Saggio sull'antagonismo sociale. Familiarità e estraneità
 9788860814531

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Florian Znaniecki

Saggio sull’antagonismo sociale Familiarità e estraneità a cura di Grzegorz J. Kaczyn–ski

ARMANDO EDITORE

ZNANIECKI, Florian Saggio sull’antagonismo sociale. Familiarità e estraneità ; Intr. di Grzegorz J. Kaczyn–ski Roma : Armando, © 2008 128 p. ; 17 cm. (I classici della sociologia) ISBN: 978-88-6081-453-1 1. Sociologia in Polonia 2. Definizione del concetto di estraneità in rapporto all’antagonismo 3. Antagonismo collettivo CDD 300

Trad. e cura di Grzegorz J. Kaczyn–ski Il curatore ringrazia la Fondazione Lanckoron–ski per aver contribuito alla realizzazione del volume Titolo orig.: Studia nad antagonizmem do obcych, in “Przeglad Socjologiczny” 1930-1931, t.1, n. 2-4, pp. 158-209 © 2008 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 02-04-043 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]

Indice

Intr oduzione di Grzegorz J. Kaczyn–ski Saggio sull’antagonismo sociale di Florian Znaniecki Nota bio-bibliografica

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Introduzione Il rapporto con l’eredità scientifica lasciataci dai grandi autori, ma ormai scomparsi, rivela evidenti tratti del paradosso che sta nel fatto che loro non possono più interagire all’inadeguata percezione del loro pensiero da parte della comunità scientifica. È una percezione che, come sappiamo bene, si presta facilmente a due atteggiamenti opposti: adorazione o abbandono. Quindi, conoscere, anzi riscoprire i classici diversi non è altro che rivelare l’originalità del loro bagaglio scientifico, offuscato o perché espresso in un idioma invecchiato, o perché scritto in una lingua minore, o in un contesto scientifico periferico. Anche nella sociologia i classici erano e sono diversi per motivi diversi e certe volte quasi paradossali. Un esempio sorprendente ci viene indicato da Stanislav Andreski che ha fatto conoscere il pensiero di M. Weber a Alfred Radcliffe-Brown, uno dei fondatori della scuola funzionalista di antropologia, e che era un suo collega alla Rhodes University College in Sudafrica negli anni Cinquanta. “Gli raccontavo spesso di Weber, egli scrive, e anche gli ho prestato la mia copia di Wirtschaft und Gesellschaft. Dopo aver letto qualche frammento del libro, Radcliffe-Brown mi disse: ‘È una cosa davvero straordinaria. […] Peccato che nessuno me l’abbia detto prima’”1. Con tale spirito va inteso il Saggio sull’antagonismo sociale di Znaniecki, pubblicato in polacco nel 7

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Introduzione

primo volume della rivista «PrzeglaÇd Socjologiczny» (Rassegna Sociologica) nel 19312, la prima rivista sociologica in Polonia, fondata dallo stesso Znaniecki. È uno scritto che per più di mezzo secolo è stato ignorato – anche per motivi ideologici (cfr. la Nota bio-bibliografica) – dall’editoria scientifica. Soltanto nel 1989 è stato proposto un Excerpt in inglese composto da ampi frammenti del saggio nel volume The Humanistic Sociology of Florian Znaniecki3. L’anno successivo il Saggio è stato ripubblicato integralmente come appendice all’edizione polacca del volume di Znaniecki Modern Nationalities4. *** Il testo di Znaniecki si apre con una forma di nota metodologica che va intesa come un implicito prodromo di una proposta teorica nell’ambito indicato dal titolo del Saggio. Segue la prima parte del testo in cui l’Autore si pone le questioni come definire l’estraneità e chi sono nostri ed estranei. La seconda parte costituisce un’analisi della tesi perché all’estraneità è legato il sentimento di antagonismo ovvero il fatto che l’estraneo è percepito socialmente in modo negativo. Nella terza e ultima Znaniecki propone una disamina delle forme dell’antagonismo collettivo inteso come contatto sociale negativo. In breve, anche se il titolo originale del Saggio parla dell’antagonismo verso gli estranei esso, in fondo, offre una teoria della costruzione sociale dell’antagonismo in generale, pertanto il titolo italiano sembra più adeguato al suo contenuto di quello originale. La prima parte costituisce una lunga analisi criti8

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ca, ma costruttiva, delle proposte teoriche nell’ambito sociologico che riguardano le posizioni teoriche di autori come Gumplowicz, Ratzenhofer, Giddings, Le Bon, Sumner, Keller, di fronte all’antagonismo sociale. Si tratta di teorie che in diverso modo elaborano il concetto di antagonismo che si basa sul concetto di etnocentrismo, denominato più spesso come legame di razza (gruppo razziale), l’istinto di autoconservazione, l’antagonismo primario e così via il quale in ultima istanza riconduce al teorema di lotta per l’esistenza in sintonia con i presupposti dell’evoluzionismo e in genere dal darwinismo sociale e dal poligenismo. Secondo Znaniecki tutte queste teorie, seguendo il paradigma razziale, peccano di naturalismo, sia sotto la forma biologica che psicologica, perché partono dal presupposto dell’esistenza di certe caratteristiche obiettive e somatiche dell’estraneità che possono essere indicate come antagoniste. Tale questione, invece, in quanto questione sociale, dovrebbe essere concettualizzato in termini rigorosamente sociologici. Ma anche in questo campo, secondo Znaniecki, le proposte teoriche e metodologiche non sono soddisfacenti e si esprimono in due concetti di alterità (estraneità). Il primo definisce l’alterità degli individui (o gruppi) sulla base della non appartenenza sociale (la mancanza di qualsiasi contatto sociale), il secondo – sulla loro differenza sociale. In altri termini, nel primo caso, gli estranei sono i non-membri, al contrario dei propri che sono membri del gruppo; invece nel secondo, gli estranei sono quelli con cui il dato individuo è venuto in contatto poco o affatto, 9

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Introduzione

al contrario dei conoscenti, degli amici, ecc. Non si può dire con una dovuta certezza, nota l’Autore, che certe persone sono estranee o non nei confronti di un dato individuo, basandoci sul fatto obiettivo della sua appartenenza o non-appartenenza al gruppo di cui egli fa parte; non si può dire parimenti che le differenze e le somiglianze fra dati gruppi o individui, evidenziati solo in base al confronto obiettivo, che uno di questi gruppi sia estraneo in qualche modo nei confronti dell’altro. Questo significa che l’estraneità di un individuo (o una collettività) non è un tratto che può essere attribuito da un osservatore sulla base di questa o quella proprietà ritenuta oggettiva (di tipo psico-somatico o sociale come appartenenza e diversità) perché esse dipendono, sì, dai fattori contestuali ma soprattutto da fattori soggettivi. Sono gli stessi uomini che notano nelle stesse persone talvolta alcune caratteristiche talvolta altre, secondo le circostanze e giudicano i dati individui o gruppi come estranei o nostri. Quindi per scoprire il meccanismo che sta alla base di tale giudizio si devono conoscere le esperienze di quegli individui (o collettività) il cui atteggiamento verso gli altri intendiamo comprendere. Pertanto una definizione sociologica metodologicamente operativa dei concetti estraneità ed estraneo, secondo Znaniecki, deve essere formulata con il coefficiente umanistico. È un concetto che egli propose per la prima volta nella sua Introduzione alla sociologia5 e sviluppò in seguito in altri lavori, concetto che costituisce un elemento ontologico della realtà dal quale scaturisce la direttiva epistemologica secondo cui la ricerca sociale non può limitarsi 10

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all’osservazione diretta dei fatti e alla propria esperienza, ma deve riprodurre l’esperienza degli attori sociali, l’esperienza di chi costruisce tali fatti. Quindi, tornando alla nostra questione, gli estranei non sono estranei perché sono estranei ma perché sono sperimentati come estranei. È un approccio umanistico al quale, sempre nell’ambito della questione in oggetto, i più vicini, secondo Znaniecki, erano Simmel e Vierkandt. In tale ottica epistemologica le relazioni umane, e concretamente sociali, vanno definite come relazioni fra i diversi sistemi di valori delle persone in contatto. Seguendo il ragionamento di Znaniecki, possiamo dire che esistono due possibilità di relazioni e quindi d’incrocio dei sistemi di valori quando avviene un contatto sociale: nel primo caso la relazione avviene sulla base di un sistema comune di valori, il secondo invece sulla base di sistemi separati. È ovvio che la comunanza e la separazione dei sistemi è raramente completa. Infatti, su tali presupposti - che possiamo denominare come paradigma assiologico – si basa la definizione d’estraneo proposta da Znaniecki che si può sintetizzare come segue: un individuo è sperimentato da un altro come estraneo sempre e soltanto quando fra loro avviene una relazione sociale sulla base di sistemi separati di valori. In tal modo quindi, il nostro (familiare, insider) è colui con cui una relazione avviene sulla base di un sistema comune di valori. La differenziazione della dinamica dei contatti sociali si traduce nel fatto dell’esistenza di una altrettanto differenziata rete di relazioni di familiarità e di estraneità, a livello individuale e collettivo. Inoltre, le categorie noi-estranei sono 11

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esclusive e non graduali così come non-parenti non sono più o meno non-parenti, i non-amici non sono più o meno non-amici. Di conseguenza anche outsiders o esclusi non sono più o meno outsiders o esclusi. Per questo gli estranei sono definiti tali anche se un contatto sociale di solito non coinvolge tutta la personalità o tutto il gruppo. Ma perfino in non-appartenenti al gruppo, diversi, altri, ecc. sono considerati estranei perché alla luce dell’esperienza sociale i loro sistemi di valori si rivelano di regola inconciliabili, separati. La sola potenziale incompatibilità valoriale, diremmo oggi, può creare un sentimento di estraneità. In definitiva, possiamo constatare che la reciproca o unilaterale conoscenza non si identifica né con la familiarità né con l’estraneità: tutti si possono conoscere ma pochi considerarsi come estranei ed al contrario, come nel sistema delle caste nella società indiana. Esiste anche, osserva Znaniecki, un atteggiamento neutrale e cioè tale per cui l’autore che agisce non applica le categorie “noi-estranei”. Li usa non come valori sociali, ma rispettivamente come sistemi edonistici, tecnici, economici, estetici e via dicendo. È però una situazione di passaggio, temporanea. Ebbene, tutti questi e simili ragionamenti, quasi di sociologia formale, Znaniecki li espone per ribadire con insistenza che percepire qualcuno come estraneo equivale a giudicarlo negativamente e che, di conseguenza, si esprime nell’atteggiamento sociale negativo. È un dato di fatto che fonda le sue radici nel processo di socializzazione e in genere nel contesto culturale e che per definizione non possiamo ammettere condizionamenti di altro genere per12

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ché l’uomo è una creatura sociale. In tal senso, solo una ricerca sociologica fatta nella prospettiva ontogenetica e filogenetica potrebbe chiarire le origini dei tre tipi di atteggiamento verso gli altri: positivo, neutrale o negativo. Znaniecki afferma che soltanto la conoscenza della cultura di un gruppo, della sua storia e dei contatti con tutti gli altri può fare luce sui motivi del suo antagonismo, indifferenza o benevolenza nei nuovi contatti sociali. Inoltre, considerando il fatto che le categorie noiestranei sono esclusive e non graduali, anche l’antagonismo verso gli estranei non può essere, quindi, una caratteristica graduale; essa può essere però periodica o costante nell’esperienza di un individuo o di un gruppo. La dinamica della vita quotidiana su diversi livelli sociali in prospettiva znanieckiana non è altro che una diversificazione sociale in atto (fra i nostri-positivi e gli estranei-negativi) condizionata dalle congruenze ed incongruenze assiologiche rivelate nei contatti sociali. Diversi livelli sociali vuol dire contatti in cui sono coinvolti individui, collettività, gruppi sociali ecc. Infatti, Znaniecki, prendendo questo aspetto in considerazione, propone una tipologia di quattro tipi di antagonismo sociale: (1) antagonismo di gruppo verso un gruppo, (2) antagonismo individuale verso un gruppo, (3) antagonismo di gruppo verso un individuo, (4) antagonismo individuale verso un individuo. Pur seguendola, Znaniecki è convinto che la differenza fra l’antagonismo di gruppo e quello individuale è stata esagerata dai sociologi; è marginale e riguarda il modo di agire perché i valori individuali, per quanto siano personalizzati, esprimono sempre i sistemi valoriali dei 13

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gruppi a cui appartengono i dati individui. In tal caso, la sublimazione di gruppo si manifesta al livello dell’agire sociale individuale. Certe volte in maniera tragica. “L’uomo solo è di solito più umano che non quello inserito in mezzo alla folla, alla massa eccitata – osserva Ryszard Kapus–cin–ski, evocando Levinas (Le temps et l’autre). Presi uno per uno siamo più intelligenti, migliori, più prevedibili. Il far parte di gruppo può trasformare in demonio una persona di solito calma e gentile”6. *** Penso che per un’adeguata percezione del valore teorico del Saggio sia utile indicare in modo sintetico la collocazione dei suoi concetti di base nell’attuale prospettiva sociologica. In tale senso ritengo si possa parlare di due aspetti del suo valore euristico: diagnostico e innovativo. Il valore diagnostico del Saggio sta non solo nella formulazione stessa del suo titolo che indica una questione attualmente di estrema importanza, trascurata però fino agli anni Cinquanta o forse Sessanta, ma in tutti i suoi frammenti in cui l’Autore espone le mancanze e i vuoti delle ricerche sociologiche di allora. Il fatto è tanto più significativo in quanto proprio esse sono state prese in considerazione dai suoi successori come questioni di priorità pur non conoscendo l’esistenza di questo Saggio. Penso soprattutto alle questioni legate alla costruzione sociale e culturale dei pregiudizi razziali, etnici ecc. e la sua incidenza nella formazione della personalità. Penso 14

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all’approccio culturalista negli studi sulle migrazioni. E questo non era un frutto del dono della profezia ma del sapere diagnosticare il fabbisogno sociale richiesto alla comunità dei sociologi. Il valore innovativo, invece, è costituito dall’originalità analitica dell’antagonismo sociale proposta da Znaniecki. È una proposta formulata in termini epistemologici scaturiti dalla sua teoria sociologica dell’agire sociale. In altre parole, possiamo affermare che Znaniecki propone un nuovo paradigma dell’antagonismo sociale, paradigma assiologico il quale però va anche rivisto nella prospettiva più vasta che prende in considerazione i contributi di Simmel, Sombart, Park, Schütz, Merton, Elias e di altri, ovvero di autori le cui proposte hanno determinato il quadro teorico in proposito7. Ebbene, possiamo racchiudere in tre considerazioni le nostre conclusioni a tale riguardo. La prima si riferisce al fatto che ciascun teorema dello straniero degli autori sopra indicati è una variante dell’applicazione, direi, del paradigma relazionale ovvero è un modello di interazione fra straniero e il suo contesto sociale il cui quadro è delineato da due proposte, quella di Simmel e di Schütz. La prima si muove entro la sociologia formale e definisce la relazione straniero-società come una forma sociale, una forma della socialità ripresa successivamente da Park e da Elias. La seconda, invece, quella di Schütz, proposta come teoria della comprensione dello straniero, è formulata nell’idioma fenomenologico e si basa sulla pluralizzazione dei mondi vitali. In Merton ritroviamo ambedue le prospettive ma che hanno un riferimento comune, quello della conoscenza come fattore deter15

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Introduzione

minante nella collocazione degli individui nella struttura dello spazio sociale. Infatti solo lui, sempre in modo parziale, prende in considerazione ciò che costituisce un fondamento del teorema di Znaniecki e cioè un elemento costitutivo dell’estraneità; in Merton, la conoscenza, in Znaniecki, i valori. Possiamo quindi affermare che la proposta di Znaniecki è di carattere ontologico invece le altre sono di carattere epistemologico; nella sua l’antagonismo sociale dipende dalla conflittualità valoriale, nelle altre, invece, dalla conflittualità relazionale. La seconda considerazione riguarda il contesto in cui si costruisce la relazione noi-estranei. È sintomatico che tutti, tranne Park e Elias – ma sempre in modo secondario – collocano le loro teorizzazioni dello straniero in un contesto culturalmente omogeneo al contrario del teorema di Znaniecki. In altre parole, egli è il primo autore a proporre un’analisi dell’estraneità nella prospettiva multiculturale, indicando l’appartenenza culturale come condizionamento della relazione noi-altri. È una prospettiva che oggi, con la differenziazione culturale interna ed esterna, si rivela molto adeguata dal punto di vista euristico in quanto universale, non limitata da nessuna tipologia sociale; né etnica, né razziale, né qualsiasi altra. La terza considerazione, infine, riguarda il livello della struttura sociale su cui avvengono le relazioni noi-altri. Anche qui riveliamo un fatto sintomatico: che tutti i concetti classici sono limitati a un contesto microstrutturale, con una forte tendenza verso il soggettivismo. In Znaniecki, invece, troviamo un’apertura concettuale che inquadra il fenomeno dell’alterità su scala sia micro- sia macro-strutturale. E tutto ciò 16

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mostra un’integrità epistemologica grazie al coefficiente umanistico per cui nell’analisi di questo fenomeno non è persa la sua dimensione né soggettiva né quella collettiva. In tal senso l’approccio znanieckiano si rivela profondamente umanistico. E questo non è in contrasto con la sua affermazione che l’estraneità è sempre percepita in modo antagonistico, perché tale affermazione non costituisce il presupposto del suo teorema ma una conclusione induttiva basata sui fatti, storici e contemporanei. Znaniecki non postula l’antagonismo verso gli estranei ma analizza la sua esistenza e causalità; e dobbiamo notare, lo fa seguendo la connotazione del termine estraneo di allora quindi come sinonimo, o quasi, di nemico, avverso, ostile, ecc. Znaniecki non condivideva affatto l’idea che “la gente è unita di più dal sentimento del nemico comune che dall’appartenenza alla propria cultura”8. Dai suoi scritti successivi traspare in modo evidente la sua speranza, anzi un credo nella futura cultura, pacifica e universale, fondata sulla cultural fertilization, cross-fertilization e cooperative creativeness9, ovvero sulla riduzione e infine eliminazione della conflittualità assiologica dell’estraneità e qualsiasi alterità. In tal senso la sociologia di Znaniecki è non solo umanistica ma anche profondamente ottimistica. Quindi, non c’è dubbio che oggi Znaniecki avrebbe scritto il suo Saggio in un idioma sociologico diverso, ma ciò non sminuisce la considerazione che il suo concetto di antagonismo sociale formulato, sostanzialmente, sulla dicotomia antitetica noi-estranei è, senza dubbio, l’elemento più debole del suo teorema. Per questo, presumo, che egli avrebbe sviluppato meglio, 17

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prima di tutto, la terza categoria relazionale e cioè quella accennata come atteggiamento neutrale, corrispondente all’alterità (quindi: noi-altri-estranei) che non preclude il dialogo ma non connota l’antagonismo. Ad ogni modo, nella retrospettiva teorica e contestuale il Saggio ha perso poco del suo valore euristico, anche se molte delle sue idee hanno smarrito l’identità znanieckiana per il semplice fatto che esse sono state assorbite ed assimilate dalla sociologia come se ne fossero le particelle elementari. “Gli scritti di Znaniecki – osserva infatti Zygmunt Bauman – sono piene di affermazioni che probabilmente sembreranno ai sociologi d’oggi come ovvietà. […] Però, se un sociologo d’oggi si decide per qualche motivo a dare un’occhiata a questi scritti – sarà indubbiamente colpito dalla loro straordinaria attualità, considerando la loro età”10. È un implicito consiglio, possiamo dire, come leggere anche il suo Saggio. Inoltre, penso che il Saggio, proprio per la sua età, abbia assunto un valore aggiunto per il fatto che l’approccio culturalista al problema della comprensione dell’altro si rivela sempre più attuale, adeguato e, a livello applicativo, sempre più urgente. “I futuri conflitti scoppieranno per causa di fattori culturali piuttosto che per quelli economici o ideologici”11, ebbe a dire Jacques Delors. Proponendo il Saggio in una nuova versione, italiana, si coglie anche l’opportunità per rendere omaggio al suo autore in occasione del cinquantesimo anniversario della sua scomparsa avvenuta il 23 marzo del 1958.

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NOTE

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S. Andreski, Maxa Webera ols–nienia e pomy∏ki, PWN, Warszawa 1992, p. 12 (ed. orig.: Max Weber’s Insights and Errors, Andre Deutsch, London 1972). 2 F. Znaniecki, Studia nad antagonizmem do obcych, «PrzeglaÇd Socjologiczny» 1930/1931, vol. I, n. 2-4, pp. 158209. 3 The Humanistic Sociology of Florian Znaniecki. Polish Period 1920-1939, edited by A. Kwilecki and B. Czarnocki, PWN, Warszawa-Poznan– 1989, pp. 172-193. 4 F. Znaniecki, Wspó∏czesne narody, (ed. orig.: Modern Nationalities. A Sociological Study of How Nationalities Evolve, University of Illinois Press, Urbana 1952), trad. di Z. Dulczewski, Introduzione di J. Szacki, PWN, Warszawa 1990, pp. 265-358. 5 F. Znaniecki, WsteÇp do socjologii, (Poznan– 1922), PWN, Warszawa 1988, pp. 25-26, 60, 195, 369. 6 R. Kapus–cin–ski, L’altro, Feltrinelli, Milano 2007, pp. 29-30. 7 Cfr. S. Tabboni, a cura di, Vicinanza e lontananza, Franco Angeli, Milano 1986. 8 Cfr. M. Walzer, Thick and Thin: Moral Argument at Home and Abroad, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1994, pp. 1-11. 9 Znaniecki, Wspó∏czesne narody, cit., pp. 208-210. 10 Z. Bauman, Florian Znaniecki, nasz wspó∏czesny, in: Teoria socjologiczna Floriana Znanieckiego a wyzwania XXI wieku, a cura di E. Ha∏as, TN KUL, Lublin 1999, pp. 100-110. 11 J. Delors, Questions Conscerning European Security, un intervento all’Istituto Internazionale degli Studi Strategici di Bruxelles, 10 settembre 1993.

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I Un sociologo che oggi si accinge ad affrontare una problematica, a ben indagare nella letteratura di genere, si convincerà inevitabilmente che quella problematica è stata già affrontata, se non da sociologi di professione, da etnologi, storici, filosofi, moralisti, psicologi popolari, politici, talvolta (e niente affatto male) da romanzieri e drammaturghi. Fra i risultati di tali indagini ne troverà sempre di convincenti e addirittura di manifestamente ovvi all’apparenza. Di primo acchito accade sovente che egli non veda ragione né possibilità di aggiungere nulla di sostanzialmente nuovo a tali risultati. Sembra che quasi tutto ciò che è degno di essere detto sia stato già detto e che gli sia rimasta solo la possibilità di “esprimere meglio ciò che è stato già espresso”. Tale impressione è rafforzata dalla lettura delle attuali ricerche sociologiche, una parte consistente delle quali enuncia ciò che è stato già enunciato, ma in modo peggiore. Si scoprono continuamente fatti nuovi, ma raramente accade che si scoprano nuove verità generali1. 1 Un compito molto gratificante per lo studioso sociale sarebbe la raccolta e la sistematizzazione critica dei risultati più importanti della riflessione sociologica; risparmie-

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Saggio sull’antagonismo sociale

Tuttavia, da una lettura critica del nostro patrimonio sociologico dal punto di vista dei criteri dell’induzione scientifica risulta che il suo valore cognitivo è molto minore di quanto non fossimo disposti ad affermare all’inizio. È vero che il suo livello è un po’ più alto per quanto riguarda la cautela posta nella scelta dei fatti e nella loro generalizzazione rispetto al livello pragmatico e sociale del sapere corrente, che si esprime nelle regole di vita del “comune buonsenso”, nei proverbi, nei consigli, negli insegnamenti e via dicendo, ma il tipo logico è rimasto lo stesso. L’affermazione generale induttiva della vecchia sociologia non pretende di essere assolutamente esatta e totalmente valida; si tratta di una generalizzazione empirica “ravvicinata”, che ha la pretesa di essere importante solo per la maggior parte dei fatti di una certa classe, non per tutti i fatti di quella classe senza eccezioni. In verità, i sociologi, per quanto possibile sia, hanno cercato di poggiare i propri enunciati sulla deduzione di presupposti mutuati da altre discipline2, ma in realtà la dimostrazione induttiva, puramente sociologica, si è limitata ad enumerare quanto più fatti che si accordino con la data affermazione. I fatti contrari sono stati omessi o considerati da studiosi scrupolosi come delle eccezioni, non fittizi, vale a dire quelli che vengono spiegati con una combinazione di una valida regola gerebbe molto lavoro ai futuri studiosi, condurrebbe gli sforzi scientifici alla ricerca di nuove strade ed eviterebbe l’ennesima “scoperta dell’America” da parte di sociologi che ignorano la storia della cultura intellettuale. 2 Cfr. sulla deduzione di Franklin H. Giddings, The Principles of Sociology, New York 1896.

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nerale con un’altra regola generale, ma reali e cioè interpretabili ogni volta con un’altra coincidenza casuale e concreta. I principi della Sociologia di Spencer, The Origin and Development of the Moral Ideas di Westermarck, Science of Society, la recente grande opera di Sumner e Keller sono tutti esempi classici di opere basate su questo tipo di generalizzazioni. Nell’odierna sociologia sono state avanzate pretese di eccellenza scientifica e cresce l’insoddisfazione dell’antica imprecisione ed arbitrarietà. Si levano numerose voci sulla necessità di rivedere tutti i risultati finora conseguiti, di una nuova ed accurata revisione di tutte le problematiche affrontate in molto assai superficiale. Tentativi riusciti di revisione se ne contano a centinaia, forse a migliaia, specie negli Stati Uniti. Sfortunatamente però la strada intrapresa dai più zelanti revisionisti conduce invero in avanti ma non molto lontano; le possibilità di sviluppo che crea sono troppo irrisorie se raffrontate alla fatica che esse comportano. In generale essa consiste nell’attribuire alle generalizzazioni empiriche del vecchio tipo una più oggettiva certezza e nel definire il grado della loro approssimazione. Con il vecchio metodo di calcolo dei fatti era possibile dimostrare con certezza solo che “alcune S sono P”. Affermando che “quasi tutte le S sono P” o finanche che “la maggioranza delle S sono P”, il sociologo, in fin dei conti, non faceva altro che avanzare un’ipotesi che non ha dimostrato come dovrebbe. Infatti una siffatta ipotesi può essere dimostrata solo statisticamente, contando le S che sono P e le S che non sono P, confrontando queste due quantità o nella classe S o in un “campione” opportunamente scelto di 25

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questa classe. Così facendo si ottiene non solo la dimostrazione dell’ipotesi secondo la quale la maggioranza di S sono P, ma si può al contempo definire con esattezza questa maggioranza ed inoltre quanto l’affermazione: “la maggioranza di S sono P” si avvicini all’affermazione: “tutte le S sono P”. Qui si fermano i passi in avanti. Pur non volendo negare che l’affermazione induttiva “n% di S è P” possa risultare assai utile nella prassi (ad esempio in pedagogia, in criminologia e in politica), ritengo tuttavia che il suo valore cognitivo non sia da paragonare affatto al valore induttivo di un’affermazione applicabile a tutti gli oggetti di una data classe, questo perché rimane teoricamente sterile e non conduce a nuove scoperte. Si fanno nuove scoperte allorquando si accerta un conflitto fra una verità generale accettata e un singolo fatto, al quale essa va applicata. Ebbene, in questo caso tale conflitto è escluso, perché la singola S può essere P e non esserlo, non scomodando alcuna problematica in nessuno dei due casi. La revisione delle vecchie affermazioni generali della sociologia deve quindi imboccare, a mio avviso, un’altra direzione, cercando di eliminare questo tipo logico che la sociologia del secolo scorso [del XIX sec.] ha fatto proprio da una riflessione praticosociale e che l’odierna statistica continua a sostenere. Davanti ad ogni generalizzazione empirica dovremmo analizzare comparativamente fatti convergenti e fatti divergenti con essa, per sostituire le affermazioni del tipo “la maggioranza di S è P” non con l’affermazione “n% S è P”, ma con due o più affermazioni del tipo: “tutte le S che sono A, sono P”, 26

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“tutte le S che sono B, sono Q”, “tutte le S che sono C, sono R” (oppure: se S è A, S è P, se S è B, S è Q, se S è C, è R) e così via fino all’eventuale esaurimento di tutte le varianti S. La misurazione e il conto hanno una propria collocazione solo laddove dei tratti caratteristici A, B, C…P, Q, R… sono quantitativamente mutevoli e misurabili; quindi devono servire all’identificazione numerica non dell’ambito, ma del contenuto dei concetti sociologici. Ciò richiede, ovviamente, un approccio più specifico rispetto a quello passato, ma facilita la verifica delle ipotesi. *** Mi sono permesso di esordire con queste osservazioni generali per giustificare perché mi occupo di una questione tanto dibattuta, apparentemente così povera di interrogativi come l’antagonismo verso gli estranei, ed anche per spiegare i presupposti metodologici con cui intendo affrontare tale questione. Nella vita sociale pratica ci si interroga sulla questione dell’antagonismo verso gli estranei da migliaia di anni – specie da parte di chi è oggetto dell’altrui antagonismo nonché di coloro che hanno cercato per scopi politici di sobillare o sopire gli antagonismi fra i gruppi sui quali hanno agito. Gli storici e gli etnologi hanno descritto questo fenomeno centinaia di volte. Fra le teorie sociologiche la più importante per la sua influenza è la teoria di Gumplowicz, variamente integrata e modificata. Di tutte le integrazioni e modifiche rimane tuttavia un nucleo comune che oggi appartiene al patrimonio popolare della sociologia e si trova in quasi tutti i manuali. 27

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Saggio sull’antagonismo sociale

Questo nucleo comune si può descrivere brevemente. Gli uomini si dividono in individui oggettivamente differenziati, più o meno chiusi in collettività (comunemente si usa il termine “gruppo”, secondo Gumplowicz, o “società”; entrambi i termini sono tuttavia, riteniamo, troppo limitanti per la questione che ci interessa). Coloro che non appartengono alla collettività sono “estranei” in relazione a coloro che vi appartengono; per converso chi vi appartiene è dei “nostri” in relazione reciproca. Nei confronti degli estranei la collettività e i singoli partecipanti, che definiamo “membri”, sono inclini a comportamenti antagonistici, per converso sono favorevoli, ossia solidali, nei confronti dei nostri. Fra l’antagonismo verso gli estranei e la solidarietà verso i nostri intercorre un rapporto semplice. L’antagonismo verso gli estranei è più forte fra i popoli di livello culturale semplice che fra quelli di livello complesso. Le differenze fra i sociologi risaltano nelle tesi secondarie. Sicché lo stesso Gumplowicz spiega l’antagonismo verso gli estranei con l’istinto di autoconservazione, che scaturisce dalla lotta per l’esistenza; lotta che nell’uomo, specie agli inizi, avviene fra gruppi piuttosto che fra individui. Pertanto ogni gruppo si rapporta in modo antagonista verso altri gruppi, i cui membri sono “estranei”. A ciò corrisponde l’unità del gruppo originario, il legame che salda gli individui collegati alla stessa “cerchia singenetica”, uniti dalla stessa provenienza e che sentono questo legame. Il fatto che la comune provenienza si esprima nella somiglianza razziale e la diversa provenienza in diversità razziale fa sì che l’antagonismo primario ha luogo fra gruppi etnici ed è tanto più 28

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forte quanto maggiore è la differenza razziale. Ad un livello superiore il luogo di provenienza come fattore unificatore in parte è sostituito dalla cultura e dal legame di interessi. All’antagonismo razziale se ne aggiungono quindi altri3. Per Gumplowicz, dunque, la solidarietà verso i propri e l’antagonismo verso gli estranei sono primordiali e coordinati, sebbene l’antagonismo abbia un ruolo di gran lunga maggiore (poiché i più importanti processi sociali sono quelli fra gruppi). Per Ratzenhofer invece quest’antagonismo è il presupposto fondamentale della sua teoria sociologica; la solidarietà di gruppo è un fenomeno secondario e derivato4. Egli avanza la tesi dell’ostilità primaria e sostanziale che caratterizza il comportamento di tutti gli esseri che vivono in un rapporto di reciprocità. Nell’uomo e all’interno del gruppo questa ostilità non scompare, ma è frenata per cooperare nella lotta contro il comune nemico. La solidarietà di gruppo quindi si rafforza nell’unilaterale dipendenza dal crescente antagonismo verso gli estranei, si indebolisce o scompare allorché viene a mancare l’oggetto dell’antagonismo. Di parere opposto è Giddings che considera come fattore sociale fondamentale la solidarietà basata 3

Vedi Ludwik Gumplowicz, Der Rassenkampf, Innsbruck 1882; System socjologii, Warszawa 1887. Vedi altresì Franciszek Mirek, System socjologiczny Ludwika Gumplowicza [Il sistema sociologico di Ludwik Gumplowicz], Poznan– 1930. 4 Gustav Ratzenhofer, Wesen und Zweck der Politik, Leipzig 1893, t. 1.

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Saggio sull’antagonismo sociale

sulla “coscienza di genere” (consciousness of kind), che scaturisce dalla constatazione della somiglianza degli altri a se stessi. L’antagonismo verso gli estranei nasce in una collettività già unita da questa solidarietà nei confronti di coloro che non vi appartengono, causato dalla reazione negativa innescata dalla constatazione delle differenze del comportamento degli estranei rispetto al proprio. È sostanzialmente della stessa opinione Le Bon, per il quale la fonte primaria di antagonismo fra gruppi non sono i fattori utilitaristici, ma il fatto che gli uomini con un differente patrimonio culturale reagiscono in modo opposto ai medesimi fenomeni5. Sulla base di un cospicuo materiale etnografico sulla vita delle società arcaiche, Sumner e il suo discepolo Keller6 sviluppano la teoria di Gumplowicz. La distinzione fra “gruppo interno” (in-group) e “gruppo esterno” (out-group) è la base del dualismo di tutti gli atteggiamenti, i giudizi e persino il modo di concepire gli uomini. “L’ostilità fra i gruppi poggia sull’affermazione delle differenze”7, ma la ragione decisiva delle sue manifestazioni principali è la lotta per l’esistenza. La società è soprattutto un’organizzazione di convivenza materiale e i conflitti fra le diverse società hanno per lo più una base utilitaristica8. 5

Gustave Le Bon, Eisegnements psychologiques de la guerre europénne, Paris 1916. 6 William G. Sumner, Folkways, New York 1906; William G. Sumner, Albert G. Keller, Science of Society, New Haven 1927-1929, t. 1-4. 7 Sumner, Keller, Science of Society, New Haven 1927, t. 1, p. 357. 8 Ivi, p. 360 e sgg.

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L’assoluta antitesi concettuale, ormai consolidata nella letteratura, dell’antagonismo verso gli estranei e la solidarietà verso i propri è accettata da Bogardus nei suoi studi sulla distanza sociale ed anche da von Wiese nella fondamentale suddivisione dei “condizionamenti” (beziehungen) umani fra aggreganti e disgreganti; entrambi cercano di esprimere la differenziazione empirica dei fenomeni ai quali si riferiscono i concetti di antagonismo e ??solidarietà, introducendo una gradualità quantitativa. Per Bogardus i gradi di distanza sono al contempo gradi di estraneità e antagonismo all’opposto dei gradi di vicinanza, affinità e solidarietà, in una scala che va dalla maggiore lontananza, estraneità e ostilità alla maggiore vicinanza, affinità e solidarietà, con lo zero che indica l’indifferenza9. Wiese considera l’assoluta estraneità di gruppo, alla quale – secondo Ratzenhofer – ai livelli inferiori si associa “l’assoluta ostilità” verso il gruppo estraneo, come un polo negativo da cui inizia un processo di avvicinamento, ossia di associazione, il cui polo opposto è l’unione nella collaborazione10. Non riteniamo qui di poter esaurire la storia del 9 Vedi ad es. Emory Bogardus, Social Distance and Its Origins, «Journal of Applied Sociology» 1925. 10 Leopold von Wiese, Allgemeine Soziologie, München 1924, t. 1, p. 130 e sgg. Analizzando però il processo inverso, “Lösungs-und Absonderungsvorgang”, von Wiese pare ammettere l’estraneità senza ostilità come uno dei suoi limiti. Tale processo, a suo parere, «non deve avere un significato ostile; il risultato della dissociazione può essere l’ostilità e non necessariamente la lotta» (p. 180).

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Saggio sull’antagonismo sociale

concetto di antagonismo verso gli estranei11; ne abbiamo accennato alcune concezioni storicamente importanti per dare un quadro degli approcci tradizionali a questa problematica. È una questione tipica delle scienze naturali, dominante in psicologia e traslata in campo sociologico nella cosiddetta psicologia sociale. Qui si prende in considerazione: 1) l’individuo biopsichico a o la collettività A di individui (oppure - in alcune teorie - il gruppo o la società come un’entità biopsichica sovraindividuale), così come li osserva ed interpreta l’osservatore; 2) una certa classe di soggetti M, indicata dall’osservatore sul criterio delle caratteristiche dei dati per lui oggettivi; in questo caso è una classe di uomini che si presentano all’osservatore come “estranei” nei confronti dell’individuo a o della collettività A. Il problema psicologico è constatare prima l’esistenza di una reazione di un dato individuo o collettività agli stimoli, che sono in ogni caso (a seconda della scuola psicologica) come incontro biopsichico di quell’individuo o quella collettività con soggetti della classe M; solo dopo, effettuando l’accostamento comparativo di quelle reazioni, si ha il raggiungimento di generalizzazioni espresse in termini come “indole”, “inclinazione”, “impulso”, “passione”, “sentimento”, “istinto”, ”reazioni incondizionate” e via dicendo. Nel nostro caso la diffusa teoria dell’antagonismo verso gli estranei implica che le reazioni delle collettività di uomini e degli individui 11 Molti contributi a tale concetto si possono trovare innanzitutto negli studi sulla guerra e sulle avversità cosiddette razziali.

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che ne fanno parte, al contatto con gli uomini che in ragione di certe caratteristiche obiettive sono estranei a queste collettività e questi individui, si prestano (seppure con qualche eccezione) ad essere definite antagoniste. Ebbene, tale impostazione del problema non può sortire risultati scientifici, generalmente parlando, migliori di quelli che abbiamo descritto all’inizio del presente studio. Ne dimostreremo i limiti, cercando al contempo di sostituirla con un’altra per giungere a conclusioni importanti in tutto l’ambito della sua applicabilità. A tal scopo dobbiamo scomporre la questione. Innanzitutto mettiamo in dubbio ciò che per la problematica bio-psichica è ovvio, ossia l’esistenza stessa di una qualsiasi proprietà definibile dallo studioso come obiettiva, quella che sempre e comunque porta a indicare come “estraneo” un dato individuo. Ribadiamo “un dato individuo”, non una collettività, per semplificare la questione; poiché, se definire una classe di “estranei” è possibile, è più facile farlo con l’individuo anziché con la collettività, che non sempre è omogenea e compatta. I criteri e al contempo le ragioni dell’estraneità riscontrate nella letteratura sociologica si possono compendiare in due fondamentali. Per estranei nei confronti di un individuo si intendono, per i sociologi, o coloro che non hanno alcun legame sociale con lui, o quelli che si differenziano da lui stesso in modo significativo; la prima ragione si associa spesso alla seconda. Entrambi i criteri li abbiamo incontrati riassumendo le idee formulate dai sociologi, applicate singolarmente o insieme. La mancanza di un legame sociale con un dato individuo, come tratto 33

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Saggio sull’antagonismo sociale

caratteristico fondamentale degli estranei, è diversa a seconda di cosa intendiamo per legame sociale. Se lo intendiamo come comune appartenenza ad un gruppo – più o meno differenziato esattamente come insieme chiuso e compatto nell’azione collettiva – o solo, come in ogni collettività a larghe maglie, l’accomunamento scaturito da una convivenza più o meno stretta di individui o piccoli gruppi e collettività. Nel primo caso, gli estranei sono i non-membri, al contrario dei propri che sono membri del gruppo; nel secondo, sono quelli con cui il dato individuo è venuto in contatto poco o affatto, gli “sconosciuti”, in contrapposizione a coloro con i quali sono legati da frequenti e stretti contatti e relazioni, ossia i “conoscenti” e gli “amici”. Non è difficile dimostrare che la mancanza di una comune appartenenza di gruppo non può essere il fattore da cui sempre e ovunque scaturisce l’estraneità; solo l’abitudine a trattare in senso lato le problematiche sociologiche e ad accontentarsi di soluzioni generiche, “approssimative” spiega la popolarità di questo criterio. È vero che nelle società caratterizzate da un basso livello di sviluppo la sua infondatezza risalta di meno e i sociologi del resto si sono occupati fino a poco tempo fa di antagonismo verso gli estranei per l’appunto nelle società primitive. Prendiamo l’esempio della tribù indiana Seri, descritta da McGee – caso del resto analizzato da Maxweiler e Sumner12. Essa abita in un’isola dell’Oceano Pacifico non lontano dalla costa della California. Da 12

Vedi Émile Waxweiler, Esquisse d’une sociologie, Bruxelles 1906; Sumner, Keller, op. cit.

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parecchie generazioni non ha alcun rapporto sociale, durevole e normale, con altre tribù. È facile dire qui che tutti coloro che non appartengono alla tribù sono nei loro confronti assolutamente “estranei” e si rapportano a tutti i componenti della propria tribù come “nostri”. Inoltre, un’ostilità tanto marcata, come quella dei Seri nei confronti degli “estranei”, calzerebbe a pennello per illustrare in modo classico il concetto tradizionale di antagonismo, se non fosse per un particolare (al quale peraltro torneremo più avanti), e cioè che il loro antagonismo, almeno al tempo degli studi di McGee, era maggiore nei confronti degli indiani che verso i bianchi. Di esempi simili, seppure non così eclatanti, se ne possono fare a centinaia, laddove fra i membri di una tribù e il resto del mondo si può tracciare una linea di demarcazione netta ed i membri e non-membri non sono legati da alcun vincolo di comune appartenenza di gruppo. A livelli più alti di sviluppo sociale situazioni analoghe si riscontrano più raramente; accade tuttavia che una nazione organizzata come Stato si differenzia dal mondo esterno sotto ogni aspetto per il quale è in grado di distaccarsi: a livello genetico, territoriale, culturale e religioso. Illustrano questo fenomeno sia il caso dell’antico Egitto prima dell’espansione imperialista sia quello del Giappone prima del buddismo. Tuttavia, anche in esempi del genere, in cui è relativamente più facile associare l’estraneità alla mancanza di una comune appartenenza di gruppo, sorgono difficoltà. Già nell’ambito di una precisa tribù esistono infatti gruppi minori – famiglie, lignaggi, fratrie, società segrete. Applicando la norma per la 35

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Saggio sull’antagonismo sociale

quale l’estraneità è il risultato della mancata appartenenza allo stesso gruppo, dobbiamo ritenere i non appartenenti alla famiglia come “estranei” nei confronti dei membri della famiglia, i non appartenenti al lignaggio come “estranei” nei confronti dei membri del lignaggio, e così via, sebbene come membri della stessa tribù siano “nostri”. La soluzione ad alcune di queste difficoltà è data in apparenza dalla gradualità dell’estraneità, a cui fa da contraltare l’opposta gradualità della familiarità. Sicché coloro che non appartengono né ad un lignaggio, né ad una fratria, ma appartengono alla tribù (ad un’altra fratria), costoro sono più estranei di quelli che non appartengono solo al lignaggio, ma alla fratria; e per converso gli appartenenti sia alla tribù, che alla fratria e al lignaggio, sono più affini degli appartenenti alla tribù e alla fratria ma non al lignaggio, costoro sono invece più affini degli appartenenti solo alla tribù ma non alla fratria né tanto meno al lignaggio. Ci sono tuttavia casi in cui la gradualità risulta inadeguata. Chi è più estraneo – il membro del lignaggio che non appartiene alla famiglia o il membro della famiglia che non appartiene al lignaggio? Per dirimere una volta per tutte la questione in modo univoco, bisogna o ritenere, seguendo Malinowski13, la famiglia come gruppo primario e il lignaggio come struttura secondaria, oppure, come molti etno13 Vedi lo studio di Bronis∏aw Malinowski, Zagadnienie pokrewien–stwa w s–wiecie najnowszych badan– [La questione della parantela alla luce degli studi recenti], «PrzeglaÇd Socjologiczny», 1931, n. 1, pp. 17-31.

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logi e sociologi del passato, considerare la famiglia come il frutto del sistema del lignaggio. E cosa si dirà delle strutture più complesse? Prendiamo l’esempio della società statal-nazionale dell’Egitto, chi potrà stabilire il grado di “estraneità” causato dalla non-appartenenza alla stessa casta, se paragonato alla non-appartenenza alla stessa città o provincia con il proprio centro di culto religioso? Quindi, anche se accettassimo che il massimo grado di estraneità si può indicare con precisione in base alla mancanza di appartenenza di gruppo di qualsiasi genere, stabilire i gradi più bassi sarebbe a volte impossibile. Nelle società moderne è peraltro impossibile stabilire anche il grado di antagonismo più alto, poiché nell’intreccio ancora più composito di gruppi grandi e piccoli di ogni genere si possono trovare nel mondo quasi per ogni individuo uomini a cui questi non è legato da alcuna appartenenza di gruppo, ciononostante questi uomini non sarebbero gli stessi per tutti gli individui appartenenti a questo o quel gruppo, quindi la contrapposizione fra “nostri” e “estranei” non avrebbe alcun significato. Accade raramente che le suddivisioni statali e nazionali coincidano; gruppi che sono in grandi linee distinti per l’appartenenza statale e nazionale, possono contare fra loro dei membri che appartengono alla stessa Chiesa, o alla stessa classe sociale, seppur in senso lato; di solito, specie per le società confinanti, si tratta di membri di famiglie che sono formate da matrimoni misti e così via. Nell’ambito invece dei membri, di ognuno di loro separatamente, esistono tante suddivisioni minori, le più svariate – territoriali, di ceto, intellet37

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Saggio sull’antagonismo sociale

tuali, economiche, associative e via dicendo – che non è assolutamente possibile fissare in modo razionale una linea di demarcazione e il grado di antagonismo di nessun genere sulla base dell’appartenenza di gruppo. Non vogliamo affatto affermare che la distinzione fra membri e non-membri, fattore imprescindibile dell’esistenza di un gruppo, non sia importante; tutt’altro, forse è il fattore di primaria importanza nella contrapposizione “nostri” e “estranei”. Vogliamo solo affermare che in molti casi non c’è modo di scoprire come quel fattore influenzi di fatto la configurazione di tale contrapposizione, se non facciamo riferimento alle esperienze di quegli individui (o collettività) il cui atteggiamento verso gli estranei intendiamo studiare. Non sempre si può dire se certe persone sono estranee o non nei confronti di un dato individuo, basandoci sul fatto obiettivo della sua appartenenza o non-appartenenza al gruppo di cui egli fa parte. Il più delle volte dobbiamo capire se il tale individuo, che interagisce con quelle persone (singolarmente o insieme ad altri membri del gruppo), le ritiene come familiari o estranee. In questo caso il problema del ruolo che ha la mancata appartenenza allo stesso gruppo nella contrapposizione fra “nostri” e “estranei”, si presenta in modo del tutto diverso: anziché chiedersi “quali gruppi di non-membri sono estranei nei confronti dell’individuo a”, ci chiederemo, “perché l’individuo a tratta talvolta i non-membri di certi gruppi da estranei?”. Prendiamo in considerazione l’ipotesi, più frequente nella riflessione sociologica corrente che nella sociologia scientifica, secondo la quale l’estraneità 38

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è il risultato della mancanza di contatto sociale fra gli uomini14. Poiché il contatto fra l’individuo a e gli altri individui b, c, d, ecc. può differenziare per frequenza o importanza, dunque anche l’estraneità dovrebbe, se prendiamo per buona questa ipotesi, essere tarata. Individui estranei al massimo grado nei confronti dell’individuo a sarebbero quelli con cui non ha mai avuto contatti15, meno estranei quelli con cui ha avuto contatti, ma rari e indiretti e così via; l’estraneità gradualmente diventerebbe familiarità, non essendo chiaro tuttavia quale ruolo avrebbe in questo caso la frequenza e l’importanza del contatto. Il contenuto di questo criterio naturalmente differisce in modo significativo a seconda di ciò che si 14 Robert E. Park e Ernest W. Burgess nel Wprowadzenie do nauki socjologii ([ed. polacca di Introduction to the Science of Sociology, Chicago 1921] trad. di Elzbieta Juraszówna, Janina Hinzowa, Henryk Jas–kiewicz, a cura di Florian Znaniecki, Poznan– 1926, vol. 1, cap. 5) sembra che identifichino l’estraneità e la familiarità con la distanza e la vicinanza sociale, le quali a loro volta dipendono dal contatto spaziale, classificandole secondo il grado implicito della vicinanza. 15 Simmel nella sua analisi sociologica della funzione dello straniero, il cui frammento Park e Burgess riportano nel già menzionato capitolo [cfr. ed. italiana G. Simmel, Escursus sullo straniero, in idem, Sociologia, a cura di A. Cavalli, Comunità, Milano 1989, pp. 504-512], afferma che un certo, minimo contatto spaziale è necessario per considerare un individuo come estraneo. Egli analizza però l’estraneità non come un insieme di proprietà di soggetti sociali ma come un rapporto codificato verso l’estraneo.

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Saggio sull’antagonismo sociale

intende per contatto sociale. O si ritiene che il contatto ha luogo a prescindere dalla consapevolezza che gli individui in questione hanno e sanno gli uni degli altri oppure no; è sufficiente che le conseguenze remote e prossime dell’agire di un individuo influenzino in qualche modo l’altro. Oppure si limita questo concetto a quei fatti in cui almeno una delle due parti è consapevole del contatto e quindi la controparte è da questa riconosciuta, immaginata o solo concettualmente definita come componente di una classe logica. Cercheremo di dare una definizione più precisa di contatto sociale. Per il momento constatiamo soltanto che in base al primo concetto di contatto sociale non è possibile distinguere i nostri dagli estranei né formulare una gradazione di qualsiasi sorta di estraneità; questo perché l’influenza esercitata dalle conseguenze dell’azione di ogni uomo sugli altri uomini è tanto diversa e complessa che non c’è modo di riconoscere e stilare regole di contatti così intesi fra il dato individuo e un qualunque altro suo simile. Né la distanza spaziale né le difficoltà di comprensione dovute alle differenze linguistiche, né un’evidente divergenza di interessi né alcun altro fattore, correntemente considerato di ostacolo per la formazione di gruppi umani, possono essere da questa prospettiva un criterio di estraneità, poiché, specie nell’odierno panorama culturale, una fitta rete di influenze reciproche avviluppa tutta l’umanità. Contadini cinesi delle piantagioni di tè16 interagiscono con i marinai di un vascello inglese, con gli operai di un porto tedesco, con un gros16

Da Park e Burgess, op. cit.

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sista polacco e con un gruppo di ospiti che beve il tè nella casa di un ospitale impiegato in uno sperduto paesino. Bisogna dunque formulare in modo più preciso l’ipotesi che reputa l’estraneità il risultato della mancanza di contatto sociale, limitando il concetto al contatto consapevole, almeno da una delle due parti. Così facendo però ci imbattiamo in un’altra difficoltà. In molti casi, quando affermiamo che un dato individuo a ha avuto contatti nulli o sporadici con un individuo di b o c, non sappiamo se il fatto in sé non sia già il risultato di una estraneità preesistente di b o c nei confronti di a. Ci sono infatti numerosi dati che dimostrano quanto spesso la collettività umana, organizzata in gruppi o no, intenzionalmente e conseguentemente, evita ogni contatto cosciente con il resto del mondo; non vi è dubbio che per molti, se non per tutti gli individui di data collettività, questo “resto” del mondo è composto principalmente da individui relativamente “estranei”. Ricorderemo qui solo gli esempi raccolti da Krzywicki17 delle fasce neutrali fra tribù confinanti formatesi per il reciproco desiderio di isolamento o, nelle società più complesse, l’analoga tendenza della Cina del XVIII e XIX secolo. Le sole notizie sugli estranei possono persino risultare sgradite o quanto meno non degne di attenzione; gli estranei rimangono totalmente sconosciuti proprio perché estranei. Sum17

Ludwik Krzywicki, Ustroje spo∏eczno-gospodarcze w okresie dzikos–ci i barbarzyn–stwa [I sistemi socio-economici nel periodo dello stato selvaggio e della barbarie], Warszawa 1914.

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Saggio sull’antagonismo sociale

ner e Keller citano le osservazioni di un viaggiatore americano del recente passato: “I cinesi sconoscevano del tutto la geografia del nostro paese. Noi eravamo i barbari. Venivamo da un qualche povero villaggio della nostra piccola tribù al di fuori della civiltà – poiché la civiltà esisteva solo nel paese dell’Imperatore Celeste. Tutto il resto del mondo (un eventuale misero resto) era un luogo abitato da barbari, non da uomini”18. È vero che si può tentare di aggirare questo ostacolo, supponendo che l’isolamento volontario è in questi casi come una sorta di retaggio di un isolamento di fatto; poiché una data collettività non ha avuto contatti con il resto del mondo, ne consegue pertanto che questo resto del mondo è nei confronti di quella “estranea”, e in quanto tale, si tende a evitare ogni possibile contatto. Non c’è modo di smentire il fatto per cui la mancanza di contatti era la causa di ulteriore elusione di contatti, ma non lo è sempre e comunque. Gli europei e gli americani in alcune circostanze evitano contatti con persone sconosciute, in altre circostanze invece li cercano, desiderano rompere l’isolamento, come dimostrano i viaggi, le missioni, lo sviluppo dei nuovi mezzi tecnici e simbolici di vario genere che servono all’incontro e alla comprensione. Per converso, sia fra le popolazioni semplici e talvolta fra quelle complesse, evitare i contatti può essere la conseguenza di precedenti contatti e non la loro mancanza. Prendiamo il caso, anche questo tratto dalla ricca documentazione raccolta da Sumner 18

Sumner, Keller, op. cit., t. 1, p. 285.

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e Keller, degli Akamba, dove il distacco intenzionale è il risultato di antiche lotte che oggi sotto i governi europei non è più possibile continuare. “Villaggi che per 15 o 20 anni sono stati acerrimi nemici hanno difficoltà a vivere in armonia […]. Popolazioni indigene confinanti rimangono totalmente estranee le une alle altre […]. A dispetto del governo e dell’ordine istituito, gli Akamba di Kitui [in Kenya – N.d.C.] vivono nel più assoluto isolamento, indifferenti alle sorti della maggior parte dei loro vicini, rifiutando categoricamente qualsiasi impresa comune”19. L’antisemitismo, sotto forma di attitudine ad evitare contatti con gli ebrei, è spesso più accentuato fra i popoli che hanno avuto frequenti contatti con loro in passato, come gli spagnoli, e meno fra quelli che ne hanno avuto di sporadici, come gli inglesi; sebbene, d’altro canto, non c’è dubbio che nelle condizioni di convivenza che tuttora costringono a frequenti contatti, l’attitudine ad estraniarsi dagli ebrei decresce, come dimostrerebbe il caso della Piccola Polonia nei confronti della Grande Polonia [le regioni storiche della Polonia – N.d.C.]. Per affermare quindi qual è il ruolo della mancanza di contatti nella distinzione fra nostri e estranei non è sufficiente conoscere i fatti, coscienti o inconsci, dell’avvenuto contatto o della mancanza di esso fra date persone; bisogna fare riferimento alle esperienze ed alle attività attuali di queste persone, stabilire chi, quando e perché essi ritengono estranei alcuni individui fra quelli con cui hanno avuto contatti e fra quelli con cui non ne hanno avuto. 19

Ivi, p. 359.

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Saggio sull’antagonismo sociale

La diversità come fattore basilare dell’estraneità è considerata un complemento della mancanza di appartenenza di gruppo, come si è visto, in Gumplowicz e Sumner; base principale è per Giddings e Le Bon. Se si affronta la questione in modo superficiale risulta difficile del resto rendersi conto del se e quando la diversità sia ritenuta la causa dell’estraneità, o piuttosto il fatto in sé di riscontrarla in uomini la cui estraneità ha un’altra ragione (ad esempio, la mancanza di contatti o la non appartenenza allo stesso gruppo) è ritenuto fonte di antagonismo verso quegli uomini comunque “estranei”. A noi ora preme solo la prima opzione, poiché non possiamo impostare correttamente la questione dell’antagonismo verso gli estranei, fintantoché non sappiamo chi sono gli “estranei”. Ebbene, assumendo l’ipotesi secondo cui gli “estranei” nei confronti di date persone sono quelli che si differiscono da loro biologicamente e culturalmente, dobbiamo anche accettare, come con gli altri criteri, che esiste una gradazione di estraneità che dipende dalla gradazione delle differenze. Poiché non esistono comunità di uomini (né tanto meno individui) che non differiscono gli uni dagli altri, se accettassimo questo criterio senza gradazione risulterebbe che tutti sono estranei nei confronti di tutti; e per converso, se la somiglianza è un criterio di “non-estraneità” e tutti gli uomini sono simili fra loro, dunque tutti sono “familiari” nei confronti di tutti. È evidente che si può conciliare tutto ciò presupponendo che la differenza e l’estraneità sono in rapporto semplice reciproco ma in rapporto opposto alla somiglianza e la familiarità. 44

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I fatti tuttavia dimostrano che tale ipotesi non si può accettare nemmeno in questa forma. Risulta infatti che le differenze e le somiglianze fra dati gruppi o individui non si riescono a capire né identificare in base al solo confronto obiettivo in modo tale da poter ritenere uno di questi gruppi come estraneo in qualche modo nei confronti dell’altro; introducendo invece l’elemento soggettivo si è costretti a riscontrare una vasta gamma di oscillazioni e inspiegabili eccezioni. Prendiamo ad esempio le differenze fra i bianchi di origine anglosassone e i neri d’America negli Stati Uniti. Ovviamente la differenza è soprattutto di razza, poi di status sociale, infine di livello medio di istruzione; tuttavia i contenuti culturali sono pressoché identici, perché i neri d’America condividono la cultura dei bianchi, non ne hanno una propria distinta, ad eccezione di certi anacronismi magici e qualche contributo originale nel campo dell’arte e della poesia popolare, nell’idioma e nel sistema sociale. Si può, sulla scia di queste differenze, definire generalmente e senza riserve i neri come “estranei” nei confronti dei bianchi? Naturalmente no, poiché in questo caso, come definiremmo quegli uomini che oltre alle suddette diversità aggiungono differenze di contenuti culturali tanto marcate, come gli immigrati cinesi, ed ancora uomini di diversa cultura, posizione ed istruzione, tuttavia poco diversi per razza, come gli immigrati polacchi o italiani, ed infine uomini con posizione e cultura simili, e livello di istruzione e razza che differiscono solo per appartenenza e coscienza nazionale, come gli inglesi? È necessario tenere a mente la diversità come condizione dell’estraneità, stabilire 45

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il grado di diversità fra i neri e gli americani bianchi in confronto ai gradi di diversità di queste altre categorie. Ma qualsiasi gradazione di oggettive differenze fra gli uomini è possibile solo laddove una categoria di uomini si differenzia da un’altra per le stesse caratteristiche di quell’altra categoria con l’aggiunta di altre caratteristiche. Questo stato di fatto però può essere solo prossimamente fattibile; ma spesso succede che non si realizza neanche. Non si possono ad esempio confrontare quantitativamente le oggettive differenze antropologico-razziali con le oggettive differenze nazional-culturali. Sicché al pari della questione dei contatti sociali, anche qui bisogna ricorrere ai parametri psicologici ed ammettere che non sono le differenze oggettive misurate, ma le differenze soggettive percepite a costituire la base dell’estraneità. Scopriremo allora che gli stessi uomini notano nelle stesse persone talvolta alcune caratteristiche talvolta altre, secondo le circostanze. Dall’esempio in questione risulta che talvolta sono assimilati ai neri i meticci che sostanzialmente non sono diversi da molti bianchi né per aspetto fisico, né per grado di istruzione, né per status. È nero chi è ritenuto tale in un dato ambiente, bianco chi è ritenuto bianco. Sicché un individuo che fra i bianchi è ritenuto bianco, nel momento in cui si scopre che ha sangue misto nero può immediatamente essere considerato nero, nonostante i suoi tratti personali non siano mutati né oggettivamente né nell’esperienza dei bianchi. Peraltro in certi casi differenze irrisorie sono percepite in modo differente dai bianchi rispetto a grandi differenze, in altri casi sono percepite allo stesso 46

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modo. Il bianco che evita contatti con neri incolti di una certa genia di puro sangue può stringere amicizia con un istruito oktawon [meticcio – N.d.C.], ma quando si tratta di accoglierlo nella propria casa o portarlo con sé al circolo, una piccola differenza può diventare importante quanto le differenze che lo separano dai neri comuni. Prima della guerra di secessione il proprietario di piantagioni viveva con i “suoi” neri in un rapporto di grande fiducia e reciproco interessamento; nel rapporto padrone-schiavo le somiglianze scaturite dalla lunga convivenza avevano un grosso peso e questa fiducia talvolta strideva con il trattamento distaccato, cerimonioso, persino un po’ ostile verso il mercante o l’imprenditore della Nuova Inghilterra o con lo sprezzante distacco dai “bianchi poveri” del vicino villaggio, dove ovviamente le differenze contavano molto. Ma quando, con l’abolizione della schiavitù, i neri diventarono più simili ai bianchi per status sociale e istruzione, la discendenza di quel proprietario di piantagioni che ancora apprezzava la servitù nera solidarizzò con gli altri bianchi del suo ceto, distretto o città, escludendo i neri dalla partecipazione alla vita politica della comunità e impedendo ogni contatto in ambito pubblico. Fino ad oggi negli stati del sud ai neri è vietato, fra le altre cose, frequentare le chiese e i teatri dei bianchi o viaggiare negli stessi vagoni ferroviari; personalmente sono stato testimone di una scenata che degli studenti del sud hanno fatto in un ristorante di Chicago ad uno studente mulatto solo perché voleva sedersi in un tavolo vicino. I matrimoni misti sono vietati in diciotto stati del Sud, ma i rapporti sessuali sono assai frequenti. Mentre i bianchi degli 47

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stati del Nord, i cui antenati lottarono per l’abolizione della schiavitù, non hanno leggi discriminatorie nei confronti dei neri; ciò malgrado evitano contatti più intimi con loro, non amano la servitù nera e molto più raramente rispetto ai sudisti hanno rapporti sessuali con individui “di colore”20. Diverso, più vicino a noi e più semplice è il motivo dell’analoga difficoltà che riscontriamo nella posizione degli abitanti della città di Poznan– verso i tedeschi da un canto e dall’altro verso i polacchi delle regioni occupate dalla Russia e dall’Austria21. Gli uni e gli altri, ragionando secondo il criterio delle differenze culturali, fino agli anni Venti del nostro secolo sono stati per certi versi “estranei” nei confronti di quella comunità. Dai tedeschi differivano soprattutto per la lingua, per alcuni costumi, tradizioni nazionali e aspirazioni patriottiche; dai polacchi provenienti da altre regioni – in parte per la cultura politica, economica, intellettuale ed estetica ed anche per alcune usanze. Naturalmente una “misurazione” grosso modo oggettiva di tali differenze e una conseguente definizione del grado di estraneità è impossibile. Se però vogliamo basarci sulla coscienza della diversità 20

Dati personalmente ottenuti da sociologi come William I. Thomas e Robert E. Park, che hanno osservato questo tipo di fenomeni, e dalla letteratura giornalistica. 21 I dati provengono dalla letteratura giornalistica e dall’Istituto Sociologico Polacco, Reparto I (Le risposte al questionario dell’indagine: “Cos’era e cos’è per te la città di Poznan–?”). Cfr. Florian Znaniecki, Miasto w s–wiadomos–ci jego obywateli [La città nella coscienza dei suoi abitanti], Poznan– 1931.

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che emerge dai racconti e traspare dai comportamenti degli abitanti di Poznan– verso gli abitanti “stranieri”, riscontriamo evidentissime oscillazioni. Oscillazioni che non sono uniformi nelle diverse categorie della popolazione; insignificanti presso l’elite politica ed intellettuale, molto marcate presso il ceto medio borghese. Fino al 1918 l’opinione più diffusa della popolazione era assolutamente univoca. In ragione dell’aspirazione alla totale separazione socio-politica dai tedeschi e all’unificazione con i polacchi delle altre regioni, ad ogni passo erano sottolineate le differenze nazionali, idealizzando naturalmente quelle che erano ritenute le caratteristiche proprie in contrasto con quelle tedesche – “i nuovi venuti dagli altri territori della Polonia erano accolti sempre e dovunque con favore”22 –, sottolineando le fondamentali affinità della cultura e dello spirito di 288 polacchi. Con la conquista dell’indipendenza e il conseguente notevole flusso di polacchi da altre regioni, fra il 1919 e il 1922, l’atteggiamento si è ribaltato. Ad ogni passo si sottolineano negativamente le caratteristiche dei nuovi venuti che disturbano gli abitanti di Poznan– per la presunta diversità che stride con la normalità a cui sono avvezzi. “Subivamo ogni sorta di angherie; quelli che hanno sofferto di più sono stati i ‘galicjaki di Kongresówa’ […] Scimmiottavano il dialetto degli abitanti della Piccola Polonia, le loro buone maniere”23. “Al municipio non mi hanno dato 22

Ivi, risposta n. 8. Ivi, risposta n. 7. [Galicjaki di Kongresówa era un appellativo poco gentile degli abitanti della regione Gali23

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il permesso di soggiorno a Poznan–. Eravamo trattati come stranieri. Ci minacciavano di essere cacciati da Poznan–. Perché? Solo perché, suppongo, avevo un accento russo. Rispondevano: ‘Ne sono arrivati troppi, la città non può accoglierli tutti. Lei, signora, torni lì da dove è venuta’”24. “L’alta reputazione che i poznaniani hanno di sé è la causa dei pregiudizi sugli abitanti di altri distretti. Li irritano non solo i reali difetti, ma la loro diversità, le critiche che muovono ai padroni di casa - i poznaniani”25. Numerosi sono anche gli esempi che illustrano il mutato atteggiamento verso i tedeschi rimasti a Poznan–. “I tedeschi al tempo (1920) erano i beniamini degli abitanti del luogo, si davano loro scorte di cibo inaccessibili ad altri, o gli si vendevano ad un prezzo più basso che ai ‘galicjaki’”26. “In questa città squisitamente polacca […] si riscontra tuttora una tale affezione all’idioma tedesco che accade nei negozi e talvolta negli uffici di sentire polacchi rivolgersi ai tedeschi nella loro lingua […], addirittura con ammirazione e talvolta con una punta di ostentazione per la perfetta pronuncia27”. Nel 1929, però, in occasione dell’Esposizione Nazionale, l’atteggiamento della popolazione verso gli zia, sud-est della Polonia che faceva parte del Regno di Polonia, creato dal Congresso di Vienna (1815), ma dipendente dalla Russia e chiamato Kongresówka o con disprezzo Kongresówa – N.d.C.]. 24 Ivi, n. 6. 25 Ivi, n. 9. 26 Ivi, n. 7. 27 Ivi, n. 9.

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immigrati di altri distretti della Polonia è stato più benevolo di quello riservato ai tedeschi; le differenze che prima tanto irritavano erano totalmente ignorate. Un’ulteriore difficoltà di applicazione dell’ipotesi secondo cui l’estraneità è condizionata dalla diversità, scaturisce da un altro fatto; se è vero che l’isolamento è spesso la conseguenza dell’estraneità, similmente accade talvolta che la diversità culturale sia di proposito accentuata per il desiderio di distinguersi dagli “estranei”. In tempi recenti lo sviluppo dell’autodeterminazione nazionale di popoli, che prima non erano consapevoli della propria diversità nazionale, è avvenuto con un’iniziale opposizione alla nazione sotto il cui influsso culturale un dato popolo si trovava – influsso ritenuto “estraneo” – e in seguito con lo sforzo di accentuare le differenze culturali. La storia non così remota del popolo bielorusso e lituano nel loro atteggiamento verso la Polonia ben illustra questo fenomeno. Si può pertanto arguire che l’estraneità nei confronti di un dato individuo (o collettività) non è un tratto attribuibile a una certa classe di uomini, classificata da un osservatore sulla base di questa o quella proprietà. Non si può affrontare con rigore la questione del comportamento di un individuo (o di una collettività) verso gli estranei se la si basa su una schematizzazione psico-somatica, cioè mettendo in contatto spaziale un dato individuo (o collettività) con uomini appartenenti alla categoria degli “estranei” e analizzando le sue reazioni al contatto sociale con essi – come similmente si analizzano, ad esempio, le reazioni emotive di un individuo (o collettività) quando gli 51

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viene mostrato il cibo che è solito consumare o soltanto le sue immagini. Può sempre infatti verificarsi un fenomeno per cui un uomo che, secondo i criteri di un osservatore è estraneo per un dato individuo, e quindi percepito come estraneo (e forse è stato così percepito in un altro momento), è nel momento dell’analisi percepito come proprio e viceversa. Lo “psicologo sociale” viene a trovarsi in una posizione simile a quella in cui si troverebbe lo psicologo sperimentale allorquando, ad esempio, il cibo, senza una ragione oggettiva, sia presentato ad un soggetto analizzato come veleno o al contrario. Lo psicologo sperimentale in tale situazione dovrebbe ovviamente riformulare il problema e iniziare ad analizzare non già le reazioni emozionali alla visione o immaginazione del cibo, ma le illusioni o allucinazioni come processi psicologici. Anche lo studioso dei fenomeni sociali dovrebbe rivedere la sua problematica; tuttavia, dato che gli sarebbe difficile stabilire se le oscillazioni nello sperimentare gli individui come propri o “estranei” siano da considerare manifestazioni di ambito psicopatologico, egli deve abbandonare il campo della psicologia e spostarsi sul terreno della sociologia. Ciò significa che nella definizione di “estranei”, come in ogni formulazione scientifica dei fenomeni sociali, bisogna introdurre quello da noi chiamato coefficiente umanistico. Sono “estranei” per l’individuo o il gruppo analizzato solo quelli che sono percepiti come ”estranei”. Ma, siccome gli stessi uomini o uomini simili possono a volte essere percepiti come estranei, altre volte no, se ne deduce che l’estraneità non è un tratto distintivo assoluto che contraddistingue permanentemente lo stesso uomo o gene52

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ralmente la stessa classe di uomini, ma un tratto relativo che lo stesso uomo o la stessa classe di uomini, indipendentemente da mutamenti di sorta, può possedere in certe situazioni e non possedere in altre. La questione degli “estranei” (che, come sappiamo, va risolta prima di affrontare il problema dell’antagonismo) non è: “quali uomini sono estranei nei confronti di un individuo o una collettività”, ma “in quali situazioni certi individui o individui appartenenti ad una collettività sono estranei nell’esperienza di un dato soggetto o gruppo”. È chiaro che queste situazioni entrano nell’ambito della vita sociale cosciente di quell’individuo o gruppo che sperimenta determinati individui o individui di una data classe come estranei o non-estranei. Ciò non significa che sono “soggettivi”; applicando il coefficiente umanistico, ovvero mettendosi nei panni dell’individuo in quanto soggetto che sperimenta e agisce, si può ritenere soggettivo solo ciò che egli ritiene tale28. Ebbene è ovvio che gli individui o i gruppi che trattano certe persone come estranei non pensano di farlo per motivi soggettivi ma, coscientemente o inconsapevolmente, si basano su aspetti che ai loro occhi hanno un significato oggettivo. È nostro intento analizzare questi aspetti e scoprire il criterio umanistico dell’estraneità. Nella letteratura sociologica la definizione dell’estraneità da una prospettiva umanistica non è 28 La questione del coefficiente umanistico è stata da me trattata in modo più dettagliato nel libro Socjologia wychowania [Sociologia dell’educazione], vol. 2, cap. 1, Warszawa 1930.

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del tutto sconosciuta. La troviamo in Simmel nel concetto di “significato umanistico dello straniero”, con cui egli intende il significato che ha lo “straniero” agli occhi dei componenti del gruppo in cui vive, cioè i tratti che lo distinguono come estraneo nella loro coscienza. Tuttavia, come già abbiamo avuto modo di sottolineare, il dilemma di Simmel è diverso dal nostro; è più stringente e complesso29. Il coefficiente umanistico è stato ampiamente applicato alla nostra problematica anche da Vierkandt in Gesellschaftslehre30, ma con un approccio metodologico differente. Egli parte dal concetto, in parte mutuato da Tönnies, di società come comunità spirituale di base. L’estraneo non vi fa parte; è fuori dal quadro sociale. Essere “estraneo” significa essere trattato non come un essere sociale, ma come una cosa con cui non si vive in comunione spirituale. Questa teoria non si basa tuttavia su un’effettiva analisi induttivo-comparativa dei fatti e conduce, come vedremo più avanti, a conclusioni errate, malgrado sostanzialmente il punto di partenza sia valido. In realtà la questione della presenza o dell’assenza di co-partecipazione ad una certa sfera della vita conscia ha un ruolo determinante nella distinzione fra “propri” e “estranei”; si tratta però di una relativa o limitata partecipazione, non di una comunione totale e permanente. Affronteremo la nostra questione esaminando le condizioni dell’“estraneità” degli oggetti umani in ge29

Vedi ivi, p. 166, nota 15. Alfred Vierkandt, Gesellschaftslehre, Stuttgart 1928 (II ed.), passim, vedi ad es. pp. 91, 124 e sgg. 30

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nerale nell’esperienza di soggetti umani in generale. Un oggetto umano può essere una persona, come individuo concreto e distinto o come rappresentante di una categoria astratta, o anche come partecipante di una collettività o membro di una collettività consapevolmente distinta e ristretta o infine un gruppo. Può essere un’intera categoria di persone o un’intera collettività o un intero gruppo, o una categoria di collettività o gruppi, o un insieme concreto di collettività e gruppi. Un soggetto umano può essere il singolo individuo che sperimenta e agisce o una comunità di uomini che co-sperimentano e co-agiscono31. La prima condizione perché un dato oggetto umano possa definirsi “estraneo” agli occhi di un certo soggetto è il contatto sociale che deve aver avuto luogo fra il soggetto e l’oggetto. Ha ragione Simmel, quando afferma che “gli abitanti di Marte non sono ‘estranei’ rispetto a noi, quantomeno nel senso sociologico del termine”; ma non perché, come egli sostiene, l’“estraneità” richieda una combinazione di vicinanza e distanza, ma perché creature con cui non verremo mai in contatto (anche se esistono) sono oggetti socialmente inqualificabili, sebbene possano essere oggetto di interesse scientifico. Per la stessa ragione per l’europeo medio gli abitanti della Terra del Fuoco o i Pigmei dell’Africa non sono “estranei” – e neanche “propri” ovviamente – a me31 Oggetto e soggetto umano sono concetti più generali di oggetto e soggetto sociale. L’oggetto umano è sociale quando costituisce l’oggetto di un’azione che mira ad ottenere una reazione da parte sua; il soggetto umano è sociale quando compie tale azione.

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no che, leggendo o guardando delle fotografie egli non immagini dei possibili incontri, o si metta nei panni dei viaggiatori che descrivono i loro incontri con essi. Tutti i casi a noi noti per classificare gli oggetti umani come “estranei” hanno avuto luogo non prima di un incontro del soggetto con esse, anche se indiretto; il più delle volte dopo numerosi incontri. A maggior ragione è ovvio che la classificazione di oggetti umani come “propri” ha luogo a condizione che il soggetto abbia contatti con essi. Sicché c’è da chiedersi se il contatto sociale in sé è così differenziato da contenere in queste differenze la base della contrapposizione fra “propri” e “estranei”. Per rispondere a tale interrogativo dobbiamo analizzare più da vicino la natura del contatto sociale. Escludiamo in partenza il concetto di contatto che implica l’influsso esercitato inconsapevolmente da un uomo su un altro uomo, anch’egli inconsapevole di subire l’influenza dell’altro – come nell’esempio prima descritto dell’operaio cinese sugli ospiti di un piccolo funzionario in una remota cittadina polacca. Questo perché ci siamo resi conto dell’inutilità di tale concetto per definire la questione dell’estraneità, tranne nel caso in cui nel contatto sociale fra due individui avviene che almeno una delle due parti esercita, con la sua azione, un’influenza sull’altra. Infatti, ogni contatto sociale è attivo, almeno da una parte. In linea di principio quindi non c’è contatto sociale fra l’artista che dipinge un ritratto e il suo modello, fra uno psicoterapeuta e il suo paziente, perché l’artista e lo studioso evitano di regola di influenzare l’oggetto del loro interesse, rispettivamente artistico o scientifico. Assumendo una posi56

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zione di assoluta oggettività, essi stessi cercano di essere soggetti ideali, quasi immuni dalle possibili influenze pratiche sul proprio lavoro artistico o scientifico. Ad ogni modo, oltre all’influenza di una parte sull’altra, perché esista un contatto sociale è necessario che almeno una parte sia un soggetto umano, consapevole dell’esistenza dell’altra parte come oggetto umano e dell’azione che ha luogo fra loro. Questo tipo di contatto viene definito unilaterale; bilaterale è il contatto che avviene quando l’altra parte è anche un soggetto umano, consapevole dell’esistenza dell’altra e dell’azione che avviene fra loro. Questo perché, come numerosi studi empirici dimostrano, succede che fra due individui o collettività, una parte percepisce l’altra come “estranea”, e non viceversa, sicché è probabile che i contatti unilaterali contengano già la base per la distinzione degli uomini fra “propri” e “estranei”. Quindi, per il momento, non abbiamo bisogno di trattare i contatti bilaterali32. L’influenza che l’azione di una persona esercita su un’altra può essere intenzionale, o non intenzionale. L’influenza intenzionale avviene quando una persona modifica attivamente alcuni valori dell’altra allo scopo di modificare le sue azioni e cioè provocare una sua particolare reazione. Tale azione è un’azione sociale; la persona che viene influenzata è 32

Il contatto fra un maggior numero di “parti” può chiamarsi “plurilaterale”. Non prendiamo in considerazione questo caso se si tratta di un contatto unidirezionale o reciproco, o plurimo per le sue caratteristiche.

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un oggetto sociale; la persona che agisce è un soggetto sociale. L’influenza non intenzionale avviene quando una persona modifica attivamente alcuni valori dell’altra (soltanto perché vede questo come strumentale) nel tentativo di ottenere determinati scopi personali, non avendo nulla a che fare con l’attività della seconda persona. L’azione di questo tipo non è sociale, almeno non lo è in relazione alla seconda persona33. Per il contatto sociale è sufficiente l’influenza non intenzionale di un oggetto su un soggetto, o di un soggetto su un oggetto, nella misura in cui il soggetto è consapevole dell’esistenza di questa influenza. Un’altra questione è se la consapevolezza di un’influenza non intenzionale non conduca il soggetto a tentare di esercitare una certa influenza intenzionale; ma di questo discuteremo più avanti. In ogni caso, un contatto sociale unilaterale tra un soggetto umano ed un oggetto sorge non appena il soggetto diventa consapevole che l’oggetto – anche senza l’intenzione di influenzarlo o persino forse senza saper nulla di lui – ha modificato i suoi valori; o quando diventa consapevole che egli stesso, nel tentativo di ottenere altri scopi, ha modificato i valori dell’oggetto, consapevolmente o inconsapevolmente, pur sempre senza l’intenzione di influenzare il soggetto in un modo o nell’altro. Quando, per fare una scorciatoia, l’oggetto attraversa il campo del soggetto, o il soggetto attraversa il campo dell’oggetto; quando l’oggetto, all’insaputa del soggetto, esprime giudizi 33

Lo stesso avviene – mutatis mutandis – fra le collettività umane.

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su persone che sono vicine al soggetto, quando il soggetto fa una scoperta scientifica e si rende conto che questa scoperta può inficiare subito o ha già inficiato la fede del soggetto in qualche dogma religioso; quando il soggetto si rende conto che lui e l’oggetto, ciascuno separatamente perseguendo fini di tipo economico, compete o collabora nel senso che i risultati dell’attività di uno di essi influenza la vita economica dell’altro – in tutti questi casi abbiamo a che fare con un contatto sociale fra soggetto ed oggetto, pur nell’assenza di azione sociale. Contatti del genere sono chiamati sociali per il fatto che l’oggetto, nel momento in cui il soggetto si rende conto dell’influenza delle azioni di uno di loro sui valori dell’altro, acquisisce per il soggetto un carattere sociale quale essere attivo e sperimentante (o un insieme di esseri che formano un insieme), pur non essendo ancora oggetto dell’azione sociale da parte del soggetto. Ogni incontro sociale fra un soggetto e un oggetto è pertanto un incrocio delle loro sfere di attività per il fatto che alcuni valori che appartenevano alla sfera di attività di uno di essi vengono attratti nella sfera di attività dell’altro. Tutti i valori che fanno parte dell’attività umana risultano legati in sistemi più o meno coesi: il ‘mio’ campo che il mio vicino attraversa appartiene alla mia proprietà come ad una struttura economica; la persona di cui parliamo appartiene a un gruppo che costituisce di per sé un sistema sociale; la scoperta di uno scienziato è un elemento di qualche struttura delle verità scientifiche; un dogma è parte di una struttura di credi e rituali che costituiscono assieme una certa religione, ecc. 59

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Inoltre, gli stessi valori possono appartenere a diverse strutture: un campo di allenamento che fa parte di un dato sistema di tipo tecnico per un agrimensore, è anche un elemento del diverso sistema tecnico per un contadino, del sistema economico per il proprietario che lo sta vendendo e del sistema economico per la persona che lo acquista. La stessa persona appartiene a diversi, forse molti gruppi sociali. La stessa verità può essere utilizzata in diversi sistemi filosofici o scientifici e può anche essere collegata a dogmi religiosi. Se due paesi sono in competizione per una produzione, lo stesso mercato di vendita entrerà a far parte della struttura economica di entrambi. Così, quando due persone (o due collettività umane) sono in contatto sociale, sorgono due possibilità. O i valori che nel corso del contatto entrano nelle sfere di attività e di reciproca influenza appartengono allo stesso sistema, oppure a due sistemi diversi. Nel primo caso diremo che il contatto ha luogo sulla base di un sistema comune di valori; nel secondo caso - sulla base di sistemi separati. La comunanza del sistema non significa, però, che tutti i valori del sistema devono essere comuni; così ad esempio, l’impiegato di una fabbrica, o i funzionari di uno stato condividono un sistema tecnico (la fabbrica) o sociale (lo Stato), benché soltanto alcuni valori di questi sistemi appartengano direttamente alla sfera di attività di ciascuno di essi e benché persino gli stessi valori condivisi differiscano in qualche modo per ciascuno di essi. D’altro canto, i sistemi che non hanno valori in comune non sono separati nel senso detto poco prima perché un contatto sociale è 60

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possibile proprio sulla base della parziale comunanza dei valori e dunque una persona che agisce all’interno della cornice di un sistema può esercitare un’influenza su un sistema diverso. La comunanza o la diversità fra i sistemi dipende, in breve, dalla convergenza o la divergenza di attività che, servendosi di tali valori, costruiscono questi sistemi; nell’esperienza di un soggetto umano queste appaiono come una concordanza o una non-concordanza di significati che gli stessi valori hanno per lui e per l’oggetto umano34. Applicando le suddette tesi come premesse euristiche per il problema dell’estraneità postuliamo tale ipotesi: un oggetto umano è sempre sperimentato dal soggetto umano come estraneo solo quando si instaura tra di loro un contatto sociale sulla base di diversi sistemi di valore. L’ipotesi supplementare secondo cui un oggetto è sempre sperimentato come “proprio” da un soggetto quando e solo quando il contatto tra di essi ha luogo sulla base di un sistema comune, non può essere sistematicamente dimostrata, al massimo ritenuta probabile. La nostra ipotesi può sembrare di primo acchito paradossale giacché non fornisce un motivo sufficiente per ritenere estraneo un oggetto. Il concetto di “estraneo” applicato a individui o collettività è un 34

È ovvio che non possiamo approfondire tale questione. Lo stesso accade nell’ambito della sociologia. Nel tentativo di analizzare una questione particolare, il sociologo incontra diverse questioni che lo costringono alla formulazione di un postulato di revisione delle fondamenta dell’intero pensiero umanistico.

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concetto di categoria, non tassonomico; riguarda un dato individuo o collettività nella loro interezza, non in questo o quell’“aspetto” o “parte”; così come avviene per il concetto di “proprio”. Ma il sistema sulla cui base ha luogo il contatto fra un dato individuo o collettività con un soggetto è solo un frammento, talvolta un esile frammento, della sua sfera di azione. In altre parole il soggetto si scontra con una piccola particella di una data persona o collettività umana. Non ha quindi ragioni sufficienti per fare una classificazione di alcun genere sulla personalità o collettività, basandosi su un’esperienza così irrilevante e spesso superficiale che può derivare da un singolo contatto con essa. Se così agisse, si comporterebbe insensatamente e la conseguenza di questa insensatezza sarebbe che continuerebbe a generare scontri nel successivo contatto, qualificando come “propri” quelle persone che poco prima aveva ritenuto estranei e viceversa, a seconda della base contingente del contatto. Che fare dunque se è così che di fatto si comportano gli uomini in molti casi? È vero che ci sono casi in cui la reputazione di estraneità e familiarità sembra più motivata e non è soggetta a tali oscillazioni. Tuttavia le teorie sociologiche che ritengono sufficientemente logiche le ragioni per cui gli uomini reputano altri uomini estranei (sotto la forma dei parametri oggettivi dell’estraneità di cui si è detto) non sono in grado di spiegare tutti i fatti. Mettiamo alla prova dunque l’ipotesi per la quale la reputazione di uomini come estranei o non-estranei è irrazionale, logicamente infondata, e vediamo se ha miglior fortuna. Da questo punto di vista le oscillazioni e le 62

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contraddizioni nel reputare estranei degli individui, causati da nuovi contatti con essi su un piano diverso dal precedente, sono la conferma della nostra ipotesi. Il caso che apparentemente non conferma tale ipotesi, concretamente quando la definizione degli oggetti umani non cambia, nonostante il mutamento dei contatti, va spiegato con l’influenza avversa di altri contatti simultanei. Fra il soggetto e l’oggetto possono infatti avvenire numerosi altri contatti insieme, perché l’uomo può compiere alcune azioni parallelamente (gli intervalli temporali nel compimento delle azioni ne annullano l’unità). I fatti su cui si sono basate le teorie finora enunciate sull’estraneità hanno dimostrato che in molti casi essa è determinata dalla mancata appartenenza allo stesso gruppo, alla mancanza di vincoli sociali che vengono creati dai continui contatti, nonché dalla diversità degli “estranei”, cioè dalle differenze fra essi e gli uomini per cui sono estranei, ma hanno anche dimostrato che in altri casi queste stesse circostanze non causano l’estraneità. Secondo la nostra ipotesi è possibile spiegare questi fatti nel modo seguente: laddove compare una delle suddette circostanze, i contatti sociali fra il soggetto e l’oggetto avvengono più spesso sul piano di sistemi separati che su quello dei sistemi comuni, sebbene nella vita sociale di fatto i contatti su un piano di sistemi comuni non sono mai del tutto esclusi, e ciò spiega perché nessuna circostanza può considerarsi sempre e comunque causa di estraneità. La non-appartenenza allo stesso gruppo e la mancanza di precedenti contatti favoriscono la reputazione del soggetto come estraneo specie quando esso nel contatto varca la 63

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soglia della sfera d’azione dell’oggetto; le differenze biologiche e culturali, invece, soprattutto quando l’oggetto invade la sfera d’attività del soggetto. L’oggetto umano che non appartiene allo stesso gruppo sociale del soggetto è percepito come estraneo ogniqualvolta, agli occhi del soggetto, il suo agire effettivo o potenziale invade (intenzionalmente, non intenzionalmente o anche solo inconsapevolmente) il territorio di un dato gruppo che costituisce un sistema chiuso di valori sociali. Poiché l’oggetto non vi fa parte e non vi partecipa, non lo condivide, quindi, qualunque sia il suo sistema che si realizza in quell’azione, esso è in ogni caso diverso da quello del soggetto; per lui i valori di gruppo hanno un significato che non corrisponde a quello del soggetto. Infatti, per una famiglia dell’antica Roma o cinese che si raccoglieva per il culto comune degli antenati, era considerato straniero chi non vantava la stessa discendenza o non era adottato, quindi non aveva diritto ad appartenere al gruppo raccolto attorno al culto, dove si trovava accidentalmente o consapevolmente. Quello stesso uomo tuttavia era percepito come “nostro” quando lo si incontrava, ad esempio, sul piano del comune culto degli dei protettori della città; allora gli estranei erano i forestieri di passaggio nel territorio urbano o nei dintorni, che nuovamente si presentavano come propri quando la città stringeva alleanza con la loro città per combattere il nemico comune. Oggi i membri di un’altra nazione sono estranei per la ‘nostra’ nazione, poiché la loro attività varca la soglia dei ‘nostri’ valori nazionali; ma se una parte di ognuna delle due nazioni appartiene alla 64

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stessa Chiesa e ha luogo un raduno religioso, allora i forestieri che vi partecipano sono ‘nostri’ sulla base della comune appartenenza religiosa, mentre i connazionali seguaci di altre fedi religiose si presentano a noi come estranei, se si intromettono troppo nelle questioni del ‘nostro’ raduno, non condividendone i valori. In questo caso non c’è alcuna gradazione di estraneità; l’oggetto percepito come estraneo non è in quell’esperienza percepito come più o meno estraneo come accade, ad esempio, per un oggetto spazialmente distante che si presenta come più o meno lontano o per l’aria che può essere più o meno fredda. Un mio parente stretto che si presentasse senza essere invitato ad un’importante riunione segreta della “mia” corporazione professionale sarebbe in quella particolare situazione sociale a me estraneo, come membro della corporazione, tanto quanto un qualunque sconosciuto intruso. Quando contrapponiamo i non-membri come estranei ai membri come nostri, non classifichiamo gli estranei gerarchicamente, generalmente non facciamo distinzione fra loro. Lo si può spiegare in modo più esplicito facendo degli esempi: gli “stranieri” non sono più o meno stranieri, gli “estranei” non sono più o meno estranei, i “non-parenti” non sono più o meno non-parenti, i “non-amici” non sono più o meno non-amici. La gradazione sostanzialmente si verifica, ma riguarda non le caratteristiche intrinseche dell’estraneità, ma, da un lato la relativa frequenza e durata con cui qualifichiamo come estranei i non-membri di certi gruppi, dall’altro – l’antagonismo verso gli estranei. Quest’ultima questione la tratteremo più 65

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avanti. Per quanto riguarda la prima, è facile comprendere che più ricco è il contenuto sociale di un gruppo, più ampia la sfera della sua attività, e quindi maggiore il coinvolgimento dei suoi membri, più facilmente accade che l’agire degli estranei invada la sfera degli affari del gruppo tramite contatti reciproci su un piano di sistemi separati. Così, ad esempio, nell’antichità gli abitanti di una città trattavano come estranei tutti gli altri più di quanto non accada oggi, poiché di gran lunga più ricco era il contenuto sociale della città. Nelle classi alte del Medioevo i seguaci di diverso credo religioso erano più spesso percepiti come estranei di quanto non lo fossero uomini di diversa nazionalità; nella società di oggi accade il contrario; questo perché, se da un lato è cresciuto il contenuto sociale dei gruppi nazionali, specie nel campo dei valori culturali più elevati, dall’altro il contenuto sociale dei gruppi religiosi si è impoverito. Generalmente nelle società più semplici che comprendono quasi totalmente la vita spirituale dei suoi membri, chi non appartiene al gruppo è più spesso e a lungo percepito come estraneo di quanto non accade presso le società più complesse, dove ogni membro appartiene a più gruppi che si intrecciano. Tratteremo ora la questione della mancanza di vincoli sociali esterni al gruppo, causata dal suo isolamento. In linea con la nostra ipotesi, affermiamo che se sostanzialmente le persone “sconosciute” di solito sono ritenute estranee da un soggetto, questo avviene non perché non le conosce, ma perché, non avendo queste partecipato alla sua vita sociale, non ne condividono il sistema di valori, giacché per la 66

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condivisione è necessaria una previa convivenza civile; poiché dunque con il loro agire varcano la sfera del soggetto, mostrano che i suoi valori hanno per loro un significato diverso che per lui. Allorché in uno sperduto villaggio o città, dove tutti si conoscono da tempo e il bagaglio della comune cultura si è consolidato in lunghi anni di contatto, si trasferisce un nuovo individuo o una famiglia, la sua estraneità si manifesta a tutti gli abitanti in ogni contatto personale che rivela la mancata compartecipazione alla comune memoria e agli interessi reciproci che costituiscono la familiarità dei vecchi conoscenti e del consueto ambiente sociale. Non sempre comunque sono necessari contatti precedenti per creare un comune sistema di valori. Molte persone possono condividere lo stesso sistema tecnico, artistico, cognitivo, senza avere mai avuto contatti diretti. Certo un qualche contatto sociale è sempre necessario perché un sistema si diffonda fra gli uomini, ma con il progresso della civiltà, con lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, soprattutto della stampa, nonché dall’emancipazione degli interessi culturali dagli influssi sociali, i contatti diventano sempre più rari, più distanti e indiretti. Un africano, un contadino cinese al pari di un contadino europeo di uno sperduto villaggio conosce ed apprezza solo quei sistemi culturali che ha assimilato direttamente dall’ambiente sociale. Ma l’uomo moderno nei suoi interessi scientifici, religiosi, estetici, economici, tecnici, politici convive spiritualmente con uomini della cui esistenza come individui, collettività, gruppi o classi spesso non ha nemmeno sentito parlare, oppure conosce solo da libri e riviste. Se avvie67

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ne un contatto diretto con tale individuo, collettività o gruppo, che sia basato su comuni sistemi di valore, essi si presentano come propri, mentre i suoi vicini meglio conosciuti diventano estranei nel momento in cui mostrano una totale mancanza di comprensione per le cose che lo interessano. Quest’ultimo esempio fa comprendere il fenomeno per cui anche le persone più vicine e conosciute di un soggetto siano spesso percepite da lui come estranee. Ciò si verifica in modo evidente nella società induista, dove varie caste vivono assieme nello stesso territorio, i loro membri si conoscono di vista e dai discorsi, cooperano in alcuni affari, nonostante ciò ad ogni passo mostrano reciprocamente la loro estraneità. Similmente avveniva nell’antica Alessandria e nell’antica Roma dove vivevano assieme popolazioni di diverse fedi religiose, nelle città europee fra cristiani ed ebrei fino a non molto tempo fa, ed infine nelle regioni in cui si mescolano varie etnie. In tale contesto i sistemi che dividono diventano più importanti di quelli che uniscono e sono così intricati e profondamente radicati nell’esperienza e nelle azioni che i contatti che provocano l’estraneità sono inevitabili, anche in presenza di una grande fiducia. Passiamo infine ai fatti in cui l’estraneità dipende dalle diversità fra il soggetto e l’oggetto. Va soprattutto sottolineato che la tesi per la quale la consapevolezza dell’estraneità (o anche l’antagonismo verso gli estranei) nasce dalla constatazione delle differenze, è fallace o non correttamente formulata. La constatazione delle differenze implica il confronto; ebbene il confronto di sé con gli altri è un processo di 68

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riflessione che comporta l’oggettivazione del proprio “io” (o del “noi”); mentre una simile oggettivazione può non accompagnare affatto la percezione di un soggetto sociale come estraneo e non la accompagna nelle sue forme originarie35. Ciò che è percepito come “differenza” agli occhi di chi osserva in modo distaccato se stesso e gli altri, per il soggetto che sperimenta l’oggetto in un reale contatto sociale si traduce nella constatazione della diversità del loro sistema di valori. Il soggetto se ne rende conto quando, nel realizzare i propri intenti, scopre che i valori dell’oggetto hanno un significato per lui inaccettabile. Sicché noi riteniamo “estranei” quegli uomini che parlano una lingua per noi incomprensibile o che discutono di questioni che non conosciamo e che non ci interessano affatto; uomini che vediamo compiere un rituale sociale o religioso, che ha per loro un evidente valore, ma è per noi incomprensibile o negativo; uomini che reagiscono agli avvenimenti attuali in un modo che mostra come essi riconoscano delle norme di comportamento che noi non accettiamo; uomini che credono in dogmi che per noi non sono tali; uomini che si occupano di attività culturali in un campo a noi sconosciuto; uomini che si vestono con uno stile che né noi né i nostri intimi mai adotterebbero, che abitano, mangiano come mai noi abiteremmo e mangeremmo, e così via. Anche qui bisogna includere l’estraneità che di35

Lasciamo irrisolta, per il momento, la questione se un confronto non è un sintomo di una certa comunanza di sistemi che sta alla base delle differenze.

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pende da differenze antropologiche. I neri o i cinesi sono per noi estranei per le loro caratteristiche razziali in due casi: quando queste si presentano a noi come segni esteriori di complessi culturali – costumi, norme e ideali – che non condividiamo, o quando è in gioco la possibilità di contatti fisici per noi o per i nostri cari con cui ci identifichiamo come soggetti (specie contatti di tipo sessuale), poiché non siamo abituati dall’infanzia alla possibilità che il corpo di un uomo di quella razza abbia nel contatto un significato positivo36. Gli uomini nei sistemi che non condividiamo sono tuttavia considerati estranei solo se ci incontriamo con essi sul piano appunto di questi sistemi. Non ci si presentano come estranei se il contatto avviene sul terreno di loro sistemi che sono anche nostri. Sicché un nero non era estraneo per il proprietario della piantagione, se questi poteva scegliere liberamente il terreno di contatto con lui, e conoscendolo dall’infanzia, comprendendolo profondamente, sceglieva solo quel piano a cui entrambi si erano reciprocamente adattati. Per l’abitante del Nord America il nero era e rimaneva estraneo, poiché perfino un ideologo bianco dell’uguaglianza e della fratellanza che tentava di opporsi alla sensazione di estraneità antropologica, si imbatteva di continuo in sistemi incomprensibili, causati da anacronismi della tradizione africana, dalla passata schiavitù, dalla vita nelle piantagioni, ecc. Dopo la liberazione il nero divenne estraneo agli occhi del bianco per altre ragio36 Tratteremo nella seconda parte del presente studio la questione del rigetto e dell’attrazione fra le razze.

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ni: le nuove fondamenta dei contatti con i neri furono imposte ai sudisti dai vincitori su basi proprie, fatte di valori esclusivi dell’uomo bianco, dove i neri che vi erano introdotti erano considerati intrusi. La nostra ipotesi spiega egregiamente anche l’atteggiamento dei poznaniani verso i nuovi immigrati. Scontratisi prima del 1919 con i tedeschi che vivevano a Poznan–, ben presto dovettero fare i conti con aspirazioni e opinioni nazionali e statali che i polacchi non condividevano, mentre nel contatto con i polacchi degli altri territori occupati, lo “spirito polacco”, l’appartenenza nazionale e l’ideologia statale condivise dai poznaniani erano motivo di incontro. Dopo il 1919 il terreno di contatto con gli uni e gli altri mutò. I tedeschi che erano rimasti a Poznan– smisero di manifestare le loro aspirazioni politiche, sicché i poznaniani che trattavano con loro si imbattevano in sistemi culturali che nel corso della lunga convivenza e grazie all’istruzione scolastica avevano imparato a condividere o, per lo meno, a comprendere. Mentre i nuovi venuti da altre regioni sotto uno strato di norme e ideali nazionali e statali comuni (dove peraltro la comunanza spesso risultava relativa per le differenze di partito) rivelarono vari sistemi culturali non condivisi dagli autoctoni, talora del tutto incomprensibili. Sebbene non fossero sistemi di grande levatura esistenziale, tuttavia riguardavano principalmente questioni di vita quotidiana e quindi del genere che danno adito a frequenti seppure superficiali contatti; da qui la sensazione di estraneità che specie nei primi tempi fu spesso percepita. Diverso è stato l’atteggiamento verso gli ospiti della menzionata Esposizione Nazionale; qui la causa del contatto era 71

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l’interesse degli ospiti verso l’esposizione che i poznaniani consideravano una loro creazione, e pertanto la formazione di un terreno comune fu immediata. Non riteniamo necessario illustrare altri dati a sostegno della nostra ipotesi. Se ne potrebbero illustrare ad infinitum. Prendiamo dunque questa ipotesi come temporaneo punto di partenza per ulteriori studi. L’analisi dei fatti pro o contro il comune antagonismo verso gli estranei ci porrà nuovi interrogativi scaturiti da fatti apparentemente discordanti con la nostra ipotesi. Se riusciremo a dare delle risposte, avremo diritto a riconoscere questa ipotesi come l’unica scientificamente plausibile. Con una riserva però: solo se il risultato dell’analisi approfondita dell’“antagonismo verso gli estranei” e della “solidarietà verso i nostri” basata sugli stessi fatti non contraddirà la nostra ipotesi. II Abbiamo cercato di definire l’estraneità, sfrondandola delle inesattezze riscontrate nella letteratura sociologica. Passiamo alla tesi diffusa secondo cui gli estranei sono oggetto di antagonismo. Innanzitutto bisogna formulare questa tesi in modo più rigoroso. Dal momento che abbiamo rigettato i metodi bio-psichici per analizzare il problema, non possiamo pensare all’“antagonismo” come ad uno stato fisico o ad un processo psichico (passione, emozione, eccitazione, desiderio, ecc.) che scaturisce in risposta ad uno stimolo, che altro non è che il contatto dell’individuo psico-biologico o della collet72

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tività con gli estranei. Dobbiamo porre la questione in termini sociologici. Dal punto di vista sociologico, non è importante ciò che accade alla psiche delle persone studiate, ma piuttosto come esse agiscono in relazione ad altre persone. Dobbiamo insomma definire l’antagonismo in termini di condotta degli esseri umani nei confronti degli altri, in termini di azioni reali o potenziali i cui oggetti sono uomini. L’antagonismo può soltanto essere una tendenza a compiere atti sociali di un certo tipo. È fuor di dubbio che l’antagonismo sia un atteggiamento sociale negativo; è l’inclinazione a compiere azioni le cui probabili conseguenze sono, nell’intenzione del soggetto, avverse all’oggetto sociale. Si contrappone ovviamente alle inclinazioni sociali positive, a tutte quelle manifestazioni cioè che hanno nell’intenzione del soggetto, alcune risultanze positive per l’oggetto sociale (come per esempio, la tendenza all’aiuto od alla cura). Ma differisce dagli atteggiamenti sociali neutrali, cioè, quelli espressi da azioni per la cui realizzazione al soggetto è indifferente il significato che le loro conseguenze potranno avere per un altro individuo o collettività umana. Affermare dunque che “gli estranei sono oggetto di antagonismo” significa, innanzitutto, che l’oggetto umano che nel contatto con il soggetto è percepito da lui come estraneo, è l’oggetto sociale di un atteggiamento negativo, non positivo o neutro; la percezione di estraneità va di pari passo con la tendenza ad agire negativamente nei confronti di un estraneo. Questa affermazione è in contrasto con la tesi di Vierkandt, il quale sostiene che originariamente o in principio, un estraneo non è oggetto di antagoni73

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smo, ma di indifferenza – vale a dire di un atteggiamento che è socialmente neutrale. Allo stesso tempo, questa tesi coinvolge una definizione di estraneità che è in qualche modo simile alla nostra. Letteralmente, stando a Vierkandt, un’attitudine sociale nei confronti di una persona implica sempre una comunanza spirituale con quest’ultima; Vierkandt cerca di trovare questa comunanza persino nell’antagonismo e nella lotta in quanto fenomeno sociale. Il mondo sociale è comunque giustapposto nei confronti del mondo delle cose, con cui non ci vincola nessuna comunanza. “Chi appartiene alla società e chi al mondo delle cose? La più semplice fra le spiegazioni sarebbe che la società è composta da tutti gli uomini e forse da tutti gli essere animati, mentre il mondo delle cose equivale al mondo materiale. Di fatto però i confini sono […] più sfumati. Anche gli uomini possono presentarsi come elementi del mondo delle cose. In particolare l’estraneo, come in certe forme di schiavitù, può essere trattato come un semplice oggetto”37. “Un estraneo, per sua stessa natura, non ha nulla da spartire in una relazione sociale: non è considerato una persona ma rimane distante, una cosa con la quale non abbiamo nessun rapporto o soltanto un rapporto di utilità”38. “Un estraneo, sia una persona che un gruppo, è inizialmente percepito e trattato come indifferente. Solo quando si impone in modo da costituire una minaccia provoca sentimenti di odio”39. 37 38 39

Vierkandt, Gesellschaftslehre, cit., p. 172. Ivi, p. 90. Ivi, p. 91.

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Non condividiamo affatto la teoria di Vierkandt, che nasce probabilmente dall’erroneo presupposto (del resto mutuato da Simmel), che considera la condivisione di esperienze (cioè l’identificazione consapevole delle esperienze) un legame positivo fra gli uomini. Ne conseguirebbe che, se viene a mancare il legame sociale positivo, come accade fra estranei, manca anche la condivisione delle stesse esperienze; un uomo non è per l’altro una persona, un essere “cosciente”, ma solo una “cosa”. Sicuramente ci sono anche casi in cui un soggetto umano tratta degli uomini come cose, senza rendersi conto allo stesso tempo che sono esseri coscienti, ma questo non ha nulla a che fare con la questione dell’estraneità poiché in quel caso il soggetto non ha con loro alcun contatto sociale. I passanti che vengono a trovarsi nel nostro campo visivo, quando siamo immersi nei nostri pensieri e non ci accorgiamo del loro passaggio, sono un esempio di oggetti asociali per quel soggetto in quel dato momento, nonostante possano diventare nel momento successivo oggetti sociali per quel soggetto se, poniamo, uno di loro gli chiede qualcosa. Non sono questi comunque i casi che Vierkandt ha in mente quando parla del trattamento degli uomini come cose, ma quelli in cui il soggetto sa che interagisce con uomini in quanto esseri coscienti, capaci delle sue stesse esperienze, spesso confidando in questa loro capacità di agire su di esse, e che tuttavia non è interessato a loro in quanto persone. Da un punto di vista personale gli sono indifferenti; egli non li utilizza come valori sociali, ma come valori edonistici, tecnici, economici o ascetici. Questo fe75

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nomeno tuttavia si è manifestato relativamente tardi nello sviluppo della cultura poiché implica l’autonomia dei sistemi edonistici, tecnici, economici, estetici ecc. dai fattori sociali. Inoltre, ad una reificazione di questo tipo possono essere soggetti sia gli estranei che i nostri; l’indifferenza sociale può sorgere tramite il decadimento degli atteggiamenti sociali, sia negativi che positivi. La tesi di Vierkandt secondo cui di proposito gli estranei sono trattati come oggetti, era stata già avanzata, sebbene in modo meno approfondito e generale, da alcuni autori a proposito non solo della schiavitù ricordata da Vierkandt, ma anche di fenomeni come il cannibalismo e la caccia alle teste umane. Prendiamo in esame questi fenomeni per capire se veramente possano sostenere la suddetta ipotesi. Tutto ciò che sappiamo delle precedenti forme di schiavitù prova che lo schiavo non era all’inizio né “indifferente” né un “oggetto”. Questo è ovvio in quei casi in cui un rapporto sostanzialmente analogo a quello della schiavitù scaturiva dal legame fra il capo del lignaggio o di una famiglia estesa e gli altri membri del gruppo genetico [di parentela – N.d.C.]. Ma perfino quando gli schiavi erano prigionieri di guerra o membri della popolazione sottomessa, e quindi per lo più “estranei”, asserire che fossero trattati come oggetti significa attribuire ad una realtà sociale originaria una successiva finzione giuridica formulata in condizioni particolari. L’estraneo prigioniero o era ucciso, spesso prima torturato – e ciò mostra chiaramente l’atteggiamento negativo e non indifferente – o, se gli era risparmiata la vita, instaura76

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va un legame positivo con i suoi padroni. È noto che in molte tribù indù accadeva che i prigionieri non uccisi fossero adottati come membri del lignaggio; lo stesso accadeva in Africa e in Polinesia. Riteniamo che la schiavitù dei prigionieri sia nata semplicemente dall’indebolimento del sistema adottivo per ragioni che, in questo momento, non possiamo analizzare. L’opinione comune secondo cui la sua causa sia il calcolo che vede nello sfruttamento del prigioniero come schiavo un maggiore profitto della sua uccisione è un’ingenuità degna del razionalismo del diciottesimo secolo40. Ad ogni modo lo schiavo nelle popolazioni più semplici è stato sempre legato da una sorta di comunanza con il padrone; esistono fra loro obblighi reciprocamente riconosciuti, e quindi un rapporto di carattere socio-morale41. La stessa cosa può dirsi dei 40

Nella più volte menzionata opera di Sumner e Keller, che contiene un materiale eccezionalmenre ricco sulla schiavitù, incontriamo, fra l’altro, la seguente frase: «L’uomo in ogni situazione ha cercato di assicurarsi il proprio interesse; se il suo interesse era il cibo, praticava l’antropofagia, se era l’amor proprio torturava i prigionieri; quando si è più evoluto ha fatto schiavi i suoi sconfitti» (Science of Society, vol. 1, p. 22). È un’ingenuità se sta a significare che l’uomo ai livelli bassi di sviluppo agisce secondo un calcolo utilitaristico oppure è un mero truismo secondo il quale l’uomo mira ad ottenere ciò che desidera. 41 Perfino il prigioniero condannato a morte era legato da un rapporto positivo con il suo padrone che coesisteva con l’atteggiamento negativo del gruppo nemico nei suoi confronti. In Messico «il prigioniero di guerra nel momen-

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popoli dell’antico Oriente, Grecia e Roma, dove il vincolo fra il signore e lo schiavo è simile a quello genetico e comporta una sanzione religiosa. Solo molto più tardi, con lo sviluppo delle grandi opere pubbliche, come in Egitto, o della produzione privata di massa destinata agli scambi commerciali, come ai tempi dei diadòchos o durante l’Impero Romano, lo schiavo diventa maggiormente uno strumento tecnico ed economico più che un individuo sociale. Lo stesso accade all’operaio moderno nelle grandi imprese industriali, ma qui la questione dell’ “estraneità” non si pone affatto, poiché la sua posizione è definita da regole impersonali, istituzionalizzate42. Si intende che questa depersonalizzazione dello schiavo o dell’operaio è più facile quando essi sono estranei e non sono legati al padrone dalla solidarietà di gruppo; ma non tutti i rapporti sociali si basano sulla solidarietà di gruppo; sono soprattutto i rapporti padrone-servitù ad avere solitamente un carattere privato. Per quanto riguarda il cannibalismo il materiale etnografico debitamente studiato mostra inconfutabilmente che la carne umana non era affatto un cibo to in cui era catturato entrava in una sorta di rapporto di adozione con il suo padrone». Saragun, cit. da O. Stoll, Geschlechtsleben in der Völkerpsychologie, Leipzig 1908, p. 177. 42 Ciò non significa che i rapporti di schiavitù o di mercenarismo abbiano cessato di essere sociali, ma che la personalità sociale del lavoratore è ridotta alle sue prestazioni tecniche, valutate economicamente. Questa riduzione del resto non è stata mai totale come si evince dai sistemi giuridici romani e moderni.

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comune ed è errata la tesi di Frobenius43 per cui per i popoli arcaici gli estranei erano una sorta di selvaggina. Lo dimostra egregiamente Krzywicki nel suo studio Cannibali e lupi mannari44. Cibarsi di carne umana è stato sempre un atto solenne, spesso con significato sacrale. L’uomo della cui carne ci si cibava non era mai una “cosa”: non solo la forza vitale della vittima si trasferiva in colui che se ne cibava, ma il suo spirito doveva essere trattato tramite un certo rituale come oggetto sociale. Vittime del cannibalismo del resto non erano solo gli “estranei”, ma anche i “propri” spesso per pietismo. Anche se accadeva talvolta che l’antropofagia spesso praticata perdeva le caratteristiche di eccezionalità e la vittima era ridotta al valore edonistico, e cioè ritenuta solo “cibo”, ciò non significa che l’estraneo sia mai stato considerato alla stregua di “selvaggina”; analogamente vanno interpretati i rari episodi di cannibalismo nei confronti dei bambini in periodi di estrema carestia, cioè a dire che mai i bambini sono stati considerati “cibo” per gli adulti. Un’analoga degenerazione di questo atteggiamento arcaico si riscontra nella caccia ai teschi praticata in Borneo e in altre isole dell’arcipelago malese. “La storia dei pirati Dajak […] mostra la crescita del culto dei teschi parallelamente al crescente significato economico della guerra. Quando essi erano semplici agricoltori in lotta fra loro per contendersi la terra, 43 Leo Frobenius, Weltgeschichte des Krieges, Hannover 1903, cap. 1. 44 Vedi in: Ludwik Krzywicki, Studia socjologiczne [Studi sociologici], Warszawa 1920.

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prendevano le teste dei nemici uccisi in battaglia, ma quando appresero dai Malesi come arricchirsi con la pirateria, la passione per la caccia alle teste si consolidò e di conseguenza iniziarono ad organizzare imprese solo a questo scopo”45. In ogni impresa di questo tipo d’altronde gli estranei sono chiaramente trattati come nemici. “Quando i Toradja fanno una spedizione a caccia di testa umana ed entrano nel paese del nemico, non devono mangiare alcun frutto che il nemico abbia piantato né alcun animale ch’egli abbia allevato fino a che essi stessi non abbiano commesso un qualche atto di ostilità, come ardere una casa, o uccidere un uomo. […] Nell’isola di Timor, quando una spedizione guerresca torna in trionfo portando le teste dei nemici vinti, il capo della spedizione ha proibizione assoluta dalla religione e dagli usi di ritornare subito a casa sua. Gli si prepara una capanna speciale, dove deve rimanere due mesi sottoponendosi a una purificazione corporale e spirituale. […] Che queste regole siano dettate dal timore degli spiriti dell’ucciso sembra sicuro, poiché, da un altro resoconto delle cerimonie eseguite dopo una vittoriosa caccia di teste umane nella stessa isola, sappiamo che sacrifici vengono offerti in questa occasione all’anima dell’uomo a cui è stata presa la testa”46. Da quanto detto risulta che l’ambito dell’estra45

Vedi Sumner, Keller, op. cit., cit., t. I, p. 364. Fatti presi da: James G. Frazer, The Golden Bough, London 1907-1914, voll. I-XII; cit. dalla trad. italiana ridotta: Il ramo d’oro, Boringhieri, Torino 1965, vol. I, pp. 309, 333-334. 46

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neità non solo non si associa con l’ambito in cui l’uomo è ritenuto un valore impersonale, un oggetto, ma anzi in senso stretto i due ambiti si escludono a vicenda. Tralasciamo ancora una volta quei casi irrilevanti dove il soggetto non si rende veramente conto di aver a che fare con un uomo. L’“estraneità”, al pari della familiarità, nasce dal contatto sociale e il contatto sociale implica che il soggetto sa di aver a che fare con un essere umano, che possiede un’analoga coscienza e analoghe esperienze, che compie azioni che in un modo o nell’altro si incrociano con quelle dell’altro. Sia l’estraneità che la familiarità si manifestano nell’atteggiamento sociale del soggetto verso l’oggetto condizionato dall’esito del loro contatto sociale che può unirli o dividerli come esseri umani consapevoli, a seconda della loro percezione, concorde o discorde, delle comuni esperienze, se le loro azioni sono convergenti o divergenti; in breve, se il terreno del loro contatto è un sistema comune o diverso. Ma per converso, quando qualcuno “tratta un uomo come una cosa”, allora anche quando riconosce l’esistenza di esperienze comuni ad entrambi, ignora il significato che quelle esperienze possano avere per quell’uomo e, pur accorgendosi che quell’uomo compie delle azioni, non lo interessa il legame con le proprie azioni; insomma i sistemi di quell’uomo in pratica non lo interessano. Un atteggiamento così “asociale” verso qualcuno con cui comunemente ci incontriamo è così difficile da assumere che non sappiamo se sia possibile del tutto; la condizione di un tale atteggiamento è infatti che un dato uomo sia per noi solo un elemento di uno dei nostri sistemi – tecnico, economico, ecc. – e 81

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che noi si riesca a superare, perché ciò si realizzi, tutte le ragioni sociali che sorgono spontaneamente nel contatto con gli uomini. È impossibile allora che l’atteggiamento normale verso l’estraneo sia l’indifferenza sociale causata dal trattamento dell’altro come una cosa. L’indifferenza sociale può verificarsi prima ancora di classificare un soggetto umano come estraneo o nostro. Ciò accade quando all’inizio di un particolare incontro con un dato oggetto umano già sappiamo che è un oggetto umano o forse persino lo conosciamo da esperienze pregresse, ma non sappiamo ancora come lui tratterà i nostri attuali valori e azioni, se condividerà o meno il nostro sistema attuale, e non abbiamo in tal senso alcun preconcetto, positivo o negativo su di lui. Questa indifferenza tuttavia svanisce nel momento in cui diventiamo consapevoli della comunanza o della divergenza di sistemi sulla base dei quali veniamo in contatto con un dato oggetto sociale e quindi lo possiamo classificare come “nostro” o come “estraneo”. Ma se tale indifferenza dovesse rimanifestarsi successivamente, sotto l’influenza predominante ed esclusiva di altri interessi asociali, in quel caso con l’indifferenza scomparirà la “familiarità” o, alternativamente, l’“estraneità”. Non vi è dubbio che quando classifichiamo un oggetto umano come “estraneo”, così facendo lo valutiamo negativamente; egli diventa oggetto di atteggiamento sociale negativo. Questo è un fenomeno che infatti può essere verificato sempre e dovunque. Un oggetto umano indifferente, che sino ad un certo momento ha avuto soltanto un ruolo secondario nella vita del soggetto, secondario in relazione ad altri 82

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valori contenuti all’interno di un dato sistema attivo, nel momento in cui si rivela estraneo nell’ambito dello stesso sistema diventa un oggetto sociale e quindi emerge come un punto focale degli interessi attivi di tipo negativo. Egli [l’oggetto] era apparso nel campo di azione del soggetto orientato a un altro oggetto, fosse questo ugualmente sociale, oppure economico, edonistico, tecnico, religioso, ecc. Ma dal momento che il suo campo di azione si è incrociato con quello del soggetto rivelando una effettiva divergenza di attività e discordanza di valori, ciò provoca nel soggetto una percezione di estraneità che concorda con il suo iniziale atteggiamento47 ed emerge un particolare atteggiamento sociale che spinge a trattare negativamenete l’oggetto, ovvero, seguendo la terminologia tradizionale, all’antagonismo verso l’estraneo. È impossibile qui provare razionalmente né spiegare teleologicamente questo atteggiamento neanche partendo dalla situazione in cui è emerso. Passando in rassegna le sue manifestazioni riscontriamo con assoluta evidenza che tale atteggiamento nuoce il più delle volte al soggetto e spesso va contro i suoi interessi coscienti. Il soggetto tenta di razionalizzarlo, ma per lo studioso è facile vedere il carattere derivativo di questa razionalizzazione. 47 Atteggiamento che del resto di per sé è soggetto a mutamenti. Sicché, ad esempio, un soggetto, incontrando nell’azione dell’altro un ostacolo alla realizzazione di uno scopo economico, cambia l’usuale modalità di tale realizzazione. L’antagonismo verso l’estraneo si manifesta indipendentemente dal mutato atteggiamento.

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Il processo appena descritto di antagonismo verso l’estraneo, la cui matrice è l’indifferenza sociale, è soltanto una variante di processi di tipo più generale, che io chiamo processi di socializzazione, la cui essenza consiste nel processo per cui la partecipazione attiva di un individuo in una situazione pratica provoca in lui un’attitudine sociale in quanto soggetto in quella situazione. Ho descritto precedentemente altre varianti di questo tipo di processo48. L’antagonismo può tuttavia sorgere in altri modi, non soltanto nel processo di socializzazione, cioè come conseguenza dell’indifferenza sociale iniziale nei confronti di un oggetto umano di cui non sapevamo se sarebbe divenuto “estraneo” o “nostro” in una data situazione. L’antagonismo si manifesta anche quando ci approcciamo ad un oggetto umano con un “preconcetto” ostile o amichevole, cioè a dire quando lui era già ai nostri occhi un oggetto sociale, un oggetto fatto per un’azione sociale effettiva o potenziale, e quando in un contatto ravvicinato si scopre che non condivide i nostri sistemi attuali, è quindi ”estraneo”. Se invece il soggetto, quando si accosta all’oggetto, si attende una comunanza, se tende a trattarlo come “nostro”, come uno che condivide gli stessi sistemi di valori, allora la scoperta che in un dato dominio egli è un “estraneo” è accompagnata da un sentimento di disappunto, la cui responsabilità il soggetto riversa sull’oggetto. In questo caso, l’antagonismo è causato da un mutamento imprevisto della situazione iniziale, secondo la legge 48

Znaniecki, Socjologia wychowania, cit., vol. 2, pp. 134-154.

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causa-effetto, che a suo tempo abbiamo chiamato “legge di negativizzazione”. La sua versione semplificata recita: “Una reazione apparentemente ostile ad un atteggiamento amichevole, che implica un’aspettativa di reazione amichevole, genera un atteggiamento ostile”49. Se comunque il soggetto si aspettava già dall’inizio che l’oggetto si rivelasse “estraneo” in un dato contesto, in quel caso la scoperta della sua effettiva estraneità concorda con l’iniziale atteggiamento negativo che egli non fa altro che consolidare. Così, un oggetto umano considerato estraneo diventa sempre oggetto sociale di un atteggiamento negativo, ma il processo che conduce a tale risultato è diverso se al primo incontro l’oggetto era stato percepito come indifferente dal soggetto, diversamente se invece era l’obiettivo di un’attitudine sociale favorevole e differentemente ancora se il soggetto era già antagonisticamente predisposto verso di lui. Tutti e tre i processi possono essere osservati in piccola scala nella vita sociale di tutti i giorni, e li troviamo descritti nella letteratura etnografica. È impossibile stabilire quale di essi sia più arcaico dal punto di vista psico-genetico o storico, perché non si sa quale sia stato l’atteggiamento umano primordiale nei confronti di altri uomini al loro primo contatto, cioè a dire – di indifferenza, amichevolezza o ostilità. Si può sostenere la precedenza di ciascun atteggiamento con pari probabilità e spiegare gli altri due con la successiva influenza dell’ambiente. All’interno 49 Florian Znaniecki, The Laws of Social Psychology, Poznan–-Chicago 1925, p. 148.

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del contesto dello sviluppo psico-genetico dell’uomo, secondo alcune teorie, gli atteggiamenti sociali sono generalmente il prodotto dell’esperienza sociale. Da questo punto di vista si dovrebbe indicare l’indifferenza nei confronti di oggetti umani come atteggiamento originario e allo stesso tempo ritenere “simpatie” e “antipatie” che nascono negli incontri umani – come successivi, spiegabili attraverso l’influenza di esperienze positive o negative. Altre teorie, enfatizzando la natura innata degli atteggiamenti sociali o facendola derivare direttamente dagli impulsi sessuali, devono trattare l’indifferenza come un prodotto secondario di vari e intersecanti contatti; il ruolo relativo degli atteggiamenti positivi in relazione a quelli negativi rimane però problematico, ed è variamente trattato nella letteratura socio-psicologica. Non possiamo approfondire qui queste problematiche. Basti constatare che l’osservazione del comportamento dei bambini in nuovi incontri sociali nella prima età mostra la co-esistenza di un’attitudine positiva verso alcune persone, conosciute o sconosciute, insieme ad un’attitudine negativa nei riguardi di altri e di indifferenza verso altri ancora. La predominanza di una di queste attitudini sembra dipendere dall’individualità del bambino, dalle sue precedenti esperienze e dal momentaneo interesse. Similmente, anche fra i popoli semplici troveremo nei primi contatti la predominanza di atteggiamenti variegati talvolta nell’ambito della stessa cerchia culturale e persino nel prossimo vicinato; presso lo stesso popolo osserveremo delle oscillazioni che l’osservatore esterno non riesce a comprendere. Queste varietà ed oscillazioni sono state registrate 86

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presso i Polinesiani 50. Ecco quanto osservato da Sumner e Keller: “I popoli confinanti si differenziano moltissimo nell’atteggiamento verso gli estranei (nuovi venuti). Infatti accade che, ad esempio, a Formosa alcune tribù meridionali siano molto ospitali, per converso quelle settentrionali sono […] fra i popoli meno ospitali della terra”51. I resoconti dei viaggi nell’Africa Centrale confermano ad ogni passo le differenze di atteggiamento delle varie tribù verso i viaggiatori che si sono avvicinati ai loro territori. Bisogna infatti conoscere di volta in volta la cultura di un popolo nella sua interezza nonché tutta la storia dei suoi contatti con uomini sconosciuti o con nuovi vicini per spiegare perché o accade che questa mostri a priori un inspiegabile antagonismo nei confronti del nuovo contatto, come se ne prevedesse l’estraneità che il contatto dovrebbe confermare o, al contrario, è preparata a trattare i nuovi venuti come “nostri”, come se fosse certa che nei contatti più stretti si rivelino tali o, infine, assume un atteggiamento di attesa, momentaneamente indifferente, cercando tuttavia di trarre dal contatto il massimo vantaggio e difendersi da eventuali danni. Tali questioni comunque non ci riguardano da vicino, ci basta affermare che entrambi gli atteggiamenti conducono all’antagonismo, se i nuovi venuti a mano a mano che i contatti progrediscono risultano “estranei” nell’accezione che abbiamo dato al termine. Naturalmente qualificare i nuovi venuti come 50

Cfr. ad es. Friedrich Ratzel, Völkerkunde, 2ª ed., 1909, p. 176 e sgg. 51 Sumner, Keller, op. cit., vd. 1, p. 147.

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estranei non dipende dal loro effettivo comportamento nel territorio di incontro con un dato gruppo, ma dal modo in cui quel gruppo lo interpreta - interpretazione che dipende dalla predisposizione con cui il gruppo affronta i nuovi venuti. In presenza di una predisposizione ostile ogni azione dei nuovi venuti può essere interpretata come un sintomo contrario ai propri valori e di differenti atteggiamenti, come molti viaggiatori hanno sperimentato a loro detrimento. Un atteggiamento amichevole, per contro, favorisce un’interpretazione benevola del comportamento degli ospiti e sono necessarie delle azioni manifestamente ostili da parte loro per classificarli come estranei; la storia dei conquistadores spagnoli in Messico e Perù forniscono degli esempi eclatanti di quanto detto. Ma quando un individuo viene percepito di primo acchito come estraneo, divenendo così un oggetto sociale di atteggiamento antagonista, questo influenza gli ulteriori contatti sociali del soggetto con lo stesso soggetto o con quelli che appaiono a lui come appartenenti allo stesso tipo. A nostro parere dunque non vi è dubbio che, accettando il significato che abbiamo dato al concetto di estraneità nella prima parte di questo saggio, la tesi per la quale gli estranei sono soggetti sociali dagli atteggiamenti antagonisti è veritiera senza eccezioni. Per renderla però non solo più precisa ma anche più fertile sul piano scientifico di altre tesi sociologiche, dobbiamo sottoporre i fatti ad un’analisi più profonda, per scoprire le più importanti varianti di atteggiamento negativo verso gli estranei nonché il legame che intercorre fra queste ed altri atteggiamenti. 88

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In breve ricorderemo solo due tratti dell’antagonismo verso gli estranei: la relativa durata e la continuità. In seguito alla transitoria sensazione di estraneità che ci pervade quando una persona a noi vicina rivela un’improvvisa discordanza fra i suoi e i nostri valori, nasce un antagonismo di breve durata che scompare quando nuovamente ci incontriamo con quella persona su un piano di sistemi comuni. Per converso abbiamo un’ostilità, che dura per tutta la vita di un individuo o addirittura di un gruppo nell’arco di diverse generazioni, nei confronti di qualcuno con cui ogni nuovo contatto rivela un’opposizione assiologica – una divergenza di sistemi. Fra questi due opposti sono possibili degli stadi intermedi, di solidarietà, interrotti da più o meno frequenti e lunghi periodi di antagonismo o di antagonismo che non esclude sporadici atteggiamenti solidali. Le suddette differenze in sé, senza inficiare le caratteristiche degli atteggiamenti antagonistici, sollevano comunque una serie di complesse questioni sociologiche, nella misura in cui la frequenza e l’ambito dei contatti antagonistici influenzano o il grado di intensità dell’antagonismo o la sua diversità qualitativa. Non possiamo qui ad ogni modo affrontare tali questioni. Per la classificazione degli atteggiamenti e anche delle azioni antagonistiche sono importanti le differenze legate al carattere collettivo o individuale sia dell’oggetto “estraneo” sia del soggetto sociale. Gli atteggiamenti negativi, oggetto delle quali è un gruppo estraneo, differiscono da quelli che si riferiscono ad un individuo considerato estraneo poiché vengono manifestati in atti diversi. Un tipo interme89

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dio è rappresentato dall’azione antagonistica nei riguardi di uno o più individui, non in quanto singoli individui ma in quanto membri di un gruppo o come rappresentanti di una classe sociale. Un esempio di questo tipo è il più volte citato antagonismo degli indiani del Nord America nei confronti dei prigionieri di un’altra tribù, o l’antagonismo di classe di un sindacato di operai verso un imprenditore, anche se personalmente sconosciuto ai membri del sindacato. Non c’è inoltre nessun dubbio sul fatto che ci siano delle differenze tra la condotta antagonistica di una collettività nei confronti di altre collettività (folla, lignaggio, tribù, setta, nazione) e la condotta antagonistica individuale. Questa differenza tra l’azione individuale e collettiva è stata amplificata da molti sociologi ma affatto chiarita. Un atto compiuto da un individuo e un atto compiuto da un gruppo possono differenziarsi molto poco nei costituenti di base, tranne che nel modo e processo di esecuzione che deve sempre variare nell’azione collettiva e in quella individuale. Del resto, tali atti possono avere lo stesso o lo stesso tipo di oggetto, la stessa intenzione, e spesso anche strumenti simili o addirittura identici. Altre differenze frequenti tra l’azione collettiva ed individuale dipendono dalle circostanze che le accompagnano, e non dal loro carattere intrinseco; dunque possono verificarsi oppure no. Per esempio, l’antagonismo collettivo è talvolta meno riflessivo e più spontaneo di quello individuale. Questo si manifesta quando nell’azione collettiva ogni partecipante “dimentica se stesso”; fuorviato dal desiderio di collaborazione con la moltitudine; egli 90

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non ha tempo per i conflitti psichici, che frenano la sua condotta inducendolo alla riflessione solitaria; anche se è ovvio che l’antagonismo individuale può spesso essere irriflessivo piuttosto che riflessivo. D’altro canto, l’antagonismo collettivo sovente si riveste, agli occhi dei partecipanti, di un carattere di oggettiva giustificazione etica, di una sorta di “sublimità”. Questo accade, per esempio, negli antichi antagonismi tribali, in quelli religiosi più tardi e negli attuali antagonismi nazionali. Ecco un interessante esempio di tale sublimazione. “Quando gli anziani della tribù ritengono che un giovane aspirante guerriero è dotato del necessario spirito di disinteresse a tale punto che il suo futuro comportamento sarà votato al bene pubblico, allora gli permettono di accedere al rango più alto dell’iniziazione, che è la cerimonia in cui le insegne di guerriero gli vengono donate. Egli, per essere ammesso a tale rito, deve uccidere un uomo dell’altra tribù. Il momento dell’investitura con le insegne di guerriero è il momento di maggiore orgoglio nella vita di un giovane. Seduto su un trono di lance intrecciate, ascolta le storie delle eroiche gesta dei prodi della tribù, ed in presenza dell’intera tribù riceve le insegne assieme ad auspici ed espressioni di incoraggiamento. Da questo momento, è un membro maturo e si guadagna il diritto di fare una proposta di matrimonio ad una donna”52. La grande guerra [1914-1918] fornisce numerosi esempi di una simile sublimazione di antagonismo nazionale, così come l’umiliazione e la pressione di52

Ivi, p. 550.

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retta contro coloro che manifestano la mancanza di antagonismo nei confronti dei nemici della propria nazione. Non è passato molto tempo da quando, nelle guerre di religione, l’ostilità verso un altro gruppo confessionale era talvolta intesa come un obbligo verso la divinità. Va comunque detto che la sublimazione non riguarda solo l’antagonismo collettivo. Spesso la condotta individuale negativa verso qualcuno che, in un incontro con un individuo si è comportato come un “estraneo”, può venire sublimata socialmente. Ciò lo riscontriamo, ad esempio, nell’ideologia dell’onore personale, che in certi casi richiede un antagonismo difensivo mentre in altri uno aggressivo. Non mancano peraltro esempi di sublimazione religiosa di antagonismi personali: un puritano “virtuoso” considera suo dovere religioso evitare il contatto con un “peccatore” e persino comportarsi con lui con manifesta ostilità. La differenza tra antagonismo individuale e collettivo verso gli estranei, seppur evidente, non è quindi così profonda. Non va dimenticato tuttavia che queste forme di antagonismo hanno ruoli completamente diversi nella storia e nella vita sociale moderna. Così come precedentemente affermato da Gumplowicz, sebbene con qualche esagerazione, l’antagonismo collettivo si manifesta come concausa nei grandi movimenti di massa storici ed esercita un’influenza significativa sulla struttura interna e sulle mutue relazioni di grandi gruppi sociali, mentre l’antagonismo individuale si manifesta più che altro in innumerevoli fatti insignificanti della convivenza umana, importanti per ogni uomo singolarmente ma 92

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soltanto nel loro complesso interessanti per lo storico e lo studioso sociale. Prendendo in considerazione il carattere collettivo o individuale del soggetto o dell’oggetto sociale, distinguiamo dunque quattro tipi di antagonismo verso gli estranei: 1. Antagonismo collettivo nei confronti di un oggetto collettivo (ad es. antagonismo di una tribù, setta o nazione verso un’altra tribù, setta o nazione); 2. Antagonismo individuale nei confronti di un oggetto collettivo (ad es. l’odio di un individuo verso un gruppo di cui non è membro, ma che nella sua percezione lo ha danneggiato); 3. Antagonismo collettivo nei confronti di un oggetto individuale (ad es. quello degli abitanti di un villaggio nei confronti di un forestiero; quello dell’aristocrazia di un’antica polis greca verso un tiranno appoggiato dal popolo; di un inglese nei confronti di Napoleone); 4. Antagonismo individuale nei confronti di un oggetto individuale. Ribadiamo che tra questi tipi di antagonismo non ci sono frontiere ben definite, ma stadi intermedi. Per esempio, laddove due razze convivono all’interno dello stesso territorio come i bianchi ed i neri nel sud degli Stati Uniti, l’antagonismo razziale si manifesta soprattutto nell’azione inter-individuale. Va piuttosto classificato come antagonismo di primo tipo per i seguenti motivi: a) ogni individuo di una data razza che mostra ostilità nei confronti di un individuo di un’altra razza può fare conto sulla simpatia e occasionalmente sulla collaborazione degli altri, quindi possiede la con93

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sapevolezza che egli agisce come membro di una collettività razziale, e questo stato di fatto si concretizza in certe manifestazioni collettive (ad es. i linciaggi); b) l’antagonismo è diretto arbitrariamente contro qualsiasi membro della collettività razziale estranea, e le basi del contatto – che sottolinea ciascuno di essi in quanto estraneo e che evoca tendenze negative nei suoi confronti – sono in principio sempre gli stessi sistemi divergenti, che contrassegnano l’appartenenza al gruppo estraneo in contrapposizione alla propria razza. L’animosità di una persona nei confronti di un gruppo estraneo si approssima all’antagonismo collettivo quando una persona agisce non sulla base dei danni da lei subiti, ma subiti dal suo gruppo. Di converso, un’animosità collettiva può venire scomposta in animosità personali, provocate da motivazioni egoistiche. Nell’animosità degli inglesi nei confronti di Napoleone è difficile distinguere ciò che è dovuto a Napoleone come individuo, e ciò che è dovuto a lui come capo di uno stato nemico. Indubbiamente comunque le differenze tipiche sono chiare, e ci sono numerosi fatti che sono abbastanza semplici e chiaramente classificabili. La sociologia si è occupata finora soprattutto e quasi esclusivamente del primo tipo di antagonismo, cioè dell’antagonismo collettivo nei confronti di un oggetto collettivo; solo raramente sono stati considerati l’antagonismo individuale nei confronti di un oggetto collettivo, e l’antagonismo collettivo nei confronti di un oggetto individuale. Non c’è stata nessuna consapevolezza del legame esistente tra il primo tipo di antagonismo e l’ultimo tipo; non ci si è resi conto che nelle ordi94

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narie manifestazioni di ostilità interpersonale, persino all’“interno della società”, la base dell’“estraneità” nasce dalla consapevolezza della divergenza dei sistemi proprio come nel caso di conflitti “esterni”, “tra le società”. Indubbiamente, comunque, c’è una qualche giustificazione nella distinzione fra il primo tipo di antagonismo verso gli estranei come campo specifico di studio. In questo caso, l’estraneità è più pertinente all’oggetto sociale che negli altri tipi e si manifesta in modo evidente a livello della coscienza. Si può dire che, empiricamente, è un antagonismo nei confronti degli estranei par exellence, in confronto per esempio alle varie forme di antagonismo interpersonale in cui si verifica che certi attributi dell’oggetto sociale spesso sembrano oscurare la sua estraneità nella coscienza del soggetto, sicché soltanto un’analisi sociologica può rivelare il suo significato di base. Inoltre l’antagonismo collettivo è semplice e più omogeneo nei suoi sintomi. Dal momento che è espresso in attività di gruppo contro un altro gruppo, o almeno in una serie di azioni individuali simili che hanno una comune base collettiva e un comune oggetto collettivo, è più facile osservarlo e studiarlo, a maggior ragione che c’è più materiale a disposizione su tale argomento. E infine – il fatto più importante – con ogni probabilità esso costituisce un tipo primario di antagonismo sociale da cui altri tipi sono emersi con un’evoluzione successiva. Basiamo questa supposizione sulla probabilità che le condizioni originarie del vivere sociale erano tali da consentire uno spazio solo per l’antagonismo di un gruppo nei confronti di un altro gruppo. Più 95

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specificamente, supponiamo che gli uomini originariamente vivessero in raggruppamenti durevoli, non molto ampi, sebbene considerevolmente più ampi delle famiglie – i quali comunque non escludevano relazioni familiari più intime e nemmeno una disintegrazione transitoria di un gruppo in raggruppamenti più piccoli in periodi di magra alimentare53. Ipotizziamo che tali gruppi avessero una coesione culturale e sociale considerevole al loro interno, mentre esternamente fossero limitati. Queste supposizioni, accettate del resto da tempo da molti sociologi, sono corroborate da argomentazioni effettive tratte dall’etnografia e dagli studi preistorici così come da ragionamenti induttivi dagli studi successivi sugli stadi culturali che non possiamo indicare qui in dettaglio. Ricordiamo soltanto il loro corpo centrale: l’esistenza di raggruppamenti più ampi e più duraturi della famiglia è una precondizione per la creazione, il mantenimento e lo sviluppo della cultura primordiale in generale. Ebbene in queste condizioni una forte comunanza di tutta la vita culturale fra i partecipanti del gruppo dava poco spazio al sorgere di antagonismi basati sull’estraneità all’interno del gruppo, o fra individui o da parte di un individuo verso il gruppo o del gruppo verso un individuo o infine fra membri del gruppo, mentre i contatti sulla base di sistemi divergenti erano rari. Costituivano eccezioni individui non ancora del tutto socializzati (bambini) e delin53

Cfr. Ludwik Krzywicki, Na zaraniu zycia spo∏ecznego [Alle origini della vita sociale], «PrzeglaÇd Socjologiczny», 1930, vol. 1, pp. 3-10.

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quenti. All’esterno invece, in presenza di un marcato isolamento dei gruppi, c’era una scarsa opportunità per sviluppare l’atteggiamento antagonistico verso un individuo, poiché gli individui si differenziavano troppo poco dalla collettività nella percezione di individui di altri gruppi. Di rado, peraltro, accadeva che un individuo nutrisse un antagonismo verso il gruppo estraneo che non fosse condiviso dagli altri componenti del gruppo. Uno stato di fatto simile è presente fino ad oggi soprattutto presso i popoli semplici, pur in presenza di un minore isolamento di fatto fra i gruppi. Sicché ad esempio nelle società genetiche [di parentela – N.d.C.], dove nell’ambito della tribù coesistono molti lignaggi parzialmente differenziati, le forme più frequenti, seppure non più uniche, di antagonismo sociale sono gli antagonismi tribali verso altre tribù e di lignaggio verso altri lignaggi. Presso i Veddas dello Sri Lanka, i Negritos e i Pigmei, a parte rari casi di reati e repressione di crimini, un noto atteggiamento antagonista è quello puramente di gruppo verso gruppi estranei, che si manifesta ad esempio nel varcare i confini territoriali e nella vendetta per aver varcato tali confini. Si nota solo un antagonismo collettivo verso le altre collettività che si manifesta ad esempio nel delineare dei confini territoriale e nella vendetta per aver varcato tali confini. Per dimostrare tuttavia in modo univoco che l’antagonismo di gruppo è la più arcaica forma di antagonismo sociale in generale, dovremmo mostrare con esattezza anche in che modo i più importanti atteggiamenti negativi conosciuti nascano geneticamente da esso nel corso dell’evoluzione, condiziona97

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ta da un lato dalla crescente complessità dei gruppi sociali e delle società, che determina il fatto che l’estraneità in generale diventa sempre più relativa socialmente, dall’altro dal crescente aumento della diversità dei sistemi culturali che costituiscono la base del contatto, che fa sì che gli atteggiamenti antagonistici si specializzino di fatto sempre di più. Si intende che un siffatto compito travalicherebbe l’ambito del presente studio; dobbiamo quindi lasciare la nostra ipotesi senza verifica. Sottolineiamo solo il fatto che, parlando di genesi di atteggiamenti sociali negativi che nascono dall’antagonismo verso gli estranei non vogliamo comunque affermare che ogni attività che miri a risultati negativi per altri uomini sia nata da qui, ma solo quell’attività che è determinata da una particolare ostilità sociale che non è motivata da fattori reali. Accade, infatti, che un’attività che nuoce ad altri nasca semplicemente da atteggiamenti non sociali ma edonisti, economici, religiosi e così via; la sua genesi bisogna ovviamente cercarla non nella vita sociale ma in altri campi della cultura. Del resto, indipendentemente dalla questione se l’antagonismo di gruppo verso un gruppo sia o non sia la genesi di ogni forma di antagonismo sociale, lo dobbiamo studiare in modo analitico come forma in cui tutta la problematica dell’antagonismo verso gli estranei è stata posta nella sociologia. III Probabilmente la manifestazione più arcaica e più semplice di antagonismo di un gruppo contro un al98

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tro gruppo estraneo è l’evitare ogni tipo di contatto con esso o con i suoi membri. Quando in un contatto o un susseguirsi di contatti un gruppo diventa consapevole che i suoi valori sono percepiti in maniera contrastante da un altro gruppo – persino quello che non mostra la propria ostilità – e che esso manifesta atteggiamenti divergenti, allora quel gruppo diventa estraneo. In tale situazione il gruppo tende ad eliminare ed evitare tutte le influenze dell’estraneo sia nella sfera dei valori che in quella dell’agire. In altre parole, un gruppo tende a distinguere i propri sistemi dai sistemi di un gruppo estraneo in maniera tale che essi non abbiano nulla in comune e in modo che i conflitti assiologici diventino impossibili. Naturalmente un gruppo non interpreta la propria autoconsapevolezza in modo riflessivo: l’atteggiamento sorge spontaneamente sotto forma di “avversione ai contatti”. Che sia un atteggiamento manifestamente antagonistico, negativo, lo dimostra il fatto che i suoi sintomi si presentano sotto forma di tentativo di evitare ogni contatto con gli estranei. Chiamiamo questo atteggiamento antagonismo difensivo. Poiché il fattore più comune e più importante di contatto sociale è il contatto spaziale, allora l’atteggiamento in proposito si manifesta più spesso nella tendenza di sfuggire all’avvicinamento spaziale. I gruppi nomadi, oramai pochi, quando possono, si nascondono in luoghi inaccessibili per non essere avvicinati da presunti estranei: così, ad esempio, si comportano i Negritos delle Filippine ed i Pigmei africani, e anche altri popoli più evoluti senza insediamenti stabili. Non c’è dubbio che tale reazione 99

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non può essere una regola ferrea di comportamento nei confronti degli estranei e fra i popoli sedentari non può essere applicata del tutto. È comunque una tendenza universale di tutti i raggruppamenti umani cercare l’isolamento all’interno dei propri confini territoriali, il cui accesso è proscritto agli estranei. Già fra popoli che si occupano esclusivamente di caccia e di raccolta di frutti, radici, insetti, miele, ecc., così come i summenzionati Pigmei, Negritos, Veddas, ecc., ciascuna etnia possiede il proprio territorio strettamente delimitato nel quale non ammettono estranei, mentre non entrano nel territorio altrui senza permesso 54 . In Australia centrale, prima dell’arrivo dell’uomo bianco, i confini tribali erano rigorosamente rispettati. Ancora oggi esiste un’usanza secondo cui un ospite siede ad una certa distanza dal confine e attende che gli anziani lo invitino55. Gli esempi di fasce territoriali neutrali raccolte da Krzywicki56 che dividono il territorio dei gruppi di vicinato ben illustrano queste tendenze. Chiaramente un atteggiamento neutrale scoraggia i contatti fra i gruppi molto più di un semplice confine. Questa messa in esistenza non è spiegabile attraverso determinati incontri fra i gruppi, ma piuttosto dalla mutua 54

Cfr. Leonard Hobhouse, Zeitschrift für Völkerpsychologie und Soziologie, vol. 1, p. 4. Talvolta ogni famiglia ha per sé una parte del territorio tribale (Charles G. Seligman, The Veddas, Cambridge 1911, cap. 4 ), ma in questo caso non si tratta di una separazione dalle altre famiglie, solo del diritto all’uso esclusivo. 55 Cfr. Sumner, Keller, op. cit., vol. 1, p. 264. 56 Krzywicki, op. cit., cap. 2.

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tendenza ad evitare il contatto. Queste fasce territoriali tendono a originarsi più frequentemente tra popolazioni che differiscono culturalmente poiché l’estraneità è più marcata laddove ai più semplici livelli di sviluppo maggiori differenze culturali vanno di pari passo con la mancanza di contatti di ogni sorta. Con lo sviluppo dello stile di vita sedentario ogni gruppo sociale in genere, qualunque sia la regola della sua diversità, tende, per quanto possibile, alla conquista totale ed esclusiva di un territorio, da cui gli appartenenti ad altri gruppi sarebbero esclusi. Se diversi gruppi si scontrano, è ovvio che solo uno di essi può realizzare appieno questa aspirazione. Risulta da ciò che più un gruppo si distingue territorialmente, maggiore sarà la sua influenza sociale. Maggiore è l’influsso, maggior significato ha la comune appartenenza al gruppo, più spesso e permanentemente gli estranei sono esclusi da tale comunanza, più incisivo è il ruolo dell’antagonismo nei loro confronti a paragone dell’antagonismo nei confronti di coloro che sono esclusi da altri gruppi, e pertanto più efficacemente questo gruppo si distingue territorialmente. La forza sociale di una famiglia si manifesta dunque nella distinzione spaziale da altre famiglie. È noto l’isolamento spaziale e l’inavvicinabilità di piccole famiglie presso i cinesi, i semiti e nella maggior parte dei popoli ariani in diversi periodi storici. L’influsso potenziato dell’unità di stirpe o di grandi famiglie su una piccola famiglia si manifesta nella tendenza di tante piccole famiglie alla convivenza, come presso molte popolazioni della Polinesia, presso gli In101

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dios Pueblo, nella zadruga degli slavi meridionali. L’attuale indebolimento della famiglia è evidente fra l’altro nella scomparsa di case unifamiliari nelle città, nel diffondersi di condomini e di pensionati. Numerosi studi storici ed etnografici mostrano come da sempre i grandi lignaggi tendono a creare quartieri propri, separati da altre famiglie57. È noto il fenomeno della segregazione etnica in città dove vivono diverse etnie, presente nell’antica Grecia e Roma, nell’Europa medievale ed oggi negli Stati Uniti. L’antagonismo difensivo si manifesta soprattutto nella tendenza ad escludere, per quanto possibile, i membri di altre etnie o nazionalità in un dato quartiere, per evitare ogni possibile contatto e confidenza; se non è possibile realizzarlo del tutto, talvolta si lascia il quartiere dove sono riusciti in parte ad infiltrarsi gli “estranei”. Quest’ultimo fenomeno colpisce soprattutto laddove nelle residenze di nazionalità o etnie ritenute superiori cominciano a penetrare le “inferiori”. Se non si possono allontanare, come gli ebrei dai quartieri cristiani nel Medioevo o non molto tempo addietro i neri dai quartieri bianchi negli stati meridionali dell’America del Nord, i “superiori” 57

Cfr. Richard Thurnwald, Die Gemeinde der Bánaro, Stuttgart 1921; Kazimierz Tymieniecki, Spo∏eczen–s two S∏owian lechickich [La società degli slavi], Lwów 1928. Jan Krzyzanowski si occupa di questa questione dal punto di vista della struttura di gruppo nel lavoro che è pubblicato in forma abbreviata nel fascicolo in cui presentiamo il nostro saggio, «PrzeglaÇd Socjologiczny» (1930/31, vol. 1, nn. 2-4) Z zagadnien– socjologicznych pan–stwa pierwotnego [Sulle questioni sociologiche dello Stato originario].

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hanno gradualmente abbandonato quel quartiere. Esempi tipici vengono dai vecchi quartieri aristocratici di New York, Boston e altre città dell’America settentrionale, oggi abitati da immigrati o neri. Una nazione moderna che vuole o assimilare o allontanare le minoranze etniche che abitano in territori prevalentemente abitati da propri membri mostra altresì antagonismo verso gli estranei; anche se non evita del tutto contatti con stranieri, tuttavia, ritenendo il territorio come proprio valore di gruppo, vuole escludere gli estranei dalla comunanza che scaturisce dalla comune residenza. Il fatto che la comune residenza può costituire in sé un principio sufficiente di distinzione di gruppo, al pari di uno stato basato sulla nazionalità, dimostra la rilevanza dell’isolamento territoriale come sintomo e al contempo cofattore di antagonismo difensivo. Dove non è possibile realizzare una permanente separazione territoriale dagli estranei l’antagonismo difensivo di gruppo si manifesta almeno periodicamente in un separatismo di transizione durante gli incontri e nella costante segretezza attorno agli affari del gruppo (che così diventa un gruppo sociale nel vero senso della parola – per l’espressa volontà di separarsi dagli altri – anche se non lo era stato prima). Senza impelagarsi in argomenti controversi sulla genesi delle società segrete dei popoli semplici in generale, vogliamo puntualizzare il fatto che, in accordo con le scoperte dell’etnologia storica, in molti casi le società segrete di tipo religioso traggono origine dall’incontro di gruppi con differenti culti religiosi: sia gli invasori che i nativi continuano ad esercitare i loro culti in forma segreta. In altri casi una 103

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società segreta è un’associazione di clan e dal momento che i clan di solito non sono segregati territorialmente, di conseguenza la separazione, almeno in riferimento a certi valori di gruppo, viene mantenuta attraverso la segretezza. Riteniamo che la non ammissione di donne e di bambini ai segreti di un clan o una tribù possa essere interpretato allo stesso modo: come membri non paritari, essi sono considerati parzialmente estranei. Questo non spiega comunque come nasca la distinzione in membri paritari e non paritari. Inoltre la tendenza ad isolarsi dagli estranei, in se stessa, non può spiegare la segretezza come costume, e men che meno come istituzione rituale. Tuttavia la straordinaria diffusione e vitalità della segretezza di gruppo, che continuano a manifestarsi in diverse condizioni, mostrano che l’antagonismo difensivo contro gli estranei non cessa di fungere da fattore che contribuisce a questo fenomeno. Ogni banda di ragazzi, ogni famiglia, ogni circolo sociale, commerciale, partito politico, e così via, possiede i propri segreti ai quali non vuole ammettere coloro che, non appartenendo al gruppo, non ne condividono il sistema comune. Date la separazione spaziale e la segretezza, la questione di chi è estraneo di per sé e quali sono i suoi valori ed atteggiamenti non si pone affatto: è sufficiente che non condivida certi sistemi del soggetto e per evitare il contatto con esso, parziale o totale, non lo ammette nel proprio territorio. L’antagonismo difensivo assume un contorno in qualche modo diverso quando il soggetto ha degli interessi in certi sistemi valoriali dell’oggetto ‘estra104

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neo’, conoscendoli più o meno, o semplicemente supponendoli. Questa è purtroppo la ragione per cui – se un oggetto è estraneo, nella misura in cui lo è davvero – ogni cosa che appartiene a lui lo presenta in modo più o meno negativo, pericoloso, dannoso, o almeno incerto; qualcosa con cui è meglio non avere a che fare. Questa attitudine risalta in maniera evidente nella paura della magia e nella tendenza a prendere le distanze dal magico o contrastarlo. Alla luce del pensiero magico gli estranei e tutto ciò che loro attiene vengono associati a forze magiche nocive ai “nostri”, così come nocivi sono i “nostri” per gli “estranei”; la magia dei “nostri” e la magia degli “estranei” sono per principio in contraddizione. Ogni contatto con gli estranei e i loro valori deve essere quindi evitato, perché una forza malvagia potrebbe fluire verso il soggetto. L’isolamento magico è spesso legato alla separazione territoriale. Il territorio straniero è pieno di pericoli, di conseguenza non vi si dovrebbe assolutamente accedere, o solo dopo una purificazione magica, introducendo cioè forze che neutralizzano i poteri dei nemici. “Gli Jobaro temono e odiano il paese dei loro nemici, dove misteriosi pericoli soprannaturali li minacciano anche quando hanno sconfitto i loro nemici naturali […]. Il paese nemico viene allora abbandonato immediatamente”58. “Quel pezzo di terra su cui vive un gruppo di uomini è parte integrante del gruppo; non può vivere altrove e ogni altro gruppo che volesse 58 R. Karsten, Jobaro, cit. da: Sumner, Keller, op. cit., vol. 4, p. 125.

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impadronirsene e insediarvisi si esporrebbe ai peggiori pericoli. Quindi fra gruppi confinanti si verificano conflitti e guerre per invasioni, saccheggi, violazione di territorio, ma non occupazioni in senso stretto. Si nuoce al gruppo nemico, ma non si conquista la loro terra”59. Frazer cita un’osservazione di Shortland sui Maori che, trovandosi in un paese straniero, praticano certi cerimoniali per renderlo noa (pospolito), se era tapu (sacro). Il timore magico di gruppi vicini, di tutto ciò che è estraneo, fa sì che le zone confinanti siano considerate da entrambi i gruppi focolaio di ogni sorta di male; là ognuno caccia via il male dal proprio territorio dove rimane per sempre. Fino ad oggi presso questo popolo vige la credenza rudimentale per cui i campi confinanti del villaggio sono la sede prediletta del “male”. Non solo la terra, ma anche l’aria degli estranei è pericolosa. Frazer fra innumerevoli esempi raccolti riporta che in Australia avvicinandosi ad un campo nemico gli ospiti tengono in mano una corteccia o un ramo acceso per purificare l’aria o come i contadini estoni che fino a non molto tempo addietro credevano che il vento del nord portasse con sé gli influssi maligni magici degli stregoni finlandesi60. Anche il fuoco estraneo può rappresentare una minaccia; da qui il pericolo di avvicinarsi ad un falò nemico o di prendere del fuoco per il proprio utilizzo. “Presso i Ciukci il fuoco di una famiglia estranea è contagioso e vi albergano spiriti maligni. Il timore 59 Lucien Lévy-Brühl, La mentalité primitive, Paris 1922, p. 521. 60 Cfr. Frazer, Il ramo d’oro, cit., vol. I, pp. 130, 309, 323.

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del contagio si diffonde a tutti gli oggetti del focolare estraneo […] I Ciukci che si recano in un territorio straniero hanno timore di dormire in una casa estranea e mangiare cibo estraneo […] Ogni famiglia è soggetta a divieti, il più importante dei quali è il divieto allo scambio di fuoco”61. Il maggior pericolo è naturalmente rappresentato degli stessi estranei, persino in assenza di presupposte magie da loro praticate a fini maligni, ma semplicemente in forza del male insito nel loro corpo che ha l’effetto di inquinare i “nostri” valori. Presso alcuni popoli primitivi, come osserva Levi-Brühl 62, è proibito seppellire nel proprio territorio un morto che non sia appartenuto al proprio gruppo – forse per paura del suo spirito o semplicemente per non profanare la propria terra sacra. Simili divieti si riscontrato a livelli superiori, dove ad esempio presso gruppi religiosi nei cimiteri sono esclusi i corpi dei seguaci di altre fedi religiose. Anche un solo estraneo che varchi il confine del territorio del gruppo, entrando nella casa o nel villaggio, a maggior ragione, avvicinandosi al nucleo del luogo di raccoglimento del gruppo – la casa, il tempio, l’altare, il focolare – rappresenta una profanazione dei valori del gruppo, perciò o l’estraneo deve prima purificarsi o quei valori si devono purificare dopo la sua partenza. Il fenomeno dell’ospitalità non costituisce qui un’eccezione, poiché l’ospite non è un estraneo, ma un uomo con cui il contatto per una ragione o per un’altra avviene sulla base di un sistema comune. 61 62

Cfr. Sumner, Keller, op. cit., vol. 4, p. 61. Lévy-Brühl, op. cit., p. 60.

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Quindi l’ospite porta con sé una forza positiva, la “benedizione degli dei”, per converso il nuovo arrivato, che non è ospite, come mostrano innumerevoli osservazioni, è colpevole di tutte le sfortune che il gruppo sperimenta dopo la sua venuta”63. Persino i membri del proprio gruppo devono purificarsi dopo aver avuto stretti contatti con gli estranei, prima di avvicinarsi alle cose sacre del gruppo. Tuttavia se nell’isolamento territoriale il soggetto vuole fissare dei confini rigidi fra i propri e gli estranei, l’isolamento magico consente numerose, spesso sottili limitazioni e gradazioni, che sono espressione di relatività della stessa estraneità, da un lato, dall’altro di vari gradi di antagonismo difensivo. Questa relatività e gradualità compaiono soprattutto laddove vari gruppi o categorie sociali convivono senza la possibilità di evitare dal tutto i contatti spaziali. La storia della diaspora degli ebrei fornisce dei dati interessanti. L’antagonismo verso gli stranieri, come illustra il Vecchio Testamento, è presso di loro una delle più antiche tradizioni nazionali. L’isolamento spaziale degli ebrei nei ghetti, in parte voluto, in parte imposto, non realizzava questo antagonismo in modo sufficiente, poiché non è stato mai assoluto; gli ebrei, infatti, erano costretti ad avere contatti con gli stranieri in questioni economiche, e per l’appunto i rapporti economici fecero sì che gli ebrei lasciati in pace in parte lasciarono il ghetto e si mescolarono alla popolazione locale. Ma l’antagonismo si ma63

Cfr., ad es., i fatti riportati da Edward Westermark, The Origin and Devolopment of the Moral Ideas, London 1906, vol. 1, cap. 2.

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nifestò in un isolamento magico attraverso svariate norme rituali, che vietavano o limitavano i contatti reciproci: di tatto, di consumo di cibo, di rapporti sessuali, nelle questioni sacre, ecc. All’indebolimento degli antagonismi, causato dalla crescente comunanza culturale, è andata di pari passo la graduale scomparsa di questo magico isolamento per l’inosservanza di particolari norme; la rapidità di questo processo è dipesa anche dall’esistenza e dal grado di reciproco antagonismo magico verso gli ebrei in un dato ambiente sociale. È ovvio però che perfino la scomparsa dell’isolamento magico non dimostra ancora che l’antagonismo difensivo sia scomparso del tutto; in verità esso può sopravvivere in altre forme. Il sistema delle caste dell’India64 fornisce esempi classici di separazione magica in diverse gradazioni. L’antagonismo di casta è espresso primariamente nelle proibizioni che riflettono la paura di contaminazione magica, particolarmente nelle sfere del cibo e del sesso, quelle cioè che, stando alle credenze più antiche e più diffuse, creano la comunione più profonda. Qui comunque il problema è complicato dall’esistenza delle gerarchie di classe che fanno sì che l’antagonismo difensivo sia in larga parte unilaterale, praticato dalle caste superiori nei confronti delle inferiori e non viceversa. Vanno esclusi i casi in cui la posizione relativa delle caste di secondo grado sia contesa, o quando la distanza è così grande che la casta inferiore teme l’eccessiva sacralità della casta superiore, quasi allo stesso grado con cui 64 Cfr. ad es. Celestin Bouglé, Essai sur le régime des castes, Paris 1908.

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la casta superiore teme l’impurità della casta inferiore; in questi casi le caste inferiori cercano di venire in contatto sempre maggiore con le caste superiori. Pertanto si intende che l’atteggiamento della casta superiore può fornire materiale per lo studio dell’antagonismo difensivo. Di solito il grado della separazione magica cercato dalle caste superiori dipende dalla distanza gerarchica fra le caste e quindi dal grado di contaminazione che minaccia le classi superiori dal contatto con le inferiori. Un parametro assoluto di posizione gerarchica delle caste è la loro distanza dai bramini, misurato proprio sul grado di isolamento magico che i bramini cercano di mantenere fra una data casta e se stessi. Solo i paria, essendo reietti di tutte le caste, sono separati da tutti senza eccezioni. Lo stesso accade con la classe dei reietti hinin dell’antico Giappone65 e in generale con le cosiddette classi maledette. Nell’atteggiamento dei bianchi nei confronti dei neri americani prevale un altro tipo di antagonismo di una classe superiore verso una classe inferiore; nelle masse, tuttavia, si verifica qualcosa di analogo all’isolamento magico che si manifesta sotto un divieto che riguarda i contatti corporali e soprattutto la condivisione del cibo. Da questo divieto sono però esclusi certi contatti convenzionali, come il servire a tavola, e proprio questo non permette di considerarlo alla stessa stregua di un divieto magico, anche se probabilmente l’origine è la stessa. La riluttanza fisica alla razza o alla classe estranea spesso appare come una delle risultanti della separa65

Cfr. Sumner, Keller, op. cit., vol. 1, p. 572.

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zione magica. Ci si chiede pertanto, più genericamente, se le avversioni fisiche fra i gruppi non possano derivare dagli antagonismi sociali piuttosto che il contrario. Ci sono naturalmente casi di avversione fisica che può essere spiegata solo biologicamente. Ma sono casi individuali pertinenti a specifiche persone in relazione ad altre o ristretti a specifiche situazioni. Non ci sono repulsioni innate permanenti a tutti i membri della stessa collettività. E ciò trova conferma nell’analisi degli atteggiamenti convenzionali. Infatti gli atteggiamenti dei membri di una collettività durante la loro infanzia, ancora prima di apprendere tale antagonismo nel processo educativo, non rivelano simili repulsioni, neanche verso i contatti sessuali se un tabú di questo genere non si è ancorato nei costumi66. È facile infatti comprendere come l’antagonismo difensivo nei confronti degli estranei generi il timore del contatto fisico che può tradursi in contatto sociale. Ebbene, col tempo tale timore si rafforza assumendo le caratteristiche di repulsione. Sia nell’isolamento territoriale che in quello magico l’antagonismo difensivo può spingersi tanto lontano da escludere non solo il contatto fisico ma anche quello verbale – addirittura anche lo sguardo. Una parola, un gesto, uno sguardo possono preludere ad un avvicinamento fisico, ed è convinzione di molte popolazioni in cui vige il pensiero magico che portino con sé un influsso magico. Nelle manifestazioni estreme di antagonismo difensivo agli estranei non è 66 Le differenze razziali hanno in certi casi un effetto stimolante a livello sessuale.

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concesso vedere nulla di ciò che il gruppo tiene in considerazione; lo stesso sguardo lo profanerebbe. L’obbligo di cadere sul viso, inchinarsi, abbassare lo sguardo di fronte ai superiori implica il divieto originario di guardare come segno di contatto sociale eccessivamente confidenziale; altrove i superiori si nascondono alla vista degli inferiori e degli estranei in genere. Al contrario, la vista degli estranei “offende gli occhi”, e laddove l’estraneità si associa all’inferiorità si può arrivare al divieto di “guardarsi negli occhi”; le classi dei “reietti” devono sempre evitare di mostrarsi troppo alle classi sacrali. È anche noto l’evitare di parlare. Uno degli esempi più eclatanti è il cosiddetto commercio muto, quando un gruppo che vuole scambiare della merce con un gruppo estraneo la poggia in un luogo neutro e si allontana, l’altro gruppo vi poggia accanto ciò che ritiene di ugual valore e anch’esso si allontana, il primo gruppo torna e prende la merce o lascia un segno per indicare che pretende di più (oppure toglie parte della propria merce) – e così fino alla fine, senza scambiare una sola parola o gesto, spesso non vedendosi. Il cerimoniale del silenzio è del resto osservato presso molti popoli meno evoluti ai primi contatti con gruppi estranei o con loro rappresentanti, con l’arrivo di un ospite estraneo, ecc. La successiva razionalizzazione potrebbe aggiungere altri motivi a questo comportamento; riteniamo tuttavia che l’antagonismo difensivo è il motivo originario, considerando che l’intenzionalità dell’isolamento tramite il silenzio compare in altri casi in modo evidente, quando ad esempio si tratta di tenere le distanze fra classi o caste. 112

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Le parole degli “estranei” non sono gradite non solo per il loro influsso magico, ma anche perché simboleggiano oggetti, esperienze e azioni che appartengono al loro sistema di valori, introducendoli nella sfera di pensiero del soggetto sociale a cui non importa sapere nulla di ciò che riguarda gli estranei. Dall’isolamento magico passiamo all’isolamento spirituale; è il più diffuso e il più espressivo, prevale laddove un netto isolamento dei gruppi è impossibile e le credenze magiche sono scomparse. Il gruppo non vuole sapere nulla di ciò che appartiene ai contenuti sociali del gruppo estraneo e in generale della vita dei suoi membri, e, non potendo evitare del tutto situazioni in cui sistemi estranei si impongono all’attenzione, si difende stigmatizzando quei sistemi e allontanandoli dalla propria vita in quanto negativi. È qui che sta l’origine dei cosiddetti pregiudizi di gruppo: di stirpe, di razza, di nazione, di classe, di confessione religiosa e via dicendo. I pregiudizi non sono per niente giudizi errati e giudizi infondati che scaturiscono da una scarsa conoscenza del gruppo estraneo, ma da un fattivo desiderio di difesa del gruppo da eventuali legami spirituali con il gruppo estraneo. I sistemi estranei devono essere negativi proprio perché estranei; ogniqualvolta entrano, anche casualmente, nella sfera dell’esperienza del gruppo, è necessario formulare un giudizio negativo per soffocare ogni possibile interessamento. Il giudizio viene prima espresso a parole, nei casi più importanti persino con speciali rituali di anatema e stigma (la scomunica degli scritti degli eretici, la profanazione dei simboli estranei, ecc.). Se il carattere 113

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negativo dei sistemi estranei di valori non è subito visibile, bisogna cercarlo. Il membro che non lo condanna o peggio che osa riconoscere i valori estranei, è malvisto dal suo gruppo, ritenuto persino un traditore. La Grande Guerra fornisce molti esempi del genere ben noti. Il più delle volte il gruppo tende a disprezzare ciò che è diverso. Il disprezzo è infatti la più efficace arma spirituale, scongiura ogni possibilità di scoprire i sistemi che si disprezzano o di legarli ai propri sistemi. Al desiderio di disprezzo nei conflitti può accompagnarsi il timore degli estranei, nel qual caso ritroviamo vari tentativi interessanti di razionalizzazione, dei quali però non ci possiamo occupare adesso. Innumerevoli sono gli esempi di opere di diverse culture che illustrano un tale atteggiamento. Il bene estraneo è male, la bellezza estranea è bruttezza, la verità estranea è menzogna o errore, la parola estranea è insensata, il balbettio di un “muto”, la santità estranea è impurità, gli dei estranei sono demoni – non solo lo sono ma devono esserlo. Il manifestarsi di un’involontaria ammirazione per i valori estranei, e a maggior ragione l’accettazione di valori estranei, mostra che gli “estranei” non sono più tali, che una certa comunanza esisteva già; anche a questo riguardo ha dunque ragione Tarde quando afferma che la persecuzione va “dall’interno all’esterno”. *** L’antagonismo di gruppo da difensivo diventa aggressivo quando una collettività estranea (colletti114

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vamente o individualmente) sembra che reagisca alle manifestazioni di antagonismo difensivo tentando di rompere la difesa e di entrare nella vita della “nostra” collettività, la quale né desiderava né voleva imporre ad esso i sistemi “estranei”. Se c’è un forte antagonismo difensivo, perché si manifesti è sufficiente che degli estranei, in qualsiasi maniera, consapevole o meno, oltrepassino le barriere di separazione al cui interno una collettività si chiude: basta che essi entrino nel suo territorio, diventino testimoni della sua attività, scoprano i suoi segreti, la mettano sotto la propria influenza magica, si approprino dei suoi valori materiali e spirituali aggiungendoli ai propri sistemi e, quindi, in tal modo profanandoli. Anche la semplice azione di non spostarsi, incontrando casualmente qualcuno e creando così il rischio di contatto indesiderato, può essere percepito come una reazione negativa all’antagonismo difensivo. Così accade quando una “razza inferiore” o una “classe dannata” non si fa da parte immediatamente vedendo l’avvicinarsi dei rappresentanti di una razza o classe di livello superiore, così da imporre se stessi alla loro attenzione. Agli occhi di una collettività ogni manifestazione di questo tipo ha il carattere di atto ostile da parte di una collettività estranea o dei suoi membri. Questa presunta ostilità si dipana dal fatto che è contraria al tentativo di separazione della collettività. Considerare tutto ciò come ostile è originariamente irrazionale; è completamente immotivato dal punto di vista soggettivo. La razionalizzazione principale, ed anche la più comune di questo atteggiamento, è percepire nell’azione dell’altra collettività l’intenzione di nuo115

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cere. Un intento del genere esiste indubbiamente in molti casi ma certamente non in tutti. Una collettività lo imputa spesso in modo semi-cosciente agli estranei al fine di giustificare ai loro stessi occhi la propria condotta nei loro confronti. Questo accade specialmente, ma non sempre, quando l’antagonismo si palesa in conflitto con le tendenze positive e, in ultima istanza, vince, come ad esempio negli incontri ostili di un gruppo con un dato gruppo cui una volta era collegato da relazioni amichevoli, o che appartiene alla stessa società più vasta [sistema sociale]. Se diviene ovvio che un gruppo estraneo non ha intenzioni di nuocere, e ciononostante si attiva l’antagonismo nei confronti di esso, allora il gruppo in un secondo momento razionalizza la sua stessa condotta, giustificandola con considerazioni di necessità di vita, sicurezza futura, ecc. Un comportamento attraverso cui un antagonismo aggressivo si manifesta può essere generalmente definito come un tentativo estremo di distruggere totalmente o parzialmente la collettività estranea, i suoi membri, che agli occhi del soggetto sociale la rappresentano, o quanto meno in alcuni dei suoi sistemi e valori. Esamineremo queste generalizzazioni alla luce di concreti processi sociali. È noto che, presso molti popoli, gli estranei che entrano nel territorio del gruppo vengono semplicemente uccisi. Lo fanno e l’hanno fatto persino popoli generalmente pacifici, come i Veddas, i Negritos e i Pigmei. I conflitti fra i viaggiatori europei ed i nativi di Africa ed America spesso non hanno avuto altra causa che la stessa presenza del viaggiatore nel 116

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territorio del gruppo nativo, senza che si fosse stabilito a priori un qualunque legame di comunanza attraverso lo scambio di doni, sacrifici, ecc. Non è molto diversa la condotta degli stati moderni quando considerano reato l’attraversamento delle frontiere senza permesso da parte di uno straniero e una dichiarazione di guerra l’attraversamento di un gruppo più ampio, specialmente se armato. Ogniqualvolta un gruppo tenta di annientare dei nuovi venuti imputa ad essi intenzioni ostili manifeste o celate o quanto meno la possibilità di nuocere che potrebbe attivarsi in ogni momento. Le riflessioni psicologiche sul comportamento degli estranei nelle società semplici contengono elementi magici. Westermark ha raccolto numerosi fatti che mostrano come qualunque cosa vada storta in un gruppo dopo l’arrivo di estranei nel loro territorio è da attribuire alla loro malevolenza, o al loro potere negativo, anche se involontario. Così ad esempio “gli Esquimesi dopo una grave epidemia giurarono che avrebbero ucciso tutti i bianchi che avessero osato varcare i confini del loro territorio”67. Qui si può includere anche il fenomeno dell’uccisione dei superstiti e in genere degli uomini che si trovano sul territorio di un gruppo per cercare di salvarsi; sono uomini condannati da forze mistiche e quindi latori di male68. L’usanza, diffusa fra i popoli ad un livello sociale poco più alto, di servirsi dei nemici come sacrifici umani nel culto religioso, di cui tanto scrive Frazer, a proposito dei sacrifici umani in generale, 67 68

Westermark, op. cit., vol. 1, cap. 2. Lévy-Brühl, op. cit., pp. X, 5.

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ha ovviamente un significato sociale oltre a quello religioso che interessa Frazer. Il forestiero costituisce la vittima naturale espiatoria per gli dei del gruppo, poiché entrando nel territorio che si trova sotto la loro tutela ha peccato contro di essi come contro il gruppo, e pertanto deve essere punito. E il fatto che all’occasione gli si attribuiscano le colpe del gruppo come “capro espiatorio” o che figuri come la vittima del gruppo, è una questione a nostro avviso secondaria. È peraltro noto quanto forte sia l’antagonismo aggressivo che scaturisce dalla scoperta dei segreti del gruppo da parte di estranei. Osservare di nascosto una riunione di una società segreta, a cui hanno accesso solo uomini, non solo da parte di un membro di un’altra tribù, ma anche di una donna o di un bambino della propria tribù, è in molti casi punito con la morte. Sebbene spesso qui abbiamo a che fare con un metodo intenzionale e razionale di difesa dei segreti di gruppo più che con un antagonismo irrazionale verso gli estranei, tuttavia l’esistenza stessa di questo metodo non si può comprendere senza la base originaria nella forma del desiderio spontaneo di annientamento dell’estraneo che ha violato la “nostra” sacralità. In merito allo specifico isolamento magico che, come abbiamo visto, non solo può coesistere con quello territoriale e con quello segreto, ma sostituirlo, esiste una speciale categoria di fatti nei quali l’antagonismo difensivo si trasforma in antagonismo aggressivo, proprio per l’influsso di presupposte o reali stregonerie da parte degli estranei a detrimento della “nostra” collettività, anche se questi estranei riman118

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gono nel loro territorio e non si intromettono nei segreti del gruppo. “L’australiano nero […] prova un odio profondo per ogni uomo della sua razza che gli è estraneo. La ragione che essi stessi adducono per tale […] sentimento è il fatto che tutti gli estranei cercano di sottrarre loro la vita con la magia. A causa di questo convincimento gli australiani neri in stato selvaggio, quando possono, uccidono tutti gli uomini estranei che gli capitano sotto mano”69. Ritroviamo un fenomeno analogo presso i neri d’Africa. D’altronde anche fra i popoli europei sono noti fatti in cui l’odio per una nazione straniera, per una setta o razza, da difensivo si è trasformato in aggressivo e distruttivo per il sospetto di stregoneria. Si ricorderanno i fatti dell’antica Roma legati alla questione degli ebrei e dei cristiani, e del Medioevo con la persecuzione degli ebrei, dei saraceni e degli zingari, e a volte degli eretici, nella convinzione di una supposta pratica di stregoneria e simili. Una delle forme più incisive di antagonismo aggressivo è la distruzione della cultura estranea, sia materiale che spirituale. Fintanto che una cultura straniera può essere ignorata, disprezzata o perlomeno apparentemente disprezzata, la collettività la lascia in pace. Se però una collettività estranea di fatto o presumibilmente tenta di imporre la propria cultura su di “noi”, per elevarla a scapito della “nostra”, se giustappone la “sua” cultura alla “nostra”, o soltanto la sostiene fortemente quando il “nostro” gruppo vuole rendere felice tale collettività attraverso i propri valori, allora l’isolamento e il disprezzo ven69

Sumner, Keller, op. cit., vol. 1, p. 358.

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gono in essa rimpiazzati dal desiderio di annientamento. Fra gli innumerevoli esempi storici ricordiamo soltanto la storia politica, incredibilmente semplice e ripetitiva, della Mesopotamia70, le incursioni degli israeliti nella terra di Canaan, la distruzione di Cartagine e Corinto, le incursioni dei Vandali, il rogo della biblioteca di Alessandria e così via, fino ai tanti episodi della prima guerra mondiale. Ricordiamo inoltre i casi dei violenti attacchi contro le religioni diverse e le azioni coercitive che miravano allo sradicamento delle culture nazionali. Un aspetto caratteristico di molte di queste azioni antagonistiche è il disinteresse. I beni materiali degli estranei, anziché essere saccheggiati vengono distrutti, le città e i villaggi bruciati, i templi e le statue sacre abbattuti, i frutteti rasi al suolo, i raccolti calpestati e gli animali domestici massacrati. Anziché approfittare dell’eredità spirituale straniera, si cerca di sradicarla senza lasciarne traccia nè memoria – come fecero i barbari appena battezzati con la religione, la scienza, la letteratura e l’arte della Grecia e di Roma antiche, o come fanno oggi i bolscevichi con l’intera cultura spirituale, sia cristiana che ‘borghese’. Si ricorderà pure che durante la conquista di alcune città di Canaan, degli israeliti vollero prendere per sè qualcosa dei beni materiali come pure salvare alcuni bambini, donne e forse uomini per tenerli come schiavi. Ma Yahveh, come espressione dell’integrità del gruppo, ordina che ogni cosa venga distrutta o uccisa dato che ogni cosa è estranea e dunque male. Gli antagonismi che sono radicati nelle religioni ri70

Cfr. Louis Delaporte, La Mésopotamie, Paris 1923.

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sultano, come sappiamo, più feroci. Questo probabilmente accade perché i valori religiosi di un gruppo sono ai loro occhi le componenti più profonde della loro cultura e quindi è più facile che vengano profanate, mentre d’altro canto l’attività religiosa degli estranei, mettendo in campo dei poteri mistici che possono avere un’influenza imprevedibile, si presenta come la più pericolosa di altre forme di azione. Una manifestazione attiva di antagonismo aggressivo nei confronti di una collettività è, ovviamente, intesa da essa come una reazione negativa ad alcuni suoi atteggiamenti effettivi o potenziali che, di conseguenza, fa scattare un antagonismo laddove non esisteva precedentemente o, se era difensivo, lo trasforma in aggressivo o infine lo amplifica se era aggressivo. Nel cercare di esprimere in maniera attiva questo antagonismo, nuovo o potenziato che sia, questa collettività a sua volta intensifica l’antagonismo dell’altra collettività che tenta di esprimere attraverso un’azione sempre più distruttiva rispetto a prima, dando luogo nuovamente ad un’attività antagonistica intensificata, e così via. In assenza di fattori di controvalore, una volta che l’antagonismo aggressivo ha preso forma tra i due gruppi, essi lotteranno l’un contro l’altro con tutta l’ostilità di cui sono capaci fino a quando uno di loro non avrà completamente annientato l’altro. Questo stato di cose può esistere fra ogni coppia di gruppo dall’analogo principio di distinzione e integrazione, se questi gruppi si scontrano sul piano sociale: fra due lignaggi, tribù, associazioni razziali o di classe, di stato, di setta, di popolo, di nazione, ecc. Malgrado possa esistere un le121

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game fra loro, la stessa loro diversità mostra che ci sono questioni che li dividono; ogniqualvolta il loro contatto avviene nell’ambito di tali questioni, si oppongono gli uni contro gli altri come estranei. L’estraneità accompagna di norma l’antagonismo difensivo, che cessa di manifestarsi quando il contatto avviene su un piano di sistemi condivisi. Dobbiamo notare, però, che sul comportamento di ogni gruppo influisce non ciò che sostanzialmente l’altro gruppo fa ma quello che il primo gruppo pensa che faccia; ed inoltre, che ogni gruppo non segue nei propri giudizi criteri cognitivi disinteressati, ma sempre un interesse pratico. Di conseguenza, quando in un dato momento l’antagonismo difensivo del primo gruppo nei confronti del secondo è squisitamente attivo, allora qualsiasi atto dell’antagonismo difensivo del secondo gruppo, o di un suo membro, con facilità può sembrare al primo gruppo minaccioso per i suoi valori e può trasformare il suo antagonismo difensivo in antagonismo aggressivo, innescando, così facendo, una serie crescente, come una valanga, di azioni distruttive da ambo le parti. Vendetta tra lignaggi; guerre tribali dei nativi d’America; guerre fra stati e staterelli dell’antico Oriente che hanno raggiunto il loro apogeo nella storia dell’Assiria; conflitti nazionalistici moderni: tali esempi illustrano questo tipo di processo sociale. Una vendetta di lignaggio è un fenomeno interessante nel senso che qui il reciproco antagonismo si manifesta talvolta in forma estrema, nonostante il fatto che i membri dei lignaggi ostili appartengano a raggruppamenti più ampi e comuni – tribù, città, stato – e in vista di questa appartenenza hanno, o han122

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no avuto, anteriormente ad una vendetta molto in comune. Gli antagonismi nazionalistici moderni sono particolarmente istruttivi poiché mostrano come attraverso un accumulo di azioni e relazioni antagonistiche, la condotta sociale di uomini civilizzati presumibilmente abituati alla riflessione ed alla razionale giustificazione delle proprie azioni, e peraltro legati dalla condivisione dei sistemi fondamentali della cultura spirituale – come la religione, la scienza, l’arte, la morale – può, malgrado tutto, regredire allo stadio selvaggio o di primordiale barbarie.

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Nota bio-bibliografica

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1882 1900-1903 1902

1904-1907

1908-1909

1909

1910-1914

Florian Witold Znaniecki nasce il 15 gennaio a S—wiaÇtniki (presso W∏oc∏awek), nella parte della Polonia occupata dalla Russia. Si dedica alla creazione letteraria; pubblica con modesto successo poesie su diverse riviste e un poema dal titolo Cheops. Intraprende gli studi filosofici all’Università di Varsavia. Già nel primo semestre viene espulso per aver partecipato a manifestazioni patriottiche. Decide di emigrare; parte per la Svizzera; vive un periodo avventuroso; cambia spesso lavoro e luogo di dimora. Dal 1905 studia filosofia all’Università di Ginevra e dal 1907 all’Università di Zurigo. Si sposa con Emilia Szwejkowska. Nell’autunno del 1908 si trasferisce a Parigi; si iscrive all’Ecole Pratiques des Hautes Ètudes (Sorbona); segue le lezioni e i seminari di Rauh, Durkheim, Lalande, Lévy-Brühl, Belot, probabilmente Bergson ed altri. Nella primavera torna in Polonia; si iscrive all’Università Jagiellonica di Cracovia dove nell’anno seguente consegue il titolo di dottore di ricerca (il tema della tesi: Il problema del valore nella filosofia). Si trasferisce a Varsavia dove assume la carica di direttore di un ufficio di emigrazio124

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Florian Znaniecki

ne; diventa capo-redattore della rivista «Wychodz–ca Polski» (L’Emigrato Polacco). Si fa conoscere come promettente ed originale filosofo della cultura; pubblica molto. Traduce L’évolution créatrice di Henri Bergson con cui era in contatto epistolare. 1913 Znaniecki incontra William Thomas a Varsavia. 1914-1916 Invitato da Thomas, Znaniecki parte per l’America (fine luglio). Arriva a Chicago; poco dopo perde la moglie in un incidente stradale. Lavora con Thomas su The Polish Peasant in Europe and America; insegna all’Università di Chicago. 1916 Il 26 aprile sposa Eileen Markley (18861967), dottore di ricerca in giurisprudenza 1918-1920 Znaniecki si trasferisce a New York, seguendo Thomas (accusato di essere coinvolto in uno scandalo di costume viene licenziato dall’Università di Chicago) che gli affida tutto il lavoro sul The Polish Peasant (New York, 1918-1920). Nel 1919 pubblica Cultural Reality (The University of Chicago Press, Chicago). 1920-1930 A marzo Znaniecki con la moglie torna in Polonia; si stabilisce a Poznan–; dirige la cattedra di filosofia all’università. Istituisce la cattedra di sociologia; fonda l’Istitituto Sociologico; organizza diverse ricerche empiriche sul campo applicando il metodo biografico; diventa uno dei maggiori promotori della sociologia accademica; fonda una scuola sociologica. Nel 1930 fa nascere la prima rivista sociologica in Polonia «PrzeglaÇd Socjologiczny» (Rassegna Sociolo125

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Nota bio-bibliografica

gica) e diventa uno dei fondatori dell’Associazione Sociologica Polacca (PTS). Escono volumi: Upadek cywilizacji zachodniej. Szkic z pogranicza filozofii kultury i socjologii (La caduta della civiltà occidentale. Saggio di filosofia della cultura e di sociologia, Poznan–, 1921); WsteÇp do socjologii (Introduzione alla sociologia, Poznan–, 1922); The Laws of Social Psychology (WarszawaKraków-Poznan– , 1925); Socjologia wychowania (La sociologia dell’educazione, Warszawa, 1928-vol. I, 1930-vol. II). 1931-1933 Znaniecki soggiorna a New York come visiting professor alla Columbia University. Pubblica: Ludzie teraz–niejsi i cywilizacja przysz∏os–ci (La gente d’oggi e la civiltà di domani, Lwów-Warszawa, 1934). Esce: Miasto w s–wiadomos–ci jego obywateli (La città nella coscienza dei suoi cittadini, Poznan–, 1931). 1933 Esce il volume: The Method of Sociology, (Farrar and Rinehart Inc., New York, 1934). 1939 Esce il volume: Social Actions (Farrar and Rinehart Inc., New York, 1936). 1939 A giugno-agosto Znaniecki partecipa alla summer school alla Columbia University (New York). A causa dello scoppio della II guerra mondiale non riesce a tornare in Polonia; rimane negli USA. 1939-1940 Visiting professor alla Columbia University. Pubblica The Social Role of the Man of Knowledge (Columbia University Press, New York, 1940). 1940-1942 Si trasferisce all’University of Illinois in Urbana-Champaign dove insegna sociologia; 126

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1942 1945

1950 1952

1954 1958

prima come visiting professor e in seguito (1942) come professore di ruolo. Ottiene la cittadinanza americana. La fine della II guerra mondiale. Rimane negli USA. I suoi ex allievi (Józef Cha∏asin– s ki, Jan Szczepan– s ki, T. Szczurkiewicz, F. Mirek) si rivelano le figure più incisive nella ricostruzione accademica della sociologia in Polonia. La sua sociologia viene bandita dal regime comunista fino agli anni Settanta. Znaniecki si ritira dall’attività accademica; viene nominato professor emeritus. Pubblica due volumi: Cultural Sciences. Their Origin and Development e Modern Nationalities. A Sociological Study of How Nationalities Evolve (University of Illinois Press, Urbana). Viene eletto presidente dell’American Sociological Society (oggi American Sociological Association). Muore il 23 marzo a Champaign (USA).

Pubblicazioni postume: 1965 1994 1994 1998

Social Relations and Social Roles (Chandler Publishing Company, Urbana). What are Sociological problems? (Nakom, Poznan–). The Social Role of the University Student (Nakom, Poznan–). Education and Social Change (P. Lang, Frankfurt am Main).

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