Passato e presente nella storia della filosofia

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Gennaro Sasso - Passato e presente nella storia della filosofia
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INTORNO ALLA STORIA DELLA FILOSOFIA E AD ALCUNI SUOI PROBLEMI
PER UN'INTERPRETAZIONE DI CROCE

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Piccola biblioteca filosofica Laterza 19

Prima edizione

1967

GENNARO SASSO Passato e presente nella storia della filosofia

Editori Laterza

Bari

Proprietà letteraria riservata Caaa editrice Gius. Laterza lll Figli, Bari, via Dante, 51

a Guido Calogero

I due saggi riuniti in questo volumettò furono pubblicati, il primo, nel « Giornale critico dellà filo­ sofia italiana», 1966, il secondo nella « Cultura», 1963-64, e quindi in un volume di Interpretazioni crociane, Bari 196.5, pp. 223-304, a cura di vari au­ tori. Con qualche lieve ritocco stilistico, riappaiono qui immutati. Entrambi largamente provvisori, intro­ duttivi e, se così potesse dirsi, sperimentali, atten­ dono di essere ripresi in più compiute prospettive critiche. Ma proprio per tale loro carattere non mi è sembrato inopportuno ripresentarli insieme, offren­ doli di nuovo al giudizio dei lettori.

G. S.

INTORNO ALLA STORIA DELLA FILOSOFIA E AD ALCUNI SUOI PROBLEMI

I

Compito di queste riflessioni è di puntualizza­ re un duplice disagio. Da una parte, il loro oggetto è costituito dalla situazione di crisi in cui tutti ci troviamo quanti siamo passati attraverso i pro­ blemi dell'idealismo italiano, nella sua forma storici­ stica e nella sua forma attualistica. Dall'altra, il loro oggetto è costituito dai tentativi che da varie parti, in questi ultimi vent'anni, sono stati compiuti, in Ita­ lia, per superare l'idealismo e la sua crisi. Da una parte, dunque, la tradizione, dall'altra l'attualità filo­ sofica. Sono quindi sessant'anni e più di storia che, senza pretesa di compiutezza, ma al solo scopo di dare una qualche espressione razionale ad un intrin­ seco bisogno di chiarezza, verranno presi in conside­ razione in queste pagine. Sessant'anni, e cioè non solo il periodo nel quale l'idealismo si affermò, fu forte e vittorioso, bensl anche quello in cui conobbe la sua crisi, quindi un declino e un oblio che non sembrano suscettibili di riscatto, in nessuna forma. Il disagio è duplice perché dall'idealismo siamo bensl usciti, ma senza saper trovare in noi stessi, o in quanti hanno proposto nuove soluzioni e nuove filosofie, un auten­ tico appagamento speculativo. Il disagio, in altri ter­ mini, riguarda la tradizione e l'attualità, l'idealismo e i critici dell'idealismo. Ma riguarda in primo luogo - ed è ovvio - noi stessi, che non siamo stati an11

cora capaci di comprendere fino in fondo la tradi­ zione, e ci sentiamo dunque «inattuali» nell'attualità. Da queste premesse discende una conseguenza non del tutto rassicurante. Il rapporto tra «bisogno di chiarezza razionale » e «chiarezza razionale» è in­ fatti un rapporto ambiguo. Volgersi ad interrogare il passato (si è detto molte volte) significa compiere un atto in forza del quale ci si libera da questo passato. Domandare significa conoscere ciò intorno a cui si domanda: se non si sapesse che c'è «qualcosa» in­ torno a cui domandare, non si domanderebbe. Impo­ stare un problema vale quanto risolverlo. Senonché, domandare intorno a qualcosa, per esempio intorno all'idealismo, alla sua crisi, al suo declino, alla sua sostituzione da parte di nuove filosofie o nuove con­ cezioni del mondo, significa bensì sapere che si do­ manda intorno a qualcosa che non soddisfa, ma non significa necessariamente sapere perché questo «qual­ cosa» non soddisfi. Altra, insomma, la quaestio facti, che ci sia un'insoddisfazione che cerca una risposta e perciò spinge a domandare; altra la quaestio ;uris, perché ci sia questa insoddisfazione e di che natura sia la risposta alla quale, attraverso la domanda, essa tende. È ovvio che non la quaestio facti interessa qui, ma la quaestio ;uris, non la constatazione della pro­ blematicità, bensì la sua fondazione (nel senso kan­ tiano del termine). E l'unica possibile fondazione della problematicità è, in linea preliminare, nel riconosci­ mento che, ponendosi, essa sottolinea una situazione di mancanza, di provvisorietà, di disagio: insomma, di negatività che aspira ad entrare nel determinato, e a integrarsi nel «qualcosa». Senonché - e questa precisazione inerisce necessariamente alla fondazione della problematicità - mancanza, provvisorietà, disa­ gio, negatività non possono essere assunti nel senso idealistico di situazioni intrinseche all'atto del loro superamento, bensì come situazioni irriducibili, ca­ ratterizzate dal mancato possesso di una struttura ne12

cessaria del superamento. Siamo, come si vede, nel cuore di una situazione paradossale. Paradossale e, giova aggiungere, contraddittoria. La domanda svela una «struttura» il cui carattere consiste nel non possedere una struttura afferma­ trice, risolutrice, superatrice. In questo senso essa è autocontraddittoria. Essa presuppone infatti come con­ dizione stessa del suo porsi e del suo sussistere pro­ prio l'obbiezione secondo la quale chi afferma la«non­ struttura» afferma pur sempre la «struttura della non-struttura», e si condanna quindi ad una radicale antinomia. La domanda che, ponendosi come man­ canza di struttura, afferma la struttura della non­ struttura, pone infatti questa antinomia non solo come contenuto, ma altresl come forma della sua afferma­ zione. Nell'atto stesso in cui si pone come afferma­ zione e quindi, necessariamente, come positività, essa conferisce stabilità a ciò che viene affermato come instabile, positività a ciò che viene affermato come negativo: in una parola, cristallizza il suo «tendere» in una forma non trascendibile. A tal punto, insomma, la domanda radicalizza la sua natura «negativa» che di questa negatività fa un positivo. Il massimo della coerenza conduce in tal modo al massimo della in­ coerenza. Si «tende a» superare il «tendere»: ma in questo stesso atto il «tendere» si irrigidisce e si nega, regressivamente, nel «tendere del tendere». Il rischio immanente in questa situazione è dun­ que la «metafisica», o, per usare termini meno equi­ voci, la dogmatizzazione della problematicità. Può av­ venire infatti che, irrigidendosi in una struttura, la problematicità giunga all'oblio di se medesima nel­ l'immota e immediata identità con se medesima. Ma, a guardar bene, il rischio è molto più che un rischio: è una necessità alla quale «ciò che è problematico» non riesce mai a sottrarsi compiutamente. Come il «tendere» è infatti soggetto a negarsi nel «tendere del tendere», cosl la consapevolezza del tendere è

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soggetta a negare il contenuto nella forma, a porlo cioè, cristallizzandolo, come insuperabile contenuto di un'affermazione e di una teoria. Ma il contenuto della problematicità è, in questo caso, la problematicità stessa, la quale, quindi, in questa sua autoinclusione, non riesce a venir fuori da sé e ad incontrare i con­ creti problemi della vita. Essa non riesce a differen­ ziarsi dal contenuto della sua affermazione ( cioè, da se stessa in quanto problematicità consapevole di sé), perché la «differenza» che «tende» ad instaurare è sempre e necessariamente soggetta a trasformarsi in teoria, e quindi a negarsi proprio secondo i caratteri della situazione rispetto alla quale «tende» a porsi come differenza. La situazione problematica sussiste perciò solo nel suo processo regressivo di negazione di se medesima: ma questo processo regressivo di negazione di sé medesima nega il suo carattere pro­ blematico mediante il processo stesso del suo attuarsi. Il destino della pura problematicità è insomma di non potersi porre come «differenza», e di non poter avere fuori di sé un «qualcosa» di diverso in cui risol­ versi: nell'atto stesso in cui si pone, infatti, si nega, e la «differenza» si eguaglia a se medesima, egua­ gliando altresl a se medesima la circostante realtà. Come altrimenti si potrebbe dire: la pura problema­ ticità non può risolversi in «qualcosa di diverso » proprio perché, per essere, ha necessità di attuarsi, e di attuarsi come totalità: e chi dice «necessità» e «totalità» dice negazione della problematicità. La «metafisica» è dunque, nel senso chiarito, il destino della problematicità. Che si tratti di un de­ stino negativo, o contraddittorio, è evidente. Proble­ maticità è esigenza di liberazione, ansia di evadere dal­ l'ambiente astrattamente problematico per incontrarsi con le concrete «possibilità» del mondo. Ma per poter sussistere come problematicità consapevole, la problematicità non può non affermarsi, irrigidendosi nella teoria di se medesima; e francamente non si vede come e perché dalla teoria essa dovrebbe uscire per 14

il vasto mondo, alla ricerca di «qualcosa di diverso». Quando dunque si dice che, in quanto caratterizzata da inquietudine e da insoddisfazione, la problematicità aspira a pacificarsi nella metafisica ( a quel modo stes­ so, poniamo, che in Gentile il logo concreto include in sé la nostalgia del logo astratto, che alla turbinosa inquietudine del concreto oppone la pace maestosa dell'identità), si procede in senso inverso alla sua reale tendenza. Se infatti, per il suo !".tesso necessario sus­ sistere, la problematicità è necessitata a porsi come orizzonte intrascendibile delle sue inquietudini e delle sue insoddisfazioni ( le quali quindi vengono in tal modo cristallizzate e assolutizzate), è evidente che non l'assoluto della metafisica può essere l'oggetto della sua aspirazione, bensl, al contrario, il regno del di­ verso, del molteplice, del possibile, il campo delle av­ venture non garantite e delle libere sperimentazioni critiche. Sia pure nella forma contraddittoria di oriz­ zonte delle aspirazioni e di limite delle inquietudini, la metafisica è da sempre la sua condizione: come po­ trebbe dunque, la problematicità, aspirare a se mede­ sima? Essa tende ad altro, al diverso da sé; e se, per essere, è necessitata ad includere in sé questo suo ten­ dere al diverso e a fermare il movimento nella immo­ bile «figura» del movimento, non per questo sarebbe lecito scambiare il suo tendere ad altro con il tendere a sé. Dalla metafisica, dunque, alle cose. Dall'eternità in cui il suo gesto è per sempre fermato, alla suc­ cessione temporale. Dalla necessità alla possibilità. Questa è la direzione della sua aspirazione, e il sim­ bolo della sua sconfitta. L'essere che non patisce mu­ tamento, che non nasce, non diviene e non muore, non è la meta del suo tendere, bensl piuttosto la cieca prigione nella quale, necessariamente, la problemati­ cità va a chiudersi. Assumendo dunque se medesima come suo pro­ prio contenuto, e in quest'atto superando la proble­ maticità nell'affermazione della problematicità, que­ st'ultima si nega per mezzo della sua determinazione. 15

Per superare il teoret1c1smo o, se si preferisce, l'in­ tellettualismo di questa situazione, l'unica via possi­ bile sembrerebbe esser quella del puro vivere, del vivere non mediatamente consapevole di sé. Ma l'ipo­ tesi del puro vivere riproduce, peggiorandola, la si­ tuazione contraddittoria della problematicità, intesa come affermazione di sé. Nel puro vivere, infatti, il problema decade a inquietudine, a fremito vitale in­ consapevole; e il suo destino è dunque o di annul­ larsi come problema, cioè come direzione intenzio­ nale ad altro, o di entrare nel regno affermativo della determinazione, e di annullarsi nella teoria. La pro­ blematicità non può essere, in altri termini, né pura inconsapevolezza, né pura consapevolezza, perché in­ consapevolezza e consapevolezza non sono che le for­ me stesse della sua negazione in quanto problemati­ cità; e non può essere nemmeno una forma interme­ dia tra queste due forme, perché lo status dell'inter­ medietà non può non risolversi nell'una o nell'altra forma, allorché gli si voglia conferire la dignità di status. Che ne è dunque della problematicità? Quale può essere la sua vita nel mondo, se la sua affermazione coincide con il suo annientamento? E posto che la problematicità sia, essenzialmente, domanda, che ap­ pagamento essa può mai dare a se stessa? L'unica forma di appagamento che essa sembra in grado di raggiungere è, in effetti, la distruzione delle ragioni per le quali essa si pone come domanda, come man­ canza, come desiderio di qualcosa oltre il vuoto. II

Posto in questi term1m, il problema sembra ri­ chiedere una trascrizione psicologica. Del resto, è pressoché inevitabile che una situazione problematica subisca, prima o poi, una tale trascrizione. Cosl tra­ scritta, essa sembra ripetere la situazione del nevro16

tico, il quale avverte bensl il peso non sopportabile delle sue inquietudini, ma non perciò è in grado di prenderne reale coscienza e di guarirne. Per dimo­ strare di averne preso reale coscienza, egli dovrebbe, appunto, saperne guarire. Ma nessun nevrotico è stato mai capace di tanto. Potrà essere riuscito a coesistere con i suoi mali: a vincerli sul serio, no. A parte le facili analogie, anche colui che vive nella situazione problematica, e, sentendone il peso, desidera liberarsene, avverte l'insufficienza psicologica della dimostrazione che il filosofo gli impartisce circa la non trascendibilità autocontraddittoria della sua si­ tuazione; ma non per questo riesce a confutare quella dimostrazione. Al pari del nevrotico, sa che il mondo esiste, che esiste la realtà, il regno delle cose con­ crete e percepibili. E sa anche che in quel mondo è la salvezza: in quel mondo, e nella viva esperienza che l'uomo sappia farne. Ma, non diversamente dal ne­ vrotico, anche colui che si trova nella situazione pro­ blematica non riesce a venir fuori dalla sua prigione concettuale e a stabilire un rapporto equilibrato con l'essere delle cose. Tende la mano, e la mano non afferra la realtà. Le cose sembrano sfuggirgli, e real­ mente gli sfuggono. La sua domanda non raggiunge la risposta, quasi fosse condannata ad inseguire in eterno il suo fantasma. La domanda infatti si assolu­ tizza nelle parole che la definiscono, e non riesce più ad evadere da se stessa. L'interrogante ha bisogno del mondo; ma, al pari del nevrotico, non riesce ad in­ contrarlo, perché lo ha assolutizzato dentro di sé. In quanto conduce alle estreme conseguenze un'intuizio­ ne soggettivistica del mondo, la problematicità sembra coincidere con la nevrosi. Dovremo dunque definirla la nevrosi del pensiero? Qui, per altro, le analogie hanno termine. Mal­ grado questa sua incapacità ad intervenire su se stes­ so, ricercando nelle profondità della sua storia le ra­ gioni della perdita del mondo, della sua « inattualità » nell'attualità, il nevrotico può tuttavia cercar di spez17

zare l'incantesimo, oggettivando se stesso dinanzi al­ l'analisi. Con questa decisione, senza dubbio, egli spez­ za pragmaticamente il circolo vizioso che lo opprime. Meno superstizioso di Ludovico Settembrini, il quale, per quanto figlio della ragione e servo dell'Aufklarung, temeva le lusinghe notturne dell'analisi non meno delle folli atmosfere dello« Zauberberg», si dispone a scen­ dere nel pozzo insondabile del suo passato con la speranza di poterne un giorno riemergere, guarito e capace ( come dice poeticamente Goethe nel romanzo di Thomas Mann) di guardare il mondo « con occhi grandi e sereni e coscienti». Avrà sfortuna o avrà fortuna, riemergerà dal pozzo o non ne emergerà più, attratto e sedotto dalla fascinatrice potenza delle te­ nebre. Ma il punto della questione sta tuttavia in ciò che, dopo aver preso la decisione di discendere agli inferi, egli affiderà i modi e le tecniche della di­ scesa ad uno scienziato distaccato e competente che, in questa situazione, riproduce il ruolo del deus ex machina di un dramma che altrimenti non si scio­ glierebbe mai. A colui che vive nella situazione problematica è invece vietato di affidare se stesso alle cure compe­ tenti di un simile scienziato. Potrà bensì ricercare i testi dei filosofi e prospettarli nei molteplici drammi storici ai quali appartengono e ai quali anche lui sente di appartenere. Ma ricercando quei testi, e mettendo in atto le più raffinate tecniche della ricerca storica, egli seguiterà tuttavia a rimaner prigioniero della si­ tuazione problematica che lo spinge a quella inda­ gine. Da quei filosofi potrà senza dubbio ricevere aiuti di fondamentale importanza: con questa speranza, in effetti, egli li ricerca. Ma i filosofi del passato o del presente non possono operare su di lui con le stesse tecniche distaccate e competenti con le quali lo psi­ cologo affronta l'analisi della sua nevrosi. Colui che vive nella situazione problematica non può « sotto­ porsi» ad un'analisi filosofica, perché è costretto a condurla in prima persona: egli non può affidare ad 18

altri l'analisi delle proprie « associazioni». Dalle sue inquietudini concettuali deve cercare di uscire da solo, con le sue forze. Il suo orizzonte è deserto di figure paragonabili a quelle dello psicologo. Esso include unicamente i suoi problemi, cioè appunto la sua at­ tuale incapacità di evadere da quell'orizzonte. III

Si suol dire che il problema posto nelle pre­ cedenti pagine è estraneo alla speculazione dei mag­ giori maestri dell'idealismo italiano contemporaneo. Quel problema è tematizzabile in accordi pessimistici; e l'idealismo è, per definizione, ottimismo. Lo stru­ mento logico del suo ottimismo è la dialettica, la quale, come la lancia di Achille, evoca il dramma per poterne mostrare il lieto fine, sottolinea i contrasti per poter mostrare il loro felice scioglimento nella sintesi spirituale; ferisce, ma insieme risana. Non è questo il luogo per discutere questo aureo « luogo co­ mune» (il quale potrebbe benissimo esser vero, anche se alquanto trito). Più giova richiamare, per attenersi al concreto, una pagina di Benedetto Croce, nella quale, ripetendo la linea argomentativa del suo libro su La Storia, il filosofo cerca di fissare i momenti di una con­ creta fenomenologia della verità. La pagina crociana è, come sempre, ricca di no­ tazioni assai acute; ma, letta nel contesto teorico al quale naturalmente appartiene, può accadere che da essa si veda emergere una « problematicità» per molti versi non dissimile da quella delineata qui su. In quel testo Croce si propone di dat consigli a coloro che si accingono a scrivere di filosofia; e il consiglio è che si determinino a modellare « i loro scritti sulle me­ morie di filologia o di altra ricerca storica o scienti­ fica», enunciando il problema, fissando lo status quae­ stionis, quindi aggiungendo « quel che di nuovo si stima di poter aggiungere alle conclusioni che si pos-

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seggono, per correggerle o per portarle più innanzi». Senonché, il modesto consiglio suscita un problema ben altrimenti complesso; perché Croce ha sempre so­ stenuto ( tale è l'obbiezione che egli rivolge a se stesso) che problema e soluzione coincidono, e qualcuno po­ trebbe ora essere indotto, da quel consiglio, a richia­ mare quella teoria per dimostrare, sul suo fondamen­ to, il non fondamento del consiglio stesso. Croce di­ chiara di mantenere la teoria e di mantenere il consi­ glio, l'una appartenendo all'indagine circa il processo formativo della verità, l'altro alla semplice esposi­ zione letteraria, o didascalica, della verità che si è raggiunta. E a chiarimento del primo punto, scrive: II processo filosofico ( come, del resto, quello artistico e quello pratico) non s'inizia da un problema, ma da un senso d'inquietudine, d'inaccomodamento, da un non veder bene, e da una brama di vedere, da una necessità che non si accheta e che costringe a ripiegarsi su se stesso, a frugare in se stesso, a farsi passare per la mente una se­ quela di combinazioni d'idee, o già esistenti nella storia del pensiero o nuovamente escogitate, come a provarne l'adattabilità al caso, per uscire dal buio, per disvelare il mistero. E quando, a un tratto, traluce un raggio, che investe di sé quel campo oscuro o confuso e lo rischiara, e, luce suscitando luce, fa spiccare netti i profili delle cose e le rende comprensibili, quando quel moto giunge al suo segno, un senso di distensione e di gioia succede al precedente cli tensione e di pena. E la parola interiore che, ora pronunziata a se stesso, ora interrotta e repressa o rinnegata, ha accompagnato nella ricerca, alla fine ri­ suona con pienezza in un detto, in una formula, che na­ sce spontanea, quasi concludendo il travagliato interiore discorso, e con la conclusione appagando l'animo 1• 1 B. CROCE, Intorno al modo dell'esposizione filosofica, « Quaderni della "Critica"», 8, 1947 ( = Nuove pagine sparse, Bari 1966 •, I, pp. 311-12). Poiché nel testo ho citato la Storia come pensiero· e come azione (1938), non mi sembra superfluo aggiungere che, probabilmente, la prima formula­ zione di questo problema risale al saggio del 1919, Sulla filo­

sofia teologizzante e le sue sopravvivenze, in Nuovi saggi di

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Il lettore di questa pagina, il quale non sia ine­ sperto di filosofia crociana, avvertirà immediatamente in sé il formarsi di precisi ricordi. E da una parte gli tornerà alla memoria il classico luogo del Contributo alla critica di me stesso nel quale, narrando le vi­ cende della composizione e della stesura delle Tesi di Estetica, Croce sottolinea il travaglio in cui i suoi pen­ sieri allora entrarono, il tormento anche fisico della riflessione, quando « per cinque mesi» gli fu persino vietato di leggere, perché le sue giornate, incalzate dal demone della filosofia, trascorrevano in ozio appa­ rente, tra lunghe passeggiate e lunghe permanenze sopra un divano, mentre la mente cercava di scavare nel profondo e la mano segnava « sulla carta appunti e pensieri dei quali l'uno criticava l'altro» 2 ; ma, dall'altra, tornerà alle pagine centrali del saggio hege­ liano del 1 906 e dell'edizione definitiva della Logica, nelle quali è drammaticamente indagata la tensione interna dello spirito, la sua irrequietezza, il suo eter­ no passare da una forma ad un'altra. Ebbene: che cosa c'è in questa analisi crociana che non soddisfa (e che non soddisfa, vale aggiungere, lo stesso Croce)? Perché, in altri termini, il filosofo è quasi costretto a far riemergere dalla perfetta coincidenza di problema e soluzione (che è, si badi, non solo un corollario Estetica, Bari 1920, pp. 298-99. � degno di nota, a distanza

di tanti anni, il ricorrere di espressioni quasi identiche ( « di qua dalla soluzione, non si ha già qualcosa di formulato, una domanda precisa, ma, tutt'al più, solamente un'oscura solle­ citazione, un senso di inaccomodamento, un dolore, che è il segno non dubbio del crescere e maturarsi di un problema, dalla vita preparato al pensiero » ). A questo testo, chiaramente, Croce allude là dove (Nuove pagine sparse, I, p. 3 1 1 ) scrive: « Non avete voi sostenuto - mi si dice - che problema e so­ luzione nascono a un parto? Che non si può ben formulare un problema, se prima non lo si è risoluto, risolvendone i termini e con ciò determinando la loro relazione? - Perfetto. E mantengo questa mia teoria ». 2 B. CROCE, Contributo alla critica di me stesso, Bari 1926, p. 39 ( = Etica e Politica, Bari 1931, pp. 384-85). 21

della teoria dello spirito, ma la sua stessa legge), pro­ prio il problema non risolto, nella sua forma elemen­ tare di «inquietudine», di «inaccomodamento », di « tensione e di pena», di «buio» che cerca luce? L'analisi crociana non persuade perché, nei termini della filosofia dello spirito, quell'oscurità che cerca luce, quella tensione e quella pena non possono avere in sé alcuna realtà, come pure invece dovrebbero se fosse plausibile l'ammissione di Croce secondo la quale il processo della verità non ha inizio da un problema, bensl da un senso d'inquietudine che de­ sidera quiete, da un «non veder bene» che genera, per contrasto, un'intensa «brama di vedere». Nei termini corretti della filosofia dello spirito quei mo­ menti di inquietudine e di insoddisfazione sono « rea­ li» solo nell'atto in cui sono posti e avvertiti per esser tolti e superati nella catarsi senza residui delle forme. Non è forse vero che «inquietudine» e «inac­ comodamento» sono sinonimi di astratta negatività, e che la negatività cessa di essere astratta solo nel positivo che la include, superandola? Come dunque si può parlare di un'inquietudine dalla quale il pro­ cesso della verità prende l'avvio? Considerati in sé, «inquietudine» e «inaccomodamento» non possono essere «non-essere»; debbono esser «qualcosa». Sono dunque attività economica? Ma se in quel mo­ mento della sua attività lo spirito cerca l'appagamento delle sue necessità non estetiche o logiche o etiche, bensl, appunto, economiche, come si può qualificare come economica l'inquietudine di chi ricerca la ve­ rità? Qualificarla come economica significherebbe bensl sollevarla alla dignità categoriaJe, conferendole un'in­ trinseca nota di positività, ma significherebbe poi an­ che «alienare» per sempre nella positività economica la specifica inquietudine derivante dalla ricerca del vero. È evidente quindi che, anche a voler rimanere all'interno dell'orizzonte categoriale della filosofia cro­ ciana, non si realizza alcun concreto vantaggio quando si risolve nella categoria dell'utilità il travaglio di co22

lui che ricerca il vero. Quell'inquietudine, quel trava­ glio sono, in effetti, all'inizio di un processo che, espli­ citamente, Croce definisce «:filosofico»; e colui che, ricercando il vero, compie gli atti «vitali» che Croce ha descritto nel Contributo, non appaga con quei ge­ sti e con quegli atti una sua brama di benessere indi­ viduale, bensl subordina i suoi gesti e i suoi atti al­ l 'imperioso comando che gli viene dal problema che gli si agita dentro. Ma, appunto, se il «processo :fi­ losofico» ha inizio non da un problema, ma da un senso d'inquietudine e di inaccomodamento, che cosa è, qualitativamente, questo senso d'inquietudine e di inaccomodamento? Che cosa è questo mondo delle inquietudini, questo oscuro regno delle madri, in cui il contorno luminoso delle cose che infondono pace e sicurezza non si intravvede ancora con precisione perché le cose stesse non sono ancora giunte alla pie­ nezza dell'essere? Questo «mondo» è uno scandalo. Lo spirito, che è l'unica realtà, include il tempo nel ritmo eterno della sua vita; e questo «mondo» delle cose che debbono essere e perciò ancora non sono, è signoreggiato in­ vece dalla legge del tempo, dalla legge per la quale, contraddicendo al principio della pienezza del reale, si può dire che il reale possa anche essere, talvolta, meno di se stesso e perciò tutto teso ad essere quello che, qui ed ora, non è. Questo «mondo» è uno scan­ dalo perché nella filosofia di Croce il reale non può essere mai meno di quel che è: lo spirito che non si soddisfa nell'arte ed è agitato da un prcblema di ve­ rità, non sta in una zona intermedia tra arte e filosofia, ma è già-dice Croce nel saggio hegeliano del 1906spirito filosofico «incipiente», anzi spirito filosofico senz'altro, perché le metafore del tempo non stanno al loro posto nella dimora eterna dello spirito. Si sa bene - e Croce non si è mai stancato di ripeterlo - che le forme stesse sono inquiete; e su questa inquietu­ dine - come cioè possa realmente appartenere alle forme, se il tempo e l'opposizione circolano eterna23

mente in esse senza mai poterne uscire - la parola può essere lasciata agli interpreti. Ma sul punto che esse, innanzi tutto, sono e non possono non essere, perché la loro legge vieta che il negativo che inclu­ dono in sé possa mai diventare il luogo della loro dissoluzione, dubbi non possono sussistere, né « in­ quietudini» esegetiche. Quando di conseguenza, sol­ lecitato dal suo forte senso della storia, Croce ricon­ duce l'inquietudine al di qua delle forme, sottoli­ neando in essa quel « non veder bene» che, quasi per interna opposizione, genera la « brama di vede­ re» e dà inizio al processo della verità, il senso del suo discorso è chiaro. Ma l'operazione concettuale che egli conduce è ineluttabilmente esposta a due scon­ fitte: in primo luogo, perché, non evitando il rischio di spezzare l'onnicomprensività del circolo spirituale, introduce nella « filosofia dello spirito» una nota for­ temente dissonante; in secondo luogo, perché, confe­ rendo realtà fenomenologica al momento della man­ canza, del desiderio, dell'inquietudine, non evita il rischio di instaurare una realtà prespirituale che, d'al­ tro lato, per poter in qualche modo « essere», do­ vrebbe necessariamente assumere le forme contraddit­ torie della problematicità. Le estreme vicende del suo pensiero, drammaticamente segnate dalle ricerche sulla vitalità, danno bene il senso di questo contrasto, che riapre il discorso sulla « riforma» della dialettica hege­ liana. Nemmeno Croce è riuscito ad evadere dai limiti nei quali un tentativo di questo genere deve necessa­ riamente ricadere. IV

Questa « situazione problematica», cosl chiara­ mente avvertita dai maestri stessi dell'idealismo (e non solo da Croce, ma, in forme diverse, anche da Gentile), caratterizza la cultura italiana dal momento in cui, per virtù intrinseca e per circostanze in parte 24

maturate fuori del suo orizzonte categoriale, l'ideali­ smo è entrato in crisi. Si può dire altresl che questa « situazione problematica» sia come il simbolo della « serietà» della crisi. Ma che significa, qui, « serie­ tà»? Quando infatti si parla di « serietà» di una situazione problematica, è necessario tenere ben fermo il significato che si attribuisce a quel termine. Se con « serietà» si intende sottolineare un valore o una virtù concettuale (nel senso, cioè, che è « seria» quella situazione problematica la quale, consapevole della sua forza, resiste alle lusinghe dei facili supe­ ramenti e delle nuove « sintesi» ), è ovvio che « se­ ria» non può essere considerata la situazione proble­ matica di chi, incerto e confuso, sottopone se stesso al logorante esercizio delle sperimentazioni spirituali in campi diversi. Ma se con « serietà» si vuole piut­ tosto qualificare proprio l'ansia della sperimentazione, quel continuo riemergere dalle esperienze più diverse alla ricerca di una filosofia e di una concezione del mondo, allora non c'è più alcun motivo di conside­ rare la « serietà» come. predicato esclusivo della pri­ ma situazione. Le due situazioni, e quindi le due « se­ rietà», sono diverse, e non possono perciò essere con­ fuse; ma proprio perché sono due e non uno, sarebbe pretesa assurda di negare all'una il diritto di sussistere accanto all'altra. Certo, il gusto della sperimentazione rivendicata come diritto (o semplicemente vissuta come vocazione) può suscitare lo sdegno pedagogico dei moralisti. A chi non si decide e non vuole decidersi, è facile rivolgere austere parole sul dovere della chia­ rezza. Wilhelm Meister e Hans Castorp saranno sem­ pre condannati da chi, in estetica (ma sopra tutto in etica), prediliga Aiace e Antigone, personaggi grani­ tici e senza tempo, perché in ogni tempo identici al loro eroismo. Ma la decisione può essere ritrovata anche alla fine di un lungo viaggio; e non è detto che affrontare viaggi di questa qualità sia sempre facile e piacevole. In questo senso, tra la problematicità vissuta al livello contraddittorio della certezza meta25

fisica, e la contraddittorietà vissuta al livello della spe­ rimentazione, ci può essere, alla fine, quasi una se­ greta identità. E non solo perché l'aspirazione della problematicità consapevole di sé, e cioè della sua chiusura, è proprio la sperimentazione del diverso, ma anche perché, se è arduo vivere con coerenza la problematicità come filosofia, non meno arduo è per­ sistere nella volontà di viaggiare alla ricerca di qual­ cosa. La tentazione è, in entrambi i casi, di smarrire il senso della propria ricerca, e di chiudersi in una fede superficialmente condivisa. Proprio perché la fede idealistica nel processo incessante e necessariamente progressivo dello spirito è stata la prima a cadere, sappiamo che Belacqua ( per citare un personaggio il cui esempio torna spesso negli scritti filosofici di Gio­ vanni Gentile) può veramente fermarsi, rinunziando alla fatica dell'ascesa. E proprio perché l'idealismo ha provocato in molti suoi antichi seguaci come un senso non superabile di sazietà e di nausea, possiamo per­ sino simpatizzare con Belacqua e con ogni antieroica svalutazione delle grandi vette. Del resto, senza ca­ dere in esagerazioni quietistiche e nel congiunto mi­ sticismo del disimpegno, la dignità dell'uomo può es­ ser fatta concretamente sussistere nel senso dei limiti, dei condizionamenti, dei molti ostacoli che rendono difficile il suo cammino, insicuro il suo avvenire, e più meritevole il suo sforzo. Di qui, in filosofia, la predilezione per gli atteggiamenti analitici, e, in sto­ riografia, la simpatia per il rigore filologico, per gli scavi effettuati senza risparmio di forze a profondità sempre maggiori. Ma con queste considerazioni siamo giunti al punto critico della questione: perché un Belacqua che si ferma ai piedi del monte è pur sem­ pre un personaggio che rinunzia alla problematicità della ricerca e un filosofo e uno storico che esaltano l'analisi contro la sintesi possono pur sempre occul­ tare in questi loro atteggiamenti la propria rinunzia a capire il senso delle cose. La simpatia per ciò che non � eroico può degenerare nella retorica più fasti26

diosa: si possono scrivere poemi mediocrissimi, sia che si esalti lo spirito di Prometeo, sia che si cantino le problematiche conquiste dell'homo faber. A questo punto, si può dunque ripetere la domanda: ha saputo la cultura italiana rimanere fedele alla sua vocazione problematica, ai temi profondi della sua crisi, oppure ha presto ceduto alle lusinghe di nuove « sintesi», non adeguatamente analizzate e sperimentate? È me­ ritata la qualifica che alla sua « situazione » è stata attribuita qui su, la qualifica di « serietà » problema­ tica? Chi ripercorra le vicende ormai lunghe della crisi, può esser subito indotto a rispondere affermativa­ mente. Se non tutti hanno saputo persistere in un at­ teggiamento rigorosamente critico o ipercritico (che implicava la consapevolezza della metafisica contrad­ dittoria che costituisce l'orizzonte stesso della proble­ maticità), molti hanno però saputo sperimentare il loro tempo con adesione profonda. Filosofie che erano a lungo rimaste nell'ombra, soverchiate dal successo della speculazione idealistica, sono prepotentemente riemerse in primo piano ; motivi che sembravano per sempre tramontati, si sono di nuovo imposti all'atten­ zione dei più. E, ad incrementare questa inquieta ri­ cerca del nuovo - causa e conseguenza della ricerca stessa, - sono venute le traduzioni delle principali te­ stimonianze del pensiero contemporaneo: Heidegger e Wittgenstein, Dewey e Sartre, Russell e Husserl, Merleau-Ponty e Ryle (e molti altri nomi potrebbero essere aggiunti a questo elenco incompleto). Com'è noto, le traduzioni si sono succedute alle traduzioni, con ritmo vertiginoso e stordente. Travolti da questo ritmo, quelli stessi che avevano suggerito (bene a ra­ gione) di tradurre i testi fondamentali della filosofia europea di questo secolo, non hanno più potuto im­ pedire che quei testi fossero accompagnati da un eser­ cito di libri mediocri, o addirittura insignificanti. Grandi filosofi e modesti professori, libri insigni di psicologia, di etnologia, di sociologia, di storia e mo27

desti manuali universitari -, tutto è stato tradotto, quasi si volesse far ammenda, talvolta in forme addi­ rittura masochistiche, della parsimonia con la quale, negli anni di mezzo dell'età idealistica, i grandi testi del pensiero contemporaneo erano stati introdotti in Italia. In pochi anni, si è preteso di compiere espe­ rienze che, nella loro propria storia, avevano occu­ pato decenni e decenni di meditazione intensissima. Si potrebbe desiderare maggiore fedeltà al tema della propria inquietudine? Se si è peccato, non è forse vero che si è peccato fortemente, per generoso im­ pulso dell'animo? E tuttavia, il giudizio �on può essere cosl posi­ tivo se le cose vengono guardate realisticamente, per ciò che sono. Sia che riemergessero da abissi di dimen­ ticanza, sia che apparissero per la prima volta sull'oriz­ zonte della cultura italiana, quelle filosofie sono pre­ sto o ritornate nell'oblio o ritornate ai margini; e la ragione di ciò non è da ricercare nel fatto che i loro temi si siano all'improvviso rivelati insufficienti o già sperimentati, bensl piuttosto nell'impossibilità che an­ che i più consapevolmente disposti a correre il rischio dell'avventura' intellettuale li sperimentassero, in così poco tempo, con la necessaria serietà. Insomma, il ritmo vertiginoso delle nostre curiosità ha sottolineato in questi anni piuttosto uno stato ansioso della co­ scienza filosofica che non un serio programma di con­ fronto critico. Il vuoto che avvertivamo in noi è stato riempito affannosamente, e senza metodo; e ora si ha spesso l'impressione che il vuoto non abbia fondo e che il ricco patrimonio che è stato messo a disposi­ zione degli uomini di buona volontà quasi soffochi con il suo peso ogni reale possibilità di orientamento e rimanga inutilizzato dai più. Nata da un oscuro e tormentoso bisogno di chiarezza razionale, l'«adesio­ ne al tempo » ha condotto per ora nel mezzo di una grande confusione; e, malgrado l'estrema serietà con la quale molti lavorano, non sembra che la confusione includa in sé nuovi fermenti e grandi possibilità, per28

ché si sta, di fatto, chiudendo e cristallizzando nel conformismo. La qualifica di «serietà problematica», 1.:he era stata conferita alla cultura italiana di questi ultimi trent'anni, è dunque intrinsecamente immeri­ tata? In effetti, questa estrema mutevolezza dei gusti , dei problemi, delle preferenze costituisce un fenomeno ambiguo, fatto di serietà e insieme di scarsa «consi­ stenza»: un fenomeno ambiguo, sul quale è bene non spargere lamenti, ma sul quale sarebbe assurdo non fermare l'attenzione. Persino un pensatore come Antonio Gramsci, che ha scritto pagine degne di grande attenzione e nella sua vasta opera ha dissemi­ nato giudizi di singolare penetrazione su tanti aspetti della cultura e della società italiana; persino Gramsci, che fino a ieri era oggetto di un culto geloso ed esclu­ sivo da parte di ambienti impegnati e autorevoli, è oggi, in quegli ambienti stessi, venuto nettamente de­ clinando. I marxisti italiani che, con qualche eccezione ( del resto abbastanza marginale, o non tale da costi­ tuire un problema di differenziamento interno) erano dieci anni fa strettamente legati alla sua opera, sono oggi entrati in una crisi seria e profonda, che i migliori non esitano a dichiarare apertamente. Chi, all'interno del marxismo, stava ai margini, è passato al centro del quadro; chi stava al centro, sta passando ai mar­ gini. E sopra tutto, stanno mutando i termini dei problemi e delle ricerche. I dibattiti critici che in questi ultimi anni si sono rinnovati tra gli studiosi marxisti sull'interpretazione della filosofia hegeliana e sulla stessa interpretazione del marxismo come filoso­ fia critica del nostro tempo, danno bene il senso di una tematica rinnovata, ma, insieme, di un disorien­ tamento profondo. Il nome di Gramsci ricorre abba­ stanza spesso in queste dispute; ma la sua opera non costituisce più il centro dell'indagine. In realtà, Gramsci rappresentò bene, vent'anni fa, un bisogno prepotente, e tuttavia filosoficamente in­ certo, di concretezza, di storicismo «impuro» o,

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come allora anche si disse, « integrale». Nel suo nome, la storia italiana, culturale, politica, sociale, eco­ nomica, dei secoli diciannovesimo e ventesimo, fu in­ dagata con spirito nuovo, e con molto entusiasmo; e mentre gli storici della nuova generazione furono quasi tutti sensibili al fascino delle sue tesi più carat­ teristiche, i critici delle letterature ricercarono ansio­ samente nelle sue pagine quella risposta « storicistica e antiformalistica » alle insufficienze dell'estetica cro­ ciana, che non erano riusciti a trovare altrove. Nei suoi scritti indicarono la risposta a Croce e all'ideali­ smo. Ma Gramsci aveva posto il problema dell'Anti­ Croce come il problema stesso del movimento reale della storia; e con grande convinzione aveva insistito sul punto che la nuova filosofia dovesse essere l'erede della filosofia crociana. « Bisogna che l'eredità della filosofia classica tedesca - scriveva in una pagina pre­ sto diventata famosa - sia non solo inventariata, ma fatta ridiventare vita operante, e per far ciò occorre fare i conti con la filosofia del Croce, cioè per noi ita­ liani essere eredi della filosofia classica tedesca signi­ fica essere eredi della filosofia crociana, che rappre­ senta il momento mondiale odierno della filosofia clas­ sica tedesca. » • L'Anti-Duhring della nuova età non poteva non essere, in Italia, un Anti-Croce (il quale, beninteso, comprendesse in sé un Anti-Gentile ); e il lavoro necessario ad attuare tale programma gli appa­ riva cosl impegnativo che ad esso « un intiero gruppo di uomini » avrebbe dovuto dedicare « dieci anni di attività». Ma proprio perché proponeva un program­ ma serio e difficile, Gramsci non pretendeva né di aver già scritto l'Anti-Croce, né di aver compiuto quella delicata analisi della tradizione speculativa c1 '!lla quale il marxismo avrebbe dovuto raccogliere, me­ diante l'analisi stessa, l'eredità. Gramsci sottolineava problemi, lavorava per diffondere la consapevolezza • A. GRAM SCI, Il materialismo storico e la filosofia di Be­ nedetto Croce, Torino 1 948, p. 200 .

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della loro gravità, si batteva per sottolineare la ne­ cessità che il marxismo venisse attuato sempre di nuovo nella storia; e proprio perché indicava con chiarezza, dal suo punto di vista, i contorni della crisi, invitava un « intiero gruppo di uomini» a die­ ci anni di attività (giudicando che ne « valesse la pena»). Dalle sue pagine veniva fuori una seria le­ zione di impegno, nel campo della lotta politica, in quello della interpretazione del passato e, insieme, della ricostruzione filosofica. E invece, travagliati da una lunga crisi, desiderosi piuttosto del porto che di nuova navigazione in acque difficili, gli intellettuali marxisti ricevettero la lezione di Gramsci come se contenesse la soluzione della crisi piuttosto che l'in­ vito a lavorare per superarla. Il gruppo di uomini si costitul intorno a Gramsci, ma non raccolse il suo invito all'attività di dieci anni. Coloro che lo costi­ tuivano ripeterono bensl le sue massime sulla crisi e sulla necessità di superarla; e apparvero ben consape­ voli, nelle loro dichiarazioni, che la legge dello stori­ cismo marxista non consisteva in astratte deduzioni dialettiche, ma in un continuo confronto con le cose. Si disposero alla storia e alla politica, che, come Gramsci aveva insegnato contro l'« erasmiano» Cro­ ce, non potevano andar disgiunte. Combatterono se­ rie battaglie e scrissero probi libri di storia. Chi po­ trebbe negare i loro meriti in questi due campi con­ giunti? Ma, ripetendo le parole di Gramsci, raramentf' (per quel che oggi appare abbastanza evidente), ne interpretarono lo spirito. Il duro lavoro intorno alla tradizione, della quale il marxismo doveva raccogliere l'eredità, non fu compiuto che in modo approssima­ tivo e sporadico. Accuse roventi, talvolta grossolane, mascherarono il sostanziale disimpegno dai problemi di quella tradizione, che Gramsci, non a torto, aveva giudicato cosl gravi. Dell'idealismo i marxisti gram­ sciani si accanirono a mettere in rilievo le chiusure culturali e le frequenti involuzioni reazionarie; ma quasi mai riuscirono a prospettare quelle « accuse» 31

nel giro pacato e veramente critico di una considera­ zione seria e unitaria. Perché mai? Una generale stanchezza stava pro­ babilmente all'origine di questi atteggiamenti ( e ad alimentarli contribuiva senza dubbio, potentemente, il clima esasperato di quei bui anni della « guerra fred­ da»). Ma insieme alla stanchezza e a quel clima av­ vilente agiva anche la scarsa disposizione di storici e letterati a prospettare i problemi nelle loro connes­ sioni interne e generali, non immediatamente specia­ listiche. Si riproduceva insomma, all'interno del nuo­ vo marxismo, quella dissociazione tra « filosofia» e « ricerche speciali» che l'idealismo ( cosi crociano come gentiliano) credeva di aver superato e che in­ vece aveva portato a lungo dentro di sé, se non nelle teorie, certo nella prassi concreta di chi pretendeva di lavorare secondo il suo spirito. In tal modo, chi si era rivolto a Gramsci per superare le insufficienze implicite nel suo campo particolare di ricerca, finiva per interpretare il suo pensiero come una metodologia particolare; e si lasciava sfuggire, in tal modo, il suo senso più profondo. In questa situazione rapidamente involutiva, i filosofi marxisti non riuscirono ad espri­ mere con chiarezza quella necessità della « connes­ sione» che sembrerebbe dover essere il compito su­ premo di ogni filosofia ( ed anche di una filosofia mar­ xista); e neppure si disposero a lavorare intorno a quella interpretazione dell'idealismo che Gramsci, con­ vinto della sua importanza, aveva raccomandato. La ragione di questo iniziale fallimento è singolare, e non risulta sia mai stata adeguatamente indagata. In real­ tà, quei filosofi non provenivano dalla tradizione del1 'idealismo crociano. A differenza di quel che era ac­ caduto a Gramsci, non c'era mai stato nella loro vita un momento nel quale, almeno « tendenzialmente», fossero stati o « crociani» o vicini a Croce. Tra essi, molti provenivano dall'attualismo (ma da un attuali­ smo già consolidatosi nei suoi motivi di recisa oppo­ sizione critica al crocianesimo ) ; e, seguendo un sen-

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t icro che molti filosofi europei percorrevano, avevano percorso o avrebbero percorso all'incirca in quegli stessi anni, al marxismo erano giunti dopo aver cri­ t icato l'attualismo e l'idealismo alla luce di aspetti essenziali delle principali filosofie dell'esistenza. Altri, poi , all'idealismo di Croce e di Gentile erano stati estranei ed ostili sempre. Avevano maturato le loro idee a stretto contatto con le più vive correnti del pensiero tedesco contemporaneo (dalla scuola di Mar­ hurg alla fenomenologia di Husserl); e se non erano rimasti chiusi alla lezione di Hegel, avevano letto quel filosofo con occhi diversi da quelli di Croce e di Gentile. Erano stati dunque alla scuola di maestri che Gramsci o non aveva conosciuto affatto, o non aveva abbastanza apprezzato; e dalla frequentazione di quelle scuole avevano ereditato, nei riguardi di Croce, un giudizio assai meno positivo di quello che Gramsci condivise sempre. È difficile dire con precisione che cosa quei filo­ sofi trovassero in Gramsci, o meglio nella sua riela­ borazione filosofica del marxismo. Che ne apprezzas­ sero l'impegno e il rigore antipositivistici, ed imme­ diatamente percepissero il valore culturale di quelle sue pagine tormentate e taglienti, è ovvio. Ma, al momento della pubblicazione dei primi inediti gram­ sciani, la loro conversione al marxismo era già av­ venuta; e il problema che quei filosofi avrebbero do­ vuto porre con chiarezza era di stabilire se e fino a che punto il loro marxismo potesse coincidere con il marxismo di Gramsci. Dei «quaderni del carcere » avrebbero dovuto ricostruire il tessuto culturale, pro­ prio al fine di stabilire un confronto rigoroso e illu­ minante. Ma quel confronto non fu mai compiuto. Il giudizio può sembrare eccessivamente aspro; forse, ingeneroso. Ma ripensando alle vicende di quel pe­ riodo, e ripercorrendo i suoi principali documenti, si può forse dire che, mentre i filosofi marxisti prose­ guivano le loro faticose ricerche, utilizzando Gramsci in forme estremamente marginali, la sua opera fu, per 19. 2

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cosl dire, abbandonata all'attualità, e quindi a tutte le inevitabili deformazioni di una polemica spesso mal condotta, con deteriore spirito strumentalizzante. In tal modo, il programma proposto da Gramsci non fu attuato. L'eredità della filosofia idealistica italiana non fu vissuta come un serio problema · ( perché di quella filosofia molti davano un giudizio radicalmente negativo, e molti non erano in grado di avvertirne i problemi reali). Dell'idealismo si fece proprio quel­ l'inventario negativo, che Gramsci aveva paventato; e quando nuove prospettive si affacciarono all'oriz­ zonte della cultura italiana, la sua opera fu abbando­ nata, o, che è quasi peggio, fu utilizzata in modo sempre più esteriore e scolastico. V

Su questo problema della « ricezione » di Gram­ sci da parte della cultura italiana, molto ci sareb­ be ancora da dire. Qui basti osservare che il modo inadeguato in cui il suo pensiero fu « ricevuto », si ripercosse negativamente anche in quei campi parti­ colari della ricerca storica all'interno dei quali era pur stata avvertita con forza la crisi dell'idealismo. Dopo aver cercato di esplicare in brevi discorsi, non esenti da moralismo culturale, le ragioni per le quali l'este­ tica dell'idealismo doveva essere abbandonata e la me­ todologia crociana della storia doveva essere forte­ mente emendata di ogni suo elemento idealistico, o « speculativo », storici e letterati si dedicarono alle loro ricerche, con rinnovato impegno. Come si è già detto, sarebbe assurdo negare che dal lavoro com­ piuto siano usciti ottimi risultati. Ma la riflessione sul proprio lavoro, cosl insistentemente ironizzata in que­ sti anni, non può essere affidata alle poche ore della domenica mattina; né una dichiarazione di buoni pro­ positi, non esente da moralismo culturale, può esser sufficiente a giustificare razionalmente una scelta tanto

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impegnativa. Avvenne cosl che in quelle ricerche, spesso pregevoli e ricche di risultati, essi perdettero il senso più profondo del compito al quale Gramsci li aveva richiamati. Al «filologismo », presto diffusosi nella cultura storiografica italiana ( dopo una lunga pre­ parazione, che può forse esser fatta risalire agli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mon­ diale ), alcuni di essi si dichiararono bensl ostili; ma di quel «filologismo », risorto anch'esso per serie ra­ gioni, non seppero mai individuare con chiarezza i motivi, non ne ricostruirono la genesi, spesso limi­ tandosi a riportarlo (le poche volte che ne discussero pubblicamente il «ritorno ») alla misura e ai metodi del vecchio positivismo ottocentesco. Eppure, tra Pio Rajna e i nuovi «filologi» c'era stato di mezzo non solo Michele Barbi, ma anche Giorgio Pasquali, mae­ stro insuperato di filologia classica e iniziatore di una nuova dimensione della filologia moderna! Cosl, quando ci fu, la loro polemica rimase in su­ perficie. E, quel che certo è più significativo, finirono per dimostrarsi più sensibili di quanto avrebbero vo­ luto (e forse anche di quanto credevano di essere ) alle lusinghe della nuova filologia. Le subirono, o le accettarono, tacitamente ed oscuramente, quasi non riuscissero a sottrarsi al gusto dominante, e in qual­ che modo comprendessero che anche quello era un modo per distaccarsi meglio dalla metodologia del­ ! 'idealismo. A pensarci bene, c'è una logica in questa accettazione più o meno consapevole, più o meno pas­ siva. Il «filologismo» fu in effetti la risposta che alla «troppa filosofia» dell'idealismo dettero storici e letterati che avevano formato la loro personalità di studiosi proprio in quel clima culturale, avvertendone ben presto le chiusure e i limiti. Essi avevano pro­ fondamente apprezzato il senso della battaglia anti­ positivistica dell'idealismo ; e al culto dei documenti non tornavano certo con animo acritico, come se nulla, nel frattempo, fosse accaduto. Ma poco disposti ad indagare con precisione, all'interno della stessa filoso35

fi.a nella quale, grosso modo, erano stati educati , la genesi reale delle loro insoddisfazioni, attribuirono queste ultime alla prepotenza eccessiva che sempre la filosofi.a esercita sulla realtà storica. E dettero inizio alla reazione « filologica ». La storiografia idealistica aveva perseguito, talvolta genialmente, più spesso in forme soltanto retoriche, l 'ideale delle grandi vette dello spirito umano ; e sembrava aver dimenticato che anche le grandi vette sono, P.er cosl dire, formazioni storiche, derivate dal secolare sovrapporsi di molte­ plici stratificazioni, che si tratta di individuare e di analizzare con indagini pazienti e tenaci se si vuol pian­ tare sopra quelle vette una bandiera veramente vitto­ riosa. Dunque, filologia ; ma una filologia, come non ci si dimenticò di precisare, « archeologica », cioè seria­ mente disposta a scavi sempre più profondi. All'im­ magine, forse troppo familiare o troppo trita, della zappa che prepara il terreno a ricevere il seme, si so­ stituiva quella, certo più suggestiva e simbolica , delle grandi profondità alle quali deve essere strappato il segreto della storia . E quasi che veramente si fosse perduta la memoria della sua esistenza e della sua funzione insostituibile nel campo degli studi storici , si tornò, non senza fastidiosa retorica, a indicare nel­ l'archivio il luogo sacro e mitico nel quale soltanto potevano essere celebrate le nozze tra l 'interpreta­ zione e la realtà. Forte di queste ragioni, la filologia assunse sulle sue spalle un enorme carico ideale - fi­ losofi.a, cultura, ideologia. Era stata abbassata alla dubbia dignità di strumento ; e come strumento era presentata anche dai suoi nuovi difensori. Come uno strumento, ma anche come una spada lucente e netta , adattissima a tagliare i nodi dei pregiudizi e delle mistificazioni : una spada, dunque, alla quale poteva persino essere affidato un compito ambiziosissimo di epoché rivoluzionaria. Senonché, come all'origine di questa singolare ri­ presa filologica erano state non solo la presa di co­ scienza di certe astrattezze idealistiche, bensl anche

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la mancata presa di coscienza del loro più specifico significato, così il nuovo metodo dette ( o almeno ha dato fin qui) risultati piuttosto modesti. Per rimanere all'altezza delle sue ambizioni programmatiche, quel metodo avrebbe dovuto rinnovare, mediante un la­ voro minutissimo e tecnicamente perfetto, le linee della nostra storia morale e intellettuale. E invece . anche in questo campo, si ebbero lavori eccellenti, condotti con rigore sempre più limpido, con cono­ scenze sempre più vaste, ma, in qualche modo, esan­ gui. Un metodo rigoroso - è inutile ripeterlo - non serve se il suo oggetto non sia costituito dalla realtà stessa sulla quale si sono incrostati i pregiudizi e le mistificazioni che occorre rimuovere. Indagini prezio­ se, documenti pubblicati con impeccabile maestria e indagati nella loro storia, nella loro fortuna, nella loro possibile trasmigrazione da un ambiente di cul­ tura ad un altro -: tutto questo è certo molto bello e istruttivo, ma non vale né a conferire nuove ener­ gie alla ricerca né a meglio « fondare» l'analisi delle insoddisfazioni e delle inquietudini. Poco alla volta . anche in questo campo, le ambizioni hanno ceduto al gusto della propria personale bravura, il compiaci­ mento ha avuto ragione dell'impegno, la felicità di sentirsi « posseduti» e protetti dalla propria stessa capacità di manovrare strumenti raffinati, delicati e difficili si è sostituita alla ricerca delle ragioni che , dopo tutto, avevano pur determinato la « ripresa » polemica della « filologia». Anche qui, insomma, la capacità di permanere con coerenza nella « situazione problematica» è presto venuta meno ; e l'orgoglio ( non si dice la « boria») dei dotti ha soffocato l' an­ sia del « filosofo», che pur dovrebbe albergare in ogni dotta coscienza. Tra questa rinnovata, ambiziosa « filologia» e il marxismo non si può dire che si sia realizzato un esplicito connubio. Le rispettive posizioni ideologiche sono rimaste assai lontane. Il « fronte filologico» non ha infatti alcuna compattezza ideologica. Include cat 37

tolici e laici, e la sua ambizione più profonda è forse di giungere alla « neutralizzazione » di ogni determi­ nazione ideologica sul « cam,po » stesso della ricerca. Nella prosa dei suoi rappresentanti più intelligenti - è interessante notarlo - le movenze neopositivisti­ che significano molto di più che una concessione al « rigore » linguistico: indicano una direzione, e una possibile convergenza. Nel segno della « filologia » si sta realizzando un singolare « sincretismo » ideologico . E tuttavia, anche a prescindere dalla circostanza (sulla quale non si può per altro non meditare), che nel campo specifico della filosofia marxismo e neopositi­ vismo hanno moltiplicato negli ultimi tempi le occa­ sioni di incontro e di integrazione reciproca, un fatto rimane, incontrovertibile: che dalle « posizioni » della filologia più di uno studioso si è mosso nella dire­ zione del marxismo, andando quindi a concludere in quella « concezione del mondo » non solo il tema or­ mai abbastanza generico della protesta antidealistica, bensi anche il tema specifico del lavoro serio, con­ creto, preciso, consapevole dei limiti in cui è inclusa e dei condizionamenti ai quali soggiace l'esistenza de­ gli uomini. L'istanza rivoluzionaria del marxismo, quella stessa che condanna i suoi seguaci a non po­ ter essere mediocri, si è venuta spesso spegnendo, se non nelle parole certo nei fatti, in una molto « bor­ ghese » accettazione di orizzonti puramente tecnici. « Ein kleiner Ring I begrenzt unser Leben . . . » VI

Si è parlato di compiacimento, di felicità del sentirsi « posseduti » e protetti dalla propria stessa virtù tecnica; e il rilievo sarà apparso ingiusto, forse addirittura crudele. In ogni caso, per esplicare com­ piutamente il senso di quel giudizio, è necessario ag­ giungere che , come quel compiacimento non è senza una segreta pena, cosi quella felicità include in sé il 38

suo contrario, o almeno la nota dissonante di un sot­ tile rimorso. Se cosl non fosse, allora sl che il giu­ dizio sarebbe, forse non ingiusto, ma certo crudele ! Torna alla mente, quasi per contrasto, una pagina non molto nota di Giovanni Gentile, nella quale, discu­ tendo intorno all' « oggetto della storia » e cercando di delineare una fenomenologia psicologica dei senti­ menti dello storico dinanzi al suo « oggetto », svol­ geva queste considerazioni : Lo storico non vede il fatto ( anch'esso cosa non par­ vente), ma vede quello che egli, a volta a volta, crede occorra vedere per ritenere attendibile una tradizione, e credere nel fatto, come se questo gli si svolgesse sotto gli occhi. Vede un documento, che o a primo aspetto o dopo maturo esame ed eliminati tutti i motivi di dubbio, ri­ tiene attendibile; che non è certo il fatto ; ma è, come s'è visto, un surrogato equivalente al fatto stesso, e al fatto in realtà, con assoluto candore, sostituito come equi­ valente. E genera infatti la certezza, che non ammette più discussioni, e fa che il pensiero rimanga ancorato so­ lidamente al mondo (l'unico mondo che esista! ) in cui ad ogni uomo pensante conviene vivere. Laddove la specu­ lazione erra facilmente e si sbanda, e dopo avere cercato tutta una vita d'uomo non trova, o crede aver trovato e si contenta d'ombre vane fuor che nell'aspetto; e fa correre quindi al pensatore la tremenda alea dello scetti­ cismo, che quando sia rigoroso di quello stesso rigore che trae la logica alla certezza della verità, può pur spiantare la naturale fede a cui si appoggia la vita di ogni uomo ; la storia, ancorché non sollevi alto il sapiente e non lo animi a ritenersi il sovrano a capo del regno in cui vive, il signore del mondo a cui lo lega costantemente la sua esperienza, gli dà la sicurezza di questo mondo, com'egli s'abitua a guardarlo, in tutti i particolari, che fanno massa e formano l'infrangibile struttura dell'esistente. Di questo divino mondo, che l'uomo trova nascendo, e che l'acco­ glie nel suo grembo e lo nutre, e, finché egli abbia respiro, lo sostiene fedelmente, e accoglie e conserva per sempre in una realtà indistruttibile, tutto quello che l'uomo stesso individuale nella sua vita produce; e gli garentisce che nessuna goccia perciò di questa vita che all'individuo spet39

t.1 molto limitata ed angusta va sperduta, e tutto si rac­ coglie e si perpetua, conferendo, anche in questa vita, una immortalità infallibile a tutte le cose umane. Questa psicologia dello storico rassomiglia, e quasi non c'è biso­ gno di dirlo, alla psicologia che gli scienziati ostentano del pari di fronte ai filosofi per quella identità di prospettiva che accomuna le scienze, segnatamente le naturali, alla storia. E l'appello ai fatti, come a tavole di salvezza con­ tro l'imperversare delle costruzioni soggettive del pen­ siero speculativo, fu il motto di tutto il positivismo, che contro il puro filosofare della vecchia metafisica affermava le ragioni dello spirito scientmco, o storico nel senso più ampio del termine. Spirito positivo ; che, col suo implicito naturalismo materialistico parve irreligioso e non di rado infatti fece pompa, in arrischiati pensatori, della più sprov­ veduta empietà, mentre effettivamente promoveva e col­ tivava, per quella interna sua logica, che abbiamo stu­ diata, la più cupa e risoluta misticità, ad una col più duro e protervo dommatismo • .

Al di là delle sue complesse motivazioni teoreti­ che, le quali richiederebbero un ben più impegnativo discorso, questa pagina gentiliana non interessa tanto per la trascrizione in termini storiografici del rapporto tra astratto e concreto, bensl piuttosto per il tenta­ tivo di cogliere, all'interno di quel rapporto, la sua stessa dimensione psicologica. E su questa via Gen­ tile si spinge tanto oltre (ma si ricordino, nel II vo­ lume del Sistema di logica, le osservazioni sulla « re­ ligiosità del logo astratto») che di quell'atteggiamento dello storico, il quale ha bisogno del « documento » come di una « tavola di salvezza » che lo tragga in salvo • dalle folli costruzioni soggettive del pensiero, giunge a fare un motivo insopprimibile della sua ri­ cerca. La quale supera bensl quell'atteggiamento, ed 1 · G. GENTILE, L'oggetto della storia, « Giornale critico della filosofia italiana », 1937, pp. 403-404. • Analoghe considerazioni si leggono nella prima puntata del saggio, « Giornale critico della filosofia italiana », 1937, pp. 3 1 5 sgg .

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entra, perché non può non entrare, nel processo del pensiero (nel quale, in effetti, anche quel primo mo­ mento è incluso) ; ma pure lo presuppone sempre e lo reimplica in ogni fase del suo processo. Il positi­ vismo è morto, osserva Gentile, ma « resta il posi­ tivo », resta la storia, o la « storiografi.a come storia, cioè come fatto, cioè come l'immediato, che si riflette su se stesso e si circolarizza nella storiografia, ma re­ stando immediato. E non basta dire che questo è un elemento della sintesi, che preso in sé è astratto e quindi falso, perché la verità è nella sintesi. Si la verità è nella sintesi ; e affinché questa sintesi sia vera, occorre che ci sia l'unità dei due termini, ma ci siano anche questi due termini ; e perché siano due, devono essere differenti; uno deve essere il contrario dell'al­ tro, sia pure dentro la sintesi. Dove i due devono coz­ zare e lottare in eterno, affinché non venga meno la ragione e la sorgente di vita della sintesi». In precedenza, e cioè, per l'esattezza, subito dopo il primo dei due testi citati, Gentile aveva pur osser­ vato che « quella età» del positivismo, con le sue miscredenze materialistiche capovolgentisi, per logica intrinseca, nella più « risoluta e cupa misticità » , « oggi è chiusa». A parte i sopravvissuti, « gli scien­ ziati stessi si son messi a filosofare ; i cattivi storici vanno a caccia di quell'ircocervo favoloso che è la storia romanzata; e gli storici che sanno l'arte, vo­ gliono una storia illuminata dal pensiero». Questa di­ chiarazione, per ogni altro aspetto ovvia sulle labbra di un filosofo idealista di quegli anni, almeno da un punto di vista è singolare, e merita di essere com­ mentata ad integrazione del discorso svolto nelle pre­ cedenti pagine. Il saggio di Gentile è del 1937 ; e proprio in quegli anni, mentre i migliori filosofi usciti dalla scuola dell'attualismo cominciavano a dar forma definitiva a vecchie inquietudini speculative, storici e letterati avvertivano di nuovo il fascino di ricerche condotte senza fastidiosi assilli filosofici ( perché « trop­ pa » era la filosofia che avevano dovuto subire, e la 41

« filologia» poteva di nuovo esser guardata come una « tavola di salvezza»). Nell'atto stesso in cui il mo­ mento « filologico» o, come Gentile preferiva dire, del «fatto», accennava a risorgere nella coscienza storiografica contemporanea, il filosofo dell'attualismo pretendeva dunque di constatarne la morte. E tutta­ via, in quell'atto stesso, il suo pensiero raggiungeva una tensione fortissima, quasi che egli prendesse co­ scienza sul piano della teoria di una realtà che altri­ menti gli sfuggiva. La verità - ripeteva - è nella sin­ tesi. Ma perché la sintesi « sia vera», occorre che i suoi termini siano due, e siano «differenti», l'uno « il contrario» dell'altro; e che nella sintesi non ab­ biano tregua, bensi durino eterni, il loro scontro e la loro lotta. Dove, certo, lo scontro e la lotta erano attualisticamente concepiti come eterni momenti della stessa sintesi; la quale era in tal modo per sempre messa al sicuro dal rischio di vedere quei termini uscire da sé, e quindi di dissolversi. Il cerchio in cui la lotta è racchiusa è l'eterno; ed era quindi inevita­ bile che la lotta ne riuscisse soffocata, o, se si prefe­ risce, immobilizzata, sottratta al ritmo imprevedibile delle cose che si svolgono nel tempo. Niente di nuovo, dunque? E tuttavia, bisogna pur dire che un'indagine puramente «logica» del testo gentiliano non basta ad individuarne il significato; perché, se non dal punto di vista concettuale, certo da quello dell'accentuazione stilistica e psicologica c'è qualcosa di nuovo in questa forte insistenza sul tema delle « differenze» e della « contrarietà». Delle quali Gentile è bensi costretto a sottolineare la «interiorità» alla sintesi, ma è pure potentemente tentato di sottolineare l'irriducibilità e l'elemento problematico che contengono in sé. E per questa via (che egli avvertiva come rischiosa per la saldezza dell'idealismo, e che perciò rinunziava ad in­ traprendere), anche Gentile, cosl rigoroso nel tener fermi i termini del ragionamento, si affacciava timi­ damente ad un mondo molto diverso dal suo; ad un mondo che egli credeva per sempre scomparso e che 42

presto invece si sarebbe riaffermato, abbandonando il suo pensiero (al pari, del resto, di quello di Croce) per dare inizio alla ambigua e drammatica avventura intellettuale degli anni che dallo scoppio della seconda guerra mondiale conducono fino a noi. In quel mondo l'idealismo avrebbe conosciuto la sua dissoluzione nelle forme non sempre chiare che, senza eccessiva indulgenza, sono state rapidamente descritte qui su. Ma in quel suo scritto del 1937, pur senza riuscire a mettere seriamente in crisi il suo pensiero, Gentile ebbe il merito di anticipare, in qualche modo, le linee di quella dissoluzione e di prender quindi in qualche modo coscienza di una realtà che, per altro verso, egli pretendeva di assegnare ad un passato per sempre concluso. Malgrado l'estrema fedeltà alla sua logica, anche lui aveva infatti avvertito la necessità di impri­ mere maggior dinamismo ai termini della sintesi, e ne aveva perciò « sforzato » fino al limite consentito dall'idealismo la resistenza speculativa. Se quindi, ab­ bastanza curiosamente, sbagliava nella sua analisi del presente, riscattava però in parte questo errore sul piano del pensiero, descrivendo con finezza la feno­ menologia dell'astratto e insistendo - pur prigioniero del concreto - sull'inevitabilità del momento del quale operava la dissoluzione logica. Al di là dei li­ miti che in parte Gentile intuiva, senza riuscire tut­ tavia ad oltrepassarli, stavano le antinomie della « si­ tuazione problematica », la sua metafisica contraddit­ toria e, insieme, il suo contraddittorio desiderio del diverso. A questi problemi, dopo il discorso svolto nelle precedenti pagine, dobbiamo ora tornare. VII

E domandare di nuovo come possa avvenire che una situazione teoretica definita in termini di pro­ blematicità possa uscire da se medesima alla ricerca della storia e del diverso, se situazione problematica

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non altro significa se non un eterno «uscir fuori » che, non potendo non coincidere con se stesso, an­ nulla il suo slancio nella cristallizzazione dello slan­ cio. In tal modo, al di là della sua dissoluzione ideale, il problema dell'idealismo torna a presentarsi; per­ ché se l'opposizione attualistica (non diversamente, in questo, da quella crociana) veniva annullata dal suo essere necessariamente interna alla «sintesi », an­ che l'opposizione problematica (come opposizione del­ la domanda) finisce per negarsi nell'intrascendibilità della domanda. Come si esce allora dal circolo, e come ha tentato di uscirne la più scaltrita riflessione contemporanea sul problema della storia? Il quesito apparirà ancora più drastico se, preli­ minarmente, si torna sulla questione stessa del do: mandare - come cioè sia possibile che la domanda non solo sussista in quanto tale senza contraddirsi, ma altresl giustifichi o deduca correttamente il suo esserci. La domanda - si presume di poter dire presuppone una mancanza, rispetto alla quale si pone come tendenza e come desiderio. La «mancanza » è dunque coessenziale all'essere e al porsi della do­ manda. Ma perché la domanda - questa domanda possa essere determinata come tale dalla mancanza - questa mancanza - è inevitabile ammettere che questa mancanza sia intrinseca alla domanda come momento della sua determinazione. Il noto, cioè la domanda, che per essere deve pur sapere di essere, a quel modo stesso che il «non so » socratico era sa­ pere di non sapere, viene in tal modo determinato dal­ l'ignoto. Ma poiché l'ignoto non può partecipare del­ l'essere senza essere, o l'ignoto diviene un momento del noto, e allora, perdendo il suo carattere proprio, annulla il poter essere della domanda come mancanza ; oppure viene bensl « ipotizzato » come ignoto, cioè come l'«al di là » dell'essere ( questa domanda) : ma allora è impossibile che la domanda sia definita in termini di mancanza, perché ciò che per definizione è «al di là » non può concorrere alla determinazione 44

di ciò che per definizione è «al di qua» (l'essere della domanda). In termini rigorosi, tra l'«al di là» e l'«al di qua» non c'è punto di incontro possibile: dell'ignoto, in questa prospettiva, si è infatti par­ lato come di un'«ipotesi» (e «ipotesi � vale qui come ingiustificata combinazione fantastica, come chi dicesse: che cosa c'è oltre lo oÀ.ov? oppure: qual è l ' «al di là» dello oÀ.ov? ). Nel primo caso, dunque, la domanda include in sé ciò Qer cui può essere defi­ nita come mancanza; e reincludendo la mancanza, si cristallizza come domanda assoluta, cioè autocontrad­ dittoria. Nel secondo, riduce la mancanza ad un'ipo­ tesi, e, del pari, si cristallizza come domanda assoluta ( che, contraddittoriamente e gratuitamente, si abban­ dona ad ipotesi fantasiose o impossibili ). In entrambi i casi, la domanda lavora al suo annullamento o, se si preferisce il termine barbarico, al suo «autotogli­ mento». Il che non significa, per altro, che mediante l'annullamento o l'«autotoglimento», la domanda re­ stituisca a se medesima un'equilibrata positività; per­ ché il processo attraverso il quale essa giunge a sco­ prire questi suoi caratteri non aggiunge nulla a quei caratteri, ma è la loro stessa autocontraddittoria realtà. La peculiare «struttura» del domandare esaspe­ ra dunque il problema della storia del pensiero, e lo conduce al limite estremo. In quanto è domanda as­ soluta, essa pone se stessa come relazione assoluta a ciò di cui avverte la mancanza (la storia del pensiero ). Ma proprio in quanto domanda, o relazione, assoluta, essa non può poi riferirsi ad «altro» che a sé, per­ dendo quindi necessariamente ciò che pur avverte come necessario. In questa proposizione è contenuto il dramma, più o meno consapevole, più o meno esplicito, di tante contemporanee concezioni del rap­ porto tra filosofia e storia della filosofia; perché nel­ l'atto stesso in cui quel rapporto viene posto non ci si accorge (o comunque non si può vietare a se stessi) di lavorare alla deduzione della sua autocontraddit45

torietà. Così, per fare solo qualche rapido esempio, il teorico dello storicismo assoluto poteva scrivere, in una delle sue pagine più radicali, paradossali, e coerenti, che il pensiero essendo sempre soggetto e non mai oggetto di indagine, non della verità (ossia del pensiero) si può fare storia, bensì del travaglio pratico che accompagna, nell'uomo, il processo ( e forse, da questo punto di vista, meglio avrebbe detto la «rivelazione») della verità. «Che cosa, infatti, vuol dire pensare, poniamo, un pensiero di Emma­ nuele Kant, se non pensare Emmanuele Kant in un momento del suo fare, in uno sforzo di attenzione e tensione, con le sue esperienze, i suoi affetti, i suoi dubbi, le sue domande, e coi mezzi onde procurò di soddisfarle: cioè riflettere su di una vicenda pratica, se anche di una pratica che era rivolta al cogitare? E perché mai rifletteremmo sopra di essa se non per risolvere un nostro problema mentale, la cui soluzione è essa, e non il pensiero di Emmanuele Kant, il pen­ siero - di quell'atto?» • . Analogamente, non sarebbe difficile, a questo proposito, citare pagine di Gentile e dei migliori pensatori venuti fuori dalla sua scuola; e cominciare proprio da quella memoria su L'atto del pensare come atto puro, nella quale, con molta net­ tezza, quello «che si dice pensiero d'altri, o nostro in passato, è in un primo momento il nostro pen­ siero attuale, e in un secondo momento una parte del nostro pensiero attuale: parte inscindibile dal tutto cui appartiene, e reale perciò nell'unità del tutto stesso. E però il solo pensiero concreto è il pensiero nostro attuale» 1 • Moltiplicare le citazioni non sa­ rebbe difficile. Ma, per quanto il problema sia ovvia­ mente soggetto a oscillazioni (pur nell'ambito di una sostanziale coerenza), un punto è chiaro, e può es• B. CROCE, Le due scienze mondane, in Ultimi Saggi,

Bari 1948 •, pp. 55-56.

1 G. GENTILE, L'atto del pensare come atto puro, in La Riforma della dialettica hegeliana, Firenze 1954 3 , p. 185.

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sere fissato come segue: il luogo di intelligibilità del pensiero passato, nostro o d'altri che sia (ed è signi­ ficativo che lo stesso pensiero altrui sia ragguagliato al nostro pensiero bensl, ma passato, quasi che, coe­ rentemente alla premessa, altra attualità concreta non possa darsi al di fuori dell'unica attualità autentica, che è l'attualità nostra), è l'atto del pensiero; e mal­ grado gli sforzi gentiliani di distinguere la « vera so­ pramondanità» dalla « estramondanità platonica» 1 e di non respingere quindi nel regno parmenideo delle l\6';m « le determinazioni empiriche della storia », era inevitabile che il problema della storia della filosofia si riducesse alla questione stessa della sua possibilità - come sia possibile cioè, se la filosofia è sapere as­ soluto, che abbia una storia. Dal punto di vista del pensiero mio, infatti, gli « altri» pensieri o sono il mio pensiero stesso, indistinguibili da esso in virtù della loro stessa partecipazione all'eternità, o sono mo­ menti necessari ma superati: momenti che furono bensl « veri» nella loro attualità, quando interpreta­ rono e racchiusero in sé senza residui l'intero cosmo della loro esperienza storica, ma la cui verità è pur sempre intelligibile solo e unicamente all'interno del1' attualità nostra . Né, come è facile vedere, il discorso è del tutto chiaro. Che esso tenda a salvare la verità e la realtà del passato, è evidente; ma per far ciò sembra altresl postulare (e in modo inevitabilmente ambiguo) qualcosa come una successione delle attua­ lità. Un omaggio alla storia, dunque; un omaggio del­ l'eterno al tempo. Ma un omaggio del genere è in­ concepibile. Se l'attualità è, rigorosamente, attualità, essa è fuori del tempo, non partecipa del prima e del poi per ciò stesso che partecipa dell'« è», dell'eterno presente; ed ogni sforzo che si compia per identificare tempo ed eternità è destinato al fallimento. Per par­ lare di attualità passata si deve ammettere che la se8 GENTILE, Il circolo della filosofia e della storia della filosofia, in La Riforma, p. 143 .

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rie temporale sia una costruzione meramente ipote­ tica della stessa attualità, partecipante, a parte subiecti, dell'attività presente che l a costruisce come astratta, e quindi come irreale. Il pensiero altrui diviene allora un'ipotesi, una congettura, una semplice astrazione, che il pensiero attuale - il costruttore dell'ipotesi non ha più alcun reale bisogno ( qualunque cosa si sostenga in contrario ) di ricercare, di analizzare, di studiare, per mettere alla prova della sua logica e della sua verità la logica e la verità proprie. Cosl, dopo aver a lungo esaltato il circolo necessario della filoso­ fia con la storia della filosofia, come diceva Gentile , o della filosofia con tutta intera la storia del mondo , come preferiva dire Croce, l 'idealismo giungeva all'im­ plicita dissoluzione del circolo. Non la filosofia, in­ fatti, è intelligibile nella storia, nella sua storia, bensl la storia è intelligibile nella filosofia, in quella salda e luminosa e netta dimora del pensiero pensante, nella quale essa, la storia, può raccogliere in unità i suoi momenti molteplici, sottraendoli al destino di una fenomenicità puramente irrelativa, internamente scis­ sa, incapace, in una parola, di comprendersi. In que­ sta prospettiva, dunque, la storia della filosofia finiva per essere o una semplice sequela di opinioni irrelative e non unificate ( né unificabili ) da un intrinseco « sen­ so » di razionalità necessaria, oppure la struttura ne­ cessaria e inalterabile della verità ; e se era opinione, non poteva esser mai verità, e se era verità, non po­ teva mai veramente svolgersi ed esser colta nel tempo, perché non il tempo è la misura della verità, ma la verità è la misura del tempo , il luogo in cui esso si raccoglie e diviene intelligibile. Dinanzi a questa concezione della storia della fi­ losofia, fin che rimase inconfutato il sistema di con­ cetti che la sorreggeva, l'atteggiamento degli studiosi si divise ambiguamente tra l'astratta accettazione teo­ rica e una soltanto parziale realizzazione storiografica ; e le poche voci dissenzienti ( idealistiche o non ideali­ stiche ch1: fossero ) non valsero comunque a mettere

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in seria crisi una « prassi storiografica » che andava vertiginosamente accentuando i suoi caratteri a mi­ sura che dai pensatori più antichi si procedeva ai più moderni. Ma quando il sistema entrò in crisi, le voci di dissenso si moltiplicarono, divennero ben presto un coro abbastanza omogeneo : nelle teorie che fu­ rono opposte a quelle fin 11 dominanti, si venne de­ lineando l'ideale di una prassi diversa , che i giovani storici del pensiero, di non remota origine idealistica , ma ormai dichiaratamente ostili verso quella parte della loro « ascendenza », tradussero in atto nei loro libri. Della storiografia filosofica di Croce e di Gentile si misero cosi in rilievo le chiusure interpretative, le forzature modernizzanti, le contrapposizioni troppo violente e perentorie del vero al falso, del « vivo » al « morto ». E mentre di Gentile (la cui opera di storico del pensiero è tuttavia in buona parte ancora da in­ dagare ), si sottolineò con acume il singolare e mai ri­ solto contrasto tra il gusto filologico-erudito ereditato dai maestri del metodo storico ( e , in primo luogo, da Alessandro D'Ancona ) e la « prepotenza » degli interessi filosofici ereditata da Spaventa, da Jaia, ma sopra tutto, gioverà pur aggiungere, dal suo proprio ingegno speculativo ; i libri di Croce, ed essenzial­ mente il saggio hegeliano del 1 906 e la monografia vichiana del 1 9 1 1 , furono indicati come esempi di un metodo violentatore, che faceva a pezzi il passato per poi ricomporlo ad immagine e somiglianza del filosofo-interprete, con abilità pari all'arbitrio. Né la polemica rimase limitata all'opera dei due maggiori maestri dell'idealismo italiano : pensatori e storici di quella scuola, tutti furono accusati del medesimo er­ rore ; e con qualche semplificazione (perché, a riper­ correrlo con calma, il paesaggio storiografico dell'idea­ lismo rivela aspetti ancora poco studiati ) su quella storiografia si pronunziò un giudizio che, ancora oggi , è ben lungi dall'esser stato riesaminato e riconside­ rato. Poco alla volta il nuovo costume prevalse sul ­ l'antico : e francamente non si può dire che il para49

gone debba di necessità risolversi, per ciò che ri­ guarda i risultati, a favore del costume di ieri. Per serietà di ricerca, precisione di analisi, sapienza filo­ logica, rigore complessivo di discorso storico, i libri che oggi si scrivono nel campo della storia della filo­ sofia hanno realizzato, nel complesso, progressi sen­ sibili su quelli che si scrivevano ieri. Sono più mode­ sti e più solidi : meno persuasi di interpretare l'asso­ luta eccellenza della filosofia che li ispira, ma più at­ tenti alla realtà specifica dei problemi indagati. E tuttavia, malgrado la sicurezza con la quale il nuovo ideale storiografico tiene il campo ( e guadagna anche settori tradizionalmente ostili ), non sembra che la dura polemica contro il « punto di vista specula­ tivo » necessario a costruire la storia del pensiero sia veramente penetrata nel cuore degli studiosi di filo­ sofia ( o di quanti si ritengono « filosofi » ). Molti di costoro, in effetti, hanno seguitato a coltivare nel pro­ fondo di sé l'ideale di un diverso dialogo con il pas­ sato, un dialogo diretto, privo della complicata e fa­ ticosa mediazione di quelle « tecniche » che lo storico mette in atto per comprendere, nelle sue molteplici direzioni concettuali e culturali, una esperienza di pensiero. E anzi, a questo proposito, qualcosa di ve­ ramente singolare è accaduto o sta accadendo. È ac­ caduto o sta accadendo che molti dei filosofi che hanno applaudito, ed ancora applaudono, alla dura reazione antidealistica degli « storici della filosofia » seguitino poi, nelle loro ricerche teoretiche, a trattare il pas­ sato con la stessa perentoria radicalità distintiva che aveva caratterizzato il metodo idealistico : sl che, da questo punto di vista, una frattura abbastanza netta si sta determinando, e l'ombra di una « doppia ve­ rità », vissuta ( sia ben chiaro ) in perfetta buona fede, oscura il panorama della storiografia di oggi. L'or­ gano della storicità appartiene a chi desidera piutto­ sto « capire » che « costruire »: l'organo della teore­ ticità a chi invece desidera bensl « capire », ma es­ senzialmente per « costruire » la filosofia. E la conse50

guenza paradossale è che il « capire » storico e il « co­ struire » teoretico finiscono per essere abbandonati alla dubbia logica del cosl detto gusto personale; mentre , a rendere più stridente il paradosso, non ci si do­ manda perché mai nasca e s'imponga quel desiderio del « capire » storico, che ha poi per « oggetto » pro­ prio il « costruire » teoretico dei filosofi del passato e del presente. Insomma, c'è una storia dei filosofi e una storia degli storici? Ma, pur lasciando da parte il delicato problema del filosofo che legge i suoi predecessori - un problema delicato e complesso, ricco di singolari implicazioni psicologiche, e che non si può certo risol­ vere con la trita battuta secondo cui egli li leggerebbe bensl, ma con i suoi occhi, alla luce dei suoi inte­ ressi, e dunque non li leggerebbe sul serio! -, ri­ mane pur sempre l'altro problema: perché lo storico legge i filosofi? E se li legge perché non può fare a meno di leggerli, perché ne ha bisogno, perché se non li leggesse non avrebbe pace con i suoi problemi e le sue inquietudini, che fanno guerra alla sua tranquil­ lità, li leggerà anche lui con i suoi occhi, alla luce dei suoi interessi. Come, dunque, si distinguerà dal filo­ sofo? Nessuno, è ovvio, sarà cosl ingenuo da ricor­ dare, a questo proposito, il ricco apparato filologico e documentario che sostiene la « lettura » dello sto­ rico e non, invece, quella del filosofo. Il problema è infatti di interessi e di esigenze, non di apparati fi­ lologici presenti o assenti; e se gli interessi e le esi­ genze dello storico si esprimono attraverso quell'appa­ rato, mentre il filosofo ne fa cosl spesso a meno, il problema serio non sarà forse - di chiedersi perché mai quelle letture si esprimano o non si esprimano attra­ verso quell'apparato? La « filologia » è stata tante volte addotta come la vera « differenza » qualitativa tra la lettura degli storici e la lettura dei filosofi ; e agli sto­ rici che difettano di « senso speculativo » e poco si orientano tra le difficoltà di un discorso crudamente logico o metafisico, il filosofo suole rivolgere l'accusa, 51

appunto, di « filologismo», mentre ai filosofi che, per la logica e la metafisica, poco si curano dei « partico­ lari», può persino accadere che lo storico faccia toc­ car con mano i loro imperdonabili errori di fatto. Ma in realtà, se gli storici sono talvolta a disagio dinanzi alle grandi svolte metafisiche dei testi, e i filosofi sono talvolta disarmati dinanzi ai problemi storici e filolo­ gici che i testi possono presentare a centinaia, non perciò è giusto dire che la « filologia» distingua i loro metodi ; perché la distinzione viene prima della filo­ logia, che in effetti la realizza a posteriori come do­ cumento di un gusto, di un atteggiamento, di un'atti­ tudine specifica dinanzi ai problemi del passato o del presente . Il problema, insomma, rimane nei termini che sono stati indicati qui su . E questi termini deli­ neano un'antinomia che, a guardar bene, non è altra da quella « situazione problematica», da quell'antino­ micità del domandare, per la quale, come si è cercato di chiarire in precedenza, la domanda presuppone bensì la mancanza e il desiderio di « qualcosa», ma finisce poi inevitabilmente per cristallizzare in se stessa questo desiderio, e per contraddirlo in tale cristalliz­ zazione. Alla domanda se ci sia una storia dei filosofi e una storia degli storici (della filosofia) sembra dun­ que che non si possa rispondere affermativamente, perché storici e filosofi leggono pur sempre con i loro occhi e alla luce dei loro interessi ; e se il filosofo dà così spesso l'impressione di schiacciare i testi sotto il peso delle sue preoccupazioni teoretiche, anche lo storico - quando abbia esasperato in se stesso i ter­ mini radicali della sua propria problematicità - può finire per imporre ad essi il peso della sua specifica metafisica. Filosofia e storia tendono così di nuovo a convergere; ma a convergere negativamente, nel se­ gno di quel difetto di storicità reale che tanto spesso si nota ( quando ci si ponga da un rigoroso punto di vista « ideale») nei libri di storia della filosofia. Come il filosofo, anche lo storico « Zehrt [ er ] heimlich auf / seinen eignen Wert I in ungniigender Selbstsucht»: 52

consuma segretamente il proprio valore in inappa­ gante egoismo. VIII

La cultura filosofica italiana, impegnata nella cri­ si e nella soluzione della crisi, ha cercato più volte, in questi ultimi vent'anni, di rispondere a questi pro­ blemi. Il momento più intenso di questa ricerca è do­ cumentato dall'opera storica e filosofica di Eugenio Garin. La notevole fortuna incontrata dai suoi scritti presso i più seri studiosi delle ultime generazioni sta Il a dimostrare la profondità della crisi e, per con­ verso, dell'impegno con il quale si è tentato di vi­ verla e di superarla. E vale la pena di aggiungere che, per quanto antidealistica per vocazione e per scelta consapevole, la cultura italiana ha cercato in uno stu­ dioso fortemente impegnato nella crisi dell'idealismo una guida e un punto di riferimento. L'intensa medi­ tazione di Garin ha rappresentato cosl per molti quasi una seconda coscienza; e quanti erano tentati di eva­ dere e di ripiegare nella pura ricerca storica, hanno poi trovato (o almeno avrebbero potuto trovare) nei suoi scritti un antidoto potente, ora ironico, ora ap­ passionato, alla loro pigrizia. Filologo cauto e sorve­ gliato, Garin non ha infatti mai spezzato il filo che lo lega agli interessi del presente. Maestro di studi uma­ nistici, ha cercato nell'umanesimo non già (o non solo ) la dissoluzione delle maestose costruzioni sistematiche dell'età di mezzo, bensl piuttosto il sorgere e l'affer­ marsi di una nuova filosofia, una filosofia dell'uomo e del suo orizzonte terreno. Interprete sensibile dell'in­ sufficienza di tante teorizzazioni idealistiche sulla scien­ za e sul suo valore conoscitivo, ha studiato la «scien­ za » umanistica e rinascimentale fuori di facili schemi storiografici; e nella delineazione del pensiero di uo­ mini come Leonardo e Galilei ha scoperto, in saggi di esemplare misura critica, connessioni nuove. Sem53

pre, nella sua opera, il passato è stato interpretato alla luce di acuti interessi contemporanei: il filologo consumato ha imposto ai suoi lettori un volto e un carattere inconfondibili, a volte prepotenti. Insomma, l'umanesimo quattro-cinquecentesco che egli indagava con grande precisione, e di molto arricchendo il pa­ trimonio storico delle conoscenze, si legava in lui alla profonda esigenza di una filosofia umanistica, concre­ tamente e antiretoricamente legata ai problemi della « città umana »; ed ecco allora il filosofo impegnarsi non solo nell'analisi esplicita della cultura italiana « tra otto e novecento », bensl anche nella ricerca di una filosofia intesa « come sapere storico ». Che in questi anni Garin abbia avuto alcuni sco­ lari, molti imitatori, e moltissimi lettori in campi tra­ dizionalmente lontani dalla storia della filosofia, è cosa che si comprende con facilità; né sarebbe giusto os­ servare che quasi mai il livello dei suoi scritti è stato raggiunto dai discepoli, dagli imitatori e dai liberi let­ tori. Raggiungerlo era in effetti difficile, forse impos­ sibile: il metodo critico di un interprete di così alte qualità difficilmente può essere riprodotto, con pari originalità, nelle pagine di chi trae da esso ispirazione per il proprio lavoro. Ma ben più grave è invece che coloro i quali hanno seguito Garin non solo come storico, bensì anche come « filosofo », abbiano poi evitato di riprendere i problemi che egli proponeva alla discussione ; di riprenderli, s'intende, non mate­ rialmente ma sul serio, discutendoli a fondo, cercando di ricostruirli nella sua storia intellettuale, e, even­ tualmente, conducendoli ad altre conseguenze. Anche nei riguardi di Garin la cultura italiana è stata, in questi anni, ricca di parole, povera di impegno specu­ lativo; e non sempre le parole forti, audaci e batta­ gliere che sono state pronunziate a difesa della « fi­ losofia come sapere storico » erano, nel fondo, esenti da una certa perplessità e insicurezza, che, appunto, tentavano di mascherarsi attraverso quelle parole di battaglia. È difficile dire se oggi Garin sia per essere

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ancora a lungo seguito dagli inquieti rappresentanti della più giovane storiografia e filosofia italiana. Ma se dovesse esser seguito solo come studioso di questo o quell'argomento, e il suo impegno filosofico dovesse essere, per così dire, esteriorizzato in un metodo sta­ tico, ridotto ad alcune massime tenute insieme dal dubbio oro di una generica «saggezza», allora si po­ trebbe esser certi che il significato più profondo della sua opera sta per essere perduto, e che la sua «in­ tenzionalità» sta per essere obliata (se è lecito ri­ prendere qui il linguaggio di Husserl ) nelle più trite « ovvietà» del ricercare quotidiano ! Ricostruire la storia di Garin, dai suoi primi studi, culminati nella monografia pichiana del '37 e nel li­ bro del '4 1 sull'illuminismo inglese, fino alle più re­ centi indagini storiche e teoriche, sarebbe molto in­ teressante; ed è anzi un compito, questo, che la cul­ tura italiana, così curiosa del suo più recente pas­ sato, dovrebbe non tardar oltre ad attuare. Ma qui è necessario limitarsi a ripercorrere brevemente la linea teorica del saggio più impegnativo che egli abbia scritto finora sul problema della storia della filosofia • ; ed esprimere, innanzi tutto, il curioso sentimento che rende difficile discuterlo, fissando con precisione il consenso e il dissenso. Perché di quel saggio tutto può essere accettato: e tuttavia esso è così intensa­ mente problematico, così volutamente «provvisorio» pur nella consapevolezza di riassumere un intero ci­ clo di riflessioni, che accettarlo non si può senza sen­ tir riemergere dall'accettazione l'esigenza di rimetterlo in discussione tutto. Essergli fedeli, significa tradirlo ; ma essergli infedeli, e non a parole, ma sul serio, come • E.

GARIN,

Osservazioni preliminari a una storia della

« Giornale critico della filosofia italiana », 1958, pp. 1-55 (ora in La filosofia come sapere storico, Bari 1959, pp. 56-149). Tutte le citazioni, tranne indicazione in contra­ rio, sono tratte da questo testo; e poiché non è difficile ritro­ varle, evito di 5egnare ogni volta in nota il luogo specifico a cui, volta a volta, mi riferisco. filosofia,

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si può? Che, ad esempio, la storia della filosofia non possa essere scritta nel segno della « prepotenza» che sempre il « sapere assoluto» esercita sul « sapere sto­ rico», è certo « degnità» pienamente plausibile ; e con questa « degnità » possono ben essere accettate tutte le altre, nelle quali sarebbe facile ( se si posse­ desse qualche virtù di linguaggio aforistico! ) riassu­ mere le critiche che Garin rivolge, ad esempio, alle due tradizionali categorie del « superamento » e della « unità » 1 0 • Due categorie che sembrano opporre l'una all'altra due irriducibili concezioni della storia del pen­ siero, e che invece indugiano entrambe all'interno della stessa concezione ( e della stessa difficoltà). Per­ ché, se la categoria del « superamento» sembra im­ porre alla storia del pensiero il ritmo di una frenetica fuga di cavalli eroici, che al suono di una musica guerriera (non sempre di alta qualità, ma trascinante), saltando ostacoli su ostacoli, si allontanano progressi­ vamente dal passato e dalle sue « angustie », per fer­ marsi tuttavia nel movimento eterno dell'ultimo salto ; la categoria della « unità » insinua il dubbio se quel frenetico saltare e correre e p.rogredire sia eterno non solo nella conclusione, ma in tutto il suo apparente « svolgersi»; e che insomma non un lungo cammino verso l'infinito percorrano quei cavalli eroici, bensl un circolo, nel quale si realizza e si consuma eterna­ mente l'unico grande problema della realtà. Da una parte, dunque, il « superamento» e, con qualche ne­ cessaria approssimazione, Hegel e Croce e Gentile, e tutta la tradizione « eroica» dell'idealismo dialettico, celebrante il divenire di contro all'essere (e pur im­ barazzato nel prospettare se medesimo - la coscienza 1 ° Cfr. anche, di Garin, il saggio su L'« unità » nella sto-­ riografia filosofica, « Rivista critica di storia della filosofia ». 1956, pp. 206-17 (ora in La filosofia come sapere storico , pp. 1 3-32 ) : sono ovvie le connessioni tra la categoria del­ !'« unità », qui indagata da Garin, con quelle del « supera­ mento » e della « continuità », che della prima è una varia­ zione.

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del divenire - all'interno di quel divenire che, per non smentirsi nell'essere, pur dovrebbe poter com­ prendere la coscienza che lo comprende). Dall'altra, l'« unità », e cioè la storia del pensiero ridotta a pura « essenza », emergente dal tempo in forza del princi­ pio eterno che, appunto, inerisce all'essenza e la in­ cide nell'essere senza tempo come una nota incancel­ labile. Ma il superamento non può superare se stesso, a quel modo che il divenire, preso in sé, non può essere che essere; e dal seno stesso della categoria del « superamento » ecco allora sorgere l'idea del circolo, perché autore del superamento è pur sempre quell'uni­ versale ed eterno Spirito del Mondo che può bensì moltiplicare se stesso in problemi particolari e con­ tingenti, ma non può poi, nel superarli, non ritornare a sé e alla fermezza del suo essere trascendente il tempo. Cosl il « superamento » implica la « unità », l ' « unità » il « superamento »: l'uno si dissolve nel­ l'altra. E venendo al concreto, con quella sua mali­ ziosa finezza, Garin può fermarsi sul caso di Rodolfo Mondolfo, e, dopo aver ripetuto l'elogio del suo con­ tributo alla storia del pensiero, notare in lui il sim­ metrico capovolgersi, nella teoria della « unità », dei più crudi caratteri della storiografia filosofica dell'idea­ lismo. E il rilievo, assai acuto, coglie perfettamente nel segno. Dinanzi a queste riflessioni, tutte tese a rivendicare la storicità del pensiero, e dunque una storiografia che riveli i suoi contorni reali, le sue « condizioni », le sue lotte; che dei filosofi sappia non già fissare pallide es­ senze « eterne », bensl ricostruire i contrasti nella concretezza « di un tempo »; e che, insomma, al fred­ do spirito definitorio che, per riprendere liberamente una formula di Bréhier, uccide il filosofo « storico » nella filosofia « eterna » (Socrate, si sa, è lo scopri­ tore del « concetto », e lo scopritore vale per la sco­ perta e si annulla in essa per sempre ), preferisca, al limite, la faticosa ricostruzione di una biblioteca -, dinanzi a queste riflessioni chi può dirsi in disaccordo?

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Quando, ad esempio, Garin polemizza con Gilson e con Bréhier sul problema delle « essenze» e del « tem­ po»; quando, criticando Hartmann, svela bene l'equi­ voco che si annida nella sua pretesa di contrapporre il « pensiero-sistema » al « pensiero-problema » (che sarebbe poi pensiero di un solo problema, perché c'è una permanenza strutturale del mondo al di là del mutevole apparire e scomparire dei sistemi), difficile, veramente, non essere dalla sua parte. Di fronte alla sostanziale ambiguità del discorso hartmanniano, che critica i « sistemi» in nome di un problema che né sorge né tramonta, perché è come sotteso ad ogni sor­ gere e tramontare delle costruzioni umane nel tempo, Garin ha perfettamente ragione di obbiettare che, se si è storici, non si può assumere nei riguardi del « tempo» un atteggiamento cosl sdegnoso : giacché, se i sistemi crollano, sarà pur necessario chiedersi per­ ché crollino dopo essere sorti, e perché continuino a risorgere dopo essere crollati . Tutte osservazioni esatte e pungenti, dunque, que­ ste di Garin; e che tanto più appariranno tali quanto più il lettore sappia osservare come nei suoi scritti di storia della filosofia egli dissolva le « idee» pure per prospettarle nella concretezza della storia, nel loro nesso (per riprendere un'espressione tipica di questo scritto) con « la carne umana». E tuttavia, un'ombra grava su queste pagine e sulla loro impostazione, l'om­ bra della filosofia « come sapere assoluto». Un'ombra della cui presenza Garin è sempre consapevole, anche se in toni diversi ; e talvolta infatti gli capita di esor­ cizzarla con parole piene di sarcasmo, come quando al filosofo che dispregia la ricerca minuta, la filologia , l'erudizione, risponde che « fra l'ottuso profeta e l'one­ sto somaro» chi desideri « lavorare in pace» sce­ glierà sempre il secondo, mai il primo ; e altre volte, invece, l'allontana da sé con gesto più pacato, con­ trapponendo ad essa una più concreta ed umana idea della filosofia, che coincide con la storia, ed è, cioè sussiste, senza bisogno di essere costruita e definita a

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priori, al di qua della storia. La filosofia della storia della filosofia è in tal modo identificata con la stessa storia della filosofia; e, quasi « per opporre slogan a slogan », Garin può allora dire che non la storia della filosofia segue (e implica) la filosofia, bensl la filosofia segue (e implica) la storia della filosofia. « Come ogni sapere effettivo, anche la storia della filosofia muove dal presente che vuole intendere, dalle aporie del pre­ sente, cercando, nelle guise onde si sono generate, in­ dicazioni per affrontare l'avvenire. » Ben comprensi­ bile, quindi, che, da questo punto di vista, Garin ri­ fiuti di definire prima ciò che soltanto dalla ricerca potrà emergere con chiarezza. Si fa storia della filo­ sofia perché si cerca la filosofia : questa è la nota autentica del vero ricercatore ( e questa è, vale ag­ giungere, la nota autentica dell'impegno filosofico di Garin). Ma intanto, ed è inevitabile, dell'aporeticità si ha coscienza, e non si può non avere coscienza, dal mo­ mento che è proprio l'aporia a condizionare il sorgere dell'interesse filosofico, cioè, più esattamente, dell'in­ teresse a ricercare nel passato « ispirazione» e « luce» per risolvere le angustie del presente; e mentre, in tal modo, l'aporeticità si organizza in se stessa chiuden­ dosi in un sistema contraddittorio ma reale, il filosofo « aporetico» non può non fissarne i caratteri e rico­ noscerne i termini, al di qua della ricerca e della sua avventura. Si parla di ciò che sarà, e giustamente, si nega che il futuro possa essere trattato alla stessa stre­ gua del presente, che il « sarà» possa essere senz'altro un « è». Ma intanto la situazione è prospettata in modo tale che la necessità del futuro è resa intrinseca allo stesso presente, che lo ricerca perché, in qualche modo, non può non ricercarlo. Tra presente e futuro il nesso è garantito dalla « previsione» che la ricerca storica porterà luce sull'aporia dalla quale muove, e quindi la scioglierà, e sciogliendola porrà il filosofo, e l'uomo che è in lui, in migliori condizioni per « af­ frontare l'avvenire». Cosl, la « previsione» rimanda 59

ad una struttura necessaria; e poiché questa struttura sussiste, essa, la previsione, possiede già nel presente e nel passato ciò che, per definizione, dovrebbe appar­ tenere al futuro. Per tale via, l'« idealismo » torna improvvisamente in primo piano. Questa filosofia, che viene rimandata al futuro come «risultato» della ricerca storica, è infatti, per l'interprete, un momento della sua presente consape­ volezza; e da questo punto di vista, allora, essa non differisce qualitativamente da ogni altra filosofia che, del pari presente in un interprete, «condizioni» la sua indagine del passato. Quel che infatti conta, al riguardo, non è che la filosofia del primo interprete sia una « metodologia» analitica e quella del secondo, invece, una filosofia «sintetica», una « metafisica»; bensi che entrambe siano «presenti», e presenti come filosofia, cioè come l'orizzonte necessario delle scelte storiografiche. Perché, infatti, si possa rimandare la filosofia al momento che segue la conclusione della ricerca, è pur necessario specificare che dalla ricerca storica si libereranno energie nuove per la soluzione delle «aporie» dalle quali la ricerca stessa è stata sollecitata; e nell'atto stesso, allora, in cui si nega che i caratteri del superamento possano essere determinati e definiti prima che il superamento si sia prodotto, al­ meno questo si deve sapere, che ci sono aporie da superare e che esse saranno superate, perché questa è la direzione necessaria della ricerca. Insomma, per poter dire che il superamento avverrà, è necessario conoscere questa fondamentale struttura della situa­ zione euristica, per la quale il superamento si produce, e si produce necessariamente. E tale conoscenza non può appartenere al futuro: riguarda il futuro, ma ap­ partiene al presente (a quel presente nel quale il fu­ turo è ben più che implicito ).. Essa è in effetti cono­ scenza di una struttura, semplice ma necessaria ; ed implica quindi una « certezza trascendentale», che non dipende dalla ricerca storica come suo risultato,

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bensl condiziona la ricerca storica, stabilendone le condizioni - condizioni «trascendentali». Ai logici e ai metafisici, che nella storia del pen­ siero cercano solo quel balenare più o meno intenso della verità che è, secondo il loro punto di vista, l'unico che meriti di essere indagato ; a quanti insom­ ma, per illustre e rispettabile che sia il loro nome, si aggirano per la vas�a pianura del passato con un col­ tello in mano («cattivi macellai» li definl una volta Garin, e pensava ad un'espressione di Platone), pronti ad usarlo per tagliare ogni filo che sembri legare la verità «imperitura » alla povera storia che nasce e muore, è giusto, senza dubbio, obbiettare che questo atteggiamento distrugge alla radice la possibilità stessa della storiografia. In effetti, chi impugna quel coltello , stringe nella mano la verità: che è, in questa conce­ zione, «dialettica», cioè capace di persuasione (o di confutazione) come la parola del diavolo, ma, al pari di quella, intollerante ed omicida. Senonché, per for­ tuna, quel coltello vale altresl come simbolo della sua inutilità ; perché, se esso è la verità emersa con chia­ rezza dalla storia, a che pro lo si userebbe di nuovo nell'analisi di ciò che è già chiaro? In tale concezione, veramente, sembra che la storiografia sia ridotta al ruolo di «un'arte bella». E l'omicidio, in cui consi­ ste l'espressione di quest'arte, è elegante ma incruento, cioè inutile. Non c'è, in effetti, che qualche accade­ mico il quale possa dilettarsi di simili eleganze: e il metafisico che si dispone a far storia della filosofia è, in questo senso, un accademico. Egli richiama irresi­ stibilmente alla mente la patetica figura del nobiluomo preoccupato della sua nobiltà, il quale affronta bensl le fatiche della ricerca storica, ma solo per aggiungere lustro al suo blasone ; e se, nella ricerca, gli capiti di scoprire che ogni altra nobiltà è spuria, ne è ben lieto, perché « l'esser nobile», non l'«apparire nobile » , merita il riconoscimento dello storico ! E tuttavia , quando, passando alla situazione op61

posta, della filosofia passata si preferiscono indagare piuttosto le «condizioni storiche» che non la pre­ tesa eterna di verità che tanto spesso essa ha avan­ zato (perché questa pretesa stessa è un «documento storico») ; quando all'analisi diretta dei grandi nodi strutturali si preferisce la risoluzione di questi nodi nelle condizioni reali alle quali essi rimandano (per­ ché di Il, in effetti, nascono), il capovolgimento è, almeno qualitativamente, illusorio. Nessuno, certo, si sognerà di negare che grandi pagine di storia del pen­ siero possano essere scritte meglio con questo che con l'altro metodo. Anche nella storiografia filosofica, He­ gel sembra dover cedere il posto a Ranke (che non era poi così problemlos, come ancora si ama ripetere): fi1a qui non è questione di grandi pagine, cioè di risultati. In effetti, chi nella storia della filosofia ricerca piutto­ sto libere risposte a concreti bisogni, e si mostra quindi diffidente nei riguardi delle rigide strutture sistematiche, non fa, in analisi estrema, che riprodurre nel passato la situazione stessa nella quale, qui ed ora, egli si trova nei riguardi della « filosofia»; Se quindi rifiuta di cercare le idee «rimanendo chiuso nel mondo delle idee », la ragione è da individuare nella struttura storicizzante della sua filosofia; e non c'è d;i meravi­ gliarsi, allora, se questa filosofia, che aborre di essere scambiata con quel!'« altra» filosofia per la quale il morire all'empirico e al diverso è l'atto stesso di un eterno rinascere nella verità senza tempo, «privilegi» nel passato un'idea della filosofia come indagine del molteplice mondo della storia, come sintesi provviso­ ria e sempre perfezionabile di esperienze concrete, come ragione bensì, ma «storica ». Quel «privilegia­ mento » è, in effetti, rigida conseguenza del suo « es­ sere », della sua «struttura » . C'è una pagina, anzi una nota, in questo saggio così ricco e difficile, nella quale, riprendendo « un celebre nodo di questioni » , Garin deplora I'«esasperazione conservatrice che im­ perversa anche negli studi storici » e sottilmente os­ serva come « l'attacco al Rinascimento, e alla sua no-

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vità » avvenga oggi « sotto il segno di una specie di coalizione dei teologi di tutte le religioni » . E, per reazione, si ripensa allora alle tante pagine nelle quali. in questi ultimi vent'anni, vincendo opposizioni e pre­ giudizi, incertezze e (talvolta) errori nascenti da igno­ ranza, egli è venuto delineando un'immagine dell'Uma­ nesimo e della sua « filosofia » come scoperta della « storicità » dei concreti rapporti umani. Quel Poli­ ziano, quel Guarino, il grande Lorenzo Valla, che, leg­ gendo Aristotele, dimostrano con le arti sottili della loro « filologia » che la sua « logica » è, dopo tutto, una logica, mirabile ma umana, alla quale altre logi­ che sono succedute e ancora succederanno per inter­ pretare le nuove esigenze di un mondo che muta, sono. senza dubbio, personaggi storici, indagati sul fonda­ mento di precise « documentazioni » ; ma sono anche il simbolo di una filosofia e di un connesso « gusto » storico che, conformemente alla loro legge, rivolgono la loro attenzione a quei « retori » e a quei « gram­ matici » che, modestamente, abbattono le strutture « eterne » di una cultura e annunziano una cultura nuova, più libera e umana. Cosi Ficino (il Ficino caro alle esaltazioni sistematizzanti e precorritrici di idea­ listi e neoscolastici) è sottilmente indagato, e dissolto, in quelle sue pretese sistematiche che, all'occhio del nuovo interprete, si rivelano come belle favole conso­ latrici, trasfigurazioni poetiche delle cose, in cui « ai bisogni del cuore si risponde con le ragioni del cuo­ re » 1 1 • Analogamente, la filosofia di Galilei è « una scienza, ossia frutto di ragione ed esperienza, ed è valida pienamente, in una sfera destinata ad ampliarsi progressivamente, senza barriere, ma nei suoi campi, ossia in dimensioni diverse dall'assoluto e dal divino . È una scienza che non cerca essenze ultime, e non sa - come tale - dell'assoluto infinito, e non ne giu11 E . GARIN, Immagini e simboli in Marsilio Ficino, Medioevo e Rinascimento, Bari 1 954, p. 309.

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dica» 12 • Dove, se in Ficino è colto il momento della inconsapevole dissoluzione di quel « sistema» che il « tremore» stesso della sua anima aveva innalzato per sua protezione e sicurezza, in Galilei è piuttosto sotto­ lineato il momento in cui il rifiuto delle auctoritates diviene esplicito nell'individuazione di una diversa mi­ sura del filosofare. E senza pretesa, ovviamente, di porre questi due momenti al principio e alla fine di una parabola ideale, facendone i cardini di una « filo­ sofia della storia», è difficile, tuttavia, sottrarsi al­ l'impressione che essi ripetano ed esprimano temi au­ tobiografici dello stesso Garin. Autobiografia? E che male c'è a portare nel passato il peso delle proprie preoccupazioni e delle proprie esperienze? Niente di male, senza dubbio: tanto più, poi, che alle proprie preoccupazioni e alle proprie esperienze è inevitabile soggiacere. Ma il punto è che l'autobiografia è anche , in questo caso, metafisica. Le parole con le quali Ga­ rin definisce la « filosofia» di Galilei potrebbero es­ sere ripetute, senza la minima variazione, per definire la « filosofia » sua, di Garin : del quale, in effetti, a buon diritto si potrebbe ripetere che, nel gran libro della storia, « non cerca essenze ultime, e non sa . . . dell'assoluto infinito, e non ne giudica». E allora? Non è, anche questa, una filosofia tutta dispiegata al di qua di quella ricerca dalla quale pur si dice che dovrebbe emergere? « Mutato nomine», la fabula seguita a narrare del metafisico come se fosse un « metodologo », e del metodologo come se fosse un « metafisico », perché li vede entrambi legati alla verità. Che in un caso si tratti della verità senza tempo e in un altro di una verità storica, atto di intelligenza di un mondo storicamente mutevole e « pluralistico » , non fa differenza rispetto al punto ora in discussione: che quella verità, quella filosofia sta prima della storia della filosofia e, inevitabilmente, ne stabilisce le condi12 Galileo filosofo, in Scienza e vita civile nel Rinasci­ mento italiano, Bari 1965, p. 163.

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zioni trascendentali. Le · due verità si esprimono in due gusti, molto diversi tra loro: né sarebbe corretto se, esasperando l'analogia, si pretendesse di negare la diversità dell'impulso derivante agli studi dall'una ve­ rità e dall'altra. Ma i « gusti » hanno poi il loro fon­ damento nelle « verità » delle quali esprimono il mo­ tivo storiografico: ed è per questo che se ne può « disputare », perché sono qualcosa di più che sem­ plici « gusti ». Del resto, che a un critico acuto come Garin non potesse sfuggire questa necessaria « prepotenza » o, se si preferisce, « presenza » della filosofia, è ovvio: e sorprende, se mai, che non abbiano mostrato di ac­ corgersene quanti, da varie parti dello schieramento filosofico, hanno insistito piuttosto sulla « liquidazio­ ne » della filosofia alla quale egli giungerebbe (la « fi­ losofia come sapere storico » sarebbe senz'altro « an­ tifilosofia »; e questa è una semplificazione polemica ) che non su questa tormentosa, ma pur chiara, ammis­ sione. Questa ammissione costituisce infatti uno dei termini del discorso di Garin: chi ne prescinde non capisce più nulla della sua complessità, cioè dei suoi punti di forza e, insieme, di quelli di minor resistenza. « È indubbio - si legge in una pagina molto impor­ tante del suo maggiore scritto metodologico - che lo storico della filosofia ( storico, non dossografo né eru­ dito, ma neppure ' teologo ' negatore della storia quale costruzione umana) parte da una filosofia e si pone di fronte al passato con una coscienza critica della sto­ ricità dell'opera umana, in grado di comprendere, e situare, gli sforzi del passato. » E proseguendo, dopo altre osservazioni pertinenti e interessanti, aggiungeva che « come è indiscutibile, nel senso sopra indicato, una veduta ' filosofica ', o, se si vuole, una premessa critica dello storico della filosofia, è ancor vero che essa significa da un lato una visione della realtà umana come mobile processo, e dall'altro una concezione plu­ rale del filosofare. E se è chiaro che i due concetti sono fra loro saldati , è pur vero che, in parte almeno, 19. 3

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si sono venuti maturando per vie diverse; e di essi è necessario rintracciare non certo il ' fondamento ', ma sl la genesi, il significato, la fecondità ». Dove tutto, o quasi tutto, è esatto ; e interessante è la proposta di studiare più da vicino l'autonomo sorgere e svolgersi e affermarsi dei due motivi poi confluiti in uno. Ma il punto critico rimane pur sempre come sia possibile che una « visione della realtà umana come mobile pro­ cesso » possa coincidere, a stretto rigore di termini, con una « concezione plurale del filosofare » ; oppure, se tale coincidenza sia per apparire possibile, come siano invece possibili in sé, cioè, più esattamente, nel­ l'accezione in cui Garin sembra prenderle, quella « vi­ sione » e quella « concezione ». Perché - ed è osser­ vazione ormai trita ( che non si vede, per altro, come possa essere evitata ) - la « visione della realtà come mobile processo » non parteciperà essa stessa del pro­ cesso, ma, per desiderio che possa avere di parteci­ parne, vedrà se medesima uscire da quel processo nel­ l'atto stesso in cui lo percepisce e lo definisce come tale ; e la « concezione plurale del filosofare » non po­ trà non essere, a sua volta, una concezione « singo­ lare » della pluralità delle filosofie, a quel modo stesso ( si può aggiungere ) che affermare la « storicità della verità » non si può se non affermando la « differenza » che, in forza dell'affermazione stessa, si stabilisce tra questa affermazione e il suo contenuto ( la storicità ). Tutte cose, queste, che Garin sa, ovviamente, meglio di ogni altro ; e che tuttavia, preso dalla sua giusta esigenza di difendere la storia dalle prepotenze teolo­ giche del « sapere assoluto », non sempre è riuscito a cogliere nella loro connessione, nel loro arduo rap­ porto, in una parola, nella loro problematicità . Di questa problematicità, che pure è il leitmotiv della sua ricerca, egli ha colto analiticamente i termini, vi­ vendoli con serio impegno : ma il vero volto della pro­ blematicità è nella sintesi, nella sintesi ardua e non pacificata, di quei termini.

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IX

Chi a questa problematicità cerchi di rimanere fedele, potrà rifletterla in un diverso « gusto » sto­ riografico ; e potrà allora, nei suoi scritti, mostrar pro­ pensione verso « aspetti » della filosofia che, in altre storiografie, appaiono meno « privilegiati » o, comun­ que, meno studiati. Ma non certo questo è il pro­ blema che, ora, interessa trattare : né sarebbe utile contrapporre in astratto storiografia a storiografia. Qui, concludendo questa analisi, converrà piuttosto richia­ mare l'attenzione sulla problematicità stessa del rap­ porto tra problematicità e storia - sulla complessa fenomenologia aporetica del domandare. Insoddisfatti della metafisica e della metodologia ( che non riesce a non essere una metafisica ), avvertiamo il peso di que­ sti problemi, e cerchiamo di risolverli. Ma il compito è dei più difficili : per perseguirlo e, eventualmente, per attuarlo, è necessario che i problemi siano posti con rigore e vissuti nella loro complessità, e che la polemica contro uomini ed opere che non soddisfino i nostri « gusti » non induca, per reazione, a scambiare per « soluzione » quella che può ben essere, in noi, soltanto l 'esigenza immediata di una diversa storio­ grafia ( e filosofia ) .

P-ER UN' INTERPRETAZIONE DI CROCE

I

Affrontare oggi i problemi del pensiero di Croce in uno qualsiasi dei molti campi nei quali si è esercitata la sua attività di filosofo, di critico delle letterature, di critico della civiltà e della politica europea tra il sedicesimo e il ventesimo secolo, significa, se non si vogliono ripetere concetti triti, affrontare e cercar di capirt la «totalità» crociana. Filosofo che amò defi­ nirsi non sistematico nel senso pedantesco del termine, e che ad un certo punto della sua vita (per l'esattezza, nel 1 9 30) dichiarò perentoriamente la morte del «Fi­ losofo», «del puro, del sublime filosofo, di colui che, incurioso delle cose piccole, sta intento a risolvere il problema dell'Essere» 1 ; avversario implacabile della 1 B. CROCE, Il « Filosofo », in Ultimi saggi, Bari 1948 •, p. 386. La polemica contro il « filosofo », spesso coincidendo con quella contro l'astratto spirito di sistema, traversa l'intera opera di Croce, e sarebbe perciò arduo darne compiuta docu­ mentazione in poco spazio. Cfr. comunque N. BoBBIO, Bene­ detto Croce a dieci anni dalla morte, « Belfagor », 1962, pp. 621639 e la discussione che ne è seguita tra D. Faucci, N. Bobbio, G. Sasso, G. Calogero e vari altri studiosi, in « Cultura », 1963, pp. 502-23 ; 1964, pp. 272-85, 375-95. Per il modo in cui si deve intendere la polemica contro il sistema, dr. tra gli altri luoghi, Logica come scienza del concetto puro, Bari 1942 •, pp. 173-77; Filosofia e storiografia, Bari 1949, p. 151 e, infine, Terze pagine sparse, Bari 1955, I, pp. 1 34-35. Per la polemica crociana contro le astratte meditazioni sul­ l 'Essere, cfr. in modo particolare il saggio del 1919 Sulla

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« metafisica » che, almeno a partire dalla Logica del

1 908 fino agli ultimi scritti, sempre identificò non con

il ritmo eterno del vero, bensl con le«mitologiche» co­ struzioni dell'intelletto astratto • , Croce fu tuttavia ,

anche psicologicamente, dominato dal problema ( questo sl veramente centrale ) dell'unità del sistema, dell'ar­ monia tra le sue parti costitutive, del limpido scorrere ed autorisolversi dei suoi concetti fondamentali. In una pagina famosa del Contributo alla critica di me stesso si può leggere un cauto, ma pur deciso elogio della sua quasi connaturata virtù logica, della tendenza , fortissima in lui fin dalla più giovane età, a ragionare « a fil di logica e con logica intransigenza », tenendo ben fermi i « concetti fondamentali » e traendo da quelli inesorabili ( anche se in apparenza paradossali ) conseguenze • ; e tutti hanno in mente quelle « consifilosofia teologizzante, in Nuovi saggi di estetica, Bari 1920,

pp. 1 97-314 ( sul quale, dal suo punto di vista, si fermò a lungo il Calogero negli Studi crociani, Rieti 1930, pp. 12 sgg., scritti in collaborazione con D. Petrini : il saggio del Calogero è ora in La conclusione della filosofia del conoscere, Firenze 1960 •, pp. 48 sgg.). • Sul significato dell'affermazione secondo cui la filosofia è idealismo, dr. ad esempio, Logica, pp. 171-72. Per uno svol­ gimento della tesi, è fondamentale il saggio su Il concetto della filosofia come storicismo assoluto ( 1939), in Il carattere della filosofia moderna, Bari 194 1, pp. 1-22, dove il termine « idealismo » è definitivamente mutato in quello di « filosofia dello spirito » e, poiché lo spirito è storia, di « storicismo assoluto ». Nel 1943 ( Discorsi di varia filosofia, Bari 1945, II, pp. 1 5-17) Croce spiegò perché, a suo giudizio, il termine « idealismo » fosse da abbandonare (dr. Discorsi di varia fi­ losofia, Il, pp. 35-36). • Contributo alla critica di me stesso, Bari 1926, p. 35 ( = Etica e politica, Bari 193 1 , p. 382). L'edizione del Con­ tributo, che io cito, non ha subito ritocchi nel testo, nel corso degli anni : ma, ristampandolo nel 1950, nell'antologia dei suoi scritti, da lui stesso curata per i « Classici italiani » del Ricciardi (Filosofia Poesia Storia, Milano-Napoli 1950, pp. 1 1 361 177), Croce vi aggiunse una nota di « aggiornamento », che non è stata inclusa nella riedizione del Contributo nella nuova edizione (la terza) di Etica e politica, Bari 1956 la qualè. con­ tiene invece due aggiunte, rispettivamente del 1934 e del 1941 , escluse dal volume ricciardiano.

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derazioni e divagazioni» su La « Loica » nei tarocchi detti del Mantegna, che egli compose nel 1941, quando nubi sinistre traversavano« il cielo di Europa» e c'era legittima ragione di ritenere che l'intera umanità fosse sul punto di essere travolta nella più gigantesca ca­ tastrofe della sua storia. In quelle pagine, dopo aver ricordato il detto di Bernardo Tanucci, un ministro ( come lo definì) « dei buoni vecchi tempi», già com­ mentato prima in un saggio famoso ( « ove non è più sillogismo né studio non può essere né verità né virtù»), Croce dichiarò il suo affetto riverente alla figura ( quasi « l'immagine di una santa») ritratta nel « tarocco» detto del Mantegna •. In ogni tempo, in­ somma (e sia pure, come vedremo, in forme diverse ) , egli pregiò i n sommo grado l a critica di s e stesso, la revisione incessante delle verità già acquisite, la « loica», appunto, intesa come suprema verifica dei « pensieri già pensati». Ad un critico letterario, che nel suo linguaggio immaginoso aveva osservato ( di­ scutendo la nota tesi crociana su « poesia e strut­ tura» in Dante) che Croce era pensatore troppo grande per aver paura di contraddirsi, il filosofo re­ plicò severamente che di nulla al mondo era invece altrettanto timoroso che « della contradizione»: Veramente, sl, ne ho paura grandissima, perché la contradizione, lasciata passare indisturbata, è il non-pen­ siero, e io mi sono sempre studiato di pensare, e perciò di ricondurre o di mantenere in rigoroso accordo di unità i miei giudizi; e se talvolta, esercitando come soglio la continua autocritica, mi sono avveduto di qualche mio • Il saggio usd nella « Critica », 1941, pp. 265-71 , e sta ora in Discorsi di varia filosofia, I, pp. 1-10. Il detto di Ber­ nardo Tanucci, citato nel testo, si può leggere in B. CROCE, Sentenze e giudizi di Bernardo Tanucci, in Uomini e cose della vecchia Italia, Bari 1943, II, p . 33. Ma sulla mancanza di sillogismo come causa di inferiorità, questa volta, della ci­ viltà orientale rispetto alla occidentale, Croce tornò ad insi­ stere più volte nei suoi scritti (cfr. da ultimo, nella recensione alle Lettere filosofiche del Ciaadaev, ora raccolta in Terze pa­ gine sparse, I, p. 80). 73

errore o contradizione, ho espressamente accusato quel punto da risanare, risolvendo la contradizione e riunifi­ cando e riassestando le mie teorie. Non posso accettare, dunque, la lode di un coraggio, che so di non possedere punto, e alla quale troppa altra gente può meritamente ambire • . Alcuni anni prima, discutendo ancora amichevol­ mente con i filosofi « palermitani » scolari ed amici di Giovanni Gentile, dopo aver osservato ( riprendendo un paragrafo della Logica " ) che « i problemi filosofici, che hanno agitato gli uomini si riducono tutti a pro­ blemi di Psicologia trascendentale o di Filosofia dello spirito, a schiarimenti e approfondimenti delle forme dello spirito e delle loro relazioni », aveva spiegato assai bene, nei termini della sua filosofia, questa carat­ teristica convergenza di storicità e di unità, che è tipica della riflessione filosofica: Considero ogni sistemazione, alla quale si giunga, come risolvente i problemi già sorti, e non già quelli che sor­ geranno e che le soluzioni stesse fanno sorgere, e che sa­ ranno risoluti in nuove sistemazioni. E sento la filosofia come affatto coincidente con la vita, e nuova a ogni istante e insieme costante; e ripugno a qualsiasi dottrina che, una volta per sempre, mi sciolga l'enimma della realtà, perché non c'è l'enimma, ma gli infiniti enimmi della 5 Conversazioni critiche, Bari 1932, III, p. 200. Non di­ rei che Luigi Russo, che è lo studioso con il quale Croce polemizzava, avesse inteso dire J;!roprio quel che il filosofo gli attribuisce : è molto probabile, invece, che, fedele inter­ prete di un noto filosofema crociano, egli intendesse le « con­ traddizioni » negli stessi termini che Croce espose poi in uno dei suoi Pensieri vari, ora raccolto in Discorsi di varia filo­ sofia, II, pp. 295-97 : ma tutto ciò ha scarsa importanza in questa sede. L'indicazione del saggio del Russo è in Conver­ sazioni critiche, I. c. (ma il saggio si può leggere, ora, anche in La critica letteraria contemporanea, II, Dal Gentile agli ultimi romantici, Bari 1946 •, pp. 1-40, e quindi in Ritratti e disegni storici, III, Studi sul Due e Trecento, Bari 1951, pp. 224-63 ). • Logica, pp. 177-78.

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realtà, che tutti si sciolgono via via e non si esauriscono mai. E, filosofando a ogni istante con la vita di ogni istan­ te, non coltivo nel mio animo nessun cantuccio nel quale si celebri il dissipamento delle illusioni, e regni la sere­ nità o baleni il sorriso sugli altri uomini o su noi stessi che in quelle illusioni eravamo tuffati e ci dovremmo, poi, appena mòssici da quel cantuccio, necessariamente rituf­ fare 7 • Chi dunque cerchi di comprendere il senso e il si­ gnificato dello svolgimento del pensiero crociano, in una sua parte o nel suo complesso ( e sempre, comun­ que, procedendo dalle parti all'insieme e dall'insieme alle parti ), dovrà pur decidersi a considerare questo punto fondamentale: e cioè la strenua attenzione che ( in varie forme ) sempre il filosofo dedicò alle « giunture logiche » del sistema, al « rigoroso ac­ cordo » dei concetti, alla perfetta coerenza della loro unitaria pensabilità. E tuttavia, giunti a questo punto, una precisazione diventa indispensabile. In ogni fase della sua vita, si è detto, sempre il controllo critico dei « pensieri già pensati » costituì per Croce il « punto d'onore » della sua filosofia, il luogo di convergenza e di incontro delle sue riflessioni. Ma basta conside­ rare nel suo complesso lo svolgimento del suo pen­ siero per vedere come questo processo di alta vigi­ lanza divenga particolarmente intenso negli ultimi 7 Una discussione tra filosofi amici ( 1913), in Conversa­ zioni critiche, Bari 1924 •, Il, p. 73. Il testo crociano usci,

dapprima, come lettera a Gentile, nella « Voce » del 13 no­ vembre 191 3 : Gentile rispose, ivi, 1 1 dicembre 1913, con una lettera a Croce, ora raccolta in Saggi critici, Firenze 1927, II, pp. 1 1-35, e Croce replicò ancora nella « Voce » del 13 gen­ naio 1914 ( Conversazioni critiche, Il, pp. 83-95). Sulla pole­ mica tra i due filosofi, come è noto, si è scritto moltissimo, in sede « apologetica » e in sede storica ( il meglio della di­ scussione in E. GARIN, Cronache di filosofia italiana (1 9001 943) , Bari 1955, pp. 1 89 sgg., con ricchissima e preziosa bi­ bliografia). Ma sul problema converrà tornare di proposito in altra occasione, per cercar di chiarire la complessa relazione filosofico-polemica tra i due pensatori e i grossi equivoci che si formarono durante la polemica, e talora a causa di essa.

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anni della sua vita, tra il 1 945 e il 1952, quando Croce riprese esplicitamente quelle ardue questioni strutturali del « sistema » (il nesso dei distinti, la re­ lazione tra vitalità e dialettica, il rapporto tra logica e dottrina delle categorie ) che egli aveva in certo modo « semplificato », per l'urgenza, sopra tutto, della po­ lemica con Gentile e per la necessità di insistere sulle « implicazioni etiche » delle rispettive concezioni del mondo, nel periodo che, grosso modo, è compreso tra la raccolta dei Nuovi saggi di estetica ( 1 920 ) e i Discorsi di varia filosofia ( 1 94 5 ). Per questa via, con­ siderando nella sua interezza l'arco del suo pensiero, sembra quasi naturale concludere che tra la grande stagione speculativa culminata nella definitiva reda­ zione dei primi tre volumi della « Filosofia dello Spirito » e i drammatici ultimi anni della sua vita, sta un lungo periodo in cui l'interesse del filosofo si diresse piuttosto all'illustrazione dell'impotenza sto­ rica dell'attualismo e alla trasformazione della « filo­ sofia dello spirito » in vissuta storiografia • che non al formale controllo critico dei fondamenti ultimi del sistema. Non, certo, che in questa fase quel controllo • Il programma di questa « trasformazione » della filoso­ fia tradizionale in « storia pensata » è enunciato con partico­ lare chiarezza ed eloquenza nel Contributo, pp. 68-69 ( = Eti­ ca e politica, pp. 406-407) : la sua più completa teorizzazione è in Teoria e storia della storiografia, Bari 1943 •, pp. 136-48 e sopra tutto in La storia come pensiero e come azione, Bari 1943 •, pp. 181-87 (ma come non ricordare i due saggi, assai importanti, che Croce dedicò alla Differenza dello storicismo hegeliano dallo storicismo nuovo e alla polemica Contro la storia universale nel 1 94 1, e che ora sono raccolti in Discorsi di varia filosofia, I, pp. 1 16-28, 129-62? ). Come è ovvio, opera in questa parte dell'opera di Croce quella sua singolare ten­ denza a « trasformare » la filosofia in cultura, che è alle ori­ gini non solo della straordinaria diffusione ed influenza del suo pensiero sulla cultura italiana dei primi trentacinque o quarant'anni del secolo, ma altresl dei molti equivoci cui essa, involontariamente, dette luogo. Su questo punto molto ci sa­ rebbe da dire : per qualche osservazione dr. il mio La « Cul­ tura » nella storia della cultura italiana, « Cultura », 1963 , pp. 25-28, 171 sgg.

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sia stato sospeso e Croce sia venuto meno al fonda­ mentale dovere dell'autocritica •. Ma se pensare è sem­ pre rimettere in questione la storia dei propri pensieri, non sempre i modi di questo « rimettere in que­ stione» coincidono. Anch'essi, in effetti, mutano, co­ lorandosi delle concrete esigenze di un pensiero in svolgimento ; e se Io sforzo di Croce, negli anni compresi tra il 1 920 e il 1 945, fu sopra tutto diretto a risolvere la filosofia in storiografia, realizzando « nei fatti» la logica dello storicismo, il Croce degli ultimi • Mi pare superfluo, in questa sede, indicare i luoghi nei quali, più particolarmente, Croce ritornò sui problc;µii strut­ turali della « filosofia dello spirito ». Mi limito ad osservare che, per la questione degli « opposti » e dei « distinti », sono di grande interesse i due brevi scritti su Unità reale e unità panlogistica ( 1924) e su La teoria dell'errore ( 1924), entrambi raccolti in Ultimi saggi, pp. 332-59, 340-47, nonché il celebre saggio su Le due scienze mondane ( 193 1 ), ib. , pp. 43-58. Inte­ ressa forse di più richiamare l'attenzione sulla estrema cautela con la quale io propongo la mia « periodizzazione » del pen­ siero di Croce : chi ne abbia colto il significato, potrà vedere facilmente in che senso essa diverga da quella avanzata da P. Rossi, Benedetto Croce e lo storicismo assoluto, « Il Mu­ lino », 1957, pp. 322-54 ( = Storia e storicismo nella filosofia contemporanea, Milano 1960, pp. 287-330). Il Rossi ha osser­ vazioni interessanti, che andranno discusse in altra sede; ma, dominato dalla convinzione che nel corso della sua indagine filosofica Croce abbia cercato di liberarsi « dall'eredità della visione romantico-hegeliana della storia » mediante « il richia­ mo ad altri presupposti, estranei e opposti a quelli della filo­ sofia dello spirito » ( Storia e storicismo, p. 323 ), non ha visto la estrema complessità della « critica di se stesso » in cui il filosofo napoletano si impegnò, e ha finito per prospettare l'evoluzione storica del suo pensiero come una marcia verso la catastrofe. Per mettere ordine nella sua filosofia Croce avrebbe dovuto dichiarare il fallimento della tradizione hegeliano-ro­ mantica del suo pensiero, ed avviare il suo storicismo sulla strada non della « filosofia dello spirito », ma dello storicismo « metodologico », la cui più originale teorizzazione il Rossi ritrova in Dilthey. Non discuto questa prospettiva storica: mi limito ad osservare che, anche in questo caso, l'assunzione di un « presupposto » di questo genere (e sia pure un « presup­ posto » metodologico ! ) ha notevolmente irrigidito l'analisi del Rossi, pregiudicando, in questo senso, non poche delle sue migliori osservazioni.

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anni fu viceversa dominato da una preoccupazione sostanzialmente diversa. La logica dello storicismo (nella particolare accezione in cui questo termine è stato preso qui su) rimase, anche in quest'ultima fase , il punto d'incontro delle sue indagini filosofiche. An­ cora nel biennio 1 948- 1 950, in alcune « conferenze » tenute agli alunni dell'Istituto italiano per gli studi storici, da lui fondato nel 1 947, il filosofo insistette con particolare energia e calda eloquenza sul carat­ tere storico della filosofia e sulla sua auspicabile riso­ luzione in storiografia E tuttavia, la differenza tra le due fasi rimane ben chiara. Se infatti, nella prima, il carattere fondamentale della riflessione crociana fu costituito dall'arricchimento tematico dei suoi pro­ blemi, e l'esercizio della connessione categoriale non andò mai oltre l'ovvia esigenza di « sistemare» i risul­ tati delle nuove scoperte nel quadro dei · « pensieri già pensati», diventando esso il suo problema cen­ trale; nella seconda il suo interesse si spostò decisa­ mente dal primo al secondo momento, e il problema delle categorie riemerse nella sua originaria impor­ tanza. Certo, anche in questo caso, bisogna andar cauti nella contrapposizione; giacché, a chi insistesse troppo in essa potrebbe accadere di non saper più rispondere all'ovvia obbiezione che anche per « sistemare» il nuovo nel quadro dei « pensieri già pensati» occorre mettere in questione il « già pensato» e dunque far convergere decisamente l'attenzione sul problema delle categorie 1 1 • E tuttavia, a chi consideri con attenzione 10



1 ° Cfr., ad esempio, Storiografia e azione pratica e mo­ rale, in Storiografia e idealità morale, Bari 1950, pp. 88-89 (ora in Terze pagine sparse, I, pp. 89-90). Per la storia esterna di questo saggio crociano, dr. F. N1couN1, L'« Editio ne varie­ tur » delle opere di Benedetto Croce, Napoli 1960, pp. 234-37.

11 Sono esemplari, in questo senso, le indagini contenute nel libro sulla Storia, pp. 4-5 e 42 sgg., sulle quali ritornerò in altra occasione, trattando del pensiero politico di Croce. Sul nuovo ruolo assunto dalla « moralità » nel quadro delle cate­ gorie, dr. il commento di G. Calogero, « Liberalsocialismo », 1946, pp. 45-46 e, da un punto di vista diverso, di C. AN- :

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I

non le astratte cogitationes crociane su storicità e si­ stematicità, bensl il concreto vivere storico del suo pensiero, non può sfuggire che mentre in questa prima fase l'interesse fondamentale di Croce risulta in qual­ che modo esaurito dai singoli problemi filosofici che egli veniva teorizzando in libri come quelli sulla Poe­ sia e la Storia, nella seconda il suo interesse diviene essenzialmente quello della « connessione categoriale», dell'armonia dei suoi concetti nel quadro complessivo del sistema. Basta paragonare le pagine iniziali di quel­ lo che rimane il libro più complesso della sua piena maturità filosofica, la Storia come pensiero e come azio­ ne, con le tormentose ed inquiete meditazioni che Croce tornò a dedicare a Hegel e alla dialettica nel 1 9 5 1 , per cogliere intera la differenza. Ll, nel libro sulla Storia, la grande questione dell'origine « pratica» del pensiero storico (Croce parla, e non certo a caso, di « oscuri­ tà» del bisogno), del complicato proèesso attraverso il quale lo spirito passa dall'angoscia del problema alla chiarezza teorica e da questa all'azione, è risolto nel giro di poche pagine, irte bensl di problemi e di diffi­ coltà, e tuttavia quasi riluttanti a svolgere per intero, in un esplicito discorso « categoriale», il loro urgente contenuto problematico; qui, nel drammatico discorso « socratico» delle Indagini su Hegel, la discussione investe direttamente i cardini del sistema, i punti es­ senziali di una filosofia, e il vecchissimo filosofo scrive, in altra chiave, un « contributo alla critica di se stesso» che non può chiudersi con la delineazione di un lungo lavoro da compiere. In questo senso, le « novità» che Croce fa valere nei suoi estremi saggi hegeliani, hanno un carattere particolare 1 2 , che si coTONI, Commento a Croce, Venezia 1955, pp. 151-52, con il quale, per altro, non sempre consentirei. Spiego nel testo perché, a mio giudizio, queste « novità » crociane debbano esser distinte dalla più consapevole « autocritica » delle In­

dagini.

1 2 Storia, p. 4. In questa pagina, sopra tutto, è conte­ nuta la formulazione della nuova connessione « bisogno pra-

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glie bene nel confronto con le varie « novità » •• che il filosofo aveva affermato nel passato ; perché se queste coincidevano con il libero espandersi del sistema ( e cosl erano sentite da Croce ), quelle prendono invece la forma di una domanda radicale, il cui oggetto è il sistema, il principio fondamentale della sua stessa filo­ sofia. Tormentato da un dubbio sempre più tenace e profondo ( quello concernente l'origine della dialettica e quindi, come si comprende, la relazione stessa tra opposti e distinti ), ben consapevole che ad esso non era possibile concedere la rassicurante speranza di una lunga meditazione, Croce fu anche esistenzialmente tratto a dare alle sue ultime riflessioni un carattere di d ta drammaticità. Avvertito sul finire della vita, lo sti­ molo a ricominciare da capo ( rimettendo in questione quell'interpretazione di Hegel dalla quale, quaranta­ quattro anni prima, aveva preso l'avvio il momento più alto della sua meditazione ) riapriva problemi ca­ pitali che non si pensava potessero ripresentarsi in quella forma e con quella drammatica urgenza. Si dovrà dunque concludere definendo « creativa » la fase della piena maturità crociana e « critica » quella della sua inquieta revisione, e assegnando allo spegnersi della ricchezza creativa la dolorosa concentrazione au­ tocritica che Croce seppe attuare negli ultimi anni della sua vita? Come tutte le formule, anche questa può essere pericolosa. Per il lettore intelligente il dato essenziale rimane questo : che l'edificio innalzato du­ rante cinquant'anni di ininterrotta meditazione e di prodigioso lavoro appariva ormai incrinato, senza che, dopo essersi reso conto di quelle incrinature, il filo­ sofo riuscisse a trovare la forza vitale per ripensare tico-teoria ( storiografia)-azione », che dà luogo a varie difii­ coltà quando si cerchi di pensarla secondo la legge dei distinti­ opposti. Cfr., anche, quel che Croce scrive in Discorsi di va• ria filosofia, II, pp. 22-24. 1 3 Cfr. Terze pagine sparse, I, pp. 123-25 (per un com­ mento a queste pagine, cfr. più avanti).

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con assoluto rigore le linee fondamentali della sua costruzione. II

Se si vuole un documento estremamente si­ gnificativo del carattere di questa ultima ricerca cro­ ciana, si legga la « novella » che egli scrisse nel set­ tembre del 1 948 per narrare l'immaginaria visita che un giovane gentiluomo napoletano, Francesco Sanse­ verino, fece a Hegel, a Berlino, nel primo autunno del 1 8 3 1 ". Certo, nella « novella » crociana il San­ severino espone ad Hegel niente altro che la critica che il « giovane » Croce aveva idealmente indirizzato al grande filosofo nel 1 905- 1906, quando la lettura sistematica delle sue opere gli aveva dato, tolti di mezzo gli interpreti e i « commentatori », il senso ine­ briante non di combattere con un altro pensatore, ma di « immergersi in se stesso e di battersi con la sua stessa coscienza » 1 5 • E tuttavia, basta pensare agli scritti che Croce raccolse in Filosofia e storiografia e nelle Indagini su Hegel, a quel dialogo con se stesso che il vecchio filosofo vi intraprese con intatta lucidità intellettuale, e dunque con la precisa consapevolezza di non poterlo nemmeno provvisoriamente concludere , perché le parti assegnate nella novella si invertano e il lettore non sprovveduto comprenda che Croce non si identifica con il personaggio che parla ma con quello che ascolta, non con il Sanseverino ma con Hegel, che 14 Una pagina sconosciuta degli ultimi mesi della vita di Hegel, « Quaderni della " Critica " », 13, 1949, pp. 1 sgg. (ora in Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Bari 1952, pp. 3-

28). Il termine « novella », per designare queste pagine, è usato dallo stesso Croce ( Indagini, p. VI). ,. Contributo, p. 60 ( = Etica e politica, p. 400). E cfr. ib. , pp. 55-59 ( = Etica e politica, pp. 397-98), quel che si legge sul difficile avvicinamento di Croce alla « astrusa » for­ ma stilistica della filosofia di Hegel ( che gli interpreti, e primo tra tutti Spaventa, non rendevano certo più piana). 81

durante l'esposizione che il giovane napoletano aveva fatto dei dubbi suscitatigli dalle sue opere, era ri­ masto in attento silenzio e, giunto al punto in cui avrebbe pur dovuto replicare 1 8 , aveva ancora una volta preferito tacere, limitandosi, con il suo squi­ sito tratto di perfetto padrone di casa 1 7 , ad invitare il suo ospite a ripetergli presto la visita. In effetti - com­ menta Croce - Hegel avvertiva che un dibattito come quello che il Sanseverino aveva iniziato non poteva esser proseguito a parole; e che troppo quel giovane straniero era penetrato nei problemi della sua filo­ sofia perché egli potesse permettersi di non meditare a fondo le sue critiche. Per ribatterle sul serio, avrebbe dovuto, innanzi tutto, cercare di ridurle a materia del suo pensiero 1 8 ; e il grave silenzio che, con finezza, Croce gli attribuisce, diventa perciò il simbolo della sua consapevolezza critica non meno che della inquie­ tudine. Alle critiche del Sanseverino egli avrebbe in­ fatti certamente pensato nel solenne silenzio della meditazione; e Croce non manca di osservare che, « nei giorni che seguirono, sempre ebbe la mente a •• Una pagina sconosciuta, p. 20 (citerò, d'ora innanzi, questo testo con il semplice titolo del volume in cui è stato definitivamente raccolto, abbreviandolo in Indagini). Sarà op­ portuno osservare che nella « novella » Croce attribuisce bensl qualche battuta di dialogo al « personaggio » Hegel, ma evita di farlo entrare nel vivo della disputa filosofica suscitata dal Sanseverino. E si può aggiungere che le considerazioni attri­ buite ad Hegel riguardano sopra tutto la sua insoddisfazione nei confronti degli scolari, pronti a ripetere formule, non a discutere sul serio ! Fin da queste battute, insomma, lo Hegel crociano è dominato dalla solitudine e da una drammatica in­ soddisfazione personale. Cfr. in modo particolare, Indagini, pp. 8-9. 1 7 Sulla « cortesia » di Hegel, dr. Indagini, p. 5. 18 È assai fine l'osservazione ( Indagini, p. 20) che nem­ meno il Sanseverino si aspettava che Hegel replicasse alle cri­ tiche rivolte al suo sistema durante la conversazione, « con­ sapevole come era che a obiezioni di quella sorta non è dato a un ingegno serio di arrendersi, ma solo di rimeditarle a tem­ po e luogo e stare a vedere se daranno nuovo stimolo e apri­ ranno nuove vie al proprio pensiero nel suo corso originale ».

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quella conversazione, procurando di riesaminare le sue teorie al lume delle obbiezioni che gli erano state mosse dal gentiluomo napoletano, provandosi tra sé e sé a difenderle, ripreso da dubbi che gli erano affio­ rati altre volte, ma non con la forza che avevano ora » 1 9 • Tra quei dubbi e quei tentativi di superarli , la vita di Hegel fu dominata dalla decisione di sfidare la saggezza, che avrebbe consigliato, ormai, di rinun­ ziare alle fatiche del pensiero e di lasciare che anche le cose della filosofia andassero per la loro via, verso il loro storico destino. Perché Hegel - commenta Croce - era ancora giovane, vigoroso, pienamente padrone del suo intelletto; sì che, dinnanzi ad una trafittura così dolorosa come quella che il suo disce­ polo e ammiratore napoletano gli aveva inflitta con le sue critiche, non era ammissibile che cedesse a mesti pensieri di rinunzia. E tuttavia, basta rileggere la « novella » crociana con un minimo di attenzione « estetica » per compren­ dere che il sentimento che la domina non è esaurito da queste considerazioni sull'impossibilità di rinunciare alla filosofia. Nel silenzio di Hegel, in effetti, il let­ tore attento non coglie tanto la decisione di intra­ prendere l'aspro cammino di una nuova meditazione autocritica quanto l'alta malinconia di una fine, il presagio della morte, del non poter più procedere oltre malgrado la spinta ad andare avanti. Egli forse avvertiva oscuramente un destino avverso; ed infatti, « il colera, che si era andato ritirando da Berlino, a un tratto si volse indietro e, con un colpo fulmineo, portò via in poche ore proprio lui, il maggior filosofo del suo tempo, il 1 4 novembre di quell'anno 1 8 3 1 » 2 0 Nel malinconico Hegel della novella il lettore scorge facilmente i tratti del vecchio Croce, dominato dal « daimon » della speculazione 21 e tuttavia consape•

,. Indagini, p. 23. Indagini, p. 26. 21 L'immagine del « daimon » è nell'Avvertenza premessa a Filosofia e storiografia, pp. vu-vrn. 20

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vole di non poter dare ad esso soddisfazione adeguata, trafitto da un dubbio profondo e tuttavia inesorabil­ mente impotente dinanzi a quello spegnersi della « vi­ talità » che, per chi lo subisca, non è meno crudele, cieco e irrazionale del colera che aveva strappato Hegel al suo dovere verso il pensiero. E valgono an­ che per Croce, allora, le parole che Croce scrive per Hegel. Anche Croce, infatti, « pensava che l'opera che aveva compiuta, nella sua verità e nel suo errore, era stata voluta cosl non da lui ma dall'ispirazione e dalla necessità, da quanto di meglio era in lui, tut­ toché iscritto e circoscritto dalla umana debolezza, e in questa forma giovava che restasse al mondo, nel momento storico a cui il mondo era pervenuto, come ammaestramento ma insieme come esperimento e ammonimento, per quello che a esso apportava di positivo e perpetuo e per quello che gli metteva in­ nanzi di negativo, d'insufficiente, da disfare, da col­ locare altrimenti, materia di lavoro nuovo, di nuova opera da creare, e di uomo nuovo » •• . Qualche anno più tardi, rispondendo « ad un quesito proposto » circa « le relazioni tra la categoria della Vitalità e l'origine della Dialettica », Croce ripeterà il medesimo concetto: Fui mosso a ciò da un sentimento tra scherzoso e se­ rio, cioè, per una parte dalla voglia che altri parlasse e io me ne stessi in silenzio e ascoltante, e per l'altra, dal timore, il quale dovrebbe effettivamente turbare un filo­ sofo nel tornare su un lavoro da lui eseguito in gioventù, che egli non può dire se, nella ripresa, migliorerà o peggiorerà, perché, come a coloro che invecchiano si con­ siglia di lasciar stare versi e poesia che felicemente trat­ tarono da giovani, il simile sembra da consigliare al filo­ sofo, pel quale le teorie elaborate in gioventù furono frutto di ispirazione a segno che egli talora non le intende age­ volmente o non le intende più a dovere ... •• ••

Indagini, p. 25. Del nesso tra la Vitalità e la Dialettica, ib. ,

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pp. 34-3-'.

Parole, come si vede, quasi tragiche nella loro composta veste letteraria trapunta di sapiente iro­ nia; perché se da una parte sottolineano gar­ batamente quel motivo della rinunzia in cui si fa talvolta consistere la superiore saggezza della vita, dall'altra pongono crudelmente in luce le ragioni che consigliano quella rinunzia, e cioè quell'offuscarsi della mente, quel suo straniarsi dalla sua stessa sto­ ria, che è tanto più doloroso quanto meno il pensa­ tore è in grado di controllarlo e di recarlo alla co­ scienza. E tuttavia, anche per il vecchio Croce me­ ditante, quasi suo malgrado, sulla vitalità e l'origine della dialettica, valgono le parole da lui scritte per commentare la ribellione hegeliana allo spirito della « saggezza » : Sl, tutto questo era vero, e l a conclusione era giusta. Ma quando a un uomo di pensiero si dice che nel pen­ siero, nel quale egli riposava come in una verità, si è introdotto un errore, o di ciò gli si suscita il sospetto, come si può poi addormentare in lui il pungolo del ri­ morso e far che egli conviva, senza disamina e senza cor­ rezione o confutazione, con quell'errore? Come si può .pretendere che se ne rimanga freddo e indifferente verso ciò che è stato il fine della sua vita e di cui sente la responsabilità morale di curare e proteggere l'incontami­ nata purezza? •• Certo darebbe prova di scarso buon gusto e di non fine discernimento chi, giunto a questo punto, ancora indugiasse nel paragone, forzando i toni e scrivendo, senza volerlo, la trama di un mediocre dramma romaP.tico. E tuttavia, è difficile sottrarsi al­ l'impressione che il significato ultimo di queste pa­ gine di dolorosa fantasia filosofica sia nello sforzo che Croce vi compie, forse inconsapevolmente, di ricon­ giungere il suo se stesso di oggi al suo se stesso di allora, il vecchio Croce al giovane Sanseverino; e " Indagini, pp . 25-26. 85

non tanto alle sue parole, alle sue tesi, alle sue cri­ tiche (delle quali doveva sentire sopra tutto il limite, se da quello in effetti era spinto a :filosofare ancora), ma allo spirito di « vitalità » che le dettava, e che inclinava Hegel a quel doloroso sentimento di ma­ linconia. In questo desiderio di identificazione ( e nella lucida consapevolezza della sua profonda problema­ ticità ) Croce rivive nel suo animo quel dramma del vitale, che diventerà, di lì a poco, il tema esplicito del suo ultimo filosofare ; e che lo riviva psicologica­ mente e autobiograficamente è certo coerente con lo spirito di questi suoi tardi pensieri, che nell'armonia delle vecchie parole insinuano ( o rendono esplicita ) una nota dissonante, che giaceva nel fondo. In una « scheda » del marzo 1 952, ripensando alle sue più recenti meditazioni hegeliane, Croce ha ammesso che, sollecito come sempre era stato di fon­ dere insieme i due principi della distinzione e del­ l'opposizione, l'uno era tuttavia rimasto separato dal­ l'altro (o almeno non ben fuso con esso); e che l'idea di identificare l'origine della dialettica, « l'autore della dialettica », nella vitalità gli era balenata un giorno che, rileggendo alcuni scritti hegeliani di Bertrando Spaventa, si era visto ripresentare, dopo tanti anni, il concetto secondo cui il grande « prevaricatore » è il Pensiero • •. La ricerca di Croce riguarda dunque • • Interpretazioni hegeliane, in Terze pagine sparse, I , pp. 123-25. In questa « scheda », che è d i fondamentale im­ portanza per I'« ammissione » che contiene, Croce contesta da una parte che la sua filosofia possa essere interpretata come se in essa agiscano contemporaneamente e contraddittoria­ mente l'anima herbartiana della distinzione e l'anima hege­ liana dell'opposizione; ma dall'altra ammette che il punto di congiunzione tra « le due logiche » non fosse stato bene in­ dividuato nelle sue precedenti teorizzazioni. « Venne il gior­ no - scrive - in cui quel problema della congiunzione delle due logiche mi tornò dinanzi e fu quando, rileggendo una vecchia memoria accademica dello Spaventa, vi trovai affer­ mato che l'autore della Dialettica, il ' prevaricatore ', era il Pensiero . . . » (ib., p. 125). Ovviamente, la ragione profonda della rimeditazione crociana della categoria dell'utile-vitale non 86

l'origine, !'«autore», della dialettica: la sua conclusione è che il compito di mettere in moto lo spirito spetta non al pensiero, bensl alla vitalità ••. Il punto della questione è dunque da una parte nel fatto stesso che si ricerchi un'origine della dialettica, dall'altra nella modificazione strutturale che Croce introduce nel suo concetto di utile. La vitalità è infatti vista, può essere ricondotta solo a questa circostanza che Croce qui rievoca; perché, a tacer d'altro, sta di fatto che i segni del nuovo orientamento che doveva culminare nella prima parte delle Indagini, possono esser ritrovati ben prima che il filo­ sofo si desse a quella rilettura spaventiana, la quale, tra l'al­ tro, sarà stata sollecitata proprio dall'intensità critica che il problema del vitale aveva ormai raggiunto. Dalla Storia come pensiero e come azione, in effetti, ai Discorsi di varia filosofia ( che contengono, in questa direzione, spunti di grande impor­ tanza) è possibile seguire minutamente la storia complessa e non sempre lineare di questa nuova fase della riflessione cro­ ciana sul vitale; né si potrà dimenticare, da questo punto di vista, la polemica che, dal 1942 in poi, si svolse liberamente tra Croce e Enzo Paci sulla « spiritualità » o « non spiritua­ lità » del vitale (i saggi di Paci sono ora riuniti nel volume Esistenzialismo e storicismo, Milano 1950, del quale non bi­ sognerà trascurare la ricca nota critico-bibliografica). Questa storia deve ancora essere adeguatamente ricostruita: ma la te­ stimonianza autobiografica del vecchio filosofo rimane ugual­ mente preziosa ( « e qui cade la confessione autobiografica. Inconsapevolmente dicevo, o pareva che dicessi a me stesso, che la conclusione circa l'unità delle due logiche era certa e che se ci si fosse pensato si sarebbe trovata la congiunzione. Ma io avevo allora ed ho avuto sempre tante cose da fare di più della filosofia, specie nel campo della storia civile e lette­ raria, che mi facevano accantonare lo studio particolare di certi problemi filosofici, della cui soluzione ero sicuro »: ib. , p. 125). Anche qui, certo, c i sarebbe non poco d a osservare e da obiettare, perché non è ammissibile che l'analisi di poeti e di periodi storici non involgesse in sé quel travaglio di pen­ siero che, impegnato in questi lavori, Croce non poteva ana­ lizzare di per sé, in forma tecnicamente adeguata. Ma per un altro verso, queste parole confermano la linea dello svolgi­ mento del suo pensiero, quale io l'ho determinata in questo saggio (il passo di Spaventa, che Croce ha in mente qui, si trova negli Scritti filosofici, ed. Gentile, Napoli 1900, p. 216, ed è citato in Indagini, p. 32). •• Terze pagine sparse, I, p. 1 25.

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in questi scritti, come forza « cruda e verde, selvatica 21 e intatta da ogni educazione ulteriore » , come « una integrazione necessaria delle diverse forme dello spi­ rito, le quali non avrebbero voce, né altri organi né forze, se, per assurda ipotesi, restassero avulse da essa, o sarebbero proprie non di uomini ma di crea­ ture angeliche, che non ci sono note nell'espe­ rienza » • • . E svolgendo il ragionamento, aggiungeva che il suo compito non è soltanto quello di soddi­ sfare le volizioni e le « brame di benessere indivi­ duale » •• che la vita forma ad ogni istante nei petti umani, ma è altresl di essere « persistente negati­ vità », inquietudine ed irrequietezza, movimento • • , 21 Indagini, p. 35. • • Questa citazione (Indagini, p. 30) è tratta dal primo dei cinque saggi ai quali, raccogliendoli dapprima nei « Quaderni della " Critica " », 19-20, 195 1 , pp. 2-13 e poi, definitiva­ mente, in Indagini su Hegel, pp. 2945, Croce dette il titolo generale di Hegel e l'origine della Dialettica. Si può forse no­ tare che questo primo scritto, intitolato Delle categorie dello Spirito e della Dialettica è, in complesso, più esitante, o meno radicale, nell'affermare la nuova tesi e trarne le conseguenze, di quel che sia, invece, il secondo, nel quale il filosofo ri­ sponde ad alcuni quesiti che da altri, e da lui stesso, erano stati posti a quel suo primo saggio. •• Indagini, p. 35. •• Per la definizione della vitalità come irrequietezza, dr. Indagini, p. 31 (« quell'irrequietezza dello spirito muove da lei, perché la Vitalità è irrequiete-.i:za e non si soddisfa mai » ) ; per l a sua definizione come « male » e « negatività », dr. In­ dagini, p. 36 ( « perché senza dubbio il benessere, nel chiuso e ingenuo suo egoismo, è il male in tutte le sue conseguenze, anche le più terrificanti, e il male è vinto dalle categorie ul­ teriori, che non aboliscono la sua forza e ne fanno forza di bene » ). Dove è evidente che la « negatività », il « male • in­ vestono il « vitale » proprio in quanto « categoria », cosl come è fissata in Indagini, p. 35 (« per categoria della Vitalità è da intendere quella in cui l'individuo soddisfa le proprie voli­ zioni e brame di benessere individuale » ), laddove nei prece­ denti scritti non la vitalità era il male, bensl come tale essa era sentita nello sforzo compiuto dallo spirito nell'atto del suo « passare » ad un altro suo distinto momento. Cfr., ad esempio, tra i moltissimi luoghi che qui non è possibile ad­ durre, Filosofia della pratica, Bari 1945 •, pp. 126-37, dove è

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si potrebbe dire, che cerca una soddisfazione diversa da quella che può trovare nella sua stessa struttura ; donde il suo tendere ad altro, il suo esser felice nella morte della sua negatività, che, in effetti, significa affermazione di altro. Qui, dice Croce, l'origine pro­ fonda della dialettica hegeliana, che il pensiero mo­ derno ( l'« uomo nuovo » della novella) deve ripren­ dere e svolgere nella piena consapevolezza della grande eredità ricevuta ; qui il complesso problema che egli affida, malinconicamente, al genio di coloro che nasceranno e sapranno comprendere lo spirito della filosofia nuova. E proprio a questo punto del ragionamento si cominciano ad avvertire le sfasature e le difficoltà, l'irrisolta tensione tra il vecchio e il nuovo. Se da una parte, infatti, il problema della dialettica e della vitalità è sentito nei termini di un negativo che urge, freme e, per tali vie, chiede il sa­ crificio di sé per la reale edificazione dell'altro, dal­ l'altra il negativo è prospettato non come esso stesso vitalità ( categoria), ma come momento della vitalità ; perché altrimenti che senso conserverebbe l'affermaparticolarmente ragionata la teoria del bene « come libertà e realtà » e del male come il suo opposto (anche qui, ovvia­ mente, preso come « l'irreale nel reale »); e per il male come « reale » solo nella « prospettiva » del passaggio, cfr. Le due scienze mondane ( 193 1 ), in Ultimi saggi, pp. 56-58, dove, dopo aver richiamato i tratti fondamentali della teoria ragionata nella Filosofia della pratica, e dopo aver ammonito che, se il male non ha realtà positiva ( se l'avesse sarebbe una categoria e dun­ que non sarebbe male), esso è nondimeno ben altra cosa che « mera apparenza o parvenza » (nel qual caso la lotta contro di esso non sarebbe, come invece è, « terribilmente seria e reale » ), conclude che « il male è lo spasimo del ricadere senza ricadere nella mera e ' naturale ' utilità, la quale tuttavia, per sé presa, sebbene rispetto all'altra sia un bene inferiore, non dimeno è un bene e non un male, un positivo e non un ne­ gativo » (e, in questo senso, cfr. anche l'analisi contenuta nel saggio su La teoria dell'errore [ 1924 ] , in Ultimi saggi, pp. 341342). Qui, come è evidente, ci sono grossi problemi e grosse difficoltà che converrà analizzare in altra sede. Ma la diffe­ renza tra le due formulazioni mi sembra sufficientemente illu­ strata da questi passi.

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zione che, come autonoma categoria dello spirito, essa adempie al suo ufficio soddisfacendo, nella sua pro­ pria sfera, le passioni utilitarie degli uomini? O questa soddisfazione è reale (anche se perennemente rinnovantesi con il mutare dei « soggetti»), come quella che l'arte dà all'oscuro sentimento, la logica all'intuizione scevra di concetto e l'utile-vitale (si badi bene) alle molteplici e contraddittorie voli­ zioni 3 1 ; e allora l'utilità-vitalità rientra pienamente nel ritmo delle forme distinte, cosl come Croce l'a­ veva teorizzato nei suoi scritti principali. Oppure la soluzione che essa procura alle passioni umane è non già di esprimerle e di soddisfarle nella propria sfera, bensl di farle morire come passioni utilitarie (nega­ tive) per farle risorgere come altre da sé (positive ) nelle « ulteriori » o « superiori» categorie; e allora sembra evidente che essa perde il suo carattere di distinto, di categoria, di eterna sintesi di opposti, per assumere la pura funzione del non essere, del nega­ tivo che rende possibile, fuori di sé, l'integrazione nell'essere. In tal modo, il vitale è trasformato e in­ sieme (ma non coerentemente) conservato nella sua fisionomia categoriale. Ma l'accento della meditazione crociana batte sul vitale come negatività, come male, come « materia». Perché? Perché Croce ha in mente l'arduo problema del movimento del tutto, dell'ori­ gine della dialettica, anzi, come diceva Spaventa, del suo « autore ». Qui il problema si fa radicale: la do­ manda di Croce investe di nuovo l'intera struttura della filosofia dello spirito, o almeno il nodo più deli" Cfr., per questo, Filosofia della pratica, pp. 139-40, dove, appunto, la « molteplicità delle volizioni » sta per « male », e la « unità delle volizioni » nella volizione sta per « bene » (che qui, dunque, acquista sopra tutto il senso di « coerenza », volontà realmente voluta di contro alle volontà­ velleità). « La molteplicità delle volizioni genera dunque il momento dell'arbitrio, della contradizione, dd male nell'at­ tività pratica. La quale si potrebbe definire : la volizione che vince le volizioni; come il contrario di essa, l'arbitrio, è il contrasto delle volizioni alla volizione » (ib. , p. 1 39 ).

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cato di essa, la difficile congiunzione dei due prin­ cipi dell'opposizione e della distinzione. Vediamo in breve. Negli anni lontani in cui aveva diretto a Hegel le sue giovanili obbiezioni « cariche di futuro», Croce aveva potuto scrivere che lo « spirito è svolgimento, è storia, e perciò essere e non essere insieme, dive­ Ma subito aveva aggiunto che lo « spirito nire » sub specie aeterni che la filosofia considera, è storia ideale eterna, extratemporaria: è la serie delle forme di quel nascere e morire che, come Hegel diceva, esso stesso non nasce e non muore mai» E nella edizione definitiva della Logica ( 1 908), aveva potuto ancora ribadire che « passare, essere effettivo, diven­ tare sono sinonimi » ·1 4 a tal punto che il « passare della storia ideale non è un passare, o meglio, è un passare eterno, che sotto questo angolo visuale del­ l'eternità, è un essere» " ' . Dall'arte alla filosofia e dalla filosofia alla praxis non si passa per una « con­ tradizione » che si avverta nella sfera dell'arte o della filosofia, perché lo spirito che avverte la contraddi­ zione non « passa» alla forma verso la quale, impro­ priamente, si dice che tende, ma « è» già quella forma; sì che, quando si parla di contraddizione nel­ l'ambito delle singole forme distinte e nell'interno di ciascuna di esse, bisogna stare bene attenti a non ma­ terializzare l'opposto che, in quanto tale, non è « grado o forma della realtà», ma ( e questo è un punto fermo della logica crociana) « l'irreale nel reale» 3 6 , il mo­ mento della eterna insoddisfazione che in tanto può 32



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'" Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, Bari 1907, pp. 91-92 : ma io cito dal Saggio sullo Hegel, Bari 1913, p. 64. 33 Saggio sullo Hegel, p. 64. •• Logica come scienza del concetto puro, p. 65. 35 Saggio sullo Hegel, p. 64. 36 Logica, p. 65 (e cfr. ib., 12· 61 : « Gli opposti sono il

concetto stesso, e perciò i distinti stessi, ciascuno di essi in sé, in quanto determinazione del concetto e in quanto conce­ pito nella sua realtà concreta » ).

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esser pensato in quanto sia pensato nel momento del­ l'eterno suo soddisfacimento categoriale. Qui, dunque, l'origine del passaggio è nello stesso concreto ed eterno passare che lo spirito fa dall'uno all'altro dei suoi momenti costitutivi; e talmente fusi sono i momenti della soddisfazione e della precedente insoddisfazione, dell'essere e del non essere, che tra essi si può (anzi si deve) stringere quel medesimo rapporto di identità che nella concezione di Croce lega il tempo, l'eterno e l'attimo. Porsi il problema dell'origine di questo essere-passare che è la relazione organica delle forme, significherebbe avvolgersi in difficoltà assurde, perché lo spirito è qui concepito (si ricordi in proposito il Breviario di estetica ) come un limite assoluto, rispetto al quale diviene impossi­ bile trovare un inizio 3 7 • Il problema dell'inizio è ri­ solto dallo spirito stesso, dal suo essere eterna me­ diazione di se stesso nelle sue forme, puro inizio e pura fine, cioè né inizio né fine ; tal che si potrebbe dire che se la deduzione delle forme è la struttura stessa dello spirito nella sua interna articolazione, nessuna deduzione può mai riguardare questa strut­ tura automediantesi e autodeducentesi se non alla condizione di produrre un'astratta deduzione della deduzione e mediazione della mediazione ! Ma perché, allora, porsi un problema dell'origine della dialet­ tica? Se il movimento non può esser concepito fuori della relazione, perché insistere in quella ricerca? « Movimento» implica un potere uscir fuori della realtà « relazionata» per poterla mettere in moto ; ma se la relazione è il tutto, uscire fuori della rela­ zione è assolutamente impossibile. Tanto varrebbe (potrebbe obbiettare Croce) pretendere di render re­ lativo l'assoluto saltando fuori da esso; ma se l'asso­ luto è l'assoluto, non si può saltare fuori da esso '" ! 56

37

Breviario di estetica, in Nuovi saggi di estetica, pp. 54-

. 88

Per vedere fino a che punto il principio dell'oppo­ sizione ( affermazione-negazione) si sia risolto, in Croce, in

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E gli esempi potrebbero essere facilmente moltipli cati. Se, malgrado ciò, Croce ha seguitato a sentire il problema del « passaggio» e della sua « origine» dell'« autore», è buon metodo supporre che non si ponesse un problema assurdo, ma andasse piuttosto in cerca di qualcosa che, teorizzando lo spirito come re lazione di distinti, sentiva oscuramente di avere irri mediabilmente perduto. Analizziamo allora breve mente (per ciascuno dei problemi affrontati qui oc correrebbe, come è ovvio, una ben più complessa trattazione ) alcune tappe essenziali del suo lungo cammino. IH

Nel capitolo IV di Ciò che è vivo e ciò che è dedicato al « nesso dei distinti», Croce si pone esplicitamente il pro­ blema del « passaggio delle forme», ed osserva che, come lo spirito che non si soddisfa più « nella con­ templazione artistica» non è più spirito artistico ma « incipiente» spirito filosofico, cosi lo spirito che si sente insoddisfatto nell'universalità del concetto e « ha sete d'intuizione e di vita » è già spirito artimorto della filosofia di Hegel,

quello dell'unità-distinzione, vale leggere questo passo delb pp. 62-63 : « Il pensiero, in quanto anch'esso vita (quella vita che è pensiero, e perciò vita della vita), ed an­ ch'esso realtà ( quella realtà che è pensiero, e perciò realtà del,la realtà) ha in sé l'opposizione; e per questa ragione è insieme affermazione e negazione; non afferma se non negando e non nega se non affermando. Ma non afferma e nega se non di­ stinguendo, perché pensiero è distinzione; e distinguere non può (distinguere veramente, non già separare a un dipresso, come si usa negli pseudo-concetti) se non unificando. Chi me­ diti su nessi di affermazione-negazione e di unità-distinzione ha innanzi il problema della natura del pensiero, anzi della natura della realtà; e finisce col vedere che quei due nessi non sono paralleli e disparati, ma si unificano a loro volta nell'unità­ distinzione, intesa non come semplice possibilità astratta o de­ siderio o dover essere, ma come realtà effettuale ». Logica,

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stico ; sl che si può con pieno diritto affermare che la « contradizione » non si forma mai nel seno del « grado oltrepassato ». Dove si forma allora la con­ traddizione, che per Croce seguita tuttavia ad operare come l'autentica molla del divenire ? Allorché si dice che lo spirito non si soddisfa nel­ !' arte ed è, per questa insoddisfazione, spinto ad elevarsi alla filosofia, si dice bene; sol che non bisogna poi la­ sciarsi traviare dalle metafore. Lo spirito, che non si sod­ disfa più nella contemplazione artistica, non è più spirito artistico, ne è già uscito fuori, è già spirito filosofico in­ cipiente: allo stesso modo che lo spirito che si sente in­ soddisfatto dell'universalità filosofica e ha sete d'intuizio­ ne e di vita, non è più spirito filosofico, ma è già spirito estetico, un determinato spirito estetico che comincia a rinnamorarsi di qualche visione e intuizione determinata . Come nel secondo caso, cosl nel primo, l'antitesi non sorge nel seno del grado oltrepassato : come la filosofia non si contradice in quanto filosofia, cosl l'arte non si contradice in quanto arte; e tutti conoscono la piena so­ disfazione, la voluttà profonda e indisturbata, che ci fa godere l'opera d'arte. Lo spirito individuale passa dal­ l'arte alla filosofia e ripassa dalla filosofia all'arte, allo stesso modo in cui passa da una forma all'altra dell'arte, o da un problema all'altro della filosofia : cioè, non per contradizioni intrinseche a ciascuna di queste forme nella sua distinzione, ma per la contradizione stessa intrinseca al reale, che è divenire; e lo spirito universale passa da a a b, e da b ad a, non per altra necessità che quella della sua eterna natura, che è di essere insieme arte e filosofia, teoria e praxis, o come altro si determini. Tanto ciò è vero, che, se questo passaggio ideale fosse mosso dalla contradizione che si svelerebbe intrinseca a un de­ terminato grado, non sarebbe poi possibile tornare a quel grado che è stato riconosciuto contradittorio; tornarvi sa­ rebbe una degenerazione o un regresso. E chi oserebbe mai considerare degenerazione o regresso la contempla­ zione artistica, rinascente dalla filosofia? 3 1 31

Saggio sullo Hegel,

p. 65.

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Il passo in questione è, come si vede, del più alto interesse. Croce osserva che lo spirito, nella sua to­ talità, passa da una forma all'altra non perché l'in­ soddisfazione della forma dalla quale ha inizio il pas­ saggio implichi la contraddizione o la crisi di quella forma, ma per la generale contraddizione caratteriz­ zante il reale, che infatti è essere e non essere, di­ venire, svolgimento. La dialettica degli opposti che Croce considera operante all'interno dei singoli di­ stinti, come lotta del valore contro il disvalore, e cioè, per determinare con esattezza le quattro coppie di opposti, del bello contro il brutto, del vero contro il falso, dell'utile contro il disutile e del buono con­ tro il cattivo, sembra trasferirsi, in un primo mo­ mento, dall'interno dei singoli distinti ( dove è supe­ rata e signoreggiata ) allo spirito in generale, preso come il reale stesso nella sua totalità. Ad esaminare infatti con attenzione il piccolo periodo nel quale Croce osserva che lo spirito passa e ripassa attra­ verso le sue forme fondamentali « non per contra­ dizioni intrinseche a ciascuna di queste forme, ma per la è::ontradizione stessa intrinseca al reale, che è divenire», sembrerebbe di poter avvertire nelle sue parole l'ammissione di una sorta di dualismo funzio­ nale; nel senso, si comprende bene, che mentre lo spirito, come qui lo definisce, « universale», lo Spi­ rito come Realtà totale, sarebbe retto dalla legge del divenire, e dunque dall'opposizione, nella di­ stinzione dei suoi momenti ( spirito individuale) esso sarebbe invece caratterizzato dalla legge della intra­ scendibile autonomia delle forme. Se infatti non s'in­ terpretasse in questo modo, che senso conserve­ rebbe la individuazione dello « spirito universale » come essere-non essere-divenire? E che senso, ancora, avrebbe una contrapposizione di questo genere tra spirito « individuale» e spirito « universale»? La caratterizzazione dello spirito universale come essere­ non essere-divenire non corrisponde forse puntual­ mente alla caratterizzazione del principio di « dia-

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lettica degli opposti »? Ma basta un minimo di ana­ lisi per avvertire che l'ammissione di Croce non è ( se è lecito il bisticcio ) in alcun modo ammissibile; perché, come si potrebbe concedere che lo spirito « universale » sia retto da una legge diversa da quella caratterizzante quei suoi momenti individuali in cui esso consiste senza alcun residuo? Per concedere questa ulteriorità dello spirito universale rispetto ai suoi momenti, bisognerebbe altresì concedere che lo spi­ rito universale, il Divenire, fosse, in concreto, dive­ nire delle forme: giacché di che altro mai potrebbe essere il divenire? Ma poiché le forme sono esse stesse divenire, opposizione e superamento dell'opposizione nell'unità autonoma di arte e filosofia, utilità ed etica, per dare un senso a quella concessione bisognerebbe delineare un divenire del divenire. Ma il divenire del divenire o è (nella logica di Croce ) una vacua parola che non significa nulla, o è, in concreto, esso il di­ stinto risultante da un'opposizione trionfata (sia pure provvisoriamente ), e quindi non divenire del divenire, ma divenire: sì che la conclusione veramente parados­ sale, alla quale Croce giungerebbe con quella am­ missione, sarebbe addirittura questa: che i distinti (divenire), per potere a loro volta divenire, debbono trasformarsi in opposti, mera « materia » di quella suprema sintesi che è il Divenire, la Realtà, l'Unità dello Svolgimento ! Con l'essenziale avvertenza, per altro, che, anche questa volta, la legge del Divenire sarebbe poi legge non del divenire ma dell'essere, non della contraddizione ma dell'identità 1 0 • Il divenire, in­ fatti, non diviene: se divenisse, il principio stesso del divenire risulterebbe incomprensibile. La logica di He­ gel sarà bensì una logica della contraddizione che, in quanto tale, annulla e include in sé, superandola, la logica dell'identità: ma la logica della contraddizione non si contraddice essa stessa in se stessa. ché altri­ menti non sarebbe quella cosa seria che è e vuole es•• Saggio sullo Hegel, pp. 20-23 .

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sere " . Insomma, svolgendo fino alle conseguenze estreme quel dualismo funzionale che Croce sembrava voler ammettere (allo scopo evidente di giustificare il « passaggio»), si arriverebbe bensl a trasformare i distinti in opposti, facendone in qualche modo i semplici astratti della Sintesi diveniente: ma la legge della Sintesi, per essere pensabile, dovrebbe pur sem­ pre essere, ancora una volta, non quella dell'opposi­ zione, bensl quella della distinzione . « L'opposizione pensata è opposizione superata, e superata appunto in virtù del principio d'identità» u. In queste pa­ role è racchiuso, come tutti possono vedere, il con­ tributo hegeliano del quale, negli ultimi anni della sua vita, Croce si dichiarava tanto insoddisfatto da esserne spinto a una revisione del suo stesso sistema. Aveva ragione, perché, malgrado ogni sforzo, egli non era riuscito, nei riguardi dell'opposizipne, se non a pensare il principio del suo annullamento. Che dunque, dopo averle ripetutamente sfiorate, Croce abbia alla fine evitato di cadere nelle conse­ guenze alle quali quel piccolo periodo esponeva la sua ricerca, è evidente. Basta leggere il passo che imme­ diatamente segue, per vederlo: « e lo spirito univer­ sale passa da a a b, e da b ad a, non per altra neces­ sità che quella della sua eterna natura, che è di essere insieme arte e filosofia, teoria e praxis». Letto alla luce di queste parole, il precedente periodo non può significare che lo spirito individuale sia retto dalla legge dell'autonomia delle forme, ognuna superante in se stessa l'opposizione, e lo spirito universale in­ vece proprio da quest'ultima; bensl che lo spirito uni­ versale sia, per la sua intrinseca natura, quel divenire extratemporario ed eterno, rispetto al quale il passàre e il divenire sono un essere, quel nascere e quel mo­ rire che, come diceva Hegel, esso stesso non nasce e non muore mai. Qui, dunque, il passaggio è lo spirito " Saggio sullo Hegel, p. 2 1 . •• Saggio sullo Hegel, p . 22.

19. 4

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stesso nella sua unica legge; un'affermazione, questa, che non muta di significato se la si trasforma nell'al­ tra, che lo spirito è l'immobile intrinsechezza di una forma ad un'altra nella relazione o nell'organismo. L'inquietudine, l'insoddisfazione dello spirito diven­ gono allora semplici metafore ( il termine, si ricordi, è usato da Croce), ambiguamente assunte a significare piuttosto la perenne morte dell'inquietudine che la sua funzione stimolatrice. Annullata la dimensione tempo­ rale-fenomenologica del divenire, il divenire s'iden­ tifica con l'essere, e il principio del divenire, l'« autore della dialettica», non può più esser distinto dallo spi­ rito stesso, inteso come organismo o relazione. L'op­ posizione circola bensl nell'organismo, divenendo in­ telligibile in esso: ma non ha detto proprio Croce che rendere intelligibile, cioè pensabile, l'opposizione significa trascenderla nell'identità? Sarebbe d'altra parte segno di grave sordità inter­ pretativa se a quelle metafore crociane non si volesse riconoscere un chiaro significato d'indizio. In effetti, Croce conclude il suo discorso congelando ( o cristal­ lizzando, se si preferisce) il divenire nell'essere, il tempo nell'eterno; ma metafore del divenire e del tempo ( e qui si potrebbe ricordare, anche se con spirito più sereno, un'osservazione di Kierkegaard O a proposito della logica di Hegel) punteggiano tutta la sua prosa: lo spirito che non si soddisfa « più» della contemplazione artistica è « già» spirito filosofico in­ cipiente, cioè è già, pienamente e semplicemente, spi­ rito filosofico; ma Croce non solo sente il bisogno di qualificarlo mediante quel « più » e quel « già», pre­ supponenti un « prima », ma addirittura mediante un « incipiente», presupponente un « poi » di totale e realizzata pienezza. E gli esempi potrebbero facilmente essere moltiplicati, qualora l'analisi venisse estesa al di là di questa sola pagina del saggio hegeliano del •• S. KIERKEGAARD, renze 1 953, pp. 101-102.

Il concetto dell'angoscia,

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tr. it., Fi­

1 906. Se dunque Croce è costretto ad annullare l'in­ quietudine nella catarsi categoriale delle forme, non per ciò vien meno la sua inquietudine circa la legit­ timità di una catarsi ottenuta a quel prezzo. Alcune pagine della Logica del 1908 la riconfermano larga­ mente. Le pagine in questione appartengono al capi­ tolo VI della I parte, concernente « l'opposizione e i principi logici ». Dopo aver ribadito la sua classica dottrina secondo cui gravi ed insuperabili inconve­ nienti derivano dall'estensione della dialettica degli opposti alla relazione dei distinti ( « i distinti sono di­ stinti e non opposti; e opposti non possono essere perché recano già in se medesimi l'opposizione » ), Croce scrive testualmente: Concepito come reale, l'opposto non può essere se non il distinto; ma l'opposto è per l'appunto l'irreale nel reale, e non già forma o grado di realtà. Si dirà che se l'un distinto non è opposto all'altro distinto, non si vede come dall'uno all'altro si abbia passaggio. Ma codesta è confusione tra concetto e fatto, tra i momenti ideali, e perciò eterni del reale, e le manifestazioni esistenziali di esso. Esistenzialmente, un poeta non diventa filosofo se non quando nel suo spirito si formi una contradizione alla sua poesia, e cioè egli si senta insoddisfatto dell'in­ dividuale e dell'intuizione individuale; e in quel momento egli non passa, ma è già filosofo, perché passare, essere effettivo, diventare sono sinonimi. Allo stesso modo, un poeta non passa da un'intuizione all'altra, da un'opera d'arte all'altra, se non gli si forma dentro una contradi­ zione, per cui l'opera precedente non Io soddisfi più; ed egli passa, cioè diventa, cioè è veramente, altro poeta. Il passaggio è la legge della vita tutta, e perciò è in tutte le determinazioni esistenziali e contingenti di ciascuna di queste forme. Da un verso di una poesia si passa all'al­ tro, perché il primo verso soddisfa e insieme non soddi­ sfa. I momenti ideali, invece, non passano l'uno nell'altro, perché sono eternamente l'uno nell'altro, ciascuno distinto e uno con l'altro " . • • Logica, p . 65. 99

Nel periodo immediatamente seguente, ad ulte­ riore conferma dell'esclusione della dialettica degli opposti dal nesso dei distinti, si legge che se i di­ stinti fossero pensati come opposti la conseguenza sarebbe che il circolo da essi formato si trasforme­ rebbe nella serie inconclusa del progressus ad infini­ tum, e la loro « vera unità» degenererebbe nella « falsa o mala infinità» • • . L'osservazione sembra ov­ via, e apre invece un grosso problema. Se infatti il di­ stinto è sintesi di opposti, e cioè, per riprendere la terminologia del saggio hegeliano del 1 906, è il Y reale (divenire ) in cui si fanno concreti gli astratti momenti di a. e di �. come può sfuggire in se stesso a quella legge della «mala infinità» che qui, nella Logica, espli­ citamente Croce identifica con la vicenda stessa degli opposti? Oppure bisognerà distinguere tra dialettica degli opposti e sintesi degli opposti, e presentare la sin­ tesi come definitiva e la dialettica come infinita? Ma se si presenta la sintesi come dialettica nel suo astratto momento analitico e adialettica nel suo raggiunto prin­ cipio, come non sottoporla poi a tutte quelle critiche che nel saggio del 1 9 1 2 su Il concetto del divenire e l'hegelismo Croce rivolge non solo al principio dell'in­ finita Ueberwindung, ma altresi a quello del progressus •• Logica, pp. 65-66 : « Il nesso dei distinti è circolare, e perciò unità vera : l'estensione degli opposti alle forme dello spirito e della realtà darebbe luogo invece non al circolo, che è la vera infinità, ma al progressus in infinitum, che è la falsa, o mala infinità. Infatti, se l'opposizione determina il passaggio da un grado all'altro, da una forma all'altra, ed è carattere unico e legge suprema del reale, con qual diritto si può fis­ sare una forma ultima in cui quel passaggio non avrebbe più luogo? ». Dove tutto è chiaro : ma, a parte la questione che discuto nel testo, rimangono assai problematiche le due affer­ mazioni che qui Croce ribadisce, e cioè: 1 . che « l'opposi­ zione determina il passaggio da un grado ideale all'altro » e 2. che l'opposizione è il carattere « unico e legge suprema del reale ». Qui, infatti, per giustificare il passaggio o trapasso, si ricorre di nuovo ad una forza universale intrinseca allo spi­ rito preso come il reale-totale, che dà luogo a tutte le difii­ coltà che sono esaminate nel testo.

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ad finitum • •? E se, d'altra parte, si tien fermo al con­ cetto dell'infinità e della dinamica irrequietezza della categoria, come non capire che tale infinità e dinamica irrequietezza (coincidenti con la sua eterna signoria sull'opposto) non hanno nulla a che vedere con quel dirompersi della sintesi nei suoi momenti astratti, che dà luogo sempre di nuovo, tantalicamente (il termine è crociano), alla nuova formazione provvisoriamente sintetica? In questo caso, infatti, il bello o il vero, l'utile o il buono entrerebbero in crisi e in contraddi­ zione in se stessi, nella loro formale natura di cate­ gorie, e l'opposto, inizialmente « trionfato» dal di­ stinto, trionferebbe a sua volta sul distinto, per es­ serne quindi ancora trionfato in un ritmo infinito, nel quale (a giudizio di Croce) il reale progresso si per­ derebbe senza rimedio. Anche per questa via, dun­ que, la connessione tra le due dialettiche appare assai più problematica di quanto si sia generalmente pen­ sato; giacché, a guardar le cose da vicino, si avverte che Croce ha bensl cercato di includere l'opposto nella struttura stessa del distinto, ma in tanto è riuscito nel­ l'operazione in quanto l'opposto ha finito insensibil­ mente per trasformarglisi nelle mani. Se infatti la legge degli opposti è, nella sua stessa ricostruzione storica della dialettica hegeliana, la perenne risoluzione dei due momenti astratti in un terzo termine, che è il vero reale rispetto a quei due momenti analiticamente considerati, gli opposti che egli fa agire nella sintesi dei distinti sono tali che, men­ tre l'uno è puramente astratto ( e cioè il « vero opposto »: brutto per il bello, falso per il vero, di­ sutile per l'utile, male per il bene), l'altro non si con­ giunge col primo per esser tolto con esso e conser•• Il concetto del divenire e l'hegelismo, in Saggio sullo Hegel, p. 1 55 : « Il termine ad quem, il punto d'arrivo del

processo dialettico o del divenire ideale, lo svolgimento che cessa di svolgersi, vanifica se stesso e la realtà tutta : lo spi­ rito, che è dialettica, raggiunto il termine della dialettica, non è più dialettica, epperò neppure spirito : è il nulla assoluto ».

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vato nella sintesi, ma è già esso la vera sintesi in cui il primo è stato per sempre superato. Per questa via, tra i due termini che costituiscono il distinto, il rapporto non è già quello dell'opposizione dialet­ tica, bensl quello che, nella sintesi a priori reinterpre­ tata da Croce, stringe il soggetto e il predicato, il tempo e l'eterno, l'individuale e l'universale: un rap­ porto, dunque, che ha tutt'altra struttura interna, e del quale solo con molta improprietà di linguaggio si può dire che è « dialettico » ! Eppure, c'è una pro­ fonda esigenza in questa trasfigurazione che, senza che Croce se lo proponga, l'opposto subisce nella sua ana­ lisi: con essa, in effetti, egli può venir meno alla di­ struttiva conseguenza che è stata prospettata qui !>U, alla conseguenza di una crisi dell'arte in quanto arte e della filosofia in quanto filosofia, che si ripeterebbe puntualmente ad ogni ritorno che lo spirito facesse sui suoi propri momenti costitutivi: di una crisi che sarebbe bensl sempre risanata in una nuova sintesi, ma la cui legge sarebbe, come è ovvio, proprio la più perentoria negazione di quella possibilità di ritornare indietro al « grado oltrepassato » che è per Croce la condizione elementare dell'autonomia delle forme. Al contrario, nella concezione della dialettica l'arte neghe­ rebbe, nel tempo, l'arte, il pensiero negherebbe il pen­ siero, e così via per le altre forme; e « oggetto » della negazione non sarebbe gjà un determinato pensiero, ma il pensiero stesso nella sua organica struttura ca­ tegoriale, non una determinata arte, che lo spirito « neghi » nel senso di non più coltivarla, bensì l'arte nella sua organica struttura categoriale. Una conse­ guenza, questa, che Croce ha cercato di evitare proprio con la teoria delle distinzioni categoriali, e che non potrebbe in effetti essere più repugnante alla natura profonda del suo pensiero. La « dialettica » stessa non poteva, di fronte a questa suprema esigenza crociana, che esser ricacciata sullo sfondo. Analizzare con attenzione questo delicatissimo momento della logica di Croce diviene quindi parti1 02

colarmente urgente quando, stringendo da presso il nesso tra relazione dei distinti e dialettica di opposti, si voglia misurare sul serio la consistenza dell'afferma­ zione secondo cui il distinto non può essere l'opposto perché ha l'opposto dentro di sé, nel suo stesso seno. Ma l'analisi richiederebbe discorsi ben più lunghi di quelli condotti fin qui; e conviene ormai affrontare di­ rettamente il commento del passo citato qui su. In esso, come è facile vedere, Croce è ancora e sempre dominato dalla preoccupazione che aveva caratteriz­ zato, due anni prima, la sua indagine su opposti :: distinti nella filosofia di Hegel. Movenze ed esempi di quelle pagine ritornano puntualmente anche in que­ sta. Ma ora Croce si spinge ancora più avanti nella ricerca della realtà dell'opposizione: più che naturale che ancora più brusco e significativo dovesse risul­ tare il suo improvviso- indietreggiamento. Vediamo brevemente come tutto questo si configuri, in concreto, nella pagina citata. Alla domanda assai precisamente formulata circa la concepibilità del passaggio tra i distinti, una volta che i distinti siano stati considerati come puri distinti e non anche come opposti, Croce risponde che colui il quale si ostina a porre la domanda in questi termini confonde, puramente e semplicemente, i momenti ideali, e perciò eterni, del reale con le manifestazioni esistenziali di esso. Esistenzialmente, un poeta diventa filosofo e un filosofo poeta quando nel loro spirito si sia formata una contraddizione alla loro filosofia o poesia ed essi non s'appaghino più della « realtà » nella quale riposavano (siamo, come si vede, nei termini stessi del saggio hegeliano). Idealmente considerato, invece, il filosofo che avverte una contraddizione alla sua filosofia e ha sete di intuizione, non diviene poeta, ma, nell'atto in cui avverte la contraddizione, è già poeta; a quello stesso modo che il poeta che avverte l'insoddisfazione della sua poesia e vuole l'universa­ lità del concetto, non diviene filosofo, ma è già filosofo nell'atto concreto in cui avverte quell'insoddisfazione. 103

Che si deve intendere, allora, per manifestazioni esi­ stenziali delle eterne forme pure della realtà? Forse si deve intendere che l'esistenziale abbia una sua pro­ pria legge, la quale sia bensl diversa da quella del reale-ideale, ma non meno di quella reale e « vera »? Croce sembra ammetterlo quando scrive che, in que­ sto senso, « il passaggio è la legge della vita tutta » e perciò è presente in « tutte le manifestazioni esi­ stenziali e contingenti di ciascuna di queste forme ». Ma basta, anche qui, un minimo di attenzione per ve­ dere chiaramente che la legge della vita tutta non può esser diversa dalla legge dello spirito inteso come idea­ lità pura delle categorie; e, tra le altre ragioni che non sarebbe difficile addurre, per questa, che è assolutamen­ te fondamentale: che se la legge del reale-ideale non coincidesse con quella del cosl detto «esistenziale », la conseguenza sarebbe che le categorie del giudizio non potrebbero valere per la comprensione autentica e sen­ za residui dell'intera realtà. Chi ne vuole la prova può leggere, nel volume in cui Croce riunl i suoi primi saggi hegeliani, non solo le pagine in cui egli risolutamente nega la differenza tra « idea » e fatto, e cioè, come si comprende, tra razionale e reale, bensl quelle in cui esplicitamente fa valere questa formale considerazione: che se poi quelle pagine non sembrassero sufficienti a dissipare la difficoltà, allora il partito migliore rimarreb­ be pur sempre quello di ritornare sul passo citato della Logica, nel quale, dopo aver prospettato nel modo che si è visto la «fenomenologia» dell'esistenziale, aggiunge che il passare non è diverso dall'essere ed esclude con ogni decisione il non-essere-più della forma e il non­ essere-ancora dell'altra forma dal novero delle cose pen­ sabili (dunque reali ). Se infatti il non-esser-più e il non-essere-ancora fossero reali soggetti di giudizio, da quale predicato dovrebbero mai essere illuminati? Forse da quel particolare predicato che è non l'arte ma il suo non-esser-più, non la filosofia ma il suo non-essere-ancora? Ma che cosa sarebbe mai, nella logica di Croce, un predicato di questo genere? La 1 04

conseguenza di tutto ciò sarebbe in effetti che il pas­ sare, sostanzializzato in quella che Croce chiama qui la sua esi stenzialità e contingenza, assumerebbe la forma del non pienamente pensabile, perché il suo luogo sarebbe, contraddittoriamente, non nella pie­ nezza della realtà, ma tra le sue presunte giunture : e le categorie sarebbero perciò impotenti ad assumerlo nel loro ambito . Non a caso, dunque, ma per le esi­ genze più profonde della sua impostazione generale, dopo avere in un primo momento ammesso che « esi­ stenzialmente » il poeta diventa filosofo per una con­ traddizione intrinseca alla sua poesia, Croce finisce per negare risolutamente che questo processo del suo diventar filosofo abbia realtà specifica in quanto pro­ cesso ". Ancora una volta, il divenire non è altro che essere ; e la dialettica degli opposti, immobilizzata nei distinti e nella loro relazione, si configura, nella concreta situazione del filosofare crociano, come una 67 A questo punto, è chiaro, occorrerebbe prendere in esame tutta la complicata teoria, esposta con particolare com­ piutezza nel terzo capitolo del Breviario di estetica, del rap­ porto tra le forme come rapporto di condizione a condizio­ nato, in cui quel che prima era forma viene abbassato a « ma­ teria » della forma successiva. Un'analisi di questa teoria è fuor di luogo in questa sede. Ma si noti, tuttavia, che mentre talvolta (cfr. ad es., Logica, p. 66) Croce scrive che la « oppo­ sizione determina il passaggio da un grado ideale all'altro, da una forma all'altra », altre volte (e con più scaltrita formula­ zione) si limita a dire che l'opposizione « si accende » nel trapasso da un distinto all'altro, perché lungi dall'essere un prius logico, può essere pensata solo sul fondamento della di­ stinzione delle forme ( cfr. il saggio del 1946 Sulla teoria della distinzione e delle quattro categorie spirituali, in Filosofia e storiografia, p. 16). Qui, dunque, la distinzione coincide con la forma o categoria, dal punto di vista della quale soltanto, come è chiaro, è pensabile quel « travaglio » attraverso il quale la forma o categoria viene raggiunta ; che se si prendesse quel « travaglio » ( opposizione) come in sé veramente reale, si fi. nirebbe per procedere con un criterio puramente intellettuali­ stico e separante (nel senso hegeliano e crociano del termine), e quindi per ricondurre la nota dell'astratta temporalità in un processo che, al contrario, non può esser pensato se non nella

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dialettica perduta e sempre ricercata, incessantemente risorgente dalla sua profonda esigenza e sempre, in qualche modo, annullata nel suo effettivo potere at­ tivante dell'essere. Se questa breve indagine potesse, già qui, trasformarsi in sistematica ricostruzione della storia di questo motivo nell'intera opera di Croce, non sarebbe difficile mostrarne la travagliata presenza nelle più diverse situazioni del suo pensiero, dalle pagine del Breviario di estetica agli scritti raccolti nel­ l'ultima sezione degli Ultimi saggi e nel primo capi­ tolo della Storia come pensiero e come azione .. . Si vedrebbe allora che le Indagini- su Hegel hanno una lunga preparazione nella filosofi.a di Croce, e che, senza indulgere a facili paradossi, il loro primo germe po­ trebbe essere addirittura indicato nella discutibile vit­ toria ottenuta dalla logica dei distinti sulla dialettica degli opposti fin dai tempi lontani del saggio hegeliano del 1 906 e della edizione definitiva della Logica. Ma questo non può essere ora argomento di discussione e di indagine. Basti sottolineare la estrema complessità del problema, e ricordare che, alla fine della sua vita, Croce ritenne di averlo risolto mediante l'identifica­ zione dell'autore della dialetica non nel Pensiero, che contemporaneità-eternità-istantaneità della sua determinazione concreta (cfr. ad esempio, Il concetto del divenire e l'hegeli­ smo cit., pp. 154-55). Ma di questo, e degli altri problemi che vi si connettono, bisognerà riparlare altrove. 48 Penso, in modo particolare, agli scritti raccolti nel­ l'ultima sezione degli Ultimi sagJ!,i, dei quali ho già parlato, e alla prima parte del libro sulla Storia, nella quale Croce svolge, rapidamente, una teoria dei distinti che solo con grandi sforzi può esser ricondotta nell'alveo delle sue più classiche teorizzazioni. Anche qui il discorso dovrebbe essere lungo, perché il problema da risolvere non riguarda solo, come di solito si è detto, il « primato » che la moralità sembra assu­ mere tra le altre forme, bensl la esatta determinazione di quell'oscuro bisogno pratico dal quale trae origine il processo teoretico ( storiografico )-pratico dello spirito. In questo « oscu­ ro » bisogno vedrei, se è lecito anticipare in poche parole i risultati di un'analisi, una significativa espressione dell'esigenza crociana della « vera dialettica », quella degli opposti.

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Spaventa aveva chiamato il « gran prevaricatore », ma nella cruda e verde Vitalità . Si può dire che egli fosse riuscito veramente a risolvere il suo problema? Mal­ grado l'intensità e il grande impegno di questa sua ultima ricerca filosofica, la risposta non può essere af­ fermativa. IV

Ricordiamo la fisionomia della « vitalità », cosi come Croce la delinea nelle Indagini. Da una _ parte essa è definita come la categoria nella quale lo spirito pratico soddisfa le sue chiuse brame di benessere indi­ viduale; dall'altra, come persistente negatività, come egoismo, male, peccato originale. Le due delineazioni non sono, come si è già notato, coerenti tra loro. Nel primo caso la vitalità è ancora l'utile come ele­ mentare categoria della praxis, e dunque come « posi­ tiva » affermazione di una realtà individualmente pre­ morale e amorale, non certo immorale •• . Nel secondo è « negatività ». Ma che cosa importa questa contra­ stante caratterizzazione del vitale ai fini della ricerca dell'origine della dialettica, che Croce persegue tena­ cemente? Se il negativo vien preso come non essere dell'essere, esso è niente altro che la perenne insoddi•• Si ricordino, in proposito, le forti espressioni che si leggono alla fine de Le due scienze mondane cit., pp. 57-58 : « Coloro che perfidiano a rifiutare la forma spirituale dell'utile, ponendo unica forma pratica la moralità, è da temere che siano condotti a ciò non da una troppo energica coscienza della moralità, ma, per contrario, da una troopo debole, va­ cua e floscia, giacché essi tolgono alla moralità il carattere combattente o la mettono a combattere comicamente contro le ombre di se stessa ». Qui la polemica, evidentemente ri­ volta contro « spiritualisti » e « attualisti », conduce Croce a sottolineare o a implicare il carattere di reale opposizione che si determina nello spirito al momento del passaggio dall'utile al morale. Il che poi non toglie che con quella esip.enza con­ trasti non poco la struttura categoriale in cui il filosofo la prospettava.

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sfazione che ogni forma perennemente soddisfa; e dunque non configura un'origine. Ma anche quando sia preso nell'accezione di « persistente negatività », di eterno stimolo integrativo delle « ulteriori » forme dello spirito • 0 , esso non configura un'origine: perché, ammesso ( con Croce) che il negativo sia eternamente presente in cotesta sua funzione di necessario stimolo integrativo, e che necessario e inevitabile sia altresl il passaggio alle forme « ulteriori » ( che in effetti sono tanto necessarie alla « realtà » del negativo quanto questo alla realtà di quelle), il problema dell'origine, della nascita, del tempo si annulla nell'eternità dell'ori­ gine, della nascita e del tempo. Cambia bensl, dall'una all'altra accezione, il significato complessivo della con­ cezione dello spirito ; mutano, in essa, il ruolo e la di­ gnità dell'utile-vitale come categoria autonoma dello spirito ; ma il passaggio tra le forme rimane egual­ mente garantito ( quale che sia poi il modo concreto del passaggio dall'utile alle forme e dalle forme all'utile e quale che sia, giova aggiungere, la concreta ulte­ riore dimostrazione che Croce dà di tale passaggio ). E tuttavia, avrebbe certamente torto ( e mostre•• A questo concetto crociano del vitale si potrebbero av­ vicinare, con molta cautela, il precategoriale e la Lebenswelt di Husserl (sopra tutto nel senso che a questi termini confe­ risce la Krisis) ; ma chi si impegni a tentare questo paragone, deve stare bene attento a non dimenticare i rispettivi contesti categoriali. Per la medesima ragione, sarei estremamente pru­ dente nel ricercare connessioni tra il vitale di Croce e l'in-der­ Welt-sein di Heidegger (anche se il duro giudizio dato da Croce dell'esistenzialismo sembra temperarsi nel giudizio sull'autore di Sein und Zeit, alle cui analisi sulla storia e sulla storicità il filosofo napoletano riconobbe, negli ultimissimi anni, notevole sottigliezza ed acume : Terze pagine sparse, II, p. 95, e anche Indagini, p. 76). :f!: difficile dire fino a che punto Croce avesse familiarità con i « classici » della filosofia dell'esistenza, da Heidegger a Jaspers ; ma anche se si concludesse che il suo giudizio storico non riposava sopra adeguate conoscenze « di fatto », sarebbe imprudente escludere che sugli ultimi sviluppi del suo pensiero abbiano avuto qualche influenza i temi del­ l'esistenzialismo.

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rebbe di non saper leggere a fondo in queste pagine delicate e problematiche ) chi semplicemente si affret­ tasse a dire che Croce non ha, in sostanza, mutato i termini della - sua filosofia, già per la buona ragione che la struttura dello spirito è rimasta la medesima e la dialettica ha seguitato ad assolvere in essa la me­ desima funzione che assolveva nelle precedenti opere. Le cose, infatti, non stanno cosl : e basta ripercorrere brevemente l'iter delle Indagini per rendersene conto. Del vitale, si è visto, Croce séguita, anche in questi tardi scritti, a mettere in rilievo il carattere di eter­ nità, di costante e necessaria molla del divenire ; ma di esso dice anche che è il male in tutte le sue mani­ festazioni, la barbarie che sempre minaccia le civili costruzioni umane, il peccato originale. Di Hegel dice che il suo merito immortale, la scoperta per la quale appartiene alla storia della filosofia, consiste nell'aver redento, mercé la dialettica e la riconosciuta « positi­ vità » del negativo, il mondo dal male 0 1 ; ma del negativo, cioè del vitale in questa sua specifica acce­ zione, dice poi che la sua forza è terribile e tragicamente invincibile, che è verde e selvatica, indomabile, o do­ mabile solo provvisoriamente, dalle « ulteriori » ca­ tegorie dello spirito. Tra queste due proposizioni, la rispondenza è e non è perfetta. Da un lato, infatti, sottolineando la necessità-eternità del negativo, la sua invariabile presenza nella trama della realtà, la sua pe­ renne disponibilità aproblematica ad essere « abbassato a materia » •• delle altre forme, Croce garantisce al11 82

Indagini, pp. 36-37 (e dr. quel che si legge a p. 75).

Il passo in cui Croce usa questa espressione è, in sé, di struttura assai semplice : analizzato a fondo, riconduce tuttavia nel vivo delle più complesse questioni della sua filo­ sofia. Scrive Croce : « Essa [ la vitalità] offre la ' materia ' alle categorie successive, giusta la legge che regge il circolo delle categorie, che quella che prima fo ' forma ' si presta poi al­ l'ufficio di ' materia ' ; né solo offre la materia, ma dà la coope­ razione, fornendo alle forme successive le forze che furono sue » (Indagini, pp. 35-36). � evidente, infatti, che la vitalità entra come materia (stando alla legge del circolo e del rap-

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l'uomo quel passaggio ai superiori valori che basta, in effetti, a sempre di nuovo sconfiggere il male e a « redimere il mondo » dalla sua iniqua presenza. Ma dall'altro {e questo è il punto interessante, che scuote fortemente, anche se non giunge a mettere esplicita­ mente in crisi, la struttura « idealistica » della sua fì.lo­ sofìa), la sua drammatica, e talvolta cupa, insistenza sulla indomabilità della barbarie e del male non sot­ tolinea tanto la perennità-necessità della loro risolu­ zione in arte, filosofia e moralità, quanto piuttosto la crudeltà insita nella condizione dell'uomo, il quale può bensl superare « i mali » ma non « il male », che in questo senso è veramente senza redenzione. E qui, al­ lora, s'avverte la sfasatura tra quelle due proposizioni porto materia-forma, condizione-condizionato, che qui Croce ri­ chiama), solo nell'eticità, alla quale fornisce la base « econo­ mica » senza la quale nessuna moralità sorgerebbe; ma non entra allo stesso titolo nella « logica », la cui materia è l'in­ tuizione, mentre è altamente discutibile se entri nell'arte, la cui materia è quel tumultuante mondo del « sentimento » che non è detto possa esser fatto coincidere con la categoria del­ l'economico, intesa, come si deve, come « coerenza del volere ». Se essa entrasse come « materia » in tutte le successive cate­ gorie, in che modo infatti si formerebbe il circolo? Nel quale A, B, C, D, stanno bensl in un rapporto di implicazione, che trova la sua esplicazione nel loro essere « relazionati » secondo la legge di materia-forma, condizione-condizionato ; ma poiché, per Croce, il circolo è irreversibile e i suoi momenti hanno in esso un luogo necessario, che non può essere mutato ad arbitrio, ne consegue che tali momenti sono bensl tutti ne­ cessari (e reciprocamente necessari), ma solo nel senso che A è materia di B, e C di D, mentre ( rimandando ad altro luogo la questione di come B-filosofia possa essere materia di C-eco­ nomicità) rimane escluso che A (arte) possa mai costituire direttamente la materia di C (economicità) o di D ( moralità). Certo, anche sul rapporto tra D e A Croce non riesce del tutto chiaro; e il problema andrà affrontato a parte, con ap­ posita analisi. Ma come non vedere che, anche con questa am­ missione dell'ultimo Croce, il problema si fa ancora più com­ plesso, e la possibilità di risolverlo nell'ambito di quella teo­ rizzazione, ancora più problematica? Croce sembra avvertire la difficoltà, perché dopo aver parlato di « materia », parla di « cooperazione ». Ma tra i due termini, come si comprende, sembra molto difficile stabilire un rapporto di identità.

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filosofiche: il male è redento e non redento, redimi­ bile e non redimibile, perché questa, non altra, è la legge (diatettica) della realtà. La dialettica consola ma, di continuo, torna a condannare. Il « peccato origi­ nale» viene in tal modo a coincidere ( e questa è l'af­ fermazione più radicale che s'incontri nelle Indagini) non tanto con il vitale quanto con la stessa dialettica, che esso inizia e continuamente riapre dopo le sue provvisorie« sintesi»; perché il male è operante, nella trama della realtà, come elemento incancellabile, e sem­ pre risorge dal cuore delle categorie che lo avevano, in un primo tempo, « redento». Non ci sono - si legge in un breve saggio su Il pec­ cato originale, scritto a commento di un aureo luogo di

Vico - prima bestioni selvaggi, e poi uomini forniti di coscienza morale ; ma uomini che sono l'uno e l'altro in­ sieme, perché lo spirito è tutto in una volta e non si forma a pezzi. E poiché in questa natura dello spirito, molteplice ed una, si accende e consuma l'opposizione che nasce dalla distinzione delle forme, e, come si dice, dalla lotta del bene col male, consegue l'impossibilità per l 'uo­ mo di farsi tutto bene e tutto male. Può l'uomo vincere questi e quei mali particolari in se stesso, ma non potrà mai vincere il male. Coloro che si propongono questo fine, entrano in un processo di follia perché vorrebbero vivere contro la legge della vita. E questo dell'unità della vita nel bene e nel male è il vero peccato originale, che non ha redenzione nel mondo per sangue che si versi dagli dei o dai figliuoli di Dio, almeno nella vita che noi co­ nosciamo e che sola possiamo concepire ••. •• Il breve scritto su Il peccato originale è del 1950 e si trova ora in Indagini, pp. 137-39. Il luogo citato nel testo è a pp. 137-38. Parole analoghe, anche se non altrettanto dram­ matiche ( e comunque prive di questo cupo colore « religioso » ) s i leggono nel saggio del 1949 Intorno alla categoria della vita­ lità, in Indagini, pp. 134-35, che rappresenta uno dei più si­ gnificativi documenti del travaglio teorico che condusse Croce alla nuova teoria del vitale. Vi si legge, tra l'altro, che al­ l'origine del saggio sta la rilettura che, quasi casualmente, Croce fece dei Metaphvsische Anfangsgrunde der Tugendlehre di Kant ( e il nome di Kant ricorre infatti nella discussione che 111

Certo, anche in questa pagina risuonano vecchi temi della filosofia di Croce, e avrebbe torto chi si lasciasse guidare, senza cautela, dalla grossolana cate­ goria della « frattura». Ma nel complesso il signifi­ cato e il valore della dialettica sembrano, in essa, ca­ povolgersi. Se nelle precedenti opere la dialettica era apparsa non tanto come la « ammissione del male» bensl piuttosto come la « giustificazione» del suo « uf­ ficio» nella superiore realtà-razionalità della storia, qui, viceversa, essa appare iniziata e conclusa dal male, che entra nel suo ritmo per riuscirne intatto ed invitto nella sua indomabile negatività. Ed un tono di alta tragicità religiosa si diffonde allora, in modi incon­ sueti, nella concezione di Croce. Giacché, se il male è il male, il negativo, la barbarie che nessuna educa­ zione può veramente stroncare nella sua radice pro­ fonda, come non comprendere che, intervenendo sem­ pre di nuovo a mettere in crisi le costruzioni cate­ goriali dell'arte, della filosofia e della moralità, esso conserva tuttavia il medesimo carattere, e cioè non par­ tecipa veramente ai benefici del progresso, non si ar­ ricchisce delle opere superiori dello spirito? Per que­ sto, quando nelle Indagini Croce ripropone la sua classica critica di ottimismo e pessimismo ••, soltanto chi se ne stia al senso più ovvio delle parole, senza indagare ulteriormente, può credere che si tratti pur sempre della vecchia polemica, e che nulla sia cam­ biato in essa. Perché, quale che sia la ragione per la quale Croce riprende la sua vecchia condanna di quei due atteggiamenti psicologici, sta di fatto che, prima, la dialettica era vista come accrescimento qualitativo, come progressiva tesaurizzazione degli « acquisti per sempre» dell'umanità, mentre ora questo ritmo (se si vogliono leggere con attenzione, e senza conformismi, Croce sostenne in quegli anni con Calogero e Paci). Una prova di più, dunque, della estrema complessità delle sollecitazioni che il filosofo « ricercò » in questa fase finale del suo pen­ siero ! •• Indagini, pp. 46-50.

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le parole crociane) giace spezzato, messo in crisi dalla continua risorgenza della vitalità «verde >► e selva­ tica, dalla bestia indomabile che freme nei petti ci­ vili degli uomirii. Certo, si potrà ben sostenere che, presentando nelle vecchie forme la dialettica degli opposti e facendone il virile criterio di una schietta accettazione del mondo, Croce fosse inconsciamente guidato da quel grande correttivo della pura Ueber­ windung che è la relazione dei distinti, la celebrazione delle autonomie spirituali: di questo «equivoco » si sono indicati, qui su, non pochi esempi. Ma non è questa, forse, un'ottima ragione per ribadire, da una parte, l'estraneità delle due dialettiche ( nonché l'in­ sistente tentativo crociano di congiungerle logica­ mente), e dall'altra la cruda realtà alla quale il vec­ chio filosofo si trovò di fronte quando ebbe effettuata, in nuove forme, quella operazione «conciliativa >►? Non è, in altri termini, una buona ragione per abituarsi a prospettare il corso storico dei pensieri crociani in una luce più intensamente drammatica di quanto fino ad oggi, per le oppostè ragioni della polemica e della difesa, non si sia fatto? Proseguire in questa analisi non è, ora, possibile. Sia lecita però un'altra osservazione. Di Croce si è più volte, in questi ultimi trenta o quarant'anni, messo in luce il provvidenzialismo idealistico, l'ottimismo ir­ resistibilmente implicito nel suo concetto dello spi­ rito come continuo passaggio dal «bene al meglio >►: della sua Weltanschauung si è parlato, ancora di re­ cente, come di una concezione «euforica >► ••. Non è certo il caso di discutere, ora, se per qualche parte e per qualche momento della filosofia di Croce ( né «parti >► e «momenti» debbono esser presi solo in senso cronologico), quell'osservazione conservi il suo valore, o se, anche entro quei limiti, presupponga solo una lettura inadeguata delle opere crociane. Chi ha •• R.

CANTONI,

Il tragico come problema filosofico, « Ri­

vista di filosofia », 1963, pp. 26-29.

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seguito fin qui il ragionamento che si è tentato di por­ tare avanti, sa già quale risposta dare alla domanda. Ma, comunque sia ora di ciò, non è forse evidente che, investita dall'autocritica, la struttura idealistica della filosofia di Croce opera qui secondo una dura legge del « contrappasso », nel senso d'inchiodare alla croce di una infelice necessità di movimento il de­ stino dell'uomo? Certo, il nesso tra problema e solu­ zione è ancora avvertito come necessario: ma la « ne­ cessità » che alla « necessaria » soluzione del problema segua, sempre di nuovo, il problema, è ormai sentita da Croce come il dramma stesso dell'esistenza umana, come la crudeltà di un non poter essere altrimenti, dunque non come virile gioia creativa, ma come dura espiazione della creatività. Le pagine che abbiamo letto, con quella tragica identificazione di spirito e « peccato originale » (e quelle cupe osservazioni sulla vanità del sangue versato dagli dèi o dal figliuolo di Dio • •), non potrebbero essere, in proposito, di più esplicita eloquenza. E se si tien conto di questa complessa situa­ zione speculativa, si può comprendere meglio il senso del bellissimo Soliloquio, in quel luogo in cui, dopo aver ricordato le parole che « Salvatore di Giacomo udl dal vecchio duca di Maddaloni », quando, aven­ dogli rivolto « la consueta domanda: - ' Come state? ' », si sentl rispondere « in dialetto: - Non lo vedi? Sto morendo », aggiunge di suo: « Malinconica e triste che possa sembrare la morte, sono troppo filo­ sofo per non vedere chiaramente che il terribile sa­ rebbe se l'uomo non potesse morire mai, chiuso nella •• Sarebbe interessante rianalizzare, da questo punto di vista, le osservazioni che Croce svolse nel celebre saggio del 1942 Perché non possiamo non dirci cristiani (ora in Discorsi di varia filosofia, Il, pp. 1 1-23 ). Ma l'argomento, assai com­ plesso, non può essere affrontato qui. Poiché contrasta fin dal titolo con quello di Croce, mi pare opportuno ricordare il saggio di B. RusSELL, Why I am not a Christian ( 1927), che ora si può leggere nel volume dallo stesso titolo (London 1957, pp. 1-17). 1 14

carcere che è la vita, a ripetere sempre lo stesso ritmo vitale che egli, come individuo, possiede solo nei con­ fini della sua individualità, a cui è assegnato un com­ pito che si esaurisce» 5 7 • Perché il Soliloquio non è soltanto, secondo l'interpretazione che di esso è stata per lo più data, il mirabile frammento di una crociana de consolatione philosophiae, o un'alta poesia sul grande tema della morte; per intenderlo sul serio, bi­ sogna prospettare la sua « bellezza» sullo sfondo di queste riflessioni che Croce andava faticosamente com­ piendo negli ultimi mesi della sua vita. L'insistenza dell'ultimo Croce sulla « dialettica de­ gli opposti», la « vera» dialettica, conferisce dunque un colore nuovo, un nuovo tono alla linea fondamen­ tale della « filosofia dello spirito»: rischia, senza vera­ mente riuscirci, di metterne in crisi il fondamento stesso. Questa è, senza dubbio, l'unica conclusione ri­ gorosa che si possa ricavare dall'analisi dei due ultimi scritti. E tuttavia, si avverte che qualcosa sfugge an­ cora, che un tema, fin qui apparso fugacemente sullo sfondo, non è stato ancora afferrato nel suo effettivo significato. Quel tema si avvolge, in effetti, in suoni oscuri, e non giunge, se cosl può dirsi, alla lucida chiarezza di un « motivo»: si potrebbe aggiungere che il suo significato sta proprio nella sua difficile « te­ matizzazione» in termini crociani. Non per questo, tuttavia, l'interprete può sfuggire al dovere di dirne qualcosa. Nel corso di questa analisi, sono stati messi in luce e sottolineati nella loro divergenza due diversi significati della categoria del vitale. Si può dire ora che, accanto ad essi, si viene talvolta profilando un terzo significato, quello per cui il vitale, lungi dal­ l'esser comunque garantito da una struttura necessaria e inalterabile, può venir meno, esaurirsi, entrare in crisi, rendendo in tal modo altamente problematico "' Cito da Terze pagine sparse, I, p. 1 19. Il Soliloquio fu daoprima stampato nei « Quaderni della " Critica " », 19-20, 1951, p. 1. 1 15

quel passaggio agli « ulteriori » valori nei quali, al­ meno provvisoriamente, la sua barbarie può essere domata e la sua forza, altrimenti selvaggia e furiosa, ingentilita e umanizzata . Certo, nessun passo di Croce autorizza l'interprete a porre questo significato della vitalità sullo stesso piano degli altri due : se cosi espli­ citamente Croce fosse giunto a mettere in crisi la struttura idealistica della sua filosofia, il carattere della sua autocritica sarebbe stato, ovviamente, ben più radicale di quello che ci è dato ricostruire nelle sue ultime indagini. E tuttavia quel terzo significato opera ed è ben presente in queste sue ultime pagine ; se non nelle parole che materialmente le costituiscono, nella « complessa situazione » filosofica che contribuiscono a delineare. In che senso ? Nelle Indagini su Hegel, si è visto, Croce ha espo­ sto una nuova teoria della origine della dialettica, che conferisce all'utile-vitale un ruolo diverso da quello precedentemente stabilito e modifica dunque, in ma­ niera rilevante, l'ordine dei distinti e il loro rapporto con gli opposti. Senza dubbio, questa teoria ha rag­ giunto nelle sue pagine un grado elevato di chiarezza teoretica : altrimenti come se ne potrebbe parlare ? Ma Croce è, nei suoi riguardi, singolarmente inquieto : ogni sua parola comunica al lettore il senso di una con­ clusione non raggiunta, di una novità che tende inces­ santemente a ripiegarsi sui vecchi significati .. nell'atto stesso in cui il filosofo avverte in essa il principio di una filosofia dell'avvenire "'. Soltanto il filosofo del •• Cfr., ad es., L'unità del reale, « Quaderni della " Cri­ tica " », 19-20, 1951, pp. 14-15 ( = Indagini, pp. 268-270). •• Su questo carattere « composito » dell'ultima riflessione crociana, nella quale il « nuovo » è sempre sul punto di cedere ali'« antico », anche se questo risulti poi profondamente se­ gnato dal « nuovo », mi permetto di richiamare l'attenzione del lettore; il quale non deve credere (perché sarebbe grande er­ rore) che, conquistato il nuovo punto di vista, Croce abbia rinunziato al vecchio quadro categoriale, o non si sia più tra­ vagliato su di esso. Ogni interpretazione che rinunzi a sotto1 16

futuro, pensa infatti Croce, potrà condurre alla neces­ saria chiarezza il processo di interpretazione hegeliana da lui ripreso a quasi ottantasei anni, dopo una ri­ cerca durata in sostanza, tra interruzioni e riprese, un intero cinquantennio • 0 • Perché, dunque, Croce è cosl inquieto? Perché (si può molto semplicemente rispon­ dere) egli sentiva in sé, al di là della teoria con la quale aveva tentato di esprimerla, una « potenzialità » teoretica che quella teoria non riusciva ad appagare. Avendo teorizzato il vitale come bensl negativo, ma come necessariamente presente e operante nella trama della realtà, Croce viveva tuttavia una situazione filo­ sofica in cui il vitale operava non secondo il modello fissato dalla teoria nel suo secondo significato, ma se­ condo il modello delineato da quel terzo significato che si è visto emergere, talvolta, dalle sue pagine . Nell'atto stesso, infatti, in cui teorizzava il vitale come « necessaria integrazione» delle forme superiori dello spirito, ribadendo la necessità-eternità della sua risoluzione (e dunque provvisoria redenzione) in quelle, Croce avvertiva tuttavia, più o_ meno distintamente che la sua « situazione» speculativa non coincideva con il ritmo della teoria. Postosi in forme nuove il delica­ tissimo problema dell'origine della dialettica, e cioè, come riconoscerà esplicitamente in una « scheda» del 1 9 5 1 , di una migliore connessione tra la serie degli opposti e quella dei gradi distinti, non si faceva illu­ sioni circa il punto di chiarezza raggiunto nell'elabo­ razione di quell'arduo capitolo di logica filosofica, e non riusciva evidentemente a « riposare in esso» come in lineare il carattere drammatico-problematico dell'ultimo Croce, è destinata a lasciarsi sfuggire la peculiarità della sua indagine, il suo tono storico. 0 Questo motivo della « nuova filosofia ,. in cui la sua • personale opera di filosofo morirà « trasformandosi », è molto forte nell'ultimo Croce, a partire, direi, dai Discorsi di vario filosofia e da Filosofia e storiografia. Ma per farne la storia, bisognerebbe scrivere un apposito capitolo della « biografia ,. intellettuale e morale di Croce. Cfr. comunque, Indagini, p. 75 (e passim per l'intero volume).

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una verità saldamente raggiunta. Sentiva i morsi del l'insoddisfazione, il travaglio del dubbio ; e come quei morsi erano ben reali e quel travaglio ben lungi dal1 'essere pacificato, cosl si comprende bene come pro­ prio in lui che teorizzava l'ineluttabilità-eternità-neces­ sità del passaggio dall'oscurezza del vitale alla chiarezza della risoluzione teoretica, quel passaggio rivelasse la sua profonda problematicità. Si dirà che questo tra­ vaglio speculativo non sale, in Croce, alla riflessa co­ scienza della sua gravità ; e può esser vero, quando si pensi a certe sue tarde pagine, nelle quali egli si prova ad assumere, nei riguardi della sua ultima meditazione, il tono di pacificata certezza che tante volte aveva caratterizzato la sua prosa nel passato. E tuttavia, anche a questo proposito, bisogna stare at­ tenti, e non dimenticare che un dubbio ridotto alla sua riflessa coscienza è piuttosto un dubbio in qualche modo « rappresentato » che un dubbio vissuto in tutta la forza del suo oscuro potere : e le pagine crociane, cosl singolarmente oscillanti tra i due poli della commozione e dell'ironia, appaiono invece segnate da un problema che resisteva ad essere prospettato come senz'altro iden­ tico alla « soluzione » . Il loro carattere sta, in effetti, in questo delicatissimo e quasi impossibile equilibrio di motivi diversi, in questa riaffermazione, si potrebbe dire, del diritto dell'individuo a filosofare senza riposo al di là della sua stessa condizione storica, rifiutando quella « integrazione » nel gran moto dello Spirito del Mondo, che pur potrebbe costituire, a tratti, la sua segreta Sehnsucht. Qui, come si vede, si aprirebbe un nuovo, interessante capitolo di meditazioni, non fosse che per la sensibilità sempre dimostrata dall'esegesi crociana per questo arduo problema dello storicismo as­ 1 soluto • • Basti tuttavia riflettere sulla estrema com0 1 In questa troppo rigida insistenza sullo Spirito asso­ luto (o come altrimenti lo si voglia chiamare) come autentico protagonista dello storicismo crociano, mi pare stia il limite del saggio di N. ABBAGNANO, L'ultimo Croce e il soggetto della storia, ora in Possibilità e libertà, Torino 1956, pp. 227-

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plessità di questo aspetto del pensiero di Croce, sul complicato giuoco di prospettive cangianti in cui quel problema dello Spirito del Mondo vive nella sua con­ creta ricerca; e sia lecito, infine, invitare i critici alla prudenza. Sarebbe imbarazzante se, dopo aver tanto parlato dello Spirito del Mondo, del Soggetto Univer­ sale, dell'Io Assoluto (sempre scritti, s'intende, con le iniziali maiuscole ) come delle pallide ipostasi metafi­ siche dei concreti soggetti umani, mistificati e alienati dalla filosofia dello spirito, dovessero accorgersi che quell'ipostasi operava anche nelle loro pagine, ossia nella ]oro concreta incapacità a seguire le mutevoli for­ me di quel concetto nel vivo svolgimento del pensiero di Croce! V

Se questo - esposto in brevi linee (per ciascuno dei problemi toccati qui, e non sono certo tutti, occorre­ rebbe una trattazione specifica) - è l'iter del pensiero di Croce, il senso del suo svolgimento, è ovvio che la considerazione attenta di quella che all'inizio è stata definita la totalità crociana, s'impone ormai come il problema fondamentale di ogni indagine che intenda essere rigorosamente storica e critica. Non sarebbe possibile, infatti, trattare uno qualsiasi dei molti temi offerti dal pensiero di Croce (dall'estetica alla teoria del giudizio, dalla storiografia ai problemi dell'utile-­ vitale, dalla teoria del diritto a quella della pol itica), senza fare di ciascun momento il centro di convergenza e di irradiazione di un'intera riflessione in corso. Non sarebbe possibile intendere una singola teoria senza cercar di comprendere il contributo che, in varie forme, 242, che contiene, per altro, interessanti considerazioni. Mol­ ta· altra letteratura si potrebbe indicare, a questo riguardo. Ma io ho preferito qui ridurre al minimo le citazioni di scritti su Croce: non perché intenda sminuire il valore di alcuni di essi, ma per non complicare con polemiche inutili ( in questa sede) la linea del ragionamento.

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essa reca all'armonia ( ò alla disarmonia) del tutto. E tuttavia, perché questa analisi realizzi tutta la sua potenzialità critica, è necessario che essa si proponga non solo di distruggere ogni velleità di negazione totale ( tutta la filosofia di Croce, ad esempio, ridotta alla squallida misura di un deteriore revisionismo marxista in etica ••, ad una sorta di altrettanto deteriore misti­ cismo e irrazionalismo romantici in estetica "" ) o di •• G. DELLA VOLPE, La libertà comunista. Saggio di una critica della ragion « pura » pratica, Messina 1946, pp. 46-55.

Il Della Volpe analizza l'interpretazione crociana di Marx nel quadro di una radicale critica dei « revisori del marxismo ,. (da Bernstein a Mondolfo), ed estende la sua analisi all'intero rapporto economica-etica, cosl come si configura nella « filo­ sofia dello spirito » ; ma egli non giunge a parlare di quella « ossessione » del marxismo che, secondo Gramsci, costituisce il motivo segreto dell'atteggiamento crociano nei riguardi di Marx (A. GRAMSCI, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino 1948, pp. 2 16-18; e dr., in propo­ sito, le considerazioni di E. AGAZZI, Il giovane Croce e il marxismo, Torino 1962, pp. 17-22, 553-80). Sia il Gramsci che il Della Volpe hanno osservazioni interessanti, che dovranno essere discusse a fondo da chi intenda riproporsi in modo cri­ ticamente responsabile il problema dei rapporti Croce-Marx; ma bisogna pur notare subito che,_ mentre il Della Volpe non segue con la necessaria pazienza critica il complesso e vario in­ treccio delle riflessioni crociane su etica e politica, il Gramsci risulta ancora meno persuasivo quando parla dell'interpreta­ zione crociana di Marx come di una incomprensione-ossessione dei terni del marxismo. Che in Croce i problemi del marxismo riemergano continuamente nelle varie fasi della sua riflessione, è senza dubbio verissimo (dr., per alcune osservazioni, GARIN, Cronache cit., pp. 21 3-29, e anche G. F. PAGALLO, La filosofia della prassi e la formazione dello storicismo crociano, « Gior­ nale critico della filosofia italiana », 1952, pp. 218-40); ma che senso potrebbe avere la ricerca di tali « sopravvivenze ,. se semplicemente prospettassimo il rapporto Croce-Marx nei termini di un'incomprensione procedente da ossessione? Per la bibliografia sull'argomento, ricchissima se pur di diverso valore, dr. oltre gli scritti citati qui su, M. CORSI, Le ori1!ini del pensiero di Benedetto Croce," Firenze 195 1 , pp. 139-73 ; L. Mos SINI, La categoria dell'utilità nel pensiero di Benedetto Croce, Milano 1959 (per altre indicazioni, qui superflue, dr. il citato studio dell'Agazzi). 13 Penso in modo particolare alla critica dell'estetica cro­ ciana come estetica mistico-romantica, condotta dal Della Volpe 120

fastidiosa apologia, ma altresì di epurare, nell'assoluto rigore dell'indagine storiografica, tutte quelle interpre­ tazioni critiche che, avanzate già negli anni della più intensa attività crociana, debbono essere esse stesse assunte in quel generale processo di storicizza­ zione, che costituisce in effetti uno dei compiti più ur­ genti al quale la storiografia di oggi sia chiamata 0 4 • Se infatti si guarda con attenzione alle principali tesi che allora si proposero, e che ancor oggi, mutata qualche linea, tengono il campo, si vede facilmente che, eliminate le facili stroncature e le facili apologie, esse si riducono in sostanza a due. Da una parte, infatti, domina ancora largamente un'interpretazione che si potrebbe definire «laica» ed «umanistica», il cui carat­ tere consiste nella fondamentale contrapposizione della « metodologia » alla « metafisica ». È una tesi che po­ trebbe altresl esser detta delle « due anime »; e nel suo impianto non è diversa, fatte le debite differenze, da quella che, da varie parti, si è fatta valere nei con­ fronti di Husserl • • ( del resto, in quale filosofo antico e moderno, con un po' di buona volontà e di fantasia, non si possono scoprire almeno due anime, più o meno in contrasto tra loro?). Con varie sfumature, a questa tesi aderiscono storicisti crociani e neopositivisti di non stretta osservanza, esistenzialisti positivi e marin lavori antichi e recenti (si vedano, in particolare, Crisi del­ l'estetica romantica, Roma 1963 2, pp. 17-21, 62-65, 67, e ora Critica del gusto, Milano 1960).

•• La storia di queste interpretazioni, che nel testo defi­ nisco sommariamente « laiche » e « umanistiche », meriterebbe di essere largamente narrata nel quadro della cultura storico­ filosofica italiana, ma distinguendo con rigore almeno tre « ge­ nerazioni » di interpreti. Studiosi come Garin e Bobbio non possono essere immediatamente ricondotti al clima storico-spe­ culativo che caratterizzò le letture crociane di un Banfi e di un Calogero, ma nemmeno sono assimilabili ai più recenti in­ terpreti della filosofia dello spirito; donde la complessità e la difficoltà di un'analisi delle loro pagine critiche. •• Basti ricordare il recentissimo, acuto, saggio di P. Cmon1, Esistenzialismo e fenomenologia, Milano 1963, pp. 1131 14 (e la letteratura citata ib. , p. 1 14 n. 90). 121

xisti: e basta questo semplice elenco a far comprendere la molteplicità e la complessità dei motivi che la costituiscono. Dall'altra, gode ancor oggi i favori di qualche studioso un'interpretazione che si potrebbe definire « attualistica », e il cui carattere fondamen­ tale consiste nella denuncia di tutti quei tratti « na­ turalistici » e « intellettualistici » che impedirebbero al pensiero di Croce di raggiungere un rigoroso tra­ guardo idealistico e di superare senza residui il tra­ vaglio aporetico implicito in esso a partire dalla sua non pura nascita filosofica ••. Se nel primo caso la mi­ sura ideale del pensiero crociano è la « metodologia », abbastanza largamente intesa come atteggiamento sto­ ricistico e antimetafisico, nel secondo la sua misura è i'idealismo di Giovanni Gentile: due misure, come si vede, sulla cui attitudine a funzionare da concreti canoni d'indagine critica si potrebbero avanzare parec­ chie riserve di principio. Ma mentre la prima tesi con­ tiene innegabili possibilità di illuminazione critica del testo crociano, di un pensiero cioè che dello storicismo metodologico e della critica antimetafisica ha fatto una delle sue principali ragioni d'essere, la seconda appare sempre più gravemente condannata a non poter eva­ dere dagli stretti confini di una polemica ormai supe­ ratQ. e storiograficamente infruttuosa. I rapporti tra Croce e Gentile costituiscono, senza dubbio, un capitolo importante, e niente affatto esaurito, nella storia dei due filosofi; ma né Gentile può esser preso a misura di Croce, né Croce di Gentile, perché entrambi si svolsero con tormentosa coerenza lungo le linee di una meditazione che, nella vicinanza e nel reciproco scambio di molti motivi, appartiene innanzi tutto alle ragioni profonde del loro diverso impegno speculativo. E tuttavia, la contrapposizione di queste due tesi •• La più rigorosa formulazione di questa tesi, che pre­ suppone, ovviamente, le ben note impostazioni di Gentile, si trova in U. SPIRITO, La filosofia, in U. SPIRITO, A. VoLPI­ CELLI, L. VOLPICELLI, Benedetto Croce, Roma 1929, pp. 9-26 ( = L'idealismo italiano e i suoi critici, Firenze 1930, pp. 7-3 1 ).

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non basta ancora a mettere in termini rigorosi il pro­ blema dell'interpretazione di Croce e della storicizza zione dei giudizi formulati in passato sulla sua filo­ sofia. Se infatti i limiti della tesi attualistica risultano nel complesso evidenti quando si cerchi di ricostruire le vicende tra le quali si formò e le esigenze alle quali tentò di dare espressione teoretica, a comprendere bene il senso dell'interpretazione « laica» e « umani­ stica» giova non dimenticare che in essa non si espri­ mevano solo alcuni autonomi motivi della filosofia ita­ liana di formazione non idealistica ••, bensl anche al­ cune delle più singolari tesi polemiche dello stesso Croce, violentemente isolate dal loro contesto e quindi innalzate, con discutibile procedimento metodico, a generale criterio di interpretazione storica. Basta pen­ sare, per rendersi conto di ciò, non solo alle tesi che Croce espose in saggi come quelli su Il Filosofo e La filosofia come « inconcludenza sublime», o nelle feroci « postille » scritte per irridere alla « troppa filosofia» •• che allora, per virtù di Gentile e della sua scuola, si faceva in Italia ; ma anche e sopra tutto a quella « semplificazione » del sistema che egli venne operando in quegli anni, con il preciso scopo pedagogico di « realizzare » lo storicismo e di superare, nel pensato racconto dei fatti, la forma tradizionale della filosofia. Non si può dimenticare, infatti, che è questo il periodo in cui, terminata la fase « amichevole » della polemica con l'idealismo attuale, Croce compose le sue maggiori opere di storia etico-politica, dalla Storia del regno di 8 7 Penso in modo particolare ad alcune esigenze matu­ rate alla scuola prima di Banfi e poi di Abbagnano (ma cfr. anche l'analisi di alcuni testi crociani su libertà e respon­ sabilità, condotta da G. SEMERARI, Responsabilità e comunità umana, Bari 1960, pp. 56-61, nonché le considerazioni gene­ rali che si leggono nell'altro suo libro su La filosofia come re­ lazione, Sapri 1961, pp. 12-15). • • Cfr. sopra tutto le postille ora raccolte in Cultura e vita morale, Bari 1955 • , pp. 238-52 (si tratta di tre « po­ stille », che recano la data 1922, la prima, 1923, la seconda e la terza).

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Napoli alla Storia dell'età barocca in Italia, dalla Storia d'Italia dal 1 8 7 1 al 1 9 1 5 alla Storia d'Europa nel se­ colo decimonono ••; né può sfuggire che proprio con

quei libri di storia ( oltre che, s'intende, con l'ininter­ rotto esercizio della critica letteraria ) egli venne sem­ pre più decisamente presentando la sua opera come non soltanto « filosofica », ma, in senso lato, culturale, espressione complessiva e culminante dei motivi pro­ fondi di un'intera età della storia europea. Certo, sa­ rebbe assurdo pretendere che, cosl operando e pen­ sando, Croce fosse consapevole di offrire un « modello critico » per l'interpretazione della sua stessa filosofia; e neppure sarebbe giusto pensare che, assumendo quel modello, i filosofi italiani si limitassero a contrapporre astrattamente « metodologia » a « metafisica », con­ servando a quei termini il medesimo significato che avevano in Croce! Al contrario, con quelle inter­ pretazioni i migliori di essi condussero al difficile pa­ ragone della « filosofia dello spirito » le loro personali filosofie in costruzione; e basti pensare ad Antonio Banfì, che in Croce vedeva bensl, allora, l'acuto me­ todologo di vari « campi del sapere », ma nel suo stesso atteggiamento metodologico non mancava tut•• La storia del regno di Napoli apparve dapprima nella « Critica » del 1923 e 1924 con il titolo Intorno alla storia del regno di Napoli, e fu poi ripubblicata tra le opere edite da Laterza nel 1925. La Storia dell'età barocca in Italia, scritta tra il 1924 e il 1925, uscl nella « Critica » tra il '24 e il '28, e quindi in forma di libro solo nel 1929. La Storia d'Italia, a sua volta, fu iniziata (come si ricava dai Diari inediti, resi noti, per questa parte, da F. N1couN1, Dai diari inediti, in Il Croce minore, Milano-Napoli 1963, pp. 167-69) il 18 giu­ gno 1926, quando Croce cominciò sistematiche letture sull'ar­ gomento; e fu pubblicata in volume (senza essere stata prima anticipata nella « Critica », per le ragioni chiarite dal N1co­ LINI, L'« editio ne varietur » delle opere di Benedetto Croce cit., p. 75) nel 1928. La Storia d'Europa, infine, fu anticipata in quattro puntate negli « Atti » della Accademia di scienze morali e politiche della Società reale di Napoli, nel 193 1 , e fu raccolta in volume, con dedica a Thomas Mann, nel 1932 (N1COLIN1, op. cit. , p, 92).

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tavia di sottolineare un grave limite di purificazione concettuale dell'esperienza ' o a Guido Calogero che, anche lui validamente contribuendo alle fortune del­ l'interpretazione « laica» ed « umanistica», non tra­ lasciava tuttavia di criticare a fondo l'impianto cate­ goriale della filosofia di Croce impiegando nella sua critica quell'analisi antignoseologizzante della stessa logica dell'attualismo che costituisce di fatto il punto di partenza di tutte le sue riflessioni sulla logica an­ tica e moderna. Cosl, proprio le esigenze prepotenti delle loro fi­ losofie in costruzione finirono per cristallizzare le in­ dagini di questi studiosi intorno a singoli aspetti del pensiero di Croce, ed essi non sentirono più con al­ trettanta energia critica il problema della connessione delle parti nel tutto, o, se si preferisce, la necessità di quella « prospettiva delle prospettive» che alcuni di essi bene avevano saputo costruire in altre indagini di storia del pensiero. Messisi per questa via, era na0

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11,

• • Su Banfi interprete di Croce, dr. qualche osservazione nel mio La « Cultura » nella storia della cultura italiana cit., pp. 272-73 ( ib., p. 273 n. 23 alcune indicazioni bibliogra­ fiche). Per l'interpretazione di Calogero, cfr. G. CALOGERO e D. PETRINI, Studi crociani, Rieti 1930, pp. 7-48 (ora in La conclusione della filosofia del conoscere, Firenze 1960 •, pp. 4575). Per gli svolgimenti dell'interpretazione calogeriana del pensiero di Croce, dr. più avanti; ma per completare, almeno nelle grandi linee, la documentazione di questa prima fase, occorre tener presente quel che di Croce si dice nel saggio ( assai importante per gli sviluppi della filosofia di Calogero) su Filosofie della filosofia nel pensiero italiano contemporaneo, in La conclusione cit., pp. 101-103, e in quello Intorno alla cosiddetta identità di storia e filosofia, ib. , pp. 1 17 sgg. An­ cora più importante, forse, per lo sforzo che il Calogero vi compie di stringere insieme i temi della sua filosofia con quelli della sua interpretazione della filosofia di Croce, è la sua re­ plica (Misologia? « Giornale critico della filosofia italiana », 1935, pp. 260-69 = La conclusione cit., pp. 141-56) ad alcune critiche che Croce gli aveva mosso nella « Critica », 1935, pp. 221-22 ( = Conversazioni critiche, Bari 1939, V, pp. 263266). 11

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turale che, dopo aver distinto il Croce «migliore » dal Croce « meno valido», essi facessero ogni sforzo per dimostrare la legittimità dell'uno e la minore le­ gittimità dell'altro: con la conseguenza, per altro, che il criterio con cui distinguevano le due « legittimità» non stava più nella struttura categoriale del filosofo indagato, ma nella struttura categoriale nella quale il filosofo indagante veniva, anche attraverso quell'inda­ gine, organizzando i motivi fondamentali del suo per­ sonale pensiero. Che in Croce, ad esempio, seguitasse ad operare una concezione metafisica dello Spirito del Mondo, appartenente ad una fase più antica del suo pensiero (che Calogero identificava, in un saggio del 1941 con la tradizione vichiano-hegeliano-marxista della sua riflessione) e che quella più antica concezione rischiasse di « schiacciare» il motivo evangelico-socra­ tico, fo Croce non meno vivo, del nolite iudicare e del nemo sua sponte peccat, può essere, entro certi limiti, verissimo. E tuttavia, dichiarando il suo consenso al principio socratico-evangelico e la sua ostilità irridu­ cibile a quello vichiano-hegeliano-marxista, l'autore di quell'indagine finiva per interpretare il nemo sua sponte peccai non secondo la particolare logica di Croce (cosl come si viene faticosamente svolgendo dai saggi su Marx e dall'Estetica fino alle opere della ma­ turità), bensl secondo i criteri di una filosofia che nel 1 94 1 , quando egli scriveva quelle pagine, si era già largamente costituita secondo linee categoriali molto diverse da quelle crociane. Era dunque illegittima quel­ l'analisi? Certo, non era illegittima; e non solo per­ ché, con essa, Calogero poteva ulteriormente definire 12,

7 2 G. CALOGERO, Intorno al saggio del Croce « Giudizio storico e azione morale », dapprima pubblicato nel volume comprendente scritti di vari autori, Il problema della storia, Milano 1944, pp. 103-18 ( = Saggi di etica e di teoria del diritto, Bari 1947, pp. 23-47). Il Calogero ha poi ricostruito le origini della formula nemo sua sponte peccai, in un saggio su Gorgias and lhe socralic Principle nemo sua sponle pec­ cai, « Journal of the Hellenic Studies », 1957, pp. 12-17 .

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una concezione dello storicismo che tre anni prima egli aveva vigorosamente difeso contro ogni tentazione quietistico-provvidenzialistica ma anche perché, in­ sistendo su quella dualità o, comunque, pluralità di motivi crociani, poneva all'indagine storica un pro­ blema molto serio, che non può essere in alcun modo evitato. E tuttavia, nel complesso, l'impianto della sua analisi rimaneva dominato dalla preoccupazione del pa­ ragone, dell'utilizzazione di un Croce umanisticamente « liberale » contro un Croce provvidenzialisticamente orientato a ripetere che la storia ha il diritto di schiac­ ciare gli individui ; e dinanzi alla crudezza di questa contrapposizione ( alla quale non erano estranei seri motivi etico-politici), lo storico di Croce sente innanzi tutto l'esigenza di ricondurre i temi di Croce al loro specifico ambiente problematico-categoriale, e di studiare in esso, con diversa disposizione critica, la loro coerenza o incoerenza, e le ragioni profonde del loro eventuale « contraddirsi». Mancava, insomma, a questi interpreti la pro­ spettiva « totale » della quale si è più volte parlato in queste pagine; e, data la posizione storica nella quale operavano, era in qualche modo inevitabile che quella prospettiva mancasse e che essi non sentissero il bi­ sogno di ricercarla e di costruirla. Per comprendere a fondo le ragioni della loro « parzialità » critica, oc­ corre dunque, innanzi tutto, storicizzare non solo l'og­ getto delle loro indagini, bensl anche, se cosl potesse dirsi, i singoli soggetti che le conducevano: un'analisi della critica crociana non avrebbe senso se non si po­ nesse esplicitamente come un capitolo organico di sto­ ria della cultura italiana. Ma si può dire altrettanto le­ gittimo e interessante l'atteggiamento di coloro che, nei nostri anni, seguitano a battagliare per il Croce umanista contro il Croce non umanista, piangendo 73

,

73 G. CALOGERO, La scuola dell'uomo, Firenze 1956 •, pp. 75-107 (per l'interpretazione, in questa stessa chiave, dello storicismo di Marx, cfr. il saggio su Il metodo dell'economia e il marxismo, Firenze 1944, pp. 89-91, e passim).

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calde lacrime e atteggiando il volto a pia contrizione ogni volta che, dietro l'umana fisionomia di questo signor Settembrini della nostra cultura, vedono spun­ tare i tratti assai meno rassicuranti del signor Naphta? Certo, tutto ha giustificazione nella storia, e le scioc­ chezze, quando abbiano un materiale contenuto di ve­ rità, sono probabilmente soltanto un modo anacroni­ stico di prender coscienza di certi problemi ( donde la frequente analogia tra ciò che è sciocco, in questo senso, con ciò che è anacronistico). Ma, francamente, il rispetto e la comprensione che sarebbe segno di scarsa intelligenza non tributare a coloro che per primi affrontarono il rischio di un'interpretazione «cri­ tica» della filosofia di Croce, non possono altrettanto agevolmente essere estesi a questi tardi nipoti. Che senso, infatti, avrebbe ormai un discorso volto a riba­ dire che in Croce ci sono tesi giuste ( e feconde) e tesi sbagliate, tesi che aiutano a vivere meglio e tesi che viceversa potrebbero indurre gli uomini in perico­ losi equivoci morali? Impostazioni come queste, più o meno orientate a distinguere in modo statico il vivo dal morto, possono essere giustificate solo dal vigore teoretico che le sorregge, dall'originale ripensamento di un' esperienza etico-politica, dalla nuova filosofia che contribuiscono a delineare sullo sfondo della fi­ losofia presa come termine di riferimento e di para­ gone. E questo fu, si è visto, il caso di coloro che, mossi da siffatti interessi, indagarono il pensiero di Croce negli anni compresi, all'incirca, tra la prima e la seconda guerra mondiale. Ma come non giova reduplicare la filosofia di Croce nell'apologia della filosofia di Croce, così non giova reduplicare l'atteg­ giamento critico e polemico di quegli interpreti in identiche o poco diverse interpretazioni storiche: nel­ l'uno e nell'altro caso, infatti, ci sarebbe o l'apologia o la ripetizione di una filosofia (nel primo, di quella crociana, nel secondo di quella degli interpreti di Croce ), ma non la filosofia stessa; ci sarebbe una « tra1 28

duzione » in altre parole di testi che sono perfetta­ mente intelligibili da chiunque nelle parole che li compongono, e che perciò non richiedono traduzioni di questo tipo ! Certo, l'intensità delle passioni politiche e morali che hanno agitato gli intellettuali italiani in questi anni del secondo dopoguerra, può bene indurre l'in­ terprete, che non desideri indulgere alla polemica per la polemica, ad esercitare, anche nei riguardi di co­ storo, la difficile arte della comprensione storica. Croce è stato troppo violentemente discusso, dal 1 945 ad oggi, perché accanto ad apologeti gelosi ed intrattabili e a spesso grossolani demolitori non sorgessero, per ovvia reazione, i ripetitori delle interpretazioni laiche ed umanistiche, ben consapevoli, almeno nelle astratte intenzioni, che una tradizione di pensiero come quella crociana non poteva essere né santificata né liquidata con poche ed ineleganti parole. Si dovrà allora con­ cludere che il giudizio espresso qui su era quanto meno affrettato , e che di conseguenza occorre conve­ nientemente temperarlo ed attenuarlo ? Ma quand'an­ che si dovesse concedere qualcosa a questa richiesta ( e non è affatto detto che si « debba » ), sta di fatto che l'interprete di oggi non può più ispirarsi , se vuol compiere un lavoro criticamente rigoroso, alla linea di quell'interpretazione ; perché, anche ammesso che i suoi attuali sostenitori siano mossi da oneste intenzioni di criticità e di rigore, appare ormai chiaro che il compito dell'interprete non è già di « salvare » una parte della filosofia di Croce contrapponendola ad altre parti, giudicate indegne di salvezza, bensì di comprendere tutta intera quella filosofia nel suo specifico ambiente storico e problematico, nel reale processo dei suoi motivi coerenti e incoerenti, armo­ nici e disarmonici, nelle sue affermazioni e nei suoi travagliati ritorni autocritici, insoQJ.ma nella sua di­ namica totalità. Nessuno, certo, nega che agli studiosi di storia impegnati in concrete ricerche la lezione di 1 29 19. 5

Croce possa seguitare ad apparire sotto il profilo me­ todologico 7 4 e critico delle molte pagine in cui quel grande studioso comunicò ad altri le sue vive espe­ rienze di lavoro: che questo poi, di fatto, avvenga molto spesso è una realtà che può piacere o non pia­ cere, ma con la quale è pur necessario entrare in rap­ porto aritico e storico. Per chi, tuttavia, intenda capire Croce nel rigore dei suoi temi e nel travaglio della sua ricerca, il problema si pone nei termini chiariti qui su; e si può aggiungere che solo per questa via, e non per quella della conservazione condizionata di qual­ che sua tesi, si potrà giungere a giudicare in concreto il valore della sua fìlosofìa e il significato delle sue impostazioni concrete. Senza dubbio ( e lo si è più volte notato), fu pro­ prio Croce che, per ragioni particolari della sua po­ lemica culturale ed etico-politica, accentuò quasi prag­ matisticamente il carattere non sistematico e libera­ mente antimetafìsico del suo pensiero, invitando più o meno esplicitamente i suoi lettori ad utilizzare in 7 4 La più recente presa di posizione in questo senso, che io conosca, è di F. DIAz, Filosofia, storia e vita sociale, « Il Ponte », 1963, pp. 1069-8 1 . Del resto già in Storicismi e sto­ ricità, Firenze 1956, p. 57 il Diaz aveva insistito nel sottoli­ neare quella « tale tendenza del sistema a soffocare le più ge­ nuine intuizioni filosofiche-storiche nella serie conclusa delle ' deduzioni trascendentali ' », rimandando a GARIN, Cronache, pp. 260-64, e ai saggi di Maturi e di Chabod. Mi pare op­ portuno osservare, per scrupolo di esattezza, che il termine « deduzioni trascendentali », che a giudicare dalla citazione del Diaz, sembra doversi attribuire al Garin, è in realtà incluso in un passo dell'articolo di S. SoLMI, Croce e noi, « La Rasse­ gna d'Italia », 1946, p. 257, che il Garin ( op. cit. , p. 261 n. 28) cita : e del resto di « deduzione » in questo senso aveva già parlato E. CoLORNI, L'estetica di Benedetto Croce, Mi­ lano 1932, p. 9 (ma tutto il libro, e in particolare il I capi­ tolo è da vedere per lo svolgimento della tesi); la precisa­ zione non è superflua, perché « deduzione trascendentale » è termine tecnico, che ha un preciso significato, poniamo, nel­ l'analitica kantiana, ma non si vede quale concreto significato possa avere nella filosofia di Croce.

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quel senso i risultati delle sue meditazioni '" ; e sa­ rebbe ingiusto non sottolineare il sottile e compli­ cato equivoco che in tal modo si determinava tra il filosofo e i suoi lettori e scolari. Il « pragmatismo 75 Sarebbe estremamente interessante, a mio parere, stu­ diare il modo in cui si è tradotto, presso i più consapevoli ed intelligenti crociani « professionalmente non filosofi », l'atteg­ giamento « anti-professionalmente filosofico » che Croce ribadl in tante e tante sue pagine. Un'indagine diretta a stabilire questa connessione finirebbe, credo, per mettere a nudo nel modo più efficace non pochi eguivoci e ambiguità; perché Croce insisté bensl a più riprese sulla concreta risoluzione della filosofia in storiografia; ma, a differenza di coloro che, fedeli a questo suo atteggiamento, si batterono con forza per realizzare tale risoluzione e si chiusero perciò, coerentemente, nei loro particolari campi d'indagine, egli conservò sempre ben vivo il senso della direzione unitaria del suo pensiero, della connes­ sione reale tra le indagini particolari in cui fece vivere la fi­ losofia. Non nego, certo, che in uomini (poniamo) come Luigi Russo e Carlo Ludovico Ragghianti ( e penso, per quest'ultimo, a certe pagine comprese nel Diario critico, Venezia 1957, e ne Il pungolo dell'arte, Venezia 1956) la consapevolezza di tali connessioni fosse (e sia) presente : dico solo che nelle loro opere non fu (e non è) concretamente operante : donde, nelle conseguenze culturali prodotte dal loro lavoro, il pericolo della perdita di tale consapevolezza e, con essa, del significato reale delle riflessioni di Croce. Per risalire a quella consapevolezza, la storicizzazione delle forme culturali in cui il crocianesimo visse (e vive ancora) appare come la condizione indispensa­ bile; e questa è la ragione per la quale una lettura « crocia­ na » di Croce, nel senso della collaborazione « teoretica » (penso, in modo particolare, alle indagini cosl serie e, bisogna aggiungere, ironicamente consapevoli di sé, dell'ultimo Antoni) mi sembra oggi meno interessante di quella ricostruzione « to­ tale » di cui ho cercato di delineare in queste pagine almeno la linea essenziale. Ricondurre ad un rigoroso accertamento critico delle reali tesi di Croce le stesse « guise » concrete in cui quelle tesi vissero ( e vivono tuttora, più o meno consa­ pevolmente) nella coscienza di tanti studiosi contemporanei, è, mi pare, l'unico modo per determinare criticamente i limiti di un'eredità e il nostro rapporto con essa. Si obbietterà che queste parole suonano come un'esigenza di liberazione? Può ben darsi: e può darsi anche che questa esigenza sia inevita­ bilmente presente in ogni rigoroso atteggiamento storiografico. Ma questo significa allora che la prospettiva « totale » di cui ho parlato in queste pagine non è un invito ( come da qualche

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storicistico» ( se è lecito adoperare questa espressione, che in ogni caso non dovrebbe ingenerare equivoci in questo contesto) contribul in tal modo, per un verso, ad insinuare nei crociani più vigorosi e consapevoli la coscienza di esser tutti diventati filosofi moderni in virtù delle loro stesse ricerche metodologicamente «consapevoli», ma per l'altro a tenerli lontani da quella che, più o meno consapevolmente, essi sentivano come la « filosofia »: donde l'oggettivo paradosso di uomini che, nell'atto stesso in cui rimproveravano agli attar­ dati rappresentanti di vecchie filosofie il mancato pos­ sesso di una filosofia veramente adeguata, erano pron­ tissimi a dichiararsi non filosofi, ma semplici critici e storici quando dalle questioni generali implicite nel loro lavoro fossero spinti ad entrare, esplicitamente, in discorsi di filosofia! Di questo equivoco, che a parere di chi scrive ebbe conseguenze gravi nella cul­ tura italiana (e che è ben lungi dall'essersi esaurito e chiarito), bisognerà parlare ancora, esaminando con rigore le varie « responsabilità». Ma bastano pochi accenni a far comprendere che, al limite, l'invito di Croce deve essere non tanto accolto quanto capito, cioè storicamente prospettato nella storia concreta del suo pensiero. Se infatti Croce non fu solo una « filo­ sofia», ma, come è stato finemente notato, una « cul­ tura », sarebbe grave se l'interprete di oggi trascu­ rasse di mettere nel dovuto rilievo il carattere dinaparte si è detto) alla filologia disinteressata, bens} piuttosto l'unico strumento che si riveli idoneo non solo a far capire Croce, ma anche a mettere in questione, in quell'atto stesso, l'interprete, le sue convinzioni, i suoi « presupposti », la reale motivazione critica di certe sue « adesioni » parziali o totali. Certo, il compito è difficile. Mi sembra tuttavia che solo spin­ gendo al limite estremo la ricerca « totale » delle ragioni pro­ fonde che costituiscono il tessuto della filosofia presa a stu­ diare, si possa giungere a criticare se stessi in modo serio e costruttivo. La storicizzazione dei « crociani » è dunque essen­ ziale quanto la stessa storicizzazione di Croce; perché i « ero­ ciani » possono essere, in questa prospettiva, un momento della nostra stessa coscienza !

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micamente unitario della sua opera; perché la cul­ tura di Croce fu anche una filosofia, un costante im­ pegno speculativo, un ininterrotto Streben autocritico, che non può in alcun modo essere risolto { se non ad­ dirittura dissolto) in una serie irrelativa di «degnità » . Anche nel caso, infatti, in cui s i ritenesse opportuno insistere ancora sulla contrapposizione o il contrasto tra il «sistema » e le varie «verità » ed «illumina­ zioni particolari » che costituiscono la trama del mi­ glior storicismo di Croce, come non comprendere che anch'egli visse a suo modo (e nelle forme concrete che il suo pensiero poteva assumere) il dramma di quella contrapposizione e di quel contrasto, che il «sistema » non fu per lui un tranquillo porto filoso­ fico ma un drammatico capo delle tempeste, e che tale consapevolezza è per l'interprete del suo pensiero il più delicato e difficile tra i molti problemi che questa filosofia pone a chi la studi con cura? Fosse anche vero (per riprendere un'immagine che ricorre, più di una volta, negli stessi scritti crociani 7 8 ) che il sistema fu per lui non il capo delle tempeste, bensì addirittura il capo dei naufragi, ebbene, si concederà che non tutti i naviganti naufragano nello stesso modo, e che Croce non fu di quelli che colano a picco ignari, con il sorriso sulle labbra e con il canto delle sirene nel cuore! Insomma, la filosofia di Croce non è un libero commento alla vita, scritto durante cinquant'anni di prodigiosa attività da un letterato sagacemente esperto dei vizi e delle virtù degli uomini, e che dalla sorte aveva av uto, per di più, il dono del bello scrivere ( che sarebbe pur sempre una degna concezione pic­ colo-borghese, come di chi si sentisse in diritto di abbellire i suoi discorsi con qualche massima ed afo­ risma di Goethe, ma di sbadigliare poi senza ritegno 6 7 Il detto, com'è noto, è in realtà di Rudolf von Jhering, che in tal modo definiva il rapporto tra diritto e morale (dr.

B.

CROCE, Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia del­ l'economia, ed. Attisani, Napoli 1925, p. 10).

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sulle pagine del secondo Faust ); non è nemmeno un geniale « memento » per gli · scrittori di storia. In realtà, se Croce non fosse che il felice autore delle postille e dei piccoli saggi della « Critica », il chiari­ ficatore sapiente di molti problemi concreti, che smar­ risce la sua più felice vena antlmetafisica nella prosa troppo elaborata del « sistema », francamente non var­ rebbe più la pena di studiarlo . Sarebbe in effetti un bel risultato se, dopo decenni di esegesi e di espe­ rienze critiche, l'analisi delle opere di Croce dovesse esser condotta nello spirito di una simile contrapposi­ zione tra « saggezza » e « filosofia » ! In realtà, con segno cautamente mutato, questa interpretazione si aggira ancora, in gran parte, entro i termini della vecchia condanna gentiliana ( e non solo gentiliana ) del crocianesimo come filosofia dei non filosofi, e di Croce come indagatore arguto ed elegante non già del centro profondo dello spirito 11 ( un luogo, evi11 Se ne vedano le espressioni conclusive all'inizio del saggio Storicismo e storicismo, in Il problema della storia cit., p. 195 ( = Introduzione alla filosofia, Firenze 1958 2 , pp. 259260) : « Questo modo più noto d'intendere lo storicismo è stato in Italia brillantemente sostenuto da uno scrittore molto chiaro, arguto e attraente, che lo ha universalmente divulgato come la conclusione della più elaborata filosofia dello spirito. Che è stata infatti una filosofia derivata e sorretta da un acuto senso della vita dello spirito; ma è rimasta sempre, per difetto di slancio e di coraggio speculativo, sul terreno della men­ talità scientifica intellettualistica ; s'è smarrita in una sterile avversione e rinuncia a ogni problema metafisico, censurato come residuo anacronistico della filosofia teologizzante d'altri tempi - come se poi fosse veramente possibile una filosofia degna di questo nome, la quale non teologizzasse - e s'è ri­ dotta ad una dommatica descrittiva di schemi pseudospirituali, in nessuno dei quali lo spirito può mai levarsi a volo poiché le ali gli sono state tarpate dai . limiti in cui venne artifiziosa­ mente rinserrato. Filosofia dello spirito in molti particolari fe­ licemente intuiti e illustrati alla brava ; filosofia, nel suo in­ sieme e nel suo significato unitario, antispirituale e incapace di raggiungere un concetto dello &J?irito. Una filosofia insomma, dato il concetto odierno della filosofia, che non è una filo­ sofia ». Questo autentico « compendio » dell'interpretazione gentiliana di Croce esime dall'obbligo di documentare ulterior-

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dentemente, dove arguzia ed eleganza non hanno di­ ritto di cittadinanza}, bensi della sua più remota ( an­ che se pittoresca ) periferia . E l'interprete del suo pensiero deve perciò respingerla con la medesima fermezza con la quale respinge ogni pretesa di elevare un qualsiasi sistema speculativo a misura e a criterio di valore di tutto ciò che nella storia si presenta sotto il nome di « pensiero », « :filosofia », ricerca intellettuale e concettuale. Se infatti la condividesse , mostrerebbe tra l'altro di non aver capito che, in questo contesto, « umanesimo » e « metafisica » non sono rigorosi e concreti criteri di indagine, ma solo le forme cristallizzate ( e in tale cristallizzazione ormai inconsapevoli di sé e della loro originaria funzione critica ) degli atteggiamenti polemici e critici che ac­ compagnarono, stimolarono e variamente condiziona­ rono il formarsi e lo svolgersi del pensiero di Croce : senza probabilmente avvedersene, rimarrebbe all'in­ terno di impostazioni contro le quali ha pur polemiz­ zato, pretendendo di mostrarne non solo il significato complessivo, bensi anche la chiusa unilateralità con­ troversistica ! VI Dalle pagine precedenti emergono tre significati di « totalità » che bisogna cercar di distinguere con mente l'atteggiamento di Gentile ( ma cfr. almeno la conclu­ sione del Sistema di logica come teoria del conoscere, Firenze 1940 •, II, pp. 371-84). Basterebbe un'analisi attenta, anche stilisticamente ( « le ali » dello spirito « tarpate dai limiti », fino a quello stridente « dato il concetto odierno della filoso­ fia » ), di questo passo, per rendersi conto dello « stile » di questa polemica, condotta da un uomo che aveva bensl po­ tente ingegno speculativo, ma che non doveva esser piena­ mente persuaso della verità delle sue tesi, se sentiva il bisogno di affermarle con tanta violenza verbale ( con il risultato di esser tradito dal suo stesso stile, che rischiava di divenire, in certi tratti, la caricatura di se stesso! ). 1 35

ogni cura per non cadere in pericolose e fastidiose confusioni. C'è, innanzi tutto, un concetto di « to­ talità» che coincide con la stessa struttura teorica che Croce dette alla sua filosofia: essa significa allora « spirito come relazione di forme», come unità delle sue distinzioni. In secondo luogo, « totalità » signi­ fica il continuo sforzo crociano di conferire un senso unitario alle sue meditazioni, il ritmo della sua cri­ tica e della sua autocritica, il processo di purificazione categoriale al quale incessantemente, come si è visto, egli sottopose il « sistema». Qui « totalità » sotto­ linea piuttosto un « conferimento di senso » che una teoria, piuttosto un movimento intenzionale (per usare il linguaggio di Husserl ) che una conchiusa filosofia ; e si comprende bene, allora, come questo atteggia­ mento rientri bensì nella « filosofia » di Croce dina­ micamente intesa, ma coincida solo parzialmente con il « sistema » inteso in senso stretto e formale. C'è infine un terzo conce tto o significato di « totalità», al quale bisogna prestare la massima attenzione, perché è il più delicato e facilmente equivocabile ; ed è quello per cui « totalità » non coincide né con la totalità esplicitamente teorizzata da Croce come « concetto puro», né con la totalità posta da Croce come limite ideale della sua ricerca. Non coincide con la prima per il semplice fatto che (come vedremo) la include compiutamente in sé ; ma non coincide neppure con la seconda, giacché altro è il ritmo critico-autocritico di un pensatore che tende ad « andare oltre», altra è la considerazione storica delle molteplici spinte ad « andare oltre » che costituiscono il tessuto della sua filosofia. Nell'accezione in cui la si prende qui, « to­ talità » significa il mobile e vario intrecciarsi di tutte le teorizzazioni di Croce, il loro reciproco implicarsi e condizionarsi così nel campo della logica come in quello dell'arte, così nel campo dell'economia come in quello dell'etica ; e a quel modo che l'insieme che esse compongono non è un concetto che il filosofo abbia mai esplicitamente ed immediatamente teoriz1 36

zato in quanto tale (perché è piuttosto il risultato del libero convergere di quelle teorizzazioni), cosi si comprende bene come esso si ponga al di là della sua riflessa consapevolezza, in una zona « trascendente » che è compito del critico indagare, analizzare, costruire nel suo significato effettivo. Si potrebbe dire, in­ somma, che, come nella Filosofia della pratica la vo­ lizione coincide bensi con l'azione, ma non coincide con l'accadimento (perché se l'azione è dell'uomo, l'ac­ cadimento è di Dio), cosi nella complessiva compagine della filosofia di Croce la « totalità » coincide con la stessa teorizzazione della totalità come relazione di forme o come concetto soltanto fin che, rimanendo nel suo interno, ci si impegni in un'analisi non ancora prospettica della coerenza delle sue tesi, ma non coincide più con essa quando da quei confini si esca proprio allo scopo di osservare e di intendere l'intero processo di quella filosofia. In questo suo terzo si­ gnificato, dunque, « totalità » non è né il « sistema » né l'atteggiamento di Croce verso il sistema: è l'unità di quei due significati nella più ampia unità che, al di là dell'esplicita consapevolezza crociana, il critico co­ struisce per intendere il senso e la direzione del suo pensiero. Da questo punto di vista cambia, com'è chiaro, la prospettiva entro cui bisogna assumere, per com­ prenderli, i vari libri nei quali Croce fissò le linee essenziali della sua filosofia e svolse i temi delle sue ricerche di storia e di critica letteraria. A quel modo stesso, infatti, che (per fare , un esempio) l 'Estetica del 1 902 è continuamente arricchita e « superata » dalle molteplici trattazioni che il suo autore venne aggiungendo al nucleo del suo trattato giovanile, così è evidente che questo complesso di riflessioni non può essere a sua volta isolato da quel più generale pro­ cesso di pensiero nel quale entrano, costituendolo, ricerche di logica storiografica e concreti libri di storia, indagini sulle categorie dello . spirito e particolari ri­ cerche di storia della filosofia. La conclusione può 137

sembrare paradossale: anche i libri di storia e di cri­ tica letteraria sono dunque libri di filosofi.a? Ma in effetti, ricostruire minutamente la dialettica degli op­ posti e la relazione dei distinti, il nesso tra queste due « serie » e la teoria dell'identità di giudizio indi­ viduale e giudizio definitorio, la fenomenologia degli errori o il vario ruolo del sentimento nella filosofi.a dello spirito, non è cosa qualitativamente diversa dal cercar di leggere a fondo nelle pagine che Croce de­ dicò a singoli momenti della storia d'Italia o d'Eu­ ropa ; perché in ognuna di queste ricerche egli non cercò solo di risolvere, alla sua maniera, i singoli pro­ blemi relativi all'ordine storico di quei « campi del sapere », ma persegui il telos intrinseco alla sua ri­ flessione, cercando di coglierlo in nuove prospettive critiche e a più complessi livelli di consapevolezza . Le pagine su Cavour e su Bismarck, nelle quali (nella Storia d'Italia e nella Storia d'Europa 78 ) culmina, 78 Cfr., su Bismarck, il giudizio della Storia d'Italia dal 1 871 al 1 915, Bari 1942 ', pp. 1 17-18 : « Ma nel 1870 Napo­

leone III era sopraffatto e sostituito dal conte di Bismarck, che rappresentava non già la ' politica realistica ' (rappresen­ tava anche questa, contro i romantici alla Federico Gu­ glielmo IV e i democratici sognatori alla Mazzini, e non certo contro un Cavour, sommamente realistico e non punto a lui inferiore in diplomatica genialità), sibbene quella rea­ zionaria del governo semiassoluto e burocratico, col vecchio re e col vecchio Dio, più o meno biblico. Tale il significato specifico della ' forza ', di cui egli parlava, ossia non la forza che è in ogni politica seria, ma la forza degli antichi regimi e degli antichi istituti e costumi e dei loro uomini, signori di spiriti e costumi feudali e soldati del re e dell'impera­ tore »; e cfr. ib., pp. 1 19 sgg. lo svolgimento delle osserva­ zioni sulla « forza » bismarckiana nel quadro della storia ita­ liana ed europea. Il giudizio su Bismarck e Cavour, che percorre la Storia d'Europa nel secolo decimonono (Bari 1943 8 ), culmina nella contrapposizione degli opposti caratteri del risorgimento italiano e tedesco. Cfr. Storia d'Europa, pp. 247-48 : « Se il risorgimento italiano era stato il capola­ voro dello spirito liberale europeo, questo risorgimento della Germania era il capolavoro dell'arte politica e della unita virtù militare: due capolavori a un dipresso altrettanto differenti

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in certo senso, tutta una fase della sua meditazione sopra i problemi del liberalismo e della vita politica, non sono meno importanti, per capire a fondo la sua filosofia, delle pagine che , pochi anni prima di por mano a quelle illustri opere di storia, egli aveva dedicato, negli Elementi di politica, ai classici temi della forza e del consenso, dell'autorità e della libertà, della legge e della individuale spontaneità dell'azione ; per­ ché le une e le altre si legano, approfondendolo, ad un ordine di questioni direttamente concernenti il nucleo stesso della ricerca crociana . Per questo, si ca­ pirebbe ben poco di quei due libri di storia ( ma anche , com'è chiaro, della Storia del regno di Napoli e della Storia dell'età barocca in Italia ) se semplicemente si dicesse che presuppongono bensl la metodologia e la filosofia del loro autore, ma per obbedire poi es­ senzialmente, in quanto libri di storia, ad una diversa , autonoma, ispirazione ( indeducibile dalla teoria); per­ ché, altro è dire che un libro di storia non può esser ridotto ad una predica in favore di idee che non hanno nulla a che vedere con i fatti narrati, altro, evidente­ mente, è negare che , narrando quei fatti, Croce ve­ nisse approfondendo e ulteriormente prospettando i temi essenziali del suo pensiero. Nel primo caso, m­ fatti, si direbbe cosa giusta, ma ovvia; nel secondo, ci si impegnerebbe, nel modo più acritico, in un'af-

quanto una poesia bella e una macchina possente ; e alla creazione bismarckiana, come quella che era e voleva essere attestazione di potenza, non occorreva altra giustificazione, e nemmeno le si addiceva la finzione giuridica dei plebisciti, simbolici a significare l'anima liberale, ma inetti, pur come simbolo, dove l'opera era stata condotta, e s'intendeva che dovesse esser continuata, unicamente dall'autorità dei prin­ cipi e del principe dei principi, il re di Prussia, ora impe­ ratore tedesco ». Non insisto nella citazione di altri luoghi ( ma si ricordi almeno quel che di Bismarck si legge nel saggio assai importante per la storia del pensiero politico di Croce, La guerra come ideale, in Discorsi di varia filosofia, II, pp. 173-74) : basti sottolineare l'estrema importanza di questi luoghi crociani per un approfondimento concreto della sua riflessione sui problemi dell'etica e della politica.

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fermazione retorica! In realtà, solo chi abbia valutato a fondo il significato che l'inquieta ricerca fìlosoftca degli Elementi ha nella storia morale e speculativa di un uomo che aveva vissuto come pochi i problemi della prima guerra mondiale, di quella sinistra « Welt­ fest des Todes » ( come ebbe a definirla amaramente Thomas Mann 7 9 ) dalla quale dovevano derivare con­ seguenze cosi distruttive per l'intera vita europea; solo chi abbia cercato di leggere con attenzione in queste pagine tutt'altro che pacifiche e pacificate, può intendere la genesi profonda di quei libri di sto­ ria, il posto che occupano nello svolgimento del pen­ siero di Croce. Né, come è chiaro, si dovrà sostenere che il rapporto riguarda bensl il pensiero politico e la storiografia, ma non anche l'estetica e la teoria del giudizio; perché basta pensare all'estrema complessità dei problemi posti in questi libri per vedere come l'in­ tera concezione della vita spirituale dovesse esserne inevitabilmente chiamata in causa. Insomma, le opere di storia di Croce sono esse stesse momenti di un travaglio di pensiero che non può essere scomposto nei suoi elementi, e trattato, per cosi dire, analitica­ mente - da una parte la storiografia ( nelle sue con­ nessioni con la metodologia della storia), dall'altra la critica letteraria ( nelle sue connessioni con l'este­ tica), � via dicendo. E, di conseguenza, è ormai neces­ sario abbandonare decisamente ogni interpretazione che tenda a prospettarle come conchiuse nella loro presunta autonomia di libri di storia, che in tanto riescono a raggiungere il loro alto livello in quanto chi li scrisse era bensl anche un filosofo, ma innanzi tutto, in quel caso, uno storico autentico, obbediente, 79 TH. MANN, Der Zauberberg, Berlin 1962 •, p. 657 ( e si ricordi il contesto, cosi importante per la storia dell'at­ teggiamento politico di Mann, in cui queste parole ricorrono : « Wird auch aus diesem Weltfest des Todes, auch aus der schlimmen Fieberbrunst, die rings den regnerischen Abendhim­ mel entziindet, einmal die Liebe steigen? » ).

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in quanto tale, alla voce profonda di una nativa ispi­ razione. VII

S'intende quindi come, dopo aver fornito le armi per criticare le interpretazioni « umanistiche» nelle loro varie forme, il criterio della « totalità» offra altresl le armi per criticare non solo ogni imposta­ zione angustamente « monografica», ma anche quella complessiva analisi dell'opera storica di Croce che nel 1 952, a pochi mesi dalla sua morte, la cultura ita­ liana espresse con il celebre saggio di Federico Cha­ bod • • . Non è necessario, in questa sede, venir espo­ nendo nella sua interezza l'argomentazione svolta in quelle pagine sottili ed eleganti, dense di analisi e di stimolanti suggerimenti critici; e nemmeno è necessario illustrare la positiva funzione che, nel com­ plesso, esse svolsero nel quadro di una storiografia ricca bensl di fermenti e di idee, ma anche singolar­ mente incapace, tra le diverse suggestioni di troppe prospettive in contrasto, di raggiungere un sicuro punto di vista critico. Scritto in un periodo in cui gli orientamenti fondamentali della storiografia mar•• F. CHABOD, Croce storico, « Rivista storica italiana », 1952, pp. 473-530. La prima redazione ( assai più succinta) del saggio fu pubblicata nel volwp.e composto di scritti di vari autori, Omaggio a Benedetto Croce. Saggi sull'uomo e sul­ l'opera, Torino 1953, pp. 51-54. Per alcuni svolgimenti nella storiografia filosofica delle tesi di Chabod ( che trovarono con­ senzienti studiosi di filosofia come Abbagnano e Garin, Paolo e Pietro Rossi, per limitarsi a qualche nome) mi permetto di rinviare al mio Profilo di Federico Chabod, Bari 1961, pp. 104 sgg., nel quale, tuttavia, per ragioni generali di equi­ librio compositivo, manca un'analisi specifica di questo scritto. Eseguendola alla fine di questo saggio, il mio proposito è stato non di colmare una lacuna, bensl di svolgere alcune delle os­ servazioni che, in forma alquanto « implicita », avevo presen­ tato nell'ultimo paragrafo del Profilo, pp. 187-9 1 .

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xista non riuscivano ancora ad emergere con chia­ rezza da un dibattito spesso assai confuso, e gli stessi rappresentanti della storiografia liberal-crociana diser­ tavano il campq_ della discussione, adducendo (non sempre a torto) la ragione delle troppe parole di « metodo » spese in età idealistica " ' , il saggio di Cha­ bod ebbe il merito non solo di richiamare le menti alla severità di un discorso criticamente rigoroso, ma anche di offrire di quel disagio ovunque diffuso nella cultura storiografica italiana una giu­ stificazione profonda, che era quasi involontariamente implicita (e questo è l'aspetto più interessante della questione) nella sua stessa interpretazione delle opere storiche di Croce. A Croce, infatti, Chabod non era giunto attra­ verso il vigoroso (e magari incompiuto) travaglio speculativo che aveva segnato il cammino di uno stu­ dioso come Adolfo Omodeo. Formatosi in un'età in cui il contrasto filosofico tra gli idealisti già si tingeva dei colori etico-politici della lotta tra fascismo e anti­ fascismo, educato, in Italia e in Germania, alla scuola della più severa filologia, il pensiero di Croce fu da lui vissuto non nel rigore formale dei suoi elementi 1 • Gli esempi potrebbero essere, in proposito, estrema­ mente numerosi, né tutti attestanti il medesimo livello di con­ sapevolezza. La espressione più alta di questa insoddisfazione per le dispute metodologiche è probabilmente costituita, in storiografia, da quella tendenza a tornare a Ranke (anche se ben pochi, poi, in Italia, si siano messi a studiare direttamente i testi dello storico tedesco) che è spesso esplicita sia in Chabod (Croce storico, pp. 510-1 1 , 525) che in Maturi, e che dà bene il senso di un disagio profondo, non analizzato adeguatamente. Di questa tendenza ho parlato, variamente, nel Profilo, pp. 104109, e torno, per accenni molto rapidi, a parlare qui. Per altre manifestazioni di questo disagio, si può vedere G. FALCO, Pa­ gine sparse di storia e di vita, Milano-Napoli 1959, pp. 546565, 566-69. La posizione di Arnaldo Momigliano, che ha por­ tato nelle sue preoccupazioni di metodo la coscienza di diffi­ coltà specifiche del suo lavoro di storico antico, va ovvia­ mente studiata a parte, e in un più ampio quadro di espe­ rienze europee.

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costitutivi, non nella questione delle categorie o della distinzione ( che aveva, appunto, appassionato Omo­ deo ) tra res gestae e historia rerum gestarum , bensl nel suo più ampio significato culturale. Leggendo Croce, Chabod non si riproponeva i problemi che tra­ vagliavano Croce ; sensibile alle questioni di metodo, rimaneva tuttavia l'uomo delle sue particolari ricerche, uno storico puro. Considerando il filosofo napoletano come un contemporaneo già rivestito dei panni curiali della classicità, Chabod apprezzava la sua lezione etico­ politica di grande intellettuale europeo, la classica raffi­ natezza della sua critica letteraria; e come nel suo ani­ mo era fortissimo il senso delle vette e dei vertici cui il pensiero di un'età sale per virtù dei grandi spiriti, così Croce gli apparve come l'uomo al quale la sorte ha affidato il compito di esprimere il senso di una cultura e di guidarla, con severità, attraverso gli aspri sen­ tieri delle scienze umane. Crociano in questo senso lato del termine, Chabod rappresentò tuttavia il pre­ coce esempio di un atteggiamento di pacato distacco storico, quasi che l 'esser crociano significasse per lui collocare il maestro in una prospettiva già compiuta e giudicata, il più possibile lontana, sopra tutto , dalle quotidiane « cure » del suo personale lavoro di studioso di storia. Come negare il vantaggio che, ad un uomo di tanta finezza intellettuale e di cosl larga cultura europea, questo atteggiamento avrebbe con­ cesso nell'atto in cui si fosse posto a studiare diretta­ mente la storiografia di Croce? E tuttavia non si può far a meno di aggiungere, con recisa chiarezza, che il distacco implicito nel « crocianesimo » di Chabod era a sua volta la conseguenza di una scarsa disposizione ad affrontare nelle loro specifiche difficoltà i momenti essenziali di quell'esperienza concettuale 8 2 , e quindi 82 Per questi motivi, e per gli altri che verranno addotti in seguito nel testo, non riesco a condividere il giudizio di GARIN, Cronache, p. 266 n. 3 1 , secondo il quale Chabod fa­ rebbe « convergere l'esame delle opere storiche e di quelle teo­ riche ,., avviando in tal modo, per primo, un effettivo appro-

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a prospettare i problemi del Croce storico nel quadro complessivo di una unitaria esperienza di pensiero . Malgrado la finezza non comune della sua intelli­ genza, Chabod rappresentava ormai (nella forma più nobile) il radicale divorzio tra filosofia e storia. Di qui, dunque, da questo atteggiamento di quasi rankiano distacco dalle passioni e dai tormenti della filosofia, le tesi più caratteristiche del saggio di Cha­ bod; di qui, sopra tutto, quella insistenza sugli aspetti originari (anzi, «naturali») della «disposizione» di Croce alla storia, che in effetti costituisce la nota più profonda, l'accordo fondamentale di queste sue pa­ gine. Cosi, ad esempio, messosi di fronte alla breve commemorazione crociana di Omodeo e alle osserva­ zioni che in essa il filosofo aveva fatto sulle cosl dette disposizioni naturali degli studiosi piuttosto per la filosofia che per la storia o, viceversa, piuttosto per la storia che per la filosofia, Chabod poteva significa­ tivamente osservare che, certo, come e più di Omo­ deo, anche Croce aveva avuto in dono quelle due qua­ lità, ma che tuttavia l'istinto storico aveva parlato in lui ben prima di quello filosofico e «il bisogno di rifar l'animo ' antico ' e di rinchiudere la fantasia nelle vecchie memorie» aveva precorso «il bisogno di fondimento critico del problema. È vero bensì (e qui sono del tutto d'accordo con il Garin) che la spregiudicata analisi di Chabod serve a far capire Croce molto più delle apologie di tanti crociani ortodossi; ma debbo ribadire che, a mio parere, la convergenza di opere storiche e di opere teoriche nell 'ana­ lisi della storiografia crociana, è realizzato da Chabod non già nel senso di vedere il concorde approfondimento che, per quelle due vie, Croce operava nel suo pensiero (senza aggettivi ! ), bensì piuttosto nel senso di stabilire connessioni del tutto for­ mali tra metodologia e storiografia (salvo, poi, sistematicamen­ te, a rivendicare il valore autonomo e originario della storio­ grafia). Il pregio del saggio di Chabod, il suo insostituibile si­ gnificato nel quadro di una crisi sottile della cultura italiana, sta proprio in questo suo carattere: ed è necessario compren­ derlo bene, se si vuole cogliere il senso particolare del suo « crocianesimo ».

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sistemare concettualmente il proprio metodo » 1 " . Un'osservazione, questa, senza dubbio assai interes­ sante, ma, già sul piano dei fatti, parecchio discutibile; perché se è vero, come Chabod ricordava, che il Croce giovinetto fu appassionato lettore e ascoltatore di « ogni sorta di racconti » ••, vero è anche che la prima seria esperienza spirituale della sua vita fu la crisi religiosa che egli visse al tempo del liceo e che, per la prima volta, insinuò nel suo animo, « sin allora inerte a quei problemi », il « lievito » della filosofia ••. E ancora, come dimenticare che la stagione dedicata alla ricerca erudita fu preceduta da un'intensa, anche se disordinata, attività speculativa, dall'impegnativa ri­ cerca di un principio che potesse sostituire quello ormai perduto della fede, e insomma, come scrisse in una bella pagina del Contributo, da un filosofare sollecitato« dal bisogno di soffrire meno e di dare qual­ che assetto alla mia vita morale e mentale » "" ? Pro­ fondamente segnato da quella sofferenza, Croce in­ terpretò più tardi la « parentesi » erudita della sua vita senza avversione, ma con severità; perché se in quel periodo egli riusd a vincere nell'intenso lavoro •• UIABOD, Croce storico; p. 475. Nella prima redazione del saggio ( Omaggio cit., pp. 51-52) quest'osservazione dà ad­ dirittura inizio alla trattazione, e assume quindi un partico­ lare rilievo polemico. 04 Contributo alla critica di me stesso, p. 15 ( = Etica e politica, p. 365 ). •• Contributo, pp. 20-21 ( = Etica e politica, p. 371). •• Contributo, p. 27 ( = Etica e politica, p. 376). Ma cfr. in genere tutto quel che Croce narra, ib. , pp. 19 sgg. ( = Etica e politica, pp. 370 sgg.) sulle vicende interiori di quegli anni giovanili. E cfr. anche, ib. , pp. 24-25 ( = Etica e politica, pp. 373-74) il modo in cui Croce pone in rapporto il suo angoscioso tormento di quegli anni ( « Quegli anni fu­ rono i miei più dolorosi e cupi : i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bra.mato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio ») con le ricerche erudite da lui condotte nella bi­ blioteca Casanatense di Roma, « allora servita ancora da mo­ naci domenicani e coi banchi provvisti di calamai dal grosso stoppaccio, di polverini dalla sabbia dorata e di penne d'oca ».

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l'inerzia angosciosa che gli aveva fatto addirittura sfiorare idee di suicidio, soltanto la filosofia gli dette poi il senso di una vita non solo di lavoro, ma di lavoro utile ad una più vasta comunità di uomini " 1 • Ma, quale che sia il fondamento obiettivo di questa osservazione, rimane il fatto che di quell'i­ stinto, di quel « fiuto» storico (come Chabod anche lo chiama), che negli uomini che lo posseggono agisce ben prima che in essi sorga l'esigenza di giustificarlo e « sistemarlo» razionalmente, Chabod fa il leitmotiv della sua interpretazione; e come egli riteneva che l'istinto fosse nello storico « di razza» un prius na•• Contributo, pp. 27 sgg. ( = Etica e politica, pp. 374 sgg.). Può essere interessante rilevare, nella narrazione di Croce, come anche nel maggior fervore della ricerca erudita la filosofia si affacciasse a tratti prepotentemente al suo animo, ed egli cer­ casse di dare ascolto alla sua voce ricercando qualche testo filosofico che potesse soddisfarlo (Contributo, p. 28: « mi pro­ vavo a leggere, in certi ritorni su me stesso, qualche libro di filosofia ( quasi sempre tedesco, perché la fede nel ' libro tede­ sco ' mi era stata inculcata dallo Spaventa e rafforzata dal La­ briola ), ma non l'intendevo bene e mi scoraggiavo, persuaso che il non intendere fosse sempre mio difetto e non mai in­ trinseca inintelligibilità e artificiosità di quei sistemi »): e cfr. anche quel che si legge nel saggio Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia, in appendice a A. WRIOLA, La concezione materialistica della storta, Bari 1941 •, p. 268 (e an­ che in Materialismo storico ed economia marxistica, Bari 1 946 8 , p. 272 ). :B evidente, insomma, che la ispirazione storiografica non parlò affatto, in Croce, prima di quella filosofica; se mai è vero il contrario. Ed anche per questa ragione non interpreterei nel senso di Chabod ( Omaggio, pp. 51-52), il passo del 1951 in cui Croce sostiene di aver scritto più libri di storia che di filoso­ fia, e che la sua vita si spese « dapprima negli studi storici, e più tardi e senza tralasciare, anzi intensificando, i primi in quelli filosofici ». Croce non voleva certo dire, con queste parole, che la passione per la storia avesse preceduto in lui quella per la filosofia ( tutto il Contributo, in effetti, sta Il a provare il contrario) : e del resto basta pensare alla vivacità polemica con la quale egli reagl al rilievo ( di origine attualistica) se­ condo cui la genesi contrastata della sua vocazione filosofica avrebbe avuto conseguenze negative sul rigore della filosofia dello spirito (cfr. da ultimo, Terze pagine sparse, II, pp. 8687), per comprendere come stiano in effetti le cose.

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turale, un'inclinazione irresistibile dell'intera persona­ lità (come, a suo giudizio, la politica per Machiavelli e la musica per Mozart 8 8 ) , un'invincibile tendenza dell'uomo a rifare «l'animo antico» e a «riparare nella più vasta ombra delle memorie» 8 0 , così era ine­ vitabile che nella trattazione della storiografia di Croce questa convinzione balzasse fin dall'inizio in primo piano, e la filosofia divenisse un posterius, una realtà in fondo imbarazzante della quale, malgrado ogni suo 88 F . CHABOD, Machiavelli, in Il Cinquecento, Firenze 1954, pp. 16-17 (e il mio commento nel Profilo di Federico Chabod, pp. 22-24, da tener presente anche per l'indicazione di altri luoghi chabodiani). •• Sono parole di una bellissima « prosa » crociana, Un angolo di Napoli, in Storie e leggende napoletane, Bari 1942 •, p. 13 (e cfr. ib. , pp. 1 2-1 3 : « È dolce sentirsi chiusi nel grem­ bo di queste vecchie fabbriche, vigilati e tutelati dai loro sem­ bianti familiari; quasi come il ritrovarsi nella casa dove vivem­ mo la nostra infanzia, e venirvi riconoscendo gli oggetti che primi svegliarono la nostra fantasia e ci mossero a fanciullesche immaginazioni, e rimirarvi i severi ritratti dei morti che c'in­ cussero un tempo rispetto e paura » ). Non nego, certo, che anche questo amore per il passato, che preme tutto d'intorno con le sue memorie spingendo l'uomo a rifare l'animo antico, sia elemento importante per comQrendere la qualità della vo­ cazione crociana alla storia : contesto che di esso si possa fare un prius psicologico, bastevole di Qer sé a far intendere la pro­ fonda natura (gli « uomini in carne ed ossa » di cui parla Chabod) della storiografia di Croce. Mi sembra importante, per il chiarimento di questo punto, proprio un breve saggio che il filosofo compose nel 1946 per contestare il nesso tra nostalgia del passato e giudizio storico stabilito da Omodeo in un arti­ colo rimasto interrotto per la morte dell'autore ( se ne veda l'inizio in « Quaderni della " Critica " », 5, 1946, pp. 10-13 = A. 0MODEO, Il senso della storia, Torino 1955 2 , pp. 617-20). Dopo aver chiarito che la « nostalgia del passato è uno dei modi del piacere dell'immaginazione », Croce si chiede : « Se quel sentimento si esaurisce nella mera immagine, come po­ trebbe fornire il motivo e il cominciamento del processo sto­ rico? » (La nostalgia del passato e la ricerca storica, in Filo­ sofia e storiografia cit., pp. 1 14-15). Mi pare che quest'osser­ vazione di Croce possa essere utilizzata anche da chi studia la sua filosofia-storiografia ( anche se, proponendo il problema in tutte le sue implicazioni categoriali, potrebbero venir fuori, in proposito, grossi problemi).

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sforzo, il critico non riusciva effettivamente a cogliere la fisionomia e a stabilire il ruolo e la funzione nel­ l'organismo dell'insieme. Un posterius e, in certi casi, un prius ; un epilogo e, in certi casi, un prologo, un'in­ troduzione astrattissima, tendente a stabilire in linea generale i principi concretamente operanti in una ricerca spontaneamente guidata, nei momenti felici del­ l'ispirazione storica, dall'istinto: in entrambi i casi, qualcosa di aggiunto, di estrinseco, di non veramente fuso con il dramma della autentica rievocazione del passato. Un prologo o un epilogo non necessari: ben scritti, ma superflui ! Certo, sarebbe ingiusto affermare che nel saggio di Chabod il processo di maturazione caratterizzante l'arco della storiografia di Croce non sia colto e in qualche modo sottolineato. Basta pensare alle osser­ vazioni sulla Storia del regno di Napoli ( il capola­ voro, per lui, del Croce storico) e su ciò che la distin­ gue dalla Storia d'Europa • • , per vedere come Cha­ bod si ponesse i problemi dello svolgimento e delle differenze. E tuttavia, proprio qui, dove le sue pagine si fanno più attente a questi problemi, il lettore ri­ mane con l'impressione di una fondamentale staticità di valutazione; quasi che, dopo aver sottolineata ( senza novità esegetiche e autentico interesse al tema 9 1 ) •• Croce storico, pp. 488-92 e .507-1.5. Va notato, per al­ tro, contro certe grossolane semglificazioni della linea inter­ pretativa di Chabod, che la valutazione della Storia d'Europa è nelle sue pagine, ben più complessa di quanto si sia spesso cre­ duto: di quest'opera Chabod mette bensl in luce l'eccessiva « spiritualizzazione » della trama dei fatti, ma non senza ag­ giungere che essa comprende « alcune delle pagine più potenti mai scritte da Croce » (Croce storico, p . .507). 11 Chabod distingue, com'è noto (Croce storico, pp. 483 sgg., 486) due intuizioni crociane dell'uomo: una « di evidente eredità hegeliana », che, prospettando l'individuo nel grande quadro dello Spirito del Mondo, lo ridurrebbe a « simbolo » dell'universale; l'altra, realizzantesi sopra tutto nelle opere sto­ riche, per la quale l'individuo è un uomo in carne ed ossa, con le sue complesse passioni umane. Non discuto questa im­ postazione. Mi sembra tuttavia evidente che, nelle pagine di

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i mutamenti intervenuti . nella concezione crociana della storia, Chabod si limitasse a registrarne le con­ seguenze sulla concreta narrazione storica, ben fermo d'altra parte nell'idea che i pregi di questa sono sem­ pre costituiti, quando ci sono, da quel «fiuto» che vien prima di ogni teoria e che anche in Croce non è in alcun modo deducibile dalle sue impegnative di­ scussioni di logica storiografica. Cosl, ancora una volta, gli sfuggiva che le opere di storia non sono, in Croce, semplice «applicazione » della teoria., e di una teoria, per di più, che egli, Chabod, era pronto a svalutare e a mettere tra parentesi quando si trat­ tava di decidere in concreto del loro specifico valore di opere di storia. E ancora una volta, di conseguenza, la filosofia non trovava posto nelle pagine dell'inter­ prete. L'amore per il particolare concreto ed irrepe­ tibile, il senso duttile e corposo non del pallido sim­ bolo hegeliano in cui sfuma la concretezza di un'età, di un contrasto sociale, di una lotta politica (ma sono poi cosl pallide le figure storiche della Fenomenolo­ gia? ), bensl dell'uomo, come si dice, in carne ed ossa: questi per Chabod, i caratteri eterni della grande sto­ riografia dei Tucidide e dei Guicciardini, dei Ranke e dei Croce. Caratteri eterni, eguali in ogni storico al di là delle varie filosofie e delle varie visioni del mondo: e che tanto meglio sarà possibile individuare nelle sue pagine quanto più costui avrà saputo racco­ gliersi in se stesso ad ascoltare le voci genuine del­ l'ispirazione. Ma allora si comprende perché Chabod non dia mai l'impressione di esser riuscito a cogliere in Croce quella continua metamorfosi della filosofia in narrazione e della narrazione in filosofia che, certo, non è la caratteristica né di Guicciardini né di Ranke, ma è bene la caratteristica di Croce, quella che biChabod, questa impostazione deriva da un'interpretazione del pensiero di Croce, che egli non ha creduto di dover verificare nei suoi presupposti teoretici e nei suoi motivi culturali pro­ fondi. Anche di Hegel, per conseguenza, si parla, qui, in modo alquanto « simbolico ».

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sogna intendere per intendere la sua opera. E si com­ prende anche perché le sue famose osservazioni sulla sfasatura e il contrasto tra Spirito del Mondo e concezione morale-liberale della storia risultino, alla prova dei fatti, poco argomentate e dunque poco persuasive: perché il criterio che le guida e le regge è pur sempre quell'istinto storico che, elevato alla dignità di criterio d'interpretazione, non può non sve­ lare la sua intrinseca inadeguatezza. L'interpretazione di Chabod potrebbe dunque esser definita come una sottile ed elegante lettura di Croce in chiave rankiana; una commisurazione continua dei suoi caratteri a quell'astorico principio dell'istinto che in tutti gli scrittori di storia agirebbe ad un modo, e che in Ranke, appunto, i,i espresse nelle classiche forme del suo « oggettivismo » - E senza dubbio il « ritorno a Ranke », uno storico a proposito del quale Chabod non accettò mai la dura svalutazione crociana, costituisce l'aspetto più in­ teressante, culturalmente e storiograficamente, di questa sua interpretazione. Ma il« rankismo » di Cha­ bod agisce in queste sue pagine come insufficiente senso delle connessioni, come continua riduzione della storiografia crociana ad un modello valutativo che non potrebbe esserle più estraneo; e dunque, contro le intenzioni dell'autore, proprio come immediata e pa­ radossale negazione di quel « rankismo », che pur avrebbe dovuto consistere nella superiore capacità di intendere i fatti secondo la legge del loro reale essere accaduti, e le idee secondo i loro propri prin­ cipi! Malgrado la magistrale finezza di tante analisi e la rara eleganza del taglio letterario, il saggio di Cha­ bod indica una via che non può essere seguita, anche se, com'è ovvio, la complessa esperienza storiografica che esso presuppone debba esser resa esplicita, e me­ ditata in tutto il suo significato.

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VIII

Queste « premesse » sono state scritte con l'inten­ zione di chiarire in che senso debba esser condotta l'analisi della storiografia di Croce (e, com'è chiaro, di qualsiasi tema particolare del suo pensiero). Di qui il loro tono prevalentemente metodologico, in qualche caso addirittura esortativo, e il carattere sommario delle varie analisi concrete che pur vi sono conte­ nute. Queste pagine attendono dunque di essere messe alla prova della diretta interpretazione dei testi: ma anche in questa forma introduttiva possono forse of­ frire qualche spunto, non del tutto indegno, alla di­ scussione.

INDICE

Intorno alla storia della filosofia e ad alcuni suoi problemi Per un'interpretazione di Croce

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Finito di stampare nell'aprile 1967 nello stabilimento d'arti grafiche Gius. Laterza & Figli - Bari 739