto esitazione – anche a costo di essere fortemente criticati in particolare dagli antropologi – nell’introdurre una distinzione graduata tra rappresentazioni più congruenti e rappresentazioni meno congruenti. Le rappresentazioni più congruenti sono quelle che “riconoscono” il SoDif in maniera esplicita e in misura consistente, a prescindere dai modi peculiari con cui, a partire dal riconoscimento, esso viene poi trattato e configurato. Le rappresentazioni meno congruenti sono invece quelle che “marginalizzano” o addirittura “negano” o “ignorano” il SoDif (senza riuscire però a cancellarlo del tutto). Ovviamente – come già si è detto – in questo campo nessuna rappresentazione è neutra e innocua: i modi con cui il SoDif viene trattato (dall’estremo della valorizzazione all’estremo opposto della negazione) e gli esiti che ne conseguono sul piano pratico e comportamentale dipendono in buona misura dalle rappresentazioni (individuali e collettive) di cui esso è oggetto. Implicita, in quanto si è finora detto, è la distinzione tra alcuni livelli, tre in particolare: a) livello del SoDif: il SoDif, interno ed esterno, è la materia di cui riteniamo sia composto ogni soggetto; b) livello della rappresentazione: la natura stessa del SoDif richiede che esso venga rappresentato, e le rappresentazioni possono essere più o meno congruenti, in base alla misura in cui esse riconoscono il SoDif, fornendo immagini diverse dell’io; come già abbiamo preannunciato e come vedremo meglio tra poco, ci sono persino immagini dell’io che negano il SoDif; c) livello della configurazione: la configurazione dell’io è il risultato dell’interazione tra il SoDif come materia e la rappresentazione che se ne ha. Ciò significa che la configurazione non è il risultato diretto e univoco della rappresentazione: vi è un’interazione, vi è quindi un inevitabile compromesso tra le due componenti, tra la materia e le immagini dell’io che vengono elaborate sia dalla persona sia dalla società.

Questo punto si coglie molto bene allorché prendiamo in considerazione – come faremo proprio ora – un tipo di rappresentazione (l’individualismo) che nega il SoDif soggettivo. Mentre a livello di rappresentazione (livello b) il SoDif risulta assente, in quanto negato, a livello di configurazione (livello c) il SoDif, pur non menzionato, è comunque presente. Ancora una volta, occorre fare valere il principio della resilienza delle somiglianze e delle differenze. Questo significa che le rappresentazioni non hanno un potere totale, in quanto la materia del SoDif oppone sempre una certa forza (resistenza e/o resilienza) alle immagini che vengono elaborate sul piano rappresentazionale (sul piano del senso comune e delle psicologie folk, come si usa dire, così come sul piano di un pensiero teoreticamente e scientificamente più avveduto: filosofia, psicologia e in generale scienze umane e sociali). Neppure occorre pensare che le rappresentazioni siano del tutto innocue: come abbiamo già sostenuto prima, occorrerebbe poter valutare di volta in volta la loro efficacia. Avranno dunque una diversa incidenza in termini di configurazioni (dunque, di esiti) le rappresentazioni congrue e le rappresentazioni incongrue, quelle che riconoscono il SoDif e quelle che invece ne ignorano l’esistenza. A proposito di questo terzo livello c (quello della configurazione), riteniamo importante sottolineare un ultimo punto, ossia che le configurazioni sono risultati – alcuni più provvisori, altri più permanenti – che dipendono in parte dalle rappresentazioni a cui i soggetti sono esposti, in parte dalle scelte che essi compiono, in parte infine dalle esperienze, dalle circostanze e dagli eventi, anche di tipo collettivo, che segnano le vite dei soggetti. Sulla base di queste precisazioni, intendiamo ora affrontare un tipo di rappresentazione del soggetto umano a cui siamo particolarmente esposti, e che ha indubbiamente esercitato una notevole influenza nelle nostre società. L’individualismo moderno – l’idea che la persona o il soggetto umano autentico sia un “individuo”, una sostanza individuale non scomponibile, un atomo spirituale (per dirla con Leibniz), che come tale richiede di essere riconosciuto, mantenuto, rispettato – è una rappresentazione che tipicamente trascura o addirittura nega il SoDif. Proprio questa è la critica all’individualismo da parte di Max Horkheimer e Theodor Wiesegrund Adorno. I due filosofi hanno posto in luce che, se «la vita umana è», nella sua essenza, Zusammenleben, vita insieme,

«convivenza», è inevitabile mettere in discussione «il concetto dell’individuo come atomo sociale ultimo» (Horkheimer e Adorno 1966: 53), come nucleo irriducibile, oltre il quale non si può procedere. È molto significativo che nella loro critica al concetto di individuo i due filosofi tedeschi abbiano evocato non solo la convivenza, ma insieme ad essa i rapporti di somiglianza/differenza (SoDif), e dunque di condivisione, che la rendono possibile: Se nel fondamento stesso del suo esistere l’uomo è attraverso altri, che sono i suoi simili, e solo per essi è ciò che è, allora la sua definizione ultima non è quella di una originaria indivisibilità e singolarità, ma piuttosto quella di una necessaria partecipazione e comunicazione agli altri (c.m.).

Come si vede, i rapporti di somiglianza con gli altri (dunque il SoDifE, il SoDif esterno) non sono aggiuntivi, ma originari, costitutivi, fondamentali. Leggiamo ancora un brano di Horkheimer e Adorno: Prima di essere – anche – individuo, l’uomo è uno dei simili, si rapporta ad altri prima di riferirsi esplicitamente a sé stesso, è un momento delle relazioni in cui vive prima di poter giungere eventualmente ad autodeterminarsi. Tutto ciò viene espresso nel concetto della persona (1966: 5354).

I due filosofi spiegano questo punto fondamentale con argomentazioni che troveranno in questo stesso capitolo (§ 5) un rilevante riscontro teorico e un’adeguata illustrazione etnografica nell’antropologia della persona. Qui è importante sottolineare, fin da subito, come essi conferiscano priorità a ciò che noi chiamiamo il SoDif esterno nella formazione della persona umana, a tal punto che, per loro, l’autodeterminazione (o, se si vuole, l’individuazione, la costituzione dell’individuo) è una possibilità, o persino una eventualità, successiva. A rigore, per Horkheimer e Adorno, si può dunque vivere, anzi con-vivere, anche senza rappresentarci come individui: l’individualità (sempre che vogliamo ancora usare questa parola) è una condizione secondaria e aggiuntiva rispetto alla condizione di base, che è quella di essere simili tra i simili. Se diamo ancora spazio alle considerazioni di Horkheimer e Adorno, il motivo è che esse sono una conferma del carattere basilare delle relazioni di somiglianza e differenza (SoDif), le quali collegano gli esseri umani tra loro. La definizione dell’uomo come persona implica che esso, nell’ambito delle condizioni sociali in cui vive, e prima di avere consapevolezza di sé medesimo, si trovi già sempre a svolgere ruoli determinati come simile di altri uomini. In virtù di questi ruoli, e in relazione ai suoi simili, esso è ciò che è: figlio di una madre, allievo di un maestro, membro di una tribù, esercitante una professione (1966: 54, c.m.).

Stando alle riflessioni di Horkheimer e Adorno, sembrerebbe dunque che l’individualismo moderno sia una delle rappresentazioni meno

congruenti, una delle concezioni del sé che meno si confanno alle caratteristiche del soggetto umano e ai suoi processi di formazione. Tuttavia, e senza alcun dubbio, esso è una rappresentazione possibile, come è ampiamente attestato sotto il profilo storico: una rappresentazione di cui occorre tenere conto, data la sua vasta diffusione e incidenza, ormai anche al di là dell’area culturale e del periodo storico in cui si è imposta, ossia l’Occidente moderno. Di questa “strana” rappresentazione occorre ora considerare ciò che sta a valle, ovvero i suoi effetti e le sue implicazioni, e ciò che sta a monte, ossia i suoi presupposti. A valle, gli esiti di questa rappresentazione – come vedremo meglio nel paragrafo 3 – possono adeguatamente essere riassunti nei processi di “atomizzazione”, ossia per un verso nello sfrondamento e nella vigorosa riduzione dell’apparato relazionale dell’io e, per l’altro verso, nel relativo isolamento e autonomizzazione di un suo supposto nucleo sostanziale. Horkheimer e Adorno ci sono ancora di aiuto su questo punto, là dove affermano che l’individuo è colui che «instaura come norma la propria autoconservazione e il proprio sviluppo» e nel fare questo «differenzia sé dagli interessi e mire degli altri», ovvero «si fa sostanza a sé medesimo» (1966: 54, c.m.). L’individualismo è dunque una rappresentazione dell’io che compie le seguenti operazioni: i) sfrondamento: la rappresentazione individualistica taglia, nega, riduce il SoDif, nel senso che rende marginali, secondarie e ininfluenti le relazioni di somiglianza e differenza dell’io con sé stesso (SoDif interno) e con gli altri (SoDif esterno); ii) liberazione: allo sfrondamento si accompagna una seconda operazione, quella della sottrazione o “liberazione” del soggetto dall’intrico sociale del SoDif. In questo modo, il soggetto viene ad assumere una posizione solitaria: è autonomo ed è solo con sé stesso. Queste prime due operazioni pongono in luce un esito drammatico a cui la rappresentazione individualistica va incontro nelle sue implicazioni. Prima che sul piano rappresentazionale si determini lo sfrondamento, il SoDif per un verso avvolge il soggetto e, in parte, lo soffoca; per l’altro verso però lo protegge e lo sostiene1. A seguito dello sfrondamento dell’operazione i, il soggetto è certamente reso libero, o meglio concepito “come se” fosse libero (operazione ii), ma nel contempo è privato del

sostegno sociale offerto dal SoDif: il soggetto è consegnato a sé stesso, sfornito della rete che lo costituisce, che ne garantisce esistenza e sopravvivenza. Ernesto De Martino parlerebbe a questo proposito di «crisi della presenza» e quindi di rischio di annullamento del soggetto (De Martino 1973: 93 sgg.). Se così stanno le cose, si comprende come la rappresentazione dell’individualismo debba completarsi con una terza operazione, la quale consiste nel fornire un “sostegno” al soggetto. Visto che ci si è liberati del groviglio delle somiglianze e delle differenze (SoDif), dunque della rete sociale, l’individualismo fa ricorso a un mezzo assai più potente sul piano teorico e rappresentazionale, ossia a un concetto tipicamente ontologico, inerente all’essere, non alle relazioni2. La terza operazione è infatti la seguente: iii) attribuzione di sostanza: al soggetto, denudato delle sue relazioni sociali, viene attribuito il sostegno più forte che si possa immaginare, ovvero l’idea di sostanza, con cui viene fatto coincidere direttamente. Che cosa c’è di più forte, resistente, permanente, impenetrabile, inscalfibile, incorruttibile, incrollabile, indiscutibile di una sostanza? (Sotto questo profilo, non c’è confronto tra la “rete”, fatta di relazioni, incompleta, sempre pronta a cedere, e la “sostanza”, tutta piena di essere, dura, rocciosa, inscalfibile.) La rappresentazione individualistica trasforma il soggetto, originariamente tutto impregnato di SoDif (legami di somiglianza e differenza di natura neuro-fisiologica, psicologica e sociale), in una sostanza metafisica pura e dura, natura e fondamento di un ente a sé stante, rispetto a cui le relazioni con i “simili”, da costitutive che erano, diventano puramente aggiuntive e secondarie. Con la sua solita concisione, Ludwig Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (2.024) forniva questa definizione: «La sostanza è ciò che sussiste indipendentemente da ciò che accade» (1964: 8). Con l’attribuzione al soggetto del concetto di sostanza, l’individuo guadagna per sé indipendenza, autonomia, nonché sicura e indubbia riconoscibilità. A monte, quali possono essere state le cause e le motivazioni di una rappresentazione così poco congruente con la realtà umana, così lontana, anzi opposta, rispetto alla natura del SoDif soggettivo e inter-soggettivo? Qui avanziamo fin da subito un’ipotesi-sfida, su cui chiediamo apertamente l’attenzione critica del lettore, specialmente dopo che avrà

letto l’ultimo paragrafo di questo capitolo. Una delle cause della rappresentazione individualistica potrebbe essere data da una quanto meno parziale “divinizzazione” dell’uomo: i due processi sembrano in effetti andare di pari passo. Con l’individualismo l’uomo è infatti sottratto – non sul piano della “configurazione” effettiva, bensì su quello della “rappresentazione” ideologica – alle dinamiche trasformative del SoDif, al fiume eracliteo che pervade ogni essere vivente. Con l’attribuzione ad esso di una sostanza inscalfibile (la individua substantia di cui parlava Severino Boezio), l’essere umano è sottratto a ciò che possiamo chiamare la mortalità minuta e inesorabile delle continue trasformazioni in cui è coinvolto fin nel suo intimo. Come già abbiamo messo in evidenza in questo libro (cap. VI, § 3), la sacerdotessa Diotima del Simposio di Platone aveva colto molto bene questo punto. Con l’attribuzione a ogni essere umano della caratteristica dell’identità (correlato del concetto di sostanza), è come se si attribuisse ai mortali ciò che invece dovrebbe essere riservato soltanto agli dèi, ossia il privilegio di «restare sempre assolutamente identico a sé stesso» (208 a-b; Platone 1996: 85). Beninteso, c’è immortalità e immortalità: c’è una immortalità infinita, al di là della morte, e c’è una immortalità a termine, ciò che si potrebbe anche chiamare “immortalità provvisoria”3. Quest’ultima termina con la morte, con la fine dell’individuo. Ma finché vive, l’individuo è sottratto – grazie all’inscindibilità della sua sostanza – alla mortalità minuta, silenziosa, incessante che trasforma di continuo il suo corpo e la sua mente. Perlomeno nell’arco della sua vita terrena, l’individuo gode anch’esso della caratteristica “divina” che lo fa rimanere “identico a sé stesso”: è, nel nostro caso, l’immortalità che si guadagna sottraendo l’essere umano a ciò che possiamo anche chiamare la mortalità interna. Con l’individualismo, il quale sul piano rappresentazionale trasforma gli esseri umani in entità inscindibili, in “atomi” per l’appunto, ciascuno dei quali sarebbe dotato di una identità sostanziale, è come se si verificasse una sorta di deificatio a vantaggio di ogni essere umano. Grazie a questa sostanza individuale e alle caratteristiche della persistenza, perennità, autonomia, inscalfibilità, imperturbabilità ad essa connesse, ogni individuo viene dunque ad acquisire qualcosa di divino. La rappresentazione individualistica fa sì che il SoDif, il groviglio delle somiglianze e delle

differenze, venga meno e quasi scompaia alla vista. Tutto il peso e l’importanza che le relazioni SoDif hanno nell’organizzazione effettiva del soggetto umano sono trasferiti per intero alla sostanza: è la sostanza individuale che costituisce l’essere umano, non le sue relazioni. Anziché essere in balia degli altri e delle relazioni con gli altri, i soggetti si pensano come ancorati a sé stessi, autodelimitandosi come entità separate, autonome: entità che trovano in sé stesse il proprio principio e la propria ragione. Per avere titolo alla deificatio, per diventare dèi (tanti piccoli dèi), occorre essere quanto meno individui, contenere in sé una sostanza che è divina, proprio in quanto si sottrae al flusso e alla mortalità minuta: non già esseri compositi e scomponibili, invischiati nelle reti o, peggio, nei grovigli delle somiglianze e differenze sociali, bensì esseri puri, imperituri, autoconsistenti, ontologicamente tutti d’un pezzo, atomi appunto spirituali, e imperituri, proprio in quanto spirituali. Per il pensiero sufi (corrente del misticismo islamico) questo volersi trasformare in “piccoli dèi” sarebbe una pretesa inammissibile: Una volta, Noori pregò con queste parole: – O Signore, dammi uno spirito che non cambi mai. – O Abul Hussein, rispose la Voce, come osi rivendicare un tale privilegio? Vuoi tu essere un Mio eguale? Non sai forse che soltanto Io non cambio mai e che ogni altra cosa non può non cambiare? Ecco la differenza tra il Creatore e ciò che Egli ha creato (Majrouh 1995: 106).

A questo punto, e per contrasto con l’immagine dei piccoli dèi, conviene ricordare quanto affermava Aristotele sulla natura profondamente sociale dell’essere umano, definito – come tutti sanno – zoon politikon, ovvero animale politico (da polis, città, la forma più compiuta della società umana per Aristotele): e la città con le sue relazioni «precede [...] ciascuno di noi», perché è nella città-società che l’uomo si forma come essere umano (Politica, 1253 a; 1955: 54). Ebbene, per Aristotele, colui che ritiene di essere «autosufficiente», di bastare a sé stesso, sottraendosi alla rete sociale della polis, del consorzio umano, sarà non un uomo, bensì inevitabilmente «o una belva o un dio». Recidendo e marginalizzando i legami di somiglianza con gli altri, istituendo entità ontologicamente separate, rispetto a cui le relazioni sociali divengono aggiuntive e secondarie, le rappresentazioni individualistiche fanno appunto qualcosa che Aristotele aveva previsto: la trasformazione dell’essere umano in dio o, in alternativa, in un animale feroce, senza legami sociali da cui dipendere e a cui affidarsi.

Questa alternativa ci apparirà chiara nel passaggio dal paragrafo 4 al paragrafo 5. Qui per ora chiediamoci: è normale che si dia luogo a rappresentazioni di questo genere? Oppure si tratta di una concezione che ha qualcosa di “strano”, di eccezionale, fuori misura, oltre che di intrinsecamente problematico? Di solito, gli antropologi fanno proprio il tipo di considerazione espresso assai efficacemente da Clifford Geertz. Per quest’ultimo, «la concezione occidentale della persona» – un’entità a sé stante, separata, dotata di una propria unità, «in contrapposizione» ad altre entità di questo tipo e alla stessa società in generale – «è [...] un’idea alquanto peculiare», se collocata nel contesto delle culture che troviamo nel mondo e dunque messa a confronto con le concezioni di persona che esse esprimono (Geertz 1988: 76)4. Nei loro giri lunghi e nelle loro soste prolungate nelle società più lontane e diverse, gli antropologi di solito non si imbattono in questo tipo di rappresentazione del «sé». La concezione occidentale della persona costituisce allora un qualcosa di insolito, una bizzarria, un unicum antropologico, un qualcosa che non trova riscontro in altre società (Remotti 2009: 315-316)? In effetti, Jean La Fontaine ha compiuto un’analisi comparativa, contrapponendo l’individualismo occidentale a società in cui le persone o gli esseri umani vengono concepiti come «creature composite» (La Fontaine 1985: 126). C’è anche chi ha costruito una vera e propria contrapposizione tra le due soluzioni possibili al problema del rapporto tra individuo e società: da un lato, «la soluzione “sociocentrica”», la quale subordina l’individuo alla collettività; dall’altro, la «soluzione “egocentrica”», che pone la società «al servizio dell’individuo» (Shweder e Bourne 1997: 221). Infine, vi è chi davvero sostiene che l’individualismo moderno costituisce «un fenomeno eccezionale nella storia delle civiltà», fenomeno di cui occorre quindi comprendere il senso, ricercare le origini e studiare a fondo le implicazioni (Dumont 1993: 40). Fenomeno eccezionale, unico e dunque incomparabile, oppure fenomeno che, per quanto forse unico ed eccezionale, esige – proprio per questo – di essere comparato? Sarebbe ben strano, in un libro dedicato ai rapporti di somiglianza e differenza, alla loro tenuta, alla loro plausibilità e potenzialità euristica, se di fronte all’individualismo occidentale si facesse valere in maniera unilaterale il principio della sua unicità, a tal punto da separarlo del tutto dalle concezioni della persona reperite in altre società e che gli antropologi sono ormai soliti definire in termini di “dividualità”

(cap. VI, § 5). In fondo, ciò di cui si parla sono pur sempre “rappresentazioni” dell’io, modi più o meno congruenti di provvedere a configurare, ossia dare forma, alle matasse sia del SoDif interno, sia del SoDif esterno; e le rappresentazioni, per quanto diverse, anzi persino opposte, esse siano (come il bianco e il nero), interloquiscono tra loro. Proviamo a mettere dividualità e individualità agli estremi di un continuum e forse vedremo – come suggeriva Protagora – che persino il bianco e il nero intrattengono qualcosa di comune5. 2. Prospettive sull’individualismo In un recente lavoro dedicato all’importanza storica e politica dell’individualismo, il filosofo della politica Larry Siedentop ha affermato con grande vigore che l’origine di questo fenomeno deve essere ricercata nel Cristianesimo primitivo, oltre che nei suoi sviluppi successivi (Siedentop 2016). Fin dalle sue origini, il Cristianesimo ha infatti provato a realizzare per gli esseri umani un programma molto particolare e impegnativo, quello della deificatio o theosis, vale a dire avvicinare sempre più gli esseri umani alla condizione divina, farli assomigliare sempre più a Dio, fino a diventare essi stessi dèi. La nostra ipotesi è che l’individualismo – specialmente nell’era moderna – sia parte integrante di questo programma così straordinario dal punto di vista antropologico e certamente unico nella sua rilevanza storico-culturale, un programma che coinvolge direttamente ciascuno di noi sotto il profilo culturale: tutti noi (europei e occidentali) siamo infatti nati, cresciuti e vissuti in una società in cui la concezione individuale dell’essere umano è considerata del tutto naturale e proprio per questo indiscutibile e irrinunciabile. Provare a farne a meno è un’impresa molto difficile, per alcuni impossibile, per altri interamente assurda, riprovevole, condannabile, senza senso, riassumibile in una perdita di umanità. Ma se è condivisibile quanto finora argomentato – ossia che a) l’individualismo è una rappresentazione che allontana pericolosamente l’essere umano dalla sua condizione sociale e che b) esso è parte costitutiva e fondante del programma di deificatio – occorrerà riflettere sull’opportunità di tentare l’impresa di “farci individui”. Rimanere avviluppati nella concezione individualistica del sé e del soggetto umano significa rimanere pericolosamente imprigionati in una caverna ideologica:

la caverna dell’identità, di cui – rovesciando Platone – abbiamo già parlato nel capitolo I, una caverna che nel suo chiuso ci impedisce di vedere, riconoscere e valorizzare il groviglio delle somiglianze e differenze, di cui siamo fatti. Prima di riprendere in esame il contributo di Siedentop, da cui ricaveremo spunti importanti per la nostra tesi (la “divinizzazione” dell’individuo), sarà bene formulare un quadro di possibili prese di posizione nei confronti dell’individualismo. A) Vi sono filosofi i quali, specialmente di questi tempi, ritengono che sia ora di ridare all’individuo il peso che merita. Per questi filosofi occorre ripristinare una rappresentazione adeguata e congruente dell’essere umano come individuo, dopo avere assistito nel Novecento a un suo preoccupante indebolimento. Per motivi etici e scientifici è necessario puntare – essi dicono – a «un concetto di individuo molto più forte di quello corrente in questa stagione della filosofia» (Mormino 2016: 62). Pure Remo Bodei, dopo avere posto in luce la crisi dell’io nel Novecento, ritiene «pur sempre» inevitabile «rispondere ad ardue domande di natura filosofica sul significato dell’unità o molteplicità dell’io» (2016: 400). Ma soprattutto ritiene «urgente domandarsi se [...] non stia nascendo il bisogno di dare maggiore consistenza all’individualità, di trovare identità e “valori forti”» in vista di una «individualità meno disgregata e dispersiva» (2016: 402, 405). In maniera più esplicita e perentoria, Roberta De Monticelli sottolinea la necessità di contrapporre a una visione «debole» dell’individualità – quella che si trova nella filosofia contemporanea e che anzi percorre, salvo poche eccezioni, l’intero arco della filosofia occidentale, a partire da Aristotele – una visione ontologicamente «forte» ed epistemologicamente agguerrita (De Monticelli 2006). Se la visione forte ha trovato molto di rado nella filosofia occidentale un’adeguata rappresentazione, essa è però espressa normalmente dal senso comune, dal pensiero che trova corso nella vita di tutti i giorni, un pensiero per il quale «ogni persona è percepita da altri e da sé come un individuo in un senso veramente forte, cioè come un individuo unico» (2006: 171). In accordo con il senso comune, sarebbe dunque importante elaborare un’autentica ontologia dell’individuo, secondo i criteri che gli sono propri. Tali criteri sono l’unicità e l’interiorità, come è comprovato dall’idea abbinata a quella di individuo,

ossia l’idea di anima. De Monticelli sintetizza la sua teoria ontologica nell’espressione «individualità essenziale», che dà il titolo a diversi suoi contributi (2000; 2008). Fornita di tutto il suo peso ontologico, la concezione dell’individuo essenziale si presenta come irrinunciabile. Criticabili sono invece gli indebolimenti di questa concezione, quali si manifestano soprattutto nella filosofia contemporanea. Se così stanno le cose, dovrebbero apparire del tutto senza senso le rappresentazioni del sé che gli antropologi affermano di rintracciare in numerose società e a cui essi danno di solito il nome di rappresentazioni dividuali. Può essere che gli antropologi non abbiano capito ciò che i “loro” indigeni avevano in mente. Oppure questi stessi indigeni – a differenza della gente comune delle nostre società, la quale sa benissimo che cosa sia un individuo, e anzi un individuo in senso forte6 – si trovano in una condizione di preoccupante inferiorità mentale, come sostenevano molti Europei e con essi diversi antropologi di fine Ottocento e inizio Novecento. Che cosa comporta infatti per un umano non essere in grado di comprendere l’intima essenza del concetto di persona, ossia la sua “individualità essenziale”? Come possiamo giudicare questi esseri, i quali non sanno nemmeno che cosa sia una persona umana? Ma, per tornare a noi, quale giudizio si meritano filosofi e antropologi che non colgono la realtà profonda e unica dell’individuo? Sono da collocare anch’essi nella categoria dei “primitivi” rozzi, selvaggi e ignoranti? B) Anche per Siedentop non avrebbe senso rinunciare all’idea di individuo applicata agli esseri umani: al contrario, occorre difenderla. A differenza di Roberta De Monticelli, Siedentop adotta però una prospettiva storica. Pur non rifacendosi ad alcun dibattito teorico sul concetto di persona, lo studioso americano fonda l’intera sua ricerca su un presupposto molto diverso da quello ontologico. Secondo Siedentop, l’individuo non è un dato naturale, imposto dalla natura umana, bensì un prodotto storico, una rappresentazione o configurazione del sé – come egli stesso afferma – di ordine prettamente sociale e culturale, che è via via venuta emergendo secondo un processo storico lungo e non sempre lineare: come appare fin dal titolo del suo libro, egli parla espressamente di «invenzione dell’individuo» (Siedentop 2016). Una tesi di questo genere – l’individuo come prodotto storico – non rappresenterebbe forse un’incrinatura, se non addirittura una sconfessione,

della concezione ontologica della persona umana (prospettiva A)? Se l’individualismo è una conquista storica, quale peso e significato dobbiamo attribuire alle altre concezioni apparse nella storia, quelle nonindividualistiche? Soprattutto, se l’individualismo è – anche per Siedentop – un fenomeno storico di enorme importanza e tuttavia ben circoscritto nelle sue origini e nei suoi sviluppi, le concezioni non-individualistiche non stanno forse a significare quanto meno che altre concezioni del sé, e dell’essere umano, sono antropologicamente possibili? In Siedentop non vi è alcuna considerazione di altre concezioni del sé, se non quelle dell’antichità pre-cristiana: gli importanti contributi etnografici che l’antropologia della persona ha offerto in questi decenni sono del tutto ignorati. L’unico confronto a cui Siedentop si dedica è quello tra la concezione della persona e del sé da parte del Cristianesimo e le concezioni della persona e del sé nelle società antiche, in cui il Cristianesimo aveva attecchito e presso cui aveva sviluppato il suo impatto rivoluzionario. Si tratta pur sempre di rappresentazioni, ma nelle società antiche pre-cristiane – sostiene Siedentop – non è presente il concetto di individuo, con la carica di libertà e di uguaglianza che esso comporta. In sintesi, per Siedentop sarebbe avvenuta una transizione tra due tipi di rappresentazione e di configurazione del sé che soltanto il Cristianesimo è stato in grado di operare, vale a dire il passaggio, storicamente e antropologicamente decisivo, dalle «tradizionali diseguaglianze sociali», che nelle società antiche «erano considerate naturali», all’idea di una «eguaglianza morale di base», resa possibile dallo status di individuo attribuito a ogni essere umano (2016: 250). Il passaggio per Siedentop è di peso eccezionale e nei suoi effetti riguarda l’intera umanità. Ma rimane fermo il punto che l’individuo (ovvero la concezione che istituisce o rappresenta la persona umana come individuo) non è affatto una realtà naturale, bensì il prodotto di un processo storico particolare. Tant’è vero che altre concezioni del sé sono state storicamente formulate, da parte, per esempio, delle società antiche pre-cristiane, ancorché tali concezioni appaiano oggi arretrate e non più proponibili. C) La concezione di Siedentop è molto simile a quella di Marcel Mauss, l’iniziatore degli studi sulla persona in ambito antropologico. Anche per Mauss infatti – come è chiaramente argomentato nel suo saggio pionieristico del 1938 – l’idea di individuo, di persona individuale e di io, è

una conquista tipica ed esclusiva del pensiero occidentale, a partire soprattutto dal Cristianesimo, il quale ne fa «una entità metafisica», fino ad arrivare alla nozione di un «“io” inscindibile» e «assoluto», quale è formulata nella filosofia di Kant e di Fichte (Mauss 1965: 376, 380). A parte il caso emblematico di Maurice Leenhardt, su cui avremo modo di ritornare (§ 5), gli antropologi hanno preso le distanze da questa impostazione “a stadi”, da questa sorta di piccolo museo etnografico, le cui poche sale ci conducono dalle nozioni di “personaggio”, che troviamo nelle società “primitive”, all’emergere della “persona” nel diritto romano e soprattutto nel Cristianesimo, fino a giungere all’affermazione dell’io assoluto (Remotti 2009: 277-285). Alcuni antropologi hanno messo in luce come già nel 1938 l’impostazione di Mauss fosse del tutto improponibile (Leacock 1954); altri hanno persino avuto il coraggio di definire questa impostazione come un vero e proprio «obbrobrio» antropologico (Carrithers 1996: 421). Se dunque gli antropologi non hanno avuto esitazione a prendere le distanze dal saggio di Mauss – la cui impostazione riemerge, come abbiamo detto, nel recente lavoro di Siedentop –, quale punto di vista alternativo essi sono in grado di offrire? Come mossa iniziale, gli antropologi pongono da parte lo schema “a stadi”, ovvero l’idea di uno sviluppo o di un progresso (quello che per Mauss conduce dalla nozione di personaggio a quella di persona e infine all’io assoluto), e adottano per lo più il principio del pluralismo relativistico. Insieme a Geertz, che abbiamo già evocato a questo proposito, gli antropologi sono inclini ad affermare che sono molte le concezioni di persona che troviamo nelle diverse società e che l’individualismo moderno – nonostante si proponga come la vera, autentica e più appropriata concezione dell’essere umano – non sarebbe altro che “una” delle possibili concezioni: una possibilità tra le tante, ma anche una possibilità assai poco reperibile nella grande varietà delle società e delle culture umane. D) In questo capitolo non ci accontentiamo però di fare valere un sano relativismo a proposito della concezione moderna dell’individuo. Introducendo il criterio della congruenza, abbiamo già avanzato l’ipotesi che l’individualismo sia una delle rappresentazioni meno congruenti, ossia una rappresentazione che maggiormente si discosta dall’idea del SoDif e che addirittura si costruisce sulla sua negazione. In effetti, se adottiamo uno sguardo antropologico, vediamo che c’è qualcosa non solo di «peculiare» –

come sosteneva Geertz –, ma anche di insolito in questa concezione. La sua peculiarità è anche data però dal suo strabiliante successo storico. Inevitabile allora la seguente domanda: come è possibile che qualcosa di incongruente, una prospettiva dunque che dovrebbe essere tormentata da dubbi e perplessità, oltre che ricevere continue smentite dall’esperienza, sia divenuta oggetto invece di così tante adesioni, fino al punto da pensare di essere e da imporsi come la concezione più giusta e appropriata dell’essere umano? Edward E. Evans-Pritchard può offrirci un suggerimento, quando in relazione agli Azande del Sudan egli pone in luce la persistenza delle loro idee su stregoneria, oracoli e magia, nonostante le smentite dell’esperienza. La spiegazione di questa impermeabilità consiste nel ritenere che esse formino un sistema organico e coerente: essendo tra loro concatenate in modo logico, esse si sostengono le une con le altre, nonostante l’esperienza possa suggerire altre soluzioni (Evans-Pritchard 2002: 136-137, 158, 173174, 184-185, 190). Come tra gli Azande c’è una logica che tiene e che nel frattempo trattiene e fa da trappola, così noi saremmo presi e intrappolati dalla logica dell’individualismo. In effetti, la nozione di individuo si presta a essere utilizzata in una varietà di contesti e in una molteplicità di direzioni (dal Cristianesimo al capitalismo, dal misticismo al liberalismo, persino al comunismo7). E non è soltanto questione di sistema; è anche questione di un poderoso movimento storico, di cui l’individualismo è fattore, segno e prodotto. Tale movimento ha senza dubbio conosciuto fasi diverse e persino contrastanti, e tuttavia conserva da una fase all’altra un significato importante, ossia l’idea della deificatio, che dal Cristianesimo delle origini si prolunga fino alla modernità e oltre (Remotti 2013b: 56-58, 171-195). Nell’individualismo si nega il SoDif, la matassa delle somiglianze e differenze interne ed esterne, proprio in quanto si ritiene di essere fatti di una sostanza divina, o para-divina, oppure di essere in grado di acquisirla, conquistarla, farla propria: una sostanza unica in sé, impassibile, imperturbabile, indecomponibile. La nostra ipotesi è dunque quella di considerare l’idea di individuo come un elemento indispensabile del programma culturale che dal Cristianesimo si sviluppa fino alla modernità attuale, dove la deificatio può anche essere pensata in senso laico, profano, mondano, persino ateo. Dio infatti può tramontare e morire (Nietzsche);

ma, in quanto sostituto e concentrato di divinità, l’individuo rimane, fino a prendere il posto di dio. Lo vediamo proprio ora, nei prossimi due paragrafi. 3. Individuo: tra dio e... Louis Dumont ha riflettuto molto sull’individualismo moderno e ha proposto una distinzione netta tra due tipi di società e di ideologie: Da questo punto di vista, vi sono due tipi di società. Là dove il valore supremo è l’individuo, io parlo di individualismo; nel caso opposto, là dove il valore si trova nella società intesa globalmente, parlo di olismo (Dumont 1993: 41).

Abbiamo già visto però che per Dumont l’individualismo è un fenomeno «eccezionale» nell’ambito delle civiltà e che dunque si impone la ricerca delle sue origini (1993: 40). Dumont, allievo di Mauss, scorge anche lui nel Cristianesimo il momento sorgivo dell’individualismo moderno. Rifacendosi agli studi di Ernst Troeltsch8, egli sostiene che fin dall’insegnamento di Cristo e dalle predicazioni di san Paolo appare che «l’uomo è un individuo-in-relazione-con-Dio», ovvero «un individuo essenzialmente fuori-dal-mondo» (1993: 44). L’argomentazione di Dumont è importante, in quanto fa intravedere alle origini della nozione cristiana di individuo un qualcosa di analogo alla figura del rinunciante indiano, quindi non qualcosa di assolutamente nuovo e del tutto eccezionale, ma una configurazione che possiamo scorgere anche nell’India classica. Da più di duemila anni – sostiene Dumont (1993: 42) – la società indiana prevede due figure antitetiche: da una parte, gli esseri umani che vivono in società e che, invece di configurarsi come individui, consistono in «complessi di relazioni vincolanti», mentre, dall’altra parte, scegliendo la strada della «rinuncia al mondo», l’essere umano guadagna una «piena indipendenza». In questo modo, «il rinunciante basta a sé stesso, non si preoccupa che di sé stesso». Dumont prosegue con un accostamento ardito, ma stimolante: con la sua indipendenza e il suo badare a sé stesso, il rinunciante «è simile» all’individuo moderno. Vi è tuttavia una differenza fondamentale: «noi viviamo entro il mondo sociale», mentre il rinunciante indiano «ne vive al di fuori». Per Dumont, diviene dunque strategica la distinzione tra «individuo-fuori-dal-mondo» e «individui-nel-mondo»: anche in una società di tipo “olistico”, come l’India classica, vi è la possibilità di sottrarsi alla trama dei ruoli e dei vincoli sociali, costituendosi

come individui indipendenti. Con il Cristianesimo questa possibilità viene attuata collegando l’individuo a Dio: «l’anima individuale riceve valore eterno dalla sua relazione filiale con Dio» (1993: 47). In Siedentop non c’è questo abbozzo comparativo con la figura dei rinuncianti indiani: a Siedentop pare che l’invenzione dell’individuo da parte del Cristianesimo sia un fatto del tutto “peculiare” ed “eccezionale”, nel senso che non è possibile reperire altrove similitudini e analogie (illuminanti o meno che possano essere). In Siedentop troviamo però la conferma di alcuni punti fondamentali, ossia che nella visione cristiana, fin dalle origini, 1) l’individuo si viene a costituire ponendo una distanza tra sé e i suoi ruoli sociali, ovvero rivendicando «un sé più profondo», interiore e precedente a quanto si svolge nella vita sociale mondana (Siedentop 2016: 75); 2) in questo sé si realizza l’incontro, e anzi, la «fusione tra volontà divina e agire umano» (2016: 77). È bene tenere collegati questi due punti, in quanto la rivendicazione dell’individuo come una sorta di entità «presociale», come agente autonomo e dotato di «libertà», è resa possibile solo in quanto nella sua interiorità «l’uomo somiglia a Dio» (2016: 80, 141, c.m.). In particolare, nella concezione cristiana è l’anima che si pone a fondamento dell’individuo, poiché essa è fatta a immagine di Dio; è lì che avviene l’incontro con Dio, e proprio per questo l’anima è sottratta alle vicissitudini sociali e al potere temporale (2016: 156). L’anima è ciò che fa sì che ciascuno di noi possa sopravvivere come «un unico individuo» (2016: 169). A Siedentop interessa soprattutto fare vedere due momenti, ovvero come si realizzi, nel pensiero cristiano, l’invenzione dell’individuo e come questa invenzione sia la base da cui scaturiscono i principi di libertà e di uguaglianza degli esseri umani, e la rivendicazione dei diritti fondamentali, che hanno contraddistinto la storia della civiltà europea e occidentale. Per quel che riguarda il primo punto, è importante sottolineare come la mossa originaria sia l’invenzione di una realtà in qualche modo pre-sociale: l’individuo può partecipare e, di solito, partecipa alla vita sociale ordinaria, dove svolge i ruoli che gli competono; ma l’invenzione dell’individuo consiste nell’affermare – con un gesto che potremmo dire “ontologico” o

persino “onto-poietico” – una realtà che non si esaurisce nelle relazioni sociali. Nella visione cristiana, così come viene ricostruita da Siedentop, Dio è il creatore e dunque anche il garante dell’autonomia e della persistenza di questa realtà, nel senso soprattutto che l’individuo umano è stato creato da Dio a sua stessa “immagine e somiglianza”. Tutta l’operazione che dà luogo all’invenzione dell’individuo ha dunque un indiscusso fondamento teologico. Che le cose stiano così, e cioè che il pensiero cristiano abbia inventato l’individuo come essere che ha una consistenza sua propria, pre- e anche post-sociale, e che tuttavia sia Dio il garante ultimo di questo tipo di realtà, appare del tutto evidente se prendiamo in considerazione uno dei momenti decisivi di questo percorso, vale a dire la definizione di essere umano in termini di persona individuale, che Severino Boezio, consigliere del re Teodorico (poi però caduto in disgrazia e giustiziato nel 524), aveva elaborato nel suo trattato Contra Eutychen et Nestorium (Boethius 1918). La definizione che si attaglia all’essere umano si fonda sul concetto di persona e la persona viene così definita: «naturae rationabilis individua substantia», ossia la persona umana è una «sostanza indivisibile di natura razionale» (1918: 84). Dire persona significa dire – per Boezio – sostanza e per Boezio soltanto tre realtà sono sostanze a cui si può applicare il termine persona: Dio, gli angeli, gli esseri umani. Tra questi, soltanto Dio è «immutabile e impassibile [immutabilis atque inpassibilis] per natura», mentre gli angeli e gli esseri umani sono sostanze che hanno acquisito «stabilità e impassibilità [inpassibilitatis firmitudinem]» unicamente per «grazia» divina (1918: 82). Dunque, la condizione di individua substantia, che è in grado di permanere immutata nel tempo e di essere “impassibile”, cioè di non risentire di quanto avviene attorno (che si tratti di relazioni sociali o di eventi di altro genere), è qualcosa che dipende da Dio e dalla sua “grazia”. È Dio che ha voluto trasformare una creatura di per sé «mutevole e passibile» in una sostanza, la quale si avvicina vertiginosamente allo stesso Creatore, una volta acquisita la sua immutabilità e impassibilità. L’individua substantia dell’uomo è esattamente ciò che di divino vi è nell’uomo. È vero che nelle argomentazioni di Boezio occorre tenere distinti i termini “individuo” e “persona”, nel senso che non tutti gli individui (come possono essere un albero o un animale) sono persone, ma per essere persone gli umani hanno da essere prima di tutto individui, anzi sostanze

individuali, e sono individui in un duplice senso, ossia nel senso della «indivisibilità» e nel senso della «differenza» rispetto a qualsiasi altra cosa (Gracia 1991: 236). Più in particolare, l’indivisibilità va intesa non già come impossibilità di essere smembrato nel proprio corpo (Socrate, come qualsiasi altro essere vivente, può in effetti essere fatto a pezzi), ma nel senso che l’eventuale smembramento, per esempio di Socrate, non genera «entità che siano specificamente simili a Socrate» (1991: 237): ciò che si ottiene sono membra o pezzi di carne, non già altri esseri umani. E per quanto riguarda la divisione da altre entità, essa va interpretata non come una mera differenza che si mescola alle somiglianze (la componente Dif del nostro SoDif), ma come una vera e propria «separazione» di sostanze. In questa visione, le somiglianze sono certamente ammesse: nessuno nega infatti che Socrate e Aristotele presentino tra loro delle somiglianze (somiglianze di genere, di specie, oltre che somiglianze accidentali). Ma le somiglianze tra gli individui non sono in grado di annullare la profonda differenza che rende gli individui entità “discrete”, nettamente «separate» le une dalle altre. Le sostanze individuali, o gli individui come sostanze, non ammettono mescolamenti: le somiglianze passano, per così dire, sulle loro teste (Socrate e Aristotele sono simili in quanto esseri umani, e non cavalli) o vi aderiscono tangenzialmente, in modo del tutto contingente e superficiale (Socrate e Aristotele, per esempio, portano entrambi la barba). La tesi che intendiamo ribadire è che la rappresentazione dell’essere umano in termini di individualità ha un profondo e indispensabile condizionamento teologico, come ora cercheremo di dimostrare prendendo in considerazione le rappresentazioni più rigorose e consapevoli dell’individualismo in periodi differenti del pensiero occidentale. Non c’è bisogno di giungere alla modernità per trovarsi di fronte a rappresentazioni individualistiche estremamente spinte: anzi, soprattutto nel Medioevo troviamo rappresentazioni la cui arditezza è resa possibile proprio dal ricorso al fondamento teologico, da un totale affidamento al sostegno divino, a conferma della tesi di Siedentop, secondo il quale la «concezione cristiana di Dio fornisce un fondamento ontologico per l’individuo» (2016: 399). Duns Scoto, filosofo e teologo francescano della seconda metà del Duecento, si riferisce alla concezione di persona di Boezio (individua substantia) e la integra con la concezione fornita da Riccardo di San Vittore,

nella quale la persona è definita con l’espressione incommunicabilis exsistentia. All’indivisibilità si aggiunge così l’incomunicabilità, a tal punto da affermare che per la persona umana, concepita come individuo, si addice una estrema solitudine: «ad personalitatem requiritur ultima solitudo», nel senso che essa non dipende né attualmente né per attitudine da qualsiasi altra persona (Duns Scoto 1996: 428). Come già avveniva in Boezio, il concetto di persona – oggetto di una visione psicologica e antropologica – viene fatto coincidere dunque con la definizione più rigorosa di individuo. Ma a sua volta all’individuo, prima ancora di essere applicato alla persona umana, viene assegnato «un valore metafisico che la tradizione scolastica non gli aveva mai attribuito» (Abbagnano 1963: 601). L’individuo è infatti la realtà ultima dell’essere, la perfezione e la completezza finale della sostanza metafisica. Certo, gli individui di una stessa specie condividono una natura communis (gli uomini partecipano della natura umana, i cavalli della natura equina e così via); ma mentre la specie può suddividersi in diversi soggetti o individui, l’individuo è una sostanza che si oppone a qualsiasi tentativo di ulteriore divisibilità (Bianco 2012: 100). E questo avviene in quanto nell’individuo c’è un aliquid positivum (2012: 105), potremmo dire un concentrato di essere, che lo rende inscalfibile. Per questo motivo, l’individuo è, sotto il profilo ontologico, «molto più della specie» e inoltre rappresenta l’obiettivo finale, un ultimus actus, della creazione divina (2012: 113-114). Per tornare sul piano antropologico, la persona, in quanto coincidente con l’essere indivisibile, incomunicabile e indipendente, qual è l’individuo, si configura dunque come imago Dei (2012: 120-121). Nel pensiero di Duns Scoto è quindi del tutto chiara l’operazione che prende nome di “individuazione”. Da un lato, la persona umana viene sottratta nel suo essere alla rete delle relazioni sociali. Infatti, «non si addice alla persona essere dipendente e comunicabile»; «c’è un abisso tra questa persona qui e un’altra persona: ogni persona, nella sua realtà ultima, è inconoscibile all’altra» (2012: 121, 127). Dall’altro lato, la persona viene sostanziata con il concetto di “individuo”, che essendo «la massima perfezione dell’essere» (2012: 130) le permette non soltanto di non dipendere da altri, ma di acquisire le caratteristiche tipicamente divine dell’immodificabilità e della permanenza, cioè dell’identità che – come è facile ricordarsi (VI, § 3; VII, § 1) – Diotima attribuiva soltanto agli dèi. La definizione della persona umana in termini di individuo si configura

dunque come un passo decisivo nel processo di deificatio che il Cristianesimo aveva intrapreso. La persona, che per Duns Scoto non dipende da altri, si accorge di dipendere infatti dalla divinità, verso cui avverte un moto di «attrazione»: la persona, in quanto individuo, esprime la «massima vicinanza tra creatura e Creatore», e in ciò consiste la «struttura più profonda della persona umana» (2012: 131). In sintesi, «al concetto di “persona”», quale è stato elaborato da Duns Scoto, «risulta connaturata la categoria della incomunicabilità-solitudine, che la rende un’identità unica e irripetibile» (2012: 135), separata e incomunicabile con le altre persone e tuttavia in un rapporto di stretta somiglianza e prossimità con Dio. Tra Duns Scoto (1265-1308) e Guglielmo di Ockham (1285-1347) c’è un’indubbia continuità, anche se non risulta che il secondo sia stato allievo diretto del primo. Francescano pure Guglielmo, è come se egli abbia voluto radicalizzare ancor più la concezione individualistica esposta dallo scozzese. E la radicalizzazione consiste nel lasciare ancora più “solo” l’individuo sotto il profilo ontologico. L’operazione radicale di Ockham coincide infatti con l’eliminare dal campo dell’ontologia le cosiddette sostanze seconde, gli universali, le nature comuni di cui parlava Duns Scoto (Alféri 1989: 67). Non è concepibile una realtà che non sia singola, individuale: al di fuori degli individui non vi sono altri tipi di essere. Il famoso rasoio di Ockham viene così a recidere ogni fondamento ontologico che si voglia attribuire a relazioni e a somiglianze. Certo, Platone e Socrate si somigliano tra loro più che non con l’asino, ma «questa somiglianza non condiziona in nulla la singolarità [individualità] dell’essenza» (1989: 87). Le somiglianze tra gli individui sono di ordine puramente fattuale e hanno la funzione di consentire di raggruppare in qualche modo gli enti oggetto di osservazione: così metteremo insieme Platone, Socrate ed altri esseri umani da una parte, e asini o cavalli dall’altra. Ma queste somiglianze non hanno alcuna rilevanza ontologica; esse non dicono assolutamente nulla sul piano dell’essere, in quanto l’essere è tutto ed esclusivamente concentrato negli enti individuali. Per Ockham gli enti, gli individui, le cose «non possono essere per definizione che “semplici”, “isolate”, “separate”» (Villey 1986: 180). Essere è la stessa cosa che essere individui, e nient’altro che individui, per cui, per esempio, «nella persona di Pietro non vi è nient’altro che Pietro, e non qualche cosa che se ne distingua “realmente” o “formalmente”».

L’animale o l’uomo non sono né cose né esseri a cui si possa attribuire una qualche realtà, in quanto «nell’interpretazione occamista esistono solo gli individui: Pietro, Paolo, questo o quell’albero, quel masso di pietra, sono i soli ad essere reali; solo essi costituiscono sostanze». Lo stesso Ockham portava l’esempio dell’ordine francescano, il quale non esiste nella realtà: nella realtà ci sono soltanto frati francescani sparsi un po’ qui e un po’ là in Europa (1986: 181). Allo stesso modo, non esiste la “relazione” di paternità: esistono individui singoli a cui altri individui singoli si rivolgono chiamandoli “padre”. Ciò che la filosofia medievale denominava gli “universali” (come, per esempio, uomo, francescano, padre) serve soltanto a connotare (cioè a “notare insieme”) fenomeni o enti puramente individuali. Gli universali non sono dunque altro che segni o nomi, «i quali esprimono una rassomiglianza che percepisco tra diversi esseri individuali»; così la parola “uomo” non designa altro che «una certa similitudine che credo di discernere tra Socrate, Platone, Pietro o Paolo». Ma si tratta, appunto, soltanto di una «qualche rassomiglianza», e quindi «null’altro che una conoscenza imperfetta e parziale», «confusa e grossolanamente indistinta»: «la sola conoscenza perfetta, veramente adeguata al reale, è quella dell’individuale». La visione che Ockham ci offre del mondo è esattamente l’opposto rispetto a quella che è emersa molte volte in questo libro, ossia un intrico fitto e difficilmente descrivibile di somiglianze e differenze, di partecipazioni e di connessioni che non si arrestano ai confini esterni delle cose, ma addirittura si addentrano in esse. Il mondo di Ockham è infatti «un campo [...] in cui ciascuno dei singoli [individui] sussiste separatamente», in un rapporto di «esteriorità» rispetto a tutti gli altri e di «pura identità con sé stesso» (Alféri 1989: 107, 109). Ma che cos’è che fa sì che ogni ente individuale mantenga il suo essere, la sua separatezza, la sua identità? Che cosa impedisce che un individuo si mescoli agli altri, partecipi della loro essenza, si contamini con loro? Dal punto di vista di Ockham non basta concentrare l’essere in ogni ente: non è sufficiente una spiegazione puramente ontologica. Per Ockham, «c’è», ci deve essere, «una potenza assoluta», che con il suo immenso potere è in grado di mantenere ogni individuo fermo e stabile nei suoi confini, una potenza che «come un fulmine che cade dal cielo» determina la separatezza e la consistenza ontologica degli individui (1989: 106-107). Per Ockham, a fondamento

dell’ontologia degli individui vi è una teologia, che appunto segnala la potenza assoluta di Dio. È la teologia che fornisce certezza all’ontologia individualistica di Ockham, che garantisce da ultimo «l’identità dell’ente con sé stesso», che assicura che tale identità, lungi dall’essere una «chimera logica», si incastona «nell’essere» come una realtà «realmente isolata» e isolabile (1989: 109). «La potenza divina fissa [...] l’oggetto dell’ontologia», l’individuo, «nell’assoluto». Si tratta, come si vede, soprattutto di una «potenza separatrice», in quanto Dio è lì a garantire o, per meglio dire, a realizzare «l’identità propria delle cose singole, la loro separazione, la loro autonomia ontologica» (1989: 453). Ockham ci riserva però delle sorprese: il suo pensiero non è affatto così rassicurante, come fino a questo punto potrebbe sembrare. È vero: egli fornisce all’individuo una fortissima consistenza ontologica e vi aggiunge un fondamento teologico, ovvero il massimo della stabilità. Ma della potenza assoluta, la quale fissa gli individui nella loro identità, non c’è conoscenza di alcun genere: si tratta soltanto di un «atto di fede» (1989: 106). Di Dio noi non conosciamo l’esistenza e i tentativi con cui i filosofi si ingegnano a «provare» la sua esistenza svelano la nostra ignoranza al riguardo (1989: 432-433). Certo, se ammettiamo che Dio esiste, occorre anche ammettere che «egli è il singolo per eccellenza» (1989: 442): Dio è il creatore e il prototipo dell’individualità. Ma Ockham non può proporre altro che una «teologia negativa», per cui – come fa giustamente rilevare Alféri – l’intero pensiero di Ockham in realtà si fonda su un presupposto di cui finisce per «negare» la conoscibilità (1989: 454). Egli esalta l’individuo come unica realtà ontologica: sostanze seconde, universali, classi, specie, nature comuni, per non dire di relazioni e somiglianze, tutto ciò è bandito dall’ontologia. La sua «ontologia del singolo» non è sostenuta dunque dalla conoscenza di «una architettura causale del mondo» o di «oggetti realmente universali» (1989: 464). Alla base non c’è alcuna realtà sovra-individuale di cui si abbia conoscenza: c’è soltanto – rischiosamente – un atto di fede nella potenza assoluta di Dio, di cui non sappiamo nemmeno se esista (1989: 433). A Ockham viene di solito riconosciuto il merito di aprire la strada verso la modernità: seguendo la ricostruzione di Michel Villey, Dumont vede nascere nel pensiero di Ockham «l’individuo nel senso moderno del termine» (1993: 92). Questo succede, «quando non vi è più niente di

ontologicamente reale al di là dell’essere particolare». Inoltre, Villey è colui che coglie in Ockham la prima manifestazione del pensiero giuridico moderno: qui non è soltanto questione di ontologia, ma di affermare l’individuo nella sua libertà e nella sua capacità di esercitare «una potestas absoluta», «proprio come Dio», a immagine del quale è stato creato (Villey 1986: 219). Mutando prospettiva, volgendo cioè lo sguardo dal futuro della modernità all’epoca in cui Ockham visse, lo stesso Villey ritiene però che questo filosofo abbia dato forma a «un modo di pensare rimasto a lungo informe», quello degli «uomini medievali, incolti, poco portati all’astrazione, [...] indotti spontaneamente a pensare a partire dall’individuo». Altri hanno visto in Ockham il pensatore che «si è battuto per quel “mondo umano” e per quell’operosità cittadina, dove conta l’individuo abbandonato a sé stesso, senza rete protettiva, in possesso delle sole sue forze» (Todisco 1989: 142). Ovviamente, sono tutte interessanti queste considerazioni. Ma qui abbiamo voluto dare spazio a Duns Scoto e a Ockham per far vedere come la rappresentazione dell’individuo, con le sue origini cristiane, abbia conosciuto nel loro pensiero un approfondimento rigoroso, straordinario e – aggiungiamo – estremamente istruttivo e chiarificatore. Sembra che questi monaci francescani si siano incaricati di portare alle estreme conseguenze il tipo di rappresentazione che ha per oggetto l’individuo. Ockham, in particolare, taglia via dalla rappresentazione del mondo relazioni e somiglianze tra le cose, lasciando sussistere, in una “solitudine” ancora più estrema di quella pensata dal suo predecessore, soltanto gli enti nella loro individualità. Non ha torto Tomas Tyn – un filosofo domenicano, di origine ceca (1950-1990) – nel far vedere come la negazione della «somiglianza tra le cose» sul piano ontologico si traduca, per Ockham, in un incremento spropositato e unilaterale delle differenze: «ogni realtà singola è, nella sua singolarità, solo ed esclusivamente diversa da ogni altra», con il risultato che «non è più proponibile una visione del reale in cui gli individui sono legati tra loro da reali relazioni di somiglianza» (Tyn 1991: 250). In un mondo siffatto, «non c’è posto [...] per la partecipazione» (1991: 251). Quello di Ockham è infatti un pensiero che «distrugge la struttura partecipativa della realtà». Esso «spacca il mondo in entità distinte». Ciascuna di queste entità si trova in un rapporto di dipendenza da Dio (garante ultimo dell’esistenza e della permanenza degli

individui); ma tra esse non vi è alcuna «necessaria connessione» (1991: 251). Sembra davvero che in questa rappresentazione tutto sia appeso al volere di Dio, alla sua absoluta potestas. Ma che questo filo tenga è solo – come abbiamo visto – un atto di fede. È legittimo chiedersi, allora, che cosa succederebbe se, in questa rappresentazione estrema di una molteplicità di individui tutti autonomi e separati gli uni dagli altri, dovesse venire meno la divinità o, per meglio dire, la fede nella divinità9. 4. ...nulla Se il lettore avrà letto la nota alla pagina precedente, non sarà del tutto sorpreso di fronte a ciò che ora gli proponiamo, cioè di fare un salto storico veramente ragguardevole – dai secoli XIII-XIV di Duns Scoto e di Guglielmo di Ockham al secolo XIX – al fine di trovare una rappresentazione dell’individuo anch’essa estremamente ardita, una rappresentazione però che non pone più al vertice alcuna divinità. Ciò che proponiamo è una sorta di esperimento intellettuale, avente lo scopo di rispondere a questa domanda: che ne è dell’individualismo e dell’individuo senza la divinità che ne garantisca la fissità nel mondo dell’ontologia? La risposta ci viene offerta da Max Stirner, che nel 1844 pubblica il suo “unico” libro, Der Einzige und sein Eigentum, tradotto in italiano col titolo L’unico e la sua proprietà (Stirner 1999)10. Perché Der Einzige, il “singolo”, l’“unico”, anziché Individuum? La spiegazione più chiara e concisa è in Marx e Engels (1969: 266): «unico (einzige)» è «ciascun individuo (Individuum)», in quanto «è totalmente diverso da tutti gli altri». Nella descrizione dell’individuo – pur senza alcun riferimento ai nostri monaci medievali – Stirner riproduce un aspetto che abbiamo già visto in Duns e in Ockham, vale a dire la totale degradazione delle «somiglianze con altri»: esse non entrano affatto nell’essenza degli individui; ad esse si può accennare, così come possono essere rilevate, solo allorché si vogliano fare paragoni, i quali rimangono pur sempre estrinseci e ininfluenti, dato che «nei fatti io sono incomparabile, unico» (Stirner 1999: 148). Tutto attorno all’individuo, concepito anche da Stirner come un concentrato assoluto di essere, un nucleo inscalfibile in cui coincidono essenza ed esistenza, non ci sono reti di connessione (somiglianze, relazioni) che lo sostanzino. Ciò che Stirner chiede alla sua maniera – in maniera gridata e provocatoria

(Amoroso 1999: 383), quella maniera che, tra le altre cose, ha fatto tanto indispettire Marx e Engels e che ha fatto sì che dalla sua pubblicazione e fino ai nostri giorni Der Einzige venisse considerato «un libro “famigerato”», e assai poco letto (Calasso 1999: 389) – è che si giunga al “riconoscimento” di questo nucleo unico che è l’individuo, con tutte le sue conseguenze, e che quindi si esca dall’inconsapevolezza dell’egoismo indotta dalle tradizioni passate e soprattutto dal Cristianesimo: «cercate voi stessi, diventate egoisti, ognuno di voi divenga un io onnipotente» (Stirner 1999: 175). Questa arditissima e quasi delirante rappresentazione dell’individuo – offertaci da una persona dalla biografia e forse anche dalla personalità assai poco appariscenti – svolge nell’economia del nostro discorso un triplice ruolo: a) portare alle estreme conseguenze, ovvero al limite di rottura (fino alla sua sostanziale improponibilità), un tipo di rappresentazione per niente marginale, ma anzi estremamente diffuso e oltre tutto caratteristico e peculiare della civiltà occidentale; b) dimostrare l’importanza del rapporto, in questa rappresentazione, tra Dio e io; c) porre in evidenza l’esito fallimentare, o per meglio dire autodistruttivo, di questa rappresentazione, allorché da essa venga eliminata la divinità come entità distinta dall’io (come si ricorderà, nelle rappresentazioni di Duns e Ockham essa svolgeva la funzione di fondamento ultimo). Potremmo dire che c’è quasi perfetta coincidenza tra la concezione dell’unico di Stirner e la concezione dell’individuo, quale abbiamo visto in Duns Scoto e in Guglielmo di Ockham: in tutti i casi si constata l’estrema solitudo dell’individuo. Per Stirner, la debolezza consiste nella ricerca del legame, della comunità. Gli individui hanno da raggiungere invece la consapevolezza dell’essere «completamente, cioè totalmente, divisi» gli uni dagli altri: «come unico, tu non hai più niente che ti accomuni all’altro»; in ciò consiste tutta la «potenza» dell’individuo (1999: 219-220). L’individuo coincide con «l’ultima separazione» (in Duns ultima solitudo), quella che appunto divide l’uomo dall’uomo: l’individuo è per definizione il risultato di questa separazione estrema; l’individuo è ciò che non può essere ulteriormente suddiviso (1999: 241). Facendo leva sul concetto di individuo, e considerandolo come l’unico ente reale, Stirner perviene alla pressoché totale distruzione del concetto di somiglianza: Allo stesso modo in cui noi non vediamo nell’albero o nell’animale un nostro simile, così anche

la supposizione che gli altri siano nostri simili nasce dall’ipocrisia. Nessuno è mio simile (1999: 326).

E tanto meno “io sono simile a me stesso”, come invece pensavano Hume e, prima ancora, Diotima (cap. VI, §§ 3-4). L’individuo distrugge le somiglianze con gli altri, proprio perché dall’inizio, in principio, esso è un’entità compatta, perfetta, unica. Ecco in proposito il proclama di Stirner: Noi siamo già perfetti! Noi siamo infatti in ogni momento tutto ciò che noi possiamo essere e non c’è mai bisogno che siamo qualcosa di più. Siccome non ci manca niente [...] (1999: 373).

C’è però un punto in cui Stirner si discosta dalla rappresentazione dell’individuo, quale abbiamo già trovato in Duns o in Ockham: e questo punto, decisivo, riguarda il rapporto con Dio. Abbiamo già visto che questo rapporto è essenziale per i monaci francescani, e lo è pure per Stirner. Ma mentre per Duns l’individuo è tale in quanto è un’imago Dei, per Stirner l’individuo è tale, anzi è “unico”, in quanto è esso stesso Dio. Se per Duns c’era un rapporto di somiglianza, quindi una certa differenza, una certa distanza tra l’individuo umano e Dio, per Stirner io e Dio vengono invece a fondersi e a identificarsi. Dio è talmente co-essenziale all’io, che l’individuo non è più un’immagine di Dio, ma è esso stesso Dio. Si spiega così la “potenza” enorme, assoluta, indiscutibile e travolgente che Stirner attribuisce all’“unico”. «Al pari di Dio» – sostiene Stirner (1999: 13) – «io [...] sono il mio tutto, io che sono l’unico». Anzi, l’io, interamente deificato, supera la stessa divinità e lo stesso concetto di umanità: Se Dio, se l’umanità hanno, come voi assicurate, sufficiente sostanza in sé per essere a sé stessi il tutto in tutto, allora io sento che a me mancherà ancora meno (1999: 13).

In effetti, se l’individuo è una sostanza a cui non manca nulla, che ci fa Dio? Stirner radicalizza il passaggio da Dio all’umanità, e dall’umanità al singolo, all’individuo, all’unico (1999: 153). Se «all’inizio dell’età moderna sta l’“uomo-dio”», se si è verificato «il superamento di Dio», se «l’uomo ha ucciso Dio», Stirner propone di andare oltre: non l’uomo (l’umanità), ma l’unico (l’individuo) diventa esso stesso Dio. Il processo di deificatio, avviato dal Cristianesimo, si può dire concluso. Perciò è grazie all’individualità – non alla generica umanità – che gli esseri umani possono «sbarazzarsi e liberarsi del vecchio mondo degli dèi» e nel contempo da tutto ciò che non è «io»: «Io sono dunque il nocciolo che dev’essere liberato da ogni involucro, da ogni guscio limitante». Il merito di Stirner è quello di fare vedere come l’individualismo si spinga fino al punto di liberarsi di ogni

rapporto con Dio e di ogni rapporto con gli altri: «Che cosa rimarrà se io sarò liberato da tutto ciò che io non sono? Soltanto io e nient’altro che io» (1999: 173). L’io fagocita Dio e diventa egli stesso Dio: dopo millenni di ipocrisia, di «egoisti addormentati, ingannatori di sé», inconsapevoli di sé e della propria natura, è giunto il momento in cui si può gridare: «cercate voi stessi, diventate egoisti, ognuno di voi divenga un io onnipotente!» (1999: 175). Un “io” diventato finalmente “dio”: questo è l’esito della rappresentazione dell’individualismo di Stirner. Proprio perché diventato dio, l’io si carica di una potenza dirompente e distruttiva contro tutto ciò che intende limitarlo. «Io appartengo a me stesso», soltanto a me stesso, e perciò l’io, con il suo egoismo, dà luogo a una forza che distrugge non soltanto lo Stato, ma anche la società: «noi due, lo Stato e io, siamo nemici» e «l’egoista sarà la rovina della “società umana”» (Stirner 1999: 180, 188-189). Stirner ritiene possibile e auspicabile un Verein, una associazione degli «egoisti»11. Ma in questo Verein ognuno è dio a sé stesso: «Io sono per me il mio genere, sono senza norma, senza legge, senza modello o simili» (1999: 192). Inoltre nel Verein, composto da tanti «counici (Mit-Einzigen)» (come dicono Marx e Engels 1966: 99), non si realizza affatto una co-esistenza di uguali: «l’io è senza freni – e tali siamo tutti noi, originariamente» (Stirner 1999: 210). Il che significa che il singolo non soltanto è il «proprietario» esclusivo di sé stesso, ma io «mi faccio [...] proprietario di tutto ciò di cui posso impadronirmi» (1999: 243, 271). In questo suo strapotere, in questa sorta di delirio di onnipotenza, l’io «si comporta come Dio»: senza freni, senza limiti (1999: 301). Il mondo, gli altri, sono a disposizione dell’io: «Io utilizzo il mondo e gli uomini!», fino al punto che il rapporto con gli altri io diviene totalmente distruttivo: Tu non sei per me nient’altro che il – mio alimento, così come anche tu, d’altronde, mi consumi e mi usi. Noi abbiamo l’un con l’altro un solo rapporto: quello dell’utilizzabilità, dell’utilità, dell’uso. Noi non ci dobbiamo niente l’un l’altro, perché ciò che sembra che io debba a te lo debbo, se mai, a me stesso (1999: 311).

Con gli altri non si forma una comunità, in quanto negli altri «cerchiamo [...] soltanto mezzi e organi che possiamo usare come una nostra proprietà!» (1999: 326)12. Questo strapotere sugli altri, questa voracità per cui vogliamo prelevare dagli altri «mezzi e organi» per farne «nostra proprietà», finisce per indicare

però una falla enorme nell’individuo. Persiste in Stirner l’immagine degli individui come esseri «già perfetti» a cui non manca nulla. Ma la voracità che affiora nel rapporto con gli altri – tale per cui ogni singolo è «alimento» all’altro – sta a indicare una voragine nell’essere dell’individuo. Non è vero che a noi, singoli individui, non manca nulla: la nostra stessa voracità, con cui mangiamo gli altri, significa che non siamo affatto “sostanza”, una sostanza duratura, perenne, “impassibile”. La voracità e il desiderio di mangiare e consumare l’altro sono la smentita più chiara della tesi che ha sostenuto da principio la rappresentazione dell’individuo e che ritroviamo espressa da Bruno Bauer (l’altro hegeliano preso di mira in Die deutsche Ideologie): «Questo Io è la sostanza nella sua durezza più dura» (cit. in Marx e Engels 1966: 444). Altro che sostanza dura, la più dura che ci sia! Il desiderio di ingoiare l’altro – questo profondo desiderio antropofagico che spunta fuori verso la fine del “manifesto dell’individualismo” stirneriano – è l’indice più chiaro che dentro all’io non c’è una sostanza dura e compatta, a cui non mancherebbe nulla, bensì un vuoto, che esige di essere riempito. Non l’essere, dunque, all’interno dell’unico, e nemmeno “il nulla”, metafisicamente inteso, ma proprio e soltanto “nulla”. E infatti, è proprio così che Stirner – citando Goethe – inizia e conclude questo suo “famigerato” libro: «Io ho fondato la mia causa su nulla» (Stirner 1999: 11, 381). «Ich hab’ Mein Sach’ auf Nichts gestellt» è il verso iniziale della poesia di Goethe Vanitas, Vanitatum vanitas del 1806. Come molti commentatori fanno notare, Goethe, e poi Stirner, non scrivono auf das Nichts (“sul nulla”), bensì auf Nichts (“su nulla”). Questo nulla non metafisico del resto si accorda bene con l’idea del consumarsi di sé e degli altri da parte degli individui egoisti e divoratori. Qui l’ontologia non c’entra più niente. È l’individuo che si consuma e si auto-dissolve: «il dissolvimento» non è nemmeno una «missione», un «ideale», perché «è il tuo presente» (1999: 347). Dopo avere tanto elogiato l’unico come unica realtà, Stirner così conclude il suo “manifesto”: Nell’unico il proprietario stesso rientra nel suo nulla creatore, dal quale è nato [...]. Se io fondo la mia causa su di me, l’unico, essa poggia sull’effimero, mortale creatore di sé, che sé stesso consuma (1999: 380-381).

L’individuo dunque non sparisce in un nobile nulla: si dissolve invece in niente.

5. Il dividuo e la rete delle partecipazioni Ci sarà qualcuno che abbia tenuto conto dell’esito dissolutorio e autodissolutorio dell’individualismo di Stirner. Possiamo pensare a Nietzsche, il quale però si è sempre guardato bene dal citare questo suo strambo (e forse impresentabile) maestro, e forse a Ernst Mach, il quale a sua volta vede dissolversi l’io, insieme al concetto di sostanza (cap. VI, §§ 4-5). Si ha però l’impressione che il grido di allarme di Stirner si sia spento nel vociare di tutti coloro che davano e danno per scontata l’individualità come caratteristica irrinunciabile del soggetto umano, o che sia stato soverchiato e messo a tacere dalla feroce critica che Marx e Engels gli avevano riservato in Die deutsche Ideologie (una critica che si estende per tante pagine, quante più o meno sono le pagine del libro di Stirner). Come già abbiamo anticipato in qualche modo nel cap. VI, occorre attendere la conoscenza antropologica di altre società, con i loro modi peculiari di rappresentare il soggetto umano, per uscire dalla morsa – tipicamente stirneriana (in questo il suo merito) – dell’individualismo e della sua dissoluzione, del “o tutto o niente”, del “o dio o nulla”. Stirner non lo sapeva, ma tra l’individuo e il nulla ci sono altre soluzioni, che vale la pena prendere ora in considerazione. Maurice Leenhardt – già evocato nel cap. VI – era un missionario protestante ed etnologo francese. Amico di Marcel Mauss e di Lucien Lévy-Bruhl, ha vissuto presso i Kanak della Nuova Caledonia diciotto anni tra il 1902 e il 1926, per poi ritornarvi ancora nel 1938-1939 e nel 19471948 (Naepels e Salomon 2007: 11). Il missionario Leenhardt era del tutto convinto che la peculiarità dell’essere umano fosse la sua individualità e che il Cristianesimo fosse il portatore di questa verità tra i popoli da evangelizzare. L’etnologo Leenhardt trova però tra i Kanak una rappresentazione assai diversa dell’essere umano, quella che poi gli antropologi avrebbero chiamato concezione “relazionale” e “dividuale” della persona (cap. VI). Lo schema con cui Leenhardt raffigura il concetto di persona (kamo) tra i Kanak e che qui riproduciamo (Leenhardt 1971: 249)

può essere assunto come il paradigma della persona dividuale. Per i Kanak, l’essere umano non è una sostanza individuale (ontologia), a cui eventualmente aggiungere relazioni sociali (sociologia). Come si vede molto bene dallo schema, esso consiste – potremmo dire, ricordando Hume – in un fascio di relazioni, e che si tratti di relazioni, non di entità, appare chiaramente dalla precisazione di Leenhardt, secondo cui le relazioni, di cui l’essere umano è costituito, convergono, o si dipartono, da un «vuoto». Al centro dell’essere umano troviamo dunque non un nucleo sostanziale, ma appunto un «luogo vuoto», anche se a questo “luogo” viene dato un nome, anzi una pluralità di nomi. Per i Kanak l’essere umano è fatto dunque soltanto di relazioni: a queste si aggiunge unicamente il vuoto. Leenhardt descrive queste relazioni (a-b, a-c, a-d ecc.) prendendo ad esempio il rapporto tra lo zio materno e il nipote uterino (il figlio della sorella). Possiamo immaginare che Ego sia il nipote (a), il quale intrattiene un rapporto con il fratello della madre (b). Questo rapporto viene espresso da un sostantivo duale, duamara, che designa entrambi i soggetti: o meglio duamara designa né l’uno, né l’altro dei due soggetti, bensì «la relazione che li unisce» (1971: 262). In questo modo, i due soggetti, ovvero, per Leenhardt, i due «personaggi», risultano «confusi in una medesima realtà» sociale: essi «partecipano alla stessa persona», e dunque per i Kanak si tratta di una persona che non è concentrata in un individuo, ma è «diffusa», distribuita (1971: 263). Il nostro soggetto a è ovviamente costituito – come è suggerito dallo schema – anche da altre relazioni (quella con c, d ecc.) e dunque esso è “composto” da tutte le relazioni in cui si trova coinvolto e di cui è parte. Da qui scaturisce l’idea di interpretare il soggetto umano come una persona «dividuale», secondo la scelta terminologica fatta valere da Marylin Strathern (cap. VI, § 5). In effetti, se al centro c’è il “vuoto”, ovvero non c’è alcunché che coordini l’insieme delle relazioni, pare imporsi e prevalere l’idea della scomponibilità del soggetto umano. Per questo Leenhardt sostiene che il soggetto dei Kanak non è una “persona”, quanto piuttosto un “personaggio”, o meglio un insieme di personaggi, a seconda dei ruoli che recita (per esempio, nipote, figlio, cugino, marito, padre, così come madre, nonna, moglie ecc.). Leenhardt amava fare degli schemi per rappresentare la persona relazionale kanak. La figura che ora riproduciamo

(Leenhardt 1971: 182) ha lo scopo di farci vedere la “rete” che si viene a formare sul piano sociale, in virtù delle relazioni personali. Alla base, le relazioni sono sempre inevitabilmente duali e dunque alla base vi sono delle “paia di soggetti” – come possono essere padre-figlio, zio-nipote ecc. –, ossia ciò che Leenhardt chiama “strutture duali”: ogni soggetto è coinvolto e suddiviso in un certo numero di queste strutture duali, e così l’insieme sociale coincide con «una struttura a paia di personaggi in relazione l’uno con l’altro». Se distendiamo questa struttura su un piano, essa risulta composta – afferma Leenhardt – di «piccole superfici ellittiche, a due fuochi, le quali si incastrano le une nelle altre». Ovviamente, tali strutture a paia coincidono, nell’ambito della parentela (senza dubbio prevalente in questo tipo di società), con le relazioni nonno-nipote, padrefiglio, marito-moglie, fratello-sorella e così via. È altrettanto evidente che ogni soggetto è inserito – come suggerisce la figura qui riprodotta – in un certo numero di tali strutture, essendo nello stesso tempo figlio di un padre, figlio di una madre, padre di un figlio, padre di una figlia, marito di una certa donna, zio materno di un certo nipote (figlio di sua sorella) e via di seguito. Si ottiene così un’immagine particolarmente appropriata per rappresentare la «struttura vera e propria della società» kanak, quella cioè di un «tessuto cellulare» o anche, se vogliamo, di una rete.

Fin qui, l’analisi di Leenhardt ci è molto d’aiuto per fare vedere come una società tanto lontana dalla nostra abbia dato luogo a una concezione decisamente alternativa alla rappresentazione individualistica, dalla cui critica siamo partiti. Ma non è affatto semplice descrivere concezioni alternative a quella dell’individuo, dato che questa nozione è profondamente radicata nel nostro modo di pensare. Se ci soffermiamo sul caso di Leenhardt, non è soltanto per la sua raffigurazione del “dividuo” (come poi si sarebbe detto) e per il fascino che essa ha esercitato tra gli antropologi, e non solo (come, per esempio, su Jacques Lacan [Clifford 1982: 185]). È importante riflettere su Leenhardt anche e forse soprattutto per le aporie che – a un’analisi un po’ più approfondita – emergono dalla sua impostazione: riteniamo che pure dalle sue difficoltà ci sia molto da imparare. Esse ci fanno intuire come sia indispensabile porsi il problema dell’attrezzatura concettuale che occorre forgiarsi allorché ci accostiamo al soggetto umano e alle rappresentazioni che di esso si possono costruire: finora due rappresentazioni sono emerse, ovvero il concetto di “individuo” e il concetto di “dividuo”. Intanto, se è vero che Leenhardt si imbatte in un altro modo di rappresentare il soggetto umano, un modo che fa a meno, o meglio ignora il concetto di individuo, è altrettanto vero che per il missionario ed etnologo francese il concetto di individuo è irrinunciabile. I Kanak non conoscono il concetto di individuo, non perché l’individuo non esista, ma perché la loro – come insegnava Lévy-Bruhl – è ancora una mentalità primitiva; è il Cristianesimo che farà conoscere loro il senso dell’individualità e il vero significato del concetto di persona: ecco perché c’è bisogno di andare tra i Kanak in veste di missionari. Su questo punto, Leenhardt finisce per dare ragione tanto a Mauss, suo amico e maestro, quanto a Siedentop: il vero scopritore dell’individuo è il Cristianesimo. Ma con questo presupposto, come ci si può avvicinare alla concezione dividuale della persona tra i Kanak? Quale immagine ne viene fuori? Ne viene fuori – non abbiamo esitazione a dirlo – un’immagine molto difficile da sostenere, da ammettere o da attribuire. In effetti, Marylin Strathern aveva ragione a sollevare dubbi sulla validità dello schema di Leenhardt e in particolare sul “vuoto” al centro della persona. Proviamo a riflettere sulla funzionalità dell’immagine fornita da Leenhardt: una rappresentazione deve avere infatti una certa “congruenza”; ovvero occorre chiedersi se un

essere umano così “rappresentato”, così suddiviso nella serie delle relazioni che lo compongono, starebbe in piedi, se è in grado di funzionare, se in definitiva è proprio questa l’immagine elaborata dai Kanak13. Partiamo dal vuoto al centro. Secondo Leenhardt, i Kanak immaginano un vuoto al centro del soggetto umano (kamo), in quanto non dispongono della nozione di individuo. Ma è così inevitabile l’alternativa individuo/vuoto, per cui se ci fosse l’individuo al centro ci sarebbe il pieno (la individua substantia), mentre se non c’è l’individuo – se non è concepito, immaginato, previsto – necessariamente c’è il vuoto, il nulla? Tertium non datur? Leenhardt, ispiratore in antropologia della concezione relazionale e dividuale della persona, non rischia di essere anch’egli attanagliato nella morsa (che abbiamo visto agire in Stirner) del “o c’è l’individuo” oppure “c’è il nulla”? Hanno ragione Marilyn Strathern (1988), e sulla sua scia Carlo Capello (2016: 26), a sostenere che «Leenhardt è ancora troppo condizionato dalla concezione individualistica tipica del pensiero occidentale per riuscire a cogliere la concezione kanak in tutta la sua profondità». Senza dubbio, Leenhardt giunge ad afferrare assai bene, e addirittura a rappresentare graficamente con un’immagine rimasta classica, il carattere relazionale della persona, così come coglie altrettanto bene e rappresenta con altrettanta efficacia, con la seconda immagine qui riprodotta, la natura reticolare della società, in armonia con la concezione relazionale della persona. Attanagliato dal dilemma “individuo o nulla”, Leenhardt non vede però altro che il nulla al centro, con l’effetto di accentuare il carattere “dividuale” dell’essere umano: «tutto ciò che egli vede al [...] centro non è altro che il vuoto» (Strathern 1988: 268). Non essendovi nulla al centro, in effetti il kamo kanak si suddivide, anzi si scompone – non può che scomporsi –, nella serie delle relazioni in cui è coinvolto. È inevitabile allora concentrarsi sul modo con cui le relazioni, a loro volta, vengono concepite da Leenhardt. A questo scopo, egli si avvale del concetto di “partecipazione” ereditato direttamente da Lévy-Bruhl. I Kanak, primitivi, non possono che pensare alla maniera dei primitivi, ossia – come Lévy-Bruhl aveva insegnato fin dal 1910 – sulla base della «legge di partecipazione» (Lévy-Bruhl 1970: 96). “Partecipazione” è un concetto oltremodo importante non solo per il pensiero di Lévy-Bruhl e di Leenhardt, ma per la nostra stessa impostazione. Come già abbiamo avuto

modo di chiarire in diverse parti di questo libro (in particolare nei capp. II, § 6; III, §§ 4-6; V, § 5; VI, § 1), trattiamo partecipazione come sinonimo di condivisione e consideriamo la condivisione (e quindi la partecipazione) come la struttura dei rapporti di somiglianza: simili sono le cose che condividono alcuni tratti in comune, ovvero che partecipano a questa condivisione di aspetti o elementi. La partecipazione – su cui tanto ha insistito Lévy-Bruhl (dal testo del 1910 fino ai Carnets usciti postumi nel 1949) – ha perciò da essere considerata come un concetto fondamentale sia per un approfondimento della nozione di persona tra i Kanak, visto che è su questo che ci stiamo soffermando, sia per l’intera teoria delle somiglianze, quale cerchiamo di costruire in questo libro. Ci piacerebbe dunque fare nostro l’approccio di João de Pina-Cabral, il quale dedica un saggio molto importante al concetto di partecipazione e invita gli antropologi a rivalorizzare il lavoro di Lévy-Bruhl, procedendo oltre la svalutazione di cui per molti decenni è rimasto vittima. Certo, «la nozione di partecipazione», introdotta da Lévy-Bruhl, «è una porta che ci consente di esplorare in maniera creativa nuovi campi dell’analisi antropologica» (Pina-Cabral 2017: 22), se non fosse per il fatto che, dall’inizio alla fine della sua opera, Lévy-Bruhl intende la partecipazione in termini non già di somiglianza, ma di identità, snaturando in tal modo il significato di questo concetto e impedendone una proficua fruibilità. Nel caso famoso dei Bororo del Brasile settentrionale, i quali affermano formalmente di essere degli arara, cioè dei pappagalli, Lévy-Bruhl sostiene che non si tratta dell’invenzione di una metafora, né della proclamazione di una parentela, tanto meno dell’auto-attribuzione di un nome: «quel che essi vogliono far comprendere è un’identità essenziale» (Lévy-Bruhl 1970: 105). Lévy-Bruhl è molto chiaro su questo punto: la partecipazione non deve essere intesa alla maniera di una spartizione, ovvero di una condivisione (1970: 107), ma come la partecipazione a un’essenza comune, la quale fa sì che i soggetti coinvolti siano non simili, bensì identici. Già nel testo del 1910, Lévy-Bruhl perviene alla delineazione di un quadro che da Leenhardt sarà poi applicato, alcuni decenni dopo, ai Kanak. Secondo Lévy-Bruhl, l’idea di anima non si trova tra i primitivi. Ciò che ne costituisce il sostituto è la rappresentazione, in genere molto emozionale, di una o di più partecipazioni che coesistono e che si intersecano, senza ancora fondersi nella precisa coscienza di un’individualità veramente unica (1970: 118, trad. lievemente modificata).

Le relazioni, che nello schema grafico di Leenhardt connettono a con b, a con c, e così via, sono esattamente le “partecipazioni” di cui parla LévyBruhl, partecipazioni o comunioni d’essenza, le quali determinano una «identità di essenza» tra i soggetti coinvolti (1970: 120), ovvero di a con b, di a con c e così di seguito. Lévy-Bruhl nega che i primitivi facciano uso della «analogia», secondo la quale vedrebbero nella natura «volontà, spiriti, anime simili alle loro» (1970: 130-131): occorre attendere uno «stadio di sviluppo» più avanzato, quello cioè in cui «gli individui» finiscono con l’assumere «una coscienza più precisa della loro personalità», affinché essi possano utilizzare l’analogia e così scorgere «fuori di loro stessi», ovvero negli animali, negli alberi, nelle rocce, così come negli dèi e negli spiriti, «personalità analoghe» al loro essere (1970: 131). Prima che emerga l’individualità, prima che si formi la coscienza dell’individuo, l’individuo è come se non esistesse, risultando così inevitabilmente suddiviso in una pluralità di partecipazioni o, meglio, di «identità di partecipazione» (1970: 157). Né Lévy-Bruhl, né Leenhardt hanno introdotto il termine “dividuo”; ma, alla loro maniera – ossia con il principio della molteplicità delle “partecipazioni” di essenza, ovvero delle “identità” multiple –, hanno preparato il terreno all’uso di questo concetto. Proprio per questo, PinaCabral propone di considerare Lévy-Bruhl come il teorico più consapevole e profondo della «partecipazione dividuale», distinta dalla «partecipazione individuale». Non c’è dubbio che, mentre l’individualità sottolinea con forza il carattere unitario dei singoli soggetti, la dividualità invece ne «afferma la pluralità intrinseca» (Pina-Cabral 2017: 4). Pluralità e relazionalità sono le caratteristiche che maggiormente hanno attratto gli antropologi – e anche l’autore di questo libro (cap. VI, § 5) – verso il “dividuo” come proposta epistemologica, etnograficamente validata, da contrapporre all’imperio dell’individualismo occidentale. Un’analisi un po’ approfondita di Leenhardt e di Lévy-Bruhl ci mette in guardia tuttavia da un uso generalizzato della concezione dividuale. Il rischio è infatti duplice: lo svuotamento dell’io (il nulla al centro) a tutto favore delle sue relazioni esterne e la trasformazione delle sue “partecipazioni” grazie al concetto di identità: da partecipazioni di somiglianza a partecipazioni di essenza. In Leenhardt, questo duplice rischio – già presente, come abbiamo visto, in Lévy-Bruhl – è del tutto palese. Al “vuoto” centrale si

contrappongono le “identità” multiple in cui il kamo si suddivide, ed è una suddivisione per così dire irrimediabile: lungi dal compensarla, il vuoto al centro rende questa suddivisione ancora più radicale. «La personalità di ciascun individuo» è irrimediabilmente «suddivisa» nella serie di relazioni in cui è coinvolta: relazioni di parentela, relazioni totemiche, relazioni con gli antenati o con le divinità, ciascuna delle quali non è una relazione di somiglianza, ma di identità, ovvero di partecipazione di essenza (Leenhardt 1970: 54). Leenhardt parla a questo proposito di una «identità con il mondo», anche se – egli avverte (1971: 133-134) – si tratta non di una identità astratta, di ordine filosofico, ma di una identità «concreta», di una «identità vissuta» attraverso il racconto mitologico. I confini tra gli uomini e il mondo, tra i vivi e i morti, risultano «sfocati»: a un esame approfondito della cultura kanak, «si coglie ogni volta l’identità, la quale cancella le loro opposizioni» (1971: 139). Anche quando sembra inclinare verso la somiglianza – per esempio, nel caso in cui il Kanak «imita il totem nelle sue danze» –, Leenhardt sostiene che l’indigeno «vive nel sentimento della sua identità con il totem» (1971: 158). Leenhardt a tal punto carica queste partecipazioni esterne, da affermare che il Kanak è «sempre in preda a un sentimento di identità con il mondo» e questo legame identitario profondo «gli impedisce di essere sé stesso» (1971: 162). La stessa situazione si verifica ovviamente nel rapporto con la società: «il melanesiano risulta attaccato con tutte le fibre del suo essere al suo gruppo», così che egli vive e vale soltanto per il «posto» che vi occupa, per il «ruolo» che vi svolge; egli è null’altro che «uno dei personaggi del grande gioco del gruppo» (1971: 167). E, beninteso, «questa rappresentazione corrispondeva alla realtà» (1971: 166). In termini più particolari, Leenhardt precisa che, sul piano sociale, ogni personaggio (non “ogni individuo”, vista la corrispondenza tra rappresentazione e realtà) è tale in quanto inserito in una relazione, ma questa relazione (per esempio, zio/nipote) è un «tutto omogeneo» (1971: 173), dominato com’è dal principio dell’identità. Nella rappresentazione kanak, neppure il corpo riesce a fornire un senso di individualità al kamo, all’essere vivente, a tal punto che il Kanak, suddiviso com’è in tutte «le diverse relazioni e partecipazioni che lo riguardano», non ha coscienza di sé: egli è irrimediabilmente diviso nelle «identità» mitologiche e sociali di cui è costituito (1971: 250-253). Certo, Leenhardt si pone il problema

della «integrità» della persona; ma è significativo notare che il suicidio, concepito come un trasferimento nell’invisibile, presso gli antenati, viene presentato come «il vero movimento del Kanak nei suoi tentativi per trovare sé stesso» (1971: 256). Si direbbe: una fuga dalla molteplicità e dalla morsa delle diverse partecipazioni e identità sociali e un proiettarsi, un identificarsi, in una «personalità ancestrale». In modo analogo, Leenhardt ci parla della ragazza di Moaxa, la quale – secondo un racconto a tutti noto in Nuova Caledonia – rifiuta i partiti concordati dai suoi genitori, se ne fugge lontano, per andare a sposarsi con il capo di Koné: si tratta di un «impulso» e di una «decisione» – commenta Leenhardt – che non sono più quelli di un personaggio, ma ormai di una persona; si tratta di eroi o di eroine che «rifiutano il ruolo sociale» loro affidato e che, «in rivolta contro la società», fanno sì che «la loro persona spicchi il volo» (1971: 259). Sono ovviamente importanti questi accenni di Leenhardt alle drammatiche uscite dal gruppo (suicidi e viaggi) tanto di personaggi «antichi», quanto di personaggi «attuali» (1971: 259)14. A quanto pare, alcuni fuggono dal vuoto interno ponendosi alla ricerca di sé stessi, mentre altri fuggono dalla «rete» delle «partecipazioni» esterne che li avvolgono e li stringono da ogni parte (1971: 260). Queste indicazioni rimangono preziose, anche se si dovesse rivedere l’impostazione di Leenhardt e, al posto del “vuoto” al centro e della molteplicità delle partecipazioni o identità sociali e mitologiche, si cogliessero di più le trame delle somiglianze/differenze interne ed esterne (il SoDif di cui si è più volte parlato in questo libro). Allo stesso modo, suscita grande interesse il quadro drammatico che Leenhardt ci propone a seguito della colonizzazione, ovvero la «disaggregazione fatale della persona» dovuta a «un lavoro sconsiderato di individuazione»: un avventato recidere le relazioni sociali nella presunzione che da tale sfrondamento sorga l’individuo-persona (1971: 265-266). Ciò che è stato ottenuto – secondo la denuncia di Leenhardt – è una «folla amorfa» e anonima al posto di una «società», un «individuo solo e asociale», privo dei suoi tradizionali sostegni sociali: una «individuazione mal riuscita» e «sconsiderata», invece che una individuazione equilibrata, capace di conservare le «partecipazioni» appropriate (1971: 267-269). Di fronte a questo vero e proprio «disastro umano», per il missionario Leenhardt viene in soccorso il Cristianesimo, con la sua idea di mettere insieme «individuazione» e «partecipazione»,

capacità di distinguere l’io dagli altri e, nello stesso tempo, «comunione» con gli altri: insomma, salvando alcune partecipazioni, l’io kanak sarebbe ora in grado di dire «Go do kamo: io sono persona vera» (1971: 271). 6. Il condividuo: una proposta epistemologica Maurice Leenhardt aveva tentato un compromesso: mettere insieme “individuo” e “partecipazione” allo scopo di ottenere una “persona vera” (do kamo, non semplicemente kamo). Un individuo senza partecipazioni darebbe luogo all’individuazione “sconsiderata” e al “disastro umano” denunciati dallo stesso Leenhardt a seguito della colonizzazione; ma le partecipazioni senza l’individuo provocano il “vuoto” al centro, ovvero l’assenza di un sé, di una persona, assenza che Leenhardt pensa di avere riscontrato nella cultura tradizionale kanak. A ben vedere, anche Marilyn Strathern – nella sua critica a Leenhardt – si è sentita obbligata a scendere a un compromesso. Rileggiamo la definizione di persona in Melanesia elaborata dall’antropologa inglese: «Lungi dall’essere considerate come entità uniche, le persone in Melanesia sono concepite sia in termini dividuali sia in termini individuali» (Strathern 1988: 13). Sinceramente, dopo il percorso compiuto negli ultimi due capitoli, e in particolare dopo l’esame a cui abbiamo sottoposto il concetto di individuo in questo capitolo, non pare che questi compromessi siano davvero accettabili: come si possono mettere insieme “dividuo” e “individuo” (Strathern) e, del resto, come si possono conciliare “individuo” e “partecipazione” (Leenhardt)? Quale di questi termini si deve sacrificare? Ha ragione João de Pina-Cabral (2017) quando sostiene che occorre tornare a riflettere sul concetto di partecipazione: Lévy-Bruhl l’ha usato per tutta la vita e nei Carnets pubblicati dopo la sua morte vi ritorna con insistenza; tale concetto è probabilmente il contributo più significativo da lui offerto al pensiero antropologico. Per l’ultimo Lévy-Bruhl è ormai indubbio che non si deve utilizzare il concetto di partecipazione per separare il pensiero primitivo dal pensiero moderno: egli infatti abbandona la distinzione tra mentalità logica (quella delle civiltà moderne) e mentalità pre-logica (quella delle società primitive), in quanto fondata su strutture mentali opposte. Tuttavia, egli nota una maggiore propensione a riconoscere le partecipazioni da parte delle società che continua a chiamare

primitive. Infatti, anche se il titolo dell’intero paragrafo è il seguente: «Essere, esistere, vuol dire partecipare», si comprende che soprattutto «per la mentalità primitiva essere significa partecipare» (Lévy-Bruhl 1952: 53-55). Si tratta, per Lévy-Bruhl, di atteggiamenti, di orientamenti, di abitudini mentali diversi, nel senso che i primitivi sono più attenti alle partecipazioni, in quanto maggiormente orientati verso esperienze mistiche, anche se, a ben vedere, questo tipo di esperienza è «presente in tutto lo spirito umano» (1952: 101, 161). Misticismo o no, Lévy-Bruhl coglie con chiarezza ciò che fa da ostacolo alla possibilità di sfruttare, anche da parte di noi moderni, il concetto di partecipazione. L’ostacolo (o l’errore) consiste nel dare per scontato che «gli esseri sono prima dati e poi partecipano di questa o di quella potenza», soprannaturale o meno che sia (1952: 275). Prima l’essere e poi la partecipazione: questo sarebbe il nostro modo di ragionare, la nostra rappresentazione delle cose e dei soggetti umani. Ma a che cosa si riduce la partecipazione, se prima c’è l’essere, se prima ci sono gli esseri in sé compiuti, insomma gli individui, come concentrati di essere? Per dare spazio e rilievo alla partecipazione, occorre invece riconoscere – secondo Lévy-Bruhl – il carattere prioritario di questo concetto: «perché [gli esseri] siano dati, perché esistano, sono necessarie le partecipazioni»; e aggiunge: Una partecipazione non è soltanto una fusione misteriosa ed inesplicabile di esseri che perdono e conservano insieme la loro identità; entra nella costituzione stessa degli esseri. Senza partecipazione non sarebbero dati nella loro esperienza; non esisterebbero.

Se così stanno le cose, se la partecipazione è un concetto troppo importante e fondamentale per poterlo trascurare o sminuire, allora forse dobbiamo concludere che i “primitivi” di Lévy-Bruhl hanno ragione: sono loro che vedono come stanno le cose e danno la giusta priorità alla partecipazione rispetto agli esseri e agli individui, con la conseguenza però di incrinare notevolmente il significato di individuo. Se «gli individui, umani o non umani, esistono» solo grazie alla partecipazione, se «la partecipazione [...] è immanente all’individuo», se la partecipazione «è una condizione della sua esistenza, forse la più importante, la più essenziale», se «è ad essa [...] che egli deve di essere ciò che è», allora hanno ragione i primitivi a non sapere «che cosa sia una individualità di per sé sussistente» (1952: 275). Se si dà spazio e rilievo alla partecipazione – come Lévy-Bruhl

ha senz’altro fatto nei suoi Carnets –, è inevitabile sacrificare l’individuo come concentrato di essere. Infatti, Questo è sentire una partecipazione. La coscienza che [il primitivo] ha di sé stesso non è la coscienza di una persona in sé compiuta, ma di una persona la cui ragione d’essere, le cui condizioni essenziali di vita risiedono nel gruppo di cui fa parte e senza il quale non esisterebbe (1952: 131).

Coscienza dunque non di un “essere compiuto”, rotondo, indiviso, di una individua substantia in radice a-relazionale, ma di un essere composito, solcato e formato dalle relazioni che lo connettono al mondo naturale e sociale. Lévy-Bruhl si avvale del lavoro di Leenhardt sui Kanak per sostenere che «in uno stesso momento, nella coscienza di un Canaco [Kanak]» vi sono «partecipazioni che coesistono»: si tratta di relazioni «con gli antenati, i totem, la terra, le rocce, i fiumi, le montagne, i vivi e i morti del suo clan, ecc.» (1952: 108). Perché le partecipazioni finiscono solo per “coesistere” nella coscienza dei Kanak? Perché c’è soltanto molteplicità, una molteplicità non integrata, ma divisa, «una moltitudine di “partecipazioni” che i Kanak vivono o nelle quali, anzi, essi sono imprigionati» (Naepels 2007: 73)? Perché non si intravede un’integrazione? La risposta che abbiamo già suggerito nel paragrafo precedente è che sia Lévy-Bruhl sia Leenhardt intendono la partecipazione come un fatto di “identità” e non di “somiglianza”. Persino nel momento più autocritico – quello dei Carnets – Lévy-Bruhl continua a pensare la partecipazione in termini di «consustanzialità», di «comunione», di «identità» fra esseri e oggetti (1952: 167-168). E ciò provoca effetti che possiamo riscontrare direttamente in Leenhardt. Nella sua ricostruzione dell’opera dell’etnologo francese, James Clifford sottolinea in modo chiaro questa «esperienza di identità» che Leenhardt ritiene di osservare tra i Kanak, un’esperienza la quale fa sì che non vi sia una «chiara separazione tra sé e il mondo» e che «la carne di una persona sia la medesima carne di un igname, che la sua pelle sia la corteccia di un albero» (Clifford 1982: 173). Con notevole precisione concettuale, Clifford fa capire come il concetto di “somiglianza” sia del tutto estraneo a Leenhardt, in quanto interprete del pensiero kanak: «Leenhardt non dice che la pelle di un uomo è simile a una corteccia: dice invece che è corteccia». Clifford prosegue con un approfondimento molto utile per il nostro discorso. Egli afferma che «questa esperienza di identità», invece che esperienza di somiglianza, «implica il collasso di relazioni simboliche, e

persino metaforiche», ovvero – nel pensiero kanak, interpretato da Leenhardt – non si avverte una qualche separazione, una qualche «distanza», una qualche differenza «tra soggetto e oggetto», così come non si percepisce una qualche «somiglianza» che faccia da «mediazione» tra oggetti differenti. In effetti, l’identità fa davvero collassare le relazioni metaforiche, in quanto avvicina i termini delle relazioni fino al punto da farne una cosa sola: con un solo termine ogni metafora è ovviamente impossibile. Al contrario, analogie e metafore richiedono che i termini risultino sufficientemente distanziati grazie alle differenze e sufficientemente ravvicinati grazie alle somiglianze. Il principio dell’identità è invece talmente radicato, e talmente preponderante, nell’interpretazione di Leenhardt (e di Lévy-Bruhl), da ritenere che «i Kanak non abbiano coscienza della differenza semantica tra i due termini di [...] una relazione metaforica», come quella tra il corpo e un albero, con l’effetto di negare «ai Kanak le gioie e le bellezze della metafora» (Naepels 2007: 79): tra il corpo e l’albero i Kanak non cercano (ariosamente) analogie e somiglianze; ritengono invece (ottusamente) che ci sia «una identità di sostanza», la quale «li confonde nel medesimo flusso di vita» (Leenhardt 1971: 68). Se «gli esseri viventi entrano in relazioni di identificazione con altri esseri viventi» (Clifford 1982: 174), se si annulla la distanza tra loro, come tra il sé e il mondo, che senso ha parlare di partecipazione? Nella visione di Leenhardt le partecipazioni sono in realtà identificazioni e la persona kanak si spezza quindi in una molteplicità di identificazioni, di identità particolari: non una (l’io), ma tante identità, per giunta eterogenee tra loro. La domanda allora è: sono i primitivi Kanak a non essere in grado di cogliere l’integrazione della persona oppure è Leenhardt a non disporre di un’attrezzatura concettuale appropriata? Certo i Kanak gli sottopongono un concetto relazionale di persona, e il grande merito di Leenhardt è di averlo afferrato e persino raffigurato graficamente (§ 5); ma è poi lo stesso Leenhardt a trasformare indebitamente le partecipazioni, le relazioni di “somiglianza” (relazioni simboliche e metaforiche, come direbbe Clifford, dotate cioè di sufficiente distanza e vicinanza tra i termini), in relazioni di “identità” con questo o quell’aspetto del mondo, ottenendo l’effetto di frazionare il soggetto in una molteplicità irrelata. E ciò andrebbe a confermare il presupposto – condiviso con Lévy-Bruhl e con Mauss –

secondo cui i “primitivi” non sono in grado di formarsi una nozione di individuo. Insomma, l’individuo appartiene soltanto a “noi moderni”, e siamo noi a dover insegnare agli altri l’individuazione, cioè come si fa a diventare vere persone: insegnamento brutale quello impartito dai colonizzatori, che puntano soltanto sull’individuo, spezzando senza alcun riguardo i legami tradizionali, ossia le partecipazioni sociali e mitologiche; insegnamento prudente e saggio quello dei missionari, che invece tentano un compromesso difficile, forse impossibile, quello cioè di fare andare d’accordo “individuo” (identità) e “partecipazioni” (somiglianze). Le partecipazioni vanno salvate, ma esse possono essere salvate e diventare davvero strumenti preziosi per le analisi degli antropologi (secondo quanto sostiene Pina-Cabral) a condizione di non interpretarle come “identità”, ma come “somiglianze” (o meglio, come “somiglianze e differenze”, come SoDif) e a condizione di non tentare il compromesso impossibile con il concetto di “individuo”. Messe insieme all’individuo, le partecipazioni (le condivisioni) si volatilizzano, si superficializzano, diventano cose superflue, persino fastidiose, in ogni caso puramente aggiuntive, nella misura in cui si voglia mantenere l’individuo come sostanza; oppure esse spezzano l’unità dell’individuo, trasformandolo in un “dividuo”, con il rischio di perdere la consapevolezza di quel un po’ di coerenza, di continuità, di integrità, di riconoscibilità del soggetto, su cui abbiamo riflettuto nel capitolo VI (§§ 2, 3, 6, 7). Se si vuole conservare l’individuo, le partecipazioni divengono secondarie e inutili; se invece le si considera prioritarie e fondamentali, esse frantumano l’individuo e al suo posto appare il dividuo. Quest’ultimo è l’esito a cui eravamo pervenuti nel capitolo VI, in linea con l’antropologia della persona, che – a partire dalla Strathern (1988) – ha fatto del dividuo il suo cavallo di battaglia (Remotti 2009: cap. VII; Capello 2016: cap. II). Ma la stessa Strathern ha avvertito che “dividuo” non è sufficiente, nel senso che lascia qualcosa di inespresso, di non risolto. Nel discorso degli antropologi, dividuo in effetti nasce dalla negazione di una negazione (non/in-dividuo), cioè dalla negazione della indivisibilità del soggetto. Proprio per questo, l’antropologa inglese ha tentato il compromesso di cui già si è detto, sostenendo che la persona in Melanesia è concepita sia in termini dividuali, sia in termini individuali. A pensarci bene, questo capitolo è stato costruito a partire da un senso di relativa insoddisfazione generata dalla nozione di dividuo, quale

avevamo esposto nel cap. VI. Abbiamo perciò voluto ripensare quella strana e quasi “incredibile” concezione del soggetto umano – quale è data dal concetto di individuo15 – non per limitarci alla negazione della sua indivisibilità (una improduttiva negazione di una negazione), ma per approdare a qualcosa di più consistente e propositivo. Ciò che proponiamo è infatti il mantenimento delle “partecipazioni” da un lato e, dall’altro, di quel un po’ di coerenza, di continuità, di integrità, di riconoscibilità del soggetto: non dunque la sua identità (né singola, né multipla) e nemmeno la sua molteplicità soltanto (una molteplicità inevitabilmente frammentata), bensì una molteplicità sufficientemente organizzata. A noi pare che a questo punto si possa fare la seguente proposta (anche questa un compromesso): sostituire tanto a “individuo”, quanto a “dividuo”, il concetto di CON-DIVIDUO. È il “con-dividuo” che ci consente di salvare insieme sia le partecipazioni (o condivisioni), intese come somiglianze e differenze, sia un grado sufficiente di integrazione interna. Solamente questione di termini? Come tutti sanno, la scelta delle parole è una faccenda di non poco conto tanto nel parlare comune e quotidiano, quanto nel linguaggio politico, quanto in quello che ambisce a una qualche scientificità. In ogni caso, con-dividuo non si limita a sostituire terminologicamente gli altri due termini: esso si trascina dietro le somiglianze e le differenze (il principio del SoDif) e, lungi dal lasciarle all’esterno del soggetto, se le porta fin nell’intimo della soggettività, là dove Leenhardt non vedeva, non poteva vedere altro che il “vuoto”, e dove invece Marilyn Strathern scorgeva giustamente una micro-società, un «microcosmo sociale» (1988: 13). Con-dividuo ha a che fare con la con-divisione: è il soggetto e il prodotto della condivisione. Il condividuo è ciò che ci consente di salvare le partecipazioni, come vorrebbe João de Pina-Cabral, per renderle uno strumento effettivo di analisi antropologica, senza frantumare il soggetto. Più precisamente, una volta riconosciuto il condividuo, le partecipazioni, proprio per rendersi più sinonimiche delle condivisioni, diventano compartecipazioni. Lo stesso Pina-Cabral ci invita a risalire, oltre che al latino particeps, al greco methexis per cogliere il significato (filosofico) di “partecipazione” (2017: 4, 10). E in methexis (da meta-echo, “sto con”) noi troviamo meta (con), elemento che sarebbe bene conservare (e dunque non semplicemente “partecipazione”, ma “compartecipazione”), in quanto

quel con è assolutamente decisivo per evitare che la partecipazione scivoli unilateralmente verso la dividualità, verso la semplice divisione o spartizione. Per quanto non sia affatto il caso di seguirlo nelle sue oscure elucubrazioni filosofiche, in effetti può esserci di aiuto, su questo punto, la riflessione di Martin Heidegger, quando trasforma l’esistenza dell’uomo da mero Dasein (esserci) in un Mitdasein, in un «con-esserci» (Heidegger 2006: 344-345). Il “con” è però caratterizzato da una netta gradualità: ci sono “con” stretti o stringenti, che tendono ad avvicinare i termini in questione, fino a sfiorare (solo sfiorare, non raggiungere) l’identità, e “con” laschi, i quali invece acconsentono ai termini di allontanarsi, fino a sfiorare (non raggiungere) la totale separazione, la totale alterità o estraneità. E questa gradualità del “con” vale sia per le condivisioni esterne (l’io e gli altri, nel nostro linguaggio comune), sia per le condivisioni interne (il SoDif all’interno dell’io). Per esempio, le personalità multiple, prese in considerazione da Daniel Dennett (cap. VI), pongono certamente in evidenza una spaccatura, una netta separazione interna, e tuttavia esse condividono uno stesso corpo, così come le tre gemelle che agiscono, parlano, sentono all’unisono, sono più corpi che «condividono un unico sé!» (Dennett 1993: 469). Oltre alla gradualità (una gradualità che si spinge anche verso situazioni patologiche), il “con” ha un altro pregio, quello di dirigere la nostra attenzione verso la combinazione delle relazioni (partecipazioni, condivisioni) che, operando insieme, costituiscono il soggetto. Come già abbiamo avuto modo di chiarire nel capitolo VI (§ 6), l’irripetibilità – non assoluta, ma sempre relativa – si associa benissimo alle somiglianze. Concepire il soggetto come un con-dividuo significa dunque aprire la strada non solo alla molteplicità delle relazioni in cui è coinvolto, ma anche al carattere irripetibile o unico delle loro manifestazioni e delle loro combinazioni. Nell’esporre la concezione relazionale della persona che Clifford Geertz aveva studiato nella cittadina di Sefrou, in Marocco, Carlo Capello (2016: 41) sottolinea che «ciascun individuo ha il proprio insieme di relazioni contestuali differente dagli altri», una combinazione sua propria, del tutto peculiare, e questo sarebbe alla base dell’«iperindividualismo» che, secondo Geertz (1988: 87), si riscontra nei rapporti pubblici. A seguito della critica a cui abbiamo sottoposto

“identità” e “individuo” (sul piano rappresentazionale, l’individuo è in effetti l’incarnazione personale dell’identità), vorremmo fare notare che si può benissimo descrivere l’irripetibilità, e il senso della propria «originalità individuale», per usare l’espressione di Geertz (1988: 86), facendo leva sul con-dividuo e sulla combinazione irripetibile delle relazioni interne ed esterne di cui è composto, senza necessariamente ricorrere alla nozione di individuo: che cos’è “l’originalità individuale”, di cui parla Geertz, se non il senso della propria “peculiarità”, della propria “singolarità”? E peculiarità e singolarità non significano necessariamente individualità: anche il condividuo presenta molte peculiarità16. Volendo riformulare l’espressione di Geertz, diremmo perciò “originalità condividuale” (originalità di questo o quel condividuo). Allo stesso modo, gli Orokaiva, abitanti la Provincia Oro di Papua Nuova Guinea, concepiscono la società come «costruita in termini di relazioni e non di sostanze» (Iteanu 1990: 36). In base a questa concezione fortemente relazionale, «i soggetti non possiedono un’identità ontologica nel senso occidentale del termine» (1990: 38). André Iteanu, l’etnografo che ha condotto le sue ricerche presso gli Orokaiva, conserva la nozione di identità, sostenendo però che la loro identità «è definita da una congiunzione di relazioni sociali create ritualmente». In definitiva, «per gli Orokaiva, una persona sociale è sempre unica, essendo costituita da una combinazione di relazioni e occupando, di conseguenza, una posizione distinta nel sistema generale delle relazioni» (1990: 41, c.m.; Capello 2016: 45). Da un punto di vista critico, è importante rilevare che, come Geertz non può fare a meno di usare la nozione di individuo (e ovviamente anche di identità), così André Iteanu non ritiene di doversi privare della nozione di identità, pur sostenendo che si tratta – tra gli Orokaiva – di una identità che «appare fluttuare», proprio perché fatta di relazioni (Iteanu 1990: 37). A questo punto della nostra analisi poniamoci però la seguente domanda: identità e individuo sono concetti adattabili in contesti dove prevalgono concezioni relazionali e dunque multiple e fluide della persona o non sono forse rappresentazioni “nostre”, rispondenti a concezioni di natura ontologica, e quindi assai poco congruenti ai contesti dove il pensiero ontologico è assente? Se lo scopo dell’antropologo (come nel caso di Geertz e di Iteanu) è quello di porre in evidenza gli elementi dell’unicità e

dell’irripetibilità, ossia della peculiarità e della singolarità, dei soggetti, dovremmo a questo punto convincerci che non siamo affatto obbligati a fare ricorso a “identità” e a “individuo”. La nostra tesi è che il concetto di “con-dividuo” – tutto fatto di relazioni e di compartecipazioni, le quali si combinano sempre in maniere uniche, peculiari, singolari e relativamente irripetibili, tanto all’interno quanto all’esterno del soggetto – sia in grado di farci superare le aporie generate dalle nozioni di “identità” e di “individuo”, le quali mal sopportano o riducono a poca cosa relazioni, partecipazioni, condivisioni, che sono invece costitutive di ogni configurazione condividuale, sia pure in modi e gradi diversi. Con-dividuo ha poi il pregio di evitare la contrapposizione tipologica che, a un certo momento, era emersa in numerosi studi dell’antropologia della persona: ossia la concezione “dividuale” della persona, come in Melanesia, e la concezione “individuale”, caratteristica dell’Occidente, con il rischio – messo in luce dall’antropologo Edward LiPuma (1998) – che tale contrapposizione si traduca in una forma di incomunicabilità. Qual è la soluzione proposta da LiPuma? Consiste nel mettere insieme – come già aveva fatto Marilyn Strathern per la persona melanesiana – individualità e dividualità, sostenendo che «in tutte le culture», e non solo in Melanesia, «esistono modalità o aspetti della persona individuali e dividuali» e che, anzi, quanto più si scende ai livelli profondi della persona, tanto più noi scopriamo che la vera forma ontologica non è, come l’Occidente vorrebbe immaginare, l’individuale: è invece la persona duale delineata nello stesso tempo da aspetti dividuali e da aspetti individuali (LiPuma 1998: 56, 60).

Non solo, ma secondo LiPuma questa compresenza di dividualità e individualità coinciderebbe con «la base di ciò che l’antropologia conosce come l’unità psichica del genere umano». Sono poi le culture che, in modi diversi e con esiti differenti, accentuano ora gli aspetti dell’individualità (come in Occidente), ora gli aspetti della dividualità (come in Melanesia e in altre parti del mondo). Ma individualità e dividualità come fanno a stare insieme? tanto più se vengono considerate non come mere rappresentazioni, ma come dimensioni di una medesima «forma ontologica», quale sarebbe appunto la «persona duale». Al posto di questa rappresentazione contraddittoria, che addirittura “ontologizza” l’opposizione dividuo/individuo, iscrivendola nella natura dell’essere umano, il concetto di condividuo offre il vantaggio di indicare

non un’entità compiuta e definitiva, ma una conformazione su cui intervengono sia le culture con le loro rappresentazioni, sia le vicende e gli eventi che segnano la vita dei gruppi e delle persone. Il condividuo è fatto di relazioni, interne ed esterne, le quali si combinano in modi differenti, unici, relativamente irripetibili e singolari, ovvero un insieme di possibilità che prendono forma – come si è detto – a seguito delle “rappresentazioni” della persona, così come degli eventi e dei processi a cui si è sottoposti nel corso dell’esistenza. Il condividuo è non soltanto incompleto, ovvero un cantiere sempre aperto, ma è pure poroso e malleabile. Questo significa che, pur distinguendo nel condividuo un ambiente interno e un ambiente esterno, i confini tra il dentro e il fuori sono anch’essi sottoposti a processi di relativo irrigidimento o relativo indebolimento. Condividuo è comunque termine assai congruente, sia che si vogliano considerare le relazioni verso l’esterno, sia che ci si concentri invece sulle relazioni interne. Abbiamo già insistito nel capitolo VI (§ 6) sull’opportunità di utilizzare la nozione di “convivenza” per sottolineare ulteriormente le caratteristiche e i problemi che l’io – inteso come una società, come un noi – presenta al suo interno. E in quello stesso contesto abbiamo visto come si entri in una sintonia significativa con i passi che in biologia si stanno compiendo in vista di una messa in discussione della stessa nozione di individuo e della sua identità sostanziale (Gilbert, Sapp, Tauber 2012). E ora, visto che siamo approdati al concetto di condividuo, riteniamo gratificante constatare che proprio dalle riflessioni su certi aspetti della biologia contemporanea spunti fuori questo stesso concetto17. Lo troviamo espresso – forse per la prima volta – in un articolo di Elena Gagliasso, là dove illustra i «sistemi organici non individuali», caratterizzati da «associazioni permanenti» tra specie distinte, e dunque da «simbiosi» (2009: 143). Considerando «la duratura convivenza di più specie mutualiste», quale si viene a realizzare in un organismo vegetale o in un organismo animale, ci si può certamente chiedere se tale organismo «possa essere ancora definito “individuo”» o se, piuttosto, non debba essere considerato come un «vero e proprio sistema ecologico sui generis», ossia come un «microcosmo», che è alla base di qualsiasi forma evolutiva (Margulis 1998). Il nostro stesso organismo, in cui convive una molteplicità indefinita di batteri, di virus, di protozoi, ben difficilmente può ancora essere concepito

come un individuo. Sia pure collocata in una nota a piè di pagina, la proposta di Elena Gagliasso è chiara: occorrerebbe sostituire a “individuo” per esempio “con-dividuo”, ovvero [un] insieme composito di forme di vita di taxa diversi che, condividendo spazio e funzioni vitali all’interno di un corpo, permettono a questo di svilupparsi correttamente come embrione, di vivere – nel senso di con-vivere – e alle diverse specie mutualistiche inscatolate di coevolvere globalmente (2009: 144).

Facendo valere il concetto di «endosimbiosi», propugnato da Lynn Margulis, ciò che di norma, per convenzione e per tradizione, viene chiamato individuo «non risulta affatto un’unità e men che meno un’unità indivisibile». Non solo, quindi, la nozione di individuo perde la sua capacità di indicare qualcosa di oggettivo e di reale, ma «sembra addirittura porsi come ostacolo epistemologico». Di qui l’opportunità di avvalersi di un’innovazione terminologica: tra le molte possibili che i biologi hanno avanzato di questi tempi, a noi pare che la nozione di «con-dividui» – riproposta da Gagliasso anche in testi più recenti (2015: 87; 2016: 77) – abbia il vantaggio di esibire una notevole pregnanza semantica e di presentarsi come un concetto verso cui possono convergere le riflessioni tanto delle scienze della natura, da un lato, quanto delle scienze della cultura, umane e sociali, dall’altro. Il che può essere decisivo per indirizzarci verso le rappresentazioni che riteniamo più congruenti sul piano epistemologico, così come su quello pratico e sociale. 7. Il “con” e la tenuta del condividuo Nei giorni in cui venivano scritte queste pagine, Manuela Monti e Carlo Alberto Redi pubblicarono un articolo divulgativo sull’argomento che stiamo trattando. I biologi qui citati non solo confermano che «il nostro corpo ospita miliardi e miliardi di organismi viventi [...] batteri, virus... l’insieme dei quali costituisce il microbiota», per cui ognuno di noi è una sorta di «comunità», organizzata in base a «relazioni di simbiosi» (Monti e Redi 2018: 2). Essi ci informano anche che il microbiota «è in continua interazione con le attività di tutti gli organi» e per giunta ricopre «un ruolo centrale» nel regolare i tre processi indicati per definire ciò che di norma viene chiamata «l’identità biologica dell’individuo», ovvero il sistema immunitario, le funzioni cerebrali e il genoma o l’impronta genetica di ogni organismo. La conclusione è che «l’idea di un sé individuale, singolo e specifico», da sempre considerata «una certezza» per

le scienze della vita, tanto quanto per le scienze umane e sociali e per la filosofia, non è più tale (2018: 3). Di qui, l’opportunità di un’innovazione terminologica che tenga conto della perdita dell’idea di un sé unitario, identico a sé stesso, sostituita dall’idea che scaturisce dal principio dell’endo-simbiosi: «con-individuo» è la proposta di Monti e Redi, coincidente sotto il profilo concettuale, ma lievemente difforme sotto il profilo terminologico, rispetto al con-dividuo del paragrafo precedente. Se ci soffermiamo un istante su questi aspetti terminologici, è per la necessità di pervenire a una proposta epistemologica meditata e condivisa. Dal punto di vista linguistico, a noi pare opportuno non già semplicemente aggiungere il prefisso con- a “individuo”, bensì sostituire con- a in-: la semplice aggiunta di con- (con-individuo) rischia infatti di non sopprimere l’idea dell’indivisibilità e dell’identità unica, generando quindi la sensazione di un compromesso poco convincente. Lo stesso tipo di considerazione riguarda un’altra proposta terminologica, sviluppata soprattutto nell’ambito delle scienze umane e sociali e della filosofia, quella che vorrebbe concepire l’“in-dividuo” come un “trans-individuo”. Alla fine della sua perlustrazione degli studi sull’antropologia della persona, Carlo Capello intravede una «convergenza» significativa, una «stretta affinità» tra le concezioni dividuali e relazionali della persona, descritte dagli antropologi in contesti melanesiani, amerindiani e africani, e alcune concezioni filosofiche occidentali, che si richiamano alla «intersoggettività» e al «transindividuale» (Capello 2016: 113). La maggior parte di queste concezioni transindividuali considerano decisiva la famosa tesi di Karl Marx (la sesta delle Tesi su Feuerbach), secondo cui l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali (Marx e Engels 1966: 189).

Più in particolare, esse si richiamano all’opera del filosofo francese Gilbert Simondon, il quale, in contrasto con le dottrine metafisiche dell’individualità, fa valere il concetto di individuazione: ciò che conta non è l’individuo in quanto tale, bensì il processo che lo istituisce (Balibar e Morfino 2014: 11). Su questo punto, intendiamo tuttavia fare notare che nelle concezioni trans-individuali (lo si evince dalla stessa terminologia) l’individuo non scompare affatto. Certo, esso non è collocato in una posizione prioritaria, come dato primigenio, ma viene a trovarsi in una fase

«posteriore», in quanto esito o prodotto del processo di individuazione (Simondon 2001: 28). Simondon è molto chiaro su questo punto: i principi di «unità» e di «identità» non si applicano al processo di individuazione, all’«essere preindividuale»; si applicano invece all’individuo in quanto risultato del processo, cioè all’«essere già individuato» (2001: 28, 35). Come si vede, la concezione trans-individuale non si libera affatto dell’individuo: semplicemente lo sposta più avanti nel tempo, ovvero nella fase terminale del processo di sviluppo. Per così dire, esso diventa una sorta di causa finale: anziché essere trattato come un dato e un fondamento, l’individuo è considerato come un risultato, come un obiettivo da raggiungere, il quale in tal modo orienta e incanala il processo di individuazione. Rispetto a “trans-individuo”, così come a “con-individuo”, la proposta di “con-dividuo” vuole essere più radicale, nel senso che con essa ci si libera del tutto dell’“in-dividuo” per quanto riguarda la descrizione, l’analisi e la denominazione delle “configurazioni” reali. In-dividuo rimane perciò soltanto come un tipo di “rappresentazione”: una rappresentazione – come abbiamo già visto – alquanto strana ed eccezionale sotto il profilo antropologico, avente tuttavia un enorme rilievo storico-culturale. Proprio per questo, nel presente capitolo abbiamo voluto illustrare alcuni presupposti, implicazioni e aporie di questa rappresentazione, che ha caratterizzato e tuttora caratterizza le nostre tradizioni e la nostra cultura. La scelta di sostituire con a in ha comunque un respiro più vasto. Se applicare in a dividuo ha il significato di racchiuderlo in sé stesso, facendolo diventare una sostanza dura e identitaria, non dipendente da altri che da sé stesso, applicare invece a dividuo il con significa obbligarsi a prendere in considerazione le convivenze che contrassegnano ogni soggetto. Sia pure in maniera schematica, proponiamo qui una distinzione di “con” in relazione ai diversi tipi o livelli di convivenza che interessano l’organizzazione dei viventi, e non solo degli umani. Il “con” di condividuo può essere infatti a) di tipo organico, b) di tipo psichico, c) di tipo sociale, d) di tipo ecologico.

Ovviamente questa tipologia non ha per nulla il significato di incasellare quattro tipi di realtà separate ed autonome, bensì di invitare innanzi tutto a capire come il “con” si configuri diversamente, e presenti problematiche diverse e specifiche, in relazione all’organismo, alla psiche, al contesto sociale, nonché al contesto ecologico o extra-sociale18. Inoltre, questa tipologia induce a chiederci se e come abbiano luogo interferenze e condizionamenti anche molto stretti fra i quattro livelli indicati. Sotto questo profilo, potremmo persino spingerci a compiere un passo ulteriore, ossia a pensare il “con” di con-dividuo non già semplicemente come costituito da una serie di “con” successivi e sostanzialmente irrelati, bensì come un con-di-con, un “insieme di insiemi”, un “con” ulteriore che si viene a formare a seguito della compresenza e dell’interfunzionalità di “con-organico”, “con-psichico”, “con-sociale”, “con-ecologico”. Ovvero, è presumibile che il con-di-con sia caratterizzato da problematiche di sovrapposizione, di intreccio, di raccordo, di conflitto, di tensione, di reciproco condizionamento fra i quattro “con” più specifici: ciò che avviene in un tipo di “con” non sarà infatti senza conseguenze nella vita e sul funzionamento degli altri “con”. Forse che il microbiota, il quale interferisce sulle funzioni cerebrali del condividuo, non avrà una qualche influenza sul suo “con-psichico”? Altro esempio: che ne è del condividuo umano – del suo “con-psichico”, del suo “con-sociale”, e anche del suo “con-organico” – in una società così pesantemente caratterizzata, come la nostra, dalla divisione del lavoro? Günther Anders fa notare che essa è senza alcun dubbio «la condizione normale dell’odierno lavoratore» (Anders 2007: 162). Ma essa «rappresenta una scissione di personalità prodotta artificialmente» (2007: 161). Dal che risulta che «i lavoratori sono “scissi”». La divisione del lavoro – definita da Anders una «“malattia schizofrenica del lavoro”» – non solo «separa violentemente [...] le prestazioni», ma fa sì che gli «individui» diventino «dividui» (2007: 162). Ciò che vogliamo fare notare è come sia molto più agevole considerare questi fenomeni o processi di “scissione” in relazione non già all’individuo, bensì al condividuo. Non dimentichiamo che “individuo” indica un ente per sua natura “indivisibile”, “non scomponibile”, un ente inscalfibile, su cui, a rigore, la divisione del lavoro non dovrebbe incidere, se non nelle sue prestazioni di superficie. Come si ricorderà, per Severino Boezio l’individuo – simile alla divinità – è “impassibile” (§ 3). Il concetto

di condividuo apre invece immediatamente la questione sia della componibilità, sia della scomponibilità: lungi dall’essere estranee e non previste, queste problematiche sono connaturate e immediatamente visibili nel condividuo. È lo stesso condividuo a sollecitare l’attenzione per questo tipo di fenomeni, specialmente quando gli osservatori o gli studiosi giungono a proporre la nozione di “dividuo” per porre in luce fenomeni di scissione o di lacerazione. Proviamo a portare un altro esempio, e proviamo a chiederci che ne è dei condividui in una società dominata dalla finanza dei cosiddetti “derivati”19. I fenomeni che si verificano nella sfera della finanza sono o no in grado di produrre contraccolpi significativi sulla “configurazione” dei con-dividui, di noi stessi come con-dividui che convivono o, meglio, coesistono in questa tanto strana e inedita società, qual è appunto la società attuale? La domanda potrà sembrare alquanto cervellotica. Eppure, vi sono antropologi che considerano, giustamente, per nulla irrilevante la questione20. In particolare, Arjun Appadurai, appoggiandosi a un gruppo di lavoro intitolato “Cultures of Finance”, operativo presso l’Institute for Public Knowledge dell’Università di New York, ha ritenuto che «uno degli effetti deleteri dell’epoca della finanziarizzazione» (quella appunto della imperante finanza dei derivati) consista nella «erosione dello status dell’individuo» (Appadurai 2016: 117). Come si vede, Appadurai non usa il concetto di condividuo. Ma se proviamo ad ammettere che “individuo” è la rappresentazione con cui il condividuo viene raffigurato nel nostro tipo di società, possiamo seguire e valorizzare le analisi di Appadurai. Il processo a cui Appadurai allude darebbe luogo infatti a un «degrado» e a un «logoramento del tessuto sociale», all’interno del quale «l’individuo di stampo occidentale (inteso sia come categoria sia come fatto sociale)» aveva potuto dominare e caratterizzare la società. Se l’individuo entra in crisi, quale figura (o configurazione) gli succede? Appadurai fa propria la tesi espressa da Gilles Deleuze (1992: 237), ossia che nella società attuale «gli individui sono diventati dei “dividuali”», mentre a loro volta le masse sono state trasformate in «campioni, dati, mercati o “banche”». Se l’individuo – sia come rappresentazione (categoria) sia come configurazione (fatto sociale) – entra in crisi, appare appunto il dividuo, inteso come «un livello più elementare di agentività [agency] sociale», cioè come il «sostrato materiale dal quale», in certe condizioni storiche e sociali, «l’individuo

emerge» (Appadurai 2016: 117). Insomma, mentre il capitalismo classico avrebbe costruito l’individuo, conferendo illusoriamente a questo «costrutto» un senso di naturalità, di «coerenza biologica» e di «valore morale», il capitalismo finanziario pone in crisi gli elementi di integrazione dell’individuo moderno, lasciando così trapelare un livello più elementare, quello appunto del dividuo (2016: 118-119). Nel nostro linguaggio, è come se nella società contemporanea il “con-sociale” del condividuo subisse una forte lacerazione, con l’effetto di ottenere condividui lacerati nella sfera sociale e psichica. I condividui lacerati, i condividui il cui “consociale” subisce incrinature e lacerazioni, sono – nel linguaggio di Appadurai – “dividui”, il livello elementare della socialità a cui gli individui verrebbero ridotti. A questo punto, Appadurai compie un’operazione ardita, quella di connettere il dividuo, quale prodotto del capitalismo finanziario, al dividuo che gli antropologi (a cominciare da McKim Marriott e da Marilyn Strathern) hanno invece studiato nelle società pre-capitalistiche: il primo è un «dividualismo predatorio», mentre il secondo è un dividualismo rituale e arricchente (2016: 128). E la via di uscita dalla predazione, per Appadurai, non consiste in una restaurazione dell’individuo (la costruzione illusoria della modernità), ma in un arricchimento rituale, culturale e sociale del dividuo, secondo una politica della condivisione e della «giustizia sociale» (2016: 136, 141-142). Non è facile accettare l’impostazione di Appadurai, con la sua distinzione tra l’individuo da una parte e le due versioni di dividuo dall’altra, specialmente se – come anche a lui succede – al tutto viene poi conferito un significato «ontologico» (2016: 133). Ribadiamo: l’ontologia è davvero fuori luogo. Tutt’altro che da scartare è però l’intuizione che il dividuo sia qualcosa di umanamente «elementare», qualcosa dunque su cui riflettere in senso fortemente antropologico, e che non vi sia soltanto il dividuo frutto di lacerazioni (quello dell’epoca della “finanziarizzazione”), ma anche il dividuo della condivisione. Se provassimo a utilizzare il concetto di condividuo, potremmo a questo punto rivedere il discorso di Appadurai, proponendo le seguenti tesi: a) il condividuo della società moderna viene illusoriamente concepito come un individuo; b) il dividuo dell’epoca attuale, della finanziarizzazione, come lo chiama Appadurai, è il prodotto o l’esito di una

diminuzione, di una crisi, di una lacerazione del “con-sociale”; c) il dividuo rituale (quello studiato dagli antropologi in altri continenti e auspicato da Appadurai) sarebbe invece il frutto di una riparazione e di un incremento del “con-sociale” operato sul condividuo vittima della lacerazione. Detto in altri termini, il condividuo non scompare: rimane, anche quando al suo posto ci si illude (o si finge) che ci sia un individuo (punto a); anche quando è costretto a subire una lacerazione del suo “consociale” (punto b); anche quando si interviene per incrementare e rafforzare il “con-sociale” lesionato (punto c). Non scompare però nemmeno il “dividuo”. L’analisi di Appadurai può tradursi in un avvertimento: quello di non nascondere il dividuo sotto la coltre di tutte le possibili configurazioni del condividuo (compresa la rappresentazione individuale). La stessa analisi induce a soffermarci sul rapporto di tensione tra dividuo e condividuo. Da un lato, dovremmo chiederci: può mai esistere, può essere riconosciuto e osservato un dividuo senza qualche elemento o fattore di con-dividualità? Dall’altro lato: per ogni configurazione condividuale (dall’individuo dell’epoca moderna al do kamo dei Kanak [§ 5]) il dividuo non rappresenta forse qualcosa di elementare, una base o condizione di partenza per un verso e, per l’altro verso, una minaccia più o meno incombente, ovvero un esito mortale e ineluttabile? Il dividuo è la base su cui costruire i “con” dei condividui, ovvero è il punto di partenza della “composizione” condividuale; è anche, però, il momento terminale dei processi di “scomposizione” (organica, psichica, sociale) di ogni condividuo. Il filosofo Gerard Raunig – il quale del resto discute le concezioni dividualistiche degli antropologi, come Arjun Appadurai e Marilyn Strathern – ci è di aiuto in quest’ultima fase analitica, visto che ha voluto dedicare al dividuum un intero libro (Raunig 2016). Non seguiremo Raunig in tutti i suoi percorsi, ma ci concentreremo su alcuni momenti che a noi paiono tra i più significativi per le nostre considerazioni. Cominciamo con l’osservare l’uso di dividuum nell’aforisma 57 di Menschliches, Allzumenschliches di Friedrich Nietzsche, là dove sostiene la tesi della morale come «autoscissione [Selbstzerteilung] dell’uomo» (Nietzsche 1982: 60; Raunig 2016: 91). Il soldato che brama cadere in battaglia purché la sua patria vinca o la madre che per il benessere del figlio sacrifica sonno, cibo, salute, averi, sono esempi non già di mero altruismo,

ossia di un atteggiamento rivolto al benessere di “altri”. Per Nietzsche, in campo morale non esiste un individuo compatto, indivisibile, contrapposto alle altre persone, individuali anch’esse: sotto il profilo morale, quanto meno, si determina invece una “divisione” nello stesso essere umano (noi diremmo nel condividuo). La patria per il soldato, il figlio per la madre, un’idea, un valore, un simbolo per un qualsiasi credente, religioso o laico che sia, non sono fattori esterni; fanno parte invece della stessa configurazione dei soggetti: sono cioè parte del sé, sono un «qualcosa di sé», a cui il soggetto ritiene di potere o dovere sacrificare «qualche altra cosa di sé» (Nietzsche 1982: 61). L’aspetto rilevante della riflessione di Nietzsche è che, se si mantenesse la nozione di individuo, rispetto a cui patria, figlio, valori continuerebbero a rimanere esterni, non saremmo in grado di spiegare questi tipi di comportamento (giusto l’insegnamento di Stirner). Infatti, egli conclude il suo aforisma con la seguente tesi: «Nella morale l’uomo tratta sé stesso non come individuum, ma come dividuum». “Tratta”: vuol dire quindi che il soggetto “immagina”, “rappresenta” sé stesso semplicemente come un dividuo oppure sfrutta, per così dire, le caratteristiche di dividualità che gli sono inerenti, allo scopo però di raccordarle sotto forma di sacrificio? Il sacrificio di una parte di sé a favore di un’altra parte di sé non è forse il raccordo, il collegamento, la formazione di un “con-psichico” e di un “con-morale”, mediante cui si plasma un condividuo? Se la tesi con cui si conclude l’aforisma 57 di Nietzsche è «la prima netta comparsa del concetto di dividuum nella modernità», è merito di Raunig averci fatto vedere come dividuum svolga un ruolo strategico anche in altri momenti del cosiddetto pensiero occidentale. Tra questi egli si concentra soprattutto sul pensiero di Gilbert de Poitiers (1070?-1154), un teologo e filosofo medievale (vedi nota 16) che nel descrivere il mondo delle creature, degli uomini e delle cose, in quanto distinto dal mondo divino, fa valere appunto il concetto di dividuum. Il mondo del creato è infatti dominato da una «radicale molteplicità» e nello stesso tempo dalla «singolarità» delle cose (Raunig 2016: 60). Ma – punto decisivo del nostro discorso – la singolarità delle cose create è faccenda ben diversa dall’individualità. Gilbert de Poitiers propone infatti il concetto di dividuum per descrivere «una singolarità non-individuale» e oppone con chiarezza i due concetti sostenendo che, mentre la «somiglianza [similitudo]» è ciò che

«fa [facit]» il dividuum, l’individuum è invece reso tale dalla «dissomiglianza [dissimilitudo]» (Raunig 2016: 64-65)21. Gli individui (sostanze compatte) sono tutti dissimili tra loro; al contrario, i dividui contengono in sé un certo numero di componenti, i quali se da un lato li rendono appunto divisibili, dall’altro li concatenano tra loro, ovvero con i loro simili (2016: 67). Raunig pone in luce come il concetto di individualità comporti un’idea di chiusura, mentre il concetto di dividualità implichi la somiglianza tra le singole cose, e quindi potenziali connessioni e concatenazioni. A detta di Raunig, Gilbert de Poitiers era assai poco interessato alla relazione di somiglianza tra il Creatore e le creature; al contrario, la sua attenzione era diretta ai rapporti di «trasversalità» tra le cose, resi possibili dalla loro «somiglianza dividuale», dalla loro conformitas: una conformitas che si determina «non solo nonostante, ma a causa» della diversità (2016: 67-68). Le singolarità, le dividualità singolari sono perciò «unum dividuum» (2016: 64-65); ma le loro somiglianze, le loro conformità, insieme alle differenze, costituiscono una rete di connessioni e di condivisioni che percorre l’intero creato. Singolo, unum dividuum: la dividualità singolare non è immediatamente dispersione; l’unum trattiene il dividuo al di qua della possibilità della dispersione, della scomposizione. L’unum non è però un’entità, non è un ente, non coincide con una sostanza da inserire in una qualche ontologia. Quell’unum, quella singolarità, su cui si era soffermato Gilbert de Poitiers, corrisponde perfettamente al “con” del nostro “con-dividuo”. A sua volta, il “sin-” di singolo, corrispondente al greco syn (con), pare risalire a un prefisso sanscrito sa, sam, indicante “unità”, “insieme”, per cui il latino singulus – formato, oltre che da sin, dal suffisso diminutivo gulus (< culus) – potrebbe davvero significare “piccola unità” o “piccolo insieme”: non qualcosa di indivisibile, ma qualcosa di piccolo che “sta insieme”. Come abbiamo già detto, se non ci fosse quel “sin”, quel “con” (non una sostanza, ma una funzione), la dividualità si tramuterebbe davvero e subito in dispersione. Il rischio della dispersione, così come della spaccatura e della divisione (si ricordi il divided self di Ronald Laing [1969]), è reale e incombente. Sotto questo profilo, la precarietà esistenziale è un carattere ineliminabile del dividuum22, o meglio, della natura dividuale del condividuo. Il “con” sintetizza perciò gli sforzi, i tentativi, i progetti, le procedure, consapevoli o inconsapevoli, messe in atto per impedire la

dispersione insita nella molteplicità costitutiva del singolo. Il “con” sono tutti i fili, gli intrecci, i racconti, le connessioni, le relazioni di somiglianza e di differenza (SoDif), dunque anche la “co-scienza” (da cum-scire), con cui si cerca di garantire la tenuta dell’organizzazione condividuale, il suo stare insieme (o in piedi). A differenza dell’individuo, rappresentato come una sostanza inscalfibile, il singolo dividuale, il condividuo, conosce e subisce i processi di divisione, di taglio, di separazione, persino di lacerazione. La frase con cui Appadurai descrive il dividualismo predatorio – esso «sfrutta la dividualizzazione di molti per favorire (tramite il profitto) l’individualizzazione di pochi» (2016: 129) – si adatta bene alla definizione di condividuo, il quale del resto conosce non soltanto le divisioni, ma anche le aggiunte, le intrusioni, le acquisizioni (è l’in-dividualizzazione di cui parla Appadurai, se attribuiamo all’in- non già un significato di negazione, ma di introduzione: entrare nel dividuo). Il con-dividuo è di continuo sottoposto a operazioni sia di dividuazione sia di in-dividuazione, e il soggetto – lungi dall’essere già dato come una sostanza – si forma in termini di funzione, mediante sforzi continui per tenere insieme il tutto a seguito degli effetti sempre de-stabilizzanti di entrambi i processi (divisione, separazione, taglio e introduzione, acquisizione dall’esterno). Il “con” è un conato di raccordo e di unificazione; il “con” è un tentativo continuo di attenuare gli effetti stressanti di tagli e di aggiunte, di perdite e di acquisizioni, i quali sono sempre lì lì per mettere in crisi la sua funzionalità di raccordo. Il che significa che “condividuo” – a differenza di individuo – non è mai una configurazione definitiva, una struttura compiuta, data una volta per tutte: è un misto – per definizione instabile e incompleto – di permanenza e di variazione. Con la sua gradualità, può andare nel senso di un più (più “con”, maggiore coesione) o nel senso di un meno (meno “con”, minore coesione), con i rischi di un irrigidimento da un lato e di una dissoluzione dall’altro. Come viene costruito, così il “con” può dissolversi. La coscienza che si sviluppa nel e attraverso il “con” è anche perciò una coscienza della possibilità della sua fine. Non vi è alcuna garanzia di una durata illimitata del “con”. Infatti, il “con”, come una specie di collante, tiene quel tanto che tiene (gradualità) e tiene fino a che tiene, fino al momento in cui non tiene più, perché non ce la fa più a tenere (mortalità): la tenuta del “con” non è solo graduale, è

anche a termine. E la mortalità di cui stiamo parlando riguarda con modalità ed effetti differenti i quattro “con” elencati prima (organico, psichico, sociale, ecologico): si pensi, per esempio, alla possibilità di un indebolirsi o a un venir meno del “con” sul piano psichico, mentre invece si mantiene il “con” organico, o viceversa. La vita del con-dividuo è appesa ai suoi “con”, e più in generale al suo “con-di-con”. È grazie al “con” che si lotta e ci si oppone alla dispersione del dividuo. Ma se la funzione del “con” è così decisiva, ciò significa che la vita del condividuo non può che essere un “convivere”: anche solo con sé stesso. È probabile che la coscienza si formi proprio attraverso questa lotta contro la dispersione, e se questa è la sua motivazione più profonda, la coscienza non può che essere anche coscienza della precarietà radicale del condividuo e dell’incombere della sua fine, della sua scomposizione. In un passo del De natura deorum di Cicerone – a cui siamo condotti da Gerald Raunig (2016: 99-100) –, là dove Cicerone espone il pensiero di Carneade (III, XII, 29), il tema della precarietà e anzi della morte viene strettamente connesso al concetto di “dividuo”. Nel mondo non vi è corpo che «non si possa dividere o disgregare»; nemmeno quei corpi a cui si dà il nome di «atomo», di individuum, si sottraggono a questo processo (Cicerone 2007: 360-361). In particolare, gli esseri animati non possono evitare di «ricevere qualcosa dall’esterno», di subire l’intrusione di elementi da fuori, e quindi di “alterarsi”, così come nessuno di questi esseri può evitare di venire «tagliato e diviso», e perciò di essere «mortale»: dunque ogni essere animato deve necessariamente essere mortale, e scomponibile e divisibile [mortale igitur omne animal et dissolubile et dividuum sit necesse est].

Da queste argomentazioni si comprendono molto bene gli abbinamenti dividuum-mortalità, individuum-immortalità. Con la sua divisibilità, con la sua dissoluzione come possibilità incombente e ineludibile, il dividuum porta necessariamente dentro di sé l’idea della sua fine: nella configurazione del condividuo, il dividuum è tanto la rappresentazione della sua origine, quanto l’anticipazione della sua morte. Per aspirare all’immortalità, occorre premettere a dividuum la sua negazione, la semplice particella in-. Noi apparteniamo a una tradizione di pensiero che ha voluto trasformare il dividuum in un individuum, cercando di guadagnare così l’immortalità. Se non il corpo (pur sempre scomponibile, dissolubile), almeno l’anima viene fatta diventare un ente immortale: e gli esseri umani,

individualizzati, si trasformano così in tanti piccoli dèi, indivisibili, incorruttibili (§ 1). In questa prospettiva, ciò che conta è allora il rapporto di somiglianza con gli immortali, con la divinità (l’individuo come imago Dei, secondo quanto teorizzato tra gli altri da Duns Scoto e Guglielmo d’Ockam [§ 3]), a scapito del rapporto di somiglianza tra i mortali, tra i condividui (come si ricorderà, per Duns Scoto individuum è ultima solitudo e per Stirner esso elimina ogni somiglianza con gli altri). La sostituzione di in- con con-, il passaggio cioè da individuo a condividuo – a cui abbiamo voluto dedicare questo intero capitolo –, ha quindi un duplice significato: riportare l’attenzione ai rapporti di somiglianza e di reciproco coinvolgimento tra le “creature”, tra i “mortali”, tra i condividui (umani o non umani che siano), così da indagare i presupposti di una loro possibile convivenza, e nello stesso tempo scorgere somiglianza e differenza all’interno dello stesso condividuo, un essere da sempre intrinsecamente e variabilmente composito, dotato non di una eterna, divina “identità”, bensì di una umana, provvisoria “singolarità”. 8. Appendice: un atto di nascita in punto di morte Il libro potrebbe terminare qui. Ma se qualcuno, in compagnia dell’autore, volesse cogliere, nella tradizione di pensiero di cui tuttora per molti aspetti ci proclamiamo eredi, uno dei momenti più significativi in cui si è voluti passare dal con- all’in- di dividuo, dal riconoscimento del suo carattere “composito” alla rivendicazione invece della sua natura “indecomponibile”, la storia della filosofia antica ci offre un’occasione limpida e perciò preziosa. In essa si vede molto chiaramente come alla singolarità condividuale e composita si sia voluto togliere il con- e il sin- per trasformarla in un’entità assolutamente unica, non scomponibile, ontologicamente perfetta, cercando di fare guadagnare ad essa, assieme all’identità, un carattere immortale e persino divino. Atene: un giorno di primavera del 399 a.C. Nel Fedone (dialogo di Platone) viene descritto l’ultimo giorno di vita di Socrate, condannato a morte dal regime democratico per avere corrotto i giovani e non avere creduto negli dèi della città23. Se vogliamo accettare la ricostruzione di Platone, l’intera ultima giornata di Socrate trascorre in una lunga e impegnativa conversazione sull’idea di anima, e per molti commentatori

ciò che Socrate espone, appena prima di morire, è esattamente l’idea di anima che la cultura occidentale farà propria. Alfred Edward Taylor, per esempio, sostenne che «Socrate, per quanto si sappia, creò la concezione dell’anima che da allora ha sempre dominato il pensiero europeo» (Taylor 1952: 98). Questo riconoscimento di un momento fondativo, innovativo, teoricamente imprescindibile, viene ribadito, più di recente, da autori come Giovanni Reale (1975: 296-335) e Francesco Sarri (1997). È dunque un’occasione storica unica anche sotto il profilo propriamente antropologico, se è vero – come molti antropologi sostengono – che questo concetto di anima (e dunque di persona, di essere umano) costituisce davvero qualcosa di peculiare e quasi esclusivo della cultura che ama definirsi occidentale. Fedone racconta che, come già nei giorni precedenti, un gruppetto di persone si riunisce per andare a trovare Socrate, non appena il custode apre le porte del carcere. Ormai si sa che quello è l’ultimo giorno del grande maestro. Ciò nonostante, l’atmosfera è rilassata, ed è lo stesso Socrate, con la sua giovialità e le sue battute ironiche, a rendere l’incontro piacevole. Eppure, al tramonto egli dovrà bere il veleno con cui porrà fine ai suoi giorni. Come può essere che Socrate sia così tranquillo e sereno? La conversazione, che occupa l’intera giornata, parte da questa domanda. È una conversazione fittissima, piena di temi, di argomentazioni e controargomentazioni ad altissimo livello teorico, a tal punto da essere legittimati a dubitare che davvero queste siano state le ultime ore di Socrate. Più importante è rilevare come Platone abbia voluto far sì che l’esposizione della sua teoria dell’anima avvenisse proprio in concomitanza della morte di Socrate: vi è infatti un nesso strettissimo tra la formulazione di questa teoria e la morte, nel senso che questa teoria si presenta alla fin fine come un superamento (o un tentativo, una proposta di superamento) della morte. La serenità di Socrate ne sarebbe la prova. Taylor sostiene che in quell’occasione Socrate «creò» la concezione che sarebbe divenuta patrimonio tipico del pensiero europeo. Giovanni Reale e Francesco Sarri correggono il tiro: non è Socrate; è invece Platone che fa esporre a Socrate la prima formulazione del concetto di anima occidentale. E non si tratta nemmeno di una creazione nel senso di invenzione, ma di una vera e propria «scoperta» (Reale 1997: XII). Con le teorie che Platone fa esporre a Socrate nelle ore che precedono la sua morte fisica, si dà luogo

alla «nascita del concetto occidentale di anima» (Sarri 1997: 1): abbiamo a che fare con un «punto di riferimento irreversibile nella cultura occidentale» (Reale 1997: XII). Un “atto di nascita” – quella del concetto occidentale di anima – in “punto di morte”, quella di Socrate: grazie alla ricostruzione di Platone, Socrate ormai prossimo alla fine fa nascere una concezione che – secondo Reale (2000: 72) – «rimane una di quelle “acquisizioni per il sempre” per il pensiero umano in cerca della verità». Che si tratti di invenzione o di scoperta, la teoria dell’anima immortale, che Socrate espone per giustificare la propria serenità (grazie all’anima immortale, egli può credere infatti di recarsi, dopo la morte, presso «divinità sagge e buone» e forse anche presso uomini «migliori di quelli che sono qui» [63 b]), non è certo l’unica disponibile: ce ne sono altre in giro. È però una teoria da aristocratici, da filosofi, i quali – a ben vedere (afferma Socrate [64 a]) – «di niente altro essi si curano se non di morire e di essere morti», ossia di distaccare l’anima dal corpo: un distacco parziale e graduale, quello che si verifica in vita (nella vita dei filosofi), un distacco definitivo quello che avviene con la morte. «A differenza degli altri uomini», il filosofo «cerca di liberare quanto più può l’anima da ogni comunanza con il corpo», perché il corpo con i suoi sensi, così legati alla materia, fa da ostacolo all’«acquisto della perfetta sapienza» (65 a). Occorre dunque che l’anima raggiunga una condizione di «purezza» e di solitudine, così da non essere turbata dalle sensazioni del corpo: soltanto quando «tutta sola si raccoglie in sé stessa dicendo addio al corpo», avvalendosi esclusivamente del «pensiero in sé stesso», ella potrà impegnarsi nella «caccia alle cose che sono» (65 c; 66 a-c). Se vogliamo conoscere davvero com’è fatta la realtà, dovremo «spogliarci del corpo e guardare solo con la nostra anima» (66 e): la «sapienza» è quindi raggiungibile soltanto con la morte, soltanto quando «l’anima sarà tutta sola in sé stessa» (67 a), soltanto quando «il dio di sua volontà» venga a liberarci dai condizionamenti del corpo, quando cioè saremo «fatti puri e liberi da quella infermità di mente che ci viene dal corpo». Già in vita, dunque, i filosofi «si esercitano a morire» e considerano la morte non come un male di cui avere paura, ma come una liberazione definitiva da ciò che impedisce loro di «essere soli con la propria anima» (67 e). Cebete, uno dei due interlocutori di Socrate, gli fa però notare che quanto all’anima c’è negli uomini molta incredulità; perché temono che quand’ella si sia

distaccata dal corpo, non esista più in alcun luogo, e si corrompa e perisca il giorno stesso in cui l’uomo muore; temono cioè che, nell’atto medesimo in cui ella si distacca dal corpo e ne esce, subito come soffio o fumo si dissipi e voli via, e così cessi dall’esistere del tutto (70 a).

Socrate si trova dunque a combattere contro una concezione diffusa della mortalità dell’anima, una concezione che collega strettamente l’anima al corpo, che considera l’anima molto somigliante al corpo: come il corpo, anch’essa infatti si corrompe e perisce. Diventa allora decisivo per Socrate introdurre una distinzione perentoria, che ci riporta a quanto abbiamo argomentato alla fine del paragrafo precedente (§ 7). La distinzione – proposta in 78 c – è così formulata: a) da un lato, ci sono le “cose composte” (syntheta). Sono quelle che vengono messe insieme, per esempio dagli uomini, quando raccolgono e coordinano tra loro elementi diversi. Oppure sono anche quelle cose che nascono di per sé composite e che quindi sono tali per natura; b) dall’altro lato, ci sono invece le “cose non-composte” (asyntheta). Come si vede, c’è un syn-, c’è un con- nel mettere insieme o nel nascere insieme: un con- a cui abbiamo attribuito – come nel caso di con-dividuo – non un valore ontologico, uno statuto di sostanza, ma una funzione di coordinamento. Si tratta di un con- che, come avevamo detto, tiene nella misura in cui tiene e tiene fino a che tiene. Prima o poi verrà il momento in cui il con- del coordinamento o della composizione non tiene più. Secondo Platone (78 c), «ciò che sia stato composto» (un costrutto) «o che sia composto per natura sua» (un organismo) è «sottoposto al rischio di essere decomposto nello stesso modo in cui fu composto» (c.m.): la composizione, di qualunque genere essa sia (biologica o artigianale, un organismo o un artefatto), porta sempre dentro di sé il rischio della sua fine, del disfarsi, della decomposizione. Tutte le cose composte finiscono prima o poi per decomporsi. La morte è il momento in cui la molteplicità dei componenti prende il sopravvento sul con-, sulla funzione di coordinamento. Volendo usare il linguaggio di Platone, il condividuo di cui abbiamo parlato nei paragrafi precedenti è senza alcun dubbio un syntheton (una cosa composta che ha in sé il destino della morte). Per Platone, tuttavia, come esistono le cose syntheta, così dovranno pure esistere le cose che “non” sono composte, le asyntheta, le cose cioè che, proprio perché non sono costituite dal mettere insieme altre cose, non vanno incontro al processo della «decomposizione», bensì «permangono

sempre costanti e invariabili» (78 c). A questo punto, verrebbe voglia di dire che è stato sufficiente un gioco, un’operazione grammaticale, cioè è stato sufficiente aggiungere un prefisso negativo (quell’a-, alfa privativo), per ottenere la categoria opposta, la categoria appunto delle cose asyntheta, esattamente come nel caso di “in-dividuo”. Possiamo anche chiederci se sia proprio del tutto casuale che il ragionamento parta dalle cose syntheta per arrivare all’affermazione delle cose asyntheta: una categoria di cose immaginate come il contrario delle prime. Sotto il profilo grammaticale non c’è dubbio che syntheta è una parola composta (syn-theta), e questo si adatta molto bene alla teoria secondo cui tutte le cose sono “composte”. Ma che dire della parola a-syn-theta? Una parola che vorrebbe significare le cose «incomposte» e che, però, è doppiamente composta, una parola ricercata, voluta, artefatta, che nasce dalla negazione della composizione. Mentre nel caso di syntheta c’è, per così dire, armonia e concordanza tra significante e significato, nel caso di asyntheta c’è una notevole discrepanza tra un significante molto composito e un significato che nega la composizione. Come può essere che una cosa incomposta venga resa o significata da una parola così composita? Secondo la ricostruzione di Platone, Socrate avrebbe comunque trascorso la sua ultima giornata nel tentativo – in dialogo con Simmia e Cebete, che spesso gli opponevano dubbi e perplessità – di dimostrare che l’anima appartiene alla categoria delle cose non-composte, delle cose o, meglio, delle «entità [ousìa] in sé», alla categoria di ciò che “è”, ovvero «l’ente [to on]», ciò che è «uniforme in sé e per sé», che «permane invariabilmente costante, e non si dà mai il caso che in niente e in nessun modo subisca una qualsiasi alterazione» (78 d). Non c’è dubbio che nell’essere umano il corpo appartenga alla categoria delle cose “composte”, e che dunque sia destinato alla “decomposizione”. Ma l’anima? Fino a che si affida al corpo, ossia ai sensi, essa è «trascinata dal corpo a cose che non sono mai costanti, ed ella medesima va errando qua e là e si turba e barcolla» (79 c). Per non snaturarsi l’anima deve dunque procedere «tutta sola in sé stessa alla sua ricerca», e collocarsi «là dov’è il puro, l’eterno, l’immortale, l’invariabile»: essendo di essi «congenere [syggenes]», appartenendo dunque allo stesso genos dell’eterno, dell’immortale, dell’invariabile, «sempre insieme con questi si genera» e così «rimane sempre invariabilmente costante» rispetto a «codesti esseri a cui ella si

appiglia» (79 d). Perciò si può concludere che «l’anima è simile in tutto e per tutto più a ciò che è sempre invariabile che a ciò che non è» invariabile (79 e). Ovvero, spingendo un po’ più avanti il ragionamento, a Socrate e ai suoi interlocutori pare inevitabile asserire che l’anima è «somigliantissima» a ciò che è «divino», immortale, intelligibile, uniforme, indissolubile, ossia «ciò che rimane sempre in sé medesimo invariabilmente costante», mentre il corpo risulta «somigliantissimo» a ciò che definiamo come «umano» e quindi mortale, multiforme, sensibile, dissolubile (80 b). C’è dunque del “divino” nell’essere umano, e questo è l’anima immortale; e c’è dell’“umano”, e questo è il corpo mortale. All’anima spetta il compito di giungere «alla natura degli dèi» dipartendosi dal corpo (82 b) e così pervenire al «divino», ossia a «ciò che è a lei congenere e somigliante» (84 a-b). Il tentativo di inserire l’anima nella categoria degli asyntheta non è ancora riuscito. Infatti, somigliante, anche somigliantissimo, non è mai identico e se è congenere (syggenes o syn-genes) vuol dire che non è esattamente della stessa specie. L’anima è cioè molto vicina al divino, all’identico, all’immortale, e per avvicinarsi ancor più a queste condizioni si sforza di liberarsi dal corpo e di trarre «il suo nutrimento vitale» dalla «contemplazione del vero e del divino» (84 a-b). Ma questa non totale coincidenza con il divino fa supporre che l’anima possa condividere ancora qualcosa con ciò che Platone chiama le “cose composte” (syntheta). E se l’anima – domanda infatti Simmia – fosse un’armonia, cioè «qualche cosa di invisibile e di incorporeo, di perfettamente bello e divino» (85 e-86 a), ma anche nel contempo una «temperanza di elementi», allorché essi «siano mescolati gli uni agli altri in misura eguale e perfetta» (86 b-c)? Con la metafora dell’armonia, il pitagorico Simmia sta descrivendo assai bene il concetto di con-dividuo applicato all’anima (si tratta del “con-psichico” di cui abbiamo parlato nel paragrafo 7): anche l’armonia dà infatti l’idea di una molteplicità organizzata, coordinata, temperata, e per giunta questo concetto di anima-armonia non prevede che l’armonia sia inventata, composta e imposta da un soggetto a parte. L’anima, una realtà sufficientemente organizzata e coordinata, è questa stessa armonia. L’unica differenza rispetto al nostro condividuo consiste nel fatto che Simmia dà per scontato che l’armonia sia perfetta, senza sbavature, mentre fin da subito abbiamo inteso il con- del condividuo come qualcosa di mai

perfetto, come un tentativo, un conato mai del tutto riuscito di accordo (e questo sia nel SoDif interno, sia nel SoDif esterno). Il Fedone ci fa capire come questa teoria di origine pitagorica avesse presa sugli interlocutori di Socrate e più in generale nella cultura del tempo. Echecrate, uno dei narratori, interviene per esempio con queste parole: «Ed è meraviglioso come anche ora e sempre mi prenda e vinca [...] questo argomento che la nostra anima sia una specie di armonia», per cui avverte il bisogno di un’altra teoria, capace di persuaderlo che «morto l’uomo, l’anima non muore insieme con lui» (88 d). Non c’è niente da fare: poiché l’armonia è inevitabilmente «qualche cosa di composto (syntheton)» (92 a), essa non è in grado di garantire l’immortalità dell’anima: anzi, proprio per la sua natura con-dividuale e composita, l’armonia è la teoria che inevitabilmente colloca l’anima nella categoria dei syntheta, delle cose composte e dunque mortali. Socrate non demorde: tenta un’altra strada, quella che dalla psicologia (la considerazione dell’anima [psyché] in quanto tale) lo porta invece sul terreno dell’essere (to on), dell’ontologia. È propriamente il terreno delle idee (l’idea del buono, del bello, dell’eguale ecc.): lungi dall’essere rappresentazioni mentali da noi elaborate a seguito dell’esperienza, le idee sono «esseri», i quali «esistono nel più alto grado della realtà esistente» (77 a), ed esistono in maniera sempre identica a sé stessa, invariabile. Il mondo delle idee è per Platone il mondo non solo dell’essere, ma per eccellenza delle identità, in quanto «ciascuna di esse rimane identicamente identica, sempre, ciò che è, avendo di per sé un’unica forma, e non riceve alcuna alterazione, mai, assolutamente, in nessun modo»: così Viano (1985: 125) traduce il passo di Fedone (78 d), in cui ci eravamo già imbattuti nel cap. IV (§ 7). Le idee preesistono, sussistono e permangono inalterate, e sono esse che ci consentono di scorgere per esempio il bello nelle cose belle. Il bello non lo formiamo a partire dalle cose belle: il bello in sé preesiste a tutte le cose che possono essere definite belle, ed è solo grazie a questa preesistenza che siamo in grado di definire così le cose belle. E l’anima? L’anima anch’essa preesiste e in una sua preesistenza rispetto al corpo coglie il bello in sé – l’essere bello in quanto tale nell’ontologia delle idee – per poi scorgerlo, in termini di somiglianze, nelle cose del mondo che ci paiono belle. Come si sa, per Platone la conoscenza è reminiscenza (anamnesis): è il riattivare, da parte dell’anima, ciò che ha già appreso nel mondo delle idee,

prima di calarsi in qualche corpo (72 e-73 a). Il che significa non solo che l’anima preesiste al corpo, ma anche che essa «seguita a esistere anche dopo la morte» (77 d), così da poter svolgere la sua funzione anamnestica. Il mondo sempiterno e sempre identico delle idee richiede un organo (l’anima), altrettanto immortale e identico a sé stesso, che lo renda presente, lo faccia intravedere, sia pure per approssimazione, nel mondo sensibile, quello delle somiglianze e differenze. Ma l’anima non è soltanto al servizio delle idee, un organo che consente di cogliere le idee – gli “esseri” per eccellenza – nell’ordito del mondo. L’anima ha infatti a che fare con la vita, è il principio che «ingenerandosi nel corpo, lo rende vivo» (105 c); e dunque, in quanto principio di vita, come potrebbe mai «accogliere in sé» la morte, ossia «il contrario di ciò che sempre ella apporta» (105 d)? È così che Socrate lascia il mondo: nella ricostruzione di Platone lo lascia consegnando al mondo un’eredità, la teoria dell’anima immortale, in quanto entità che non può accogliere in sé la syntaxis, la composizione, perché ogni essere composito è destinato prima o poi alla morte, alla decomposizione. Nel Fedone Socrate racconta di avere avuto un periodo della vita in cui gli interessi per i processi naturali lo avevano avvicinato ad Anassagora. Nel capitolo VI (§ 1) abbiamo visto come Anassagora fosse colui che, in maniera inquietante, aveva scorto il SoDif, l’intrico delle somiglianze-differenze, non solo all’esterno ma anche all’interno delle cose, e quindi pure all’interno degli esseri umani, nelle loro anime. Come forse si ricorderà, nel fr. 4 (D-K) aveva sostenuto che «anche [gli] uomini e tutte le altre cose viventi, quante hanno un’anima [psyché]», risultano essere «composti». Forse ci ricorderemo anche che Anassagora si permise di far notare che i Greci «non concepiscono correttamente» il nascere e il morire (fr. 17 D-K). Come si devono concepire? Il nascere come un «comporsi», come un istituire un “con” (il “con” del condividuo), e il morire come un «dividersi», come uno scomporsi, come uno sciogliersi del condividuo nella dividualità. Tutto fa pensare allora che il Fedone sia una risposta a chi voleva dare una lezione ai Greci sul nascere e sul morire, una risposta alla teoria anassagorea del condividuo, del suo comporsi e del suo disfarsi. Beninteso, Socrate non accenna minimamente a questa teoria, anche se la sua delusione nei confronti del naturalismo di Anassagora risulta del tutto esplicita. In ogni caso, qui noi vediamo di nuovo molto bene una

divaricazione nettissima tra le filosofie di un Protagora e di un Anassagora, intente a cogliere il SoDif in non importa quale tipo di realtà, e quella di Socrate-Platone alla ricerca dei principi dell’identità e della permanenza, con cui afferrare l’ordine del mondo naturale e del mondo umano: non è infatti solo nell’ontologia, nel mondo delle idee che si può e si deve cogliere l’identità; questo principio deve essere colto dentro lo stesso essere umano. L’anima è il principio dell’identità. Così decidendo, SocratePlatone (o Platone al posto di Socrate) compiono un’operazione ardita, foriera di gravi conseguenze sul piano filosofico. Pur di raggiungere l’immortalità – pur di ritenere che nell’essere umano vi sia un nucleo inestinguibile di immortalità –, essi spezzano questo essere con un taglio nettissimo. Ciò che abbiamo chiamato il con-dividuo viene tagliato in due usando la dicotomia tra syntheta e asyntheta: il corpo è un syntheton, ed è destinato a decomporsi, mentre l’anima è di tutt’altra natura, è un asyntheton, e quindi immortale. Non c’è dunque alcuna somiglianza, anzi c’è un’eterogeneità massima, tra corpo e anima: coabitano, finché l’essere umano è in vita, ma si tratta di realtà completamente e ontologicamente differenti. Non solo, ma così facendo Platone affida soltanto all’anima il senso profondo e autentico dell’umanità. Lo si può vedere in tutti i dialoghi di Platone, là dove si parla del rapporto tra anima e corpo; ma in particolare in Alcibiade I (129 e-130 c) alla domanda «Che cos’è, allora, l’uomo?» troviamo la seguente risposta: E poiché non è uomo né il corpo, né l’insieme di corpo e di anima, resta, credo, o che l’uomo non sia nulla, o che, se è qualcosa, risulti che non sia altro che anima (Platone 2015: 295, 301).

Postosi alla ricerca dell’immortalità e dell’identità nell’uomo, Platone compie un’operazione ulteriore, che è quella di cogliere nell’essere umano addirittura la dimensione del “divino”. Come si ricorderà, Diotima – la sacerdotessa di Mantinea a cui Platone dà la parola nel Simposio – aveva ben fatto vedere che l’identità è soltanto una faccenda di dèi (solo gli dèi possono vantare di essere identici a sé stessi) ed è stata per noi una fonte preziosa di ispirazione per interpretare l’essere umano, sia nella sua dimensione corporea, sia nella sua dimensione psichica, come un insieme di somiglianze e differenze (cap. VI, § 3), a tal punto che abbiamo pensato di dedicare a lei questo libro. Nel Fedone Platone dà implicitamente ragione a Diotima nell’equiparare identità e divinità, ma introduce esattamente il binomio identità-divinità nella stessa psyché umana. C’è qualcosa di divino

nell’essere umano, e questo è dato dall’identità dell’anima, dal suo essere immortale, invariabile, indecomponibile. Occorrerà, beninteso, attendere l’apporto del Cristianesimo per rimettere in moto, riformulandola, questa ardita antropologia, un’antropologia che taglia via le somiglianze/differenze (SoDif) con gli altri esseri viventi e mortali, dunque con la natura, e che, con una hybris forse inattesa, sposta l’asse delle somiglianze che contano verso la divinità. Rimandiamo ad altro momento l’analisi di questa antropologia che trasforma gli esseri umani in dèi: un’antropologia da cui storicamente dipendiamo e che è tuttora attiva, se è vero che in un modo o nell’altro anche noi, pur in un mondo che si definisce secolarizzato, intendiamo divenire e comportarci come dèi (Remotti 2013b: 56-59, 171-195; Harari 2014, 2017). Qui ci limitiamo a ribadire che, puntando sull’identità – tanto sul piano ontologico, quanto sul piano antropologico – Platone ha voluto passare decisamente oltre l’intreccio delle somiglianze/differenze, nella convinzione di dover procedere al di là dell’umanità stessa, verso la divinità, non solo affermando la presenza del divino nell’uomo, ma invocando per l’uomo un processo di progressivo assomigliamento al dio, un processo di imitazione del divino, di homoiosis theo (Lavecchia 2006): è la deificatio, di cui parleranno poi anche i padri della Chiesa. Riteniamo che nell’invenzione dell’individuo, nel suo cuore segreto, esista – anche se non detta – questa aspirazione al divino. Pure Miguel Benasayag (2002: 31, 60) scorge nella concezione dell’individuo – anzi nel “mito dell’individuo” – questa aspirazione all’immortalità e questo volersi trasformare in dio. Ma a Michel de Montaigne (1982: 1496-1497) non piacevano affatto «questi umori trascendenti», questo voler «mettersi fuori di sé stessi e sfuggire all’uomo», in cerca dell’identità e dell’immortalità. A noi pare che il condividuo sia da leggere come una proposta per recuperare, con un po’ di doverosa saggezza, il senso della nostra compartecipazione e della nostra possibile convivenza con tutti gli altri esseri – umani e non umani – con cui condividiamo somiglianze e mortalità. 1

Questo tipo di argomentazione parte dal presupposto che il SoDif preceda la rappresentazione che se ne ha (come si diceva prima, il SoDif è la “materia”, su cui interviene la rappresentazione). In altri termini, le rappresentazioni non operano liberamente in una sorta di vuoto, ma intervengono sulla matassa o sul groviglio psico-sociale che si viene a formare sia all’interno (SoDif-In) sia all’esterno (SoDif-E) del soggetto. 2 Se si tiene conto della critica da noi rivolta alla svolta ontologica degli antropologi, i quali

vedono ontologie dappertutto, è a proposito dell’individualismo che invece, e in modo appropriato, possiamo parlare di ontologia, ovvero di rappresentazione di tipo ontologico. 3 L’espressione “immortalità provvisoria”, già utilizzata da Gaetano Riccardo (1997) nella sua interpretazione della concezione del potere dei sovrani dell’Africa precoloniale, è stata ripresa da Stefano Allovio (2014: cap. 4) in riferimento ai rituali di iniziazione. Qui viene collegata invece alla nozione di individuo, reso provvisoriamente immortale dalla sua sostanza identitaria. 4 Abbiamo forzato volutamente il testo di Geertz, ponendo “entità” al posto di whole (un “insieme”), per rendere meglio la “peculiarità” della concezione occidentale della persona. 5 In un importante lavoro sull’antropologia della persona, che utilizzeremo ancora in questo capitolo, Carlo Capello invita esplicitamente a superare la visione dicotomica, che oppone dividualità e individualità, sostituendola con la visione, assai più proficua, di un continuum (Capello 2016: 49; Remotti 2009: 330-331). 6 In Le Rêve de d’Alembert, scritto nel 1769, mademoiselle De L’Espinasse dava come del tutto ovvia e scontata la conoscenza «della mia unità, del mio essere me stessa». E aggiungeva: «Non mi sembra che ci sia bisogno di tante ciance per sapere che io sono io, che sono sempre stata io, e mai sarò un’altra!» (Diderot 2002: 91-93). 7 Nella loro Die deutsche Ideologie Marx e Engels affermavano, per esempio, che la «società comunista» è «l’unica società nella quale lo sviluppo originale e libero degli individui non è una frase», anche se precisavano che tale sviluppo «è condizionato [...] dalla connessione tra gli individui [Zusammenhang der Individuen]» (Marx e Engels 1969: 430). 8 Dumont (1993: 47) si riferisce in particolare al «capolavoro» pubblicato nel 1911 (Troeltsch 1941). 9 Ovviamente, un conto sono, da un lato, le rappresentazioni fortemente speculative e teoricamente vertiginose che pensatori come Duns Scoto e Ockham hanno elaborato nelle loro celle, esposto nei loro insegnamenti, consegnato nei loro scritti e, dall’altro, le rappresentazioni presenti nelle menti di contadini, artigiani, commercianti, guerrieri, cavalieri, dame ecc. dell’epoca in cui vissero i due francescani. Le rappresentazioni, estremamente specialistiche, di questi due studiosi non possono certo essere fatte coincidere con quelle dei loro contemporanei. È necessario però chiedersi quale significato esse possano avere. La nostra risposta consiste nella tesi seguente: esse sono il risultato di un esercizio rigoroso di analisi e di approfondimento teorico a cui questi filosofi hanno ritenuto di “dover” sottoporre il concetto di “individuo”, come elemento fondamentale di una tradizione di pensiero in cui si erano formati e al cui sviluppo hanno inteso offrire il loro contributo. A noi pare che questo esercizio abbia avuto il merito di sviscerare i contenuti teorici più significativi di questo tipo di rappresentazione, di giungerne per così dire ai limiti, di portare alle estreme conseguenze le potenzialità in esso contenute. Si tratta forse di un mero esercizio speculativo, di una sorta di divertissement teorico da parte di monaci a cui era consentito trastullarsi con concetti e idee, disputando animatamente tra loro, oppure essi hanno avvertito, con il loro acume, la loro sensibilità e la loro raffinata cultura filosofica, l’esigenza insopprimibile di chiarire quanto meno presupposti e implicazioni di una concezione diffusa, con cui si tendeva a rappresentare il mondo, la realtà, Dio, gli esseri umani? La nostra scelta non è stata quella di seguire la diffusione di idee, indizi, motivi che andavano nella direzione dell’individualità, come per esempio hanno fatto Colin Morris (1985) e ancor più Aron Gurevič (1996), bensì di sfruttare le rappresentazioni dell’individualità fornite dai due monaci francescani proprio per capirne meglio la peculiarità culturale e, per così dire, la “stranezza” antropologica. 10 Max Stirner era in realtà lo pseudonimo di Johann Caspar Schmidt (1806-1856). Il motivo

dello pseudonimo è riconducibile al fatto che egli aveva una “alta fronte” (max-ima, alta, e Stirn, fronte). Il libro uscì nel 1844 a Lipsia, pur con l’indicazione dell’anno 1845. 11 Preferiamo rendere Verein con “associazione” (come nella traduzione di Die deutsche Ideologie di Marx e Engels [1969]), piuttosto che con “unione”, secondo la traduzione italiana di Leonardo Amoroso, fin qui utilizzata (Stirner 1999), e secondo la recentissima traduzione di Sossio Giametta (Stirner 2018: 189). È un po’ difficile pensare a una “unione” degli egoisti, dato anche il rifiuto del concetto di “comunità” da parte di Stirner: più accettabile sembra essere l’idea che gli egoisti formino un’associazione, quasi una sorta di “club”. 12 Non si può non rilevare, con un senso di raccapriccio, come questo cercare organi in corpi altrui, quasi fossero di nostra proprietà, trova una tragica conferma nel traffico globale di organi, con relativo prelevamento e commercio, quale si verifica nel mondo contemporaneo, ai danni in particolare dei bambini. È come se Stirner con il suo individualismo estremo avesse preconizzato questi esiti orrendi. Su questo fenomeno, tipico della contemporaneità, ha condotto i suoi studi l’antropologa americana Nancy Scheper-Hughes (2000; 2001; 2004). 13 Non si dimentichi quanto è stato argomentato all’inizio di questo capitolo (§ 1), ovvero la distinzione tra a) il livello della materia SoDif, b) il livello della rappresentazione e c) il livello della configurazione. 14 Sul tema delle vie di fuga dalle culture chi scrive ha avuto modo di soffermarsi in diverse occasioni, come, per esempio, in Remotti 2011a: cap. III e 2011b. Adriano Favole ha però esplicitamente dedicato a questo tema un suo recente volume con approfondimenti e ramificazioni molto interessanti (Favole 2018). 15 Che la credenza in un individuo autonomo, il quale dispone di uno spazio inviolato e protetto, entro cui sarebbe del tutto libero di scegliere, abbia qualcosa di «incredibile», che sia cioè una «incredibile credenza [incredible belief])», è sostenuto da Richard A. Shweder e Edmund J. Bourne (1997: 224). Per illustrare tale credenza essi si riferiscono al testo di Milton Friedman e Rose Friedman (1981). 16 Come avremo modo di vedere nel prossimo paragrafo (§ 7), un teologo e filosofo medievale, Gilbert de Poitiers, ci insegna la distinzione tra «singolarità» e «individualità»: infatti, «ogni individuo è singolare [quicquid est individuum, est singulare]», ma «non tutto ciò che è singolare è [necessariamente] individuo [non tamen omne singulare est individuum]» (Raunig 2016: 60-62). Insomma, il concetto di singolarità è più ampio di quello di individualità, per cui anche il dividuum è singolare. 17 Può essere significativo ricordare – come abbiamo già fatto nei capp. V (§ 7) e VI (§ 1) – le tesi di Goethe e di Leibniz a proposito della compresenza, nei corpi di tutte le piante e di tutti gli animali, di altre piante e altri animali, per cui ogni vivente è fatto di una «pluralità» di altri viventi. 18 Per contesto ecologico extra-sociale intendiamo qualsiasi tipo di realtà (fisica, biologica, simbolica) con cui gli esseri umani entrano in contatto significativo e relazionale, al di là del loro specifico contesto sociale. Alcuni esempi: la foresta “padre e madre” per i Pigmei BaMbuti della Repubblica Democratica del Congo (Turnbull 1979); la collina su cui abitano i Nayaka dell’India meridionale, e con la quale essi intrattengono relazioni di condivisione e di convivenza (Bird-David 1999; Remotti 2009: 337-341); i contesti urbani, in cui ormai vive la maggior parte dell’umanità attuale (Davis 2006). 19 In Wikipedia (consultato il 3 maggio 2018) troviamo la seguente definizione: «Lo strumento derivato o semplicemente derivato (in inglese derivative) in finanza è un contratto o titolo il cui prezzo sia basato sul valore di mercato di un altro strumento finanziario, definito sottostante (come, ad esempio, azioni, indici finanziari, valute, tassi d’interesse o anche materie prime). Gli utilizzi principali degli strumenti derivati sono la copertura da un rischio finanziario

(detta hedging), l’arbitraggio (ossia l’acquisto di un prodotto in un mercato e la sua vendita in un altro mercato) e la speculazione. Le variabili alla base della quotazione dei titoli derivati sono dette attività sottostanti e possono avere diversa natura: può trattarsi di azioni, di obbligazioni, di indici finanziari, di commodity come il petrolio o anche di un altro derivato, ma esistono derivati basati sulle più diverse variabili, perfino sulla quantità di neve caduta in una determinata zona, o sulle precipitazioni in genere. I derivati sono oggetto di contrattazione in molti mercati finanziari, e soprattutto in mercati al di fuori dei centri borsistici ufficiali, ossia in mercati alternativi alle borse vere e proprie, detti OTC, over the counter: si tratta di mercati creati da istituzioni finanziarie e da professionisti tramite reti telematiche e che, di solito, non sono regolamentati». 20 Per un’efficace e articolata argomentazione in questo senso si veda il saggio introduttivo di Pietro Vereni (2016) al libro di Appadurai (2016) a cui ci riferiamo in queste pagine. 21 La frase di Gilbert de Poitiers, tratta dal suo commento (Commentaria) al trattato De Trinitate di Boezio, è la seguente: «Si enim dividuum facit similitudo, consequens est, ut individuum faciat dissimilitudo» (Gilb. De Trin. I, 5, 23-24). 22 Raunig (2016: 98-99) cita a questo proposito, oltre al testo classico di Ronald Laing (1969), i lavori di Judith Butler (2013b) e di Isabell Lorey (2015). 23 Per le citazioni dal dialogo Fedone ci avvaliamo della traduzione contenuta in Platone (1991).

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