Schelling e la filosofia dell’arte

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La Rivista di Filosofìa continuazione della Rivista Filosofica fondata da Carlo Cantoni e della Rivista di Filosofia e Scienze Affini diretta da G. Marchesini esce in cinque fascicoli annui : bimensili i tre primi, trimestrali i due ultimi. Un Fascicolo separato L. 2,50, estero L. 3,00. Abbonamento annuo anticipato: L. IO, estero L. 18 Decorre dal Gennaio al Dicembre. Per i soci della -Società Filosofica Italiana L. 18. estero L. 14, com­ presa la quota sociale. Gli abbonamenti non disdetti entro il novembre si intenderanno con­ fermati per P annata successiva.

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OPUSCOLI DI FILOSOFIA E DI PEDAGOGIA

N. 3. ----------------------------------------- --------------------------------------------------

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LA FILOSOFIA DELL’ARTE p il

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A. F. F0RMIGGIN1 —

editore

BOLOGNA-MODENA (Sede in Modena)

1909.

PROPRIETÀ LETTERARIA

Ogni esemplare dovrà portare impressa a secco nel Jrontispieio l*impresa editoriale.

Modena, 1909. — Società Tipografica Modenese.

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Una nuova edizione tedesca ci presenta in tre grossi o ornati volumi le opere principali dello Schelling; di quel filosofo roman­ ticamente idealista, la cui voce pareva ormai spenta nell’ epoca contemporanea educata alla critica severa e tutta rivolta agli studi positivi *). Qual epoca infatti più lontana della nostra da quell’entusiasmo per le cose ultrasensibili, da quella fede ardente e ingenua nella conoscenza dell’Assoluto che parea principio e fondamento di tutte le altre? Per lo Schelling non vi è che una scienza; e questa scienza unica e universale è in pari tempo filo­ sofìa, perchè le ragioni di tutte quante le cose non possono non ritrovarsi nell’Assoluto. Leggiamo la prima delle sue lezioni su Metodo dello studio accademico; essa porta per titolo: II con­ cetto assoluto della Scienza2 ). 11 particolare che si studia nelle singole scienze, egli dice, non ha valore se non in quanto porta con sè l’impronta dell’ Universale c dell’Assoluto. Quando ciò si dimentichi, si potrà collo studio accademico fare un bravo medico un bravo avvocato, non mai un vero dotto, un vero scienziato. Il vero scopo della Scienza dev’esser quello di liberare lo spirito dalle limitazioni d’ una cultura unilaterale e inalzarlo nel regno dell’Universale o dell’Assoluto. Allo studio specifico di una deter­ minata disciplina devo dunque precedere la conoscenza dell’ or­ ganica totalità del sapere, e del posto che in essa spetta a quella

’) I. W. .1. Schelling Wkrkk Auswahl in drei .Bande* Loipzig, Eckardt. 1907. x) Op. oit., pag. 541 e seg. Voi. II.

— -4 — particolar disciplina, in modo da non subirla come schiavo, ma accoglierla e ripensarla liberamente nello spirito del tutto. Lo Schelling sperava che nell’avvenire le scienze assumes­ sero un movimento di convergenza verso un comune punto d’in­ contro in cui venissero scambievolmente a comprendersi e com­ penetrarsi, formando dei rispettivi raggi una gran luce unica e sola. Ma quale delusione sarebbe stata la sua, se gli fosse toccato di vivere più a lungo! Il relativismo scientifico e la divisione del lavoro dai suoi tempi in poi hanno spinto all’estremo la diver­ genza delle singole scienze, tanto da far quasi perdere all’ occhio la possibilità stessa di un comune punto d’incontro. Ma se lo Schelling da idealista impenitente e intollerante ebbe il torto di non vedere che la divisione del lavoro era condizione imprescin­ dibile e necessaria al progresso delle cognizioni scientifiche, non è men vero che oggi, ottenuto questo progresso e menatone gran vanto, si deplora quello appunto che deplorava lo Schelling, 1’isolamento reciproco, anzi il soverchio sminuzzamento delle disci­ pline, la mancanza di vedute sintetiche e comprensive, l’anne­ gamento nei particolari. Non lasciamoci spaventare da una parola che si vorrebbe oggi scancellare dai nostri vocabolari: leggiamo nell’ Assoluto del filosofo alemanno l’aspirazione legit­ tima all’ unità fondamentale del sapere, e allora si capirà come egli possa rinascere nella nostra stima e considerazione. Ma il nome dello Schelling resterà, nella storia del pensiero, legato soprattutto alla filosofìa dell’Arte. Ogni qualvolta, io credo, saremo portati a meditare su le ragioni profonde dell’arte e i suoi intimi legami colla filosofia e la vita, il nome dello Schelling tornerà in onore. Egli vedeva una intima unione non solo fra tutte le scienze, ma fra l’Arte e la Scienza. Come nell’infanzia del sapere umano la filosofia è stata prodotta e nutrita dalla poesia e con lei tutte le scienze che per mezzo suo vengono recate a perfezione; cosi, raggiunta questa, le medesime scienze ritorneranno, quasi altrettanti fiumi, a quell’universale oceano della poesia da cui un tempo derivarono. Come nel mondo della natura, cosi nel mondo dello spirito regna una maravigliosa legge di circolazione. Lo spirito nella sua odissea parte da una orif/inaria identità e ad essa deve ritornare; perciò un sistema filosofico può dirsi compiuto solamente quando sia ricondotto al suo punto di par­ tenza. Tutta la filosofia muove e deve muovere da un principio» il quale, come l’Assoluto, è in sé perfettamente identico, ossia

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— 5 — non ha traccia delle contradizioni in cui si travaglia il mondo dell’essere fra subbietlivo e obiettivo, coscente e incoscente, libero e necessario. Ma ciò che è in sé assolutamente semplice e identico non si può comprendere e comunicare per via di descrizione, o, in generale, per via di concetti. Può solamente essere intuito : e una tale intuizione è l’organo presupposto di ogni filosofìa. Ma questa intuizione che non è sensibile, bensì intellettuale anzi trascendentale', che ha per iscopo non l’obiettivo o il subiettivo, ma l’assolutamente identico, il quale, come s’ è detto, non è in sè nè subiettivo nè obiettivo perchè all’uno e all’altro anteriore; è necessariamente un’ intuizione interna, che di per sé stessa non può estrinsecarsi o divenire obiettiva', può divenir tale solo per mezzo di una seconda intuizione che è I’ estetica. In altri termini, all’ Arte sola riesce di rendere obiettivo e quindi univer­ salmente valevole ciò che il filosofo non può intuire se non in maniera puramente interiore e quindi subiettiva ; a lei sola è con­ cessa l’assoluta obiettività e con questa l’universale validità. Togliete l’obiettività all’arte e cesserà di essere quello che è per divenire filosofia; date 1’ obiettività alla filosofìa e cesserà di esser filosofìa per divenire arte. La lilosofìa raggiunge bensì il sommo vero, ma non porta fino a questo eccelso segno che un fram­ mento dell’uomo: l’arte vi porta invece l’uomo intiero e qui sta il suo eterno miracolo. Poiché dunque 1’ Arte ci da una rappresentazione concreta e perciò obiettiva di quell’Assoluto, di quell’Eterno che la filosofia non può intuire se non in forma astratta e puramente interiore, essa diviene così, a un tempo, organo immortale e documento perenne della filosofìa; da lei sola dice lo Schelling, possiamo aspettarci di vedere aperto il santuario dove in eterna e origi­ naria comunione arde quasi in una fiamma ciò che nella natura e nella storia è separato e che nella vita e nell’ azione, come nel pensiero, è condannato a fuggire sè stesso. La rappresentazione dell’assoluta unità per mezzo dell’arte non è più astratta, ma concreta perchè ottenuta attraversando, ricomponendo e superando le contradizioni che scindono l’essere e ne agitano il seno profondo. Infatti quell’invariabilmente Identico che sta sotto a queste con­ traddizioni dopone nell’animo dell’artista il velame onde agli altri appar circondato e risplende in tutta la sua luce candidis­ sima. L’ Arte è dunque la conciliazione dell’ obiettivo e del subiet­ tivo, del conscio o dell’ inconscio, del libero e del necessario.

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Queste contradizioni poggiano tutte su d’ una fondamentale. Ciò che è creato con coscienza è libero ed esiste subiettivamente (spirito); ciò che è prodotto inconsciamente è obiettivo e nello stesso tempo necessario (natura). 11 prodotto estetico se deve essere la conciliazione di queste contrarietà dovrà avere in comune col prodotto della libertà la coscienza, col prodotto naturale l’in­ coscienza della creazione. Nella produzione organica, p. es., la Natura comincia in maniera inconscia e finisce coscientemente, in quanto produce un essere vivente e dotato di coscienza: non la produzione dunque è cosciente, ma il prodotto. Nella creazione estetica si ha l’inverso; l’io deve cominciare con coscienza (su­ biettivamente ) e finire nell’inconscio (obiettivamente). L’io è cosciente rispetto alla produzione, non rispetto al prodotto. Se ciò non fosse, il prodotto dell’ arte non sarebbe obiettivo, poiché abbiam veduto essere obiettivo solo ciò che nasce inconsciamente. L’ ar­ tista è dunque immensamente superato dal suo prodotto, tanto che egli stesso non ha nè può avere adeguata coscienza di ciò che egli esprime; in altri termini, sembra che l’artista abbia nel­ l’opera sua (oltre quanto vi ha messo con palese intenzione) rappresentata istintivamente, inconsapevolmente una infinità che nessun intelletto, neanche il suo, è capace di sviluppare o esau­ rire intieramente. La mitologia greca, ad esempio, considerata come opera dell’ Arte, racchiude un senso infinito e una simbo­ logia universale', eppure è nata in un’ epoca determinata per ri­ spondere ai bisogni d’un popolo determinato. Bisogna dunque effettivamente dire che in ogni grande opera artistica giaccia una infinità d’intenzioni; ma queste possono essere nell’opera stessa considerata come prodotto, non già nell’ artista la cui in­ tenzionalità cosciente non può non essere limitata. In ciò appunto sta l’obiettività e l’universale validità dell’ opera d’ arte; in quanto essa, come prodotto, supera la coscienza individuale dell’ artista, alla quale se fosse ristretta, non potrebbe avere che un valore soggettivo e provvisorio. Ogni creazione estetica poggia dunque sopra un’antitesi delle due attività cosciente ed incosciente. Tutti gli artisti perciò at­ testano che alle loro creazioni sono spinti involontariamente, e nel creare appagano una irresistibile tendenza della loro natura, che essi come non sanno padroneggiare non sanno neanche spiegare o comprendere. Ma il sentimento dell’intima contradi­ zione fra cosciente e incosciente, fra ciò che uno si sente d’essere e ciò che gli viene misteriosamente imposto, si risolve poi, per

— 7 — confessione di tutti gli artisti e di quanti partecipano alle loro ebbrezze, nel sentimento di un’infinita armonia, quando l’opera d’arte sia compiuta; sentimento che l’autore attribuisce non sol­ tanto a sé stesso, ma a una liberalità spontanea della sua natura, la quale, come fu inesorabile nel metterlo in contradizione con sé stesso, così è poi benigna nel rimuovere da lui l’angoscia di quella contradizione. E questo sentimento d’infinita armonia o suprema pacificazione deve naturalmente passare dall’autore nell’opera d’arte; perciò l’espressione esterna di questa dev’essere la calma e la serena grandezza anche laddove andrebbe espressa la ten­ sione più alta del dolore e della gioia. Come colui che è sottoposto al fato non compie ciò che egli vuole od intende, ma ciò che gl’impone la forza incomprensibile sotto la cui influenza viene a trovarsi, così l’artista, per quanto possa credere di avere mire ed intenzioni sue proprie, pure in riguardo a ciò che v’ ha di veramente obiettivo nella sua creazione pare che si trovi sotto 1* influsso di una forza che lo singolarizzi da tutti gli altri uomini, e lo costringa ad esprimere o a descrivere cose che egli stesso non penetra e la cui significazione è infinita. Se 1’ arte è dovuta alla cooperazione di due attività affatto . diverse fra loro, il genio non è nè 1’ una nè l’altra ma ciò che sta sopra ad entrambe. Se in una di quelle due attività, cioè nella cosciente, dobbiam cercare ciò che comunemente si chiama arte, che per altro non è se non una frazione di essa, vale a dire ciò che in essa viene esercitato con coscienza, ponderazione e riflessione, e si può anche insegnare, imparare od ottenere con l’aiuto della tradizione e della propria industria; all’ incontro nell’ elemento in­ conscio, che tuttavia entra pure nell’ arte, dobbiam ricercare quel che in essa non si può apprendere nè conseguire coll’esercizio o in altro modo, ma può esser solamente dato dalla liberale spon­ taneità della natura, e si suol chiamare poesia. Tutto il sistema dello Schelling si muovo fra due estremi : 1’ intuizione intellettuale organo della filosofìa, l’intuizione estetica organo dell’arto. Ma questi due estremi vengono poi a coinci­ dere, sicché tutto il sistema si può rappresentare, come fu già detto, con un circolo che ritorna al suo punto di partenza. Come por la filosofìa 1’ Assoluto è il prototipo della verità, così egli è per 1’ arte il prototipo della bellezza. La verità e la bellezza, non sono che due modi di considerare lo stesso Assoluto. Ma come può 1’ Assoluto che è in sè uno e semplice passare in una distin­ zione e in una moltiplieità? Come dall’ universale e assoluto Bello

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può derivare una pluralità di cose belle? La filosofìa risponde alla prima domanda colla dottrina delle Idee. L’Assoluto è uno; ma quest’uno intuito nelle singole forme, così che l’Assoluto stesso non sia con ciò tolto, è l’Idea. Alla seconda domanda risponde l’arte colla dottrina degli Dei. Anch’essa intuisce 1’Assoluto bello in speciali forme che sono le idee, delle quali ciascuna è in sè divina ed assoluta, ma mentre la filosofia intuisce le idee in sè cioè come idee, Parte le intuisce come reali. Le idee reali, viventi ed esistenti sono gli Dei; la simbolica universale o l’esposizione universale delle idee come reali è perciò data nella Mitologia. Gli Dei della mitologia non sono dunque nicnt’ altro che le Idee della filosofìa intuite realmente od oggettivamente. La filo­ sofia non presenta le cose sensibili, ma i loro prototipi ideali, di cui quelle non sono che copie imperfette; altrettanto fa l’arte aggiungendo però a quei prototipi ideali V oggettività. Così la musica non è altro che il ritmo stesso originario dell’ Universo e della Natura di cui mediante quest'arte si fa sensibile l’assoluto predominio e l’illimitata potenza: le perfette forme che la Pla­ stica produce non sono che i tipi oggettivamente presentati della stessa Natura organica nelle sue molteplici creazioni. Ma l’Arte aggiungendo ai prototipi ideali 1’oggettività li tras­ muta in Dei, cioè in creature viventi e in forme concrete. L’artista Pinge e spira ai fantasmi anima eterna.

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Le forme dell’ arte sono le forme delle cose in sè, e il naturalista entusiasta impara per mezzo di esse il vero significato di ciò che in natura trova espresso solo confusamente e imperfettamente. In questo senso la figurazione di Venere, che Lucrezio ci dà in versi immortali, è la parte più vera e più profonda di tutto quanto il poema della Natura. Quando noi ammiriamo la bellezza di uno spettacolo naturale si toglie, senza che ce n’accorgiamo, la mu­ raglia invisibile che divide il mondo fenomenico dall’ideale, e cosi appaiono nel loro pieno rilievo le forme e le ragioni di quel mondo della fantasia che rilucono solo incompiutamente attra­ verso il mondo reale. Il prodotto puro e semplice della natura non è necessaria­ mente bello. Ben lungi che la natura, bella dunque per mero caso, dia la regola all’arte, ciò che l’arte produce nella sua perfe­ zione è invece principio e norma per la valutazione della bel­ lezza naturale. L’arte deve imitare la natura non nel senso di

— 9 — copiare il modello che questa le offre, perchè ciò sarebbe un uorspov npóTepov, essendo il prototipo ideale che l’arto persegue anteriore a detto modello e per giunta infinitamente superiore; deve imitarla nel senso di creare con quella medesima energia con cui è stato creato il modello; energia che è quella stessa origina­ riamente ed eternamente creatrice di tutte quante le cose. Poiché il mondo stesso è sostanzialmente un' opera d' arte\ ma ogni pro­ dotto della natura ha solo un istante di vera e compiuta bellezza, un solo istante perciò di piena esistenza. In questo istante egli è ciò che è per tutta l’eternità; fuori d’esso gli spetta solamente il divenire, il passare, il decadere: l’arte in quanto rappresenta l’essere in quell’istante lo toglie al torbido flutto dei tempo e lo lascia apparire nel suo essere puro, nell’eternità della sua vita. Così l’arte è ciò che la natura non è nè può essere, la piena e vera figurazione delle Idee. Poiché l’arte intuisce l’Assoluto in forme concrete, essa ci presenta la conciliazione dell’Infinito col Finito. La bellezza non è infatti altro che 1’ espressione dell’infinito per mezzo del finito. Questa conciliazione ( come del resto qualunque altra concilia­ zione di contrari ) non può avvenire compiutamente se non per mezzo dell’arte: donde la sua superiorità sulla scienza. Infatti benché la scienza nella sua più alta funzione abbia lo stesso compito dell’arte, quello cioè di cogliere e rappresentare 1’Asso­ luto ossia l’Infinito, pure, per il modo con cui ella assolve questo compito, non le è mai concesso di assolverlo appieno. Chè anzi, se ciò fosse possibile, la scienza e l’arte coinciderebbero: e abbiamo già detto che la scienza acquistando sempre più verso la perfe­ zione tende a ritornare in quell’ oceano universale della poesia, donde dapprincipio emerse. Ma non si può parlar propriamente che di una tendenza', in verità la meta della scienza costituisce per lei un progresso infinito, che non avrà cioè mai fine, in cui ella non potrà mai posarsi. Onde lo Schelling nega che il genio abbia luogo, a rigor di termini, fuori dell’arte, poiché fuori di questa non è possibile in maniera adeguata e soddisfacente quell’incontro di principi che si fuggono e quella pacificazione di attività che si contradicono, in cui consiste lunatura del genio. Fuori dell' arte insomma lo spirito umano è un Tantalo, cui fugge continuamente la coppa dalle labbra. Lo Schelling non vuol negare in modo assoluto che una ve­ rità scientifica possa trovarsi genialmente, ma osserva che la stessa verità può trovarsi anche per via discorsiva o dimostrativa.

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Il genio insomma è e rimane problematico nelle scienze; si può sempre dire con sicurezza dove non è, non mai dove è. Non c’è, p. e., di sicuro dove una teoria generale, un sistema nasce in più riprese e quasi per aggregazione. Si dovrebbe dunque vice­ versa supporlo laddove manifestamente P idea del tutto abbia preceduto quella delle rispettive parti. Infatti poiché l’idea del tutto non può riescire evidente se non per il suo sviluppo nelle singole parti, e queste alla lor volta non possono presentarsi come tali, cioè come parti, ove non preesista l’idea del tutto, pare che ci sia qui una contradizione che non possa esser tolta se non per un atto del genio, cioè per una coincidenza inattesa dell’at­ tività incosciente colla cosciente. Un altro indìzio del genio nelle scienze si avrebbe, se alcuno dicesse o affermasse cosa su­ periore al suo tempo e alle sue cognizioni, tale cioè da esser compresa e riconosciuta solamente più tardi in uno stadio più avanzato del progresso; onde si potrebbe ritenere che egli non avesse adeguata coscienza di quella verità, che non avrebbe po­ tuto in tutto il suo valore enunciare se non inconsciamente. Ma il solo fatto che il genio nelle scienze non possa esser colto, sor­ preso e direttamente verificato, e si debba invece supporlo o ar­ gomentarlo da indizi sempre discutibili, prova già che si fa una applicazione non del tutto legittima di questo concetto; poiché nella natura del genio è di balzare agli occhi e risplendere di tutta luce 1 ). *) Lo Schelling dice: Es gibt nur wcnige Merkmale aus welchen in I7isaenschaften nich auf Genie schliessen liisst (dass man darauf schliesscn muss, zeigt achon eine ganz tigne fiewandtni88 der SachcJ. (op. cit., Voi. II, pa­ gina 297). Il Losacco nella sua traduzione dell’Idealismo trascendentale (Bari, Laterza 1908, pag. 305) traduce: Ci sono solo pochi indizi per potere argomentare la presenza del genio nelle scienze; (che si debba argomentarla, lo mostra già una circostanza adatto propria della cosa). Il Losacco non ha inteso la frase chiusa tra parentesi. La prima delle due proposizioni funge da soggetto e non da oggetto della seconda. Si dovrebbe dunque tradurre così: Il fatto che si debba argomentarla (la presenza del genio) mostra, indica già una circostanza, eco. Altrimenti non c' e senso. Del resto una traduzione letterale dello Schelling oom’ è quella del Losacco, oltre a contorcere spesso la frase italiana, non dà sempre un significato intelligibile. Io ammiro il coraggio e la buona volontà del Losacco nell'accingersi alla difficilissima impresa di tradurre lo Schel­ ling: ma dubito che egli abbia fatto cosa utile por gli studi. Dalla sua traduzione spesso non si ricava il pensiero del filosofo tedesco; non è

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I — 11 — Abbiamo veduto come ciò che sono le Idee per la filosofìa siano gli Dei per l’arte, sicché essenza profonda di questa è la mitologia. In Grecia avemmo una mitologia realistica, una mitologia idealistica nel Cristianesimo. La materia della mito­ logia greca era la Natura} i suoi Dei erano esseri naturali; l’universo era intuito come Natura. Tutte frasi che si equival­ gono e ci dimostrano come principio dominante della mitologia greca fosse la realtà finita. Nella mitologia cristiana l’universo è intuito come storia, come regno della Provvidenza, come mondo morale, donde il suo carattere idealistico. La natura è unità del finito e dell’infinito; perciò la mitologia greca esprime l’infinito col finito, e questo mantiene come tale il suo valore, in quanto diviene simbolo di quello; il Cristianesimo invece assorbe il finito nell’infinito, onde a quello non rimane che essere un’allegoria di questo. Il simbolo concilia i due termini senza sacrificare alcuno dei due, l’allegoria invece subordina l’uno di essi all’altro. Il ritorno della scienza alla poesia nel mondo moderno dovrà esso pure effettuarsi per mezzo di una mitologia. Ma come possa nascere una nuova mitologia, che non sia creazione d’un poeta singolo bensì di una nuova stirpe, è problema la cui soluzione si deve attendere, secondo lo Schelling, dai futuri destini del mondo e dal corso ulteriore della storia. Si può tuttavia affermare che fino al momento nascosto ancora nella più nebbiosa lontananza, in cui |o spirito cosmico abbia compiuto il grande poema al quale pensa e lavora da millenni e la successione delle cose si cambi in una maravigliosa simultaneità, ogni gran poeta avrà il diritto di formarsi un tutto fantastico di quella parte di mondo che il suo tempo gli svela e crearsi così la sua mitologia. Così han fatto e fanno del resto le più grandi personalità dell’evo moderno: Dante, Shakespeare, Cervantes, Goethe 1 ). Essi hanno saputo

corto tutta colpa sua, è anche colpa dell’originale, del linguaggio italiano così diverso por natura dal tedesco. Una traduzione letterale dello Schel­ ling (e di molti altri filosofi tedeschi) non è secondo me possibile in ita­ liano. Noto, giacché mi capitano, altre sviste del Losacco: Nella stessa pag. 305 è tradotto parzialmente un thcilwciec dello Schelling ohe significa invece per via di parti, in pia riprese. A pag. 298 un absidi tavoli, pieno d'intenzionalità, è tradotto priro d’intenzionalità. Figuriamoci il senso! *) Quando lo Schelling dettava la sua Philosophie der Kunat, il Goethe non aveva pubblicato che una parte del suo Fausto (cfr. op. cit. Voi. IH pag. 94).

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creare il mito dalla storia dei loro tempi: Ugolino, Amleto, Don Chisciotte, Fausto sono miti eterni. Poco importa che lo figure create dall’arte siano o no storiche in senso letterale ; già anche una figura storica, come quella di Ugolino o di Farinata, non può aspirare all’universalità e all’immortalità se non diventando mito. Poiché legge fondamentale della poesia moderna è V origina­ lità (il mondo moderno è il mondo dei grandi individui secondo lo Schelling), il gran poeta non solo può crearsi una mitologia, ma la può creare da qual materia gli piaccia, perchè saprà sempre in qualunque modo rappresentare universalmente (cioè inalzare a mito) la più intima e pura essenza del suo tempo. Lo Schelling si domanda se si potrebbe ricavare una mito­ logia dalla Fisica dei nostri giorni, in quanto essa è naturalmente fisica speculativa. Egli riconosce che noi potremmo benissimo esprimere simbolicamente per mezzo di figure mitologiche le Idee della filosofia o dell’alta fisica, come fecero già i Greci nella loro mitologia. Ma osserva che le figure mitologiche debbono es­ sere non solamente simboli d’idee, bensì anche esseri indipen­ denti e di per sè significativi, che come tali si muovano e circo­ lino nelle coscienze d’un’epoca. Quando dalla storia questi esseri ci siano dati, la significazione simbolica è tosto trovata. Finché questo non avvenga, sarà sempre, bisogna ripeterlo ancora una volta, l’individuo che si creerà egli stesso la sua cerchia poetica, anche colla materia dell’alta fisica se saprà adoprarla in maniera originale. Poiché, posta la legge dell’originalità nel mondo mo­ derno, quanto più un poeta è originale tanto più è universale. La direzione propria del Cristianesimo è, come s’è detto, del finito all’ infinito, coi che si toglie la possibilità d’ una vera in­ tuizione simbolica e si fa del finito solo un’allegoria dell’infinito. La mitologia dei tempi nuovi deve ristabilire quella possibilità d’intuire simbolicamente l’infinito nel finito, che fu propria della mitologia greca. Ma non si deve credere d’imporre senz’altro alla cultura cristiana la mitologia realistica dei Greci. Ciò sarebbe un regresso, un rifare la storia all’indietro. Si debbono invece impiantare le divinità idealistiche del Cristanesimo nella Na­ tura, come i Greci impiantarono le loro realistiche nella Storia, creando Fepos; il dieci mostra già che come il Realismo greco non escludeva il rapporto storico, così l’idealismo cristiano non può escludere in maniera assoluta il rapporto naturale. Il Cri­ stianesimo va considerato come un passaggio alla nuova mito-ogia e nello stesso tempo come un elemento integrante di questa,

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— 13 — in quanto che le sue divinità idealistiche sono un acquisto stabile verso la meta ultima del processo cosmico; esse debbono però essere impiantate nella natura affinchè si ristabilisca l’intuizione simbolica dell’infinito nel finito e così la perfetta conciliazione dei due principi. Ma noi non vogliamo alla cultura idealistica del nostro tempo dare i suoi Dei per mezzo della fìsica. Anzi aspettiamo da questa cultura idealistica i suoi Dei, pei quali ab­ biamo già in pronto i simboli, prima anche che si sviluppino appieno in essa indipendentemente dalla fisica 1 ). Tale è, nelle sue linee più generali, la filosofìa dell’ Arte di Schelling, e non c’è bisogno di molte parole per metterne in ri­ lievo la grandezza e la solennità. Se la teoria di un fatto deve soprattutto ritrarre la natura del fatto stesso, quella della Poesia dataci dallo Schelling si può veramente dire una teoria poetica. Come i grandi artisti egli ha una tendenza irresistibile a vivifi­ care, animare o personificare i concetti della sua mente, e a scambiarli, così animati e personificati, colla realtà. Benché egli giuochi talora sui due significati in cui la parola può esser presa2), è certo che la vera realtà non è per lui quella insipida e incolora della vita comune; è quella creata dalla fantasia nel mondo superiore dell’arte. Anche del Balzac, se ben ricordo, si racconta che discorrendo una volta con amici di cose e persone reali, tutto ad un tratto esclamò: Ora torniamo alla realtà, e si mise a discorrere dei personaggi dei suoi romanzi. Nessuno prima dello Schelling aveva così arditamente affer­ mata l’intima affinità dell’arte colla filosofìa: nessuno avea sa­ puto così strettamente vincolarle da farne un tutto inseparabile* L’arte diventava con lui un mezzo di penetrare l’enigma eterno delle cose e di coglierne la più riposta essenza. Così anche lo Schopenhauer considerò la più alta delle arti, la Musica, come espressione immediata dell’Assoluto, cioè di quella Volontà, che costituisce la natura metafìsica del mondo. Ma l’influenza dello Schelling si ritrova anche in pensatori, che, come F. A. Lange, l) Cf. op. vii., Voi. Ili, pag. 93-97. *) Non Bollimento realtà, ma anche altri termini lìlosoiici sono adope­ rati dallo Schelling in un duplico soimo. P. os., lo Schopenhauer giusta­ mente gli nota : Interno od esterno ora sono adoprati in senso proprio spazialo, di dentro o fuori, ora sono adoperati nel senno kantiano di di­ pendente o indipendente da me. (of. Schopenhauer Jnmerkungen eoe. Leip­ zig, Bedani, pag. 130).

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sono ben lontani dalle sue vedute fantasiose e appartengono in­ vece all’indirizzo critico e scientifico. Poiché il Kant insegnò che 1’ esperienza non sarebbe possibile senza fattori sintetici dati dal soggetto, il Lange considera la nostra rappresentazione dell’uni­ verso come un prodotto della sintesi, necessaria, in quanto riflette la costituzione mentale della specie umana, Ubera in quanto l’indi­ viduo dispone a suo talento dell’oggetto. Il compito dunque di stabilire l’armonia nei fenomeni e l’unità nei dati empirici ap­ partiene non solamente ai fattori sintetici dell’ esperienza, bensì anche a quelli della speculazione. Ma in questa la sintesi unifi­ catrice della specie, per cui ha luogo quel fatto generale, comune e necessario che dicesi esperienza, ci abbandona; l’individuo poetizza a suo modo, e il prodotto di questa poesia non acquista importanza per la specie, cioè per la nazione e i contemporanei, se non in quanto l’individuo che crea quella poesia è dotato dalla natura di un pensiero tipico, e chiamato a dirigere gli altri in virtù della sua forza intellettuale. Però la poesia dei concetti nella speculazione non è ancora intieramente libera: solamente la finzione presa nel senso più ristretto, solamente la poesia vera e propria, l’arte in una parola, ci permette di lasciare in una maniera cosciente il campo della realtà. Il poeta inventa nel li­ bero gioco del suo spirito un mondo fantastico per imprimere tanto più fortemente alla materia così mobile e cangiante una forma che ha in sé stessa il suo valore e il suo significato. Dai gradi più bassi della sintesi in cui 1’ individuo appar legato ai principi che governano la specie fino all’apice della potenza creatrice nella poesia, l’essenza di quell’atto è sempre rivolta verso la creazione dell’unità, dell’armonia, della forma perfetta. Il medesimo principio che re'jna sovrano nel campo del Bello, dell’Arte e della Poesia, apparisce nel campo dell’azione come la vera norma etica, e nel campo della conoscenza come il fat­ tore determinante e costitutivo della nostra concezione dell’uni­ verso 1 ). LO Schelling ha molto bene rilevato l’importanza del mito per la poesia. Anche a me, parlando una volta del Sully Prudhomme come poeta della scienza, è accaduto di dire, senza pensare alle teorie del filosofo alemanno: Gli Dei sian pure morti

*) F. A. Lance. Hùtoric du matcrialitìnr, traci, frane. Paris. 1877-79, Voi. II, pag. 571-573.

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intorno a noi: ciascun poeta non ha per ciò meno una mitologia in­ defettibile in sè stesso, il potere cioè di dar corpo e forma alle idee, di animare ciò che è morto, di render plastico e vivente ciò che è astratto c concettuale ’). È certo che la storia, la scienza non possono divenire oggetto di poesia se non in quanto, per opera di una mente creatrice, si sviluppi da esse il mito. Allora ciò che, come il fatto storico, è avvenuto in un dato momento del tempo, acquista un valore universale ed umano; ciò che, come una teoria scientifica, parla alla fredda ragione di pochi eletti diventa V eureka di Archimede, che corre come un fremito per le coscienze e vi desta l’entusiasmo. Il Lange sembra credere collo Strauss che ogni vera specu­ lazione come ogni vera poesia debba essere ottimistica. Poiché il mondo che esse ci presentano non è quello della realtà quoti­ diana così pieno d’imperfezioni, di disarmonie, di contradizioni; è quello creato dalla libera sintesi secondo i principi estetici della perfezione, dell’armonia, della serenità5). Eppure anche il Pessimismo ha i suoi miti, perchè non consiste in una semplice registrazione empirica degli effettivi mali della vita; aneh’esso è una veduta sintetica e una interpretazione generale dell’esistenza. È superfluo ricordare lo Schopenhauer, il cui sentimento tra­ gico dell’essere si riversò in un mito di dolore come quella sua Volontà, che non dovrebbe aspirare se non all’annientamento. 11 Leopardi, benché nel Pensiero dominante torni ottimista per quella stessa ragione che secondo il Lange dovrebbe fare otti­ mista ogni filosofo e ogni poeta, sa poi fare del Dolore, della Morte, del Disinganno, della Noia miti terribili e presenti. Ma chi nella letteratura contemporanea ha saputo fare del dolore un vero mito nel senso dello Schelling è Oscar Wilde nel suo maraviglioso De Profundis. Egli parte da quei versi del Wordsworth* Suffering in pernianent obneure and dark J««i han thè nature of infinity.

La sofferenza è permanente, oscura e tenebrosa ed ha la natura dell’Infinito. La prosperità, la gioia, il piacere possono avere una natura rozza e volgare, ma il dolore è la piu delicata di tutte le

’) A. Faggi. (Tu poeta della scienza, Riv.