René Girard e la filosofia
 9788857514505

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FILOSOFIE N. 240

Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) e Luca Taddio (Università degli Studi di Udine)

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COMITATO SCIENTIFICO

Paolo Bellini (Università “Insubria”, Varese) Claudio Bonvecchio (Università “Insubria”, Varese) Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Morris L. Ghezzi (Università degli Studi di Milano) Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna) Paolo Perticari (Università degli Studi di Bergamo) Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari) Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari) Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review

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RENÉ GIRARD E LA FILOSOFIA a cura di

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Giuseppe Fornari e Gianfranco Mormino

MIMESIS Filosofie

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© 2012 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana: Filosofie, n. 240 Isbn: 9788857514505 www.mimesisedizioni. it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

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INDICE

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INTRODUZIONE Verso nuove frontiere della conoscenza

p.

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HOBBESIANA DELLO STATO DI NATURA

p.

11

Gianfranco Mormino DAL DESIDERIO INFANTILE ALLA RELIGIONE: SPINOZA E GIRARD

p.

29

Marco Ravera GIRARD PENSATORE TRADIZIONALISTA? SUGGESTIONI MAISTRIANE NEL PENSIERO DELL’ULTIMO GIRARD

p.

43

Maria Stella Barberi DA UN LEVIATANO ALL’ALTRO. MOTIVI MIMETICI PER UN CONFRONTO TRA THOMAS HOBBES E CARL SCHMITT

p.

67

Emilia Andri “FINCHÉ VIVIAMO, DESIDERIAMO”. IL DESIDERIO NELL’ANTROPOLOGIA

Giuseppe Fornari QUALE FILOSOFIA NEL TERZO MILLENNIO? GIRARD, BATAILLE, E UNA NUOVA DEFINIZIONE DI RAZIONALITÀ FILOSOFICA

p. 107

Silvio Morigi LA “DESERTICA GEOMETRIA DEI DOPPI” VIOLENTI. TOLLERANZA, DIFFERENZE, INDIFFERENZIAZIONE CONFLITTUALE

p. 133

Claudio Tarditi MIMESI E RIDUZIONE. APPUNTI SU UN POSSIBILE RAPPORTO TRA RENÉ GIRARD E LA FENOMENOLOGIA

p. 159

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INTRODUZIONE Verso nuove frontiere della conoscenza

René Girard è uno dei pensatori più stimolanti e fecondi del panorama culturale contemporaneo, per l’indiscutibile forza delle sue idee e la loro capacità di sollecitare, in un mondo frastornato e confuso quale quello in cui viviamo, riflessioni chiare e penetranti sulla genesi dei nostri comportamenti, l’origine della cultura umana, il vero significato delle religioni, e in particolare della tradizione ebraico-cristiana, che il mondo occidentale sembra voler marginalizzare a ogni costo, cancellando le domande che tale tradizione pone alla sua storia e alla sua identità. Eppure, accanto a questa influenza innovatrice e rinfrescante, il pensiero di Girard ci presenta uno statuto epistemologico sfuggente, una collocazione culturale che a uno sguardo più attento risulta non poco problematica. Il segnale di questa posizione malcerta e in qualche misura irrisolta ci viene dal rapporto conflittuale che Girard ha sempre intrattenuto con la tradizione filosofica occidentale1: da un lato, egli ha a più riprese dichiarato di ritenere conclusa la parabola di questa forma di sapere, destinata a venir sostituita da un’indagine antropologica ormai capace di prefiggersi l’obiettivo della scientificità; dall’altro, tranne rare eccezioni, egli ha evitato il confronto coi grandi testi del pensiero filosofico, concentrando la propria analisi dapprima sul romanzo e la tragedia, allargandola in seguito ai testi fondativi delle religioni antiche e primitive e infine soffermandosi, con un’attenzione crescente negli anni, sulla Scrittura giudaico-cristiana. Questa avversione verso la dimensione filosofica si riconosce agevolmente lungo lo sviluppo della sua intera opera e ne costituisce una sorta di Leitmotiv, di motivo conduttore, se non ispiratore2. 1

2

Si veda al riguardo la raccolta di saggi, abbastanza disuguali anche nella comprensione degli autori e dei testi, René Girard, Il pensiero rivale. Dialoghi su letteratura, filosofia e antropologia, a cura di Pierpaolo Antonello, Transeuropa, Ancona-Massa 2006. Per un’analisi critica dello statuto filosofico e scientifico del pensiero girardiano si veda Giuseppe Fornari, Una nuova nozione di verità. Discussione filosofica intor-

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René Girard e la filosofia

La teoria mimetica, proposta da Girard sin da Menzogna romantica e verità romanzesca (1961) e sorta nell’alveo della critica letteraria, ambisce subito a fornire una fondazione psicologica e sociologica alle scienze dell’uomo, indicando nel desiderio mediato la matrice di ogni comportamento umano e contrapponendosi al “primato del soggetto” che caratterizza l’intera riflessione filosofica occidentale. A partire da La violenza e il sacro (1972) il pensatore avignonese, grazie all’applicazione delle dinamiche del desiderio mimetico alle religioni e culture arcaiche, ha proposto una soluzione radicalmente innovativa ai problemi affrontati dall’etnologia nell’età che va dalla seconda metà del XIX secolo a Lévi-Strauss. Il suo principale bersaglio polemico è da individuarsi nella tradizione contrattualistica e razionalistica (e perciò filosofica), a cui egli rimprovera l’incapacità di cogliere il meccanismo che porta alla costituzione dell’ordine sociale e religioso e, in particolare, la funzione della vittima espiatoria quale unico mezzo per risolvere le crisi ingenerate dal mimetismo violento. L’interpretazione del cristianesimo come svelamento delle verità fondamentali sul desiderio e sull’omicidio fondatore, inaugurata in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1978), è anch’essa giocata contro la filosofia occidentale, impegnata da sempre, secondo l’autore, nell’occultamento della violenza originaria e restia a cogliere la radicale differenza di senso tra il sacro arcaico e il messaggio evangelico. Polemicamente avversa al millenario umanesimo filosofico è infine l’ipotesi girardiana sul sorgere dell’umano da meccanismi comportamentali comuni a tutti gli animali dotati di vita sociale, avanzata per la prima volta nella seconda parte di Delle cose nascoste. Bisogna a questo punto aggiungere che l’ostilità girardiana nei confronti della filosofia non è sicuramente un fenomeno isolato nel pensiero degli ultimi due secoli, e si può arrivare a dire che corrisponda al caratteristico modus tollens con cui la filosofia del nostro tempo si è sviluppata quale coscienza critica e strumento euristico in grado di smantellare le strutture o sovrastrutture che mascherano l’oppressione, l’inautenticità, la falsità organizzata a livello sociale, politico, ideologico e culturale. È quasi superfluo ricordare la Sinistra hegeliana, per proseguire col pensiero raddrizzato sui suoi piedi come azione rivoluzionaria in Marx, con la “filosofia del martello” di Nietzsche, con l’epoché husserliana, con l’Aufbau heideggeriana,

no a Girard, prima parte di Id., Filosofia di passione. Vittima e storicità radicale, Transeuropa, Ancona-Massa 2006, pp.21-188; per una ricostruzione complessiva dello svolgimento del suo pensiero si veda il recente Gianfranco Mormino, René Girard. Il confronto con l’Altro, Carocci, Roma 2012.

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Introduzione

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sino ad arrivare ai programmi più epigonali della decostruzione derridiana o alle ripetute dichiarazioni di fine del senso, della storia, dell’uomo asseverate da tanti pensatori degli ultimi decenni. La dimostrabile circostanza che l’“iconoclastia” filosofica girardiana sia ricca di precedenti e di fenomeni corrispondenti nella filosofia a lui e a noi contemporanea – coi quali il pensatore francese si è anche misurato, e ancora una volta polemicamente – non deve tuttavia addormentare l’attenzione verso una situazione che ha del singolare, sotto il pretesto di ricondurla a qualche generica tipicità filosofica o a qualche grande categorizzazione storica e culturale. Nell’atteggiamento antifilosofico di questo autore si esprime un disagio che è stato foriero di grandi scoperte intellettuali e al tempo stesso di facili equivoci, di solito accentuati dai fenomeni di scuola difficilmente evitabili in presenza di idee innovative. E la “teoria” girardiana (com’egli ama chiamarla, ad avvalorarne la scientificità) non si è rivelata del tutto immune da questi pericoli, con le ripetute asserzioni del suo fondatore di aver raggiunto la spiegazione definitiva intorno a questioni vitali per l’umanità, con la piegatura sempre più apocalittica assunta dal suo pensiero di fronte ai fenomeni incalzanti e certamente inquietanti della globalizzazione, con la chiusura a riccio di alcuni suoi seguaci pronti a giurare sulla verità “definitiva” del desiderio mimetico, del capro espiatorio, della rivelazione biblica ed evangelica. Non abbiamo dubbi che, nelle sue formidabili acquisizioni come nelle sue idiosincrasie, il pensiero di Girard sia una testimonianza fondamentale della grandezza del pensiero contemporaneo ma anche dei suoi limiti, allorché esso tende a irrigidire e a chiudere la tensione conoscitiva e faustiana che lo ha sempre condotto verso nuove frontiere della conoscenza. *** I sette contributi che seguono, presentati il 19 novembre 2010 presso l’Università degli Studi di Milano nel corso di un convegno dedicato al tema “René Girard e la filosofia”, intendono saggiare nuove vie di interpretazione e di ricerca, che permettano di capire le ragioni del suo approccio e le possibilità di dialogo, concorde o contrastivo, che esso introduce sia rispetto ad alcuni classici della filosofia europea, sia rispetto ad alcune più recenti acquisizioni del pensiero contemporaneo. Il confronto con autori quali Hobbes, Spinoza, de Maistre, Schmitt, Bataille, Lévinas e Marion mostra, da un lato, il radicamento della teoria mimetica e vittimaria in una tradizione più ricca e complessa di quanto non lascino intendere le affermazioni di Girard, dall’altro l’emergere di sviluppi teorici, ancora tutti da esplorare e da valutare. Quello che vorremmo emergesse da questo volume è uno spirito di ricerca intenzionato a restare fedele al senso concreto della realtà umana che rappresenta l’insostituibile apporto dell’impresa gi-

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René Girard e la filosofia

rardiana, e insieme meditatamente persuaso di non dover prendere il suo contributo come l’ultima e definitiva parola riguardo ai temi appassionanti da esso toccati. Un sentito ringraziamento va alla dott.ssa Emilia Andri, che ha collaborato sia all’organizzazione del convegno sia alla redazione del volume.

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I curatori

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EMILIA ANDRI

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“FINCHÉ VIVIAMO, DESIDERIAMO”. IL DESIDERIO NELL’ANTROPOLOGIA HOBBESIANA DELLO STATO DI NATURA

Nella speculazione hobbesiana, il desiderio costituisce un elemento essenziale della natura umana, al punto che, in più occasioni, Hobbes lo fa coincidere con il movimento vitale dell’uomo, quasi che fosse una pulsione che, in sé inesauribile, esaurisce tutta l’esistenza umana, e gli attribuisce una forza superiore perfino alla ragione, che viene ridotta ad una facoltà di calcolo dei mezzi più idonei alla soddisfazione del desiderio stesso. Nel presente lavoro, si vuole delineare l’emergere, all’interno del percorso di pensiero hobbesiano, di un doppio livello di teorizzazione sul desiderio, un livello esplicito ed evidente di spiegazione meccanicistica ed un livello più caliginoso e erratico di inconsapevole intuizione mimetica. Sarebbe proprio questo, non solo il contenuto più scandaloso del pensiero hobbesiano sulla natura umana, ma altresì il fondamento proprio dell’ineliminabile conflittualità delle relazioni umane nello stato di natura. Talmente scandaloso e incandescente, che tenderà ad essere sempre più emarginato, occultato o circoscritto a brevi illuminanti attimi teorici, parallelamente al percorso di progressivo perfezionamento del rigoroso sistema deduttivo meccanicistico, a partire dagli Elements of Law Natural and Politic nel 1640, fino a scomparire quasi del tutto nel De homine del 1658. Secondo la prospettiva che qui si propone, la rottura radicale di Hobbes con l’antropologia politica tradizionale, sintetizzata nel rovesciamento del “mito” aristotelico dell’uomo come animale politico, non dipende, almeno non in modo esclusivo, dal determinismo meccanicista, ma, piuttosto, dal fatto che egli coglie con acuta lucidità quegli stessi aspetti pericolosamente mimetici e rivalitari del desiderio che saranno al centro della teoria mimetica di René Girard. Seguendo questo «filo della ragione»1, possiamo quindi ripercorrere il tracciato della riflessione hobbesiana sul desiderio. In primo luogo, è importante ribadire la centralità costitutiva dell’antropologia nel vagheggiato, e solo parzialmente realizzato, sistema delle scienze filosofiche hobbesiano.

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Hobbes 1999, p.66.

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René Girard e la filosofia

Come è noto, fin dallo Short Tract del 1631, Hobbes si accosta ad un ideale, di ascendenza aristotelico-euclidea, di una scienza rigorosa, interamente deduttiva, che deve procedere da una serie di definizioni, postulati e assiomi certi. Nel corso del terzo viaggio in continente, fra il 1634 e 1637, l’autore comincia ad elaborare l’idea degli Elementa philosophiae, un’opera che sarebbe dovuta partire dal De corpore, trattato di fondazione epistemologica di filosofia naturale, per mettere capo alla prima filosofia civile scientificamente fondata, esposta nel De cive. All’interno di quest’opera complessiva, l’imprescindibile anello di congiunzione deduttiva sarebbe dovuto essere il De homine, vale a dire, l’antropologia, intesa come studio delle specificità gnoseologiche e pratiche della natura umana. La rilevanza dell’antropologia così intesa in vista della fondazione della filosofia politica, scienza architettonica per eccellenza, viene costantemente sottolineato nelle opere hobbesiane: negli Elements, Hobbes esordisce «Per spiegare in modo vero e perspicuo gli elementi della legge naturale e di quella politica, in cui consiste lo scopo presente, occorre sapere cosa siano la natura umana, un corpo politico e ciò che chiamiamo legge»2; nel primo libro del De cive, riferendosi alla definizione di uomo come zoon politikon, si trova scritto: «Quest’assioma, sebbene accolto da molti, è falso; e l’errore è derivato da una considerazione troppo superficiale della natura umana»3; infine, nell’introduzione del Leviatano, Hobbes scrive: «Per descrivere la natura di quest’uomo artificiale considererò: in primo luogo, la sua materia e il suo artefice; in entrambi i casi si tratta dell’uomo»4. Nella prospettiva hobbesiana, la conoscenza certa ed evidente della natura umana, e, di conseguenza, delle ragioni “naturali” dell’agire umano, è indispensabile alla costruzione di una filosofia civile, scientificamente fondata, finalmente libera da dubbi e controversie, e in grado, in tal modo, di progredire su una via sicura, al pari della geometria. Solo attraverso l’analisi rigorosa della natura umana, condotta con una serie di definizioni e deduzioni, Hobbes può dimostrare che la condizione dell’uomo al di fuori della società civile, vale a dire al di fuori delle relazioni politiche, è una guerra permanente e perpetua di tutti contro tutti; riesce quindi a dimostrare che la costruzione artificiale, in quanto contrattualistica, dello Stato ha una necessità profondamente radicata nella natura umana5. Arrigo Pacchi ha notato che la vera unità del sistema hobbesiano sia da ricercare non nella realizzazione dell’ideale deduttivo, di 2 3 4 5

Hobbes 2004, p.7. Hobbes 1999, p.80. Hobbes 2009, p.6. Su questo aspetto, cfr. Izzo 2005, p.14. Secondo la proposta di lettura di Izzo, l’antropologia, quale nuova scienza dell’uomo consente «di “dedurre” l’artificio del

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E. Andri - “Finché viviamo, desideriamo”

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fatto mancata, ma nell’unità della prospettiva materialistico-meccanicistica che percorre tutto il corpus filosofico hobbesiano6. E certamente si può concordare con questa interpretazione, perché Hobbes, come già detto, fin dallo Short Tract estende materialismo e meccanicismo anche a quelle facoltà razionali della natura umana, volontà e ragione, che Cartesio aveva, invece, salvaguardato dalla fagocitazione nella res extensa. Vediamo, allora, come Hobbes espone la sua concezione meccanicistica del desiderio negli Elements of Law Natural and Politic del 1640, concezione che peraltro si manterrà con lievi modifiche nel Leviatano. Il tema del desiderio compare nel settimo capitolo, dopo aver dedicato i primi sei alla definizione della sensazione, dell’immaginazione, del discorso mentale e verbale, e alla distinzione di conoscenza sensibile e scienza. Hobbes spiega che il moto interno al capo, di cui consistono i concetti, prosegue fino al cuore, dove necessariamente dovrà assecondare o ostacolare il movimento vitale: nel primo caso si produce piacere, nel secondo caso dolore, che quindi, come le sensazioni e i concetti, non sono altro che movimenti. Questo movimento - continua Hobbes – in cui consiste il piacere o il dolore, è anche una sollecitazione o provocazione, o ad avvicinarci alla cosa che piace, o a ritrarsi dalla cosa che dispiace. E questa sollecitazione è il conato o inizio interno del moto animale, che quando l’oggetto piace si chiama appetito; quando dispiace, si chiama avversione, […]7.

Di fatto, Hobbes considera piacere, amore, appetito e desiderio nomi diversi per indicare la medesima cosa. Già da questa definizione si evince che per Hobbes il desiderio è essenzialmente desiderio acquisitivo, un movimento animale, vale a dire volontario, volto all’appropriazione di un oggetto che ha causato la percezione di piacere. Ma, proprio in riferimento all’oggetto, Hobbes, in virtù di questa spiegazione meccanicistica, fa una scoperta rivoluzionaria: Ogni uomo, dal canto suo, chiama ciò che gli piace ed è per lui dilettevole, bene; e male ciò che gli dispiace; cosicché, dato che ognuno differisce da un altro nella costituzione fisica, così ci si differenzia l’uno dall’altro anche riguardo alla comune distinzione di bene e male. Né esiste una cosa come l’ἀγαθόν ἀπλῶς, vale a dire il bene assoluto8.

6 7 8

patto politico dalle dinamiche necessarie della natura umana, spogliata di attributi ontologici e qualità morali». Cfr. Pacchi 2002, p.102. Hobbes 2004, p.35. Ivi, p.36.

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René Girard e la filosofia

Inoltre, dal momento che dipende dall’incontro fra movimento della sensazione o del concetto e movimento vitale, che per definizione è coessenziale alla vita, il desiderio è potenzialmente inarrestabile e ogni fine/ bene raggiunto diventa immediatamente un mezzo per un fine più lontano, e, in virtù dell’identificazione di bonum e finis, Hobbes nega l’esistenza di un fine ultimo:«quanto al fine ultimo, in cui gli antichi filosofi hanno posto la felicità, (…), non v’è una tal cosa a questo mondo, né una via per essa, più che per Utopia»9. Ovviamente, qui il riferimento polemico è alla filosofia pratica tradizionale, di ascendenza aristotelica, per la quale la possibilità stessa di una conoscenza razionale delle azioni umane, caratterizzate da contingenza e variabilità, è garantita dall’esistenza di un ordine ontologico ed etico, all’interno del quale spicca un fine ultimo, che preordina teleologicamente l’agire umano10. Per Hobbes, tale ordine oggettivo non sussiste, e l’uomo è, in ogni suo aspetto, un mero corpo in movimento che agisce fra altri corpi. Tuttavia, dalla riflessione hobbesiana sull’oggetto emerge qualcosa di ancora più significativo. Ad un primo sguardo, infatti, sembrerebbe che l’oggetto, in quanto causa meccanica, efficiente, del desiderio acquisitivo, abbia un ruolo preponderante nella teoria del desiderio di Hobbes, ma, ad una lettura attenta del testo, vediamo che la dimensione oggettuale rimane in un certo senso fantasmatica, perché, se qualsiasi oggetto può accendere il desiderio in un determinato momento, ma solo per essere immediatamente trasformato in mezzo/strumento per il raggiungimento di un ulteriore oggetto che si presenta, allora nessun oggetto è in realtà fondamentale nel definire la meccanica peculiare del desiderio. Tutto ciò emerge, in modo molto evidente, dalla suddetta identificazione fra fini e mezzi, per la quale tutto ciò che l’uomo desidera diventa immediatamente mezzo per un fine più lontano, destinato, a sua volta, a divenire mezzo per un fine ulteriore, e così via, all’infinito. «Finché viviamo, abbiamo dei desideri e un desiderio presuppone un fine più lontano»11, conclude Hobbes. E proprio in questo momento dell’argomentazione hobbesiana affiora, infine, l’aspetto mimetico-rivalitario, che poi, nell’approfondita trattazione delle passioni degli Elements, dominerà il campo della speculazione. Analogamente a quanto accade nella elaborazione girardiana, proprio la scomparsa della dimensione oggettuale consente più facilmente l’emergere della conflittualità inaggirabile fra due soggetti desideranti, come pure enfatizza la 9 10 11

Ibidem. Una sintesi del contrasto fra antropologia politica tradizionale e antropologia politica hobbesiana è offerta dall’Introduzione di Tito Magri in Hobbes 2004, pp.9-20, come pure in Magri 1989, pp.39-54. Hobbes 2004, p.36.

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E. Andri - “Finché viviamo, desideriamo”

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perenne insoddisfazione, la perpetua frustrazione del desiderio del soggetto12. È interessante notare, inoltre, che Hobbes, dapprima, nella descrizione del meccanismo del desiderio, comune a uomini e animali, mette in primo piano l’oggetto, che, di fatto, altro non è che un neutro oggetto di appetizione sensibile, ma, in seguito, quando si forza a comprendere le peculiarità pericolose del desiderio specificamente umano, dà luogo ad una vera e propria trasfigurazione dell’oggetto, che scompare lasciando spazio esclusivamente alla relazione fra i soggetti rivali del desiderio. In modo analogo, la teoria di Girard, al fine di superare una concezione neutra e “romantica” del desiderio e di metterne in luce il nucleo mimetico e rivalitario, conduce ad un impoverimento dello statuto dell’oggetto, che viene considerato o un ente neutro di appetito animale o un oggetto allucinato dal soggetto mimetico desiderante13. Da questo punto in poi degli Elements, l’oggetto generico del desiderio viene indicato con il termine di “potere”, che riassume in sé, non solo, tutte le facoltà del corpo e della mente, ma anche tutti quei beni/mezzi che un uomo ha al presente in vista del raggiungimento di un bene futuro. Il desiderio acquisitivo si è mutato in inesauribile desiderio di mezzi, vale a dire, in desiderio di potere, un desiderio, che, al contrario del mero appetito animale di un oggetto presente della sensazione, è tutto proiettato verso il futuro ed è tutto concentrato sul confronto con l’altro. Così, Hobbes può affermare: e quindi non dobbiamo meravigliarci, quando vediamo che quanto più gli uomini ottengono ricchezze, onori o altro potere, tanto più il loro appetito continuamente cresce; e quando essi sono giunti all’estremo grado di un tipo di potere, ne perseguono qualche altro, persistendo in un tipo, fino a che pensino di essere inferiori a qualcun altro14.

Il concetto di potere può essere definito esclusivamente all’interno della relazione competitiva, poiché la sua affermazione è strettamente connessa 12 13

14

Cfr. Girard 2009 e Girard 2005. Questo aspetto è sottolineato in particolare da Giuseppe Fornari: «è caratteristica di Girard, infatti, anche una sostanziale svalutazione dell’oggetto, che è alternativamente o l’entità fantasmatica del desiderio in delirio, o l’entità neutra del puro bisogno, restando al di là o al di qua del desiderio “corretto” e non rivalitario, così che diventa impossibile capire il suo ruolo» (Fornari 2006b, p.48). La teoria del desiderio mimetico proposta da Fornari consente, invece, di ridare centralità alla mediazione oggettuale all’interno delle relazioni e di evidenziare, quindi, anche gli aspetti creativi e fecondi delle dinamiche mimetiche. Cfr. Fornari 2006b, pp.42-60 e Fornari 2006a, pp.14-22. Hobbes 2004, p.37, corsivo mio.

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René Girard e la filosofia

alla mancanza di potere, cioè alla debolezza, di un opponente: «E poiché il potere di un uomo resiste agli effetti del potere di un altro e li contrasta, il potere assoluto non è altro che l’eccedenza del potere di uno sul potere di un altro. Infatti, uguali poteri si distruggono reciprocamente; e tale loro opposizione è chiamata conflitto»15. Le passioni, che guidano l’agire umano, nascono dal riconoscimento reciproco del potere, quindi, in ultima analisi, dal desiderio acquisitivo di potere. Prima di analizzare la gloria, passione che negli Elements ha un’importanza capitale nella dimostrazione della naturale disarmonia dei rapporti umani, sono necessarie alcune riflessioni preliminari su quella che si presenta come una deviazione nell’argomentazione hobbesiana. Nei primi otto libri degli Elements, infatti, Hobbes meticolosamente sintetizza i principi basilari della sua gnoseologia e fisiologia materialistico-meccanicistica, al fine di dedurre in modo rigoroso la definizione del desiderio; tuttavia, quando si arriva al punto che più gli interessa, vale a dire, la spiegazione del perché l’agire umano, al di fuori dello Stato, conduca inevitabilmente ad una guerra permanente, è costretto a prendere una nuova direzione argomentativa, che lo porta, con la definizione del desiderio di potere, a scorgere la natura mimetica e rivalitaria del desiderio. Se Hobbes avesse mantenuto il proprio percorso deduttivo solo all’interno dei binari di una concezione meccanicistica, non si comprende come avrebbe potuto distinguere appetito animale e desiderio umano, giacché entrambi funzionano secondo la medesima meccanica; d’altra parte, però, per Hobbes è fondamentale dimostrare la differenza fra agire animale ed umano, poiché, mentre fra gli animali è possibile una concordia di volontà diverse volte al raggiungimento del bene comune, come si afferma nel De cive16, la condizione naturale degli uomini è tale da non garantire alcun ordine gerarchico permanente. È quasi come se si insinuasse un cedimento del rigoroso argomentare hobbesiano, dipeso probabilmente anche dalla peculiare natura epistemologica che consapevolmente Hobbes attribuisce all’antropologia: da un lato, infatti, per assicurarle legittimità di scienza, le è necessario il metodo geometrico, deve essere more geometrico demonstrata, quindi bisogna partire da assiomi, postulati e definizioni certe e evidenti, e dedurne conclusioni altrettanto certe ed evidenti; dall’altro lato, però, al pari della fisica o filosofia naturale, l’antropologia non ha quale oggetto di studio qualcosa di creato dall’uomo, come una figura geometrica, al quale possa essere applicato senza residui il criterio del verum-factum, quindi è neces15 16

Ivi, p.41. Cfr. Hobbes 1999, pp.125-126.

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E. Andri - “Finché viviamo, desideriamo”

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sario il richiamo all’esperienza, che Hobbes non intende mai nel senso di esperimento scientifico. Questo riferimento all’esperienza è talmente basilare da essere sottolineato come avvertenza all’inizio di ogni opera hobbesiana: nel primo capitolo degli Elements, «Ma poiché non intendo assumere alcun concetto dogmaticamente, bensì richiamare alla mente degli uomini solo ciò che sanno, o sono in grado di sapere per loro esperienza, io spero di errare di meno»17; nella prefazione alla seconda edizione del 1647 del De cive, si afferma, in conformità al metodo analitico seguito in quest’opera, «Dunque, avendo seguito questo metodo, stabilisco in primo luogo, come principio noto a tutti per esperienza, e da tutti ammesso, che l’indole naturale degli uomini è tale che, se non vengono trattenuti dal timore di una potenza comune, diffidano l’uno dell’altro, e si temono a vicenda»18, o, ancora nel De cive, «dunque, è chiaro per esperienza a tutti coloro che hanno esaminato con attenzione le cose umane, che ogni riunione spontanea è conciliata dal bisogno reciproco o dal desiderio di gloria»19. Nell’introduzione del Leviatano, infine, Hobbes specifica con maggior precisione che cosa intenda per “esperienza”, avvalendosi del detto delfico del Γνὥθι σεαυτόν o Nosce te ipsum, il cui senso starebbe nell’insegnarci che, per la somiglianza fra i pensieri e le passioni di una persona e i pensieri e le passioni di un’altra, chiunque guardi in se stesso e consideri cosa fa e per quali ragioni quando pensa, si forma delle opinioni, ragiona, spera, teme, ecc., leggerà e conoscerà con ciò i pensieri e le passioni di tutti gli altri uomini in occasioni simili. Io affermo la somiglianza delle passioni che sono le stesse in tutti gli uomini, come il desiderio, il timore, la speranza, ecc., e non la somiglianza degli oggetti delle passioni, cioè delle cose desiderate, temute, sperate, ecc.20.

a ulteriore conferma della scomparsa della dimensione oggettuale nel momento in cui Hobbes si trova a riflettere sulla dinamica delle passioni, cioè del desiderio di potere. L’introduzione del Leviatano si conclude, addirittura, così: «Questo genere di dottrina, infatti, non ammette altra dimostrazione»21. Quindi, è in primo luogo l’esperienza fattizia, vissuta, dei rapporti fra gli uomini e dell’agire umano, ciò che conduce Hobbes ad intuire la dimensione mimetica del desiderio; ma il fatto che la conflittualità mimetica non sia deducibile in modo rigoroso dalle premesse meccani17 18 19 20 21

Hobbes 2004, p.7, corsivo mio. Hobbes 1999, p.71, corsivo mio. Ivi, p.81, corsivo mio. Hobbes 2009, p.6, corsivo dell’autore. Ivi, p.7.

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René Girard e la filosofia

cistiche dell’argomentazione hobbesiana, non diminuisce per nulla l’acutezza e la raffinatezza mostrate da Hobbes nell’indagine sulle passioni, né la verità nascosta da lui intuita. Tuttavia, in seguito, Hobbes sempre di più tenderà ad emarginare questo aspetto, cercando di attenersi con maggiore rigore all’unitarietà metodologica e teorica del proprio sistema. Inoltre, una concezione materialistica ed utilitaristica delle relazioni umane, quale quella notoriamente attribuita a Hobbes, non deve sfociare necessariamente nell’affermazione di un’inarrestabile conflittualità delle relazioni umane, arginabile solo mediante un artificio contrattualistico, se pensiamo che, ad esempio, anche Adam Smith propone una concezione individualistica ed egoistica delle relazioni umane, che tuttavia, si concilia con un’autoregolazione armoniosa e spontanea degli interessi individuali22. È il desiderio di potere, caratterizzato da un’insopprimibile spinta in avanti, in quanto si definisce in modo sempre contingente nel confronto con il potere dell’altro, il fattore che determina una perpetua e perenne escalation di violenza, alla quale è necessario, secondo Hobbes, porre un freno artificiale. Se passiamo ad esaminare la passione della gloria, così come è presentata negli Elements, si può mostrare questa dinamica autodistruttiva, magistralmente raffigurata nella famosa metafora della corsa. Negli Elements la gloria, e la sua degenerazione, la vanagloria, sono sicuramente le passioni centrali nel determinare lo stato di guerra permanente, come è stato notato da più parti23 e, in particolar modo, registrato da Arrigo Pacchi24. Se si rilegge il nono libro degli Elements alla luce dell’analisi di Pacchi, si può mettere a fuoco il rapporto fra gloria/vanagloria e mimesi. La gloria è la prima passione che nasce dal desiderio di potere ed è costitutivamente legata al riconoscimento del potere su un opponente da parte degli altri. Vediamo come Hobbes la definisce, in apertura di capitolo: «La gloria, o sentimento interno di compiacenza o trionfo della mente, è quella passione che deriva dall’immaginazione o concetto del nostro potere, superiore al potere di colui che contrasta con noi»25. Da questa stringata definizione emergono già alcuni aspetti interessanti. In primo luogo, la gloria, così come le altre passioni più significative per l’uomo, nasce da un piacere della mente, legato ad un concetto del futuro ottenuto, tramite il ragionamento, sulla base del ricordo del passato, più che da un piacere sensibile, legato esclusivamente alla soddisfazione di un organo di senso e comune

22 23 24 25

Su questo aspetto cfr. Magri 1989, pp.86-104. Cfr. Strauss 1980. Cfr. Pacchi 1998. Hobbes 2004, p.45.

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anche agli animali. Il piacere mentale, nella caratterizzazione datane da Hobbes, è molto vicino a quello stato delirante del soggetto, che Girard definisce “desiderio metafisico” o “ontologico”26; in questa fase estrema, patologica, del desiderio mimetico, il soggetto persiste nel proprio desiderio, e quindi nella rivalità con il modello, proprio perché perso nella rappresentazione allucinatoria di un futuro raggiungimento dell’oggetto, e di una futura rivalsa sul modello-ostacolo. In secondo luogo, la gloria nasce dal confronto con gli altri, e da questo confronto è costantemente alimentata, il ché evidenzia sia la natura proiettiva del desiderio di potere, che guida la ragione ad una ossessiva valutazione delle azioni degli altri, in vista di un’imitazione che li superi, sia la potenziale infinità temporale del processo, dovuta al fatto che la superiorità di potere è sempre contingente e può essere ribaltata in ogni istante. Infine, fin dall’analisi della prima passione, Hobbes descrive efficacemente la paradossalità della convivenza umana: ogni uomo ha bisogno dell’altro, non solo per far fronte agli essenziali bisogni primari, ma anche in vista della propria felicità, ma proprio la presenza dell’altro costituisce il motivo principale di frustrazione del desiderio, l’ostacolo principale al possesso desiderato, a tal punto che, qualsiasi contatto fra gli uomini, al di fuori della mediazione del potere sovrano, sfocia in un conflitto potenziale, vale a dire, in una condizione di costante pericolo e precarietà. Ma è con la nozione di vanagloria che Hobbes si accosta ancora di più all’intuizione del desiderio mimetico, come viene alla luce proprio da un’osservazione di Pacchi nell’articolo succitato. Partiamo dalla definizione di Hobbes: si distingue la gloria, che dipende da un’immaginazione ben fondata su un’esperienza sicura delle nostre azioni passate, dalla vanagloria, che dipende invece da un «fantasticare (che è anche immaginare) intorno ad azioni mai compiute, come se le avessimo compiute (…); come quando un uomo immagina se stesso nell’atto di compiere azioni di cui ha letto in qualche romanzo, o di somigliare a qualche altro uomo del quale ammira il modo di agire»27. Riferendosi a questo passo, Pacchi, la cui prospettiva speculativa è sicuramente lontana dalla teoria di Girard, significativamente osserva, dopo aver sintetizzato la definizione hobbesiana di vanagloria: «the vainglorious man is therefore half miles gloriosus half Don Quixote, two literary references that Hobbes certainly had in mind while writing these pages of the Elements»28. Qui siamo di fronte, quindi, a quel medesimo desiderio 26 27 28

Cfr. Girard 2009, pp.73-83. Hobbes 2004, pp.45-46. Pacchi 1998, p.80.

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delineato in Menzogna romantica e verità romanzesca, ed è ancora più significativa la circostanza che per ritrarre la passione della vanagloria Pacchi utilizzi quella stessa figura di Don Chisciotte, presa da Girard ad esempio del rapporto di mediazione esterna29. Ma l’osservazione di Pacchi non fa altro che rendere più esplicite le parole dello stesso Hobbes. Non solo, più avanti Hobbes aggiunge: «L’espressione della vanagloria è ciò che chiamiamo desiderio»30 e, ancora, fra i segni della vanagloria mette al primo posto «l’imitazione degli altri»31. Se consideriamo, poi, che nella delineazione dello stato di natura presente negli Elements e nel successivo De cive, i vanagloriosi sono indicati come i maggiori responsabili dello stato di guerra permanente, poiché non riconoscono l’uguaglianza naturale degli uomini e quindi, attaccando, costringono anche i moderati ad una difesa tramite l’attacco, il cerchio si chiude. Avvalendosi della sua esperienza fattuale delle relazioni umane, legata soprattutto agli ambienti di corte dell’Inghilterra del ‘600, Hobbes intuisce il ruolo fondamentale della mimesi, e del desiderio che con la mimesi coincide, lo interpreta come un generico desiderio di potere, che, quando si mantiene ancorato alla realtà, sfocia in una sana e proficua competizione, ma che rischia sempre di convertirsi in vanagloria, in un desiderio delirante, causato in primo luogo dall’imitazione, di superare l’altro con ogni mezzo possibile. Questa intuizione illuminante della pericolosità del desiderio e dell’imitazione nei rapporti umani non può derivare dalle premesse meccanicistiche e materialistiche della filosofia hobbesiana, ma esclusivamente dalla penetrante e lucida osservazione di Hobbes di rapporti umani concreti, che si svolgevano anche sotto ai suoi occhi. Le restanti passioni, di cui Hobbes fornisce un fervido ritratto, derivano tutte dal desiderio di potere, legato ad una autorappresentazione di sé che dipende, nella sua stessa essenza, dalla percezione del rivale. Vediamone alcune, quelle maggiormente collegabili alla speculazione girardiana. «Lo spirito vendicativo è quella passione che sorge quando noi ci aspettiamo o immaginiamo di indurre colui che ci ha danneggiato a trovare la propria azione dannosa per lui stesso, e a riconoscerla come tale; e questo è il colmo della vendetta»32. La vendetta consiste non solo nella retribuzione violenta, già sufficiente di per sé a dare luogo ad una escalation potenzialmente infinita di violenza33, ma soprattutto si configura come un trionfo mentale sca29 30 31 32 33

Cfr. Girard 2009. Hobbes 2004, p.46. Ibidem. Ivi, p.47, corsivo dell’autore. Cfr. Girard 2005.

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turito dal riconoscimento da parte dell’altro della sua stessa sopraffazione, vale a dire, in termini mimetici, dal riconoscimento da parte del modello di essere stato scavalcato dal suo stesso discepolo. Un’altra celebre descrizione hobbesiana riguarda la passione che suscita il riso. «La passione del riso non è altro che un improvviso senso di gloria che sorge da un’improvvisa consapevolezza di qualche superiorità insita in noi, al paragone con le debolezze altrui, o con una nostra precedente»34. Neppure il riso, quindi, è una passione neutrale o innocente, ma deriva dal desiderio di affermare la propria superiorità, affermazione che può essere sancita da una qualsiasi, anche banale, debolezza dell’avversario-modello. Ancora più rivelatrice delle relazioni mimetiche è la descrizione della passione che scatena il pianto, che deriva, secondo Hobbes, dall’improvvisa consapevolezza della propria debolezza, vale a dire inferiorità, e, considerando il pianto dei bambini, dice: «poiché essi (i bambini) pensano che ogni cosa che desiderino debba essere data loro, necessariamente ogni rifiuto dev’essere un improvviso ostacolo alla loro aspettativa, e fa loro ricordare di essere troppo deboli per impadronirsi di ciò che cercano»35. Sembra la raffigurazione perfetta della condizione di frustrazione e impotenza del discepolo, continuamente respinto dal modello! Persino la carità non viene risparmiata dalla spietata analisi hobbesiana: «Non vi può essere per un uomo prova maggiore del proprio potere, che il fatto di trovarsi in grado, non solo di realizzare i propri desideri, ma anche di assistere altri uomini nei loro; e questo è il concetto in cui consiste la carità»36. Neppure chi, in quel momento, è in una posizione di potere sfugge alla relazione mimetica, ma tende ad affermare, anche nelle azioni apparentemente più benevole, la propria superiorità di potere. La trattazione delle passioni si conclude con la metafora della vita come corsa, che dipinge in toni vividi la vita dell’uomo come una vorticosa e irrefrenabile corsa in avanti, la cui unica meta è lo stare davanti, una competizione perpetua a cui solo la morte può mettere fine: Guardare gli altri che stanno dietro, è gloria. Guardare quelli che stanno davanti, è umiltà. Il perdere terreno per guardarsi indietro, vanagloria. […] Aprirsi a forza un varco in un ostacolo improvviso, ira. Seguir d’appresso un altro, è amare. Spingere colui che così segua d’appresso, carità. […] Essere superato continuamente, è infelicità. Superare continuamente quelli davanti, è felicità. E abbandonare la pista, è morire37.

34 35 36 37

Hobbes 2004, pp.49-50. Ivi, p.50. Ivi, p.52. Ivi, p.55.

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Come già anticipato, anche nel De cive, la passione della gloria, soprattutto nella sua forma degenerata, la vanagloria, è considerata, insieme al bisogno dell’utile, una delle cause principali dello stato di guerra permanente, in quanto conduce a cercare il dominio sull’altro e si esprime anche attraverso la volontà di nuocere, tant’è che molte leggi di natura, volte al raggiungimento della pace, prescrivono comportamenti impostati sul riconoscimento dell’uguaglianza naturale degli uomini, su una mimesi “positiva”, come l’ottava legge di natura, «che ciascuno sia considerato uguale agli altri per natura»38, che vieta la superbia, o la nona legge di natura «che tutti i diritti che ciascuno richiede per sé, li conceda anche a ciascuno degli altri»39. Nel Leviatano, pubblicato nel 1651, 11 anni dopo gli Elements, la spiegazione della conflittualità dei rapporti umani, come rilevato da molti critici hobbesiani, cambia notevolmente: la trattazione delle passioni è molto più debole, precede quella del potere, e perde quindi molto della sua cogenza argomentativa, e la passione della gloria non è più così rilevante. Hobbes fornisce la medesima spiegazione meccanicistica della genesi del desiderio, con l’unica differenza che, mentre negli Elements si parte dalla percezione di piacere per arrivare all’appetito, nel Leviatano si parte dall’appetito, come movimento volontario di acquisizione, per arrivare al piacere, considerato come la manifestazione esterna di esso. Il campo della riflessione è dominato dal concetto di potere, al quale è dedicato il capitolo decimo, che, però, perde quel riferimento immediato alla relazione e al confronto, essenziale invece negli Elements, almeno così esplicitamente appare dalla definizione: «Il POTERE di un uomo (considerato in senso universale) consiste nei mezzi di cui dispone al presente per ottenere un apparente bene futuro»40. Parallelamente, anche la gloria, definita nel capitolo sesto, perde il riferimento alla necessità di un rivale: «la gioia che deriva dall’immaginare il proprio potere e la propria abilità si chiama GLORIFICAZIONE»41. Sembra quasi che Hobbes da un lato, tenti di eliminare l’aspetto mimetico, che viene riconosciuto esplicitamente solo nella definizione della vanagloria, «consistente nel fingere e nel supporre in noi stessi delle abilità che sappiamo di non possedere, è più frequente nei giovani ed è alimentata dalle storie o dai racconti cavallereschi e spesso si corregge con l’età e con il lavoro»42, 38 39 40 41 42

Hobbes 1999, p.106. Ibidem.. Hobbes 2009, p.69, corsivo dell’autore. Ivi, pp.46-47, corsivo dell’autore. Ivi, p.47.

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vanagloria che, però, non è più la passione scatenante il conflitto, mentre, dall’altro lato, cerchi di caratterizzare il conflitto come una conseguenza estrinseca del desiderio individuale di potere, non come connaturato nell’essenza del desiderio stesso. Nella definizione del Leviatano, il potere consiste solo in una serie di capacità o abilità di raggiungere un bene futuro, indipendentemente dalla competizione con un altro uomo, che eventualmente potrà arrivare perché il desiderio mira non solo al possesso di un oggetto una sola volta, ma ad assicurarsene l’accesso anche per il futuro, conducendo quindi ad una situazione di scarsità, che in seguito causa la rivalità. Inoltre il piacere mentale connesso al potere, la gioia, non deriva più dalla rappresentazione di un’affermazione di superiorità su un opponente, ma dalla rappresentazione del futuro conseguimento dell’obbiettivo; in altri termini, nella trattazione del potere, viene evidenziato il rapporto lineare soggetto-oggetto, e parallelamente trascurato il terzo termine della relazione, il modello-rivale, che negli Elements emergeva in modo preponderante. La rivalità viene solo successivamente. Vi è anche una differente sfumatura nella definizione della felicità, in chiusura del sesto capitolo: «Il continuo successo nell’ottenere quelle cose che di volta in volta si desiderano, cioè la continua riuscita, è ciò che si chiama FELICITÀ»43. Anche in questo caso, scompare il legame essenziale con il rivale, mentre viene mantenuto il legame deduttivo rigoroso con la definizione meccanicistica del desiderio, infatti Hobbes subito dopo afferma: «La vita stessa, infatti, non è altro che movimento e non può mai essere senza desiderio o senza timore, non più di quanto possa essere senza sensazione»44. La continua spinta in avanti del desiderio non dipende più dalla insopprimibile competizione con un modello-ostacolo, ma esclusivamente dalla natura della vita stessa che è movimento. Sotto il profilo dell’intuizione della natura mimetica del desiderio e della paradossalità della convivenza umana, sembra che nel Leviatano si perda molto della vividezza, forza e radicalità mostrate nella trattazione delle passioni degli Elements. La dimensione mimetica delle relazioni umane nello stato di natura ricompare in casi isolati, slegati dal ritmo incalzante della deduzione. Nel capitolo ottavo, ad esempio, si parla delle virtù intellettuali e si definisce la virtù come una qualità che si apprezza proprio per la sua eccellenza, cioè perché spicca per la sua differenza, ma, per questo motivo, «consiste nella comparazione»45; quindi, si afferma: «Con l’espressione virtù INTELLETTUALI si intendono sempre quelle capacità mentali che le persone stima43 44 45

Ivi, p.51, corsivo dell’autore. Ibidem. Ivi, p.56.

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no, apprezzano e desidererebbero possedere»46. Ritorna, quindi, il rapporto triangolare soggetto-oggetto-modello/rivale, trascurato nella riflessione sul potere, ed emerge, anche se non è tematizzato, come siano soprattutto le attestazioni di stima quelle che nascondono un desiderio di prevaricazione nei confronti di colui che si stima e per quelle stesse ragioni per le quali è oggetto della nostra stima. Un altro momento illuminante del Leviatano, a questo riguardo, compare nel capitolo decimo, nella definizione del valore o pregio di una persona, che secondo Hobbes «coincide, come per tutte le altre cose, con il suo prezzo, cioè con quanto si sarebbe disposti a dare per l’uso del suo potere»47. Hobbes ritiene che il valore di una persona dipenda esclusivamente dalla stima o valutazione degli altri, tuttavia questa stima non è una manifestazione positiva di apprezzamento delle qualità di una persona, ma un mero calcolo dei mezzi necessari per raggiungere il suo grado di potere; in altri termini, quanto più siamo disposti a fare per giungere al medesimo grado di potere di una persona, tanto più attribuiamo valore a questa stessa persona. Per concludere il percorso proposto, una breve riflessione sul De homine, sicuramente l’opera meno riuscita di Hobbes, concepita fin dagli anni 30 del ‘600, ma realizzata con fatica solo nel 1658. In quest’ultima opera, la lucidità hobbesiana nello scovare le ragioni nascoste dell’agire umano si esaurisce definitivamente, a favore di un arido meccanicismo. Scompare quasi del tutto il riferimento al confronto e alla rivalità, infatti Hobbes, nel capitolo undicesimo, dopo la consueta definizione meccanicistica del desiderio, indica immediatamente come primo dei beni perseguiti dall’uomo l’autoconservazione e definisce il potere come una qualità utile in vista della difesa, cioè per la sua efficienza nell’assicurare l’autoconservazione48. Inoltre, si ritorna ad una delineazione più tradizionale della passione, che viene ridotta ad una perturbazione dell’animo che ostacola la ragione49. Infine, anche la felicità viene considerata come una continua progressione nel desiderare, esclusivamente in base alla identificazione di vita e movimento50, già esposta nel Leviatano. La scomparsa più significativa riguarda la passione della gloria, che nel De homine viene chiamata “orgoglio” e ridotta a «una sorta di gioia, che nasce in coloro che pensano di essere molto stimati»51. Si può tentare, a questo punto, un’ipotesi di spiegazione del progressivo occultamento dell’intuizione mimetica nel percorso teorico hobbesiano. 46 47 48 49 50 51

Ibidem. Ivi, p.70. Cfr. Hobbes 1984, pp.120-121. Cfr. ivi, p.127. Cfr. ivi, p.126. Ivi, p.130.

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Dall’analisi compiuta fin qui, è evidente che l’emarginazione dell’aspetto mimetico del desiderio va di pari passo con il potenziamento dell’unico termine della relazione triangolare rimasto intoccato, il soggetto desiderante. Tale potenziamento potrebbe essere funzionale ad una fondazione più solida della sovranità, creata attraverso l’«artificio naturale»52 del contratto, passaggio cruciale che proprio nel Leviatano subisce una modifica consistente con l’introduzione della teoria dell’autorizzazione. Nel De cive, la rinuncia al diritto di resistenza ha una priorità temporale e logica, quindi fondativa, rispetto al momento della formazione della sovranità, creando non pochi problemi teorici. Il patto consiste, infatti, nell’annullamento delle volontà particolari a favore di un terzo, singolo uomo o consiglio, che continua a godere, legittimamente a questo punto, dell’originario diritto di natura; in questo modo, però, l’unità del corpo politico risulta da un vuoto, da una passiva rinuncia al diritto di natura che coincide con un impegno da parte di ciascun contraente di astenersi dalla reciprocità violenta, il cui esercizio diventa diritto esclusivo del sovrano. I sudditi sono relegati in una condizione di passività tale che la figura della persona civile assume un carattere meramente esteriore e fittizio, la cui unità è garantita esclusivamente dall’esercizio della forza e del terrore53. Questa soluzione potrebbe dipendere dal fatto che nel De cive l’individuo definisce la propria identità esclusivamente attraverso il confronto mimetico e rivalitario con l’altro/modello, del quale analizza meticolosamente le azioni, il potere, la posizione, gli averi; sono proprio queste relazioni mimetiche che connotano l’agire umano e causano in modo diretto e necessario lo stato di guerra. Il patto che consente l’uscita da questo stato, quindi, ha come suo contenuto principale la rinuncia ad ogni azione improntata ad un mimetismo violento, rinuncia che, però, definisce i contraenti essenzialmente come soggetti passivi nell’unità della persona civile. Nel Leviatano, al contrario, il potenziamento del soggetto ottenuto con il consistente occultamento del mimetismo delle relazioni umane nello stato di natura consente di fondare una figura della sovranità che incorpora effettivamente i singoli soggetti; questi ultimi, infatti, tramite l’artificio dell’autorizzazione, diventano autori attivi delle azioni e decisioni compiute dal sovrano/attore. Il mimetismo, però, ricompare nello Stato, come 52 53

Izzo 2005, p.130. Sulla naturalità del contratto come artificio cfr. ivi, pp.130138. Ecco come Roberto Esposito coglie questo aspetto aporetico del patto del De cive: «come derivare un potere positivo dalla somma di tante negazioni? È pensabile che da un insieme di passività scaturisca un principio attivo?» (Esposito 1998, p.16). Per un’ulteriore analisi di questi motivi si veda anche Izzo 2005, pp.153-159.

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vero e proprio fondamento della sovranità: il rapporto di autorizzazione si configura come una relazione mimetica fra autore/suddito e attore/sovrano, affrancata da ogni inconveniente pericoloso. La conferma migliore della natura mimetica della persona civile è la metafora teatrale che Hobbes usa in continuazione sia nel capitolo sedicesimo, dedicato alla definizione del concetto di “persona”54, sia nel capitolo successivo, sulla fondazione dello Stato:

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Cosicché una persona è la stessa cosa di un attore, sia sul palcoscenico sia nella vita quotidiana; e impersonare è fare la parte di (to act) o rappresentare, se stessi o altri, e chi fa la parte di un altro è detto dar corpo alla sua persona o agire in suo nome […]55.

Il riaffiorare del mimetismo nel momento fondativo del potere sovrano conduce, però, ad un esito paradossale, imprevisto da Hobbes, la destituzione della soggettività forte, fondata nello stato di natura, degli autori della sovranità: «Essere identici al sovrano significa consegnargli interamente la propria soggettività. Rinunciare a qualsiasi margine di autonomia rispetto alle sue azioni, appunto perché considerate come proprie»56. La proposta teorica di un legame costitutivo, nella speculazione hobbesiana, fra il diverso ruolo assegnato alla mimesi nella definizione dei rapporti umani nello stato di natura e le diverse soluzioni giuridico-politiche allo stato di guerra è ancora presentata in via ipotetica e necessita di ulteriori approfondimenti; tuttavia, fornisce un’ulteriore conferma dell’importanza fondamentale di un’accurata analisi della concezione hobbesiana del desiderio, che ne metta in luce anche la taciuta, ma profonda intuizione mimetica, in vista, non solo, di un chiarimento dell’antropologia dello stato di natura, ma, altresì, di una maggiore comprensione della struttura del Leviatano, «di quel dio mortale, al quale dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa»57.

54 55 56 57

Il capitolo sedicesimo, peraltro, chiude la prima parte del Leviatano, dedicata all’uomo, e costituisce lo snodo fondamentale che lega questa parte alla successiva, che analizza lo Stato. Hobbes 2009, p.131, corsivo dell’autore. Esposito 1998, p.18. Hobbes 2009, p.143.

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Riferimenti bibliografici Esposito 1998: Roberto Esposito, Communitas: origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998. Fornari 2006a : Giuseppe Fornari, Da Dioniso a Cristo. Conoscenza e sacrificio nel mondo greco e nella civiltà occidentale, Marietti, Genova 2006. Fornari 2006b: Giuseppe Fornari, Filosofia di passione. Vittima e storicità radicale, Transeuropa, Massa 2006. Girard 2005: René Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 2005. Girard 2009: René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 2009. Hobbes 1984: Thomas Hobbes, De homine, a cura di Arrigo Pacchi, Laterza, Bari 1984. Hobbes 1999: Thomas Hobbes, De cive. Elementi filosofici sul cittadino, a cura di Tito Magri, Editori Riuniti, Roma 1999. Hobbes 2004: Thomas Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, Sansoni, Milano 2004. Hobbes 2009: Thomas Hobbes, Leviatano o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile, a cura di Arrigo Pacchi con la collaborazione di Agostino Lupoli, Laterza, Bari 2009. Izzo 2005: Francesca Izzo, Forme della modernità. Antropologia, politica e teologia in Thomas Hobbes, Laterza, Bari 2005. Magri 1989, Saggio su Thomas Hobbes. Gli elementi della politica, Il Saggiatore, Milano 1989. Pacchi 1998: Arrigo Pacchi, Scritti hobbesiani, 1978-1990, a cura di Agostino Lupoli, Francoangeli, Milano 1998. Pacchi 2002: Arrigo Pacchi, Introduzione a Hobbes, Laterza Bari, 2002.

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GIANFRANCO MORMINO

DAL DESIDERIO INFANTILE ALLA RELIGIONE: SPINOZA E GIRARD

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1. Il mancato incontro di Girard con la filosofia Negli scritti di René Girard si trovano di frequente eloquenti proclami contro la filosofia occidentale, da lui giudicata una forma di sapere ormai sterile, incapace di cogliere le verità essenziali sul desiderio, sui fondamenti della vita associata, sull’origine e la natura della religione e, soprattutto, sull’epocale cambiamento che egli ritiene sia occorso nella storia umana con la rivelazione evangelica del meccanismo vittimario; il compito conoscitivo che la filosofia ha assolto nei secoli può ormai ricadere, secondo Girard, sulle spalle ben più solide della ricerca scientifica, alle cui regole egli sostiene di attenersi in modo rigoroso nelle proprie ricerche antropologiche1. Le sue opere, spesso costruite come estesi commentari a scritti della più varia natura, non affrontano mai nel dettaglio testi filosofici completi, limitandosi a rare osservazioni — pur a volte illuminanti — su passi avulsi dal contesto. Incontriamo Anassimandro ed Eraclito, Empedocle e Platone, Aristotele e Agostino, Montaigne e Pascal, Hobbes e Rousseau, Hegel e Nietzsche, Heidegger e Sartre, Lévinas e Derrida, ma gli autori sotto il cui segno si colloca la parabola teorica di Girard sono altri: i romanzieri studiati in Menzogna romantica e verità romanzesca (Cervantes, Stendhal, Flaubert, Dostoevskij, Proust), i tragici greci, Racine, Molière e Shakespeare, gli antropologi del XIX e del XX secolo, Hölderlin, Clausewitz, Darwin e Durkheim; a questi va aggiunta un’ampia selezione di testi religiosi, dai miti arcaici e primitivi alla Bibbia, e, su tutti, Freud, il vero modelloostacolo con il quale egli non ha mai smesso di confrontarsi.

1

«La morte della filosofia per me è una cosa da prendere molto sul serio, ma può solo significare ancora una volta quello che ha già significato in altri settori dai quali la filosofia e le metodologie dogmatiche ad essa ispirate sono state rimosse con successo: l’attraversamento di una soglia scientifica. Le domande alle quali queste metodologie non possono rispondere troveranno risposta in un contesto scientifico» (Girard 2005, p.138).

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René Girard e la filosofia

Per spiegare tale scelta non vale ricordare che la formazione accademica di Girard fu di storico, come testimoniano entrambe le dissertazioni da lui scritte prima presso l’École des Chartes a Parigi (1947) e poi presso l’Università dell’Indiana (1950): egli stesso minimizza infatti l’importanza dei propri studi, che non spiegano il suo successivo interesse per la letteratura e per l’etnologia, campi nei quali egli si gettò con l’entusiasmo — e la genialità — dell’autodidatta. Niente di simile accadde invece con la filosofia, nonostante la lettura di alcune opere del pensiero francese degli anni a cavallo della Seconda Guerra Mondiale. Sembra dunque più rispondente al vero affermare che furono ragioni culturali forti a tenerlo a distanza da questa disciplina. Sin dai suoi primi lavori, in effetti, egli esprime un deciso «fastidio [...] per ogni lingua disincarnata, astratta e filosofica»2, atteggiamento che in Menzogna romantica trova una precisa definizione teorica: «ogni sintesi che perviene a un oggetto o a un pensiero astratto, e non a un rapporto vivo fra due individui, rimane incompleta»3. La sua impresa si configura come tentativo di comprensione delle concrete interazioni tra esseri umani, àmbito nel quale il romanzo o la tragedia, nonostante il loro carattere di finzione, hanno molto più da dire di qualsiasi generalizzazione; egli sviluppa perciò nella prima fase del suo pensiero l’idea di una “letteratura come teoria”4, contrapponendosi alla tendenza secondo la quale le opere letterarie devono essere lette alla luce di teorie a esse esterne, che siano la psicoanalisi, lo strutturalismo, il marxismo o il positivismo. Il successivo interesse per il patrimonio mitografico e per i testi religiosi del mondo classico e giudaico-cristiano confermerà la sua predilezione per un pensiero che nasce “dal basso”, ossia dalle passioni individuali e soprattutto dall’elaborazione collettiva dei grandi avvenimenti che segnano la vita dei popoli. Girard articola la propria opposizione alla filosofia occidentale individuando due punti fondamentali di disaccordo. In primo luogo egli imputa ai filosofi quello che egli chiama “mito del soggetto”, ossia la convinzione che i desideri nascano spontaneamente da un’essenza individuale già formata, anziché dall’imitazione dei desideri dell’Altro e delle tendenze sociali predominanti. Nella sua teoria mimetica la libertà dell’individuo è praticamente nulla: la sua volontà dipende dall’azione di modelli prestigiosi che ne producono i desideri e li indirizzano verso obiettivi che egli crede di scegliere ma che in realtà gli sono imposti dall’esterno. In secondo 2 3 4

Girard 2008b, p.30, trad. mia. Girard 2003a, p.156. Cfr. Palaver 2004, pp.17-19; Doran 2008, p.XIV; Fleming 2004, p.12.

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luogo egli vede nella filosofia, sostanzialmente a partire da Platone, il tentativo di occultare il fondamento oscuro della religione, di dissimulare le origini cruente del sacro attraverso una «ripulitura della mitologia»5 che tende a esonerare la collettività dalla violenza originaria; la stessa ipocrisia egli vede all’opera nelle dottrine che postulano un contratto sociale come momento fondativo dell’ordine politico, laddove l’antropologia girardiana individua proprio nella persecuzione unanime di vittime indifese l’unica dinamica capace di fondare una coesistenza relativamente pacifica. Al pari della tragedia greca, ma ancora più ostinatamente, la filosofia occidentale è colpevole di chiudere gli occhi di fronte alla constatazione che «il santuario più intimo della cultura umana in realtà è un centro putrefatto»6, ossia che all’origine di ogni ordine socio-religioso vi è un omicidio collettivo. Ciò nonostante, nel pensiero di Girard si ritrovano un vigoroso sforzo di individuare leggi e meccanismi universali dell’agire umano attraverso una metodologia razionale e un atteggiamento aperto all’apporto delle più varie discipline, proprio come accade per larga parte del pensiero filosofico. Si può dunque avanzare il sospetto che il suo rifiuto abbia soprattutto una motivazione ideologica, che si attiva soprattutto nei confronti del pensiero della modernità: l’atteggiamento anticristiano di una larga parte della riflessione filosofica dei secoli XVII e XVIII, comune anche agli antropologi del XIX e del XX secolo, è responsabile per Girard dell’incapacità di cogliere l’assoluta differenza conoscitiva ed etica tra le religioni arcaiche, fondate sull’assunzione del punto di vista dei persecutori, e quella biblica, nella quale si afferma per la prima volta il punto di vista delle vittime. Girard stende perciò un velo di silenzio su quegli autori moderni, quali Hobbes e Spinoza, che pure, adottando un punto di vista radicalmente antiplatonico, hanno prima di lui saputo intravedere il mimetismo del desiderio e fornire una lettura immanentista dei meccanismi di formazione del religioso. In ciò ha senz’altro influito anche il pensiero del Derrida di La farmacia di Platone, interpretato da Girard come definizione di uno schema secondo il quale «nel corso della Storia, l’esistenza della filosofia occidentale, eternamente “socratica” o “platonica”, è dipesa dall’espulsione del proprio doppio sofista, espulsione mai percepita come tale fintantoché è stata ratificata dall’unanime consenso di tutti i filosofi»7. Tale semplificazione gli ha fatto ignorare l’esistenza di correnti di pensiero che affrontano il problema del nesso tra società e religione in modi del tutto differenti da quello dell’auto5 6 7

Girard 2004, p.128. Girard 2001a, p.360. Girard 2009, p.113; cfr. anche Girard 2003a, pp.410-412.

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re della Repubblica e delle Leggi. Può dunque essere interessante proporre un confronto tra Girard e la critica filosofica della religione dei secoli XVII e XVIII, dal momento che, eccettuato il giudizio sul cristianesimo, su alcuni punti esistono, come vedremo, significative convergenze. In queste pagine ci limiteremo, per ragioni di spazio, al confronto con Spinoza, autore del tutto assente nel corpus girardiano ma che, come è già stato notato da alcuni lettori8, presenta molteplici spunti teorici oggettivamente assai vicini ad aspetti cruciali del pensiero dell’antropologo franco-americano9. I temi sui quali ci concentreremo nel prossimo paragrafo sono due: in primo luogo cercheremo di mostrare che la teoria mimetica, premessa necessaria dell’intera antropologia girardiana, è largamente rinvenibile nella trattazione spinoziana degli affetti, nella quale sono anche definite con straordinaria lucidità le conseguenze rivalitarie alle quali conduce l’imitazione appropriativa. In secondo luogo mostreremo come in entrambi gli autori la vita psichica del bambino, proprio a causa della sua dipendenza dal giudizio altrui, sia il luogo nel quale bisogna cercare la spiegazione della natura ambivalente del sacro e la causa del “delirio” superstizioso — per parlare con Spinoza — ovvero dei fenomeni di possessione che, per Girard, definiscono l’esperienza religiosa originaria. Nel terzo paragrafo, infine, cercheremo di applicare le riflessioni così maturate alla definizione paolina del cristianesimo come “nutrimento per adulti”. La tesi girardiana circa la differenza radicale tra le religioni arcaiche e quella biblica si fonda sull’opposizione tra ignoranza e coscienza della realtà; egli è perciò in parziale sintonia con Spinoza nell’analisi delle religioni più antiche ma se ne discosta nettamente per quanto riguarda il cristianesimo (e, entro certi limiti, l’ebraismo), che egli considera “religione adulta” in quanto fondata sulla comprensione del meccanismo proiettivo e illusorio che sta a fondamento del sacro. Il confronto tra i due autori mira a cogliere le simiglianze e le differenze che intercorrono tra il sapere filosofico di Spinoza, che consente di praticare la vera virtù, e il sapere antropologico di Girard, che apre la

8 9

Cfr. ad esempio Vinolo 2005, p.20; Palaver 2004, pp.138-140; Salari 2001; Uenu 1999, p.91n; Piro 2005, p.54. È necessario precisare, a rischio di incorrere nella più classica excusatio non petita, che non intendiamo qui scrivere una pagina di storia immaginaria della filosofia; l’impossibilità di delineare una connessione diretta tra i due autori non impedisce di avvalersi di una metodologia di indagine largamente sfruttata dallo stesso Girard nel profilare il proprio percorso teorico. Il carattere mimetico del comportamento umano è una di quelle verità tanto evidenti, a partire almeno da Aristotele, da rendere inevitabile che più autori vi riflettano anche a partire da approcci totalmente differenti.

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possibilità di svincolarsi dal conformismo violento e dunque di costruire un rapporto eticamente corretto con l’Altro.

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2. Dalla fluctuatio animi al double bind Ho già trattato altrove nel dettaglio il confronto tra la imitatio affectuum spinoziana e la mimesi girardiana, dimostrando come entrambe traggano origine da un’analisi della situazione psico-fisica del bambino10; riprendo qui in modo fortemente abbreviato quelle argomentazioni nell’intento di mostrare non solo che è possibile istituire un autentico dialogo tra i due autori nell’ambito della teoria del desiderio ma anche che le loro concezioni circa la natura e l’origine della religione traggono la loro origine proprio dall’esame della psicologia infantile — in modo assai simile a quanto accade negli scritti freudiani. L’imitazione teorizzata da Spinoza in Etica III si configura, proprio come la mimesi girardiana, come una facoltà appropriativa, che spinge l’individuo a dirigere il proprio desiderio verso l’oggetto che un altro individuo ha già mostrato di desiderare11. Non è dunque dall’intrinseca bontà dell’oggetto né dalla spontanea volizione del soggetto che nascono i desideri, bensì dall’imitazione di un modello o mediatore; quest’ultimo, dunque, se da un lato indica all’imitatore (il “discepolo”) quali beni desiderare, si trasforma allo stesso tempo in ostacolo al loro conseguimento, dal momento che è il primo ad averne preso possesso. Si tratta di un meccanismo necessario, governato dalle immutabili leggi della natura umana e applicabile a tutti i rapporti sociali; in particolare, il desiderio mediato è all’origine di tutte le dinamiche che conducono alla rivalità. Tale processo ha inizio nella fase dell’infanzia: il bambino, non sapendo ancora cosa desiderare, si volge necessariamente all’imitazione di ciò che vede intorno a sé, assorbendo, per così dire, i desideri di chi gli è simile12. Decisivo, nella scelta del modello, è il processo immaginativo, soggetto a inevitabili errori dovuti a una conoscenza inadeguata di sé e degli altri. I modelli pos10 11 12

Il mio contributo, dal titolo L’imitazione degli affetti. Spunti per una teoria del desiderio in Spinoza e Girard, è in corso di stampa all’interno del volume Spinozismo e scienze sociali, curato da Nicola Marcucci. Cfr. Spinoza 2002, p.192, E3 p27sc. «Sappiamo per esperienza che i bambini, poiché il loro corpo è come in continuo equilibrio, ridono o piangono per il fatto solo che vedono gli altri ridere o piangere; e qualunque cosa, inoltre, vedono fare agli altri desiderano subito imitarla e, infine, desiderano per sé tutte le cose da cui immaginano che gli altri traggano diletto» (ivi, p.196, E3 p32sc).

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sono essere, in primo luogo, i genitori ma sia Spinoza sia Girard osservano come anche altri individui prossimi al bambino possano esercitare il medesimo ruolo; se nel Breve trattato Spinoza insiste sulla figura del padre come modello privilegiato13, nell’Etica tale riferimento viene a cadere, per lasciare spazio alla generica imitazione di un individuo considerato come res nobis similis. Le circostanze non cambiano nella vita adulta, dove, allo stesso modo, manca al soggetto una conoscenza adeguata del proprio corpo e di quello altrui e dove, dunque, si dà un’imitazione fondata sulla semplice immaginazione della simiglianza tra noi e gli altri14. Bisogna qui sottolineare come il processo mimetico non indirizzi verso il soddisfacimento di bisogni autentici, essendo fondato su una conoscenza inadeguata del sé; il suo risultato è anzi il più delle volte dannoso, perché spinge verso desideri che portano alla competizione. Tra i suoi esiti necessari si conta infatti nell’adulto soprattutto l’ambizione, definita da Spinoza come «la Cupidità dalla quale tutti gli affetti [...] sono alimentati e corroborati»15, passione che può spingerci a «fare o omettere certe cose con danno nostro o degli altri»16. Se teniamo presente che all’origine della mimesi vi è un’identificazione con l’Altro, la res nobis similis, è chiaro che tale meccanismo è all’origine della fluctuatio animi che caratterizza la vita affettiva umana: la rivalità prodotta dall’interferenza del modello-ostacolo non può infatti essere disgiunta da un affetto d’amore e dallo sforzo di farsi riamare17. Tale processo produce dunque un’ambivalenza emotiva prima nel bambino e poi nell’adulto, che vede in tutti gli altri uomini altrettanti rivali ma, allo stesso tempo, altrettanti modelli dai quali esige di essere amato. La dinamica, come abbiamo visto, non si limita ai rapporti con i genitori ma si estende ai rapporti con qualsiasi altro essere umano, secondo una prospettiva che distingue sia Spinoza sia Girard dal modello edipico freudiano. Anche Girard, infatti, vede nei fenomeni psichici della vita infantile il paradigma di tutti i rapporti intersoggettivi, mettendo in particolare risalto 13

14 15 16 17

«Questo [sc. l’amore che sorge solo dal sentito dire] lo osserviamo comunemente nei figli rispetto al loro padre: i quali, poiché il padre dice che questo o quello è buono, sono a ciò inclini senza saperne niente di più» (Spinoza 1986, p.213, II, 3-5). «In verità il modello (epistemologico) del comportamento umano (del vulgus), secondo Spinoza, è il bambino stesso!» (Bove 2002, p.118). Spinoza 2002, p.227, E3 def.aff44ex. Ivi, p.194, E3 p29sc, corsivi miei. «Se, dunque, una cosa è simile a noi, ci sforzeremo [...] di procurarle Gioia a preferenza che ad altre, ossia ci sforzeremo, per quanto possiamo, di far sì che la cosa amata sia affetta da Gioia in concomitanza con l’idea di noi, cioè [...] che a sua volta ci ami» (ivi, p.197, E3 p33d).

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le conseguenze negative che ne derivano. La rivalità tra padre e figlio, sulla quale Freud incentra la propria analisi, è vista anche da Girard come reale ma la sua causa è individuata nella reazione del genitore ai desideri del bambino, interpretati dall’adulto come una minaccia al proprio primato. Solo in seguito alla risposta repressiva del genitore il bambino comprende che il proprio desiderio di identificazione può ingenerare un conflitto e inizia a comprendere che l’adulto si frappone tra sé e i suoi desideri. Da quel momento ogni rapporto con l’Altro sarà caratterizzato dall’ambivalenza e sarà passibile di trasformarsi in sentimento competitivo; l’educazione del bambino alla violenza può scaturire dal rapporto con il padre ma anche con qualsiasi altro modello: «tutto può cominciare non importa dove, non importa quando, con il primo venuto»18. Le passioni competitive (invidia, gelosia, rivalità) non si originano perciò, né in Girard né in Spinoza, da un’innata tendenza al male dell’essere umano19, bensì in quella sfera che, con un neologismo, Girard definisce “interdividuale”; esse obbediscono alla medesima legge psicologica che sta a fondamento delle fruttuose relazioni di apprendimento e di cooperazione, quella appunto dell’imitazione. Alla notissima osservazione spinoziana secondo cui «dalla stessa proprietà della natura umana dalla quale segue che gli uomini sono compassionevoli, segue anche che sono invidiosi e ambiziosi»20 corrisponde infatti, quasi esattamente, la distinzione girardiana tra una mimesi pacifica e una mimesi rivalitaria, le quali derivano da un unico meccanismo e si differenziano solo per circostanze accidentali, quali la maggiore o minore prossimità tra soggetto e modello21. L’impossibilità di condividere un bene può senz’altro giocare un ruolo nell’insorgere della rivalità ma per spiegare cosa spinga due individui a ricercare lo stesso bene, e dunque a cadere nella spirale masochistica dell’invidia e della contesa, bisogna ritornare alla condizione infantile, vero luogo d’origine delle modalità d’interazione sociale. L’esperienza che segna la vita del bambino è la contraddittorietà degli imperativi sociali ai quali è

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Girard 1976, p.30; trad. mia. «L’idea di un istinto — o se si vuole di una pulsione — che porterebbe l’uomo verso la violenza o verso la morte [...] non è che una posizione mitica di ripiego, un combattimento di retroguardia dell’illusione ancestrale che spinge gli uomini a porre la loro violenza fuori di se stessi, a farne un dio, un destino, o un istinto di cui essi non sono più responsabili, che li governa dal di fuori» (Girard 2003a, p.204). Spinoza 2002, p.196, E3 p32sc. Si tratta della differenza tra mediazione esterna e mediazione interna, proposta per la prima volta in Girard 2002, pp.12-13.

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sottoposto, il double bind che prima gli suggerisce l’imitazione e poi gliela interdice. La focalizzazione del desiderio infantile su oggetti non condivisibili deriva in Girard dal fatto che essi gli sono stati indicati da un modello troppo superiore perché egli possa metterlo in discussione. La risposta ostile dell’adulto ai desideri infantili insegna al bambino la connessione tra desiderio e rivalità: «è proprio perché, la prima volta, il bambino è incapace di rispondere alla violenza con la violenza, è perché non ha nessuna esperienza della violenza, che il primo ostacolo suscitato dal double bind mimetico rischia di lasciare su di lui un’impressione indelebile»22. Anche in Spinoza il problema della trasformazione del desiderio in ostilità è affrontato a partire dalla condizione infantile, ossia dallo stato immaginativo puro. Il processo di fissazione su beni che possono dare origine a sentimenti rivalitari va infatti spiegato a partire dalla debolezza che caratterizza il nostro stato corporeo e mentale allorché iniziamo a desiderare. L’intera vita affettiva del bambino si costituisce come tentativo di affermare se stesso a partire da una condizione di inferiorità e di dipendenza; è infatti tramite l’emulazione («con lo stimolo dell’Onore e dell’Invidia»23) che i genitori spingono il bambino a farsi strada nel mondo. La trasformazione del desiderio in tentativo di prevaricazione è dunque da ritenersi anche per Spinoza il principale effetto degli insegnamenti impartiti al bambino dalla società. Il double bind girardiano trova la sua controparte nella fluctuatio animi che caratterizza la vita affettiva dell’adulto, diviso tra il desiderio di essere come gli altri e allo stesso tempo di essere superiore a essi. “Sii come me!” e “Non osare essere come me!” sono i comandamenti contraddittori che portano a ricercare e allo stesso tempo a odiare l’Altro; nell’oscillazione tra le due ingiunzioni sociali fondamentali trova origine ogni affetto ambivalente, che sia rivolto ad altri esseri umani oppure alla divinità. Nell’appendice alla Parte I dell’Etica e nelle prime righe della ‘Prefazione’ al Trattato teologico-politico Spinoza traspone infatti sul piano della teoria della religione le considerazioni sull’alternanza nel soggetto immaginante di sentimenti di paura e di speranza; da un lato, infatti, gli uomini si fingono che i rettori della natura abbiano «curato ogni cosa per loro e [...] fatto ogni cosa per il loro uso»24, mostrando così il loro volto benigno e paterno. Dall’altro lato ritengono che tale predilezione abbia come fine quello di «legare a sé gli uomini ed essere tenuti da essi in sommo onore»25, come si conviene a

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Girard 2003a, p.243. Spinoza 2002, p.212, E3 p55sc. Ivi, p.117, E1 app. Ivi, p.118, E1 app.

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dèi gelosi, che mandano le sciagure perché «irati a causa delle ingiurie loro fatte dagli uomini o dei peccati commessi contro il loro culto»26. Si tratta della medesima dinamica patologica che Girard analizza con riferimento alla psicologia dostoevskijana del sottosuolo e che anch’egli applica al problema della religione, ma nella prospettiva del comportamento delle masse e non del singolo individuo. In entrambi i casi è nella psicologia infantile, segnata dagli effetti del desiderio mediato, che si formano gli affetti che conducono al religioso.

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3. Religioni per bambini e religioni per adulti È tema ricorrente nella critica alle religioni storiche l’idea che esse si originino da una condizione di debolezza intellettuale e fisica che porta a forgiare l’idea di esseri e forze soprannaturali a partire dall’ignoranza e dal timore propri dell’età in cui gli esseri umani non riescono ancora né a comprendere né a padroneggiare il mondo. Per limitarci a Spinoza, è sufficiente osservare come nel Trattato teologico-politico egli faccia riferimento ai mezzi con i quali Mosè educò il proprio popolo, spiegando appunto che erano adeguati alla condizione non ancora razionale nella quale esso si trovava27; anche il modo in cui fu intesa l’elezione divina deve essere ascritto a una concezione infantile che non può corrispondere in alcun modo a verità28. Pare dunque legittimo ricondurre le pagine del Trattato teologico-politico sulla genesi della religione alla trattazione degli affetti del bambino delineata nella terza parte dell’Etica e concludere che per il filosofo olandese la religione è il prodotto di uomini incapaci di riconoscere il proprio vero utile e per questo disposti a obbedire a un capo carismatico, 26 27

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Ibidem. Mosè — scrive Spinoza — atterrì gli Israeliti «con minacce se avessero trasgredito quei precetti, e, per converso, promise loro molti beni se li avessero osservati. Egli li educò dunque nello stesso modo in cui i genitori sono soliti educare i fanciulli del tutto privi dell’uso della ragione. È certo perciò che gli Israeliti ignorarono l’eccellenza della virtù e la vera beatitudine» (Spinoza 2001, p.129). «Colui che infatti si reputa più beato perché lui solo sta bene mentre gli altri no, o perché è più felice e più fortunato degli altri, non conosce la vera felicità e beatitudine, e la gioia che trae da quella convinzione, a meno che non sia infantile, non nasce da altro se non da invidia e da animo cattivo» (ivi, p.139). Il riferimento è all’elezione del popolo ebraico, il quale non conosceva la vera beatitudine e al quale dunque Dio parlò in termini di privilegio; ma, dicendo così, Mosè intese «vincolarli più efficacemente al culto verso Dio secondo la loro puerile capacità» (ivi, p.141).

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nel quale ripongono le proprie speranze e che, allo stesso tempo, temono. Con il passaggio al cristianesimo il quadro, per Spinoza, non cambia: l’insistenza sul tema dell’obbedienza come unico precetto del testo rivelato conferma che anche la religione del Cristo è rivolta a individui immaginanti e «non insegna se non ciò che gli uomini possono imitare con un certo modo di vivere»29, suscitando la fede con mezzi tali «che l’animo del volgo possa essere commosso al massimo»30. La posizione di René Girard sul tema è efficacemente illustrata da un suo riferimento alla Lettera agli Ebrei: «Paolo [...] paragona [il cristianesimo] a un nutrimento per adulti, in contrasto col nutrimento infantile rappresentato dalle religioni arcaiche»31; subito dopo ricorda le intuizioni nietzscheane sul “carattere infantile” dei Greci antichi per confermare il carattere immaturo e illusorio delle rappresentazioni religiose dell’età primitiva e classica. L’ambivalenza del sacro arcaico è dovuta per Girard alla duplicità degli affetti che si ingenerano nei gruppi umani di fronte alle crisi sociali prodotte dalle rivalità mimetiche: in primo luogo vi sono il dilagare delle vendette e la concentrazione dell’odio su un unico individuo che, in quanto isolato, non è in grado di rilanciare lo scontro. La sua morte, in sé nient’altro che un linciaggio, procura davvero la fine della crisi, dal momento che non è più seguita da nuovi atti di violenza; il gruppo vede perciò confermata la propria convinzione che proprio la vittima fosse responsabile di tutte le sciagure che l’avevano colpito. Incapaci di individuare le cause interne della violenza e, soprattutto, di agire efficacemente su di esse, gli uomini proiettano la propria aggressività su un individuo: si può trattare di uno straniero, di un orfano, di un individuo con una minorazione fisica o mentale o anche semplicemente di qualcuno che possegga proprietà — anche positive — tali da renderlo un’eccezione. Il meccanismo svela tutto il suo carattere puerile se lo si confronta con la tendenza dei bambini a fare uno zimbello di ogni compagno che abbia qualche caratteristica che lo fa spiccare sugli altri. Altrettanto infantile è la reazione che segue la vittimizzazione di questo “capro espiatorio”: non essendo in grado di comprendere che la sua uccisione ha riportato la pace semplicemente perché è 29 30 31

Ivi, p.457. Ibidem. Girard 2008, p.19; l’attribuzione della lettera a Paolo, come è noto, è ormai respinta dalla maggior parte degli esegeti. Il passo al quale si riferisce Girard è in Eb 5, 12-14. Sicuramente di Paolo è invece il passo seguente, tematicamente affine: «io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a esseri spirituali, ma carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non cibo solido, perché non ne eravate ancora capaci» (1Cor 3, 1-2; trad. CEI, UELCI, s.l. 2008).

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venuta a mancare la replica violenta, i linciatori ascrivono all’azione della loro vittima la capacità di ristabilire l’ordine, vedendo in colui che prima avevano designato come colpevole un salvatore dai poteri soprannaturali. Si ha dunque un doppio transfert, prima negativo, poi positivo, che spiega il carattere insieme malefico e benefico del sacro; in entrambi i casi la méconnaissance è potentemente rafforzata dall’imitazione reciproca, che trasforma i singoli individui in una massa priva di lucidità, capace di credere a qualsiasi accusa e a qualsiasi trasfigurazione. Nonostante il suo carattere delirante, l’efficacia di tale processo, ritualmente ripetuto nel sacrificio, è talmente grande che nessuna cultura, secondo Girard, ha potuto garantirsi la sopravvivenza senza metterlo in atto; egli giunge perciò alla conclusione che il sistema vittimario «è il regime naturale dell’umanità»32, quello in cui essa sarebbe restata per sempre se un intervento provvidenziale non le avesse insegnato la verità. L’uscita da questa minorità intellettuale ed etica è infatti per Girard opera unicamente della rivelazione giudaico-cristiana, che ha posto di fronte agli occhi degli uomini la menzogna della folla e l’innocenza della vittima. Si tratta di un’acquisizione in primo luogo razionale, ossia del superamento della falsa rappresentazione della realtà indotta dalla potenza del contagio mimetico. Per pervenire a un punto di vista adulto, è necessario sottrarsi al conformismo sociale, adottando il punto di vista minoritario di chi non crede alle accuse rivolte contro il capro espiatorio designato: nella Bibbia ci vengono presentati piccoli gruppi o singoli individui eterodossi, il «resto fedele d’Israele»33 nell’Antico Testamento o gli apostoli nel Nuovo, i quali non si lasciano persuadere dall’unanime vox populi. Per Girard la liberazione dal meccanismo vittimario non può essere opera dell’uomo; essa richiede l’ausilio della Grazia, che discende sotto forma di rivelazione delle “cose nascoste sin dalla fondazione del mondo”, ossia tramite la parola di Gesù, vero Dio, il quale mette allo scoperto la natura violenta dell’ordine socio-religioso. Egli vede perciò la transizione dalla religione infantile a quella adulta come effetto di un insegnamento insieme etico e conoscitivo calato dall’alto, che non può provenire da un’intelligenza finita e che gli uomini, anche dopo che sia stato loro rivelato, tendono a fraintendere e a distorcere, come dimostrano le vicende della civiltà cristiana.

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Girard 2004, p.73. Girard 2001b, p.84; il riferimento è a passi come Is 4,3 e Ez 6,8 e, ancor più, al personaggio di Giobbe, che si appella al Dio delle vittime contro le accuse dei suoi “amici” e viene per questo elogiato nell’epilogo (cfr. Gb 42, 7-8), o a quello di Daniele, che si oppone alla lapidazione di Susanna (cfr. Dn 13, 45-49).

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In Spinoza manca ovviamente qualsiasi comprensione della dinamica vittimaria; nondimeno ne sono presenti alcuni presupposti fondamentali, a partire dal convincimento provato dal fedele di essere allo stesso tempo l’infimo suddito di un Dio onnipotente e terribile e il figlio prediletto di un padre provvidente e benefico che compie ogni cosa avendo a cuore il suo bene. A far uscire gli uomini da questo pregiudizio, che sarebbe potuto durare in eterno, è l’avvento di «un’altra norma di verità»34, e precisamente la matematica, che ha guidato gli uomini «verso la vera conoscenza delle cose»35, mostrando loro la fallacia del pregiudizio finalistico, prima causa della superstizione. Il sapere salvifico prospettato da Spinoza è rappresentato dalla conoscenza razionale della concatenazione delle cause: esso non ha a che fare con la scoperta dell’origine storica delle false credenze ma piuttosto con la comprensione dell’ordine necessario con cui ogni cosa deriva da Dio, ente assolutamente infinito e causa di sé. Ma se poniamo mente a quale sia la prima causa dell’insorgere del pregiudizio finalistico, ossia il fatto che «gli uomini ritengono di essere liberi poiché sono consapevoli delle proprie volizioni e dei propri appetiti, mentre non pensano nemmeno lontanamente alle cause dalle quali sono disposti a appetire e a volere, perché di queste cause essi sono ignari»36, ci rendiamo conto di quanto la disposizione psichica della quale gli uomini sono schiavi nelle loro credenze superstiziose sia proprio il mimetismo sorto in età infantile. Il passaggio all’età della ragione consiste perciò nella capacità di superare l’illusione di spontaneità del desiderio per pervenire alla consapevolezza delle vere cause che lo determinano necessariamente; in modo ancor più stringente di Girard, perciò, Spinoza rivela il nesso tra mimetismo e falsa religione, prospettando per l’uomo una liberazione che non proviene da una fonte esterna e superiore bensì dalla razionalità stessa dell’uomo. In entrambi i casi è la scoperta della necessità che governa le dinamiche psichiche a consentire l’approdo a una visione non mistificata della realtà; se per Spinoza essa porta a una comprensione razionale che coincide con l’amore per Dio e con la vera virtù, per Girard tale illuminazione consente l’identificazione con la vittima, e quindi la possibilità di aprirsi all’amore per il prossimo. La più profonda differenza consiste piuttosto nel genere di verità alla quale i due pensatori affidano il compito di far uscire gli uomini dal loro stato infantile: Spinoza ne sottolinea infatti la natura razionale e atemporale, mentre Girard insiste piuttosto sul suo carattere di compren34 35 36

Spinoza 2002, p.118, E1 app. Ibidem. Ivi, p.117, E1 app.

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G. Mormino - Dal desiderio infantile alla religione: Spinoza e Girard

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sione storica, che illumina di una luce nuova gli eventi che hanno segnato la nascita delle culture. In questa attenzione per le concrete vicende che hanno caratterizzato l’evoluzione dell’umanità dai tempi più remoti risiede la principale giustificazione del disinteresse di Girard per la filosofia; l’antropologia religiosa girardiana, e in particolare la sua valutazione del ruolo della rivelazione evangelica, si colloca in una dimensione diacronica, come è lecito aspettarsi da un pensatore dichiaratamente cristiano, per il quale Dio si manifesta nel tempo storico. Se poi tale concezione sia compatibile con il carattere universale della teoria mimetica, è questione troppo ampia per essere qui esaminata37; si può solo osservare che nel pensiero di Spinoza, come in quello del primo Girard, la disamina del fatto religioso dipende in modo rigoroso dall’analisi delle passioni umane, retta dalla teoria mimetica. La successiva svolta di Girard verso un’apologia del cristianesimo, che postula «un Dio con un programma pedagogico [...], che parte dalla religione arcaica e si snoda verso la rivelazione cristiana»38, ricadrebbe interamente, per Spinoza, nell’ambito del pregiudizio finalistico.

Riferimenti bibliografici Bove 2002: Laurent Bove, La strategia del conatus. Affermazione e resistenza in Spinoza, trad. it. di Filippo Del Lucchese, Ghibli, Milano 2002. Doran 2008: Robert Doran, ‘Introduction’, in René Girard, Mimesis and theory. Essays on literature and criticism, 1953-2005, ed. Robert Doran, Stanford University Press, Stanford (California) 2008. Fleming 2004: Chris Fleming, René Girard. Violence and mimesis, Polity Press, Cambridge-Malden (Massachusetts) 2004. Girard 1976: René Girard, Critique dans un souterrain, L’Âge d’Homme, Lausanne 1976. Girard 2001a: René Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, trad. it. di Giovanni Luciani, Adelphi, Milano 19981, 20012. Girard 2001b: René Girard, Una difesa moderna del cristianesimo, in La vittima e la folla, trad. it. di Giuseppe Fornari, Santi Quaranta, Treviso 19981, 20012, pp.37-94. Girard 2002: René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita, trad. it. di Leonardo VerdiVighetti, Bompiani, Milano 20022. Girard 2003a: René Girard, La violenza e il sacro, trad. it. di Ottavio Fatica e Eva Czerkl, Adelphi, Milano 19801, 20037. 37 38

Sul punto cfr. il mio René Girard. Il confronto con l’Altro, Carocci, Roma 2012, cap. 5. Girard 2003b, p.161.

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René Girard e la filosofia

Girard 2003b: René Girard, Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con Pierpaolo Antonello e João Cezar de Castro Rocha, trad. it. di Eliana Crestani, Cortina, Milano 2003. Girard 2004: René Girard, Il capro espiatorio, trad. it. di Christine Leverd e F. Bovoli, Adelphi, Milano 19871, 20044. Girard 2005: René Girard, Persecuzione e scienze dell’uomo. A confronto con René Girard, in Miti d’origine. Persecuzioni e ordine culturale, trad. it. di Eliana Crestani, Transeuropa, Ancona-Massa 2005, pp.113-156. Girard 2008a: René Girard, Portando Clausewitz all’estremo. Conversazione con Benoît Chantre, trad. it. di Giuseppe Fornari, Adelphi, Milano 2008. Girard 2008b: René Girard, Souvenirs d’un jeune Français aux États-Unis, in Mark R. Anspach (éd.), René Girard, Cahier de l’Herne, Éditions de l’Herne, Paris 2008, pp.29-34. Girard 2009: René Girard, I doppi e il pharmakos: Lévi-Strauss, Frye, Derrida e Shakespeare, in Edipo liberato. Saggi su rivalità e desiderio, a cura di Mark R. Anspach, trad. it. di Eliana Crestani, Transeuropa, Massa 2009, pp.105-118. Palaver 2004: Wolfgang Palaver, René Girards mimetische Theorie, LIT, Wien 2004. Piro 2005: Francesco Piro, Spinoza o le passioni del conflitto, in «Palomar», VI (2005-2/3), pp.46-64. Salari 2001: Tiziano Salari, Spinoza e il mimetismo del desiderio, http://www.fogliospinoziano.it/artic13.htm#salari2, 2001, consultato il 27 febbraio 2010. Spinoza 1986: Baruch Spinoza, Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene, trad. it. di Filippo Mignini, Japadre, L’Aquila 1986. Spinoza 2001: Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico, trad. it. di Alessandro Dini, Bompiani, Milano 2001. Spinoza 2002: Baruch Spinoza, Etica dimostrata con metodo geometrico, trad. it. di Emilia Giancotti, Editori Riuniti, Roma 20024. Uenu 1999: Osamu Uenu, Res nobis similis. Desire and the double in Spinoza, in Yirmiyahu Yovel (ed.), Spinoza by 2000. The Jerusalem Conferences. Volume III. Desire and affect: Spinoza as psychologist, Little Room Press, New York 1999, pp.81-91. Vinolo 2005: Stéphane Vinolo, René Girard: du mimétisme à l’hominisation. La violence différante, L’Harmattan, Paris 2005.

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MARCO RAVERA

GIRARD PENSATORE TRADIZIONALISTA? SUGGESTIONI MAISTRIANE NEL PENSIERO DELL’ULTIMO GIRARD

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1. Un confronto azzardato? A un primo sguardo, può apparire del tutto fuori luogo accostare due pensatori come Joseph de Maistre e René Girard. Non solo tra loro vi è più di un secolo e mezzo di distanza, ma l’impostazione del loro percorso filosofico sembra aprire tra loro un abisso, escludendo qualunque possibilità di confronto. Il primo, considerato per troppo tempo un semplice controrivoluzionario, “filosofo della restaurazione” post-napoleonica, fautore di un modello di governo che - come egli auspica - consegnerebbe in mano alla Chiesa cattolica il destino della Francia e dell’Europa intera; in realtà, un autentico “pensatore dell’origine”, la cui complessità reale trascende di gran lunga la sua Wirkungsgeschichte, coinvolgendo radicalmente la sfera ontologica, morale e religiosa dell’esistenza umana. All’indomani dell’evento che – in assoluto – ha maggiormente segnato la storia dell’Europa moderna e che ha rovesciato violentemente, insieme al sistema politico-culturale dell’ancien régime, tutti i valori che ne avevano reso possibile l’affermazione (nei suoi indubbi aspetti negativi, rappresentati dal dispotismo regio e della classe aristocratica rispetto alla maggioranza della popolazione in stato di miseria, ma anche nei suoi caratteri positivi, come ad esempio la fioritura del classicismo in letteratura, nel teatro e nella musica francese del XVII e XVIII secolo), Maistre si trova dinanzi lo spettacolo di una Francia e di un’Europa blessées e come attonite dinanzi alla distruzione compiuta da una razionalità auto-divinizzata e poi ritorta contro se stessa, di un’aspirazione – come quella tipicamente illuminista – alla liberazione dal dogmatismo poi scaduto nella violenza reciproca in cui è culminato il Terrore. Una situazione frammentata, dunque: se la ragione - forza critica e depuratrice nei confronti dei vecchi dogmi metafisico-teologici e di ogni forma di coercizione politica, religiosa, culturale, potenza emancipatrice per l’uomo, ritenuta capace di condurlo verso la felicità e verso forme di vita comunitaria più giuste – ha condotto

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René Girard e la filosofia

alla violenza indifferenziata, ha decostruito ogni verità consolidata per trovarvi soltanto il conflitto violento, “stanando” il male nella sua più virulenta e contagiosa manifestazione, allora significa che quel tipo di razionalità ha reciso ogni legame con la Verità e che occorre riattingere l’origine del pensiero, prima di quella scissione tra uomo e trascendenza che ha caratterizzato la civiltà moderna. Dunque, non si tratta per Maistre di un mero “ritorno” alla cultura pre-illuminista o pre-moderna – questa è la lettura di chi vorrebbe farne un semplice reazionario – ma della ricomposizione di una frattura, della rimarginazione di una ferita, della ricostruzione di una razionalità capace di pensare insieme l’immanenza e la trascendenza, senza volersi liberare dell’una o dell’altra, una razionalità quindi in grado di non degenerare nelle più cruente forme di violenza reciproca. D’altro canto, il percorso di René Girard non richiede ulteriori presentazioni. Basti qui sottolineare l’attenzione, sempre più spiccata nell’ultimo Girard – grosso modo, a partire da Vedo Satana cadere come la folgore (2000) – per due questioni essenziali: il rifiuto del decostruttivismo relativista, tanto diffuso sia in Europa quanto negli Stati Uniti, e la necessità di una scelta etico-religiosa nei confronti della violenza reciproca e delle sue metamorfosi contemporanee: in assenza di un sistema sacrificale funzionante (ormai decompostosi), cioè in assenza del sacro, come porre fine alle rivalità violente che a livello microscopico spesso caratterizzano l’esistenza degli uomini (talvolta anche – o soprattutto? - all’interno dell’ambiente familiare), ma che, su scala planetaria, innescano fenomeni che vanno dalle innumerevoli guerre al terrorismo, sia esso di natura politica o religiosa. Sulla base di queste sintetiche considerazioni esteriori sui motivi conduttori che hanno animato il pensiero di Maistre e che animano tuttora quello di Girard, avanziamo un’ipotesi “operativa”: se intendiamo – almeno provvisoriamente - il tradizionalismo come un progetto teorico che tende a “restaurare” (o per meglio dire “ricostruire”) il sistema di riferimento concettuale precedente ad un evento – o ad una serie di eventi – che ha tentato violentemente di frammentarlo e di minarne l’unità, allora tanto de Maistre quanto Girard sono pensatori tradizionalisti. Come già accennato, è cosa ovvia che il tradizionalismo non vada confuso con il puro e semplice atteggiamento “reazionario”, cioè il culto fine a se stesso del passato, o il rifiuto per qualunque istanza progressista, tanto in filosofia quanto nella prassi politica. Tanto per Maistre quanto per Girard, si tratta piuttosto di un progetto di “ricostruzione” – dunque un atteggiamento “costruttivo” - che tenta di superare la frammentazione traumatica della cultura europea “fotografata” in momenti differenti, ma pur sempre momenti di crisi, all’indomani di una serie di eventi che l’hanno violentemente scossa e hanno inteso

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M. Ravera - Girard pensatore tradizionalista?

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minarne le fondamenta. Nel caso di Maistre, un tale evento è senz’altro la Rivoluzione Francese (nel suo senso più ampio, come “ferita” inferta all’Europa nel cuore della modernità, e derivante proprio da un modello di pensiero, quello illuminista, che intendeva porsi come liberazione dell’umanità dalle antiche schiavitù); nel caso – più complesso – di Girard, da “ricostruire” è la cosiddetta cultura post-moderna, ossia ciò che oggi resta di tutto quel prodigioso processo di decomposizione della metafisica, iniziato con Nietzsche, passato per Heidegger, per lo strutturalismo e approdato al più estremo relativismo nelle propaggini del decostruzionismo derridiano e del post-modernismo francese e statunitense. In altri termini, per entrambi i filosofi, si tratta di ricomporre un orizzonte spezzato, di riferirsi nuovamente a una Verità che è stata frammentata in universi di senso in lotta reciproca – per Maistre, le varie “anime” dell’Illuminismo francese, spesso in opposizione reciproca (si pensi alle notevoli distanze fra Voltaire e d’Holbach, tra Diderot e Condorcet: e si noti che gli illuministi che presero attivamente parte alla rivoluzione rappresentano l’ala radicale e più spiccatamente materialista, mentre i “padri” dell’illuminismo francese, come Voltaire e gli enciclopedisti, erano già morti nel 1789 o comunque non presero parte alla rivoluzione); per il secondo, la cultura delle interpretazioni infinite e tutte equivalenti, abbandono di ogni vocazione veritativa del pensiero, “democrazia filosofica” dietro cui, tuttavia, si cela un violentissimo sistema di rivalità ed espulsioni. All’orizzonte di entrambi questi orientamenti di pensieri si annuncia, infatti, il nichilismo. Questa tesi, che qui intendiamo sostenere, può essere “messa alla prova” attraverso un’analisi comparata di alcuni testi di Maistre (essenzialmente le Soirées e le Considérations sur la France) e i testi fondatori della teoria mimetica girardiana, con particolare attenzione all’ultimo testo di Girard, Achever Clausewitz (2008). Tale confronto può essere articolato in più sotto-questioni: a) confronto tra l’antropologia maistriana, incentrata sulla duplicità dell’uomo, capace di amore ma anche di grandi violenze, e l’antropologia mimetica, che definisce l’individuo come animale imitativo e dunque rivalitario, ma che gli riconosce una tendenza opposta verso la cura per le vittime; b) confronto tra le riflessioni di Maistre sul sacrificio nel mondo antico, il dogma della reversibilità e il meccanismo girardiano del “capro espiatorio”; c) confronto tra l’idea maistriana della “divinità” della guerra, del possibile inasprimento improvviso delle ostilità tra i nemici, cioè del suo essere animata da una forza ulteriore a quella risultante dalla somma delle forze degli uomini che vi partecipano e l’idea girardiana della montée aux extrêmes, ossia della possibilità del “precipitare” vertiginoso della rivalità in violenza estrema (si tratta di un’accentuazione

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René Girard e la filosofia

escatologica dello stadio della “mediazione interna” di cui egli parlava già in Mensonge romantique et vérité romanesque e del fenomeno dello sdoppiamento mostruoso, analizzato ampiamente ne La violence et le sacré a proposito del dionisiaco e poi riletto in chiave demonologica in Je vois Satan tomber comme l’éclair); d) confronto tra il modello di filosofia della storia di Maistre e di Girard, incentrato sull’idea della possibilità escatologica della distruzione dell’umanità per sua stessa mano; e) confronto tra la prospettiva salvifica di Maistre, fondata sul dogma cristiano della reversibilità, e l’assunzione di Cristo come modello non-mimetico auspicata da Girard. Lasciamo dunque parlare direttamente i testi.

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2. Duplicità dell’uomo e antropologia mimetica Nel settimo dialogo delle Soirées de Saint Pétersbourg1 Maistre porta al parossismo la sua visione dell’inconcepibile duplicità della natura umana, proprio riflettendo sulla vicenda che più di tutte tale duplicità mette in luce, cioè la guerra. Qui egli scrive che non si tratta di spiegare la possibilità, ma la facilità della guerra. Per tagliare delle barbe e per accorciare degli abiti, Pietro I dovette ricorrere a tutta la forza del suo invincibile carattere; per condurre innumerevoli legioni sul campo di battaglia, anche al tempo in cui veniva sconfitto per imparare a vincere, non ebbe bisogno, come tutti i sovrani, se non di parlare. V’è tuttavia nell’uomo, nonostante la sua immensa degradazione, un elemento d’amore che lo porta verso i suoi simili: la compassione gli è naturale come la respirazione.

Come non sentire l’eco di questo passo maistriano, come di tanti altri consimili, nel Girard di Vedo Satana cadere come la folgore, là ove è detto che Anche un esame poco attento dimostra che tutto quanto si può dire contro il nostro mondo è vero: esso è il peggiore di tutti. Nessuna società […] ha mai provocato più vittime. Ma, a questo proposito, pure le affermazioni diametralmente opposte sono altrettanto vere: il nostro mondo è allo stesso tempo il migliore, quello che salva il maggior numero di vittime2.

È il “doppio mostruoso” de La violenza e il sacro che pare prefigurato nella pagina maistriana, e che risuona altresì in passi come i seguenti: 1 2

Per i riferimenti ai testi di Joseph de Maistre, si vedano le indicazioni nei Riferimenti bibliografici: qui SP V 3-4. Girard 2001, p.216.

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Nell’esperienza collettiva del doppio mostruoso, le differenze non sono abolite ma confuse e mescolate. I doppi sono tutti intercambiabili senza che la loro identità sia formalmente riconosciuta. […] Quando è al culmine l’isteria violenta, sorge ovunque nello stesso tempo il doppio mostruoso3.

E ancora:

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Sotto il termine di doppio mostruoso, classifichiamo tutti i fenomeni di allucinazione provocati, al parossismo della crisi, dalla reciprocità misconosciuta. […] Il soggetto si sente penetrato, invaso, nel più intimo del proprio essere, da una creatura soprannaturale che lo assedia anche dal di fuori. Assiste inorridito a un duplice assalto di cui è vittima impotente. […] I fenomeni cosiddetti di possessione non sono altro che un’interpretazione particolare del doppio mostruoso4.

E se l’uomo è doppio, nel soldato tale doppiezza si manifesta al massimo grado; sempre nel settimo dialogo delle Soirées, Maistre riflette Ecco precisamente il fenomeno di cui vi stavo appunto parlando. Lo spaventoso spettacolo della carneficina non indurisce affatto il vero guerriero. In mezzo al sangue ch’egli stesso fa scorrere, egli è umano così come la sposa è casta nei trasporti dell’amore. Appena ha riposto la spada nel fodero, la santa umanità riprende in lui i suoi diritti, e forse i sentimenti più esaltati e più generosi si trovano proprio presso i militari5.

Corrispondenza quasi letterale in Achever Clausewitz: Gli uomini vivono dunque contemporaneamente nell’ordine e nel disordine, nella guerra e nella pace, ed è quindi sempre meno possibile decidere categoricamente tra queste due realtà, che fino alla Rivoluzione Francese erano codificate e ritualizzate6.

“La Rivoluzione Francese”: per l’uno come per l’altro un discrimine decisivo, un riesplodere della violenza mimetica – e perciò, come dice Maistre, insieme divina e satanica, perché avvenuta dopo la rivelazione cristica, come un gigantesco tentativo di ritornare a “prima” – che rimescola le carte e dopo la quale è inevitabile un’accelerazione. Ma accelerazione verso che cosa? Verso il tanto conclamato “progresso” o verso la crisi finale? Certo, 3 4 5 6

Girard 2000, p.224. Girard 2000, p.229. Maistre SP V 23. Girard 2008, p.50.

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René Girard e la filosofia

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essa nei massacri della ghigliottina ha riesumato il meccanismo vittimario in sommo grado, e con ciò ha rimesso in moto un processo regressivo che non ha fatto che esasperare quella duplicità dell’uomo che il cristianesimo aveva quantomeno lenita e smussata. Rinasce, sotto le mentite spoglie della moderna “fratellanza”, la violenza sacrificale, e la guerra, non più regolata e ritualizzata, si trasforma in sterminio senza che gli uomini avvertano quanto si è prodotto nei loro cuori e nelle loro menti. Anzi, I caratteri più dolci amano la guerra, la desiderano e la fanno con passione. Al primo segnale, questo amabile giovanotto, cresciuto nell’orrore della violenza e del sangue, si slancia fuori dal focolare paterno e corre, armi alla mano, a cercare sul campo di battaglia colui ch’egli chiama il nemico, senza sapere ancora che cos’è un nemico. Ieri si sarebbe sentito male se per caso avesse fatto del male al canarino di sua sorella; domani lo vedrete salire su un monticello di cadaveri per veder più lontano, come diceva Charron. Il sangue che cola da ogni parte non fa che eccitarlo a spargere il proprio e quello degli altri: egli s’infiamma poco alla volta, e giungerà alla fine all’entusiasmo della carneficina7.

Una riflessione, questa, che continua nel maistriano Éclaircissement sur les sacrifices, e che, così come qui è condotta, merita d’essere accostata, nel passo che verrà sotto addotto, con un altro passo di Vedo Satana cadere come la folgore, sempre insistente sul tema del doppio: Reciprocamente esasperati dallo scandalo, dall’ostacolo vivente che ciascuno ormai rappresenta agli occhi dell’altro, i doppi mimetici dimenticano l’oggetto del loro litigio, e si scagliano con rabbia l’uno contro l’altro. […] Gli scandali appaiono a prima vista immutabili, rigidamente fissati sui medesimi antagonisti che un odio reciproco separa per sempre ma, negli stadi più avanzati del processo, si verificano delle sostituzioni, degli scambi di avversario8.

E Maistre: In fondo, pare che la Sacra Scrittura sia su questo punto assolutamente d’accordo con la filosofia antica e moderna, quando ci insegna «Che l’uomo è doppio nelle sue vie, e che la parola di Dio è una spada vivente che penetra fino a dividere l’anima dallo spirito, e distingue il pensiero dal sentimento. E Sant’Agostino, confessando a Dio il potere che avevano ancora sulla sua anima antichi fantasmi richiamati dai sogni, esclama con la più amabile semplicità: Signore, sono IO?9 7 8 9

Maistre SP V 22. Girard 2001, p.45. Maistre SA V 332.

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Rimando agostiniano, del resto in linea con la professione di fede agostiniana di Quando queste cose cominceranno, là dove Girard scrive che Io rappresento una reazione agostiniana contro un eccesso di umanesimo [e] tre quarti di ciò che dico è già presente in Agostino10.

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Domina dunque in Maistre il nesso fra guerra, sacro e possessione, come si evince dal notissimo, crudo anzi terribile passo: […] la guerra scoppia. L’uomo, colto all’improvviso da un furore divino, estraneo all’odio come alla collera, avanza sul campo di battaglia senza sapere cosa vuole, e neppure cosa fa. Che cos’è dunque questo orribile enigma? Nulla è più contrario alla sua natura, e nulla le ripugna di meno: egli fa con entusiasmo ciò per cui prova orrore. Non avete mai notato che, sul campo della morte, l’uomo non disobbedisce mai? Potrà forse massacrare Nerva o Enrico IV: ma il tiranno più abominevole, il più insolente macellaio di carne umana non si sentirà mai rispondere: Noi non vogliamo più servirvi. Una rivolta sul campo di battaglia, un accordo per unirsi rovesciando un tiranno, sono cose che non si presentano alla mia memoria. Nulla resiste, nulla può resistere alla forza che trascina l’uomo a combattere: assassino innocente, strumento passivo di una mano terribile, si getta a testa bassa nell’abisso ch’egli stesso ha scavato; dà e riceve la morte senza riflettere che è stato egli stesso a creare la morte11.

V’è qui, senza dubbio, accanto al disincantato sguardo sull’abisso in cui l’umanità è capace di cacciarsi dopo averlo scavato con le sue stesse mani, una riflessione psicologica di grande spessore sull’incredibile capacità dell’uomo di trasformarsi in belva pur senza cessare di essere anche ciò che era prima, e forse rimanendo tale in tutti i momenti in cui la logica dello scannamento reciproco non prende il sopravvento: espressione di una dualità che fa pensare all’ufficiale delle SS che suona Beethoven al pianoforte nel suo ufficio di comando del Lager, mentre non lontano fumano le ciminiere delle camere a gas (ma gli esempi potrebbero essere innumerevoli). Sdoppiamento e possessione comprensibili solo come corollari di una sacralizzazione del male che sola consente di non vederlo. E del resto, in Girard (citiamo ancora da Achever Clausewitz), C’è una sorta di sacralizzazione della guerra, che entra in azione non appena quest’ultima è sufficientemente violenta per realizzare la propria essenza. Curioso avatar dell’età dei Lumi che, nel momento stesso in cui getta luce sul militarismo prussiano, contribuisce a esasperarlo. Si tratta insomma di un’autenti10 11

Girard 2005, p.148. Maistre SP V 31.

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René Girard e la filosofia

ca religione militare, dal momento che Clausewitz intravede la lotta tragica dei doppi di cui tutti i miti recano traccia, anche se il sacrificio e la divinizzazione delle vittime ne hanno occultato un tempo il meccanismo12.

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Appunto: tutti i miti ne recano traccia. Che altro, del resto, sono stati i totalitarismi del XX secolo, se non – mentre in modo fallace a volte si proponevano come culmine della ratio moderna, se non gigantesche operazioni di rimitizzazione neopagana del mondo, intese ad azzerare la religione cristiana e, con ciò stesso, a risvegliare il meccanismo? Tali totalitarismi neopagani Maistre li prognostica, Girard li diagnostica: ma le loro prospettive, su questo punto soprattutto e forse più che altrove, possono essere senz’altro avvicinate: giacché a parte ante e a parte post dicono sostanzialmente lo stesso.

3. Sacrificio, reversibilità, capro espiatorio Come detto, un altro ambito di impressionante convergenza tra il “profeta del passato” e Girard è – né potrebbe essere diverso – la centralità della tematica del sacrificio. Certo la differenza, come si sa, sta nel fatto che Maistre vi vede una “legge del mondo”, onnipresente nell’antichità ma perpetuatasi anche “oltre” la rivelazione cristiana. D’altra parte – e non è possibile negarlo – il suo è un cristianesimo “ancora” vigorosamente e intimamente sacrificale, dominato da un capo all’altro dallo spirito della Lettera agli Ebrei; mentre Girard individua proprio nella vicenda cristica non tanto il “supremo sacrificio” ma la fine dei sacrifici, di tutti i sacrifici, nel riconoscimento definitivo dell’innocenza della vittima che svela e smonta il segreto del meccanismo. Questo è un punto che va tenuto ben fermo, per evitare facili fraintendimenti e accostamenti precipitosi; resta tuttavia l’impressionante affinità testuale fra l’uno e l’altro, pur nell’evidente contrapposizione di cristianesimo sacrificale e non sacrificale (e del resto, come si sa, Girard considera spuria la Lettera agli Ebrei), affinità che non può non emergere – secondo il criterio di confronto puntuale dei testi scelto per tutto il presente saggio – dai passi che seguono. Scrive infatti Maistre, ancora nell’Éclaircissement sur les sacrifices, che la storia ci mostra che l’uomo è stato in ogni tempo persuaso di questa tremenda verità: Che egli viveva sottomesso ad un potere irritato, e che questo potere non poteva essere addolcito se non tramite dei sacrifici13. 12 13

Girard 2008, p.59. Maistre SA V 332.

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A questo passo fa eco quello che potrebbe essere considerato il pilastro portante della sua visione sacrificale, là dove afferma che Nell’ordine sensibile come nell’ordine superiore, la legge è sempre la stessa, ed antica quanto il male: IL RIMEDIO AL DISORDINE SARÀ IL DOLORE14.

E leggiamo per converso ne La violenza e il sacro:

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Il sacrificio è sempre stato definito come una mediazione tra un sacrificatore e una divinità. […] In realtà, funzione del sacrificio è quella di placare le violenze intestine, di impedire lo scoppio dei conflitti. […] Joseph de Maistre, nel suo Eclaircissement sur les sacrifices, osserva che le vittime animali hanno sempre qualcosa di umano, quasi si trattasse di ingannare meglio la violenza15.

Certo per entrambi, per Maistre come per Girard, la rivelazione cristiana, e soprattutto la Passione, rappresentano un punto di svolta, un evento centrale, l’evento degli eventi: ma, a ben vedere, in un’accezione qui e là assolutamente opposta. Per Maistre, infatti, il cristianesimo, incentrato sul sacrificio supremo del Figlio, dell’Uomo-Dio, non rovescia ma chiarisce, illumina e conferma il senso profondo dell’universale e immemoriale credenza umana nell’efficacia del sacrificio espiatorio, e quindi riassume in sé, giustifica e invera ciò che nel paganesimo era ancora solo latente o, al più, incoativamente presagito; per così dire, nel cristianesimo il paganesimo (in una prospettiva diversamente modulata, ma in fondo poi non così lontana, per esempio, da quella dello Schelling berlinese) perviene alla sua verità ed è completamente riscattato: i semi di verità in esso da sempre presenti – seppur nascosti in un grande mare di errori ed orrori – acquistano il loro senso definitivo. Laddove invece in Girard il cristianesimo, svelando la menzogna del meccanismo che aveva dominato da sempre l’umanità e che aveva innervato di sé il paganesimo, pone fine a quest’ultimo e costituisce nei confronti di esso un’autentica rivoluzione, rovesciando i principi (il che non toglie che Satana, che in fondo è egli stesso il meccanismo sacrificale e vittimario, continui ad aggirarsi nel mondo e sia ancora in grado di condurlo ala crisi suprema). Questo complicato nesso di affinità e divergenze, di incontro e opposizione, si evince con particolare forza se confrontiamo i passi seguenti: Ora, se si considera da un lato che tutto questo sapere dell’antichità non era che il grido profetico del genere umano, che annunciava la salvezza tramite il

14 15

Maistre SP V 159. Girard 2000, pp.15-30.

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sangue, e che dall’altro il cristianesimo è venuto a giustificare questa profezia, mettendo la realtà al posto del tipo, in modo che il dogma innato e radicale non cessò mai di annunciare il grande sacrificio che sta alla base della nuova rivelazione, e che questa rivelazione, sfavillante di tutti i raggi della verità, prova a sua volta l’origine divina del dogma che noi scorgiamo come un punto luminoso in mezzo alle tenebre del paganesimo, da questo accordo risulta una delle prove più stringenti che sia possibile immaginare. […] Ma le divinità sono giuste, e noi siamo colpevoli: bisogna quietarle, bisogna espiare i nostri crimini; e, per pervenirvi, il mezzo più potente è il sacrificio. Tale fu la credenza antica, e tale è ancora, sotto forme differenti, quella di tutto l’universo16.

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Mentre, obietta implicitamente Girard, non si tratta di vedere nella rivelazione cristiana la conferma dei miti, quanto piuttosto il loro rovesciamento, perché I Vangeli sono più trasparenti dei miti e diffondono questa trasparenza intorno a sé, perché sono espliciti riguardo al mimetismo dapprima conflittuale e infine riconciliatore. Rivelando il processo mimetico, essi penetrano l’opacità dei miti. Se noi ci basiamo sui miti, al contrario, non impariamo nulla intorno ai Vangeli17.

D’altra parte, Questa è la dottrina che seduce il mondo contemporaneo. Le differenze sono diventate l’oggetto di una venerazione che in realtà è più apparente che reale. Si ritiene che le religioni, nessuna esclusa, siano puramente mitiche18.

Ma proprio questo è l’inganno: per Girard non è e non può essere così, e tale convinzione (del resto oggi profondamente radicata fino a penetrare nel sentire comune, rappresenta una volta di più la via regia del nichilismo. Insiste Maistre, ancora, sull’universalità della fede nell’efficacia espiatoria del sacrificio, e vi vede l’immemorabile intuizione, presente nel subconscio dell’intera umanità, della verità non solo rappresentata ma intimamente costituita dal cristianesimo, cioè il dogma della sostituzione o, com’egli preferibilmente si esprime, della reversibilità della sofferenza degli innocenti a vantaggio dei colpevoli. È questo, come si sa, il cardine del suo pensiero religioso e il culmine delle argomentazioni condotte nelle Serate di San Pietroburgo e nel Chiarimento sui sacrifici.

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Maistre SP V 152-153, e SA V 323. Girard 2001, p.144. Ivi, p.143.

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La vitalità del sangue, o piuttosto l’identità del sangue e della vita, posta come un fatto di cui l’antichità non dubitava minimamente, e che è stato rinnovato ai nostri giorni, era altresì un’opinione antica quanto il mondo, che il cielo irritato contro la carne e il sangue, non poteva essere soddisfatto che attraverso il sangue; e nessuna nazione ha mai dubitato che nell’effusione del sangue vi fosse una virtù espiatoria! Ora, né la ragione né la follia hanno potuto inventare questa idea, e ancor meno farla adottare universalmente. […] La teoria intera si basava sul dogma della reversibilità. Si credeva (come si è creduto e come si crederà sempre) che l’innocente potesse pagare per il colpevole; da cui si concludeva che, essendo la vita colpevole, una vita meno preziosa poteva essere offerta e accettata al posto di un’altra. Venne dunque offerto il sangue degli animali; e quest’anima, offerta per un’anima, fu chiamata dagli antichi antipsychon, vicariam animam; come se si dicesse anima per anima o anima sostitutiva. […] Per salvare un’armata, una città, o anche un grande sovrano, che cos’è in fondo un solo uomo? Si considerò anche il carattere particolare di due specie di vittime umane già indicate come tali dalla legge civile e politica; e si venne a dire: che cos’è la vita di un colpevole o quella di un nemico?19

Si prefigura qui, nella pagina maistriana, ciò che verrà chiamato il capro espiatorio? Forse, e tuttavia – a ben vedere – solo entro certi limiti. A contrappunto, infatti, va notato uno dei pur rari passi in cui Girard direttamente richiama Maistre, rifiutando esplicitamente il concetto stesso di “espiazione”, dal primo integralmente accettato, e vedendo proprio nell’insistere su di esso una permanenza mistificatrice del meccanismo vittimario: E di fatto J. de Maistre vede sempre nella vittima rituale una creatura innocente che paga per un certo colpevole. L’ipotesi che noi proponiamo sopprime questa differenza morale. Il rapporto tra vittima potenziale e vittima attuale non è da definirsi in termini di colpevolezza e di innocenza. Non c’è nulla da espiare. La società cerca di sviare in direzione di una vittima relativamente indifferente, una vittima sacrificabile, una violenza che rischia di colpire i suoi stessi membri, coloro che intende proteggere a tutti i costi20.

E se è vero che cita spessissimo (soprattutto ne Il capro espiatorio) il passo evangelico in cui Caifa afferma: «Non vedete dunque come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera?», è pur vero che vede qui in azione il satanico del meccanismo allo stato puro (il detto di Caifa ne potrebbe anzi essere il motto e l’emblema), e non certo una “necessità di espiazione”. 19 20

Maistre SA V 339-347. Girard 2000, p.20.

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Questa differenza, resa evidente dai passi addotti, non può in alcun modo essere sottovalutata. Essa pone una significativa distanza fra le due prospettive – quella maistriana interamente sacrificale e, ripetiamolo, quella girardiana integralmente non sacrificale; la stessa disamina circa la parola sacro, condotta nell’uno e nell’altro contesto, nell’apparente affinità testuale lascia emergere una sensibile differenza di prospettiva:

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Il sacro era assunto nella lingua latina in senso sia buono che cattivo, perché la stessa parola nella lingua greca significa ugualmente ciò che è santo e ciò che è profano; perché la parola anatema significa allo stesso modo, insieme, ciò che è offerto a Dio come dono e ciò che è abbandonato alla sua vendetta; perché infine, in greco come in latino, si dice che un uomo o una cosa sono stati dis-sacrati (espiati), per esprimere che sono stati lavati da una macchia che avevano contratto21.

E Girard: Il termine latino sacro o meglio ancora sacer, [lo] traduciamo con sacro, talora con maledetto, poiché include tanto il benefico quanto il malefico. […] Non c’è che un’unica parola – sacro, appunto – per designare il gioco dell’ordine e del disordine culturale, della differenza perduta e ritrovata. Questa parola definisce da una parte tutte le trasgressioni regie, tutte le pratiche sessuali proibite e anche quelle lecite, tutte le forme di violenza e di brutalità, e dall’altra definisce il vigore creatore e ordinatore, la stabilità e la serenità22.

E così ci autorizza ancora alla nostra lettura il confronto dei passi seguenti: Essendo purtroppo gli uomini penetrati dal principio dell’efficacia dei sacrifici proporzionata all’importanza delle vittime, dal colpevole al nemico non vi fu che un passo; ogni nemico divenne colpevole; e ancora, disgraziatamente, ogni straniero divenne nemico quando vi fu bisogno di vittime. Sin troppo noto è questo orribile diritto pubblico; ecco perché HOSTIS, in latino, significa al tempo stesso nemico e straniero. […] Lo comprenderemo soprattutto riflettendo sul paganesimo, che brilla di molte verità ma tutte alterate e deformate; sì che io sono completamente d’accordo con quel teosofo che, ai nostri giorni, ha definito l’idolatria una putrefazione. Guardiamo più da vicino: e vedremo che tra le opinioni più folli, più indecenti e più atroci; tra le pratiche più mostruose e che più hanno disonorato il genere umano, non ce n’è una che non possiamo liberare dal male. Fu dunque da queste verità incontestabili della degradazione dell’uomo e della sua reità originale, della necessità di una soddisfazione, della reversibilità 21 22

Maistre SA V 347-348. Girard 2000, p.357.

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dei meriti e della sostituzione delle sofferenze espiatorie, che gli uomini furono condotti a questo spaventoso errore consistente nei sacrifici umani23.

E Girard, da Il capro espiatorio: Quanto maggiore è il numero di segni vittimari che un individuo possiede, tanto maggiori sono le probabilità che egli attiri su di sé il fulmine. L’infermità di Edipo, il suo passato di bambino esposto, la sua situazione di straniero, parvenu, re, fanno di lui un vero agglomerato di segni vittimari24.

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E da La violenza e il sacro: La violenza fondatrice costituisce realmente l’origine di tutto ciò che gli uomini hanno di più prezioso e tengono maggiormente a preservare. È proprio quello che affermano, ma in forma velata, tutti i miti d’origine che si rifanno all’uccisione di una creatura mitica da parte di altre creature mitiche25.

È dunque vero che c’è un nesso fra paganesimo e rivelazione cristiana, fra mito e vicenda critica; ma un nesso che Maistre – giova ancora insistervi – legge in una prospettiva di continuità, mentre Girard insiste sul rovesciamento. Per il primo il paganesimo prepara, in forma degradata, il cristianesimo: […] come ogni verità si trova e deve trovarsi nel paganesimo, ma, come dicevo poc’anzi, in uno stato di putrefazione, così la teoria ugualmente consolante e incontestabile del suffragio cattolico si mostra fra le tenebre antiche sotto la forma di una superstizione sanguinaria; e come ogni sacrificio reale, ogni azione meritoria, ogni macerazione, ogni sofferenza volontaria possono essere veramente ceduti ai morti, il politeismo, brutalmente sviato da alcune reminiscenze vaghe e corrotte, versava il sangue umano per quietare i morti26.

Per il secondo, invece, tale rapporto va certamente mantenuto ben fermo, ma completamente invertito: non si tratta di cercare nel mito l’incoativa verità dei Vangeli, quanto semmai di giudicare l’inganno del mito alla luce dei Vangeli. Infatti, Se il mito è un testo falsificato dalla credenza dei carnefici nella colpevolezza della loro vittima, così come del resto nella sua divinità, se i miti incarnano 23 24 25 26

Maistre SA V 350. Girard 1999, p.48. Girard 2000, p.135. Maistre SA V 353-354.

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il punto di vista della comunità riconciliata dall’assassinio collettivo, unanimemente convinta che si tratta di un’azione legittima e sacra, […] l’atteggiamento che consiste in una riabilitazione della vittima e in una denuncia dei persecutori […] deve avere delle ripercussioni non solo sulla mitologia, ma su tutto ciò che il fondamento occulto dell’assassinio collettivo comporta. […] Proprio perché riproduce l’evento fondatore di tutti i riti, la Passione si apparenta a tutti i riti del pianeta. Non c’è episodio che non si ritrovi in innumerevoli esempi, dal processo deciso in partenza alla derisione della folla, agli onori grotteschi e a un certo ruolo che il caso qui svolge, non nella scelta della vittima ma nel modo in cui si dispone delle sue vesti: tirandole a sorte. Alla fine, il supplizio infamante fuori dalla città santa per non contaminarla27.

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E tuttavia, Invece di leggere i miti alla luce dei Vangeli, sono stati i Vangeli a essere sempre letti alla luce dei miti. Di fronte alla prodigiosa demistificazione operata dai Vangeli, le nostre demistificazioni non sono che degli abbozzi irrisori e forse anche degli ostacoli che la nostra mente erige necessariamente contro la rivelazione evangelica28.

4. Divinità della guerra e montée aux extrêmes Un punto invece – fatta salva sempre quell’inversione di prospettiva su cui abbiamo molto insistito e che va mantenuta come sfondo di tutto questo discorso – un punto invece su cui Girard cita Maistre con approvazione, manifestando pertanto una rilevante adesione alla visione da quest’ultimo delineata, è senz’altro la teoria della “divinità” della guerra: che peraltro è per Maistre legge del mondo, eterna e indefettibile quanto l’uomo è da sempre colpevole e degradato (il centro del radicale pessimismo antropologico del Savoiardo, imperniato sull’inaggirabilità del dogma del peccato originale), mentre per Girard appartiene in tutto e per tutto alla legge satanica del meccanismo che, se da un lato è davvero il motore dell’umanizzazione e della civiltà, dall’altro è insieme ed indissolubilmente il luogo del dispiegarsi di quella violenza che solo la rivelazione cristiana può sconfiggere. Resta tuttavia che qui, più ancora che altrove, le assonanze paiono impressionanti: La guerra è dunque divina in se stessa, poiché è una legge del mondo.

27 28

Girard 1996, pp.198-220. Ivi, p.234.

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La guerra è divina per le sue conseguenze di ordine soprannaturale, tanto generali quanto particolari: conseguenze poco conosciute perché poco indagate, ma che non sono per questo meno incontestabili. Chi potrebbe dubitare che la morte incontrata in battaglia non goda di grandi privilegi? E chi potrebbe credere che le vittime di questo spaventevole giudizio abbiano versato il loro sangue invano? Ma non è ora il momento di insistere su questo tipo di argomenti; la nostra epoca non è ancora abbastanza matura per occuparsene: lasciamogli la sua fisica, e teniamo per parte nostra gli occhi ben fissi su quel mondo invisibile che spiegherà tutto. La guerra è divina per la gloria misteriosa che la circonda, e per l’attrazione non meno inesplicabile che ad essa ci trascina. La guerra è divina per la protezione accordata ai grandi condottieri, anche ai più audaci, che di rado vengono colpiti in battaglia, e lo sono soltanto quando la loro fama non può più aumentare e la loro missione è compiuta. La guerra è divina per come viene dichiarata. Non voglio scusare nessuno che non lo meriti; ma quanti di coloro che vengono considerati i diretti responsabili delle guerre, sono invece a loro volta trascinati dalle circostanze! Nel momento preciso, favorito dagli uomini e prescritto dalla giustizia, Dio si fa avanti per vendicarsi dell’iniquità che gli abitanti del mondo hanno commesso contri di lui. La terra avida di sangue […] apre la bocca per riceverlo e trattenerlo nel suo seno fino al momento in cui lo dovrà restituire29.

E leggiamo ancora una volta in Achever Clausewitz: La guerra è divina, scrive Joseph de Maistre, avvertendo in modo assai profondo il carattere soprannaturale della tendenza all’estremo. […] La guerra è l’unico ambito dove il mestiere e la mistica siano totalmente unificati, soprattutto nei momenti più intensi. […] Cosa significa tale intuizione, se non che è la guerra a fare l’uomo? Proprio come si può dedurre, mettendo a confronto le società arcaiche, che l’uomo è generato dal sacrificio, allo stesso modo […] l’uomo vi ritorna30.

Proseguendo il confronto: La storia prova malauguratamente che la guerra è, in un certo senso, lo stato abituale del genere umano: il che significa che, in un luogo o nell’altro, il sangue umano deve colare ininterrottamente sul globo e che la pace, per ogni nazione, non è che uno stato provvisorio […] Ma di tempo in tempo si danno avvenimenti straordinari che provocano un’accelerazione […]31.

29 30 31

Maistre SP V 33-34. Girard 2008, pp.136, 150-151. Maistre SP V 39, 47.

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Una accelerazione: si prefigura, nella pagina maistriana, la montée aux extrêmes, di cui in Achever Clausewitz: L’intelligenza diventa uno strumento della forza, dal momento che non ha più il compito di dominarla. […] Da qui la folgorante definizione del duello come tendenza all’estremo, che mi ha subito rammentato quello che io chiamo conflitto mimetico. La realtà della guerra fa sì che il sentimento ostile (la passione guerriera) finisca sempre per sopravanzare l’intenzione ostile (la decisione razionale di combattere)32.

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E dove mai, più che nella Rivoluzione francese, evento insieme divino e satanico, e dunque soprannaturale, questa dinamica sacrificale e vittimaria si è svolta perfettamente e conseguentemente, in tutti i suoi passaggi? Ora, ciò che distingue la rivoluzione francese, e che ne fa un evento unico nella storia, è che essa è radicalmente malvagia; nessun elemento di bene può in essa confortare l’occhio dello spettatore; si tratta del grado più alto di corruzione possibile, della pura impurità. […] Si trattò di un certo qual delirio inesplicabile, di un impeto cieco, di uno scandaloso disprezzo di tutto ciò che fra gli uomini è degno di rispetto; di un’atrocità di nuovo tipo, che si divertiva dei suoi misfatti; soprattutto di un’impudente prostituzione del ragionamento e di ogni parola fatta per esprimere idee di giustizia e di virtù33.

E che tale dinamica si esprima compiutamente nella Rivoluzione francese, è cosa di cui Girard mostra di non dubitare. Corrispondenza sensibile ne Il capro espiatorio: La maggior parte degli storici pensa che la monarchia francese non sia senza responsabilità nella Rivoluzione del 1789. L’esecuzione di Maria Antonietta è dunque esterna al nostro schema? La regina appartiene a diverse categorie vittimarie preferenziali: non è soltanto regina, è anche straniera. La sua origine austriaca ritorna continuamente nelle accuse popolari. Il tribunale che la condanna è fortemente influenzato dalla folla parigina. Il nostro primo stereotipo è anch’esso presente: si ritrovano nella Rivoluzione tutti gli aspetti caratteristici delle grandi crisi che favoriscono le persecuzioni collettive34.

Si scatena dunque qui il meccanismo, che è Satana:

32 33 34

Girard 2008, pp.30-31. Maistre CF I 69, 72. Girard 1999, p.41.

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C’è nella rivoluzione francese un carattere satanico che la distingue da tutto ciò che sinora si è visto e, forse, anche da tutto ciò che si vedrà in futuro. […] Ciò che più colpisce nella rivoluzione francese, è questa forza che trascina e travolge tutti gli ostacoli. Il suo turbine trasporta come paglia leggera tutto ciò che le forze umane hanno saputo opporvi: nessuno ne ha ostacolato la marcia […]35.

Né d’altronde avrebbe senso alcuno – come già sappiamo - pensare a una “controrivoluzione” messa in campo dalle sole forze umane:

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Si è soliti dare il nome di controrivoluzione a un movimento qualsiasi teso a togliere di mezzo la rivoluzione; e dato che questo movimento sarebbe opposto all’altro, si pensa che sarà dello stesso genere; mentre invece si dovrebbe pensare tutto il contrario. Si penserà forse, per caso, che il ritorno dalla malattia alla salute sarà altrettanto sofferto quanto il passaggio dalla salute alla malattia? E che la monarchia, rovesciata da mostri, dev’essere ristabilita da altri mostri? Ah! Coloro che si abbandonano a questo sofisma dovrebbero invece rendere giustizia alla monarchia nel fondo del loro cuore! Sanno infatti sin troppo bene che gli amici della religione e della monarchia non sono capaci di compiere alcuno degli eccessi di cui si sono macchiati i loro nemici […]. Per fare la rivoluzione francese, fu necessario rovesciare la religione, oltraggiare la morale, violare tutte le proprietà, commettere ogni crimine; per quest’opera diabolica fu necessario impiegare un tal numero di uomini viziosi che, forse, mai tanti vizi hanno agito insieme per mettere in opera un qualche male. Al contrario, per ristabilire l’ordine, il Re farà appello a tutte le virtù; lo vorrà, senza dubbio; ma, per la natura stessa delle cose, non potrà fare altrimenti. Il suo interesse più pressante sarà di coniugare giustizia e misericordia; gli uomini degni di stima saranno posti automaticamente là dove potranno essere utili; e la religione, prestando il suo scettro alla politica, darà a quest’ultima le forze ch’essa non può ottenere se non dalla sua augusta sorella36.

E così la violenza rivoluzionaria non potrà essere certo vinta da una “violenza contraria”, atta soltanto a mutare i rapporti di forza e di dominio senza intaccare in alcun modo la logica stessa della forza e del dominio; si tratta di sforzi inutili, nati morti, che non conducono a nulla. Noto è il motto maistriano, che può apparire certamente profetico se si pensa alle vicende della fine del secolo XX, secondo cui la “controrivoluzione” non sarà una rivoluzione contraria, ma il contrario della rivoluzione: un evento imprevisto e imprevedibile, non certo pianificato dagli uomini, in cui,

35 36

Maistre CF I 76, 6. Maistre CF I 162.

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senza traumi eccessivi e senza gravi scosse, la rivoluzione esibirà il suo interno svuotamento, imploderà in se stessa e restituirà lo spazio di un altro ordine. Utopico, forse: ma preferiamo definirlo profetico, e può darsi che altri eventi dell’oggi ci confermino nel dirlo tale. Ai lunghi passi di Maistre che abbiamo riportato, tratti soprattutto dalle Considérations sur la France, fa eco il Girard di Vedo Satana:

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La forza di trasformazione più efficace non è la violenza rivoluzionaria, ma la cura moderna verso le vittime. Ciò che dà valore a tale atteggiamento e lo rende efficace è una vera conoscenza dell’oppressione e della persecuzione. […] Questa trasformazione appare come un imperativo morale. Società che non vedevano alcuna necessità di trasformarsi si sono poco alla volta modificate, e sempre nella stessa direzione, sotto l’urgenza del desiderio di rimediare alle ingiustizie passate e di stabilire dei rapporti più umani fra gli uomini37.

Resta peraltro sempre aperta la possibilità, mai da escludersi, che l’umanità (che oggi ne ha i mezzi che un tempo non aveva) possa distruggersi con le sue stesse mani, al culmine di una crisi finale sempre incombente. D’altro canto, anche tale possibilità esibisce una portata escatologica.

5. Escatologia e apocalittica È dunque ancora possibile, dopo la rivelazione cristiana e lo svelamento della menzogna del sacro, che Satana, il meccanismo, riprenda il sopravvento e conduca a uno scatenamento ultimo e definitivo della violenza mimetica, tale da spingere l’umanità all’autodistruzione? Certo, è possibile, e forse non vi siamo mai stati vicini come oggi. L’uomo può distruggere l’uomo, l’Apocalisse è sempre incombente. Maistre già lo sapeva, affermandolo con la veemenza che gli era propria nel portare al parossismo la sua lettura della duplicità dell’uomo: La carneficina continua è prevista e fa parte dell’ordine del grande tutto. Ma questa legge si arresterà con l’uomo? Certamente no. Tuttavia quale essere sterminerà l’essere che sterminerà tutti gli altri? Lui stesso. L’uomo è incaricato di scannare l’uomo. Ma come potrà compiere questa legge, lui che è un essere morale e misericordioso; lui che è nato per amare; lui che piange per gli altri come per se stesso, che si compiace di piangere, e che si spinge a inventare finzioni per piangere; lui infine a cui è stato detto che gli verrà chiesto conto di ogni goccia di sangue che avrà versato ingiustamente? La guerra compirà il decreto. Non 37

Girard 2001, p.220.

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sentite come la terra grida e chiede sangue? […] Così si compie senza sosta, dal più piccolo animaletto all’uomo, la grande legge della distruzione violenta degli esseri viventi. La terra intera, imbevuta di sangue, non è che un immenso altare ove tutto ciò che vive dev’essere immolato senza fine, senza misura, senza sosta, fino alla consumazione delle cose, fino all’estinzione del male, fino alla morte della morte. Ma l’anatema deve colpire più direttamente e più visibilmente l’uomo: l’angelo sterminatore gira come il sole intorno a questo globo maledetto, e non lascia respirare una nazione se non per percuoterne altre. Ma allorquando i crimini, e soprattutto i crimini di un certo genere, si sono accumulati fino a un punto critico, l’angelo accelera il suo volo infaticabile38. […] bisogna tenersi pronti ad un avvenimento immenso nell’ordine divino, verso il quale marciamo a una velocità accelerata che non può non colpire ogni osservatore. Non c’è più religione sulla terra: e il genere umano non può rimanere in tale condizione. Oracoli terribili annunciano d’altronde che il tempo è giunto39.

Sono questi alcuni fra i passi più tremendi e angoscianti del “Profeta del passato”, che peraltro lega strettamente la dimensione distruttiva (anzi, autodistruttiva) dell’Apocalisse con la sua valenza salvifica. La “consumazione delle cose” è insieme “estinzione del male” e “morte della morte”: e l’ultimo nemico vinto sarà la morte. E ciò, interpreta Girard, non nonostante Cristo, ma proprio perché si avvicina l’avvento definitivo di Cristo, “segno di contraddizione”: Se gli uomini si combattono sempre di più, è perché si avvicina una verità che suscita la reazione della loro violenza. Cristo è l’Altro che viene e che, nella sua stessa vulnerabilità, provoca l’impazzimento del sistema. Nelle piccole società arcaiche, l’Altro era lo straniero apportatore di disordine, destinato sempre a diventare un capro espiatorio. Nel mondo cristiano è Cristo, il Figlio di Dio, che rappresenta tutte le vittime innocenti, e il cui ritorno è reso inevitabile dagli effetti stessi della tendenza all’estremo. […] Gli uomini sono impazziti, l’età adulta dell’umanità, l’età annunciata dalla Croce, è fallita. Nessuno vuole vedere né comprendere che il ritorno di Cristo, secondo la logica rigorosa dell’Apocalisse, fa tutt’uno con la fine del mondo. Gli uomini, contrariamente a quanto voleva credere Hegel, non solo non si gettano fra le braccia gli uni degli altri, ma sono diventati capaci di distruggere l’universo. […] continuare a pensare la guerra sul registro dell’eroismo significherà tornare ben presto a una pretesa sacralità della violenza e credere che sia feconda. Oggi non c’è più nulla da fondare. Crederlo significa accelerare la tendenza all’estremo40. 38 39 40

Maistre CF I 30-32. Maistre SP V 270. Girard 2008, pp.166-167.

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Anche Maistre, in fondo, non crede che vi sia più nulla “da fondare”. L’immagine del pensatore tradizionalista che sogna il ritorno dell’ancien régime è di maniera, del tutto superficiale, non tiene conto alcuno della specifica tonalità tragica del suo pensiero, tonalità che ne fa un unicum e non consente di amalgamarlo coi Bonald, con gli Haller, coi Gentz e con gli altri corifei della Restaurazione. Forse perché Maistre è il testimone eterno (e, in questo senso, sovrastorico) di un mondo in crisi, sì che per volgersi a lui e ascoltarlo, per imparare in qualche modo a sintonizzarci con lui, bisogna che a nostra volta percepiamo di appartenere ad un mondo in crisi, il che può certo essere riconosciuto a Girard. Non si può negare che Maistre appaia infatti più interprete del XX secolo che di quel XIX che, almeno dal 1848 in avanti, gli fu sostanzialmente estraneo benché in esso egli avesse trascorso gli ultimi vent’anni della sua vita: l’intuizione folgorante della “dialettica dell’Illuminismo” che vede in rapporto di consequenzialità i “diritti dell’uomo” e il Terrore e la ghigliottina; la profetica visione del pericolo dei totalitarismi come implosione violenta della ragione strumentale e ideologica abbandonata a se stessa, “liberata” dalla dolce catena e perciò sprofondante nel nichilismo; la disperazione di fondo, mal celata dalle granitiche certezze di chi, forse, ha bisogno di credere e vuole credere più di quanto effettivamente non creda; e, non da ultimo, un pensiero il cui argomentare si regge molto più sul paradosso che sulla ratio: tutto questo, come scrive Cioran, ne fa veramente “uno di noi”, ben più presente al nostro mondo in contrazione e in declino, sempre sull’orlo della “crisi definitiva”, che a un Ottocento ancor tutto sicuro delle sue “magnifiche sorti e progressive”. Non v’è dubbio ch’egli non credesse affatto al sogno utopico di una “pace perpetua” che molti speravano dal Congresso di Vienna, nei cui confronti, per quanto riguarda efficacia, solidità e durevolezza del piano restaurativo ivi concepito, Maistre fu e restò sempre abbastanza scettico, in una disposizione interiore scissa e contraddittoria. Era la contraddizione dell’uomo che, tornato infine dalla Russia a Torino, e partecipando a un Consiglio col re Vittorio Emanuele I ove vari ministri parevano presi dalla frenesia di elaborare progetti su progetti, sbottava uscendo col celebre e lapidario “Signori! La terra trema e voi volete costruire?” E cosa dunque “fondare”, su una “terra che trema”? Resta la fede nell’assurdo, credo quia absurdum, di un cristianesimo sacrificale imperniato sul dogma della reversibilità, testimoniato da un’infinità di passi fra i quali scegliamo i più espliciti e significativi: Universale è stata sempre la credenza che il giusto, soffrendo volontariamente per il colpevole, non giustificasse solo se stesso ma anche proprio quel colpevole che, da solo, non avrebbe potuto giustificarsi.

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Va notato che, malgrado l’assurdità apparente di questa dottrina, essa è stata universalmente adottata in ogni tempo. Per quanto la storia ci consenta di spingere le nostre ricerche sino ai tempi più remoti, vediamo tutte le nazioni, sia civilizzate sia barbare, e quali che siano le differenze che le separano in tutte le loro opinioni religiose, convergere in questo punto e credere nell’efficacia dei sacrifici al fine di quietare i loro dei offesi, ovvero credere alla sostituzione delle sofferenze di altri uomini ed animali. Una simile idea non poteva derivare dalla ragione, perché la contraddiceva; né dall’ignoranza, che mai avrebbe potuto inventare un espediente così inesplicabile; […] e neppure essere un’invenzione dei re e dei sacerdoti al fine di dominare il popolo. Gli uomini non hanno mai dubitato che l’innocenza potesse giustificare il crimine; e in più hanno creduto che vi fosse nel sangue una forza espiatoria; sì che la vita, che è il sangue, potesse salvar un’altra vita.

La redenzione […] è un’idea universale. Ovunque e dovunque si è creduto che l’innocente potesse pagare per il colpevole […]; ma il cristianesimo ha rettificato [n.b.: rettificato, non rovesciato! NDR] questa idea e mille altre che, pur negativamente, gli avevano reso già prima la loro testimonianza decisiva. Sotto l’impero di questa legge divina, il giusto (che non crede mai d’esser tale) tenta comunque di avvicinarsi al suo modello nel dolore. Egli si esamina, si purifica, compie su se stesso sforzi che paiono andare oltre il limite dell’umano, per ottenere infine la grazia di poter restituire ciò che non ha rubato. Non v’è nulla che dimostri nel modo più degno di Dio ciò che il genere umano ha sempre confessato, prima ancora che gli venisse insegnato: la sua degradazione radicale, la reversibilità dei meriti dell’innocenza che paga per il colpevole, e LA SALVEZZA ATTRAVERSO IL SANGUE41.

Siamo agli antipodi della filosofia moderna, con la quale si configura uno scontro senza quartiere: scontro fra la fede nell’assurdo (un assurdo che sa si essere tale, e anzi lo afferma e proclama) e la “potenza disgregatrice”, analitica e relativizzante, del pensiero che si autofonda prescindendo da Dio. Sarà questa, per Maistre, la crisi finale? Non c’è che violenza nell’universo; ma noi siamo guastati dalla filosofia moderna, che ha detto che tutto è bene, mentre invece il male ha insozzato ogni 41

Maistre, SP V 139, 144, 149; SA 368, 369, 376, 388-389, 392, 405.

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cosa e, in un senso assai vero, tutto è male perché nulla è al suo posto. Essendosi abbassata la nota tonica del sistema della nostra creazione, tutte le altre si sono proporzionalmente abbassate secondo le regole dell’armonia. Tutti gli esseri gemono e tendono, con sforzo e dolore, verso un altro ordine delle cose.

Non solo la ragione umana, o ciò che viene chiamato filosofia senza sapere di che si parla, non può supplire a quelle basi che vengono dette superstiziose, sempre senza sapere di che si parla; ma la filosofia è, al contrario, una potenza essenzialmente disgregatrice.

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La GENERAZIONE presente è testimone di uno dei più grandi spettacoli che mai si siano offerti ad occhio umano: la lotta ad oltranza fra il cristianesimo ed il filosofismo. Il combattimento è iniziato, i due nemici si stanno affrontando e l’universo li guarda42.

Una prospettiva, questa, in cui Girard di primo acchito non si riconosce; e, con riferimento esplicito a Maistre, scrive ancora in Achever Clausewitz: Nel Chiarimento sui sacrifici di J. de Maistre, l’antropologia che viene abbozzata è balbettante, ancora incapace di vedere il rovesciamento rivelatore di Delle cose nascoste. Essa è condizionata da una riflessione abortita sul sacrificio dell’altro e il sacrificio di sé: le vittime sono innocenti, ma nello stesso tempo i sacrifici devono svolgere un ruolo di espiazione. È nondimeno su questo terreno romantico che nascerà l’antropologia43.

Antropologia “abbozzata e balbettante”, riflessione “abortita” … il distacco proclamato non potrebbe essere più palese ed esplicito. E del resto, in ciò che precede, lo abbiamo sottolineato più volte, il che certo ci dispensa dal ritornarvi qui se non attraverso questa icastica frase di Girard stesso. Ma possiamo escludere in modo tassativo e assoluto che tale antropologia “balbettante” e tale riflessione “abortita” restino comunque presenti, quantomeno come spunto sotterraneo e come ispirazione pur tutta da rivedere e da ripensare (ciò ch’egli indubbiamente ha fatto) nel fondo più remoto del suo pensiero? Per parte nostra, noi crediamo di non poterlo escludere. Altri passi potrebbero essere addotti per documentare ulteriormente la nostra indagine, ma possiamo fermarci. Come annunciato sin dall’inizio, più che svolgere nostre considerazioni abbiamo preferito “far parlare” i testi e commentarli. Un “filo rosso” ne è indubbiamente emerso. Certo – 42 43

Maistre, SP V 55, 77, 84-85. Girard 2008, p.251.

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e questo va detto con fermezza – voler individuare un “filo rosso” non significa in alcun modo parlare di una “dipendenza” di Girard da Maistre (cosa che non avrebbe alcun senso), e neppure compiere una forzatura interpretativa che voglia per forza individuare in Girard una intenzionale ispirazione maistriana. Si sarà notato anzi che le poche, invero assai poche volte in cui Girard cita Maistre, lo fa prendendo abbastanza le distanze. E ciò, ripetiamolo, è per più versi comprensibile: per lui quello di Maistre è ancora un “pensiero sacrificale”, sia pure al limite, e il suo cristianesimo è un cristianesimo sacrificale. Il che non può affatto essere negato, se guardiamo (come ci pare che Girard prevalentemente faccia) alla lettera dei suoi testi. A noi pare piuttosto che sia un’altra la via lungo la quale lo spirito maistriano si fa strada in Girard, in modo certamente più sotterraneo, impercettibile e tuttavia, proprio per questo, tanto più pervasivo: non certo il retaggio delle granitiche certezze della lettera maistriana, ma il carattere scisso, tragico, autocontraddittorio, impregnato di scandalo e di paradosso, che ne emerge a una lettura capace di coglierne l’interna tensione: tensione esistenziale, dislocazione, esilio. E Maistre era un esiliato. Ora, l’uomo ancora in preda del meccanismo sacrificale è come in esilio, solo lo svelamento della menzogna del sacrificio lo riporterà presso di sé. Crediamo dunque che il problematico rapporto tra Girard e Maistre vada letto secondo questa figura, appunto quella dell’esilio. Forse proprio questa figura potrebbe essere la chiave ermeneutica di tutto il nostro tentativo. Maistre è un Girard che non si “conosce” ancora pienamente, che è ancora in esilio; in Girard il ritorno dall’esilio è cominciato. Donde le differenti considerazioni sul sacrificio, ma anche, in Maistre, l’annunciarsi di quei segni di rivolta, di tensione parossistica, di montée aux extrêmes che, sotto una luce ancora diversa e – potremmo dire – soltanto incoativa, cercano spasmodicamente, in conflitto con se stessi, la via di un “ritorno all’origine”. D’altra parte – e non è certo, questa, una considerazione nuova – Maistre in fondo non crede: l’ossessiva ripetizione della certezza della fede, spinta – come si è visto – fino a un’esplicita ripresa dell’antico credo quia absurdum, mostra che quello che in lui domina, nel suo argomentare paradossale, scisso e sotto più aspetti disperato, non è tanto il credere ma il voler assolutamente credere. Difesa del sacrificio, divinità della guerra, elogio del boia, panegirico dell’Inquisizione non sono altrimenti comprensibili. Da questo punto di vista, Maistre è senz’altro la primizia, mai presentatasi prima in forma così pura e cristallina, del paradosso cui perviene anche Girard in Achever Clausewitz, con l’affermazione icastica che «il cristianesimo è l’incredulità».

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Riferimenti bibliografici Joseph de Maistre, Oeuvres complètes, nouvelle édition contenant ses Oeuvres posthumes et toute sa Correspondance inédite, 14 voll., Librairie générale catholique et classique, Vitte et Perrussel, Lyon 1884-1886. Le citazioni a fondo pagina, tratte qui solo dalle Considérations sur la France, dalle Soirées de Saint Pétersbourg e dall’Éclaircissement sur les sacrifices, sono operate inserendo nell’ordine la sigla corrispondente all’opera – rispettivamente CF, SP, SA – seguita dal numero romano indicante il volume e dal numero, o dai numeri, di pagina: ad esempio SP V 3-4. Pur in presenza di buone traduzioni delle opere considerate, abbiamo scelto di tradurre sempre direttamente dall’edizione indicata. Girard 1996: René Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1996. Girard 1999: René Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 19992. Girard 2000: René Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 20005. Girard 2001: René Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi, Milano 2001. Girard 2005: René Girard, Quando queste cose cominceranno. Conversazioni con Michel Treguer, Bulzoni, Roma 2005. Girard 2008: René Girard, Portando Clausewitz all’estremo, Adelphi, Milano 2008.

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MARIA STELLA BARBERI

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DA UN LEVIATANO ALL’ALTRO. MOTIVI MIMETICI PER UN CONFRONTO TRA THOMAS HOBBES E CARL SCHMITT

«Niente assomiglia di più a un gatto o a un uomo in collera di un altro 1 gatto o di un altro uomo in collera» . Con tale richiamo alla fisiognomica René Girard dice che «il desiderio di violenza», una volta risvegliato, corre indifferentemente da un uomo all’altro, da un oggetto all’altro e, mentre azzera al suo passaggio le dissomiglianze, rende indifferente ogni legame, anche i legami familiari più forti e più stabili. Una fisiognomica delle passioni espone anche la prima parte del Leviatano di Hobbes dedicata all’uomo. Non somiglia infatti al desiderio di violenza il desiderio di potere che l’XI capitolo propone come un «perpetuo ed ininterrotto desiderio di 2 potere dopo potere, che cessa soltanto con la morte» ? In effetti la celebre affermazione di Thomas Hobbes è stata interpretata soprattutto come un bell’esempio di nichilismo del desiderio – quel puro «movimento di membra» iscritto nel violento orizzonte della morte che descrive in definitiva 3 l’uguaglianza non rappresentabile degli uomini . In un saggio del 1942 dal titolo impegnativo: Faust e l’uomo barocco, Rudolph Kassner ha osservato però che «con questo “cessa con la morte” si allenta qualcosa nel legame 4 fra essere e potere» . L’uomo, ci avverte l’Autore, non è semplice inclinazione che lo spinge inesorabilmente in avanti nella corsa da un desiderio all’altro, non è, in altri termini, semplice «desiderio di potere»; è anche mimesis, «desiderio di dominio» attraverso il quale si esplica quella «poetica della meraviglia» entro cui la creazione dell’arte ridefinisce, in un’accezione squisitamente barocca, la vecchia idea dell’imitazione della natura. 1 2

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La citazione da Human Aggression di Anthony Storr è in Girard 1992, p.14. Hobbes 1992, p.78. Non sorprende – se non per la fine ironia – che per illustrare La differenza dei “costumi” Hobbes consideri «al primo posto come un’inclinazione generale di tutta l’umanità», il «desiderio di potere dopo potere». Non sorprende perché Hobbes è soprattutto conosciuto come filosofo materialista e meccanicista. Così, ad esempio, la frase di Hobbes continua a essere compresa da Cavarero 2000, pp.189-190. Kassner 2010, pp.59-83. La frase è citata da Schmitt 2001, p.57.

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Ricordiamo l’incipit dell’Introduzione del Leviatano:

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La NATURA, ossia l’arte per mezzo della quale Dio ha fatto e governa il mondo, viene imitata dall’arte dell’uomo, oltre che in molte altre cose, anche nella capacità di produrre un animale artificiale. […] L’arte si spinge anche più avanti attraverso l’imitazione di quel prodotto razionale che è l’opera più eccellente della natura: l’uomo. Viene infatti creato dall’arte quel grande LEVIATANO chiamato REPUBBLICA o STATO (in latino CIVITAS) che non è altro che un uomo artificiale, anche se ha una statura e una forza maggiore rispetto all’uomo naturale, 5 per proteggere e difendere il quale è stato voluto .

Al gusto dell’uomo barocco si adatta perfettamente il rapporto mimetico tra l’arte e la natura; ma «la natura con cui l’arte è chiamata a confrontarsi non è più vista come la replica di una forma universale, è colta come un dinamismo plurimo, grandioso e imprevedibile, come un evento, un kai6 rós, che suscita ammirazione o sgomento» . Dobbiamo porre l’accento su questa preminenza mimetica dell’arte, che glorifica l’uomo, giacché è l’arte a stabilire la differenza tra la costituzione naturale dell’animale – il puro «movimento di membra» degli automi – e la costituzione razionale dell’uomo – che con l’immaginazione domina la natura. Con l’immaginazione, con l’arte, «viene infatti […] creato quel grande LEVIATANO». Così nel saggio di Kassner è ancora sviluppata l’idea hobbesiana di potere: Osservando l’elemento di facciata di tutte le immagini barocche, dobbiamo ritornare a quanto abbiamo già detto a proposito dell’idea hobbesiana del potere: che cioè nel potere stesso s’incorpora in qualche modo il pensiero della morte e che, di conseguenza, qualcosa sembra venire a mancare nella struttura umana, così che l’uomo cominci a contrapporsi a sé stesso. Un dissidio talmente fecondo che 7tutta la magia deve svanire o deve [...] convertirsi in una semplice atmosfera .

Se ben comprendo il pensiero dell’Autore, dal momento in cui il potere ha incorporato il pensiero della morte, esso si è svincolato dal legame intrinseco, al tempo stesso naturale e trascendente, con le proprie origini cruente. È l’intera ampiezza dell’esistenza dell’uomo con le sue tensioni e contraddizioni mimetiche che si trova ad essere investita dal potere quando esso si dispiega in dominio e l’uomo comincia a contrapporsi a sé stes5 6 7

Hobbes 1992, p.5. Lombardo, in corso di stampa. Kassner 2010, p.75.

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M.S. Barberi - Da un Leviatano all’altro

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so. «La facciata del dominio dinanzi al potere» è arte, rappresentazione, «prestigio, gloria, onore, onnipotenza, eppure onnipotenza solo esteriore». Nelle facciate barocche, nei prospetti spiraliformi delle chiese gesuite e finanche nei parrucconi del XVII secolo troviamo allora spezzati – scomposti e diversamente disposti – i vincoli occulti che dall’antichità legavano la «struttura umana» alla religione sacrificale, ai calcoli sacri, alla segreta vocazione della magia, alla maschera di Dioniso e all’immobile perfezione 8 delle piramidi egizie . Uno stesso ammonimento a diffidare della psicologia e della sociologia dello smascheramento ci giunge, attraverso Kassner, da Thomas Hobbes fino a Carl Schmitt: attenzione a decostruire la facciata barocca, perché il «puro nucleo del potere» rischia di rivelarsi molto più arbitrario di 9 Leviathan! . Non commettiamo perciò l’ingenuità positivista di inseguire le naturali e ininterrotte trasformazioni della violenza in interiore homine, giacché così facendo perderemmo di vista la direzione portante: quel contraddittorio desiderio di dominio e d’appropriazione che si esprime in exteriore homine come arte dell’imitazione, cui ci richiama l’Introduzione del Leviatano. Desiderio di dominio, da una parte, e desiderio di potere (con il desiderio di violenza che ne consegue), dall’altra, richiamano, rispettivamente, la «mediazione esterna» e la «mediazione interna» della 10 teoria mimetica . In queste pagine non ne tratto in maniera esplicita. Mi 8 9 10

Cfr. ibidem. Il Barocco, l’ultima grande forma di ciò che Kassner chiama la signoria del logos, fa presagire la fine della suddetta signoria e l’effondersi di una nuova espressività dell’ingegno e delle passioni del tempo. Cfr. Schmitt 2001, p.57. In Mensonge romantique et vérité romanesque con l’espressione «mediazione interna» René Girard indica l’incepparsi dei meccanismi di trasmissione del desiderio normalmente garantiti dalla «mediazione esterna» di istituzioni religiose, politiche e giuridiche; è allora infatti che l’introiezione del modello-ostacolo genera folli identificazioni e abbracci mortali dell’imitatore al suo doppio mimetico, il rivale irresistibile impossibile da contrastare sia quando viene divinizzato oppure diabolizzato. Il «desiderio del desiderio dell’altro» è la vera e propria trappola metafisica e psicologica predisposta dalla (menzognera) rappresentazione di sé degli eroi romantici. In Achever Clausewitz l’autore vede tuttavia ciò che non vide in Menzogna romantica: è abbastanza plausibile pensare che in un mondo di mediazione interna «il desiderio di ciò che l’altro possiede» («può trattarsi di un oggetto, di un animale, di un uomo o di una donna, ma anche di un essere in senso proprio, di qualità essenziali») finisca in «desiderio metafisico in cui il soggetto cerca di appropriarsi dell’essere del suo modello». Di questo desiderio secondo l’altro, ancorché pervasivo nei suoi effetti indifferenziatori, dobbiamo comunque ridimensionare il carattere romantico (autoreferenziale), ovvero rinunciare a considerarlo un sinonimo di ostacolo allo sviluppo dell’essere, individuale

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René Girard e la filosofia

limito pertanto a rilevare che, dà un Leviatano all’altro, alla «mediazione esterna», Thomas Hobbes ha trasmesso i caratteri della mimèsi e della 11 «dissimulazione» barocca, e che Carl Schmitt l’ha resa depositaria di un “messaggio esoterico”.

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1. Il Leviatano di Thomas Hobbes: l’imitazione come arte barocca Il brano dell’Introduzione sopra citato afferma che il grande Leviatano «non è altro che un uomo artificiale, anche se ha una statura e una forza maggiore rispetto all’uomo naturale, per proteggere e difendere il quale è stato voluto». Nessuna eccellenza particolare gli è attribuita; se eccelle, non è già per virtù, ma perché somiglia all’uomo naturale cui lo associa quel suo tratto «artificiale»: quasi che Hobbes volesse risvegliare ad arte nel suo lettore gli stessi sentimenti di pietà e di terrore che – da Aristotele in poi – siamo in genere disposti a provare verso gli uomini che ci appaiono “come noi”. 12 A detta di Stephen Halliwell , prima della voga del XVIII secolo, Hobbes è l’unico autore ad aver ripreso e commentato il concetto aristotelico di

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o collettivo, immanente o trascendente, a vantaggio del quale debba essere quindi eliminato. Di fatto, la «mediazione interna» contiene, in germe, l’intero ciclo della «crisi mimetica», già fondatrice delle società arcaiche. Cfr. Girard 2002 e Girard 2008, pp.64 e sgg. Ne deduciamo che l’interiorizzazione prodotta dalla crisi mimetica (con ciò che essa porta con sé di menzogna romantica) non contraddice bensì ciclicamente precede il ritorno all’uguaglianza rappresentabile della mimèsi dell’appropriazione e del dominio, ovvero al desiderio di ciò che l’altro possiede. Analogamente, l’hobbesiano «desiderio di potere» inteso come tensione verso l’essere del proprio potere è perpetua corsa da un desiderio all’altro, da un oggetto all’altro. È la meccanica del desiderio che sposta sempre in avanti il soggetto agente, consegnandolo sempre nuovamente alla dialettica di potere e impotenza; tuttavia, evolvendo nella sfera critica del dominio, il desiderio non è mera trascrizione di impulsi passionali o traduzione convenzionale di un’ipotesi logica, ma esperienza della reciprocità rappresentata in uno spazio ed esibita in forma collettiva. Nel saggio Il sublime e l’arte della dissimulazione, Giovanni Lombardo ricorda che Demetrio (autore del trattato Sullo Stile composto nel II o forse nel I sec. a.C.) è molto letto nel corso del XVII secolo, al pari di Longino (il cui trattato Sul Sublime del I sec. d.C. è pubblicato nel 1554): «anch’egli conosce bene l’importanza della dissimulazione e la teorizza soprattutto in rapporto al procedimento più adatto a produrre lo stile potente: il sermo figuratus, il “discorso figurato”, una sorta di “stile diplomatico” che sembra anticipare la precettistica cinque- e secentesca sul savoir vivre». Cfr. Halliwell 2010, p.201 e p.366. Cfr. anche Harwood 1986 e Strauss 1963.

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pietà. Questa pietà, gemella della paura, «nasce dall’immaginare che una 13 disgrazia analoga possa accadere anche a noi» . Così, l’esperienza sensibile dell’insicurezza quanto alla nostra sorte individuale, prolungandosi e compiacendosi in «immagini complesse», suggestioni, eccessi e assurde fantasticherie (come Ercoli e Centauri), ci conduce “non liberi” da un’im14 maginazione all’altra, dal desiderio, al timore, alla speranza . Questa alternanza indecidibile delle passioni, che la vita concreta protrae fino – ed oltre – la deliberazione della volontà, l’ingegno umano può invece fingerla nell’arte mediatrice, in quanto vi riconosce «la somiglianza tra i pensieri e le passioni di una persona e i pensieri e le passioni di un’altra». È il senso del Nosce te ipsum, leggi te stesso – nel quale chiunque guardi in sé stesso ritrova l’«alfabeto del cuore umano» e quindi tutto ciò che serve per «go15 vernare un’intera nazione» . Ho ricordato concetti noti che, compendiando l’arte del Leviatano nell’imitazione dell’uomo, compendiano altresì l’antiplatonismo di Hobbes. Non soltanto l’uomo è l’unico modello sensibile di cui la mimèsi dispone per fare un grande Leviatano, ma l’intero processo della creazione artistica rivela la propria grande efficienza pratica, squisitamente eticopolitica, quando è sostenuto dalla discrezione che «serve a saper scegliere bene tra le infinite immagini della nostra memoria». Come osserva John R. Snyder, «anziché un problema di conoscenza, come potrebbe sembrare a una prima lettura, l’immaginazione per Hobbes pone un problema di 13

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Hobbes 1992, p.48; Hobbes 1994, II, X, p.55 e pp.62-63; Hobbes 1989, p.10. Nella fenomenologia della pietà hobbesiana l’empatia e il giudizio morale sono ancorati alla particolarità, all’efficacia ingenua, immediata e interessata, delle passioni. Il come, il verso chi e il per che cosa desunti dalla passione dell’ascoltatore e dell’osservatore, cominciano però a generalizzarsi nell’«immaginazione prodotta nella mente». Cfr. Hobbes 1992, p.16. Cfr. Hobbes 1992, pp.6-7. Non credo sia stato abbastanza evidenziato il doppio vincolo che lega l’immaginazione hobbesiana alla conoscenza degli impulsi passionali contraddittori, l’attrazione e la repulsione, che formano «l’alfabeto del cuore umano». Sebbene infatti l’immaginazione inganni con i sensi gli inganni dei sensi, sono sempre «il timore e la speranza», i moti composti dell’animo, a fare le azioni umane quali esse necessariamente sono. Cfr. Hobbes 1968, p.197. Come è noto, Girard evidenzia per una via più diretta, sulla scorta delle analisi sul «double bind» del desiderio dello psicologo Bateson, gli effetti mimetici doppiovincolanti della dipendenza emotiva da un modello-ostacolo. Cfr. Girard 2001, pp.360-364, si veda anche Bateson 2000. Le indicazioni che ci vengono in questo senso dalla conoscenza dell’alfabeto mimetico rischiano tuttavia di apparire addirittura maggiormente naturali e meccaniche rispetto alle aspettative mimetiche coinvolte nel governo degli uomini.

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estetica» . Essenziale non è però l’opposizione tra la conoscenza scientifica e la convenzione estetica, bensì la preventiva rinuncia dell’immaginazione al punto di vista interno del potere a favore del punto di vista esterno del dominio. Alleggerito dalla dipendenza individuale dagli «oggetti delle passioni», ciascuno può in tal modo riconoscersi nelle parole pronunciate, e nelle azioni compiute, dalla persona che le finge come vere, oppure come opera della sua fantasia. Tale è l’intendimento dell’artefice che denota il rapporto attivo – imitativo e creativo, estetico assieme e conoscitivo – dell’immaginazione in rapporto alle passioni. Sono le parole di Omero, di Dante, di Shakespeare, ovvero dei loro personaggi (Ulisse, Beatrice, Amleto) che dànno rinomanza al loro autore e ne trasmettono l’autorità di modello; auctoritas è pure il magistero della rappresentazione leviatanica che accresce la capacità, le 17 qualità mimetiche dell’imitatore. Persona (maschera o volto) della civi16 17

Snyder 2005, p.159; cfr. anche Anceschi 1972, pp.76-77. Il termine latino persona indica originariamente la «maschera» e, successivamente, il «personaggio» che la indossa (le dramatis personae sono i «personaggi di un dramma»). L’etimo del lat. persona è incerto. Si è tentato un accostamento con l’etrusco phersu, «maschera»; ma non è improbabile una derivazione dal verbo personare (composto del verbo sonare), «suonare attraverso»: la persona sarebbe lo schermo cavo attraverso cui una voce risuona. Il termine persona traduce uno dei valori del greco prósopon – che, però, indica anzitutto il «volto». Composto dalla preposizione pros, «contro», «verso», e dalla radice op(s)-, «sguardo», «occhio», prósopon significa propriamente «ciò che guarda verso di noi, standoci di fronte». Nel latino persona l’idea della frontalità non è più evidente. Originariamente legato all’esperienza del teatro, ha anche un’applicazione grammaticale (con riferimento al pronome e al verbo) e un’applicazione teologica, nell’àmbito della dottrina cristiana della Trinità e delle sue tre Persone. Oggi la persona è l’individuo considerato soprattutto dal punto di vista della sua dignità morale e giuridica. Nel diritto romano, la persona si contrapponeva sempre alla res, alla «cosa». L’uso di questi due termini in espressioni negative ha dato luogo nel francese moderno a personne, «nessuno», e a rien, «nulla» (da rem, accusativo di res). Il termine moderno maschera sembra presupporre il longobardo masca, «strega», attestato dal latino tardo dell’Editto di Rotari (643 d.C.). Può essere interessante ricordare che il lat. persona ha generato il portoghese pessoa, nel senso di «persona» e nel senso di «personaggio», «figura». Nel XVI capitolo del Leviatano Hobbes richiama entrambi i significati di persona, come maschera e come volto – tale è “l’attore” teatrale sia questi «maschera» e «personaggio» attraverso cui una voce risuona, oppure sia «volto» che guarda verso di noi standoci di fronte. Una traccia del greco prósopon si riscontra anche nella composizione di teste traboccanti e mosse della prima versione inglese dell’iconografia – quella del 1651 conservata alla British Library – come pure nelle figure distinte per ceti e mestieri del frontespizio del De cive del 1652. Il critico Keith Brown legge nella frontalità un carattere demoniaco; ma chi guarda verso di noi non è necessariamente più

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tas, lo Stato Leviatano non è quindi semplice personificazione di un’idea d’unità politica, universale e razionale; né è identità immediata di artefice e materia. Il «corpo che occupa uno spazio» traduce all’esterno, in arte della meraviglia, relazioni di autorità personale. Autorità è il sentimento di timore che trasmette il popolo imbracato alla facciata leviatanica del frontespi18 zio, incatenato, ipotizziamo, alle parole del sovrano ; autorità è anche la reazione di stupore dinnanzi all’inattesa stazza dell’uomo dell’iconografia, che accresce la partecipazione di chi osserva l’immagine. Nonostante tutto, se ci chiediamo però chi o che cosa fa del Leviatano una realtà rappresentativa del culto pubblico, può capitare di esser presi da vertigine. Questa vertigine, ovviamente, scompare se accettiamo la ridondanza di quella estrema scenografia alla stregua di una falsa prospettiva, che contiene in sé – in qualche punto nascosto tra gli stucchi decorativi – il principio del 19 proprio movimento . La persona del Leviatano rivela, dunque, il marchingegno scenico, la finzione barocca atta a perpetuare il gioco drammatico della vita innanzi alla morte. D’altronde, a ben pensarci, un sapore pre-barocco hanno anche i versetti 40,25a e 41,14b del Libro di Giobbe: «Prendi tu forse il Leviata-

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inquietante di chi ci volta le spalle, come i piccoli uomini della raffigurazione di impianto esplicitamente cultuale nel Leviatano del 1652. Sull’iconografia del Leviatano rinvio a Barberi 2002, pp.93-111. Nella versione latina del Leviatano (1668), Hobbes recepisce la tradizione di Luciano sul tema classico del potere dell’eloquenza, ripresa poi dall’Alciato nel celebre emblema Eloquentia Fortitudine Praestantior, in cui Ercole soggioga gli uomini non per mezzo della forza bruta, ma incatenandoli alle sue parole. Sul tema, cfr. Skinner 1996, in particolare pp.232 e sgg. Per l’emblema in questione, cfr. Andrea Alciati Emblematum Liber, 1621. L’implodere del centro del movimento – che così fortemente colpisce il visitatore che penetra in teatri o in chiese barocche – suggestivamente evoca la moltitudine radunata attorno a un centro reso invisibile dallo stesso movimento, come potrebbe essere quello di una folla di tipo vittimario in una arcaica fondazione sacrale dello spazio comune. Un’ipotesi più perspicua suggerisce, a mio avviso, Hobbes lettore della Bibbia nella terza parte del Leviatano, là dove si dispiega l’interpretazione teologico-politica della persona sovrana: come mediazione visibile voluta dal popolo per stabilire o mantenere il consenso di coloro che vogliono essere rappresentati, la persona è finzione rappresentativa; come mediatore dell’Alleanza prescelto da Dio per testimoniare e trasmettere la sua parola, ha invece realtà umana e storica inequivocabile. Questa interpretazione Carl Schmitt sembra voler esemplificare nel disegno «a cristallo» del sistema di Hobbes. Dentro il cristallo funziona la finzione (il duplice movimento verso l’alto e verso il basso della figura), ma la «porta della trascendenza» apre il cristallo alla veritas: Jesus Christus. Su «il cristallo di Hobbes» rinvio a Barberi 2002, pp.56-91.

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no all’amo? […] Dinanzi alla sua faccia danza la paura» . Non è affatto chiaro se la paura danzi perché Leviatano la domina, la fa danzare come lui vuole; oppure se sia lei, la paura, che, per salti successivi, guida nella danza Leviatano, il suo doppio mimetico. Più chiaro è invece il modo in cui l’esemplare secentesco si sottrae all’imbarazzante quesito di Giobbe: «Prendi tu forse il Leviatano all’amo?». Questo modo ha precisamente la marca dell’ingegno nella quale diversi autori hanno riconosciuto una stret21 ta affinità con il wit . Ogni invenzione, ogni fantasia, «muove velocemente dall’una all’altra India e, [...] accostando tra loro cose lontanissime,» coglie la bizzarria di una situazione e può anche inventarla. È perciò tecnicamente 22 esoterica, «non fa che andare verso se stessa» . In un’accezione meno tecnica, tuttavia, questo esoterismo dell’invenzione di pensiero rivela ulteriormente la «dimensione sociale», ossia convenzionale, dell’inganno con23 diviso : sospende le tensioni e riassorbe contraddittorietà e discrepanze. “Non c’è due senza tre”: è una formula efficace per spiegare il miracolo

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Corsivo mio. La tradizione cristiana medievale ha visto nell’amo la prefigurazione della croce con la quale Dio cattura il mostro biblico figura di Satana. La modernità, che guarda al Leviatano, prima lo ha fatto sovrano, poi ha cercato di ridurlo in pezzi in diversi modi, infine ha deciso di porlo sotto la tutela della governance mondiale. Ma per chi non possiede né amo né esca per il Leviatano, paura e dominio della paura si volgono in un’assurda danza mimetica – alla fine sarà la violenza unificante a danzare da sola. L’immagine del XII secolo «Leviatano preso all’amo (adescato) dalla Croce» nell’Hortus deliciarum di Herrade di Hohenburg, è riprodotta in Schmitt 1986, tav. 3. Si veda il commento di Zellinger 1925, pp.161-177. Non a semplice titolo di curiosità ma per la diretta influenza che sembra aver avuto nella composizione della pagina del frontespizio del Leviatano, si può citare La perspective curieuse di Niceron, un trattato sulle anamorfosi del 1638. Uno studio di Noel Malcom menziona, in particolare, la tavola 49 del trattato: il disegno «sultani ottomani», che, guardato attraverso la lente “magica”, restituisce il ritratto di Luis XIII, formato con segmenti delle teste dei sultani, cfr. Malcolm 1998, pp.124-155. Un richiamo a questa tecnica contiene l’ultimo paragrafo della Risposta alla prefazione di Davenant (1650), testo di riferimento, insieme al Leviatano, per l’ascendenza barocca di Hobbes. Cfr. Hobbes 1992, 1, 8; sul tema si veda Anceschi 1985, in particolare p.251. «La dimensione sociale – scrive Tonino Bettanini – è decisiva e coinvolgerà almeno tre persone. Intanto, solo per il tramite di una seconda persona colui che fa dello spirito può ritenersi appagato. Ma poi insieme a chi crea il motto, alla persona alla quale viene raccontato e di cui ci si deve guadagnare complicità e assenso, dobbiamo considerare anche chi (persone, istituzioni) è oggetto, vittima, del motto stesso. E perché il Witz raggiunga il suo obiettivo occorre che la prima e la seconda persona abbiano in comune gli stessi desideri e le stesse inibizioni relative ad essi» (Bettanini 2010).

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della socialità politica, che molti indizi fanno supporre nasca in coincidenza con l’invenzione comune di un terzo, di cui poco sappiamo. A rigore, qui non c’è nessun desiderio di appropriazione, soltanto paura che, per placarsi, non può fare a meno di caricare quell’oggetto di finzione di valenze simboliche. Di modo che il wit può essere equiparato a una sorta di intellettualizzazione dei meccanismi della rimozione. Non possiamo neppure escludere che il mostro biblico di Hobbes sia l’equivalente secentesco del «Sarchiapone americano», reso famoso da uno sketch di Walter Chiari 24 e Carlo Campanini . Anche Carl Schmitt, nel libro Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, non esclude che Hobbes abbia voluto fare seriamente paura ai suoi lettori, ma l’immagine del frontespizio e il titolo del Leviatano partecipano del senso del comico, chiamano in causa 25 il motto di spirito . Appartiene al Leviatano come grande macchina «l’iro26 nia dei grandi inglesi», scriverà ancora, alcuni anni dopo, nel Glossario . L’ironia di Hobbes gli appare, però, già – in una modalità “esoterica” – 27 come dissimulazione, travestimento, «emigrazione interna» . Schmitt si chiede: «Non è strano che Hobbes compaia in pubblico solo da uomo ma28 turo? Che cosa accadde in lui in gioventù?» . In effetti, non sappiamo granché di cosa sia successo a Hobbes prima dei suoi 40 o 45 anni! Ma che l’invenzione del Leviatano non sia la semplice traduzione mitica di un terrore panico, lo suggerisce il poema De Mirabilibus Pecci, un’audace fantasia di sublimi visioni, punteggiata qua e là di annotazioni ironiche, che Hobbes compose al ritorno del suo viaggio nella regione del Derbyshire con il secondo duca di Devonshire, il suo allievo William Cavendish, durante il quale visitò la «caverna del diavolo» e ascoltò la storia di un misero contadino che in quella caverna era stato calato di forza e, per la paura, ne 29 era riemerso muto e schiumante di rabbia . Echi di questo racconto si ritro24

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«Il Sarchiapone – scrive Bettanini nel suo articolo divertente e istruttivo – altro non è che un animale inventato, evocato per terrorizzare i passeggeri e poter viaggiare indisturbati in uno scompartimento ferroviario [...] giocando sul presupposto che nessuno osi svelare il meccanismo di un significato che non c’è (o non c’è ancora)» (ibidem). Schmitt 1986b, pp.79 e sgg., p.136 nota 15, nota 26 pp.137-138; si veda anche Schmitt 1986a, p.51. Cfr. Schmitt 2001, 13.1.48, p.115. Schmitt 1986b, pp.81-82. Schmitt 2001, 8.3.48, p.156. Nel 1628, anno del quarantesimo compleanno di Hobbes, muore improvvisamente il suo allievo William Cavendish, secondo duca di Devonshire. La visita con la famiglia Cavendish alle grotte e caverne di Derbyshire è immediatamente precedente. Quella morte inaspettata potrebbe aver motivato la composizione del

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vano nei poemi, negli scritti, nelle conversazioni e, finanche, nelle ultime parole pronunciate da Hobbes sul letto di morte. Anche l’immagine del Leviatano convoglia, probabilmente, gli echi di un’esperienza personale, più antica e mai dimenticata, che – trasposta in un prodotto dell’arte – eccede il disordine e apre la via alla rimozione cosciente. Pensiamo di esserci avvicinati così all’intenzione mimetica dell’Autore. In quanto prodotto dell’arte, il Leviatano è auctor, ovvero modello esemplare che «fa crescere», «fa avanzare» una certa percezione del mondo; non ha, pertanto, l’alterità assoluta comunemente attribuita all’autore, ma indica, piuttosto, il modus operandi dell’artista, o dell’artigiano, su un 30 qualcosa che accresce, fa appunto avanzare in forma di persona . In tal modo, Hobbes ha scoperto, senza dubbio, la possibilità di sopravvivere nell’immagine, ricordo e racconto di «tutte quelle cose» che «avesse precedentemente visto e percepito», e che possono essere trasmesse anche 31 dopo un’ipotetica annihilatio mundi . Questa percezione del mondo nominalmente creativa e operativamente distruttiva esprime il Leviatano che, in «posizione più avanzata», eminente, è meritevole di imitazione, giacché solleva istanze (non sostanze) di autorità; invita perciò all’«audacia», all’ambizione, come a dire al desiderio di «osare». Tali sono i significati 32 convogliati dall’etimologia del termine auctoritas . E tanto basta a com-

30

31 32

poema ed essere rimasta legata alla memoria del racconto sulla Devil’s Arse of Peak. Il poema De Mirabilibus Pecci: Being the Wonders of the Peak in DarbyShire, Commonly Called the Devil’s Arse of Peak, redatto in versi latini e dedicato al suo allievo, fu pubblicato nel 1638, e tradotto in inglese nel 1678, cfr. Hobbes 1966, pp.319-340, in particolare vv. 319-340 p.335. Sull’episodio riportato nel poema cfr. Rogow 1986, pp.67-73 e p.322. L’opera dello scultore, dell’artista, dice Hobbes, consiste nello scalpellare la pietra fino a liberare la forma e a questo titolo è produttrice di forme. Cfr. l’Epistola Ad lectorem del De corpore (O. L. I); il termine latino statuarius, così come l’inglese statuary, di origine francese, nel XVII secolo indicava, ad un tempo, l’artista e l’artigiano ed è rimasto nell’uso odierno nel secondo senso. Cfr. Hobbes 1989, pp.10-11. Il termine auctoritas discende dal sostantivo auctor, collegato, a sua volta, al verbo augeo, -es, auxi, auctum, augēre, «accrescere», «aumentare». L’auctor e l’auctoritas indicano l’atto del «fare crescere», del «fare avanzare» o del trovarsi in una «posizione più avanzata»: donde l’idea di potere, di prestigio o anche di legittimità, di garanzia, di modello esemplare etc. In senso letterario, ad esempio, gli auctores imitandi, sono gli scrittori degni di essere imitati perché possono appunto augēre, «accrescere», le qualità intellettuali di chi li imita. Quando Dante saluta in Virgilio il suo maestro e il suo autore, non fa che esaltare il valore etimologico dei due termini. Infatti il lat. magister, derivando da magis (per cui cfr. magnus) e da -ter, suffisso del comparativo significa propriamente «più grande» (così come minister, «servitore», discende da minus e da -ter, e vale «più piccolo»): in quanto

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prendere perché la “cosa rappresentata” abbia per il suo imitatore l’autorità di un modello, da cui dipende affettivamente e cognitivamente, e al quale, perciò, imputa il potere di dettare «cosa desiderare» e «cosa fare» onde appropriarsi di qualcosa che gli manca. Che mai sono le cose, d’altronde, senza gli affetti? E come parlare di queste cose, se non attraverso gli affetti che ne suscitano il desiderio? Nel XVI capitolo del Leviatano, d’altra parte, il trasferimento di autorità è un passaggio di consegne dall’autore all’attore che lo rappresenta. Due sono le persone coinvolte nella relazione: una è l’attore, colui che agisce e parla, e il cui nome è persona; l’altra è l’autore che lo autorizza, ma a cui solo l’attore può dare nome di persona. Qui l’auctoritas è l’atto con il quale l’autore «riconosce come proprie le parole e le azioni» dell’attore e ne sancisce la persona come «maschera» autorizzata “a stare al posto di” in teatro o in tribunale. Pur sdrammatizzato dal riferimento al rapporto, ben noto, dell’attore con l’autore – o con gli autori – torna a far capolino quell’originario carattere sacrificale dell’attore, o dell’oratore, che il teatro antico conservava e che, nella modernità, resta “attaccato” alla persona che incorpora l’esigenza esistenziale, il desiderio di apparire dell’autore, o degli autori. Certo, l’interpretazione rituale di tale desiderio non deve essere portata troppo oltre, dato che nel XVI capitolo la relazione rappresentante/ rappresentato si limita a fornire una soluzione formale alla questione della rappresentanza dello Stato. In effetti, il prevalere dei significati giuridicoconvenzionali connessi all’auctoritas della persona ha risolto, su un piano rigorosamente metodologico, una delle cruces interpretorum della nascita dello Stato in occasione del patto tra gli autori – in senso proprio, tra le “non persone” che, avendo rinunciato a rappresentarsi da sole, ricevono 33 unicità di persona (la persona dello Stato) dall’unità del rappresentante . L’accordo tra le singole volontà del patto impedisce, di conseguenza, di

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intellettualmente e letterariamente «più grande» (magister), Virgilio può essere l’auctor di Dante, nel senso che può augēre, «far crescere», le qualità del suo discepolo (al riguardo vedasi Lombardo 2011). La radice indoeuropea √ au- (ovvero √ av-) indica l’«accrescimento» e si ritrova (oltre che in augeo, in augustus, in augurium, in augmentum, in auctor, in auctoritas etc.) anche nel verbo aueo (= aveo), «ambisco a», «desidero» (qualcosa che mi manca e il cui possesso mi farebbe appunto crescere) e nel verbo audeo, -es, ausus sum, audēre, «osare», da cui discendono gli aggettivi auidus (= avidus), «bramoso (oltre il limite)», audax, «audace», e il sostantivo audacia, «audacia». Pare (ma non è certo) che anche il saluto latino aue (= ave) possa essere ricondotto alla medesima radice. «For it is the Unity of the Representer, non the Unity of the Represented, that maketh the Person One» (Leviathan, XVI, 82; Hobbes 1992, p.134).

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cadere nel «punto morto della relazione reciproca» ; ma, così inteso, questo accordo non dice nulla sulla relazione autoritativa che lega i contraenti alla persona rappresentativa – nello specifico, è poco atto a legittimare la posizione di questi. La teoria dell’autorizzazione ha prodotto un profondo sommovimento nella teoria classica della rappresentazione come modello “ideale” (in tutti i sensi del termine, da quello platonico a quello morale). Si è molto discusso di tale sommovimento che, in riferimento al tema dell’attore, fonda la pretesa legale all’autorità sull’unità della persona rappresentativa. Bisogna dunque prestare attenzione alla posizione – insieme sostitutiva e antitetica – di cui l’attore è portatore, giacché essa ci predispone a cogliere il significato eccezionale dello Stato: questi non sta soltanto “al posto di”, sta anche “di fronte a”, come forza assieme spirituale e temporale, legittima e non soltanto legale. A tale significato rende giustizia il sottotitolo dell’opera di Hobbes: Matter, Form and Power of a Common Wealth, Ecclesiastical and Civil. In definitiva, lo stesso propugnato dalla segnatura iconologica del frontespizio: il Leviatano che tiene nelle sue mani i due poteri spirituale e temporale. Lo abbiamo già detto, chi occupa il posto dell’attore non impersona, semplicemente, l’autorità che gli è stata conferita, seppure spettacolarizzata nella forma inestricabilmente attrattiva e repulsiva del Leviatano. Tanto più opportunamente è stato notato che il simbolo del 35 Leviatano rispecchia il simbolo medievale della societas Christiana . A rigore è l’ordine politico razionale dell’Ecclesia di Cristo che il Leviatano di Hobbes rispecchia in forma “personale”. Una fisiognomica del potere leviatanico non può tuttavia essere fissata ricorrendo al metodo ermeneutico 34 35

Di «punto morto cui va necessariamente incontro ogni relazione reciproca» parla Schmitt. Cfr. Schmitt 2001, 24.6.51, p.444. Seguendo l’indicazione iconologica del canonista Hans Barion, Jacob Taubes riconosce nell’inversione di mano della spada e del bastone pastorale nel frontespizio del Leviatano la continuità della teologia politica hobbesiana con quella cristica, il «dio mortale» è erede del Cristo: «Leviatano - il Cristo»; l’opposta designazione del Leviatano di Hobbes come figura dell’Anticristo da parte di Dietrich Braun, un allievo di Karl Barth, rispecchierebbe invece il pregiudizio antipolitico della teologia dialettica riformata. Si veda Taubes 2009, pp.483-494. Carl Schmitt rintraccia, invece, sia nella teologia ierocratica di Barion sia nell’idiosincratica opposizione di Braun all’immanenza totalitaria del Leviatano, il «difficile bilanciamento […] della logica interna dei rapporti fra potere spirituale e potere temporale». Un’antitesi irrisolta (irrisolvibile) permane tra quei poteri quando, imitandosi l’un l’altro, si combattono in ordine alla pretesa di incarnare la totalità (il «corpus» unitario), e tanto più quando, «nell’avvicendarsi delle situazioni storiche», l’intenzione si carica di un sentimento di ostilità. Cfr. Schmitt 1986c, pp.161-190, in particolare p.172 e p.187.

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delle analogie e delle corrispondenze, ben sapendo quanto questi riscontri figurali siano fallibili e aleatori, quanto essi si prestino al rischio di errori, illusioni, ed equivoci. Non è certamente con lo sguardo fisso alla persona (o immagine) sovrana che si giungerà a un proficuo raffronto, tanto meno alla sostituzione dell’un simbolo all’altro. Altrimenti seria è la pretesa dello Stato moderno di porsi come «corpus» religioso e politico. Schmitt ne stabilisce la misura commisurandola al pathos storico e relazionale imposto dal modello portatore dell’autorità. Nei suoi scritti invita, perciò, a contestualizzare la «sfida dello Stato» riconoscendovi una forma di mimèsi cristologica: sia che la sfida investa la rappresentazione dell’idea di totalità come complexio oppositorum, sia che verta sull’esigenza di un ritorno al principio originario dell’unità di religione e politica, o configuri, infine, una concreta lotta storica, in termini politici e “partigiani”. Seguendo detto invito, iniziamo a comprendere come, adottando e radicalizzando il suo legame con Hobbes, Schmitt lo trasformò in destino politico.

2. Da un Leviatano all’altro Hobbes è stato senz’altro per Carl Schmitt l’interlocutore più costante 36 e, in un certo senso, un alter ego . Nella Germania del 1938 anche Carl Schmitt scrisse un malfamato Leviatano sul quale si continua a interrogarsi – l’unico libro, lo ricordo, da lui interamente dedicato all’autore inglese maestro «di tutta una vita». È appena necessario osservarlo, in questa la sede non interessa discutere nel merito affinità e differenze rintracciabili nella dottrina dello Stato dei due autori. Il punto di raccordo sistematico risalta invece quando ci si volge a considerare lo sforzo profuso da questi pensatori per districare il nodo di rapporti e conflitti connessi all’appropriazione del potere. All’inizio e alla fine dell’epoca moderna, fu il Leviatano, il mostro biblico assunto da Hobbes a immagine dello Stato, a indicare la strada da percorrere: Hobbes vi si addentrò avvalendosi degli strumenti dell’arte e della mimèsi barocca; Schmitt disdegnò ricorrervi, attestando a suo modo la necessità di spingersi più a fondo nei paurosi recessi fino a giungere al cuore arcano del potere che l’ordine impone di nascondere e le crisi ripropongono come attuale. I tre secoli trascorsi da un Leviatano all’altro non erano bastati infatti a sciogliere in tensione filosofica la storia molteplice, ostinata e caotica, dei conflitti umani. L’uomo «in preda alla 36

Su gli aspetti storici e autobiografici del legame tra Hobbes e Schmitt cfr. Schwab 1996, pp.IX- XXXI; Schwab 19892.

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paura» che fu Schmitt autore del Leviatano (come prima di lui Hobbes), non smette di ricordarcelo. Per districare quel nodo di rapporti che minacciava di stringersi sulla sua persona e sull’Europa, fu dunque fondamentale per Schmitt perseguire la relazione di fedele infedeltà con Hobbes. Il confronto tra Leviatani che sulla scorta del libro di Schmitt propongo di seguire permette di sostenere tale ipotesi. Al pari di Hobbes – considerato, alternativamente, un pensatore dell’ordine assoluto, autoritario e finanche totalitario, oppure un precursore del liberalismo individualista – anche Schmitt è stato oggetto di una doppia interpretazione: come hegeliano che attinge alla «infinità finita» dello Stato filosoficamente, oppure come decisionista irrazionalista, pensatore della 37 crisi e dell’ordinamento concreto . Tale doppia interpretazione non è mai venuta meno e trova riscontri nell’ampia e variegata produzione scientifica del grande pensatore del Novecento, che copre un periodo di più di sessant’anni. È però prontamente intuibile perché nella Germania del 1938, nel libro da lui definito «il mio testamento», Schmitt non si attardi a difendere una concezione dello Stato come numen praesens, totalità incarnata. In quello stato di eccezionale paura tre vie si aprivano al teorico: la prima, la via eminente, la più gloriosa: accettare sulla sua persona il sacrificio di Cristo; la seconda: prendere posizione e farsi parte decisiva nella lotta per trattenere l’avanzata nella zona del pericolo; la terza: assumere il crollo intellettuale e storico provocato dalla guerra civile europea onde accelerare la spinta distruttiva che fa nuove tutte le cose. La mia ipotesi è che con questo malfamato Leviatano, Schmitt volle sperimentare la terza via, probabilmente l’unica praticabile, dal momento che non aveva scelto la via del martirio e che, da quando gli era stata confiscata la “corona” di giurista del Reich, non poteva più sperare di salvare lo Stato. Del libro, in una lettera a Pascual Jordan, egli dirà: «Dieci anni fa, quando ho scritto il Leviatano in preda alla paura, avrei voluto inserire come promemoria un biglietto recante l’avvertimento “Attenzione!” – il 38 che sarebbe stato naturalmente una sciocchezza» . Tuttavia, un simile biglietto d’accompagnamento circolerà effettivamente tra gli amici di Schmitt. Ne riparleremo più avanti. Ci si limiti, per adesso, a considerare l’invito a contestualizzare la «sfida dello Stato» che nello scritto del 1923 Cattolicesimo romano e forma politica ha ancora come punto di forza

37 38

A supporto della prima interpretazione si cita spesso Schmitt 1986a, pp.45-59, in particolare p.57; per la seconda interpretazione, si cita Schmitt 2006b, e Schmitt 2007, pp.11-25. Schmitt 2001, 22.4.48, p.191.

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l’applicazione rigorosa del principio di rappresentazione e nell’istituzione Chiesa il modello di forma politica come complexio oppositorum di 39 potere personale e diritto .

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Il suo pretendere gloria e onore si fonda, in senso eminente, sul pensiero della rappresentazione e genera la perenne opposizione fra giustizia e splendore glorioso. Questo antagonismo è presente in tutto ciò che è umano, benché buoni cristiani vi vedano spesso una particolare forma di malvagità. Il grande tradimento che si imputa alla Chiesa romana è proprio che non concepisce Cristo come un privato né il cristianesimo come affare privato e puramente 40 interiore, facendone anzi un’istituzione formale visibile .

Le posizioni anarchiche e ateistiche – fra tutte, argomenta Schmitt, quella di Dostojevskij – hanno frainteso la grandezza dell’idea da rappresentare e condotto ad una spiritualizzazione gnostica degli antagonismi umani. A tale fraintendimento antipolitico si presta pure la speculazione idealistica e romantica sulle antitesi natura/tecnica, femminile/maschile, mistica/storia, interno/esterno allorché le accomuna in forme dissolventi di coincidentia oppositorum oppure le sviluppa nella sintesi concettuale e metodologica in un «terzo superiore». L’impegno devoluto, di volta in volta, per eliminare il male alla fonte e per far coincidere cose eterogenee, ha dunque negato concretezza rappresentativa, politica e giuridica, alla «perenne opposizione fra giustizia e splendore glorioso». Al contrario, un apologo sul Giudizio universale dello scrittore francese Ernest Hello ha esaltato – drammatizzandola – la continuità che, dall’uno all’altro estremo della complexio oppositorum, dall’ethos della giustizia alla rappresentazione personale della gloria, informa di sé «l’appello all’idea d’ordine». Una volta che il Giudice del mondo ha emesso la propria sentenza, un dannato, carico di delitti, se ne starà fermo e, tra l’orrore dell’universo, dirà al giudice: “j’en appelle”. A queste parole si spengono le stelle. […] “A chi ti appelli contro il mio giudizio?”, gli chiede Gesù Cristo, il Giudice; in un tremendo 41 silenzio il dannato risponde “j’en appelle de ta justice à ta gloire” .

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Lo Stato ha ereditato, secolarizzandola, l’autorità della «concreta rappresentazione personale di una personalità concreta», anche se nella forma di sovrano assoluto seicentesco esso appare già come mero “stato”, punto di indifferenza tra dittatura ed anarchia, prima di diventare macchina leviatanica e «scomparire dall’universo rappresentativo». Cfr. Schmitt 2010, p.34 e p.43. Ivi, p.63. Ivi, p.65.

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Schmitt conferisce alle parole del dannato il senso di una istruttiva agnizione dell’autorità come principio ordinatore che si esprime attraverso i gradi e le istanze del giudizio. L’inaspettato irrompere di quest’appello sulla scena del Giudizio universale sovverte, nondimeno, le leggi e l’ordine dell’universo, lasciando supporre effetti apocalittici, creatori di un nuovo diritto, che vanno oltre gli effetti giuridici attesi. Naturalmente l’apologo potrebbe essere un mot d’esprit, e l’appello alla gloria del Glorioso caricaturare il povero appiglio alla piaggeria cortigiana concesso a un dannato a corto d’argomenti cogenti. Così potrebbe risolversi la tensione irrisolta di giustizia e gloria: in una sorta di ironia purgatorio nella quale è coinvolto anche Gesù Cristo, il Giudice. Se non fosse che Hello, mistico dell’incarnazione, riveste l’istanza del dannato di una legittimità esistenziale che Gesù Cristo, prima di essere giudice, incarnò in una viva promessa d’alleanza – d’intensa e incondizionata partecipazione all’umano sentire – di cui la Chiesa di Roma è l’erede e il testimone; se non fosse quindi che per Schmitt, in questo scritto apologetico, la Chiesa depositaria della rappresentazione visibile, rappresenta la civitas humana che lo scandalo della 42 Croce ha sottratto alla desolazione dell’universo . A molti anni di distanza, Schmitt dovette ricordarsi dell’appello dell’uomo colpevole, al momento di affidare il «nucleo più segreto della (propria) vita» alla definizione di «Epimeteo cristiano». Nel frattempo, dal 1923 al 1938, era cresciuta la sua refrattarietà al razionalismo della rappresentazione visibile, portandolo all’abbandono del presupposto principio di forma politica. E nel libro Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes. Senso e fallimento di un simbolo politico, la critica si spinse fino a penetrare, al di là della facciata d’ordine, nel centro vitale nascosto dalla persona sovrano-rappresentativa. In tal modo allontanandosi da Hobbes costruttore dello Stato assoluto, Schmitt volle interrogare il «profeta del Leviatano» sul senso attuale di questo simbolo politico. Perciò nel Leviatano pubblicato alla fine degli anni Trenta alcuni hanno visto un ultimo e conseguente sforzo di ingraziarsi il regime nazista e di fugare i sospetti di 43 ostinato statalismo che pesavano sulla sua persona . Tuttavia, lo vedremo 42

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«La Chiesa – scrive Schmitt - rappresenta la civitas humana, rappresenta in ogni attimo il rapporto storico con l’incarnazione e con il sacrificio in croce di Cristo, rappresenta Cristo stesso in forma personale, il Dio che si è fatto uomo nella realtà storica». Cfr. ivi, p.38 e pp.54-60. Di poco precedente, lo scritto Lo Stato come meccanismo in Hobbes e Cartesio opponeva allo «Stato totale» di Hobbes – «Dio mortale […] la cui “mortalità” risiede nel fatto che un giorno sarà fatta a pezzi da una guerra civile o da una ribellione» – la «totalità» hegeliana, ovvero la filosofica riconciliazione dello Stato

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meglio nel prosieguo, ma possiamo già anticiparlo: il presupposto sul quale Schmitt ha impostato le sue analisi – il tentativo hobbesiano di ristabilire «l’originaria e naturale unità di politica e religione» – fa presagire piuttosto una accresciuta attenzione agli aspetti mitico-romantici dello Stato moder44 no come mirabile meccanismo . D’altro canto, dall’ampia trattazione storica del libro, il simbolo politico del Leviatano emerge addirittura come un mitologema, in relazione genealogica con la sua capacità di mobilitare l’interno fervore, il pathos, «la forza vitale e creativa» di una comunità. «Nel momento di grandi conflitti politici, asserisce Schmitt, […] un’intuizione di più profonde connessioni mitiche» anima l’originaria configurazione del 45 simbolo . L’accesso a queste connessioni mitiche dissimula precisamente la simulazione barocca del dominio (ovvero lo Stato come opera d’arte e la persona giuridica che lo rappresenta). Schmitt, peraltro, si chiedeva perché Hobbes, «l’autentico maestro di 46 una grande esperienza politica» , avesse adottato il nome compromesso

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45 46

universale, «divinità terrena» assimilata all’essenziale ragione umana. Per un’accurata ricostruzione del clima politico dell’epoca e la rassegna completa delle interpretazioni su Il Leviatano si veda Palaver 2002, pp.191-247. Nascosta in una nota extratestuale di Lo Stato come meccanismo in Hobbes e Descartes Schmitt così riportava, riassumendola, una presa di posizione sul problema della «totalità» del suo allievo William Gueyan de Roussel: «in un saggio non ancora pubblicato ma cortesemente resomi disponibile [Gueyan de Roussel] sostiene che proprio l’idea di «meccanismo» in Hobbes è mitico-romantica come del resto è un mito anche l’intera concezione della scienza dei secoli XVII-XIX; l’odierno processo di totalizzazione è inoltre interpretato solo come uno stadio di neutralizzazione in virtù del quale il concetto di «totalità» diventa opposto a quello di «universalità» (Schmitt 1986a, nota 14 p.59). Lì, in quella nota, Schmitt si limitava a riferire una posizione, ora, nel suo Leviatano, sembra voler svilupparne l’ideale indicazione di lettura invertendo il punto di vista sulla «totalità» che aveva assunto nello scritto del 1937, per prendere invece quello specificamente mitico-romantico che dovrà confermare (o smentire) la capacità della «macchina» leviatanica d’essere depositaria non soltanto di una specifica razionalità ma anche di un’autonoma potenzialità mitica. Se il libro fosse stato concepito come una prova di laboratorio oppure un esperimento esoterico (quale, in effetti, è), nell’ottenimento del risultato (l’animazione della«macchina») avrebbe dovuto entrare in conto anche il reagente, il materiale di contrasto di cui l’osservatore (Schmitt) dispone, ovvero la sua propria e pregiudiziale esperienza di vita. Potremmo argomentare sui costi personali e generali, e sulle altre condizioni richieste per la riuscita di tale esperimento: Schmitt stesso ci invita a farlo attribuendo al suo libro i poteri magici e gli esiti iniziatici di un esperimento in atto. Ma è opportuno attestarci al momento sul richiamo della nota del 1937 che, nel 1938, Schmitt volle sottoporre alla “controprova” logica del suo Leviatano. Cfr. Schmitt 1986b, p.71. Schmitt 1986b, p.133.

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del mostro biblico a simbolo dell’«originaria e naturale unità di politica e religione» contro «il Regno delle Tenebre», e questo nel XVII secolo quando quel nome non aveva più corso. La risposta essoterica si appuntava sull’ironia tipicamente inglese, confermando in definitiva l’inadeguatezza del simbolo Leviatano a fornire allo Stato il fondamento mitico e vitale che pure evocava. La rassicurante consegna del Leviatano al museo dei mostri in disuso tuttavia non ne esaurisce la funzione giacché, alla maniera dei tendaggi e dei sipari, il simbolo nasconde ancora le porte segrete e vela i pericoli dell’incontro con il Potere. Non è senza dubbio assurdo vedere, come fa Schmitt, nell’ingannevole artificio una persona senz’anima (o, piuttosto, dotata di un’anima meramente rappresentativa del meccanismo), mentre, di fatto, lo Stato Leviatano evolve verso un conclamato pragmatismo della decisione sovrana. Ma la critica sembra vertere ancora sull’autorità dell’idea da rappresentare come principio e scopo di ogni forma politica e giuridica. La rappresentazione sovrana di matrice barocca questa autorità non la contiene più: limitandola a dialettica tra eccesso di evidenza e perdita di evidenza, ne ha avocato l’espressione topologica, l’immagine unificata dello Stato, ed iscritto il proprio fallimento politico nella contingenza ed esteriorità dello scopo. Se in questo, pur grandioso, fallimento c’è qualcosa da imparare, è che il fondamento dello Stato come «totalità» va cercato in un luogo più recondito e preservato – dentro il corpo del grande Leviatano – dove è messo a prova da forze ostili; lì è il luogo in cui il simbolo politico ha ancora la forza creativa d’un mitologema che motiva, guida e condiziona una sorta di combattimento in campo chiuso onde appropriarsi dell’anima del Leviatano. Ciò spiega perché Hobbes resti, pur sempre, l’interlocutore della disamina, al quale si rende omaggio nell’atto stesso di denunciare l’ormai manifesta discontinuità tra interno ed esterno. La facciata è falsa, è un faux semblant, scrive Schmitt. Ma dietro la facciata permane la sfida del Leviatano. Ed essa aspetta una risposta.

3. Il piacere dell’accelerazione: l’acceleratore degli acceleratori contro voglia Per Hans Blumenberg la sfida d’ordine del Leviatano partecipa a pieno titolo della polisemia del mito. In tal guisa, seguendo un andamento 47 lineare la legittimità dell’età moderna transita dal mito alla ragione e si 47

È il titolo dell’opera di Blumenberg 1992. Blumenberg ha attribuito a Hobbes un posto d’onore nel «grande processo di neutralizzazione» che ha caratterizzato

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dispiega culturalmente come libertà da ogni visione realista della storia che condanna il soggetto agente alla dipendenza e all’impotenza. Così l’intrinseca creatività umana realizza in revoca alla storia la sua emancipazione: un continuo e ininterrotto compimento, una sempre nuova disponibilità ad accogliere il progresso-processo di valori che vale sia se il soggetto orienta il suo procedere secondo il modello della teologia, ovvero della metafisica, della morale, dell’estetica, dell’economia e della tecnica. Stat pro ratione 48 Libertas e Novitas pro Libertate . Contro questa modernità che definisce le sue ragioni con la ragione del mito, Schmitt ha rivendicato la necessità di una decisione, personale, specifica e concreta, capace di intervenire nel corso delle cose. Chi decide? Chi interpreta? Chi ha il potere diretto? A queste domande soltanto Thomas Hobbes ha dato risposte inequivocabili che gli hanno valso il titolo di decisionista. Si dirà: niente di veramente nuovo rispetto ad una critica della modernità che Francesco Mercadante coglie nel suo più elevato, funambolico equilibrio nell’«annus mirabilis nella storia del cattolicesimo in Germania»: il 1918, ci ricorda, è «l’anno di fondazione» di Schmitt autore di Politiche Romantik e di Die Diktatur; tra la prima e la seconda, l’«opera maggiore, […] vi si consuma prospetticamente, in construendo, la fine del romanticismo politico, con una spinta alla ricerca di ogni possibile alternativa teorica alla democrazia del “privato”». Forse dobbiamo accettare per buona l’ipotesi di Mercadante che nelle due opere schmittiane vede il «nucleo primitivo» di un pensiero non smentito da accrescimenti e ulteriori 49 «rimodernamenti» ; tanto più in quanto essa predispone a riconoscere la “carica mimetica”, reattiva e polemica, ancora latente di questa dìade. È

48 49

l’Europa moderna per quattro secoli». Parallelamente ha assimilato la creazione ex nihilo dell’«ammirabile meccanismo» all’emancipazione dall’eredità storica, ovvero “dall’ingiusto” persistere della dipendenza da un modello, e al rigetto dell’idea schmittiana di secolarizzazione. Cfr. ivi, pp.91 e sgg. e Blumenberg 2005. Con queste parole si chiudono le pagine di critica tanto ironica quanto radicale che Schmitt dedica all’opera di Blumenberg (cfr. Schmitt 1992, pp.88-103). Mercadante 1978, p.125. In parziale sintonia con l’interpretazione di Mercadante, Carlo Galli pone la continuità teologico-politica tra critica e elogium, tra Romanticismo politico e Cattolicesimo romano e forma politica, sotto il segno dell’immanenza del movimento decidendi – «ricerca di una composizione ad ogni costo» in un’epoca di crisi della «governabilità della trasformazione dello Stato». Resta da pensare se tale continuità conservi la tensione in-finita del finito, sia quindi la tragica ragion d’essere della decisione schmittiana; oppure se la stessa decisione non sia il semplice, ironico, “occasionalistico” prefisso dell’in-definito disordine del ‘politico’, «zona oscura», «abisso» spalancato sull’insostenibile e catastrofica guerra civile. Cfr. C. Galli 1981, pp.V-XXXI.

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d’uopo però osservare che nell’anno orribile per Schmitt (e per l’Europa) della pubblicazione del suo Leviatano, ragioni pubbliche e private si erano quanto mai ispessite, opacizzate e imbrogliate; la plebiscitaria democrazia del “pubblico” stabiliva una alternativa vieppiù incerta alla contestata «democrazia del “privato”». Questo frangente storico Schmitt affrontò in destruendo e in adcelerando, quasi volesse provare che i secoli intercorsi da un Leviatano all’altro avevano reso necessario riscoprire le connessioni mitiche che nei momenti critici mobilitano lo slancio vitale di un popolo. Il prezzo del proprio riscatto come decisionista politico che anche il prezzo del riscatto di Hobbes era naturalmente la rinuncia alla finzione omologante dello Stato, all’ombra della quale avevano continuato a svilupparsi e ad innovarsi i poteri della neutralizzazione, ma nella quale, egli pensava, era ancora riconoscibile, contenuta, quasi preservata nell’involucro, la segnatura distintiva, decisionista e proto-romantico, della modernità. Le stesse ragioni critiche che egli volle anteporre al sospetto metafisico nei confronti dell’opera d’arte barocca, possono poi avere convinto Schmitt a considerare in una chiave personale gli esiti immediatamente deludenti del suo percorso a ritroso nel cammino della modernità. Così, nel Glossario, in un appunto del 1947, dichiara: «Il piacere dell’accelerazione, acceleratore degli acceleratori contro voglia; fu ciò a spingermi e a guidarmi? 50 A ingannarmi?» . Questa ammissione – solo accennata ma, nondimeno, credibile – di aver troppo presunto di sé e di essersi fatto malamente, e malevolmente, devoto dello spirito del tempo, denuncia una sorta di istrionica apocalisse. A crederlo sulla parola, il suo peccato di vanagloria riproduce lo schema logico oltre che morale dei «cercatori di realtà»: il «ludus globi» 51 già stigmatizzato nel 1918 . Con il tipico e conseguente capovolgimento di prospettiva di chi volendo “piacere a se stesso” ha assunto senza riserva il punto di vista attivistico e l’attitudine “privata” (l’«arbitrio soggettivo» 50 51

Schmitt 2001, 10.10.47, p.45. «I romantici si erano slanciati ad afferrare la realtà del mondo, e una volta superato il mondo, della totalità cosmica; invece di tutto ciò hanno ottenuto soltanto proiezioni e riassorbimenti […]: insomma un ludus globi animato, cioè soggettivizzato. Sono riusciti ad evitare il contatto brutale con le cose, ma solo perché hanno perduto il contatto con le cose stesse» (Schmitt 1981, p.121). Commentando questo brano Francesco Mercadante scrive: «Di quante morti è morta la Germania, in questo secolo? Che cosa è stata ogni volta la morte, per la Germania? Da quale potenza, da quale spirito è stata vinta? La prima risposta a tutte queste domande si racchiude secondo il lusso che il fine umanista renano si concede spesso, nella metafora: ludus globi. Nessuno ha vinto la Germania nel 1918, ma il suo insuccesso bellico si verifica per una sorta di destino buffo, ad un metaforico tavolo di roulette» (Mercadante 1978, p.125).

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e la «mancanza di forma») dei riottosi acceleratori, «l’acceleratore degli acceleratori» ne avrebbe allora precipitato, estremizzandoli, i risvolti eversivi. La resa dei conti finale con se stesso e il suo modello (o i suoi modelli) di autorità egli sembra cercare adesso nel seno del romanticismo, e quasi in assonanza con l’avversato romantico, rivestendone i panni per espiare la gloria, l’inconfessato e inappagabile orgoglio al quale non sfugge chi definisce «ogni cosa attraverso se stesso», apparenta il piacere dell’accelerazione a quel «desiderio di potere», nient’altro se non una conferma di sé, di cui si diceva in apertura del saggio. Ma davvero fu soltanto «il piacere dell’accelerazione» a spingerlo, a guidarlo, a ingannarlo? In Cattolicesimo romano aveva scritto: «Nell’assenza di forma potrebbe forse esserci la forza potenziale capace di una nuova forma, capace cioè di dar forma anche all’epoca tecnico-economica. […] C’è tuttavia una decisione dei giorni presenti, dell’attuale situazione di ogni generazione, e questa non può essere rinviata». Egli credeva che in quella situazione storica, la «Chiesa cattolica e il concetto cattolico di umanità [fossero] dalla parte dell’idea e della civiltà occidentale, più vi52 cini a Mazzini che non al socialismo ateo dell’anarchismo russo» . Chiediamoci, dunque, da che parte stava, nell’atto di comporlo, l’autore del Leviatano: dalla parte dei distruttori e dei sabotatori, che da secoli atten53 devano l’«apocalisse dell’illuminismo» , oppure dalla parte dell’estraneo, del partito totalitario? A questa domanda ritengo si debba rispondere che malgrado si compiaccia nel descrivere il farsi strada nella coscienza moderna di un’irreparabile crisi dell’idea di Stato, egli sta ancora opponendosi (soggettivamente ed oggettivamente) ad attacchi ben più radicali alla radice storica e spirituale dell’Europa, che il simbolo biblico del Leviatano riconosce come ebraico-cristiana. In vari scritti negli anni del dopoguerra affermò che fu questa comunità di destino a muoverlo alla curiosa combutta con coloro che il libro denuncia come i sabotatori del Leviatano ma ai quali l’accomunava il tentativo di sottrarre lo Stato alla sorte fittizia di una rappresentazione in sé compiuta; non già il lavorio della distruzione, bensì il comune terreno di combattimento e l’analogo spirito polemico li designava in effetti ad essere suoi complici. Quale strategia seguiva, allora, l’acceleratore della crisi del suo tempo? La frase succitata del Glossario 52 53

Schmitt 2010, pp.78-79. La definizione di «apocalisse dell’illuminismo» Bonald applicò all’opera di Condorcet riconoscendovi l’esito storico di un attivismo progressista che ha perseguito l’idea di ragione e progresso dello spirito umano con la stessa positiva certezza attribuita al raggiungimento dell’immortalità umana. Cfr. Bonald de 1998, pp.141-166; l’espressione di Bonald è citata da Schmitt 2006b, nota 22 p.262.

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indica che l’inganno, il piacere e il peccato storico di Schmitt fu l’aver confuso in un unico abbraccio «apocalisse dell’illuminismo», apocalisse dello Stato e apocalisse personale. In tal modo, aveva idealmente rinunciato al conflitto e alle aspirazioni religiose e politiche dalle quali erano pur mossi gli «acceleratori contro voglia»; aveva, appunto, ingannato se stesso e aveva spinto i propri nemici nel vicolo cieco di un anacronistico «piacere dell’accelerazione». Le tendenze gnostiche, neutralizzanti del potere, nel cui alveo il libro del 1938 convoglia l’artificio barocco della persona sovrana, avranno lungo corso, e i secoli a venire vedranno tutto un fiorire di queste tendenze, talora dislocate nel «culto pubblico» dello Stato, talora radicalizzate in attivistiche filosofie della storia – siano esse meccaniciste oppure pragmatiche. Nel suo Leviatano Schmitt non si limita, però, a considerare Hobbes come l’antesignano di tali sviluppi e neppure come il tragico decisore sospeso ad un disordine sempre incombente. Gli conferisce, invece, l’intento e l’implicazione mitica del ritorno alla «unità originaria di religione e potere politico» gravemente presentiti sotto le sembianze ironiche del mostro Leviatano. In definitiva, ed è l’aspetto sul quale Schmitt attira in ultimo l’attenzione, l’insegnamento di quegli che lungo la sua vita e nel corso dei secoli ha subito l’appellativo ingiurioso di «profeta del Leviatano» non ha nulla di una manifestazione vittoriosa. «L’autentico maestro […] solitario […] misconosciuto […] non ricompensato» custodisce il fallimento del simbolo politico 54 del Leviatano come «a sole retriever of an ancient prudence» . «Non jam 55 frusta, doces Thomas Hobbes!» . Con questa iscrizione di Hobbes in una filosofia della storia con la quale ha già una annosa consuetudine, Schmitt ne assimila l’insegnamento alla sconfitta di colui che per primo lo annuncia. In L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, ad esempio, scriveva: «Ogni rinascita autentica con il ritorno al principio elementare della propria natura, ogni autentico ritornar al principio, […] appare, di fronte al comfort e all’agio dello status quo esistente, come nulla culturale o sociale. Sono tutti fenomeni che crescono silenziosamente e nell’ombra e, nei loro primi inizi, uno storico e un sociologo non saprebbero scorgere altro che 56 nulla» . Ritornar al principio, ritornare al mito, hanno qui lo stesso senso: preservano i singoli e le collettività dalle ingiurie del tempo, così come da resipiscenze riduttive, da posizioni di conformismo conservatore oppure di razionalismo progressista. Quel nulla da cui nascono tutte le cose, e che 54 55 56

Schmitt 1986b, p.133. Ibidem. Schmitt 1972b, pp.181-182.

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l’indagine storica e socio-psicologica sembra ignorare, è il “seme” fecondo che nella parabola evangelica deve morire per produrre frutti. Schmitt sa nondimeno delimitare gli scenari concreti della storia dello spirito, pur se essi prendono poi forme corrive e acquiescenti di costruzione individuale o collettiva del mito di sé. Nel mito dello Stato è rimasto impigliato Hobbes «profeta del Leviatano» tenuto per responsabile di sviluppi che la sua dottrina non aveva contemplato. A lui è stata imputata la famigerata mitizzazione dello Stato, lui per primo ha sofferto pertanto l’ingiuria del tempo verso «il principio elementare della propria natura». A Schmitt, Hobbes, l’autentico maestro, ha indicato molto chiaramente che «la storia è scritta dai vinti». Per altro verso e altrettanto chiaramente, ben aldilà del mero e doveroso tributo morale, avverte che il ritornar al principio, a Hobbes, gli ha appreso che qualsivoglia aggregazione è lotta 57 per l’appropriazione e il dominio: tanto più bisognosa di legittimità in quanto dipende da un modello che lo pone continuamente dinanzi all’alternativa di cedere alla dipendenza o di rafforzare la propria posizione. Così, nel tentativo di appropriarsi di ciò che il modello desidera, i singoli e gli Stati designano gli uni per gli altri l’oggetto dell’appropriazione, dell’imitazione e del conflitto, da discepoli si fanno rivali e, per spinte e 58 controspinte, aprono nuovi scenari storici e culturali . Questa è la grande 57

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Conosciamo molte forme di legittimità: la legittimità dinastica e restaurativa, la legittimità nazional-rivoluzionaria, la legittimità della forma d’ordine, la legittimità del proprio potere, la legittimità dell’obbedienza, la legittimità della gloria. Nel saggio Legalità e legittimità Schmitt afferma che in ognuna di tali forme di legittimità (diverse tra loro) è «la volontà realmente esistente» a sostanziare la concreta possibilità storica di «cambiamenti nella distribuzione delle parti», negata dai sistemi statuali di legalità formale. Si veda Schmitt 1972a, pp. 211-244. L’autore ha sovente sostenuto che l’antitesi di legittimità legalità è più fruttuosa di altre distinzioni sorte in epoche passate e sostituisce nella modernità quella di trascendenza e immanenza. Va peraltro aggiunto che specialmente estranea a questa distinzione è la concezione del potere ierocratica e gerarchica che tipicizza la trascendenza nel dover essere di un anacronistico principio di ordine formale, nel cui orizzonte concettuale istituzionalizzato ogni residua tensione vitale legata a quell’antitesi di legittimità e legalità apparirà destituta di fondamento quasi fosse un accidente della massa informe, indeterminata. In vari scritti Schmitt ha descritto l’operare di queste dinamiche in riferimento a precisi periodi storici. In particolare, ha mostrato in che modo nel Seicento Hobbes abbia portato a compimento la Riforma contestando alla Chiesa di Roma, suo nemico storico, il primato politico e istituzionale; così ha preso forma sistematica la volontà ordinatrice dello Stato che de-anarchicizza il cristianesimo. «Chi è più vicino al Grande Inquisitore di Dostoievskij: la Chiesa romana o il sovrano di Thomas Hobbes? Riforma e Controriforma si orientano nella medesima direzione. Dimmi chi è il tuo nemico e ti dirò chi sei. […] il nemico è la forma della

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intuizione mimetica di Schmitt racchiusa nella formula aforistica, di fatto un prestito da Theodor Däubler: «Il nemico è la forma della nostra propria 59 questione, egli ci spingerà e noi lo spingeremo verso la stessa fine» . Schmitt non ha mai rinunciato a tale intuizione. Contesta perciò che «noi» si possa definire noi stessi; nega, pure, che l’esistenza di un nemico sia la ragione sufficiente dell’identità del «noi». La «questione», cui il nemico dà forma, non è esterna alla relazione, e non le è neppure completamente interna; possiamo comprenderla come nostra, nella sua forma storica, perché essa è inseparabile dall’aspirazione alla presa di possesso, alla successione e all’eredità storica (insomma, alla sostituzione del modello rivale nell’autorità) che emerge o si fa più acuta nei momenti critici 60 della nascita di nuovi ordinamenti . Se questa è la «questione» della quale stiamo parlando, è ovvio, allora, che la sua forma e il suo medium siano, ancora una volta, il nemico: egli mi spingerà e io lo spingerò verso una sola e medesima fine. Questa fine, d’altra parte, non è la fine del mondo, bensì

59

60

nostra propria questione» (Schmitt 2001, 23-05-48, p.343). Il saggio del 1967 già citato ha per titolo Die vollendete Reformation, Il compimento della Riforma. Anche il titolo dell’ultimo libro di René Girard, Achever Clausewitz, include il termine compimento, ne propone però un’accezione per molti versi speculare a quella di Schmitt. Può essere proficuo spiegare in breve il diverso punto di vista dei due autori sulla traccia offerta dal titolo delle loro due opere. L’idea di compimento indica dunque per Schmitt l’interconnessione storica della prima modernità tra Riforma e Controriforma; per Girard indica, invece, la fine apocalittica della storia, che nella seconda modernità fu anticipata e come prefigurata dalla «tendenza all’estremo» dell’incontro di Clausewitz con Napoleone. Accomunati da una lucida analisi sull’origine conflittuale, mimetica e rivalitaria, delle società, i due autori si separano riguardo agli effetti dell’Incarnazione sull’uomo e nella storia. Laddove Schmitt pensa che incarnazione, morte e resurrezione di Gesù Cristo abbiano aperto il tempo tra i due tempi nel quale permane la lotta tra i fratelli nemici e la storia non è ancora finita, Girard vi vede lo spalancarsi di una specie di vuoto del sacro, in cui l’umanità si rivela incarnazione progressiva della violenza. Così traduco «Der Feind ist unsere eigene Frage als Gestalt. / Und er wird uns, wir ihn zum selben Ende hetzen», Hymne an Italien, (Dritte Auflage), Insel Verlag, Leipzig 1924, pp. 65-66, in traduzione italiana, nel Glossario, i versi sono resi nel seguente modo: «Il nemico come figura è il nostro vero problema. / Egli inseguirà noi, e noi lui, fino alla stessa fine». Mentre nel saggio introduttivo ad Aurora boreale, Stefan Nienhaus riprende la versione di Valeria Bazzicalupo: «Il nemico è la nostra domanda personificata. / Ed egli diventa noi, noi lo aizziamo alla stessa fine» (Nienhaus 1995, p.19). Cfr. Schmitt 1992, nota 1 p.83. Lo specifico intreccio tra l’invasione napoleonica della Prussia e la nascita della legittimità nazional-rivoluzionaria è esemplarmente argomentato in Schmitt 2007a, pp.85-111. Si veda anche Schmitt 2007b, pp.194-198.

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la destinazione storica del conflitto e del desiderio di appropriazione che la relazione dei fratelli nemici indica come la nostra propria questione, e sulla quale non possiamo pronunciarci altrimenti che preservandone l’integrità, temporale e spirituale. Negli scritti dopo il 1927 Schmitt ha spesso ripreso i versi di Däubler sopra citati affermando che soltanto cogliendone il senso si potrà penetrare 61 nel significato generale della sua teoria del “politico” . Questi versi richiama, in particolare, il saggio L’epoca delle neutralizzazioni laddove è la successione delle forme ordinatrici attraverso cui è passata l’Europa moderna a disegnare il tracciato dell’epoca, per «centri di riferimento» teologico, metafisico, morale, romantico, economico e tecnico. In sottoimpressione al tracciato lineare che asseconda il procedere storico della «“geo-filosofia” dell’Europa», sono però le linee della «“geo-politica” dello spirito» che in senso proprio informano lo spazio politico determinando, più in profondi62 tà, la specifica affidabilità degli antagonismi umani . Le cose arcane che prendono posto in questo spazio attraversato dal fragore delle armi, messe in prospettiva storica, comprendono le originarie e fondamentali opposizioni spirituali. Per questa ragione il «centro di riferimento» su cui di volta in volta tutti convengono di accordarsi (per immagine, verso cui tutti convergono) neutralizza i conflitti ma, sia meta o campo di battaglia, non importa, non è in sé neutrale, preserva bensì il ristare della “causa” costitutiva d’ordine in essenziale incoerenza rispetto al succedersi degli ordini costituiti (teologico, metafisico, morale, ecc.). E ciò spiega perché Schmitt non badi a dispiegare le tappe di una emancipazione culturale da dipendenze e autorità precostituite che, in progresso o in regresso, annullano, insieme al conflitto, ogni particolare cultura umana. La successione storica dei centri 61 62

Cfr. Schmitt 2001, 25.12.48, p.299. Ai versi di Däubler si richiamano pure le definizioni del nemico come il fratello più radicale di Schmitt 1972b, pp.167-168; Schmitt 1987, pp.91-92. In Teologia politica II Schmitt fissa la linea di demarcazione della sua riflessione politica indicando la data di pubblicazione del saggio Il concetto di politico, il 1927, cui segue da presso il discorso su L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni del 1929. Prima di questa data, in Romanticismo politico (1919), Cattolicesimo romano (1921) e Teologia politica (1922), l’Elogium della rappresentazione storico-universale della Chiesa e lo scopo conoscitivo sistematico di una metafisica o sociologia radicale dei concetti riposano sullo stesso piano. Cfr. Schmitt 1992, pp.21-23. Dopo, inizia per Schmitt il tempo dello “scavo” geologico alla ricerca del fondamento del politico, centro dei centri al quale sono coordinate in scala decrescente la «“geo-filosofia” dell’Europa » e la «”geo-politica” dello spirito». Le espressioni «”geo-politica” dello spirito» e «“geo-filosofia” dell’Europa» sono di Cacciari 1994.

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di riferimento spirituali potrebbe stare ad indicare il passaggio dell’Europa da una neutralizzazione e spoliticizzazione all’altra, fino all’estremo della nullificazione tecnica. Ma un simile esito per Schmitt è inconcepibile. E dal primo all’ultimo richiamo del saggio, attraverso i versi di Däubler, facendo l’economia dei centri “geo-filosofici” dell’Europa, nessuno eccettuato, egli 63 affida il permanere della storia europea a quel Ab integro nascitur ordo – al tempo stesso sacrificale e antisacrificale, katechontico ed acceleratore, che aggrega e divide – che è come il suggello posto sulla vera e propria matrice spaziale della «“geo-politica” dello spirito».

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4. Carl Schmitt sciamano incompleto Lascio a chi legge il compito di valutare la pregnanza mimetica dei versi di Däubler che travalica il confronto problematico tra singoli e gruppi per ampliarsi a criterio di indagine storica sui diversi momenti dell’inimicizia europea. Per parte mia, mi limito a ricordare che, spinto da Hobbes, inseguendo il suo modello rivale, Schmitt non ha smesso di pensare alla sua propria questione. Egli ha un Leviatano nel cassetto e il desiderio disperato di tirarlo fuori di lì. Così, fra il 1945 e il 1948 – sette o dieci anni dopo la pubblicazione del libro – nella “dedica” ad Ernst Jünger mette in atto un tipico procedimento barocco: invita il suo lettore a prendere in mano il libro, facendo mostra di volerlo distogliere dalla lettura: Prudenza! Hai mai sentito parlare del grande Leviatano e non ti vien voglia di curiosare in questo libro? Prudenza mio caro! Questo è un libro in tutto e per tutto esoterico, e l’esoterismo che vi si cela è tanto più abissale quanto più entri nel libro. È meglio che tu te ne stia alla larga! Rimettilo al suo posto! Non toccarlo con le tue mani, poco importa se linde e curate o imbrattate di sangue e colore del nostro tempo! Aspetta che questo libro ti ricapiti in mano un’altra volta, se mai tu sarai tra coloro cui il suo esote63

Il saggio si apre con l’affermazione “Noi viviamo, nell’Europa centrale, sous l’oeil des Russes” e si chiude con il virgiliano Ab integro nascitur ordo. «Conosciamo il pluralismo della vita spirituale e sappiamo che il centro di riferimento della vita spirituale non può essere un terreno neutrale e che non è corretto risolvere un problema politico con antitesi di meccanico e organico, di morte e di vita. […] Un raggruppamento che vede dalla sua parte solo spirito e vita e dall’altra solo morte e meccanica non significa altro che una rinuncia alla lotta e ha solo il valore di un lamento romantico. Infatti la vita non combatte con la morte, né lo spirito con la mancanza di spirito. Lo spirito combatte contro lo spirito e la vita contro la vita e l’ordine delle cose umane scaturisce dalla forza di una coscienza integra. Ab integro nascitur ordo» (Schmitt 1972b, pp.182-183).

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rismo si dischiuderà! I Fata libellorum e i Fata dei loro lettori si compenetrano in maniera misteriosa. Te lo dico in amicizia. Non voler entrare negli arcana, ma aspetta di esservi ammesso e iniziato in forma conveniente. Altrimenti potresti essere colto da un attacco d’ira fatale per la tua salute ed essere tentato di distruggere qualcosa che sta oltre ogni distruttibilità. Non sarebbe una buona cosa per te. Lascia stare dunque e rimetti il libro al suo posto! Sinceramente, il tuo buon amico Benito Cereno L’11 luglio 1938 rivela il giugno del 1945. 64 («sette anni sono trascorsi») .

Come dobbiamo leggere Il Leviatano di Schmitt alla luce di questa missiva? Nel nome di Benito Cereno, con il quale Schmitt firma il messaggio, è evidente un mascheramento che gli consente di istituire una identificazione con il protagonista del romanzo di Hermann Melville, il capitano 65 fatto prigioniero sulla sua nave . La critica vitalistica dell’artificio hobbesiano si appuntava, dicevamo, sulla persona sovrano-rappresentativa; ciò che realmente sussiste di siffatta critica è il richiamo al destino (alla situazione e al punto di vista) di chi intimamente custodisce il segreto del potere. Quanto c’è di esistenzialmente concreto in questo richiamo lo ha esplicato Francesco Mercadante: «In epoca non sospetta, ossia proprio nel saggio su Hobbes, dove si legge “Stahl-Jolson lavora qui secondo la linea complessiva del suo popolo, cioè nella doppiezza di un’esistenza da

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Carl Schmitt - Ernst Jünger, Briefwechsel 1930-1983, a cura di H. Kiesel, KlettCotta, Stuttgart 1999, pp.192-193. Per Kiesel, curatore tedesco dell’Epistolario, la lettera senza titolo e senza indicazione di luogo è presumibilmente del giugno del 1945: l’11 luglio 1938 (data di pubblicazione del «Leviathan») rivela il giugno del 1945 («sette anni sono trascorsi»). Ma la frase «sette anni sono trascorsi» [sieben Jahr sind rum] oltre a indicare il tempo passato dal 1938, appunto l’anno di uscita del libro, potrebbe alludere anche a due passi dell’Olandese volante di Wagner (I,II) oppure (III,I). Günter Maschke (autore della postfazione all’edizione del 1982 del Leviathan per la Klett Cotta) e Ruth Groh (autrice di un volume del 1998 sull’antropologia e la mitologia politico-teologica di Schmitt ) pensano invece che la lettera sia stata scritta dopo il ’45. Anche nell’epistolario tra Carl Schmitt e Armin Mohler («Briefwechsel mit einem seiner Schüler») la lettera viene riportata tra le missive del 1948. Ringrazio Chiara Tinnirello per le indicazioni sulla datazione del brano. Qui riprendo, completandola, la traduzione parziale della lettera, a cura di Antonio Gnoli e Franco Volpi, disponibile sul sito http://www. swif.uniba.it/lei/rassegna/991104d.htm. Benito Cereno è prigioniero degli schiavi negri che trasporta sulla sua nave, ma a beneficio del mondo esterno deve celare la sua condizione e fingere d’essere ancora al posto di comando. Il tema del detentore del potere celato da anticamere e cortigiani, di ascendenza barocca, sarà approfondito ampliandone le ragioni teologico-politiche nel libretto del 1954, Schmitt 2006.

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maschere che diventa tanto più orribile quanto più, disperatamente, vuol essere qualcosa d’altro da ciò che è”, Schmitt si è già sdoppiato, egli è già 66 Benito Cereno» . La situazione in cui versa Schmitt/Cereno si confonde con quella sempre più disperata dei suoi nemici, i pensatori di tradizione ebraica che, in attesa dinanzi all’inaccessibile luogo del potere, o dentro le sue stanze, hanno esperito tutte le possibilità, tanto rituali che esistenziali, di quella situazione; anche lui ha indossato una maschera ed «ha contribu67 ito per la sua parte a castrare un vigoroso Leviatano» . Il mito letterario di Benito Cereno, custode degli arcana e delle ritualità del potere nelle situazioni rischiose dei sistemi di massa, è divenuto una 68 figura del «misconoscimento del sacro» : riporta in auge la dialettica cui soggiacciono le vittime nelle società mitico-rituali, sacre perché sacrificate e sacrificate perché sacre. Questo l’avvertimento dal tenore semi-ironico che, per via confidenziale, Schmitt/Cereno trasmette al suo lettore: sappia che nella Germania del 1945, o del 1948, così come nel 1938, il posto di custode degli arcana imperii non è disponibile per chiunque voglia occuparlo; impari, quindi, ad attendere il momento della prova, e non si affretti incontro allo spirito del Leviatano – «qualcosa che sta oltre ogni distruttibilità», in ogni caso molto più potente del Grande Inquisitore, l’uomo della storia. Dentro l’abbraccio dello Stato con il cupio dissolvi della modernità cresce adesso, con tale dedica, il riconoscimento di una parentela, potenziale 66 67

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Mercadante 1987, p.136. Schmitt 1986b, p.119. Nelle pagine precedenti – quasi a voler prevenire il lettore dal prendere alla lettera l’essoterica riduzione del Leviatano al genere comico – Schmitt aveva richiamato l’interpretazione demoniaca della tradizione medievale arricchendola delle indicazioni esoteriche e dei suggerimenti sugli antidoti da adottare che tra il XV e il XVII secolo furono di Lutero, Jean Bodin, Isaac de la Peyrère e Filippo Conducole. Cfr. ibidem, pp.78-79. Pure la scelta di inserire nel testo immagini dell’Anticristo in trono sul Leviatano e alla guida di Behemoth (tav. 1 e tav. 2) contiene un messaggio e svela il senso riposto di tanti viaggi iniziatici. Va ancora rammentato che almeno in un’occasione, nel Glossario, Carl Schmitt evoca il rapporto con il Nemico che non osa nominare ma al quale, nel dormiveglia di una mattina assolata nella sua cella d’isolamento, si rivolge iroso e deluso: «sarai contento, adesso!» avvertendo subito dopo con ripugnanza d’aver di nuovo ceduto all’inganno. L’espressione «misconoscimento del sacro» recepisce la duplice posizione della vittima nelle religioni arcaiche. Nei riti, infatti, sulla vittima sacrificale si riversa la violenza furiosa e pacificatrice della comunità; assimilata al transfert alle proporzioni trascendenti, la violenza è una “epifania divina”. Per la comunità che la rappresenta nel mito, d’altra parte, la vittima è trionfatrice e salvatrice, «[…] non appartiene alla comunità, ma è la comunità ad appartenerle» (cfr. Girard 1992, pp.301-302; Girard 2001, pp.141-142).

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o attuale, tra il moderno Leviatano e più antichi spazi di sacralità «di un’intensità senz’altro magica», di operose, fattive lotte tra gli officianti del culto. Nel libro del 1938, il primo officiante è Cartesio, il padre della «scienza moderna», «l’homme au masque» inventore dell’uomo meccanico. Ci sono, poi, coloro che agiscono per scalzare dall’interno la «potenza vitale» del Leviatano, e coloro che dall’esterno adoperano per appropriarsene un fervore creativo e distruttivo man mano più attivo. Altri convitati dovranno addirittura industriarsi a cucinarne le carni. Tutti «i silenziosi sulla terra», diversissimi l’uno dall’altro e persino antagonisti, sono stati richiamati dalla voglia inesorabile di partecipazione alla conquista trionfale. Dietro la rappresentazione del dominio, si svolge quindi una lotta “cultuale” dai risvolti mitici, un combattimento in campo chiuso: gli iniziati del rito – l’uno addosso all’altro, l’uno appresso all’altro – si cimentano nella prova di fare 69 a pezzi il Leviatano . Il motivo del Leviatano fatto a pezzi torna più volte nel libro, lo avevo notato e mi appare ora con chiarezza come uno dei «tratti più fantastici dell’iniziazione sciamanica» di cui scrive René Girard: Anche i tratti più fantastici dell’iniziazione sciamanica non sono realmente fantastici: si riallacciano a una qualche prospettiva rituale sulla violenza fondatrice. In culture talvolta assai lontane le une dalle altre, in Australia e in Asia ad esempio, l’iniziazione culmina in un sogno di smembramento al termine del quale il candidato si sveglia o piuttosto risuscita sotto l’aspetto di uno sciamano completo. […] Lo sciamano subisce le stesse metamorfosi delle 70creature mitiche cui farà appello, più avanti, nell’esercizio delle sue funzioni .

Carl Schmitt mantiene un generale riserbo sul tenore dei suoi sogni, ma ha affermato in più occasioni d’essere stato per tre volte nel ventre della balena e di esserne stato per tre volte rigettato. L’incontro con il Leviatano è la prova suprema, e l’ambientazione biblica la accresce di significati personali. Abbiamo, quindi, forti e buone ragioni per prestare orecchio alla sentenza di morte simbolica, che l’autore dormiente pronuncia sul corpo del Levia69

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A conferire carattere di rappresentazione alla vita pubblica fu invero l’assunzione regale della decisione sulla verità dei miracoli, il primo gesto gnostico che ne anticipa altri. Mentre l’azione ingaggiata dalle forze contrapposte dentro e attorno al corpo del Leviatano, torbida o immediatamente corriva, si manteneva nell’ambito concreto di una dialettica di potere motivata dalla volontà di accedere alla successione storica; essa presiedeva nondimeno alla lotta di Behemoth e Leviathan dalla quale il banchetto ebraico attendeva le carni da servire con le spezie di Heine. Cfr. Schmitt 1986b, pp.69-70 e pp.78-79. Girard 1992, pp.397-398.

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tano nel 1938. Hobbes, lo sciamano del XVII secolo, ha fallito il tentativo di restaurare «l’originaria unità vitale», ma questo fallimento ha convogliato tutte le forze della modernità in una formidabile imitazione magico-sacrale della crisi per trasformare il malefico in benefico. Mettendo in competizione Leviatano contro Leviatano – l’operare delle forze di annichilimento contro la simulazione barocca dello Stato – Schmitt si è candidato a sciamano del XX secolo. Il suo è, vorremmo supporre, l’ultimo grande tentativo di trasferire un’anima nel corpo del Leviatano per la via sciamanica di un annichilimento, di una caduta e di una rinascita. Ma, dieci anni dopo, né Schmitt né l’Europa sono stati rilasciati dalla balena degli abissi. E, com’era stato promesso, più preciso, profondo e infausto diviene il messaggio del libro. Fatale non è il fallimento del simbolo; fatale a se stesso è chi pone il suo fato al servizio di quel simbolo. Il lettore è quindi avvertito. Chiunque volesse proseguire autonomamente il tentativo di ristabilire l’unità primigenia di religione e potere non potrà attendersi – per quanto iniziato – di riuscire vincitore («sciamano completo»). Ancora in un appunto vergato lo stesso anno della “dedica”, nel Glossario Schmitt scriveva: «La magia è una possibilità? Il peccaminoso: la realizzazione nella finitezza di una infinitezza, allo scopo di eliminare l’an71 goscia. Già Hobbes: produzione dell’angoscia» . La magia, l’insieme delle pratiche e dei rimedi escogitati per contrastare l’angoscia, è una sorta di mise en abyme del Leviatano, «realizzazione nella finitezza di una infinitezza», ovvero forma maggiore e sublimata, idolatrica e peccaminosa delle velenose produzioni dell’angoscia, il cui contagio si propaga attraverso gli stessi rimedi escogitati per tenerla a freno, o per accelerarne la crisi risolutiva. La dedica da decrittare enfatizza, dunque (nel senso antico e ora anche barocco dell’enfasi come arte del “fare intravedere” per “far vedere”), il segreto del Leviatano e, insieme, il distacco di Carl Schmitt da quel segreto. A lui è toccato enfatizzare – “far intravedere” per “far vedere” – gli ambigui e irrisolti legami tra gli antichi riti di rinnovamento e quelli che scuotono il corpo del Leviatano. Quei legami li ha rivisitati, a suo modo e per il suo tempo, intrecciando il suo destino con quello di un ordine minacciato nel suo 72 principio nel momento stesso in cui appare vittorioso . Ciò prima di scopri71 72

Schmitt 2001, 8.2.48, nota 2 p.131. Un’ultima messa in guardia proviene dalla dedica di Carl Schmitt, essa si rivolge direttamente all’amico Ernst Jünger: Benito Cereno non traveste le forze teogoniche liberate dalla crisi: la Natura, il Mare, l’Elementare; parla di lotte di uomini contro altri uomini. Nel carteggio che intercorre in quegli anni tra i due autori è costante il richiamo alla forza simbolica dell’«elementare» e alle sconcertanti, fino ad ora mai sperimentate metamorfosi della «sostanza indistruttibile», ma, per l’essenziale, riguardo alle speranze di rinascita dell’Europa, il «ritornar al prin-

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re, in una crisi di poetica ipocondria, che «il drago che custodisce l’uovo, | 73 da molto tempo l’ha bevuto» . E tuttavia, a uno sguardo retrospettivo, tanto l’argomento d’ordine del 1933: la decisione di stare nella situazione, e, allineandosi alla politica del Terzo Reich, frenare la deriva del partito al potere, quanto l’argomento polemico del 1938: quando, piuttosto che asservirsi alla volontà di potere, meglio gli parve consentire a cospirare con il nichilismo per accelerare il fondamentale disordine dello Stato – appaiono al loro autore le vie palesemente dissonanti che lo hanno segretamente condotto a liberarsi da un impegno (quello di penetrare più a fondo nel disordine del suo tempo) che si era nel frattempo rivelato autoreferenziale. Ritornar al principio non ha ormai per lui nulla della riserva esoterica. L’impazienza dell’iniziato dinanzi a porte, camere e anticamere, palazzi e santuari (ancora più allettanti se decorati da fregi e orpelli barocchi), tutta quell’impazienza è venuta meno. Ma la certezza d’essere stato definitivamente rigurgitato dal Leviatano e d’essere finalmente tornato a casa Schmitt l’avrà solo quando nel saggio su Il compimento della Riforma restituisce Hobbes al conflitto cristologico e politico che oppone Riforma e Controriforma. Soltanto allora l’imitatore del suo modello vissuto trecento anni prima, ritrova il senso del contrastato e contraddittorio stare degli uomini nella storia, legati gli uni agli altri da una relazione d’autorità, apprendendo mimeticamente «cosa desiderare» e «cosa fare» per appropriarsi qualcosa che manca loro.

5. Per concludere Abbiamo ricordato le circostanze nelle quali nel 1628 fu narrata a Hobbes, in viaggio nel Derbyshire, la storia di un contadino calato di forza nella

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cipio» di Schmitt resta storico e culturale, ovvero spirituale e realista. Si veda in particolare lo scambio di lettere che ha per tema Moby Dick, il Leviatano di Melville: C.S. a E.J., 25/06/41, p.115; C.S. a E.J., 4/07/41, pp.121-122; C.S. a E.J., 16/08/41, pp.124-126; E.J. a C.S., 28/08/41, pp.126-128; C.S. a E.J, 17/09/41, pp.128-130; E.J a C.S, 8/04/43, pp.161-162, in Schmitt-Jünger 1999. «Carl Schmitt a Ernst Jünger, Berlin-Dahlem, Kaiserswerther Str. 20 novembre 1940. Carissimo Sig. Jünger, recentemente, durante una permanenza nel rifugio antiaereo, mi passavano in mente senza il mio intervento queste rime. Le condivido con Lei per Sua conoscenza personale, esse si trovano ben al di là di ogni sospetto di voler essere intese come poesia. Le consideri piuttosto come complementi delle mie informazioni su Leviatano, Behemoth e sul volatile Zitz. Il drago che custodisce l’uovo, / da molto tempo l’ha bevuto; / la gallina che devota l’aveva covato, si sente ferita dal vuoto. / E resta a covare; /| chi viene fuori? L’uccello Zitz!» (Schmitt-Jünger 1999, p.110, trad. it. di Chiara Tinnirello).

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«caverna del Peak», che la tradizione voleva abitata da un mostro. Con gli occhi torvi, digrignante e schiumante di rabbia, l’infelice ne era riemerso per morire otto giorni più tardi. L’oscuro richiamo di quel profondo baratro, «un Inferno che divora la folla dei dannati», Hobbes trasfuse nel poema De Mirabilibus Pecci. Ancora in una conversazione degli ultimi anni di vita, memore di quel racconto, e avendone già tratto ripetuti insegnamenti, l’anziano Hobbes affermerà che «è lecito servirsi di strumenti “malvagi” per farsi del bene». Al suo interlocutore, precisa egli stesso il senso di queste parole: «Se fossi gettato in un baratro profondo, e se il diavolo vi introducesse il suo pie74 de forcuto, per tirarmene fuori mi ci agguanterei» . Hobbes, insomma, sta ancora reagendo con profitto maieutico a quel racconto, sicuro che, a chi ha appreso l’arte della narrazione, il male indichi i modi e, se occorre, fornisca i mezzi per «farsi del bene». Soltanto quando gli uomini soggiacciono a una minaccia invisibile come se essa non ci fosse affatto, questa li domina con la paura e con la rabbia. Hobbes li sollecita dunque a ripensarla nella sua concretezza e a dominarla con la fantasia, ri-presentandola. Nella missiva a Jünger che accompagna il suo Leviatano, Schmitt sembra aver fatto tesoro di tale insegnamento: chi si fa cogliere impreparato è destinato a soccombere alla rabbia, oppure a fuggire dinanzi all’abisso «indistruttibile». D’altra parte, la soluzione narrativa di Hobbes egli l’ha esplorata fino a penetrare i paurosi recessi deputati alla custodia degli arcana imperii. Cosicché più esoterico ne diviene l’appello alla prudenza e l’omaggio di chi non ha finito di apprendere verso chi non ha finito di insegnare. Il suo Leviatano finiva con un riconoscimento a Hobbes, maestro attraverso i secoli, come «a sole retriever of an ancient prudence» che protesse se stesso in un’epoca di guerre civili trovando scampo dalla rovina e dalla mostruosa prepotenza omicida. In Ex Captivitate Salus dirà che percorrendo la via che «conduce all’interno» egli incontrò i molti «solitari sulla terra» e stabilì «un legame nuovo con il passato, una personale coesistenza con i pensatori la cui situa75 zione corrisponde alla nostra» . Ma è a colloquio con Lanchester, nel 1982, che l’Autore non lascia dubbi sul modo in cui va letto il suo «libro meraviglioso», e senza indugio ne sintetizza il contenuto. È semplicemente il problema ebraico sotto il punto di vista, come dire? dei veri rapporti ebraismo-cristianesimo in quel periodo critico che chiamo la «guerra civile», il periodo delle guerre civili di religione. E insisto sul proble74 75

Cfr. Kennett 1708. Le frasi sopra citate riporta Schmitt 2001, 10.4.48, p.177. Sulle tracce ricorrenti del racconto del Peak negli scritti e nelle conversazioni di Hobbes, si veda Rogow 1986, p.70 e p.322. Schmitt 1987, p.64 e pp.22-24.

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ma dello Stato. Che cos’è lo Stato moderno, che cos’è veramente? La risposta è la sfida (challenge). Challenge è la complessiva guerra civile; challenge sono 76 le guerre mondiali .

Una cosa sembra ovvia: la «sfida» non è il semplice transfert a contrario (anti-ebraico e anti-Leviatano) imposto dallo schema rituale di una lotta volta a realizzare la duplice coincidenza tra l’anima dello sciamano e l’anima collettiva dello Stato. Ancor meno la «sfida» è frutto di una pregiudiziale deprivazione ideologica (pratica ed immaginifica) del significato politico del conflitto. D’altra parte, lo abbiamo detto, Schmitt si era convinto che il processo di neutralizzazione dei differenti centri di riferimento attraverso cui è passata l’Europa moderna non si è concluso in modo inconcludente nell’abisso del «nulla culturale e sociale». Per lui, lo Stato è dunque ancora il reale teatro della «sfida». La consapevolezza dei «veri rapporti ebraismocristianesimo» è intervenuta a riposizionare il confronto tra i fratelli-nemici nell’ambito della crisi, del conflitto politico e della guerra. Davvero “lo sfidato” non poteva offrire un riscontro più chiaro della massima citata: «Il nemico è la forma della nostra propria questione, egli ci spingerà e noi lo spingeremo verso la stessa fine». Schmitt scrisse il suo Leviatano subordinando l’indagine dei fenomeni legati alla trasformazione liberale dello Stato alla disposizione esoterica di chi avanzava all’incontro con il potere coperto dalla stessa oscurità dell’intento. I molti richiami alla magia presenti nel libro forniscono prove a sostegno di tale disposizione teorica e politica. Poi, in termini che possono essere considerati un’autocritica per interposta persona, giacché la critica è rivolta a Hobbes, negli anni del dopoguerra, Schmitt riconobbe il tentativo magico di “permanere” nella zona del pericolo produttore di angoscia, di cattiva infinitezza. Degli infiniti paradossi della magia avverte peraltro la dedica del suo Leviatano: «i Fata libellorum e i Fata dei loro lettori si compenetrano in maniera misteriosa». La sortita da tutti quei paradossi 77 la predispose per lui il Leviatano dai quattro appellativi allorché questi 78 assunse la sembianza grottesca di una «imitazione assoluta» , intuitiva e

76 77 78

Schmitt 2005, p.160. «Grande uomo», «grande animale», «grande macchina» e «dio mortale». Alla distinzione tra il comico e il grottesco Baudelaire consacra pagine preziose. Com’è noto, definisce il grottesco «comico assoluto» terribilmente lontano dalla «contraddizione vivente» di società fin lì complesse, inquiete, eccitate. Il grottesco «conserva in sé qualcosa di profondo, di assiomatico e di primitivo», e perciò «si avvicina molto più alla vita innocente e alla gioia assoluta di quanto faccia il riso causato dalla comicità dei costumi». Per l’uomo caduto, ricorda il poeta, il

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immediata, che introduce a forza in una nuova esistenza di «magia sociale» e «pura attività». Finisce qui la danza del Leviatano. Il gioco comico che suscitava meraviglia e timore, si è nel frattempo trasformato, come per una fatalità ineluttabile, in un gioco grottesco. Il comico, si sa, non ha nulla d’innocente; è l’ambizione, l’orgoglio che si allea con lo scherno e il biasimo. Comico è l’uomo civilizzato che «morde con il riso». Comica è la materia di cui è fatto il Leviatano, perciò Hobbes lo chiama il «re degli orgogliosi». Questa comicità – è ormai acquisito – insiste sull’uomo, ne deforma le contraddittorie e oscillanti pretese in caricatura, ce lo mostra, di conseguenza, nel suo costante tendere verso il «punto morto d’ogni relazione reciproca». Nulla ci assicura che questo punto morto possa essere 79 superato . Né l’operatività dell’artista collettivo, cui Hobbes aveva confidato la creazione dello Stato, né i successivi tentativi e le alterne fortune di chi ha tentato di appropriarsi dell’anima del Leviatano hanno sbarrato la strada all’avanzare del grottesco. E allorché all’alleanza di ferocia e di pietà, caratteristica del comico, subentra il grottesco, è più che probabile che si stia affermando un inaspettato, sincretico, totalmente nuovo «desiderio di potere», disumano o metaumano, altrimenti illusorio e variamente periglioso, che adesso appare, nella sua incomparabile imitazione, come «creazione assoluta» – l’inimitabile che non imita nessuno, l’impersonale, titanica creatura, ovvero pura forma, pura rappresentazione. Questa, presumo, è l’infinitezza realizzata che spiritualizza l’elementare e tutto trasforma in irradiazioni di energia. I segni anticipatori dell’inquietante verità che dalla fine degli anni Trenta il Leviatano non aveva smesso di insinuargli, divennero allora per Schmitt chiari e inequivocabili: essi stavano già nella 80 speciale alleanza tra élites negromantiche e illuministe alla quale hanno 81 attinto i totalitarismi del XX secolo . Non per questo Schmitt cercò rifugio

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grottesco è parente stretto del terrore dinnanzi alla fatalità naturale. Cfr. Baudelaire 1980, pp.680-699, in particolare p.696 e p.699. Gli uomini – scrive Hobbes nell’Introduzione – «[...] provano grande piacere [...] censurandosi a vicenda senza pietà, gli uni alle spalle degli altri» (Hobbes 1992, p.6). Per parlare dell’alleanza di negromanzia romantica e di dogma illuministico Philippe Muray ha coniato il neologismo «negromantico»; cfr. Muray 1999. Le élites goethiane - afferma Carl Schmitt - hanno trasformato il mondo in «magia sociale» e «pura attività», dissolvendolo nelle segrete peripezie di un infinito romanzo. In questo gioco realmente pericoloso è rimasto intrappolato l’ideale realizzatore, «l’esecutore del puro genialismo tedesco»: Hitler, l’unico, l’ospite straniero, il parvenu rimpinzato di cultura mal digerita che ha preso troppo sul serio le vecchie élites culturali. Cfr. Schmitt 2001, 29.10.47, pp.50-51; 5.12.47, pp.82-83; 15.5.48, p.209; 17.5.48, p.211.

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dall’angoscia e dall’impotenza nelle molteplici proiezioni di un ego che supera se stesso nello spazio del pensiero. Né si risolse ad affidare la propria sopravvivenza alla contemplazione estetica o naturalistica della ritrovata nudità dell’io panico. Il testimone dell’epoca sapeva che il «ritorno verso se stesso» non è una meditazione sul divenire storico obiettiva ed impersonale. Ed era altrettanto sicuro che l’essere e l’esistenza coincidono soltanto 82 fuori dal tempo storico . Mentre la tragica dialettica della «infinità finita» in qualunque modo personificata può sì inverare «l’impulso ad un nuovo operare», ma – si esprima come negli antichi rituali magici, oppure abbia i caratteri quietistici ed eroici moderni – non lascia scampo all’uomo perseguitato. Una rinnovata coincidenza, intima e radicalmente storica, tra la sua vicenda personale e quella dell’Europa moderna, Schmitt ravvisò invece nella figura dell’«Epimeteo cristiano» e in quel capire dopo del fratello di Prometeo racchiuse la tragicità di ogni risposta infrastorica alla domanda di Colui che fu il primo ed effettivo modello, il capro espiatorio, preda di 83 un assassinio rituale . L’inganno supremo cui si destina chiunque abbia ad applicarsi a iniziatiche discese nel ventre della balena, Schmitt l’ha dunque ravvisato, con sgomento, nel totalitarismo onnicomprensivo. Alla fine il rigurgito del potente Leviatano è stato risolutivo. La via di accesso al «vero infinito», il teorico realista l’ha trovata nel conflitto storico con i fratelli-nemici dell’ebraismo 82

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Va segnalata l’affinità tra la critica all’individualismo eroico e al razionalismo hegeliano di Schmitt e l’analisi sviluppata nel capitolo su Hegel e Clausewitz di Girard 2008, pp.61-93. Rinunciando a sue precedenti posizioni idealistiche (la simulazione di un punto di osservazione antisacrificale dal quale poter guardare alla violenza mimetica), anche Girard ha riconosciuto nel «duello» clausewitziano, punto di non ritorno di Della guerra, la concreta spazialità delle relazioni mimetiche e rivalitarie. È l’«azione reciproca» ad aver immesso nella storia la «rivalità speculare», insuperabile, della muta lotta dei doppi mimetici. D’altra parte, sull’orlo dell’abisso che si apre oggi per l’Europa, allorché più nulla si oppone nella storia alla reciproca distruzione degli uomini, nulla impedisce di conseguenza la riconciliazione degli uomini. È in questo riconoscimento della radice cristiana della filosofia di Hegel che Girard trova la conferma razionale del proprio apocalittico sentire. Negli scritti del dopoguerra l’apocalittico pentito parla sovente di sé come un Epimeteo cristiano e l’ultimo custode dello jus publicum europaeum. In Ex Captivitate Salus cita il poeta Konrad Weiss: «Compi quel che devi, è già / da sempre compiuto e tu puoi solo rispondere» (Schmitt 1987, p.55). E nel Glossario aggiunge la chiosa: «la risposta necessita di un martire, non di un Napoleone» (Schmitt 2001, 6.6.48, p.222). Per Bossuet «la justice est une espèce de martyre», ricorda infine nell’intervista con Lanchester che termina con queste parole: «io sono giurista e lo rimango e muoio come giurista e tutta la sfortuna del giurista vi è coinvolta» (Schmitt 2005, p.183).

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– «la negazione della negazione non è una neutralizzazione, il vero infinito ne dipende». Noi invece che aspiriamo alla pace, e senza difficoltà siamo pronti a precipitarci nell’abisso legati mani e piedi, vi incorriamo con tanta più risolutezza affrettandoci incontro al totalmente nuovo e al totalmente altro dal quale voleva proteggerci il custode degli arcana imperii. È il paradosso del nostro tempo: non crediamo più al dominio sciamanico del Leviatano perché crediamo d’essere l’irresistibile, l’inimitabile Leviatano.

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GIUSEPPE FORNARI

QUALE FILOSOFIA NEL TERZO MILLENNIO? GIRARD, BATAILLE, E UNA NUOVA DEFINIZIONE DI RAZIONALITÀ FILOSOFICA

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1. Un non facile inquadramento di metodo Il tema dei rapporti tra René Girard e la filosofia è importante quanto culturalmente strategico, dato che coinvolge sia una valutazione d’insieme dello sforzo teorico prodotto da questo autore, sia una presa di posizione circa lo statuto e il futuro della filosofia, provocatoriamente sollecitata e sfidata dal pensatore francese in quanto dichiarata in sostanza superata e non più utile per la conoscenza. È quindi opportuno approfondire proprio su tale problema un dibattito già molto vivo in Italia intorno a questo autore e alle tematiche stimolanti, spiazzanti che ci propone. Per quel che mi riguarda, questo è tanto più vero se considero che il mio rapporto intellettuale e personale con Girard si è sviluppato, e infine concluso, proprio intorno alla filosofia che era il mio territorio d’origine e che, sotto l’influsso della furia polemica di quello che per alcuni anni è stato il mio maestro, ho pensato in un primo momento di poter congedare, salvo poi rendermi conto delle diverse possibilità che per il pensiero filosofico (e per il mio, di pensiero) si dischiudevano proprio metabolizzando e andando oltre l’impeto distruttivo girardiano. Mi sento di doverlo dire, non solo per rendere più trasparente e “circolare” la mia argomentazione, ma anche per anticipare un aspetto che si rivelerà essenziale negli autori di cui intendo parlare: il rapporto tra elaborazione (o no) del vissuto ed elaborazione (o no) del pensiero, rapporto che si può declinare naturalmente nei modi più vari, ma rispetto al quale la filosofia può assumere, a seconda delle persone e dei casi, il volto di una menzogna ingannatrice o di una verità conquistata. Tuttavia, le due alternative non stanno indifferentemente una accanto all’altra, come due esiti ugualmente soggettivi e irrilevanti: il secondo volto non può essere scorto se non si passa attraverso il disinganno del primo, se non se ne solleva la maschera. A chiunque legga senza prevenzioni intellettualistiche le opere di Girard appare subito chiaro che i tre capisaldi del suo pensiero – ossia, semplifi-

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René Girard e la filosofia

cando, desiderio mimetico, vittima, centralità della rivelazione giudaicocristiana – hanno immediate e massicce conseguenze non sulla filosofia intesa come attività culturale autonoma e garantita, ma sulla sua stessa ragion d’essere. La circostanza singolare è che Girard ci riporta al dilemma da cui sono stati presi i primi pensatori cristiani tra accettazione parziale o integrale della filosofia e suo integrale rifiuto. La drasticità delle sue prese di posizione, circa i pericoli del desiderio mimetico che degenera in rivalità e i meccanismi di persecuzione che a livello collettivo le rivalità mimetiche innescano, lo porta a un rifiuto delle forme filosofiche della conoscenza in nome del cristianesimo, e costringe chi è interessato alle sue idee a rivivere una scelta di accettazione o rifiuto che pensavamo di esserci lasciati da molti secoli alle spalle. Non è questo, se vogliamo, uno degli ultimi meriti di un pensiero singolarmente fecondo anche nei suoi pronunciamenti più controversi. Ciò tuttavia non deve far sottovalutare i seri pericoli a cui espone un nodo teorico che, non appena sondato, si presenta subito come paradossale. Nell’affrontarlo ci sono tre inconvenienti fondamentali, che possono compromettere sia una corretta interpretazione di questo autore, sia, e soprattutto, una riflessione autonoma sulle tematiche da lui proposte. Il primo inconveniente è squisitamente interpretativo: trattare Girard come un “classico della filosofia” senza altre specificazioni ermeneutiche e storiche, e considerando questo l’esito di un riconoscimento “dovuto” e automatico. Un procedimento che risulta essere per più motivi falsificante, innanzi tutto perché ignora o finge di ignorare la conoscenza fortemente lacunosa che Girard mostra di avere della filosofia, e la visibile difficoltà che affiora in diverse sue opere ad articolare il suo pensiero secondo degli standard elevati di rigore concettuale e sistematico. Questa discontinuità nell’articolazione compiuta del suo pensiero, peraltro su temi immensi sui quali una più rigoristica prudenza lo avrebbe probabilmente frenato, la si osserva in opere piene di idee quanto non del tutto organiche nel loro sviluppo come Menzogna romantica e verità romanzesca e Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, mentre La violenza e il sacro risulta maggiormente compatta, benché a prezzo di un unilateralismo coerente con la visione del desiderio di Menzogna romantica, ma che avrà rilevanti ripercussioni sul restante sviluppo della sua ricerca. Arriviamo così al secondo inconveniente, che riguarda una valutazione d’insieme più equilibrata dell’impresa teorica girardiana, un inconveniente che coinvolge subito anche il modo col quale lo stesso Girard guarda al proprio lavoro. Se da una parte è vero che queste debolezze di sviluppo concettuale e di chiarificazione delle premesse non inficiano le idee più forti del pensatore francese, in maniera analoga a quel che si potrebbe dire per Freud, dall’al-

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G. Fornari - Quale filosofia nel terzo millennio?

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tra parte non è meno vero che ignorarle o sottovalutarle porta a conclusioni scorrette riguardo a una considerazione complessiva del pensiero girardiano, quasi la sua fosse la “parola definitiva” su argomenti talmente enormi che dovrebbero suscitare la voglia di lavorare e approfondire, non indurre a incrociare le braccia perché tutto ormai è stato fatto. Nelle ultime opere di Girard è invece palese quanto fastidiosa la tendenza a vedere nei punti di forza della sua concezione l’ultima parola che chiude ogni ulteriore vera disamina, sino all’imbarazzante proclama che, una volta rivelata la verità della vittima, non ci resta che aspettare la seconda venuta di Cristo e la fine del mondo storico. Un atteggiamento autoconfermativo che la passiva ammirazione di molti suoi commentatori ha trasformato in una sorta di dogma, dove la teoria girardiana assume il valore di compimento delle Sacre Scritture, di toglimento dell’ultimo sigillo che ancora ne nascondeva il senso. Del resto, è questo il ruolo che Girard dichiara esplicitamente di dare al proprio lavoro nel suo ultimo libro-intervista Achever Clausewitz (reso in italiano con Portando Clausewitz all’estremo), opera godibile e intelligentemente provocatoria in molte sue parti, ma che non si può dire renda grandi omaggi alla sobrietà intellettuale e alla percezione dello spessore dei problemi toccati. Né mi sembra un caso che in Achever Clausewitz Girard, quasi tirato per i capelli dal suo volonteroso e insistente interlocutore, si lasci andare ad affermazioni contraddittorie, mostrando da una parte una qualche simpatia per l’estremismo antiontologico di un Lévinas (che in effetti ha più di un punto di raffronto col suo pensiero), e successivamente inneggiando ai documenti papali sull’equilibrio armonioso tra fede e ragione, come se la deellenizzazione più estrema potesse stare a braccetto con la metafisica di ispirazione tomista. Sono questi gli aspetti più dilettanteschi degli scritti girardiani, che nulla tolgono alla grandezza del suo contributo, ma di cui sarebbe grave superficialità ignorare l’esistenza, anche perché hanno alimentato una piccola industria culturale a cui l’ultimo Girard ha concesso un po’ troppo, con una moltiplicazione in particolare di interviste che, tranne i casi in cui siano controllate da conoscitori esperti del suo lavoro, risultano essere ripetitive e di livello molto alterno. Arriviamo così al terzo equivoco, che ritengo il più sottile e insidioso, poiché appare in qualche modo funzionale o conseguente al secondo. Il pericolo più grave a cui espone un approccio spensieratamente doxastico e storiografico a Girard è di evitare, in beata incoscienza o piuttosto con furberia, proprio quel confronto radicale con il proprio statuto a cui comunque questo autore chiama la filosofia, esponendola a una decisiva provocazione, a una non procrastinabile risposta. È chiaro che, con un’operazione di sistemazione doxastica, la filosofia “accademica” cerca di

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René Girard e la filosofia

mettersi al riparo incasellando Girard fra i suoi tanti esponenti contemporanei, e allineandone i volumi nella sua biblioteca ideale, ai quali dedicare un’apposita bibliografia pronta a diventare ingovernabile quanto poco leggibile. Un simile atteggiamento è una pura illusione, se non una ciurmeria ideologica, e va contrastato con tutti i mezzi, ma è del tutto compatibile, o addirittura funzionale, alla fretta con cui Girard vuole chiudere il proprio pensiero trasformandolo in una parola ultima e definitiva. Per questi distinti e convergenti motivi non è questione di limitarsi a fare le note a piè di pagina dei suoi scritti, come Girard con egocentrismo autoriale vorrebbe, né di ritoccare qua e là la sua teoria dove più vistosamente non tiene onde rifarne una versione riveduta e aggiornata, e magari più presentabile nelle pubblicazioni finalizzate ai concorsi. Questa situazione è stata acutamente colta da Silvio Morigi, che al pensiero girardiano specialmente nella sua prima fase ha dedicato studi di grande impegno esegetico, allorché osserva che, accanto a critiche superficiali o celebrazioni equivoche, dominano la scena le entusiastiche utilizzazioni della teoria mimetica come una sorta di passepar-tout ermeneutico nei settori più disparati, o le ansie febbrili di intervenire su di essa con aggiustamenti, riformulazioni, colpi di lima nella pretesa di rendere il passe-par-tout più affinato ed efficace a dischiudere ogni serratura (aggiustamenti e riformulazioni che spesso, per cambiare metafora, sortiscono solo a discutibili interventi chirurgico-terapeutici: o amputativi, o che innestano su di un corpo sano e vitale dubbie protesi)1.

L’osservazione è nel suo insieme condivisibile, anche se tutto sommato non mi sembrano essere così recepite e diffuse grandi ansie di aggiustamento teorico: mi sembrano invece prevalere atteggiamenti applicativi di scarso respiro, tutt’al più preoccupati di far dire a Girard quel che non dice, senza un vero riesame delle intenzioni e dei condizionamenti del suo pensiero. Ma è indubbio che un’assunzione acritica delle sue idee esponga a pericoli del tipo che Morigi descrive. L’unico punto sul quale non mi sento di concordare è nell’accenno finale al «corpo sano e vitale», e perciò integro e in qualche misura autosufficiente, che sarebbe la teoria girardiana. Se è vero che la teoria di Girard mostra una sua coerenza di fondo dall’inizio alla fine, bisogna però aggiungere che tale coerenza è consistita anche nel perseverare in posizioni discutibili o semplicemente erronee, come ho mostrato in molti miei scritti che hanno analizzato in profondità le articolazioni del pensiero girardiano, grazie al lungo rapporto di dialogo e collabo1

Morigi 2009, p.191.

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razione con l’autore che ho avuto la fortuna di intrattenere, e come intendo illustrare in forma più sintetica e avanzata in questo mio intervento2. Un’attribuzione di organicità e “autosufficienza” rischia di sottovalutare o, addirittura, di non vedere gli equivoci a cui espone la stessa autointerpretazione che Girard dà del proprio pensiero. Dove invece concordo in pieno con Morigi – e proprio perché la formulazione girardiana risente di limitazioni legate alla sua stessa genesi, cioè alla sua stessa forza – è riguardo all’inutilità di fare pezze ed aggiustamenti che si risolverebbero nell’irreale mantenimento di un’inesistente ortodossia girardiana, o peggio ancora in un sincretismo disorganico e superficiale. Ma, appunto, non dobbiamo scordare che codesto “girardismo” a ogni costo, disposto a tenere in piedi con ogni mezzo l’edificio poderoso quanto irregolare e incompiuto della costruzione teorica girardiana, non è che il riflesso simmetrico dell’autoreferenzialità apodittica in cui si è rinchiuso l’ultimo Girard. Ciò che occorre è invece una rielaborazione profonda delle tematiche che Girard ha incompiutamente esplorato, un paradigma nuovo e più radicale, che in questa sede mi limito ad accennare, dapprima mostrando le ragioni interne e insieme l’insufficienza dell’approccio girardiano, e poi evidenziando la strada che a mio avviso è necessario percorrere prendendo spunto da un altro protagonista del pensiero francese del Novecento, oggi ingiustamente sottovalutato o deformato, Georges Bataille. Questo controcanto batailliano ci permetterà poi, sotto gli auspici del pensiero di Leopardi, di accedere a una conclusione sintetica, che però non vuole assolutamente concludere, quanto suggerire nuove dimensioni di apertura dell’esperienza e della conoscenza.

2. La filosofia in Girard La sfida che Girard pone alla filosofia è quella del fondamento della cultura umana sulla vittima per mezzo del sacrificio. Se le cose stanno così, è chiaro che la stessa filosofia si fonda sull’uccisione di vittime, e che quindi la refrattarietà da essa dimostrata verso un riconoscimento siffatto è il segno della sua complicità con la fondazione culturale da cui l’intero sapere dell’uomo dipende. Questa critica non è in sé assolutamente nuova, nel senso che, volontariamente o involontariamente, riprende accuse di superba astrattezza o di indifferenza morale esistenziale sociale, mosse verso il 2

Lo svolgimento delle mie critiche si coglie già bene in Fornari 2006a e Fornari 2006b.

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pensiero filosofico da svariate concezioni tra Otto e Novecento che ora non è il caso di enumerare, lungo una linea che si può far partire dall’hegelismo di sinistra e da Marx, da Kierkegaard e da Nietzsche (e che volendo si può ricostruire a ritroso fino alle resistenze cristiane al pensiero pagano). Questo atteggiamento di ripulsa antifilosofica si carica però in Girard di una nuova portata in quanto proveniente da una teoria che afferma di poter spiegare la cultura umana in generale, a partire da un fondamento preciso, concettualmente e persino fattualmente verificabile: la dipendenza di ogni comunità umana dall’espulsione di vittime che non vengono riconosciute come tali, ma diventano delle divinità fondatrici, dei legislatori, dei monarchi divini, o viceversa delle figure negative da esorcizzare e tenere lontane. Si potrebbero fare citazioni quasi cursorie dagli scritti girardiani. Prendiamone alcune particolarmente indicative dall’opera che resta la più rappresentativa e ambiziosa di Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Fin dalle prime pagine l’autore ci avverte con sprezzo che la sua impresa conoscitiva è estranea in blocco alla filosofia: «[…] non facciamo qui della filosofia»3. La natura volutamente scientifica della sua impresa viene seccamente dichiarata in passi come il seguente, di particolare interesse perché ci attesta l’influenza dello scientismo di Lévi-Strauss (che pure Girard critica ripetutamente per il suo approccio astrattamente sincronico): Lefort: Alcuni deplorano proprio questo carattere riduttivo della sua tesi. Girard: A costoro non ho nulla da rispondere. Su questo punto condivido interamente l’opinione di Lévi-Strauss. La ricerca scientifica è riduttrice oppure non è niente4.

Non si potrebbe essere più chiari, più programmatici, né l’autore ha mai successivamente modificato questa posizione di fondo. È sicuramente il caso di discutere se la sua impresa conoscitiva sia riconducibile a canoni di tipo scientistico-positivistico, e non vi è dubbio che i contenuti da lui esplorati (non diversamente che per Freud) non siano identificabili con “dati” positivistici o con strutture lévi-straussiane. Resta però innegabile che Girard intende presentarsi polemicamente in termini scientifici e scientistici, senza mai tematizzare il problema di questa autodefinizione secca e sommaria, che poi gli impedisce di svincolarsi dalle pastoie in cui lui stesso va a cacciarsi pur di determinare la direzione del suo pensiero. D’altronde, egli poco si cura di precisazioni metodologiche e concettuali. È 3 4

Girard 1983, p.32. Ivi, p.59.

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lo spirito della contrapposizione da cui si sente investito a conferire slancio alla sua indagine e a proiettarla verso una verità originaria, che renderà ipso facto superflua ogni attività oziosamente analitica e speculativa. Anche la parte della filosofia contemporanea che egli non può non sentire affine, quella più critica e demolitoria, più audacemente demistificatrice, viene da lui rifiutata come insufficiente e ancora astutamente compromissoria. Contrapponendosi a Heidegger e alla decostruzione di Derrida a lui ispirata, Girard così caratterizza l’inanità del pensiero decostruttivo, ossia del pensiero filosofico ai suoi occhi più aggiornato e più critico: «Non crede alla filosofia ma resta nella filosofia. Non si accorge che al di là della crisi attuale, esistono delle possibilità di sapere razionale sulla cultura che non sono più filosofiche»5. La teoria mimetica è dunque un sapere razionale sulla cultura che senza compromessi si lascia la filosofia alle spalle. Il passo di maggiore eloquenza si trova al centro del testo di Delle cose nascoste: Nessun processo puramente ‘intellettuale’ può condurre alla conoscenza vera, perché il distacco di chi contempla i fratelli nemici dall’alto della propria saggezza è, in fin dei conti, illusorio. Ogni saggezza umana è illusoria nella misura in cui non ha affrontato la prova decisiva, che è quella dei fratelli nemici, e quand’anche non la affronti mai, quand’anche rimanga intatta nella sua superba vanità, essa non sarà che più sterile6.

Non si può che sottoscrivere questa dichiarazione di intensità agostiniana, o meglio pascaliana, che ci colloca veramente nel cuore dell’ispirazione di questo pensatore. Le sue parole, secondo i suoi intendimenti, racchiudono comunque conseguenze inquietanti, che non mi sembra legittimo sottacere. È evidente che Girard si riferisce soprattutto alla filosofia da lui presa costantemente di mira. È la filosofia che «contempla i fratelli nemici dall’alto della propria saggezza» e che così follemente si illude, poiché crede di mantenere la propria differenza culturale rispetto a una crisi dei doppi che ben presto la lambirà e la distruggerà. La conclusione non viene esplicitamente affermata da quell’abile retore che sa essere Girard, ma si evince subito se portiamo le sue parole alle estreme conseguenze a cui consapevolmente alludono: occorre che la filosofia si autodismetta, che si suicidi se vogliamo dirla con tutta franchezza, comprendendo la sua insufficienza come forma storica e culturale, “consegnandosi” al disvelamento potente e concreto della teoria mimetica, che 5 6

Ivi, p.287. Ivi, p.344.

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da ultimo non fa che richiamarsi all’insegnamento evangelico. L’unica alternativa sarebbe arrivare, come fanno Nietzsche e Heidegger, ai confini estremi del filosofico recuperandone le origini nei presocratici, ma in questa maniera si rimane dentro la logica del sacro e del sacrificio in cui il pensiero presocratico inesorabilmente si inscrive, si resta prigionieri dell’Eterno Ritorno della violenza. Non vi è dunque alcun “ritorno” per Girard: o si è con Cristo o si è contro di lui. La filosofia deve non inchinarsi alla Croce, ma semplicemente annullarsi. Questo rigetto apocalittico della filosofia non ha mancato di riflettersi sui seguaci e ammiratori più entusiasti, con esiti opposti e ugualmente pericolosi. Da un lato, specialmente in Italia, ci sono vari tentativi di riportarne la teoria a una qualche categorizzazione filosoficamente “normale”, il che però, oltre ad essere un fondamentale tradimento dello spirito e della lettera dei testi girardiani, ci ripropone il concreto pericolo dei “pasticci” da cui metteva in guardia Morigi. Dall’altro lato, specialmente in America dove gli atteggiamenti antintellettualistici trovano più facilmente ricetto, abbiamo dichiarazioni ancora più drastiche in cui la filosofia è bollata come mito ormai smascherato dalla rivelazione girardiana della vittima. Sintomatico il giudizio estremo contenuto in un recente scritto di uno degli studiosi più appassionatamente interessati alle tematiche girardiane, il teologo protestante Robert Hamerton-Kelly, che nel contesto dell’interpretazione apocalittica fortemente ribadita dall’ultimo Girard, e indubbiamente presente sin dagli esordi del suo pensiero, fa osservazioni sarcastiche sul ceaseless seeking, sulla ricerca incessante che è attributo tipico del filosofo, e lo paragona a Stavrogin, il protagonista dei Demoni di Dostoevskij7, visto evidentemente come esempio paradigmatico di una figura di alto livello culturale e intellettuale che si perde per il pervicace rifiuto a guardare dentro di sé, a riconoscere la propria partecipazione alla colpa, e di conseguenza alla grazia che lo potrebbe salvare. La preoccupazione di Hamerton-Kelly è quella paolina di una ripulsa di ogni sapere parolaio e perditempo, dinanzi all’urgenza di una verità che ci chiama e vuole proprio noi, è l’urgenza del richiamo sulla via di Damasco, in poche parole. Inutile quindi addentrarsi in facili polemiche che farebbero mancare il bersaglio, perché bisogna prima capire l’obiettivo, la preoccupazione che presiede a un attacco anche violento, che vuol essere anzitutto una provocazione. Ma è fuori discussione che Hamerton-Kelly, in questo suo atteggiamento “a testa bassa”, non fa che riprendere e portare alle estreme conseguenze le parole e l’ispirazione del suo maestro. 7

Hamerton-Kelly 2007, p.24.

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Dando per acquisite tutte le necessarie precisazioni di contenuto, di finalità e di contesto, rimane, e direi quasi resiste, la constatazione che nella ripulsa girardiana sono riscontrabili, a un’osservazione più obiettiva ed attenta, dei punti assai dubbi, e questo proprio facendo tesoro delle sue analisi demistificatrici. C’è da chiedersi, intanto, come mai Girard si mostri tanto polemico e astioso verso i filosofi e infinitamente meno esigente verso gli scienziati. Anzi, verso la scienza moderna Girard mostra quasi sempre del “tenero”, sia pur riconducendone i meriti alla rivelazione evangelica. In questo c’entra ovviamente l’opzione scientista asseverata con decisione in Delle cose nascoste; eppure, uno sbilanciamento così macroscopico non manca di lasciare perplessi proprio partendo dai presupposti girardiani di una demistificazione ultimativa della violenza. Mentre i poveri filosofi, per quanto colpevoli di astrattismo e iattanza intellettuale, si sono pressoché sempre limitati a posizioni sociali non così potenti e influenti da rendersi direttamente responsabili di violenze o addirittura di crimini contro l’umanità, gli scienziati possono esibire una fedina ben diversamente pesante. Non è alla loro volonterosa collaborazione che dobbiamo le armi sempre più micidiali con cui la tecnologia moderna ha amplificato la già formidabile distruttività umana? Ciò nonostante, non mi risulta ci sia una sola frase in Girard che enfatizzi le gravi responsabilità morali della scienza e degli scienziati moderni nella creazione di mezzi distruttivi che sappiamo quali livelli hanno raggiunto, salvo generiche indicazioni circa la responsabilità umana nell’uso di tali mezzi, che come tali sono degli appelli universali, certo non una demistificazione critica di forme di sapere usate con precise volontà o complicità omicide. Ma che importa? Negli scritti girardiani sono di norma i filosofi a sedere sul banco degli imputati, fino al punto di essere ritenuti responsabili dei mostruosi genocidi del totalitarismo contemporaneo nel caso di Nietzsche e Heidegger, più volte additati come ispiratori ideologici del nazismo. In questo purtroppo Girard asseconda un deleterio cliché di tutta una linea di pensiero del secondo Novecento, ansiosa di individuare i colpevoli del disastro della II guerra mondiale. Dopo una prima fase in cui a essere accusata era l’intera cultura tedesca, fino al punto di volerle negare la qualifica di “cultura” (a tanto si è giunti), è iniziata la sfilza delle accuse che si presumevano circostanziate, ben illustrate da Popper, con le sue anacronistiche accuse al “totalitario” Platone, arrivando a Hegel accusato di ogni nefandezza per aver creato quel mostro responsabile di tutte le sventure dell’umanità che è lo storicismo. È una delle debolezze di Girard aver ceduto a questa deriva intellettuale, ancora relativamente comprensibile (ma non giustificabile) dopo il trauma del conflitto mondiale e

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negli anni della Guerra Fredda, ma sempre meno giustificabile man mano che la distanza storica avrebbe dovuto indurre a più maturi consigli. A parte la conseguenza assurda e mai dichiarata di immaginare i gerarchi del partito nazionalsocialista affannarsi a stendere i loro programmi consultando Also sprach Zarathustra e Sein und Zeit, le accuse girardiane a Nietzsche e a Heidegger non tengono in alcun conto che questi pensatori hanno soprattutto captato e interpretato segnali che le ideologie totalitarie del Novecento hanno trasformato in ideologie efficaci a livello di massa. La loro “colpa”, al di là delle identificazioni proiettive coi persecutori riscontrabili in Nietzsche e delle ambiguità vagamente neopagane di Heidegger, è quindi consistita nel fare da sismografi di sommovimenti da cui erano percorse le società europee fra Otto e Novecento. Non si può dire che l’atteggiamento di Girard sia di grande comprensione anche umana verso questi pensatori, benché egli abbia fatto su Nietzsche degli excursus folgoranti, che rendono la sua interpretazione una delle più importanti del secolo scorso (molto più limitata è invece la sua comprensione del più tecnico Heidegger). In sintesi, Girard mostra verso i filosofi e la filosofia una vistosa parzialità, e tanto più clamorosa se consideriamo la completa non cale in cui tiene le gigantesche responsabilità morali della scienza nel Novecento, sulle quali scende invece un silenzio pietoso, o forse opportunistico. È infatti del tutto incoerente far ricadere sulla vecchia e illustre “Madonna Filosofia” tutte le colpe di una complicità ancestrale con la violenza, mentre la scienza, nata dallo stesso identico tronco ma impadronitasi nei tempi moderni di un ben diverso potere, non viene sostanzialmente toccata, e anzi viene invocata come riprova della scientificità delle affermazioni dello stesso Girard, le quali quindi passano senza filtri né mediazioni, o meglio senza tematizzazioni che facciano capire il tipo di operazione seguita, da un registro evoluzionistico-darwiniano a un registro teologico e addirittura apocalittico. Un cortocircuito che si rivela particolarmente pesante negli ultimi scritti, in cui questa crasi non argomentata né mai chiarita nelle sue premesse si risolve in una diagnosi catastrofista sul futuro del mondo in cui viviamo. Utile ammonimento, sia chiaro, ma non fondato sulle ragioni apodittiche che Girard gli attribuisce. E va sottolineato come la posizione di Girard verso la filosofia non si sia mai modificata nella sostanza, per quanto gli interlocutori delle sue numerose interviste abbiano cercato più volte di attirarlo su terreni più filosofici sui quali strappargli chissà quali ammissioni (massimo esempio in questo Achever Clausewitz). Qualunque parziale ammissione strappatagli obtorto collo non ha mai scalfito la convinzione girardiana che la filosofia ri-

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manga un sapere ormai radicalmente superato dalla sua teoria, e del tutto inservibile nel regime di attesa escatologica a cui egli riduce il momento storico presente. Prima di entrare maggiormente nel merito della provocazione girardiana, è il caso di dare una spiegazione mimetica del suo radicalismo, di intenderne la genesi tutt’altro che “scientifica”. Sono convinto, conoscendo lo spirito fortemente polemico che anima e certo anche impoverisce non poche pagine del pensatore francese, che questa sfacciata parzialità sia dovuta in origine a un atteggiamento rivalitario verso i filosofi, ai quali Girard nel clima intellettuale francese si doveva accostare per forza di cose, viste le palesi ambizioni totalizzanti della sua teoria, ma da cui si sentiva respinto per il tecnicismo gergale della disciplina filosofica, brandito come un’arma distruttiva nei salotti e sulle riviste della Parigi di Sartre, di Deleuze e di Foucault. Questo spiega bene l’odio cordiale di un intellettuale proveniente dalla provincia (un particolare che per un francese non va mai scordato) e per giunta emigrato nella lontana America, doppiamente periferico quindi, e per soprammercato non in possesso degli stessi prestigiosi abracadabra concettuali, che peraltro egli cerca di imitare nelle formule evocative e nelle polemiche taglienti dei suoi testi. Le pulsioni antifilosofiche di Girard non sono quindi del tutto argomentate razionalmente, e rappresentano sotto questo profilo una delle parti più deboli e caduche del suo pensiero. Pur tenendo presenti questi aspetti umani, che rendono anche più comprensibili certe debolezze, resta comunque il granello evangelico di verità che non possiamo non apprezzare nel passo “pascaliano” sull’illusorietà delle saggezze umane. Girard sa che le verità di cui ci vuole parlare vengono con estrema facilità coperte da atteggiamenti aprioristicamente categoriali, e caratteristici della corporazione filosofica, che riducono anche i problemi più drammatici a astrazioni, a discettazioni tutte uguali fra loro. Insomma, con i suoi dimostrabilissimi torti, questo provinciale doppiamente e triplamente escluso dai salotti dell’intellighenzia parigina ha delle ragioni che i suoi sapienti avversari non hanno. È la vittima pienamente rivelata in Cristo che riduce al nulla “tutte le cose che sono” e quindi anche la sapienza degli uomini fondata sulle “cose che sono”, cioè ancora sul categoriale, sull’Essere. Col suo unilateralismo, accostabile come accennavo a quello ebraico di Lévinas, Girard ci fa rivivere il radicalismo paolino che ha portato l’apostolo a predicare Cristo fra tutte le genti, ci fa ripercorrere i dilemmi tra cristianesimo e paganesimo dei primi intellettuali cristiani. Le ragioni per cui il pensatore francese ha pur sempre le sue ragioni non sono tuttavia quelle che egli adduce. Se, anzi, vi è una non accettabile debolezza nelle sue argomentazioni, è che la sua furia unilaterale infligge alle forme

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di sapere da lui condannate il trattamento dei capri espiatori, un trattamento tanto meno accettabile se consideriamo che è stato inflitto anche per guadagnare maggiore visibilità propiziandosi in qualche modo i favori di categorie meno bersagliate, segnatamente scienziati da un lato e teologi dall’altro (con l’ironico risultato però che la teoria girardiana ha ricevuto molta più attenzione dai filosofi che dalle altre due categorie, presumibilmente perché è la filosofia a passarsela peggio). Se vogliamo essere un po’ più coerenti, dobbiamo insomma usare verso la filosofia e le tradizioni culturali del pensiero una ben diversa attenzione, dobbiamo staccarci dal modello mimetico della “furia” girardiana. Del resto, san Paolo, quando proclamava il nulla di tutte le cose che sono, si riferiva all’irrompere di una verità divina che era venuta a salvarle, non a distruggerle. La redenzione cristiana funziona in maniera diversa dalle polemiche e dalle idiosincrasie di un singolo pensatore, per quanto geniale. Se vogliamo capire le ragioni riposte di Girard bisogna, come dicevo, cambiare profondamente il quadro interpretativo da lui sostenuto, e arrivare a una visione più comprensiva, in tutti i sensi del termine. Su questa strada ci può dare un importante aiuto Bataille.

3. Bataille e la filosofia Bataille è stato una figura di enorme e fecondo influsso nella cultura francese tra gli anni Trenta e Sessanta, per quanto ne sia stato banalizzato e deformato il pensiero, e non ha mancato di esercitare la sua influenza anche su Girard, pur ricevendo da lui un’attenzione limitata, per motivi che dovrebbero emergere nella mia analisi. L’analogia tra queste due figure ha più di un riscontro, a cominciare dalla posizione non facile di provinciale alla conquista della capitale, conquista che Bataille cercherà di attuare andando però a risiedervi e spendendo infine una parte considerevole del suo immenso talento in un’attività diuturna di direttore e redattore della rivista Critique. Entrambi si sono dovuti misurare col sistema parigino dei maîtres-à-penser, e in particolare con l’intellettuale più prestigioso sulla scena della Rive Gauche in quei decenni, Jean-Paul Sartre, il filosofo à la page onnisciente e onniveggente, che riserverà a Bataille un trattamento liquidatorio da cui questi non si riprenderà mai del tutto, mentre il più giovane Girard si è tenuto prudentemente alla larga, giocando la sua partita con la generazione di Deleuze e Foucault, che però finirà per riservargli un trattamento non molto diverso, complice l’imprudente e quasi forsennata stroncatura del primo con cui Girard aveva cercato evidentemente consensi

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(di tipo vittimario) alla sua causa8. Sia Bataille che Girard hanno vissuto l’esperienza dell’uomo dostoevskiano del sottosuolo, con la differenza però che in Bataille tutto si fa dirompente, esplosivo, portandolo negli anni Trenta sull’orlo dell’autodistruzione, dalla quale si salva anche per il ricorso sistematico a una scrittura sensibilissima, con cui registrava quanto gli accadeva in una sorta di stenografia febbrilmente affacciata sul nulla. Girard ha invece seguito una strada opposta, quella tranquilla del professore universitario e del padre di famiglia, che ha trovato le sue risposte e la sua carriera in una teoria da lui confezionata, nelle sue intenzioni solida, razionale, definitiva, con un assetto razionalista di matrice cartesiana e soprattutto lévi-straussiana che si risolve nello “scientismo teologico” che sopra dicevo, uno scientismo di cui non dobbiamo però mai lasciarci sfuggire l’inquietudine sotterranea, l’insoddisfazione “ontologica”, non del tutto coperta dalle dichiarate e reiterate asserzioni di fede. Il confronto teorico è ancor più interessante. Bataille manca del dispositivo esplicativo congegnato da Girard, con la sua formidabile capacità di semplificare e unificare i fenomeni della cultura, e nei reiterati sforzi che egli compie, soprattutto nel secondo dopoguerra, per pervenire a una teoria coerente sul religioso rimane avvolto in contraddizioni rivelatrici. Rappresentativo in questo è uno dei suoi scritti più concentrati e affascinanti, Teoria della religione, nel quale Bataille cerca di venire a capo delle sue indagini sul sacro e l’origine della cultura. Da un lato, la cultura si fonda per lui, marxianamente e sartrianamente, sul lavoro e la sua organizzazione; ma dall’altro, egli capisce con estrema lucidità che nessuna organizzazione potrebbe sussistere senza dei momenti incalcolabili di dispendio e distruzione delle risorse prodotte, momenti che egli fa risalire senza esitazioni al sacrificio. Esiste quindi in lui una doppia origine, consistente in un’oscillazione pendolare che non trova una risoluzione unitaria, ma che ha nel sacrificio il suo punto culminante, determinante. Si può dire, rispetto a Girard, che Bataille compensa questa minor coerenza teorica con una sensibilità maggiore verso i fenomeni culturali e psicologici emergenti dal sacrificio. Ad essere diverso in Bataille è lo spirito temerario che guida i suoi scritti. Questo pensatore non si preoccupa della coerenza formale, perché si lascia raggiungere dalla contraddizione, che a livello più immediato è la contraddizione tra visione marxista e visione

8

Mi riferisco alla stroncatura dell’Anti-Oedipe di Deleuze e Guattari pubblicata col titolo significativo di Système du délire, stroncatura che porterà alla rottura con Foucault, come quest’ultimo dice seccamente a Girard in un incontro fortuito nella metropolitana di Parigi (informazione comunicatami dall’autore).

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sacrificale, ma che in ultima analisi è la contraddizione potente che egli avverte dentro se stesso e dentro la storia, e che si sente costretto a vivere fino in fondo, senza vie di mezzo, senza concedersi sconti. In altre parole, Bataille fa emergere mediante il pensiero e la scrittura (altre due componenti tutt’altro che risolte nella sua opera) quel destino del sottosuolo che Girard ritiene di aver affrontato e risolto una volta per tutte con le formule quasi matematiche della sua teoria del desiderio e del capro espiatorio. Bataille non “teorizza” la vittima come fa Girard (in questo Girard si mostra non del tutto diverso dai filosofi che attacca), ma ne vive semplicemente il destino facendosene dominare, facendosene sottomettere come uno schiavo, o meglio come un condannato avviato al supplizio e abbacinato dall’imprevisto splendore che questo evento tragico getta sulla sua intera esistenza. Bataille capisce, al pari di Girard, che la vittima del sacrificio è il cuore di tutto, è il segreto stesso di ogni sovranità, ma a differenza del teorico della vittima, è deciso a viverne in ogni modo la condizione, non può farne a meno, ne è trascinato, travolto. L’esperienza più forte che egli prova, e che lo ossessionerà per tutta la vita, è la visione di una foto dei primi del Novecento in cui un giovane cinese subisce il supplizio di venir lentamente dissezionato per aver attentato alla vita di un membro della corte imperiale. Nei suoi scritti degli anni di guerra, a mio avviso i più lucidi e coerenti, ricorrono passi come questo, che inutilmente cercheremmo in Girard: Sono ossessionato dall’immagine del boia cinese della mia fotografia, che cerca di tagliare la gamba della vittima al ginocchio: la vittima legata al palo, con gli occhi stralunati, la testa all’indietro, la smorfia delle labbra lascia intravedere i denti. La lama entrata nella carne del ginocchio: chi sopporterebbe che un orrore così grande esprima fedelmente “ciò che è”, la sua natura messa a nudo?9

Quest’ultima osservazione relativa a «ciò che è» è estremamente importante, perché ci apre lo spiraglio in cui vorrei inserire la mia riflessione. Ma prima vorrei soffermarmi sull’intenzionalità esplicita con cui Bataille si distacca dalla filosofia più prestigiosa del suo tempo, incarnata da Kojève che nei tardi anni Trenta riscuote un grande successo a Parigi con le sue lezioni sulla Fenomenologia dello Spirito. Esiste la minuta di una sua lettera indirizzata a Kojève in cui Bataille, a prezzo di un evidente sforzo interiore, si distacca dalle possibilità prestigiose del concetto che le lezioni kojèviane evocavano così vividamente, sullo sfondo di quello psicodramma collet9

Bataille 1989, pp.53-54.

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tivo che per i francesi è stato il confronto plurisecolare con la Germania, psicodramma i cui echi ancora ci arrivano nelle pagine più autobiografiche di Girard in Achever Clausewitz. Nella lettera di Bataille vi è una sincerità disperata che, ancora una volta, cercheremmo inutilmente in Girard, il quale inserisce pure, in Achever Clausewitz, delle belle pagine su Hegel in realtà risalenti agli anni di Menzogna romantica, ma senza mai fare la saldatura finale con le proprie ambizioni ontologiche, che sono più che altro analizzate nei personaggi romanzeschi e negli scrittori da lui esaminati10. Questo parallelo è talmente preciso e calzante da meritare una parentesi. Se ci soffermiamo sul passo di Achever Clausewitz in cui Girard parla del suo rapporto “kojèviano” con Hegel, possiamo addirittura trovare degli indizi sui motivi per cui egli non ha a suo tempo pubblicato le pagine recuperate nel libro-intervista di decenni dopo. Nel suo consueto stile Girard liquida le lezioni di Kojève come «una rifrittura [nouvelle mouture] del pensiero hegeliano»11, ma significativamente ammette che in Menzogna romantica «l’orizzonte hegeliano era ancora presente», e che «le mie affinità con questa filosofia erano innegabili». Tuttavia la frase rivelatrice si affaccia subito prima della stroncatura dei commenti kojèviani, definiti una «rifrittura»: «…all’uscita di Menzogna romantica e verità romanzesca, nel 1961, molti hanno voluto vedere in me l’erede di Kojève, il grande commentatore di Hegel»12. Ne possiamo allora non illegittimamente arguire che è sotto la spinta di questa aspettazione collettiva (sempre da collocare nella sua cornice parigina e mondana, in una parola “proustiana”) che Girard deve aver composto il suo scritto su Hegel. Poi, però, il peso di affrontare i mostri sacri della scena filosofica della capitale proprio sul loro terreno, il timore di venirne attaccato e ridicolizzato (timore mai esorcizzato a motivo dell’imperfetto padroneggiamento della materia), gli hanno fatto lasciare nel cassetto l’abbozzo, che viene rispolverato con decenni di ritardo, sotto l’ombrello protettivo della fama acquisita, e nella forma assai più lasca dell’intervista, che lo esenta da ogni obbligo di spiegazione sistematica. In realtà, le circostanze stesse di questo tardivo recupero, il suo tatticismo opportunistico, non risarciscono il segreto fallimento iniziale, anzi sottolineano l’incapacità di riprendere in mano la partita sospesa per concluderla vittoriosamente con un nuovo scritto, con un’ultima sintesi definitiva. Ecco allora riaffiorare, nello scarto brutale della frase successiva, il 10 11 12

Devo la datazione effettiva di queste pagine a una comunicazione personale dell’autore; ciò conferma sia l’importanza del libro, sia la cautela con cui dev’essere preso in esame. Girard 2008, p.65; Girard 2007, p.71. Girard 2008, pp.64-65.

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residuo di questa ferita inflitta al suo orgoglio di pensatore proveniente da una doppia “provincia” (francese e americana), e condannato a una posizione di inferiorità filosofica rispetto ai brillanti giocolieri parigini, a cui si sentiva superiore per l’importanza delle cose che aveva da dire. Il «grande commentatore di Hegel», con cui era stato messo a diretto e spinoso confronto da «molti», deve uscire, nel suo attuale resoconto, diminuito per non dire distrutto, onde cancellare ogni traccia mnestica dolorosa: le brillanti esegesi hegeliane dello studioso franco-russo, divenute un modello per un’intera generazione dell’intellettualità francese, si trasformano di colpo in una «rifrittura», in quella che in italiano chiameremmo una “minestra riscaldata”. La reazione di Bataille allo smagliante modello kojèviano è totalmente diversa: più tormentata e sofferente, ma molto più esplicita e a viso aperto, senza la frustrazione segreta che ancora si annida nelle pieghe del razionalismo polemico di Girard. L’impietosa messa a nudo autobiografica della lettera a Kojève va di pari passo col tenore densamente speculativo di alcuni passi, a riprova del fatto che se Bataille respinge la filosofia non è perché non si senta in grado di padroneggiarla, ma perché è questo il suo bisogno invincibile, l’insopprimibile esigenza di qualcuno che sta per essere soppresso. Con rapidità fulminea Bataille unisce e fa esplodere i due estremi così apparentemente distanti delle soluzioni speculative alla Hegel e dei tormenti delle proprie ambizioni intellettuali. Il passo saliente della lettera è il seguente: Se l’azione (il “fare”) è – come dice Hegel – la negatività, allora la domanda che si pone è se la negatività di chi non ha “più niente da fare” svanisca o sussista allo stato di “negatività senza impiego” (non potrei definirmi in maniera più precisa). Mi rendo conto che Hegel ha previsto questa possibilità: però non l’ha posta a conclusione dei processi che ho descritto. Immagino che la mia vita – o il suo fallimento, meglio ancora, la ferita aperta che è la mia vita – da sola costituisca la confutazione del sistema chiuso di Hegel13.

La conclusione del ragionamento è limpida e netta, e ottiene subito quello che Girard cerca contortamente di conseguire: è proprio la sconfitta personale che vive Bataille, che è la sua vita, «la confutazione del sistema chiuso di Hegel». Bataille è inchiodato al negativo che nessuna sintesi dialettica riscatta, ed è proprio questo ammanco totale, questo non ritorno dei conti speculativi, a sconfiggere lo spirito stesso del pensiero hegeliano. La ripresa della critica di Kierkegaard a Hegel è ancora più radicale, perché 13

Testo in Bataille 1989, pp.163-165; la lettera è datata 6 dicembre 1937.

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stavolta non si associa all’idea cristiana ed esistenziale di individuo, ma, in maniera esplicita e dirompente, all’esperienza individuale, personale della sconfitta e dell’annientamento, che si esprime nel fallimento totale delle proprie ambizioni, ma che ha radici molto più profonde, risalendo alla storia complessiva di Bataille, al trauma mai risanato dell’agonia e morte del padre per sifilide. Subito dopo, il tasto delle aspirazioni intellettuali viene battuto con forza: La domanda che lei pone nei miei riguardi consiste nel sapere se io debba essere ignorato oppure no. Me la sono posta spesso, ossessionato dalla risposta negativa. Inoltre, siccome l’idea che mi faccio di me stesso varia, e mi capita di dimenticare, paragonando la mia vita a quella degli uomini più importanti, che essa potrebbe essere mediocre, mi sono spesso detto che al culmine dell’esistenza potrebbe non esservi niente se non qualcosa di nessun conto: nessuno, infatti, potrebbe “riconoscere” un culmine che sarebbe la notte. Alcuni fatti – come una difficoltà eccezionale sperimentata nel farmi “riconoscere” (sul semplice piano dove gli altri sono “riconosciuti”) – mi hanno portato a considerare seriamente ma allegramente l’ipotesi di un’insignificanza inesorabile14.

Il passo non potrebbe essere più mimetico in senso girardiano, ma precisamente questa conferma aggiunge qualcosa che in Girard manca, ossia la piena saldatura fra la sintesi speculativa di Hegel, per più aspetti l’apogeo della filosofia moderna, e la propria frustrazione di “intellettuale del sottosuolo”, con un’aperta presa di coscienza di quest’ultima, un’assunzione in toto che non è diversa dall’immedesimazione sconvolgente col giovane cinese suppliziato. Il momento dell’immedesimazione radicale manca invece totalmente in Girard, anche in sede teorica, poiché essa è ricondotta alla distruttività senza rimedio della sua idea di “mediazione interna”. Perfino il rapporto con Cristo è da lui ricondotto a una pallida mediazione esterna, o a quella che in Achever Clausewitz riceve l’ambigua denominazione di «mediazione intima» (médiation intime)15, un’astratta imitazione priva di desiderio che consisterebbe nel collocarsi a una non meglio specificata «giusta distanza» rispetto al modello16. Come se il dramma e la bellezza 14 15

16

Testo in Bataille 1989, p.165. Girard 2008, pp.202-203; Girard 2007, p.235. L’espressione si direbbe prendere spunto da un passo di Delle cose nascoste: «…bisogna trionfare sul misconoscimento vittimario nell’esperienza intima [expérience intime]…» (Girard 1983, p.481; Girard 1991, p.551). Girard 2008, p.204 e prima p.185. Da queste precisazioni, oltre che dall’impostazione complessiva della concezione girardiana, risulta chiaro che questa mediazione intima difficilmente potrebbe essere più lontana dalla mia idea di mediazione oggettuale.

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dell’avventura umana non consistesse nel vivere fino in fondo l’esperienza dell’immedesimazione nella sua fecondità e nei suoi pericoli! Proprio il teorico drastico che rifiutava ogni saggezza umana appagata di sé vuole tenersi razionalisticamente al riparo dei fenomeni che preferisce osservare dalla sua «giusta distanza». Girard resta sistematicamente al di qua dei fenomeni che pure indaga, Bataille li indaga gettandovisi a capofitto e osservandoli in corpore vivo in se stesso. Emerge a questo punto da sé quale fra i due pensatori sia più vicino all’esperienza cristica e cristiana, anche se è questa stessa esperienza a impedirci ogni facile giudizio sull’esitazione, sul timore, diciamo pure sulla debolezza con cui il pensatore meno temerario si è sempre attentamente guardato dall’avventurarsi su terreni per lui (come per noi) spaventosi. L’identificazione di Bataille con la vittima coincide pienamente col rifiuto delle sintesi hegeliane e della loro brillante ripresa da parte di Kojève: Quello che dico la porta a pensare che accada qualcosa di spiacevole, è tutto: trovandomi davanti a lei, la sola giustificazione che ho è quella di una bestia intrappolata che urla17.

Il passo, memorabile, è la chiara ripresa di una conversazione personale tra i due. La reazione del filosofo è quella tipicamente categoriale di ricondurre quanto drammaticamente descritto da Bataille a un suo semplice caso personale, a una vicenda «spiacevole». Kojève del resto, la cui interpretazione di Hegel è appassionatamente storico-politica e legata al suo destino di esule, modificherà nel tempo la sua reazione, fino a diventare grande amico del suo più anziano uditore e a condividere parte delle sue istanze18; cosa che non si può dire dell’algida ripresa dell’episodio da parte del filosofo italiano Giorgio Agamben, che lo interpreta come segno del dilettantismo di Bataille, non cogliendo la vera sostanza del suo argomento19. Con la prima reazione salottiera di Kojève, e assai più con l’insensibile commento di Agamben, la concettualizzazione filosofica dichiara la propria riluttanza, o il proprio aperto rifiuto, a identificarsi con la vittima bloccata ed urlante, col giovane suppliziato della foto dei cento pezzi. La posizione da cui Bataille non può invece schiodarsi è ribadita nella chiusa dell’abbozzo di lettera, dove la situazione dell’uomo della «negatività senza impiego» riceve una descrizione ultimativa:

17 18 19

Testo in Bataille 1989, p.163. Sul rapporto tra Bataille e Kojève cfr. Surya 1992, pp.229-233. Agamben 2003, pp.12-15.

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Egli è di fronte alla propria negatività come davanti a un muro. Qualsiasi disagio ne provi, egli sa che niente ormai potrebbe essere escluso, poiché la negatività non ha più via d’uscita20.

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La metafora estremamente reale del muro chiude in tutti i sensi: capiamo che il muro della «negatività» che «non ha più via d’uscita» è il muro della prigione di Bataille, del suo fallimento, della sua fucilazione (un’eventualità tutt’altro che remota, allo spirare del 1937). Eppure, questo autentico cul-de-sac racchiude una vita imprevista, dischiude possibilità più complesse. Qualche anno dopo, il muro di questa negatività irrimediabile ritorna nella frase d’esordio della premessa di Teoria della religione: Il fondamento di un pensiero è il pensiero di un altro, il pensiero è il mattone cementato in un muro. Sarebbe solo un simulacro di pensiero se l’essere che pensa, ripiegandosi su di sé, vedesse il mattone libero e non quanto gli è costata quest’apparenza di libertà; l’essere che pensa non vedrebbe i terreni abbandonati e i cumuli di detriti presso i quali per vanità ombrosa si rifugia con il suo mattone21.

Il muro rivela adesso di essere una “catena”, di cui individuiamo la storia e il possibile movimento solo se ne abbracciamo l’immobilità nel suo insieme. Bataille sta descrivendo lucidamente la sua situazione di uomo e di intellettuale, che è anche quella di chiunque voglia andare controcorrente per attuare un vero pensiero nella situazione confusa e insieme ambiguamente feconda della contemporaneità: la facile tentazione sarebbe quella di aggrapparsi al singolo «mattone», ma in tal modo si perderebbe lo strano guadagno conoscitivo che deriva dal non perdere mai di vista il muro grigio e in rovina da cui si è preso il mattone, l’umiltà che deriva dal riconoscere i detriti che hanno reso possibile l’operazione. Questo ripiegamento su di sé, questa «vanità ombrosa», non sono il rischio che corre Girard con la sua chiusura teorica? L’ultimo capoverso della breve quanto illuminante premessa alla Teoria del religioso esprime questo coincidere di impresa conoscitiva e esperienza vittimaria: Questa impotenza definisce un culmine della possibilità, o almeno la coscienza dell’impossibilità apre la coscienza a tutto ciò che le è possibile riflettere. Nel luogo stesso di raccolta, in cui infierisce la violenza, al limite di ciò

20 21

Testo in Bataille 1989, p.165. Bataille 2002, p.13.

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che sfugge alla coesione, chi riflette nella coesione capisce che ormai non esiste più un posto per lui22.

È questa abnegazione nell’accettare il proprio destino, e il destino di tutti, che consente perlomeno di accennare a un riscatto, a quella che Bataille chiama “comunicazione”, la comunanza che egli sente con la vittima del supplizio dei cento pezzi, ma anche la sola possibile base dell’“amicizia”, ossia di una condizione non più solipsistica, che instaura una condivisione precisamente sottraendone le false ragioni, la cattiva coscienza. Non è più inconcepibile allora intravedere anche una strada di ritorno, dopo quella di andata che ha visto il fallimento, la “morte” della filosofia, un “ritorno” che ormai non ha più molto a che vedere con la prigionia dell’Eterno Ritorno, che non del tutto a torto Girard denuncia in Nietzsche e Heidegger. Arriviamo così al passaggio essenziale per “decidere” se è possibile o no un recupero della categorialità filosofica che ne sblocchi l’opacità autoreferenziale. Se recuperiamo l’affermazione su «ciò che è» fatta a proposito della foto del supplizio cinese, siamo in grado di cogliere la pregnanza di quanto Bataille afferma nei frammenti di una delle sue tante opere rimaste incompiute, Il limite dell’utile: Occorre tralasciare ogni spiegazione sussidiaria che riduca il perché delle cose a contingenze. Sulla questione del sacrificio, è necessario dire che è la questione ultima. Reciprocamente, è chiaro che ogni proposizione che voglia rispondere alla questione ultima deve nel contempo risolvere l’enigma del sacrificio. Un discorso sull’essere, una metafisica non hanno senso se ignorano i giochi che la vita fu obbligata a giocare con la morte23.

Il passo merita una chiosa attenta. Bataille supera per un attimo l’oscillazione teorica da cui resta condizionato nel saggio La teoria del religioso, e questo grazie anche alla forma frammentaria di questo libro lasciato inedito, che così si mantiene indenne da ogni pseudosistematicità alla Sartre. Le “spiegazioni sussidiarie” sono consegnate all’irrilevanza dal momento che riducono «il perché» da esse identificato «a contingenze», dal momento che si limitano al procedimento riduzionistico proprio della scienza di spiegare le contingenze con altre contingenze, i “fatti” con altri “fatti”. La teoria di Girard rientra in una qualche significativa misura in quest’ultimo caso, non tanto per gli asseriti proclami di scientificità riduttiva, quanto per l’ostinato rifiuto a rendersi conto della questione. Girard non tiene sufficientemente 22 23

Bataille 2002, p.13. Bataille 2000, p.135.

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presente che le modalità della spiegazione, allorché essa tocca ciò che è decisivo, non sono in sé secondarie, poiché il minimo errore nell’impostazione seguìta ha ripercussioni pesanti sull’intera impresa. Questa inavvertenza lo costringe a parlare dell’origine della cultura dal sacrificio e dalla vittima come se si trattasse in sostanza di un “fatto” a cui ridurre ogni altro “fatto”, con procedimento appunto non diverso da quello delle scienze empiriche. Ciò rimane vero anche se egli, col fiuto intuitivo che raramente lo abbandona del tutto, dichiara più volte che la vittima è un “fatto” del tutto particolare giacché osservarlo materialmente significa essere dalla parte dei persecutori e non rendersene pertanto conto, mentre nelle situazioni normali e tranquille, in cui i nostri strumenti razionali e osservativi sarebbero in grado di funzionare, non vi è alcunché da osservare, non essendovi alcuna crisi e di conseguenza nessuna vittima24. Il dilemma è reale ed è colto da Girard con acutezza, ma, in ossequio alla strategia allontanante che in segreto anima il suo pensiero, egli rifiuta di considerare che esista una terza possibilità spendibile anche sotto il profilo conoscitivo, quella dell’osservatore che accetta di prendere il posto della vittima non perché sta per essere direttamente linciato, ma perché si identifica con la vittima in procinto di venir linciata. Precisamente il caso di Bataille, che vuole tenere gli occhi aperti sul “muro” (della sua personale catastrofe, della sua possibile fucilazione, ma anche della sua comunicazione con gli altri, con i fucilati). Una posizione così singolare azzera ogni punto di vista filosoficamente privilegiato, e quindi azzera ogni iattanza filosofica e concettuale, ma proprio così, passando per la via stretta dell’annientamento (dell’accettazione dell’annientamento, e qui la mente corre a quel grande pensatore che è stato Leopardi, come dirò fra un istante), proprio con questo sacrificium intellectus inopinatamente raggiunge un nuovo intellectus sacrificii, ossia un’inedita capacità di intus legere l’indicibile del sacrificio. L’affermazione centrale, qualificata da Bataille come necessaria, è che il sacrificio è «la questione ultima», e questo non per l’accidentalità contingente secondo cui un primate preumano sarebbe ricorso per salvarsi al sacrificio. Ciò è naturalmente importante, importantissimo, ma ci lascia ancora alla periferia della vera questione, che è l’attuarsi nel sacrificio (l’“eventuarsi” per dirla alla Heidegger) di una struttura generatrice da cui deriva ogni possibile significato, ivi incluso quello di noi che stiamo indagando su questa struttura, di noi che la stiamo recuperando a ritroso lungo la costituzione stratificata ma pur sempre riconoscibile di un cammino culturale immenso che ci divide e nel contempo ci unisce a codesta struttura 24

Girard 1983, p.53.

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originaria. La constatazione da fare è che Bataille non si limita a toccare questioni filosofiche, ma sta facendo grande filosofia, sta semplicemente additando qual è la strada che dovrà percorrere la filosofia del futuro se non vorrà venir meno alla sete conoscitiva che ne ha permesso la nascita, e che la condannerebbe all’inedia e all’estinzione se questa sete, come oggi avviene, venisse sottaciuta, nascosta, repressa e soppressa. Ma il destino stesso della conoscenza repressa e soppressa, consegnato alla sua evidenza storica ed esperienziale, ci riproporrebbe la verità annientante e risorgente che si nasconde nel filosofico e gli dà una disperata ragion d’essere. Si noti, Bataille non scrive che il «discorso sull’essere» e la «metafisica» non hanno alcun valore se non negativo, come fanno Lévinas e nei suoi modi teologico-scientistici Girard. La precisione del testo batailliano è rimarchevole: egli afferma che l’ontologia e la metafisica non hanno senso solo se ignorano il sacrificio, illudendosi di poterne prescindere. Pertanto se non l’ignorano, ovvero se accettano quel non di cui il sacrificio consiste, esse possono ritrovare il loro senso, rilanciare un loro nuovo potere conoscitivo e storico, farsi strumento di una consapevolezza che ci consenta di ripensare radicalmente a noi stessi come esseri storici e culturali. Bataille non effettua la “via del ritorno”, ma la anticipa nella propria esperienza rivivendo e sostanzialmente accettando il passaggio irreversibile del sacrificio, che però in Cristo assume la realtà di un Ritorno che non ha più nulla a che fare con l’Eterno Ritorno. Precisamente a tale “ritorno” è dedicato il mio lavoro, che a questo punto non ho esitazione a qualificare apertamente come filosofico. Da qui si capisce quanto sia rilevante il contributo dato da Girard e quanto esso abbia aiutato a capire qual è la vera questione, l’imprescindibile; ma da qui anche si capisce in quale misura il suo tentativo di sintesi sia assorbito e impacciato da altre questioni, rimanga umorale, affrettato, insufficiente. Ciò che dobbiamo fare, a differenza da quel che pretenderebbe certa retorica girardiana o “girardista”, è recuperare il senso stesso di una tradizione di ricerca e pensiero che esiste (ne abbiamo visto un anello importante, Bataille) e che arriva fino a noi, interrogandoci e sfidando il nostro desiderio di conoscenza, di verità. Questa stessa tradizione è il “muro” da cui non dobbiamo staccare lo sguardo.

4. Il nulla di Leopardi e la possibile resurrezione della filosofia Per chiudere, mi limiterò a un rapido cenno sui risultati a cui sono pervenuto occupandomi in particolare dell’origine e della storia del pensiero umano a partire dalla dimensione fondativa del sacrificio. La mia esperien-

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za è stata di andare oltre Girard proprio ripercorrendone sistematicamente il pensiero e rifiutandone l’assetto riduzionistico in un nuovo paradigma, da me denominato estatico-oggettuale, il cui scopo è riconoscere nelle culture e nei fenomeni della mediazione e del desiderio, strettamente correlati ma non coincidenti, gli aspetti costruttivi delle esperienze sacrificali e il loro orientamento verso la scoperta e definizione della realtà come oggetto. Non è questa la sede per esporre i risultati della mia riflessione teorica, adesso utile più che altro a testimoniare come una riflessione filosofica sul sacrificio sia possibile, sia anzi solamente ai suoi inizi. L’aspetto su cui vorrei richiamare l’attenzione è che questa mia riflessione è stata almeno in parte preparata e coadiuvata dalla complementarità e dal contrasto tra la rigidità di Girard, rimasto attaccato al proprio “mattone”, e il pensiero esperienziale di Bataille, capace di guardare all’intransitività del proprio “muro” indicando un oltre che egli peraltro non intende sondare. Grazie a Girard capiamo, in termini razionali, l’inaggirabilità del sacrificio, e grazie a Bataille capiamo che il sacrificio è la manifestazione concreta di una struttura irreversibile e non compensabile di annientamento, dalla quale nessuna teoria potrà salvaguardarci. In questo dislivello infinito tra riflessione e annientamento risiede l’aspetto rivelatore dell’attuale crisi del pensiero e della cultura. L’autentica filosofia del nostro tempo è quella che accetta di vedere il muro del vicolo cieco nel quale è finita e di comprendere che proprio questo muro è rivelatore, è il germe di un nuovo modo di disporre i mattoni. L’annientamento del sacrificio è un punto di non ritorno, e insieme il silenzioso proferimento dell’unico possibile inizio. Per illustrare con delle ultime considerazioni la mia proposta di ciò che può essere oggi la filosofia, parto da un’affermazione lapidaria compiuta da Leopardi al termine del suo percorso di scrittore e di pensatore. È contenuta nel dialogo che chiude le Operette morali, il Dialogo di Tristano e di un amico del 1832: Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l’una di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel popolo…25.

Leopardi si sta riferendo alla sua idea di vera filosofia, quella che riconosce apertamente il nulla su cui la vita si libra come un sogno meraviglioso ed acerbo per poi sprofondarvi per sempre. Sembrerebbe l’annientamento

25

Leopardi 1983, vol. I, p.181.

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anche di ogni operazione conoscitiva e categoriale, ma non è così, e non tanto perché Leopardi resti attaccato a un materialismo di matrice illuministica. Severino ha dimostrato come il pensiero leopardiano sia il momento più alto del nichilismo occidentale prima di Nietzsche, e si può essere senz’altro d’accordo con lui. La cultura italiana si è rifiutata di riconoscerlo per il ruolo a cui si è voluta ridurre di cultura subalterna a quelle ritenute di volta in volta vincenti (ultima oggi quella americana), imitandone in questo modo il disprezzo o la semplice ignoranza mostrati verso il grande lascito del nostro passato (lasciamo stare il presente). Tuttavia, Severino ha torto nel voler ricondurre Leopardi alla massima affermazione di ciò che egli intende per nichilismo, ossia l’oblio dell’Essere in cui si è svolta la storia dell’Occidente. La semplificazione severiniana è grandiosa e condotta con pertinace coerenza, ma non riesce ad afferrare che Leopardi non si riferisce affatto al nulla astratto, categoriale, quanto al nulla concreto che attende ogni essere umano per annientarlo, e da cui è nata, per negarlo, la stessa categoria di Essere. Nel nulla leopardiano possiamo pertanto riconoscere come implicito ciò che il pensiero contemporaneo è andato indagando sulla violenza e il sacrificio. Siamo così in condizione di capire che il pensiero di Leopardi anticipa quello di Bataille, pur concentrandone ancora il radicalismo in formule più concettuali, oltre che nella bellezza inimitabile dei suoi versi. Il triplice nulla di Leopardi (non saper nulla – non essere nulla – non aver nulla a sperare) non è un semplice nulla annientante (Bataille a questo proposito cerca di distinguere “nulla” e “niente”, ma il distinguo è poco essenziale), o meglio è sì nulla annientante, solo che dall’esperienza e dall’accettazione del suo annientamento nasce qualcosa che è più del mero nulla, qualcosa che non risulta compiutamente rappresentabile nelle categorie del pensiero filosofico, religioso o ideologico che cerca di tenersi al riparo del nulla mediante qualche illusione non dell’immaginazione ma dell’intelletto, come direbbe Leopardi. Da questa esperienza di accettazione del nulla emerge l’amore solidale della Ginestra, la nuova condizione esistenziale e conoscitiva che, rappresentandosi il suo annientamento, addolcisce e consola il deserto dell’esistenza grazie al suo profumo, al pari degli umili fiori che ingentiliscono i pendii del vulcano sterminatore. Questo amoreconoscenza che sorge dalla lucida accettazione dell’annientamento e del sacrificio si dona (come dispendio generatore, non come gesto moralistico o sentimentale) agli altri senza (appunto) alcuna precondizione categoriale, e quindi senza alcuna “speranza”, e proprio in tal modo guadagna insperabilmente il suo premio. Ma non è questa l’esperienza, centrale nel cristianesimo, della morte e della resurrezione di Cristo? Il nucleo centrale del pensiero di Girard ritorna, ma liberato dalle sue esigenze di chiusura, con-

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segnato a un’apertura che ne confuta e insieme ne realizza i ripiegamenti. Nulla di astrattamente teologico (quanto dico per la filosofia dovrebbe valere anche per la teologia). I cattivi teologi vorrebbero che la morte di Cristo fosse una sorta di rappresentazione, di “morte per finta”, subito seguita dall’automatismo metafisico della resurrezione: sono le rappresentazioni illusorie di quella che Heidegger chiama, con giustificato disprezzo, “ontoteologia”. Leopardi, come Heidegger e Bataille, e come a suo modo Girard, rifiuta qualunque “onto-teologia”, ma in questa maniera è il movimento più profondo della rivelazione cristiana che impensabilmente si rimette in moto. Esperienza, ripeto, ma anche e non accessoriamente conoscenza, pensiero. Dunque, impensatamente, filosofia. Quello che Leopardi ancora non sapeva, che Bataille esperimenta su di sé e nella cultura del suo tempo, che Girard afferma nei suoi modi ancora limitativi e polemici, è che l’intera cultura umana si fonda sulla forza annientante e occultante del sacrificio. Questo è un esito ultimo per il pensiero, che in un modo o nell’altro lo spinge, quasi lo costringe, a concepire il “non”, il “nulla” da cui si è originato; ma questa non è la fine del pensiero tradizionale come Girard crede, infliggendo a noi in qualche modo codesto nulla, è piuttosto l’inizio di un nuovo recupero della tradizione che ne costituiva il movimento, e che non abbiamo il diritto di interrompere per l’ostinata volontà di tenere a oltranza il nostro “mattone”. Il più grande pensiero moderno ci porta fin sulle soglie dell’annientamento e variamente vi risponde, evitandolo all’ultimo momento, o accettando di gettarvisi a capofitto, in modi distruttivi o insperatamente rigenerativi. Ed è quest’ultima la strada da seguire, la strada che apparentemente non porta da nessuna parte, ma che proprio in tal modo espone l’umano a mettere alla prova fino in fondo se stesso, estraendo dalla crescente coscienza della sua condizionatezza storica ed esistenziale la capacità di pensarsi come paradosso del significato in ciò che lo distrugge, come emergere della coscienza dal nulla-di-coscienza, un nulla che però ha reso questa emersione possibile. Credo che solo in questa accettazione integrale dello storico e dell’umano, in quella che io chiamo storicità radicale, stia il germe di ogni possibile filosofia del futuro, di ogni possibile futuro per la filosofia.

Riferimenti bibliografici Agamben 2003: Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Bataille 1989: Georges Bataille, Il colpevole / L’Alleluia, tr. it. di A. Biancofore, Dedalo, Bari 1989.

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René Girard e la filosofia

Bataille 2000: Georges Bataille, Il limite dell’utile, a cura di F.C. Papparo, Adelphi, Milano 2000. Bataille 2002: Georges Bataille, Teoria della religione, a cura di T. Klossowski, tr. it. di R. Piccoli, SE, Milano 2002. Fornari 2006a: Giuseppe Fornari, Da Dioniso a Cristo. Conoscenza e sacrificio nel mondo greco e nella civiltà occidentale, Marietti, Genova-Milano 2006 (I ed. – Fra Dioniso e Cristo. La sapienza sacrificale greca e la civiltà occidentale, Pitagora, Bologna 2001). Fornari 2006b: Giuseppe Fornari, Filosofia di passione. Vittima e storicità radicale, Transeuropa, Ancona-Massa 2006. Morigi 2009: Silvio Morigi, Fede cristiana e “fedeltà alla terra”. Terra e sottosuolo nel primo Girard, in Maria Stella Barberi e Silvio Morigi (a cura di), Religioni laicità secolarizzazione. Il cristianesimo come “fine del sacro” in René Girard, Transeuropa, Ancona-Massa 2009. Girard 1983: René Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Ricerche con Jean-Michel Oughourlian e Guy Lefort, tr. it. di R. Damiani, Adelphi, Milano 1983. Girard 1991: René Girard, Des choses cachées depuis la fondation du monde. Recherches avec Jean-Michel Oughourlian et Guy Lefort, Grasset, Paris 1991 (I ed. 1978). Girard 2007: René Girard, Achever Clausewitz. Entretiens avec Benoît Chantre, Carnets Nord, Paris 2007. Girard 2008: René Girard, Portando Clausewitz all’estremo, a cura di G. Fornari, Adelphi, Milano 2008. Hamerton-Kelly 2007: Robert Hamerton-Kelly (a cura di), Politics & Apocalypse, Michigan State U.P., East Lansing 2007. Leopardi 1983: Giacomo Leopardi, Tutte le opere, a cura di Walter Binni, Sansoni, Firenze 1983, vol. I. Surya 1992: Michel Surya, Georges Bataille, la mort à l’œuvre, Gallimard, Paris 1992.

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SILVIO MORIGI

LA “DESERTICA GEOMETRIA DEI DOPPI” VIOLENTI. TOLLERANZA, DIFFERENZE, INDIFFERENZIAZIONE CONFLITTUALE

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La violenza dei non violenti che noi tutti crediamo di essere… (Girard 2001a)

1. La tolleranza e l’intollerabile: descrizione e prescrizione Il tema della “tolleranza”, nella sua valenza prettamente etica, sembra profilarsi particolarmente idoneo a porre in discussione la tesi, sia pur diversamente declinata nel pensiero contemporaneo, di una reciproca autonomia tra linguaggio prescrittivo e linguaggio descrittivo. Una tesi che si afferma soprattutto, com’è noto, entro la tradizione empiristica fino alla filosofia analitica del linguaggio: a partire dalla cosiddetta “legge di Hume” che fissa l’autonomia dell’ought rispetto all’is. Ma è parimenti dubbio che una approfondita analisi circa il tema della “tolleranza” possa privilegiare il più recente naturalismo etico (ad esempio in Philippa Foot: connesso per 1 molti versi al «tomismo analitico» ) per cui la dimensione prescrittiva finisce per essere sostanzialmente subordinata alla definizione descrittiva. Come cercherò di evidenziare, il termine “tolleranza” sembra acquisire senso, e capacità di una effettiva incidenza sui rapporti umani, soltanto se si supera, circa tale termine, la pretesa sia di un rapporto di subordinazione che di netta autonomia del prescrittivo rispetto al descrittivo, riconoscendo un inevitabile, inscindibile intreccio tra i suddetti due ambiti linguistici, si potrebbe anche dire di un “circolo ermeneutico” tra di essi. Una modalità di analisi, questa, la cui fecondità già Edward Caird (esponente del neoidealismo britannico tra Ottocento e Novecento, e quindi ben al di qua delle successive, odierne ermeneutiche di ascendenza heideggeriana) così sottolineava: «non c’è rischio in una argomentazione circolare se il cerchio

1

Cfr. Micheletti 2007, pp.56-57.

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René Girard e la filosofia

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è abbastanza ampio» . Anche Émile Durkheim, sia pur in termini diversi, sosteneva questa inestricabile reciprocità di prescrittivo e descrittivo, rifiutando ogni netto discrimine tra «ideali di valore» e «concetti» cognitivi, considerata la loro comune natura di «ideali collettivi» strutturanti un linguaggio nella sua matrice essenzialmente sociale. In Sociologie et philosophie del 1924 Durkheim conclude che anche se «la facoltà di giudizio funziona diversamente a seconda delle circostanze» − nel descrivere concettuale «l’ideale serve da simbolo alla cosa, in modo da renderla assimilabile al pensiero», nel prescrivere etico «la cosa serve da simbolo all’ideale e lo rende rappresentabile ai diversi spiriti» − «tali differenze non alterano 3 però l’unità fondamentale della funzione» giudicativa. A conferma di questi rilievi, si potrebbe intanto osservare che un prescrivere eticamente la tolleranza senza una descrizione di ciò che è intollerabile resta astratto, succube di un irenismo buonistico da “anime belle” che sfugge alle responsabilità spesso drammatiche imposte dalle tragedie della storia. E qui l’intollerabile assume almeno un duplice senso. Esso può concernere i limiti oltre i quali l’esercizio della tolleranza verrebbe a tradire proprio l’istanza etica che la motiva. Ma questo primo senso del termine conduce a un suo senso ulteriore e ancor più radicale, che chiama inequivocabilmente in causa un giudizio di tipo descrittivo: come definire nei rapporti umani quell’intollerabile che la tolleranza si propone di contrastare? Eppure è dubbio che ciò segni una priorità del descrittivo sul prescrittivo, perché è facile ribattere che una qualsiasi definizione dell’intollerabile difficilmente può sfuggire a criteri di tipo valutativo. Per di più, è proprio questo intrecciarsi delle due funzioni giudicative che sembra atta ad alimentare quella che potrebbe definirsi una “meta-etica” della tolleranza: ove però con questo termine sarebbe da intendersi non già − com’è nell’odierno lessico filosofico − una eticamente asettica analisi dello status del discorso morale distinta da un’etica normativa, bensì una radicale riflessione di secondo grado, da parte della tolleranza stessa, circa l’effettiva consistenza etica che per sé essa rivendica, il che potrebbe condurre ad inattesi esiti auto-demistificativi sulle tracce dei «maestri del sospetto» della modernità. È in questa chiave che H. Marcuse opera una critica della «tolleranza repressiva», dissacrando, sulle tracce di Marx ma ben oltre 4 Marx, un’idea di tolleranza di ascendenza voltairiano-illuministica . È in questa stessa chiave che A. de Tocqueville coglieva nel livellamento egua2 3 4

Fletcher 1963, p.9. Durkheim 1963, p.220. Cfr. Wolff, Moore, Marcuse 1968, pp.79-105.

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litario delle moderne democrazie borghesi, sotto la maschera di una reciproca tolleranza, i germi di nuove forme di violenza (in De la démocratie en Amérique egli scriveva: «hanno distrutto gli irritanti privilegi di alcuni dei loro simili», ma ora «incontrano la concorrenza di tutti». Il «limite», 5 «gli elementi di costrizione» hanno «cambiato forma anziché posto» ). È in termini analoghi (entro un ambito tematico certo diverso da quello della tolleranza, eppure per certi aspetti fortemente affine) che in L’Anti-Oedipe G. Deleuze e F. Guattari demistificano come canalizzazione repressiva ed autoritaria del desiderio (da essi inteso come «produzione» e «macchina desiderante» analogo al lavoro, ma rimosso da un assetto produttivo capitalistico che ne teme il carattere rivoluzionario e sovversivo) e celatamente funzionale ad un tale assetto sociale, la pretesa portata liberatrice, antirepressiva della psicoanalisi freudiana. Ed è sempre in termini analoghi che un’etica quale quella cristiana, che pur sembra sublimare l’imperativo della tolleranza ulteriormente in quell’agàpe che privilegia il nemico, e il piccolo, il debole, il povero, viene da Nietzsche demistificata in Zur Genealogie der Moral come «vendetta lungimirante, sotterranea», originariamente nutrita del celato odio e risentimento di una «morale degli schiavi» contro gli antichi padroni. Sempre Nietzsche, nella stessa opera, parlava di un’«auto-soppressione della morale»6. A qualcosa del genere potrebbe condurre una “meta-etica” della tolleranza intesa nel senso suddetto: vale a dire, una radicale, spietata auto-analisi critica del principio della tolleranza non è da escludere possa inaspettatamente produrre − come si è già detto − esiti auto-decostruttivi delle modalità in cui esso viene abitualmente praticato. Anche perché il termine “tolleranza”, la ragionevole pacatezza umanistica che sembra risuonare in esso, evocano una illuministicamente immutabile natura umana da tutelare e difendere in certi suoi diritti essenziali: circa cui si potrebbe sospettare una forzata costrizione di ciò che realmente è l’umano entro le maglie di un preciso sistema concettuale nella sua relatività storica. Per di più l’intollerabile umano sembra profilarsi come un qualcosa che va sempre riprecisato in termini storici, socio-politici: per cui, appunto e di nuovo, descrizione e prescrizione si delineano come reciprocamente inscindibili. Non è detto che tali nodi problematici possano trovare una soluzione identificando descrittivamente l’intollerabile con la violenza. Non solo perché sulla scorta di molteplici voci nella cultura occidentale (da Eraclito per cui Pólemos è «padre e re di ogni cosa», a Hegel e Marx, a Nietzsche, 5 6

Tocqueville 1999, p.123. Nietzsche 1997, pp.69, 213.

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René Girard e la filosofia

al Bataille teorico della dépense, al K. Lorenz di Das sogenannte Böse) si potrebbe parlare − senza per questo necessariamente riproporre darwinismi sociali aggiornati o similari filosofie della vita e della storia − di una vittimizzazione (e quindi di una valutazione) “terroristica”, insita nell’uso stesso del termine “violenza”, di una dimensione che in realtà resta imprescindibile a livello antropologico ed ancor prima biologico (un personalista come E. Mounier, ad esempio, considera l’affronter come costitutivo dell’autenticità integrale della persona). Ma soprattutto perché, anche mettendo da parte il problema delle precomprensioni valutative circa l’uso del termine “violenza”, una indagine davvero radicale su questo tema è possibile pervenga ad esiti tali da destabilizzare e porre in crisi un esercizio della tolleranza che assuma acriticamente il concetto di quella violenza cui essa intende opporsi. Solo alcuni interrogativi al riguardo. Davvero la violenza è l’esito di differenze che divengono conflittuali in quanto non si tollerano reciprocamente? Davvero essere contro la violenza, essere “contro” il “contro” della violenza, rende esenti da tale “contro”? («come sfuggire al 7 demonio fissandolo negli occhi?» scrive D. de Rougemont in L’Amour et l’Occident). Nel panorama culturale contemporaneo è la «teoria mimetica» di René Girard che si profila come uno dei contributi più rilevanti al tema della violenza umana. Una riflessione sulla tolleranza alla luce di essa si mostra particolarmente idonea a discutere tali nodi problematici. Resta da chiedersi, se proprio si vuole radicalizzare un’inquietudine problematica circa il tema della tolleranza, in che misura una siffatta problematizzazione possa contribuire a un suo esercizio effettivo nelle opere e nei giorni della quotidianità storica. Si sarebbe infatti tentati di rilevare, circa un tale sforzo d’indagine, ciò che F. H. Bradley scriveva circa la metafisica: definendola ironicamente come una ricerca di «cattive ragioni » (bad reasons) a con8 ferma di qualcosa cui «si crede per istinto» . Forse, infatti, l’esercizio della tolleranza dà il meglio di sé quando scaturisce irresistibilmente da un condiviso senso comune; quando la pacatezza della sua voce (simile alle «chiare istruzioni di quella giustizia, all’ombra / del cui amoroso e 9 dispotico potere suscitatore / ogni ragione umana opera e gioisce» ), riesce a farsi percepire nei tumulti del socio-politico. Eppure, non solo ogni preteso senso comune ha precise radici storiche e socio-antropologiche. Soprattutto un siffatto senso comune è quanto mai fragile e pervertibile, 7 8 9

Rougemont 1993, p.355. Bradley 1946, p.xii. Auden 1961, p.145.

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sempre incline ad alienarsi nelle rappresentazioni collettive che spingono ossessivamente masse umane a stringere il cerchio intorno a capri espiatori. Per mantenersi entro la luce delle radure della tolleranza, forse non è inutile esplorarne i confini estremi, ove tale luce sfuma nell’ambiguità di una penombra che tende a confondersi con la tenebra, perché le propaggini estreme delle giungle dell’intolleranza e della violenza vi proiettano minacciosamente le loro ombre.

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2. «Più il desiderio aspira alla differenza, più esso genera l’identità». Violenza e indifferenziazione È nota l’icastica definizione che Roberto Calasso ha dato di René Girard: «l’ultimo dei porcospini», che «sa una sola e grande cosa», da lui 10 identificata col «meccanismo vittimario» . Ma nella «teoria mimetica» girardiana un nucleo tematico parimenti originale e rilevante − che emerge già negli anni Sessanta, quando la nozione di «meccanismo vittimario» non era ancora stata elaborata da Girard − è anche quello del «desiderio 11 triangolare» . Eppure, al di là del triangolo e del cerchio emblematici di questi due temi, non è indebito, scavando ancor più a fondo nel paradigma girardiano, individuare «una sola e grande cosa» nel senso di Calasso: quale ulteriore, più profondo nucleo tematico che coniuga in unità teorica i suddetti due motivi centrali in Girard. Esso potrebbe essere individuato nella tesi, a prima vista paradossale, di un nesso di intima implicanza tra pólemos e mímesis. In Origine della cultura e fine della storia Girard parla di un singolare prevalente silenzio, nella cultura contemporanea, dell’indagine sull’imitazione. Per di più, egli rileva che tra Ottocento e Novecento negli scarsi contributi più rilevanti al riguardo (dal G. Tarde di Les lois de l’imitation all’É. Durkheim di Le suicide fino al R. Dawkins di The selfish gene) «la componente conflittuale della mimesi è totalmente assente», e che solo di 12 recente essa ha richiamato l’attenzione in etologia e socio-biologia . In Des choses cachées depuis la fondation du monde ciò veniva fatto risalire anche al fatto che a partire da Platone, e da Aristotele che ne segue le 10 11

12

Calasso 1985, p.200. Nel «desiderio triangolare» un oggetto (o una persona, ad esempio nei rapporti amorosi) viene desiderato non in sé, ma solo perché il soggetto che lo desidera («discepolo») imita un «modello» (o «mediatore» del desiderio) che a sua volta desidera o possiede l’oggetto; cfr. Girard 1965. Girard 2003, p.104.

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René Girard e la filosofia

«orme», la riflessione sulla mímesis si è concentrata esclusivamente sulle «rappresentazioni» ed è così rimasta «una problematica mutilata, amputata di una dimensione essenziale»: «la dimensione acquisitiva» dell’imitazio13 ne «che è anche la dimensione conflittuale» . La «teoria mimetica» girardiana cogliendo un nesso essenziale tra conflittualità ed imitazione, dato che imitazione implica indifferenziazione, si pone anche in antitesi rispetto a tutta una linea di pensiero nella cultura occidentale (da Eraclito a Hegel e Marx) per cui sono le differenze (razziali, socio-politiche, culturali) a generare la conflittualità; una tesi questa accreditata anche nell’odierna antropologia culturale (scrive ad esempio V. Turner in The ritual process: «la differenziazione strutturale, sia verticale che orizzontale, è il fondamento dei conflitti, delle fazioni, come pure delle lotte nei rapporti diadici tra i 14 detentori di posizioni e i rivali che vogliono occuparle» ). Ma che intende Girard ponendo questo intimo rapporto tra pólemos e mímesis? Si può rispondere che per lui sussiste un rapporto costitutivo, di reciproca implicanza, tra violenza e indifferenziazione mimetica: nel senso che come la violenza genera indifferenziazione, così l’indifferenziazione genera violenza. La prima parte di questo assioma può essere chiarita muovendo dalla distinzione che Girard pone tra «mimesi di appropriazione» e «mimesi di rivalità», e dalla tendenza irresistibile, che egli rileva, della prima a risolversi nella seconda. È ovvio l’esito conflittuale di una mano che ne imita un’altra nel protendersi ad appropriarsi del medesimo oggetto. Dapprima l’interesse per l’oggetto, anche se mimeticamente suscitato, resta in qualche grado reale, e in qualche misura la lotta resta polarizzata dalla fisicità concreta di esso. Ma con l’inasprirsi del conflitto ben presto si varca quella che Girard chiama «soglia metafisica» che egli qualifica anche come 15 «soglia dell’irrealtà», «soglia dello psicopatologico» . È il passaggio alla «mimesi di rivalità», ove il desiderio si sposta dall’oggetto e si fissa sulla supremazia, il «prestigio» che determina il possesso dell’oggetto (in altri termini: se dapprima nel “io ho questo, e tu no” quale télos conflittuale, il desiderio restava ancora in qualche misura incentrato sul “questo”, ora si incentra sempre più esclusivamente sul “io ho… e tu no”). Ma la supremazia, il prestigio si identificano ormai totalmente con quella che in La 13 14 15

Girard 1982, p.23. Turner 1972, p.113. Girard 1982, pp.22 e sgg., 366. Giocando sul senso del metá greco, che in verbi composti come methíemi, metaphéro denota “rivolgimento”, “mutazione” “abbandono”, qui, come già in altri suoi testi, il termine métaphysique per Girard denota uno sradicamento dalla concretezza della phýsis, ovvero del reale.

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violence et le sacré Girard chiama «violenza trionfante», per cui il desiderio di entrambi i contendenti ormai «non ha più altro oggetto all’infuori della violenza» appropriativa. Al «parossismo» del conflitto «la violenza è al tempo stesso lo strumento, l’oggetto e il soggetto universale di tutti i desideri», il desiderio è primariamente proteso a «dominare» per «incarnare» in sé «quella violenza irresistibile»; «non è più il valore intrinseco dell’oggetto a provocare il conflitto», «è la violenza stessa che valorizza gli oggetti, che inventa pretesti per meglio scatenarsi. È lei ormai a dirigere il 16 gioco» . Eppure i contendenti, anche nel loro rivendicare differenze insanabili che motivano il conflitto, sempre più misconoscono questo carattere reciprocamente mimetico, indifferenziante della loro lotta che li riduce a meri «doppi violenti», «fratelli nemici». Sempre in La violence et le sacré, Girard precisa che la violenza, più che derivare da una mímesis misconosciuta, è essa stessa mímesis: misconoscente, proprio in quanto è violenza, la propria natura mimetica. Egli si richiama qui alla nozione di «doppio vincolo» (double bind) centrale nella scuola psicologica di Palo Alto. Per Gregory Bateson − che con Paul Watzlavick interpreta molteplici sindromi psicopatologiche alla luce di una teoria della comunicazione interindividuale − la genesi di stati psicotici come la schizofrenia sarebbe assecondata da un rapporto di double bind che viene ad istaurarsi tra bambino e genitori, strutturato da due messaggi reciprocamente contraddittori (“imitami” e “non imitarmi, non sarai mai in grado di imitarmi”) che spesso il genitore, in forme per lo più sfumate ed implicite, rivolge al bambino. In sostanza è come se il «modello», proponendosi in una «pienezza d’essere» (plénitude d’être) assoluta ed esclusiva, al contempo rivendicasse come assolutamente doverosa, e vietasse, rigettasse come assolutamente impossibile, l’imitazione di sé: un paradosso che potrebbe essere accostato a quello − su cui, come è noto, si arenò l’assiomatizzazione logica della matematica di G. Frege − del mentitore che dice di mentire, per cui è indecidibile se egli dica il vero o il falso. In termini analoghi il «discepolo», sia che decida di imitarlo o di non imitarlo, comunque disattenderebbe il proprio «modello». Girard ritiene che tale lacerante blocco comunicativo-relazionale non sia solo alla radice di sindromi psichiatriche, bensì contrassegni in prevalenza le relazioni umane nel loro esito conflittuale. E in effetti, nel «discepolo», è una determinazione aggressiva che lo svincola dalla paralisi angosciosa indotta dai due messaggi contraddittori. Infatti, per Girard, l’interdizione espulsiva e violenta da parte del «modello» insita nel secondo messaggio (“non imitarmi, non 16

Girard 1980, pp.200, 192, 200, 191.

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René Girard e la filosofia

sarai mai in grado di imitarmi”) finisce per assurgere, agli occhi del «discepolo», a cifra essenziale di quella superiore «pienezza d’essere» che gli viene additata nel primo messaggio (“imitami”). A questo punto «la violenza», la supremazia violenta ed espulsiva, «diviene il significante del desiderabile assoluto», cioè viene colta come l’emblema, la quintessenza stessa di quella «pienezza d’essere» che il «modello» rivendica in sé, che egli incarna agli occhi del «discepolo», e verso cui questi si protende. Proprio per questo «con sintesi ad un tempo logica e delirante» il «discepolo» si convince «che la violenza stessa è il segno più sicuro dell’essere che sempre lo elude». E proprio per questo la violenza di ritorno, con cui il «discepolo» finisce per aggredire il «modello», non è altro che una paradossale imitazione di questi: essa è «slancio» mimetico verso la sua «pienezza d’essere» che gli appare ormai superiore, esclusiva solo in quanto essa è violente17 mente escludente, interdicente, espulsiva da sé . Questa risposta violenta e mimetica del «discepolo», a sua volta, accentuerà l’istanza di supremazia del «modello» rafforzando in lui la violenza espulsiva che, a questo punto, diviene specularmente mimetica all’altra; per cui il loro rapporto si trasformerà in «doppia mediazione» all’insegna della «mimesi di rivalità» (o «imitazione negativa»). Questa può dunque anche essere descritta, nel lessico girardiano, come un «espellersi» reciprocamente mimetico da parte di entrambi i «doppi violenti», il che non è altro che reciproco desiderio di farsi «ostacolo» all’«ostacolo» espulsivo che ciascuno rappresenta per l’altro (scrive infatti Girard in Des choses cachées che «il modello attrae in quanto fa ostacolo, e fa ostacolo in quanto attrae», e già in Mensonge romantique, sottolineando il carattere «masochistico» della «mediazione interna», perché polarizzata dal «modello» in quanto «ostacolo», egli scri18 veva che in essa «è l’ostacolo a produrre l’imitazione» ). Questa dinamica del double bind per Girard vale a spiegare non solo la violenza «epidemica» dei conflitti manifesti e cruenti, ma anche quella 19 «endemica» che serpeggia nei rapporti sociali soprattutto in una società massificata e globalizzata come quella odierna: in cui il religioso, rimosso da una crescente secolarizzazione, riemerge in nevrosi idolatriche (già nell’esergo di Mensonge romantique Girard citava M. Scheler: «l’uomo ha Dio o un idolo»). La supremazia degli idoli mediatici, il fascino carismatico che asseconda l’imporsi di poteri socio-politici, ma anche (perché succube, sia pur impercettibilmente, di tali modelli) ogni presunzione di differenza 17 18 19

Ivi, pp.196-197. Girard 1982, pp.500-501; Girard 1965, p.155. Girard 1982, p.356.

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ostentata nella più anodina quotidianità, può infatti essere interpretata alla luce di quel che in Achever Clausewitz Girard chiamerà sacro «pervertito» 20 (souillé), «impazzito» (affolé) . Ovvio, in tali casi, il carattere prettamente mimetico dell’ammirata venerazione dei «discepoli» rivendicata dai «modelli». E la mímesis girardiana, intesa nella sua più intima essenza, non è 21 che «slancio» (élan) che promana dal senso in sé di un deficit d’essere, “eroticamente” proteso ad elevarsi dalla penía di un mé ón − come direbbe Platone − alla pienezza di un ón, nell’anelito ad una «fusione» con esso. Al fondo di ogni tipo di culto sacrale, dal religioso in senso proprio a quello secolarizzato che aureola ogni carisma idolatrico, ogni icona mediatica, fino al più banale messaggio, spot pubblicitario, Girard coglie una nevrosi mimetica strutturata dal double bind ove l’ “imitami” scaturisce da ciò che è colto come la «pienezza d’essere» di una entità “sacrale” (sia pur in termini diversi, già Sartre parlava dell’uomo come di un «Dio mancato»), cui però è essenziale, se davvero essa ha da essere tale, se davvero ha da persistere nella sua “sacralità” trascendente, un “non imitarmi” che interdice al contempo ogni possibilità di imitazione volta ad una «fusione» con essa, il che la propone sostanzialmente come «ostacolo affascinante». Nella «me22 diazione esterna» , che tutela la gerarchia «discepolo»/«modello» (ovvero tra l’entità sacra e colui che la venera apertamente), paradossalmente è proprio perché è riconosciuto come tale dal «discepolo» affascinato che l’ostacolo cessa di essere tale: ovvero l’ostacolo, pur essendo proprio ciò che suscita la venerazione affascinata, risulta in virtù di questa venerazione (consapevole di una «distanza spirituale» incolmabile tra sé e l’entità sacra) occultato nella sua effettiva natura di violenza, di supremazia espulsiva ed interdicente. È ciò che accade nell’isteria delle mode odierne polarizzate dagli idoli mediatici apertamente venerati. E lo stesso accade quando nelle culture umane le trascendenze “sacrali” (religiose in senso proprio, o improntate da un religioso laicizzato: politico, giudiziario, ideologico, culturale nel senso più ampio) risultano ordinatrici del sociale, in virtù di un rapporto di «mediazione esterna», ed in tal caso delle effettive 20 21 22

Girard 2007, p.334. Girard 1965, p.14. Nella «mediazione esterna» il fatto che il discepolo, venerando apertamente il modello e riconoscendolo dunque come tale, sia consapevole della propria mímesis, impedisce ogni esito conflittuale tra di essi. Il conflitto interviene invece nella «mediazione interna», per il fatto che il modello viene misconosciuto come tale, e viene vissuto solo come ostacolo ad un proprio presunto, antecedente e spontaneo, desiderio. In tal caso Girard parla di «imitazione negativa». (cfr. ivi, p.14 e passim).

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René Girard e la filosofia

differenze continuano a marcare la struttura sociale, proteggendola dalla violenza. Ma nell’odierna società massificata e globalizzata gli exempla, ovvero i modelli tipici della “mediazione esterna” (che in Achever Clausewitz Girard chiamerà «modelli razionali»23, hanno una vita effimera; ben presto essi si alienano divorati da quelli che nello stesso volume vengono chiamati i «modelli mimetici» della «mediazione interna». Qui un sacro 24 «pervertito», «disigillato» (descellé) dalla sua trascendenza, oscilla freneticamente tra dei «doppi violenti» e rivalitari come «violenza trionfante» di cui ognuno di essi vuole appropriarsi, e ove la venerazione per l’ostacolo si fa paradossalmente tanto più intensa e ossessiva quanto più esso diventa ostacolo da abbattere, contro-ostacolare, cioè quanto più esso è misconosciuto nella sua effettiva natura di modello sacrale che, pure, ognuno venera sotterraneamente e si sforza di incarnare in sé. E in tal caso il sociale collassa in una indifferenziazione sempre più marcata quanto più ognuno dei «doppi violenti» rivendica, proclama la propria differenza, anela ad un auto-differenziarsi mimetico di quello dell’altro: una differenza che non ha più altro volto (anche se dissimulato da maschere menzognere di tipo politico, etico, religioso), identità specifica che non sia quella della supremazia violenta. Oggi più che mai, quando «non sono i programmi a determinare l’opposizione, ma l’opposizione a determinare i programmi», vale l’assioma per cui «più il desiderio aspira alla differenza, più esso genera l’identità» indifferenziante tra gli individui: simile al “tracciato piatto” nella diagnostica medica, indice di una vita che ha cessato di pulsare, e questo perché − se ci si richiama ancora, con Girard, al «sacro pervertito» che è in gioco in questa dinamica − «un dio di cui ci si può appropriare è un 25 dio che distrugge» . Parlando di una «desertica geometria dei doppi» violenti, Girard sottolinea l’esito desertificante della violenza, ovvero il suo carattere prettamente nichilistico che prefigura la morte biologica cui essa conduce: perché l’indifferenziazione che essa genera annulla gli specifici volti, le identità personali dei contendenti; perché, riducendosi sempre più gli oggetti, le motivazioni per cui si crede di lottare a semplici pretesti atti a scatenare la violenza, questa sradica sempre più dalla concretezza del reale. La stessa «pienezza d’essere» della «violenza trionfante» cui si anela non riveste in sé alcuna qualità positiva, concreta: essa è prestigiosa («prestigio» da praestigiae, «fantasmi», nota Girard), esclusiva solo in quanto è violentemente escludente, cioè solo in quanto essa si erge come ostaco23 24 25

Girard 2007, pp.232 e sgg. Girard 1970a, p.280. Girard 1965, p.111; Girard 1993, p.216; Girard 2007, p.218.

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lo interdicente. Un paradosso nichilistico, questo, pari a quello di credere che l’Eden sia tale solo in virtù della spada fiammeggiante dell’angelo che lo interdice; pari al comportamento di un uomo (esemplifica Girard) che cercando un tesoro sepolto in un campo di pietre, decide che esso deve 26 nascondersi sotto la pietra più ardua da sollevare . Ma se la violenza genera indifferenziazione anche l’indifferenziazione genera violenza: «gli attuali conflitti si radicano nella indifferenziazione assai più che nelle differenze»27. Come si è detto, già il Tocqueville teorico della moderna democrazia borghese paventava nuove forme di violenza generate dal suo livellamento egualitario. Nell’ottica girardiana, questa seconda parte dell’assioma circa il nesso reciproco tra pólemos e mímesis sembra alludere al fatto che in un tessuto sociale indifferenziato, qualsiasi emergere di differenze, ogni auto-differenziarsi, tende istantaneamente ad essere recepito, anche se non intenzionalmente tale, come desiderio di supremazia, come un ergersi a sovrastare che eccita immediatamente un desiderio mimeticamente proteso a contro-sovrastare. Già il primo Girard negli anni Sessanta, rivendicando la rilevanza sociologica dell’opera di Proust, scriveva che «un D. Riesman e un V. Packard dimostrano che l’immensa middle class americana», «ancor più uniforme degli ambienti descritti da M. Proust, si scinde anch’essa in compartimenti astratti». «Moltiplica i tabù e le scomuniche tra unità perfettamente simili» (pari - ed è ciò che Proust mostra, per Girard, nella Recherche – ai salons Verdurin e Guermantes, che nonostante la loro apparentemente antitetica esaltazione da una parte dei valori borghesi e dall’altra di quelli nobiliari, in realtà risultano mimeticamente affascinati sotterraneamente l’uno dall’altro, e quimdi inestricabilmente avvinti in una «comunione dell’odio» ove «il disaccordo è un meraviglioso accordo negativo»). «Distinzioni insignificanti appaiono mostruose e producono effetti incalcolabili. L’altro domina sempre più l’esistenza dell’individuo, ma questo altro non è più, come nell’alienazione marxista, un oppressore di classe, è invece il vicino di casa, il compagno di scuola… L’altro diviene sempre più» mimeticamente «affascinante quanto più diventa simile all’io». Un processo di livellamento, dunque, generativo di conflittualità, che potrebbe assurgere a prefigurazione di quella odierna globalizzazione planetaria in cui parimenti, ma su scala ben più ampia, focolai di violenza esplodono irrefrenabilmente. E sempre negli anni Sessanta anche al di sotto di quella che poteva apparire come una differenza marcata tra capitalismo occidentale e comunismo orientale, 26 27

Girard 1970b, p.154; Girard 1982, p.365; Girard 1965, p.155. Girard 1998, p.155.

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Girard coglieva una sotterranea, sostanziale simmetria indifferenziante: «ovunque blocchi simmetrici si affrontano, Gog e Magog si imitano e si odiano appassionatamente. L’ideologia è solo un pretesto per opposizioni feroci e segretamente assonanti. L’internazionale del nazionalismo e il nazionalismo dell’internazionale si ricollegano e si intersecano l’un l’altra in una confusione inestricabile». Sempre in Mensonge romantique si parlava del paradosso per cui quanto più il sociale tende ad essere indifferenziato, 28 tanto più esso diventa «scismatico» . Verso la metà degli anni Novanta, in cui il termine “globalizzazione” era ormai sociologicamente accreditato, di fronte all’esplodere delle secessioni, dei particolarismi etnici, dei fondamentalismi religiosi (si era nel vivo della tragedia della Bosnia, e prossime erano le Twin Towers), Girard avanzò una tesi a prima vista paradossale: vale a dire che tali fenomeni dovevano interpretarsi non come un «rafforzamento» del senso di «appartenenza» a specifiche radici etniche, nazionali, religiose, bensì come un loro «indebolimento», un progressivo sradicamento estremo entro un mondo sempre più globalizzato. Egli scriveva: «il conflitto delle appartenenze può aggravarsi» proprio «a causa del loro indebolimento», «l’indebolimento delle appartenenze nel nostro mondo» (in Achever Clausewitz si parlerà di «porosità delle frontiere») si traduce in un «rafforzamento delle rivalità». E questo perché «la violenza si nutre 29 non della forza, ma della debolezza delle appartenenze» . V’è uno short di W. H. Auden che sembra singolarmente atto a esplicare ulteriormente questo apparente paradosso su cui punta l’indice Girard: Patriots? Little 30 boys obsessed by Bigness / Big Pricks, Big Money, Big Bangs (ove il “patriottismo” qui immediatamente in questione può ben assumere un senso ben più ampio, inglobando i particolarismi conclamati, i fondamentalismi, i nostrani “leghismi” secessionisti). In altri termini: è solo un culto idolatrico della Bigness come supremazia sull’altro, l’ossessione di assurgere a un dominio totalizzante sulla realtà, quasi si volesse rivendicare in sé l’assoluta originarietà fondativa di un Big Bang cosmologico (e l’odierno terrorismo suicidario rende ancor più calzante la metafora) che figura sempre più come il segreto kýdos degli odierni conflitti entro un mondo ridotto ad un «villaggio globale» sempre più indifferenziato. Le differenze proclamate, e imputate (“grande Satana”, “stati canaglia”, “impero del male”), i pretesi conflitti di religioni, culture, civiltà si alimentano ormai sempre più non già della concretezza di proprie radici, identità da salvaguardare, bensì 28 29 30

Girard 2005, p.98; Girard 1965, pp.193, 182, 195, 115, 121. Girard 1996; Girard 2007, p.63. Auden 1995, p.25.

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primariamente del fascino mimetico che segretamente ed ossessivamente esercita la «violenza trionfante» dell’altro, contro cui si proclama di voler “rompere”, alla cui distruzione si mobilitano tutte le proprie forze. Nel nichilismo sotteso agli odierni conflitti la propria identità sussiste ormai solo in forza del “contro” dell’ «imitazione negativa» con cui ci si oppone all’altro che sovrasta per contro-sovrastarlo; ciò che qui è in gioco non è altro − come già diceva il primo Girard − che un «nulla infinitamente attivo del desiderio», una «mobilitazione generale e permanente dell’essere al 31 servizio del nulla» .

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3. L’odierna violenza «demonetizzata», e la violenza negli «abissi della fondazione, quel magma di folle indifferenziate» Ma al di là di questa diagnosi concernente l’odierna «apocalisse» globalizzata, la tesi di un esito violento della indifferenziazione mimetica in Girard riveste una più profonda portata antrolopogica che investe il concetto stesso di «reciprocità» umana. È questa per lui a essere costitutivamente indifferenziante, perché il processo di ominizzazione che svincolò l’uomo dagli automatismi istintuali dell’animalità fu determinato da una crescita ipertrofica in lui della attitudine imitativa. Ma se fu nel suo costituirsi come homo mimeticus che poté emergere l’homo faber e l’homo sapiens, che poterono nascere le culture umane, per un altro verso ciò innestò anche una minaccia auto-distruttiva per il nesso parimenti costitutivo tra mímesis e pólemos: tanto più temibile per la specie umana perché ormai svincolata da quei montaggi istintuali che nell’animalità frenano la violenza intraspecifica. Se i rapporti inter-umani nacquero originariamente come intrinsecamente mimetici, e quindi indifferenzianti, tale nuda reciprocità indifferenziante fu, e sarà sempre per l’uomo, fattore di violenza reciproca. Solo se strutturata, e per ciò stesso rivestita e occultata, da differenze e differimenti precisi negli scambi, ovvero da codici simbolici differenziali che ne fis32 sano le norme, la reciprocità può tenere a freno la violenza . La nascita del simbolico − per Girard equivalente ad un «sistema di differenze», in assonanza con lo strutturalismo che da De Saussure a Lévi-Strauss intende la langue ad esso sottesa come un sistema di opposizioni binarie − nel processo di ominizzazione non fu solo essenziale allo sviluppo tecnologico e culturale dell’uomo, ma gli fornì anche un presidio indispensabile contro 31 32

Girard 1965, p.121. Girard 2001a, pp.15-43.

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la propria violenza. Ma allora nell’ottica girardiana la différence (un tema centrale nella cultura francese contemporanea: dallo strutturalismo lévistraussiano al decostruzionismo post-strutturalista di Derrida e Deleuze) assume a livello antropologico un duplice volto. Per un verso essa è la «differenza» rivendicata da ciascuno dei «doppi violenti» e cieca alla loro identità simmetrica, ovvero quell’auto-differenziarsi indifferenziante di cui si nutre la violenza. Per un altro verso essa è la (relativamente) stabile «differenza» intra-culturale (essendo ogni cultura umana un «sistema di differenze») primariamente simbolica, e quindi socio-politica, giudiziaria, etc. che struttura e regola, celandola, la reciprocità indifferenziante al fondo degli scambi interpersonali (matrimoniali, economici, sociali nel senso più ampio) che nella sua nudità sarebbe un rischioso fomite di violenza. In Achever Clausewitz Girard rileva, ad esempio, circa il commercio monetario che certo esso è al suo fondo guerra, ma «di debole intensità», che certo può in quanto tale scatenare la violenza, ma che al contempo la frena in quanto strutturato da codici simbolici differenziali, di cui è emblematica la moneta stessa: ci «si scambiano dei beni per non scambiarsi dei colpi, ma 33 nello scambio dei beni c’è sempre il ricordo dello scambio di colpi» . In tal modo Girard interpreta la distinzione tra natura e cultura, la transizione dall’una all’altra in una modalità che pur nelle sensibili assonanze si scosta marcatamente da C. Lévi-Strauss. Certo per entrambi il simbolico − come si è detto − corrisponde ad un sistema strutturato di differenze. Certo per entrambi la cultura, come nascita del simbolico, implica un affermarsi della priorità del sintattico rispetto a una immediatezza semanticointuitiva: per cui, dice Girard, si «scinde il legame» di tipo «intuitivo» tra «il segno e l’oggetto» e si privilegia quello reciproco tra i segni: «dal punto dei vista dell’indicizzazione la sfera simbolica è controintuitiva»: e per lui a ciò corrisponde, sul piano dell’agire, anche il superamento di una immediata pulsione auto-appropriativa dell’oggetto connessa ad una co34 gnizione di tipo ancora meramente intuitivo . Se l’uomo per Lévi-Strauss nasce come animal symbolicum con gli scambi matrimoniali esogamici, regolati da codici simbolici, tra unità sociali distinte, il che equivale anche a dire che egli nasce come «animale che si vieta l’incesto», analogamente per Girard l’avvento del simbolico inibisce la precedente “incestuosa” immediatezza endogamica, più in generale una immediata pulsione autoappropriativa, tipica dell’animalità, di femmine come di cibo, di beni. Eppure in Lévi-Strauss il nesso tra lo scambio e il simbolico che è a esso 33 34

Girard 2007, p.118. Girard 2003, p.80.

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normativo si delinea in termini meramente “paratattici”, come manca una spiegazione, per così dire “sintattica”, dell’emergere della cultura umana dalla natura animale (anche se egli, nel suo dar rilievo ad una frase di E. B. Tylor circa la genesi dell’alliance esogamica tra gruppi sociali – meglio «sposarsi all’esterno» che «essere uccisi all’esterno» – sembrerebbe quasi inclinare verso quel “funzionalismo” – da B. Malinowski ad A. Radcliffe35 Brown – da cui pure a livello teorico egli prende decisamente le distanze) . Ma, singolarmente, è proprio questa assenza di una precisazione in termini “sintattici” della genesi della cultura dalla natura animale che porta LéviStrauss a concepire la «funzione simbolica» come «sintassi pura», «senza significato», «chiusa nel gioco dei suoi rinvii interni», per cui i codici strutturali delle varie forme culturali si spiegano solo in base alla loro reciproca permutabilità e traducibilità. Per lui, ad esempio, i miti si spiegano solo con altri miti (ovvero per la sintassi che li connette ad altri miti) e il senso iscritto negli «ordini vissuti» (ovvero il senso del reale consapevolmente vissuto entro gli assetti culturali) risulta sempre dalla combinazione, negli «ordini concepiti» (ovvero nel simbolico, quale «inconscio» cogitatum privo di cogito), di «elementi che non sono essi stessi significanti», ovvero esso resta sempre «fenomenico». A P. Ricoeur che gli poneva il problema, al riguardo, del «senso del senso», ovvero se vi sia «un senso dietro» questo «senso» mai «primario», sempre «riducibile» e «fenomenico», LéviStrauss rispondeva che «dietro ogni senso c’è un non-senso e il contrario 36 non è vero» . Inoltre per lui la reciprocità umana sembra nascere solo con gli scambi, entro le culture, strutturati dal simbolico: originariamente con gli scambi matrimoniali-esogamici; per cui la reciprocità si profila come meramente positiva, come l’avviarsi di una comunicazione culturale in cui originariamente, egli dice in modo suggestivo, le donne figurano come parole. Per Girard, invece, vale la distinzione tra «reciprocità» ed «azione reciproca». Se già in Le bouc émissaire egli distingueva tra «buona» e «cattiva reciprocità», e in Je vois Satan tomber comme l’éclair tra «imitazione positiva» e «negativa», in Achever Clausewitz egli distinguerà un’«azione reciproca» ove la «reciprocità» indifferenziante, fomite di violenza, emerge nella sua nudità, ed un’«azione reciproca» improntata da «differenze» e «differimenti» in virtù dei codici simbolici che la regolano: per cui la nuda reciprocità al fondo di essa viene celata e la violenza che essa potrebbe

35 36

Nannini 1981, p.151; Lévi-Strauss 1969, p.627; Tylor 1889, p.267. Nannini 1981, pp.288, 289; Lévi-Strauss 1953, pp.247-248; «Esprit» 1969, p.637.

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generare imbrigliata . Quindi la reciprocità per il Girard antropologo, rispetto a Lévi-Strauss, nella sua essenza originaria sembra piuttosto doversi intendere nel senso del sartriano l’enfer, c’est les autres. Certo anche per lui essa è intimamente connessa all’ominizzazione, certo ne è il presupposto, ma un presupposto ambiguo, dato la sua intima natura mimetica e indifferenziante. Con l’emergere della reciprocità, più che la cultura, nasce una fase intermedia tra natura animale e cultura: da cui gli ominidi possono accedere o alla stabilità culturale, o all’auto-distruzione. All’origine dell’umano, dietro, e ancor prima della decisa positività dell’uomo che «si vieta l’incesto», e l’immediatezza pulsionale ad appropriarsi di cibo e di beni, si staglia la tremenda ambiguità dell’homo mimeticus. Ed è anche per questo che Girard delinea (a differenza di Lévi-Strauss) in termini “sintattici” un preciso nesso evolutivo tra natura e cultura: o piuttosto tra l’ominide già mimeticus, eppure ancora al di qua della cultura in senso proprio, e l’avvento del simbolico-culturale. Egli spiega la genesi di questo da quello riconnettendo le «differenze» che strutturano le culture umane ad una «dif38 ferenza primordiale», «originaria» e «decisiva» , scaturente, nella notte dei tempi, dal «meccanismo vittimario»: come differenza istauratasi tra la vittima e quanti strinsero intorno ad essa il cerchio vittimario, quale archetipica scansione differenziale che segnò la fuoriuscita da una precedente indifferenziazione violenta determinata da una nuda, a-simbolica reciprocità. Se per certi versi − parlando del «meccanismo vittimario» come «incana39 lato» in una «piega etologica» , che assecondò la transizione dall’animale all’uomo − Girard sembra accostarsi al funzionalismo antropologico nella sua matrice evoluzionistico-darwiniana, per un altro verso egli risulta singolarmente assonante con la temperie post-strutturalista entro la cultura filosofica francese: per cui ogni lógos simbolico emerge, occultandolo e rimuovendolo, dalle profondità di un álogon primigenio (di cui è cifra, per J. Derrida, l’écriture, per lui antecedente alla phoné e al lógos, che non a 40 caso già in Platone esercita verso di essa una censura vittimaria) . Ma se questo álogon, nel decostruzionismo post-strutturalista, echeggia l’abisso del caos nietzschiano, la compressione vertiginosa entro il Sein heideggeriano di ogni potenziale orizzonte di senso, per cui l’emergere di ognuno di questi è simile alla «radura» (Lichtung) che si apre dal fitto impenetrabile della selva, Girard (come Marx rispetto ad Hegel) «rimette coi piedi per

37 38 39 40

Girard 1987, p.31; Girard 2007, p.47. Girard 1980, p.355; Girard 1994, p.133; Girard 2004, p.21; Girard 1980, cap. III. Girard 2003, p.75. Cfr. Derrida 1968.

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terra» l’apofatismo filosofico di tale álogon reinterpretandolo, in concreti termini socio-antropologici, come «quel magma di folle indifferenziate», 41 negli «abissi della fondazione» di ogni mondo umano . Nella notte dei tempi, in ogni agglomerato umano, al «meccanismo vittimario» − come passaggio dal «tutti contro tutti» al «tutti contro uno» in cui alla vittima viene imputata la «violenza essenziale» dilagante, spesso sotto la maschera di catastrofi naturali, carestie, pestilenze a quella concomitanti, e che nei successivi miti fondativi assumeranno una inconsapevole valenza simbolica della violenza scatenata − fa seguito, per Girard, la «sacralizzazione della vittima», perché questa viene trasfigurata in un essere divino, tremendum et fascinans, signore assoluto della violenza, capace di farla dilagare nell’umano per poi ritrarla misteriosamente da esso. Alla base di tale «ciclo della violenza mimetica» sta dunque una méconaissance che è essenziale alla sua efficacia fondativa del culturale e del simbolico: equivalente alla cecità, nel transfert vittimario, al carattere indiviso, indivisibile tra tutti della precedente violenza, e alla cecità circa l’origine non sacrale, bensì riconducibile ad una dinamica totalmente umana, della pace ritrovata. La trascendenza religiosa della vittima sacralizzata (che rafforza la «differenza originaria» fissata in forza del cerchio vittimario) è la matrice archetipica di ogni trascendenza successiva (socio-politica, giudiziaria, etc.) che ordina le culture umane come «sistemi di differenze». Nell’arcaico i miti equivalgono alla memoria, nell’ottica dei vittimizzatori, di un evento vittimario, che ne ripropone il «misconoscimento»; i riti, che culminano col sacrificio, equivalgono alla “drammatizzazione” in un senso “teatrale” dell’ «origine violenta» di ogni società umana: che la riproduce istintivamente soprattutto nei suoi momenti di crisi, quando rischia di ricollassare 42 nella «violenza essenziale» . Per Girard il modo in cui la vittima-Cristo si pone di fronte ai suoi vittimizzatori durante la Passione (non segnato, come invece accade in prevalenza per ogni vittima umana, da alcuna anche se impotente reattività violenta, ma tantomeno da alcuna collusione con la violenza di cui è fatto segno, diversamente da Edipo che alfine «vomita sé stesso» allo stesso modo in cui «Tebe lo vomita») facendo risaltare la propria innocenza squarcia, per la prima volta nella storia umana, quel «misconoscimento» vittimario e sacralizzante quale origine sanguinosa delle religioni e culture umane, e i Vangeli diversamente dai miti costituiscono un resoconto della Passione che proclama l’innocenza della vittima. Certo la Croce è anche l’esito del rifiuto umano della rivelazione in Cristo delle 41 42

Girard 2007, p.301. Cfr. Girard 1980, capp. III e IV e passim; Cfr. Girard 2001b, cap. II.

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«cose nascoste sin dalla fondazione del mondo». Eppure tale rivelazione esercita sulla storia successiva un’oggettiva incidenza decostruttiva del sacro, del mitico-rituale, e del vittimario che lo genera. Dopo di essa il «meccanismo vittimario» è come «inceppato», esso funziona solo «a basso regime», non producendo più, ad esempio, la sacralizzazione delle vittime. Lo sviluppo della civiltà occidentale, per Girard, nonostante la «lettura sacrificale» dei Vangeli prevalente nelle cristianità storiche (che brandisce proprio la Croce di Cristo contro nuovi capri espiatori: ebrei, eretici, infedeli, streghe…) manifesta, soprattutto a partire dal XVII secolo, un tipo di ratio tipicamente demistificativa degli universi magico-sacrali, mitico-rituali che le deriva inconsapevolmente dalla forza decostruttiva della Croce («gli uomini non hanno smesso di dare la caccia alle streghe perché hanno inventato la scienza, ma hanno inventato la scienza perché hanno 43 smesso di dare la caccia alle streghe» ). Tale forza decostruttiva, attiva in modo sotterraneo e per lo più inconsapevole nell’Occidente, soprattutto a partire dall’illuminismo demistifica anche gli ordini culturali differenziali che soffocano l’identità di tutti gli uomini, fino al punto che ogni stabilità istituzionale viene progressivamente erosa, entro un processo che conduce ai grandi «maestri del sospetto» della modernità (Marx, Nietzsche, Freud). Ma, dato che erano i precedenti assetti istituzionali (pur nelle loro «false paci» quali esiti di processi espulsivi, sacrificali) a tenere a freno la violenza, questa, in forza di tal erosione, cresce sempre più incontrollabile. La stessa guerra − è ciò che per Girard, che ne rovescia l’intepretazione consueta, Clausewitz intuisce nel suo Vom Kriege − a partire dalla Rivoluzione Francese e da Napoleone si svincola sempre più dalla politica, tende ad esaurirsi come istituzione in cui una violenza codificata e quasi-rituale (le precedenti guerres en dentelles) impediva un suo «scatenarsi all’estremo», e diventa così violenza irrefrenabile. La stessa ratio, perdendo progressivamente la sua efficacia decostruttiva e alienandosi in sterile conflittualià mimetica tra ideologie rivali (fino a giungere agli odierni «gemelli mimetici testualizzati», agli «pseudo-demistificatori che si divorano tra loro», allo «sterminio reciproco e ritualizzato delle metodologie») alimenta anch’essa la conflittualità, e soprattutto per la sua crescente cecità circa la funzione antropologica del religioso nella storia umana, rischia di diventare la 44 «nostra ultima mitologia» . Quella che Girard chiama l’odierna «apocalisse globalizzata», quale esito estremo di questo processo, è dunque da riconnettersi alla forza decostruttiva della Croce che ha eroso progressiva43 44

Girard 1982, libro II; Girard 1987, pp.108, 68 e sgg., 314. Girard 2007, pp.25 e sgg.; Girard 1987, pp.156, 154-155; Girard 2007, p.214.

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mente le «false paci» degli imperi, degli assetti istituzionali socio-culturali scaturiti dalla violenza fondatrice. La violenza, ormai «demonetizzata» da Cristo, è sempre più segnata da una «sterilità», «infecondità», che la rende oggi «impotente a tessere il minimo mito per giustificarsi e restare celata»; «da molto tempo la violenza non produce più senso» entro la storia umana, essa dilaga solo, sempre più irrefrenabile. Ed è proprio per questo che Cri45 sto dice di essere venuto a portare la spada, e non la pace («la Rivelazione è pericolosa! Equivale spiritualmente alla potenza nucleare»; intendere il cristianesimo come un umanesimo valoriale ed edificante è come «tenere una tigre per la coda»)46. L’apocalisse, così intesa, è anche ulteriore rivelazione, rispetto alla rivelazione delle «cose nascoste» da parte di Cristo, di quale sia l’esito del rifiuto di questa, di che cosa abbia significato per l’uomo il volere che la sua «dimora» gli fosse «lasciata» (Lc 13, 35). Ma soprattutto l’odierna violenza apocalittica, in questa sua portata rivelativa, si propone all’uomo come un certo rischioso, ma ineludibile, kairós. Infatti, entro la precedente stabilità istituzionale e differenziale delle «false paci» fondate dalla violenza («pax romana, pax sovietica, pax americana…») la cecità alla costitutiva menzogna di questa restava invincibile. Ora invece la crescente indifferenziazione violenta (pari a una drammatica «liquidità» del sociale nel senso di Z. Bauman) determinata proprio dalle differenze mimeticamente rivendicate dagli odierni «fratelli nemici» potrebbe assecondare l’emergere in loro di una comune consapevolezza della identità di tutti gli uomini, del vuoto nichilismo di tali differenze sempre più strumentalmente “brandite contro”, con una transizione dalla negativa simmetrica reciprocità dei «doppi violenti» a quella positiva dei doppi agapici (perché per Girard pólemos e agápe hanno quest’unico, singolare tratto in comune: 47 il loro carattere indifferenziante) . Per certi versi Girard si avvicina così al modo in cui E. Lévinas, in Totalité et Infini, intende l’esperienza conflittuale. Per lui la guerra segna l’esplodere di ogni «Totalità» che schiaccia, omologandola a sé, l’alterità irriducibile di ogni visage, come per Girard la violenza apocalittica segna la crisi irreversibile di ogni istituzione umana costitutivamente fondata su di una violenza totalizzante, e al contempo rende questa manifesta. Per Lévinas è l’ontologia nella tradizione occidentale che privilegia la «Totalità» nella sua violenza sui «volti» umani, e anche per Girard ogni ontologia 45 46 47

Cfr. Mt 10. 34: «non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada». Girard 2005, p.128. Girard 2007, pp.211, 187; Girard 2005, pp.111, 163; Girard 2007, pp.334, 37, 101.

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«è guerriera» (ma proprio nel voler «la pace, non la guerra; l’ordine, non il disordine; il mito, non la rivelazione dei moventi violenti del mito»). Per Lévinas la positività dell’esperienza conflittuale sta nel fatto che è in essa originariamente che un «volto» umano si trova di fronte ad un altro, anche se nell’odio e nell’ostilità; essa, nel suo dirompere gli spazi delimitati dalle totalità (statuali, giuridiche, etc.) apre ad un rapporto con l’altro che (anche se immediatamente questi è il nemico) è passibile di trasformarsi in «relazione etica». In termini analoghi anche per Girard v’è «una misteriosa somiglianza tra violenza e riconciliazione»: «colui che affronto, lo posso anche amare»; «al di fuori della totalità» l’unica «alternativa» è tra «la guerra e l’amore». È inoltre significativo che Girard, adottando il lessico lévinasiano, parli di questo «passaggio verso la riconciliazione», assecondato dall’esplodere nella guerra di ogni totalità, come di una possibile tran48 sizione dal «sacro» (quale archetipico sistema totalizzante) al «santo» .

4. Il rispetto delle differenze in un mondo sempre più indifferenziato Se tolleranza ha da essere rispetto delle differenze, assumendo l’ottica girardiana, nel contesto odierno essa solleva nuovi e singolari problemi. Sarebbe certo, più che indebita, grottesca, ogni pretesa di ridimensionare la sua istanza etica motivandola con l’evanescenza che sempre più assumono le pretese differenze, la loro rivendicazione ed ostentazione, in un mondo globalizzato. Al riguardo si può addurre un esempio forse banale, ma che può essere significativo. L’abbigliamento dell’immigrata islamica è forse 48

Ivi, pp.179, 138, 181, 184. Scrive Lévinas: «solo gli esseri capaci di guerra possono elevarsi alla pace […] Nella guerra gli esseri si rifiutano di appartenere ad una totalità, rifiutano la comunità, la legge […] si affermano come trascendenti la totalità, e ciascuno si identifica non per il suo posto entro il tutto, ma per il suo sé »” (Lévinas 1990, p.5). Per Girard espressioni della «totalità» e della sua «menzogna» sono il «mito», il «sistema regolato di scambi», più in generale tutto ciò che «dissimula il principio della reciprocità» che nella sua nuda immediatezza è fomite di violenza (Girard 2007, pp.179, 181). Ma Girard critica anche Lévinas: perché non coglie «la natura mimetica della violenza»; perché intende «l’al di là della guerra» come una «relazione all’Altro purificata di ogni reciprocità» (mentre per Girard esso è passaggio dalla cattiva reciprocità indifferenziante della violenza alla buona reciprocità, parimenti indifferenziante, dell’amore). Ma soprattutto perché la transizione dalla violenza alla relazione etica per Lévinas sembra potersi risolvere positivamente in virtù di un «eroismo» umanistico, mentre per Girard «essendosi, con Cristo, un Modello di santità iscritto, una volta per tutte, entro la storia degli uomini», con ciò «è stato superato» ogni umano «modello eroico» (ivi, pp.180, 178, 180).

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destinato ad assomigliare sempre più a un fossile culturale entro un universo in cui la differenza identitaria dell’immigrato tende ad essere irresistibilmente omologata dalle protesi tecnologiche dei cellulari, dei computers, dai condivisi fascini mediatici, livellata dai comuni interessi economici, ormai ritmata dai medesimi stili di vita ed improntata dalle stesse aspirazioni. Una metamorfosi di cui può essere anche indice la tendenza strisciante a valorizzare esteticamente il chador, con piccoli accorgimenti mimetici del femminile occidentale, per cui esso tende a trasformarsi in accattivante ornamento che ne svuota il senso e la funzione originaria. Il chador che spicca tra la folla occidentale, tanto più massificata quanto più essa si aggrappa nevroticamente a contrassegni di differenza individuale, ben presto omologati e vanificati dalle mode, tende forse irresistibilmente a ridursi ad un ulteriore contrassegno, sempre più precario, di una condivisa angoscia identitaria. Eppure da ciò non consegue che si possa condividere la recente, discutibile decisione del governo francese di interdire il velo integrale alla donna islamica entro scuole pubbliche, uffici statali, etc. Ma, si può chiedere, pur in questo evaporare delle differenze, non resta comunque marcato, nell’ottica di un’etica della tolleranza, il discrimine, rispetto alle altre, di differenze intollerabili perché si auto-affermano (ad esempio dal terrorismo islamico all’ebraismo ultra-ortodosso ashkenazita) con la violenza o l’intransigenza fondamentalistica? Si potrebbe rispondere che un tale discrimine rischia oggi di profilarsi assai esile. Non solo perché la denuncia virulenta dell’Occidente come “grande Satana”, l’appello alla “guerra santa” da parte di un Bin Laden eccita mimeticamente, con pari virulenza, “la rabbia e l’orgoglio” di una O. Fallaci, l’appellarsi al “conflitto di civiltà” dei vari teocons, la denuncia degli “stati canaglia” di un G. W. Bush: atteggiamenti perfettamente simmetrici, ove le pretese differenze sono divorate da un comune, reciproco fascino mimetico per la 49 «violenza trionfante» . Ma anche perché è nella stessa quotidianità di un 49

Si potrebbe obiettare che questa simmetria non regge perché (le Twin Towers potrebbero addursi come un esempio eclatante) c’è una violenza aggressiva che non può equipararsi a quella difensiva. E, certo, una concreta pratica della tolleranza non può esimersi dal puntare l’indice su di un intollerabile, precipuamente identificato con la violenza aggressiva. Eppure, in linea di principio, difficilmente tale indice puntato riesce a sfuggire a quella «violenza che domina l’uomo tanto più implacabilmente quanto più l’uomo si crede in grado di dominarla» (Girard 1980, p.181). In Achever Clausewitz Girard incrina il concetto stesso di “attacco”. Infatti, non solo l’attacco manifesto è in realtà sempre risposta a provocazioni (ulteriormente mimetiche) spesso tacite e sottili, e nondimeno inequivocabilmente violente, per cui «l’aggressore è sempre già stato aggredito» (come «in certi affari penali» ove «è la vittima, molto più dell’accusato, ad essere il vero colpevole»).

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René Girard e la filosofia

mondo crescentemente massificato e globalizzato che sempre più ogni differenza rivendicata, ostentata (dalla politica alle mode, agli stili di vita mediatizzati, fino ai rapporti interpersonali più banali entro la «folla solitaria» delle megalopoli) è improntata da un celatamente simmetrico, nevrotico e risentito mimetismo, ovvero da quella reciproca «imitazione negativa» della «mediazione interna» che per Girard è il contrassegno tipico della violenza. E il filo rosso che connette tali due dimensioni della violenza (la prima eclatante ed esplosiva, «epidemica», la seconda sotterranea ed «endemica») è meno esile di quanto si possa pensare. Alì Atta, il capo del gruppo terroristico dell’11 settembre, che passa le tre sere precedenti coi complici nei pubs londinesi, non proveniva dall’inferno dei campi profughi mediorientali, ma da una famiglia borghese egiziana della middle class, da decenni radicata in Occidente, il che parla − sottolinea Girard − delle «reti nascoste» entro di esso del terrorismo islamico come l’esito di una violenza le cui radici affondano nella stessa società occidentale («che significa l’Islam per loro? » egli si chiede inquietamente); fino al punto che sotto certi aspetti questo terrorismo potrebbe essere assimilato ad «una delle ul50 time metastasi di un cancro che ha lacerato il mondo occidentale» . Per concludere. Per definizione la tolleranza non può essere che tolleranza di differenze. Eppure, nell’odierna globalizzazione apocalittica, essa

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Non solo imputare difensivamente l’attacco all’altro è la tipica modalità auto-giustificativa di ogni violenza aggressiva (ivi, pp.55, 50). Soprattutto (sviluppando questa tesi girardiana) è nella stessa pretesa di individuare un attacco originario che vive il tipico riflesso imputativo-vittimario proteso a sostanzializzare (per così dire “aristotelicamente”) una causa prima entro una complessa dinamica che andrebbe invece spiegata (per così dire, “galileianamente”) in funzione di una molteplicità di fattori inestricabilmente interconnessi entro un campo di forze. In sostanza, per Girard, la “violenza attiva” non esiste, essa è sempre costitutivamente “risposta” reattiva e risentita entro una spirale mimetica dalle estremità invisibili. Certo, è assai arduo affrontare nel concreto il problema della violenza fuoriuscendo dalla prevalente logica vittimaria del “chi è stato?”. La quale però sortisce sempre a una sostanzializzante «cristallizzazione mitologica», ad una «interpretazione mitica» protesa a «reificare la violenza» (Girard 1987, p.251; Girard 1980, p.374). Da tempo, a partire da Galileo, le scienze naturali (a differenza di quelle umane, come la psicologia: cfr. Lewin 1935) hanno superato un tipo di spiegazione proteso a sostanzializzare cause prime. E forse il modo più efficace di contrastare la violenza è un tipo di sapiente mediazione “politica” che sia alimentata da uno sguardo, sui complessi contesti in cui essa esplode, che potrebbe richiamare quella field theory, di ascendenza galileiana (che si ripropone nello sviluppo della fisica moderna da Faraday a Maxwell e Einstein), auspicata da Lewin entro le scienze umane, la cui superiore efficacia euristica e analitica già Cassirer evidenziava (cfr. Cassirer 1910). Girard 2007, pp.356, 355.

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è investita dal paradosso per cui oggi è estremamente arduo discriminare le differenze che è doveroso tollerare da quelle intollerabili; e dal paradosso per cui l’imperativo etico, inequivocabilmente doveroso, della tolleranza dell’altro e del diverso, sempre meno può appoggiarsi ad uno sguardo socio-antropologico in grado di cogliere diversità concrete. Ma, sempre nell’ottica girardiana, non può non emergere un ulteriore paradosso ancora più inquietante. Come si è detto, la prescrizione etica della tolleranza senza una descrizione dell’intollerabile è sfuggire a una concreta pratica della tolleranza, responsabilmente incarnata nelle tragedie della storia. Eppure questa, se davvero ha da essere tale, dovrà anche sempre porsi l’inquietante interrogativo di fino a che punto l’indice puntato sull’intollerabile riesca a sfuggire a quelle dinamiche espulsive e vittimarie che proprio la pratica della tolleranza si propone di contrastare. In altri termini, c’è sempre da chiedersi fino a che punto essere “contro” il “contro” intollerante e intollerabile non rischi di riprodurlo, quasi ritualmente, in sé in un mondo in cui la denuncia dei meccanismi vittimari tende a trasformarsi irresistibilmente in contro-vittimizzazione dei vittimizzatori, anziché far definitivamente fuoriuscire dalle dinamiche vittimarie dell’intolleranza. È su questo paradosso che, ripetutamente, richiama l’attenzione Girard nei suoi scritti più recenti. Egli rileva come «la difesa delle vittime può essere in realtà una ricerca camuffata di altre vittime» in un mondo, come quello odierno, in cui «tutti si rinfacciano a vicenda le rispettive vittime»; per cui, in questa «caccia al capro espiatorio di 2° grado, caccia ai cacciatori di capri espiatori…», inevitabilmente «la rivelazione della violenza diventa una rivela51 zione violenta» .

Riferimenti bibliografici «Esprit» 1969: “La pensée sauvage” et le structuralisme, «Esprit», 322 (1969). Auden 1961: Wystan Hugh Auden, In Time of War (1939), trad. it in Poesie (a cura di C. Izzo), Guanda, Parma 1961. Auden 1995: Wystan Hugh Auden, Shorts, Adelphi, Milano 1995. Bradley 1946: Francis Herbert Bradley, Appearance and reality (1893), Oxford Univerity Press, Oxford 1946. Calasso 1985: Roberto Calasso, La rovina di Kasch, Adelphi, Milano 1985. Cassirer 1910: Ernst Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, B. CassirerVerlag, Berlin 1910.

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Girard 2001a, p.129; Girard 2001b, pp.234, 205-206; Girard 1998, p.90.

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René Girard e la filosofia

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S. Morigi - la “desertica geometria dei doppi” violenti

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Micheletti 2007: Mario Micheletti, Tomismo analitico, Morcelliana, Brescia, 2007. Nannini 1981: Sandro Nannini, Il pensiero simbolico. Saggio su Lévi-Strauss, Il Mulino, Bologna 1981. Nietzsche 1997: Friedrich Nietzsche, Zur Genealogie der Moral (1887), trad. it. Rizzoli, Milano 1997. Rougemont 1993: Denis de Rougemont, L’Amour et l’Occident, Plon, Paris 1956, trad. it. Rizzoli, Milano 1993. Tocqueville 1999: Alexis de Tocqueville, La démocratie en Amérique, Gosselin, Paris 1835-1840, trad. it. Rizzoli, Milano 1999. Turner 1972: Victor Turner, The ritual process, Aldine, Chicago 1969, trad. it. Morcelliana, Brescia 1972. Tylor 1889: Edward Burnett Tylor, On a method of investigating the development of institutions, in «Journal of Royal Anthropological Institute», 19 (1889). Wolff, Moore, Marcuse 1968: Robert Paul Wolff, Barrington Moore Jr., Herbert Marcuse, A critique of pure tolerance, Beacon Press, Boston, 1965, trad. it. Einaudi, Torino 1968.

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CLAUDIO TARDITI

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MIMESI E RIDUZIONE. APPUNTI SU UN POSSIBILE RAPPORTO TRA RENÉ GIRARD E LA FENOMENOLOGIA

Secondo un movimento di pensiero che emerge sempre più nell’“ultimo” Girard, a partire da Vedo Satana cadere come la folgore1 sino al recente Portando Clausewitz all’estremo2, la condizione dell’uomo contemporaneo è descrivibile in termini “apocalittici” o, se si preferisce, “escatologici”, in quanto, nella prospettiva girardiana, non vi è alcuna garanzia che l’umanità progredisca verso una riduzione costante della violenza: una tale riduzione è consegnata alla libertà e alla responsabilità umane, sempre tuttavia esposte al rischio di ridestare la violenza con crisi mimetiche e persecuzioni vittimarie tanto più acute quanto meno efficace risulta essere oggi il meccanismo di divinizzazione del capro espiatorio tipico della struttura del sacro arcaico. Con una battuta, potremmo dire che la nostra condizione presente è caratterizzata dalla violenza, ma “senza” il sacro. Ora, tutto ciò ha a che fare con due concetti-chiave per il pensiero contemporaneo, quello di “interpretazione” e quello di “decostruzione”. Già in occasione del convegno del 2008 ad Arezzo su Il cristianesimo come fine del sacro in René Girard3, tentavamo di ricostruire i diversi livelli di significato che questi due concetti ricoprono nel pensiero girardiano, “isolandone” essenzialmente due: l’interpretazione e la decostruzione sono presenti in Girard a) come termini critici e polemici di confronto con l’ermeneutica e con il decostruzionismo, che Girard considera prospettive “relativiste”; b) più in profondità, come concetti operativi all’interno della teoria mimetico-vittimaria, che pone al suo centro il messaggio evangelico proprio come “decostruzione del meccanismo sacrificale” e che vede in Cristo un modello di “interpretazione vivente” – forse proprio per questo l’unico modello che non genera conflitti? – che si incarna proprio per portare a compimento, con e attraverso la propria morte, il messaggio destrutturante del sacro violento. 1 2 3

Girard 2001. Girard 2008. Tarditi 2010, pp.401-409.

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René Girard e la filosofia

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In un colloquio del 2004, pubblicato col titolo Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo con Gianni Vattimo, che Girard considera appartenente alla tradizione ermeneutico-decostruzionista – alla quale, d’altra parte, ammette di appartenere in un certo senso anche egli stesso4 – afferma: […] credo che il punto di avvicinamento più efficace sia proprio quello della prospettiva ermeneutica e della fine della metafisica […]. A questo proposito, secondo me, si tratta di partire dal Vecchio Testamento, perché mi sembra che la questione dell’interpretazione sia già centrale proprio in quel testo. Il Vecchio Testamento si offre alla nostra lettura già come un sistema interpretativo. […] E l’idea che Cristo sia l’interpretazione vivente mi sembra molto efficace; tuttavia, c’è una cosa che manca […]: il fatto che nel momento culminante dell’intera vicenda di Gesù noi troviamo la sua Passione, ovvero il fatto che lui muoia, e di una morte violenta. Dal mio punto di vista, la differenza tra le storie del Vecchio Testamento […] e il Vangelo, è che in quest’ultimo non solo troviamo la decostruzione del mito pagano e arcaico, ma che questa decostruzione viene attuata da una morte […]5.

Una morte “reale”, non meramente simbolica: dunque un “fatto”. Ciò che va dunque articolato, nella prospettiva qui assunta, è il rapporto tra il plesso di decostruzione-demistificazione e l’interpretazione in riferimento ad un fatto, il fatto eminente della Croce di Cristo con tutte le conseguenze che essa ha avuto sulla cultura occidentale. Vi è un fatto reale che si tratta di comprendere, di vedere, e ciò richiede necessariamente un processo di decostruzione e demistificazione di tutto ciò che impedisce una tale visibilità. Questo è il compito che la teoria mimetica, a nostro parere, consegna alla filosofia oggi, il suo nucleo ancora “da pensare”: in questo senso essa ci sembra incrociare – se non nell’impostazione, almeno nello “spirito” – la fenomenologia, e in particolare un certo modello fenomenologico. Vediamo perché e in che modo, con e oltre Girard. È opinione piuttosto diffusa tra i critici girardiani che l’aspetto della teoria mimetica non ancora sufficientemente interrogato è rappresentato dalla professione – talora, bisogna ammetterlo, troppo sbrigativa – di “realismo” da parte di Girard: tale affermazione di “realismo scientifico” si ritrova spesso, nei testi maggiori come nelle interviste più recenti; eppure, nella nostra prospettiva, esso nasconde una profondità epistemologica ancora in larga parte da misurare. Sosteniamo cioè – almeno provvisoriamente – che Girard non assuma il realismo come una particolare categoria o posizione 4 5

Girard, Vattimo 2006, p.50. Ivi, pp.48-49, corsivo mio.

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C. Tarditi - Mimesi e riduzione

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filosofica, poiché ciò implicherebbe altre questioni, che, in effetti, non trovano alcun riscontro in Girard, relative a quale forma di realismo sottenderebbe la teoria mimetica: si dovrebbe assumere forse il modello di realismo proposto ad esempio, in ambito analitico, negli anni Settanta da Kripke o Putnam, secondo cui il mondo consisterebbe in una totalità determinata di oggetti in relazioni determinate, e la verità sarebbe descrivibile in un solo modo6? Ora, non si vede come una simile posizione potrebbe combinarsi con l’idea girardiana di demistificazione o di interpretazione: è probabilmente più ragionevole supporre che Girard si riferisca al “realismo” come forma generale di opposizione al “relativismo”, che sappiamo consistere per lui nella tesi secondo cui le interpretazioni del mondo – e soprattutto dei testi – sono infinite e tutte equivalenti, col conseguente abbandono di qualunque riferimento alla nozione di verità e l’impossibilità di coglimento di un senso unitario della realtà. Insomma: nella prospettiva di Girard, c’è un mondo – il mondo naturale e sociale, la cui realtà non è mai messa in discussione – che si offre alla comprensione e che dev’essere descritto scientificamente, cioè sistematicamente, attraverso un lavoro di rimozione – appunto, di demistificazione – delle concrezioni che ne impediscono la visibilità7. Basti pensare al titolo di una raccolta di articoli girardiani uscita nel 2002 in Francia e poi tradotta da Giuseppe Fornari, La voce inascoltata della realtà8: il reale che è qui in gioco non è per nulla il dato positivo misurabile e “semplicemente presente”, completamente oggettivabile, 6

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Bisogna anche tener presente che il dibattito sul realismo scientifico non ha riguardato tanto l’esperienza del mondo esterno, quanto questioni come “qual è il rapporto tra teoria e mondo?”, “di cosa trattano le teorie scientifiche?”. Va dunque distinto un realismo concernente le teorie (le teorie parlano o no di stati di cose che esistono o non esistono?) dal realismo concernente le entità (le entità di cui le teorie parlano sono reali o non sono reali?). Sulla base di questo schema, moltissimi filosofi hanno fornito versioni molto diverse di realismo (o antirealismo), a loro volta più o meno vicine ad altri indirizzi teorici (pragmatismo, fenomenologia, naturalismo, ecc.) D’altra parte, le origini stesse della fenomenologia si inscrivono in un contesto teorico non molto distante da quello girardiano: com’è noto, la polemica primonovecentesca tra logicisti e psicologisti ricalca quella, ben più antica, tra realisti e nominalisti. Se le Ricerche Logiche di Husserl propendono ancora per una posizione vicina allo psicologismo, in seguito la nozione di “correlazione intenzionale” orienterà la fenomenologia nascente in una posizione media tra il realismo logicista e lo psicologismo, tentando di risolverne la dicotomia. In modo analogo, Girard si trova a fronteggiare da un lato il realismo positivista e neo-positivista delle scienze sociali – dal quale si distacca nonostante l’ammissione di realismo scientifico –, dall’altro il relativismo decostruttivista. Girard 2006.

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René Girard e la filosofia

zuhanden, ma è un reale che si dà, si offre, appunto nella forma della voce, cioè di un senso che interpella, che chiama all’ascolto, e che può anche essere rifiutato, ignorato, mistificato (tutti significati contenuti nell’aggettivo méconnu) e che Girard ha sempre cercato di riportare alla luce nella sua dimensione più originaria e luminosa.

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È proprio la voix méconnue du réel che per tutta la vita mi sono sforzato di ascoltare e trascrivere. Queste parole dicono così bene ciò che ho voluto fare che mi obbligano a chiedermi se l’abbia fatto veramente. Non bisogna interpretare questo titolo come una promessa che mi riterrei capace di mantenere. [ ] Ciò che mi ha protetto [ ] è il realismo di un’altra teoria che non capisco se sia stato io a creare o se non mi abbia piuttosto creato lei: la teoria denominata mimetica9. Ora, in queste poche parole – e in particolare nella battuta finale – pare emergere, quasi inconsapevolmente, l’idea di un’arrivée d’ailleurs, di un investimento dall’esterno, di una chiamata del reale che ha condotto Girard stesso – e noi con lui – sulle tracce della verità dell’esistenza umana fino all’incontro con la trascendenza verticale, non più quella orizzontale del desiderio secondo l’Altro che da sempre avvelena la vita degli uomini. Queste osservazioni ci paiono sufficienti per mettere in questione il cosiddetto “realismo” girardiano e per una rilettura della teoria mimetica in chiave fenomenologica: beninteso, probabilmente Girard la rifiuterebbe, e tuttavia ci pare una via percorribile per il futuro della teoria mimetica e per 9

Accostiamo a questo passo autobiografico di Girard alcune righe che Husserl, nel settembre 1906, riporta nel suo diario: «I tormenti della mancanza di chiarezza, dell’oscillare del dubbio, li ho goduti a sufficienza. Io devo giungere a una solidità interiore. So che si tratta qui di qualcosa di alto e sommo; so che grandi geni vi sono naufragati. Se volessi paragonarmi a loro, dovrei disperarmi d’avanzo. Non voglio paragonarmi a loro, ma senza chiarezza non posso vivere. Io voglio e debbo con un lavoro di dedizione, con un approfondimento puramente oggettivo, avvicinarmi all’alta meta. Io lotto per la mia vita e perciò credo di poter procedere con fiducia. Le più dure difficoltà della vita, l’autodifesa contro i pericoli della morte, danno una forza insospettata, smisurata. Io non aspiro a onori e fama, non voglio essere ammirato; non penso agli altri né alla mia carriera. Solo una cosa mi preoccupa: debbo raggiungere la chiarezza se no non posso vivere, non posso sopportare la vita se non credo che ce la faccio, che davvero posso guardare nella terra promessa, e di persona e con lo sguardo limpido» (Husserl 1965, pp.VIIVIII). Questi due brani mostrano come due autori come Husserl e Girard, lontani per interessi teorici, formazione e area di attività intellettuale, risultino molto vicini nei rispettivi intenti filosofici di fondo e, più in generale, nello spirito del loro impegno intellettuale.

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C. Tarditi - Mimesi e riduzione

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un incremento dialogico del suo enorme potenziale ermeneutico. Ciò che ci sembra di particolare urgenza è una più compiuta articolazione filosofica della dinamica della “voix du réel”, della “voce del reale”, cioè del darsi gratuito di una realtà da comprendere attraverso la progressiva demistificazione della moltitudine di teorie false che l’hanno coperta e rovesciata. Come già accennato, con e oltre Girard. Naturalmente, un tale confronto “a distanza” con la fenomenologia pone numerose questioni di legittimità, in primo luogo legate alla possibilità stessa di istituire un confronto tra la teoria mimetica e la fenomenologia, in assenza di un’esplicita ammissione da parte di Girard10; inoltre, essendo la fenomenologia costituita – come amava ripetere Ricoeur – dal pensiero di Husserl «più tutte le eresie che ne sono derivate»11, sorge il problema di quale fenomenologia meglio potrebbe dialogare con la teoria mimetica. Le questioni che vanno dunque affrontate con più urgenza sono due: a) è possibile “isolare” dei riferimenti testuali in cui emerga una qualche ispirazione fenomenologica o una qualche influenza della fenomenologia stessa su Girard? b) ben più radicalmente, come si può articolare un incontro fecondo tra teoria mimetica e fenomenologia, a partire da Girard? a) Rivolgiamoci, innanzitutto, a uno dei rari luoghi testuali piuttosto estesi in cui emerge esplicitamente il riferimento di Girard alla fenomenologia: Le forme più diverse del desiderio triangolare si organizzano dunque in una struttura universale. Non vi è aspetto del desiderio, in un qualsiasi romanziere, che non possa ricollegarsi ad altri aspetti della sua opera e a tutte le opere. Il desiderio appare dunque come una struttura dinamica che si dispiega da un capo all’altro della letteratura romanzesca. […] I romanzieri, situati a differenti livelli, descrivono l’oggetto quale si presenta ai loro occhi. Il più delle volte si limitano a congetturare le metamorfosi che ha subito e che ancora dovrà subire. Non sempre scorgono il rapporto esistente tra le proprie osservazioni e quelle di chi li ha preceduti. Il compito di chiarire questo rapporto spetta ad una “fenomenologia” dell’opera romanzesca, fenomenologia che non deve più tenere conto dei confini tra le diverse opere. Passando in tutta libertà dall’una all’altra cerca di sposare il movimento stesso della struttura metafisica; cerca di stabilire una topologia del desiderio secondo l’altro12.

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L’unica parziale ammissione girardiana relativa ai suoi contatti con la fenomenologia si trova in Girard 2003. Anche P. Antonello, nell’Introduzione a Girard, Vattimo 2006, afferma che l’influenza del neo-hegelismo francese su Girard sia passata attraverso la mediazione di letture fenomenologiche. Ricoeur 1998, p.156. Girard 1981, pp.82-83, corsivo mio.

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René Girard e la filosofia

Si tratta di un passo alquanto significativo, soprattutto se si considera la sua centralità in Menzogna romantica e verità romanzesca, che a sua volta può essere considerata l’opera in cui Girard getta le basi della teoria mimetica: qui Girard afferma che il compito del romanziere autentico è “svelare”, mostrare la natura mimetica del desiderio così come si dà en personne – “come si mostra ai loro occhi” – mentre la responsabilità del lettore è comprendere tale struttura essenziale del desiderio passando da un’opera all’altra: la letteratura autentica non è una proiezione puramente fantastica, ma ha una sorprendente capacità rivelativa, e la comprensione di una tale rivelazione dev’essere articolata teoricamente come “fenomenologia del desiderio mimetico”. Cerchiamo di approfondire questo punto fondamentale. Affinché vi sia fenomenologia – ce lo ricorda Husserl in moltissime opere, ma in particolar modo in quelle successive alla cosiddetta “svolta trascendentale” del 1907 – occorrono due elementi fondamentali: a) è necessario un cambiamento radicale dello “sguardo” nei confronti dell’oggetto da studiare, un rivolgimento profondo dallo sguardo naturale – quello comune, con cui ci rivolgiamo al mondo abitualmente, ma anche quello scientifico-calcolante, che riduce l’oggetto ai suoi caratteri matematici – allo sguardo fenomenologico, che cerca di cogliere l’oggetto in quanto fenomeno, ossia letteralmente come “ciò che si manifesta da sé”, come ciò che si offre a partire da se stesso e che va pertanto considerato come tale, colto e compreso “così come si dà”; b) l’altro elemento essenziale riguarda il metodo proprio di qualunque fenomenologia, la “riduzione”, ossia la sospensione del giudizio d’esistenza dell’oggetto (epoché) in vista del suo coglimento come fenomeno, cioè così come esso si dà, e la riconduzione alla sua “essenza” (Wesen): quest’ultima non ha nulla dell’idea platonica, cioè non ha una propria realtà e sussistenza indipendenti dal fenomeno, ma semmai essa “si dà” insieme al fenomeno stesso, in modo tale che la visione del fenomeno in quanto tale è al tempo stesso una “visione d’essenza” (Wesenschauung). Ad esempio, se vedo un anello d’oro giallo e lo colgo come fenomeno che mi si mostra a partire da se stesso, coglierò insieme l’essenza “anello” – contenente in sé, come un’idea platonica “deontologizzata”, tutti gli anelli possibili – e l’essenza “giallo”, indipendente da qualunque oggetto giallo realmente esistente. Ora, il primo elemento emerge chiaramente nel passo girardiano sopra analizzato: leggere i grandi romanzieri moderni comparativamente, cogliendone cioè la descrizione minuziosa del desiderio metafisico, significa cambiare radicalmente atteggiamento – sguardo, appunto – in almeno due sensi: in primo luogo, significa considerare la letteratura come realmente aderente all’esistenza, ossia come l’esemplificazione – talvolta estremizza-

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ta – di comportamenti umani comuni, dunque non puramente di fantasia, facendo così dei romanzieri degli ottimi antropologi; in secondo luogo, ma non con minore importanza, considerare, osservare i rapporti tra gli uomini così come essi si danno, non coprendo più le rivalità mimetiche con mistificazioni d’ogni genere dirette proprio a dissimularne la violenza e favorendone così l’inasprimento. Per ciò che concerne invece la presenza, benché non tematizzata teoreticamente, della riduzione nelle considerazioni girardiane sulla fenomenologia del desiderio, analizziamo il seguente passo. Scrive Girard: […] bisogna oltrepassare i casi particolari in vista della totalità. Tutti gli eroi rinunciano alla più fondamentale prerogativa individuale, quella di desiderare secondo la propria scelta. Non possiamo attribuire questa unanime rinuncia alle qualità sempre diverse di questi eroi; occorre cercare una causa universale. Tutti gli eroi di romanzo odiano se stessi a un livello più essenziale di quello delle qualità13.

Certo, bisogna tener presente che Girard non utilizza una terminologia strettamente filosofica, e questo complica senz’altro le cose; eppure, in queste righe sembra emergere la necessità di isolare, ricondurre – “ridurre”, per l’appunto – i desideri e le rivalità particolari alla loro struttura generale, «ad un livello più essenziale», all’essenza del desiderio secondo l’altro, aggiungeremmo noi, alla sua fenomenalità. Come già accennato, Girard ha spesso denotato questa tendenza della teoria mimetica nei termini di un riduzionismo scientifico di stampo realista; tuttavia, in altri luoghi sembra piuttosto critico nei confronti del realismo classico, ritenuto ancora cieco dinanzi all’essenza del mimetismo: «Il romanziere non è un realista dell’oggetto ma un realista del desiderio. Le immagini devono “trasfigurare” l’oggetto»14. A nostro parere, vi è senza dubbio una tendenza riduzionista della teoria mimetica, ma non nel senso del realismo scientifico positivista: vi è semmai l’esigenza di ridurre-ricondurre le varie manifestazioni del desiderio mimetico alla propria essenza, alla propria struttura universale, e solo in questa prospettiva la teoria girardiana può aspirare a quella scientificità non positivista – ma a nostro parere autenticamente fenomenologica - che sembra emergere sin da Menzogna romantica e verità romanzesca. A prescindere dall’effettiva influenza della fenomenologia sulla formazione di Girard – influenza che passa senz’altro attraverso la lettura di Sartre e di alcune opere di Scheler, la cui portata è probabilmente 13 14

Ivi, p.50, corsivo mio. Ivi, p.70.

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notevole benché assai mediata, e perciò difficilmente misurabile vista la scarsezza di riferimenti espliciti nei testi e le sporadiche ammissioni durante interviste o conferenze pubbliche – riteniamo legittimo, almeno come ipotesi di lavoro, affermare che la teoria mimetica non sia solo leggibile nei termini di una “fenomenologia del desiderio”, punto su cui molti critici concordano, ma, ben più radicalmente, che essa risponda a un’ispirazione originariamente fenomenologica di comprensione unitaria e sistematica del mondo – in particolare del mondo umano e sociale – capace di ascoltare quella “voce del reale” che interpella, che chiede di essere ascoltata e che ancora molto avrebbe da dirci sull’essenza della violenza interumana e sulle vie per salvare dall’autodistruzione l’uomo e il pianeta. Di nuovo, ritorna insistentemente la questione di partenza: che cos’è e da dove proviene questa voce, finora pressoché inascoltata, del reale? Ancora una volta, tengo a sottolineare come il nucleo della teoria mimetica ancora “da pensare” si celi proprio in questo “avvento-risalita” della verità da un “altrove” di cui poco o nulla sappiamo in termini di “possesso” e che tuttavia ci chiama a rispondere e ci rivendica nella scelta per o contro la violenza. Ed è qui che un certo modello fenomenologico può essere, a nostro parere, di grande aiuto. b) J. L. Marion, molto noto per gli ampi studi critici su Husserl e Heidegger e per aver proposto un modello fenomenologico “eretico” e rovesciato rispetto alla fenomenologia husserliana, in cui il rapporto intenzioneintuizione (parallelo al binomio noesi-noema tipico della fenomenologia trascendentale di Husserl, almeno a partire da L’idea della fenomenologia del 1907 e soprattutto dalle Ideen I del 1913) viene del tutto ribaltato, reinterpreta la Gegebenheit husserliana in chiave ultra-trascendentale e ultraontologica, pervenendo alla donazione come movimento libero e del tutto indipendente dall’io attraverso cui i fenomeni si fanno visibili, per l’appunto si danno-donano. Avviene così la conseguente destituzione dell’Ego trascendentale costituente la realtà a favore di un “io” costituito dalla donazione, che Marion chiama a-donato: egli, come si legge al termine di Dato che, non è più centro costituente indiscusso della datità, ma è «affittuario della soggettività»15 solo in quanto termine della donazione, da cui è completamente investito. Se il rapporto attesa (intenzionalità)-intuizione (“investimento” da altrove da parte della donazione) è ancora piuttosto bilanciato a proposito dei cosiddetti “fenomeni poveri” (gli oggetti di esperienza comune, ossia tutto il campo dell’oggettività scientifica e fenomenica), l’intenzionalità viene completamente sommersa in ciò che Marion chiama “fe15

Marion 2001, p.393.

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nomeni saturi”. L’apertura fenomenologica alla saturazione è messa in atto da Marion secondo due movimenti: il primo è il movimento dell’intuizione che mette fuori gioco ogni limite imponibile alla fenomenalità; il secondo è costituito dalla «contro-esperienza di questo contro-oggetto» poiché, se il fenomeno saturo non è oggettivabile, ed essendo comunque un “qualcosa”, va definito non in modo negativo, ma secondo un rapporto di contrarietà: la contro-esperienza non coincide con l’inesperienza, ma è l’esperienza che contraddice irriducibilmente le condizioni di esperienza degli oggetti, è un’esperienza di secondo grado in cui viene colta la sovrabbondanza della donazione intuitiva16. L’invisto è fenomeno allo stesso titolo di ciò che è visibile, giacché, per Marion, se si trattasse di vedere sempre e solo fenomeni visibili, non vi sarebbe alcun bisogno della fenomenologia. Oltrepassare una fenomenalità intesa positivisticamente – che considera fenomeno solo ciò che è visibile – è possibile se la fenomenologia può essere radicalizzata non solo come metodo esteso al di là dei confini che, in quanto disciplina filosofica, essa stessa impone, ma soprattutto se la fenomenologia diventa possibilità capace di comprendere il reale anche nella sua invisibilità. La vitalità della fenomenologia consiste e consisterà sempre nella sua sfida a pensare ciò che non si dà a vedere; semmai, la scelta è allora tra un pensiero che riduce il reale alle sue dimensioni meramente visibili e calcolabili e un pensiero per cui l’invisibile rappresenta una “chance del reale”, segnando la sua irriducibilità. I fenomeni saturi che Marion prende in esame in De surcroît sono quattro: a) l’evento, già descritto nel quarto libro di Dato che attraverso l’esempio storico della battaglia di Waterloo, che sopravanza di gran lunga i suoi protagonisti, ignari degli effetti delle azioni che stanno compiendo; b) l’idolo, tratto dall’ambito estetico, in cui il quadro rovescia il centro di gravità del visibile dall’originale alla copia, sorprendendo e facendo slittare l’ammirazione dal mondo fisico al “simile”: così facendo, la pittura domina la fenomenalità, la produce portandola alla visione; c) la carne

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Molto significativamente, Marion introduce una metafora musicale: «L’apertura di una sinfonia mi raggiunge in modo tale che prima di ricostituire la linea melodica o di prendere la misura del tessuto orchestrale (dunque prima di costituire due oggetti a partire da due dati), assumo di colpo nell’orecchio innanzitutto il movimento (non oggettivabile perché donante) della massa sonora che arriva su di me e mi sommerge, poi il mio ritardo sul dispiegamento del suo avvento […]. L’offerta musicale offre innanzitutto il movimento della sua venuta – essa offre l’effetto della sua offerta, senza o al di là dei suoni che suscita» (Marion 2001a, p.266).

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come donazione del sé17; d) l’icona, un paradosso che investe lo sguardo di chi la guarda convocandolo a sé e, costituendolo così «a partire da ciò che gli adviene»18, gli offre la possibilità di accedere all’“invisto”; e) l’ultimo fenomeno saturo, il paradosso dei paradossi, è la rivelazione, della quale – così come dei precedenti fenomeni saturi – la fenomenologia può limitarsi unicamente a dire la possibilità. Scrive Marion: «Si tratta di pensare la sua possibilità formale – ma niente di più, poiché la fenomenologia non può e non deve avventurarsi a decidere dell’effettività di un tale fenomeno – questione assolutamente al di fuori della sua portata –, ma soltanto del tipo di fenomenalità che lo renderebbe possibile»19. I fenomeni saturi possono così aspirare al titolo di “realtà” poiché dicono, di diritto, di un’indicizzazione possibile dell’esperienza. Interrogandosi sulla possibilità che si dia una donazione senza intuizione, Marion risponde: «Non appena la donazione non dona più alcun oggetto o ente, ma un puro dato, essa non si esercita più attraverso l’intuizione», come mostra l’analisi di alcuni «dati puri contemporaneamente vuoti e saturi di intuizione»20. Si tratta di casi in cui la donazione mostra “fenomeni non oggettivabili” – donare il tempo, la vita, ossia casi in cui si è dinanzi ad una “pura possibilità donata” –, oppure del caso in cui la donazione permette a fenomeni di non-enti di mostrarsi, come il caso della morte; e infine, si tratta del caso in cui «la donazione lascia che si mostrino fenomeni che eccedono ogni entità e oggettualità, dunque la comprendono»21 – come nel dare la propria parola, dare la pace, dare il senso, ecc. Tutti questi casi sono esempi di dati puri privi di intuizione ma pur sempre dati secondo la donazione. Ancora una volta, insiste Marion, essi si attestano sul piano epistemologico della “pura possibilità”: Il fenomeno saturo, poiché si dà senza condizione né trattenuta, offrirebbe allora il paradigma del fenomeno finalmente senza riserve. Così, sul filo conduttore del fenomeno saturo, la fenomenologia trova la sua ultima possibilità: non solo la possibilità che supera l’effettività, ma la possibilità della possibilità incondizionata – altrimenti detto la possibilità dell’impossibile, il fenomeno saturo22. 17 18 19 20 21 22

A proposito di questo tema, Marion è profondamente influenzato dal pensiero di Michel Henry. Marion 2001b, p.129, trad. mia. Si è scelto di mantenere il termine “adviene”, preferendolo all’italiano “accadere”, per rendere più visibile la struttura dell’arrivage, ossia l’“irruzione” del fenomeno nell’orizzonte soggettivo della visibilità. Marion 2001a, p.301. Ibidem. Ivi, pp.301-302. Ivi, pp.268-269, corsivo mio.

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In che modo il modello della saturazione fenomenologica potrebbe illuminare la figura girardiana della «voix du réel»? Nel recentissimo Certitudes négatives, Marion opera una distinzione di grande efficacia fenomenologica tra oggetti ed eventi (da non confondere tuttavia con l’Ereignis heideggeriano, di cui pure eredita alcuni tratti); muovendo da un’indicazione di Heidegger, secondo cui non tutti gli enti non sono evidentemente oggetti, egli sostiene: L’ente, in quanto esso appare, può anche non assumere la forma dell’oggetto, poiché l’oggettività, intesa precisamente nella propria evidenza, sembra seguire una fenomenalità debole. Debole, perché l’oggetto appare secondo una fenomenalità ad esso imposta, seguendo delle condizioni diverse dalla sue. […] Perché le condizioni di possibilità dell’oggetto dell’esperienza non rinviano mai alla cosa stessa23.

Conseguentemente, bisogna almeno ipotizzare un altro tipo di fenomenalità, che libererebbe il fenomeno dal proprio statuto di oggetto, poiché quest’ultimo non può che ripetersi, e ciò che costituiva il suo privilegio (la certezza) diviene ora la sua debolezza, in quanto non può mai prodursi dase-stesso, cioè non può mai porsi in luce a partire da se stesso. Ora, questo tipo di fenomenalità ulteriore è riservata all’evento, ossia a quel tipo di fenomeno che si fa avanti, mi viene incontro (pur nella sua invisibilità) e mi lascia interdetto, sorpreso, perché non risponde ad alcuna attesa, ma è donazione al grado massimo, puro investimento e coinvolgimento nella fenomenalità ultra- trascendentale e ultra-ontologica. Applicando le categorie della fenomenalità oggettiva, propria appunto dell’oggetto, all’evento, questo viene falsificato, coperto, contraffatto nella sua pura evenemenzialità. Dunque il fenomeno non dev’essere necessariamente definito come un oggetto, poiché la sua oggettivazione risulta da un restringimento fenomenale, da una diminutio phenomenalitatis che, se gli assicura la certezza di sé, lo fa sopprimendone il carattere originario di evento. L’oggettivazione non produce allora che un “fenomeno per difetto”, insufficiente nella sua dimensione di “venuta”, e totalmente coperto dalle strutture costituenti dell’io intuente. Così, l’oggetto e l’evento fissano i due poli fenomenologici estremi entro cui si esplica il prisma di tutti fenomeni possibili, secondo la loro topica, cioè secondo le loro varie gradazioni. Entro queste due polarità entra in gioco l’interpretazione, saldandosi così alla fenomenologia (a differenza dei vari modelli di tournant, proposti ad esempio da Ricoeur o da Grondin). La distinzione dei modi della 23

Marion 2010, p.270, trad. mia.

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fenomenalità – oggetto ed evento – può articolarsi su variazioni ermeneutiche, dipendenti dunque dall’io; infatti, dipende soltanto dal mio sguardo (beninteso, non dal mio atto costituente, ma dal mio atto d’interpretazione) che un oggetto possa apparire in quanto evento – paradossalmente, anche inciamparsi in una pietra può assumere la fenomenalità di un evento – o, viceversa, che un evento possa apparire “difettivamente” come un oggetto – per esempio la rivelazione cristiana secondo certe ideologie o strumentalizzazioni politiche, ma anche lo stesso “dio dei filosofi” che tanta parte ha avuto nella storia della cultura e della metafisica occidentale. Più un fenomeno appare come evento, più è saturo d’intuizione; al contrario, più si obbiettiva, più è povero d’intuizione. Ciò significa che l’evenemenzialità non caratterizza solo i fenomeni saturi, ma tutti i fenomeni in quando dati-donati secondo il movimento della donazione: tutti i fenomeni, cioè, appaiono in quanto “ad-vengono”, ed ogni diminuzione di questo carattere evenemenziale dipende da un’interpretazione oggettivante, dunque restringente o distorcente, dei fenomeni stessi. Conclude Marion: «Niente può donarsi per procura o per interposta persona: tutto ciò che si dona da sé, ad-viene in sé. Il fenomeno appare dunque per quanto esso ad-viene»24. Dal nostro punto di vista, una tale riflessione fenomenologica è carica di spunti fecondi di confronto col pensiero girardiano: d’altronde, è Marion stesso a ritenere “geniale” l’intuizione mimetica di Girard, a suo modo di vedere manchevole tuttavia di un impianto filosofico più sviluppato25. In primo luogo, tale modello ci permette di articolare filosoficamente il tema girardiano della “voce del reale”, cioè di quell’appello che si offre all’interpretazione da parte dell’uomo, non intesa come pratica ludica e “gioiosamente relativista”, ma che espone al rischio di condurre l’uomo stesso verso il sottosuolo violento, lungo la montée aux extrêmes, fino alla distruzione. Ora, la fenomenalità di questa voce – che è insieme rivelazione – è senz’altro quella che Marion assegna all’evento: essa proviene da un altrove che non possediamo, e ci costituisce come uomini proprio nella rivendicazione; essa si è manifestata fattualmente nella Croce di Cristo, supremo fenomeno saturo e perciò stesso radicalmente reale, Croce che non può essere tuttavia mai ridotta a oggetto, pena la serie di interpretazioni del cristianesimo in termini mitici e rituali, così bene e largamente spiegati da Girard. In termini strettamente girardiani, il “restringimento” dell’evento

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Ivi, p.275, trad. mia. Marion ha affermato la “genialità dell’intuizione mimetico-vittimaria” in occasione dei Seminari tenuti presso la Scuola di Alta Formazione Filosofica di Torino nel novembre 2006.

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della Croce a mero oggetto corrisponde al tentativo “satanico” di coprire in extremis l’autentico messaggio salvifico di Cristo e dunque il definitivo svelamento della menzogna sacrificale, menzogna grazie a cui Satana stesso ha potuto, sino a quel momento, «scacciare se stesso»26 e perpetuarsi nelle innumerevoli figure del “doppio mimetico” e del “contagio” che Girard descrive in modo formidabile almeno a partire da Vedo Satana cadere come la folgore. La Croce è, in quanto paradigma della saturazione, tanto più “reale” quanto più si sottrae ad ogni oggettivazione: questo è senz’altro un modello di razionalità del tutto nuovo, che può emergere da una feconda “reazione” tra teoria mimetica e fenomenologia della donazione. La voce del reale si ascolta nell’interpretazione che la restituisce alla propria saturazione, cioè la comprende in quanto chiamata alla Verità, dunque anche alla demistificazione di tutte le forme di oggettivazionemistificazione della rivelazione cristiana. In questa prospettiva, il sacro – nelle sue dinamiche violente e sacrificali – deriva dalla tendenza umana a restringere il campo della fenomenalità, a trasformare l’evento della “chiamata da altrove”, da quella trascendenza verticale che non genera mai conflitti, in oggetto, in quanto tale dominabile e controllabile attraverso appositi dispositivi sacrificali. In questo senso, ancora, il tema girardiano della centralità della Croce e del suo “trionfo” assumono una luce nuova: con essa, la Verità è stata mostrata, molto al di là di quanto le capacità intenzionali umane potessero prevedere, e tuttavia il fenomeno saturo della Croce non è stato compreso, è stato nuovamente ridotto ad oggetto, dando luogo ad un’interpretazione ancora sacrificale del cristianesimo. Uscire da quest’interpretazione sacrificale e “satanica”27 significa ripensare la storia umana in base a questa chiamata di fondo, a questa voce eloquente ma che ci lascia liberi di respingerla o ignorarla, significa impegnarsi lungo il cammino della demistificazione e dell’autentico realismo, che non coincide col mero dominio calcolante del dato empirico, ma che pone dinanzi all’evento del mondo, della trascendenza e della possibilità – che è sempre anche rischio – di un’esistenza non-violenta, ossia dell’inversione della «tendenza all’estremo» in «buona reciprocità»28. Se c’è dunque una via possibile per pensare insieme riduzione fenomenologica, decostruzione, demistificazione, interpretazione e responsabilità nei confronti del mondo “reale”, crediamo che questa possa passare attraverso un ripensamento del rapporto tra

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Cfr. Matteo 12, 26. A tal proposito, Girard afferma che «la fenomenologia più rigorosa approda alla demonologia» (Girard 1987, p.106). Quest’espressione ricorre più volte in Girard 2004.

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fenomenologia, ermeneutica e teoria mimetica; come si diceva all’inizio, con e oltre Girard (forse anche con e oltre Marion), ma con un’unica preoccupazione: che la “voce del reale” non si dissolva nel frastuono delle teorie di moda, ai tempi del primo Girard come oggi, poiché forse il suo ascolto è l’unica chance che possediamo per invertire la tendenza – così ben descritta da Girard in Achever Clausewitz – della montée aux extrêmes, della violenza reciproca su scala planetaria. L’imitazione di Cristo, tutt’uno con l’ascolto della «voce del reale», apre l’uomo, non solo sul piano etico, ma anche su quello ontologico e gnoseologico, all’interpretazione e comprensione autentica del proprio ruolo – arduo, perfino tragico, ma irrinunciabile – nel destino dell’umanità in generale e del pianeta. Concludiamo con un passo tratto dall’ultimo testo di Marion, Credere per vedere, in cui l’inconsapevole sintonia con Girard è impressionante, a riprova dell’estrema fecondità del dialogo possibile tra teoria mimetica e fenomenologia: Ecco perché dobbiamo – è un comandamento del Cristo – amare noi stessi, altrimenti non perdoneremo mai, non perdoneremo nulla e saremo al tempo stesso omicidi e suicidi. Imparare a riconoscersi come essenti nel modo del dono, ecco ciò che i cristiani uniti nella Chiesa cattolica hanno come proprio compito seguendo l’imitatio Christi che fa loro compiere in se stessi la somiglianza all’inconoscibile. Ma potrebbe anche darsi che questo solo e unico dovere definisca, come tale, il loro apporto più prezioso e più insostituibile al destino della nostra comune società civile29.

Riferimenti bibliografici Husserl 1950: Edmund Husserl, nota tratta da un taccuino personale cit. da W. Biemel nell’Einleitung al vol. II dell’Husserliana, Nijhoff, L’Aia 1950. La trad. it. del passo si trova in G. Pedroli, La fenomenologia di Husserl, Taylor, Torino 1958, p.47. Girard 1981: René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, trad. it. Bompiani, Milano 1981. Girard 1987: René Girard, Dostoevskij. Dal doppio all’unità, trad. it. Ed. SE, Milano 1987. Girard 2001: René Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, trad. it. Adelphi, Milano 2001. Girard 2003: René Girard, Origine della cultura e fine della storia, trad. it. Raffaello Cortina, Milano 2003.

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Marion 2012, p.167.

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Girard 2004: René Girard, La pietra dello scandalo, trad. it. Adelphi, Milano 2004. Girard 2006: René Girard, La voce inascoltata della realtà, trad. it. Adelphi, Milano 2006. Girard, Vattimo 2006: René Girard-Gianni Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, Transeuropa, Ancona 2006. Girard 2008: René Girard, Portando Clausewitz all’estremo, trad. it. Adelphi, Milano 2008. Marion 2001a: Jean-Luc Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, trad. it. Sei, Torino 2001. Marion 2001b: Jean-Luc Marion, De surcroît. Études sur les phénomènes saturés, PUF, Paris 2001. Marion 2010: Jean-Luc Marion, Certitudes négatives, Grasset, Paris 2010. Marion 2012 : Jean-Luc Marion, Credere per vedere, trad. it., Lindau, Torino 2012. Ricoeur 1998 : Paul Ricoeur, À l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris 1998. Tarditi 2010: Claudio Tarditi, Non solo interpretazioni, ma anche fatti. Note sulla lettura girardiana del relativismo, in Maria Stella Barberi-Silvio Morigi (a cura di), Religioni, laicità, secolarizzazione. Il cristianesimo come fine del sacro in René Girard, Transeuropa, Ancona 2010, pp.401-409.

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FILOSOFIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio 1 2 3 4 5

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Deborah Ardilli, Prima della virtù. Esperienza, conoscenza e innocenza nella filosofia di Stuart Hampshire Francesco Borgia, L’uomo senza immagine. La filosofia della natura di Hans Jonas Antonino Trusso, L’uomo allo specchio Fulvio Carmagnola, Il desiderio non è una cosa semplice. Figure di agalma Giovanni Chimirri, Filosofia e teologia della storia. L’esistenza umana in divenire Pietro D’Oriano, Draga Rocchi (a cura di), Il male e l’essere. Atti del convegno internazionale di studi Girolamo Fracastoro, Della Torre ovvero l’Intellezione Giovanni Invitto, Fra Sartre e Wojtyla. Saggi su fenomenologie ed esistenze Mauro La Forgia, Morfogenesi dell’identità Giovanni Leghissa, Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione Giovanni Carlo Leone, Marx dopo Heidegger. La rivoluzione senza soggetto, Stefano Mancini (a cura di), Sguardi sulla scienza del giardino dei pensieri Julia Ponzio, Filippo Silvestri, Itinerari nel pensiero filosofico di Giuseppe Semerari Giovanni Rossetti, Le radici estetiche dell’etica in Gregory Bateson Stefania Tarantino, La libertà in formazione. Studio su Jeanne Hersch e Maria Zambrano Bruno Accarino (a cura di), Espressività e stile. La filosofia dei sensi e dell’espressione in Helmuth Plessner Angela Ales Bello, Patrizia Manganaro (a cura di), Le religioni del Mediterraneo. Filosofia, Religione, Cultura Roberto Armigliati, Responsabilità illimitata. “Per una nuova era di responsabilità” Mimmo Pesare, Abitare ed esistenza. Paideia dello spazio antropologico Francesco Borgia, Appartenenza e alterità. Il concetto di storicità nella filosofia di Martin Heidegger Adriano Bugliani, Contro di sé. Potere e misconoscimento Damiano Cantone, Cinema, tempo e soggetto. Il Sublime kantiano secondo Deleuze Silvia Capodivacca, Danzare in catene. Saggio su Nietzsche Giovanni Chimirri, L’arte spiegata a tutti. Il senso spirituale della bellezza in dieci lezioni Maria Lucia Colì, La natura e l’ontologia in alcuni inediti dell’ultimo MerleauPonty Vincenzo Cuomo, Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene Daniela De Leo, La relazione percettiva. Merleau-Ponty e la musica Gaia De Pascale, Qui non si canta al modo delle rane. La città nelle poetiche futuriste

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29 Giovanni Di Benedetto, L’ecologia della mente nell’etica di Spinoza. Amore della natura e coscienza globale sulla via della complessità 30 Josef Dietzgen, L’essenza del lavoro mentale umano e altri scritti 31 Roberto Fai, Genealogie della globalizzazione. L’Europa a venire 32 Fabio Farrotti, Il concetto dionisiaco della vita. Uno studio sul nichilismo 33 Sergio Franzese, Darwinismo e pragmatismo e altri studi su William James 34 Giacomo Fronzi, Etica ed estetica della relazione 35 Giuliano Glauco, L’immagine del tempo in Henry Corbin. Verso un’idiochronia angelomorfica 36 Cristina Guarnieri, Il linguaggio allo specchio. Walter Benjamin e il primo romanticismo tedesco 37 Federico Italiano, Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan 38 Michael Konrad, Amore e amicizia: un percorso attraverso la storia dell’etica 39 Vanna Gessa Kurotschka, Chiara De Luzenberger (a cura di), Immaginazione etica interculturalità 40 Riccardo Lazzari, Massimo Mezzanzanica, Erasmo Silvio Storace (a cura di), Vita, concettualizzazione, libertà. Studi in onore di Alfredo Marini 41 Stefano Marino, Ermeneutica filosofica e crisi della modernità. Un itinerario nel pensiero di Hans-Georg Gadamer 42 Markus Ophälders, Filosofia arte estetica. Incontri e conflitti 43 Riccardo Pozzo, Marco Sgarbi (a cura di), I filosofi e l’Europa 44 Vincenzo Rosito, Espressione e normatività. Soggettività e intersoggettività in Theodor W. Adorno 45 Barbara Scapolo, Esercizi di de-fascinazione. Saggio su E. M. Cioran 46 Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Sui miti. Le saghe storiche e i filosofemi del mondo antichissimo 47 Renato Troncon, Estetica e antropologia filosofica 48 Francesco Valagussa, Individuo e stato. Itinerari kantiani ed hegeliani, 49 Roberta Cavicchioli, Breve storia di un’ingratitudine. Victor Cousin nell’album di famiglia della scuola repubblicana 50 Leonardo Tomasetta, Destra e sinistra. I due corni del dilemma borghese 51 Dario Sacchi (a cura di), Passioni e ragione fra etica ed estetica 52 Mario Alcaro (a cura di), L’oblio del corpo e del mondo nella filosofia contemporanea 53 Luciano Arcella, L’innocenza di Zarathustra. Considerazioni sul I libro di Così parlò Zarathustra di F. Nietzsche 54 Tiziana Carena, La pneumatologia teologico-estetica di Vincenzo Gioberti, 55 Susi Pietri, L’opera inaugurale. Gli scrittori-lettori della Comédie Humaine I 56 Antonio Rainone, Il doppio mondo dell’occhio e dell’orecchio 57 Francesco Giacomantonio, Introduzione al pensiero politico di Habermas. Il dialogo della ragione dilagante 58 Emanuele Profumi, L’autonomia possibile. Introduzione a Castoriadis 59 Fabio Vander, Essere e non-essere. La Scienza della logica e i suoi critici 60 Gianluca Verrucci, Ragion pratica e normatività. Il costruttivismo kantiano di Rawls, Korsgaard e O’Neill 61 Emanuele Mariani, Kierkegaard e Nietzsche. Il Cristo e l’Anticristo 62 Viviana Meschesi, Sistema e trasgressione. Logica e analogia in F. Rosenzweig, W. Benjamin ed E. Levinas

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Giorgio Brianese, L’arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter Mario Cingoli, Marxismo, empirismo, materialismo Nicola Magliulo, Cacciari e Severino. Quaestiones disputatae René Scheu, Il soggetto debole. Sul pensiero di Aldo Rovatti Andrea Amato, Agli esordi dell’esserci. Ancor privi del senso del bene e del male Franco Manti (a cura di), Res publica Luca Marchetti, Oltre l’immagine Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini Rossella Bonito Oliva, Labirinti e costellazioni. Un percorso ai margini di Hegel Luca Gasparri, Filosofia dell’illusione. Lineamenti di glottologia e di critica concettuale Julia Ponzio, Giuseppe Mininni, Augusto Ponzio, Maria Solimini, Susan Petrilli, Luciano Ponzio, Roland Barthes. La visione ottusa Ornella Crotti, La bellezza del bene. Il debito di Hannah Arendt nei confronti di Immanuel Kant Stefano Zampieri, Introduzione alla vita filosofica. Consulenza filosofica e vita quotidiana Vincenzo Comerci, Filosofia e mondo. Il confronto di Carlo Sini Felice Accame, Mario Valentino Bramè, La strana copia. Carteggio fra due avversari su natura e funzione della filosofia con documentazione a sostegno di entrambi Carlo Burelli, E fu lo stato. Hobbes e il dilemma che imprigiona Antonio Di Chiro, La notte del mondo. Luoghi del senso, luoghi del divino Claudio Lucchini, Il bene come possibile processo concreto. Natura e ontologia sociale Manuel Cruz, La memoria si dice in molti modi. La priorità della politica sulla storia Giovanni Invitto, Marleau-Ponty par lui-même. Una pratica filosofica della narrazione di sé Valentina Tirloni, L’enigma del colore. Un approccio fenomenologico e simbolico Giacomo Fronzi, Contaminazioni. Esperienze estetiche nella contemporaneità Alessia Cervini, La ricerca del metodo. Antropologia e storia delle forme in S. M. Ejzenštejn Luciano Ponzio, L’iconauta e l’artesto. Configurazioni della scrittura iconica Chimirri Giovanni, Siamo tutti filosofi (basta volerlo) Bordoni Giorgia, I nomi di Dio. Religione e teologia in Jacques Derrida German A. Duarte, La scomparsa dell’orologio universale. Peter Watkins e i mass media audiovisivi Filippo Silvestri, Segni significati intuizioni. Sul problema del linguaggio nella fenomenologia di Husserl Romeo Bufalo, Giuseppe Cantarano, Pio Colonnello (a cura di), Natura storia società. Studi in onore di Mario Alcaro Stefano Bracaletti, Individualismo metodologico, riduzionismo, microfondazione. Problematiche e sviluppi del paradigma individualista nelle scienze sociali Giovanni Invitto, La lanterna di Diogene e la lampada di Aladino Andrea Camparsi, Irene Angela Bianchi, L’autocoscienza e la prospettiva sul mondo Veronica Santini, Il filosofo e il mare. Immagini marine e nautiche nella Repubblica di Platone

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Jean-Pierre Vernant, L’immagine e il suo doppio. Dall’era dell’idolo all’alba dell’arte Barbara Chitussi, Immagine e mito. Un carteggio tra Benjamin e Adorno Marco Jacobsson, Heidegger e Dilthey. Vita, morte e storia Lorenzo Bernini, Mauro Farnesi Camellone, Nicola Marcucci, La sovranità scomposta. Sull’attualità del Leviatano Francesco Barba, Il persecutore di Dio. San Paolo nella filosofia di Nietzsche Augusto Mazzone, Il gioco delle forme sonore. Studi su Kant, Hanslick, Nietzsche e Stravinskij Aldo Trucchio (a cura di), Cartografie di guerra. Le ragioni della convivenza a partire da Kant Victorino Pérez Prieto, Oltre la frammentazione del sapere e la vita: Raimon Panikkar Fabio Martelli, Un libertino nel “Plenilunio delle monarchie” Angelica Polverini, L’inganno dei sensi. La percezione sinestetica tra vista e tatto dall’antichità all’arte del Cinquecento Federica Negri, Ti temo vicina ti amo lontana. Nietzsche, il femminile e le donne Maieron Mario Augusto, Alla ricerca dell’isola che non c’è. Ragionamenti sulla mente Casini Leonardo, Corporeità. La corporeità nelle Ergänzungen al Die Welt di Schopenhauer e altri scritti Giuseppe Campesi, Soggetto, disciplina, governo. Michel Foucault e le tecnologie politiche moderne Bertolini Mara Meletti (a cura di), Ragion pratica e immaginazione. Percorsi etici tra logica, psicologia ed estetica Cattaneo Francesco, Domandare con Gadamer Pantano Alessandra, Dislocazione. Introduzione alla fenomenologia asoggettiva di Jan Patočka Luisetti Federico, Una vita. Pensiero selvaggio e filosofia dell’intensità Fichte Johann Gottlieb, Lezioni sulla destinazione del dotto (1811). La Dottrina della Scienza, esposta nel suo profilo generale (1810) Marcello Ghilardi, Il visibile differente. Sguardo e relazione in Derrida Farotti Fabio, Ex Deo-ex nihilo. Sull’impossibilità di creare/annientare Paolo Aldo Rossi, Paolo Vignola (a cura di), Il clamore della filosofia. Sulla filosofia francese contemporanea Vallori Rasini (a cura di), Aggressività. Un’indagine polifonica Francesco Paparella, Imago e verbum. Filosofia dellʼimmagine nellʼalto Medioevo Gaspare Polizzi, Giacomo Leopardi: la concezione dell’umano tra utopia e disincanto F. Mazzocchio, Le vie del logos argomentativo. Intersoggettività e fondazione in K.-O. Apel Soardo Andrea, Accade l’accadere Antonio Martone, Le radici della disuguaglianza. La potenza dei moderni Pierre Macherey, Jules Verne o il racconto in difetto Elena Irrera, Il bello come causalità in Aristotele Alessandro Amato, L’etica oltre lo Stato. Filosofia e politica in Giovanni Gentile Carlo Chiurco, Etica e sacro. Il Bene e l’Autentico oltre l’Occidente

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128. Auguro Ponzio, In altre parole 129. Grigenti Fabio, Giacomini Bruna, Sanò Laura (a cura di), La passione del pensare. In dialogo con Umberto Curi 130. Scoto Eriugena Giovanni, Il cammino di ritorno a Dio. Il Periphyseon, a cura di Vittorio Chietti 131. Di Bernardo Mirko, I sentieri evolutivi della complessità biologica nell’opera di S. A. Kauffman 132. Marrone Pierpaolo, Etica, utilità, contratto 133. Marsili Marco, Libertà di pensiero. Genesi ed evoluzione della libertà di manifestazione del pensiero negli ordinamenti politici dal V sec. A.C. 134. Cortella Lucio, Mora Francesco, Testa Italo (a cura di), La socialità della ragione. Scritti in onore di Luigi Ruggiu 135. Cavarra Berenice e Rasini Vallori (a cura di), Passaggi. Pianta, animale, uomo, in preparazione 136. Elio Matassi, Il giovane Lukács. Saggio e sistema 137. Giacomo Fronzi, Theodor W. Adorno, Pensiero critico e musica 138. Emma Palese, Ex Corpore. Antologia Filosofica sul Corpo 139. Andrea Campucci, Nietzsche: la fine della ragion pura 140. Umberto Lodovici, Religione e politica. Il contributo di Jacques Maritain 141. Tonino Infranca, Lavoro, Individuo, Storia 142 Matteo G. Brega, L’estetizzazione del quotidiano. Dall’Arts and Crafts all’Art Design 143. Romolo Capuano (a cura di), Bizzarre illusioni. Lo strano mondo della Pereidolia e dei suoi segreti 144. Bruno Accarino, Ostilità. Il mosaico del conflitto 145. Nicoletta Cusano, Capire Severino. La risoluzione dell’aporetica del nulla 146. Marianna Esposito, Oikonomia. Una genealogia della comunità. Tönnies, Durkheim, Mauss 147. Georgia Zeami Francesca Presti, Daimonicità del lógos. Socrate nel Protagora e nel Gorgia 148 Marcello Barison, Sulla soglia del nulla. Mark Rothko: l’immagine oltre lo spazio, 2011 149. Fabio Vander, Relatività e Fondamento. Filosofia di Aristotele 150. Giorgio Cesarale, Hegel nella filosofia pratico-politica anglosassone dal secondo dopoguerra ai giorni nostri 151. Francesco Valagussa (a cura di), Immanuel Kant. Prima introduzione alla Critica della capacità di giudizio 152. Marcello Ghilardi, Arte e pensiero in Giappone. Corpo, immagine, gesto 153. Pietro Piro, La peste emozionale, l’uomo-massa e l’orizzonte totalitario della tecnica. Un Seminario, alcuni saggi e materiali per uno schizo-umanesimo 154. Rosa Marafioti, Il ritorno a Kant di Heidegger. La questione dell’essere e dell’uomo 155. Giancarlo Lacchi, Ludwin Klages Coscienza e immagine. Studio di storia dell’estetica 156. Maurizio Guerri, Necessità dell’estetica e potenza dell’arte 157. Susan Petrillo, Augusto Ponzio, Luciano Ponzio, Interferenze 158. Anna Castelli, Lo sguardo di Kafka. Dispositivi di visione e immagine nello spazio della letteratura 159. Silvia Capodivacca, Sul tragico. Tra Nietzsche e Freud

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160. Maurizio Guerri, La mobilitazione globale. Tecnica, violenza, libertà in Ernst Jünger 161. Natascia Mattucci e Gianluca Vagnarelli (a cura di), Medicalizzazione, sorveglianza e biopolitica. A partire da Michel Foucault 162. Alfio Fantinel, Tracce di assoluto. Agonia dell’infinito in Giordano Bruno 163. Lisa De Luigi, Animalia. Teoria e fatti della macchina antropogenica 164. Massimo Canepa, Friedrich Nietzsche. L’arte della trasfigurazione 165. Ginette Michaud, Veglianti. Verso tre immagini di Jacques Derrida 166. Paulo Barone, Utopia del presente 167. Giuseppe Bonvegna, Politica, religione, Risorgimento. L’eredità di Antonio Rosmini in Svizzera 168. Luca Caddeo, L’Operaio di Ernst Jünger. Una visione metafisica della tecnica, 2012 169. Simona Bertolini, Eugen Fink e il problema del mondo: tra ontologia, idealismo e fenomenologia 170. Enrico Mastropierro, Il corpo e l’evento. Sullo Spinoza di Deleuze 171. Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Volti della memoria 172. Domenica Bruni, Politici sfigurati. La comunicazione politica e la scienza cognitiva 173. Emanuele Mariani, Risonanze impolitiche. Riflessioni filosofiche tra ragioni e fedi 174. Giovanni Chimirri, Teologia del nichilismo. I vuoti dell’uomo e la fondazione metafisica dei valori 175. Angelo Bruno, L’ermeneutica della testimonianza in Paul Ricoeur 176. Maria Grazia Turri, Biologicamente sociali, culturalmente individualisti 177. Leonardo Caffo, La possibilità di cambiare. Azioni umane e libertà mora 178. Francesco Vitale, Mitografie. Jacques Derrida e la scrittura dello spazio 179. Andrea Velardi, La barba di Platone. Quale ontologia per gli oggetti materiali? 180. Davide Gianluca Bianchi, Dare un volto al potere. Gianfranco Miglio fra scienza e politica. In Appendice il carteggio Schmitt-Miglio 181. Riccardo Corsi, Incroci simbolici 182. Francesco Valagussa, L’arte del genio. Note sulla terza critica 183. Vinicio Busacchi, Tra ragione e fede. Interventi buddisti 184. Giuseppe Di Giacomo, Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento 185. Daniela De Leo, Una convergenza armonica. Beethoven nei manoscritti di Michelstaedter e Merleau-Ponty 186. Stefano Bracaletti, Microfondazione. Problematiche della spiegazione individualista nelle scienze sociali 187. Giorgio Palumbo, Finitezza e crisi del senso. La nostra insecuritas e il richiamo dell’assenza 188. Mario Augusto Maieron, C’era una volta un re...! Intorno alla mente (Περί ψυχῆς) tra neuroscienze, filosofia, arte e letteratura 189. Tiziano Boaretti, La via mistica. Itinerario filosofico in quindici stazioni. 190. Massimo Frana, Il segreto dei fratelli del libero spirito 191. Enzo Cocco, La melanconia nell’età dei lumi 192. José Ortega y Gasset, Appunti per un commento al Convivio di Platone, a cura di Pietro Piro 193. Antonio Coratti, Karl Löwith e il discorso del cristianesimo 194. Sarah F. Maclaren, Magnificenza e mondo classico

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195. Jean Soldini, A testa in giù. Per un’ontologia della vita in comune 196. Matteo G. Brega, Multimedialità digitale e fruizione parcellizzata. Estetica e forme d’arte del Novecento 197. Francesca Marelli, Fisica dell’anima. Estetica e antropologia in J.G. Herder 198. Mario Cingoli, Hegel. Lezioni preliminari 199. Tommaso Ariemma, Estetica dell’evento. Saggio su Alain Badiou 200. Gianfranco Mormino, Spazio, Corpo e moto nella Filosofia naturale del Seicento 201. Maria Teresa Costa, Filosofie della traduzione 202. Giuseppe Zuccarino, Il farsi della scrittura 203. S. Fontana, E. Mignosi (a cura di), Segnare, parlare, intendersi: modalità e forme 204. Giovanni Invitto, La misura di sé, tra virtù e malafede. Lessici e materiali per un discorso in frammenti 205. Enrica Lisciani Petrini, Charis. Saggio su Jankélévitch 206. Anthony Molino, Soggetti al bivio. Incroci tra psicoanalisi e antropologia 207. Franco Rella, Susan Mati, Thomas Mann, mito e pensiero 208. J. D. Caputo e M. J. Scanlon, Dio, il dono e il postmoderno. Fenomenologia e religione 209. Friedrich W.J. Schelling, Esposizione del Processo della Natura 210. Stefano Poggi (a cura di), Il realismo della ragione. Kant dai Lumi alla filosofia contemporanea 211. Ruggero D’Alessandro, Le messaggere epistolari femminili attraverso il ‘900. Virginia Woolf, Hannah Arendt, Sylvia Plath 212. Giovanni Invitto, Il diario e l’amica. L’esistenza come autonarrazione 213. Luca Mori, Tra la materia e la mente 214. Alberto Giacomelli, Simbolica per tutti e per nessuno 215. Paulo Butti, Un’archeologia della politica. Letture della Repubblica platonica 216. Erasmo Storace, Ergografie. Studi sulla struttura dell’essere 217. Francesco Maria Tedesco, Eccedenza sovrana 218. Marco Vanzulli (a cura di), Razionalità e modernità in Vico 219. Marcello Barison, Estetica della produzione. Saggi da Heidegger 220. Elio Matassi (a cura di), Percorsi della conoscenza 221. Mirko di Bernardo, Danilo Saccoccioni, Caos, ordine e incertezza in epistemologia e nelle scienze naturali 222. Liliana Nobile, Democrazie senza futuro 223. Giacomo Fronzi (a cura di), John Cage. Una rivoluzione lunga cent’anni, con unʼintervista inedita 224. Paolo Taroni, Filosofie del tempo. Il concetto di tempo nella storia del pensiero occidentale 225. Roberto Diodato, L’invisibile sensibile. Itinerari di ontologia estetica 226. Bruno Moroncini, Il lavoro del lutto, Materialismo, politica e rivoluzione in Walter Benjamin 227. Antonio Valentini (a cura di), Il silenzio delle sirene: mito e letteratura in Franz Kafka 228. Giuseppe Maccaroni, Sociologia Stato Democrazia 229. Damiano Cantone (a cura di), Estetica e realtà, Arte Segno e Immagine 230. Marino Centrone, Rocco Corriero, Stefano Daprile, Antonio Florio, Marco Sergio

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(a cura di), Percorsi nellʼepistemologia e nella logica del Novecento Pierdaniele Giaretta (a cura di), Le classificazioni nelle scienze Luca Grion, Persi nel labirinto. Etica e antropologia alla prova del naturalismo Marco Piazza, Il fantasma dell’interiorità. Breve storia di un concetto controverso Emilio Mazza, La peste in fondo al pozzo. L’anatomia astrusa di David Hume Luca Marchetti, Il corpo dell̓immagine. Percezione e rappresentazione in Wittgenstein e Wollheim Monica Musolino, New towns post catastrofe. Dalle utopie urbane alla crisi delle identità Barbara Troncarelli, Complessità dilemmatica. Logica, scienza e società in Giovanni Gentile Emanuele Arielli, La mente estetica. Introduzione alla psicologia dell’arte Emanuele Arielli, Wittgenstein e l’arte. L’estetica come problema linguistico ed epistemologico

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