L'interpretazione di Mozart al pianoforte 8886642237, 9788886642231

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L'interpretazione di Mozart al pianoforte
 8886642237, 9788886642231

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L’INTERPRETAZIONE DI MOZART AL PIANOFORTE

EVA e PAUL BADURA- SKODA

L’INTERPRETAZIONE DI MOZART AL PIANOFORTE

5900

ZANIBON

© 1957 by EDUARD WANCURA VERLAG, Wien Prima edizione in lingua tedesca

1962 1963 1972 1974

-

Prima edizione in Prima edizione in Prima edizione in Prima edizione in

lingua inglese lingua giapponese lingua russa lingua francese

Copyright © 1980 by ZANIBON - CASA RICORDI S.r.L - Milano Prima edizione in lingua italiana Copyright © 1989 by ZANIBON - CASA RICORDI S.r.L - Milano Seconda edizione in lingua italiana Tutti i diritti riservati - All rights reserved

GZ 5900 ISBN 978-88-86642-23-1

PREFAZIONE alla prima edizione tedesca

Questo libro è frutto di un lungo ed affettuoso studio di Mozart. La scoperta e la più intima conoscenza di nuovi aspetti dell'opera e della personalità di Mozart, hanno accresciuto il nostro amore per la sua musica e la nostra ammirazione per questo uomo ed artista unico. Ci sembra pertanto incredibile che alcuni, non solo amanti della musica ma anche musicisti di professione, non trovino nulla nella musica di Mozart. Per quanto semplice e lineare essa possa sembrare al profano, ogni musicista ne conosce l'intrinseca complessità, ['equilibrio di contenuto e forma, così diffìcili da ricreare. L'esecuzione di Mozart è il vero banco di prova del buon gusto musicale. Si sa che una buona esecuzione di Bach richiede consapevolezza dei problemi stilistici e conoscenza dello stile del tempo e del compositore; ciò vale anche per Mozart. Questo libro, infatti, si propone lo studio dello stile di Mozart; non conoscerlo significa non poter completare, in forma quanto più possibile aderente alle intenzioni del compositore, i brani che, in molte opere, sono soltanto abbozzati; non poter comporre cadenze stilisticamente accurate per i suoi concerti, o ampliare le scarse indicazioni dinamiche, o eseguire in modo corretto gli abbellimenti, e così via. A questo punto vorremmo avvertire il lettore che se i nostri esempi musicali differiscono dai testi delle più note edizioni stampate, ciò è dovuto al fatto che, per quanto ci è stato possibile, li abbiamo tratti dai manoscritti di Mozart o da fonti attendibili più immediate. Naturalmente ci sono limiti ad ogni conoscenza dello stile di Mozart, perciò, nella trattazione di alcuni problemi, si potranno esprimere soltanto punti di vista strettamente personali. // nostro intento non è di rendere accettabile la somma delle nostre conclusioni, quanto di mettere in luce problemi d'interpretazione ed aiutare a risolverli. Anche se spesso abbiamo scelto opere per pianoforte, come punto di partenza, il libro non è dedicato esclusivamente ai pianisti. Abbiamo 5

esaminato anche composizioni per altri strumenti e violinisti, cantanti e direttori d'orchestra vi troveranno molto che li interessi. Siamo felici di cogliere questa occasione per ringraziare sinceramente i nostri stimati maestri, il compianto pianista Dr. Edwin Fischer, i Professori Wilhelm Fischer e Viola Them, per tutto quanto ci hanno insegnato. 1 nostri più sentiti ringraziamenti vanno anche a tutti coloro che ci hanno aiutato nella compilazione dell'edizione tedesca; in particolare al Professore Alfred Orel, al direttore d'orchestra George Szell, al Professore Hellmut Federhofer e al Dr. Oswald Jonas. Siamo inoltre profondamente grati ai direttori e al personale delle varie biblioteche: New York Public Library, Music Department (Dr. J. Braunstein); la Biblioteca Nazionale Tedesca di Berlino (Dr. Virneisl); la Biblioteca della Germania Occidentale di Marburg (Direttore Cremer); la Biblioteca Universitaria di Tubingen (Dr. Von Beibnitz); la Biblioteca della Gesellschaft der Musikfreunde di Vienna (Dr. Hedwig Kraus); e la Sezione Musicale della Biblioteca Nazionale Austriaca di Vienna (Prof Dr. L. Nowak). Gli Autori

Vienna 1957

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PREFAZIONE

alla prima edizione italiana

Dalla pubblicazione della prima edizione di questo libro nel 1957 gli studi mozartiani hanno fatto grandi progressi; tra i risultati maggiori sono da considerare la pubblicazione della sesta ristampa del Catalogo Kòchel [7964] e la continua pubblicazione della Neue Mozart Ausgabe (7VMA) che comprende finora oltre cento volumi. Sono apparse però anche numerose monografie, alcune delle quali hanno ampliato la nostra conoscenza dello stile esecutivo dell'età mozartiana. C’è da rallegrarsi che il nostro libro non abbia perciò perso affatto d'attualità, anzi, che l’interesse per il nostro lavoro a suo tempo isolato - si sia accresciuto al punto da farlo apparire ora anche in traduzione italiana. Per la traduzione francese apparsa nel 1974 avevamo aggiunto una nuova analisi interpretativa del Pondo per pianoforte K. 511, accolta ora anche nella edizione italiana. Naturalmente, a causa dei citati nuovi risultati della ricerca, si sono rese necessarie nel nostro libro alcune correzioni che riguardano soprattutto il capitolo II pro­ blema del testo originale. Cambiamenti sostanziali tuttavia non sono stati necessari: la nostra idea di Mozart si è certo ampliata in questi 25 anni, ma nella sua essenza non è mutata. Un cordiale ringraziamento all’editore Zanibon per l’iniziativa di pubblicare il libro in lingua italiana, come pure alla Signora Mills, la traduttrice da lui incaricata. Uno speciale ringraziamento spetta inoltre al Prof. Alberto Zanotelli curatore dell’edizione e ai pianisti Prof. Andrea Bonatta e Signora, per la loro disponibilità ad aiutare gli autori nel difficile lavoro di correzione delle bozze. L’inesauribile ricchezza di idee nell'opera di Mozart viene oggi più che mai riconosciuta anche in Italia e noi ci rallegriamo assai di questa crescente passione. Possa questo libro contribuire ad accrescere la conoscenza dello stile di Mozart e la gioia nell'ascoltare la sua musica.

Vienna 1980

Gli Autori

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INTRODUZIONE

Il problema della interpretazione musicale è antico quanto la musica stessa. In sostanza, si tratta del modo migliore di creare nell’ascoltatore la più forte, la più immediata, la più profonda e duratura impressione. Questo è il significato della leggenda classica di Orfeo; i suoi canti avevano un effetto miracoloso, la sua musica era così commovente ed incantatrice da soggiogare gli dei e perfino la morte. Il fine ultimo di ogni attività musicale è di lasciare un’impressione nell’animo dell’ascoltatore. Questa è la meta, ma la via per raggiungerla è lunga e incerta. È vero che ci sono alcuni beniamini della Fortuna ai quali tutto sembra, da principio, riuscire bene e senza sforzo; ma anch’essi a lungo andare, scoprono che l’arte è il risultato di duro lavoro, spesso, di sofferenza e perfino di un processo di distruzione (malattia, peccato), che consuma l’anima e la mette a nudo. L’essenza dell’arte è la capacità di creare, di amare e il disperato bisogno di comunicare; è la via del «tormento infinito». Le diverse carriere di questi artisti «fortunati» non rispecchiano la profondità della loro vocazione. La grandezza e la creatività non si possono semplicemente comunicare o tramandare e la perfezione ultima rimane un segreto racchiuso nel momento dcH’esccuzionc. Gli artisti di tutte le età hanno in comune una cosa sola: nessuno di loro è nato artista completo; il loro cammino fu quello della fatica e della perseveranza. Chiunque pensi che non ci sia altro da fare che aspettare passivamente l’ispirazione è destinato ad essere deluso. Favorito dalla fortuna o no, chiunque voglia ottenere qualcosa deve cercare d’impegnare al massimo le sue capacità e sviluppare la sua conoscenza. Ciò significa che il musicista, l’interprete, deve venire alle prese con i problemi essenziali dell’interpretazione musicale. Naturalmente, i musicisti si sono sempre preoccupati delle questioni basilari deU’intcrpretazione e se ne è già scritto c parlato molto; tuttavia i grandi interpreti hanno spesso punti di vista contrastanti che sembra impossibile conciliare. Esaminiamo, per esempio, quelli di due autorità, quali C.Ph.E. Bach e Busoni. Bach dice: 9

Introduzione

«Un musicista non può suscitare in altri ciò che egli stesso non prova. Egli deve sperimentare in sé tutti gli effetti che spera di creare nel suo pubblico1». Busoni invece scrive:

«Un artista deve commuovere gli altri, ma non deve commuoversi, altrimenti perderà il controllo della sua tecnica, al momento cruciale2». Sebbene possa sembrare un paradosso, l’interpretazione ideale dovrebbe soddisfare queste due esigenze: suonare con convinzione assoluta, e tuttavia, nell'intimo, conservare una funzione di controllo che deve rima­ nere imparziale, o il sentimento dilagherà nelle regioni dell’intelletto e il risultato sarà dilettantesco. Quanto dice Busoni, nella Nuova Estetica della Musica, non significa che egli fosse contrario al «sentimento»; egli replica alla critica che gli rimproverava di suonare senza sentimento:

«Il sentimento, come l’onestà, è una necessità morale, una qualità che nessuno può rigettare ... anche se, nella vita di tutti i giorni, si può perdonare la mancanza di sentimento, quando sia compensata da qualche altra qualità di carattere, più brillante ... in arte, esso (sentimento) è la massima qualità morale3».

Ogni frase musicale può essere considerata un simbolo espressivo di un ceno contenuto. Il vero artista ha il privilegio non soltanto di riconoscere questo contenuto ma di fissarlo così fermamente nella coscienza, che le sue facoltà intellettuali e spirituali rimangono libere per altri compiti. Anche se sa che una frase esprime dolore, egli non può permettersi il lusso di sentirsi depresso ogni volta che la esegue, specialmente durante le esercitazioni o le prove. L’essenziale e che egli sappia cosa significa la frase e cosa significa il dolore e che sia capace di esprimerlo, senza perdere il controllo di sé. Se non riesce ad oggettivare l’onda di sentimento creata dalla musica, cioè, a subordinarla ad un livello più alto di conoscenza, egli sarà incapace dello sforzo intellettuale necessario per plasmare una vasta composizione musicale in un complesso organico. Egli sarà travolto dalle successive ondate di emozione e perderà l’orientamento. Egli deve considerare l’opera nel suo complesso, per poter dare adeguata espressione ad ogni sua pane e creare, nell’ascoltatore, l’idea di una unità armonica e coerente. Un altro problema molto discusso è la relazione tra compositore e interprete. Deve l’interprete usare l’opera del compositore, per esprimere se stesso e le sue emozioni, o deve rimanere distaccato, nascondersi dietro l’opera, lasciando che la sua personalità rimanga sullo sfondo? La risposta dipende non solo dal temperamento dell’interprete ma dal gusto del tempo. Per i romantici, anche l’esecutore doveva dare libero sfogo all’im­ maginazione e all’interpretazione personale. Franz Liszt scrisse in una delle sue lettere4:

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Introduzione «Il virtuoso non è uno scalpellino che taglia la pietra secondo il disegno dell’architetto. Non è uno strumento passivo che riproduce sentimenti e pensieri, senza aggiungervi niente di proprio. Non è un «interprete», più o meno abile, di opere che non gli permettono alcun commento personale. Per il virtuoso, la musica non è che la materializzazione tragica e commovente delle sue emozioni. Gli si chiede che le faccia parlare, piangere, cantare e sospirare, secondo la sua sensibilità. In tal modo egli è un creatore, al pari del compositore, perché deve possedere in sé quelle passioni a cui vuol dar vita con tanta intensità ...»

Molti compositori moderni vanno all’estremo opposto; essi chiedono all’interprete di suonare le note che ha di fronte, senza commenti, automa­ ticamente, come un soldato che esegue gli ordini del superiore. Si racconta che Ravel abbia detto, «Io non voglio essere interpretato!»

e che anche Strawinsky abbia fatto osservazioni simili. Le parole di Ravel sono chiaramente una protesta contro l’interpre­ tazione troppo romantica e soggettiva delle sue opere, contro quegl’inter­ preti che non si preoccupano di scoprire che cosa il compositore intenda veramente, oppure di esprimerlo. L’impiego volutamente errato della parola «interpretazione» non cambia l’idea di base. Le parole di Liszt non sorprendono, venendo da un romantico e da un improvvisatore di genio. Esse riflettono uno stile interpretativo definiti­ vamente sorpassato. Non bisogna dimenticare però che oggi, come sempre, la musica romantica richiede un’interpretazione più libera e personale della musica di altri periodi. Ci sarà sempre bisogno dell’improvvisazione, del «momento magico», per esprimere gli stati d’animo intesi dal compositore. Più difficile è capire il punto di vista dei vari musicisti moderni che tendono all’estremo opposto. È impossibile eseguire un brano «impersonal­ mente», perché anche il più freddo e realista degli esecutori interpreta, cioè, dichiara, comunica e traduce, che se ne renda conto o no. Se l’autore volesse davvero un'esecuzione strettamente impersonale, non gli basterebbe scrivere la musica, ma dovrebbe simultaneamente registrarla; dopo di che l’esecutore (non si potrebbe più chiamarlo interprete) farebbe del suo meglio per imitarla. Non occorre sottolineare che una così arida imitazione segnerebbe la fine di ogni esecuzione musicale. D'altra parte, una volta riconosciuto che l’esecutore è anche interprete, e non un semplice imitatore, allora la registrazione di un’opera eseguita dal compositore, gli sarà naturalmente di grande aiuto all’intendimento di ciò che l’autore cerca di esprimere. Sia detto per inciso, che le registrazioni di opere dirette dal compositore, sono la prova migliore che anche i sostenitori dell’esecuzione oggettiva, non riescono che raramente a rimanere essi stessi oggettivi c impersonali, o a ripetere un’opera nello stesso, identico modo. Al contrario, essi tendono ad eseguire la loro musica con più vivacità, meno riserbo e più

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Introduzione

naturalezza, e spesso, con più immaginazione di quanto non facciano i fanatici avvocati dell’esattezza letterale. Tuttavia, al giorno d’oggi, molti compositori tendono a sottovalutare la funzione dell’interprete e a limitarne la libertà. Sicuri della chiarezza del loro mondo psicologico e del processo dei loro pensieri, spesso s’illudono di riuscire ad esprimersi altrettanto chiaramente nella notazione musicale. C’è invece una grande differenza nella relazione tra un testo musicale e la sua esecuzione e, per esempio, tra il progetto di una casa e l’edificio ultimato. Con un buon progetto anche un costruttore senza talento, ma coscienzioso, può costruire una casa che risulti soddisfacente; mentre, nell’esecuzione di un opera musicale, anche all’interprete più dotato, può accadere di travisare completamente le intenzioni dell’autore. Ciò accade spesso nei concerti, e non soltanto in esecuzioni di musica moderna! Anche se due interpreti seguono alla lettera tutte le indicazioni, essi non potranno mai ripetere un’opera in modo identico, come avviene, invece, per le macchine, le case popolari, od altro del genere. Anche se la notazione musicale sta diventando sempre più efficace e flessibile, il metodo di riprodurre processi acustici con simboli visivi darà sempre una trascrizione imprecisa. Il succedersi di tensione e distensione, l’ampia gamma dei valori sensoriali non potranno mai essere incapsulati in espressioni grafiche. La musica scritta sostituisce un continuum con dei punti che solo l’intuizione e l’abilità dell’interprete possono congiungere e vivificare. Si è spesso tentato di mostrare come l’attuale immagine di qualche grande compositore del passato, abbia subito notevoli cambiamenti nel corso di generazioni; ma i risultati sembrano rispecchiare più il pensiero degli studiosi che non quello dei compositori esaminati. Se oggi riteniamo di saper apprezzare la grandezza di Mozart, più completamente e più profondamente dei nostri predecessori, c’è una sola giustificazione per questo atteggiamento: la sempre più estesa convinzione che le intenzioni dell’autore vanno rispettate e che è impossibile saperne troppo sul testo della sua opera o sulle abitudini del suo tempo. In altre parole, dobbiamo fare il possibile perché l’esecuzione sia fedele al testo ed allo stile. Che cosa implica tutto ciò? Prima di tutto, chiariamo che fedeltà all’opera non va confusa con fedeltà letterale allo spartito . * C’è un contrasto tra la tendenza, che si manifestò intorno al volgere del secolo, verso l’interpretazione libera, addirittura arbitraria, e quella, iniziatasi intorno al 1920, verso l’assoluta «fedeltà al testo». Purtroppo, qucst’ultima diede luogo spesso ad un’accademica aderenza alla partitura stampata. L’esigenza di aderire al testo fuxun progresso importantissimo e neces­

* Ciò non ha niente a che vedere con il rifiuto, di cui s’è fatta menzione, di riprodurre l’esecuzione di un compositore in rigorosa imitazione: una imitazione può mancare di stile, come un'interpretazione creatrice può avere stile.

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Introduzione sario, ma i nostri sforzi per capire il genio e il clima storico in cui esso fiorisce, ci hanno insegnato che l’esattezza letterale soltanto, non assicura un’interpretazione fedele e in stile, che le opere di compositori classici non soltanto permettono, ma richiedono, un ceno grado di libertà. Di una cosa possiamo essere assolutamente ceni: i classici non volevano una esecuzione fredda e inespressiva. Ma torniamo al fine essenziale di ogni interpretazione - creare un effetto quanto più possibile profondo e duraturo - e proseguiamo . * La domanda «Esatta o libera interpretazione»? può sembrare, a prima vista, di secondaria importanza. Se noi insistiamo infatti su una interpre­ tazione esatta lo facciamo nella convinzione che essa non è fine a se stessa, ma perché persuasi che le opere di Mozart sono più efficaci se vengono eseguite nello stile autenticamente mozartiano. Per «stile » ** intendiamo tutti quei fenomeni psicologici ai quali Lanista è soggetto, dai quali è formato e che, in pane, egli influenza. Se tra gl’interpreti di Mozan, uno riesce a creare un effetto più fone e più profondo, noi dovremmo accettare ed adottare il suo «stile». Ma è poco probabile che ciò avvenga. Di tutte le opere musicali, quelle di Mozan posseggono un’incompa­ rabile unità organica, un equilibrio tra contenuto e forma tali che ogni interpolazione di elementi estranei, anche se fatta ad opera di un genio, distruggerebbe quell’armonia che sembra innalzare la sua musica al di sopra della fragilità umana. La fedeltà al testo e allo stile di un opera è assolutamente necessaria ma c’è il rischio di dare troppa importanza all’intei letto. Un atteggiamento eccessivamente intellettualistico blocca le vie all’inconscio, all’elemento in cui affondano le radici di ogni esecuzione musicale. Perché, dopo tutto, l'arte può essere solo intuita. La sola ricerca storica non basta a creare lo stile: si deve avere l’impressione che il brano «non sia mai stato suonato prima». Le scoperte storiche, spesso, sono capaci di aumentare la vivacità dell’esecuzione: si pensi alla riscoperta delle sottigliezze ritmiche della musica barocca, che l’Ottocento ignorò completamente. L’intelletto deve sostenere l’intuizione c spesso, anche, guidarla; esso organizza, divide, analizza, ma le parti separate dall’intelletto possono essere fuse in una

* Per inciso, non si pensi che i compositori non si interessino agli ‘effetti’, anche quelli superficiali! Molti compositori amarono gli ‘effetti’ e Mozart non fa eccezione. Egli giustificava molte idee musicali delle sue opere dicendo: ‘Ciò fa buon effetto’. ** I compositori stessi possono accettare questo punto di vista: ‘Vorrei che foste stato presente da Liszt stamane. Egli fu veramente straordinario, rimasi completamente soggio­ gato dal modo con il quale aveva suonato alcune novellette, la fantasia c la sonata Spesso, non c era tutto quello che avevo immaginato, ma egli vi mise una genialità, una tenerezza, un ai dorè che lui stesso non sarebbe in grado di ritrovare. Era presente solo Becker, con le lacrime agli occhi.’ Lettera di Robert a Clara Schumann da Lipsia, 20 marzo 1840. (da Clara Schumann J ugenilbriefe Robert Schumann^ Brcitkopl & Hand. Lipsia, 1886).

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Introduzione entità viva solo attraverso l’intuizione ed una ricca esperienza di sentimenti. Nel corso della storia il soffio vitale della musica è sempre stato l’istinto che permette ai grandi uomini di cogliere la melodia, di sentirne le alternanze di tensione e di rilassamento. Ecco perché ci dev’essere un po’ dello zingaro in ogni musicista. Lo studio teorico è solo la preparazione, una preparazione necessaria, come la pratica di uno strumento; ma l’esperienza artistica dipende unicamente dalla vita che si sa infondere all’esecuzione. Edwin Fischer usava ripetere ai suoi alunni5: «Non distruggete questo mondo di visioni artistiche che sale dal profondo del vostro inconscio; fategli posto. Sognate i vostri sogni, contemplate le visioni, non ascoltate le registrazioni, fino a divenire voi stessi una registrazione ed a ripetervi continuamente. Soffrite, gioite, amate e vivete una vita che si rinnova costantemente».

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Capitolo primo

IL SUONO DI MOZART

Soltanto raramente e in casi eccezionali si può ricostruire, con una cena esattezza, la sonorità originale di un’opera di Mozart. Anche ricreando le stesse condizioni acustiche, con l’uso, per esempio, di strumenti antichi in una sala rococò, non si otterrebbe una riproduzione storicamente fedele: altri elementi, come i principi estetici e le condizioni sociali, dovrebbero essere gli stessi dell’epoca di Mozart. Sappiamo bene, invece, che dal diciottesimo secolo, gusti cd opinioni dei musicisti e del pubblico sono cambiati di molto, per non parlare poi del radicale cambiamento delle strutture sociali. Comunque, di solito si fa musica non per interesse storico ma, prima di tutto, per il piacere dell’esecuzione e del suono in sé e poi perché prediligiamo un’opera in particolare. D’altra parte non si farebbe piena giustizia alla musica di altri tempi, se non l’ascoltassiino eseguita come la intese il compositore e, cioè, nello stile e, per quanto è possibile, con gli strumenti del periodo in cui fu scritta. Ma anche l’uso di strumenti antichi crea difficili problemi. Tanto per cominciare, ci sono solo pochi strumenti in condizioni veramente buone. Le imitazioni possono essere migliori dal punto di vista meccanico ma è raro che il suono sia caratteristico e soddisfacente come quello degli originali; questi ultimi, poi, anche se in condizioni di suonare, mostrano segni di vecchiaia (mi riferisco qui ai pianoforti); il legno della cassa è di solito così secco che lo strumento è stonato e un pianista moderno che voglia usare un pianoforte dell’epoca di Mozart, deve scegliere tra l'accordare lo strumento dopo l’esecuzione di ogni brano o I’affliggere l’orecchio del pubblico con impurità di intonazione.

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Capitolo primo Questo problema dell’uso di strumenti antichi ci fa ricordare un’os­ servazione di Curt Sachs, il famoso musicologo, secondo la quale, quanto più egli aveva a che fare con strumenti antichi tanto meno desiderava sentirli suonare. È provato, dice Sachs, che all’epoca di Bach, il suono degli organi delle varie chiese di Lipsia variava notevolmente in altezza; d’altra parte, gli strumenti a fiato usati da Bach non si adattavano ai vari toni degli organi, per cui suonavano inevitabilmente stonati, ogni volta che Bach trasferiva una esecuzione da una chiesa aH'altra, come spesso avveniva. Gli strumenti a fiato erano troppo scarsi perché ogni chiesa avesse il suo gruppo opportunamente intonato aH’organo. D’altra parte non si può dimostrare che tutte le esecuzioni del Settecento peccassero di discordanza. Ci rimangono strumenti dell’epoca perfettamente intonati, nonostante l’età. Il flauto e il flauto dolce, in particolare, erano costruiti nel Settecento con molta cura. Si sa inoltre che, al tempo di Mozart, si richiedeva ai cantanti ed ai suonatori di strumenti ad arco l’abilità di alternare l’intonazione pura e la temperata, per accordarsi con lo strumento di accompagnamento; ciò può esser fatto solo da un orecchio finemente educato. Un ulteriore problema nell’uso degli strumenti antichi è che noi non sappiamo più come venissero suonati. Non solo c cambiata la tecnica esecutiva ma la nostra percezione del suono è legata alle condizioni moderne; sarebbe necessaria una completa rieducazione musicale per imparare a suonare approssimativamente come ai tempi di Mozart. Se un musicista, dopo anni di pratica, riuscisse a ricondizionarsi in tal modo, il pubblico, abituato al suono di strumenti moderni, troverebbe la sua ricostruzione di un antico ideale di bellezza piuttosto strana, se non addirittura spiacevole. Un musicista non può ignorare i cambiamenti acustici e tecnici avvenuti negli ultimi 150 anni, anche se essi lo portano a sacrificare qualche effetto fonico di particolare bellezza, altrimenti egli si troverebbe isolato. L’uso di strumenti antichi c il ritorno ad una passata estetica musicale sono interessanti per lo storico ma quasi sempre impraticabili per il musicista, dato il diverso gusto moderno. Ecco perche, al giorno d’oggi, la richiesta di ricreare «il suono originale» può essere soddisfatta solo entro ceni limiti. Se, da un lato, dobbiamo evitare l’errore della generazione passata, che considerava le sue conquiste tecniche e strumentali come un ne plus ultra, dall’altro, dobbiamo rimanere oggettivamente critici verso gli strumenti e le condizioni acu­ stiche di altri tempi. Considerare bello tutto ciò che è antico, solo per­ ché è antico, è altrettanto errato quanto voler applicare indiscrimina­ tamente principi estetici moderni all’arte di età passate. Nell’esecuzione di un’opera ci troviamo sempre di fronte alla necessità di un compromesso tra la conoscenza storica e la percezione del mondo moderno. Ci sono buone ragioni per assumere un atteggiamento meno rigido su questo problema del suono che su altre questioni di stile. Il colore fonico (in termini fisici, il totale degli armonici al disopra della nota fondamenta­ le) è diverso dagli elementi base della musica (melodia, armonia, ritmo.

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Il suono dì Mozart

tempo, dinamica ecc.), in quanto non è un fattore decisivo nella sostanza di un’opera musicale: perciò Bach e Hàndel poterono spesso adattare composizioni loro e di altri; Mozan, per esempio, trasformò l’Ottetto in do minore per strumenti a fiato in un quintetto per archi e un concerto per oboe in uno per flauto. Il suono diviene importante in sé stesso solo quando un’idea musicale nasce daH’immagine uditiva di un suono specifico. Infatti molte idee musicali sono state create per un determinato suono strumentale; si pensi, per esempio, ai motivi per corno o ad una cantilena per oboe che ricorda la cornamusa di un pastore. In questi casi c’è un nesso fisico tra il suono originale c l’idea dell’autore. Per esempio, se nell’evoluzione degli strumenti, il suono del corno dovesse cambiare al punto da somigliare a quello della sirena di una fabbrica, ciò porrebbe fine a quell'associazione d’immagini di spazi aperti, boschi, caccia e natura che il corno ancora evoca. Il musicista interessato alla conoscenza del suono degli strumenti dell’epoca di Mozan, deve studiare i cambiamenti che hanno avuto luogo durante gli ultimi duecento anni. L’immagine sonora è mutata sotto molti aspetti; gli sviluppi degli ultimi secoli hanno mirato a un più ampio volume di tono, una più vasta gamma di registri, una intonazione migliore e, molto spesso, una maggiore facilità di esecuzione. È facile vedere le ragioni di questi cambiamenti. Per esempio, una delle ragioni per il più ampio volume di suono è che, mentre i concerti in case private diventano sempre più rari, è normale al giorno d’oggi che due o tremila persone siano presenti ai concerti di solisti o di musica da camera. L’evoluzione della musica stessa è una delle cause principali della maggiore potenza degli strumenti moderni e del più alto volume delle esecuzioni. La concezione del suono è diversa da Beethoven a Mozart e, in particolare per l’influenza del primo, si è d’allora cercato di ottenere dal pianoforte un suono più pieno, più ricco con meno contrasto di registri e, soprattutto, più potente. Guadagnando in volume, il timbro del pianoforte si è andato costante­ mente modificando. Sembra che l’orecchio umano reagisca favorevolmente a suoni molto chiari, ricchi di armonici e non molto alti. Suonati «forte», questi suoni risultano aspri e striduli e in un «fortissimo» sono, insopportabilmente, stridenti . * Non sorprende quindi, che, a paragone di un pianoforte di Mozart o di Beethoven, i pianoforti dell’ottocento e del Novecento abbiano, a maggior ragione, non solo un suono più pieno c più forte, ma più cupo e, di solito, più sordo. Ciò è inevitabile per la mutata struttura del pianoforte. Paragonato a un pianoforte moderno, lo strumento di Mozart, con i suoi moki armonici,

* Coloro che possiedono registrazioni di strumenti antichi (clavicordi, forte-piani ecc ) confermeranno questa opinione. Questi strumenti delicati non suonano in modo gradevole se non quando si tiene l’altoparlante allo stesso livello di suono della registrazione originale. Se si aumenta il volume, il timbro brillante di questi strumenti diventa spiacevole.

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Capitolo primo

produce un suono straordinariamente tenue, translucido, chiaramente definito e «argenteo». Lo strumento era di costruzione più leggera, le corde più sottili e ciò rendeva il suono relativamente debole. L’alto volume di suono a cui siamo abituati non fu possibile prima dell’introduzione, effettuata nel 1825 da pane di A. Balcock6, del telaio di acciaio con conseguente aumento di tensione delle corde . * Inoltre il pianoforte del Settecento aveva i martelletti più piccoli e coperti non di feltro ma di pelle. Un simile strumento ha un suono molto chiaro, ricco di armonie, qualcosa tra il clavicembalo e il pianoforte moderno. Quasi nessuno strumento, in un’orchestra moderna, è rimasto quale era al tempo di Mozart. Spesso le imperfezioni tecniche stimolarono i miglio­ ramenti meccanici che, a loro volta, ne alterarono il suono. Ma nessuno strumento subì più del pianoforte una così radicale ristrutturazione. Quando Mozart era giovane il pianoforte era uno strumento raro, di recente invenzione7. Anche negli anni settanta sembra che Mozart non avesse ancora un pianoforte a sua disposizione, a Salisburgo, come suggerisce una lettera di sua madre a Leopoldo Mozart8: «E davvero suona in modo diverso da come suonava a Salisburgo, perche qui ci sono i pianoforti ed egli li suona così bene che la gente dice di non aver mai sentito nulla di simile».

Ma, alla fine del Settecento, il pianoforte stava superando in importan­ za il cembalo. Sappiamo che Mozart, il quale è stato spesso c giustamente definito il primo virtuoso del pianoforte, era un appassionato dei pianoforti del suo tempo e li preferiva al clavicembalo9. Che il pianoforte fosse indubbiamente il suo strumento preferito, lo si può dedurre dal fatto che egli scrisse un gran numero di composizioni per pianoforte. Esse, e in particolare i concerti, riflettono i suoi pensieri più intimi, ed è proprio in questi lavori che Mozart raggiunge le vette della sua arte strumentale. Il suo stile pianistico mostra chiaramente che egli era un pianista nato, dalla straordinaria capacità di sfruttare, al limite massimo, tutte le possibilità tecniche ed acustiche dello strumento, senza lasciarsi intimidire da esse. Nella famosa lettera scritta al padre da Augsburg, il 17 Ottobre 1777, c’è un’entusiastica descrizione di uno Stein. Ad Augsburg, come in ogni altro luogo dove egli suonò, le sue esecuzioni al pianoforte riscossero lodi entusiastiche:

* Per rendere evidente la differenza tra un pianoforte del tempo di Mozart e uno moderno è sufficiente comparare il loro peso: un Walter pesa circa 70 chilogrammi, un gran coda da concerto Steinway più di 500. Di conseguenza era molto più facile un tempo spostare gli strumenti. ‘Dopo il mio arrivo, il pianoforte di tuo fratello è stato trasportato una dozzina di volte al teatro o, qualche altra, a casa', scriveva il padre di Mozart a Nanncrl (12 marzo 1 78 5). Ci si domanda se Mozart avrebbe, ai nostri giorni, fatto spostare il suo pianoforte una dozzina di volte in tre settimane . . .

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Il suono di Mozart «Ogni cosa fu straordinaria, piena di gusto e notevole. Le sue com­ posizioni erano complete, variate, piene di fuoco e semplici; l’armo­ nia ricca, potente, inaspettata e edificante; la melodia piacevole, giocosa e tutta originale; la sua esecuzione al fortepiano, gradevole, pura, piena di espressione ed allo stesso tempo, così straordinaria­ mente fluida che, a stento, si sapeva che cosa ascoltare per prima, c tutto il pubblico era in estasi». Così scriveva un contemporanco. E la Musikalische Real-Zeitung, di Dresda, (p. 191) riportava, nel 178910:

«Il 14 Aprile, il famoso compositore viennese W.A. Mozart suonò il fortepiano, presente Sua Eminenza. Egli ha già suonato qui a Dresda, con illimitato successo, in molte case patrizie e private. La sua abilità al clavicembalo e al fortepiano è indescrivibile; si ag­ giunga a ciò, la sua straordinaria capacità di leggere a prima vista, che è davvero incredibile, tanto che riesce a suonare meglio un brano a prima vista che dopo averlo studiato».

Si sa che, al contrario del cembalo, il fortepiano rende possibili gradazioni dinamiche dal pp al ff ed altre varietà di tocco, anche se la sua tecnica è diversa da quella di uno strumento moderno. Non si creda che i nostri pianoforti siano capaci di sfumature più delicate di queste; lo Stein e il Walter di Mozart, per esempio, avevano il registro superiore chiaro e brillante, e ciò rendeva più facile suonare cantabile e con pieno colore. Le note più basse avevano una particolare e chiara corposità, per nulla simile al suono opaco e pesante delle note basse di un pianoforte moderno. Il registro più soddisfacente del pianoforte di Mozart è il suono pieno dei bassi, mentre i toni alti diventano sempre più tenui, fino a somigliare, nel registro più alto, a un pizzicato. Le corde sono così sottili che gli accordi nel registro grave si possono rendere con perfetta chiarezza, anche se molto ravvicinati. In un pianoforte moderno questi accordi sono così pesanti c massicci che, a stento, si distinguono le singole note. Ecco perché un accordo come il seguente,

t che si trova spesso in Mozart, è una sfida al gusto e al senso dello stile di un pianista moderno. Dimostreremo in seguito come superare questo problema tecnico11. Non è quindi facile ricreare su un pianoforte moderno, tutta la varia gamma di timbri del pianoforte di Mozart, e forse è per questo che molti pianisti raccomandano di non usare il pedale nell’esecuzione di musica mozartiana. Ma, nel Settecento, tutti i fortepiani avevano una leva, all’al­ tezza del ginocchio, con le stesse, precise funzioni del moderno pedale di sostegno; sappiamo anche che Mozart ne apprezzava moltissimo l’utilità. 19

Capitolo primo Nella lettera al padre, scritta da Augsburg 17 Ottobre 1777, egli loda l’efficacia di questo meccanismo:

«L’ultima Sonata in re12 è magnifica sullo Stein. Il meccanismo che si aziona col ginocchio è migliore qui che su altri strumenti. Basta che io lo tocchi e funziona. Spostando appena il ginocchio, non si sente alcuna risonanza». Usando la leva, cioè, togliendo la sordina, il timbro acquistava un suono più ricco e piacevole. Non si deve sconsigliare l’impiego del pedale perché: «Mozart non considerò mai il pedale una parte integrante del piano­ forte e lo usò, al massimo, in rare eccezioni e per effetti speciali13».

Questo non è esatto. Infatti è molto improbabile che Mozan non facesse pieno uso delle possibilità foniche offene dall’impiego della leva14; infatti nelle sue opere per pianofone ci sono parti che richiedono l’uso del cedale, come, ad esempio, l’inizio della Fantasia in re minore (K. 397), o a battuta 46 della Fantasia, dalla Fantasia e Fuga in do maggiore (K. 394):

Ci sono molti brani cantabili che l’impiego del pedale rende più espressivi ed efficaci (Sonata per pianofone in la maggiore (K. 331), primo movimento, IV variazione, battuta 3):

La battuta 40 della Romanza, dal Concerto per pianoforte in re minore, sembrerebbe ben poca cosa senza l’effetto del pedale. Perche mai Mozart, insuperato maestro nell’impiego di tutti i timbri e possibilità foniche dei suoi strumenti (si pensi al magnifico assolo di tromba nel primo finale del Don Giovanni, e a come è impiegato il clarinetto nel Trio K. 498, nel Concerto per clarinetto, o nella Serenata per strumenti

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Il suono di Mozart a fiato K. 361), non avrebbe dovuto usare un meccanismo che apprezzava tanto entusiasticamente? Sfortunatamente questa opinione è generale e l’unico argomento a suo favore è che, se dovessimo scegliere tra i due estremi, è preferibile, nella musica di Mozart, escludere assolutamente il pedale piuttosto che usarlo troppo. Ovviamente l’uso del pedale non deve deturpare la chiarezza dell’esecuzione; bisogna perciò guardarsi dall’impiegarlo indiscriminatamente. Al tempo di Mozart i pianoforti avevano un suono molto più trasparente del pianoforte moderno, anche senza la sordina. Il fortepiano aveva una gamma di cinque ottave (dal fa, con quattro tagli in chiave di basso, al fa con tre tagli in chiave di violino). Sembra incredibile con quanta apparente facilità Mozart riuscisse a non superare i limiti massimi di quella estensione. Se, nella ripresa un secondo tema sembrava che per la trasposizione nella tonica, potesse superare il fa, il motivo veniva alterato in forma così elegante, da fare di necessità virtù. Spesso ciò avviene nel più semplice dei modi (Concerto in si bemolle (K. 595), terzo movimento, battute 112-113):

Qui, alla ripresa (battute 251-152), il diatonismo originale si cambia in cromatismo:

In Beethoven s’incontrano, non di rado, brani in cui l’estensione sonora del pianoforte moderno sembra aver imposto importune limitazioni alla fantasia del compositore (es. Concerto per pianoforte in sol, primo movimento, battuta 332). In Mozart invece non è quasi mai necessario e, nella maggior parte dei casi, impossibile, fare quelle modifiche che molti pianisti moderni apportano ai brani di Beethoven. Si possono indicare, forse, solo due eccezioni a questa regola: nel Concerto per pianoforte in sol

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Capitolo primo

maggiore (K. 453), terzo movimento, battuta 56, dove mantenere l’iniziale movimento ascendente (come nelle battute 40 e 48) significherebbe rag­ giungere il sol superiore:

e nel Concerto per tre pianoforti (K. 242), terzo movimento, battuta 155 e seguenti; una trasposizione letterale della figurazione dalla battuta 34 rende necessario un la superiore:

In questo conceno si potrebbe anche estendere l’ambito delle battute 50-1, nel secondo movimento, e farle corrispondere alle battute 22-3. Ma queste alterazioni non sono necessarie. Per i limiti inferiori del registro il discorso è diverso. Qui ci si rende spesso conto che Mozart non considerava il fa inferiore come il limite naturale più grave, e che a volte avrebbe usato il mi, il mi bemolle o anche il do, se lo strumento lo avesse permesso. E in realtà lo ha fatto! Amava tanto i registri gravi, che si fece costruire una tastiera a pedali, come scrisse Leopoldo a Nanneri, a S. Gilgen:

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Il suono di Mozart «Si è fatto costruire, per il fortepiano, un grosso pedale che è posto sotto lo strumento; e più lungo di circa sessanta centimetri e molto pesante15».

Anche l’attore e musicista danese Joachim Daniel Preisler menziona nel suo diario questo pedale (egli andò a Vienna, nel corso dei suoi studi, nel 1788): «Domenica 24 Agosto. Nel pomeriggio, Junger, Lange e Werner vennero a prenderci per andare a casa del maestro di cappella Mozart. L’ora di musica ascoltata lì è stata la più felice che mi sia stata mai concessa. Questo uomo piccolo, questo grande maestro improv­ visò due volte, al pedale, in un modo così splendido, ma così splen­ dido, che io non sapevo dove fossi, intrecciando i passaggi più difficili e i temi più suggestivi *». E, nel suo diario, Michael Rosing, che pure andò con Preisler (e con Peter Rasmus Sabye), conferma il giudizio di Preisler:

«24 Agosto, 1788: verso le quattro del pomeriggio, Jùnger, Lange e Dr. Werner vennero per portarci a casa del Maestro di cappella Mozart. Egli suonò per noi delle libere fantasie, con una maestria che io avrei desiderato ardentemente di possedere; specialmente l'uso dei pedali, nella seconda fantasia, creò una grande impres­ sione. Tornammo in città, felici e profondamente emozionati per aver sentito Mozart .» **

Anche Frank, un medico, parla di questi pedali: «Gli suonai una sua fantasia. Con mia grande meraviglia, disse: «Non c’è male. Adesso l’ascolti suonata da me». Meraviglia delle meraviglie! Sotto le sue dita, il pianoforte diventò uno strumento completamente diverso. Egli vi aveva aggiunto una seconda tastiera che serviva da pedale16.»

Si trattava dunque di una tastiera a pedali, come oggi si trova soltanto negli organi. In musei e collezioni è molto raro trovare un pianoforte con pedaliera com’era quello di Mozart. Le illustrazioni di pianoforti a pedali, v. Tav. I e II, potranno dare un’idea della forma di questi strumenti.

* Da: ‘Journal over en Rejse igiennen Frankerige og Tydskland i Aaret 1788', di Joachim (vedi testo sopra) Daniel Preisler, Copenhagen, 1789, citato e tradotto in tedesco da O.E. Deutsch in ‘Ddnische Schauspieler zti Besuch bei Mozart', Oesterreichische Musikzeitschnft, 1956, pp. 406 e segg. ** O.E. Deutsch, ibid., p. 410.

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Capitolo primo La nota più grave era il do estremo di un pianoforte moderno e l’esten­ sione era di circa due ottave. Lo strumento (Tav. II) ha la così detta ottava «spezzata», e cioè, l’ottava più bassa manca delle note cromatiche do diesis, re diesis, fa diesis, sol diesis, e conserva solo quattro tasti. In tal modo, l’ultima nota non è, come potrebbe sembrare, il mi ma il do. Mie sol sono i primi due tasti «neri». Come risulta dal manoscritto, Mozart scrisse il Concerto in re minore nel modo in cui fece (usando il primo re sotto il rigo, vedi pag. 260), proprio in dipendenza del pianoforte a pedali che egli possedeva; ma, strano a dirsi, questa osservazione non è mai stata fatta finora. Purtroppo questo brano non si può eseguire oggi nella forma originale. Mozart non avrebbe fatto costruire il pianoforte a pedali, senza una ragione. È certo che egli lo usò spesso per estendere il registro nella zona grave, o per raddoppiare importanti note basse c motivi. Non è perciò contrario allo stile di Mozart ricordarsi del pedale, laddove il suo impiego è giustificato; per esempio, per raddoppiare all’ottava inferiore, il soggetto aggravato della Fuga, dalla Fantasia e Fuga (K. 394):

o il basso cromatico nello sviluppo del primo movimento del Concerto in mi bemolle (K. 482), discendendo fino al mi bemolle.

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Il suono di Mozart Forse Mozart ha usato le note gravi del pedale anche per la cadenza originale del Concerto in la maggiore (K. 488):

Tutti questi sono probabilmente casi eccezionali e, in generale, sarebbe consigliabile attenersi al testo tradizionale di Mozart, evitando così le note basse del pianoforte moderno, che sono troppo gravi e poco chiare.

Una volta si obbiettava che le note del fortepiano si spengono presto e che sono brevi quasi come quelle del clavicembalo. Ciò è discutibile c non sembra confermato da Mozart, nella famosa lettera del 17 Ottobre 1777, dove, parlando di uno Stein, dice:

«Ma ora preferisco i pianoforti di Stein, perché lo smorzatore è molto migliore che negli strumenti di Regensburg. Se batto forte sul tasto, che mantenga o no il dito sulla nota, il suono cessa immediatamente».

È chiaro che Mozart si riferiva, non al suono del pianoforte, ma all’efficacia del meccanismo smorzatore nel suonare legato o staccato. Anche oggi può succedere che, in un pianoforte scadente, il martelletto non ritorni subito a posto ma rimanga a contatto con la corda quando si suona legato, cioè, quando si continua a premere il tasto; e con i martelletti moderni coperti di feltro, ciò produce uno sgradevole smorzamento della corda. D’altra parte, i martelletti più piccoli e coperti di pelle di un forte­ piano, avrebbero prodotto uno spiacevole «ronzio», simile al suono che si ottiene toccando una corda in vibrazione con un oggetto metallico, per esempio, un cacciavite. A New York avemmo occasione di esaminare un pianoforte Stein, di proprietà privata, c restammo convinti che il suono di quello strumento non era affatto breve e legnoso. Come in ogni buon pianoforte del

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Capitolo primo Settecento, le note del registro medio sono percettibili per parecchi secondi dopo l’attacco. In tutto il primo paragrafo della lettera, Mozart si riferisce, non alla qualità del suono, ma al meccanismo del pianofone. Infatti la lettera continua:

«In qualsiasi modo io percuota i tasti, il suono è sempre eguale: né stridente, né più forte o più debole o del tutto assente; in poche parole, è sempre eguale ... Rispetto ad altri, i suoi strumenti hanno il particolare vantaggio di essere muniti di un meccanismo di scap­ pamento. Un fabbricante su cento si preoccupa di questo; ma senza scappa­ mento è impossibile evitare suoni stridenti e vibrazioni, dopo aver battuta una nota».

I pianoforti del Settecento avevano anche altri mezzi per modificare il suono oltre la leva a ginocchio per alzare gli smorzatori e la leva della sordina presente in alcuni strumenti e che corrisponde al moderno pedale spostacorda. Per esempio lo smorzo di liuto, o il così detto smorzo di fagotto, consisteva in una strisciolina di pergamena che, premuta contro la corda, produceva una specie di ronzio. Alcuni pianoforti avevano anche un meccanismo a percussione che si attivava col piede. Questi meccanismi, simili agli smorzi del clavicembalo, erano poco più che gingilli. È probabile che Mozart usasse lo smorzo di fagotto o il meccanismo a percussione nei ritornelli della Marcia Turca dalla Sonata in la maggiore. Oggi, per creare l’atmosfera «turca» del brano sono necessari accorgimenti diversi come la delicatezza di tocco, il ritmo «puntato», ecc. In realtà il pianoforte è particolar­ mente adatto alla musica di colore perché, al contrario dell'oboe o del violoncello, ha un suono neutro, «senza carattere», a cui bisogna dare forma. Non è vero che al pianofone si può suonare solo forte, piano, legato, staccato, ecc. e che è impossibile ottenere un suono descrittivo che imiti uno strumento a fiato o il pizzicato di un violoncello. Naturalmente il suono del pianofone non può cambiare la sua natura fisica, ma tra i segreti inspicgabili dell’interpretazione vi c quello del pianista che riesce a comunicare all’ascoltatore non soltanto stati d’animo ma anche determinate immagini acustiche. Come si potrebbe, altrimenti, considerare la maestria di pianisti come Conor, Wilhelm Kempff o Edwin Fischer, nel manipolare il suono del pianofone? Punroppo è impossibile mostrare, senza esempi uditivi, la ricchissima gamma di colori tonali. Col cambio di registro, o con la frequente contrapposizione di suoni acuti e suoni gravi, con l’incrocio delle mani, con l’alternanza di legato e staccato, con una ricca trama e una scrittura a due pani, con trilli nei bassi, ecc. si ottengono effetti straordinari. La produzione mozartiana per pianofone contiene fanfare di trombe, i dolci e languidi toni del flauto, il suono velato del corno di bassetto, risonanti «tutti» per orchestra, ed insieme, dei suoni magici che appartengono solo al pianoforte. La sonorità «ad una corda» crea l’atmosfera 26

ZZ suono di Mozart più intima c spirituale, quasi che il pianista sussurrasse la musica all’orec­ chio dell’ascoltatore ... Suonare Mozart senza la magia di una ricchissima e varia gamma di sfumature significa mancare non solo di arte ma anche di stile. I pianoforti del Settecento erano perfettamente adatti a rendere un suono ricco e vario di colore. Ogni interprete di Mozart trarrebbe profitto dall’esercitarsi, di tanto in tanto, su uno strumento dell’epoca. Un tale esercizio è il modo più diretto per cercare di sentire la musica come doveva sentirla Mozart. Anche la più particolareggiata descrizione di un fortepiano e l’ascolto di incisioni di strumenti antichi, sono assolutamente inadeguati a sostituire questo tipo di studio personale . * L’ideale sarebbe poter usare, nelle esecuzioni mozartiane di oggi, pianoforti dal suono simile a quello originale dei vecchi fortepiani, ma senza i difetti dovuti al tempo, quali il rapido deterioramento dell’accorda­ tura e l’incerto funzionamento del meccanismo. Purtroppo questi strumenti sono costruiti in numero limitatissimo, sono perciò rari e a noi non resta che rassegnarci alla realtà. Non solo i pianoforti sono molto cambiati dal diciottesimo secolo; è cambiato anche il suono degli strumenti ad arco, specialmente quello del violino. I violini moderni hanno un suono più acuto, più chiaro e più ricco di armonici. Tutto ciò è dovuto alla maggiore altezza del ponticello, alla modifica della barra armonica, all’accordatura più alta (si sa che la fre­ quenza del la è andata costantemente alzandosi, in termini di cicli al secondo, e che ora è quasi un semitono più alto di quanto fosse al tempo di Mozart), ma soprattutto, all’impiego delle corde di acciaio. L’uso dell’arco Tourte, introdotto nel diciannovesimo secolo, e la tecnica d’allora adottata, rendono possibile al violinista moderno di produrre un suono molto più potente ma meno caldo e tenero di quello tipico di un violino del Settecento. Isolati tentativi sono stati fatti per riprodurre il suono del violino del tempo di Mozart, adoperando archi antichi e corde di budello; ma l’orecchio moder­ no si è abituato al timbro più incisivo dei mi eseguito su una corda d’acciaio. Quest’ultima, inoltre, è molto più resistente e precisa, per cui è improbabile che molti violinisti si decidano ad adottare nuovamente le corde di budello. Sarà forse possibile fare corde di plastica, o di qualche altro materiale sintetico, che diano un suono più nobile di quello delle corde di acciaio, pur conservando la potenza di suono di queste ultime. Tale innovazione potrebbe verificarsi solo se i violinisti richiedessero specifì-

* Ci sono due pianoforti Walter, molto ben conservati, nella collezione di strumenti del Musco di Storia delfArtc di Vienna. Un altro, appartenente al Mozarteum di Salisbur­ go. è ora esibito al Musco di Mozart, in quella città. Uno Stein, in buone condizioni, si uova al Musco Germanico, Collezione Ncapere, di Norimberga. Ci sono delle eccellenti ricostruzioni moderne dei pianoforti Stein, fatte da Richard Burnett, da Derek Adlam di Londra e anche da Philip Belt, Usa.

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Capitolo primo camentc il suono più caldo delle corde di budello, altrimenti bisognerà rassegnarsi al mutamento di suono. Ciò vale anche per il corno che, sebbene reso più maneggevole e capace di eseguire una scala cromatica, ha perduto per sempre il suo timbro naturale. Il corno «viennese» è più simile, nel suono, ai vecchi strumenti di quanto non lo sia il corno «francese». Si può dire che il suono di tutti gli altri strumenti a flato si è molto modificato per i cambiamenti della tecnica e il miglioramento del mec­ canismo. Più di tutti ha cambiato la tromba; il flauto e l’oboe, forse, di meno. A proposito del fagotto, invece, si può dire che ci sia sta un’evo­ luzione in senso contrario, dal momento che è accenato che, nel Settecento, il suono di questo strumento era più forte. Le modifiche strutturali che nell'ottocento cambiarono in vario modo il suono degli strumenti, hanno, di conseguenza, alterato l’equilibrio acustico su cui si basava l’ensemble strumentale classico, c naturalmente, ciò va preso in considerazione. Non ci sono difficoltà quando il gruppo è omogeneo (come nei quartetti per archi o nelle serenate per strumenti a fiato). Ma perfino la combinazione di violino e pianoforte crea dei problemi, sia per l’intensità del suono, sia per la relazione tra gli armonici che è cambiata col cambiare del suono dei due strumenti. Il suono del violino è diventato più alto, più chiaro, più penetrante e ricco di armonici; d’altra parte, il pianoforte ha perduto molto della sua ricchezza armonica, il suono ha guadagnato in volume ma è diventato più pesante. Un pianista deve possedere grande flessibilità per poter suonare con un violinista (e questo vale per tutta la musica da camera che includa il pianoforte e per i conceni); ora gli si chiede il suono più tenue, per imitare il tono delicato del pianoforte di Mozart; subito dopo ha bisogno di un suono di gran lunga più intenso per rendere adeguatamente una cantilena. Per un ben noto fenomeno acustico è difficile che un suono acuto e pesante «penetri» in una esecuzione d’insieme. Nelle sonate per violino c’è infatti il pericolo che il pianoforte suoni troppo forte e copra il suono del violino. D’altra parte, in brani dove la melodia è prima eseguita dal violino c poi ripresa dal pianoforte, la linea melodica può essere distrutta se il suono del piano­ forte è troppo tenue. Questo pericolo è maggiore nei passaggi dove il violino esegue la parte inferiore di una melodia che procede per terze. Qui è il violino che deve conformarsi al pianoforte, o l’enfatica esecuzione della linea più bassa della melodia disturberà l’equilibrio acustico. Nel periodo classico non c’erano sonate per violino con accompagnamento per pianoforte, ma oggi siamo costretti ad ascoltare le sonate di Mozart eseguite in questo modo. Mozart al contrario, le chiamava «Sonate per pianoforte con accompagnamento di violino», ma sarebbe più esatto parlare di due strumenti di uguale importanza, ciascuno dei quali doveva, di volta in volta, dominare o permettere all’altro di dominare. Anche il suono dell’orchestra è cambiato negli ultimi due secoli. Paragonata all’orchestra del Settecento l’orchestra moderna quasi mai permette il suono pieno degli strumenti a fiato (inclusi i corni), mentre gli 28

Il suono di Mozart archi suonano, relativamente, troppo forte. Il suono degli strumenti a fiato era molto apprezzato nel Settecento, specialmente da Mozart, e si dava grande importanza alla chiarezza dell’insieme. È certo quindi che la maggior parte delle opere di Mozart risultano eseguite meglio da un piccolo gruppo che dai quaranta o cinquanta strumenti impiegati nei concerti moderni. Ovviamente le proporzioni dell’orchestra sono deter­ minate non solo dal genere di musica da eseguire ma anche dall’acustica della sala; in generale, si dovrebbero evitare complessi troppo grandi. Noi avanziamo questa opinione, anche se sappiamo che Mozan si trovò a dirigere grandi orchestre, come egli scrive nella lettera del 24 Marzo 1781, dove, a proposito dell’orchestra del Tonkùnstlersozietàt di Vienna, ci informa che l’orchestra consisteva di 180 suonatori. E 1’11 Aprile 1781 egli riportava: «Dimenticavo di dirti che la Sinfonia17 riuscì benissimo ed ebbe grande successo al concerto dell’altro giorno. C’erano 40 violini, il doppio del numero degli strumenti a fiato, c’erano 10 viole, 10 contrabbassi, 8 violoncelli e 6 fagotti».

Un tal numero sembra, tuttavia, piuttosto eccezionale per quei tempi. Di solito Mozan poteva contare, diciamo, su 6 + 6 violini, 4 viole, 3 violoncelli e 3 contrabbassi18. La composizione ideale sembra essere stata, per lui, quella dell’orchestra di Mannheim: «Ora bisogna che ti parli della musica di qui ... L’orchestra è eccel­ lente e molto vigorosa. Ai due lati 10 o 11 violini, 4 viole, 2 oboi, 2 flauti e due clarinetti, 2 corni, 4 violoncelli, 4 fagotti e 4 contrab­ bassi, inoltre, trombe e tamburi. Essi suonano bene ... I9».

Il numero straordinariamente scarso di viole è tipico di quasi tutte le orchestre del diciottesimo secolo. Haydn spesso se ne lamentava ed anche Mozart, il quale spesso divide le pani per viola, deve aver sentito questa carenza. Quindi complessi troppo grandi non si addicono alla maggior parte delle opere di Mozart. È un pregiudizio, comune a molti direttori e membri di orchestra, che solo grandi complessi «suonino bene» in grandi auditori. Uno dei più fortunati avvenimenti di questi ultimi anni è stata la formazione, in vari paesi, di piccole orchestre da camera (quattro primi violini e quattro secondi), che hanno dimostrato come anche pochi strumentisti siano in grado di produrre un volume di suono sufficiente a riempire il più vasto auditorio. Naturalmente è necessaria una rigida disciplina; in questi complessi non c’è posto per suonatori che entrano tre tempi dopo il loro compagno di leggio! Queste orchestre da camera hanno notevolmente arricchito la nostra vita musicale, non solo perché hanno riportato alla luce un pregevole corpus di musiche ormai dimenticate, ma soprattutto, perche ci hanno riabituati ad un tipo di suono delicato e trasparente. 29

Capitolo primo Il maggior volume di suono di un pianoforte moderno è certamente un vantaggio nelle esecuzioni per pianoforte e orchestra. Il «forte» eseguito su un pianoforte dell’epoca di Mozart era appena udibile, anche in un «piano» dell’orchestra; per questo, nel passato, le orchestre dovevano tener conto dell’esiguità del suono del fortepiano suonando in un modo estremamente delicato. È indubbiamente vero che, oggigiorno, noi siamo abituati a suoni molto più forti che nel passato: il rumore del traffico, il fragore dei treni e degli aerei, i toni stentorei degli altoparlanti nei cinema e nelle riunioni pubbliche, le enormi orchestre nelle sale da concerto. Se dovessimo ricreare l’esatto livello d’intensità sonora del diciottesimo secolo è certo che il risultato sembrerebbe, dapprima, troppo tenue e troppo poco penetrante. Bisogna accettare il fatto che per noi, un «forte», per essere tale, deve avere più intensità che al tempo di Mozart. Tuttavia, anche oggi, un «forte» di Mozart deve essere sempre di volume inferiore a un «forte» di Wagner. Ma un forte non è soltanto un effetto acustico ma anche psicologico; ed ecco che qui noi abbiamo l’opposto, cioè: un forte in Mozart, anche se di volume sonoro inferiore, richiede un’intensità psicologica maggiore di un forte in Wagner; perché in Mozart, forte può significare già «al massimo», mentre in Wagner raramente è l’estremo limite dinamico dato che egli arriva fino all’intensità del fff Mozart conosceva tutte le gradazioni dinamiche dal pp a ff (pp, p, mp, mf f ff). Purtroppo, secondo la tradizione di allora, egli si limitava semplicemente ad accennarle, e completarle nel modo richiesto dalla musica è un arduo problema d’interpretazione. Nell’Ottocento i revisori delle opere di Mozart esagerarono in questo senso e troppe sfumature dinamiche interrompono il fluire della musica, «il filo», come lo chiamava Leopold Mozart. Ma anche l’estremo opposto, cioè la completa rinuncia ad ogni aggiunta dinamica, può condurre a risultati altrettanto erronei. In simili circostanze sono ancora validi i suggerimenti che Quantz offre nel suo famoso testo:

«Da tutto ciò che si è detto, si vedrà che non basta soltanto rispettare il piano e forte, laddove essi sono annotati ma un accom­ pagnatore deve sapere introdurli giudiziosamente nei punti dove non sono indicati. Ciò richiede un buon insegnamento e una grande esperienza20.»

Quando Mozart divenne più vecchio e più maturo, più indipendente come uomo e come artista, cercò di evirare ogni ambiguità nella notazione, cosicché delle sue opere più tarde solo alcune presentano una notazione che non sia sviluppata per esteso. Il meraviglioso Rondò in la minore (K. 511) è un esempio della ricchezza di sfumature che Mozart richiedeva nell’esecuzione delle sue opere. Qui, finalmente, il manoscritto contiene indicazioni esatte e 30

Il suono di Mozart frequenti per resccuzione; sicché, per quanto riguarda la dinamica e il fraseggio, il brano è un esempio eccellente per iniziare lo studio dello stile mozartiano. È chiaro che nella produzione di Mozart, p e f sono definizioni generiche e p può significare p o pp, ma anche mp^ nella notazione moder­ na; mentre / include tutte le gradazioni da mf a ff. Naturalmente queste gradazioni vanno scelte caso per caso e una profonda conoscenza dell’opera è necessaria per decidere correttamente su alcuni punti particolari. Per esempio, non tutti i «forte» richiedono il massimo dell’intensità dinamica. Nella Violinschule (XII, § 17) Leopold Mozart scrive;

«.... dovunque si trovi annotato «forte», il suono va usato con mode­ razione, senza ridicoli grattamenti, specialmente nell’accompagna­ mento di un assolo. Molti lo omettono del tutto, o se lo eseguono, invariabilmente esagerano. Bisogna tener presente l’effetto. Spesso una nota richiede una forte accentazione, altre volte solo un’accen­ tazione moderata e poi, di nuovo, una appena udibile». È difficile stabilire regole generali, ma si può dire che f equivale a ff in un «tutti» finale, con trombe, timpani e tremolo di archi, come pure, nei brani altamente emotivi che appaiono nelle sezioni di sviluppo in molti movimenti delle sonate della maturità. Ma è soprattutto nei concerti strumentali che si notano chiaramente le gradazioni di volume di p e f. Negli assoli Mozart prescrive, nella maggior parte dei casi, un p uniforme per l’orchestra, sia che ad essa sia assegnata una parte importante del materiale tematico, o delle semplici note di accompagnamento (accordi sostenuti o ripetuti). In armonie di puro accompagnamento, le potenti orchestre moderne dovrebbero aver cura di mantenersi al livello di pp; mentre al culmine della melodia, non è soltanto permesso ma necessario che l’orchestra raggiunga un più alto livello dinamico. Abbiamo già detto che Mozart impiegava raramente indicazioni dina­ miche e gli assolo dei suoi concerti per pianoforte ne sono quasi totalmente privi; tuttavia, esaminando la struttura musicale, non è difficile individuare le dinamiche giuste. Le seguenti regole potrebbero qui essere di aiuto. Nella scrittura per pianoforte, un «forte» è appropriato nei casi seguenti: 1.

2.

3.

Passaggi di ottave e accordi pieni (vedi Sonata in fa (K. 533), secondo movimento, sviluppo; Concerto per pianoforte in do (K. 503), primo movimento, battute 298 e seguenti). Passaggi in accordi spezzati, su diverse ottave (vedere il Concerto in do minore, primo movimento, battute 332 e seguenti). Trilli nella cadenza di allegri e scale virtuosistiche in sezioni di svolgi­ mento (quasi sempre prima di una cadenza).

31

Capitolo primo

4.

5.

Note in tremolo o quasi-tremolo, come ottave spezzate (vedere la Fan­ tasia in do minore (K. 475), primo allegro, battuta 3; Concerto per pianoforte in mi bemolle (K. 482), primo movimento, battute 345 e seguenti). Spesso in volate per la mano sinistra (Concerto in do minore, terzo movimento, battute 41 e seguenti; Sonata in la minore, primo movi­ mento, battute 70 e seguenti; Sonata in re maggiore, (K. 576), terzo movimento, battute 9 e seguenti).

Naturalmente ci sono delle eccezioni. Nel Finale della Sonata in la minore (K. 310), il tema principale è in ottave nella mano sinistra, battute 64 e 203. In entrambi i casi Mozart richiede espressamente che queste ottave in legato siano suonate «piano». Il tema delle Variazioni su Come un Agnello di Sani, appare in molte edizioni con l’indicazione «piano dolce»; esso non è però un esempio di eccezione alla regola che prescrive il f nelle ottave. La suddetta indicazione non è autentica. Mozart usò questo tema nel secondo finale del Don Giovanni e aggiunse la indicazione «forte». È improbabile che nelle Variazioni egli desse allo stesso tema un carattere diverso.

Nella coda del Concerto in do minore, terzo movimento, le ottave del pianoforte suggeriscono un f Ma in Mozart, il carattere cupo di una serie di primi rivolti, in progressione cromatica, ha sempre connotazioni sinistre. Questo è un passaggio problematico e lo si potrebbe paragonare con l’inizio dell’ouverture del Don Giovanni (battute 23 e seguenti). Non c’è bisogno di sottolineare che i rarissimi pp e ff indicati da Mozart stesso, meritano una particolare attenzione (es. Sonata in la minore, primo movimento, battute 62 e 66). Non è per economia o fretta che Mozart si limitava alle sole indicazioni f e p. Per lui, e per molti compositori del suo periodo, la dinamica era più questione di disegno che di colore e, secondo l’estetica del tempo, piano e forte erano contrapposti come luce ed ombra. Questo giuoco di contrasti è una caratteristica di Mozart e non va attenuata. Nella sua musica ci sono molte meno transizioni dinamiche di quante se ne sentano oggi ed esse sono quasi sempre esplicitamente marcate «crescendo» o «decrescendo». Il lungo crescendo praticato dalla scuola di Mannheim del Settecento, è un effetto che Mozart impiegò solo raramente c che, all’occorrenza, indicò con esattezza minuziosa, come nel primo movimento della Posthorn Serenade (K. 320). La parola calando è frequente negli autografi di Mozart e per lui significa soltanto meno forte e non più lento, nel significato che assu­ merà in seguito. Lo dimostra il seguente passaggio della Sonata in la minore, primo movimento, battuta 14, dove un rallentamento del tempo sarebbe fuori posto:

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Il suono di Mozart

Se «calando» significasse anche «più lento» qui dovrebbe seguire un «a tempo», come Mozart usava aggiungere, per esempio, dopo un «rallen­ tando». Oggi c’è una certa confusione circa i segni di accentazione negli spartiti di Mozart. Egli usa spesso la notazione «sforzato», j/, in luogo dei segni > A , che allora non erano ancora in uso. La differenza è notevole se sf si trova nel contesto di un «forte» o di un «piano», se è un vero e proprio accento su una pane debole della battuta o se, invece, segna e sottolinea il vertice melodico di una frase, come nella seconda battuta dell'Adagio in si minore (K. 540, mis. 2), per pianoforte:

Spesso nel contesto di un «piano di carattere dolce», il segno sf indica soltanto un accento piuttosto debole. Molte esecuzioni, per il resto buone, sono rovinate da sforzati collocati indiscriminatamente e con troppa forza in un brano delicato e in «piano». In Mozart la notazione «forte-piano», fp> è, in qualche caso quasi sino­ nimo di «sforzato», cioè accentato. La nota dovrebbe avere un attacco deciso e immediatamente diminuire d’intensità, in modo da evitare quel graduale decrescendo che si sente spesso nelle esecuzioni moderne. Un esempio di questo tipo si trova nel Conceno in te minore (K. 466), terzo movimento, battute 341 e seguenti:

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Capitolo primo Nell’esempio seguente (Concerto in mi bemolle (K. 449), primo movi­ mento, battute 219-20), si dovrebbe già aver raggiunto il piano alla seconda semiminima:

In certi casi, quando Mozart voleva che un accordo sostenuto diminuisse gradualmente, scriveva sfp, come, per esempio, nel secondo movimento del Concerto per pianoforte in do maggiore (K. 503), battuta 2, (questa sua notazione del «diminuendo» è piuttosto eccezionale). Naturalmente l’accento sforzato non deve essere esagerato. Per esempio, le innumerevoli indicazioni di fp dei movimenti centrali delle sonate K. 309 in do cK. 310 in la minore, dovrebbero essere intese soltanto come indicazioni di una leggera accentazione a fine espressivi. Una spiegazione del «fortissimo» si trova in Quantz (XVII/VII, pp. 252 e segg. dell’edizione originale). Anche Leopold Mozart ne parla nella sua Violinschule (XII, § 8):

«È consuetudine accentare sempre fortemente le minime, quando sono mescolate a note brevi e poi, di nuovo, diminuire il tono ... E questa è proprio l’espressione che l’autore desidera, quando egli appone ad una nota il segno f c p, cioè, forte c piano. Ma, nell’accentare fortemente una nota, l’arco non deve essere sollevato dalla corda, come fanno certi maldestri individui, ma deve continua­ re nel suo movimento, in modo che il suono non sia interrotto ma si spenga gradualmente». Ed ancora, in una nota a I, III, § 19:

«Proprio come quando si colpisce forte una campana, il suono si spegne per gradi.» Spesso Mozart usò anche la notazione mfp, che ha quasi lo stesso significato di fp, solo che l’accento iniziale deve essere meno marcato. Con dissonanze (o ritardi) sembra indicare semplicemente che la nota dissonante (o sospesa) deve essere suonata un po’ più forte della risoluzione che segue. C’è, senza dubbio, da fare distinzione fra questo fp e la indicazione dinamica, molto spesso usata da Mozart, for:pia, che egli impiega quando in un adagio, per esempio, la prima semiminima deve essere molto soste­ nuta, e la seconda, suonata p\ es. Adagio in si minore (K. 540), battuta 9, o la Fantasia in do minore (K. 475), battute 11 e segg. A questo punto,

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Il suono di Mozart VAlte Mozart-Ausgabe (A.M.A.), cambia erroneamente il foripia, di Mozart, in fp. Con fp, il p comincerebbe con la seconda semicroma di ogni battuta, mentre Mozart voleva che cominciasse con la quinta. C’è qualche controversia circa l’interpretazione di accordi scritti nel modo seguente:

che ricorrono costantemente in opere per pianoforte dove accordi forti debbono essere bene accentuati e a pieno volume (cs. Concerto K. 503, primo movimento, battute 298 e segg.). Noi crediamo che, in generale, tale notazione indichi un’accentuazione. Solo raramente sarà giusto eseguire, alla lettera, le parti mediane o gravi più brevi. In molti casi lo si potrebbe interpretare come segno di arpeggio improvvisamente interrotto (Sonata per pianoforte K. 310, secondo movimento, battuta 82), ma non ne siamo sicuri, dato che l'indicazione di Mozart, per «arpeg­ giando», è una sbarra traversa sull’accordo (vedi p. 126). Secondo Turk {Klavierschule, seconda edizione, 1802, p. 329), questi accordi vanno eseguiti come sono scritti. . La musica rococò del diciottesimo secolo, si compiaceva di effetti di eco; anche Mozart deve averli usati, qualche volta, ma meno spesso dei suoi contemporanei. Tali effetti non mancano nelle opere di musicisti del «periodo della ragione», e in quelle di compositori della generazione successiva. Nel suo libro di testo Quantz dava il seguente avvertimento: «Quando ci sono idee, ripetute o simili, consistenti in mezze o intere battute, nello stesso tono o trasposte, la ripetizione di un tale brano può essere più attenuata della prima esposizione21».

Anche Turk, nei suoi metodi per pianoforte del 1789, 1792 c 1804, consiglia l’uso frequente della dinamica dell’eco, anche senza citare particolari compositori. Comunque, bisogna essere cauti nel l’introdurre quest’effetto nell’opera di un musicista classico come Mozart. Non c’è nulla di più noioso della costante, stereotipata ripetizione di effetti di eco che spesso frammentano irrimediabilmente la linea d’insieme. Essi trovano posto solo in giri di frase spiccatamente galani e giocosi (es. nel Concerto in mi bemolle (K. 482), terzo movimento, battute 120-1, 173-4, 180-1), ma non certo nelle codette, dove una delle caratteristiche di Mozart, è di rafforzare l’effetto della ripetizione. Dalle poche composizioni in cui Mozart si attiene ad una notazione scrupolosamente esatta, è chiaro come egli intendesse limitare al massimo l’uso dell’eco. In tutta la Sonata in la minore c'è solo un 35

Capitolo primo passaggio di questo tipo, nel primo movimento, battuta 18 (c nella ripresa, battuta 99). Nella Sinfonia Haffner, di nuovo, Mozart evita di proposito l’eco, quando i motivi sono ripetuti (nel Presto, battute 11-12, 17-19, ecc.), anche se qui l’effetto non disturberebbe. Egli lo usa solo una volta (battute 102-3)22. .................................................. D’altra parte, ci sono moltissimi esempi di brani in cui Mozart voleva che la ripetizione fosse più forte. Se per esempio, un tema di due o quattro battute, è prima eseguito dal solo pianoforte e poi ripetuto con accom­ pagnamento di orchestra, ogni effetto di eco è, in questo caso, ovviamente precluso. Un esempio del genere si trova nel Concerto in mi bemolle (K. 482), primo movimento, battute 312-15, e nel Concerto per due pianoforti (K. 365), primo movimento, battute 96-99 ecc. Alla battuta 155 del primo movimento del Concerto K. 482, la ripetizione del motivo dalla battuta 153 ha un’intensità ritmica ancora maggiore, ed anche questo preclude ogni effetto di eco. Un incantevole «eco doppio» appare tuttavia, nel Concerto in mi bemolle (K. 271), terzo movimento, battute 196-200 (e analoghi passaggi). Mozart valutava moltissimo la stretta osservanza delle sue indicazioni dinamiche. Nelle sue lettere, che sono sempre una miniera di informazioni per gli studiosi, egli scrive:

«Cominciai ad insegnare (la Sonata) a Mile.Rosa, tre giorni fa. Oggi abbiamo finito l’Allegro di apertura. Più di tutto ci darà da fare FAndante, perché è molto espressivo e va eseguito accuratamente e con le esatte sfumature di forte e piano, proprio come sono scritte23».

Questo ci riporta alla necessità della «fedeltà» al testo, intesa nel miglior senso' della parola ... Mozart era, per natura, nemico di ogni esagerazione. Il suo credo artistico è così compendiato in una lettera al padre del 1781: «... come le passioni, violente o no, non devono mai essere espresse in modo da suscitare disgusto, così la musica, anche nelle situazioni più terribili, non deve mai offendere l’orecchio, ma deve piacere a chi l’ascolta, o, in altre parole, non deve mai cessare di essere musica ...24>. .

Tutto questo si applica perfettamente al suo concetto di espressione sonora. In Mozart, il suono dovrebbe sempre avere qualcosa di nobile ed aristocratico. Egli non ignorava certo i toni dolci e voluttuosi, i livelli più tenebrosi della sensibilità; la sua musica esprime una varietà illimitata di stati d’animo ma anche nei momenti più intensi essa rimane trasparente e bella.

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Capitolo secondo

PROBLEMI DI TEMPO E DI RITMO

1.

Tempo.

«... Si deve anche saper dal brano musicale se esso richieda un tempo lento o alquanto più rapido. È vero che all’inizio di ogni brano ci sono particolari annotazioni che lo caratterizzano, per esempio, «Allegro», «Adagio» e così via, ma esistono diverse gradazioni di «lento» e «veloce» ... Perciò si deve saper dedurre il tempo dal componimento stesso e questa capacità rivela in modo inequivocabile il vero musicista. In ogni melodia c’è almeno una frase che indica chiaramente il tempo da adottare. E se si osserva ogni altro particolare, spesso la frase musicale si compone di necessità nel suo ritmo naturale. Ricordalo, ma sappi anche che per raggiungere una tale sensibilità occorrono lunga esperienza e chiaro discer­ nimento. E chi potrà contraddirmi se dico di considerare questa una delle qualità più importanti nell’arte della musica?»

I.

Queste parole si trovano nella Violinschule di Leopold Mozart (I, HI, 37)25. «Lunga esperienza e chiaro discernimento» aiutano a giudicare il tempo appropriato, ma è necessario anche il senso dello stile. Nessun tempo è giusto se non con l’esclusione di tutti gli altri. Ogni musicista conserva una cena libenà d’interpretazione che non va sottovalutata c, 37

Capitolo secondo entro un certo limite, ogni tempo può essere artisticamente valido. Cercheremo qui di definire i limiti di questa libertà. Si continua a ripetere che «i musicisti del passato rimarrebbero atterriti dal ritmo veloce delle esecuzioni di oggi. È inconcepibile che al tempo loro si suonasse a tale velocità!». Si è tentati infatti di concludere che nel secolo della velocità siano accelerati anche i tempi deH’esccuzione musicale; ma ciò non sembra del tutto esatto. Dire che «più la musica è antica e più è lenta» è certamente sbagliato. Esaminando la storia della musica troviamo che nella metà del XVIII secolo, J.J. Quantz, il famoso maestro di flauto di Federico il Grande, misurava matematicamente il tempo di ogni composi­ zione servendosi del battito del polso calcolato a ottanta pulsazioni al minuto. Per un «allegro assai» in 4/4, egli prescriveva una «minima per ogni pulsazione», cioè MM J = 80, mentre per un «allegro assai» nel tempo «alla breve», richiedeva un tempo doppio del precedente. Ne risultavano tempi straordinariamente accelerati per le composizioni del suo secolo. Sembra quindi che nella seconda metà del Settecento i tempi fossero, semmai, più rapidi dei nostri e non più lenti. Vero è peraltro che Quantz dichiara espressamente che le sue indicazioni non vanno seguite alla lettera c che nella scelta del tempo incidono vari fattori, in particolare «le note più rapide contenute nel brano». Oltre al polso, ci sono altri «tachimetri» naturali nel corpo umano, per esempio, il ritmo del passo normale; azioni abituali, cioè, così fermamente radicate da non essere suscettibili di apprezzabili alterazioni nel corso dei secoli o per il mutare dei tempi. Mozart non ha lasciato annotazioni, né basate sul metronomo né sul battito del polso. Per la scelta dei tempi dobbiamo basarci sulle poche, imprecise indicazioni che troviamo nelle sue lettere, dove, per esempio, egli lamenta l’uso di tempi troppo rapidi da pane di alcuni esecutori, o mette in guardia dal suonare ceni brani troppo lentamente. Le sue osservazioni sono immediate e precise; rientravano nella sua attività musicale quotidiana e pertanto sono scritte senza alcun intento di pubblicazione. Anche se è difficile trarre da esse principi generali, penso che dovremo citare almeno le più importanti, non fosse altro per gratitudine verso lo stesso Mozart, scegliendo quelle che meglio ci aiutano a capire questo «difficilissimo ed essenziale requisito nella musica». Della Sinfonia Haffner Mozart scrive (7 Agosto 1782): «Il primo Allegro deve essere suonato con fuoco, l’ultimo il più velocemente possibile.»

E trattando àeW Entfùhrung aus dem Serail, nella famosa lettera del 26 Settembre 1781: «11 brano Drum beym Barte des Propheten è sì nello stesso tempo ma con note più rapide; via via che la rabbia di Osmin cresce e proprio quando l’aria sembra alla fine c’è un «allegro assai, in 38

Problemi di tempo e di ritmo

misura e tonalità completamente differenti. E ciò non può che essere di grande effetto perché, proprio come un uomo travolto da rabbia violenta supera ogni limite di ordine, moderazione e rispet­ tabilità e perde il controllo di sé, così anche la musica deve scatenarsi». Del finale del primo atto Mozart dice:

«Poi comincia immediatamente la tonalità maggiore, con un pianis­ simo che si deve suonare rapidamente; la conclusione invece sarà fragorosa». Quando, a proposito deH’Ouverture àt\V Entfilhrung, egli dice nella lettera: «c dubito che qualcuno si addormenti, anche se ha passato una notte insonne» sembra di nuovo proporre un tempo tutt’altro che soporifico. D’altra pane, non mancano osservazioni che mostrano in modo chiaro quanto egli fosse contrario ad esecuzioni troppo veloci delle sue opere: «... prima di cena egli (l’Abate Vogler) si buttò a strapazzare a prima vista il mio concerto (quello che di solito esegue la figlia e che è stato scritto per la Contessa Lùtzow). Attaccò il primo movimento prestissimo, 1* Andante allegro e il Rondò ancora più velocemente. Rese la parte del basso in modo diverso da come è scritta, inventan­ do, qua e là, armonia e melodia del tutto nuove. A quella velocità non si può far diversamene, perché gli occhi non riescono a leggere la musica e le mani ad eseguirla. E allora, a che giova? Per me questo modo di suonare a prima vista c ’’merde’. Gli ascoltatori (e intendo quelli degni di tale nome) possono solo dire di aver visto suonare della musica al pianoforte, e di aver ascoltato, pensato e sentito così poco come lui. Puoi facilmente immaginare quanto ciò fosse insop­ portabile. D’altra parte non mi sentii di dirgli ”Ma è troppo veloce!». E poi c più facile suonare in fretta che lentamente: nei punti dif­ ficili si può saltare qualche nota, senza che nessuno se ne accorga. Ma è bello questo? Suonando così velocemente la mano destra e la sinistra si possono scambiare senza che nessuno veda o senta; ma è bello questo? E in che consiste l’arte di suonare a prima vista? in questo: ncll’cscguire il brano nel tempo giusto, suonando tutte le note, le appoggiature e così via ... come sono scritte, con espressione e gusto appropriati, così da far pensare che l’interprete stesso abbia composto il brano26».

Più oltre, Mozart dice di preferire il modo di suonare dell’allieva sedicenne Aloysia Weber a quello del celebre Abate Vogler: 39

Capitolo secondo «La signorina Weber ... suonò due volte al clavicordo c non suona male affatto. Ciò che più mi sorprende è la sua eccellente lettura a prima vista. Lo crederesti che ella eseguì le mie diffìcili sonate, a prima vista, lentamente e senza saltare una nota! In fede mia, pre­ ferisco sentire le mie sonate eseguite da lei piuttosto che da Vogler!27».

Non crediamo che il giudizio di Mozart sulle doti musicali di Aloysia fosse influenzato dal suo amore per lei. Per quanto riguarda la musica, il giudizio di Mozart fu sempre ed assolutamente imparziale. Quasi contem­ poraneamente infatti, in una lettera al padre, egli parla delle qualità canore di Aloysia e vediamo che il giudizio non è certo lusinghiero. Anche il compositore F.X. Sterkel viene criticato. Egli suonò cinque duetti «Così in fretta che era difficile seguirli, in modo non chiaro c fuori tempo28». Mozart è sempre contrario a tempi troppo accelerati che vanno a danno della chiarezza e dell’esattezza ritmica. In questo egli era d’accordo col padre. Anche Leopoldo trovava che spesso i tempi erano troppo rapidi:

«Francamente io non sono amante dei brani molto veloci, dove, per produrre le note, è necessaria la mezza sonorità del violino e a malapena si toccano le corde con l’arco e, per così dire, si suona in aria29». Negli anni seguenti e dopo la morte del padre il tema dei tempi non appare più nelle lettere di Mozart, ma le osservazioni dei con temporanei possono qualche volta farci da guida. I ricordi di Mozart di Rochlitz, pubblicati ne\\' AJlgemeine Musikalische Zeitung di Lipsia, nel dicembre 1798, sembrano autentici, nonostante che all’autore sia stata spesso rimpro­ verata una troppo fertile immaginazione: «Nulla suscitava le animate proteste di Mozart più del ’’pasticcio” delle sue composizioni eseguite in pubblico a velocità eccessiva. ’’Credono di aggiungervi fuoco” soleva dire, ”11 fuoco deve essere nel brano stesso, non lo si produce suonando a galoppo” ...». Vent’anni dopo la morte di Mozart c’erano già chiare divergenze di opinioni circa i tempi delle sue opere:

«Basta notare, per esempio, la grande diversità di tempi adottati, in vari luoghi, nell’esecuzione di alcuni pezzi, anche molto noti e caratteristici. Per fare un esempio, io sentii l’ouverture del Don Giovanni, diretta dall’autore stesso ed eseguita dalla Società Guardasonic di Praga (così si chiamava allora), e l’ho sentita anche al­ trove, incluse Vienna, Parigi e Berlino. L’Adagio era leggermente

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Problemi di tempo e di ritmo

più lento a Parigi, notevolmente più rapido a Vienna, a Berlino due volte più veloce che sotto la direzione di Mozart; e in tutti e tre i casi, l’Allegro era più o meno rapido di quanto lo suonasse Mozart30».

È interessante apprendere che Mozart tendeva ad eseguire gli Allegri in tempo moderato. Oggi i movimenti contrassegnati semplicemente «Allegro» si eseguono spesso troppo velocemente. Quando Mozart voleva indicare un movimento davvero veloce annotava «Presto» o «Allegro assai». Un semplice «Allegro», nel significato originale della parola, equivale a «gaio, vivace». Per esempio, quanto più efficace è il Rondò in re maggiore (K. 485) se suonato gaiamente, con grazia, anche se con ritmo fluente, e quanto meno interessante se suonato semplicemente «veloce»! Per i movimenti «andante» e «adagio», le osservazioni di Mozart e dei suoi contemporanei suggeriscono una preferenza per un tempo fluente. Naturalmente, capita di sentire qualche volta un solenne, maestoso adagio reso con ritmo niente affatto solenne e troppo rapido; ma di solito avviene il contrario, l’andante è suonato troppo lentamente e con troppo pathos. In una lettera al padre, Mozart dà alla sorella alcuni consigli circa l’esecuzione dei Conceni K. 413, 414 e 415: «Ti prego di dire a mia sorella che non ci sono ’’adagi” in questi conceni, solamente ’’andanti”31».

Al tempo di Mozan l’andante non era in realtà un tempo lento; ciò avviene in seguito nel diciannovesimo secolo. Per Mozan esso era un tempo abbastanza sconevolc, ancora secondo il significato letterale della parola ’’movendo” t a metà tra il lento c il rapido. Sul manoscritto del Rondò in fa maggiore (K. 494) egli annotò ’’Andante”, ma due anni dopo lo usò come Finale della Sonata in fa maggiore (K. 533), contrassegnandolo ’’Allegretto”. Naturalmente non tutti gli andanti di Mozart richiedono lo stesso tempo e, per un ceno numero di essi, si dovrebbe aver cura di evitare un’esecuzione troppo veloce. Ci deve essere sempre una chiara distinzione tra l’andante leggero, "grazioso”* e l’andante sentito come movimento intimo e profondo (vedi quelli del Concerto in do maggiore (K. 503) e delle Sonate per pianoforte in la minore (K. 310) e si bemolle maggiore (K. 570). A proposito delle fughe che inviò alla sorella a Salisburgo nel 1782, egli osserva: * Un bell’esempio leggero e fluido è T'andante grazioso’, movimento centrale del Trio in mi bemolle (K.542). Tempo proposto J — c. 58. Neppure l’andante grazioso della sonata in la maggiore (K. 331) dovrebbe essere csctuito troppo lentamente, jl— 1 38-44, ma 'grazioso , cioè cor. grazia c con ritmo ondulato; si veda ad esempio il leggero ritar­ dando nelle battute 12-18. Per le Variazioni I-IV raccomandiamo^ = 144-52, per la variazione finale = c. 132-28.

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Capìtolo secondo «Ho scritto in alto ’’Andante maestoso” di proposito, perché non deve essere suonata troppo velocemente. Se una fuga non è eseguita lentamente l’orecchio non distingue il tema, quando esso è introdotto, c di conseguenza, se ne perde completamente l’effetto32». Un altro andante che certo non deve essere suonato troppo velocemente è quello della Sonata per violino in si bemolle (K. 454). Mozart lo chiamò inizialmente «Adagio», poi cancellò c cambiò in «Andante». La ragione è chiara per chi conosce la sonata. L’insolita lunghezza di questo movimento richiede di per sé un tempo più mosso che sostenga il componimento. D’altra parte le battute 30-33 indicano che questo andante, somigliante ad un adagio, deve essere suonato in modo relativamente lento, perché, se il tempo iniziale è troppo veloce, queste battute possono difficilmente essere suonate con adeguata espressione (Noi proporremmo un tempo di J_ 52) L’Andante del Concerto in do maggiore (K. 503) dovrebbe essere eseguito ancora più lento. Esso è per natura molto simile ad un adagio35.

Allo stesso modo, Mozart annotò il secondo movimento della Sonata K. 309 «Andante un poco adagio» e, il 6 dicembre 1777, così scriveva al padre: «L’Andante, che non deve essere troppo rapido, ella lo esegue con grandissima espressione». In un adagio in 3/4 il tempo dovrebbe essere tale da fare ancora sentire il ritmo nelle battute complete. In tal modo, ornamentazioni in valori brevi si possono eseguire melodicamente ed uniformemente, senza accenti superflui, pur conservando la loro espressività.

Un’interessante indicazione di tempo è quella data da Nissen per la famosa aria di Pamina, in sol minore, del Plauto magico, «Ach, ich fòhl’s»: anch’essa è annotata «Andante». Nissen, che era a Vienna nel 1793, scrive, nella sua biografia di Mozart, che allora il tempo di quell’aria era da «6 a 7 Rhein.Zoll», secondo la tradizione ereditata da Mozart. (Il Rhein.Zoll era un misuratore a pendolo che può essere considerato un rudimentale pre­ cursore del metronomo). Questa unica e specifica indicazione di tempo merita la nostra attenzione, anche se l’intervallo di più di un anno, rende incerta l’esattezza della tradizione. Presa alla lettera o approssimativamente, essa indica un andante, a nostro parere incredibilmente rapido: misurata col metronomo essa da un valore di = 138-4834. Un tempo così rapido sembrerebbe a prima vista impossibile, ma è molto importante sapere che, quasi tutti i compositori successivi che lasciarono accurate indicazioni metronomiche per i loro andanti, erano della

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Problemi di tempo e di ritmo

stessa opinione . * L’Andante di Chopin nel Notturno in re bemolle, op. 27, n. 2 (J = 50) è altrettanto rapido! Anche Beethoven, con l’originale indicazione per il secondo movimento della seconda Sinfonia = 92, mostra di considerare questo tempo «fluido»; e lo,stesso possiamo dire di Schumann, se osserviamo, per esempio, l’Andante J = 100 nella Tràumerei. E potremmo continuare fino a Hindemith, il quale ha definito il terzo movimento della sua Terza Sonata (un tipico andante), «Màssig schnell» ’’moderatamente rapido”, J= c.84. Nel considerare il problema vitale dei tempi, c’è da tenere presente che la piena sonorità provoca una certa «inerzia»; più il suonatore è leggero più consente una migliore agilità e ciò è un elemento decisivo nella musica di Mozart. Se si ha cura di adottare un suono privo da pesantezze si resterà sorpresi dalla grande possibilità di espressione, anche in un andante fluente. Forse le singole note ne risentiranno un po’ ma ciò sarà ampiamente compensato dalla coerenza dell’intera frase. In generale, i compositori concepiscono i movimenti lenti più rapida­ mente di quelli adottati di fatto dagli esecutori. D’altra parte, nelle incisioni e nelle esecuzioni delle loro opere, i musicisti moderni mostrano di adottare spesso tempi più lenti di quelli indicati nelle indicazioni metronomiche. Ciò si spiega col fatto che il suono deve essere creato e nella sua realizzazione intervengono fattori di inerzia, meccanici ed acustici. £ quindi naturale che l’opera fluisca più facilmente c liberamente nella mente deH’autore. Detto questo, non si deve però rallentare il tempo dell’esecu­ zione, cosa che, purtroppo, avviene spesso. Non sorprende che la musica di Mozan abbia dato origine a differenti opinioni, riguardo ai tempi, più di quella di più recenti compositori, i quali hanno spesso lasciato indicazioni mctronomichc come base per l’interpreta­ zione. Ci sono molti musicisti convinti che la musica mozartiana vada eseguita con tocco «di piuma», leggero e rapido. Essi spiegano questa opinione col temperamento gioioso e, diremo, fanciullesco di Mozart, la sua prodigiosa facilità nel superare anche le più grandi difficoltà tecniche, o la grazia innata del suo idioma che è, indubbiamente, molto meno pesante di quella di Beethoven o di Brahms. Altri musicisti sono dell’opinione opposta ed evidenziano in Mozart gli elementi tragici c demoniaci. Decisi a rigettare l’immagine di un Mozart olimpicamente sereno ed euforico, ricco c felice creatore di melodie durante tutta la sua vita, questi ultimi spesso corrono il rischio di vedere la tragedia in opere che in realtà sono semplicemente gaie e distese e la cui grazia può

* Questo è un buon esempio d: brano, in cui il tempo molto spesso è ’strascicato’ con il pretesto della 'espressione . L’aria di Bach dalla Passione secondo Matteo ‘Erbame Dich mein Gott’, che suscita la più profonda emozione, non dovrebbe essere eseguita troppo lenta come non dovrebbe essere 'strascicato' il Preludio in mi bemolle minore dal 1° libro del Clavicembalo ben temperato.

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Capitolo secondo essere facilmente annullata da una interpretazione troppo seria. Naturalmente entrambi i punti di vista contengono un elemento di verità: Mozart può essere felice e tragico: e questa è una delle caratteristiche che lo rendono unico nella storia della musica. Anche nelle sue opere più «galant» c’è una traccia di profonda serietà, e l’opposto è altrettanto vero. Nella scelta dei tempi è importantissimo individuare il carattere particolare di ogni composizione. Per esempio, il primo movimento del Conceno tragico di do minore (K. 491) perderebbe molta della sua profondità espressiva se reso troppo velocemente; così pure il secondo movimento del Conceno in mi bemolle (K. 271). Per quest’ultimo noi suggeriremmo un tempo di J>= 80-84. Ma è forse meglio non cercare di essere troppo esatti, dato che il movimento ha qualcosa del recitativo ed una rena libenà è • quindi accettabile. Movimenti brillanti di minore intensità spirituale richiedono tempi rapidi per il massimo effetto: per esempio, il primo movimento del Concerto per l'incoronazione, i primi movimenti delle Sonate per pianofone K. 284-309-311, il primo c terzo movimento della Sonata per pianofone a quattro mani K. 381, e il primo movimento della Sonata per due pianofoni K. 448, (J= 152). È interessante notare che quasi tutti questi movimenti sono in re maggiore. Indicazioni di anicolazione di Mozan suggeriscono spesso il tempo appropriato. Nei movimenti laterali del Conceno in si bemolle ci sono finezze di anicolazione, impossibili da rendersi in un tempo troppo veloce. Primo movimento, battuta 99 (tempo consigliato J = 129-32):

Anche nel terzo movimento l’anicolazione è un indice del tempo corretto (battute 1-8):

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Problemi di tempo e di ritmo

battuta 102 e seguenti:

I

battuta 150 e seguenti: (tempo consigliato J. = 108-166):

Un altro movimento in cui un tempo abbastanza moderato risponde meglio al carattere della musica è il finale del Concerto per pianoforte in mi bemolle (K. 449); ecco perché Mozart lo definì «Allegro ma non troppo». Con un tcippo veloce esso perderebbe il suo incomparabile incanto (tempo consigliato d - 108-116). Nelle indicazioni di tempo Mozan era più accurato di quanto si creda e, poiché anche oggigiorno c’è ancora molta confusione circa il significato di tali indicazioni, proveremo ad elencarle in un certo ordine:

Largo è il tempo più lento dato che, per quanto ci risulta, Mozan non usa l'indicazione «lento» nelle composizioni per pianoforte. Un esempio di

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Capitolo secondo «largo» è l’introduzione del primo movimento della Sonata per violino in si bemolle (K. 454); suggeriremmo un tempo di = 69-72.

Adagio. Anche se decisamente indica un tempo lento, è da tener presente che nel Settecento l’adagio era più fluente che nell’ottocento. Negli «Adagio» di opere mozartiane di tipo «galant», si dovrebbe come regola adottare un tempo più mosso che per gli «Adagio» marcatamente lirici delle opere tarde (Sonata K. 457, secondo movimento, 76, o 76-80, nella sezione centrale in la bemolle; Fantasia in do minore (K. 475), introduzione, 72-80; battuta 11 e seguenti. = .80-4; sezione in re maggiore, 80-8; Adagio in si-minore (K. 540), 76, ecc.). L’adagio festoso all’inizio della Fantasia in do maggiore è un caso speciale e dovrebbe avere un tempo di J^= 92. Un tempo più mosso (, 19)). Salisburgo. 1954. — ‘Ueber das Mozart-Klang’, in Mo^rl-Jahrbiub, 19)0. pp. 62 segg. Salisburgo. 1951 — ‘Ueber Mozarts Adagio-Take . in Mozart-Jabrbueb, 7^/7. Salisburgo. 195?. — ‘Ueber Mozarts Melodik’, in Mo\art-Jabrbucb, 19)2. Salisburgo. 1 95 3. sirauss. r.: Recollections and Reflections. (trad. ingl. L J. Lawrence) Londra. Booscv & Hawkes 195 3 dell'originale ir. tedesco: Betrachtungen und Erhincnnigcn. Zurigo e Fri­ burgo i. Breisgau. 1949). strawinsky. I.: Poetics of Music. Trad. ingl. A. Knodel c 1. Dahl. Harvard Umversitv Press. 1947. iT.NstaiEKT, k.: ‘Richard Strauss und Mozart’, in Magasi-Jabibiuh, 191). Salisburgo. 195 5. ‘ iosi. P.I.: Opinioni di cantori antichi e moderni o sieno Osservaifoni sopra il canto figurato. Bologna. 1723. Turk, g.d.fr.: Klavierschule. 2a ediz. Halle, 1802. viRNfisEi., w. : ‘Mozartiana (Berichtigung)'. Miisityorschung, Vili. 1 95 5. wiunmann, a.: Verzeichnis der Verlagswerke des Mv.sikalischen Magazins in Wicn, 1784-1802’, Vienna, 1950. — [7 olistandings Verlagsverigicbnis Ariana Co.. Vienna. 19 52 woi.i,