La testimonianza del discepolo. Introduzione alla letteratura giovannea
 8801047177, 9788801047172

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La letteratura giovannea comprende cinque scritti neotestamentari legati al nome di Giovanni e accomunati da importanti fattori stori­ ci, letterari e teologici. Il Vangelo secondo Giovanni è l'opera princi­ pale di questo insieme, definito "spirituale" dagli antichi proprio per evidenziarne la singolarità: conserva infatti la ricchezza cristologica ed ecclesiale della tradizione legata al testimone oculare, il discepolo del Signore, garante della verità evangelica. Al Vangelo si affiancano

tre Lettere, diverse per mole e per contenuti, ma legate alla stessa re­ altà linguistica e teologica. Infine l'Apocalisse, sebbene molto diver­ sa dai precedenti scritti, contiene esplicitamente il nome di Giovan­ ni e fornisce le coordinate storico-geografiche per ambientare questo gruppo di scritti canonici. L'elemento principale che li accomuna è l'insistenza sulla testimo­ nianza che il discepolo rende a Gesù Cristo: il riferimento al passato riguarda la garanzia offerta dal testimone oculare, mentre nel presen­ te e nel futuro lo stesso impegno di testimonianza è richiesto a tutti i discepoli, destinatari di tali opere. Questi cinque scritti sono dunque il risultato di un'esperienza entu­ siasmante di Chiesa che, nell'arco di settant'anni, affrontando situa­ zioni storiche ed esistenziali molto diverse, ha custodito «ciò che era da principio» e l'ha trasmesso col contributo di molti, dando origine ad un'opera corale e geniale. Lo studio diacronico della storia di com­ posizione di questi scritti può aiutare ad apprezzare con gusto la loro ricchezza e varietà, mentre la lettura sincronica permette di valoriz­ zare il racconto organico dell'evangelista, l'abilità argomentativa dei testi epistolari e la fantasmagorica profezia delle visioni apocalittiche.

Claudio Doglio, presbitero della Diocesi di Savona, ha conseguito la licenza in Scienze Bi­ bliche al Pontificio Istituto Biblico e il dottorato in Teologia Biblica all'Università Gregoria­ na di Roma. È docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrio­ nale, nelle sedi di Genova e Milano, e parroco a Varazze. È stato condirettore e redattore della rivista "Parole di Vita'' e ha pubblicato diversi articoli e studi biblici, fra cui: Il primo­ genito dei morti. La risurrezione di Cristo e dei cristiani neU:Apocalisse di Giovanni (Bologna

2005), Introduzione alla Bibbia (Brescia 2010), Beati voi! La bella notizia delle Beatitudini (Assisi 2011), Apocalisse (Cinisello Balsamo 2012), Imparare Cristo. La figura di Gesù Ma­ estro nei vangeli (Cinisello Balsamo 2014). ISBN 978-88-01-04717-2

€22,00

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9 788801 047172

GRAPHÉ. Manuali di introduzione alla Scrittura (diretta da C. Doglio, G. Galvagno e M. Priotto)

Collana:

l. M. PRIOITO , Il libro della Parola. Introduzione alla Scrittura (201 6)

2.

G. GALVAGNO- F. GIUNTOLI, Daiframmenti alla storia.

Introduzione al Pentateuco (2014)

3.

F. DALLA VECCHIA, Storia di Dio, storie di Israele.

Introduzione ai libri storici (2015)

4.

T. LORENZIN, Esperti in umanità. Introduzione ai libri sapienziali e poetici (2013)

5.

P. ROTA SCALABRINI, Sedotti dalla Parola.

Introduzione ai libri profetici (2017)

6.

Vangeli sinottici e Atti (P. Mascilongo - A. Landi)

7.

A. PIITA, L'evangelo di Paolo. Introduzione alle lettere autoriali (2013)

8.

A.

MARTIN

-

C. B ROCCARDO -M. GIROLAMI,

Edificare sul fondamento.

Introduzione alle lettere deuteropaoline e alle lettere cattoliche non giovannee (2015) 9.

C. Doouo, La testimonianza del discepolo. Introduzione alla letteratura giovannea (2018)

10. Teologia biblica, teologia della Bibbia (R. Vignolo)

Claudio Doglio

La testimonianza del discepolo Introduzione alla letteratura giovannea

GRAPHÉ 9

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ILLEDICI

V ISTO, NULLAOSTA: Torino, 6 agosto 2018 Marco Bertinetti, Rev. del. IMPRIMATUR: Torino, 5 settembre 2018 Moos. Valter Danna, Vie. generale



www.ELLIDICI.org © 2018 Editrice ELLEDICI Corso Francia, 333/3-1014 2 Torino 'D' 011 9 552111 � [email protected] ISBN 978-88-01-04717-2

GRAPHÉ Manuali di introduzione alla Scrittura

In continuità ideale con Il messaggio della salvezza e Logos, collane che hanno segnato la divulgazione e la for­ mazione biblica negli studi teologici italiani dopo il Concilio Vaticano II, nel 2010 un gruppo di biblisti ha deciso, in ac­ cordo con l'Editrice Elledici, di procedere all'elaborazione di un nuovo progetto. Nasce così questa serie di volumi, in­ titolata GRAPHÉ . Manuali di introduzione alla Scrittura. Il vocabolo greco «graphé» indica come termine tecnico quel­ lo che in italiano chiamiamo la «Scrittura»: nel Nuovo Te­ stamento, infatti, viene comunemente adoperato, insieme al plurale «graphai» (Scritture), per indicare la raccolta dei libri sacri della tradizione ebraica, accolti anche dalla comu­ nità cristiana e integrati con le nuove opere degli apostoli incentrate su Gesù Cristo. Al di là del titolo, evocativo del­ l'ambiente delle origini cristiane, il sottotitolo precisa di che cosa si tratti. L'obiettivo a cui mira tale progetto è quello di proporre un corso completo di studi biblici di base, fornendo manuali utili per i corsi biblici nelle Facoltà di Teologia, negli Stu­ dentati dei Seminari e negli Istituti Superiori di Scienze Re­ ligiose. Non si tratta, pertanto, di ricerche nuove su parti­ colari argomenti, ma dell'inquadramento complessivo della materia, proposto in modo serio e accademico agli studenti che iniziano lo studio della Sacra Scrittura. Mancano pure saggi di esegesi specifica, perché questi vengono lasciati al­ l'iniziativa dei singoli docenti, che possono così, in sede di lezione frontale, innestare gli approfondimenti sulla base introduttiva offerta da questi volumi. 5

Gli autori dei vari volumi sono biblisti italiani, impe­ gnati da anni nell' insegnamento della specifica disciplina che presentano: per questo possono più facilmente rap­ portarsi in modo realistico con gli effettivi destinatari dell'opera e proporre così in forma organica corsi già te­ nuti e quindi effettivamente realizzabili negli attuali piani di studio. Il piano dell'opera prevede dieci volumi con la divisione della materia secondo gli abituali moduli accademici. De­ terminano la cornice dell'insieme il primo volume dedicato all'Introduzione generale e il decimo che offrirà alcune linee di Teologia biblica. Degli altri volumi quattro trattano i libri dell'Antico Testamento (Pentateuco, Libri storici, Libri sa­ pienziali e poetici, Libri profetici) e quattro introducono il Nuovo Testamento (Vangeli sinottici e Atti degli apostoli, Lettere di Paolo, Letteratura paolina e lettere cattoliche, Letteratura giovannea) . Ogni volume si impegna a presentare in modo chiaro il quadro complessivo di riferimento per le singole sezioni bi­ bliche, proponendo lo stato attuale della ricerca. In linea di massima le componenti costanti per ogni tomo sono: l'in­ troduzione generale alle problematiche della sezione, poi l'introduzione ai singoli libri secondo la successione ritenuta scolasticamente più utile e quindi la trattazione di tematiche teologiche rilevanti, più o meno trasversali alle varie opere del settore. L'articolazione delle introduzioni ai diversi libri varia necessariamente a seconda del tipo di volume, ma un ele­ mento è costante e costituisce la parte più originale di que­ sta collana: si tratta di una guida alla lettura, in cui l' autore accompagna il lettore attraverso l'intero testo, mostrando­ ne le articolazioni, gli snodi e gli sviluppi. Lungi dall'essere un semplice riassunto, costituisce una concreta introduzio­ ne al contenuto e alle problematiche dell'intero libro, con la possibilità di presentare l 'insieme del testo letterario, per far cogliere allo studente il modo in cui il testo si di­ spiega. 6

Lo stile dei testi è intenzionalmente semplice e chiaro nell'esposizione, senza periodi troppo lunghi e complessi, con un uso moderato di termini tecnici e rari, in ogni caso spiegati e motivati. Le parole in lingua originale, ebraica e greca, sono proposte sempre in traslitterazione e il ricorso ad esse è limitato allo stretto indispensabile: la traslittera­ zione e l'accentazione dei termini greci ed ebraici rispon­ dono unicamente all'esigenza di leggibilità per quanti non conoscono adeguatamente tali lingue, senza peraltro com­ promettere la riconoscibilità dei termini per i competenti. Laddove per necessità si adoperano termini stranieri, so­ prattutto tedeschi, ne viene data tra parentesi la traduzione italiana; così pure le note a piè di pagina sono limitate al massimo ed usate solo per offrire l'indispensabile docu­ mentazione di ciò che è affermato nel testo. Per facilitare la lettura, il contenuto è organizzato in paragrafi non ec­ cessivamente lunghi e viene scandito da numerosi titoletti che aiutano a seguire l' argomentazione; inoltre il corpo del testo è corredato da parole chiave che, riportate a latere, facilitano visivamente l'individuazione del contenuto in ogni pagina. In ogni volume sono presenti alcune sezioni di biblio­ grafia ragionata, in cui viene presentato - senza indebite esi­ genze di esaustività - quanto è disponibile sul mercato at­ tuale relativamente al tema trattato ( privilegiando le pub­ blicazioni in italiano ) . Nel corso della trattazione, invece, i riferimenti bibliografici sono il più possibile limitati a qual­ che rimando significativo o circoscritto, non presente nella successiva bibliografia. Da millenni la Scrittura è testimone dell'incontro tra la Parola di Dio viva e generazioni di credenti che in questi li­ bri hanno trovato motivi e alimento per il loro cammino. Questa collana vuoi porsi oggi a servizio di questo incontro sempre rinnovato e rinnovabile. A quanti oggi, nel XXI sec., intendono porsi in ascolto di Colui che, attraverso queste testimonianze scritte, continua a manifestarsi, questi volumi vogliono offrire le cognizioni ( storiche, letterarie, teologi7

che ) adeguate per farlo. E, allo stesso tempo, essi sono ri­ volti anche a chi non considera l'ispirazione più alta, affin­ ché possa gustare il valore delle testimonianze credenti che la Bibbia contiene e confrontarle con le domande e le op­ zioni del suo personale itinerario di vita. CLAUDIO DOGLIO GERMANO GALVAGNO MICHELANGELO PRIOITO

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Prefazione

In un momento di particolare confidenza con gli stu­ denti un anziano professore del Biblico raccontò in estrema sintesi lo sviluppo del suo metodo didattico: «Quand'ero giovane, insegnavo anche ciò che non sapevo; maturando, ho cercato di insegnare quello che conoscevo bene; adesso, insegno quello che serve». Lo ricordo ora, a distanza di mol­ to tempo, mentre mi sto avviando - dopo trent'anni di in­ segnamento accademico - a condividere quel terzo modo di comunicare con gli studenti. La stesura di un manuale scolastico, infatti, costituisce l'occasione buona per raccogliere in unità le molteplici e di­ sparate informazioni che si sono apprese e trasmesse. In una simile impresa però la tentazione del ricercatore è quella di introdurre il maggior numero di dati possibili per dar prova di grande competenza, mentre la saggezza del maturo pro­ fessore insegna a valorizzare piuttosto i destinatari ed offri­ re loro ciò che davvero serve per introdurli alla conoscenza delle Scritture. Come gli altri volumi della collana GRAPHÉ , anche questo è destinato a docenti e alunni impegnati nelle Fa­ coltà di Teologia, negli Studi Teologici e negli Istituti Supe­ riori di Scienze Religiose, nonché a tutti i cultori della Bib­ bia, e si propone come un manuale di introduzione alla Scrittura, cioè uno strumento didattico per guidare realisti­ camente lo studente ad un primo approccio al testo biblico, con modalità seria e accademica ma senza esagerare nelle problematiche e nell'eccesso dei dati. Ci occupiamo dunque di letteratura giovannea, indican9

do con questo termine cinque scritti neotestamentari legati al nome di Giovanni e accomunati da importanti fattori sto­ rici, letterari e teologici: tale affinità giustifica il fatto di con­ siderarli insieme, nonostante all'interno del canone siano collocati in posizioni differenti. Da molto tempo nei corsi accademici di teologia lo studio della letteratura giovannea prevede introduzione ed esegesi del Quarto Vangelo in mo­ do distinto dai tre Sin ottici, perché si ritiene unanimemente che tale distinzione sia utile a livello didattico: rispetto agli altri racconti evangelici, il Vangelo secondo Giovanni infatti è una realtà a parte, definito "spirituale" dagli antichi pro­ prio per evidenziarne la singolarità. Le tre Lettere si possono estrapolare dal gruppo delle «Lettere cattoliche», perché i legami che le uniscono agli scritti giovannei sono decisa­ mente più consistenti. Infine l'Apocalisse, seppur isolata al termine del canone neotestamentario, si lega all'ambiente ecclesiale di Giovanni per antica e solida tradizione. Una si­ mile correlazione giustifica quindi l'impostazione del pre­ sente volume, il quale tratta opere che, pur appartenendo a tre generi letterari diversi, risultano accomunate da una sin­ golare vicinanza. La figura di Giovanni le fa considerare un unico corpus letterario e il suo ruolo di «discepolo del Signore», testimo­ ne oculare e quindi garante dell'originale tradizione apo­ stolica, conferisce a questi scritti una speciale autorità. Pro­ prio il tema della testimonianza che il discepolo rende al Si­ gnore Gesù rappresenta il comune denominatore degli scrit­ ti giovannei e perciò l'ho scelto come titolo del volume: in ciascuna di queste opere infatti si può riconoscere l'influsso consistente di un autore geniale, che è stato segnato dall'e­ sperienza decisiva dell'uomo Gesù e ha dedicato la sua vita a trasmettere ad altri il valore unico di quell'incontro. Il modo tipicamente giovanneo di raccontare, di riflet­ tere e di insegnare ha coinvolto in modo rilevante i suoi de­ stinatari, determinando l'esistenza di una comunità di cre­ denti che - attraverso la testimonianza del discepolo - ha aderito al Signore Gesù e ne ha conservato nel tempo la prelO

ziosa memoria. Il pensatore profondo e l'abile narratore di simboli ha così influenzato l'intera comunità, generando un modo specifico di parlare e di pensare che ha finito per se­ gnare tutta la letteratura giovannea. I cinque scritti che ci accingiamo a studiare sono dun­ que il risultato di un'esperienza entusiasmante di Chiesa che, nell'arco di settant'anni, affrontando situazioni stori­ che ed esistenziali molto diverse, ha custodito «ciò che era da principio » e l'ha trasmesso col contributo di molti, dan­ do origine ad un'opera corale e geniale. Lo studio diacro­ nico della storia di composizione di questi scritti può aiu­ tare ad apprezzare con gusto la loro ricchezza e varietà, mentre la lettura sincronica permette di valorizzare il rac­ conto organico dell'evangelista, l'abilità argomentativa dei testi epistolari e la fantasmagorica profezia delle visioni apocalittiche. Avendo davanti ai miei occhi i numerosi studenti reali a cui in questi anni ho proposto il corso di introduzione alla letteratura giovannea, mi rivolgo a tutti gli altri potenziali lettori, invitandoli a superare in partenza il rischio di una lettura superficiale, per imparare a gustare il fascino solenne di un'opera profonda e meditata, per lasciarsi coinvolgere in un serio approfondimento della fede, per accogliere come un tesoro la testimonianza del discepolo amato. CLAUDIO DOGLIO

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I

Gli scritti attribuiti a Giovanni

Cinque opere, all'interno del NT, sono legate ad un uni­ co nome d'autore: Giovanni. Un unico ambiente ecclesiale risulta il grembo vitale di questi scritti, accomunati da lin­ gua, stile e modo di pensare: si parla perciò di letteratura giovannea o Corpus Johanneum. Il Vangelo secondo Giovanni è l'opera principale di questo insieme, che conserva la ricchezza cristologica ed ecclesiale della tradizione legata al testimone oculare, il discepolo del Signore, garante della verità evangelica. Al Vangelo si affiancano tre Lettere, diverse per mole e per contenuti, ma legate alla stessa realtà linguistica e teologica. Infine l'A­ pocalisse, sebbene molto diversa dai precedenti scritti, contiene esplicitamente il nome di Giovanni e fornisce le coordinate storico-geografiche per ambientare questo gruppo di scritti canonici. L'elemento principale che li accomuna è l'insistenza sulla testimonianza che il discepolo rende a Gesù Cristo: il riferimento al passato riguarda la garanzia offerta dal testimone oculare, mentre nel presente e nel futuro lo stesso impegno di testimonianza è richiesto a tutti i discepoli, destinatari di queste opere. La questione giovannea

I numerosi motivi che hanno indotto gli studiosi a indi­ viduare questo corpus letterario non possono far dimenti­ care le diversità che esistono fra i vari scritti giovannei. Tali complessi rapporti di somiglianze e differenze - a livello sto13

I cinque scritti giovannei

Il discepolo

testimone

Problemi complessi

I quattro punti nodali

rico, letterario e teologico - hanno determinato quella che da circa due secoli viene chiamata "questione giovannea": sul modello filologico della questione america e della que­ stione sin ottica, anche a questo proposito sono stati eviden­ ziati alcuni problemi di fondo, la cui soluzione non è possi­ bile se non per via di ipotesi. L'interdipendenza dei vari pro­ blemi aperti complica la ricerca e ha generato molte solu­ zioni differenti, che possono sconcertare chi intraprende lo studio biblico. Per tal motivo, questa introduzione non vuole fornire un ragguaglio completo delle innumerevoli proposte avan­ zate, ma - col fine di introdurre allo studio esegetico e teo­ logico - si limita a chiarire le varie problematiche e a pro­ porre una linea interpretativa, coerente e fondata, capace di guidare ad un primo approccio agli scritti giovannei. Cominciamo dunque a chiarire quali sono i punti nodali della questione giovannea, che per comodità didattica pos­ sono essere raggruppati in quattro problematiche. L'identità dell'autore. Una prima questione riguarda l'i­ dentificazione dell'autore, che viene chiamato Giovanni, e intende rispondere alle domande: chi è questo Giovanni? È lo stesso autore per tutti e cinque gli scritti a lui attribuiti? L'ambiente di origine. La seconda questione concerne la comunità ecclesiale in cui queste opere hanno visto la lu­ ce: è esistita una cosiddetta "comunità giovannea"? Quali caratteristiche le si possono attribuire? La storia di composizione. Una questione ancora più intricata e difficilmente risolvibile interessa la vicenda dia­ cronica del testo: quali sono le tappe che hanno determinato la stesura degli scritti giovannei? Sono riconoscibili diversi contributi, cioè più mani di scrittori e molteplici edizioni? Il rapporto fra queste cinque opere. Infine l'ultima que­ stione è relativa alle possibili connessioni che legano tali scritti: qual è l'ordine cronologico della loro stesura? In che rapporto sta il Quarto Vangelo con le Lettere? Come si pone l'Apocalisse nei confronti degli altri contributi letterari gio­ vannei? 14

Mentre è più conveniente studiare le ultime problema­ tiche nell'introduzione specifica alle singole opere, le prime due questioni hanno una valenza di base ed è opportuno af­ frontarle in partenza, per mettere in chiaro le informazioni conservate dalla tradizione ecclesiale antica e le ricostruzio­ ni ipotetiche elaborate dagli studiosi moderni. L'autorità di Giovanni

Il nome di Giovanni come autore del testo non compare né nel Quarto Vangelo né nelle tre Lettere; è presente inve­ ce nell'Apocalisse. Negli antichi codici però questi cinque scritti sono stati concordemente attribuiti a Giovanni. Chi è costui? Che cosa sappiamo della sua persona? Quali fonti abbiamo a disposizione per conoscerlo? Partiamo dalle testimonianze esterne degli antichi, che propongono il nome di Giovanni come autore di questi scritti; quindi consideriamo i dati che si possono ricavare dagli altri libri del NT su questo personaggio; infine cerchiamo di organizzare in modo sintetico le varie notizie e delineare in via ipotetica una plausibile ricostruzione della sua figura.

Le tappe della ricerca

I dati della tradizione patristica

La prima testimonianza diretta - in ordine di tempo relativa all'autore di uno scritto giovanneo è del filosofo Giustino, che intorno al 160 visse a Efeso, dove ambientò il Dialogo con Trifone, primo saggio di ermeneutica cristiana delle Scritture. Rispondendo all'ebreo Trifone a proposito della ricostruzione di Gerusalemme e del millenarismo, Giustino porta la documentazione dell' AT citando Is 65,17-25 - e aggiunge la testimonianza dell'Apocalisse : -

«D'altra parte anche da noi un uomo di nome Giovanni, uno degli apostoli del Cristo, in seguito ad una rivelazione da lui avuta, ha profetizzato che coloro che credono nel nostro Cristo avrebbero trascorso mille anni in Gerusalemme » (Dialogo con Trifone 81 ,4). ...

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Giustino

lreneo

Legame con Policarpo e Giovanni

L'informazione è importante, perché il suo autore è at­ tento e documentato: pochi anni dopo la composizione dell'opera, nello stesso ambiente d'origine, Giustino ha co­ nosciuto l'Apocalisse come opera di uno degli apostoli di Cristo. Questo dato non è desunto dal testo stesso; deve in­ vece provenire dalla tradizione orale che accompagnava il testo. Portatore di questa viva tradizione è anche e soprattutto lreneo, vescovo di Lione ma originario dell'Asia Minore e discepolo dell'anziano Policarpo a Smirne, una delle città del­ l'Apocalisse ( Ap 2,8 ) . La familiarità con Policarpo permette a Ireneo di risalire direttamente alla sorgente della tradizione apostolica, giacché Policarpo «fu istruito dagli apostoli e da essi fu stabilito per l'Asia nella Chiesa di Smirne come vesco­ vo» (Contro le eresie 111,3,4). Nella Lettera a Fiorino, scritta ad un compagno di gioventù divenuto eretico, Ireneo rievoca il tempo in cui erano entrambi discepoli di Policarpo: «Io ti potrei dire ancora il luogo dove il beato Policarpo era solito riposare per parlarci, e come esordiva, e come en­ trava in argomento; quale vita conduceva, qual era l'aspetto della sua persona; i discorsi che teneva al popolo; come ci rac­ contava la sua familiarità con Giovanni e con gli altri che ave­ vano visto il Signore, e come ricordava di aver ascoltato le loro parole sul Signore e sui suoi miracoli e sul suo insegna­ mento. Tutto ciò Policarpo l'aveva appreso dai testimoni ocu­ lari del L6gos della vita e lo annunciava in piena armonia con le Scritture» (Eusebio, Storia Ecclesiastica, V,20,6).

Tale confessione autobiografica ci permette di ricono­ scere i vari anelli della tradizione: Ireneo giovane ha cono­ sciuto Policarpo anziano, il quale a sua volta è stato da gio­ vane discepolo di Giovanni. Sappiamo dal racconto del suo martirio che Policarpo morì a Smirne nel 156 all'età di 86 an­ ni: quindi era nato nell'anno 70 e nella sua giovinezza aveva potuto conoscere Giovanni, vissuto fino alla fine del secolo. L'opera principale di Ireneo, Adversus Haereses (Con­ tro le eresie), scritta intorno al 180 per combattere l'eresia 16

gnostica, volendo contestare il fatto che gli eretici cambiano i dati evangelici e insegnano dottrine inventate artificiosa­ mente, cita spesso la tradizione, che in modo sicuro garan­ tisce la fede della Chiesa cattolica: «Il vangelo e tutti i presbiteri, che vissero in Asia con La testimo­ Giovanni, il discepolo del Signore, testimoniano che queste nianza su cose le ha trasmesse Giovanni. Rimase infatti con loro fino Giovanni ai tempi di Traiano» (Contro le eresie II,22,5).

In questa breve frase troviamo un condensato di lin­ guaggio giovanneo. Adoperando il concetto di testimonian­ za, Ireneo presenta come garanzia dell'autorità apostolica di Giovanni la tradizione vivente dei presbiteri che lo co­ nobbero di persona e condivisero con lui vita e fede: col ver­ bo syn-ballein designa coloro che «sono stati con lui» e han­ no messo insieme le loro esperienze. Possiamo leggere tale indicazione come un riferimento a quella che i moderni chiamano comunità giovannea e ne ricaviamo inoltre una preziosa informazione cronologica: Giovanni visse fin oltre l'anno 98, data in cui salì al trono l'imperatore Traiano; Ire­ neo ribadisce la stessa notizia anche in 111,3,4. All'inizio del libro III, dopo aver passato in rassegna le innumerevoli favole gnostiche, il vescovo di Lione pone a fondamento sicuro della tradizione cristiana i quattro Van­ geli canonici, di cui offre una essenziale collocazione storica. A proposito del Quarto Vangelo afferma: «Poi anche Giovanni, il discepolo del Signore, quello che si posò sul suo petto, pubblicò anch'egli il Vangelo, mentre dimorava ad Efeso in Asia>> (Contro le eresie III,l,l) .

Abitualmente, quando nomina Giovanni, Ireneo lo qualifica come «il discepolo del Signore» e in questo caso lo identifica esplicitamente con il personaggio del discepolo amato, presentandolo come «colui che si posò sul suo petto» (cf Gv 1 3,25; 21,20). Ci informa inoltre che abitava in Efeso, capitale dell'Asia, e in quell'ambiente «pubblicò» ( exé17

Pubblicò il Vangelo a Efeso

doken ) il Vangelo: non dice che «scrisse», ma adopera il ver­ bo che designa l'edizione e significa «dare fuori, produrre, emettere, pubblicare». Giovanni è riconosciuto come l'ori­ gine certa della tradizione cristiana, colui che ha fatto cre­ scere e ha divulgato il vangelo. Nella stessa opera contro la falsa gnosi Ireneo ricorda anche la Prima lettera di Giovanni, traendovi diverse testi­ monianze: A

Giovanni è attribuita anche la Lettera

«Così afferma Giovanni, discepolo del Signore, dicendo: "Queste cose sono state scritte ... ". Egli prevedeva queste blasfeme teorie che dividono il Signore, per quanto dipende da loro, dicendo che è fatto di una e di un'altra sostanza. Per­ ciò anche nella sua lettera ci ha dato questa testimonianza: "Figlioli, questa è l'ultima ora ... "» (Contro le eresie 111,16,5; cf altre tre citazioni in III,l6,8).

Attribuisce anche allo stesso Giovanni, senza ombra di dubbio, la Lettera, che non chiama «prima»: usando l'arti­ colo determinativo, sembra che la consideri unica. Anche l'Apocalisse viene citata ripetutamente da Ire­ neo, che in alcuni casi accenna al suo autore adoperando la stessa formula impiegata per il Vangelo e la Lettera: Anche l'Apocalisse è di Giovanni

«Anche Giovanni, il discepolo del Signore, vedendo nel­ l'Apocalisse la venuta sacerdotale e gloriosa del suo regno, dice . . . » (Contro le eresie IV,20, 1 1 ) ; «Degli ultimi tempi ... h a parlato ancora più chiaramente Giovanni, il discepolo del Signore, nell'Apocalisse, indicando quali sono i dieci corni visti da Daniele .. . » (Contro le eresie V,26,1 ).

Parlando dell'enigmatico numero 666 (Ap 13,18) e del nome dell'Anticristo, dopo aver esposto la propria interpre­ tazione, il vescovo di Lione sottolinea l'incertezza della spie­ gazione, sebbene la stesura del testo apocalittico sia recente: «... non affermiamo con sicurezza che avrà questo no­ me, sapendo che, se il suo nome avesse dovuto essere pro­ clamato apertamente nel tempo presente, ci sarebbe stato 18

detto da colui che ha visto l'Apocalisse; essa, infatti, non è Datazione stata vista molto tempo fa, ma quasi al tempo della nostra dell'Apoca­ generazione, alla fine del regno di Domiziano)) (Contro le lisse eresie V,3 0,3).

Domiziano fu imperatore dall'81 al 96: lreneo colloca quindi la visione di Giovanni a metà degli anni 90, ben sa­ pendo che egli visse fin dopo l'anno 98. In tutti questi casi è chiaro che l'antico teologo, così bene informato sulla situa­ zione della Chiesa in Asia e legato personalmente ai testi­ moni oculari dell'epoca apostolica, considera unico l'autore degli scritti giovannei e lo identifica con Giovanni, il disce­ polo del Signore. Un'altra testimonianza antica e molto importante ci viene da Papia, vescovo di Gerapoli all'inizio del II sec.: la sua opera non ci è giunta, ma di lui abbiamo notizie da Ire­ neo e da Eusebio. Il primo presenta Papia come coetaneo di Policarpo e diretto ascoltatore di Giovanni:

Papia, uditore di Giovanni

«Queste cose Papia, uditore di Giovanni e compagno di Policarpo, uomo antico, le attestava per iscritto nel quarto dei suoi libri - ci sono infatti cinque libri scritti da lui)) (Con­ tro le eresie V,33,4) .

Eusebio di Cesarea (265-340) dedica particolare atten­ zione al personaggio di Papia, riportando anzitutto una sua testimonianza sul desiderio di conoscere personalmente gli insegnamenti dei discepoli del Signore: «Non esito ad aggiungere ciò che ho appreso bene dai Un testo presbiteri e ho conservato nella memoria. ( ... ) Se m'imbatte- enigmatico vo in chi avesse avuto consuetudine coi presbiteri, cercavo di conoscere le sentenze dei presbiteri, ciò che avevano detto Andrea o Pietro o Filippo o Giacomo o Giovanni o Matteo o qualche altro dei discepoli del Signore; ciò che dicono Aristione e il presbitero Giovanni, discepoli del Signore. lo ero persuaso che il profitto tratto dalle letture non poteva stare a confronto con quello che ottenevo dalla parola viva e durevole)) (Storia Ecclesiastica 111,39,3-4 ) .

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La spiega­ zione di Eusebio

Il ricorso a/ giudizio di Dionigi

L'ipotesi di due Giovanni

Commentando questa citazione, Eusebio fa notare che Papia nomina due personaggi con il nome di Giovanni e ritie­ ne che il procedimento implichi una distinzione: il primo Gio­ vanni, elencato insieme ad altri apostoli, sarebbe l'evangelista; il secondo, qualificato come ho presbyteros, dovrebbe essere un'altra persona. A conferma di questa spiegazione allude al giudizio di Dionigi Alessandrino, che attribuiva la paternità dell'Apocalisse a un altro Giovanni, semplicemente un omo­ nimo dell'evangelista, e sosteneva - per sentito dire - l'esi­ stenza di due tombe ad Efeso, entrambe di Giovanni: gli scavi archeologici però hanno restituito finora un'unica tomba. Lo storico inoltre dedica l'intero c. 25 del VII libro al­ l'opinione di Dionigi, vescovo di Alessandria dal248 al265, che voleva confutare l'interpretazione letterale del millen­ nio fatta da Nepote e, per eliminarne il fondamento biblico, affrontava la questione dell'Apocalisse in chiave polemica. Dionigi non rifiuta il valore ispirato del libro né la sua ca­ nonicità e non nega che l'autore si chiami Giovanni; analiz­ zando il libro coi metodi della critica letteraria alessandrina, però, ipotizza semplicemente che l'autore sia un altro Gio­ vanni, diverso dall'evangelista, senza riportare alcuna fonte storica. Personalmente, Eusebio non sembra favorevole ad accettare l'Apocalisse e quindi trova la conferma dell'ipotesi di Dionigi negli scritti di Papia: dalle oscure espressioni di quest'ultimo lo storico trae infatti argomento per identifi­ care la figura di Giovanni il Presbitero: «Così ha conferma quanto sostengono alcuni, che nell'A­ sia ci furono due personaggi omonimi. Esistono tuttora ad Efeso due tombe col nome di Giovanni. È necessario por mente a questo particolare perché, qualora si voglia escludere il primo (Giovanni l'apostolo), è verosimile che fu il secondo (Giovanni il presbitero) ad avere le visioni dell'Apocalisse, attribuite appunto a Giovanni» (Storia Ecclesiastica 111,39,6).

L'affermazione non è fondata storicamente, ma presen­ tata come un'ipotesi comoda; nell'antichità non ebbe fortu­ na, mentre è stata accolta favorevolmente da molti critici 20

moderni, che adoperano la figura di quest'altro personaggio di nome Giovanni per spiegare la differenza d'autore fra Quarto Vangelo e Apocalisse. L'antica testimonianza di Papia però si può leggere anche in altro modo. I presbiteri, nominati due volte, sono i garanti della tradizione dei discepoli del Signore, fra cui è nominato Giovanni: a questi presbiteri Papia dice che ricorreva volentieri da giovane per conoscere «ciò che avevano detto» gli apostoli. Poi, usando il verbo al presente, aggiunge che gli interessava anche sapere «ciò che dicono» i discepoli del Signore ancora vivi al suo tempo: si può quindi intendere che Giovanni sia l'unico degli apostoli che Papia abbia potuto incontrare personalmente e il titolo presbitero (cioè anziano) starebbe a indicare, oltre l'avanzata età, so­ prattutto la grande autorevolezza del personaggio. Tale spiegazione è coerente con la testimonianza di Ireneo, che -come abbiamo visto - collega P apia al discepolo Giovanni, insieme a Policarpo. Sempre Eusebio riporta nella sua opera storica un'altra preziosa testimonianza attribuita a Policrate, vescovo di Efeso, il quale, per sostenere la data quartodecimana della Pasqua, scrisse al papa Vittore I (186-197), attestando in tal modo l'importanza della Chiesa efesina, custode della tra­ dizione apostolica. Vantando il fatto che in Asia si spensero i grandi luminari, nomina dapprima l'apostolo Filippo, morto a Gerapoli, e poi aggiunge:

Giovanni il presbitero

Policrate

«C'è anche Giovanni, colui che riposò sul petto del Si- Giovanni gnore, il quale fu sacerdote e portò la lamina e fu testimone fu sacerdote e maestro. Egli si è addormentato a Efeso» (Storia Ecclesiastica V,24,3).

Il riferimento al fatto che durante la cena il discepolo amato abbia posato il capo sul petto di Gesù (Gv 13,25) è divenuto elemento formulare già all'interno dello stesso racconto giovanneo (Gv 21 ,20) ed è abitualmente ripetuto in tutta la tradizione patristica, fino a determinare l'intra­ ducibile titolo ho epistéthios ( Colui che [stette] sul petto), =

21

Portò la lamina sacerdotale

li Canone murato­ riano

dato a Giovanni nell'eucologia bizantina. Comuni sono an­ che le altre due qualifiche: il termine martys - che conviene tradurre «testimone» piuttosto che «martire», perché ri­ prende la terminologia tipica della tradizione giovannea e la qualifica di didaskalos, che corrisponde bene alla stima tributata a Giovanni come maestro di teologia. In questo frammento di Policrate, contemporaneo di Ireneo alla fine del II sec. , troviamo inoltre un'informazione assolutamente unica, la quale attesta che Giovanni fu sacer­ dote (hieréus) e precisa che fu portatore del pétalon. Questo termine è tecnico e raro: nei LXX (cf Es 28,36; 36,37; Lv 8,9) traduce l'ebraico tzitz e designa la lamina d'oro posta sul turbante del sommo sacerdote, su cui era impressa la scritta «sacro al Signore». Non sappiamo però che significato pre­ ciso avesse nel linguaggio levitico del I sec.: se si riferiva solo al sommo sacerdote, non potrebbe essere applicata a Gio­ vanni; se invece indicava un generico ornamento sacerdo­ tale, potrebbe illuminare un aspetto della sua persona. L'informazione di Policrate non è suffragata da alcun docu­ mento, ma offre un indizio prezioso e apre uno spiraglio su una possibile ricostruzione della figura storica di Giovanni. Un'indicazione pittoresca, ma degna di nota, si è poi conservata nella tradizione latina del Canone muratoriano, testo strano, scritto in un latino assai rozzo, pubblicato da L.A. Muratori nel 1740: si tratta di una specie di introduzio­ ne ai libri del NT, redatta a Roma verso la fine del II sec. da un autore non identificabile, che presenta in breve i libri ca­ nonici, aggiungendo valutazioni letterarie, informazioni sto­ riche e riflessioni teologiche_ A proposito del Quarto Van­ gelo viene offerto un vivace racconto della sua origine: «Il quarto dei Vangeli è di Giovanni fra i discepoli. Men­ tre lo esortavano i suoi condiscepoli e vescovi, disse: "Digiu­ nate con me da oggi per tre giorni e ciò che sarà rivelato a ciascuno diciamocelo l'un l'altro". In quella stessa notte fu rivelato ad Andrea fra gli apostoli che, mentre tutti ne avreb­ bero controllato l'esattezza, Giovanni a nome proprio avreb­ be scritto tutte le cose» (linee 9-16). 22

Questo testo, sebbene con tono leggendario, vuole at­ tribuire al testo giovanneo l'autorità congiunta di tutti gli apostoli: pur avendo scritto a nome proprio, Giovanni è considerato portavoce dell'intero collegio apostolico. La sua opera viene così proposta come dotata di autorizzazione di­ vina e approvazione ecclesiastica. È degno di nota, inoltre, il riferimento ad un gruppo di «condiscepoli e vescovi» che incoraggiano l'evangelista a mettere per iscritto la sua ver­ sione: vi possiamo riconoscere un indizio dell'esistenza di una comunità giovannea, composta da seguaci del discepolo amato che sono nel contempo vescovi delle varie Chiese a lui connesse. La critica recente ha dimostrato che la recezione delle opere giovannee fu capillare in tutto il II sec. , per cui la te­ stimonianza di Ireneo ne esce rafforzata. Dopo queste an­ tichissime fonti non si trova - nella successiva tradizione pa­ tristica - alcuna informazione nuova, ma abitualmente gli autori del IV e V sec. riportano sempre e solo queste noti­ zie, aggiungendo i dati ricavati dai testi scritturistici e i vari titoli d'onore che l'agiografia bizantina ha cominciato ad at­ tribuire a Giovanni.

Portavoce della tradizione

Nessun 'altra notizia

Le informazioni tratte dal NT

Negli scritti del NT non si trova alcuna affermazione re­ lativa a Giovanni come autore di opere letterarie; possiamo raccogliere solo alcune informazioni sull'apostolo che porta questo nome. Nei testi, in realtà, più persone portano que­ sto nome e ne distinguiamo almeno quattro: Giovanni il Battista, profeta e precursore del messia; Giovanni detto Marco, figlio di una certa Maria, discepolo di Gerusalemme ( At 12,12.25; 13,5.13; 15,37); Giovanni, sadduceo e membro del consiglio dei sommi sacerdoti ( At 4,6); Giovanni, uno dei Dodici. Lasciati da parte i primi tre, solo quest'ultimo può riguardare la nostra ricerca. I Sinottici lo nominano più volte insieme al fratello Giacomo, talvolta presentando entrambi come «i figli di 23

Persone di nome Giovanni

Uno dei Dodici

Dati forniti dai Sinottici

Giovanni negli Atti

Zebedeo»: nelle liste dei dodici apostoli (M t 10,2; Mc 3,17; Le 6,14), nel momento della chiamata sul lago (Mt 4,21 ; Mc 1 ,19; Le 5, 1 0) , come testimone della trasfigurazione (Mt 17, 1 ; Mc 9,2; Le 9,28) , della rianimazione di una bam­ bina dodicenne (Mc 5,37 ; Le 8,5 1 ) e della preghiera nel Getsemani (Mt 26,37; Mc 14,33), nonché destinatario pri­ vilegiato del discorso escatologico (Mc 13,3). Qualche al­ tro breve cenno lo indica come amico di Simone (Mc 1 ,29), lo mostra polemico verso uno che scaccia i demoni senza essere del gruppo (Mc 9,38; Le 9,49) e verso i samaritani che non accolgono Gesù (Le 9,54) ; ne ricorda la richiesta per avere i primi posti (Mt 20,20; Mc 1 0,35.41) e l'incarico che gli è affidato, insieme a Pietro, di preparare la cena pa­ squale (Le 22,8) . Solo Marco ricorda il soprannome di Boanerghés, cioè «figli del tuono» (Mc 3,17) dato da Gesù ai due fratelli, evidentemente per caratterizzarli come ir­ ruenti e impetuosi. All'ini zio degli Atti (1,13), nell'elenco degli Undici Gio­ vanni non è più legato al fratello Giacomo ma presentato insieme a Pietro, e la stessa cosa si ripete in diversi episodi: insieme guariscono lo storpio, predicano e vengono arrestati (At 3,1 .3.4. 1 1 ; 4,13.19); insieme scendono in Samaria per confermare la predicazione di Filippo (8,14). In un caso (At 4,13) il narratore degli Atti presenta il giudizio che le auto­ rità sacerdotali danno di Pietro e Giovanni, ritenendoli «persone semplici e senza istruzione» (agrammatoi kai idi6tai ) . Mentre di suo fratello Giacomo (At 1 2,2) si narra il martirio al tempo di Erode Agrippa I (verso l'anno 43), di Giovanni non ci sono più notizie nel resto del racconto; il suo nome compare solo una volta nell'epistolario paolino, quando l'apostolo ricorda di avere incontrato (verso l'anno 49) a Gerusalemme «Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne» (Gal 2,9). Nel Quarto Vangelo e nelle Lettere gio­ vannee questo nome non compare; nell'Apocalisse ricorre, ma senza alcuna precisazione. Mentre l'antica tradizione ecclesiastica ha identificato con assoluta certezza questo personaggio con l'autore del 24

Quarto Vangelo, molti studiosi moderni hanno avanzato se­ ri dubbi su tale identificazione, proponendo una vasta gam­

ma di ipotesi alternative. Una ipotetica ricostruzione

I motivi che inducono a questo rifiuto nascono dallo studio del Vangelo stesso, che risulta molto elaborato dal . punto d1 v1sta letterano e teo 1 ogtcamente profond o; l' autore conosce bene l'ambiente di Gerusalemme, è legato alla città santa più che alla Galilea, ha una notevole competenza di questioni legali e liturgiche tipicamente giudaiche. Tutto questo sarebbe incompatibile con un galileo senza istruzione. Si è in tal modo venuto a determinare una specie di postulato esegetico in base al quale il testimone della tradizione giovannea non sarebbe un semplice pescatore di Galilea, ma dovrebbe piuttosto essere un colto sacerdote di Geru­ salemme. Tale ipotesi ha trovato una conferma nella testimonian­ za di Policrate, che - come abbiamo visto - attribuisce a Giovanni la qualifica di «sacerdote». Ha inoltre incontrato molto seguito nelle indagini recenti l'opinione di Eusebio, che - facendo forza su ambigue espressioni di Papia e di Dionigi Alessandrino - aveva ipotizzato l'esistenza ad Efeso di un altro personaggio di nome Giovanni, connotato dal ti­ tolo «presbitero» per distinguerlo dall'apostolo. Un esempio significativo di ricostruzione ipotetica è quella proposta da Martin Hengel, t che ha elaborato un'o­ pera lucida e interessante, ricca di preziosa documentazione storica e letteraria, scritta con la profondità e la semplicità di un autentico maestro e avvincente talvolta come un romanzo. Lo studioso di Ti.ibingen scarta l'identificazione tra­ dizionale dell'autore, ma rifiuta anche la comune opinione ·

·

·

1 M. HENGEL, La questione giovannea (Studi biblici 120), Paideia, Brescia 1998 (orig. tedesco 1 989), 263-3 1 8 .

25

Le obiezioni dei moderni

L'ipotesi di Hengel

La precisa­ zione di Cazelles

Un altro ostacolo

dei critici moderni riguardo molteplici edizioni e ritocchi re­ dazionali del Quarto Vangelo: si impegna a dimostrare che tutta l'opera giovannea risale davvero a un unico autore, che si chiama, sì, Giovanni, ma è Giovanni l'Anziano (il Pre­ sbitero ) . Costui sarebbe un membro dell'aristocrazia sacer­ dotale di Gerusalemme: nato intorno al 15 d.C. e attratto in gioventù dal movimento del Battista, che lasciò per seguire poi Gesù stesso, divenne testimone degli eventi pasquali; in seguito fece parte della grande schiera dei discepoli e fu membro autorevole del gruppo dirigente della comunità cri­ stiana di Gerusalemme. Tutta la dettagliata ricostruzione storico-letteraria ela­ borata da Hengel può essere accettata, ma con una corre­ zione nel punto di partenza, resa possibile da un'acuta os­ servazione di Henri Cazelles,2 il quale fa notare che molti sacerdoti giudei del tempo di Gesù avevano attività lavora­ tive fuori di Gerusalemme e il patronimico «Zebedeo» ( in ebraico: Zébed, Zabud, Zabdy', Zabdiél, Zabdiyahu ) com­ pare in diversi testi che nominano sacerdoti, nei libri delle Cronache, in Esdra e Neemia. I dati relativi a Giovanni di Zebedeo presenti nei Sinottici non sono quindi incompati­ bili con le caratteristiche dell'autore desunte dalla sua ope­ ra: un figlio di Zebedeo, titolare di un'impresa di pesca sul lago di Galilea, potrebbe essere allo stesso tempo sacerdote levita, ben noto a Gerusalemme e legato all'ambiente del tempio. Non è nemmeno un ostacolo il giudizio malevolo di agrammatoi che le autorità del sinedrio rivolgono a Pietro e Giovanni, perché sembra riferito piuttosto al primo dei due, protagonista in tutte quelle scene narrate dagli Atti. Inoltre, essendo molto giovane al tempo del ministero sto­ rico di Gesù, Giovanni ha avuto tutto il tempo per maturare e approfondire teologicamente la straordinaria esperienza da lui vissuta come membro del gruppo dei Dodici.

2

H.

CAZELLES, «Jean, fils de Zébédée, "pretre" et "apotre"», Recherches

de science religieuse 88 (2000) 253-258.

26

Consapevole di avere pochi riscontri storici e sicuri per dire qualcosa di certo sulla sua vita e la sua persona, ritengo che sia una strada più prudente (ipotesi per ipote­ si!) conservare il dato- tramandato dagli antichi padri ­ dell'unico autore e identificarlo con l' unico Giovanni pos­ sibile. Quel testimone oculare è in grado di garantire dal­ l'inizio alla fine l'unità della tradizione detta «giovannea»: se è vero che il testo è cresciuto, perché i tempi sono cam­ biati e le idee sono maturate, tutto questo vale a maggior ragione anche per la persona che è garante della tradizio­ ne. Nell' arco di settant'anni (cioè dal 30 allOO d.C. circa) , la sua esperienza di discepolo storico di Gesù di N azaret è entrata in vari modi al servizio dell' evangelizzazione, la comprensione dell'evento è cresciuta attraverso le molte­ plici stagioni della sua vita e la sua stessa persona è matu­ rata grazie al confronto con le realtà storiche decisive che ha dovuto affrontare. D agli Atti sappiamo solo che si interessò della missione verso i samaritani (At 8,14), e intorno all'anno 49 era an­ cora a Gerusalemme come una «colonna» della Chiesa (Gal 2,9). Le antiche informazioni patristiche invece lo pre­ sentano anziano, verso la fine del I sec., nella regione di Efeso; pur accettando questa notizia, non abbiamo però al­ cun dato certo per ricostruire le sue vicende personali, gli spostamenti e le tappe del suo lungo ministero. Non pos­ siamo dire con certezza quando abbia lasciato Gerusalem­ me, ma è lecito pensare che tale allontanamento sia dovuto ai torbidi accadimenti politici che avvennero negli Anni Sessanta e culminarono con la distruzione della città santa nel 70. Giunto in Asia Minore, visse quindi per alcuni de­ cenni a Efeso, dove fiorì una comunità di credenti che guar­ davano a lui come al «discepolo del Signore» - titolo im­ portante che lo contraddistingue nei testi di Ireneo - e lo consideravano «il discepolo che Gesù amava». Fu il testi­ mone autorevole dell'insegnamento originario di Gesù e si rivelò eccezionale maestro, capace di guidare un'importan­ te scuola cristiana; avendo raggiunto un'età molto avanzata 27

L'ipotesi secondo la tradizione

Da Gerusa­ lemme a Efeso

Gli Atti apocrifi

La figura di Procoro

era conosciuto come l'Anziano e il suo influsso fu grandio­ so in tutta la regione e oltre. A metà del II sec. un autore di nome Leucio Carino compose un'opera, tramandata col titolo Atti di Giovanni e considerata un apocrifo neotestamentario, in cui narra co­ me l'apostolo, per sfuggire alle persecuzioni dei Giudei a Gerusalemme, si fosse rifugiato prima a Mileto e poi a Efe­ so, dove predicò e operò molti miracoli. Lo scritto è leggen­ dario e segnato da opinioni vicine allo gnosticismo, per cui non è utilizzabile come documento storico su Giovanni; l'in­ sieme delle notizie riportate è tuttavia coerente con il resto della tradizione antica. Le informazioni sulla condanna al­ l'olio bollente, da cui Giovanni uscì indenne, risultano an­ ch'esse leggendarie e prive di fondamento storico. Nella tra­ dizione agiografica bizantina compare, sembra a partire dal V sec., la figura di un certo Procoro, discepolo di Giovanni, che avrebbe messo per iscritto le sue opere sotto dettatura del maestro: per questa ragione l'iconografia ortodossa raf­ figura abitualmente Giovanni «il teologo» come un anziano che guarda verso il cielo, mentre accanto a lui un giovane seduto scrive il testo. Tale immagine del "procuratore" sem­ bra una rielaborazione artistica e religiosa del dato tradizio­ nale relativo alla comunità giovannea. La comunità giovannea come ambiente ecclesiale

Una ipotesi recente

Il rilievo dato alla comunità giovannea è un fatto recen­ te, che tuttavia si radica negli antichi documenti: sono stati alcuni studiosi americanP a concentrare le ricerche sull'am­ biente ecclesiale in cui gli scritti giovannei hanno avuto ori­ gine, con l 'intenzione di ricostruirne la storia di composi­ ziOne.

3 Penso in particolare a MARTYN, History and Theology in the Fourth Go­ spel, 1968; CULPEPPER, The Johannine School, 1975; e B ROWN, The Com­ munity ofthe Beloved Disciple, 1979.

28

Una complessa vicenda da Gerusalemme a Efeso

Sebbene ne siano derivate ricostruzioni differenti e tut­ te ipotetiche, questi studi hanno avuto il grande merito di mettere a fuoco un principio basilare della questione gio­ vannea: è esistito un gruppo di persone che credevano in Gesù Cristo e facevano riferimento alla testimonianza di Giovanni, per cui risulta una stretta correlazione fra la storia letteraria degli scritti giovannei e la storia esistenziale della comunità in cui sono nati. Tale ambiente vitale è ciò che accomuna tutti gli scritti giovannei, caratterizzandoli come un corpus letterario ben identificabile e distinto dal resto del NT. Il Quarto Vangelo, le tre Lettere e l'Apocalisse sono fortemente segnati dall'esperienza storica della comunità cristiana a cui si rivolgono e nella storia di Gesù rileggono la propria situazione di fine secolo: riconoscendo in quei testi alcuni tratti che riguardano il gruppo giovanneo, diventa possibile delineare la fisionomia dei destinatari e i loro problemi. È infatti partendo dallo studio dei testi stessi che i ricercatori sono in grado di risalire alla realtà storica e sociale delle Chiese giovannee. È un dato ormai certo che il Quarto Vangelo vada letto su due piani storici, che si fondono senza confondersi: quello della storia originaria di Gesù e quello della comunità giovannea.4 Il racconto apre infatti una finestra sulla vicenda storica di Gesù e al tempo stesso costituisce uno specchio che riflette il volto della comunità per cui il Vangelo è stato scritto. La memoria di Gesù conservata dalla testimonianza del discepolo amato costituisce l'identità del gruppo di credenti che si ritrova intorno a lui, ed essi si rispecchiano nella vicenda di Gesù raccontandola sotto l'influsso degli eventi che stanno a propria volta vivendo. Una precisa configurazione sociale di questa comunità giovannea, tuttavia, è difficilmente ricostruibile; tanto più è impensabile tracciare con certezza le vicende che ne hanno ' Così afferma SEGALLA, Il Quarto Vangelo come storia, 17

29

_

Un importante ambiente ecclesiale

Due diversi piani storici

Ricerche socio­ logiche

Molteplici ambiti culturali

segnato la storia. Diverse ricerche sociologiche hanno messo in rilievo caratteristiche differenti, presentando il gruppo di Giovanni ora come una "conventicola" settaria, introversa ed esclusiva, in aperto conflitto col mondo; ora come una "scuola" simile agli antichi circoli filosofici, segnata da forte coesione di gruppo e impegnata in un lavoro metodico di ri­ cerca teologica. Anche le varie ricostruzioni delle fasi stori­ che vissute da questa comunità restano ipotetiche per man­ canza di dati oggettivi, visto che le uniche fonti sono gli stessi scritti giovannei, i quali non raccontano la storia della comu­ nità in forma allegorica e quindi non permettono di rico­ struirne un'immagine netta. È tuttavia possibile indicare al­ cune caratteristiche fondamentali e certe. La comunità giovannea è segnata da una molteplicità di ambiti culturali, perché dai suoi scritti emerge che è in­ sieme giudaica ed ellenista, inserita nella molteplice varietà dei giudaismi del I sec. e custode di una particolare tradi­ zione cristiana in dialogo con altre. La sua vicenda storica, inoltre, durata più di settant'anni, ha attraversato luoghi e tempi disparati, per cui è impossibile parlare di un unico ambiente geografico e culturale. In base alle poche notizie a nostra disposizione possiamo distinguere due grandi fasi nello sviluppo della tradizione giovannea, riconoscendo il punto di svolta nel trasferimento da Gerusalemme a Efeso intorno all'anno 70: la prima fase nasce e si forma in am­ biente palestinese, aramaico e gerosolimitano, dove il testi­ mone oculare iniziò la sua opera di evangelizzazione; la se­ conda vede la realizzazione compiuta dell'opera letteraria in un ambiente giudaico-ellenistico della diaspora, inserito nel problematico contesto della cultura greco-romana. La radice culturale giudaica

Il ruolo del discepolo testimone

La comunità giudeo-cristiana che fa capo a Giovanni si distingue da altri gruppi analoghi per il continuo riferimento alla figura del «discepolo del Signore», testimone oculare e garante della persona di Gesù e della sua missione. Tale 30

gruppo, che deve essersi costituito fin dagli inizi, è cresciuto poi nel tempo, integrando al proprio interno varie compo­ nenti del giudaismo, come potevano essere farisei e saddu­ cei, samaritani ed esseni. Pur rimanendo fedele alla tradi­ zione biblica dell'AT, rivela una posizione critica nei con­ fronti della struttura templare e non si identifica con il giu­ daismo ufficiale farisaico. Anzitutto è significativo il fatto che l'attenzione di quel gruppo sia incentrata su Gesù, sul mistero della sua persona e della sua relazione con il Padre e l'umanità: è proprio su questa centralità cristologica che la comunità giovannea ha costruito la propria identità, distinguendosi dagli altri mo­ vimenti giudaici. Eppure non c'è netta contrapposizione, perché il suo orizzonte globale resta quello biblico e giudai­ co: la Scrittura conserva un grande valore di testimonianza, ma la sua interpretazione è finalizzata a conoscere meglio Gesù; la trama del Quarto Vangelo è scandita dalle feste giudaiche, richiamate però in senso cristologico per mostra­ re il valore dell'opera di Gesù alla luce della tradizione li­ turgica di Israele; l'attenzione rivolta a Gerusalemme e al tempio dimostra un attendibile radicamento storico, ma svolge anche il ruolo simbolico di presentare Gesù come il nuovo santuario della presenza di Dio. Il movimento giovanneo presenta inoltre numerosi con­ tatti con il complesso mondo dell'apocalittica, soprattutto per quanto riguarda il tema della rivelazione, il procedimen­ to dualistico che contrappone due schieramenti antitetici, l'insistenza sul tema della risurrezione e la promessa di vita eterna. Una sorprendente affinità di linguaggio si riconosce con gli scritti di Qumran, soprattutto relativamente alla me­ tafora che contrappone luce e tenebra: queste scoperte han­ no permesso di dimostrare che tale linguaggio non è elleni­ stico gnostico, ma giudaico palestinese. La vicinanza con l'ambiente sacerdotale esseno, l'interesse per il tempio e la polemica contro "questo" tempio incoraggiano a pensare ad un Giovanni sacerdote e coinvolto in quel tipo di questione. Dovette esistere pure un certo contatto con il mondo sama31

Fedeltà alla tradizione dell'AT

Vicinanza al pensiero apocalittico

La dram­ matica rottura con la sinagoga

Separazione netta

ritano, anch'esso avverso al tempio di Gerusalemme, e ne consegue che tali rapporti vanno certamente collocati prima della sua distruzione. Infine, l'ambiente giovanneo conosce le discussioni legaliste e testuali tipiche della letteratura rab­ binica: le ricorda come un dato notevole della vicenda sto­ rica di Gesù e al tempo stesso le vive come fatto di attualità nella contrapposizione con il giudaismo farisaico. L'evento centrale della storia vissuta dalla comunità giovannea è il forte contrasto determinatosi con la sinagoga farisaica riguardo all'interpretazione della persona di Gesù, fino al momento del distacco drammatico. Nel Quarto Van­ gelo viene adoperato per tre volte l'aggettivo aposynagogoi, che non si trova mai altrove e significa «espulsi dalla sina­ goga» ( Gv 9,22; 12,42; 16,2): il termine allude ad un evento doloroso che comportò l'allontanamento dalle sinagoghe per quei Giudei che avevano riconosciuto Gesù come il Cri­ sto. L'accusa mossa contro di loro si può riconoscere nelle parole che i Giudei rivolgono a Gesù per contestare la sua pretesa: «Tu che sei uomo ti fai Dio» ( Gv 10,33). È proba­ bile che tale cacciata sia da collegare con la cosiddetta Birkat ha-minim (benedizione degli eretici ) , che negli anni Ottanta rabbì Gamaliele II fece inserire come dodicesima invocazione nella preghiera sinagogale delle Diciotto Bene­ dizioni: i Giudei che avevano creduto in Gesù non poterono più conservare le due posizioni e dovettero scegliere se re­ stare dentro o andare fuori. Se da un lato chi restò nella si­ nagoga venne biasimato dal gruppo cristiano, chi invece scelse di uscire dal giudaismo subì gravi conseguenze giuri­ diche e sociali per la perdita dei privilegi che il mondo giu­ daico aveva ottenuto dall'impero romano. A quel punto, verso la fine del I sec. , la separazione di­ venne netta e segnò il culmine di conflitti decennali, così im­ portanti da lasciare il segno in tutte le opere giovannee. Sembra esagerato dire - come fa Martyn - che la scomunica generò la comunità; è probabile infatti che un gruppo di cre­ denti radunati intorno alla testimonianza del discepolo ama­ to esistesse già da parecchi anni. N o!! è la separazione dal 32

giudaismo quindi che portò ad una contrapposizione teolo­ gica, ma piuttosto la fede cristologica maturata nella comu­ nità giovannea determinò una nuova identità religiosa, che tuttavia conservava le radici bibliche e proponeva Gesù co­ me il compimento delle Scritture. Il contesto

ellenistico

Nonostante il forte radicamento nel mondo culturale giudaico, gli scritti giovannei sono editi nella loro forma finaie in ambiente ellenista e sono scritti in greco: è inevitabile perciò che risentano anche dell'influsso di questo ric­ chissimo mondo culturale. Da tre secoli la cultura ellenistica era entrata in contatto col giudaismo, portando alla versione dei LXX, influenzando la composizione di alcuni testi biblici come Sapienza, generando un filosofo giudeo-ellenistico come Filone. Un pregevole bagaglio culturale greco quindi era già patrimonio del mondo religioso giudaico: in esso si ritrova perfettamente l'ambiente giovanneo. I destinatari dell'opera di Giovanni inoltre erano lettori greci, di diversa provenienza etnica e religiosa ma accomunati dalla cultura ellenistica: è quindi inevitabile che tali testi siano stati indi­ rettamente influenzati dal modo di pensare e di parlare dei destinatari. Un particolare influsso ellenistico può riconoscersi nell'ambito del pensiero filosofico che adopera il vocabolo l6gos ( parola ) , ricco di richiami a dottrine greche, seppure tale vocabolo sia la traduzione di un importante termine ebraico (dabar) e il corrispondente di un concetto biblico­ targumico (memra); un altro rilevante influsso si può intravedere nel dualismo platonico, diffuso dai predicatori di filosofia popolare, che contrapponeva ciò che sta in alto a ciò che è in basso, la realtà vera extra-mondana e l'apparenza imperfetta intra-mondana. L'ambiente efesino, inoltre, può aver offerto diversi spunti di riflessione teologica attraverso il linguaggio delle religioni misteriche, che proponevano salvezza con i loro simbolici riti di iniziazione e rigenerazione. 33

Importanti influssi greci

Elementi tipici

Lo scontro col potere politico

Non c'è influsso gnostico

Un gruppo non chiuso

La grave crisi interna

Infine, come dimostra soprattutto l'Apocalisse, il gruppo giovanneo osa sfidare il mondo politico romano, o meglio l'imperialismo arrogante che si auto-divinizza e si contrap­ pone all'unico Signore: se Pilato non accoglie la verità che è Gesù, preferendo essere «amico di Cesare» (Gv 1 9,12), Giovanni Battista, testimone ed esemplare del discepolo, considera un onore essere «amico di Gesù» ( Gv 3,29). Nella prima metà del secolo scorso, è stata sostenuta la dipendenza di Giovanni dal pensiero ellenistico e in parti­ colare dalla gnosi:5 dopo un secolo di discussioni e di ricer­ che, si ritiene oggi che tale approccio sia da escludere. La visione positiva della creazione, l'amore universale di Dio che vuole salvare il mondo, la salvezza che avviene attra­ verso l'evento storico singolare della croce di Gesù si con­ trappongono decisamente al pensiero gnostico e ne segnano la distanza. Nonostante l'importanza attribuita all'amore vicende­ vole, il titolo di «fratelli>> dato ai suoi membri (Gv 21 ,23), il valore riservato alla propria tradizione, la distinzione da al­ tri gruppi e la forte coscienza della propria identità, la co­ munità giovannea non può essere accusata di settarismo, né giudicata un "gruppo chiuso". Ciò che caratterizza le Chiese di Giovanni è l'apprezzamento del discepolo che ha reso te­ stimonianza a Gesù e l'atteggiamento dei discepoli che se­ guono Gesù e «rimangono» in lui: uno stile che però non è esclusivo, ma anzi viene proposto - in prospettiva missio­ naria - a tutto il mondo a cui i discepoli di Gesù sono man­ dati (Gv 17,18). Proprio il contesto culturale ellenistico, infine, sembra all'origine di una grave crisi, che scoppiò all'interno della comunità giovannea nell'ultimo periodo della sua vita: a provocarla fu un gruppo di suoi componenti che - influen­ zati probabilmente da idee filosofiche greche su immutabi­ lità e impassibilità divina - pretendevano di distinguere il

5

Il riferimento, in particolare, è agli studi di

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R. Bultmann e C.H. Dodd.

Gesù terreno dal Cristo celeste. Mentre il Vangelo si veniva lentamente formando come deposito scritto della ricca e ab­ bondante predicazione del discepolo testimone, la nuova crisi determinò la stesura delle Lettere giovannee, in cui si tentava, in modi e momenti diversi, di fronteggiare questa minaccia. È in questo contesto storico che - verso la fine del I sec. - l'Apocalisse offre le più esplicite informazioni sulle Chiese legate a Giovanni, inserite nella provincia romana d'Asia e nel colto contesto efesino: la nota più vistosa è che queste realtà ecclesiali sperimentano e soffrono molte situazioni problematiche. Due sono i principali interlocutori con cui il gruppo cristiano si scontra all'esterno: l'imperialismo ro­ mano, forte della cultura ellenistica, e le sinagoghe giudai­ che, che non riconoscono in Gesù il messia. Anche al suo stesso interno la comunità giovannea sperimenta poi peri­ colosi conflitti fra gruppi contrapposti: vengono esplicita­ mente nominati i nicolaiti (Ap 2,6.15), che si caratterizzano per il loro sfacciato adattamento alla mentalità del mondo. La difficile e conflittuale situazione della comunità gio­ vannea segnò il lavoro letterario che portò alle edizioni de­ finitive dei cinque scritti giovannei, in cui è verosimile che alla fondamentale testimonianza del discepolo amato si sia­ no aggiunti come collaboratori uno o più scrittori, che hanno conservato fedelmente il patrimonio evangelico tramandato attualizzandolo in rapporto alle nuove esigenze del gruppo. Quando il Quarto Vangelo venne edito in modo definitivo, l'intervento comunitario - che presuppone la morte del di­ scepolo amato e ne garantisce l'attendibilità - richiese come logico e necessario l'intervento di qualche altro letterato che operasse sui testi come interprete del "noi" comunitario. Morto il maestro, la comunità giovannea, che non era una setta autonoma, non avendo più motivo di esistere in modo distinto si dissolse rapidamente, consegnando alla grande Chiesa i pregevoli risultati letterari che aveva pro­ dotto. Nel giro di poco tempo tutto il mondo cristiano co­ nobbe e accolse come Scrittura la letteratura giovannea. 35

Le infor­ mazioni dell'Apoca­ lisse

Conseguen­ ze per la stesura dei testi

Ultima fase

II

Il Quarto Vangelo

Vangelo quadriforme

Il titolo tradizionale

Quattro opere, raggruppate sotto il titolo complessivo di euanghélion, aprono la raccolta canonica del NT, e a pro­ posito di esse Ireneo (Contro le eresie III, l ,l) parla di «Van­ gelo quadriforme»: il termine - tipicamente paolina, ma di­ venuto ben presto termine tecnico relativo al genere lette­ rario che racconta l'evento singolare di Gesù Cristo - desi­ gna infatti il deposito scritto della predicazione apostolica. In forza della posizione che occupa all'interno del canone il nostro testo viene definito dai moderni «Quarto Vangelo», per evidenziarne al tempo stesso lo stretto legame con gli altri tre scritti e l'originalità rispetto ad essi. Nei grandi codici del IV sec. ognuno di questi quattro libri è introdotto da un titolo semplice, che comprende solo la preposizione katà («secondo») seguita dal nome dell'e­ vangelista. La inscriptio del papiro P66 - uno dei più antichi documenti del testo giovanneo, databile alla fine del II sec. - riporta tuttavia come titolo dell'opera la formula completa euanghélion katà Iotmnen ( Vangelo secondo Giovanni), che corrisponde perfettamente al nostro uso attuale. Questo ti­ tolo tradizionale, pur non utilizzando un termine giovanneo, è da attribuirsi al desiderio di accomunare l'opera alle altre testimonianze apostoliche: nato probabilmente in ambito liturgico per introdurne la lettura comunitaria, evoca un si­ gnificato più ampio rispetto alla formula comunemente usa­ ta col genitivo («di Giovanni»), perché non si limita ad in­ dicare chi ha scritto il testo ma rimanda piuttosto alla me­ diazione personale del discepolo, la cui testimonianza dà at­ tendibilità al documento. 36

Introduzione

Per introdurre questo scritto occorre anzitutto prendere

Piano

in considerazione la figura autorevole del discepolo testimo- di studio

ne che sta alla sua origine, per poi concentrarci sui destinatari a cui si rivolge e sugli scopi che si ripromette di raggiungere. Uno sguardo diacronico sulla storia di composizione del testo permetterà quindi di evidenziare la ricchezza della tradizione giovannea e la laboriosa redazione del testo definitivo, uno studio sincronico del quale metterà poi in luce lo stile letterario e le tecniche narrative. L'analisi del genere letterario "vangelo" infine servirà a chiarire il rapporto del Quarto Vangelo coi Sinottici e a determinarne la struttura letteraria. L'autore

Sebbene il nome di «Giovanni» associato a questo scrit­ to appartenga alla più antica tradizione della Chiesa, il Quarto Vangelo - come del resto accade per gli altri tre non lo registra: l'unico Giovanni nominato nel Quarto Van­ gelo è il Battista, dal momento che anche il titolo «(figlio) di Giovanni» dato a Simon Pietro (1 ,42; 21,15. 16. 17) sembra riferirsi al precursore. Pur non presentandosi per nome, tuttavia, l'evangelista interviene di frequente nel racconto e lascia segni importanti del suo operato. Il narratore, secondo la convenzione lette­ raria, entra nel testo soprattutto all'inizio e alla fine, adope­ rando in questi casi la prima persona plurale e presentandosi dunque come portavoce di un gruppo ecclesiale, che - a se­ conda dei casi - presenta connotazioni differenti. Quando infatti nel prologo afferma che il L6gos fatto carne «venne ad abitare in mezzo a noi» (1,14) sembra pensare all'umanità intera, ma subito dopo - aggiungendo «e noi abbiamo con­ templato la sua gloria» (1,14) - passa a designare come «noi» il gruppo ristretto dei testimoni oculari dell'esperienza sto­ rica di Gesù; poco dopo, precisando che «noi tutti abbiamo 37

Portavoce di un gruppo ecclesiale

Noi e voi

ricevuto» (1 ,16) allarga l'orizzonte per comprendere l'intera assemblea dei credenti che accoglie la grazia divina. Al ter­ mine di tutto il racconto, quindi, compare un «noi» autore­ vole in cui è possibile riconoscere il gruppo dirigente della comunità giovannea, che dà garanzia di credibilità a ciò che il discepolo ha trasmesso: «noi sappiamo che la sua testimo­ nianza è vera» (21 ,24). Solo nell' ultimo versetto, quasi di sfuggita, lo scrittore si inserisce personalmente nel testo con un incidentale «io penso» (21 ,25) , distinguendosi dal «noi» precedente e rilevando la propria individualità. C'è tuttavia un altro passaggio del testo in cui compare uno strano «noi» e che merita attenzione. Nel dialogo not­ turno con Nicodemo, improvvisamente in bocca a Gesù viene posta una frase al plurale: «Noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto; ma voi non acco­ gliete la nostra testimonianza» (3,1 1). Al di là dei due diretti interlocutori ( Gesù e Nicodemo ), vengono evocati due grup­ pi ( «noi» e «voi» ) : Gesù accomuna a sé i suoi discepoli e dà voce al gruppo ecclesiale che ha accolto la sua testimonianza divina e si impegna a trasmetterla ad un altro gruppo che in­ vece non la vuole accogliere. È evidente in questo passaggio come la stessa parola di Gesù sia profondamente legata con la comunità giovannea che l'accoglie e la trasmette. Chi scrive il Quarto Vangelo dunque non si propone co­ me un singolo con qualità di scrittore letterario, ma voluta­ mente si nasconde dietro al «noi» della comunità che ha ac­ colto la testimonianza oculare del discepolo. Il testimone garante

Testimone oculare

della tradizione evangelica

Nel momento culminante del racconto, subito dopo aver narrato la morte di Gesù e il colpo di lancia che fa usci­ re sangue e acqua, l'evangelista inserisce nel testo una frase parentetica, con cui presenta ai destinatari ( «VOi» ) l'autore­ volezza del testimone che fonda la tradizione giovannea: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate» ( 19,35). 38

L' attestazione non riguarda solo il fatto del costato aperto, ma - essendo questo evento il vertice dell'opera messianica - concerne la verità dell'intero Vangelo, il quale comunica ai credenti ciò che «sangue e acqua» significano, cioè il dono della vita divina attraverso la morte di Gesù: la vita infatti è il fine per cui è stato scritto il Vangelo (20 31). Inoltre la testimonianza "vera" è altrove affermata solo a proposito di Dio Padre (5,32; 8,17-18), che dà garanzia sul­ l'attendibilità del Figlio: il ruolo del discepolo testimone si inserisce quindi all'interno di questa dinamica fondamen­ tale della rivelazione divina che fa conoscere e comunica la vita propria di Dio. Non pare essere il testimone oculare a presentare se stesso in terza persona: è piuttosto il narratore a garantirne la piena attendibilità, che si fonda sulla sua esperienza e su una matura comprensione della verità. In questo importan­ te versetto si possono quindi riconoscere due persone di­ stinte: da un lato colui che introduce nel racconto la nota esplicativa, dall'altro il testimone che ne ha trasmesso au­ torevolmente il contenuto. L'identità del testimone non vie­ ne indicata esplicitamente, ma il contesto narrativo lascia intendere che sia il discepolo presente ai piedi della croce e identificato semplicemente con la formula «il discepolo che egli amava» (1 9,26) . Un altro passo decisivo al riguardo è l'ultima conclusio­ ne del testo (21 ,24-25), in cui il narratore passa dall'interno all'esterno del racconto, chiudendolo secondo il modello convenzionale della cornice letteraria. Dopo aver accennato alla morte del discepolo amato, citato nei versetti preceden­ ti, l'evangelista lo identifica come il garante della tradizione giovannea e aggiunge la convinzione della comunità stessa circa la sua attendibilità. Egli viene qualificato come «colui che testimonia» (al presente) e «colui che scrisse» (al pas­ sato): se da un lato l'attestazione scritta è un fatto passato, il compito di testimonianza vive e continua nel presente ec­ clesiale. In questo senso il narratore spiega che l'intenzione dell'enigmatica frase di Gesù (21 ,22-23) non era escludere

La rivela­ zione della vita divina

,

39

Il testimone

e il narratore

L'evange­ lista e il discepolo

Il discepolo

è Giovanni di lebedeo

la morte del discepolo, bensì indicare un altro modo di ri­ manere nella comunità: attraverso lo scritto che ne custodi­ sce l'autorevole testimonianza. Risulta dunque da questo ultimo capitolo del Vangelo che, al momento della stesura definitiva del testo, il disce­ polo testimone è già morto, mentre la sua predicazione con­ tinua a rimanere viva nella comunità giovannea, che espri­ me col «noi» ecclesiale la propria certezza che quel disce­ polo fosse veritiero e affidabile. Tale discepolo, in rapporto stretto con Pietro, deve essere uno dei sette che partecipano alla pesca sul mare di Tiberiade: «Simon Pietro, Tommaso che significa Gemello, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli» (21 ,2). Solo in questo ver­ setto il Quarto Vangelo nomina Zebedeo, che i Sinottici co­ noscono come il padre di Giacomo e Giovanni ( cf M t 4,21 ; Mc 1 ,19; Le 5,10). Il discepolo amato può quindi essere iden­ tificato con Giovanni, figlio di Zebedeo, come ha sempre pensato l'antica tradizione ecclesiastica; molti studiosi mo­ derni tuttavia sollevano seri dubbi a questo riguardo. Il discepolo

A fianco

di Gesù nella cena

che Gesù amava

Dobbiamo ritornare sulla formula «il discepolo che Ge­ sù amava», perché è caratteristica del Quarto Vangelo e par­ ticolarmente utile per chiarire la questione del suo autore. Sono quattro i contesti in cui l'espressione compare e in tutti i casi si tratta di momenti decisivi per l'esperienza storica dei discepoli: la cena prima di Pasqua, presso la croce, al se­ polcro vuoto e l'ultima manifestazione del Risorto. Durante la cena Gesù annuncia in modo esplicito il tra­ dimento di uno di loro e i discepoli ascoltano sgomenti, sen­ za comprendere di chi stia parlando. In questa occasione compare per la prima volta la formula che ci interessa: «Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù» (13,23). Letteralmente il testo dice che «era nel seno (k6lpos) di Gesù»: è la stessa espressione che nel prologo qualifica il Figlio divino rivolto «verso il seno 40

del Padre» ( 1 ,18) e indica un'affettuosa intimità. Seduto al posto d'onore, vicino al Maestro più di ogni altro, questo discepolo può - su sollecitazione di Simon Pietro (13,24) chinarsi facilmente sul petto di Gesù e chiedergli chiarimen­ ti sottovoce, senza che gli altri sentano (13,25): un gesto che l'antica tradizione patristica interpretava come un fatto mi­ stico, ritenuto l'origine della profonda competenza teologi­ ca di Giovanni. La formula viene nuovamente impiegata presso la eroce: «Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco tuo figlio! ". Poi disse al discepolo: "Ecco tua madre! " . E da quell'ora il discepolo l'accolse con sé» (19,26-27). Attraverso lo schema letterario di rivelazione questo breve racconto simbolico vuole manifestare la nuova relazione che lega la madre e il discepolo: se la madre personifica il popolo credente che ha preceduto il messia e lo ha generato, il discepolo è figura della comunità cristiana, cioè della realtà ecclesiale che deriva da Gesù e ne continua l'opera. L'accoglienza del discepolo esprime pertanto un'importante relazione spirituale tra persone, per indicare come la comunità giovannea, avendo accolto l'alleanza realizzata da Gesù, sia legittimamente erede dell'antica alleanza. In questa scena Pietro è assente e il discepolo amato campeggia nella sua grande qualità di testimone oculare e autorevole (19,35). È poi di nuovo nominato, questa volta insieme a Simon Pietro, al mattino di Pasqua, quando i due accorrono per vedere il sepolcro vuoto: «(Maria di Magdala) corse e andò da Simon Pietro e dall altro discepolo, quello che Gesù amava ( ... ). Pietro allora uscì insieme all'altro discepolo e si recarono al sepolcro» (20,2-3). In questo caso la formula è costruita con il verbo filéin, mentre in tutti gli altri casi usa agapan: essendo sinonimi, in traduzione non si nota nulla. È però significativa soprattutto l'insistenza sull'espressione «l'altro discepolo» (20,2.3.4.8), che lo lega a Pietro e lo distingue da lui. È probabile un'allusione simbolica al rapporto ecclesiale fra i due personaggi e le rispettive realtà di '

41

Ai piedi della croce

A/ sepolcro vuoto

Sul lago di Tiberiade

È un reale personaggio storico

Chiesa ( petrina e giovannea) che in tal modo vengono di­ stinte e accomunate. Il discepolo amato compare, infine, per la quarta volta, nel racconto della manifestazione del Risorto sul mare di Tiberiade, dove è lui a riconoscerlo per primo: «Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: "È il Signore ! "» (21 ,7). Tale parola del discepolo amato costituisce la sintesi ideale della sua testimonianza: il riconoscimento della pre­ senza del Cristo risorto all'opera insieme ai suoi discepoli. Al termine dell'episodio diventa esplicito il confronto con Pietro, il quale chiede a Gesù precisazioni sul destino del­ l'altro discepolo: «Voltatosi, Pietro vide che li seguiva il di­ scepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: "Signore, chi è che ti tradisce?"» (21 ,20) . Quest'ultima occorrenza fa inclusione con la prima e chiude il racconto con un evidente riepilogo, culminando con la solenne proclamazione di stima ecclesia­ le che abbiamo già considerato. In base a questi testi, pur ricchi di valore simbolico, pos­ siamo affermare che il discepolo amato non può ridursi a finzione letteraria, quale figura del discepolo ideale, ma de­ ve trattarsi di un reale personaggio storico: è testimone ocu­ lare dei momenti decisivi del ministero di Gesù a Gerusa­ lemme; custode della tradizione originaria e molto vicino al Maestro, ne ha condiviso la prospettiva teologica, divenen­ done poi interprete affidabile dopo la sua morte e risurre­ zione. Grazie al riconoscimento post-pasquale del Signore, il discepolo amato è divenuto fonte autorevole della tradi­ zione per la comunità giovannea. Un altro discepolo senza nome

Ci restano da considerare ancora due passi in cui com­ pare in posizione di rilievo un discepolo anonimo, che po­ trebbe coincidere con il discepolo amato. Nel racconto introduttivo del passaggio da Giovanni Battista a Gesù, vengono nominati due discepoli del pre42

cursore, i quali, avendo ascoltato la sua testimonianza, van­ no dietro a colui che è stato presentato come l'Agnello di Dio (1 ,37): uno viene nominato poco dopo (1 ,40) e identifi­ cato con Andrea, fratello di Simon Pietro, mentre l'altro re­ sta anonimo. Molti, fin dall'antichità, hanno pensato di ri­ conoscere in questa figura lo stesso Giovanni, discepolo del Signore, e non ci sono gravi ostacoli a tale identificazione. In questo racconto (1 ,38) Gesù, voltandosi, vede che i due lo seguono (akolouthountas) e la stessa formulazione si ri­ trova nell'ultima scena del racconto (21 ,20) quando Pietro, voltandosi, vede che il discepolo amato lo segue (ako­ louthounta): è possibile riconoscere in queste analogie let­ terarie una voluta formula di inclusione, volta a caratteriz­ zare quel discepolo, dal primo incontro fino all'ultimo defi­ nitivo riconoscimento, come "seguace" di Gesù. La presen­ za in entrambi i casi di Pietro e la sottolineatura del suo im­ portante ruolo ecclesiale confermerebbero l'intento di crea­ re una inclusione, rafforzando le due testimonianze che in­ corniciano il Quarto Vangelo: quella - iniziale - di Giovanni Battista (1 ,19) riguarda il passato, cioè l'origine divina di Gesù, mentre alla fine la testimonianza del discepolo amato (21 ,24) è incentrata sul futuro, ovvero la gloria del Risorto. Questo doppio letterario della testimonianza, che in modo analogo apre e chiude il racconto giovanneo, incoraggia a dare il nome di Giovanni anche al discepolo amato. Nel racconto della passione troviamo, infine, insieme a Pietro un altro discepolo, ben introdotto nell'ambiente sa­ cerdotale, grazie al quale è possibile l'ingresso nel cortile del palazzo: «Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote. Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Al­ lora quell'altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro» (18,15-16). Anche in questo caso incontriamo il verbo «seguire» (come in 1,38 e 21 ,20) , nonché l'insistenza sulla qualifica del disce­ polo come «l'altro» (come in 20,2.3.4.8): è una novità invece 43

Un anonimo discepolo del Battista

Un altro discepolo noto al sommo sacerdote

l'insistenza sul fatto che costui sia noto al sommo sacerdote e abbia un certo ruolo in quell'ambiente. Nel corso dei se­ coli molti lettori l'hanno identificato con il discepolo amato e non ci sono serie obiezioni in contrario; anzi, il legame col mondo dell'aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme può aiutare a precisare meglio l'identità del personaggio, con­ notandolo anche come sacerdote. L'autore implicito e il narratore L'immagine dell'autore offerta dal testo

L'autore implicito è il discepolo amato

Oltre alla figura storica di un discepolo presente nel rac­ conto evangelico e distinto dall'autore reale, l'analisi narra­ tiva invita a considerare l'autore implicito, ovverossia l'im­ magine dell'autore che il suo testo ci restituisce: mettendo al centro della ricerca il testo, infatti, si riconosce come l'o­ pera letteraria possa essere interpretata indipendentemente dalle intenzioni originarie dell'autore in carne ed ossa. Gli strumenti di ricerca storica non sono dunque sufficienti, dal momento che all'interno del testo stesso è possibile ricono­ scere dei «segni» che permettono di scoprire l'esistenza - e ricostruire l'identità - di un autore implicito, alter ego del­ l'autore reale, la sua proiezione all'interno del mondo del testo, l'immagine che l'autore dà di se stesso attraverso le tracce che si lascia dietro nella sua opera. Chiamiamo implicito questo autore perché dobbiamo ricostruirlo indirettamente, attraverso la narrazione; mentre l'autore reale è chi fisicamente scrive e il narratore è colui che fittiziamente racconta, l'autore implicito è la figura in­ termedia che proietta l'autore reale all'interno del testo e con le sue scelte orienta l'azione del narratore. Nel caso del Quarto Vangelo il narratore non proietta nel racconto se stesso, ma alla fine rivela che l'autore implicito è il «disce­ polo amato». Dal punto di vista narrativo, poco importa che egli sia effettivamente, sul piano storico, l'autore del testo: il modo in cui il narratore fa sentire la propria voce orienta il lettore a riconoscere nel discepolo amato l'intelligenza creativa alla base della narrazione evangelica. 44

L'obiettivo del testo è portare il lettore dalla propria parte, affinché condivida le idee e le convinzioni del nar­ ratore, la sua interpretazione dei fatti e la sua prospettiva teologica. Il narratore giovanneo, la cui figura nel nostro caso si sovrappone a quella dell'autore implicito, non è af­ fatto imparziale, ma è affidabile e credibile: non pone que­ stioni che poi si risolvano in modo opposto rispetto a quan­ to ha suggerito e rivendica per sé l'autorevolezza del testi­ mone che ha visto e racconta in modo certo. Conosce l'i­ dentità di Gesù e agisce come testimone e interprete au­ torevole delle sue parole: interviene spesso nel testo con importanti intrusioni, spiegando che cosa voleva effettiva­ mente dire Gesù1 e talvolta interpretando anche le parole di altri personaggi (i genitori del cieco: 9,22; Caifa: 1 1 ,5153; Giuda: 12,6). I suoi commenti funzionano anche come strumento di sviluppo della trama, fissando l'attenzione del lettore su quelli che considera i punti cardine del rac­ conto (la consegna, la morte, la glorificazione di Gesù) con gusto quasi teatrale. Condivide con Gesù il medesimo vo­ cabolario, utilizzato nello stesso modo e con le medesime sfumature; racconta di Gesù in modo onnisciente e retro­ spettivo, così che il lettore sia portato a fidarsi della sua versione dei fatti. Tale narratore onnisciente afferma per due volte che la testimonianza del discepolo amato è vera (1 9,35; 21 ,24): co­ nosce il suo pensiero, sa che ha detto il vero, mostra di avere l'autorità necessaria a certificarne la veridicità. Il narratore, dunque, esprimendosi col «noi», si presenta come facente parte del gruppo che accetta la testimonianza del discepolo amato, il quale è insieme personaggio del racconto e imma­ gine idealizzata dell'autore: è uno che capisce Gesù come nessun altro, ne condivide la prospettiva teologica, può rap­ presentarlo in modo credibile e vero, ha come obiettivo por­ tare altri a credere; è lui che offre un unico punto di vista e

1

Cf 2,2 1 ; 6,6.7 1 ; 7,39; 8,27; 1 1 , 1 1 - 14; 12,33; 1 3 , 1 1 ; 1 8,32; 2 1 , 1 9.23.

45

Interpreta i fatti

Interviene nel testo

Racconta in modo onniscente

Il testimone, il narratore e il Paraclito

dà piena coerenza al materiale tradizionale e alle intrusioni del narratore. Sulla base delle tracce lasciate nel testo, il lettore ricava che l'autore implicito è una figura decisiva: in quanto disce­ polo amato è «colui che vede» i fatti, ne comprende il senso e offre garanzia di credibilità a tutti i futuri lettori, mentre il narratore è «colui che parla» nel racconto del Quarto Van­ gelo. Questi sono i due interpreti della tradizione di Gesù a livello letterario, a cui bisogna aggiungere, a livello teologi­ co, il Paraclito, lo Spirito della verità ( cf 14,26; 15,26) , che è il garante ultimo della corretta interpretazione di Gesù e della veridicità del discepolo testimone. Forse proprio per questo il nome dell'autore reale non compare. L'identificazione dell'autore reale

L'autore reale e storico

Più persone coinvolte

L'antica tradizione ha sempre considerato il discepolo amato e l'evangelista un'unica persona, cioè l'apostolo Gio­ vanni, figlio di Zebedeo, uno dei Dodici. La diffusa convin­ zione degli studiosi moderni ritiene, invece, che l'evangeli­ sta sia una persona diversa dal discepolo testimone oculare, ragion per cui la questione dell'autore si sdoppia. È impossibile stabilire l'identità dell'autore reale e sto­ rico, che ha steso materialmente il racconto giovanneo: il discepolo amato può avere iniziato la composizione del te­ sto e scritto personalmente molte pagine evangeliche, come frutto del suo annuncio testimoniale, ma nell'arco dei set­ tant'anni che separano la Pasqua di Cristo dall'ultima reda­ zione del Quarto Vangelo è probabile che anche altre per­ sone vi abbiano lavorato in tempi e ambienti diversi; certa­ mente qualcun altro ha elaborato l'edizione finale, pubbli­ cata dopo la morte del testimone oculare. La figura lettera­ ria dell'evangelista può quindi essere svolta da più persone storiche, partendo dal discepolo amato fino all'ultimo re­ dattore: tali ipotetici collaboratori sono comunque persone molto legate al testimone originario, che ne hanno accolto la predicazione e conservato la tradizione all'interno della 46

comunità giovannea, esprimendosi sempre a nome del «noi» ecclesiale. Il discepolo amato, garante della testimonianza su Ge­ sù, certamente si chiamava «Giovanni». Sebbene molti mo­ derni non accettino l'identificazione tradizionale con l'omo­ nimo apostolo, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo, gli argomenti contrari non sono sufficienti per contrastare i dati concordi delle testimonianze esterne patristiche e i dati in­ terni al Quarto Vangelo relativi al discepolo amato. L'ipo­ tesi di Giovanni il Presbitero non ha validi fondamenti sto­ rici e usa solo un nome per designare un personaggio di cui però si ignora tutto. Accettando perciò l'ipotesi che il figlio di Zebedeo, titolare di un 'impresa di pesca sul lago di Gali­ lea, possa essere allo stesso tempo sacerdote levita e mem­ bro del gruppo dei Dodici, l'opinione comune della tradi­ zione resta valida e accettabile. Questo discepolo, molto giovane al tempo del ministero di Gesù, ha vissuto per al­ cuni decenni a Gerusalemme all'interno della Chiesa ma­ dre, di cui è considerato una «colonna» (Gal 2,9), e prima dell'anno 70 si è trasferito in Asia Minore, nella regione di Efeso, dove è morto verso la fine del I sec. Come avviene per Giovanni Battista (cf 3,30), anche l'evangelista «si fa piccolo» davanti a Gesù e il suo nome, sebbene noto a tutti, non compare. Durante l'arco di settant'anni ha dato testi­ monianza a Gesù, trasmettendone l'annuncio e interpretan­ do il senso della sua persona e della sua vita; gradualmente poi dalla sua predicazione, con il probabile coinvolgimento di altre persone, è nato lo scritto chiamato «Vangelo secon­ do Giovanni», che tutta la Chiesa ha accolto come testimo­ nianza del discepolo del Signore.

Il discepolo

Giovanni

Le tappe salienti della sua vita

I destinatari e lo scopo

Un autore scrive sempre per qualche destinatario e per raggiungere certi obiettivi. Ci domandiamo quindi: per chi ha scritto Giovanni? Per quale fine ha composto un vangelo? Tale questione ha interessato molto gli studiosi giovan47

Per chi? Perché?

Custodire la tradizione

Formativo, apologetico, missionario

nei e le opinioni in proposito si sono moltiplicate: cerchiamo di dipanare la complicata matassa con alcune affermazioni semplici e fondamentali. Il fine remoto per cui il discepolo ha pensato di scrivere un vangelo è quello di custodire la tradizione e offrirne un'interpretazione. La predicazione viene messa per iscritto quando ormai è maturata l'idea che il mondo non stia per finire da un giorno all'altro e - di conseguenza - si sente la necessità di testi che conservino la tradizione orale. L'opera scritta comprende i contenuti che interessano di più la co­ munità destinataria, cioè i testi che servono per formare i credenti, difendere il gruppo ecclesiale, annunciare la fede a chi ancora non la conosce. Questi tre scopi - formativo, apologetico e missionario - non sono alternativi e non si escludono a vicenda: la stessa pagina può essere usata con finalità missionaria, se l'udito­ rio non è credente, o con finalità formativa, se l'uditorio ha già aderito alla fede. Avendo il testo una lunga storia di composizione, inoltre, è seriamente ipotizzabile la compre­ senza di fini differenti a seconda dei diversi stadi della com­ posiziOne. L'intenzione esplicita del testo

Il primo

epilogo

Il c. 20 termina con un epilogo, in cui il narratore pone fine al racconto e aggiunge un suo commento; rivolgendosi direttamente, con il «VOi», ai destinatari suoi contempora­ nei, l'autore precisa il criterio seguito nella composizione del testo e ne evidenzia la doppia finalità: «Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi disce­ poli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome>> (20,30-31 ) .

L'opera viene indicata come «questo libro», un preciso testo letterario messo per iscritto al fine di far conoscere al­ cuni dei «segni» compiuti da Gesù in presenza dei suoi di48

scepoli. È interessante notare che le due ricorrenze del ver­ bo «Scrivere» sono al perfetto passivo, senza l'indicazione di un complemento d'agente: non si precisa cioè chi ha scrit­ to, ma si ribadisce che questi segni sono stati consegnati alla scrittura per conservarli nel tempo. Il contenuto del libro è espresso col termine seméia, per indicare alcuni eventi significativi che Gesù «fece» e di cui i discepoli furono testimoni: l'esperienza personale di chi ha visto i fatti e ne ha compreso il senso cristologico costituisce la base per la testimonianza del discepolo amato. Si afferma inoltre che fra le molte opere compiute da Gesù è stata fatta una scelta: «questo libro» infatti nasce come risultato di un lavoro redazionale, che ha selezionato il materiale e l'ha rie­ laborato con un intendimento che viene esplicitato con en­ fasi. In quanto strumento che permette un collegamento fra il passato di Gesù e il presente dei destinatari infatti questo libro è stato scritto per aiutare i lettori a credere che «Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio». Alla fine del Quarto Vangelo troviamo la stessa formu­ la cristologica che serve da titolo al libro di Marco, ricono­ sciuto come il più antico dei quattro racconti evangelici: «Origine della bella notizia che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio» (Mc 1 ,1 ) . Sembra una grande inclusione canonica che incornicia il «Vangelo quadriforme», presentandolo come il patrimonio essenziale della fede cristiana. Lo scritto di Giovanni viene così presentato come un'unità cristologica che permette di accogliere la rivelazione sulla persona di Gesù e sul suo singolare rapporto con Dio Padre. Questo epilogo segue immediatamente l'episodio di Tommaso, in cui il discepolo giunge a formulare la più alta professione di fede, riconoscendo Gesù, crocifisso risorto, «mio Signore e mio Dio» (21 ,28) : il lettore, in quanto gemello di Tomma­ so, è invitato a percorrere un analogo itinerario da disce­ polo che, pur senza vedere storicamente Gesù, vive la bea­ titudine del credere. In qualche modo dunque «questo li­ bro» tiene il posto del Maestro in persona e, attraverso l'e­ sperienza della lettura, la comunità destinataria può vivere 49

Frutto di un lavoro redazionale

Primo obiettivo è "credere"

la stessa esperienza dei primi discepoli e giungere alla stes­ sa fede matura. Un problema testuale evidenzia però una possibile sfu­ Continuare o iniziare? matura di intenti. Negli antichi codici greci la formula «per­ ché crediate» è riportata in due modi differenti: in alcuni compare la forma pistéuete, mentre in altri si legge pistéu ­ sete. Nel primo caso si tratta di un presente, che indica con­ tinuità dell' azione, e quindi significa «continuare a crede­ re»: l'intento dunque sarebbe quello di incoraggiare la fede di chi ha già aderito al Signore Gesù. N el secondo caso in­ vece si tratta di un aoristo, che in greco esprime piuttosto una sfumatura di evento puntuale e ingressivo, per cui il significato sarebbe quello di «iniziare a credere». Anche se a livello filologico la questione non può essere risolta, sembra più attendibile il primo significato, perché corri­ sponde meglio al tono generale dell'opera giovannea e ri­ spetta alcuni indizi che orientano in questa direzione. Gio­ vanni insiste infatti sulla necessità di «rimanere» attaccati e fedeli (cf 8,3 1 ; 15,17), nonché di «conservare» (cf 8,51 .52; 14,15 .23 .24) la parola e l'insegnamento trasmessi. È diffi­ cile immaginare che discorsi di questo tipo possano essere rivolti a principianti. L'epilogo, però, non si esaurisce qui e sottolinea con fi­ Obiettivo ultimo è nezza che il credere ha una funzione strumentale o condizio­ "vivere" nale, orientata al fine ultimo che è la vita. Per Giovanni, in­ fatti, ciò che è decisivo è il rapporto che lega l'adesione com­ pleta al Cristo e il raggiungimento della vita in pienezza: sol­ tanto il credere in Gesù permette di avere la vita, cioè offre la possibilità di vivere in modo pieno e realizzato, parteci­ pando alla stessa realtà divina che unisce il Padre e il Figlio. Si può dunque affermare con buona sicurezza che lo scopo principale del Quarto Vangelo sia quello di formare i Formare i credenti credenti, cioè persone già avanzate nella fede; i segni messi per iscritto servono per radicare più profondamente nella fede coloro che già credono. N o n si tratta di un testo mirato ad una prima evangelizzazione, ma piuttosto di uno stru­ mento di formazione e di maturazione. Al riguardo, nella 50

tradizione patristica si era teorizzata una distinzione dei quattro vangeli secondo il cammino del credente: se Marco è il vangelo dell'iniziazione cristiana, rivolto soprattutto ai catecumeni, Matteo e Luca costituiscono i testi di formazio­ ne per comunità cristiane già configurate, ma in crisi; Gio­ vanni invece rappresenta il vertice del cammino, il vangelo della perfezione e della contemplazione, rivolto a cristiani maturi, desiderosi di approfondimento. Il lettore implicito

Lo studio della narratologia a proposito del lettore im­ plicito conferma questa indicazione: il pubblico destinatario del racconto, così come lo presuppone il narratore, è una comunità cristiana credente, che possiede già molte infor­ mazioni di base e condivide la stessa prospettiva - credente - dell'autore. Sulla base dell'esame accurato del testo evan­ gelico, con le sue scelte e le sue supposizioni, si può traccia­ re, infatti, un profilo di tale lettore implicito. Quando l'au­ tore (reale) scrive, ha inevitabilmente in mente un pubblico di riferimento e il testo che compone è adattato al lettore cui il testo è destinato: perciò possiamo dire che il lettore implicito è l'immagine ideale di ciò che nelle intenzioni dell'autore il pubblico doveva diventare. Ogni testo infatti crea il proprio lettore. I commenti e le scelte del narratore costituiscono dun­ que la fonte primaria che permette di delineare l'identità del lettore implicito, per cui è necessario prestare attenzione ad alcuni indizi: riferimenti diretti; pronomi generalizzati o indefiniti; domande vere e domande retoriche; presenza di dimostrativi; paragoni o analogie; giustificazioni assenti o eccessive. Particolare importanza ha inoltre la presenza (o l'assenza) di commenti esplicativi: se un dato elemento è spiegato, è perché il lettore non avrebbe potuto compren­ derlo altrimenti; se non è spiegato, siamo autorizzati a de­ durne che il lettore sia in grado di capirlo senza aiuto. La combinazione di questi segni fornisce un ritratto del lettore 51

Il profilo dei

destinatari presupposti del testo

Indizi utili da osservare

Al principio una rivelazione teologica

I lettori già sanno chi è Gesù

implicito, della sua identità, della sua collocazione nello spa­ zio e nel tempo, del suo ruolo. Vediamo alcune esemplifi­ cazioni di tale metodo. Il prologo, con il suo tono solenne e teologico, orienta il lettore nella direzione che l'autore vuole fargli prendere: introducendo il personaggio principale e le forze in gioco, ne offre al tempo stesso la corretta chiave di lettura, "for­ mando" in tal modo un lettore che sarà disposto ad accet­ tare i fatti - e la loro interpretazione - così come proposti dal narratore. Il lettore implicito del Quarto Vangelo, dun­ que, accetta fin dal principio l'idea che la vicenda con cui sta per entrare in contatto non si esaurisce nella sua dimen­ sione storica, bensì la trascende sul piano cosmologico: sa a differenza dei personaggi che incontrerà lungo la strada ­ di non doversi fermare in superficie, e questo gli dà un enor­ me vantaggio rispetto ai protagonisti degli episodi che l'e­ vangelista sta per proporgli. Sebbene l' autore faccia nel prologo un'introduzione teologica a Gesù, risulta evidente che i suoi lettori lo cono­ scono già e condividono la fede dell'evangelista; hanno fa­ miliarità con gli eventi chiave della sua vicenda, come di­ mostra ad esempio l'accenno alla sua risurrezione (2,22 ) , in­ serito in modo tranquillo, senza alcun bisogno di spiegazio­ ne. Analogamente nel corso del racconto si anticipa il fatto del tradimento (6,64) e anche il nome del traditore (6,71): questo tuttavia non rovina la tensione narrativa, perché i destinatari conoscono già la vicenda, sono già cristiani e ab­ bastanza maturi da comprendere le riflessioni profonde che l'evangelista suggerisce . Il testo infatti presuppone una buona conoscenza dell'evento cristiano e di molti dati tra­ dizionali; non vuol essere un 'introduzione destinata a chi poco o nulla sa di Gesù. Facciamo un altro esempio: nel prologo la presentazione Giovanni Battista (1,6) non è ri­ volta a lettori che ignorano il personaggio, giacché nella narrazione ( cf 3,34) si fa riferimento all'arresto di Giovanni senza che il fatto sia raccontato; questo significa che i desti­ natari conoscono la storia del Battista ma poiché rischiano 52

di averne un'errata considerazione, l'autore lo presenta chiarendo bene il suo ruolo effettivo. Ugualmente il racconto giovanneo presuppone che i l ettori sappiano chi sono «i Dodici» senza bisogno di spie­ gar lo; lo stesso accade per i singoli discepoli, la cui presen­ tazione è assente o ridotta al minimo, spesso peraltro le­ gata a ragioni di enfasi più che al bisogno di fornire dati identificativi. Si capisce, ad esempio, che il lettore già co­ nosce Marta e Maria, perché Lazzaro viene presentato co­ me loro fratello, ed è al corrente anche dell'episodio del­ l'unzione, perché l'autore lo accenna ( 1 1 ,2) prima di rac­ contarlo (12,1 -8) . Se altri personaggi minori - come Nico­ demo (3,1), Caifa ( 1 1 ,49), Anna ( 18,13) e Giuseppe di Ari­ matea ( 1 9,38) - sono introdotti e contestualizzati, i brevi cenni che li qualificano servono per la dinamica interna del racconto. Nessuna spiegazione serve per le autorità ro­ mane (Pilato: 18,29; Cesare: 19,12) e giudaiche (i capi dei Giudei: 3,1 ; 7,26; i capi dei sacerdoti: 7,32; il sommo sacer­ dote: 1 1 ,49) , né per i personaggi collettivi come i vari grup­ pi di Giudei, a proposito dei quali si dà per assodato che il lettore sappia chi siano sacerdoti, leviti e farisei senza bi­ sogno di ulteriori spiegazioni. A riguardo dei Samaritani, se l'autore ritiene opportuno spiegare che «i Giudei non hanno rapporti con i Samaritani» ( 4,9), forse pensa che il lettore possa non saperlo, ma certamente lo precisa per enfatizzare il comportamento di Gesù verso la donna di Samaria. Per quanto riguarda gli ambienti geografici, l'autore presuppone che il suo lettore implicito abbia una conoscen­ za di base dei principali luoghi citati, quali Galilea e Giudea, Tiberiade e Gerusalemme; gli vengono fornite anche indi­ cazioni precise, ma senza troppe spiegazioni, riguardo a lo­ calità meno note (Betania oltre il Giordano: 1 ,28; Ennon vi­ cino a Salìm: 3,23 ; Efraim: 1 1 ,54) ; i luoghi di Gerusalemme, descritti nei particolari (Betzatà: 5 ,2) o evocati con nome greco e semitico («luogo chiamato Litòstrotos, in ebraico Gabbatà»: 1 9,13; «luogo detto del Cranio, in ebraico Gol53

I lettori

conoscono gUì molti personaggi

Si presup· pone una conoscenza dell'am· biente

! lettori conoscono l'ebraico?

Conoscono le feste e i riti giudaici

Conoscono i testi del/'AT

gotà»: 19,17) sono presentati in modo da attirare l'attenzio­ ne sul loro valore simbolico, non per istruire ignoranti. Il lettore di Giovanni certamente conosce il greco, per­ ché il testo è scritto in questa lingua, e potrebbe sembrare da alcuni indizi che ignori il significato di parole semitiche molto comuni: l'autore infatti traduce termini come «Rabbì» ( 1 ,38) , «Rabbunì» (20,16) e «Messia» ( 1 ,41 ; 4,25); spiega il significato di nomi propri come «Cefa» ( 1 ,42) , «Si­ loe» (9,7) e «Tommaso» ( 1 1 ,16; 20,24; 21,2). Anche in questi casi però sembra che l'intento sia quello di sottolineare il si­ gnificato, piuttosto che quello di colmare una lacuna cono­ scitiva. Infatti in altri casi vengono aggiunti come precisa­ zione toponimi ebraici o aramaici (Betzatà, Gabbatà e Gol­ gotà) senza tradurli, immaginando quindi che siano com­ presi. Riguardo alle feste giudaiche che vengono citate (Pa­ squa: 2,13; 6,4; 1 1 ,55; Capanne: 7,2; Dedicazione: 1 0,22), l'autore aggiunge talvolta qualche breve indicazione, ma dà per scontato che il lettore conosca di che cosa si tratta: dire che la Pasqua è «la festa dei Giudei» non significa spiegare una realtà sconosciuta, ma piuttosto precisare una sfuma­ tura interpretativa di quell'evento. Anche la precisazione che le idrie di Cana «servivano per la purificazione dei Giu­ dei» (2,6) non consente di affermare che il lettore di Gio­ vanni ignorava le pratiche religiose giudaiche: si tratta in­ fatti di una fine osservazione che il narratore introduce per richiamare il rito dell'acqua lustrale e aiutare il lettore a comprendere correttamente il segno di Gesù. Non c'è dubbio, infatti, che il lettore implicito del Quar­ to Vangelo conosca piuttosto bene i testi dell' AT, in modo particolare quelli relativi all'attesa messianica, dal momento che i numerosi richiami, le citazioni dirette e le allusioni im­ plicite non sono accompagnate da spiegazioni o commenti illustrativi. Inoltre, i numerosi passi in cui l'autore propone discussioni di Gesù coi Giudei, incentrate su minuziose que­ stioni esegetiche, lasciano intendere che la comunità desti­ nataria fosse in grado di comprendere e apprezzare tali sot54

tili argomentazioni teologiche, abituata probabilmente alla traduzione greca dei LXX. Sebbene molte indicazioni pre­ senti nel Quarto Vangelo possano essere spiegate con dif­ ferenti momenti della tradizione e quindi con riferimento a diversi destinatari, il testo definitivo lascia intravedere un lettore implicito comunitario, cioè un gruppo di discepoli, legati al giudaismo e credenti in Gesù Cristo, ai quali è of­ ferta la testimonianza del discepolo amato, messa per iscrit­ to perché resti come strumento in grado di aiutare il cam­ mino credente e condurre alla vita in pienezza. Altre finalità secondarie

L'attenta ricerca di numerosi studiosi ha individuato an­ che altri possibili scopi e altri potenziali destinatari; pur ri­ conoscendo l'effettiva presenza di tali elementi all'interno del Quarto Vangelo, tuttavia essi non sono tali da caratte­ rizzarlo pienamente. In alcuni versetti si intravvede un intento apologetico: l'autore sembra difendere Cristo contro i seguaci di Giovanni il Battista. Testi che sottolineano la superiorità di Gesù nei confronti del B attista sono effettivamente presenti (cf 1 ,8-9.20.30; 3,28.30; 10,41), ma nonostante tutto Giovanni ha un posto d'onore nel racconto e lo scopo apologetico contro ipotetici "battisti" non è certo quello principale. Alcune particolari sottolineature fanno intuire qualche intento di controversia e di polemica, che l'antica tradizione patristica suggeriva orientata alla confutazione di gruppi cristiani eretici, mentre gli studiosi moderni leggono piuttosto come diretta contro i Giudei increduli, che non hanno voluto accogliere Gesù. Secondo lreneo, Giovanni scrisse il suo Vangelo contro Cerinto, un eretico dell'Asia Minore con inclinazioni gnostiche (Contro le eresie 111,1 1 ,1 ); nel testo però c'è davvero poco che serva a confutare queste idee, mentre è possibile che una simile polemica sia piuttosto alla base della Prima lettera di Giovanni. Girolamo aggiunge che Giovanni ha 55

Un intento apologetico

Un intento polemico

Contro Cerinto

Contro il docetismo

Contro i Giudei

scritto anche contro Ebione e gli altri che negano la carne di Cristo, ma Ebione non è personaggio storico, bensì em­ blema degli «ebioniti», cristiani rimasti ebrei, improbabili destinatari del Quarto Vangelo. Alcuni autori moderni in­ fine intravvedono nelle intenzioni di Giovanni una polemica contro il docetismo, la tendenza a negare la realtà dell'in­ carnazione, accettando solo l'apparenza umana del Cristo. Testi su questa linea possono essere considerati l'afferma­ zione della carne assunta dal Logos (1 ,14), il realismo eu­ caristico (6,5 1 -58) e la trafittura del costato (1 9,34): pur es­ sendo passi importanti nel complesso dell'opera, non sono sufficienti ad affermare che questo sia l'intento determinan­ te del Vangelo. La polemica contro i Giudei increduli è invece vistosamente presente nel racconto di Giovanni, che lascia spesso trasparire un clima di forte contrapposizione fra «chi crede» e «chi non crede», indicando come la questione riguardi sempre l'accoglienza di Gesù. Mentre i termini «Israele» ( 1 ,3 1.49; 12,13) e «lsraelita» (1 ,47) hanno una connotazione positiva, il Quarto Vangelo usa molte volte la formula «i Giudei» con valore negativo, attirandosi anche, talvolta, l'accusa di antigiudaismo. La questione è stata recentemen­ te molto studiata e per lo più i ricercatori sono giunti alla conclusione che Giovanni rimproveri, sì, i Giudei, ma re­ stando all'interno del giudaismo e biasimando non tutta la nazione o la religione giudaica, bensì solo il gruppo storico delle autorità religiose fieramente ostili a Gesù. E probabile che la situazione venutasi a creare dopo l'anno 70 e il forte contrasto tra chi accettava il Cristo e chi lo rifiutava abbiano influenzato questo impianto di contrapposizione, dove la discriminante è costituita dal credere in Gesù non solo come messia, ma soprattutto come Figlio di Dio ( 19,7), uguale a Dio (10,33), «una cosa sola con il Padre» (10,30). Più che la vicenda di Gesù, tale tensione riguarda - come si è visto la comunità giovannea di fine secolo: il racconto ne risente fortemente, ma non abbastanza da permettere di affermare che la polemica sia il suo scopo. 56

Alcuni passaggi del testo lasciano infine presupporre una volontà di annuncio e di incoraggiamento verso l'ester� no della comunità giovannea. Si è ipotizzato, ad esempio, che il testo di Giovanni sia un appello rivolto ai giudeo-cri­ stiani della diaspora, incerti e indecisi, perché scelgano de­ cisamente il Cristo, staccandosi dalla sinagoga: viene infatti denunciata la presenza fra i capi dei Giudei di molti che cre­ devano in Gesù, ma non lo facevano pubblicamente per non essere scomunicati (12,42-43) ; fra costoro sono un esempio negativo i genitori del cieco nato che, per paura dei Giudei, non vogliono riconoscere l'opera di Gesù (9,22) , mentre Giuseppe d' Arimatea e Nicodemo hanno il coraggio di ve­ nire alla luce ( 19,38-39). Si è voluto identificare nel Quarto Vangelo anche un'apertura missionaria rivolta a tutti i po­ poli, sebbene il termine tecnico éthne («genti») non compaia mai: ne sarebbero un indizio i richiami all'universalismo, che presentano Gesù come colui che illumina «ogni uomo» (1 ,9) e toglie «il peccato del mondo» (1 ,29), essendo stato mandato perché «il mondo si salvi per mezzo di lui» (3,17; 4,42) , mentre egli stesso promette che, una volta innalzato, attirerà «tutti» a sé (12,32). Significativi sono anche i riferi­ menti alla messe dei Samaritani che i discepoli sono mandati a mietere ( 4,35-38), le allusioni ad una missione presso i Greci (7,35; 12,20-21), l'accenno ad «altre pecore» da rac­ cogliere nell'unico ovile (10,16) e ai «figli di Dio dispersi» da radunare in unità (11 ,52) . Tali dettagli, pur reali e importanti nell'insieme, non co­ stituiscono tuttavia il motivo principale del Quarto Vangelo, che è diretto al «voi» ecclesiale (20,31 ) - la comunità cre­ dente - senza distinzione di origine né limiti temporali, al fine di aiutarla a rimanere nella fede per avere la vita. Diacronia: storia della composizione

Come abbiamo già più volte accennato, il Vangelo se­ condo Giovanni ha avuto una lunga storia di composizione. Pur essendo un'opera unitaria dal punto di vista linguistico 57

Un appello ai giudeo­ cristiani

Un intento missionario

e stilistico, con una impostazione teologica omogenea, si possono tuttavia notare nel corso del racconto alcune ten­ sioni letterarie che lasciano intendere un certo travaglio compositivo. Passiamo in rapida rassegna alcuni di questi fenomeni letterari, per renderei conto di che cosa si tratta. Gli indizi letterari di una vicenda redazionale L'inno introduttivo

Il c. 21

In primo luogo è possibile riconoscere delle sezioni ag­ giunte, autonome rispetto al resto del testo. Proprio all 'ini­ zio dell'opera, il solenne prologo teologico (1 ,1-18), com­ posto con formule ritmiche e poetiche, si distanzia decisa­ mente dal resto della prosa giovannea: l'inno introduttivo dunque è una realtà letteraria autonoma, posta al principio del racconto come grande ouverture, per introdurre la nar­ razione che comincia in 1 ,19. Nonostante la differenza stili­ stica tuttavia fra il prologo e il testo in prosa non c'è frattura, bensì stretta correlazione, tanto è vero che il racconto parte (1,19) allacciandosi alla testimonianza del Battista, di cui si parla nell'introduzione: non è immaginabile un racconto che inizi «E questa è la testimonianza che ... ». Sembra per­ tanto evidente che il prologo sia stato aggiunto da un redat­ tore che l'ha raccordato con il seguito della narrazione, in modo che il testo poetico affermi solennemente che Gesù è il rivelatore del Padre, mentre la narrazione in prosa mostra come lo è stato. Anche l'ultimo capitolo del Vangelo, che ha un ruolo di epilogo, è ritenuto dagli esegeti un brano aggiunto. Il c. 20 termina infatti con una frase (vv. 30-31 ) che ha tutto il sa­ pore della conclusione, ma immediatamente dopo il raccon­ to riprende con una rilettura ecclesiale sul senso della mis­ sione apostolica dopo la risurrezione di Gesù Cristo e il ruo­ lo dei vari discepoli (21 ,1-23) . Al termine dell'episodio si trova un secondo epilogo - formulato col «noi» della comu­ nità giovannea - che presenta il discepolo testimone e dà garanzia della sua credibilità (21 ,24-25) . Risulta evidente che non è il testimone stesso a scrivere queste parole, ma si 58

tratta di un'aggiunta successiva alla sua morte: un altro re­ dattore, discepolo del discepolo amato, ha rielaborato l'o­ pera, intervenendo con alcune integrazioni. C'è poi un altro passo che sembra aggiunto al testo originale: si tratta dell'episodio dell'adultera che Gesù non condanna (7,53-8,1 1). Questo brano manca in una serie di manoscritti antichi e autorevoli; in alcuni codici compare, ma viene collocato in altri punti del racconto; addirittura, in qualche caso è inserito nel Vangelo di Lu ca In base a questo fatto testuale gli studiosi hanno osservato alcune differenze di linguaggio e di contenuto rispetto al consueto giovanneo, come ad esempio la menzione del monte degli Ulivi e degli scribi, che non compaiono mai altrove in Giovanni. Si pensa quindi che questo episodio non facesse inizialmente parte del Quarto Vangelo, ma vi sia stato inserito in epoca antichissima nel corso di una nuova redazione del testo: Gerolamo lo introdusse nella sua traduzione latina della Bibbia, diventata poi quella ufficiale ( Vulgata) della Chiesa latina, e la sua canonicità non è in discussione. Chi lo ha inserito in quel punto, inoltre, non l'ha fatto casualmente: la narrazione, infatti, riprende in modo forte i temi dominanti nei cc. 7 e 8, di cui forma la cerniera. Questo tuttavia non è sufficiente a eliminare l'impressione di un inserimento che in­ terrompe il filo del racconto. Esistono, inoltre, nel complesso del testo evangelico, numerose fratture narrative, passaggi cioè che sono problematici rispetto all'insieme, perché non mostrano una lineare continuità narrativa o perché hanno la forma di frammenti autonomi rispetto al contesto. Vediamo gli esempi principali. I cc. 5-6-7 creano una sequenza problematica: il c. 5 è ambientato a Gerusalemme presso la piscina Probatica e poi nel tempio; la lunga discussione coi Giudei termina senza alcuna indicazione di cambiamento di luogo. Il c. 6 comincia però affermando che «Dopo questi fatti Gesù andò all'altra riva del mare di Galilea»: se era nel tempio di Gerusalemme, come si può parlare dell'altra riva del lago? Il c. 7, invece,

L'episodio dell'adultera

.

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Le fratture narrative

/ capitoli

5-6-7

Il brano 3,31 -36

Il brano 12,44-50

pur facendo seguito ad un episodio ambientato in Galilea, inizia dicendo che «Dopo questi fatti Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più andare per la Giudea, per­ ché i Giudei cercavano di ucciderlo» (7,1). Il lettore in gene­ re non nota questi fatti, perché la proclamazione liturgica ci ha abituato a frazionare i testi in pericopi separate; ma se si legge tutto il racconto di seguito si può cogliere facilmente tale frattura. Sembra dunque di poter riconoscere un'opera redazionale che ha avvicinato in un secondo tempo blocchi narrativi che in precedenza avevano avuto una vita autono­ ma. Il c. 6, ad esempio, con il segno del pane e il grande di­ scorso sul pane di vita, risulta un testo a sé, una composizio­ ne ampia e organica, trasmessa in modo autonomo, che in fase redazionale venne inserita fra l'episodio del paralitico e la discussione alla festa delle Capanne, senza che fossero eliminati tutti i piccoli indizi di frattura narrativa. Allo stesso modo, anche il testo 3,31 -36 non è ben col­ legato con ciò che lo precede: apparentemente, infatti, il di­ scorso sembra pronunciato da Giovanni B attista, che sta parlando dal v. 27; le parole del precursore culminano però con il v. 30 ( «Egli deve crescere e io invece diminuire» ) e ciò che segue sembra adattarsi piuttosto alla rivelazione del Cristo. Si può parlare quindi di un frammento letterario non ben integrato con il testo - inserito in fase redazionale, con l'obiettivo di conservarlo. Ugualmente anche in 12,44-50 si può riconoscere un al­ tro blocco aggiunto. In 12,36 il narratore ha fatto uscire di scena il personaggio principale ( «Dette queste cose Gesù se ne andò e si nascose da loro» ) e nei versetti seguenti (vv. 3743) interviene con delle riflessioni teologiche sul rifiuto e l'incredulità dei Giudei. Poi, all'improvviso, al v. 44 si dice: «Gesù allora gridò a gran voce: "Chi crede in me ... "»; e il discorso continua fino alla fine del capitolo, senza altri in­ terventi narrativi. In questo caso sembra evidente la presen­ za di un frammento fuori contesto, che il redattore ha inse­ rito nel punto di netta demarcazione fra la prima ( cc. 1-12) e la seconda ( cc. 13-21) parte del Vangelo . 60

Nel testo di Giovanni si possono inoltre notare alcune incongruenze e interventi dell'autore volti ad appianare cer­ te difficoltà. In 3,22, ad esempio, si dice che «Gesù battez­ zava»; la stessa cosa è ripetuta poco dopo come opinione corrente ( 4,1 : «I farisei avevano sentito dire: Gesù fa più di­ scepoli e battezza più di Giovanni»); a questo punto però il narratore interviene per correggere l'informazione: «Non era Gesù in persona che battezzava, ma i suoi discepoli» (4,2). Analogamente il testo di 4,44 sembra una nota stona­ ta, proveniente dalla tradizione sinottica: dice infatti che «Gesù stesso aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella sua patria». Subito dopo tuttavia, raccontando l'arrivo di Gesù nella sua patria, il v. 45 afferma: «Quando giunse in Galilea, i Galilei lo accolsero con gioia». Un feno­ meno simile si riconosce anche in 16,5 dove Gesù si lamenta: «Nessuno di voi mi domanda: Dove vai?»; questo infatti è in opposizione a 13,16, laddove Simon Pietro gli ha esplici­ tamente domandato: «Signore, dove vai?». Introducendo l'episodio della rianimazione di Lazzaro si dice ( 1 1 ,2) che Maria, sorella del morto, era quella che ave­ va unto i piedi di Gesù: eppure questo episodio viene rac­ contato solo nel c. 12. Chi legge per la prima volta il testo di Giovanni non capisce questa spiegazione, ma il racconto di Lazzaro è fatto per gente che già conosce la vicenda e l'am­ biente: da un particolare tanto minuto, dunque, si può rico­ noscere una lunga vicenda di narrazione orale e di tradizione scritta - ma indipendente - delle varie pericopi. In 14,3 1 , do­ po due capitoli di discorsi durante la cena, Gesù dice: «Al­ zatevi, andiamo via di qui». Sembra finita la serie delle pa­ role e invece, senza alcuna altra indicazione, il Maestro con­ tinua a parlare per i cc. 15, 16 e 17. È dunque probabile che i testi di questi tre capitoli siano delle aggiunte ad una prima redazione dei discorsi di addio: si riconoscono in essi, infatti, numerosi riferimenti alla difficile situazione storica vissuta dalla comunità giovannea verso la fine del secolo. Questi e altri simili fenomeni letterari nel testo giovan­ neo - definiti aporie o difficoltà senza via d'uscita - vengono 61

Incon­ gruenze e tentativi di chiarimento

Altre difficoltà

Come valutare tali aporie

affrontati in modi differenti: gli studiosi storico-critici li han­ no intesi come prove di una complessa redazione del testo, mentre la lettura sincronica non ha dato loro molta rilevan­ za, valorizzando piuttosto l'opera editoriale di unificazione. Proprio questo approccio, tuttavia, ha dovuto evidenziare come la redazione finale non sia riuscita ad appianare per­ fettamente l'intero testo: resta quindi necessario prendere in seria considerazione tali aporie - che non smentiscono affatto l'unitarietà dell'opera - e domandarci come sia pos­ sibile spiegare queste aggiunte, fratture e incongruenze. La risposta comunemente data sta nel riconoscere un notevole intervento redazionale da parte dell'evangelista. Tradizione e redazione

Un lungo arco di tempo

La com­ prensione è maturata

Il Quarto Vangelo è un'opera scritta nell'arco di un lun­ go periodo di gestazione e maturazione: circa settant'anni separano la vicenda storica di Gesù (verso l'anno 30) dalla stesura definitiva del testo giovanneo (verso la fine del I sec.). Non possiamo immaginare che la composizione scritta di quest'opera sia avvenuta in pochi mesi o nel giro di qual­ che anno: è molto più logico pensare a un lungo e complesso lavoro di stesura dilazionato nel tempo. Questi settant'anni hanno segnato in modo determi­ nante lo sviluppo della letteratura e della teologia giovan­ nea: il discepolo amato, testimone oculare dei fatti di Gesù, ha vissuto tutta la vita ripetendo la sua testimonianza di fe­ de. È maturato come uomo e come credente; ha predicato il messaggio di Gesù Cristo a tanta gente diversa in tante circostanze differenti; ha cambiato la residenza in vari luo­ ghi geografici, ha comunicato il vangelo a persone di culture diverse, si è trovato a vivere in situazioni storiche profon­ damente mutate. L'approfondimento della riflessione non riguarda solo la vita di Gesù, ma anche il senso della storia: la caduta di Gerusalemme nell'anno 70, ad esempio, deter­ mina una nuova situazione anche per la Chiesa e per i rap­ porti con la sinagoga giudaica; così l'inizio delle persecuzio62

ni, lo sviluppo della vita liturgica cristiana, la celebrazione dei sacramenti nelle nuove comunità sono eventi decisivi che hanno fatto maturare la comprensione e la trasmissione del messaggio di Cristo. Il Quarto Vangelo dunque, come ogni altro scritto neo­ testamentario, rispecchia la vita del discepolo e della sua co­ munità. È un'opera che nasce nella vita della Chiesa ed è per la vita dei credenti. Il testimone, infatti, ha anzitutto pre­ dicato: per tutta la vita ha trasmesso a viva voce la sua esperienza fondamentale, ha raccontato un'infinità di volte gli stessi episodi e ha ripetuto in mille modi le stesse parole; ha predicato a persone concrete per trasmettere la sua fede nel Cristo risorto e, solo col tempo, dalla predicazione è nato qualche scritto. All'inizio dunque sta la tradizione apostolica: il discepolo cioè ha trasmesso la propria esperienza dell'evento a chi non c'era, ha offerto la sua testimonianza unita a un'interpretazione di fede. Orale o scritto, resta fondamentale questo processo di tradizione. Alla tradizione si aggiunge, poi, la redazione: con que­ sto termine si intende tutto il lavoro di tipo letterario che riguarda i testi scritti. Con il tempo infatti la predicazione si trasforma in testi scritti e ciascun testo, a sua volta, si evolve: viene riletto, tradotto magari in un'altra lingua, riscritto per altra gente in diversa situazione; certamente ritoccato, subisce ripetuti approfondimenti, finché si arriva alla stesura definitiva che mette insieme testi disparati. L'autore che rielabora la tradizione è un redattore, e molti possono dare il loro contributo redazionale fino al testo finale, quello che ci è stato tramandato in modo fisso e costante. Nel testo finale possiamo notare piena coerenza fra il materiale tradizionale e le cosiddette intrusioni del narrat ore: l'unico punto di vista è quello del redattore finale, che ha saputo dare unità letteraria organica all'intero Vangelo . La vicenda storica di Gesù è raccontata con fedeltà, ma al tempo stesso interpretata alla luce della sua risurrezione e nell'ottica del compimento delle Scritture. Due importanti intrusioni del narratore, nel Quarto Vangelo, spiegano al 63

All'inizio sta la tradizione apostolica

Poi viene un complesso lavoro di redazione

Il punto di

vista del redattore finale

Prima intrusione ermeneutica

lettore la riflessione ermeneutica compiuta dal discepolo te­ stimone e dall'intera comunità apostolica. Il primo caso lo troviamo nel racconto della cacciata dei mercanti dal tempio, quando l'autore entra nel testo con una spiegazione che gli è stata chiara in seguito: egli precisa che, nel momento storico in cui capitò l'episodio, nemmeno i discepoli di Gesù capirono il senso di ciò che stava dicendo il loro Maestro. «Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù» (Gv 2,21 -22) .

Seconda intrusione ermeneutica

Con questa precisazione il narratore vuole evidenziare la progressiva crescita di comprensione che, dopo la Pasqua, ha portato i discepoli a comprendere quella parola di Gesù sul tempio come riferita al suo stesso corpo risorto. Viene così detto esplicitamente che la comunità cristiana matura la propria visione teologica, meditando le Scritture e ricor­ dando l'esperienza storica di Gesù: dopo la sua risurrezione, il ricordo dei fatti e delle parole del Cristo permette ai di­ scepoli di credere pienamente alle Scritture e di riconoscere nella rivelazione di Gesù il compimento della Parola di Dio. L'altra rilevante intrusione ermeneutica del narratore si trova nell'episodio dell'ingresso solenne in Gerusalemme, che viene spiegato con un riferimento biblico a Zac 9,9. Dopo aver riportato questo versetto profetico, l'autore aggiunge: «< suoi discepoli sul momento non compresero queste cose; ma, quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose e che a lui essi le avevano fatte» (Gv 12,16).

Anche in questo caso viene precisata la crescita di com­ prensione che la comunità giovannea ha vissuto nel tempo: al momento dei fatti i suoi discepoli non capirono il senso di ciò che il loro Maestro stava face:r.do né pensarono alla 64

frase del profeta Zaccaria; solo dopo la sua Pasqua di risur­ rezione il ricordo dei fatti accaduti e lo studio delle Scritture hanno permesso una piena comprensione del progetto di­ vino, rivelato nei testi biblici e realizzato dalla vicenda di Gesù. Ciò che al Quarto Vangelo interessa raccontare non è quindi un'esposizione di fatti "nudi e crudi", bensì l'inter­ pretazione credente dei fatti, raggiunta col tempo sotto la guida dello Spirito Paraclito, che ha ricordato ai discepoli tutto ciò che Gesù aveva detto e ha insegnato loro la cor­ retta interpretazione (cf 14,26). Esemplifichiamo questa dinamica ermeneutica a propo­ sito dei discorsi di Gesù presenti nel Vangelo secondo Giovan­ ni: le parole originali di Gesù sono state conservate dai testi­ moni e trasmesse per anni a molti destinatari diversi, in am­ bienti differenti, quindi tradotte, spiegate, adattate; un intel­ ligente lavoro di rielaborazione letteraria e teologica ha pro­ dotto poi i discorsi del testo definitivo, che costituiscono il frut­ to maturo di un lungo lavoro di comprensione e approfondi­ mento. L'evangelista è convinto che la sua opera sia in realtà opera dello Spirito: ha la consapevolezza che nell'anno 30 non avrebbe scritto le cose che invece scrisse nell'arco della sua lunga vita. L'autore letterario può così mettere in bocca a Ge­ sù dei discorsi ben organizzati e strutturati, insegnamenti che durante la sua vita terrena egli non ha potuto pronunciare: nel corso di alcuni decenni lo Spirito di Gesù ha guidato la Chiesa a interpretare e comprendere in profondità le parole del Mae­ stro, per cui il narratore credente fa una mirabile sintesi della rivelazione e della tradizione. L'insegnamento storicamente iniziato da Gesù è compreso pienamente grazie allo Spirito del Cristo risorto ed è consegnato ad un testo letterario, frutto di molti e sapienti ritocchi redazionali. La fatica della ricostruzione «diacronica»

Alla luce di tutto questo, molti studiosi negli ultimi se­ coli si sono impegnati a ricostruire la lunga storia di com­ posizione vissuta dal Quarto Vangelo: questo importante e 65

L'interpre· tazione credente dei fatti

Per esempio: i discorsi

Utilità del metodo sto­ rico-critico

Ipotesi di fonti e di strati

valido lavoro di ricerca appartiene a un metodo che, avendo l'obiettivo di ricostruire l'evoluzione del testo nel corso del tempo, prende il nome di «lettura diacronica». Il metodo storico-critico, infatti, ha lo scopo di mettere in luce, attra­ verso la ricostruzione delle varie fasi storiche e letterarie, il senso espresso dagli autori e dai redattori di un testo: è la natura stessa del testo biblico a richiedere un simile approc­ cio storico, perché - per parlare del nostro caso specifico il Vangelo secondo Giovanni non si presenta come una ri­ velazione diretta di verità fuori dal tempo, bensì come l'at­ testazione scritta di un evento storico e di un'esperienza di­ scepolare attraverso cui il messia Gesù ha rivelato Dio nella storia umana. Le ricerche diacroniche restano quindi utili per una corretta esegesi, anche se raramente producono ri­ sultati univoci: spesso, anzi, le ricostruzioni che gli studiosi propongono divergono notevolmente le une dalle altre e re­ stano tutte ipotetiche. È proprio questo continuo e serio im­ pegno di analisi ricostruttiva, tuttavia, che aiuta a compren­ dere la storia di composizione di un testo importante come il Vangelo secondo Giovanni, la cui redazione progressiva gode di un ampio consenso da parte degli studiosi. Se da un lato si ritiene ormai superata l'ipotesi delle "fonti", in base alla quale l'evangelista avrebbe combinato insieme testi diversi, ha conservato credito l'ipotesi degli "strati", che immagina un nucleo evangelico primitivo dal quale - attraverso aggiunte e riletture - si sarebbe poi svi­ luppata l'opera finale. Non è possibile nella nostra introdu­ zione - e non sarebbe neppure utile - prendere in conside­ razione le numerose proposte di soluzione avanzate negli ultimi secoli: accenno soltanto, a titolo esemplificativo, alla recente proposta di von Wahlde, che suggerisce una inter­ pretazione originale degli annosi problemi di storia della composizione, tenendo conto anche dei notevoli contributi offerti dal metodo narrativo.2 La sua idea non è nuova: il

2

Cf VON WAHLDE, The Gospel and Letters ofJohn, l, 1 -393.

66

Quarto Vangelo nella sua forma attuale sarebbe passato at­ traverso tre diverse edizioni. Il pregio di questa proposta sta, però, nello studio dettagliato dei criteri che rendono possibile identificare il materiale delle varie edizioni, in mo­ do da precisare le caratteristiche di ciascuna: tale identifi­ cazione non è pura questione accademica, ma si rivela utile per chiarire molti particolari relativi alla vicenda sociale e al pensiero teologico della comunità giovannea, soprattutto per poter scrivere una storia dello sviluppo di quella teolo­ gia. Questi criteri sono di tre tipi: linguistici (relativi ai vo­ caboli adoperati), ideologici (secondo l'impostazione nar­ rativa seguita) e teologici (in base al messaggio trasmesso). Partendo dalla presenza di aporie nel testo, che rivelano le suture letterarie fra strati diversi, von Wahlde procede all'identificazione delle prime due edizioni anzitutto in base alla presenza di due tipi di termini per indicare le autorità religiose, che in alcuni testi compaiono come «farisei, sommi sacerdoti e capi» e in altri semplicemente come «i Giudei»; nei primi testi, ha inoltre osservato, i miracoli di Gesù sono definiti «segni», mentre negli altri si parla di «opere» ; nel primo gruppo di passi, poi, il racconto mostra come l'ostilità dei farisei cresca insieme al crescere della fede popolare, mentre nel secondo gruppo l'ostilità dei Giudei è forte fin dall'inizio e si mantiene costante. Queste differenti modalità sono consistenti e determinano un contrasto fra i testi, al punto da fondare l'ipotesi di differenti edizioni. Pur senza accettare tutte le ricostruzioni di von Wahlde e le ipotesi di differenti autori, la sua ricerca - dettagliata e rispettosa dei contributi di altri studiosi - costituisce un ef­ fettivo progresso nella ricerca, che ha saputo valorizzare i differenti contributi dell'ultimo secolo proponendo come complementari e non alternativi i metodi di critica letteraria e di critica storica. I numerosi e dettagliati indizi da lui evi­ denziati, coerenti fra di loro e significativi nel complesso dell'opera finita, offrono criteri oggettivi che consentono di parlare di un lungo processo di riletture, riconoscendo tre successive fasi di crescita della tradizione giovannea. Parlan67

L'ipotesi genetica di von Wahlde

Come identificare le varie edizioni

Un lungo processo di riletture

La prima ipotetica edizione

La seconda ipotetica edizione

do di edizioni, von Wahlde intende appunto riferirsi a riela­ borazioni del materiale letterario precedente: in tal modo il testo di Giovanni non perde valore come opera unitaria, ma anzi acquista chiarezza a proposito delle innumerevoli aspe­ rità che gli studiosi hanno ripetutamente denunciato. La prima tappa della tradizione giovannea è riconosciu­ ta da molti studiosi come un nucleo narrativo iniziale e com­ pleto, incentrato sui segni prodigiosi compiuti da Gesù, de­ stinato ad una comunità giudeo-cristiana residente in Giu­ dea e messo per iscritto fra il 50 e il 60. La terminologia caratteristica di questa "prima edizio­ ne", oltre a "farisei" e "segni", sta nell'impiego di "Giudei" per indicare gli abitanti della Giudea e in un vistoso feno­ meno di traduzione di termini religiosi e geografici. Il pro­ cedimento narrativo mostra alcune caratteristiche proprie: la fede è presentata come una reazione a catena; si dà gran­ de importanza al numero e al tipo dei segni compiuti da Ge­ sù; c'è enfasi sulla varietà dei gruppi che iniziano a credere in Gesù e sul disaccordo di opinione fra le autorità; sia la fe­ de del popolo che l'ostilità dei farisei dipendono dai segni; le persone comuni non mostrano di avere paura delle auto­ rità, ma discutono con loro e reagiscono anche con sdegno; si notano, inoltre, numerose spiegazioni delle realtà giudai­ che. Ne derivano alcune importanti caratteristiche teologi­ che, fra cui la presentazione del credere come una realtà semplice, che si ottiene facilmente in forza dei miracoli, e la tradizionale cristologia giudaica, senza affermazioni della divinità di Gesù. Una seconda tappa di questa tradizione è stata determi­ nata dal progressivo approfondimento della riflessione cri­ stologica da parte del discepolo testimone e del suo gruppo giudeo-cristiano, che entrano in conflitto col giudaismo uf­ ficiale. Il rifiuto di molti Giudei di accettare Gesù come mes­ sia e l'impostazione di una cristologia «alta» portò ad un con­ flitto, che determinò l'esclusione dalla sinagoga e forse la morte di qualche membro della comunità giovannea: è ve­ rosimile pensare che il testo fondamentale di Giovanni sia 68

stato riletto alla luce di questa comprensione più matura, in­ troducendo una struttura più complessa e teologica basata sul tema delle testimonianze, accettate dai discepoli e rifiu­ tate dai Giudei; in questa fase - databile fra il 70 e 1'80 ma difficilmente collocabile in un ambiente geografico - l'oriz­ zonte del ministero storico di Gesù si mescola con l'orizzonte della comunità in conflitto con gli esperti della sinagoga, chiamati «i Giudei» in quanto rappresentanti del giudaismo ufficiale. Il dibattito riguarda le pretese di Gesù sulla propria persona, in quanto Figlio mandato dal Padre per compiere la sua opera: per questo i Giudei lo accusano di bestemmia. Questa "seconda edizione" è caratterizzata linguistica­ mente dal riferimento polemico ai "Giudei" e dall'uso di "opera" come concetto teologico complessivo per descrivere il ministero di Gesù. Per quanto riguarda il procedimento narrativo, il fatto più vistoso è che le autorità religiose sono ostili a Gesù in modo deciso fin dall'inizio, senza contrasti in­ terni e in maniera compatta; sono quasi sempre in dialogo con Gesù e le persone comuni hanno paura di loro, senza mai osare contraddirle. Inoltre, da un punto di vista letterario, è importante l'impiego dell'espediente dell'equivoco. Ne deri­ vano significative caratteristiche teologiche: la cristologia di­ viene vistosamente alta, presentando Gesù come «Figlio» e «mandato» dal Padre; viene introdotta la nozione di intima relazione tra il Padre e il Figlio, nonché il ruolo dello Spirito, da cui il fedele è chiamato a nascere; si nega l'importanza de­ gli aspetti "carnali"; la morte di Gesù è vista come un «anda­ re» al Padre; il «giudizio» si realizza nel tempo presente in forza dell'incredulità stessa. Elemento teologico caratteristi­ co è l'annuncio dell'effusione escatologica dello Spirito divi­ no da parte di Gesù su coloro che credono in lui: questo dono comporta la trasformazione dei credenti, che fin dal presente hanno la vita eterna e possiedono una conoscenza diretta di Dio, senza più bisogno di direttive etiche o rituali religiosi. Per ricevere tale dono è decisiva la fede in Gesù, basata non sui segni, ma sull'accoglienza delle varie testimonianze: Gio­ vanni Battista, le opere, il Padre e le Scritture. 69

Principali novità in questa ri-edizione

La crisi interna

La terza ipotetica edizione

Dopo la scissione dalla sinagoga, la comunità giovannea sperimentò un'altra crisi, questa volta interna, causata dal­ l'interpretazione delle sue stesse tradizioni: il risultato del conflitto fu la separazione dei contestatori dalla comunità. La comunità destinataria è ormai ellenizzata e vive nell'am­ biente efesino verso la fine del I sec. : in questo contesto, e per il problema degli "anticristi", vengono scritte le Lettere giovannee, che introducono una prospettiva apocalittica in­ centrata sui temi di "luce" e "amore" per chiarire la tradi­ zione autentica, in contrasto con quella degli avversari. Nel­ lo stesso ambiente comunitario e nello stesso periodo stori­ co viene redatta l'Apocalisse di Giovanni. In seguito a tali nuove operazioni letterarie anche il testo evangelico subisce un'ulteriore importante rilettura, che non cambia la strut­ tura narrativa ma vi sovrappone un arrangiamento tematico di tipo apocalittico, cercando di precisare il rapporto coi Si­ nottici e di chiarire la posizione del discepolo amato rispetto alla figura di Pietro. La terminologia caratteristica di questa "ultima edizio­ ne" si riconosce nell'uso di "Signore" per riferirsi a Gesù con valenza divina, di "fratello" e "figlio" per le persone che ap­ partengono alla comunità, di "comandamento" ( al posto di "opera" ) per designare il compito dato a Gesù dal Padre. Nel procedimento narrativo si nota poi l'aggiunta di una pro­ spettiva apocalittica che adopera in contrapposizione le im­ magini di "luce" e "tenebra", accenna alla dualità degli Spi­ riti ed evoca il «Principe di questo mondo», introduce una tensione verso l'escatologia finale come universale resa dei conti. Oltre ad alcune tipiche caratteristiche letterarie, sono significative le numerose aggiunte o precisazioni teologiche che vengono introdotte per chiarire l'interpretazione evan­ gelica: la cristologia insiste sulla pre-esistenza e l'unicità del Figlio, impiega la formula «lo Sono» e il titolo apocalittico «Figlio dell'uomo»; particolare enfasi è posta sul ruolo di Gesù come indispensabile per ottenere l'accesso alla vita eterna e la sua morte è compresa con un essenziale valore salvifico; la funzione dello Spirito è precisata in stretta rela70

zione a Gesù; pur riprendendo il tema della vita eterna come già attuale nel presente, viene posta enfasi sull'importanza di un comportamento etico corretto e sulla rilevanza attri­

buita ai sacramenti del battesimo e dell'eucaristia. Data e luogo dell'edizione finale

A questo punto è chiaro che possiamo parlare di data e luogo di composizione solo a proposito dell'ultima fase di redazione che ha prodotto il Quarto Vangelo nella sua edizione definitiva, la quale presuppone la morte di Pietro (cf 21 ,18) - avvenuta nell'anno 64 - e anche quella del di­ scepolo amato (cf 21 ,21-22) - collocata da Ireneo dopo il 98. Un altro indizio esterno è offerto da un antichissimo papiro (P52), contenente un frammento del Vangelo secondo Gio­ vanni e scritto in Egitto verso l'anno 125: ciò significa che il testo definitivo deve essere stato pubblicato nella genera­ zione precedente, alla fine del I sec. Per il luogo di edizione le numerose testimonianze antiche e gli espliciti riferimenti dell'Apocalisse indicano l'am­ biente di Efeso come il più probabile. Alcuni autori moderni suggeriscono Antiochia o Alessandria come patria di origine del Quarto Vangelo, ma non hanno argomenti sufficienti per dimostrare tali ipotesi.

Data

Luogo

L'importanza della lettura sincronica

Alla fine di questa ricostruzione diacronica è importante ribadire che il Vangelo secondo Giovanni è quello nella sua forma definitiva e canonica. La ricostruzione delle edizioni precedenti non intende risalire alla verità più arcaica e più vicina al Gesù storico, ma mira piuttosto a spiegare la composizione finale del Quarto Vangelo, il quale, essendo primariamente un documento teologico ad uso di una comunità credente, partecipa della comune vicenda subita da testi del genere: le comunità religiose infatti accettavano abitualmente documenti "ri-editi", perché legati a dinami71

L'impor­ tanza del testo finale

Il processo di rilettura teologica

Apprezzare un'opera corale e geniale

Importanza di una lettura sincronica

che di "ri-lettura teologica" in forza di eventi significativi che potevano interessare gli stessi gruppi destinatari. Nel caso dell'opera giovannea il testo finale lascia intravvedere i traumi subiti dalla comunità - come è attestato anche dalla l Giovanni, che è testimone esterno di tale processo inter­ pretativo - e l'unità editoriale che ne deriva è da collocare al livello teologico: è infatti la visione teologica a superare la consistenza narrativa, dal momento che le edizioni suc­ cessive conservano testi precedenti, ma li assumono o li cor­ reggono o li negano, tendendo ad una più matura visione d'insieme e spesso imitando lo stile del testo precedente, ma con novità originali. Se li avessero ritenuti documenti "in­ coerenti", gli antichi redattori sarebbero stati certamente in grado di ripulirli; se li hanno conservati nonostante le rile­ vanti difficoltà letterarie, vuoi dire che cercavano un diverso tipo di coerenza. Questa è garantita dalla voce narrante fi­ nale, che è teologica e dominante: grazie al suo apporto la sequenza delle voci diviene chiara nell'insieme. Il faticoso studio della storia di composizione del Quar­ to Vangelo dà l'idea di un testo davvero ricco, che è cresciu­ to nell'arco di settant'anni conservando in sé i vari contenuti e le tracce della crescita: seguendo questa ricostruzione, il commento esegetico diventa capace di spiegare il testo fi­ nale, valorizzando contemporaneamente le fasi del suo svi­ luppo con l'opportunità di comprendere meglio le differen­ ze di lingua, di stile e di pensiero. L'obiettivo infatti non è quello di distruggere il Vangelo canonico per recuperare suoi ipotetici predecessori, ma di apprezzare con gusto la ricchezza e la varietà di un'opera corale e geniale. Nonostante la grande utilità degli studi che hanno cer­ cato di ricostruire questa storia di composizione, una lettura teologica e credente di Giovanni li presuppone e li supera. Molti studiosi infatti raccomandano con insistenza una let­ tura sincronica del Quarto Vangelo: pur riconoscendo che quest'opera ha avuto una lunga evoluzione storica e lettera­ ria, ora essa si presenta a noi come un testo ben preciso e fi­ nito, accolto dalla Chiesa come espressione della Parola di 72

Dio. Si tratta di un tessuto organico, ricco e variegato, in cui molti fili si intrecciano e si intersecano: il racconto dell'evan­ gelista deve quindi essere studiato proprio nella sua dimen­ sione di racconto e i singoli brani devono essere letti cercan­ do il significato nella loro composizione, nonché le relazioni che li uniscono al contesto immediato e al resto dell'opera. L'analisi narrativa dunque, applicata con sapienza al racconto evangelico, presenta un'evidente utilità e contribuisce a facilitare il passaggio dal senso del testo nel suo contesto storico al senso che assume per noi lettori di oggi. A un simile studio letterario è da aggiungere anche la riflessione teologica, considerando la natura stessa del racconto di fede e ricavando da esso anche un 'interpretazione di tipo pratico e pastorale.

L'analisi narrativa

Sincronia: la lingua e lo stile

La lettura sincronica considera il testo definitivo come un'opera letteraria da studiare in tutti i suoi aspetti linguistici e stilistici. Partendo dall'idea che il Vangelo secondo Giovanni è una grandiosa opera teologica, portatrice di un messaggio profondo e sublime, si potrebbe pensare che un tale capola­ voro sia scritto in linguaggio difficile e complesso: invece ac­ cade proprio il contrario. Giovanni scrive in modo semplice ed elementare, solo in apparenza banale e ripetitivo: il suo lin­ guaggio conosce profonde intensità, proprio in virtù di una sa­ piente ripetizione di frasi e di motivi, al punto da essere stato definito «Una monotonia grandiosa». Per avere un quadro sin­ tetico della dimensione letteraria del Quarto Vangelo, passia­ mo in rassegna gli elementi principali che la caratterizzano.

La dimen· sione letteraria del QV

La lingua originaria

Secondo tutti i testimoni della tradizione fin dai più antichi manoscritti, risulta che il testo di Giovanni è composto in lingua greca. Si tratta della lingua corrente nel bacino del Mediterraneo nel I sec. d.C., detta koiné («comune»): è il greco 73

Il testo è scritto in greco

Qua/ è la lingua originaria?

Un greco semitizzante

parlato in tutte le regioni dell'impero romano, la lingua che accomunava tutti e permetteva la comunicazione fra popoli diversi, ancor più che l'inglese per i nostri giorni. Il livello della lingua giovannea, però, è quello popolare: non appartiene alla "koiné letteraria" ( a cui si avvicina piuttosto l'Opera lucana) , ma alla lingua comunemente parlata dal popolo. Bisogna tuttavia riconoscere che alcuni elementi del te­ sto greco hanno un carattere semitico: si tratta di nomi pro­ pri, di persona o di luoghi, di termini specificamente culturali (come rabbi e amen), ma soprattutto di formule e strutture sintattiche, inusuali o rare in greco ma comuni in ebraico e aramaico. Questo fenomeno - peraltro non esclusivo di Gio­ vanni, ma presente in quasi tutti gli scritti greci del NT - ha fatto sorgere dei dubbi sulla lingua originaria del Quarto Vangelo. In passato è stata avanzata l'ipotesi che il testo ori­ ginale di Giovanni fosse in lingua aramaica, di cui l'attuale Vangelo greco sarebbe una traduzione: questa ipotesi, non sufficientemente dimostrata, non ebbe grande successo, ma ha avuto il merito di suscitare una seria e approfondita ri­ cerca sulla questione. Oggi, dunque, dopo numerosi altri stu­ di, si può affermare con certezza che la lingua originale del Vangelo è il greco e non si tratta affatto di una traduzione. L'autore ha scritto la sua opera in un greco semplice, ma corretto, in una lingua influenzata inevitabilmente da parole ed espressioni semitiche: lo scrittore, infatti, proviene da quel contesto culturale e riporta la tradizione di Gesù, che visse in ambiente semitico e parlò in lingua semitica. È logico che, parlando di fatti capitati in terra di Israele e tra i Giudei, Giovanni adoperi i toponimi originali, riporti alcuni vocaboli tipici e impieghi formule comuni in quel contesto: si può così parlare di un greco semitizzante. Il vocabolario

Giovanni adopera un vocabolario molto ridotto: su 15.420 parole che compongono l'intero Quarto Vangelo si identificano solo 1 .0 1 1 termini diversi. Fra i quattro evan74

gelisti Giovanni è quello che usa il minor numero di voca­ boli; un confronto coi numeri degli altri può essere interes­ sante: il Vangelo secondo Matteo adopera 1 .691 parole di­ verse sulle 18.278 complessive; Marco ne ha 1 .345 su 1 1 .229; Luca impiega ben 2.055 termini differenti (più del doppio di Giovanni) sul totale di 1 9.404 parole. È inoltre necessario notare che il vocabolario tipico di Giovanni è diverso da quello dei Sinottici: le parole che ri­ corrono con più frequenza nel Quarto Vangelo sono poco adoperate dagli altri tre evangelisti. Ad esempio, Giovanni usa volentieri il verbo pistéuein («credere») che ricorre ben 98 volte nel suo testo, mentre è presente solo una decina di volte in ciascuno dei Sinottici. Al di là dell'aridità dei nu­ meri, osservando questo specchietto di ricorrenze, si può avere un'idea della situazione:

amare conoscere credere giudei giudicare «io sono» inviare glorificare luce manifestare mondo osservare padre rimanere testimonianza verità vita

(agapan e affini) (ghin6skein) (pistéuein) (Iudaioi) (krinein) (egò eimi) (pémpein) (doxazein) (jos) (janerun) (k6smos) (teréin) (patér riferito a Dio) (ménein) (martyria) (alétheia e affini) (zoé)

M t Mc 9 6 20 13 1 1 14 5 6 6 o 5 3 4 l 4 l 7 l o l 2 8 l 6 4 45 3 2 6 4 2 4 7 4

Le

13 28 9 5 6 4 lO 9 7 o 3 o 17 7 5 4 5

Gv 43 57 98 71 19 24 32 23 27 9 78 18 118 40 47 46 35

Occorre poi sottolineare un altro aspetto, uguale e con­ trario: diversi vocaboli molto comuni nei Sinottici sono as75

Minor numero di vocaboli

Differenze di vocaboli rispetto ai Sinottici

senti o rari in Giovanni. Il termine «regno», ad esempio, molto presente nei detti di Gesù secondo i tre evangelisti, compare in Giovanni solo 5 volte e senza grande rilievo; so­ no poi del tutto assenti vocaboli significativi come «Vange­ lo», «parabola» e «conversione». Anche in questo caso uno specchietto riassuntivo può rendere meglio l'idea: Vocaboli assenti o rari

Semitismi

chiamare conversione parabola potenza predicare purificare regno vangelo

(kaléin) (metanoia e affini ) {parabolé) (dynamis) (keryssein) ( katharéin) (basiléia) (euanghélion e affini)

Mt Mc 26 4 7 3 17 13 13 10 9 12 4 7 57 20 5 7

Le

43 14 18 15 9 7 46 10

Gv o o o o o o 5 o

Infine, per avere un quadro completo del caratteristico vocabolario giovanneo, occorre tornare sui semitismi, ter­ mini o espressioni che derivano dall'ebraico o dall'aramaico (lingue semitiche ) . Giovanni adopera volentieri il termine ebraico rabbi (8 volte ) ma anche il corrispondente aramaico rabbunf (l volta ) ; pure Matteo e Marco usano rabbi, ma so­ lo 4 volte ciascuno e mai impiegano il vocabolo semitico messfas che invece ricorre due volte in Giovanni (1 ,41; 4,25). Allo stesso modo compaiono nomi propri in aramaico: Kefas (1 ,42); Siloam (9,7) ; Thomas ( 1 1 ,16; 21,2); Bethesda (5,2); Gabbatha (19,13); Golgotha (19,17). E sono presenti pure termini consueti come p as ch a , manna, hosanna : tali vocaboli sono entrati anche nel nostro linguaggio italiano, ma è necessario ricordare che per un greco del I sec. erano termini «stranieri». Almeno alcuni destinatari di Giovanni sembra non capissero tutti i vocaboli semitici, dal momento che in alcuni casi l'autore li traduce ( cf 1 ,41-42). L'elemento semitico più evidente in Giovanni rimane però la formula Amen amen ( tradotta in italiano «in verità, in verità» ) , usata 76

come introduzione per i detti più solenni di Gesù (25 volte): anche nei Sinottici compare, ma in forma semplice, ed ap­ partiene sicuramente al modo tipico di parlare di Gesù, a quelle espressioni definite «ipsissima verba Iesu», cioè pro­ prio le espressioni usate storicamente da Gesù nel suo inse­ gnamento in lingua semitica. A questi termini facilmente riconoscibili bisogna aggiun­ gere ancora numerose formule, che sfuggono al lettore ita­ liano, dal momento che solo nella lingua originale si possono percepire come "straniere". Elenco semplicemente alcune espressioni, proprie di Giovanni, che non appartengono alla lingua greca, ma derivano dall'ambiente semitico: «Rispose e disse» (31 volte); «credere nel nome di ... » (1 ,12; 2,23; 3,18); «fare la verità» (3,21 ); «gioire di gioia» (3,29); «dare nella ma­ no» (3,35); «seme» nel senso di «discendenza» (7,42; 8,33-37). Numerose espressioni comuni in Giovanni si ritrovano anche nei documenti di Qumran, soprattutto nella Regola della Comunità (lQS), ad esempio: il doppio Amen, «fare la verità», «dare testimonianza alla verità», «camminare nel­ la tenebra», «la luce della vita», «il principe di questo mon­ do», «i figli della luce», «lo spirito della verità», «il figlio del­ la perdizione». Questi contatti non significano affatto di­ pendenza, né letteraria né teologica: provano solo che la tra­ dizione giovannea appartiene ad un determinato ambito culturale e linguistico.

Amen, amen

Espressioni non greche

Lo stile letterario

Giovanni scrive con uno stile semplice e solenne allo stesso tempo; abbonda nell'uso del presente storico, non ama i lunghi periodi, preferisce frasi brevi e semplicemente coordinate fra loro (paratassi) , evitando costruzioni com­ plicate. Non sempre questo è visibile in traduzione, perché spesso i traduttori pensano di migliorare il testo originale, introducendo variazioni sintattiche. Un esempio evidente di paratassi è il racconto della guarigione del cieco nato, re­ so con traduzione molto letterale: 77

Stile semplice e solenne

Paratassi

«Detto questo sputò per terra e fece del fango con la sa­ liva e spalmò il fango sui suoi occhi e gli disse: "Va' a lavar­ ti . .. ". Andò dunque e si lavò e tornò vedendo» (9,6-7).

Spesso Giovanni adopera l'asindeto, cioè unisce le frasi coordinate senza congiunzione «e» (kéli) o altre particelle, molto comuni in greco (men/de) per creare collegamento fra proposizioni. Così possiamo notare, sempre nel racconto del cieco nato, come è narrata la reazione della gente: Asindeto

«Alcuni dicevano: "È lui"; altri dicevano: "No, ma gli as­ somiglia". Egli diceva: "Sono io ! " . Dicevano dunque a lui: "Come . . . " >> (9,9-10).

Una particella che Giovanni predilige è oùn, che corri­ sponde al nostro «dunque»: l'adopera ben 194 volte, contro le 5 ricorrenze in Marco. Spesso le versioni moderne non lo traducono o variano la traduzione, per non far risultare il testo pesante e ripetitivo; eppure i lettori greci antichi lo avranno certo percepito così. Proviamo a leggere, conser­ vando tutti i «dunque», l'episodio della guarigione del figlio dell'ufficiale: "Dunque "

«45Quando dunque giunse in Galilea . .. 46Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea ... 48Gesù dunque gli disse: "Se non vedete segni e prodigi, voi non credete" ... 52S'informò dunque a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero dunque: "Ieri, un'ora dopo mezzogiorno la febbre lo ha lasciato". 5311 padre riconobbe dunque che proprio in quell'ora Gesù gli aveva detto: "Tuo figlio vive" e credette lui con tutta la sua famiglia» ( 4,45-53).

Un altro procedimento caratteristico di Giovanni è una costruzione tipicamente semitica in cui si premette un «tut­ to» che viene successivamente ripreso da un pronome per­ sonale. Anche questo fenomeno non è percepito nelle tra­ duzioni, perché la strana formula greca viene appianata nella versione italiana. Ma vediamo qualche esempio, in traduzio­ ne letterale che mantenga la stranezza della formulazione: 78

«E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che "Tutto tutto ciò che ha dato a me non perda di esso, ma lo risusciti ciò che " nell'ultimo giorno» (6,39); «Poiché tu gli desti potere sopra ogni carne, affinché tut­ to ciò che hai dato a lui egli dia ad essi vita eterna�� (17,2) .

È comune per Giovanni adoperare un participio sostan­ tivato con valore condizionale come soggetto della frase. Ad esempio: «> (9,3); «E non per il popolo soltanto, ma affinché anche i figli di Dio dispersi radunasse in uno» ( 1 1 ,52).

In conclusione possiamo riconoscere che, nonostante alcuni limiti espressivi e certe forzature della lingua, lo stile del racconto giovanneo ha il fascino solenne dell'opera profonda e meditata. Proprio la brevità delle frasi e la ripe­ tizione delle espressioni importanti conferiscono all'opera una particolare intensità e la semplicità diviene grandiosa, perché tutta incentrata sull'evento essenziale della rivela­ ZIOne. Alle osservazioni sulla lingua e lo stile bisogna ancora aggiungere alcune note sulle cosiddette "peculiarità" gio­ vannee, che l'approfondita analisi degli studiosi ha elencato in modo minuzioso, arrivando ad enumerarne oltre 400; ne consideriamo solo alcune. Fra i procedimenti letterari comuni in Giovanni ne ri­ conosciamo alcuni tipici della letteratura biblica, quali l'in­ clusione, il chiasmo e il parallelismo. L' autore si serve di questi mezzi per ottenere un effetto drammatico e per dare al suo racconto una vivacità dinamica pur mantenendo una sobria omogeneità. Volentieri il quarto evangelista include le unità narra­ tive - sia in piccolo che in grande - con la ripresa di termini e temi importanti: all'inizio il Battista indica in Gesù l'A­ gnello di Dio (1 ,29) e alla fine l'evangelista lo riconosce in croce come l'Agnello pasquale a cui non è spezzato alcun osso ( 1 9 ,36) ; all'inizio della Cena afferma che Gesù «li 80

amò fino alla fine ( eis télos ) » (13,1) e l'ultima sua parola riprende la stessa radice: « È finito ( tetélestai ) » (1 9,30) ; il nome geografico di Cana (2, 1 ; 4,54) racchiude un 'intera sezione, mostrando un itinerario simbolico di Gesù da Ca­ na a Cana. Il chiasmo, che prende il nome dalla lettera greca chi (che ha la forma di X), è una figura retorica in cui due elementi concettualmente paralleli vengono disposti in modo incrociato, secondo lo schema a-b-b'-a', con l'intento di attirare l'attenzione:

Chiasmo

«Credete in Dio e in me credete)) (14,1).

Il parallelismo invece è un procedimento tipico della poesia semitica che Giovanni segue volentieri, per dare alla sua prosa un andamento solenne ed enfatico; ribadisce in tal modo un concetto, ritornando più volte con diverse variazioni sullo stesso tema. Gli esempi più caratteristici si trovano nei detti sapienziali di Gesù:

Parallelismo

«Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome del­ l'unigenito Figlio di Dio)) (3,18); «Chi viene dall'alto è al di sopra di tutti; ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla della terra. Chi viene dal cielo è al di sopra di tutth) (3,31); «Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l'ira di Dio incombe su di luh) (3,36).

Tecniche narrative e strategie retoriche

Una caratteristica importante dello stile giovanneo è l'abbondante presenza di intrusioni del narratore, cataloga­ bili secondo numerose tipologie. L'evangelista interviene direttamente e interrompe il racconto, entrando nel testo con lo scopo - ad esempio - di spiegare il significato dei no­ mi (1 ,38.42), interpretare il senso di immagini o frasi (2,2 1 ; 12,33; 18,9) , offrire indicazioni temporali (1 ,39; 4,6) e geo81

Intrusione del narratore

Fraintendimento

Doppio senso

grafiche (1 ,28; 1 1 ,18), rettificare i malintesi (4,2; 6,6) , riman­ dare a fatti precedenti o successivi ( 1 1 ,2; 21 ,20), richiamare personaggi già citati (7,50; 19,39) , annotare il compimento della Scrittura (12,38; 13,18; 19,24.28.36). Il gran numero di queste intrusioni, in perfetta consonanza stilistica col resto del racconto, ha il pregio di dare uniformità all'intero testo evangelico, inducendo gli studiosi a ritenere l'opera finale come il prodotto di un unico autore. A livello di narrazione è opportuno notare altri tre pro­ cedimenti tipici di Giovanni che caratterizzano il suo Van­ gelo: il fraintendimento, il doppio senso e l'ironia. Il fraintendimento consiste n eli 'uso sistematico d eli 'incomprensione come mezzo per far procedere l'insegna­ mento, superando il modo di vedere umano e accettando invece la rivelazione di Gesù. La sua persona infatti, con le sue opere e le sue parole, resta enigmatica e tutti i suoi in­ terlocutori cadono nel malinteso: i Giudei non capiscono di quale tempio stia parlando (2,19-2 1 ) , Nicodemo non comprende come si possa nascere da vecchi (3,3-5), la sa­ maritana pensa ad un altro tipo di acqua ( 4,10-15) e i disce­ poli ad un altro tipo di cibo (4,31 -34) . Sono in particolar modo i Giudei a cadere vittime del fraintendimento, a cau­ sa della loro incredulità colpevole che li porta ad essere il simbolo della condizione umana universale, incapace di ar­ rivare a Dio se non accoglie il dono della verità, cioè della rivelazione. In modo analogo l'impiego del doppio senso suggerìsce la necessità di un umile accostamento al mistero: le pa­ role non sono in grado di esprimere tutto il significato dell'evento e la stessa parola può fornire più significati e una singola scelta impoverisce il messaggio, ragion per cui il lettore saggio deve riuscire a comprendere in questi ele­ menti simbolici la molteplicità dei significati e a tenerli in­ sieme in una densa e profonda comprensione. N el dialogo con Nicodemo l'avverbio anothen (3,3.7) può avere due si­ gnificati: «dall'alto» e «di nuovo»; il fariseo capisce che bi­ sogna nascere di nuovo, mentre Gesù voleva dire dall'alto; 82

eppure i due significati non si oppongono, ma devono in­ tegrarsi, per rivelare il mistero della nuova nascita per ope­ ra divina. Analogamente, il verbo «innalzare» (hypsun) ha il significato positivo di esaltare e intronizzare, ma anche il senso negativo di appendere al patibolo: scambiando i significati si crea incomprensione , ma il lettore sapiente deve riuscire a integrare i due sensi, contemplando nel patibolo della croce il trono su cui è innalzato il sovrano (cf 12,32-33). Infine, l'ironia si presenta come il procedimento più emblematico del racconto giovanneo: si tratta di una strategia del linguaggio orientata a rivelare il senso profondo, per invitare alla piena comprensione e giudicare la valu­ tazione superficiale. L'ironia è un tipo particolare di simbolo, giacché dice una cosa e ne significa un'altra: mettendo in evidenza un contrasto fra apparenza e realtà, denuncia una presuntuosa inconsapevolezza e produce un dram­ matico effetto comico. Ad esempio, la sfida che Gesù lancia ai Giudei nel tempio (2,1 8) ha una forte carica di ironia: essi infatti distruggeranno il corpo di Gesù e anche il loro tempio; in modo analogo, la proposta di Caifa per evitare la rovina del tempio ( 1 1 ,48) rivela drammaticamente l'ironia, giacché finirà per ottenere proprio quello che voleva scongiurare. Gesù stesso adopera l'ironia con i suoi inter­ locutori: con Natanaele (1 ,50) , con Nicodemo (3,10) , con i Giudei (8,21 -22) e con i discepoli (13,36-38) . Ma è soprattutto l' autore a riempire di sfumature ironiche il suo rac­ conto, provocando il suo lettore ad una maggiore com­ prensione dell'evento-Cristo per superare un'arrogante lettura superficiale e coinvolgerlo in un serio approfondi­ mento della fede. Tenendo conto di tutte queste caratteristiche si riconosce un modo tipicamente giovanneo di raccontare, che si spiega con le capacità di uno scrittore geniale. Il suo stile letterario ha poi influenzato l'intera comunità, generando un modo specifico di parlare e di pensare che ha finito per segnare tutta la letteratura giovannea. 83

Ironia

Un modo tipicamente giovanneo

Confronto con i Sinottici Genere letterario "vangelo "

Un vangelo "spirituale"

L'opera di Giovanni appartiene al genere letterario de­ finito euanghélion : si tratta di una novità per il mondo let­ terario antico, eppure rientra nella categoria dei racconti in prosa relativi ad un grande personaggio. Consiste infatti in un resoconto narrativo della vicenda storica di Gesù, com­ presa dalla comunità credente come l'evento decisivo in cui Dio ha incontrato l'umanità. In quanto Vangelo il testo di Giovanni assomiglia inevitabilmente ai Sinottici e si presen­ ta come un autorevole deposito scritto della predicazione apostolica, garantito dal discepolo testimone, che racconta secondo una propria interpretazione. In un frammento di Clemente Alessandrino ( III sec. ) , citato da Eusebio, viene abbozzato un confronto fra i quat­ tro vangeli, che mette in evidenza la metodologia narrativa e l'intenzione teologica di Giovanni: «Ultimo poi Giovanni, vedendo che negli altri vangeli erano messe in luce le cose corporee, assecondando l'invito dei discepoli e divinamente ispirato dallo Spirito, compose un vangelo spirituale» (Storia Ecclesiastica V I,14,7).

Mentre il contenuto degli altri tre vangeli è presentato come «le cose corporee» (ta somatika), a Giovanni viene ri­ conosciuta l'intenzione di scrivere un testo «spirituale» (pneumatik6n ) Questa qualifica, divenuta tradizionale per connotare il Quarto Vangelo, non vuole contrapporre i fatti ai concetti, né la storia alla teologia, ma intende sottolineare come nello scritto giovanneo sia importante l'interpretazio­ ne del significato e la comprensione matura del senso che gli eventi hanno avuto. Per questa ragione i quattro vangeli, nonostante una netta distinzione, costituiscono nel canone un blocco unitario e coerente. La figura e la vicenda di Gesù, raccontate da Giovanni, corrispondono nei tratti essenziali a quelle dei Sinottici, per­ ché basate sulla comune tradizione storica garantita dai te­ stimoni oculari. Oltre ai dati essenziali e all'ambientazione .

Somiglianze coi Sinottici

84

in un preciso ambito geografico e in un determinato lasso di tempo storico, sono elementi comuni alcuni racconti, qualche l6ghion («detto»), diverse citazioni dell' AT, brevi parabole, riferimenti a persone ed eventi. Molto più rilevanti però sono le differenze, che si riscontrano soprattutto nell'inquadramento geografico e cronologico, nei miracoli raccontati e nel modo di presentare l'insegnamento di Gesù. Secondo Giovanni il ministero di Gesù abbraccia il periodo di tre feste pasquali, quindi sembra durare circa tre anni, mentre nello schema sinottico si parla di una sola Pasqua, riducendo il racconto a un solo anno. Per i Sinottici Gesù comincia la missione in Galilea e va una volta sola a Gerusalemme; in Giovanni invece Gesù si muove più volte dalla Galilea a Gerusalemme, dove quasi tutto il racconto viene ambientato. I gesti prodigiosi raccontati dal Quarto Vangelo sono chiamati «segni» (seméia) e ne sono proposti sette, di cui solo due (la moltiplicazione dei pani e il cammino sulle acque) in comune coi Sinottici. Infine, Giovanni propone lunghi e organici discorsi di controversie e di insegnamento, strutturati in modo complesso e retoricamente elaborati, mentre i Sinottici presentano in genere antologie di brevi 16ghia indipendenti. Per spiegare tali somiglianze e differenze sono stati usati due schemi di soluzione: o si pensa che Giovanni dipenda letterariamente dai Sinottici, oppure si ritiene che il Quarto Vangelo derivi da una tradizione indipendente che sta alla base anche dei Sinottici. Se si ipotizza una dipendenza letteraria - come è stato fatto in genere nell'antichità - le notevoli differenze sono spiegate con l'intento giovanneo di completare quanto detto dagli altri evangelisti, o di meglio interpretare il messaggio teologico con l'aggiunta dei discorsi, o di superare l'aspetto materiale per arrivare ad un annuncio teologico più profondo. La maggioranza degli studiosi moderni ritiene però più probabile l'altra opzione, cioè che Giovanni derivi dalla tradizione comune pre-sinottica, ancorata alla predicazione apostolica più antica: questa so85

Differenze

Molteplici tentativi di spiegazione

Spirituale e storico

luzione spiega bene le concordanze, attribuendo all'abilità del quarto evangelista lo schema narrativo proprio, diverso dal canovaccio riprodotto dai Sinottici, e il ricco sviluppo teologico. Infine - è opportuno sottolinearlo - la critica letteraria ha dimostrato che, dietro l'innegabile redazione gio­ vannea e il notevole contributo di riflessione teologica, c'è come fonte caratteristica la testimonianza autorevole del discepolo amato, il quale garantisce un testo al tempo stesso "spirituale" - in quanto interpreta il fatto che rac­ conta - ma anche sostanzialmente storico, capace di for­ nire non poche informazioni complementari storicamente attendibili. Disposizione e struttura letteraria

La trama

Incontri e conflitti

Al racconto di questo testimone si può applicare il con­ cetto di trama, costruita in modo attento con l'idea ben pre­ cisa della direzione in cui procede. La trama del Quarto Vangelo ruota decisamente intorno alla missione ricevuta da Gesù di rivelare il Padre e al riconoscimento - che può esserci o mancare - della sua identità messianica: lo stesso schema generale si ripete pressoché invariato all'interno dei numerosi episodi narrati, al fine di rafforzare gradual­ mente, attraverso il progressivo sommarsi di segni, discorsi, immagini metaforiche e simboli, ciò che il lettore ha già ap­ preso dal Prologo circa l'identità di Gesù e di assicurare il raggiungimento di quello che è l'obiettivo dichiarato del testo (cf 20,3 1 ) . Sospinto i n avanti dalla meccanica del conflitto e dalla martellante ripetizione dell'idea di testimonianza, il raccon­ to si snoda quindi lungo un cammino fatto di scene d'incon­ tro, malintesi, interventi esplicativi del narratore, ironia, e dialoghi che spesso diventano monologhi, con i quali Gesù comunica - attraverso il peculiare linguaggio riccamente simbolico di Giovanni - i contenuti della rivelazione che è venuto a portare all'umanità. 86

La ricerca di una struttura

Delineare la struttura letteraria dell'intero racconto è un'esigenza importante per aiutarne la lettura, proprio come studiare la piantina di una città facilita la visita ad un turista: è un grande vantaggio per il lettore poter disporre di una "piantina letteraria", elaborata da qualcuno che ha visitato il testo prima di lui e lo ha studiato nei minimi dettagli. Tale operazione, infatti, non è banale, perché il racconto di Giovanni, nonostante l'apparenza di testo facile e lineare, risulta invece molto complesso ed estremamente ricco. Per determinare in modo corretto una struttura letteraria è indi­ spensabile una grande fedeltà al testo, con l'impegno a rico­ noscere gli indizi letterari capaci di rivelare la forma dell'in­ tera costruzione: partendo da ciò che è più evidente, si può individuare l'intelaiatura generale del Vangelo giovanneo. All'inizio il racconto in prosa è preceduto da un brano poetico simile a un inno sapienziale ( 1 ,1 18), comunemente chiamato «prologo», proprio perché se ne riconosce la fun­ zione introduttiva: come una solenne ouverture sinfonica an­ ticipa e sintetizza il messaggio dell'intera narrazione. Ana­ logamente, verso la fine del racconto si incontrano due brevi brani che hanno il tenore della conclusione: un primo testo conclude l'episodio di Tommaso, spiegando il fine per cui è stata scritta l'opera (20,30-3 1), mentre una seconda conclu­ sione pone termine definitivamente al racconto, difendendo l'autorità del discepolo che ha trasmesso la testimonianza evangelica (21 ,24-25). Proprio per il fatto di essere successivo ad una conclusione, l'intero episodio narrato nel c. 21 ha l'a­ ria di essere un epilogo e il suo contenuto conferma tale im­ pressione. Si può quindi affermare che il Quarto Vangelo è incorniciato da un prologo poetico e da un epilogo narrativo: mentre il prologo si orienta al passato, collegando la figura storica di Gesù con il Logos divino che è all'origine del mon­ do e della storia, l'epilogo mira piuttosto al futuro della Chie­ sa, mostrando il valore permanente dell'opera di Cristo e orientando alla prospettiva della sua ultima venuta. 87

Una pianti­ na letteraria

Riconoscere gli indizi nel testo

Prologo

Due conclusioni

Epilogo

Due parti principali

Il ruolo

del c. 12

l "segni" e

la "gloria"

L'intero racconto giovanneo si presenta, inoltre, net­ tamente distinto in due parti: la cesura si riconosce fra il c. 12 e il c. 13 sulla base di alcuni ambigui indizi letterari. Il contesto narrativo riguarda l'ultima Pasqua di Gesù - an­ nunciata già in 1 1 ,55 - ma i versetti finali del c. 12 hanno il sapore della conclusione e l'inizio del c. 13 costituisce un prologo narrativo, che attira con enfasi l'attenzione sul momento culminante della storia e sulla piena consapevo­ lezza di Gesù nel momento in cui affronta la sua fine. Nel delineare la struttura generale del Vangelo , quindi, il c. 12 ha creato divisioni fra gli studiosi, perché alcuni preferi­ scono legarlo a ciò che precede - come conclusione - men­ tre altri ritengono preferibile unirlo a ciò che segue, come introduzione. Entrambe le scelte hanno buone motivazio­ ni, per cui si può concludere che il c. 12 svolge una funzio­ ne di "aggancio" fra le due parti principali, rivestendo in­ sieme il ruolo di conclusione e di introduzione: la sezione 1 1 ,55-12,50 può essere perciò connotata come un momen­ to di transizione. Distinguiamo, pertanto, due blocchi: i cc. 1-12 e i cc. 13-21 . Il cambiamento di tema e di tono fra queste due parti è chiaro ed evidente e per attribuire loro un titolo gli autori si sono ispirati al loro peculiare contenuto: la prima unità, incentrata sulle opere compiute da Gesù durante la sua ma­ nifestazione pubblica, viene chiamata in genere «libro dei segni»; la seconda unità invece assume titoli leggermente diversi nei vari studiosi, a seconda dell'idea che si predilige, e viene chiamata «libro dell'ora», o «della gloria», o «del compimento dell'opera» o «del ritorno al Padre». Gli indizi più significativi per La trama

A questo basilare schema narrativo bisogna aggiungere altri elementi letterari che caratterizzano il racconto di Gio­ vanni e si presentano come indizi significativi per una più complessa struttura dell'insieme. Qui il discorso si fa più complicato e ci scontriamo con la grande varietà di proposte 88

dei ricercatori; per esigenza di semplicità ci limitiamo a con­ siderare solo gli indizi maggiori e più significativi. Anzitutto i segni. Giovanni, rispetto ai Sinottici, racconta pochi prodigi compiuti da Gesù e li chiama «segni», cioè eventi significativi: precisa che quello di Cana è «il principio (arché) dei segni» (2,1 1), poi riporta un'indicazione anche per il secondo segno (4,54); quindi, senza più numerarli, ne racconta altri cinque, per un totale di sette. Questo è il loro elenco:

Sette segni

l) il segno del vino a Cana, archetipo dei segni (2, 1 - 1 1 ) ; 2) i l segno del figlio, di nuovo a Cana, secondo segno (4,46-54); 3) il segno del paralitico alla piscina di Bethesda (5, 1 -9) ; 4) il segno del pane nel deserto (6,1-15); 5) il segno del cammino sul mare di Galilea (6,16-21); 6) il segno del cieco nato alla piscina di Siloe (9,1-41); 7) il segno di Lazzaro a Betania ( 1 1 ,1 -44) .

Ad essi bisogna aggiungere il racconto del c. 21 che nar­ ra l'ottavo segno, compiuto dal Cristo risorto sul lago di Ti­ beriade, emblema significativo della sua opera con la Chiesa lungo tutta la storia fino alla sua venuta gloriosa. Giovanni nomina, inoltre, alcune feste della tradizione giudaica, e molto materiale narrativo si raccoglie nel contesto di quelle celebrazioni, significative soprattutto perché richiamano gli eventi dell'esodo e offrono un collegamento fra ciò che avvenne per l'antico Israele e ciò che compie ora il Cristo. Queste sono le feste nominate: l) «Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei>> (2,13) ; 2) «Vi fu poi una festa dei Giudei ... Quel giorno era un saba­ to» (5,1 .9); 3) «Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei» (6,4); 4) «Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, detta delle Ca­ panne» (7,2); 5) «Ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della De­ dicazione» ( 10,22); 6) - «Era vicina la Pasqua dei Giudei» (1 1 ,55); - «Sei giorni prima della Pasqua» (12,1) ; - «Prima della festa d i Pasqua» ( 1 3 , 1 ). 89

Le feste giudaiche

Periodi settimanalì

Notizie di spostamento

A queste feste, che in genere duravano una settimana, sono da aggiungere altri significativi periodi settimanali: una settimana precede l'inizio del ministero pubblico e segna il passaggio da Giovanni a Gesù (1,19-2,1), l'ultima settimana è precisata con un riferimento cronologico iniziale (12, 1 ) , mentre otto giorni (20,26) distanziano l e apparizioni pa­ squali del Risorto ai discepoli nel cenacolo. Infine, sembrano avere un ruolo strutturante le indica­ zioni dei viaggi di Gesù, che - nel racconto giovanneo - si muove continuamente dalla Galilea a Gerusalemme e vice­ versa. Tre sono le menzioni di spostamenti di Gesù verso la Galilea e quattro quelle di viaggi verso Gerusalemme; que­ ste sono le indicazioni principali: l) «Gesù aveva stabilito di partire per la Galilea» ( 1 ,43); 2) «Gesù salì a Gerusalemme» (2,13); 3) «Gesù ... lasciò la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea» ( 4,3); 4) «Gesù salì a Gerusalemme» (5 1 ) ; 5 ) «Gesù andò all' altra riva del mare di Galilea» (6, 1 ) ; 6 ) «A metà della festa, Gesù salì a l tempio e vi insegnava» (7,14); 7) «Andiamo di nuovo in Giudea ! }> ( 1 1 ,7). ,

Organizzare una massa di indizi

Se a questi elementi principali se ne aggiungono molti altri secondari e, soprattutto, si considerano le tematiche teologiche dei discorsi, le allusioni scritturistiche e le ripre­ se simboliche, si comprende quale massa di indizi bisogna considerare per elaborare una completa struttura del Quar­ to Vangelo. Data questa complessità, per un buon risultato conviene non assolutizzare un unico tipo di indizi, ma piut­ tosto considerare ogni criterio organizzatore, privilegiando quelli letterari senza tuttavia trascurare quelli teologici. Giovanni stesso suggerisce una sintesi

Nella prima conclusione (20,30-31) l'evangelista presenta l'obiettivo che ha guidato la sua redazione letteraria: presen­ tare la rivelazione di Gesù come il Cristo e il Figlio di Dio, allo 90

scopo di suscitare la fede in lui per avere la vita nel suo nome. Ma tale rivelazione è delineata come un dramma storico, cioè una tensione fra proposta e risposta: la trama del Quarto Van­ gelo, infatti, si articola intorno all'opera di Gesù in quanto ri­ velatore del Padre e alla reazione degli uomini, distinti fra co­ loro che accolgono e coloro che rifiutano tale rivelazione. All'interno del racconto possiamo riconoscere alcuni passi in cui il narratore stesso offre delle formulazioni sin­ tetiche, capaci di dare un senso unitario a tutto il materiale letterario proposto. All'inizio della seconda parte, Giovanni riassume la vicenda e presenta la piena consapevolezza di Gesù riguardo alla sua missione: «Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine ... sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritor­ nava » ( 1 3 , 1 .3).

Nucleo de/ dramma storico

Dal Padre a/ mondo, dal mondo al Padre

...

Così nei discorsi della cena viene posto sulle labbra stes­ se del Cristo l'insegnamento cardine sull'intera sua vicenda: «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora la­ scio di nuovo il mondo, e vado al Padre» (16,28).

La missione del Cristo è precisata dal prologo come «ri­ velazione del Padre» (cf l ,18): così possiamo riconoscere nella prima parte del Vangelo (cc. 1-12) il movimento di Gesù dal Padre al mondo con una progressiva opera di rivelazione me­ diante segni e discorsi; nella seconda parte (cc. 13-20) troviamo poi il ritorno di Gesù al Padre con l'evento della «esaltazione del Figlio», che realizza così la comunione fra l'umanità e Dio. Alla proposta di Dio si contrappone però la risposta dell'uomo: qui sta il dramma narrato dal Vangelo secondo Giovanni. Due sono infatti le risposte che storicamente si sono avute e l'evangelista le mette in scena attraverso vari personaggi e le loro reazioni: accoglienza e fede oppure chiusura e rifiuto. Fin dall'inizio è chiaro questo doppio ri­ sultato (cf 1 ,5. 10-13) e nel dialogo con Nicodemo si può ri91

Le risposte: accoglienza o rifiuto

conoscere una formulazione sintetica dell'intero dramma umano come scelta fra luce e tenebra (3,19-21 ). Questa dram­ matica alternativa accompagna tutto il racconto evangelico, dall'inizio alla fine, e l'obiettivo dell'evangelista è proprio quello di far assumere al lettore il proprio punto di vista, cioè scegliere la luce e credere nella rivelazione di Gesù Cristo. La macra-struttura dell'intero Vangelo 1 ,1-18 cc.

1-12

Prologo Prima parte: il libro dei segni

1,19-5 1 2--4

5-12

cc.

prologo narrativo: da Giovanni Battista a Gesù prima sezione: da C an a a Cana 2,1-12 archetipo dei segni a Cana cacciata dei mercanti 2,13-25 dialogo con Nicodemo 3,1-21 testimonianza di Giovanni 3,22-36 Battista incontro con la donna 4,1-45 di Samaria secondo segno a Cana 4,46-54 seconda sezione: le feste dei Giudei festa: segno del paralitico 5,1-47 con discorso Pasqua: segni del pane 6,1-71 e del mare con discorso Capanne: segno del cieco 7,1-10,21 nato con discorsi 10,22-11,54 Dedicazione: segno di Lazzaro con discorsi 1 1 ,55-12,50 transizione dalla prima alla seconda parte

13-21 Seconda parte: il libro della gloria

i discorsi di addio il racconto della passione la narrazione degli incontri pasquali l'epilogo narrativo

13-17 18-1 9 20 21 92

Guida alla lettura 1,1-18: Il prologo poetico

Il Quarto Vangelo inizia con un prologo poetico-teolo­ gico, che ha l'obiettivo di chiarire fin da subito la grande te­ matica cristologica dell'intera opera e ne rappresenta il co­ ronamento e la conclusione. Seguendo il modello di poemi sapienziali dell' AT come Pro 8 e Sir 24, l'autore fin dall'ini­ zio afferma che l'uomo Gesù Cristo è il L6gos di Dio, cioè la rivelazione personale e definitiva. N el suo insieme la struttura del prologo può essere de­ finita di tipo parallelistico-circolare e articolata in tre grandi parti (vv. 1-5; 6-14; 15-18). All'inizio di ogni parte si riprende il tema da capo, per cui non si tratta di un discorso progres­ sivo e lineare, ma piuttosto di un procedimento a spirale, che comprende tre movimenti circolari e ascendenti, in cui il pensiero ritorna ciclicamente sul punto iniziale, compien­ do un processo di approfondimento. Prima parte: sezione introduttiva (v v. 1 -5) Il primo movimento si concentra sulla vita del L6gos in Dio e in relazione agli uomini in quanto luce. Il primo versetto esprime in sintesi tre elementi importanti che caratte­ rizzano il L6gos: la preesistenza, la relazione, la divinità. L'autore intende dare grande rilievo al fatto che all'inizio di tutto ci sia l'auto-rivelazione di Dio. La parola arché, più che indicare un inizio temporale, ha un valore cosmico e metafisica: è il Principio. Identificando l'ipostasi della Sapienza con il L6gos, Giovanni proclama che nel progetto fondamentale di Dio c'era il suo «esprimersi». Inoltre, questo L6gos è in relazione con Dio in un orientamento personale e ha natura divina distinta dal Padre, come dire: Dio parlava a Dio. Nel mistero della vita divina relazione, co­ munione e dialogo sono elementi fondamentali. Dopo una ricapitolazione sintetica ed enfatica (v. 2), viene introdotta una nuova affermazione (v. 3) che intende 93

Poema sapienziale che chiarisce la cristologia

Il L6gos in Dio

Tutto dipende dal Lògos

La vita di Dio è luce

Luce e tenebra

abbracciare «tutto», la creazione e anche la storia: tutto ciò che è avvenuto dipende dalla Parola di Dio e, probabilmen­ te, il riferimento primo è alla missione di Gesù come rivela­ tore e salvatore. Dopo il verbo «essere» all'imperfetto, com­ pare l'aoristo eghéneto («avvenne») che è l'espressione ti­ pica della storia e del divenire: il senso principale dunque non è quello di indicare le cose create, ma piuttosto tutti gli eventi accaduti. La concatenazione con ciò che segue (v. 4) è difficile da precisare per questioni grammaticali, ma il senso comples­ sivo è evidente: ciò che è avvenuto tramite lui, era la stessa vita di Dio che adesso è stata comunicata a noi. Il termine «luce» (jos) è usato non in senso naturale, bensì metaforico e teologico, per indicare la rivelazione divina, l'illuminazio­ ne salvifica degli uomini: la vita di Dio non è rimasta nasco­ sta, ma si è rivelata, illuminando così l'umanità. Nella visione giovannea, però, alla luce divina si con­ trappone la tenebra (v. 5), che ha a sua volta una dimensione metafisica: è il mondo perverso, cioè il potere satanico che si oppone a Dio, l'anti-rivelazione, l'opposizione alla Parola illuminante. Nonostante tutte le resistenze, però, la rivela­ zione di Cristo continua a diffondersi nella comunità dei credenti e a illuminare. L'azione della tenebra è espressa con un verbo (katélaben), che in greco ha tre significati di­ versi, ma la pregnanza del dettato giovanneo consiglia di considerarli tutti e tre, con una sovrapposizione in crescen­ do: la tenebra non ha capito la luce divina, non ha accettato la rivelazione, ma non è riuscita a vincerla. Quindi, il finale della prima sezione serve per indicare lo scontro che esiste nella storia fra la luce e la tenebra, ma anche per annunziare la vittoria finale della luminosa rivelazione divina. Seconda parte: sezione centrale (vv. 6-14)

Mentre nella parte introduttiva il L6gos era presentato in modo atemporale e verticale con un linguaggio apocalit­ tico, adesso tutta la vicenda è presentata in modo storico e 94

orizzontale con un linguaggio da storia della salvezza, svi­ luppando soprattutto le affermazioni che riguardano le ri­ sposte e l'oggetto della fede. Anzitutto (vv. 6-8) viene evocato il ministero profetico di Giovanni Battista, descritto come il testimone della rive­ lazione: in linea con lo schema ideale con cui Giovanni parla del grande processo fra il mondo e Gesù, il ruolo del testi­ mone è quello di mostrare la credibilità di Gesù, per aiutare il mondo a credere in Cristo. Il tema di questi versetti anti­ cipa dunque la prima parte del Vangelo, dove con il Battista inizia la rivelazione del messia a Israele ( Gv 1 , 1 9-34). La presenza di questa figura serve proprio per indicare un ini­ zio storico della rivelazione, per mostrare che concretamen­ te l'uomo Gesù è il rivelatore, la verità, la luce, colui che porta agli uomini la vita divina. Il v. 9 è di difficile traduzione e si può rendere in modi differenti. Ritengo preferibile considerare il L6gos come soggetto sottinteso, con l'aggiunta importante del modo concreto con cui è stato luce: « ( Il L6gos) era la luce vera, che illumina ogni uomo, venendo nel mondo». Proprio ve­ nendo nel mondo, cioè entrando nella storia dell'umanità, la Parola divina ha illuminato, rivelandosi. L'attenzione passa quindi a considerare le reazioni alla rivelazione divina, partendo da un ambiguo riferimento al mondo (v. 10). Il termine greco k6smos ( «mondo» ) ha nella letteratura giovannea almeno tre distinti significati: indica infatti tutto il creato, ma anche il solo genere umano, non­ ché la struttura negativa e peccaminosa esistente nel mon­ do. In questo contesto sembra logico pensare al «mondo» come la creazione, di cui il L6gos è modello e artefice: Dio si rivela nella creazione. Ma improvvisamente il significato di k6smos cambia, quando si aggiunge che il mondo non ri­ conosce il Creatore: il significato è ristretto a un gruppo di persone che si sono lasciate accecare dal peccato e non han­ no riconosciuto ciò che Gesù era davvero, non hanno capi­ to il suo messaggio. Per ribadire l'idea, il testo (v. 1 1 ) indica dei soggetti in particolare relazione con il L6gos: adopera 95

Giovanni Battista testimone della luce

Venendo nel mondo è luce

Reazione negativa

Reazione positiva

Culmine: "il L6gos divenne carne "

l'ambigua espressione ta fdia («le cose proprie»), ripren­ dendola subito dopo con il maschile hoi fdioi («le persone proprie, i familiari»). A chi allude? Alle persone in parti­ colare relazione con Dio, ovvero il popolo di Israele e la sua terra: quelli che avevano già beneficiato di una rivela­ zione storica non riconobbero i segni della stessa rivelazio­ ne e la respinsero; una parte di Israele non accolse Gesù come il rivelatore. Ma la dinamica della rivelazione non finisce qui: la te­ nebra non accoglie la luce, ma non è in grado di fermarla. Qualcuno infatti - ed è ciò che affermano i successivi vv. 121 3 - ha accolto la rivelazione: quelli che accolsero il L6gos sono coloro che si fidarono di Gesù e credettero in lui. A costoro ha fatto un regalo, ha dato il potere (exousfa), ov­ vero la capacità, di realizzare il progetto divino. Il potere che viene regalato è quello di diventare figli di Dio, cioè es­ sere in piena e buona relazione con Dio. Tale filiazione non è frutto di una generazione naturale; Giovanni specifica che si tratta solo di un'immagine e, per evitare fraintendimenti, esclude con enfasi ogni generazione umana. Il v. 14, che riprende il tema dell'inizio e afferma espli­ citamente l'incarnazione del L6gos, costituisce il culmine dell'intero prologo: all'eternità subentra la storia; alla divi­ nità, la carne; alla relazione con Dio, la relazione con gli uo­ mini. Nel linguaggio biblico il termine «carne» (sarx) indica tutto l'uomo nel suo aspetto terreno in quanto storico, de­ bole e mortale (cf Gv 3,6; 6,63). In questo senso Giovanni afferma con forza la reale umanità di Cristo, forse in oppo­ sizione ad alcuni cristiani eretici ( docetisti) che la negavano come semplice apparenza. Il divenire del L6gos indica l'ac­ quisizione di una nuova qualità, che coesiste con la condi­ zione precedente: il L6gos non si è cambiato in carne, non si è trasformato da Dio in uomo; ma, rimanendo Dio, è di­ ventato anche uomo e «ha posto la tenda fra di noi». In gre­ co Giovanni adopera un verbo (skenun) che significa pro­ priamente «piantare la tenda» e allude al tema biblico della «tenda» (skené) di Dio, cioè il luogo della presenza divina 96

in mezzo al suo popolo (cf soprattutto Sir 24,8). Giovanni intende dire che la «carne» del L6gos è la «tenda» di Dio con gli uomini, il luogo della presenza divina nella nostra storia. Secondo la terminologia liturgica dell' AT la «tenda» è strettamente congiunta con la «gloria» (kab6d in ebraico, d6xa in greco) che vi abita (cf Es 40,34-35). Perciò a questo punto incontriamo una specie di confessione apostolica di fede: «Noi (discepoli testimoni) arrivammo a comprendere il mistero della persona del L6gos, con attenzione prolungata giungemmo a capire in profondità chi è veramente GeSÙ». Il termine «gloria», che nel linguaggio biblico evoca il «peso» e l'importanza, indica la presenza potente e operante di Dio; Giovanni specifica quindi il significato di «gloria» e qualifica la persona di Gesù come «Unigenito dal Padre», a Lui legato e da Lui inviato. Il centro del prologo concerne il L6gos fatto carne e lo qualifica come «pieno di grazia e verità». La formula ha sapore biblico, ma pur riecheggiando un'espressione comune nell'AT (cf Es 34,6: chésed we'émet) non la riproduce alla lettera: si tratta di una creazione letteraria e teologica di Giovanni. La parola greca charis («grazia») ha tre ambiti di significato: la grazia estetica (bellezza) , la volontà buona (benevolenza, come atteggiamento soggettivo) e infine anche il dono (in senso oggettivo). Dato il contesto e l'uso giovanneo, essendo connesso con i verbi «dare» (1 ,17) e «ricevere>> ( 1 , 16) , bisogna preferire il terzo significato: grazia è l'oggetto regalato, cioè il dono, il favore. Il termine alétheia («verità>>) è inteso da Giovanni se­ condo la tradizione giudaica, quindi designa la rivelazione definitiva. Il vocabolo orienta a questo senso anche quan­ do ne osserviamo l'etimologia: formato con l'alfa privativa e la radice del verbo lanthanein («nascondere»), indica l'a­ zione di non-nascondere, cioè mostrare e rivelare. Alla tra­ duzione consueta «grazia e verità» converrebbe dunque sostituire altre due parole: «dono e rivelazione». Occorre infine osservare che questo tipo di costruzione retorica co97

La presenza potente e operante

Il dono delln rivelazione

Il L6gos

è tutto rivelazione

stituisce una endiadi, una figura retorica in cui una sola realtà viene espressa mediante l' accostamento di due con­ cetti: la traduzione più chiara potrebbe dunque essere «il dono della rivelazione» oppure «il dono che consiste nella rivelazione». Divenendo carne, il L6gos è diventato la tenda della presenza di Dio in mezzo all'umanità e i testimoni oculari, che hanno contemplato la sua presenza, hanno capito la sua qualità essenziale di Unigenito legato al Padre e mandato dal Padre: il L6gos è infatti tutto rivelazione, è completa­ mente - nella sua vita e nella sua parola - il dono stesso del­ la rivelazione. Terza parte: sezione conclusiva (vv. 15-18)

Di nuovo si riparte dal Battista

Tutti noi ricevemmo

La novità dell'ultima sezione è il fatto di considerare il mistero della rivelazione dal punto di vista attuale dei cre­ denti. Ancora una volta il punto di partenza è il tema dell'i­ nizio, cioè la manifestazione storica del Cristo, e anche la testimonianza del Battista viene ripresa (v. 15): viene sotto­ lineato in particolar modo il valore permanente della sua testimonianza nei confronti del Cristo, mentre l'uso di verbi al presente (martyréi = «testimonia>>) e al perfetto (kékra­ ghen = «ha gridato») mostra che quel grido storico resta va­ lido e supera i secoli. Nella prospettiva attuale dei credenti ritroviamo (v. 16) un'altra espressione in prima persona plurale: «Dalla sua pienezza noi tutti ricevemmo». Con l'aggiunta di «tutti», il pronome «noi» viene allargato alla comunità cristiana tutta intera: solo qualcuno ha visto Cristo nella sua vita terrena e solo qualcuno, toccando la sua carne, ha creduto in lui, ma tutti i discepoli hanno ricevuto il dono della rivelazione. Il termine greco pléroma («pienezza») è vocabolo usato vo­ lentieri dagli gnostici per indicare la sfera divina: nulla di tutto questo tuttavia è presente nel pensiero di Giovanni. Egli intende dire che l'uomo Gesù ha totalmente in sé la ri­ velazione definitiva e proprio da lui noi tutti abbiamo rice98

vuto. Prima di introdurre l'oggetto ricevuto, l'autore inse­ risce una particella «e» (kai) , che i grammatici chiamano epesegetica, perché ha la funzione di spiegare ulteriormente ciò che precede. La formula greca che esprime l'oggetto ri­ cevuto però non è molto chiara: charin anti charitos lette­ ralmente si traduce «grazia contro grazia» e può essere in­ tesa come una formula di integrazione e pienezza, per indi­ care «Un dono al posto di un dono». Il dono che viene an­ nunciato è la rivelazione piena di Gesù Cristo, che integra e completa la rivelazione di Mosè: mostra la novità del dono divino e nello stesso tempo ribadisce la positività dell'altro dono. Il riferimento alla storia della salvezza abbraccia le due economie della rivelazione, suggerendo che i due am­ biti, pur essendo dello stesso ordine, sono tuttavia in pro­ gressione verso la pienezza. Il confronto diventa esplicito nel versetto seguente. I due stichi del v. 17 mostrano quale sia la duplice gra­ zia del v. 16: la legge di Mosè da una parte e la rivelazione di Gesù dall'altra. La contrapposizione non è qui fra grazia e legge (questo è un concetto paolina), ma fra verità e leg­ ge. Si tratta di un'espressione tipicamente giudaica, in cui «legge» non ha valore giuridico ma indica la Torah, intesa come Parola di Dio, e corrisponde quindi a «rivelazione»; «la verità» è invece la persona stessa di Gesù Cristo, L6gos di Dio. La Torah è quindi quella rivelazione storica dell'AT all'interno della quale la pienezza di Gesù Cristo si inseri­ sce: non c'è antitesi e contrasto, ma piuttosto un paralleli­ smo sintetico e progressivo. Dicendo che «la legge fu data» si afferma che la rivelazione veterotestamentaria è un au­ tentico dono. La legge è vista da Giovanni come una grazia di Dio; il dono della rivelazione di Cristo, tuttavia, implica un passo avanti, poiché è la pienezza che completa la rive­ lazione antica. Abbiamo così una sintesi di storia della sal­ vezza: due persone concrete - Mosè e Gesù - diventano due simboli, e due verbi in aoristo sintetizzano i momenti essenziali, «fu data ( ed6the) la legge» e «avvenne ( eghéne­ to) la verità». Giovanni riproduce spesso questa visione bi99

Un dono al posto di un dono

Da Mosè a Gesù

Gesù Cristo è rivelazione del Padre

La teologia interpreta /a storia

partita della storia della salvezza, in molti suoi racconti sim­ bolici (cf 4,1 9-26; 6,30-35): la legge mosaica conserva il va­ lore di rivelazione, ma è intesa come finalizzata alla verità escatologica di Gesù Cristo. Solo alla fine del prologo compare il nome di «Gesù Cristo» (espressione che in Giovanni ricorrerà solo in 17 ,3) . Con questo nome, che è l'obiettivo del testo, si arriva al ver­ tice. Siamo cioè alla sommità della cristologia giovannea, dal momento che l'uomo storico Gesù, riconosciuto come il Cristo, viene identificato con il L6gos eterno di Dio. Sot­ tolineando l'impossibilità umana di conoscere Dio piena­ mente, Giovanni ribadisce il ruolo fondamentale dell'unico rivelatore che è Gesù: nessuno può arrivare a Dio, se Dio non scende all'uomo. Proprio come Figlio, Gesù è in stretta relazione con il Padre: da lui deriva ( « U nigenito») e a lui è continuamente orientato («Verso il seno»), essendo la rive­ lazione in persona. Non a caso l'ultimo verbo del prologo ( exeghésato) è un termine tecnico che indica la rivelazione e la spiegazione; mancando propriamente l'oggetto, la tra­ duzione migliore potrebbe essere questa: «Egli è stato la ri­ velazione». Poiché il L6gos è la Sapienza, non rivela la Sa­ pienza, ma egli stesso è la rivelazione. Colui che nell'eter­ nità era rivolto a Dio è stato, storicamente, l'uomo costan­ temente rivolto e proteso all'amore del Padre. Tale modo di vivere - mostrato da Gesù - è stato la rivelazione piena dell'amore di Dio. Nel poema introduttivo, dunque , Giovanni indica il senso fondamentale e globale della missione di Gesù in quanto rivelatore e sintetizza i temi fondamentali del Van­ gelo, preparandone il racconto: il prologo afferma che Ge­ sù è il rivelatore, mentre il Vangelo dice come Gesù è stato il rivelatore e quale è il contenuto della rivelazione di Ge­ sù. La storia (il Vangelo) spiega la teologia (il prologo), ma è la teologia che interpreta la storia. Per capire il prologo bisogna già aver letto il Vangelo, ma per comprendere be­ ne il Vangelo occorre aver presente l' insegnamento del prologo. 100

Prima parte: il libro dei se gni (cc. l-12)

L'intero racconto giovanneo si presenta distinto netta­ mente in due parti: la cesura si riconosce nel c. 12, che chiu­ de la narrazione del ministero pubblico e avvia il momento culminante dell'ultima Pasqua di Gesù, mentre il c. 13 segna l'ora decisiva della gloria. Il primo blocco narrativo è stato designato già da molto tempo come libro dei segni (cc. 112), perché vi si riconosce il movimento di Gesù dal Padre al mondo con una progressiva opera di rivelazione mediante segni e discorsi. 1,19-51: Il prologo narrativo, la settimana inaugurale

Al poema lirico ( 1 , 1- 1 8) si connette espressamente il racconto (v. 19) , proponendo una specie di prologo narrativo che, in una serie di quattro giorni consecutivi, descrive il passaggio dal Battista a Gesù con la scelta dei primi discepoli (1,19-51 ) . Questa sezione è articolata in quattro pericopi, ben di­ stinte dall'autore con una indicazione cronologica («Il gior­ no dopo») che si ripete identica per tre volte (1 ,29.35.43): è evidente l'intento letterario di presentare quattro scene in quattro giorni consecutivi, a cui si aggiunge un'ulteriore indicazione in 2,1 («il terzo giorno») che porta a compimento il settenario. La strutturazione delle scene iniziali nell'arco di una settimana richiama lo schema dei sette giorni adoperato dal primo capitolo della Genesi: il Quarto Vangelo in tal modo riprende in forma narrativa il tema dell'arché, con cui si apre il prologo, e con una settimana iniziale evoca l'evento epocale della nuova creazione. Giovanni annuncia «Colui che viene dopo» (1, 19-28) a

La prima pericope narrativa riprende i due riferimenti Giovanni B attista fatti nel prologo poetico (1 ,6-8. 1 5 ) e 101

Da/ Battista a Gesù

La settima­ na iniziale

Doppio let· terario dei testimoni

Tu chi sei?

precisa qual è stata la sua testimonianza (martyrfa): egli non è il rivelatore, ma il suo incarico è quello del media­ tore. Nel Quarto Vangelo il precursore non è chiamato Battista, ma sempre solo Giovanni; tuttavia per evitare confusioni con l'evangelista è opportuno usare questo at­ tributo. È interessante notare che il racconto dell'evangelista Giovanni inizia con la testimonianza di un altro Gio­ vanni: l'evangelista si presenta come il testimone oculare ai piedi della croce di Gesù ( 19,35), incaricato di continua­ re l 'opera del Cristo, mentre all'inizio degli eventi evan­ gelici viene evidenziato il ruolo di un altro testimone, che porta lo stesso nome ed è colui che precede e introduce Gesù nella storia. Possiamo parlare di un "doppio lettera­ rio": due personaggi simmetrici e omonimi che - all'inizio e alla fine - svolgono il compito decisivo di rendere testi­ monianza a Gesù. Tutto inizia con una domanda: «Tu, chi sei?»; la stessa domanda comparirà di nuovo alla fine del racconto (21 ,12) per un'ulteriore inclusione. Le autorità di Gerusalemme, preoccupate per questo strano predicatore, vorrebbero sa­ pere chi sia e gli chiedono che idea si sia fatto di se stesso. Giovanni nega di essere il messia; non si identifica nem­ meno con Elia che, secondo l'attesa giudaica, avrebbe do­ vuto precedere la venuta messianica; non si stima nemme­ no un profeta. Si limita ad adoperare semplicemente il ver­ setto di Isaia (Is 40,3), citato anche dai Sinottici, e si quali­ fica come «una voce», in significativa contrapposizione a colui che è stato definito «il L6gos». Annuncia quindi, in modo enigmatico, «Colui che viene dopo» e mediante l'im­ magine biblica del sandalo da sciogliere (cf Rut 4,7) vi al­ lude come allo sposo di Israele: egli è già presente in mez­ zo al popolo, eppure non è riconosciuto (ironico prean­ nuncio del dramma che verrà narrato). Chiude il brano l'o­ riginale indicazione geografica di Betania oltre il Giordano come luogo in cui Giovanni battezzava, indicazione che verrà di nuovo richiamata nello snodo decisivo della trama (10,40). 1 02

Giovanni indica in Gesù l'Agnello di Dio (1,29-34) Il secondo giorno costituisce l'inaugurale presentazione del personaggio principale e propone la testimonianza di Giovanni riguardo allo Spirito che scende e rimane su Gesù. Il brano contiene un minimo di narrazione ed è composto pressoché interamente di parole pronunciate dal precurso­ re. Si può facilmente dividere in due parti. La prima parte inizia con una nota narrativa che mostra il personaggio Ge­ sù mentre si avvicina a Giovanni già in scena: «> (v. 50). E quel padre, fidandosi della parola di Gesù, si mette in cammino. Con insistenza il narratore ripete questa formula altre due volte (vv. 51 .53), in modo da farla emergere come il tema dominante nel racconto: il «figlio che vive» è dunque il centro tematico di questo episodio che serve da anello di congiunzione fra i due cicli narrativi. 1 20

L'autore non parla di guarigione, ma insiste sul tema della vita, perché proprio questo è il dono che Gesù inten­ de fare all'umanità. Inoltre compare l 'altro tema significa­ tivo, quello dell'ora, mediante la ripetizione del vocabolo per ben tre volte (vv. 52-53): è l'ora «settima». Sebbene corrisponda nel nostro orologio a un'ora dopo mezzogior­ no, è importante conservare il riferimento simbolico al nu­ mero «sette»: l' incontro con la Samaritana infatti era col­ locato all'ora sesta (4,6) , mentre precisare che in questo caso è l'ora settima permette di richiamare un senso di pie­ nezza e completamento, ricollegandosi anche al primo se­ gno di Cana, ambientato nel sesto giorno e caratterizzato da sei idrie. L'episodio si conclude (v. 54) con una breve sottolinea­ tura, che designa il racconto come «secondo segno» e ri­ prende per inclusione il richiamo al viaggio di Gesù dalla Giudea alla Galilea.

Il dono della vita all'umanità

5,1-12,50: Da Cana a Gerusalemme, il ciclo dell'uomo

Il racconto del figlio che vive inaugura la seconda sezio­ ne del libro dei segni (cc. 5-12), incentrata sull'opera del Cri­ sto che dona la vita all'uomo. Questo ciclo contiene grandi blocchi narrativi uniti a corpose sezioni discorsive: in genere si può osservare come un gesto compiuto da Gesù sia l'oc­ casione o per uno scontro dialettico coi Giudei o per un di­ scorso esplicativo di Gesù. Le unità narrative che compon­ gono la sezione sono facilmente riconoscibili, soprattutto perché seguono il ritmo delle feste giudaiche e richiamano importanti tematiche dell'esodo, con l'obiettivo di mostrare l'opera di Gesù a favore dell'umanità. I testi di questa se­ zione si possono così riassumere: - 5,1-47: il segno che Gesù compie sul paralitico mostra che egli può rendere l'uomo capace di camminare e dà così inizio all'esodo, mentre il discorso che ne se­ gue rivela l'unione di Gesù col Padre, garantita da molte testimonianze; 121

Un ciclo narrativo con grandi blocchi

- 6,1-71: i segni del pane e del cammino sul mare richia­ mano ancora l'esodo pasquale e il grande discorso eu­ caristico propone Gesù come datore di vita da acco­ gliere con fede e assimilare; - 7,1-10,21: la festa delle Capanne dà unità all'ampia se­ zione in cui è narrato il segno del cieco nato, incorni­ ciato da lunghi discorsi che presentano il senso dell'a­ gire di Gesù, i suoi rapporti col Padre e la sua missione come luce per i ciechi e pastore per le pecore; - 10,22-1 1 ,54: nel contesto della Dedicazione, Gesù compie il settimo segno, quello più simile al vertice della sua opera, giacché egli dona la vita all'amico morto e proprio tale dono gli costa vita; - 1 1 ,55-12,50: la vicinanza dell'ultima Pasqua dà l'avvio all'ultima sezione narrativa, caratterizzata da brevi · episodi e insegnamenti sulla dignità messianica di Ge­ sù; le due conclusioni teologiche segnano la fine del libro dei segni. A Gerusalemme: il paralitico comincia a camminare (5, 1 -47) Un'antica narrazione

Il nuovo episodio inizia con una generica formula di transizione («Dopo questi fatti») ed è introdotto dal riferi­ mento a un'imprecisata festa dei Giudei in occasione della quale Gesù di nuovo torna a Gerusalemme (v. 1 ) , dove l'in­ tera vicenda è ambientata. Viene inoltre data una precisa descrizione della piscina in cui Gesù compie il segno su un uomo infermo: il testo inizia dicendo che «c 'è a Gerusalem­ me una piscina» (v. 2), e questo lascia intendere che l'impo­ stazione del racconto sia antica e precedente alla distruzione dell'anno 70, perché - a partire da quella data - un narratore avrebbe detto «c'era a Gerusalemme . . . L'unità letteraria si compone di elementi differenti, narrativi e discorsivi, che sembrano cresciuti col tempo attorno alla narrazione più antica del paralitico risanato. Il testo dunque inizia con un racconto di miracolo, che determina ».

Racconto e discorsi

122

una serie di discussioni dei Giudei riguardo l'uomo guarito e Gesù che ha violato il sabato. A partire dal v. 19 i dialoghi lasciano il posto a un lungo monologo di Gesù, che parla di sé come del Figlio in relazione al Padre e presenta la serie dei testimoni che danno garanzia a suo favore. Il segno del paralitico (5,1-18)

Il racconto di miracolo, che secondo l'uso giovanneo chiamiamo «segno», è ambientato a Gerusalemme, presso una piscina di cui viene anche riportato il nome in aramaico: Betzatà, o meglio Bet-hesda, che significa «casa della mise­ ricordia», cioè una specie di lazzaretto o di hospice. Il testo dice che questa piscina si trova vicino alla porta delle Peco­ re, attraverso la quale venivano fatti entrare nel tempio gli animali da sacrificare: la tradizione patristica ha quindi co­ nosciuto questo luogo come piscina Probatica (da pr6baton, che in greco significa «pecora»), ovvero «Pecoraia». Inol­ tre, si dice che la piscina ha cinque portici, «sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e para­ litici» (v. 3). Il riferimento urbanistico è prezioso ed è stato confermato dagli scavi archeologici: la piscina coi cinque portici esisteva davvero. Tuttavia Giovanni sottolinea il par­ ticolare architettonico come riferimento simbolico alla Leg­ ge, cioè ai cinque libri della Torah, sotto cui il popolo - pa­ ragonato alle pecore da sacrificare - giaceva infermo per vari motivi. Il v. 4 manca nei principali codici antichi e sem­ bra contenere una glossa leggendaria, secondo cui l'agita­ zione delle acque era provocata dalla discesa di un angelo: quale che fosse la spiegazione, comunque doveva circolare la credenza che le acque di quella piscina, collegata al tem­ pio, fossero terapeutiche. Gesù, quindi, si pone come effi­ cace alternativa alle antiche istituzioni: di sua iniziativa or­ dina ad un uomo paralizzato di alzarsi e lo rende capace di camminare. Gli comanda poi di prendere la barella su cui era sdraiato e di andarsene: il narratore chiude il racconto, dicendo che quel giorno era un sabato (v. 9) , per cui secondo 123

La piscina con cinque portici

Una glossa leggendaria

Era sabato

L'inizio delle ostilità da parte dei Giudei

La grande pretesa di Gesù

la legge sarebbero stati proibiti sia la cura del malato sia il trasporto della barella. Al fatto prodigioso fanno seguito alcune discussioni. I Giudei rimproverano quell' uomo che sta portando via la sua barella, ma lui si scusa dicendo che gliel'ha coman­ dato chi lo ha guarito; gli chiedono chi sia, ma lui non lo sa (vv. 10-13). Quindi è Gesù stesso che gli si presenta nel tempio e lo esorta a non peccare più, perché la chiusura a Dio è peggiore della paralisi fisica (v. 14); per tutta risposta l'uomo guarito denuncia Gesù ai Giudei, i quali iniziano a perseguitarlo perché faceva tali cose di sabato (v. 16). Nella trama del Quarto Vangelo, dunque, si colloca a questo pun­ to l'inizio dell'opposizione giudaica a Gesù e la questione scatenante è individuata - come per i Sin ottici - nella viola­ zione del sabato. Di fronte a quest'accusa Gesù si giustifica, richiamandosi a Dio stesso come modello: «Il Padre mio agisce anche ora e anch'io agisco» (v. 17). Ma la difesa ag­ grava ancora di più la reazione dei Giudei, perché in tal mo­ do diventa evidente che Gesù, chiamando Dio suo Padre, si fa uguale a Dio (v. 18): i Giudei, ora che hanno capito la grande pretesa di Gesù, la rifiutano decisamente, anzi cer­ cano di ucciderlo. Il discorso che ne consegue (5,19-47)

Il rapporto

tra il Figlio e il Padre

In propria difesa Gesù tiene un lungo discorso, che si può dividere facilmente in due parti: anzitutto il Figlio si presenta in stretta relazione con Dio Padre, dal quale dice di aver ricevuto il compito escatologico del giudizio; quindi, in una serrata arringa giudiziaria, cita tutti i testimoni a pro­ prio favore. La prima parte del discorso (vv. 1 9-30) è inclusa fra due affermazioni simili, che sottolineano la dipendenza di Gesù da Dio: «Il Figlio da se stesso non può fare nulla» (v. 1 9), «Da me, io non posso fare nulla» (v. 30). Vuol dire che Gesù non pretende di essere Dio al posto di Dio o contro di Lui, bensì rivela la stretta comunione che li lega. Parte dalla sem1 24

plice metafora del figlio di un artigiano che impara dal pa­ dre il mestiere e fa ciò che ha imparato, ma subito alza il li­ vello del discorso che si incentra sui temi della vita e del giu­ dizio. Anche di sabato - dicevano i rabbini del giudaismo ­ Dio dà la vita e giudica i morti: così Gesù si presenta come il Figlio dell'uomo, a cui Dio Padre ha affidato il compito escatologico del giudizio. I vv. 24-25, introdotti da una dop­ pia formula di asserzione (Amen, amen), costituiscono il centro del discorso: il Figlio ha l'autorità di far passare dalla morte alla vita, per cui chi ascolta la sua parola ha la vita eterna e non va incontro al giudizio. Il riferimento all'ora (v. 25) allude all'evento pasquale di Gesù, che determina fin da subito il possesso della vita per i morti che ascoltano la parola del Figlio di Dio: emerge in questo testo una visione di escatologia realizzata già nel presente, tipica della teolo­ gia giovannea seppur non assolutizzata. Subito dopo infatti (vv. 28-29) viene riproposta la stessa idea, ma in chiave di escatologia futura: spesso gli esegeti hanno visto in queste due posizioni un contrasto teologico e hanno riconosciuto delle incongruenze nell'opera del redattore finale, mentre i due aspetti possono armonicamente coesistere e anzi offro­ no una visione più completa sia del giudizio che dell'opera compiuta dal Figlio, adesso e in futuro. La seconda parte del discorso (vv. 31 -47) presenta i te­ stimoni che danno ragione a Gesù, cioè coloro che garanti­ scono la sua piena obbedienza alla volontà del Padre che lo ha mandato. A un'implicita richiesta di garanzie Gesù ri­ sponde adducendo delle prove a favore della propria pre­ tesa di essere come Dio, sapendo che non può bastare la sua parola: il primo testimone invocato è Giovanni B attista (vv. 33-35) , poi vengono additate le proprie opere (v. 36), quindi il testimone decisivo è il Padre stesso (vv. 37-38). In­ fine, in stretta connessione con la testimonianza di Dio, so­ n o addotte le Scritture (v. 39) : in tal modo Giovanni riba­ disce l'idea, molto diffusa nella prima comunità cristiana, che le Scritture bibliche parlassero di Cristo e che in Gesù si siano compiute tutte quelle promesse. Il discorso termina 1 25

Il Figlio

ha l'autorità di dare la vita

l testimoni a favore di Gesù

(vv. 40-47) con la dolorosa e spiacevole constatazione che i Apologia polemica de/ gruppo giovanneo

Giudei non vogliono accettare queste testimonianze e ac­ costarsi a Gesù per avere la vita. Senza nessuna indicazione narrativa il capitolo si chiu­ de, lasciando aperto il racconto del paralitico guarito: più che un discorso storico di Gesù, sulle sue labbra è stata po­ sta una apologia polemica che il gruppo giovanneo ha ela­ borato nel contesto dell'aspro scontro con il giudaismo fa­ risaico di fine I sec. Forse potrebbe trovare migliore collo­ cazione in questo punto anche il brano che si trova in Gv 7,15-24, dal momento che fa esplicito riferimento alla gua­ rigione dell'uomo in giorno di sabato e riprende il tema di Mosè e della Legge; ma non ci è lecito correggere il testo che la redazione finale ci ha consegnato. Pasqua in Galilea: il pane della vita (6,1 - 71)

Incon­ gruenze narrative

Racconto e discorsi

Anche questo episodio inizia con la stessa formula di transizione ( «Dopo questi fatti» ) usata in 5,1 ed è introdotto da una nota di spostamento geografico: si dice infatti che Ge­ sù passò «all'altra riva del mare di Galilea». Dal momento, però, che il racconto precedente era ambientato a Gerusa­ lemme, tale indicazione sembra fuori luogo: l'incongruenza è stata notata dagli studiosi e molti sostengono che l'intero c. 6 abbia avuto un'origine autonoma e sia stato redazional­ mente inserito, in un secondo tempo, in un punto sbagliato, perché - stante l'ambientazione in Galilea e il riferimento ai segni che Gesù compiva sugli infermi - starebbe meglio su­ bito dopo il c. 4. Non possiamo però fare altro che notarlo, volendo rispettare l'ordine della redazione finale. Come per il c. 5, anche questa unità letteraria si com­ pone di elementi differenti, narrativi e discorsivi; a differen­ za però del c. 5 che non ha conclusione narrativa, il c. 6 si chiude con un finale drammatico. Il testo inizia con un du­ plice racconto di miracolo ( il segno dei pani e il cammino sul mare ) e prosegue, il giorno dopo, con l'affannosa ricerca di Gesù da parte della folla. Al v. 26 Gesù inizia a parlare e 126

- nonostante alcuni interventi discorsivi della folla - tiene una lunga e complessa omelia teologica sul tema del pane, che si conclude con una nota redazionale: «Disse queste co­ se, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao» (v. 59) . Infine, l'ultima parte del capitolo narra le reazioni, negative e po­ sitive, suscitate dal discorso di Gesù. La prima parte dunque è narrativa e comprende tre diverse scene, oltre all'inqua­ dramento introduttivo. I segni e la ricerca (6,1-25)

All'inizio (vv. 1 -4) è offerta l'ambientazione geografica (presso il mare di Galilea, sul monte) e soprattutto quella temporale, con il riferimento alla vicinanza della Pasqua: è la seconda Pasqua nominata nel Quarto Vangelo (la prima è citata in 2,13.23; la terza sarà ricordata in 1 1 ,55; 12,1; 13,1 ). Tale richiamo pasquale offre il corretto riferimento simbolico: il racconto di Giovanni, infatti, allude proprio all'evento dell'esodo, al monte Sinai, al popolo e ai capi raccolti presso la santa montagna, al ruolo di Mosè che nutre il popolo nel deserto; inoltre vengono richiamati i pellegrinaggi pasquali verso il monte del tempio a Gerusalemme. Il nuovo però si contrappone all'antico: l'evento del pane dato da Gesù alla folla anticipa la nuova Pasqua di liberazione e il condottiero che guida alla libertà è altro rispetto a Mosè, ma soprattutto rispetto alle autorità giudaiche (eredi di Mosè ) incapaci di guidare davvero il popolo alla salvezza. Avendo guarito il paralitico alla piscina (5,1-9), Gesù ha reso l'uomo capace di camminare con le proprie gambe e in questo modo ha dato inizio al nuovo esodo: ora, sempre nel quadro simbolico dell'esodo, sfama il popolo con un pane prodigioso. Questo è il «segno» che Giovanni mette al centro nella sua serie di sette segni. La prima scena narrativa riguarda il segno dei pani (vv. 5-15) ed è uno dei pochi brani giovannei parallelo ai Sinottici, simile nel racconto, nella forma e nel contenuto ai corrispondenti brani di Matteo, Marco e Luca. Giovanni ha

Il richiamo alla festa di Pasqua

,

1 27

Prima scena: il segno dei pani

Sul monte

Da dove?

Condivisio­ ne e genero­ sità

Su/ monte

conservato un racconto tradizionale senza modificarlo par­ ticolarmente, anche se lo inserisce in un quadro ad alto va­ lore simbolico, ricco com'è di rimandi biblici. Gesù è pre­ sentato sulla montagna, seduto e circondato dai suoi disce­ poli (cf M t 5,1 ), per evidenziare il ruolo solenne che il Mae­ stro tiene in tutto il racconto. Gli occhi alzati di Gesù, che dall'alto del monte osserva la folla, fanno vedere anche al lettore una situazione di bisogno: è Gesù che di questo bi­ sogno si accorge per primo, senza che alcuno lo informi o lo preghi. Pone quindi una domanda al discepolo, basata sull'avverbio «Da dove?» (p6then), che gioca un ruolo im­ portante nel Quarto Vangelo per designare l'origine stessa di Gesù e della salvezza (cf 2,9; 4,1 1 ; 9,29-30; 19,9). Il pro­ blema dunque non è banale, ma concerne la causa, il mezzo e il modo della redenzione possibile. Nel v. 6 una tipica in­ trusione del narratore spiega che la sua domanda serve solo per verificare la reazione del discepolo. La questione riguar­ da il denaro e le sue possibilità: Giovanni sottolinea così che umanamente la salvezza non si può comperare. Un altro di­ scepolo propone come soluzione alternativa la solidarietà della condivisione, e dalla disponibilità generosa di un ra­ gazzino Gesù parte per compiere il segno_ La sua azione (v. 1 1 ) è raccontata in modo stringato, con alcuni verbi es­ senziali, secondo il modello delle celebrazioni eucaristiche: in particolare il verbo che indica la preghiera di ringrazia­ mento (eucharistésas) richiama la formula tradizionale della Cena. Infine, dopo aver raccolto i pezzi avanzati (segno di quantità sovrabbondante) , la gente reagisce, interpretando il segno fatto da Gesù, e lo riconosce come il «profeta che viene nel mondo» (v. 14). Questa sottolineatura finale è ti­ pica di Giovanni, che vuole rimarcare il fraintendimento: la folla vorrebbe farlo re, dal momento che offre da man­ giare gratis, ma Gesù non accetta un simile messianismo, fugge e si ritira sulla montagna da solo. Il riferimento al monte (vv. 3 . 1 5 ) costituisce l'inclusione della prima scena. Nella seconda scena (vv. 16-21) i di!'cepoli sono soli sul mare, quando ormai è buio: il quadr.:> viene delineato con 128

poche pennellate simboliche che evocano la tenebra, l'agi­ tazione e la tempesta. Dal racconto giovanneo sembra che i discepoli abbiano abbandonato Gesù, delusi perché ha ri­ fiutato di essere fatto re; ma poi lo vedono mentre cammina sul mare e si avvicina alla barca (v. 1 9). Il Maestro non li ha abbandonati alla loro deriva e con una teofania notturna si presenta a loro: «lo Sono, non abbiate paura! » (v. 20). La parola che pronuncia è più di un semplice riconoscimento, è una formula di autorivelazione: richiama il nome proprio di Dio (Yhwh) e allude all'identità divina di Gesù. Quando lo vogliono prendere nella barca, cioè accettano la sua per­ sona, subito la barca raggiunge la riva alla quale sono diretti. Anche nel racconto dei Sinottici dopo la moltiplicazione dei pani è narrato l'attraversamento del lago: Giovanni conser­ va dunque la comune tradizione antica, ma ritocca la sua narrazione con forte coloritura simbolica. Il «segno» del ma­ re è rivolto ai soli discepoli ed è per loro una rivelazione im­ portante che riguarda la persona di Gesù. La terza scena narrativa (vv. 22-25) si svolge il giorno dopo, quando la folla si accorge che Gesù non è più là dove l'aveva lasciato la sera precedente: si mette quindi alla sua ricerca, finché lo trova dall'altra parte del lago. Questo bre­ ve snodo narrativo serve per creare un collegamento tra il segno dei pani e il discorso sul pane di vita, tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao. Il nome di questa cittadina com­ pare all'inizio (v. 24) e alla fine (v. 59) del discorso, come un indizio di unità letteraria.

Seconda scena: il cammino sul mare

Terza scena: la ricerca di Gesù

Il discorso sul pane di vita a Cafarnao (6,26-59)

La lunga parte discorsiva che segue sembra una omelia rabbinica, ambientata in sinagoga, con cui Gesù, partendo da testi biblici, rivela il ruolo decisivo della propria persona come vero nutrimento. Non si tratta però di un unico discor­ so omogeneo, perché è segnato da molte interruzioni: è piuttosto un vivace dibattito a cui prendono parte anche la folla e i Giudei. 129

Un 'omelia biblica con dibattito

L'opera di Dio è credere in Gesù

Prima parte: mangiare la Parola di Gesù

Una discussione preliminare ( vv. 26-31) si avvia quando Gesù, incontrando la folla infervorata che lo cerca, non mo­ stra particolare entusiasmo; anzi con la formula di asserzio­ ne (Amen, amen) li rimprovera perché non hanno capito il segno, ma si accontentano di aver mangiato gratis e sperano che ciò si ripeta. Li invita quindi ad «operare» per un cibo duraturo e allo stesso tempo si presenta come l'escatologico Figlio dell'uomo, approvato dal sigillo di Dio Padre, l'unico capace di dare tale cibo duraturo. Alla domanda moralistica sulle opere da compiere, Gesù risponde riducendo tutto ad un'unica opera paradossale: «Credere in colui che egli ha mandato» (v. 29). Ancora una volta al centro del discorso c'è la persona stessa di Gesù: non solo egli dà il cibo, ma si presenta come il cibo stesso. Dimostrando di non aver ca­ pito il segno del pane, quelle persone gli chiedono un segno come credenziale e propongono a Gesù una citazione bibli­ ca ( Es 16,4: «Diede loro da mangiare un pane dal cielo» ) come base di partenza per la sua omelia biblica (v. 31). La prima parte del discorso (vv. 32-51), dunque, presen­ ta Gesù stesso come il pane vero disceso dal cielo e inizia di nuovo con la formula di asserzione (Amen, amen): non c'è contrapposizione con Mosè, ma consequenzialità profetica. Il pane dato da Mosè, cioè la manna, era figura di «Colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» ( v. 33): Gesù quindi si auto-rivela come capace di dare la vita anzitutto con il suo insegnamento. In questa prima parte del discorso, il pane allude al nutrimento sapienziale della parola: Gesù è vero pane in quanto è personalmente la Parola di Dio che nutre e comunica vita eterna. Come la Samaritana ( cf 4,15) anche la folla, senza capire il senso inteso da Gesù, chiede questo pane speciale ( v. 34); al che il Maestro risponde con una delle formule di rivelazione tipiche della teologia gio­ vannea: «lo sono il pane della vita» ( v. 35; cf vv. 48.5 1 ) . E come aveva detto alla Samaritana a proposito dell'acqua simbolo dello Spirito ( cf 4,14) ora ripete a riguardo del pa­ ne: chi accoglie Gesù e crede in lui supererà per sempre fa­ me e sete, cioè troverà piena realizzazione. In una specie di 130

complicata digressione teologica (vv. 36-40) viene quindi precisato che il progetto di Dio di dare la vita eterna passa attraverso l'adesione credente al Figlio, che è l'unico a poter garantire la risurrezione nell'ultimo giorno. A questa pre­ tesa di Gesù reagiscono con polemica mormorazione i Giu­ dei (vv. 41-42), che improvvisamente compaiono nel raccon­ to: come di consueto con tale termine l'evangelista fa rife­ rimento alle discussioni sviluppate con la sinagoga farisaica alla fine del I sec. e così riconosciamo come l'intero discorso sia il riflesso di un approfondimento cristologico e sacra­ mentale che la comunità giovannea ha sviluppato nel tempo post-pasquale. Gesù riprende a parlare invitando i suoi ascoltatori a non imitare l'atteggiamento negativo degli an­ tichi israeliti che nel deserto mormoravano contro Mosè senza riconoscere i segni compiuti da Dio, quindi ribadisce con forza la sua stretta unione al Padre e il suo ruolo decisi­ vo di unico rivelatore di Dio (vv. 43-46): con una frase de­ sunta dal profeta (Is 54,13) afferma che l'atteggiamento del vero discepolo è docilità al Padre, il quale porta a ricono­ scere Gesù come il Figlio di Dio. Infine (vv. 47-51), ripren­ dendo con insistenza alcune formule già proposte, Gesù ne aggiunge una nuova che determina il passaggio alla seconda parte del discorso, quella più espressamente eucaristica: col v. 5 1 , infatti, il pane viene finalmente identificato con la car­ ne stessa del Cristo, data per la vita del mondo. La seconda parte del discorso (vv. 52-59) è racchiusa da due note narrative: all'inizio i Giudei restano turbati da que­ sto discorso di Gesù e si chiedono come sia possibile che co­ stui dia la sua carne da mangiare (v. 52); alla fine il narratore chiude il discorso con l'ambientazione a Cafarnao (v. 59). Al centro (vv. 53-58) Gesù, senza rispondere alla domanda sul come, riafferma semplicemente che è necessario fare queste cose per avere la vita in se stessi. Anzi, da questo mo­ mento alla formula «mangiare la carne» si aggiunge come sdoppiamento parallelo anche «bere il sangue»: l'immagine si fa dunque sempre più realistica e concreta, sconvolgendo ulteriormente quelli che pensavano ad una semplice, magari 131

La pretesa di Gesù: essere l'uni­ co rivelato­ re di Dio

La svolta nel v. 51

Seconda parte: mangiare la Carne di Gesù

Gli effetti del mangia­ re la Carne di Cristo

ardita, metafora. In questo finale, dunque, troviamo l'enun­ ciazione di tre importanti conseguenze, prodotte dalla par­ tecipazione «sacramentale» alla carne e al sangue di Cristo: il primo effetto è la «vita eterna», cioè una vita buona e bel­ la, un'esistenza completa e realizzata (v. 54); il secondo ef­ fetto può essere definito come vicendevole immanenza ed esprime una nuova relazione interpersonale che lega insie­ me il discepolo e Gesù (v. 56); infine, il terzo effetto riguarda la conformazione a Gesù, giacché come lui vive a causa del Padre e, nello stesso tempo, vive finalizzato al Padre, così il discepolo che «mangia Gesù» trova in lui la causa e il fine della propria esistenza (v. 57). Il discorso si chiude (v. 58) con la ripresa di tre formule già adoperate in precedenza, quasi per riassumere le idee principali: Gesù, e non la man­ na, è il pane disceso dal cielo e solo credendo in lui e man­ giando lui è possibile raggiungere la vita in pienezza. Il

Reazione negativa

dramma che ne conse gue (6,60-71 )

La reazione finale è drammatica: il discorso pronunciato da Gesù è considerato «duro» dai suoi stessi discepoli e la reazione di molti è quella dell'abbandono, segnando un mo­ mento di crisi. Anche la comunità di Giovanni, a cui prima­ riamente il racconto era rivolto, è invitata a valutare la pro­ pria scelta e rinnovare l'adesione alla prospettiva di Cristo. Gesù è consapevole che il suo discorso «scandalizza» i disce­ poli (v. 61), cioè crea un ostacolo e pone degli impedimenti, soprattutto perché hanno capito che il Maestro allude alla pro­ pria morte e non sono pronti ad accettare un messia che vada incontro al fallimento della morte. Eppure Gesù è convinto che il suo morire comporti un «salire» nella gloria (v. 62), non uno «scendere» nella fossa; perciò spiega ai suoi discepoli che le parole da lui dette sono «spirito e vita» (v. 63), cioè «lo Spirito che fa vivere». Gesù è la Parola fatta carne e quin­ di è lui in persona la comunicazione della vita di Dio. In questo contesto di crisi, quando molti dei suoi disce­ poli tornano indietro, Gesù pone l'alternativa anche ai di132

scepoli più intimi, il collegio dei Dodici: così Giovanni pre­ senta il momento discriminante della sequela apostolica, in parallelo alla tradizione sinottica che racconta della doman­ da decisiva posta da Gesù ai discepoli sulla propria identità (cf Mc 8,29) . A nome di tutti, risponde col verbo al plurale Simon Pietro, formulando la sua professione di fede in Gesù, riconosciuto come «il Santo (haghios) di Dio» (v. 69 ) . I Dodici si sono fidati ed ora sanno con certezza che Gesù è l'inviato di Dio e quindi certamente ha ragione. Non possono andare da nessun altro: riconoscono che la sua parola comunica la vita eterna. Eppure, nonostante questa professione di fede, il capitolo si chiude con una nota negativa (vv. 70-71): anche fra i Dodici c'è «Un diavolo», cioè uno che si oppone al progetto divino. Il riferimento a Giuda, che sta per tradirlo, non solo allude al dramma dell'incredulità, ma soprattutto rimanda in anticipo all'evento decisivo di morte e risurrezione che si compirà nella prossima Pasqua.

Reazione positiva

A Gerusalemme per la festa delle Capanne (7, 1-10,21)

La ripresa della medesima formula di transizione («Do­ po questi fatti» ) che apre i cc. 5 e 6 dà inizio ad una nuova unità letteraria, ambientata a Gerusalemme durante la festa delle Capanne: solo in 10,22 si trova un'altra indicazione cronologica e quindi tutto il materiale che va da 7,1 a 10,21 deve essere considerato come intenzionalmente raccolto in un unico blocco. Il contenuto di questa lunga sezione, però, è molto eterogeneo.

Un unico blocco narrativo

La venuta di Gesù a Gerusalemme (7,1-52)

La festa delle Capanne caratterizza il c. 7, che raccoglie diverse pericopi connesse alla presenza di Gesù a quella ce­ lebrazione. Ne possiamo distinguere almeno cinque. L'inizio del capitolo (7,1-9) denuncia un serio pericolo per Gesù, perché «i Giudei cercavano di ucciderlo» (v. 1 ) . Per tale motivo egli preferisce rimanere in Galilea e, all'av­ vicinarsi della festa delle Capanne, tipica occasione di pel133

Gesù si distingue dai parenti

Varie opinioni su Gesù

Gesù insegna ne/ tempio

Gesù annuncia

il dono dello Spirito

legrinaggio a Gerusalemme, sceglie di non andare coi suoi parenti e di restare in Galilea. È evidente in questo brano la contrapposizione di Gesù con «i suoi fratelli», cioè gli ap­ partenenti alla sua famiglia: egli prende le distanze da loro, perché si rende conto che non credono in lui e vorrebbero solo usarlo come un'attrazione. Poi invece sale a Gerusalemme, non apertamente, ma di nascosto (7,10-13). In città i Giudei lo cercano e la folla ne parla, con opinioni diverse: alcuni lo ritengono buono, altri lo giudicano un imbroglione. Questo tipo di osserva­ zioni, che si ripetono in più parti del Quarto Vangelo, riflet­ te la situazione in cui si è trovata la comunità giovannea alla fine del I sec. Una nuova pericope (7,14-36) inizia con un'indicazione cronologica: a metà della festa delle Capanne, che dura una settimana, Gesù si presenta nel tempio e insegna al popolo: dapprima l'attenzione si concentra sulle Scritture, poi ripro­ duce la molteplicità delle opinioni che circolavano riguardo alla vera identità del Cristo. Vani tentativi di arresto eviden­ ziano, infine, come i capi siano incapaci di comprendere le parole di Gesù. Un'altra indicazione cronologica introduce il brano più importante del capitolo (7,37-39) : nell'ultimo giorno della festa, quello più solenne, Gesù, ritto in piedi, si propone so­ lennemente come il datore dello Spirito. In quei giorni fe­ stivi a Gerusalemme avveniva una processione che accom­ pagnava i sacerdoti ad attingere acqua nella piscina di Siloe, per portarla al tempio e farne una libagione simbolica: l'in­ tento era quello di ricordare le profezie sulla sorgente che sgorga dal tempio (cf soprattutto Ez 47) e invocare il dono della pioggia per la nuova stagione. In stretta connessione con questa pratica liturgica giudaica, Gesù invita chi ha sete e crede in lui ad avvicinarsi e bere: dal proprio grembo in­ fatti annuncia che - secondo le promesse bibliche - «sgor­ gheranno fiumi di acqua viva» . Al v. 39 l'evangelista entra con forza nel testo e spiega al lettore il senso enigmatico del­ le parole di Gesù: l'acqua viva è il segno dello Spirito Santo 134

che verrà donato da Gesù stesso nel momento della sua glo­ rificazione, cioè quando darà la vita sulla croce. In tal modo viene anticipato e spiegato il senso di ciò che verrà raccon­ tato del crocifisso, quando dal suo costato aperto uscirà san­ gue e acqua (19,34). L'ultimo brano di questa sezione (7,40-52) contiene una variegata reazione della gente di fronte al proclama profetico di Gesù: alcuni ritengono che sia davvero il messia, ma altri obiettano che la provenienza dalla Galilea lo smentisce, perché - secondo le Scritture - il Cristo dovrebbe venire da Betlemme, il villaggio di Davide. Le guardie, che erano state mandate ad arrestarlo, ritornano dai capi a mani vuote e si giustificano dicendo che quell'uomo parla come nes­ sun'altro ha mai parlato: i farisei li rimproverano di essersi lasciati ingannare, adducendo come prova il fatto che nessuna persona istruita gli ha creduto, ma il narratore, con ironia, smonta tale argomento introducendo di nuovo il per­ sonaggio di Nicodemo, maestro in Israele, che li invita a superare un giudizio preconcetto, ascoltando seriamente quello che Gesù insegna. Lo fanno però tacere con una battuta, ribadendo il pregiudizio popolare che dalla Galilea non può sorgere un profeta.

Reazioni positive e negative

Di nuovo Nicodemo

Il giudizio sulla donna adultera (7,53-8,1 1 )

Questa pericope manca nei manoscritti più antichi e au­ torevoli e, quando compare, viene collocata anche in altri punti e non solo di questo Vangelo: dunque, pur se attestato fin dal II sec., motivi testuali e letterari inducono a ritenere tale brano estraneo alla tradizione giovannea. L'origine è la tradizione orale comune anche ai Sinottici e, qualunque sia la sua provenienza, il testo è considerato ispirato e canonico. Il racconto, ambientato nel tempio, assomiglia ad altre dispute a cui, secondo i Sinottici, Gesù venne sottoposto dalle autorità giudaiche durante i suoi ultimi giorni a Geru­ salemme. L'interesse principale della pericope non verte sull'adulterio; vuole piuttosto offrire una prospettiva più 135

Gesù e i peccatori

Soluzione sapienziale

ampia e complessa sul tema del peccato e sul rapporto tra Gesù e i peccatori. Lo scopo degli accusatori è quello di metterlo alla prova e di trovare un pretesto per accusarlo: con abilità Gesù elude la domanda e propone un verdetto sapienziale: «Chi tra voi è senza peccato, scagli per primo una pietra contro di lei» (v. 7) . Gesù sfugge all'alternativa che gli avversari pretendevano imporgli e la sua richiesta ottiene l'effetto voluto, tanto che tutti se ne vanno. A diffe­ renza degli avversari, Gesù non considera la donna un puro oggetto di discussione e prende l'iniziativa del dialogo: la interpella infatti col titolo «donna», che accomuna questo brano ad altri passi significativi del Quarto Vangelo (2,4 e 19,26: la madre; 4,21: la Samaritana; 21,15: Maria di Mag­ dala ) . Gesù dunque non ignora che c'è stato peccato, ma non formula un giudizio di condanna, esprime bensì la sua integrale volontà di recupero e salvezza. La p olemica discussione con i Giudei (8,12-59)

Forte tensione fra Gesù e i Giudei

Gesù luce de/ mondo

Dopo la parentesi dell'adultera, una breve nota narra­ tiva nel v. 12 crea il collegamento con l'insegnamento pre­ cedente di Gesù in 7,37-38: l'ambientazione resta sempre il tempio, nel solenne momento finale della festa delle Capan­ ne. L'intero c. 8 contiene una raccolta di parole di Gesù ri­ volte ai Giudei in un clima di forte tensione. Nell'insieme dei discorsi si possono distinguere tre momenti: dapprima Gesù si proclama luce del mondo, poi ribadisce la propria origine dal Padre e infine ingaggia coi Giudei un violento contradditorio sulle rispettive origini. La prima parte del discorso (8,12-20) si pone in ideale continuità con l'annuncio del dono dello Spirito e inizia con l'autorivelazione di Gesù come luce del mondo, prendendo spunto dall' altra caratteristica della festa delle Capanne: l'accensione di grandi luci nel cortile del tempio. L'immagi­ ne biblica della luce è connessa in genere alla Parola di Dio che illumina il cammino e viene fatta propria dal linguaggio apocalittico per caratterizzare la rivelazione divina che vin136

ce le tenebre del mondo: in tal modo Giovanni ribadisce che Gesù è il rivelatore del Padre, capace di condurre tutta l'u­ manità alla pienezza della vita. I farisei gli contestano il va­ lore della sua testimonianza e così il discorso riprende temi già affrontati: i testimoni che accreditano Gesù ( cf 5,31-47), la sua origine divina ( «da dove? - p6then» ) e soprattutto la sua stretta unione a Dio Padre. La sezione è chiusa da una nota che ambienta queste parole «nel luogo del tesoro nel tempio» e il narratore ripete che «nessuno lo arrestò, perché non era ancora venuta la sua ora» (8,20; cf 7 ,30). Nella seconda parte del discorso (8,21 -30), introdotta da una brevissima formula ( «di nuovo disse loro» ) , Gesù annuncia la propria partenza e l'impossibilità di seguirlo, che viene fraintesa dai Giudei: prima avevano pensato ad una missione presso i Greci, ora ipotizzano un suicidio. Ge­ sù non spiega, ma rincara la dose, ripetendo che moriranno nel loro peccato se non sono disposti a riconoscerlo come «> ) , che non ha significato estetico, ma di valore: Gesù è pastore «autentico, giusto, va­ lido>>, è il pastore per eccellenza, in confronto alla figura ne­ gativa degli altri pastori. Come già anticipato, l'obiettivo di Gesù è dare la propria vita per salvare quella dell'umanità: al ladro si sostituisce ora la figura negativa del «mercena­ rio», a cui interessa la paga, non le pecore, non intende dare, ma vuole prendere. Al v. 14 Gesù riprende la stessa formula di auto-rivelazione e aggiunge una nota sul tema della vi­ cendevole conoscenza: nel linguaggio biblico il verbo «co­ noscere» indica una relazione di affetto profondo, un'ami­ cizia autentica, un legame forte e appassionato. Anche se si adopera ancora il termine «pecore» , ormai l'immagine è su­ perata e il discorso riguarda chiaramente le persone e il loro coinvolgimento con Dio stesso: la relazione profonda di af­ fetto che unisce Gesù ai suoi è simile a quella che unisce le persone divine ( v. 15) ed è proprio in forza di questa cono­ scenza di amore che Gesù dona la sua vita con una prospet­ tiva universale che riguarda l'intera umanità. Infatti «questo recinto» (v. 16) designa la struttura religiosa di Israele e Ge­ sù dichiara di non fermarsi lì, ma di essere pastore anche per gli altri popoli: anche quelli «bisogna» (déi) che egli con­ duca a piena libertà. Gesù, rivelatore del Padre, è l'unico in grado di realizzare il progetto divino, perché capace di «ri­ prendere» la propria vita e di «comunicarla» ad altri. Al ver1 44

tice del discorso (v. 1 8) l'evangelista precisa così che la mor­ te di Gesù non fu un incidente, né la vittoria di poteri più forti, ma la libera scelta del Figlio che realizza la missione affidatagli dal Padre. Gli ultimi versetti di questa parte (10,19-21) concludono la lunga sezione ambientata a Gerusalemme durante la festa delle Capanne e riprendono le discussioni all'interno del gruppo dei Giudei che interpretano la persona stessa di Gesù in modi molto diversi: ancora una volta il narratore ribadisce la presenza del dissenso (schisma) fra di loro (v. 1 9; cf 7,43; 9,16) ed evidenzia come alcuni sappiano intuire dai segni compiuti la realtà di una persona straordinaria.

Reazioni differenti

La peripezia decisiva (10,22-11,54)

In 10,22 una nuova indicazione cronologica determina il riferimento ad un altro contesto liturgico di Israele e crea l'ambiente per una nuova sezione narrativa: «Ricorreva al­ lora a Gerusalemme la festa della Dedicazione». La vicenda legata a questo momento comprende un'aperta polemica dei Giudei che accusano Gesù di bestemmia perché pre­ tende di farsi Dio e tentano di catturarlo: ma egli sfugge dalle loro mani, lascia Gerusalemme e si rifugia al di là del Giordano. A questa sezione (10,22-42) fa seguito nel c. 1 1 , senza precise indicazioni di tempo, il lungo episodio che ri­ guarda Lazzaro, l' amico morto e richiamato in vita: per compiere questo segno Gesù deve lasciare il suo sicuro ri­ fugio oltre il Giordano e ritornare in Giudea dove rischia l'arresto e la condanna a morte (cf 1 1 ,8). La vicenda di Laz­ zaro termina in 1 1 ,45-46 con una duplice reazione dei pre­ senti: molti credono, ma alcuni vanno a denunciare Gesù ai farisei. Di conseguenza viene narrata la riunione del si­ nedrio ( 1 1 ,47-53) in cui è presa la decisione ufficiale di uc­ cidere Gesù, mentre egli si ritira nella regione vicina al de­ serto ( 1 1 ,54). Il successivo v. 55 introduce il riferimento alla terza festa di Pasqua, quella decisiva di morte e risurrezio­ ne. Conviene quindi distinguere i testi che preparano la Pa145

La festa della Dedicazione

Episodi decisivi nell'intreccio narrativo

squa da ciò che precede e tenere insieme la sezione narra­ tiva che va da 10,22 a 1 1 ,54, in quanto presenta episodi de­ cisivi nell'intrigo narrativo di Giovanni: donare la vita al­ l'amico morto costa la vita a Gesù. La grande pretesa di Gesù ( 10,22-42) Era inverno

Io e il Padre siamo una cosa sola

Tu che sei uomo ti fai Dio

Oltre al riferimento alla festa della Dedicazione, questa sezione è introdotta da una nota stagionale («Era inverno » ) che serve ad evocare il gelido clima in cui avviene il dialogo con le autorità giudaiche sulla spianata del tempio. Lo scon­ tro è articolato in due momenti, con un'importante nota di chiusura. Dapprima (10,22-30), provocato dai Giudei sulla sua messianicità, Gesù riprende l'immagine delle pecore che ap­ partengono al pastore e non risponde alla richiesta di un'e­ splicita dichiarazione sulla propria identità messianica, ma rimanda alle opere da lui compiute come credibili testimo­ nianze a suo favore. Quindi fa un passo in avanti nella rive­ lazione e arriva ad affermare la propria identità con Dio, di­ cendo che la sua mano coincide con quella di Dio, per ga­ rantire che nulla potrà mai sottrarre i suoi discepoli alla po­ tenza dell'amore divino. Il discorso raggiunge il suo vertice con una solenne dichiarazione teologica: «Io e il Padre sia­ mo una cosa sola» (v. 30) . A questo punto (10,31 -39) Gesù deve difendersi dalla reazione dei Giudei, che lo accusano di bestemmia: quei freddi ascoltatori hanno capito bene l'inaudita pretesa da lui avanzata e proprio per questo portano delle pietre per lapidario. L'accusa è chiara: «Tu, che sei uomo, ti fai Dio)) (v. 33; cf 8,53). Da questa accusa il Maestro si difende con un tipico ragionamento rabbinico, partendo da un versetto biblico (Sal 82 6) e riprendendo il tema del nuovo tempio: Gesù in persona è il santuario della presenza di Dio, man­ dato in questo mondo per rivelare la vita del Padre. Anche questa seconda parte del discorso raggiunge il vertice con una solenne dichiarazione: «Il Padre è in me, e io nel Padre>) ,

146

(v. 38). Di nuovo la reazione è di rifiuto e un nuovo tentativo di arresto fallisce. La nota geografica conclusiva sembra chiudere il cerchio con l'inizio del ministero di Gesù, quando Giovanni Battista battezzava al di là del Giordano. Nonostante i ripetuti fallimenti coi Giudei, il brano termina con un'osservazione positiva, ricordando che molti erano quelli che credevano in Gesù (v. 42) . Il

Chiusura geografica

se gno di Lazzaro (1 1 , 1 -44)

Il lungo racconto che ruota intorno alla vicenda dell'a­ mico Lazzaro costituisce nell'impianto narrativo giovanneo il «Settimo» segno, cioè il vertice dei gesti miracolosi che si­ gnificano l'intervento di Dio a favore dell'uomo, quello più vicino alla realtà dell'opera compiuta da Gesù: «dare la vi­ ta» all'umanità. Dato che il termine «risurrezione» si applica correttamente solo a Gesù, conviene adoperare in questo caso un altro vocabolo, ad esempio «rianimazione», perché quello che succede a Lazzaro è diverso da quello che succe­ derà a Gesù. La situazione che viene prodotta in Lazzaro, infatti, è un ritorno alla vita precedente, mentre la risurre­ zione di Gesù sarà l'inizio di una vita nuova, il superamento definitivo della morte, il raggiungimento della gloria eterna. Tuttavia, il dono della vita fisica all'amico Lazzaro è un se­ gno molto vicino alla realtà, perché significa nel modo più esplicito possibile che la missione del Cristo consiste nel da­ re la propria vita per comunicare la vita al mondo. La narrazione è articolata in varie scene con brevi note di raccordo: incomincia con la notizia della malattia di Laz­ zaro che raggiunge Gesù nel suo rifugio al di là del Giorda­ no, dove si è messo in salvo dalle insidie dei Giudei. Si tratta quindi di decidere se tornare e rischiare la vita oppure ri­ manere al sicuro: un dialogo di Gesù coi suoi discepoli porta alla decisione di tornare in Giudea. Finita l'introduzione, senza il racconto del viaggio, subito è narrato l'incontro con Marta prima e poi con Maria, segnato da diversi commenti 147

Il settimo segno sta nel dare la vita

Le scene del racconto

La malattia di Lazzaro

La reazione di Gesù

La decisione

L'incontro con Marta

dei Giudei; quindi ha luogo il fatto prodigioso di Lazzaro, morto già da quattro giorni, che viene richiamato dal sepol­ cro. Conclude il racconto la reazione dei presenti e la de­ nuncia di alcuni mette in moto l'episodio seguente, decisivo nella trama del Vangelo. L'introduzione (11,1-16) presenta anzitutto la situazione familiare di Lazzaro, Marta e Maria di Betania, sottolinean­ do con insistenza i rapporti di amicizia e benevolenza che le­ gano i tre fratelli tra di loro e con Gesù e i suoi discepoli: la malattia di Lazzaro viene comunicata al Maestro, senza nes­ suna esplicita richiesta, definendo il malato semplicemente come «colui che tu ami (filéis)» (v. 3). Udita la notizia, Gesù non si muove dal suo rifugio e con tono profetico spiega ai suoi discepoli che tale malattia è finalizzata alla «gloria di Dio» e alla glorificazione del Figlio di Dio (v. 4): intende dire che questo evento mostrerà la presenza potente e operante di Dio a favore dell'uomo e, nello stesso tempo, porterà alla crocifissione del Cristo, vertice della sua rivelazione. Tra­ scorsi due giorni, Gesù invita i discepoli a ritornare in Giu­ dea, ma essi gli fanno notare il grave pericolo che corre an­ dando nelle vicinanze di Gerusalemme, dove si trova Beta­ nia. Con un discorso simbolico (w. 9-10) di stampo apoca­ littico Gesù si presenta come la luce che illumina il giorno, in cui compie la propria opera, e si contrappone alle tenebre della notte in cui non si può agire (cf 8,12; 9,4-5); quindi an­ nuncia la sua intenzione di andare a risvegliare Lazzaro che si è addormentato. I discepoli non comprendono il senso rea­ le di queste parole e Gesù deve intervenire a spiegarlo, anti­ cipando il significato dell'evento futuro. L'incontro con Marta ( 1 1 ,17 -27), sorella del morto, è preceduto da alcune note che descrivono la situazione a Be­ tania e viene caratterizzato come un dialogo maturo di fede cristologica. Gesù annuncia con certezza che Lazzaro risor­ gerà e sposta l'attenzione dall'escatologia futura dell'ultimo giorno all'escatologia presente; propone inoltre a Marta una nuova formula di auto-rivelazione, con cui egli stesso si identifica con la vita escatologica: «lo sono la risurrezione 1 48

e la vita» ( v. 25). Tutto dipende dal credere in Gesù, e Marta esprime una solenne professione di fede, uno dei vertici in cui l'evangelista condensa l'oggetto del credere cristiano: «lo credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo» ( v. 27) . L'incontro con Maria ( 1 1 ,28-37), l'altra sorella del morto, segue immediatamente ed è caratterizzato da diverse reazioni dei Giudei presenti in casa di lei, i quali commentano in modo critico l'operato di Gesù. Maria, raggiunto il Maestro, ripete le stesse parole della sorella e lui non le risponde, ma si commuove e rimane turbato, finché scoppia in pianto (v. 35) . La scena è particolarmente riuscita e ha segnato nei secoli l'immaginario dei lettori: alla normale commozione per una persona cara, si può aggiungere come motivo del pianto di Gesù una considerazione profetica con cui reagisce al proprio dramma imminente, comprendendo che quel gesto potente sarà la causa diretta della propria morte. Il racconto del miracolo ( 1 1 ,38-44) è introdotto da una nota di spostamento davanti al sepolcro e da una sua essenziale descrizione: al comando di togliere la pietra che blocca l'ingresso del sepolcro, Marta reagisce istintivamente, pensando che ormai - essendo morto da quattro giorni - il corpo sia in decomposizione e quindi mandi cattivo odore. Gesù deve richiamarla alla professione di fede e ribadisce con decisione i due elementi teologici che reggono l'intero racconto: «Se crederai, vedrai la gloria di Dio» (v. 40) . Tolta la pietra del sepolcro, la narrazione viene rallentata da una preghiera che Gesù rivolge al Padre, ringraziandolo per averlo ascoltato ed evidenziando ancora una volta che il fine principale del segno è «credere» alla missione del Figlio (vv. 41 -42) . A questo punto l'evento prodigioso è narrato con pochi particolari: Gesù a gran voce chiama il morto perché esca e Lazzaro esce, portando con sé tutti i teli funebri, ancora saldamente legati al suo corpo in modo da bloccargli i piedi e le mani ( vv. 43-44) . Il dettaglio è importante, se confrontato con ciò che Giovanni racconterà a proposito dei teli funebri lasciati nella tomba di Gesù ( cf 20,6-7): così vie149

L'incontro con Maria

A/ sepolcro

Reazioni differenti

ne evocata la differenza fra la rianimazione di Lazzaro, de­ stinato a morire di nuovo, e la risurrezione di Cristo, che non muore più». Chiude il racconto l'ordine che Gesù im­ parte ai presenti di «liberare» il morto, richiamando l'im­ magine di un prigioniero strappato dal carcere. Nel finale ( 1 1 ,45-46) nessuna reazione del defunto e delle sorelle viene presentata, ma è annotata - come di con­ sueto in questi casi - la diversa conseguenza che il segno ha prodotto nei presenti: molti credono, ma alcuni vanno a de­ nunciare Gesù ai farisei. La decisione di uccidere Gesù ( 1 1 ,47-54)

Osservazio­ ni dramma­ tiche e iro­ niche

Intrusione ermeneutica del narratore

La decisione del sinedrio è presentata dal racconto gio­ vanneo come una conseguenza del segno di Lazzaro: i capi dei sacerdoti e i farisei ammettono che Gesù compie molti segni, ma non vogliono interpretarli in senso positivo. Sono preoccupati che la sua fama attiri un grande seguito e ne possa derivare una rivolta popolare contro i Romani: la loro paura è di tipo politico e la ricerca di soluzione concerne la difesa del loro potere. Il narratore, limitandosi ad annotare i timori dei Giudei e le misure con cui tentano di intervenire nella situazione, fa sfoggio dell'abituale ironia, che il lettore percepisce facilmente: le macchinazioni non sono servite a nulla, tutti hanno creduto in Gesù, e i Romani hanno di­ strutto il tempio e la nazione. La proposta ufficiale del sommo sacerdote Caifa viene enfatizzata dal narratore ed esposta con rinnovata ironia. Egli infatti inizia il suo discorso con una valutazione che Giovanni condivide in pieno: «Voi non capite nulla! » (v. 49). Prosegue quindi sostenendo la convenienza «che un solo uomo muoia per (hypér) il popolo, e non vada in rovina la nazione interab> (v. 50). Come suo consueto, il narratore en­ tra a questo punto nel racconto e aggiunge una spiegazione teologica di grande importanza: proprio per la funzione sa­ cra che svolgeva, il sommo sacerdote non parlò da sé, ma fu profetico nell'affermare che «Gesù doveva morire a favore 1 50

della nazione» ( v. 5 1 ) ; quindi allarga l'orizzonte e precisa che l'obiettivo della morte di Gesù è il raduno escatologico dei «figli di Dio dispersi» (v. 52). La sentenza capitale, emes­ sa dal sinedrio, viene così interpretata come profezia sul si­ gnificato messianico della morte di Gesù, che riunirà éis hén (in unum - «in una cosa sola» ) l'umanità ( cf 17,23). «Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo» (v. 53). Tale affermazione costituisce la svolta decisiva nella vicenda terrena di Gesù, perché ormai il suo destino di morte è fis­ sato. La moderna narratologia ha desunto da Aristotele il termine peripéteia, italianizzato in «peripezia», per indicare nella trama di un racconto il momento in cui si verifica un importante mutamento con il passaggio da una situazione all'altra: il termine greco, che deriva dalla preposizione per[ ( «intorno» ) e dalla radice del verbo pfptein ( «cadere» ) , de­ signa un «accadimento» che fa ruotare la sorte. Perciò pos­ siamo adoperare questo vocabolo narratologico per definire la svolta decisiva nel racconto giovanneo: Gesù, che si era allontanato dalla Giudea, vi è ritornato per dare la vita al­ l'amico Lazzaro e questo gli costa la vita, perché proprio «da quel giorno» decisero di ucciderlo. Ma la vicenda è an­ cora nelle mani del protagonista, che decide liberamente quando farsi arrestare: perciò per il momento si ritira nella regione vicina al deserto ( 1 1 ,54) , in attesa dell'occasione simbolicamente più adatta, che è la festa di Pasqua.

La svolta decisiva del· la vicenda

A Gerusalemme: verso l'ultima Pasqua (1 1,55-12,50)

L' annuncio della vicinanza di Pasqua segna l'inizio al­ l'ultima sezione narrativa, che fa da preambolo alla seconda grande parte del Quarto Vangelo, incentrata sulla gloria del­ la croce. Tre volte viene nominata questa festa di Pasqua, quasi un lento conto alla rovescia, che introduce il momento decisivo: - «Era vicina la Pasqua dei Giudei» ( 1 1 ,55); - «Sei giorni prima della Pasqua» (12,1 ); - «Prima della festa di Pasqua» (13,1). 151

Conto alla rovescia verso la meta

Nota introduttiva

Dato che il c. 12 svolge una funzione di «aggancio» fra le due parti principali, rivestendo insieme il ruolo di conclu­ sione e di introduzione, distinguiamo la sezione 1 1 ,55-12,50 come un momento di transizione, caratterizzato da brevi episodi con insegnamenti sulla dignità messianica di Gesù e due conclusioni teologiche che segnano la fine del libro dei segni. Una breve nota introduttiva ( 1 1 ,55-57) annuncia la vi­ cinanza della festa di Pasqua: è la terza volta che viene no­ minata questa festa nel racconto di Giovanni ( la prima in 2,13.23; la seconda in 6,4) e questa è la Pasqua decisiva, quella di Gesù. Intanto la folla che sale a Gerusalemme per la festa si domanda se Gesù parteciperà ( come in 7 , 1 1 ) , mentre i capi complottano per arrestarlo. L'unzione di Betania (12,1-1 1 )

l/ profumo dell'amore

Con questa scena si apre l'ultima settimana, come pre­ cisa il riferimento cronologico iniziale. Gesù lascia il luogo sicuro dove si era ritirato ( 1 1 ,54) per ritornare a Betania, dove partecipa ad una cena in casa degli amici Lazzaro, Marta e Maria. Il racconto giovanneo appartiene alla tradi­ zione sinottica comune a Matteo e Marco, in cui svolge un ruolo simbolico di introduzione al racconto della passione: anche questa volta Giovanni adopera, in contesto analogo, un testo tradizionale, ma vi apporta alcune significative mo­ difiche, integrandolo nella vicenda del settimo segno con voluti riferimenti a Lazzaro redivivo. Il gesto di Maria non riguarda il capo di Gesù ( come in Mt-Mc ) , ma i suoi piedi: ella vi versa una libbra ( cioè 300 grammi ) di nardo assai pre­ zioso e poi li asciuga coi propri capelli «e tutta la casa si riempì dell'aroma di quel profumo» (v. 3): un probabile ri­ ferimento al Cantico dei Cantici dà al gesto di Maria un va­ lore simbolico di grande affetto, e questo amore che lega gli amici di Gesù è profumo di vita che riempie l'intera comu­ nità dei discepoli di Cristo. La critica per lo spreco, che nei Sinottici viene dai discepoli in genere, è attribuita dal nar152

ratore giovanneo a Giuda Iscariota, con l'aggiunta di un du­ ro giudizio sul suo comportamento da ladro (vv. 4-6). Come nei Sin ottici, l'intervento di Gesù a difesa della donna valo­ rizza il suo gesto in riferimento alla propria sepoltura: come il vino di Cana è stato conservato fino al tempo dello sposo, così il nardo di Betania è simbolo dell'amore fedele che i di­ scepoli devono conservare per l'evento salvifico della morte di Gesù (vv. 7-8) . La scena è conclusa da un'altra nota descrittiva (vv. 91 1 ) , che riprende il riferimento a Lazzaro e aggiunge come molte persone fossero curiose di vedere colui che Gesù ave­ va risuscitato dai morti; perciò i capi dei sacerdoti decidono di eliminare anche Lazzaro, dal momento che, a causa sua, molti Giudei credevano in Gesù.

Simbolo dell'amore fedele

L'accoglienza della folla a Gerusalemme (12,12-19)

Segue immediatamente il racconto dell'arrivo di Gesù a Gerusalemme, che è introdotto con una nota cronologica («il giorno seguente»), simile a quelle che segnano la setti­ mana inaugurale (cf 1 ,29.35.43): dato che anche in questo caso c'è il riferimento a una settimana pre-pasquale, è pos­ sibile pensare che il narratore voglia riproporre in modo speculare un lento avvicinamento al gran finale. Anche questo episodio dipende dalla comune tradizio­ ne sinottica, che Giovanni conserva e riduce ai dati essen­ ziali, eliminando molti particolari. Non parla, ad esempio, dell'ingresso nella città santa, ma nota semplicemente come la folla, «udito che Gesù veniva a Gerusalemme» (v. 12), gli uscì incontro con rami di palme, gridando la tipica acclama­ zione tratta da Sal 1 1 8,25-26. Riguardo all'asinello, il nar­ ratore dice solo che Gesù lo trovò e vi montò sopra (v. 14): ciò che più gli importa è allegare il riferimento profetico a Zc 9,9 (v. 15). A questo punto incontriamo una delle più im­ portanti intrusioni del narratore (v. 16), con cui si precisa la crescita di comprensione che la comunità giovannea ha vis­ suto nel tempo: al momento dei fatti i suoi discepoli non ca153

Avvicina­ mento alla Pasqua

Citazione di lc 9,9

Il mondo

va dietro a Gesù

pirono il senso di ciò che il loro Maestro stava facendo, né pensarono alla frase di Zaccaria; solo dopo la sua Pasqua di risurrezione il ricordo dei fatti e delle Scritture ha permesso una piena comprensione del progetto divino, rivelato nei te­ sti biblici e realizzato dalla vicenda di Gesù. Nessun altro particolare della venuta di Gesù a Geru­ salemme è illustrato, ma viene spiegato il motivo che ha spinto la folla ad andargli incontro: il segno di Lazzaro è sta­ to interpretato in modo corretto e perciò la gente gli dava testimonianza, cioè attestava il valore positivo di Gesù (vv. 17 -18). I farisei, al contrario, guardano amareggiati la folla che segue Gesù e il narratore - con fine ironia - pone in boc­ ca a loro la constatazione del loro fallimento: «Vedete che non ottenete nulla? Ecco: il mondo è andato dietro a lui ! » (v. 1 9). È venuta l'ora della gloria (12,20-36)

Vogliamo vedere Gesù

È giunta

l'ora

L'ultima sezione narrativa prima della Pasqua è intra­ dotta da un altro accenno alla festa: alcuni stranieri, prove­ nienti dal mondo ellenista, esprimono il desiderio di «Vede­ re » Gesù e a fare da mediatori sono proprio due discepoli che portano nomi greci, Filippo e Andrea. Nella richiesta di questi pellegrini saliti a Gerusalemme per la festa è racchiu­ so in modo simbolico l'anelito di tutta l'umanità che aspira all'incontro con Colui che può salvare. I discepoli riferisco­ no al Maestro questo desiderio, ma Gesù risponde con un discorso (vv. 23-28) che sulle prime non sembra coerente al­ la richiesta, mentre rivela in profondità un nesso importante e significativo. Gesù anzitutto annuncia che ormai la sua ora è venuta (v. 23): dopo aver detto più volte nel corso del racconto che l'ora non era ancora venuta (cf 2,4; 7,30; 8,20), adesso il nar­ ratore fa dire a Gesù stesso che è giunto il momento culmi­ nante della sua glorificazione in quanto «Figlio dell'uomo», inteso come personaggio celeste ed escatologico, in cui il Padre rivela la grandezza del suo amore con il dono della 154

vita. A tale rivelazione allude l'immagine parabolica del se­ me (v. 24), con cui Gesù presenta l'efficacia della sua mis­ sione attraverso la dinamica di morte e risurrezione, riba­ dendo che lo stesso principio regolerà anche la vita dei di­ scepoli (v. 25): questo significa «servire Gesù» (v. 26), perché comporta una concreta imitazione del suo stile esistenziale. Che cosa c'entra questo discorso con la richiesta dei Greci? Di fatto Gesù non va incontro a quegli stranieri e sembra ignorare il loro desiderio, ma con la sua risposta ha voluto dire che l'apertura universale e l'incontro con ogni uomo sarà possibile al Cristo dopo l'evento della sua glorificazio­ ne, cioè dopo la sua morte e risurrezione. È questa l'ora a cui tende tutta la sua vita: questo è il compimento della sua miSSIOne. Pur conoscendo il grande effetto positivo della sua mor­ te, in quanto uomo, Gesù ne teme anche la sofferenza. In­ fatti, subito dopo l'evangelista propone un frammento nar­ rativo in cui riferisce quell'angoscia che i Sinottici mostrano in Gesù nel momento del Getsemani: «Adesso l'anima mia è turbata» (v. 27). Giovanni insiste nel ribadire che Gesù è ben consapevole di essere giunto a quell'ora proprio per compiere il passo decisivo e perciò non si tira indietro. La sua preghiera contiene una formula giovannea, parallela a quella sinottica del Padre nostro : «Padre, glorifica il tuo no­ me» (v. 28a), che significa: mostra chi sei, fa' vedere la tua potenza divina, rivela il tuo amore di Padre proprio nella concreta e dolorosa vicenda che sto affrontando. Oltre all'angoscia nel Getsemani e alla preghiera di Ge­ sù al Padre possiamo riconoscere anche una versione gio­ vannea della trasfigurazione, a cui pare accennare il fatto straordinario della voce che viene dal cielo a conferma dell'opzione scelta da Gesù. «L'ho glorificato e lo glorifi­ cherò ancora !» (v. 28b ): secondo il consueto vocabolario del Quarto Vangelo la rivelazione celeste di Dio Padre confer­ ma che Gesù ha ragione e promette solennemente di mo­ strarlo con un intervento potente. Questa voce dal cielo, pur essendo esclusiva del Quarto Vangelo, assomiglia molto, nel 1 55

L'immagine del seme

L'anima mifl è turbata

L'ho glori­ ficato e lo glorificherò

Il re innal­ zato attira a sé

Perplessità

messaggio che trasmette, al racconto sinottico della trasfi­ gurazione: il Padre fa conoscere con un intervento mistico la sua compiacenza nei confronti di Gesù e annuncia l'in­ gresso nella gloria divina come méta dell'oscuro viaggio del­ la sofferenza. La folla ha percepito un fatto straordinario, ma non ha capito né parole né messaggio: non è stato un tuono e nem­ meno un angelo che gli ha parlato; la spiegazione giusta la sa l'evangelista, perché coincide con il punto di vista del Cri­ sto stesso: la voce dal cielo è finalizzata agli ascoltatori, ai quali viene rivelato come nel mistero della croce si realizzi l'intronizzazione del vero re (v. 32) e contemporaneamente la sconfitta dell'impero demoniaco (v. 31). La croce di Cri­ sto, trono del vero re, diviene lo strumento che getta via dal potere le forze oscure. Un ultimo frammento dialogico (vv. 34-36) mostra la fol­ la perplessa di fronte alla prospettiva di un Figlio dell'uomo innalzato, perché secondo l'interpretazione biblica comune il messia avrebbe dovuto "rimanere in eterno"; Gesù tutta­ via non dà nuove spiegazioni, bensì rivolge un ultimo acco­ rato appello a «credere nella luce per diventare figli della lu­ ce». L'evidente nota di chiusura (v. 36) ribadisce (cf 8,59) l'u­ scita di Gesù dalla scena pubblica e il suo nascondimento. Riflessione teologica del narratore ( 12,37-43)

Le ragioni della man canza difede

Mentre Gesù si ritira in solitudine, prende la parola il narratore stesso, per proporre una riflessione biblico-teolo­ gica, capace di interpretare le ragioni della mancanza di fede. I segni di Gesù sono stati molti grandi, eppure non sono riusciti a convincere tutti. A questa situazione, dolorosa e angosciante, la comunità giovannea ha trovato qualche ri­ sposta nelle Scritture (cf ls 53,1 ; 6,10). Giovanni ritiene che l'antico testo, parlando dell'insuccesso del profeta, abbia annunciato un simile risultato anche per il Cristo futuro e per questo aggiunge che «non potevano credere» (v. 39) : in­ tende dire che era inevitabile che finisse così, giacché la ri156

velazione profetica aveva già delineato tale percorso di occhi accecati e cuore indurito. Il rifiuto però non è totale: la conclusione, infatti, afferma che «molti credettero in lui» (v. 42), anche fra i capi, sebbene non apertamente per paura di essere «espulsi dalla sinagoga». Ritorna in questa conclusione il vocabolo tipicamente giovanneo aposyntigogoi, già usato nel racconto del cieco nato (9,22; cf anche 16,2), e questo lascia trasparire l'intento che muove il narratore, quando si rivolge ai lettori suoi contemporanei: incoraggiare quelli che esitano ad aderire apertamente a Gesù, perché scelgano la gloria di Dio, come aveva fatto Isaia.

Il rifiuto

non è totale

Monologo conclusivo (12,44-50)

Questo discorso sembra fuori contesto, perché poco pri­ ma (v. 36) si è detto che Gesù se ne è andato via dalla scena pubblica: alcuni interpreti hanno pensato ad un frammento vagante e senza contesto, mentre si può ritenere che inten­ zionalmente il redattore finale abbia collocato in questa se­ zione conclusiva un grido di Gesù che, rivolto ai lettori stessi del Quarto Vangelo, ribadisce per ogni tempo il valore della sua Parola, in quanto fedele proposta di ciò che il Padre gli ha comandato di dire. In quest'ultimo appello a credere in lui, Gesù riassume gli elementi fondamentali della sua mis­ sione: dichiara solennemente di essere l'autentico inviato di Dio, per salvare il mondo e non per giudicarlo, portatore del­ la Parola divina che è luce e dona la vita eterna.

Appello di Gesù a credere

Seconda parte: il libro della gloria (cc. 13-21)

La seconda parte del Vangelo secondo Giovanni trova il proprio centro di interesse nel tema dell'ora del messia, che coincide con la sua glorificazione, cioè il momento decisivo in cui l'opera della salvezza si compie e Dio dimostra in Gesù la sua presenza potente e operante; perciò, con ter157

L'ora de/ messia

Struttura

minologia divenuta ormai consueta, lo possiamo indicare come il libro della gloria (cc. 13-21 ). La sua struttura è mol­ to più semplice ed evidente rispetto alla prima parte, perché contiene grandi blocchi letterari omogenei e ben delimitati. Vi si possono infatti distinguere tre sezioni, più l'epilogo: - i discorsi di addio (cc. 13-17) ; - il racconto della passione (cc. 18-19); - la narrazione degli incontri pasquali (c. 20); - l'epilogo narrativo (c. 21). 13,1-17,26: I discorsi di addio

Testamento spirituale

Tre sezioni discorsive

Un breve prologo teologico (13,1-3) costituisce un nuo­ vo solenne inizio che introduce immediatamente la terza Pasqua, quella decisiva di Gesù. Prima degli eventi pasquali però l'evangelista propone la raccolta delle ultime parole del Maestro, le quali - data l'importanza del momento - as­ sumono la funzione di testamento spirituale. L'ampia sezio­ ne, in cui Giovanni raccoglie i discorsi di addio durante la cena, è preceduta dal racconto della lavanda dei piedi (13,412) che, in quanto prologo narrativo, rivela in anticipo il senso dell'opera pasquale di Gesù. A partire da 13,13 - fa­ cendo seguito al gesto simbolico della lavanda con l'intento di spiegarlo - inizia non un unico discorso, ma una serie di discorsi, spesso interrotti da brevi note narrative che ripor­ tano reazioni o domande dei discepoli. La nota presente in 14,31 («Alzatevi, andiamo via di qui») sembra proprio una conclusione, mentre invece la raccolta di detti prosegue per altri tre capitoli. Costituisce pertanto una cesura evidente che separa una prima parte di discorsi (13,13-14,31) da una seconda (cc. 15-16) . Anche l'inizio del c. 17 contiene una nota redazionale («Così parlò Gesù. Poi, alzàti gli occhi al cielo, disse»), che segna la fine della seconda parte e il prin­ cipio della terza, diversa per genere dalle precedenti, dal momento che contiene la preghiera rivolta da Gesù al Padre (c. 17). In 18,1 - terminati i discorsi - comincia il racconto della passione. 158

L'introduzione (13, 1 -12)

I discorsi d'addio sono introdotti in duplice modo: da una sintetica annotazione teologica e da un racconto di ge­ sto simbolico. Il grandioso esordio (13,1-3) presenta finalmente l'ora di Gesù che è arrivata: essa coincide con la Pasqua e consiste nel passaggio da questo mondo al Padre. Il momento culmi­ nante della sua vita è caratterizzato dall'amore totale, «fino alla fine» ( éis télos) . Le ultime parole, che nel racconto di Giovanni Gesù pronuncia sulla croce, determinano un'im­ portante inclusione letteraria, riprendendo proprio questa espressione: «È compiuto (tetélestai)» (19,30). Si afferma in tal modo che è giunto il compimento, che lo scopo finale è stato ottenuto: non solo si indica la fine, ma soprattutto si rag­ giunge il fine. L'evangelista vuoi dire che Gesù dimostra il suo amore fino all'estremo attimo della sua esistenza, ma so­ prattutto che con il dono generoso di sé ottiene il fine di con­ giungere l'uomo a Dio. Inoltre il Quarto Vangelo sottolinea con forza che Gesù affronta il dramma della passione con pie­ na consapevolezza, in quanto libera e volontaria donazione di sé: la morte non lo sorprende come un caso o una situazio­ ne fatale e inevitabile, ma è lui che con piena libertà e gene­ rosa determinazione sceglie di offrire la propria vita. E lo di­ mostra con un gesto eloquente, giacché - secondo lo stile di Giovanni - i segni annunciano in modo profetico qualcosa di più. Così la lavanda dei piedi anticipa ( al pari delle parole ri­ portate dai Sin ottici sul pane e sul vino ) il senso di quello che capiterà presto a Gesù: la sua morte è un atto di amore che trasforma l'umanità, rendendola capace di un amore simile. In questa introduzione narrativa (13,4-12) l'evangelista racconta il senso dell'Eucaristia, senza narrarne l'istituzio­ ne, perché esprime l'idea del dono totale di sé per gli altri. La cena non è descritta, ma lasciata volutamente nel gene­ rico per conferirle un valore arcano ed esemplare. Il narra­ tore delinea una scena umilmente solenne con verbi al pre­ sente ( nell'originale greco ) , per dare il senso della perenne 1 59

Nota teologica

Gesto sim­ bolico anti­ cipatore

Il gesto esprime il senso dei fatti

Allusione sacranem­ tale

attualità del suo gesto: Gesù, pienamente consapevole della sua dignità divina, sorge dalla mensa, si toglie il vestito bel­ lo, si mette uno straccio e si inginocchia per terra, lavando i piedi dei suoi discepoli (v. 4-5). Il gesto esprime il senso dei fatti e racconta ciò che avverrà: l'essere lavati anticipa il condividere la gloria con Cristo, perché la purificazione con l'acqua è simbolo di vita nuova e richiama il dono battesi­ male dello Spirito, che rende possibile l'unione con Dio e dà inizio a una nuova creazione. Mettendosi in ginocchio e compiendo un gesto da schia­ vo, Gesù rischia di perdere la dignità e l'onore: perciò Pie­ tro, portavoce abituale della mentalità corrente, rimprovera il Maestro e non vorrebbe accettare quello stile (v. 6). La ri­ sposta di Gesù mette in evidenza una diversa situazione: ora non può capire, ma dopo capirà (v. 7). Il «dopo» fa riferi­ mento alla Pasqua e significa che, quando riceverà dal Si­ gnore il dono della sua vita, anche il discepolo diventerà ca­ pace di un simile amore. Di fronte alla minacciata possibilità di non aver parte con Gesù, Pietro cambia repentinamente idea e si dichiara disponibile ad accogliere un «lavaggio» to­ tale da parte del Maestro: l'allusione ai sacramenti del bat­ tesimo e dell'Eucaristia (v. 10) vuole indicare che al disce­ polo la salvezza piena e definitiva può venire solo dalla con­ fidente comunione con il Cristo. Come all'inizio del raccon­ to ( v. 2) si era fatto riferimento al progetto diabolico di Giu­ da, così nel finale (v. 11) ritorna l'accenno a colui che sta per consegnare Gesù: non è puro chi, invece di lasciarsi coin­ volgere dall'amore divino, si chiude e gli si oppone. Con un breve accenno alla ripresa degli abiti (v. 12) Ge­ sù è presentato seduto, nel ruolo di Maestro e Signore: con una domanda sulla comprensione del gesto appena compiu­ to dà inizio al suo testamento spirituale. La prima parte dei discorsi (13, 13-14,31)

Anche se alcune note narrative interrompono le parole di Gesù, possiamo considerare unit2.:-ia questa sezione di1 60

scorsìva, in cui sì riconosce l'articolazione dì importanti in­ segnamenti teologici. Il dramma della consegna e l'ora della gloria (13,1 3-38)

Gesù inizia (13,13-20) spiegando il significato della la­ vanda dei piedi: quel gesto costituisce l'esempio (hypodeig­ ma), cioè il paradigma esistenziale che il Maestro e Signore offre ai suoi discepoli perché facciano come lui. Con due for­ mule di asserzione (vv. 1 6.20) viene ribadito un doppio prin­ cipio che riguarda l'inviato (ap6stolos) e il mandante (ho pémpsas ): chi viene mandato è come un servo nei confronti del padrone, quindi inferiore (v. 16, unica ricorrenza in Gio­ vanni del termine «apostolo»); tuttavia accogliere gli inviati di Gesù è come accogliere lui stesso, anzi significa accogliere Dio Padre (v. 20) . Fra questi due principi è introdotto in mo­ do enigmatico (con la citazione di Sal 40,10) il dramma del discepolo che si mette contro il Signore: gli altri discepoli, che sanno queste cose, sono invece beati a patto che com­ piano docilmente l'insegnamento del Maestro (vv. 17-18). Avvisati in anticipo, potranno credere alla divinità di Gesù, ribadita con la formula teoforica «lo Sono» (v. 19). All'annuncio enigmatico fa seguito una sezione (13,21 30) in cui il «consegnatore» viene svelato. Una nota narra­ tiva interrompe il discorso e presenta Gesù profondamente turbato (cf 1 1 ,33; 12,27) che, con un'altra formula di asser­ zione, annuncia: «Uno di voi mi tradirà» (v. 21). Abitual­ mente viene reso con «tradire» il verbo greco paradfdomi (corrispondente al latino: tnidere) che Giovanni adopera per indicare l'opera di Giuda. Propriamente però significa «consegnare», ed è un verbo che il Quarto Vangelo impiega con ricca valenza teologica sia per indicare l'azione di met­ tere Gesù nelle mani degli uomini perché lo uccidano, sia per designare l'azione dì Gesù che consegna il proprio Spi­ rito divino perché l'umanità viva (1 9,30). Di fronte all'an­ nuncio esplicito del tradimento i discepoli non sanno di chi Gesù stia parlando e in questo frangente compare per la 161

Il paradig­ ma esisten­ ziale per i discepoli

Uno di voi mi conse­ gnerà

Il discepolo che Gesù amava

La notte di Giuda

La gloria di Dio e la croce di Gesù

prima volta l'espressione «il discepolo che Gesù amava» (v. 23): egli si trova «nel seno di Gesù» (cf 1 ,18), cioè al po­ sto d'onore più vicino al Maestro e può chinarsi sul suo pet­ to per chiedere chiarimenti (v. 25). Il gesto amichevole com­ piuto da Gesù di porgere un boccone a Giuda rivela chi sia il discepolo traditore: insieme con quel boccone l'evangeli­ sta afferma che Satana entrò in lui, cioè si impadronì del suo cuore per volgerlo contro il Maestro. Quindi Gesù lo invita a compiere presto quello che si accinge a fare (v. 27) e il nar­ ratore, sottolineando ancora una volta come i discepoli non comprendano il senso di quell'espressione, si sofferma con ironia a proporre due false interpretazioni che paradossal­ mente si rivelano entrambe vere, perché Giuda va a com­ prare l'agnello per la vera festa e provvede a dare qualcosa ai poveri (vv. 28-29) . «Preso il boccone, subito uscì. Ed era notte» (v. 30): la tragica annotazione della notte è molto di più della constatazione temporale, perché richiama simbo­ licamente sia il dramma cosmico della tenebra che vuole spegnere la luce, sia la tragedia personale del discepolo che, chiuso di fronte ad ogni proposta di Gesù, è diventato lui stesso la tenebra che rifiuta anche l'ultima occasione. Una nuova sezione (13,31 -35) è introdotta dalla ripresa dell'uscita di scena di Giuda, che viene spiegata da Gesù come il momento decisivo della glorificazione del Figlio (vv. 31-32). Questa tipica terminologia giovannea deriva dal concetto ebraico di kab6d (tradotto abitualmente «gloria») inteso come la qualità di chi «è pesante»: la gloria di Dio è quindi il suo peso influente sulla storia, ovvero la sua pre­ senza che può operare e di fatto opera. Pertanto la glorifi­ cazione del Figlio consiste proprio nella dimostrazione che Dio è presente e operante in Gesù: tale evento Giovanni lo identifica con il dramma della croce, che ormai - uscito Giu­ da - è inevitabilmente avviato. Quindi Gesù, usando per i discepoli il vocativo affettuoso «figlioli» (teknia, usato solo qui nel Vangelo, ma frequente nella l Giovanni), ribadisce, come aveva già detto ai Giudei (cf 7 ,34; 8,21 ), che dove va lui loro non possono andare: intende dire, in modo enigma162

tico, che «Va al Padre» e solo lui, in quanto è il Figlio, può attraverso la morte arrivare a Dio, cosa impossibile a chiun­ que altro. Come una breve parentesi compare a questo punto (vv. 34-35) il tema dell' agap e , proposto con la definizione di «comandamento nuovo» ( entolé kainé): come Gesù ha ama­ to i suoi, così loro potranno amarsi a vicenda, come segno distintivo e rivelativo dei suoi discepoli. La novità non sta nel comando, ma nel dono dell' agap e: l'amore del Padre è stato donato al Figlio e Gesù l'ha donato agli uomini, ren­ dendoli così partecipi dello stesso legame divino e capaci di intessere nuovi e buoni legami umani. Pietro interviene (13,36-38) a chiedere spiegazioni sulla destinazione di Gesù, il quale gli ripete semplicemente che «per ora» lui non può seguirlo, ma lo farà «più tardi». In­ tende dire che il discepolo non è in grado, con le proprie forze, di fare come Gesù, ma dopo l'evento decisivo della Pasqua riceverà la forza per imitarlo e raggiungerlo nella gloria. Pietro non capisce il senso di quelle parole e protesta la sua intenzione di seguire il Maestro, dichiarandosi dispo­ sto anche a dare la vita per lui. Ma Gesù lo gela, annuncian­ dogli con formula di asserzione che ben presto per tre volte addirittura negherà di conoscerlo.

La proposta nuova di Gesù

Non ora, ma più tardi

«Vado al Padre e vengo a voi» (c. 14)

Senza alcuna nota narrativa il discorso di Gesù ripren­ de (14,1-4) con l'invito: «Non sia turbato il vostro cuore» (v. la), che ritornerà identico come inclusione in fondo al capitolo (v. 27). Effettivamente i discepoli sono turbati, per­ ché Gesù ha annunciato la propria partenza, il tradimento di un discepolo, il rinnegamento di un altro e la loro comune impossibilità a seguirlo. A questo punto dunque le sue pa­ role offrono consolazione e rivelano il senso profondo di quello che accadrà; anzitutto però ribadisce che l'atteggia­ mento fondamentale dei discepoli deve essere quello della fede. Il Quarto Vangelo non adopera mai il sostantivo «fede» 1 63

Non sia turbato il vostro cuore

Credere in Dio e in Gesù

La via, la verità e la vita

Chi vede Gesù vede il Padre

(pistis) , ma sempre il corrispondente verbo pistéuein («cre­ dere»); proprio all'inizio di questa parte discorsiva troviamo un detto emblematico della teologia giovannea, che, con perfetto chiasmo letterario, propone l'identità fra Gesù e Dio: «Credete in Dio e in me credete» (v. 1b). Gesù prose­ gue quindi rivelando che l'andare al Padre comporta pre­ parare un posto per i discepoli, in modo che possano di nuo­ vo essere tutti insieme (vv. 2-3), e termina con una provo­ catoria allusione alla loro capacità di comprensione (v. 4). Il discepolo Tommaso lo interrompe, ammettendo in­ vece che non sanno dove Gesù stia andando, per cui non possono conoscerne la via (v. 5). Questo intervento offre la possibilità di una nuova auto-rivelazione di Gesù con un'altra solenne formula teoforica: «lo sono la via, la ve­ rità e la vita» (v. 6). Gesù in persona è la strada per arrivare al Padre ed è la rivelazione fatta carne ed è pure la meta a cui tutto tende, cioè la stessa vita divina. La teologia gio­ vannea sottolinea con forza che solo «per mezzo di Gesù » si può arrivare al Padre e solo attraverso di lui si può co­ noscere Dio. Con un 'altra allusione provocatoria alla co­ noscenza dei discepoli (v. 7) il discorso coinvolge abilmen­ te gli interlocutori. Questa volta è Filippo che interviene con una richiesta che dimostra di non aver ancora capito il messaggio di Gesù: «Mostraci il Padre e ci basta» (v. 8). La risposta di Gesù pro­ segue a lungo senza interruzioni (14,9-21), affrontando di­ verse tematiche. Per prima cosa, Gesù sostiene con fermez­ za che chi ha visto lui ha visto il Padre (v. 9) e quindi insiste sull'intima relazione che lo lega a Dio, rinviando alle opere da lui compiute come garanzia per credere a questa inaudita rivelazione (vv. 10-1 1). Con la formula di asserzione intro­ duce quindi un'altra idea, esplicitando la meta del suo viag­ gio in risposta alle domande dei discepoli: chi crede in Gesù compirà le stesse opere, anzi ne farà di più grandi ancora proprio perché egli «Va al Padre » (v. 12; cf 14,28; 16,28). Su­ bito dopo formula una promessa (vv. 13-14), che ritornerà altre due volte nel seguito (cf 15,16; 16,23-24): ogni preghie164

ra che i discepoli faranno «nel nome di Gesù», cioè in intima unione di intenti con lui, verrà esaudita. A questo punto (14,15-17) compare nel tessuto dei di­ scorsi d'addio la prima delle cinque profezie che riguardano il dono dello Spirito Santo, chiamato parakletos: la tradu­ zione CEI 1 974 traduceva «Consolatore», mentre l'attuale versione CEI 2008 ha conservato la parola greca, che indica l'avvocato difensore, colui che è stato chiamato vicino per difendere e sostenere. In 1 Gv 2,1 lo stesso titolo viene at­ tribuito al Cristo risorto in quanto garante ufficiale che di­ fende la nostra causa presso il Padre. È un termine che ri­ chiama il grande schema processuale del racconto giovan­ neo: l'attacco mosso a Gesù continua anche contro i suoi di­ scepoli, ma essi non sono soli. Dopo la glorificazione di Ge­ sù essi saranno assistiti da un «altro» Paraclito (v. 16): il pri­ mo è stato Gesù stesso e i discepoli lo conoscono perché egli dimora presso di loro. Dopo la risurrezione, però, egli sarà dentro di loro: non più una compagnia esterna, ma una pre­ senza interna. Questo avvocato è definito lo «Spirito della verità»: dal momento che nel linguaggio giovanneo Gesù è la verità, nel senso etimologico greco di a-létheia, cioè «non­ nascondimento», ovvero «rivelazione», ne consegue che lo Spirito della verità è lo Spirito di Gesù, strettamente unito alla sua persona e continuatore della sua opera. Tale promessa è confermata da un'altra (14,18-21 ), con cui Gesù annuncia di non lasciare orfani i discepoli, ma di «andare da loro» (v. 18): tale espressione indica la presenza, misteriosa e reale, del Cristo risorto dentro coloro che cre­ dono in lui. In forza dell'esperienza post-pasquale la comu­ nità giovannea esprime la propria consapevolezza della stretta unione del Figlio col Padre a cui anche l'umanità può partecipare (vv. 1 9-20), con la precisazione che tale vincolo d'amore richiede l'accoglienza e l'osservanza dei comandi di Gesù (v. 21). Il discorso è interrotto da Giuda, non l'Iscariota (14,22), il quale chiede perché Gesù non si riveli al mondo, ma solo ai discepoli: offre così lo spunto per una nuova sezione del 1 65

Prima profezia del Paraclito

Vengo a voi

I discepoli e il mondo

Seconda profezia del Paraclito

Vi lascio la mia pace

discorso (14,23-31), che riprende come una sinfonia diversi temi già accennati. Il Maestro si riallaccia a ciò che ha già detto ( v. 21) per ribadire come, nella relazione d'amore che unisce i credenti, il Padre e il Figlio «faranno dimora presso» il discepolo che custodisce la parola (v. 23) . La risposta alla questione posta dal discepolo spiega, seppur velatamente, che è l'amore a rendere possibile l'incontro e che il mondo che non riconosce Gesù coincide con chi non lo ama e non osserva le sue parole (v. 24). Una seconda profezia del Paraclito (14,25-26) spiega che le parole pronunciate da Gesù durante il suo ministero storico saranno tenute vive dalla presenza dello Spirito San­ to che il Padre manderà al posto di Gesù e in stretta conti­ nuità con lui. Il compito del Paraclito è caratterizzato da di­ versi verbi nelle varie profezie e in questo caso gli sono at­ tribuite le azioni di «insegnare» e di «ricordare». È impor­ tante osservare l'uso enfatico del pronome maschile ( ekéi­ nos, «quello» ) concordato con il sostantivo neutro pnéuma: questa stranezza grammaticale ha un risvolto teologico, dal momento che intende evidenziare la natura dello Spirito che agisce come persona, non come forza generica. È infatti un compito personale quello svolto dal parakletos che, come maestro, insegna ogni cosa: aiuta cioè a comprendere tutte le parole di Gesù, richiamandole alla memoria per renderle comprensibili. Ormai il primo discorso volge alla fine e Gesù saluta i suoi con la tipica formula ebraica che augura shal6m, cioè «pace» (v. 27), e precisa che la propria parola realizza in mo­ do divino la pace che augura: è per questa ragione che il cuore dei discepoli non deve essere turbato ( inclusione con 14,1 ). Gesù va al Padre ( cf 14,12) e contemporaneamente viene ai discepoli (v. 28) : non è corretto tradurre il greco ér­ chomai con «tornerò», perché è un presente e non indica ri­ torno, ma venuta. Il Cristo, risorgendo, arriva al Padre e, in forza di questo, entra in stretta comunione coi discepoli: perciò devono rallegrarsi. Ciò che sta per succedere - la tra­ gedia della croce - è ben noto a Gesù (v. 29), il quale attri166

buisce al «principe del mondo» (v. 30; cf 12,3 1 ; 16,11) la sua uccisione, sebbene questi non abbia potere su di lui: ciò che sta per accadere è infatti finalizzato a far sapere al mondo che Gesù ama il Padre e compie l'opera che gli è stata affi­ data (v. 31a) . La breve nota di chiusura determina una netta cesura nella serie dei discorsi d'addio: «Alzatevi, andiamo via di qui» (v. 31b). La seconda parte dei discorsi (cc. l5-16) È molto probabile che in un primo tempo il testo dei discorsi terminasse così e che la redazione finale abbia ag­ giunto un'altra sezione, composta di materiale proprio della tradizione giovannea e adattato al contesto della cena, per­ ché riguardante la vita della comunità stessa dopo la par­ tenza di Gesù. La nota conclusiva di 14,31 non rimase per errore, ma fu lasciata proprio come indizio di aggiunta re­ dazionale. In questa seconda parte dei discorsi si possono riconoscere tre blocchi principali: dapprima l'insegnamento allegorico sulla vite e i tralci, poi una serie di parole relative alle difficoltà con il mondo ed infine un'antologia di temi affini a quelli della prima parte.

Una sezione aggiunta

La vita della comunità al proprio interno (15,1 -17)

Il primo blocco tematico comprende l'allegoria cristolo­ gica della vigna, caratterizzata dal verbo «rimanere» (vv. 1-1 1 ), e il comandamento dell' agap e vicendevole (vv. 12-17). Senz'alcuna introduzione, il discorso inizia con la tipica for­ mula di auto-presentazione, cui si aggiunge un riferimento a Dio Padre: « lo sono la vera vite e il Padre mio è l'agricol­ tore» (v. 1). Secondo lo schema simbolico comune nell'AT Dio è presentato come il proprietario della vigna, che rap­ presenta il popolo: ora però Gesù si identifica con la vite, rivelando che non si può essere popolo di Dio prescindendo dal Cristo. Come nel definirsi «pastore» (cf 10,1 1 . 14) ha ag­ giunto l'aggettivo kal6s («bello») , così ora al termine «Vite» 1 67

Allegoria cristologica della vite

Il frutto

è diventare discepoli

Rimanete ne/ mio amore

aggiunge l'aggettivo alethiné ( «vera» ) : precisare che Gesù è la vera vite significa che tale allegoria è un'immagine di rivelazione, cioè aiuta a capire che Dio Padre è l'origine e il curatore di tutta la vicenda umana, mentre il Figlio si rivela come l'autentico Israele, dal momento che realizza le pro­ messe profetiche a favore dell'umanità e rende possibile portare molto frutto. La formula di auto-presentazione vie­ ne ripetuta con riferimento ai discepoli: «lo sono la vite, voi i tralci» (v. 5). L'impostazione dell'intero discorso è di tipo allegorico, in quanto ad ogni particolare dell'immagine agri­ cola corrisponde un analogo elemento della realtà persona­ le: l'agricoltore è il Padre, la vite è Gesù, i tralci sono i di­ scepoli. Al centro dell'attenzione sta il frutto prodotto dalla vigna e perciò vengono presentate alcune azioni tipiche del viticoltore: l'eliminazione dei tralci infruttuosi e la po­ tatura dei tralci fruttuosi. Che cosa significhi il frutto è chiarito nel v. 8: l'efficace azione del Padre si rivela nel fat­ to che gli uomini diventino discepoli del Figlio. Per questo si insiste sul verbo «rimanere» (ménein), che esprime l'im­ magine piena della comunione fra Gesù e il Padre, fra Ge­ sù e i discepoli: tale linguaggio, che percorre tutto il Quar­ to Vangelo, riguarda la relazione personale di ogni disce­ polo con Gesù, rivelando che solo in stretta unione a lui si può arrivare al Padre e realizzare la propria vita. Un'altra operazione evocata per allegoria è la potatura, che per­ mette una maggiore produzione: il verbo greco usato per definire quest'opera è «purificare» (kathairein), per mo­ strare come la parola di Gesù renda «puri» ( v. 3) i disce­ poli, rimuovendo lo scarto e rendendo possibile un frutto più abbondante. All'invito «Rimanete in me» (v. 4) se ne aggiunge un altro che aiuta ulteriormente la comprensio­ ne: «Rimanete nel mio amore» ( v. 9). L'origine di tutto è l'amore (agape) del Padre, effuso sul Figlio, il quale lo ha dimostrato nei confronti dei discepoli, che a loro volta han­ no sperimentato personalmente la sua capacità autentica di relazione. 168

La pericope successiva è inclusa dal comando dell'aga­ pe ( vv. 12 e 17). Il vocabolo «comandamento» traduce il greco entolé, che ha in realtà una sfumatura più delicata. Composto dalla preposizione en ( «in» ) e dalla radice del verbo téllein ( «mettere» ) , il termine corrisponde all'italiano «proposta» o - ancora meglio - all'inglese input: evoca una spinta all'azione, l'offerta di una possibilità buona di vita. Il comandamento di Gesù, infatti, coincide con la proposta del suo amore e non è un'imposizione esterna di precetti da eseguire per mezzo delle proprie forze umane: è l'amore con cui il Figlio ha amato i discepoli a renderli capaci di fare altrettanto. La forma plurale ( «i miei comandamenti»: 14,15 .21 ; 15,10) può alludere alle varie parole dette da Ge­ sù e ai vari modi con cui egli ha mostrato di amarli, ma cer­ tamente coincide con la formula al singolare (15,12) ado­ perata già in precedenza nella formula «comandamento nuovo» (13,34). Ai discepoli è chiesto di «custodire» (teréin) il dono ricevuto: non si tratta semplicemente di eseguire dei comandi, bensì di conservare la relazione di amicizia, resa possibile dalla generosità del Cristo. L'amore di Gesù non è solo "modello", ma soprattutto "causa" dell'affetto vicendevole fra i discepoli: l'agape ri­ velata dal messia rende coloro che l' accolgono capaci di uno stile analogo. E precisa che l'amore più grande sta nel dare la propria vita e Gesù è morto per quelli che non si meritavano nulla: l'amore di Cristo trasforma i nemici in amici ( v. 13). Divenuti amici per grazia, i discepoli sono esortati a custodire il dono e rimanere in tale disposizione, vivendo di fatto ciò che è stato proposto ( v. 14). Gesù, rive­ latore del Padre, ha fatto conoscere i segreti del cuore di Dio e da questo i discepoli comprendono che li ha trattati da amici ( v. 15). All'origine di tale relazione d'amicizia c'è la libera scelta del Signore, l'iniziativa è la sua e il fine desi­ derato è un frutto duraturo ( v. 16): ritorna di nuovo l'imma­ gine della vigna e, come già detto (v. 8), il frutto sta nel di­ ventare discepoli, ovvero amici; il grande frutto consiste in una vita profondamente legata al Cristo con tutti i benefici 1 69

Custodire la proposta dell'agape

L'amore di Gesù determina l'amore dei discepoli

che ne conseguono, perché se uno rimane in Cristo, chiede al Padre proprio quello che egli vuole e quindi ottiene tutto (cf 14,13-14; 16,23-24). La vita della comunità nello scontro con il mondo (15,18-16,4a) L'ostilità de/ mondo

Odio senza motivo

Terza profezia del Paraclito

Il secondo blocco tematico mette l'accento sull'atteg­ giamento ostile del mondo nei confronti dei discepoli di Ge­ sù e il discorso tocca da vicino la comunità giovannea, che al tempo della stesura del Quarto Vangelo sperimentava una situazione di duro conflitto. L'invito a ricordare le pa­ role dette da Gesù (v. 20) è indizio di un'esortazione rivolta al gruppo dei discepoli in difficoltà. Anzitutto viene propo­ sto un principio generale (15,18-19): il mondo, inteso in sen­ so negativo come «struttura terrestre corrotta», odia ciò che non è suo. Gesù non appartiene al mondo e perciò è stato odiato; di conseguenza anche i suoi discepoli devono met­ tere in conto la stessa reazione di odio. Attraverso l'invito a ricordare quanto detto da Gesù, la comunità giovannea viene richiamata alla memoria fondativa dell'esperienza stessa del Cristo, che serve per interpretare anche la vicenda dei discepoli (15,20-25). Con la citazione a senso di un ver­ setto biblico («Mi hanno odiato senza ragione»: Sal 35,19; 69,5) Gesù riassume il dramma del proprio ministero: pur avendo rivelato il Padre in modo fedele con le parole e con le opere, non è stato accolto, bensì perseguitato e odiato. Coloro che lo rifiutarono, però, «non hanno scusa per il loro peccato» (v. 22): sono volutamente ciechi, dal momento che chiudono gli occhi per non vedere la luce. La stessa dolorosa situazione di conflitto si ripete, nella storia, per i discepoli di Gesù. A questo punto viene inserita la terza profezia sul Pa­ raclito (15,26-27), che riprende alcune formule già adope­ rate in precedenza (14, 16-17.26) ma, mentre prima Gesù aveva detto che il Padre manderà lo Spirito Santo, ora af­ ferma di inviarlo egli stesso da parte del Padre. Con queste fini modifiche il redattore vuole evidenziare la ricchezza e 170

la complessità del mistero divino, mai esauribile da una sola formula. Lo Spirito, strettamente unito a Gesù-verità, ora viene presentato in relazione anche con il Padre, poiché «procede» (ek-poréuetai) da lui. Il compito del Paraclito è descritto come testimonianza in stretta correlazione con l'o­ pera dei discepoli: l'evangelista vuole evidenziare come die­ tro le dichiarazioni della comunità sia all'opera lo Spirito di Dio e di Gesù. Lo stesso termine parakletos riporta infatti ad un contesto giudiziario: nel processo contro Gesù nel corso della storia il testimone fondamentale è lo Spirito, che dà ai discepoli la forza e la capacità di testimoniare l'espe­ rienza che hanno vissuto. Il blocco tematico sul difficile rapporto con il mondo termina sottolineando lo scopo profetico delle parole di Ge­ sù ( 1 6 ,1-4a ) , per evitare che i discepoli restino scandalizzati quando diventeranno aposynagogoi ( 16,2; cf 9,22; 12,42), cioè scacciati dalla sinagoga e perseguitati per motivi religio­ si. È opportuno dividere il v. 4 in due parti: la prima (v. 4 a ) , infatti, chiude il discorso precedente con l'inclusione del te­ ma del ricordo, mentre la seconda parte (v. 4b) apre il blocco successivo, con il tema della partenza di Gesù.

Esclusione dalla sinagoga

«È bene per voi che io me ne vada» (16,4b-33)

Il terzo blocco letterario non è incentrato su un tema specifico, ma si presenta piuttosto come un'antologia di frammenti giovannei che la redazione finale ha sapientemente organizzato, riprendendo alcune importanti tematiche già affrontate nel c. 14. Anzitutto Gesù ripete l'affermazione cardine che giustifica un discorso d'addio: «Vado da colui che mi ha mandato» (v. 5); e tale notizia ha riempito di dolore il cuore dei discepoli (v. 6). Ma aggiunge una nuova rivelazione che spiega perché la sua partenza sia un bene. Incontriamo così la quarta profezia sul Paraclito ( 16,7-11 ) in cui Gesù promette che, una volta andato al Padre, potrà mandare ai discepoli lo Spirito: in tal modo l'evangelista ,

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Antologia di frammenti giovannei

Quarta profezia del Paraclito

Quinta profezia del Paraclito

teologo lega strettamente il dono dello Spirito Santo al mi­ stero pasquale, dal momento che esso consiste proprio nel «dare la vita», nel doppio senso che Gesù allo stesso tempo la perde e la comunica ad altri. Il compito del para-kletos in questo passo è propriamente processuale, perché consiste nel «dimostrare la colpa» del mondo: il verbo adoperato (elénchein) indica il ruolo dell'avvocato che prova la colpe­ volezza di qualcuno, e pertanto descrive l'azione dello Spi­ rito che convince «riguardo al peccato, alla giustizia e al giu­ dizio» (v. 8) . Questi tre vocaboli tecnici vengono quindi spie­ gati con tre versetti che sembrano una glossa interpretativa: il peccato consiste nel non credere in Gesù (v. 9); la giustizia è la dimostrazione che Gesù aveva ragione, come prova il suo andare al Padre (v. 10); infine, il giudizio si realizza nello smascherare la falsa vittoria del diavolo, che di fatto viene spodestato con la morte di Gesù ( v. 1 1 ) . U n versetto redazionale di transizione (16,12) ribadisce che l'insegnamento di Gesù è cresciuto nel tempo, perché durante la cena storica i discepoli non avrebbero potuto comprendere tutto quello che invece hanno capito nei de­ cenni seguenti, proprio grazie allo Spirito di Gesù che ha continuato a istruirli. Segue pertanto la quinta profezia sul Paraclito (16,1315), che insiste sui compiti dello Spirito Santo in quanto con­ tinuatore dell'opera di Gesù, rivelatore del Padre. Ai verbi «insegnare» e «ricordare» (14,26) ne vengono aggiunti altri quattro: «guiderà» a tutta la verità, «dirà» tutto ciò che avrà udito, «annuncerà» le cose future e «glorificherà» Gesù. L'opera del Cristo, infatti, ha bisogno di essere capita e sen­ za lo Spirito della verità i discepoli non possono giungere alla comprensione piena del vangelo e del senso della storia: lo Spirito quindi glorifica il Cristo, perché ne mostra la reale presenza e potenza in tutte le vicende del tempo, tenendo viva e rendendo efficace la sua parola. Un breve frammento dialogico (16,16-19) presenta la discussione dei discepoli sull'enigmatica frase di Gesù: « Un poco e non mi vedrete più; un poco ancora e mi vedrete» 172

(v. 16). Non capiscono che cosa significhi «Vado al Padre» (cf 16,5.10), né l'espressione «Un poco»: il brano non aggiun­ ge messaggi, ma funge da intermezzo, che sottolinea le dif­ ficoltà di comprensione degli ascoltatori e prepara un inter­ vento chiarificatore del Maestro. Come spiegazione, introdotta dalla formula di asserzio­ ne, Gesù propone uno splendido quadretto apocalittico (16,20-22), che evoca il cambiamento della situazione dal dolore alla gioia. L'immagine della donna partoriente, che passa dai dolori del parto alla gioia di dare alla luce un uo­ mo, anticipa in modo commovente il dramma pasquale: la morte di Gesù infatti sarà come un doloroso parto che farà nascere l'uomo nuovo. Il messia stesso passerà attraverso questi dolori e i suoi discepoli, solidali con lui, vivranno un analogo capovolgimento: ma la stessa dinamica si ripeterà anche in futuro nello scontro con il mondo, quando la co­ munità giovannea potrà sperimentare come, nonostante la sofferenza, la tristezza si cambi in gioia. La prospettiva pa­ squale del «vedere di nuovo» il Cristo risorto ha a sua volta una dimensione escatologica e allude alla gioia piena che nessuno potrà togliere. Una breve aggiunta sulla preghiera (16,23-24) ribadisce che nel giorno escatologico i discepoli non domanderanno più nulla, ma per quanto riguarda il corso della storia vale ciò che è già stato detto due volte ( cf 14,13-14; 15,16): tutto ciò che è chiesto «nel nome di Gesù», cioè in piena unione con lui, verrà accordato dal Padre, perché i discepoli siano persone contente e realizzate. Infine troviamo un'ultima unità letteraria ( 1 6,25-33) racchiusa dalla ripetizione: «Vi ho detto queste cose». In ta­ le testo conclusivo Gesù annuncia che viene l'ora della ri­ velazione, in cui si passa dal parlare «in modo velato» ( en paroimiais, «in proverbi» ) al parlare «apertamente» (parre­ sia, «con franchezza» ) . Dopo la Pasqua, infatti, verranno su­ perati gli enigmi e le similitudini e, guidati dallo Spirito della verità, i discepoli comprenderanno con chiarezza la rivela­ zione di Gesù sul Padre, ma soprattutto vivranno con lui 173

L'immagine della donna partoriente

La preghie­ ra efficace

La piena rivelazione

Coraggio: io ho vinto il mondo!

un'autentica relazione di figli, che sono amati e amano. L'ul­ tima parola del discorso d'addio è un deciso incoraggiamen­ to ai discepoli, perché abbiano la forza di affrontare le tri­ bolazioni causate dal mondo: il coraggio dei discepoli con­ siste dunque nel partecipare al combattimento di Cristo, che con la sua Pasqua ha già vinto il mondo, per essere a loro volta vincitori. La preghiera «sacerdotale» (c. 1 7)

Struttura concentrica

Conoscere il Padre e Gesù Cristo

Alla fine dei discorsi ambientati durante la cena l'evan­ gelista Giovanni colloca una lunga orazione di Gesù che, a partire dal commentario di Cirillo d'Alessandria, è stata de­ finita «preghiera sacerdotale>>. Questo titolo è dovuto so­ prattutto all'espressione centrale, in cui Gesù afferma di «consacrare se stesso» (17,19) quale atto sacerdotale supre­ mo compiuto da colui che, essendo vero Dio e vero uomo, risulta mediatore perfetto, capace di collegare veramente Dio e l'umanità. La preghiera di Gesù è letterariamente ben strutturata, secondo un procedimento - tipico di Giovanni - che si chia­ ma parallelistico-concentrico: infatti, alcuni indizi testuali mostrano un'articolazione in cinque parti in rapporto fra di loro. La prima e la quinta parte si corrispondono, in quanto segnate dal tema della conoscenza e della gloria; analoga­ mente la seconda e la quarta parte iniziano con espressioni simili ( «Prego per loro» - «Non prego solo per questi» ) e contengono l'intercessione orante a favore dei discepoli; in­ fine, la parte centrale, con il riferimento alla consacrazione sacerdotale, costituisce il cuore teologico della preghiera. La prima parte (17 ,1 -8) è segnata dal tema della cono­ scenza e della gloria. La preghiera si apre con il vocativo «Padre», che ritorna con insistenza anche nelle frasi seguen­ ti (vv. 1 .5 . 1 1 .21 .24.25): perciò questo testo è stato conside­ rato il Padre nostro secondo Giovanni, in quanto esprime la medesima relazione filiale che unisce Gesù a Dio e che da Gesù viene comunicata ai suoi discepoli. Anzitutto, egli af174

ferma che l'ora tanto attesa ormai è giunta; quindi precisa che il suo obiettivo è il dono della «vita eterna», che consiste nel conoscere le divine relazioni. Con variazioni su questo tema la preghiera ribadisce come Gesù abbia portato a com­ pimento (cf 13,1; 19,30) l'opera affidatagli dal Padre per ma­ nifestare agli uomini il suo nome: ora i discepoli conoscono la rivelazione, l'hanno accolta e hanno creduto. La seconda parte (17 ,9-16) inizia con un'esplicita for­ mula di preghiera: «Prego per loro». Gesù prospetta al Pa­ dre la diversa situazione in cui i suoi discepoli verranno a trovarsi dopo la Pasqua e perciò lo supplica non per il mon­ do incredulo, ma per i discepoli credenti, e chiede di conti­ nuare a custodirli in comunione con sé, affinché diventino «una cosa sola», cioè partecipino alla stessa vita divina. Al­ l'inizio e alla fine di questa unità viene messo particolar­ mente l'accento sul tema del mondo, che - in senso propria­ mente giovanneo - indica la struttura terrena corrotta: Gesù precisa che i discepoli non appartengono a questo sistema negativo, ma poiché concretamente vivono in esso hanno bisogno di essere custoditi dal maligno, proprio come dice l'ultima invocazione del Padre nostro (cf Mt 6,13). La parte centrale (17,17-19), cuore teologico della pre­ ghiera, contiene l'importante riferimento alla consacrazione sacerdotale. Al centro di tutto sta la missione nel suo dupli­ ce aspetto: Gesù è stato mandato dal Padre nel mondo e a sua volta manda i discepoli nel mondo. Il senso e la forza di tale missione si trovano nella «consacrazione»: per tre volte nel giro di pochi versetti infatti l'evangelista adopera il ver­ bo greco haghùizein, che viene tradotto «consacrare» e de­ riva da haghios («santo»). In sintonia con il linguaggio bi­ blico, presente soprattutto nella tradizione sacerdotale, Giovanni adopera il concetto di «santità» come qualifica es­ senziale di Dio per designare la sua straordinaria modalità di esistere e di agire. Se da parte di Dio la consacrazione consiste nell'abilitare alla missione, Gesù aggiunge all'opera del Padre la sua personale accoglienza e realizzazione. Dato che la preposizione hypér («a favore di») ha una connota175

Prego per loro

Per foro consacro me stesso

Prego non solo per questi

Conoscere Gesù e il Padre

zione sacrificate ed è utilizzata per indicare il vantaggio de­ rivato dal sacrifico di espiazione, la formula giovannea al­ lude alla morte di Gesù come all'evento culmine della sua missione, prova definitiva del suo amore obbediente per il Padre. La quarta parte (17,20-23) riprende la formula di pre­ ghiera con cui era iniziata la seconda parte, ma ne amplia l'orizzonte: «Non prego solo per questi». Gesù pensa anche a tutti i futuri discepoli e per loro chiede il dono di essere «una cosa sola», uniti cioè nell'amore che lega il Padre e il Figlio. Caratteristica di questa sezione è l'insistenza sull'u­ nità mistica che coinvolge quanti credono nella relazione delle divine persone: l'espressione «perfetti nell'unità» ( in greco: teteleioménoi eis hén; in latino: consummati in unum) indica un processo di maturazione che conduce gli uomini a diventare partecipi della vita divina, unificata dall'agape (v. 23). Questa condizione dei discepoli, insieme mistica e sociale, diviene il mezzo mediante cui il mondo può cono­ scere e credere che Gesù è stato mandato dal Padre. Infine la quinta parte (17 ,24-26) ritorna, come la prima, ad insistere sul tema della conoscenza. Anche la gloria viene ripresa ed evocata come la condizione primordiale del Fi­ glio: ad essa Gesù vuole che partecipino anche i suoi disce­ poli. A differenza del mondo, essi hanno conosciuto il nome - cioè la realtà personale - del Padre e hanno creduto che da lui è stato mandato il Figlio: il compito del Figlio come rivelatore viene ribadito alla fine, nell'intenzione di river­ sare nei discepoli quello stesso amore che unisce le persone divine. 18,1-19,42: Il racconto della passione

Nel raccontare gli eventi pasquali del Cristo, Giovanni segue l'antica narrazione - nata dalla diretta testimonianza apostolica - presente anche nei Sinottici, ma imprimendo a tutto l'insieme una connotazione propria e particolarmente originale: l'immagine che il quarto evangelista offre non in1 76

tende essere la descrizione delle sofferenze di un condannato, ma piuttosto mostrare nella croce, mediante l'impiego di fini pennellate simboliche, la gloria del re e giudice universale. Pur essendo un testo storicamente fondato, si presenta tuttavia come descrizione teologica, che indica la morte del Cristo come momento di esaltazione e trionfo. La struttura del racconto è facilmente riconoscibile sul­ la base delle scene che vengono a delinearsi grazie ad altret­ tanti cambiamenti di luogo, per cui cinque diverse ambien­ tazioni determinano cinque distinti quadri narrativi: - 18,1-1 1 : l'arresto in un giardino; - 18,12-27: l'interrogatorio nella casa di Anna; - 18,28-19,16: il processo nel pretorio di Pilato; - 19,17-37: la crocifissione sul Golgota; - 1 9,38-42: la sepoltura in un giardino. L'ambientazione in un giardino, che segna l'inizio (18,1) e la fine (1 9,41) del racconto, determina un'inclusione, volta ad imprimere a tutto l'insieme un andamento concentrico: il quadro centrale - il processo romano - è quello più ampio e complesso, incentrato sul tema cardine della regalità di Gesù.

La gloria della croce

Struttura

Nel giardino, la ricerca (18, 1 -11)

Il primo quadro non racconta propriamente l'arresto del Cristo ma piuttosto l'affrontarsi di due gruppi, distinti e contrapposti: Gesù con i suoi discepoli e Giuda con i soldati. Dopo l'introduzione che presenta i due gruppi (vv. 1-3), segue un primo dialogo fra Gesù e gli avversari (vv. 4-6) , quindi un secondo dialogo in cui Gesù evidenza il rapporto con i suoi discepoli ( vv. 7-1 1 ) . L'inizio del racconto contiene una formula di transizione («Dopo aver detto queste cose») che serve come raccordo redazionale per unire i discorsi d'addio col blocco narrativo della passione, che doveva avere un'originale autonomia. Viene subito presentato il luogo in cui avviene la scena: un giardino (képos), che richiama il primordiale giardino 177

Primo quadro

Due gruppi contrapposti

Chi cercate?

Berrò il calice

dell'Eden. Il particolare giovanneo di «lanterne e fiaccole» evoca un contesto tenebroso, che rimanda alla simbologia della lotta fra la luce e le tenebre. Il personaggio di Gesù domina l'evento con maestosa autorità: è cosciente di quello che sta per succedere, quindi liberamente prende l'iniziativa e dà ordini. Il primo dialogo inizia con una significativa domanda di Gesù («Chi cercate?», v. 4), la stessa che aveva posto ai primi discepoli all'inizio (1 ,38) e che porrà di nuovo alla Maddalena alla fine (20,15): dietro all'apparente banalità l'evangelista vuole richiamare il grande tema della «ricerca» come motivo fondamentale del desiderio umano. Gesù non si nasconde, ma si presenta con la tipica formula di auto-ri­ velazione («lo Sono», vv. 5.6.8). La reazione degli avversari («indietreggiarono e caddero a terra») è descritta con un'immagine tratta dai salmi (cf Sal 9,4; 27,2; 56,10), per pre­ sentare in anticipo il trionfo di Gesù ed evocare la lotta esca­ tologica fra bene e male. D opo questa scena teologica e prolettica il secondo dialogo, che inizia nello stesso modo del primo, verte sulla relazione di Gesù coi suoi discepoli: anzitutto opera per la salvezza dei suoi e mantiene quello che aveva promesso (cf 17,12 ); poi, di fronte alla reazione violenta di Simon Pie­ tro, lo corregge, richiamando la propria libera accettazione del calice che il Padre gli ha dato. Con questo quadro forte­ mente simbolico Giovanni introduce il racconto teologico della passione. Nella casa di Anna, l'interrogatorio e il rinnegamento (18,12-27)

Secondo quadro

Il secondo quadro presenta un doppio interrogatorio che avviene nella casa di Anna: mentre all'interno Gesù vie­ ne interrogato (vv. 19-24), all'esterno è Pietro ad essere in­ terpellato (vv. 17-18.25-27). La scena inizia con un racconto di transizione, in cui si accenna all'arresto di Gesù (v. 12) e alla sua comparizione davanti al tribunale giudaico (vv. 13178

14), per poi descrivere anche l'ingresso dell'altro personag­ gio (vv. 15-16). Dopo l'introduzione dunque l'interrogatorio di Gesù è inquadrato da due interrogatori di Pietro; la scena centrale è a propria volta strutturata in cinque quadri con­ centrici: a) Anna interroga Gesù; b) Gesù risponde; c) un servo dà uno schiaffo a Gesù; b') Gesù risponde; a') Anna manda Gesù a Caifa. Il Quarto Vangelo conosce il processo giudaico davanti al sommo sacerdote Caifa, ma non lo racconta: propone in­ vece un incontro con il potente suocero di Caifa, che effet­ tivamente governava il sinedrio; non narra però un proces­ so, bensì uno scontro che riguarda la dottrina di Gesù e i suoi discepoli. Dopo aver introdotto il personaggio princi­ pale il narratore si dilunga a descrivere come anche Pietro abbia potuto entrare nel cortile del sommo sacerdote: il ruo­ lo decisivo è giocato da un altro, anonimo discepolo, noto al sommo sacerdote, che i lettori fin dall'antichità identifi­ cano con il discepolo amato, testimone dei fatti e autore del racconto evangelico. L'argomento dell'interrogatorio davanti ad Anna è la dottrina di Gesù: egli non riassume un contenuto teologico, ma risponde descrivendo il proprio insegnamento come pubblico e non esoterico; rimanda quindi ai propri discepoli come autorevoli testimoni. È un dato importante della tra­ dizione giovannea: per conoscere la dottrina di Gesù biso­ gna chiedere alla vivente comunità che da lui deriva. Al cen­ tro di tutto il quadro si staglia il gesto simbolico dello schiaffo che un servo assesta a Gesù: è un segno di oltraggio e di umiliazione, che rappresenta il rifiuto della rivelazione da parte delle autorità giudaiche. A tale rifiuto Gesù reagi­ sce con una domanda, implicitamente rivolta a tutti i Giudei increduli, che può essere parafrasata così: «Se la rivelazione che ho portato è cattiva, dimostralo. Se è buona perché la rifiuti?». 179

Struttura

La dottrina di Gesù e lo schiaffo di rifiuto

La cornice col discepo!D che rinnega

Il dramma di tutta la scena però è condensato nella cor­ nice, in cui viene raccontato il rinnegamento di Pietro. Men­ tre Gesù rinvia ai propri discepoli come frutto del proprio insegnamento, all'esterno Pietro nega di essere suo disce­ polo_ Il Maestro aveva risposto «lo Sono»; al contrario ora il discepolo, con atteggiamento «anti-divino», risponde «Non sono» (vv. 17.25). Il contrasto è notevole e l'abilità narrativa di Giovanni fa sì che l'atteggiamento del discepolo sembri un autentico schiaffo morale al Maestro. Per due volte, infatti, il narratore insiste sul fatto che Pietro «si scal­ dava» (vv. 18.25): particolare simbolico che richiama il fred­ do interiore del discepolo, incapace di seguire e imitare il Maestro. In questo secondo quadro dunque Gesù viene pre­ sentato come il rivelatore rifiutato: sia dai Giudei con lo schiaffo, sia dai suoi stessi discepoli con il rinnegamento. Nel pretorio di Pilato, il processo romano (18,28-1 9,16)

Terzo qua­ dro, centrale

Struttura

Il terzo quadro costituisce la sezione centrale: ambien­ tata nel pretorio di Pilato, si struttura in sette scene, deter­ minate dai verbi di movimento ( «uscire» ed «entrare» ) , che permettono di distinguere quattro scene all'aperto e tre al­ l'interno. Una breve introduzione (1 8,28) narra lo sposta­ mento dalla casa di Caifa nel pretorio e precisa che l'azione inizia «all'alba» della vigilia di Pasqua. Le scene si susseguo­ no in modo rapido e coerente, lasciando intravvedere una struttura parallela e concentrica: a ) Pilato esce e parla coi Giudei; b ) Pilato entra e parla con Gesù; c) Pilato esce e parla coi Giudei; d ) l'incoronazione; c' ) Pilato esce e parla coi Giudei; b' ) Pilato entra e parla con Gesù; a' ) Pilato esce e parla coi Giudei. Al centro della sezione si trova l'incoronazione di spine: in virtù della sua posizione quindi tale scena risulta il cuore di tutto il racconto della passione. La dinamica del racconto 1 80

ha però anche uno sviluppo progressivo che culmina nell'ul­ tima scena, dove troviamo un'altra indicazione di tempo (19,14: «verso mezzogiorno»): l'intero episodio è racchiuso nell'arco di sei ore, che coincidono con l'ascesa del sole. Il riferimento simbolico al trionfo pasquale di Cristo-luce è molto probabile. La prima scena (18,29-32) introduce semplicemente i personaggi: i Giudei consegnano Gesù a Pilato e gli chiedo­ no di condannarlo a morte come «malfattore», dal momen­ to che al sinedrio non è lecito emettere una sentenza capi­ tale. Di questo fatto a Giovanni interessa soprattutto il si­ gnificato teologico: se la condanna viene emessa dai Roma­ ni, Gesù sarà innalzato sulla croce e il narratore interviene (v. 32) per sottolineare che in tal modo si compie ciò che egli stesso aveva preannunciato (cf 12,33). Quindi Pilato entra nel pretorio e ha inizio la seconda scena (18,33-38a), occupata da un dialogo fra Gesù e il go­ vernatore. In esso Giovanni mette in evidenza il tema della regalità, che prende le mosse dal titolo «Re dei Giudei», for­ mula equivoca che può essere intesa in modi differenti: Ge­ sù la rielabora, accettando il titolo ma al tempo stesso inter­ pretandolo in senso originale. Il suo potere regale non trae origine dalla struttura terrestre, ma la sua regalità consiste nella rivelazione, nel comunicare Dio agli uomini. Per Gio­ vanni, infatti, il regno di Dio consiste proprio nella comuni­ cazione della vita di Dio. Pilato pone una domanda fonda­ mentale («Che cos'è la verità?»), ma non aspetta alcuna ri­ sposta: i lettori del Quarto Vangelo sanno che Gesù in per­ sona è la verità, perché rivelatore del Padre. In questo senso teologico egli è re; ma ciò non costituisce alcun reato contro Roma e Pilato lo comprende bene. La terza scena (18,38b-40) torna all'esterno. Pilato an­ nuncia ai Giudei che l'interrogatorio non ha fatto emergere alcuna colpa grave, perciò propone come via d'uscita la li­ berazione del prigioniero secondo l'usanza pasquale; i Giu­ dei rifiutano e chiedono il rilascio di Barabba. Con uno stringato intervento il narratore lo definisce «Un brigante» 1 81

I Giudei consegnano Gesù

La regalità di Gesù e la verità

I Giudei scelgono Barabba

Centro: incorona­ zione del re

Ecco l'uomo!

L'origine di Gesù

(lestés) : il termine potrebbe alludere ad uno zelota, ovvero un falso messia rivoluzionario, che i Giudei scelgono al po­ sto del vero re. Siamo così al centro della sezione (19,1-3) che mette in scena azioni altamente simboliche: l'irrisione dei soldati che vestono Gesù da re e lo salutano come tale, attraverso la paradossale ironia giovannea, finisce per esprimere la realtà più profonda. I tre temi regali ( l'incoronazione, il mantello di porpora e il saluto ) sono incorniciati da due gesti di vio­ lenza ( la flagellazione e gli schiaffi ) : dal fatto realistico l'e­ vangelista ha colto un risvolto simbolico, in cui riconosce una prima intronizzazione regale di Gesù. Nella quinta scena (19,4-7) Pilato esce di nuovo e, riba­ dendo di non trovare in lui alcuna colpa, presenta quindi Gesù con gli attributi del re ( corona e porpora ) : «Ecco l'uo­ mo ! » . Potrebbe essere una affermazione banale, del tipo: «Eccolo qui, questo straccio di uomo. Tanto clamore per uno del genere?». Ma in Giovanni nulla è banale, per cui conviene leggere in questa formula la presentazione del mo­ dello ideale di uomo . Forse vi soggiace addirittura il concet­ to di Figlio dell'uomo, figura escatologica del sovrano de­ stinato a regnare per sempre. I Giudei contestano tale pre­ sentazione e con forza chiedono la crocifissione del prigio­ niero; Pilato si rifiuta, perché non trova un motivo valido per la condanna a morte. Perciò i Giudei sono costretti ad esplicitare finalmente l'accusa teologica: la colpa di Gesù è quella di essersi fatto «Figlio di Dio». Pilato rientra nel pretorio con Gesù ed inizia la sesta scena ( 1 9,8- 12): il governatore, posto di fronte al divino, prova un senso di paura e interroga l'imputato in merito alla sua origine. Questa volta la questione non è la regalità di Gesù, ma la sua natura o essenza. Adoperando l'avverbio interrogativo pothen ( «da dove?» ) , che ricorre in passaggi significativi del Quarto Vangelo, Pilato formula la domanda decisiva per comprendere davvero Gesù. Ma l'imputato non risponde e il giudice, indispettito, vanta il proprio potere. È a questo punto che Gesù gli parla, non per sostenere l'ori1 82

gine divina del potere ma per affermare il progetto divino che Pilato sta compiendo senza saperlo: per questa ragione sono responsabili di un peccato più grave coloro che hanno rifiutato la rivelazione in modo consapevole. Mentre Pilato pensa di liberare il prigioniero, una subdola minaccia dei Giudei lo costringe a cedere: non volendo rischiare di essere accusato di connivenza con un rivoltoso, sceglie di essere «amico di Cesare» (v. 12), contrapponendosi così al testi­ mone per eccellenza, Giovanni Battista, che aveva scelto di essere «amico dello Sposo» (3,29). Nella scena finale (19,13-16) troviamo il punto culmi­ nante del processo, in cui non si parla di condanna, bensì della solenne proclamazione della regalità di Gesù. Pilato conduce fuori Gesù per presentarlo alla folla: se il verbo greco ekathisen (v. 13) si intende in senso transitivo, la scena risulta più efficace, in quanto il governatore «fa sedere» Ge­ sù sulla tribuna ( béma ) , la cattedra di pietra su cui doveva sedersi il giudice, e lo propone ai Giudei come «il loro re». Il narratore offre quattro preziosi dettagli su questo fatto, che evidentemente ritiene molto importante: precisa infatti che il luogo si chiama Lith6strotos (come il pavimento del tempio in 2Cr 7,3 e il trono di Salomone in Ct 3,10), aggiun­ ge pure il nome aramaico Gabbatà (che significa «altura» e corrisponde a Golgota ) , annota che la scena si svolge nel giorno della Paraskeué («preparazione») e registra che è l'o­ ra sesta (l'imperfezione che tende alla pienezza). Secondo il consueto modo di raccontare giovanneo, questi particolari hanno anche un valore simbolico e danno solennità all'e­ vento: Gesù è assiso in trono e, nonostante l'intenzione di Pilato sia prevedibilmente di mostrare, in tal modo, disprez­ zo sia per lui sia per i Giudei, il fatto costituisce una figura significativa del giudizio escatologico che si sta realizzando. Avviene così la preparazione della Pasqua autentica, quella definitiva. I Giudei rifiutano con durezza la proposta del go­ vernatore e invocano la condanna a morte dell'imputato: la loro ultima parola, messa in bocca esplicitamente ai «capi dei sacerdoti», suona come un'autentica bestemmia, giacché 1 83

Ecco il vostro re!

I Giudei rinnegano Dio come re

- riconoscendo Cesare come loro unico re - essi rinnegano il Signore come re e rompono così l'impegno dell'alleanza. In tal modo il giudizio è consumato. Senza che si parli di sentenza e di condanna, la scena termina con la consegna di Gesù e il narratore, ironicamente, fa notare che in questo caso i Giudei lo accolsero (parélabon: cf 1 ,1 1 ) . Sul Golgota, la crocifissione (1 9,1 7-37) Quarto quadro

La scritta

La tunica

Senza raccontare alcun particolare della via crucis, Giovanni accenna solo allo spostamento e con una breve anno­ tazione di passaggio (1 9,17-18) introduce il quarto quadro (19,17-37), ambientato nel luogo che in greco viene detto «del Cranio» (Kranfou), mentre in aramaico si chiama «Golgota», che significa ugualmente «teschio», alludendo alla forma della collinetta fuori città dove avvenivano le cro­ cifissioni. Anche il racconto della crocifissione è ridotto al­ l'essenziale, con la sola sottolineatura che Gesù assume la posizione centrale in mezzo ad «altri due», non meglio iden­ tificati. Nell'intero quadro non si riconosce una particolare struttura, ma semplicemente sono identificabili cinque epi­ sodi successivi, che con diverse sfumature caratterizzano lo stesso decisivo evento della croce. La prima scena (19,19-22) è dedicata alla scritta posta sulla croce, per riprendere il tema della regalità di Gesù. L'attenzione del narratore è posta sul verbo «scrivere» e il fatto storico viene riproposto con valore simbolico: i Giudei infatti propongono di scrivere che la regalità di Gesù è sog­ gettiva, in quanto opinione solo sua, mentre invece Pilato proclama di voler mantenere l'affermazione che egli è og­ gettivamente il re dei Giudei. Il documento romano resta come perenne monito a chi ha rifiutato la regalità di Gesù. La seconda scena (19,23-24) riguarda la tunica senza cuciture. L'insistenza su questo particolare rivela un valore simbolico, che il lettore è invitato a riconoscere: nella Bibbia infatti la lacerazione della veste era un simbolo di divisione (cf 1 Re 1 1 ,29-31), mentre qui il caso è esattamente l'oppo1 84

sto. È importante notare l'uso del verbo schizein («spezza­ re»), da cui deriva il sostantivo schfsma («divisione»): men­ tre fra i Giudei c'era divisione riguardo a Gesù, il mantello di Gesù tessuto tutto d'un pezzo non viene diviso, così come intatta resterà la rete piena di pesci (21 ,11). La rilettura pa­ tristica sembra dunque effettivamente presente nell'intento simbolico del testo: quella tunica conservata intatta allude all'unità che il Cristo produce con la sua morte (cf 1 1 ,51), realizzando il raduno escatologico dell'umanità. Nella terza scena (19,25-27) sono protagonisti la madre e il discepolo: questo episodio costituisce il centro della sezione e rappresenta il vertice dell'opera messianica, a conclusione del quale si riconosce che tutto è compiuto. Nella dinamica del racconto è riconoscibile lo schema di rivelazione, con cui Gesù manifesta la nuova relazione che lega la madre e il discepolo. Il titolo «donna» richiama il simbolo femminile per antonomasia che nella tradizione profetica indicava la comunità dell'alleanza, redenta e riscattata: la madre quindi personifica il «resto santo d'Israele» che ha preceduto il messia e lo ha generato; d'altra parte il discepolo amato è figura della comunità giovannea, cioè la realtà ecclesiale che deriva da Gesù e ne continua l'opera. La parola di Cristo esprime dunque un trasferimento di proprietà e significa il collegamento fondamentale tra il passato e il futuro, tra l'antico e il nuovo popolo. In questo evento Giovanni riconosce il raduno escatologico dell'umanità e l'e­ spressione «da quell'ora», sottolineando un nuovo inizio, indica il compimento della missione di Gesù. Infine, la pre­ cisazione del discepolo che accoglie la madre indica come la comunità del discepolo, avendo accolto l'alleanza realizzata da Gesù, sia legittimamente erede dell'antica alleanza. La quarta scena (19,28-30) mette in rapporto la sete di Gesù col dono dello Spirito. Il narratore indica che il com­ pimento della Scrittura non consiste nella sete, ma piuttosto nell'evento messianico, appena narrato, della madre e del discepolo: quindi la sete fisica di Gesù è segno di un'altra sete, cioè il grande desiderio di compiere l'opera del Padre 1 85

La madre e il discepolo

La sete

Il sangue

e l'acqua

Il ruolo del discepolo testimone

bevendo il suo calice. Come alla samaritana aveva chiesto da bere, promettendo però di dare acqua viva ( 4,10), così ora sulla croce è Gesù colui che dà da bere, cioè consegna lo Spirito. La reazione dei presenti non comprende il senso profondo e si ferma alla sete fisica; la spugna tuttavia non viene messa su una canna, bensì su un fascio di issopo, con allusione al sangue dell'agnello pasquale ( cf Es 12,22). L'ul­ tima parola che Giovanni mette in bocca a Gesù ( « È com­ piuto - tetélestai») indica il raggiungimento del fine (télos, cf 13,1) e il definitivo compimento del progetto divino. A questo punto il narratore non dice che Gesù spirò, ma che «consegnò lo spirito» ( v. 30): non è una formula abituale per indicare la morte, ma una costruzione originale, che adope­ ra il verbo della consegna e della tradizione per dire che Ge­ sù, morendo, fa vivere. Questo è il compimento della rive­ lazione: comunicare all'umanità la vita stessa di Dio. Nella quinta scena (19,31-37) il sangue e l'acqua indica­ no il compimento della nuova alleanza con una forte sim­ bologia cristologica. Una breve introduzione ( vv. 3 1-32) ri­ corda ciò che i soldati non fecero ( «non gli spezzarono le gambe» ) e ciò che invece fecero ( «uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco» ) : in tal modo il testimone oculare può riferire che «ne uscì sangue e acqua» (v. 34). Questa rea­ zione fisica dev'essere intesa, secondo il simbolismo giovan­ neo, come compimento della promessa di acqua viva: c'è in­ fatti netta corrispondenza fra la fuoriuscita dell'acqua e il dono dello Spirito. Strettamente unito all'acqua c'è però il sangue, segno della vita donata, a rivelare che lo Spirito San­ to è legato alla vita stessa di Gesù. A questo punto ( v. 35) l'evangelista interviene direttamente nel testo per sottoli­ neare l'importanza degli eventi e garantire la piena atten­ dibilità del discepolo testimone - che narra i fatti e ne offre un'interpretazione vera - precisando inoltre che il fine di tutto è la fede dei destinatari del Vangelo ( cf 20,30-31 ) . Quindi, alla luce delle Scritture, spiega i due fatti appena menzionati (vv. 36-37): l'allusione al rito pasquale in cui non si spezzano le ossa dell'agnello ( cf Es 12,46) perm_e tte di ri1 86

conoscere in Gesù il vero agnello pasquale ( inclusione con la testimonianza di Giovanni Battista in 1 ,29), mentre il te­ sto di Zc 12,10 ( «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» ) aiuta a comprendere il crocifisso come la sorgente dello spirito di grazia e consolazione, oggetto della fede da contemplare per tutte le future generazioni dei credenti. Nel giardino, la sepoltura (1 9,38-42)

Il quinto quadro racconta la sepoltura di Gesù: ambien­ tato di nuovo in un giardino, fa inclusione con l'inizio e con­ clude il racconto con una grande calma. Compare anzitutto il personaggio di Giuseppe di Arimatea, descritto come un discepolo di Gesù, che fino a questo momento si è tenuto nascosto per paura dei Giudei: ora trova il coraggio di com­ promettersi, ricuperando il corpo di Gesù per evitargli la fossa comune. Torna poi sulla scena Nicodemo, il notturno visitatore, che adesso viene allo scoperto e si compromette definitiva­ mente per Gesù: è lui che porta una quantità enorme di oli profumati per offrire al crocifisso una sepoltura regale. So­ no quindi costoro - e non i discepoli più intimi - a compiere i riti funebri, avvolgendo il corpo di Gesù con teli secondo gli usi giudaici: con questa sottolineatura il narratore si pre­ para a descrivere la posizione dei teli funebri ritrovati nel sepolcro vuoto (20,5-7). L'attenzione del racconto si rivolge infine all'ambiente in cui la scena si conclude, con una nota finemente simbolica (v. 41): il luogo dove Gesù è stato crocifisso e dove viene se­ polto è identificato con un giardino, immagine del giardino primordiale in cui l'umanità aveva perso l'amicizia con Dio. Ora, in questo nuovo giardino, la croce tiene il posto del­ l'albero della vita e grazie ad essa l'uomo ritrova la piena comunione con Dio: in un sepolcro «nuovo» , dalla morte scaturisce la vita. Per la terza volta il narratore ricorda che è la Parasceve (v. 42; cf 1 9,14.31), cioè la «preparazione», il sesto giorno, vigilia del grande sabato: così si conclude il 1 87

Quinto quadro

Ancora Nicodemo

Un sepolcro nuovo

giorno della nuova creazione dell'uomo, con un'atmosfera di pace, in attesa della novità assoluta che superi la morte. 20,1-21,25: Gli incontri pasquali Contenuto del c.20

Contenuto del c . 21

Nulla si dice del giorno settimo, ma la storia riprende con il primo giorno, inizio della nuova era: i racconti pa­ squali ( cc. 20-21) narrano gli incontri con il Cristo risorto che dona lo Spirito e si fa riconoscere come Signore e Dio. I due capitoli hanno struttura lineare e semplice: la presenza di una conclusione da parte del narratore alla fine del c. 20 individua però due sezioni distinte. La prima sezione ( c. 20) contiene anzitutto il racconto della visita al sepolcro vuoto da parte di Maria di Magdala e dei discepoli, con la conse­ guente apparizione alla donna rimasta presso la tomba; se­ gue poi la narrazione di un duplice incontro con i discepoli, in casa, lo stesso primo giorno della settimana e - otto giorni dopo - con la presenza anche di Tommaso; infine un inter­ vento esplicito del narratore chiude questa sezione e la di­ stingue da ciò che segue. Infatti, sebbene contenga il racconto di un altro incontro pasquale, l'ultimo capitolo (c. 21) ha tutta l'aria di un epilogo riassuntivo, necessario per chiudere l'intero testo con intento teologico. Si apre con il racconto della terza apparizione ai discepoli del Cristo risorto nel contesto di una pesca mira­ colosa e di un pranzo comunitario, cui fa seguito un intenso dialogo fra Gesù e Pietro con l'intento di rivalutare quel di­ scepolo e precisarne il ruolo ecclesiale, in particolare nei con­ fronti dell'altro discepolo, quello che Gesù amava; gli ultimi versetti contengono una seconda conclusione. La visita al sepolcro vuoto (20, 1-9)

Nessun Vangelo descrive l'evento della risurrezione, ma solo l'incontro con il Risorto e, prima di tutto, con i segni della assenza del corpo: il racconto della visita al sepolcro vuoto è comune a tutti e quattro gli evangelisti e costituisce 1 88

l'esperienza fondante della comunità pasquale. Ciò che Giovanni dice in più rispetto ai Sinottici è lo stato dei teli funebri all'interno del sepolcro. La pericope è introdotta dall'esperienza di Maria di Magdala che, trovata la tomba aperta, corre ad avvisare i discepoli (vv. 1 -2): Pietro e il di­ scepolo amato accorrono al sepolcro, vedono lo stato dei teli e constatano l'assenza del corpo di Gesù (vv. 3-7). Il ver­ tice è costituito dall'osservazione che il discepolo amato «Vi­ de e credette» (v. 8): il narratore, infine, constata come i di­ scepoli non avessero ancora creduto alle Scritture ( v. 9). Il racconto inizia con il contrasto fra la luce e le tenebre, tipicamente giovanneo: mentre fuori è già spuntata la luce, dentro il cuore e la testa dei discepoli c'è ancora l'oscurità. Così Maria Maddalena, che svolge un ruolo simbolico e cor­ porativo, avendo visto la pietra rimossa dal sepolcro, immagina che qualcuno abbia rubato il corpo di Gesù; corre a dare l'allarme e propone un'errata spiegazione del fatto. Al­ larmati da questo annuncio, due dei discepoli accorrono al sepolcro: il discepolo amato arriva per primo, ma lascia che sia Simon Pietro ad entrare per primo. Entrambi vedono i teli giacenti e il sudario arrotolato nello stesso posto. Giovanni chiama oth6nia il grande lenzuolo che avvolgeva tutto il corpo e, per descrivere la sua posizione, usa il participio del verbo «giacere» (kéimena), intendendo che i teli si sono sgonfiati: sebbene tutto sia rimasto intatto, è afflosciato, perché il corpo non c'è più. Inoltre il sudario, cioè il fazzoletto che era stato legato intorno al viso per conservare chiusa la bocca, è rimasto arrotolato e si trova nello stesso posto. Ciò che i discepoli vedono è, dunque, una situazione che nessun agente umano avrebbe potuto produrre: nessuno infatti avrebbe potuto portare via il corpo e lasciare i teli in quello stato. Mentre Lazzaro era uscito dalla tomba portando con sé i segni della morte, con le mani e i piedi ancora bloccati dai «legacci» e il viso «circondato» dal sudario ( cf 1 1 ,44), Gesù lascia dentro al sepolcro tutti i teli funebri e semplicemente "sparisce". Tale osservazione intelligente permette al discepolo amato di credere. A questo punto l'e1 89

Luce e tenebre

I te/i giacenti

ll sudario arrotolato

vangelista interviene direttamente nel testo per dire che i discepoli non avevano ancora capito; così ribadisce come la comprensione piena e matura dell'evento di Cristo si abbia solo dopo la Pasqua di risurrezione. L'incontro con Maria di Magdala (20, 10-18) Maria resta e piange

Donna, chi cerchi?

Maria si converte e riconosce

Mentre i discepoli tornano a casa (v. 10), Maria resta vi­ cino al sepolcro a piangere (v. 1 1 ) e a lei è dedicato il rac­ conto della prima apparizione del Risorto. Dapprima, chiu­ sa nel suo dolore e china verso la tomba, vede due angeli in bianche vesti che le chiedono il motivo del suo pianto: Ma­ ria ripete di nuovo la sua errata interpretazione dell'assenza del corpo di Gesù (vv. 1 1-13). A questo punto il narratore annota un movimento della donna, che «si volta» e, senza riconoscerlo, vede Gesù, il quale le pone di nuovo la domanda essenziale: «Donna, chi cerchi?» (v. 15). L'uso del vocativo «donna» propone que­ st'ultima figura femminile come immagine dell'umanità rin­ novata dalla Pasqua di Cristo, partecipe della nuova allean­ za sponsale con il messia risorto. Il narratore, spiega che la donna, non riconoscendo Gesù, pensa ch e quell'uomo sia «il custode del giardino» (in greco semplicemente: ho ke­ pur6s, «il giardiniere»): secondo il tipico procedimento gio­ vanneo l'equivoco ha un valore teologico, perché - alluden­ do al simbolo del giardino primordiale in cui fu collocata la prima coppia umana - mostra in Gesù l'uomo che dona nuova possibilità di alleanza, sebbene non sia colui che ma­ terialmente coltiva quel giardino. Per la terza volta Maria ripete la propria spiegazione sbagliata ed è a quel punto che Gesù la chiama per nome, risvegliando in lei la possibilità di riconoscerlo (v. 16): la reazione della donna, prima che da una parola, è rappresentata dal gesto di «voltarsi». Dato che si era già voltata (v. 14), questa ulterior� indicazione ha una sfumatura simbolica e interiore: Maria si converte, cam­ bia mentalità, accetta di lasciarsi trasformare da colui che riconosce come il suo Maestro. 1 90

La parola che Gesù le rivolge (v. 17), tradotta con «Non mi trattenere» (letteralmente resa in latino: Noli me tangere, cioè «non mi toccare»), è un invito a non fermarsi ai fatti di prima e a non voler tornare alla situazione precedente. Ciò che segue (> (pist6s). In tal modo Giovanni sinte­ tizza il proprio intento di teologo narratore che si propone l'obiettivo di aiutare la propria comunità a credere in Gesù. Perciò mette sulle labbra di Tommaso la più alta professio­ ne di fede di tutto il Quarto Vangelo: «Mio Signore e mio Dio ! » (v. 28). Alla luce di tale confessione si può cercare qualche soluzione al senso del nome «Gemello»: dall'essere «doppio», tipico del dubbio, è passato infatti ad una ade­ sione chiara; proprio grazie alla fede diviene «simile» a Ge­ sù stesso, lasciandosi conformare a lui; infine - ancora me­ glio - il narratore vuole suggerire al lettore di riconoscere in Tommaso il proprio rappresentante, facendo insieme con lui l'itinerario di crescita nella fede in Cristo Gesù. Con la beatitudine del credente Giovanni conclude il suo rac­ conto ( v. 29) , convinto che tutti i futuri credenti possano ef­ fettivamente incontrare il Cristo risorto attraverso la me­ diazione ecclesiale del «libro», deposito scritto della testi­ monianza apostolica.

Diventare credente

In che senso Gemello?

La prima conclusione (20,30-31)

Il capitolo termina con un epilogo, in cui l'autore passa chiaramente dal racconto al commentario: si rivolge direttamente ai suoi destinatari ( «voi» ) parlando di Gesù come di un personaggio del passato, dal momento che in quanto narratore si colloca nel tempo storico in cui la stesura del Vangelo viene conclusa. Egli precisa anzitutto di aver scritto un libro in cui narra solo alcuni dei «segni» (seméia) compiuti da Gesù in presenza dei suoi discepoli (v. 30) : fra i molti altri eventi significativi di cui essi furono testimoni, questi sono stati scelti per aiutare i lettori a credere che «Gesù è il 1 93

Epilogo del narratore

Credere e avere la vita

Cristo, il Figlio di Dio» (v. 31). Questo è il fine del Quarto Vangelo, che viene così proposto come un'unità cristologica: il libro deve essere letto come rivelazione di chi sia Gesù, e questo è il motivo per cui l'epilogo segue immediatamente la professione di fede del discepolo Tommaso, che riconosce come Dio il crocifisso risorto. Eppure l'intento dell'autore non si ferma qui, perché il fine ultimo del Vangelo è la vita: credere in Gesù infatti permette di avere la vita, cioè la pos­ sibilità di vivere in modo pieno e realizzato, partecipando alla vita stessa del Padre e del Figlio, tema decisivo in tutta la narrazione giovannea. L'epilogo narrativo come rilettura ecclesiale (21,1-25)

Una probabile aggiunta

Alla fine di tutto, il c. 21 svolge la funzione di epilogo, che riassume l'intero racconto riprendendo alcuni temi teo­ logici e sottolineando la prospettiva ecclesiale relativa al tempo intermedio fra la risurrezione di Gesù e la sua venuta gloriosa. Questo testo ha fatto molto discutere gli studiosi, e la maggior parte ritiene che si tratti di un'aggiunta succes­ siva, incorporata nel testo con l'ultimo intervento redazio­ nale, che ha chiuso definitivamente il lungo processo di ste­ sura del Quarto Vangelo. Secondo il procedimento della «Ti­ lettura» l'ultimo redattore ha proposto dei brani che inter­ pretano il testo più antico, per precisare la missione della Chiesa in continuità con l'opera di Cristo. Il racconto della terza apparizione ai discepoli del Cristo risorto è quindi in­ serito nel contesto di una pésca miracolosa e culmina con un simbolico pasto comunitario (vv. 1-14), cui fa seguito un incalzante dialogo fra Gesù e Pietro (vv. 15-23). Una secon­ da conclusione sigla l'intera opera (vv. 24-25). L a terza manifestazione del Cristo risorto (21,1-14)

Senza contare quella alla Maddalena, questa appari­ zione del Cristo risorto è considerata «la terza ai discepoli» ( v. 14) : viene raccontata subito dopo la conclusione del1 94

l'autore, lasciando sorpreso il lettore, che pensava fosse tutto finito. Invece, con una consueta formula di transizio­ ne («Dopo questi fatti») il narratore introduce una nuova manifestazione di Gesù, ambientandola su mare di Tibe­ riade (v. l) con l'intento simbolico di mostrare la situazio­ ne della Chiesa impegnata nella missione universale di evangelizzazione, nei tempi e negli spazi della storia e del mondo. Anzitutto vengono presentati i personaggi coinvolti nel­ la scena (v. 2): si fanno dapprima i nomi di tre discepoli già ricordati nel corso del racconto (Simon Pietro, Tommaso il Gemello e Natanaele di Cana di Galilea); poi vengono citati per l'unica volta nel Quarto Vangelo «i (figli) di Zebedeo», fra cui c'è evidentemente anche Giovanni; infine, sono ag­ giunti altri due discepoli, non meglio identificati, per rag­ giungere il simbolico numero di «sette» che richiama l'uni­ versalismo della missione, tradizionalmente descritta come una pésca. È Pietro che prende l'iniziativa e gli altri lo se­ guono: ma in quella notte, senza Gesù, la fatica dei discepoli è vana e non prendono nulla (v. 3). Nel linguaggio giovan­ neo la notte richiama il simbolo della «tenebra» (1,5) che si oppone alla luce e significa l'incapacità umana di ottenere frutti validi per la salvezza: nella notte nessuno può agire (9,4) e chi cammina di notte inciampa ( 1 1 ,10). Allo spuntar del sole spunta la luce interiore, arriva Co­ lui che è la luce del mondo (8,12) e la situazione cambia. Gesù è presente alla fatica dei pescatori, ma i discepoli non sanno riconoscere che è Lui (v. 4). Dev'essere Gesù, ancora una volta, a prendere l'iniziativa: comincia chiedendo qual­ che cosa a loro, come se avesse bisogno (v. 5), ma sarà poi lui a dare loro qualche cosa, in modo abbondante. Solo in unione a Gesù e in ascolto della sua parola il lavoro dei di­ scepoli può raggiungere un successo: avendo obbedito, la pésca diventa eccezionale. Il primo a riconoscere il Signore è il discepolo che Gesù amava (v. 7): è lui che arriva primo al sepolcro e crede per primo (20,4.8); ma è Pietro che si butta in acqua e per superare la propria nudità «si cinge», 195

La missione universale della Chiesa

Sette discepoli nella notte

La presenza di Cristo cambia la situazione

La risalita di Pietro

153 pesci

Eucaristia e riconosci­ mento

ripetendo così lo stesso gesto di Gesù prima di lavare i piedi ai discepoli (13,4.5). Buttandosi in acqua Pietro compie un percorso che potremmo definire «battesimale»: attraverso le acque il discepolo peccatore arriva all'incontro con il Cri­ sto. Dato che non erano molto lontani dalla riva, gli altri vengono a terra con la barca (v. 8) e vedono che c'è già il fuoco acceso con del pesce e del pane (v. 9). L'incontro è posto sotto il segno della collaborazione: il Cristo non ha bisogno degli uomini, ma vuole aver biso­ gno di loro e chiede il loro contributo (v. 10): offre un cibo già pronto, eppure chiede ai discepoli di mettervi anche la loro parte. Pietro giunge a riva ed esce dall'acqua per tirare lui stesso la rete colma (v. 1 1 ) : l'emersione dalle acque è la sua «risalita», la riabilitazione del discepolo traditore, che può tirare a riva la rete senza che si spezzi. Come la tunica di Gesù, che non fu «spezzata» (19,24), anche questa rete sta a significare l'unità profonda che il messia riesce a creare intorno a sé, poiché dove agisce lui si crea unione senza frat­ ture. Per enfatizzare l'eccezionalità della pésca viene dato anche il numero dei grossi pesci pescati: 153. Questo nume­ ro è certamente simbolico, ma non è ben chiaro il suo signi­ ficato preciso: gli antichi esegeti e i moderni si sono sbizzar­ riti a trovare spiegazioni, ma fra le numerose proposte nes­ suna è sicura. Gesù quindi li invita a condividere il pasto con lui (v. 12): il riferimento eucaristico rientra nella teologica rilettura del redattore, il quale mostra il Risorto che invita la comu­ nità al nuovo banchetto da lui stesso preparato e distribuito (v. 13). L'intero racconto giovanneo era iniziato con una do­ manda posta al Battista: «Tu, chi sei?» (1 ,19); l'avevano ri­ petuta i Giudei a Gesù ( 8 , 25), ora la stessa questione risuo­ na nelle menti dei discepoli, senza che venga esplicitata (21,12), perché essi ormai hanno riconosciuto Gesù e sanno bene che è il Signore. Il vertice di tutta la narrazione è dun­ que l'incontro intorno alla mensa eucaristica, in cui i disce­ poli riconoscono l'identità del Cristo. Una breve nota (v. 14) chiude la pericope. 1 96

Il dialogo fra Gesù e Pietro (21 ,15-23)

A seguito del pasto conviviale, il narratore propone un dialogo fra Gesù e Pietro che si articola in due tempi distinti: in un primo momento al centro dell'interesse c'è il legame d'affetto che unisce il discepolo al Maestro (vv. 15-19), mentre in seconda battuta entra in scena il discepolo amato, a riguardo del quale viene precisata l'interpretazione di un detto che lo riguarda (vv. 20-23). Nella prima parte del dialogo l'evangelista vuole illustrare le condizioni del discepolato, ma prima di tutto si tratta di riabilitare Pietro, che aveva rinnegato tre volte Gesù (cf 18,17 .25-27) : dopo quel doloroso evento il Quarto Vangelo non ha fatto cenno al pentimento del discepolo e solo ora racconta un suo confronto diretto con il Maestro. La narrazione non offre alcun dettaglio descrittivo, ma si limita a distinguere le battute del dialogo. Per tre volte Gesù gli rivolge un'esplicita domanda sul suo amore, per tre volte Pietro gli risponde affermativamente e per tre volte Gesù gli affida un incarico pastorale (vv. 15-17). La martellante ripetizione è segnata da numerose variazioni lessicali, che non comportano però cambiamenti di rilievo. La variante più significativa riguarda i verbi agapan e filéin: entrambi infatti si possono tradurre con «amare», le sfumature di senso non si percepiscono dal testo stesso e vengono utilizzati come sinonimi per una semplice variazione letteraria. Di fronte alla triplice professione di fede amorosa, Gesù affida a Pietro il primato dell'amore, legando strettamente il ministero pastorale alla relazione d'amore che lo unisce al Maestro: se è vero che gli vuole bene, si prenda cura delle sue pecore e dei più piccoli del gregge. Viene così ribadito che l'autorità nella Chiesa è servizio d'amore. A questo punto Gesù aggiunge un oracolo sul futuro di Pietro, introdotto dalla consueta formula di asserzione (v. 18): da giovane Pietro era autonomo, faceva di testa sua e sbagliava; ora è iniziato il suo cambiamento, che tende alla maturità e alla vecchiaia, per cui - arrendendosi a Gesù 197

Due momenti

Riabilitazio· ne di Pietro

Il primato dell'amore

Un oracolo per Pietro

Seguimi!

Un oracolo per il disce­ polo amato

diviene consapevole di dipendere da un Altro e quindi si la­ scia portare, fino ad allargare le braccia su una croce. Il nar­ ratore interviene a spiegare il detto oscuro, legandolo alla futura morte del discepolo: anche per Pietro la morte sarà, come per Gesù, il modo di glorificare Dio. Adesso, dopo l'adesione amorosa a Gesù, Pietro è davvero pronto a se­ guido: adesso avviene l'autentica vocazione ( «Seguimi») e inizia la sua feconda missione. Un ultimo chiarimento riguarda il confronto con il di­ scepolo amato, che viene citato nella seconda parte del dia­ logo (v. 20) attraverso il riferimento al suo rapporto privile­ giato col Maestro durante la cena (cf 13,23-25) : a Pietro in­ teresserebbe sapere che cosa ne sarà di lui, in che modo cioè l'altro discepolo completerà la sua missione (v. 21). Ma Ge­ sù non gli risponde in modo esplicito, bensì con un'espres­ sione enigmatica (v. 22) che doveva essere ben nota nella comunità giovannea, dal momento che l'ultimo redattore si sente in dovere di intervenire per correggere un fraintendi­ mento dell'oracolo con cui Gesù ipotizzava la volontà che il discepolo amato «rimanesse» fino alla sua venuta gloriosa (v. 23). Il verbo ménein («rimanere») era inteso come «re­ stare in vita>>, mentre la morte di quel discepolo, già avve­ nuta, sembrava contraddire la parola di Gesù: il redattore interviene quindi per spiegare che la frase del Maestro non escludeva la morte del discepolo, ma parlava di un altro mo­ do di «rimanere>> nella comunità. Pur non precisando quale sia questo modo, è facile intendere che la permanenza del discepolo amato consista nello scritto evangelico, che ne cu­ stodisce l'autorevole testimonianza. La seconda conclusione {21,24-25)

Il garante della tradizione

Al termine di tutto il Quarto Vangelo l'ultimo redattore ha posto una breve nota come sigla di chiusura, in cui iden­ tifica il discepolo amato, citato nei versetti precedenti, come il garante della tradizione giovannea e aggiunge la convin­ zione della comunità stessa circa la sua attendibilità. 198

Il discepolo amato viene indicato con due participi so­ stantivati per sottolineare i due aspetti della sua opera: an­ zitutto è definito «colui che testimonia» (ho martyron) , cioè continua nel presente ecclesiale a rendere testimonianza a proposito delle cose dette; poi è indicato come «colui che ha scritto» (ho grapsas), cioè nel passato ha messo per iscrit­ to queste cose nel testo che ora è affidato al lettore. Inoltre il redattore, a nome dell'intera comunità giovannea, si espri­ me col «noi» nel ribadire la certezza che la testimonianza del discepolo è vera e affidabile (v. 24) . Viene infine aggiunta un'ultima frase, propria del for­ mulario retorico ellenistico, con cui il redattore rimarca la vastità delle opere di Gesù, impossibili da raccontare una per una: in modo furtivo, con un «io penso» (6imai), chi scri­ ve si inserisce personalmente nel testo - distinguendosi dal «noi» del versetto precedente - ed evoca il mondo intero, incapace di contenere «i libri da scrivere» (ta graf6mena bi­ blfa ) Ma questo che di fatto è stato scritto è sufficiente per trasmettere per sempre la testimonianza del discepolo ama­ to ( v. 25) .

La testimo­ nianza del discepolo continua

Finale retorico

.

Messaggio teologico

La guida alla lettura ci ha fatto comprendere che il Vangelo secondo Giovanni è un'opera meravigliosa, ma di non facile interpretazione. Solo all'apparenza, infatti, è semplice: quasi dietro ogni parola si nasconde un mes­ saggio teologico ricco e profondo. Poiché molti aspetti della teologia giovannea sono stati già affrontati in modo analitico, non resta qui che abbozzare una rapida sintesi, per evitare pesanti ripetizioni. È evidente che il Quarto Vangelo non è un testo per principianti, non può essere letto velocemente, né interpretato come i Sinottici; è un affascinante libro di meditazione, da leggere con il cuore e l'intelligenza, con la calma della fede e la passione dello Spirito. 199

Un testo ricco e profondo

Una storia della salvezza Racconto e teologia

Eventi significativi da com­ prendere

Il senso teologico

Giovanni ha raccolto la tradizione apostolica su Gesù Cristo in uno splendido racconto, armonico e ben organiz­ zato. Attraverso la trama narrativa si riconosce anche un'importante riflessione teologica, che l'evangelista e la sua comunità hanno inserito nel racconto, per comunicare l'insegnamento decisivo del messia Gesù e la matura com­ prensione della sua persona. Il principio di base nel pensiero giovanneo è riconosci­ bile in una visione delle vicende umane, intese come storia della salvezza: una storia complessa, fatta di eventi signifi­ cativi che devono essere compresi, accolti e comunicati. L'e­ vangelista sa di essere inserito nella vicenda del popolo di Israele ed è erede della ricca tradizione biblica: la sua espe­ rienza di Gesù di Nazaret ha completato quella visione e ha determinato un 'impostazione nuova. Giovanni, tuttavia, è al tempo stesso consapevole che il semplice fatto non è au­ tomaticamente chiaro, ma ha bisogno di essere compreso; sottolinea quindi esplicitamente ( cf 2,22; 12,16) che la com­ prensione dell'evento matura dopo la Pasqua di morte e ri­ surrezione, divenendo completa grazie all'opera dello Spi­ rito Santo. Allo Spirito Santo, infatti, il Quarto Vangelo at­ tribuisce una serie di verbi che connotano l'attività della pri­ ma comunità apostolica: lo Spirito insegna e ricorda ciò che Gesù ha fatto ( 14,25-26), rende testimonianza su Gesù (15 ,26-27) , convince del peccato (16,7-11), guida la comu­ nità, parla di Gesù, annuncia le cose future, glorifica il Padre e il Figlio (16,13-15). Pertanto, l'interpretazione della storia di Gesù va al di là del fatto stesso ed esprime il messaggio che ha valore duraturo per tutti i credenti di ogni epoca. Il racconto di Giovanni si può leggere come tessuto let­ terario ed è pure possibile studiarne la storia, la struttura e la lingua, ma il metodo di lettura che rivela tutta la ricchezza del Quarto Vangelo è quello che privilegia il senso teologi­ co, coinvolgendo la vita di ciascun lettore e mirando nello stesso tempo a comprendere tutta la profondità del testo. 200

Con un termine solo, questo metodo di lettura si può chia­ mare "simbolico" . L'interpretazione dei segni

L'evangelista stesso indica come necessario il supera­ mento del fatto in sé, adoperando spesso il termine seméion ( segno) soprattutto per designare in genere le opere di Gesù (cf 12,37; 20,30) . Per comprenderne il significato ci può aiutare la definizione di Agostino, semplice e basilare: «Il segno è una cosa che ne fa venire in mente un'altra» (De doctrina christiana 11,1) . L'orma è un segno, come il fumo: chiunque, vedendo l'impronta lasciata sulla sabbia da un piede, pensa che sia passato un uomo, o, sentendo la pre­ senza di fumo, immagina che qualcosa stia bruciando. Que­ sti segni naturali sono compresi facilmente da tutti nello stesso modo; i segni convenzionali, invece, sono legati alle culture dei popoli e alle abitudini dell'ambiente di vita . È a questa categoria che appartengono i segni "culturali" ado­ perati da Giovanni, ragion per cui, per comprenderli, biso­ gna entrare nella convenzione e nella cultura dell'evangeli­ sta, ovvero l'ambiente biblico giudaico. Notiamo, inoltre, che nell'impostazione teologica di Giovanni è presente un continuo riferimento alla dualità dei piani: il basso e l'alto (3, 3 1 ; 8,23), le cose terrene e quelle celesti (3,12), l'apparenza e il giusto giudizio (7,24) , la carne e lo spirito (6,63), la tenebra e la luce ( 1 ,5; 3,19; 12,46) . Il li­ vello inferiore è il mondo dell'apparenza e dell'errore, men­ tre quello superiore corrisponde alla verità, cioè la rivela­ zione del Padre attraverso la missione del Figlio. I «sette se­ gni» compiuti da Gesù costituiscono la sintesi narrativa del­ la sua opera, che è un unico grande seméion, un mirabile tessuto in cui si intrecciano innumerevoli fili di significato. In questa visione del mondo a doppio livello, in cui il subli­ me è inseparabile dal quotidiano, il narratore invita conti­ nuamente il suo lettore ad alzare il livello della sua com­ prensione per giungere a cogliere il significato voluto, per

Segno

=

201

Naturale o culturale

Due piani

Il sublime nel quoti­ diano

Simbolo

accogliere la pienezza della rivelazione ed entrare in vera comunione con le persone divine che si sono auto-comuni­ cate all'uomo. Dal momento che il seméion esprime una dualità e permette di passare da un elemento a un altro, l'intero proce­ dimento narrativo giovanneo può essere qualificato col ter­ mine "simbolico". Symbolon è un vocabolo arcaico greco che indica un oggetto paragonabile a una moderna tessera di riconoscimento. Si tratta di un coccio, un vaso, un sigillo o qualsiasi altra cosa spezzata in due parti: ciascuna metà è un sym-bolon, ma per ricostituire l'intero, cioè la totalità, servono entrambi i pezzi. Il termine infatti deriva dal verbo greco syn-btillein, che vuoi dire «mettere insieme»: per com­ prendere la verità dunque bisogna mettere insieme i dettagli significativi e ricomporre l'unità. Interessante è notare che il contrario di symbolon, sempre in linguaggio arcaico greco, è ditibolon, che - derivando dal verbo corrispondente dia­ btillein ( «separare, dividere» ) - indica la tessera falsificata, cioè quella metà che non combacia: diabolico quindi è il trucco, l'imbroglio, il falso che non crea unità, la separazio­ ne che impedisce il completamento. La mentalità simbolica di Giovanni tende invece al completamento e al compimento: intende tutti i particolari come significativi, in quanto esprimono oltre a sé un riman­ do al progetto globale divino. Tentando quindi di sintetiz­ zare la teologia simbolica del quarto evangelista, possiamo esprimerla così: i fatti esterni della vita terrena dell'uomo Gesù sono i segni - ovvero i simboli - della vita di Dio, del mistero trinitario di Dio che comunica la propria vita. Gesù in persona è il simbolo per eccellenza, in quanto permette di fare l'unità, cioè di abbracciare totalmente la realtà, di arrivare dal mondo dell'uomo al mondo di Dio, di accoglie­ re in pienezza la vita stessa del Padre e del Figlio e dello Spi­ rito. Affermare che le vicende di Gesù raccontate nel Van­ gelo sono simboliche non significa affatto negarne la stori­ cità: il discepolo che ha visto quei fatti garantisce con forza =

Tensione verso l'unità

202

l'attendibilità della sua testimonianza; al tempo stesso, però, senza fermarsi al livello storico, tende a far comprendere che cosa significhino quei fatti e introduce nel suo testo molti particolari significativi, con l'obiettivo di guidare il lettore a riconoscere in Gesù il rivelatore di Dio e accogliere per­ sonalmente la vita divina che viene offerta. Mentre nell'A­ pocalisse predominano i simboli immaginari, frutto di una vivace fantasia, il Quarto Vangelo propone soprattutto simboli storici, cioè realtà visibili e concrete, da interpretare come rivelazione di realtà importanti e decisive, ma non visibili. Quando si dice, ad esempio, che il segno del cieco nato è un simbolo battesimale, non sì intende dire che non è successo, bensì che il fatto storico è stato raccontato dall'evangelista in modo da comunicarne il significato teologico, profondo e universale. Giovanni non ha inventato figure simboliche, ma ha ripensato l'esperienza storica di Gesù, ne ha compreso il senso e ha scritto per coinvolgere ogni lettore in una meravigliosa dinamica di comprensione teologica.

Storia e teologia

La teologia simbolica di Giovanni

L'evento del Vangelo fa parte della storia della salvezza ed è pertanto in stretto rapporto con l'alleanza che Dio ave­ va stretto con Israele: Giovanni è convinto che non si possa comprendere l'opera di Gesù senza metterla in rapporto con le Scritture di Israele. In tale prospettiva, si può addi­ rittura affermare che il Quarto Vangelo è una rilettura cri­ stologica dell'AT. Ma non si tratta semplicemente di una spiegazione degli antichi testi, perché l'evangelista mira piuttosto ad annunciare il compimento e la realizzazione delle figure e delle promesse. E dal momento che è sempre l'unico Dio che opera, anche i criteri fondamentali della sto­ ria rimangono gli stessi: per questo si ritrovano nel racconto evangelico gli stessi elementi decisivi che costituivano la struttura portante delle Scritture bibliche. Alla luce di ciò, gli schemi generali che caratterizzano il pensiero giovanneo possono essere sinteticamente ricondotti 203

Rilettura cristiana de/l'AT

Modelli del pensiero giovanneo

Al centro c'è la perso­ na di Gesù

a quattro principali, che pur senza essere gli unici sono i più importanti: la rivelazione, la creazione, l'esodo con l'allean­ za, lo schema del processo. Sono tutti elementi decisivi anche nell' AT: ne deriva che, per comprendere a fondo il Quarto Vangelo, è necessario conoscere bene le Scritture di Israele per poter ritornare continuamente ai modelli narrativi e teo­ logici che costituiscono il punto di partenza dell'evangelista. Al centro dell'attenzione però c'è sempre Gesù Cristo, Figlio di Dio: credere in lui è l'obiettivo a cui tende la testi­ monianza giovannea, in quanto strumento indispensabile per giungere alla pienezza di vita. Il mistero della persona di Gesù è infatti il nucleo decisivo della teologia giovannea e la sua identità si manifesta pienamente con la croce: il Fi­ glio è strettamente unito al Padre nel compiere l'opera della salvezza, che si realizza con la libera accettazione di donare la propria vita. Tale atteggiamento personale di Gesù con­ ferisce coerenza e senso all'intera vicenda. La rivelazione di Dio

Logos

Gloria e verità

Un primo modello adoperato dalla teologia giovannea segue lo schema della rivelazione: Gesù è presentato soprat­ tutto come «il Rivelatore del Padre» ( cf 14,9). Partendo da questa idea basilare, Giovanni sviluppa altri motivi connes­ si. Prima fra tutte è l'idea di L6gos ( Verbum in latino ) , cioè «Parola»: Gesù è la «Parola» di Dio rivolta all'uomo, è il Parlare di Dio che esprime il nome di un evento; è l'unica Parola in grado di «raccontare Dio», perché nessun altro l'ha mai visto (1,18). Gesù è inoltre presentato come luce, in quanto colui che permette di vedere la realtà superando la cecità dell'uo­ mo. Gesù manifesta la «gloria» di Dio, perché con questo concetto biblico ( d6xa in greco, kab6d in ebraico ) Giovanni intende la presenza potente e operante di Dio, la dimostra­ zione del suo intervento decisivo nella storia. Gesù infine è qualificato come la «verità» (alétheia) in quanto è la mani­ festazione, l'apparizione, la rivelazione di Dio. 204

In questo schema rientra l'uso frequente della formula «lo Sono» con cui Gesù si auto-presenta come rivelatore; sono importanti soprattutto i casi in cui tale espressione è adoperata in modo assoluto ( cf 8,24.28.58; 13,19) per evocare il nome stresso di Yhwh e indicare la personale unità di Gesù con Dio Padre: il pieno riconoscimento, tuttavia, è possibile solo attraverso la gloria della croce. Far conoscere Dio non significa dare informazioni su Dio, ma comunicare la vita stessa di Dio: Gesù è il Rivelatore, il L6gos, la Luce, la Verità, cioè colui che mette l'uomo in contatto con Dio. L'idea giovannea di conoscenza è appunto quella di un'intima relazione di amore. Di fronte a questa rivelazione l'uomo si pone dunque nell'atteggiamento fondamentale di chi vuole «conoscere» (ghin6skein), in una dimensione affettiva e non intellettuale. I discepoli, infatti, sono coloro che «hanno creduto e conosciuto» ( cf 6,69; 10,38; 17,8).

"Io Sono "

Conoscere

La creazione dell'uomo nuovo

Un secondo grande modello teologico utilizzato da Giovanni per spiegare l'opera di Gesù è la creazione: il Cristo infatti porta a compimento l'opera del Padre ( cf 5,1718). La sua missione consiste nella nuova creazione, che si realizza simbolicamente nel sesto giorno, in cui viene creato l'uomo nuovo. Gesù è la vita in persona ( 1 1 ,25; 14,6) e il fine della sua missione è comunicare tale vita divina (10,27-30) con il dono dello Spirito, cioè con il respiro di Dio, il suo principio vitale. Il giorno di Pasqua, per evocare simbolicamente la nuova creazione, il Risorto ripete il gesto del Creatore che soffiò su Adamo (20,22), ma è dalla croce che il Cristo «consegna lo Spirito» (1 9,30) , trasmette cioè all'umanità la vita divina: il dono della vita coincide con la morte di Gesù in croce, che è salvifica, in quanto costituisce l' éschaton della creazione, ovvero inaugura l'escatologia secondo la tipica visione gio­ vannea. 205

Creazione

Dare lo Spirito

L'acqua

Nuova nascita

Accogliere

Analogamente, anche l'acqua è simbolo decisivo nell'intarsio narrativo di Giovanni e compare spesso come se­ gno vitale del dono di Dio, che è lo Spirito Santo (cf 4,10; 7,37-39), dato all'umanità perché diventi in essa sorgente che zampilla per la vita eterna (4,14). L'acqua e il sangue che escono dal costato aperto di Cristo (1 9,34) costituiscono il compimento del dono promesso dello Spirito: il sangue, segno della vita donata, è unito all'acqua per rivelare che lo Spirito Santo è legato alla vita stessa di Gesù e la sua pre­ senza nella comunità continuerà l'opera di Gesù, portando a compimento nel tempo la sua opera creativa. Per questo motivo Giovanni insegna che è necessaria una rigenerazione dell'uomo, intesa come nuovo inizio e trasformazione della realtà umana. Per vedere il regno di Dio e per entrarvi occorre una nascita «di nuovo» l «dall'al­ to» (anothen), non come risultato del proprio sforzo perso­ nale, ma in quanto opera dello Spirito di Dio, che rigenera e ricrea: senza che l'uomo sappia come avviene, l'opera di­ vina della creazione trova compimento nell'esperienza di ogni persona che crede in Gesù (cf 3,3-8). Di fronte a quest'opera di nuova creazione, che rende l'umanità capace di incontrare Dio, l'atteggiamento giusto è quello di chi accoglie; la seconda reazione fondamentale dell'uomo è dunque espressa dal verbo «accogliere» ( lambanein ), cioè ricevere il dono della grazia e permettere che agisca nella propria persona. Quanti hanno accolto Ge­ sù, infatti, «sono stati generati da Dio» (1 ,13) e a loro è data «la possibilità di diventare figli di Dio» (1 ,12). Il dono dell'alleanza nuova

Esodo

Un terzo grande modello simbolico della tradizione giovannea è costituito dalle tematiche dell'esodo, in base alle vicende bibliche narrate in Esodo e relative all'uscita di Israele dall'Egitto, al soggiorno nel deserto e al dono della legge al Sinai: tali allusioni sottolineano soprattutto i signi­ ficati di liberazione e di alleanza. 206

Le immagini derivate da questa tradizione veterotesta­ mentaria sono più che abbondanti nel linguaggio di Giovan­ ni, a partire dai richiami alle feste d'Israele (Pasqua e Ca­ panne) che alludono alle vicende dell'esodo e invitano a considerare gli eventi di Gesù nella prospettiva di questa memoria liturgica e teologica. Vi si aggiungono poi le insistenti note di uscita e di cam­ mino, le figure del pastore che guida le pecore e del conta­ dino che pianta la vigna, come pure le immagini dell'acqua, del pane, del vino e delle nozze, tutte connesse alla tradi­ zione giudaica dell'alleanza al pari dei temi della tenda e della presenza divina in mezzo al suo popolo; decisivi inoltre per il senso cristologico pieno sono i simboli dell'agnello (1 ,29.36; 19,36) e del serpente innalzato (3,14-15). Anche l'ampio discorso riservato al «comandamento nuovo» di Gesù si riallaccia alla tematica del Sinai, cioè al dono della legge. Forte in questo caso è la sottolineatura del rinnovamento, giacché la proposta di Gesù viene qua­ lificata come «nuova» (kainé) : si tratta infatti dell'amore stesso con cui il Figlio ha amato i discepoli a renderli ca­ paci di fare altrettanto, superando lo schema della impo­ sizione esterna di precetti da eseguire con le sole forze umane. L'agape rivelata dal messia rende capaci di uno sti­ le analogo coloro che l'accolgono: è la causa dell' affetto vicendevole fra i discepoli, invitati a rimanere nel suo amo­ re (cf 15 ,9). Di fronte al dono della vita che viene fatto alla comu­ nità, Giovanni insiste sulla necessità di rimanere nell'amo­ re: altri verbi fondamentali della risposta umana sono quindi, nella teologia giovannea, «rimanere» (ménein) e «custodire» (teréin ) . Compito dei discepoli è conservare vivo il dono ricevuto, ma il linguaggio giovanneo è molto più ricco di quel che in italiano suona «osservare i coman­ damenti»: non si tratta di eseguire degli ordini, bensì di cu­ stodire il dono di una unione vitale fra persone, conservare tale relazione, accogliere e vivere la logica della relazione generosa. 207

Le feste

Figure dell'alleanza

Il nuovo

comanda­ mento

Rimanere e custodire

Il giudizio di questo mondo Processo

Questo mondo

Vita eterna

Odio e rifiuto

Un quarto modello teologico, infine, adopera lo sche­ ma del processo. L'evangelista infatti utilizza un'ampia ter­ minologia di tipo giuridico per presentare la vicenda di Ge­ sù come un grande dramma, in cui si compie il giudizio de­ ctstvo. Apparentemente l'imputato è Gesù, che si scontra con realtà ostili; ma soprattutto nel racconto della passione Gio­ vanni svela, con ironia, come il condannato sia in realtà il giudice che determina il raduno escatologico dei figli disper­ si ( cf 1 1 ,52; 12,32) e inaugura il regno di Dio. Tali realtà ostili vengono qualificate genericamente come «il mondo» (k6smos ): infatti, oltre a indicare tutto il creato e anche il solo genere umano, questo termine ha come sfumatura propria nel linguaggio giovanneo il riferimento alla struttura nega­ tiva e peccaminosa del corrotto sistema mondano. Simbo­ leggiato fin dall'inizio come «tenebra», nel mondo perverso riconosciamo il potere satanico che si oppone a Dio, senza tuttavia riuscire a bloccare la luce ( 1 ,5). A «questo mondo» Giovanni contrappone la «Vita eterna», distinguendo netta­ mente tra il sistema terreno e la vita umana pienamente rea­ lizzata grazie all'intervento divino: in tal modo l'escatologia giovannea pone la fine ultima dentro i tempi umani, in quanto il tempo di Dio (vita eterna) si sovrappone ai tempi umani ( questo mondo). La struttura terrena corrotta «odia» Gesù per il fatto che egli ne attesta la negatività delle opere ( cf 3,19), e non è disponibile ad accogliere la luce della rivelazione: in que­ sto scontro hanno un ruolo storico importante «i Giudei» , che costituiscono u n tipico personaggio giovanneo in quanto gruppo dirigente che si oppone a Gesù e complotta per ucciderlo. La condanna alla croce sembra quindi la realizzazione del piano di morte ordito contro il Cristo: pa­ radossalmente, si rivela invece come il vero trionfo del messia. L'obiettivo di Gesù non è condannare, ma salvare il 208

mondo (3,17) : e la salvezza si realizza proprio con la croce, Il giudizio presentata da Giovanni come l'intronizzazione del messia che segna la sconfitta del potere demoniaco del male e della morte. L'ora decisiva di Gesù coincide infatti con «il giudizio di questo mondo» (12,3 1 ) , in cui il potere delle forze oscure viene gettato fuori e dal trono della croce il Re messia può attirare tutti a sé (12,32) . In tale schema ideale del processo, grande rilevanza as- I testimoni sume il ruolo dei testimoni e diverse sono le realtà che l'e­ vangelista - in una specie di arringa giudiziaria (5,31 -47) ­ propone come testimonianze a favore del Cristo: anzitutto Giovanni Battista; le opere stesse compiute da Gesù; quindi il Padre in persona, che è testimone decisivo; in stretta con­ nessione con il Padre sono addotte anche le Scritture, per­ sonificate in Mosè. Tutti costoro concorrono a mostrare la credibilità di Gesù, per aiutare il mondo a credere in lui, unica strada per giungere alla salvezza. In questa linea testimoniate si pongono anche i disce- Il Paraclito poli di Gesù, che dopo la sua glorificazione continueranno ad essere i testimoni di Colui che è «il salvatore del mondo» ( 4,42). E in tale opera di testimonianza il ruolo decisivo è svolto dal Paniclito, cioè lo Spirito della verità, che - in qualità di avvocato difensore - accompagna per sempre la comunità credente (cf 15 ,26-27). Pertanto l'atteggiamento fondamentale dell'uomo, co- Credere me risposta all'offerta di salvezza, è «credere» (pistéuein). Il Quarto Vangelo non usa mai il sostantivo «fede» , bensì sempre il verbo «credere», molto più concreto e capace di indicare l'atteggiamento di chi si fida e si affida. Si oppongono a Gesù coloro che non vogliono credere in lui e l'opposto della fede per Giovanni è proprio il «peccato» (1 6,9); al contrario i suoi discepoli si caratterizzano come quelli che «credono nel suo nome» (1,12) e, aderendo intimamente alla sua persona, hanno la possibilità di diventare figli di Dio, capaci come il Figlio di fare della propria vita un dono d'amore. 209

Bibliografia ragionata

Nella sterminata bibliografia giovannea comincio a se­ gnalare tre manuali recenti, destinati allo studio accademi­ co, che presentano la letteratura giovannea in un quadro complessivo di introduzione alle scienze bibliche. J.-0. TUNI - X. A LEGRE , Scritti giovannei e lettere cattoliche (Introduzione allo studio della Bibbia 8 ) , Paideia, Bre­ scia 1 997 ( orig. spagnolo 1 995); G . GHIBERTI E COLLABORATORI , Opera giovannea (Logos 7), Elledici, Leumann 2003; M. NICOLACI , La salvezza viene dai Giudei. Introduzione agli Scritti giovannei e alle Lettere Cattoliche, San Paolo, Cinisello Balsamo 2014. A partire dall'antichità molti autori hanno commentato il Quarto Vangelo, offrendo talvolta autentici capolavori di esegesi e di spiritualità. Indico in ordine cronologico fra le opere accessibili in lingua italiana i più significativi com­ menti patristici e medievali: ORIGENE, Il Vangelo di Giovanni (a cura di E. Corsini) , UTET, Torino 1968; GIOVANNI C RISOSTO M O , Le Omelie su San Giovanni Evan­ gelista (Corona Patrum Salesiana, serie greca X-XIV, a cura di D.C. Tirone) , SEI, Torino 1944- 1948; TEODORO DI MOPSUES TIA , Commentario al Vangelo di Gio­ vanni apostolo (a cura di L. Fatica), Boria, Roma 1991; CIRILLO D I A LESSANDRIA , Commento al Vangelo di Giovan­ ni (a cura di L. Leone) , 1-111, Città Nuova, Roma 1994; AGOSTINO, Commento al Vangelo di San Giovanni (Opere di Sant'Agostino XXIV, a cura di A. Vita), Città Nuova, Roma 1968; 210

Commento al Vangelo di Giovanni (a cu­ ra di M. Vannini), Città Nuova, Roma 1 992; B oNAVENTU RA, Commento al Vangelo di san Giovanni (a cura di J.G. Bougerol), 1-11, Città Nuova, Roma 19901 991 ; ToMMASO D'AQUINO, Commento al Vangelo di San Giovanni (a cura di T. S. Centi), I-III, Città Nuova, Roma 1990-1992.

MEISTER ECKART,

Nel XX sec. sono stati realizzati alcuni commenti "mo­ numentali" che, seguendo il metodo storico-critico, hanno studiato nei dettagli il Vangelo secondo Giovanni; i due prin­ cipali - tradotti in italiano - sono: R.E. BROWN, Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, I­ II, Cittadella, Assisi 1 979 (orig. inglese 1 966-1970); R. SCHNACKENBURG, Il Vangelo di Giovanni (Commentario teologico del Nuovo Testamento IV) , I-IV, Paideia, Brescia 1 971 .1973. 1 981 . 1 987 (orig. tedesco 1 965-1984). Negli ultimi decenni molti altri studiosi, seguendo ap­ procci esegetici differenti, hanno realizzato validi commen­ tari, che propongono in sintesi organica i risultati della ri­ cerca esegetica moderna. Indico i principali nell'ordine cro­ nologico dell'edizione originale: J. MATEOS - J. BARRETO, // Vangelo di Giovanni. Analisi lin­ guistica e commento esegetico, Cittadella, Assisi 1 982 ( orig. spagnolo 1979); X. LÉON-DUFOUR, Lettura dell'Evangelo secondo Giovanni, I-IV, San Paolo, Cinisello Balsamo 1 990- 1998 (orig. francese 1 988-1 996) ; R . FABRIS, Giovanni. Traduzione e commento, Boria, Roma 1 992; Y. SIMOENS, Secondo Giovanni. Una traduzione e un 'inter­ pretazione, EDB , Bologna 2000 (orig. francese 1997); F.J. MoLONEY, Il Vangelo di Giovanni (Sacra Pagina 4), LDC, Leumann 2007 (orig. inglese 1998); U . WILKENS, Il vangelo secondo Giovanni, Paideia, Brescia 2002 ( orig. tedesco 1998) ; 211

K.

Vangelo di Giovanni, Queriniana, Brescia 2005 ( orig. tedesco 2001 ); S. GRASSO, Il vangelo di Giovanni. Commento esegetico e teologico, Città Nuova, Roma 2008; U.C. VON WAHLDE, The Gospel and Letters of fohn, II. Commentary on the Gospel of fohn, W. B Eerdmans, Grand Rapids, MI l Cambridge, UK 2010; J. B EUTLER, Il Vangelo di Giovanni. Commentario ( Analec­ ta Biblica Studia 8), Gregorian & Biblica! Press, Roma 2016 ( orig. tedesco 201 3); R. I NFANTE , Giovanni ( Nuova versione della Bibbia dai testi antichi 40), San Paolo, Cinisello Balsamo 2015; J. ZUMSTEIN, Il Vangelo secondo Giovanni, I-II, Claudiana, Torino 2017 ( orig. tedesco 2016). WENGST, Il

.

Alcune monografie possono essere utili per conoscere meglio aspetti specifici del Quarto Vangelo. Segnalo anzi­ tutto qualche introduzione: J. ASHTON, Comprendere il Quarto Vangelo ( Letture bibli­ che 14), LEV, Città del Vaticano 2000 ( orig. inglese 1991) ; G. SE G ALLA , Evangelo e Vangeli, EDB , Bologna 1992; R. E. B ROWN , Introduzione al Vangelo di Giovanni ( edito da F.J. Moloney ) , Queriniana, Brescia 2007 ( orig. inglese 2003) ; M . MAZZEO , Vangelo e Lettere d i Giovanni. Introduzione, esegesi e teologia, Paoline, Milano 2007; M. GRILLI, Il Vangelo secondo Giovanni. Elementi di intro­ duzione e teologia, EDB , Bologna 2016. Per lo studio storico-critico hanno un ruolo importante le seguenti opere: R.T. FORTNA , The Gospel of Signs. A Reconstruction of the Narrative Source Underlying the Fourth Gospel ( Mono­ graph Series Society for New Testament Studies 1 1 ) , University Press, Cambridge 1970; 212

U.C. VON WAHLDE, The Gospel and Letters of John, l. In­ troduction, Analysis, and Reference, W.B . Eerdmans, Grand Rapids, MI l Cambridge, UK 2010; G. S EGALLA, Il Quarto Vangelo come storia, EDB , Bologna 2012.

La storia della comunità giovannea è stata oggetto di alcune monografie che hanno determinato l'esegesi con­ temporanea: J.L. MARTYN, History and Theology in the Fourth Gospel, Harper & Row, New York, NY - Evanston, IL 1 968; R.A. CuLPEPPER, The Johannine School. An Evaluation of the Johannine-school Hypothesis Based on an Investi­ gation of the Nature ofAncient Schools, Scholars Press, Missoula, MT 1975; R. E. BROWN, The Community ofthe Beloved Disciple: The Li­ fe, Loves and Hates of an Individuai Church in New Te­ stament Times, Paulist, New York, NY 1979 (trad. italiana: La comunità del discepolo amato, Cittadella, Assisi 1982). Il metodo narrativo, applicato al Quarto Vangelo, ha prodotto buoni risultati, a partire dal pioniere Culpepper, divulgato in Italia da Mannucci. Altri autori hanno applica­ to il metodo ad aspetti particolari, dimostrando la fecondità di questo approccio: R.A. CULPEPPER, Anatomia del Quarto Vangelo. Studio di critica narrativa (Biblica 9) , Glossa, Milano 2016 ( orig. inglese 1 983) ; V. MANNUCCI, Giovanni, il Vangelo narrante. Introduzione al­ l'arte narrativa del Quarto Vangelo, EDB, Bologna 1993; R. VIGN OLO , Personaggi del Quarto Vangelo. Figure della fe­ de in San Giovanni, Glossa, Milano 1994; A. MARCHADOUR, I personaggi del Vangelo di Giovanni. Spec­ chio per una cristologia narrativa, EDB, Bologna 2007; L. FLORI, Le domande del Vangelo di Giovanni. Analisi nar­ rativa delle questioni presenti in Gv 1 -12, Cittadella, As­ sisi 201 3. 213

La presentazione sintetica della teologia di Giovanni è un'impresa ardua; quindi bisogna essere riconoscenti a que­ gli autori che vi si sono cimentati, offrendo quadri comples­ sivi del pensiero giovanneo: D.M. SMITH, La teologia del Vangelo di Giovanni, Paideia, Brescia 1 998 ( orig. inglese 1 995) ; A. CASALEGNO, «Perché contemplino la mia gloria» (Gv 1 7,24). /ntroduzione alla teologia del Vangelo di Giovan­ ni, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006; A. GARCfA MoRENO, Teologia del Vangelo di Giovanni, I­ Il, Ed. Università Santa Croce, Roma 2009; J.-M. SEVRIN, Le Jésus du Quatrième Évangile, Mame-De­ sclée, Paris 201 1 . Fra gli innumerevoli studi monografici su temi, testi e questioni giovannee, ne suggerisco solo alcuni: L. CILIA, La morte di Gesù e l'unità degli uomini. Contributo alla soteriologia giovannea (Gv 11,47-53; 12,32) , EDB , Bologna 1992; G. FERRARO, Il Paraclito, Cristo, il Padre nel Quarto Vange­ lo, LEV, Città del Vaticano 1 996; l de LA PoTIERIE, La passione di Gesù secondo il Vangelo di Giovanni. Testo e spirito, San Paolo, Milano 4 1999; R. BOILY G. MARCONI, Vedere e Credere. Le relazioni dell'uomo con Dio nel Quarto Vangelo, Paoline, Milano 1999; A. DESTRO - M. PESCE, Come nasce una religione. Antropo­ logia ed esegesi del Vangelo di Giovanni ( Percorsi 8), Laterza, Bari 2000; J. BEUTLER, L'ebraismo e gli Ebrei nel vangelo di Giovanni ( Subsidia Biblica 29) , Pontificio Istituto Biblico, Roma 2006; W. B INNI, La Chiesa nel Quarto Vangelo , E D B , Bologna 2006; D. GARRIBBA - A. GUIDA ( edd. ) , Giovanni e il giudaismo. Ricerca recente e questioni aperte, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 201 O; -

214

INFANTE, Le Feste d 'Israele nel Vangelo secondo Giovan­ ni, San Paolo, Cinisello Balsamo 201 O; J. ONISZCZUK, Incontri con il Risorto in Giovanni (Gv 2021) , Gregorian & Biblical Press, Roma 201 3; G. BIGUZZI, Il vangelo dei segni (Studi Biblici, 175), Paideia, Brescia 2014; M. MARCHESELLI, Studi sul vangelo di Giovanni. Testi, temi e contesto storico (Analecta Biblica Studia 9), Grego­ rian & Biblical Press, Roma 2016. R.

Infine meritano di essere segnalate altre opere, con im­ postazione più divulgativa o con taglio di riflessione spiri­ tuale: G. SEGALLA, Giovanni, Paoline, Roma 1976; D. MoLLAT, Da Gesù al Padre. Introduzione alla lettura ese­ getico-spirituale del Vangelo di Giovanni, Boria, Roma 1 983; G. ZEVINI, Vangelo secondo Giovanni, I-II, Città nuova, Ro­ ma 1984-1987; M. LACONI, Il racconto di Giovanni, Cittadella, Assisi 1989; A. VANHOYE, Se conoscessi il dono di Dio. Saggi sul Quarto Vangelo , Piemme, Casale Monferrato 1999; M. B RUNINI, Maestro, dove abiti? Donne e uomini alla se­ quela di Gesù nel Vangelo di Giovanni, EDB, Bologna 2003; S. FAUSTI, Una comunità legge il Vangelo di Giovanni, I-II, EDB, Bologna 2002-2004; U. VANNI, Il tesoro di Giovanni. Un percorso biblico-spiri­ tuale nel Quarto Vangelo (Orizzonti biblici), Cittadella, Assisi 2010; F. MosETTO, Vangelo di Giovanni, Elledici, Leumann (TO) 2013; C. DoGLIO (ed.), Il quarto Vangelo (Parole di vita, 6), EMP, Padova 2015.

215

III

Le lettere di Giovanni

Affini, eppur distinte

Al nome di Giovanni sono legate, oltre al Quarto Van­ gelo, anche tre lettere, inserite nel canone fra le sette «Let­ tere cattoliche»: il linguaggio e la tematica teologica confer­ mano che questi scritti appartengono alla comunità giovan­ nea e si collocano bene nel momento entusiasmante e diffi­ cile vissuto dal gruppo che conservava la testimonianza del discepolo amato. Le tre lettere sono affini, eppur distinte. La Prima presenta un ampio e mirabile testo teologico, per molti aspetti conforme al Quarto Vangelo e annoverato fra i vertici della teologia neotestamentaria; gli altri due scritti sono semplici e brevi biglietti: la Seconda lettera sembra la sintesi della Prima, la Terza contiene un messaggio personale relativo a una precisa problematica di vita comunitaria. Introduzione

Dato lo stretto legame che accomuna questi tre scritti giovannei molto di ciò che viene detto per la Prima lettera vale anche per le altre due, tuttavia i due scritti minori hanno una loro identità che necessita di un'introduzione a parte. Prima lettera di Giovanni

Iniziamo quindi a trattare la Prima lettera, inserendola nell'ambiente della comunità giovannea al fine di chiarire le motivazioni che ne hanno determinato la stesura e preci­ sarne le altre coordinate letterarie. 216

Autore

Il nome dell'autore non compare mai nella lettera e non vi si ritrovano nemmeno particolari che alludano alla sua vita e alla sua persona; tuttavia si presenta come un perso­ naggio rivestito di autorità dottrinale e portatore della tra­ dizione evangelica, cosciente di una grave responsabilità nei confronti della vita di fede delle persone a cui si rivolge. Mentre nel Quarto Vangelo il «noi» ecclesiale compare solo all'inizio (Gv 1 ,14.16) e alla fine (Gv 21 ,24), nella l Giovanni l'autore ne fa ampio uso: nel prologo iniziale il mittente si presenta come comunitario (1,4 : «noi scriviamo queste cose») , ma poi nel corso del testo adopera il medesimo verbo «scrivere» alla prima persona singolare, per ribadire il motivo che lo ha spinto a stendere tale opera. Mentre però il pronome «io» non compare mai e solo una volta i destinatari sono detti «figlioli miei» (2,1 ), è sottolineato con enfasi il pronome «noi», che ricorre ben 56 volte. L'impressione è che chi scrive materialmente il testo sia un unico individuo, che però si propone sempre come unito al suo gruppo mentre si rivolge a un altro gruppo («voi»). Secondo il concorde giudizio dell'antica tradizione, a scrivere la Prima lettera è Giovanni, il discepolo del Signore: si riapre quindi l'annosa questione dell'autore chiamato «Giovanni», ma nel caso della lettera si pone anche la domanda se si tratti del medesimo autore che ha scritto il Quarto Vangelo. Le opinioni degli studiosi negli ultimi secoli sono state le più disparate e anche oggi non c'è accordo; c'è però una notevole convergenza di opinioni nel ritenere che gli Scritti giovannei siano nati nell'ambito della stessa comunità: il fatto quindi di dipendere dalla medesima testi­ monianza oculare del discepolo amato avrebbe determinato una ben precisa tradizione evangelica, con un conseguente linguaggio tipico proprio dei gruppi ristretti. Tale visione comunitaria della letteratura giovannea permette quindi di

Io e noi

1

1

Cf 1 Gv 2 , 1 .7.8. 1 2 . 1 3 . 14.21 .26; 5 , 1 3 .

217

Giovanni

Un gruppo responsabile della comu­ nità giovan­ nea

comprendere sia le somiglianze che le differenze - di voca­ bolario, stile e pensiero - riscontrabili nelle varie opere. L'esperienza storica che fu del testimone oculare è di­ venuta quindi comune anche agli altri discepoli di Gesù che appartengono al suo gruppo e ormai è accettata e condivisa dalla «comunità docente», il gruppo responsabile della Chie­ sa giovannea, che vuole trasmettere la propria convinzione di fede. Se si considera poi la composizione del Quarto Van­ gelo come un'opera complessa e durata decenni, la questio­ ne se la l Giovanni sia anteriore o posteriore al Vangelo non si può risolvere in modo semplice; è sensato affermare, piut­ tosto, che la stesura della lettera sia avvenuta verso la fine della redazione del Quarto Vangelo, con cui interagisce. Analogamente, l'autore della l Giovanni può coincidere con l'evangelista o con il redattore finale, oppure può essere un altro autorevole insegnante della comunità che si rivolge ai fedeli a nome del gruppo dirigente: chi scrive è così forte­ mente legato alla testimonianza del discepolo amato che la sua identità, di cui non possiamo dire nulla con certezza, non è rilevante. È saggio quindi continuare l'uso della tradizione antica e chiamare genericamente l'autore Giovanni. Destinatari e scopo

Mancano indicazioni precise

Nella lettera non ci sono indicazioni su luoghi geografici o riferimenti storici che permettano di collocarla nel tempo e nello spazio; ogni ragionamento dunque dipende dal po­ stulato che gli Scritti giovannei abbiano visto la luce nella regione di Efeso, dove viveva quella comunità, verso la fine del I sec., secondo i dati presenti nell'Apo calisse Ai destinatari l'autore si rivolge, interpellandoli sem­ plicemente col «VOi» e utilizzando con frequenza vocativi di tenerezza, quali «figlioli», «carissimi», «ragazzi»:2 il tono pa.

2

Cf 1 Gv 2,1.12.28; 3,7.18; 5,21 (teknia); 1Gv 2,7; 3,2.21; 4,1.7.11 (agapet6i); 1Gv 2,14.18 (paidia).

218

terno e affettuoso rivela un forte legame e una vivace preoc- Un ruolo cupazione, perché quelle persone gli stanno a cuore. Se il Paterno termine affettuoso «figlioli>> può abbracciare tutti i membri della comunità, la distinzione fra «padri» e «giovani» (2,1214) lascia intendere che alcuni fanno parte del gruppo da tanto tempo, avendo addirittura avuto la possibilità di co­ noscere il Gesù storico, mentre altri sono entrati da poco a farne parte: nulla tuttavia traspare della loro identità. È opportuno notare che nella l Giovanni non c'è alcun Problemi riferimento al mondo giudaico né polemica con la sinagoga interni e le sue posizioni teologiche; mancano addirittura le citazioni bibliche e non sono presenti testi tratti dall' AT. L'at­ tenzione è tutta concentrata sulla realtà ecclesiale e i problemi che emergono al suo interno: l'opera nasce infatti dal­ l'istanza pastorale di mettere in guardia i credenti contro i falsi maestri - chiamati «anticristi» (2,1 8.22; 4,3), «pseudo­ profeti» ( 4,1 ) , «figli del diavolo» (3,10) e «ingannatori» (2,26; 3,7) - che divulgano dottrine errate. Il termine antichristos è esclusivo delle Lettere di Gio- Anticristi vanni e non compare altrove in tutta la letteratura biblica. Caratterizzato dalla preposizione anti, che indica contrap­ posizione e sostituzione, il vocabolo dev'essere stato coniato proprio nell'ambito della comunità giovannea per designare la figura escatologica dell'avversario, del nemico, dell'op­ positore (cf 2Ts 2,4; 1Pt 5,8). Sembra che la tradizione gio­ vannea prospettasse prima della parusia la comparsa di un oppositore di Cristo, per cui la lettera deduce che, essendo comparsi molti avversari della verità cristologica, è iniziata la fase finale. Nel Quarto Vangelo però non compare la formula «ultima ora», né l'annuncio dell'anticristo: la l Giovanni deve aver derivato questa idea dall'antica e comune tradizione dei detti di Gesù, cui è attribuito il preannuncio di falsi messia (pseud6christoi) e falsi profeti (pseudoprofétai) che potrebbero ingannare i discepoli (cf Mt 24,23-25). Questa eventualità diventa drammaticamente reale nel­ l'ambito della stessa comunità: «Ora molti anticristi si sono presentati» (2,18). 219

Alcuni sono usciti da/ gruppo

Noi, voi, loro

Un 'errata dottrina morale

Un indizio importante aiuta a comprendere la situazione storica che ha determinato lo scritto: «Sono usciti da noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero ri­ masti con noi; sono usciti perché fosse manifesto che non tut­ ti sono dei nostri» (2,19). Alcuni membri della comunità gio­ vannea a un certo momento se ne sono andati, separandosi dal resto dei fedeli, e l'intera l Giovanni è motivata da que­ sta scissione dolorosa, che - a giudicare dalla drammaticità della situazione - sembra recente e grave: l'autore lancia ri­ petutamente critiche e rimproveri contro questi secessionisti, impegnandosi a smontare la loro infondata ed erronea dot­ trina; insiste inoltre sull'idea che quella secessione, seppur dolorosa, è stata utile, poiché ha fornito un criterio per di­ scernere l'autentica appartenenza al gruppo. Nell'articolazione dei discorsi è dominante la correlazio­ ne fra tre pronomi personali (noi, voi, loro), che permettono di riconoscere tre realtà distinte: il «noi» esprime la voce del gruppo dirigente, cioè i responsabili della comunità giovan­ nea, preoccupati di difendere la verità della tradizione e com­ battere gli avversari; il «voi» indica i destinatari, cioè i fedeli della comunità che rischiano di essere traviati dai falsi mae­ stri; infine «loro» sono quelli che hanno creato il problema, insegnando dottrine che si oppongono alla verità di Cristo. Possiamo ricostruire la dottrina dei secessionisti a partire dalle obiezioni che la l Giovanni muove contro di essi, ripor­ tando con una coinvolgente rnetodologia retorica alcune loro affermazioni ( 1 ,6.8.10; 2,4.6.9; 4,20). Sembra anzitutto che quei falsi maestri sostenessero di «essere senza peccato», ri­ fiutando la realtà stessa del peccato e teorizzando l'irrilevan­ za della condotta morale; pretendevano, inoltre, di avere una conoscenza superiore della dottrina cristiana e vantavano straordinari doni dello spirito. L'ambito morale concreto è ciò su cui più spesso li incalza l'autore, sottolineando lo stret­ to legame fra dottrina e vita: è il comportamento dei seces­ sionisti, l'incoerenza fra il dire («arno Dio») e il fare («odio il fratello»), a srnascherarli come bugiardi e privi della verità, nonché a rivelare l'infondatezza dellé loro dottrine. 220

L'altro importante errore che viene imputato agli av­ versari riguarda la cristologia: essi si rivelano mentitori e oppositori di Cristo, poiché negano che l'uomo Gesù sia il Cristo, rifiutano la sua qualità di Figlio in relazione al Padre (2,22) e non riconoscono Gesù Cristo «venuto nella carne» (4,2-3; cf 2Gv 7). L'insistenza sulla «carne» del messia lascia intendere che gli avversari combattuti da Giovanni, pur ac­ cettando la divinità del Cristo, negassero la realtà dell'in­ carnazione: nella loro dottrina eretica si può quindi ricono­ scere un inizio di docetismo, che sostiene la semplice appa­ renza umana del Cristo. Le informazioni interne al testo non permettono di ri­ costruire l'identità precisa di questi secessionisti né di dire quando avvenne lo strappo. Sembra, però, che si tratti di un gruppo unico, non composto da giudeo-cristiani, ma piutto­ sto da ellenisti, caratterizzati da una mentalità vagamente gnostica: gli antichi Padri fanno il nome di Cerinto come ca­ po di un gruppo eretico fieramente avversato da Giovanni; anche dagli scritti di Ignazio d'Antiochia (verso il 110) emer­ gono problematiche cristologiche simili, che inducono a ipo­ tizzare una mentalità abbastanza diffusa in quegli anni. La stesura della l Giovanni, abbiamo visto, è stretta­ mente legata alle vicende della comunità giovannea, che però possiamo ricostruire solo per via ipotetica. È possibile ad esempio immaginare che il motivo scatenante sia stato l'interpretazione del Quarto Vangelo,3 che un gruppo di cri­ stiani avrebbe interpretato in modo «gnostico», provocan­ do la forte reazione dell'evangelista: allontanatisi gli «an­ ticristi», venne scritta la lettera per chiarire la problemati­ ca. Comunque siano andate le cose, resta evidente che l'au­ tore richiama la tradizione antica, cioè l'insegnamento tra­ smesso «fin da principio» : questa formula ricorre spesso nella l Giovanni4 per sottolineare il prezioso collegamento

3

Così



Cf 1Gv

BROWN, Le Lettere di Giovanni, 1 1 3-177. 1 ,1; 2,7.13.14.24; 3,8. 11.

221

Un 'errata visione cristologica

Pensiero vagamente gnostico

Richiamo al principio

L'obiettivo è discernere la verità

con le origini stesse della testimonianza offerta dal discepo­ lo del Signore, a cui chi scrive chiede di rimanere fedeli. L'autore tuttavia non si rivolge solo ai membri della co­ munità, bensì, insistendo più volte sui due risvolti del pro­ blema, sembra voler raggiungere anche i secessionisti. Chia­ risce la retta dottrina già nota e insiste con sollecitudine pa­ terna perché l'insegnamento tradizionale sia conservato e messo in pratica con coerenza: l'intento fondamentale è quello di contribuire ad un corretto discernimento, in modo che i lettori sappiano distinguere lo spirito della verità e lo spirito dell'errore (4,6) e non cadano vittime dell'inganno (2,26; 3,7). Al tempo stesso, però, pensando di essere letto anche da quelli che se ne sono andati, l'autore evidenzia i loro errori e ne biasima l'infedeltà, perché comprendano di aver sbagliato e si ravvedano. Genere letterario e unità

Affinità col QV

Vocabolario

Stile letterario

L'esame letterario della l Giovanni solleva anzitutto la questione del confronto con il Quarto Vangelo: pur accet­ tando l'ipotesi che entrambi gli scritti siano nati all'interno della comunità giovannea e abbiano come punto di riferi­ mento autoriale la testimonianza del discepolo amato, non siamo tuttavia in grado di chiarire ulteriormente i rapporti che intercorrono fra le due opere, perché mancano fonti sto­ riche e patristiche che ci offrano informazioni. Dall'analisi diretta dei testi stessi possiamo osservare che nonostante al­ cune differenze la lingua, lo stile e il pensiero della l Gio­ vanni sono molto vicini al Vangelo secondo Giovanni. Il vo­ cabolario è analogo: contando solo 350 parole diverse, il les­ sico della l Giovanni è sostanzialmente povero, ma molti termini teologici impiegati nella lettera sono caratteristici anche del Vangelo; ricorrono vocaboli tipicamente giovan­ nei e sono presenti espressioni semitizzanti caratteristiche anche del Quarto Vangelo. Altrettanto si può dire dello stile letterario: il modo di parlare è diretto e semplice, le frasi sono paratattiche e or222

ganizzate in forma elementare, la composizione è piana e lineare. Si nota tuttavia l'assenza di alcune espressioni pe­ culiari del Vangelo ( gloria, innalzare, giudizio) e il tono di­ dascalico e dottrinale risulta nuovo. Tali differenze però si spiegano facilmente con il diverso genere letterario e non sono tali da distinguere nettamente i due scritti. Caratteristica della l Giovanni è la struttura composita, evidenziata dall'analisi storico-letteraria, che ha fatto risal­ tare una certa varietà nello stile e nel contenuto: gli argo­ menti trattati sono molti e non sempre è facile seguire il filo logico dei ragionamenti; alcune affermazioni appaiono in contrasto fra di loro e talvolta sembra che la ripresa di un tema corregga l'impostazione precedente; spesso inoltre lo stile cambia da un brano all'altro. Nella lettera, infatti, sono percepibili chiaramente almeno tre stili differenti: in qual­ che parte il tono è profetico ed esprime con solennità grandi verità di fede, legate alla tradizione che risale fino alla te­ stimonianza oculare di Gesù; in altri casi lo stile diviene di­ dascalico, facendo minuziosamente chiarezza fra una posi­ zione e l'altra con l'intento di combattere gli errori e sma­ scherare gli inganni; infine è innegabile il tono omiletico e familiare con cui l'autore talvolta si rivolge dolcemente agli «amati figlioli» per esortarli e incoraggiarli. La varietà di contenuto e di stile ha indotto gli studiosi del passato a dubitare dell'unitarietà dell'opera e a escogi­ tare ipotesi di ricostruzione del testo. All'inizio del secolo scorso, si è ipotizzata l'esistenza di una «fonte delle antitesi» ( riconoscibile nella sezione 2,18-3,10): il testo attuale sareb­ be nato - come commento esortativo elaborato da un re­ dattore giovanneo - a partire da un semplice elenco di for­ mule contrapposte.5 Ipotesi ricostruttive del genere si sono moltiplicate per tutto il Novecento, mentre oggi gli esegeti preferiscono sottolineare la sostanziale unità letteraria dello

5

Questa ipotesi risale a uno studio di E . von Dobschtitz del 1 907 ed è

stata ripresa da

R. Bultmann.

223

Stile profetico, didascalico, ami/etico

Unitarietà

Quale genere letterario?

Una lettera circolare

scritto, le cui variazioni sarebbero imputabili all'autore stes­ so, che secondo un procedimento semitico considera le cose sotto profili diversi, evidenzia mediante ripetizioni ciò che ritiene importante e volutamente utilizza toni differenti a seconda della necessità. Anche riguardo al genere letterario la situazione appa­ re complessa. Tradizionalmente è sempre stata considerata una lettera, ma sono assenti alcuni elementi tipici del genere epistolare ( il nome del mittente e dei destinatari con il tipico saluto all'inizio, il congedo coi saluti alla fine ) . In forza di ciò, alcuni studiosi hanno proposto di qualificare la l Gio­ vanni come un'omelia, altri come un trattato teologico: tut­ tavia i riferimenti al fatto che l'autore ha «scritto» sono trop­ pi per qualificare l'opera come un discorso e, nonostante il tono decisamente dottrinale, non si può parlare di una trat­ tazione monografica. Chi lega strettamente la l Giovanni al Quarto Vangelo la considera un complemento del Vangelo, una specie di guida alla lettura e alla sua corretta interpre­ tazione. Pur non contenendo indirizzo iniziale e nemmeno con­ gedo finale, lo scritto presenta apertamente i caratteri di una vera lettera e i tre stili che abbiamo già osservato - profetico, didascalico e omiletico - sono espressione di altrettanti ge­ neri letterari - annuncio, argomentazione ed esortazione che vengono concatenati fra di loro a determinare un 'unità particolare. Questo discorso articolato è stato messo per iscritto perché indirizzato probabilmente a più comunità del medesimo ambiente, legate all'autorità del discepolo Gio­ vanni, che devono affrontare problemi analoghi. Si può dun­ que parlare di una lettera circolare o enciclica, in cui sono fissate le linee principali della tradizione giovannea. Disposizione

Determinare la struttura letteraria della l Gv è impresa ardua: l'andamento del discorso giovanneo è stato parago­ nato al fiume Meandro, che scorre proprio nella terra in cui 224

ha visto la luce questo scritto, per sottolinearne l'andamento con molte anse e curve. Fatti salvi il prologo e l'epilogo, ri­ conosciuti da tutti, e senza passare in rassegna le numerose proposte di disposizione del testo, possiamo ricordare che la maggioranza degli studiosi struttura il corpo della Lettera in due, in tre, oppure in sette parti.6 Fermo restando che i criteri per identificare suddivisio­ ni fra parti maggiori e singole sotto-unità vanno desunti dal testo stesso e non imposti dal pensiero dell'esegeta, anche in questo caso le difficoltà non mancano, perché molti ver­ setti di raccordo - inseriti come elementi di sutura o di pas­ saggio - possono stare sia con ciò che precede sia con ciò che segue; lo studio del discorso in base ai criteri della reto­ rica classica, tuttavia, aiuta a riconoscere l'andamento del penstero. Il tenore omiletico del testo non sopporta schemi trop­ po elaborati, ma raccomanda quelli più semplici; occorre dunque distinguere i tre diversi generi letterari e studiare l'unitaria concatenazione di annuncio, argomentazione ed esortazione. L'analisi letteraria e retorica ha dimostrato co­ me il genere della «cria>> ( in greco: chréia ) , simile a un di­ scorso in miniatura, comprenda i tre stili caratteristici della lettera: 1) la proposta di un tema, 2) la sua elaborazione me­ diante alcuni ragionamenti, 3) una breve esortazione.7 In base a questo criterio è stato possibile riconoscere ed evi­ denziare alcuni annunci kerygmatici che consentono di tro­ vare la soluzione del puzzle ed affermare che la l Giovanni è una collana, non un mucchio di perle. L'identificazione de­ gli annunci fondamentali permette di individuare le pericopi in cui l'intero testo è articolato: ogni pericope è aperta da un messaggio kerygmatico e comprende, oltre a una o più 6

Si tratta, rispettivamente, delle proposte di B ROWN, Le Lettere di Gio­ vanni, p . 1 90; KLAU CK, Lettere di Giovanni, 44; e GIURISATO , Struttura e teologia della Prima Lettera di Giovanni, 298. 7 Questa è la proposta di GtURISATO, Struttura e teologia della Prima Let­ tera di Giovanni, 263-298.

225

Varie proposte

La ricerca dei criteri

Il genere

letterario della "cria "

Struttura

brevi esortazioni, una serie di argomentazioni, ben struttu­ rate fra di loro con legami letterari, progressioni di pensiero e variazioni linguistiche. Seguendo questa impostazione è possibile riconoscere - oltre al prologo e all'epilogo - una serie di sette unità let­ terarie complesse, che si susseguono in modo armonico e concatenato con novità e riprese. 1 ,1-4 1,5-2,6

Prologo prima pericope: Camminare in comunione con Dio

annuncio: «Questo è l'annuncio: Dio è luce» 1,5 1 ,6-2,6 quattro argomentazioni e una esortazione

2,7-17

seconda pericope: Scegliere l'amore autentico

annuncio: «Un comandamento nuovo e an­ tico>> 2,8b-17 quattro argomentazioni e una esortazione

2,7 8a -

2,18-28

terza pericope: Confessare il Figlio per possedere il Padre

2,18 annuncio: « È l'ultima ora» 2,19-28 sei argomentazioni e tre esortazioni 2,29-3,10 quarta pericope: Riconoscere la generazione da Dio 2,29 annuncio: «Chi fa la giustizia è nato da Dio» 3,1-10 quattro argomentazioni e una esortazione 3,1 1-22 quinta pericope: Amare in opere e verità annuncio: «Questo è l'annuncio: ci amiamo 3,11 a vicenda» 3,12-22 quattro argomentazioni e due esortazioni 3,23-5 ,4 sesta pericope: Credere e amare annuncio: «Crediamo in Gesù e ci amiamo 3,23 a vicenda» 3,24-5,4 undici argomentazioni e quattro esortazioni 5,5-17 settima pericope: Accogliere la testimonianza divina annuncio: «Gesù è il Figlio di Dio» 5,5 5,6-17 sei argomentazioni e una esortazione 5,18-21 Epilogo 226

Seconda lettera di Giovanni

Gli altri due brevi testi attribuiti a Giovanni sono indi­ cati con un numero successivo semplicemente per distin­ guerli dalla Prima lettera. Anche in questo caso il vocabola­ rio, lo stile e la dottrina rivelano una stretta vicinanza fra loro e con gli altri scritti giovannei. Non furono però accolti altrettanto facilmente dalla Chiesa come testi ispirati e ca­ nonici, soprattutto per il loro carattere occasionai e e la scar­ sa rilevanza dottrinale: evidentemente furono conservati e introdotti nel canone solo per la stima che suscitava l'origine giovannea. Lo scritto denominato 2 Giovanni è certamente legato Un testo all'ambiente ecclesiale e teologico determinato dalla testi­ affine, monianza del discepolo amato; è affine per contenuto alla ma distinto l Giovanni, ma non ne costituisce la continuazione; è un al­ tro testo, simile per argomento e intenzione, ma distinto e da considerare a sé. Ha la forma di una vera lettera, ma si distingue dalla corrispondenza privata e assume la conno­ tazione di una missiva ufficiale da parte di un'autorità ad un gruppo di persone, che nel prescritto sono presentate con ti­ toli di sapore metaforico. Autore

L' «io» che scrive si qualifica semplicemente come ho presbyteros ( «il presbitero» ) : il vocabolo greco è un comparativo e significa letteralmente «colui che è più anziano»; nel linguaggio giudaico ha tradotto l'espressione ebraica che designava gli anziani delle tribù di Israele, cioè i capi-famiglia, responsabili dei vari gruppi che componevano la popolazione. N e i Sin ottici si indicano infatti con questo termine i nobili laici, esponenti di famiglie aristocratiche e coinvolti nel sinedrio di Gerusalemme; negli Atti e nelle lettere apostoliche si nota come la comunità cristiana l'abbia utilizzato per designare i vari responsabili delle Chiese locali; nell'Ap oca lisse infine sono chiamati «pre227

Il presbitero

Autorevole membro della comunità

sbiteri» i 24 personaggi simbolici che fanno corona al trono divino. Il termine non è tipicamente giovanneo e solo nel prescritto di 2 Giovanni e 3 Giovanni identifica una per­ sona specifica. Di certo l'uso dell'articolo determinativo conferisce particolare enfasi al termine, perché non è «Un» presbitero a rivolgersi ai destinatari, bensì «il» presbitero, cioè il capo per antonomasia, che nell'ambiente tutti conoscono e sti­ mano: un autorevole membro della comunità giovannea, che svolge un ruolo importante di guida per i discepoli e di custode della tradizione evangelica, e che in forza della tra­ dizione antica possiamo identificare con Giovanni, il disce­ polo del Signore; scritti occasionati così brevi sarebbero fa­ cilmente andati smarriti senza l'autorità di un simile perso­ naggio. Destinatari e scopo

La Signora Chiesa

Contro falsi maestri

L'autore si rivolge «alla Signora (kyria) eletta e ai suoi figli». Il femminile di kyrios («Signore») compare solo in questo scritto neotestamentario (vv. 1 .5) e non pare affatto un termine banale: sembra effettivamente derivato dal vo­ cabolo che designa il Signore Gesù, per connotare la Chiesa come sposa del Cristo. L'aggettivo «eletta» richiama la de­ finizione dei cristiani come «eletti di Dio». Accettando le indicazioni geografiche fornite dall'A ­ pocalisse, che fanno di Efeso la sede principale della co­ munità giovannea, possiamo ritenere che «la Signora elet­ ta» sia una Chiesa locale dell'Asia Minore, legata da stretti rapporti con la comunità dell 'autore, sua «eletta sorella» (v. 13). Non si tratta quindi di due persone, ma di simboli delle Chiese particolari, personificate come donne, sorelle fra di loro: i figli di queste donne sono i membri delle ri­ spettive comunità. Come per la l Giovanni, l'intento dello scritto è di me ttere in guardia i discepoli dal pericolo di falsi maestri, ri­ chiedendo una profonda coerenza fra dottrina teologica e 228

comportamento morale. L'errore dei falsi maestri viene pre­ cisato con un'unica sentenza: «Non riconoscono Gesù Cri­ sto venuto nella carne» (v. 7). Il presbitero invita quindi i suoi destinatari a tagliare ogni rapporto con tali seduttori o «anticristi». La 2 Giovanni dunque contiene in sintesi le stesse idee esposte in modo più diffuso nella Prima lettera: che ci sia un rapporto fra questi due scritti è evidente, ma non è possibile affermare con certezza quale sia tale relazione. Si può pensare che la 2 Giovanni sia una prima presa di posizione contro l' apparire delle nuove dottrine errate , confutate poi più ampiamente nella lettera lunga; ma è anche possibile ritenere che si tratti di una specie di compendio della l Giovanni, più facilmente divulgabile. Nessun elemento sicuro permette di precisare la data di com­ posizione, che resta comunque vicina alla stesura della Prima lettera .

Relazione con lGv

Disposizione

La 2 Giovanni non è divisa in capitoli, perché compren­ de solo 13 versetti, e la struttura del testo risulta molto sem­ plice: dopo il prescritto epistolare (vv. 1-3) si trova il corpo della lettera (vv. 4-1 1 ) , in cui il contenuto risulta articolato in due parti: la prima è dedicata alla coerenza fra dottrina e vita, mentre la seconda denuncia il problema dei falsi mae­ stri che turbano la comunità giovannea. Il biglietto si con­ clude con una semplice formula di cortesia e di saluto, secondo le consuetudini (vv. 12-13). 1 -3 4-1 1

12-13

Prescritto Corpo della lettera 4-6 a) coerenza fra dottrina e vita 7-1 1 b ) questione dell'errore cristologico e invito al distacco Saluti finali 229

Struttura

Terza lettera di Giovanni

Il terzo scritto epistolare attribuito a Giovanni è un bre­ ve biglietto personale, affine agli altri scritti giovannei per vocabolario, stile e dottrina: si limita a suggerire alcune nor­ me pratiche di condotta ecclesiale. Autore Il presbitero

"Noi" ecclesiale

Come nella 2 Giovanni, chi scrive non si presenta con un nome proprio, ma con il titolo enfatico «il presbitero», che lascia quindi nuovamente aperto lo stesso problema del­ l 'identificazione. Al v. 9 l'autore rimprovera Diòtrefe che «non ci acco­ glie» e analogamente al v. 12 parla della «nostra testimo­ nianza»: l'uso del pronome «noi» lascia intendere che i mis­ sionari sono inviati dall'autore e dalla sua comunità. Come nella l Giovanni quindi il mittente epistolare non si considera un singolo, ma attraverso il «noi» ecclesiale si esprime a nome del gruppo dirigente della comunità giovannea. Il presbitero dunque, in base al tono autorevole che adopera nel corso della missiva, risulta certamente un mem­ bro influente della comunità giovannea e suo portavoce, ben conosciuto e investito di un ruolo importante nell'or­ ganizzazione della vita ecclesiale. Destinatario e situazione ecclesiale

A Gaio

Il destinatario in questo caso è un singolo personaggio, il «carissimo Gaio». Nulla sappiamo di lui, ma da questo scritto possiamo ricavare gli indizi per ricostruire una vi­ cenda di rapporti difficili all'interno delle comunità cristia­ ne. Nelle liste dei vescovi, ricordati dalle Costituzioni Apo­ stoliche, Gaio è indicato come vescovo di Pergamo e De­ metrio (nominato al v. 12) come vescovo di Filadelfia, due città strettamente legate alla comunità giovannea di Efeso (cf A p 2,12; 3,7); ma non siamo certi dell'attendibilità stori­ ca di queste informazioni. 230

Gaio è un credente che si è distinto nella comunità cristiana e nei suoi confronti l'autore è largo di elogi; dal lin­ guaggio affettuoso che adopera si comprende che il presbi­ tero ha un ruolo di padre nei confronti dei membri della co­ munità e che Gaio è uno dei suoi figli. L'utilizzo di termini propri dell'ambito famigliare lascia trasparire relazioni in­ time e affettuose che legano i vari componenti della comu­ nità giovannea. Solo nella 3 Giovanni fra le lettere giovannee compa­ re il termine ekklesia , assente anche nel Quarto Vangelo: è tipico del linguaggio paolina, ma il suo utilizzo frequen­ te nell'Apoca liss e mostra che non è ignorato dalla comu­ nità del discepolo amato. Designa l' assemblea dei fratelli, cioè l'insieme dei credenti che abita in un medesimo ter­ ritorio e si incontra abitualmente in una casa; all'interno di questa «chiesa domestica» i fratelli hanno reso buona testimonianza a Gaio, il quale risulta una persona che , avendo possibilità economiche, si è mostrata generosa nell'ospitalità e nell' aiuto materiale fornito agli inviati del presbitero. I missionari cristiani, partiti per predicare il nome di Gesù, non avevano alcun mezzo di sostegno e non volevano chiedere aiuto ai pagani, per non sembrare maestri interes­ sati o mercanti della verità; perciò avevano bisogno di esse­ re sostenuti nella loro missione dai fratelli di fede. Il presbi­ tero precisa che accogliere queste persone, dare loro ospi­ talità e fornire il necessario per il viaggio significa diventare «collaboratori della verità». C'è invece un individuo, di nome Diòtrefe, che mal sop­ porta il primato del presbitero e non vuole accogliere i pre­ dicatori da lui inviati: sembra evidente che questo personag­ gio sia un responsabile della Chiesa e, per qualche motivo, contesta l'autorità del presbitero, sparla di lui, si rifiuta di accogliere i suoi inviati, impedisce di farlo a quelli che lo vorrebbero e addirittura li scaccia dalla Chiesa. Tale atteg­ giamento ha causato nella comunità una situazione difficile e mcresc10sa. .

.

231

Relazioni affettuose con Gaio

Ospitalità offerta ai missionari

Relazioni ostili con Diòtrefe

Demetrio

Preziose notizie storiche

Forse la più antica

Infine, compare un altro personaggio, Demetrio, del quale si dice solo, con insistenza, che tutti danno testimo­ nianza a suo favore. Sebbene la sinteticità del testo non permetta di capire bene la vicenda, sembra che il presbitero domandi a Gaio la disponibilità ad accogliere il proprio in­ viato Demetrio nonostante la contrarietà di Diòtrefe , chie­ dendogli quindi il coraggio di affrontare l'ostilità di quel­ l'arrogante. Il pregio particolare del biglietto sta nelle informazioni storiche, perché grazie ad esso veniamo a conoscenza di al­ cuni importanti dati organizzativi dell'ambiente ecclesiale giovanneo: i gruppi legati al discepolo amato sono distri­ buiti in diverse località e il presbitero gode di grande auto­ rità sulle varie Chiese, sebbene vi siano persone che svol­ gono ruoli di particolare autorità; i rapporti fra questi «ca­ pi» non sono sempre buoni e anzi si registrano tensioni e opposizioni; esistono dei ministri itineranti che visitano le varie comunità su mandato del presbitero con il compito, probabilmente, di ravvivare la fede dei cristiani appena convertiti e diffondere il vangelo fra i pagani; le varie co­ munità cristiane locali ospitano e mantengono questi pre­ dicatori, accogliendoli nelle loro case e collaborando con il loro ministero profetico. Dal momento che non si fa cenno alle difficoltà procu­ rate dagli eretici, è possibile che questo scritto - fra le tre Lettere giovannee - sia il primo in ordine cronologico; in ogni caso il suo ambiente vitale sembra la comunità giovan­ nea di Efeso, dove è stato composto verso la fine del I sec. Disposizione

Analogamente alla 2 Giovanni, nemmeno la 3 Giovanni è divisa in capitoli, perché comprende solo 15 versetti: è lo scritto più breve del NT e conta in tutto 219 parole. Anche la sua struttura è ridotta al minimo: alla cortese frase di apertura (vv. 1-2) fa immediato seguito il breve corpo della lettera (vv. 3-12), articolato in tre parti: l'elogio di Gaio, il 232

rimprovero di Diòtrefe e la testimonianza a favore di De­ metrio. Lo scritto termina con una stereotipata formula di Struttura congedo (vv. 13-15). 1 -2 3-14

13-15

Prescritto Corpo della lettera 3-8 a) elogio di Gaio 9- 10 b) rimprovero di Diòtrefe 1 1-12 c) testimonianza a favore di Demetrio Saluti finali

Guida alla lettura Prima lettera di Giovanni Il prologo

(1, 1 -4)

L'inizio della lettera è in evidente rapporto con il prologo del Quarto Vangelo, anche se non è facile stabilire quale dei due sia il primo ad essere stato composto. Entrambi i testi hanno l'intento di chiarire il tema cristologico, rimarcando la realtà dell'incarnazione: entrambi adoperano il termine L6gos per presentare la persona di Gesù e sottolineano l'esperienza storica dei testimoni oculari. I primi tre versetti costituiscono un unico lungo periodo, sospeso da un'incidentale al centro: tale costruzione, piena di verbi e di formule che si accavallano, dà l'impressione della meraviglia e dell'entusiasmo di chi vuole co­ municare un prodigio. L'esperienza storica dell 'incontro con l'uomo Gesù è sintetizzata e trasmessa con formule di teologia matura, che interpretano il senso e il valore della sua persona, e il fine di questo annuncio è la comunione, cioè il vincolo che accomuna coloro che scrivono e coloro che leggono la lettera: tale vocabolo, che nelle opere giovannee compare solo in questo primo capitolo, esprime oltre all'unità ecclesiale anche l'unione profonda che lega la 233

Inizio simile al QV

Rivelazione e comunione

l/fine è la gioia

comunità credente «con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo» . L'unica occorrenza plurale del verbo «scrivere», accom­ pagnata dall'enfatico pronome «noi», chiude (v. 4) il prolo­ go, precisando che il fine atteso da questa comunicazione scritta è una «gioia piena» : la gioia del testimone non si esaurisce nei confini della sua comunità, ma diviene perfetta quando può associare altre persone alla comunione con Dio. Prima pericope (1,5-2,6): camminare in comunione con Dio

Dio è luce

Struttura

Camminare nella coerenza

Dopo l'enunciazione sintetica del tema generale, il di­ scorso inizia con un primo annuncio tradizionale, tipicamen­ te giovanneo: «Dio è luce e in lui non c'è tenebra alcuna» ( 1 ,5). Il vocabolo anghelia, che nel NT occorre solo qui e in 3,1 1 , indica tale «messaggio» e presenta il contenuto evan­ gelico come rivelazione della realtà divina e offre il presup­ posto teologico alla condotta del credente. In forza di que­ sta originale sintesi giovannea - che qualifica Dio come fon­ te positiva della vita e origine della rivelazione (cf Gv l ,9) e di conseguenza la luce come simbolo pregnante del «bene» e la tenebra, suo contrario, del «male» - l Giovanni deduce una decisiva conseguenza morale. Le argomentazioni successive si incentrano sul tema della coerenza fra il dire e il fare, con l'intento di difendere la tradizione giovannea da cattive interpretazioni e di sma­ scherare i falsi maestri che danneggiano la comunità. Tali argomentazioni, svolte con insistenti periodi ipotetici, sono quattro, disposte in modo concentrico (A: 1 ,6-7; B: 1 ,8-10; B': 2,1b-2; � : 2,3-6); al centro (2,1a), come cuore del discor­ so, troviamo l'esortazione a non peccare, giacché il tema del peccato ha un ruolo importante in questo ragionamento. La prima argomentazione (1 ,6-7) sviluppa - mediante due sillogismi - due casi opposti, uno negativo e l'altro po­ sitivo. Partendo in entrambi i casi dal presupposto che «Dio 234

è luce», l'autore afferma che decisivo per verificare l'atten­ dibilità delle parole è il comportamento morale, designato dal­ la metafora semitica del «cammino». Nel primo caso (v. 6) dunque chi pretende a parole di essere in comunione con Dio, ma poi si comporta male, dimostra di essere un bugiar­ do; al contrario (v. 7) chi si comporta bene è davvero in co­ munione con Dio e con i fratelli. Questo primo ragionamen­ to si conclude con un riferimento al valore espiatorio del «Sangue di Gesù», capace di purificare dal peccato. La seconda argomentazione ( 1 ,8-10) insiste nella polemica con i falsi maestri che affermavano di «essere senza peccato» negando la realtà stessa del peccato. Con tre martellanti periodi ipotetici l'autore presenta di nuovo due situazioni contrarie: i vv. 8. 10, che evidenziano l'errore di chi si proclama esente dal peccato, incorniciano l'atteggiamento corretto (v. 9) di chi confessa i propri peccati. Il centro della pericope (2,1a) è tenuto dall'esortazione a non peccare, introdotta dal vocativo affettuoso «figlioli» ( teknfa: cf 2,1 2.28; 3,7. 18; 5,21 ), accompagnato solo qui dal possessivo «mlel». La terza argomentazione (2,1b-2) ritorna sul tema del peccato e ribadisce la potenza redentrice di Gesù Cristo per chiunque confessi la propria colpa: Gesù è l'intercessore, che si rivolge al Padre a favore degli uomini; è il giusto, che mette in buona relazione con il Padre; è l'espiazione in persona, che rende benigno Dio e purifica ogni uomo. La quarta argomentazione (2,3-6) , che conclude la pericope, ritorna al tema iniziale e con una serie di riflessioni sillogistiche dimostra che la vera conoscenza di Dio si identifica con l'atteggiamento di Gesù che i credenti vogliono concretamente imitare. Con l'espressione «da questo sappiamo», ripetuta più volte nella l Giovanni,8 viene presentata anzitutto la premessa maggiore del sillogismo, il punto fermo da cui dedurre le conseguenze: conoscere Dio signi-

" Cf l Gv 2,3.5; 3,24; 4,13; 5 ,2.

235

Riconoscere i propri peccati

Non peccate!

Gesù espia i peccati

Camminare come Gesù

fica custodire i suoi comandamenti (v. 3). D a questa pre­ messa basilare l'autore deriva l'esemplificazione di due si­ tuazioni contrarie, una negativa (v. 4) e una positiva (v. 5). Il vertice del ragionamento introduce un'altra tipica for­ mula giovannea («rimanere in lui»): chi afferma a parole di dimorare in Gesù, deve «camminare come egli cam­ minò» (v. 6). La doppia ripresa del verbo «camminare», an­ che se è tradotto con «comportarsi», determina un'impor­ tante inclusione con l'inizio della pericope (1 ,6-7): Gesù è il modello da seguire. Seconda pericope (2, 7-1 7): scegliere l'amore autentico Un coman­ do antico e nuovo

Struttura

La tenebra passa

La nuova pericope è introdotta da un vocativo affettuo­ so ( agapet6i, «carissimi»), che segna l 'inizio anche di altri passaggi della lettera.9 Il riferimento ad un annuncio tradi­ zionale (2,7-8a) segnala l'inizio della pericope, in cui si ri­ chiama il «comandamento» di Gesù, che è «antico», perché pronunciato in passato da Gesù e accolto dalla comunità fin «da principio», ma è anche «nuovo», perché così l'ha chia­ mato il Maestro (cf Gv 13,34) , consegnandolo loro. A par­ tire da questo kérygma fondamentale si sviluppano le se­ guenti riflessioni. Come nella prima unità letteraria, anche queste quattro argomentazioni seguono un medesimo schema concentrico disposto intorno ad un'esortazione centrale (A: 2,8b; B: 2,91 1 ; B': 2,15b-16; .N: 2,17); al centro (2,12-15a) si trova l'e­ sortazione a non amare il mondo, preceduta da un detta­ gliato elenco dei destinatari. La prima argomentazione (2,8b) è sintetica ed enigma­ tica. Gesù aveva proposto come «nuovo» un comandamen­ to che era già presente nell'antica legislazione di Israele, ma sottolineando l'assoluta novità della sua realizzazione me­ diante il dono totale di sé; analogamente ora la comunità

9

Cf l Gv 3,2. 2 1 ; 4 , 1 . 7 . 1 1 .

236

giovannea deve riconoscere come sempre «nuovo» questo comando grazie alla coerente imitazione del Cristo. La splendida immagine simbolica della luce che vince la tene­ bra - è preferibile usare il singolare, tipico di Giovanni - ri­ prende vistosamente l' analoga contrapposizione presente nel prologo del Quarto Vangelo (Gv 1 ,4-5.9). La seconda argomentazione (2,9-1 1 ) prende le mosse dalla «luce» come parola-gancio e sviluppa le due possibili situazioni, ancora una volta opposte, in cui viene a trovarsi il credente. La riflessione si articola in tre frasi, tutte introdotte da un participio sostantivato («chi dice/chi ama/chi odia»): come di consueto, due presentano la situazione negativa (vv. 9.1 1 ) e incorniciano quella positiva che è al centro (v. 10). A questo fosco ritratto reagisce l'esortazione centrale (2,12-15a), che si apre con un complesso elenco di destinatari a cui l'autore indirizza lo scritto: il termine affettuoso «figlioli» abbraccia tutti i membri della comunità, mentre «padri» sono detti coloro che da tanto tempo ne fanno parte e «giovani» sono quelli entrati da poco. La variazione dal tempo presente all'aoristo del verbo «scrivere», ripetuto sei volte, sembra solo stilistica. La congiunzione h6ti, che ac­ compagna tale verbo, potrebbe avere un valore causale o, forse meglio, dichiarativo per esplicitare il messaggio che continua a produrre nel presente le conseguenze. Il lungo elenco, con le sue ripetizioni e sottolineature, serve per attirare l'attenzione sul suggerimento che arriva alla fine e costituisce l'obiettivo del brano: «Non amate il mondo, né le cose del mondo! » (v. 15a). In forza di tutto quello che hanno già ricevuto e cominciato a fare, i vari membri della comunità sono invitati a scegliere l'amore autentico che non ha come oggetto il «mondo», inteso - secondo il linguaggio tipico giovanneo - come struttura corrotta del sistema mondano. La terza argomentazione (2,15b-16) prende le mosse dall'esortazione e precisa l'incompatibilità fra l'amore di Dio e l'amore del mondo (v. 15b). È netta la contrapposi237

Essere nella luce

Non amate ilmondo!

Concupi­ scenza e su­ perbia

zione che Giovanni pone fra questi due amori e rimarca come tutto ciò che è nel mondo non tragga la propria ori­ gine dal Padre, ma dal mondo ( v. 1 6b ) In mezzo a questa doppia contrapposizione la realtà mondana è esemplifica­ ta con tre formule decisamente originali: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita ( v. 16a). La quarta argomentazione (2,17) conclude la pericope con una nota sapienziale che contrappone transitorietà ed eternità. Il sistema mondano con tutte le sue voglie passa, «svanisce»: la ripresa dello stesso verbo già usato in 2,8 ri­ guardo la tenebra determina una bella inclusione letteraria, che delimita l'intera pericope e propone un motivo escato­ logico alla scelta consigliata. .

Il mondo passa

Terza pericope (2,18-28): confessare il Figlio per possedere il Padre È l'ultima ora

Struttura

Anche questa terza pericope è introdotta da un voca­ tivo affettuoso - paidfa, «ragazzi» - che si trova solo qui e in 2,14. L'accenno ad un annuncio tradizionale introdotto dalla formula «Avete sentito dire che . . . » (2,18), segnala l'i­ nizio di un nuovo discorso. L'espressione allude alla com­ parsa di un «anticristo», prospettata dalla tradizione gio­ vannea relativamente alla fase escatologica e denunciata come drammaticamente reale all'interno della comunità stessa. A differenza delle precedenti pericopi, in questo caso non è possibile distinguere nettamente fra argomentazioni ed esortazione, ma si possono individuare sei brani, strut­ turati in modo concentrico ( A: 2,19; B: 2,20-21 ; C: 2,22-23; C': 2,24-26; B ' : 2,27; � : 2,28) , che hanno forma letteraria composita, alternando e fondendo i due generi con l'aggiun­ ta di accenni storici. Caratteristico di questa sezione è infatti l'esplicito riferimento agli eventi che turbano la comunità giovannea: è da questi versetti che gli studiosi hanno potuto ricavare gli indizi sufficienti per ricostruire le vicende che, 238

verso la fine del I sec. , hanno diviso il gruppo dei credenti legati al discepolo amato. Il primo brano (2,1 9) presenta il fatto storico della se­ cessione: alcuni membri della comunità giovannea se ne so­ no andati, separandosi dal resto dei fedeli. L'autore usa il «noi» inclusivo e afferma con un periodo ipotetico dell'ir­ realtà che «se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi». Seppur doloroso, quel fatto ha messo in luce una realtà di cui è bene che i destinatari prendano coscienza. Nel secondo brano (2,20-21) l'autore abbandona il «noi» e parla in prima persona singolare al gruppo che è ri­ masto fedele, per ribadire il motivo che l'ha indotto a scri­ vere questa lettera: confermare e incoraggiare la conoscen­ za, che deriva loro dall'unzione che hanno ricevuto da Cri­ sto stesso, «il Santo di Dio1> (cf Gv 6,69). Il termine chrfsma in tutta la Bibbia ricorre solo tre volte, tutte in questa lettera (2,20.27): deriva dal verbo chrfein («ungere») e grazie al suf­ fisso -ma designa il risultato dell'azione; richiama perciò l'a­ zione dello Spirito Santo, che penetra come olio e segna la persona, guidando il credente ad accogliere e vivere la pa­ rola stessa di Cristo. Custodendo la rivelazione cristologica (v. 20) , i fedeli devono smascherare e rigettare l'insegna­ mento dei falsi maestri (v. 21). Sfruttando come parola-gancio il concetto di «menzo­ gna», il terzo brano (2,22-23) torna ad usare lo stile argo­ mentativo per identificare i secessionisti: la domanda reto­ rica li indica come i «mentitori» e gli «anticristi», poiché ne­ gano che Gesù è il Cristo e rifiutano la sua qualità di Figlio in relazione al Padre. L'espressione «possedere il Padre» è originale e ricorre solo qui: sembra derivare dal linguaggio dell'alleanza per esprimere il mutuo possesso dei due con­ traenti del patto. Lo stesso argomento, ma con impostazione antitetica, è ripreso nel quarto brano (2,24-26), che contiene una doppia accorata esortazione ai destinatari, perché ciò che hanno udi­ to «da principio» rimanga in loro, senza lasciarsi ingannare. In mezzo vengono proposti i motivi che ne costituiscono la 239

Si è manife­ stato che non erano dei nostri

L'unzione permette di conoscere la verità

Gli anticristi negano Pa­ dre e Figlio

Voi rimanete nel Figlio e nel Padre

base: la fedeltà attuale al kerygma cristologico e la prospettiva della vita eterna secondo la promessa di Gesù (cf Gv 5,24). L'unzione Anche il quinto brano (2,27), come il v. 24, si apre con rimane il pronome «voi» in posizione enfatica: l'attenzione è rivolta ai destinatari e il discorso riprende in modo speculare il te­ ma del chrfsma ricevuto (cf v. 20). Un 'ulteriore reiterazione del verbo «rimanere» esprime la continuità dell'azione dello Spirito, invitando i credenti ad aderire fedelmente all'inse­ gnamento tradizionale. Quando si Il sesto brano (2,28) ricapitola e termina il discorso: l'av­ manifesterà verbio («ora») ha valore conclusivo, mentre il vocativo af­ non saremo fettuoso «figlioli» dà all'esortazione finale un tono cordiale svergognati e paterno. Il valore di durata dell'imperativo presente ( «ri­ manete») sottolinea l'impegno a continuare nel legame che unisce i discepoli al Cristo. Quarta pericope (2,29-3, 10): riconoscere la generazione da Dio Dio è giusto

Struttura

Il riferimento a un annuncio tradizionale noto ai destinatari (2,29) segna l'inizio di una nuova pericope: in questo caso al centro dell'attenzione c'è il tema della «giustizia» e della «generazione da Dio». Anche se in forma ipotetica, questo versetto contiene un sillogismo completo: la pre­ messa maggiore («Dio è giusto») costituisce il dato ben no­ to alla comunità; la premessa minore («uno opera la giusti­ zia») prende in considerazione il caso concreto di un com­ portamento umano; la conclusione («questi è generato da Dio») evidenzia a rigor di logica un'altra tipica dottrina gio­ vannea. Le argomentazioni che seguono si incentrano sul tema della figliolanza, in quanto conseguenza della generazione: l'autore elabora e contrappone due espressioni antitetiche («fare la giustizia» l «fare il peccato»), che gli servono per chiarire la distinzione fra due atteggiamenti umani dai quali si può risalire alla causa originale («da Dio» l «dal diavolo»). Di nuovo tali argomentazioni sono quattro, disposte in mo240

do concentrico (A: 3 , 1 -2; B : 3,3-6; B ' : 3 ,7b - 9; .N : 3,10); al centro (3,7a), come ulteriore sottolineatura della necessità di un discernimento comunitario, troviamo un'essenziale esortazione a smascherare gli ingannatori, per non restar vittime dell'inganno. La prima argomentazione (3,1-2) riprende il grande te­ ma della generazione da Dio e lo commenta con alcune ri­ flessioni valide sia per il presente che per il futuro. Essere «figli di Dio» è una realtà straordinaria che significa una rea­ le parentela con Dio, ma è misconosciuta e disprezzata dalla struttura terrena corrotta. Alla realtà presente si aggiunge una riflessione sulla dimensione futura della figliolanza: quando, nella visione escatologica, «lo vedremo così come egli è», ci scopriremo simili a lui, perché - partecipi della sua natura - saremo totalmente trasfigurati e configurati perfettamente alla sua immagine. La seconda argomentazione (3,3-6) sviluppa questa pro­ spettiva escatologica con cinque brevi frasi, che evocano per contrapposizione la condizione finale di due opposti atteg­ giamenti. Quattro frasi iniziano con «chiunque» e, disposte in coppie antitetiche, incorniciano la formula centrale che contiene un nucleo di conoscenza teologica (v. 5): Cristo si è manifestato per eliminare i peccati e chi aderisce a lui può rompere in modo definitivo con ogni connivenza peccami­ nosa. L'essenziale centro della pericope è costituito da un ' e ­ sortazione (3,7a) , che, introdotta dal vocativo «figlioli», con­ tiene l'appello a non lasciarsi ingannare da nessuna falsa dottrina (cf 2,26) e richiama certamente il problema dei falsi maestri. La terza argomentazione (3,7b-9) è molto simile alla se­ conda e riprende lo stesso tema del peccato; invece della prospettiva escatologica introduce però la ricerca delle origini, sottolineando il ruolo del diavolo come causa del peccato. La struttura del ragionamento è analoga a quella precedente: tre frasi participiali incorniciano una formula centrale che esprime un importante kérygma cristologico 241

Siamo figli di Dio

Si manifestò per togliere i peccati

Nessuno v'inganni!

Si manifestò per dissol· vere le opere del diavolo

I figli del diavolo

(v. 8b ) : il Figlio di Dio si è manifestato per «dissolvere le opere del diavolo». Riprendendo al negativo la formula iniziale (2,29), la quarta argomentazione (3,10) conclude l'intera pericope con un'inclusione, sottolineando che «non è da Dio» chi non opera la giustizia: l'autore offre pertanto alla sua comunità un criterio di discernimento per distinguere e riconoscere «i figli di Dio e i figli del diavolo». L'esempio successivo, pa­ rallelo al non praticare la giustizia («chi non ama il suo fra­ tello»), prepara - mediante il riferimento all'amore fraterno - l'aggancio con la pericope successiva. Quinta pericope (3,11 -22) : amare in opere e verità

Amiamoci a vicenda

Struttura

Caino ha tolto la vita al fratello

Anche in questo caso la nuova pericope inizia riportan­ do in forma di esortazione un annuncio tradizionale: «che ci amiamo gli uni gli altri» (3, 1 1 ). Riprendendo il raro vo­ cabolo angheUa, che nel NT ricorre solo qui e in 1 ,5, l'autore richiama l'invito all'amore fraterno, precisato nell'ambito giovanneo con il pronome reciproco allélus («gli uni gli al­ tri») : è «da principio» perché risale alle parole stesse di Ge­ sù e la comunità giovannea lo custodisce fedelmente. Le argomentazioni si concentrano sul tema dell'amore e, secondo il consueto metodo giovanneo che procede per antitesi, trattano necessariamente anche dell'odio. La strut­ tura della sezione dunque è bipartita: una prima parte ri­ flette sull'odio (3,12-15) e una seconda sull'amore (3,16-22). Ognuna di queste parti, inoltre, è formulata secondo un me­ desimo procedimento, dove due argomentazioni affini in­ corniciano un nucleo esortativo (vv. 13 e 18). L'unità della pericope è evidenziata dall'insistenza sul termine «fratello» e sul verbo «amare». La prima parte rappresenta il fronte negativo dell'argo­ mentazione e si sviluppa in tre momenti: il caso esemplare di Caino (A: 3,12); l'esortazione centrale (3,13), che mostra nell'opposizione del mondo la conferma di essere dalla par­ te di Dio e del suo Cristo; una ripresa di approfondimento 242

(A': 3 14 15) , che identifica l'odio con l'omicidio, precisando che esso viene dalla morte e produce morte. La seconda parte, dedicata al versante positivo dell'amore, ricalca lo stesso schema tripartito: il caso esemplare, contrapposto a Caino, è quello di Cristo stesso (B : 3,16 1 7 ) ; l' esortazione centrale (3,18) concretizza il ragionamento invitando ad amare «in opere e verità»; quindi lo sviluppo del ragionamento (B ': 3,19-22) precisa che l'autentica morale dei figli, generati da Dio, consente loro di stare fiduciosamente davanti al Padre, sicuri che la salvezza viene da lui. ,

-

Cristo ha dato la vita per noi

Sesta pericope (3,23-5,4): credere e amare

La sesta pericope è molto più complessa delle prece­ denti, e anche - con i suoi 27 versetti - molto più lunga; tut­ tavia è strutturata in modo analogo alle altre e rivela una notevole omogeneità, sia per l'uso di vocaboli specifici sia per la presenza di inclusioni tematiche. Anche in questo ca­ so l'indizio di una nuova sezione consiste nel riferimento a un annuncio tradizionale: «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amia­ mo gli uni gli altri, secondo il comandamento che ci ha dato» (3,23). La stretta correlazione fra fede nel Figlio di Dio e amore vicendevole costituisce il taglio proprio della perico­ pe che - inserita al sesto posto in una serie di sette - assume, secondo uno schema tipicamente apocalittico, il valore di vertice dell'intera lettera. Seppur numerose, le argomentazioni in questa perico­ pe vengono presentate in modo ordinato e preciso. Tre ver­ setti, contenenti altrettante esortazioni, sono determinanti per individuare lo schema complessivo: tutti e tre sono aperti dallo stesso vocativo affettuoso (agapet6i, «Carissi­ mi» ) . La prima esortazione ( 4,1 ) riguarda la necessità del discernimento e mette a fuoco il tema della fede, a cui sono dedicate le due argomentazioni che seguono (4,2-6 ) . La se­ conda esortazione (4,7a ) aggiunge all'imperativo dell'amo243

Fede in Gesù Cristo e amore vicendevole

Struttura

re vicendevole l'importante annotazione che l'agape pro­ viene da Dio, introducendo così le due argomentazioni sull'origine dell'amore ( 4, 7b-1 O). La terza esortazione (4, 1 1 ) , riprendendo la riflessione sul dovere morale che de­ riva dall'amore di Dio, apre la via ad una serie di cinque argomentazioni sull'amore vicendevole come vera prova della comunione con Dio ( 4,12-20) . A questo punto 4,21 ri­ propone in chiusura il tema iniziale (3,23), sottolineando il legame necessario fra l'amore per Dio e l'amore per il fra­ tello. In una sorta di ricapitolazione conclusiva, l'ultimo brano della pericope (5,1-4) intreccia abilmente i temi della fede e dell'amore. Il criterio Dopo l'annuncio del tema, 3,24 costituisce una specie dello Spirito di transizione, volta ad attirare l'attenzione dei destinatari sui criteri teologici da applicare alla realtà per comprenderla in modo corretto: il riferimento al dono dello Spirito offre il collegamento per introdurre la prima elaborazione argo­ mentativa, che segue immediatamente. Discernere La prima sezione ( 4,1-6) è dedicata al tema della fede gli spiriti in Gesù ed è aperta da un'esortazione ( 4,1) relativa al di­ scernimento, reso necessario dalla presenza di molti falsi profeti che turbano l'equilibrio della comunità giovannea. Le due argomentazioni parallele che seguono offrono al­ trettanti criteri per discernere gli spiriti: la confessione di Gesù Cristo (4,2-3) e il rifiuto da parte del mondo (4,4-6) . Fedele al suo schema rigidamente dualistico l'autore di­ stingue le persone in due gruppi («voi/noi» e «loro»), cui corrispondono due differenti origini: «da Dio» (vv. 4.6), «dal mondo» (v. 5). L'autore conforta quindi i suoi desti­ natari, affermando che hanno già vinto questa battaglia: non per loro virtù, ma in forza di Dio, che è più grande del mondo che ispira gli avversari. L'apparente fallimento, do­ vuto al rifiuto da parte del mondo, non deve quindi demo­ ralizzare, perché conferma la provenienza da Dio: la men­ talità mondana infatti preferisce ascoltare la predicazione degli eretici, perché si adatta agli schemi umani e alle vo­ glie comuni. 244

La seconda sezione ( 4,7-10) è dedicata al tema dell'ori­ gine divina dell' amore ed è introdotta da un'esortazione (4,7a), che all'imperativo dell'amore vicendevole aggiunge l'importante spiegazione che l' agap e deriva da Dio. Dio stesso è quindi la fonte e il modello dell'amore predicato da Cristo e vissuto dai cristiani. A questa nota teologica d'a­ pertura fanno seguito due argomentazioni parallele: la prima ( 4,7b-8) parte dall'uomo per risalire a Dio, mentre la seconda (4,9-10) segue il processo inverso e, partendo da Dio, discende all'uomo nella missione del Figlio Gesù. Anche la terza sezione (4,1 1 -20), incentrata sull'amore vicendevole come prova della comunione con Dio, è introdotta da un'esortazione (4,11), che identifica nell'amore di Dio per l'uomo l'origine del dovere morale degli uomini ad un amore vicendevole: il discepolo di Gesù deve camminare come lui, perché egli è il «modello esemplare» da seguire e imitare. L'elaborazione che ne segue è articolata in cinque argomentazioni, che riprendono temi già affrontati: il dono dello Spirito Santo come prova della vera comunione con Dio (4,12-13); il vicendevole dimorare con Dio come carat­ teristica di chi crede in Gesù Figlio di Dio ( 4,14-15) e di chi vive nell'amore (4,16); l'amore perfetto che scaccia il timore (4,17-18); l' amore per Dio, strettamente legato all'amore per il fratello ( 4,1 9-20). Con una nuova ripetizione del vocabolo entolé ( «CO­ mandamento») l'esortazione di 4,21 richiama il tema iniziale (3,23) e insiste nuovamente sul legame necessario fra l'a­ more per Dio e l'amore per il fratello. L'ultimo brano (5,1-4) intreccia con abilità il tema della fede e quello dell'amore, per proporre un quadro riassun­ tivo dell'intera pericope. La sintesi parte dalla professione di fede cristologica e riguarda proprio Gesù in quanto uomo: solo chi ha questa fede nel Figlio di Dio incarnato risulta «generato da Dio». Ne consegue, con un gioco di parole sul verbo «generare», che chi ama Dio («Colui che ha generato») necessariamente ama anche il fratello («colui che è stato generato»). In tal modo si ribadisce il legame 245

L'amore è da Dio

Dio è amore

Sintesi conclusiva

fra fede e amore, nonché tra amore divino e fraterno ( v. 1). L'autore capovolge quindi il ragionamento consueto e af­ ferma che la verifica dell'amore fraterno si ha grazie all'au­ tentico amore per Dio, che comporta la fedele custodia dei suoi comandamenti (v. 2), che non sono un peso ( v. 3): la presenza potente di Dio dà la capacità di compiere ciò che chiede. Giovanni infine indica nel cristiano «generato da Dio» l'autentico vincitore nello scontro contro la struttura Lafede vin- corrotta della mondanità: proprio «la nostra fede» è la vit­ ce ilmondo toria che ha vinto il mondo ( v. 4) . L'ultima parola della pe­ ricope è pistis ( «fede» ) , unica occorrenza di questo sostan­ tivo nella l Giovanni ( e nel Quarto Vangelo ) , che fa inclu­ sione con il verbo pistéuein ( «credere» ) in 3,23 dove occor­ re per la prima volta. Settima pericope (5,5-1 7): accogliere la testimonianza divina Gesù il Figlio di Dio

è

Struttura

Anche l'ultima pericope prende le mosse da un motivo proprio della tradizione giovannea e in questo caso l'annun­ cio del tema (5,5) è formulato come una domanda retorica, che equivale a un'enfatica affermazione: la retta professione di fede comporta il riconoscimento dell'uomo Gesù come Figlio di Dio. Il tema proposto viene come di consueto sviluppato da una serie di argomentazioni: se ne possono individuare sei, ben articolate e connesse fra di loro a due a due ( A: 5,6a; N.: 5,6b-8; B: 5,9-10; C: 5,11 -12; B': 5,14-15; C': 5, 16-17) . In posizione intermedia emerge il versetto 5,13, un'esortazione che per l'ultima volta esplicita l'intenzione che ha mosso l'autore a scrivere questa lettera. L'intera sezione letteraria è ben caratterizzata soprattutto dall 'insistenza sul lessico dell'attestazione testimoniale: sei volte infatti compare il so­ stantivo martyria ( «testimonianza» ) e quattro il corrispon­ dente verbo martyréin ( «testimoniare» ) . Le prime tre argomentazioni offrono un crescendo di testimoni, che possono garantire la solidità del credere cri246

stiano e si rifanno ad un'analoga sequenza presente in Gv 5,36-38. Anzitutto è presentato Gesù Cristo stesso, definito come colui che «è venuto attraverso (diti ) acqua e sangue» (5,6a) . L'evento storico dell'incarnazione è attestato all'inizio da Giovanni Battista (l'acqua) e alla fine da Giovanni evangelista (il sangue) . La seconda argomentazione (5,6b 8) presenta dapprima lo Spirito Santo come colui che dà testimonianza (v. 6b ), in quanto garante della rivelazione; amplia poi l'idea, affermando che sono tre quelli che danno testimonianza: «lo Spirito e l'acqua e il sangue, e questi tre sono concordi» (vv. 7-8). Tale trinomio è originale e di non facile spiegazione; gli stessi elementi del v. 6 sono ripresi con significato simbolico e sacramentale come una personificazione maschile ( ho i tréis i tre): allude perciò in modo globale al dono personale della salvezza. La solidità del credere cristiano dunque è garantita dallo Spirito Santo, consegnato dal Cristo, e queste tre realtà sono finalizzate «verso l'uno» ( éis to hén ) , cioè sono perfettamente coerenti e orientate all'unico fine. Fra il v. 7 e il v. 8 in alcune edizioni è inserito un testo, definito comma giovanneo. Si tratta di un frammento che, assente negli antichi codici greci, compare nella traduzione latina verso il VII sec. e a partire dal 1400 entra anche in alcuni manoscritti greci: fino al secolo scorso comunemente inserito e accettato come testo biblico sia dai cattolici che dai riformati, oggi la critica testuale ha dimostrato non essere autentico. Tale frammento è ben integrato nei due versetti canonici e suona come una spiegazione trinitaria: «7Poiché tre sono quelli che danno testimonianza [nel cielo: il Padre, il L6gos e lo Spirito Santo e questi tre sono uno; e tre sono quelli che danno testimonianza sulla terra:] 8lo Spirito, l'acqua e il sangue, e questi tre sono concordi». Sembra trattarsi di una glossa marginale, originata nell'ambiente spagnolo di Priscilliano (IV sec.), poi inserita da qualche copista nel corpo stesso della lettera per aiutarne la comprensione alla luce delle tre persone divine. -

Acqua e sangue

Lo Spirito, l'acqua e il sangue

=

247

Il o ma giovanneo" "c

m

La rivela­ zione di Dio è dono di vita eterna

La terza argomentazione (5,9-10) conclude la serie progressiva dei testimoni e si sofferma sulla testimonianza che Dio, cioè il Padre, ha dato a favore del suo Figlio Ge­ sù. Quindi nella quarta argomentazione (5, 1 1 -12) si rag­ giunge il vertice del ragionamento, che evidenzia il fine dell'intera rivelazione o testimonianza divina: la vita eter­ na (cf Gv 20,3 1 ) . Compare a questo punto una nuova e importante esortazione (5,13), con cui l'autore precisa di avere messo per iscritto il testo al fine di rendere i suoi destinatari consapevoli che credere nel nome del Figlio di Dio significa possedere la vita eterna. Le ultime due ar­ gomentazioni riprendono i temi precedenti, sviluppando­ ne due applicazioni concrete: la certezza dei credenti di essere ascoltati dal Padre nelle loro preghiere, se corri­ spondono alla sua volontà (5,14-15); l' applicazione di que­ sto principio al caso dell'intercessione a favore di un fra­ tello peccatore (5,16-17). L'epilogo (5, 18-21)

Sintesi breve e solenne

Gli ultimi versetti dello scritto, che a molti commentatori sono sembrati un'aggiunta redazionale, possono in­ vece essere valutati - in forza dello studio del procedi­ mento retorico - come un autentico epilogo: al termine della sua trattazione, l'autore ne ricapitola il contenuto, riprendendo per accenni le questioni fondamentali. Tale epilogo, simmetrico ai primi quattro versetti che funge­ vano da prologo, risulta breve e solenne, come richiesto dai canoni della retorica classica: tre argomentazioni (vv. 1 8 . 1 9 .20) - introdotte da «Sappiamo» - precedono una brevissima esortazione conclusiva (v. 2 1 ) . Seguendo il metodo dell 'antitesi, l'epilogo contrappone il «noi» del­ la comunità giovannea al «mondo»: emerge così che il punto nodale della l Giovanni consiste nel discernere ciò che è vero da ciò che è falso, per non lasciarsi ingannare dai falsi maestri. Il v. 18 ribadisce la conoscenza della generazione da 248

Dio: l'azione divina nel credente esclude il peccato e non può mai essere causa di peccato. Il v. 19 accosta la convinzione di «essere da Dio» all'idea - comune nella letteratura giovànnea - che il mondo intero giace invece «in potere del Maligno». Infine, il v. 20 insiste sull'aggettivo «Vero», per connotare la rivelazione portata dal Figlio di Dio come quella autentica: «Colui che è il vero» si contrappone così ad ogni falsa immagine di Dio. L'esortazione finale (v. 21) conclude con delicata forza l'appassionato appello rivolto alla comunità destinataria: «Figlioli, guardatevi dagli idoli! ». Col termine éidolon ( «im­ magine») l'autore non pensa alla religione greco-romana, bensì agli insegnamenti dei falsi maestri che ingannano la sua comunità: invita perciò i propri figli ad un sapiente di­ scernimento, in modo da proteggere se stessi dalle errate rappresentazioni di Dio.

Sappiamo

Guardatevi dagli idoli!

Seconda lettera di Giovanni

Il prescritto (vv. 1 -3)

Nella formula introduttiva il presbitero si rivolge a Alla Signora una Chiesa sorella e , chiamandola con l'originale appel­ eletta lativo di «Signora eletta», insiste ripetutamente sui due temi, strettamente connessi, della verità e dell ' amore ; quindi , al posto del saluto augurale propone un'afferma­ zione sulla presenza certa di «grazia, misericordia e pace» da parte di Dio Padre e da parte di Gesù Cristo, Figlio del Padre. Il corpo

della lettera (vv. 4-1 1)

Il primo discorso (vv. 4-6) riprende formule molto co­ muni nella l Giovanni, per ribadire la necessaria correla­ zione fra «verità» (conoscenza dell'insegnamento di Cristo) e «amore» (sua concreta realizzazione nella vita). Per atti­ rare la benevolenza degli ascoltatori, il presbitero afferma 249

Coerenza fra verità e amore

Riconoscere Cristo venuto nella carne

di rallegrarsi perché i membri della comunità destinataria «camminano nella verità» e tale atteggiamento corrisponde al comandamento ricevuto dal Padre (v. 4), che consiste nel­ l'amore vicendevole (v. 5). Una riformulazione dello stesso pensiero spiega che l' agap e consiste nel «camminare secon­ do i suoi comandamenti» (v. 6). Il secondo discorso (vv. 7-1 1 ) riprende il problema di fondo della l Giovanni e denuncia la presenza di falsi mae­ stri, che non riconoscono Gesù Cristo venuto nella carne (v. 7 ) : tale rifiuto è pericoloso e può avere conseguenze gravi per tutta la vita cristiana (v. 8). Chi va oltre la tradi­ zionale dottrina «non possiede Dio», mentre chi conserva l'insegnamento tradizionale resta in piena comunione col Padre e il Figlio (v. 9) . Il presbitero conclude operativa­ mente il discorso, invitando i suoi destinatari a evitare ogni contatto con quegli ingannatori (vv. 10-1 1 ) : le loro opere sono dette «maligne» - lo stesso aggettivo che designa «il Maligno» - e perciò è meglio non aver niente a che fare con loro. La conclusione (vv. l2-13)

Congedo

Saluti

Il finale riprende convenzionalmente le due conclusioni del Quarto Vangelo (cf Gv 20,30; 21 ,25) riguardo le molte cose ancora da dire che non hanno trovato posto nello scrit­ to. Il presbitero esprime quindi il desiderio di visitare di per­ sona quella comunità e di parlare con loro «bocca a bocca», semitismo che lascia trasparire uno stile di rapporto confi­ denziale e amichevole. L'ultima espressione, che indica il fi­ ne dell'incontro («perché la nostra gioia sia piena»), ripren­ de alla lettera la formula di 1Gv 1 ,4: la gioia diviene perfetta quando può estendersi ad altre persone. I saluti (v. 13) conclusivi della lettera sono dell'intera comunità del mittente e, riprendendo la metafora iniziale, designano la propria Chiesa come «sorella eletta» della Chiesa destinataria e i suoi membri come «figli». 250

Terza lettera di Giovanni Il prescritto

(vv. l -2)

In conformità al genere della lettera familiare, i primi versetti contengono i nomi del mittente e del destinatario seguiti da una brevissima espressione di affetto (v. 1 ) . Il mittente, come nella 2 Giovanni, si qualifica «il presbitero» e si rivolge al «carissimo Gaio», insistendo nel tenere insieme l'amore e la verità. Dopo aver ripetuto il vocativo d'affetto per il destinatario, il mittente aggiunge un augurio (v. 2): è un caso insolito nel panorama neotestamentario, ma frequente nelle lettere private del mondo greco-romano. Con l'uso di un verbo legato alla metafora del «camminare», il presbitero si augura che l'impegno morale di Gaio vada bene e il suo atteg­ giamento spirituale proceda sulla strada «sana».

A/ carissimo Gaio

Augurio

Il corpo della lettera (vv. 3-12)

La sezione contenutistica si articola in tre parti, ciascu­ na incentrata su un personaggio diverso: Gaio, Diòtrefe e Demetrio. Il presbitero esordisce, riconoscendo la propria gioia per le belle notizie che ha ricevuto a proposito di Gaio (vv. 3-8): alcuni «fratelli», infatti, dopo averlo conosciuto e visto agire, hanno attestato che la sua condotta è coerente con l'insegnamento fondamentale della tradizione cristiana. In particolare l' elogio riguarda il fatto che Gaio ha provveduto il necessario per il viaggio ai predicatori itineranti mandati dal presbitero: la sua raccomandazione è proprio quella di collaborare attivamente nell'opera di predi­ cazione evangelica. Dopo il lungo elogio dell' opera di Gaio, la seconda parte assume un tono polemico e rivolge l' attenzione ad un altro personaggio di nome Diòtrefe (vv. 9-10), il quale si comporta in modo opposto. Egli viene accusato di arroganza e protagonismo, ed è definito «colui che ama pri25 1

Elogio di Gaio

Rimprovero di Diòtrefe

Testimo­ nianza a favore dì Demetrio

meggiare» ; le sue parole sono «maligne» e le sue azioni sono di ostacolo all'opera progettata dal presbitero. L'au­ tore si mostra assai preoccupato per l'incresciosa situazio­ ne che si è venuta a creare e perciò si ripromette di visita­ re quella comunità per rimproverare apertamente a Diò­ trefe le sue azioni negative e metterlo di fronte alla sua colpa. La presenza del consueto vocativo d'affetto segna l'i­ nizio della terza parte , in cui compare il personaggio di Demetrio ( vv. 1 1 -12), di cui si dice che tutti danno testi­ monianza a suo favore. L'autore aggiunge quindi, con par­ ticolare enfasi, una formula tecnica, in uso nell'ambiente di Giovanni, per confermare la validità delle proprie as­ serzioni e collegarsi direttamente all' autorità del discepo­ lo amato: «Tu sai che la nostra testimonianza è veritiera» ( cf Gv 19,35; 21 ,24) . La conclusione (vv. l3-15)

Congedo

Saluti

Il congedo che conclude la lettera è molto simile a quello di 2 Giovanni e rispecchia le formule stereotipate del ge­ nere: il foglio di papiro non è sufficiente per contenere tutto quello che avrebbe da dire, perciò il presbitero spera di ave­ re l'occasione di un incontro personale in cui parlare «bocca a bocca». L'ultimo versetto contiene tre formule di saluto, particolarmente garbate e affettuose. L'augurio finale ( «Pace a te» ) richiama da vicino la formula adoperata dal Cristo risorto con i discepoli ( cf Gv 20,1 9.21 .26) e nella sua sem­ plicità racchiude un grande messaggio di conforto e inco­ raggiamento. I membri della comunità, che attorniano il presbitero e mandano i loro saluti, sono definiti «amici», secondo l'uso di Gesù, caro a Giovanni ( cf Gv 15,15). In­ fine il mittente raccomanda a Gaio di salutare gli amici della sua comunità, non in modo generico ma «per nome» (kat '6noma) , cioè uno per uno con calorosa attenzione personale. 252

Messa ggio teolo gico

L'autore della l Giovanni si rivela un profondo teolo­ go e un fine letterato. Sebbene sia stato definito monotono e ripetitivo come un anziano, in realtà risulta abile nella variazione letteraria e intelligente nel far progredire il ra­ gionamento: il suo non è un discorso contemplativo che segua più il cuore che la ragione, bensì una riflessione lo­ gica, impegnata in una dimostrazione rigorosa del kérygma cristiano di base. L'insistenza sulla formula «da principio» ( ap 'archés ) conferma l 'importanza attribuita alla tradizio­ ne del testimone oculare: l'esperienza storica di Gesù vis­ suta dai discepoli costituisce il punto di riferimento ogget­ tivo per la fede cristiana, contro ogni deviazione intellet­ tualista. La Prima lettera, nata per porre rimedio al pericolo cau­ sato dalla presenza di falsi maestri, è incentrata sul tema del­ la verità e delinea in modo appassionato gli elementi essen­ ziali della vita cristiana: Gesù in persona è la rivelazione del vero Dio; a lui bisogna continuamente riandare per discer­ nere ciò che è vero da ciò che è falso; l'accoglienza concreta dell'amore divino offerto da Gesù è il criterio decisivo per verificare l'autenticità dell'esistenza cristiana. Il problema è suscitato da persone che accettano in teoria la dottrina cri­ stiana, ma poi vivono in modo incoerente. L'autore sottoli­ nea quindi una netta contrapposizione fra verità e menzo­ gna, analoga al contrasto fra luce e tenebra: solo chi cam­ mina nella luce «fa la verità» (1,6; cf Gv 3,21 ) , accoglie con­ cretamente nella propria vita la persona di Gesù. La questione cristologica e l'importanza dell'amore so­ no dunque i temi teologici principali, ma l'aspetto distintivo della l Giovanni consiste nella stretta unione di questi temi: il radicamento cristologico dell'amore. Se la vita morale è una conseguenza della dottrina - insegna Giovanni - è fon­ damentale unire in modo inscindibile la conoscenza con la comunione, legando insieme teoria teologica e reale unione d'amore con Dio. 253

Profondo teologo e fi· ne letterato

Contrasto fra verità e menzogna

Cristo e agape

La questione cristologica Grande inclusione

Insistenza sull'umanità

L'errore di chi "va oltre"

Osserviamo anzitutto che l'autore ha posto la formula di fede cristologica ( «il Figlio suo Gesù Cristo» ) all'inizio (1,3), al centro (3,23) e alla fine (5,20) della lettera: la si può dunque considerare una grande inclusione che abbraccia tutto lo scritto, evidenziandone l'interesse primario. La forte sottolineatura della divinità di Gesù da parte della tradizione giovannea deve aver portato alcuni mem­ bri della comunità a minimizzarne l'umanità; il gruppo se­ cessionista infatti sembra seguire un pensiero tipicamente ellenistico, vedendo in Gesù un «essere divino», semplice­ mente «apparso» come uomo e capace di realizzare la sal­ vezza solo con la predicazione. Per correggere tale distor­ sione le Lettere giovannee mirano a precisare l'interpreta­ zione del Vangelo , ribadendo che Gesù è l'oggetto della fe­ de (2,22; 4,15; 5,1 .5), valorizzando la realtà della sua carne ( 4,2.3; 5,6; 2Gv 7) e il potere salvifico del suo sangue ( 1 ,7; 5 ,6.8). Anche nella 2 Giovanni, analogamente, al centro del­ l'attenzione sta la realtà dell'incarnazione, che gli avversari rifiutano, non accettando la professione di fede garantita dalla testimonianza del discepolo amato. Il loro ragiona­ mento cristologico è ritenuto errato in quanto «va oltre» (2 Gv 9): l'espressione è originale e molto interessante per aiutarci a ricostruire la dinamica di questo fraintendimento. La comprensione della persona di Gesù Cristo da parte dei suoi discepoli è stata progressiva nei primi decenni della predicazione cristiana: da una «cristologia bassa», che con­ siderava Gesù come un uomo straordinario, si è giunti ad una «cristologia alta», che secondo l'autorevole testimo­ nianza del discepolo amato ne valorizza la qualità divina. In questo cammino di maturazione, chi «Va oltre» la dottrina tradizionale esagera, spingendosi a formulare una «cristo­ logia altissima», secondo cui la divinità di Gesù si sarebbe solo mostrata con apparenza d'uomo, senza in verità assu­ mere la natura umana. 254

Perciò la professione di fede proposta contro tale esa­ gerazione concerne la carne umana del L6gos, che diventa criterio decisivo di ortodossia: chi rinnega l'umanità del Fi­ glio non possiede nemmeno il Padre, ovvero chi altera la dottrina del Cristo ha rotto la relazione con Dio. In questa dottrina cristologica ha un grande rilievo il riferimento al sangue del Cristo, a cui viene riconosciuto - idea teologica che la tradizione giovannea custodisce e sviluppa in modi diversi nel Quarto Vangelo (19,34) e nell' Ap o caliss e ( 1 ,5; 5,9; 7,14; 12,1 1 ) - un decisivo carattere salvifico di purifica­ zione dai peccati ( 1 ,7; 5,6.8) . Gesù inoltre viene presentato come il perfetto mediatore fra Dio e l'umanità: è definito «intercessorelpa rak letos» (2,1), perché si rivolge al Padre a favore degli uomini, ed è qualificato come «vittima di espia­ zione/hilasm6s» (2,2; 4,10), capace cioè di rendere benigno Dio e di purificare l'uomo. Un altro punto delicato della falsa predicazione contro cui scrive Giovanni riguarda proprio la realtà del peccato, che viene negata dagli anticristi. Al contrario l'ammissione dei peccati si basa sulla certezza che Dio, in quanto affida­ bile, mantiene la sua promessa e, in quanto giusto, libera dai peccati e purifica da ogni ingiustizia. Anche chi crede in Gesù può peccare, ma - riconoscendo come negativo tale fatto - si appella alla promessa divina per ottenere la puri­ ficazione e la piena giustizia. Se da un lato i falsi maestri so­ no la dimostrazione di come l' annuncio del perdono dei peccati rischi di favorire il lassismo morale, al contrario l'au­ tore esorta all'impegno morale per combattere e vincere il peccato definitivamente.

Il sangue di

Cristo espia i peccati

Il peccato esiste, ma si può vincere

L'importanza dell'amore

L'acuto e profondo pensatore che scrive la l Giovanni, capace di sublimi riflessioni teologiche, è molto legato alla realtà concreta dei fatti e non si perde in elucubrazioni astratte, anzi: denuncia l'inganno e l'errore degli avversari proprio attraverso l'insistente ricorso alla concretezza del255

Un uomo concreto

Conoscere e custodire

Concupi­ scenza e superbia

l'amore fraterno e vicendevole. Questo infatti è l'altro gran­ de tema teologico: l'importanza dell'amore. Il verbo agapan ( «amare», usato 28 volte) e il sostantivo agape ( «amore», 18 volte) costituiscono un tratto caratteristico dell'insegna­ mento giovanneo. La conoscenza autentica di Dio consiste nel custodire i suoi comandamenti (2,3). Il verbo «conoscere» è tipico della lingua giovannea e rimanda non a un sapere teorico, bensì a una relazione di affettuosa intimità: un rapporto che, se effettivo, porta all'obbedienza e alla docile attuazione della volontà divina. Il comandamento dell'amore è antico e in­ sieme nuovo (2,7): la novità non sta nel comando, bensì nel dono dell'agape. L'amore del Padre è stato donato al Figlio e Gesù a sua volta l'ha donato agli uomini, rendendoli così partecipi dello stesso legame divino e capaci di intessere nuovi e buoni legami umani. L'amore infatti è una realtà ambigua e in modo netto Giovanni sottolinea l'incompatibilità fra l' amore di Dio e l'amore del mondo (2,15). Il falso amore è espresso in tre formule: «la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita» (2,16). Il desiderio cat­ tivo, cioè la bramosia del male, ha due differenti conno­ tazioni: la carne indica la cupidigia che porta l'uomo a rin­ chiudersi nel limite della sua creaturalità, mentre gli occhi alludono piuttosto alla visione negativa della realtà, al­ l' atteggiamento invidioso e al desiderio vanaglorioso di apparire; la «superbia della vita» infine designa l'arrogan­ za prepotente derivata dall' abbondanza di beni materiali, che alimentano false sicurezze e presuntuosa autosuffi­ cienza. Chi ama il mondo è dunque destinato a perire con la struttura mondana; al contrario «chi fa la volontà di Dio rimane in eterno» (2,17). Questa promessa riprende im­ portanti affermazioni cristologiche del Quarto Vangelo e avvicina il credente allo stesso Cristo ( cf Gv 4,34; 6,38; 8,35 ; 12,34) . L'amore vicendevole è un annuncio tradizionale della comunità giovannea (3,1 1) e riceve quindi una particolare 256

attenzione nelle riflessioni della l Giovanni. I credenti in Cristo hanno ricevuto da lui la capacità di amare i fratelli e tale atteggiamento concreto è la prova della dottrina teolo­ gica: al contrario «chi non ama rimane nella morte», cioè non sperimenta di fatto il dono della vita divina e della ge­ nerazione da Dio. Opposto a Caino, il modello esemplare dell'amore è Cristo, che ha dato la vita per i fratelli permet­ tendo in tal modo di conoscere che cos'è l agap e (3,16). L'a­ more infatti non è teorico, ma pratico, e il fatto rivelatore consiste nel dare la propria vita per gli amici ( cf Gv 15,13). Da questo fatto cristologico deriva un obbligo morale cri­ stiano: «anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (3,16; 4,1 1 ) . Infatti secondo l'assioma basilare colui che crede in Gesù «deve camminare come lui camminò» (2,6). Qualora tale principio sia smentito dai fatti, non si può più parlare di «amore di Dio» ( cf 3,17): l'amore è vero non quando è proclamato, ma quando è realizzato.

L'amore è la prova della fede

'

Il radicamento cristologico dell'amore

Molti commentatori hanno riconosciuto la sintesi teologica dell'intera Prima lettera in un versetto che mira a difendere la vera fede cristologica e l'impegno coerente nelle relazioni fraterne: «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il comandamento che ci ha dato» (3,23). La formulazione con il ) come l'A­ gnello (cf 5,6); sono in relazione personale («davanti») con Dio e l'Agnello; vivono questa relazione in modo definitivo («avvolti»), essendo partecipi della risurrezione di Gesù Cristo («vesti bianche»); con lui condividono la vittoria sul male e la pienezza della vita («le palme»). La descrizione dei salvati sfocia in un canto liturgico, che riprende la celebrazione iniziale (cf 5,11-14): in tal modo le due scene risultano strettamente parallele. Con un espedien­ te letterario, tipico del genere apocalittico, si chiarisce il si­ gnificato dei simboli, cioè l'identificazione dei salvati e la lo­ ro provenienza: sottolineata l'incapacità del veggente, la ri­ sposta autorevole viene da uno dei presbiteri, che parteci­ pano al potere di Dio. La sua presentazione dei salvati sot­ tolinea dapprima la loro provenienza: sono coloro che trag­ gono origine (nel presente e nel futuro) dalla «grande pas­ sione», la morte redentrice di Gesù Cristo. Poi ne completa 292

la descrizione con simboli chiaramente cristologici: la morte di Cristo («sangue») ha permesso e comunicato la risurre­ zione («vesti bianche») e nel lavacro battesimale si realizza tale partecipazione alla vita eterna del Risorto (cf 22,14). Dopo l'identificazione dei salvati, il presbitero interprete de­ scrive le conseguenze della redenzione come una serie di azioni dei redenti, dell'Agnello e di Dio, tutte caratterizzate dalla novità: i verbi al futuro indicano che tale situazione du­ rerà nei secoli. Innanzitutto la novità riguarda il culto: l'in­ contro è personale e diretto («stanno davanti al trono di Dio»), l'adorazione diviene ininterrotta perché la comunità stessa diviene «tenda» della presenza di Dio (cf 21,3). Poi c'è novità di vita, giacché Dio ha consolato il suo popolo scon­ figgendo la morte (cf 21 ,4) e ha compiuto il vero esodo, rea­ lizzando i desideri umani (cf 21,6). Al vertice, infine, è posta la novità del pastore: guida del popolo è ora l'Agnello, cioè Gesù Cristo, unica causa e modello di salvezza.

Le novità della redenzione

Il silenzio in cielo (8, 1)

La serie termina con il settimo sigillo, a cui è dedicato un solo versetto: in esso si allude al compimento della storia, giacché la redenzione cristiana è stata celebrata nel sesto sigillo. Rimosso l'ultimo sigillo il libro misterioso del progetto divino finalmente può essere letto: la brevissima scena che segue è caratterizzata dal silenzio che sembra evocare la grande attesa e lo sbigottimento universale davanti alla ma­ nifestazione del Signore. Il simbolo apocalittico del silenzio richiama lo stupore di chi contempla a bocca aperta e resta senza parole.6 Così il settenario dei sigilli non pone fine alla rivelazione, ma dopo una breve pausa di contemplazione dà inizio a un nuovo settenario, riprendendo da capo la pre­ sentazione dell'opera di salvezza realizzata in Gesù Cristo. " Ad u n messaggio esattamente contrario giunge l'interpretazione del re­ gista Ingmar Bergman, che intitolò

Il settimo sigillo

per alludere al silenzio di Dio.

293

il suo film del 1 957

Un silenzio di stupore e meraviglia

8,2-11,19: Il settenario delle trombe

La tromba

La storia determinata dag/i angeli

Sette angeli, presentati in un contesto liturgico, suona­ no le loro trombe e ad ogni squillo corrisponde letteraria­ mente una diversa scena simbolica. Seguendo una struttura circolare ascendente, l'Apocalisse ritorna sulle medesime tematiche della storia salvifica e adopera altre immagini per sviluppare la stessa riflessione secondo una diversa pro­ spettiva. Come avviene per i sigilli, anche il settenario delle trombe riceve la propria connotazione dalla visione che lo introduce e dal simbolo che lo caratterizza. Nella tradizione biblica il suono della tromba sottolinea i grandi momenti della storia di Israele: chiama al combattimento, fa parte del culto e accompagna le feste e il canto; soprattutto risuona nelle teofanie ( cf Es 19,16.19), insieme ai tuoni e ai fulmini, per evocare la voce potente di Dio; nel racconto della con­ quista di Gerico ( Gs 6) sette giri con lo squillo delle trombe fanno cadere la città nemica; nel linguaggio apocalittico in­ fine diviene lo strumento che annuncia il giorno escatologi­ co ( cf Gl 2,1 ; Sof 1 ,16). Tipico di questo settenario è, inoltre, lo stretto rapporto fra il cielo e la terra, sottolineato dai movimenti opposti di «cadere» e di «salire»: perciò la dinamica delle vicende, dominata da angeli buoni e cattivi, rappre­ senta il tema dell'intervento salvifico di Dio nell'antica alleanza. Angeli buoni e cattivi (8,2-6)

Visione introduttiva

La visione introduttiva propone una liturgia angelica che offre la struttura letteraria e simbolica alla nuova serie di sette elementi. Protagonisti sono infatti gli angeli, che in­ corniciano una scena centrale, simbolicamente più impor­ tante, in cui si descrive una celebrazione affine al rito del­ l'offerta dell'incenso che avveniva nel tempio di Gerusa­ lemme sull'altare dei profumi di fronte al Santo dei santi ( cf Es 30,1-3 ) Questa scena liturgica sembra indicare il cor.

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rispondente celeste del culto giudaico ( cf Lv 16,12) e sotto­ lineare la mediazione angelica in tale culto, dove al movi­ mento ascendente verso Dio ( la preghiera umana ) si con­ trappone un movimento discendente verso la terra ( l'inter­ vento divino ) . Una formula che evoca «tuoni, voci, fulmini e terremoto» segna l'inizio (8,5) e la fine del settenario delle trombe ( 1 1 ,19): tale inclusione suggerisce che il tema domi­ nante sarà la rivelazione divina mediata dagli angeli. Nel giudaismo pre-cristiano era comunemente diffusa una dottrina teologica che spiegava la corruzione del mondo con la ribellione iniziale di alcuni angeli, la loro caduta e la conseguente azione negativa contro gli uomini; a questa uni­ versale situazione di male poteva rimediare solo un inter­ vento potente di Dio. Questa dottrina è ben delineata nel­ l'importante libro apocrifo denominato l Enoc, che ha por­ tato alcuni studiosi a denominare «enochico» un certo mo­ vimento apocalittico. L'apocalittico Giovanni si colloca in quest'ottica teolo­ gica, ma vi aggiunge il dato fondamentale del rimedio po­ tente operato da Gesù Cristo. Perciò in questo settenario dell'Apocalisse occupa un ruolo importante il «demoniaco»: nella prima parte, contrassegnata dal movimento di caduta, vengono presentati simbolici danni recati al cosmo. Ognuna delle prime quattro trombe descrive i danni apportati a una zona cosmica: l'ordine della creazione è stato sconvolto dal­ la caduta degli angeli, ma con effetti limitati. Inoltre , nel substrato simbolico del settenario si intravede lo schema delle piaghe d'Egitto secondo il racconto di Esodo: Dio in­ terviene per liberare il suo popolo e colpisce gli avversari oppressori, dando loro severe lezioni. Il demoniaco

Idea enochica sulla rovina angelica

Cristo vince il demoniaco

Lo schema delle piaghe

rovina il mondo (8, 7-13)

La prima tromba (8,7) presenta una caduta di grandine e fuoco: la scena evoca una terribile tempesta che distrugge la terra e la sua vegetazione; ricorda, anche nei particolari, la settima piaga costituita da grandine e fulmini ( cf Es 9,23-25). 295

Caduta di grandine

Caduta di un monte

Caduta di una stella

Tenebra

Tre "guai"

La seconda tromba (8,8-9) fa vedere la caduta di un monte infuocato: il danno recato al mare, le cui acque di­ ventano sangue, fa riferimento alla prima piaga ( cf Es 7,2021). L'oscuro simbolo dell'enorme montagna infuocata vie­ ne chiarito dalla scena seguente. La terza tromba (8,10- 1 1 ) mette in scena la caduta di una stella fiammeggiante, descritta con tratti molto simili a quelli della precedente montagna, che causa la morte di una parte dell'umanità. I fiumi e le sorgenti sono la zona cosmica danneggiata in questo caso. Secondo il simbolismo giudaico sembra probabile che in queste scene Giovanni evochi la caduta degli angeli ribelli. Non c'è riferimento a una piaga d'Egitto, ma piuttosto all'episodio delle acque amare, in cui il Signore promette di risparmiare al popolo fedele le piaghe inflitte agli Egiziani ( cf Es 15,23-26). La quarta tromba (8,12) descrive l'oscuramento dei lu­ minari: il danno prodotto agli astri riduce parzialmente la luce sulla terra, come la nona piaga comportava le tenebre per gli Egiziani ( cf Es 10,21 -23). La rovina dei luminari è immagine comunissima nelle raffigurazioni apocalittiche.7 A questo punto si inserisce, come nuovo motivo strut­ turante, l'annuncio di tre «guai» (8,13) che vengono a coin­ cidere con le ultime tre trombe. La figura simbolica di un'a­ quila attira l'attenzione sugli ultimi tre elementi del sette­ nario: l'annuncio dei «tre guai», cioè della difficile situazio­ ne di questo mondo, non è disgiunto dalla fiducia nell'inter­ vento di Dio. L'invasione delle cavallette (9, 1 -12)

La rovina dell'umanità

La quinta tromba propone una grande scena simboli­ ca, riprendendo le quattro precedenti e allargando la pro­ spettiva al rapporto del demoniaco con l'umanità: infatti il danno più grave arrecato al cosmo dalla caduta degli an-

7

Si vedano, ad esempio: Is 1 3,10; Ez 32,7-8; 01 2,10; Mt 24,29.

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geli ribelli è la ribellione degli uomini e la loro rovina. Il quadro è dominato dal simbolo delle cavallette, presen­ tate nella loro azione e nella loro figura: l' ottava piaga d'Egitto consisteva proprio in questo flagello ( cf Es 10,121 5 ) . L'angelo dell'abisso (9, 1 1 ) ha una capacità organiz­ zativa ( «la chiave» ) tale da influenzare il cosmo intero; ma questo gli è stato concesso e quindi tutto resta sotto il controllo di Dio. Il contatto del demoniaco con il cosmo e con l'uomo è evocato dal fumo tossico che oscura il sole e danneggia l'aria ( cf 8,12) e poi dalle strane cavallette che possono inoculare veleno doloroso e mortale come gli scorpioni. È chiaro che si tratta di cavallette «innaturali»: non danneggiano la vegetazione, ma l'umanità; non tutta l'umanità, ma solo quella che non aderisce fedelmente a Dio ( cf 7 ,3); non hanno il potere di uccidere, bensì di tor­ mentare e far soffrire. I l veleno della ribellione, infatti, viene messo negli uomini e ne deriva un'angoscia esisten­ ziale profonda. I particolari descrittivi tendono a offrire l'idea di un vol­ gare ibrido, evocando le disarmonie e le contraddizioni che turbano la storia umana. Queste mostruose cavallette sono i segni dell'influsso diabolico sugli uomini: con un linguag­ gio moderno potremmo dire che è demoniaco lo stravolgi­ mento dei valori, e proprio dalla diffusione e accettazione di pseudo-valori deriva la distruzione per l'umanità. Con due nomi simbolici che evocano la morte spirituale, l'angelo dell'abisso è presentato come colui che fa morire l'umanità, senza poter togliere la vita fisica (cf Sap 2,24). Un versetto di cesura e transizione (9,12) chiude la scena della quinta tromba identificata con il primo «guai» e attira l'attenzione sui due ultimi elementi del settenario: come sempre, quelli decisivi. La sesta tromba (9,13-11,14)

La sesta tromba è l'elemento più sviluppato degli altri: non si tratta di semplice continuazione, bensì di ripresa dei 297

Le cavallette

Volgare ibrido disarmonico

Dio interviene a salvare il mondo corrotto

Terremoto

temi per aggiungere la conclusione, che è fondamentale. Muovendo dalla constatazione dei gravi danni provocati dall'influsso demoniaco, si tratta diffusamente dell'inter­ vento liberatore di Dio fino al vertice del grande terremoto e l'inizio della lode a Dio. Questa grande unità si divide in due parti maggiori: la prima (9,13-21) termina con una rea­ zione negativa degli uomini che rifiutano di convertirsi, mentre la seconda (10,1-1 1 ,13), dopo aver presentato vari simboli dell'intervento salvifico divino, si conclude con la reazione positiva degli uomini che danno gloria a Dio. La sesta tromba è in qualche modo parallela al sesto sigillo: en­ trambi parlano dell'intervento escatologico di Dio e hanno in comune il riferimento al grande terremoto. Ma, mentre nel sesto sigillo il terremoto è il primo elemento della scena (6,12), nella sesta tromba il terremoto è l'ultimo ( 1 1 ,13): se nel sesto sigillo l'attenzione era posta sulle conseguenze del terremoto ( la salvezza ) , nella sesta tromba si insiste invece su ciò che precede il grande terremoto. Si tratta quindi del­ l'intervento divino, mediato dagli angeli, nell'antica allean­ za culminata con il mistero pasquale del Cristo morto e ri­ sorto. Infatti la sesta tromba è essenzialmente protesa alla settima tromba, annunciata in 10,7 come «il compimento del mistero di Dio»: tale esplicita tensione indica una fase di preparazione. La tragica condizione dell'umanità (9,13-21)

Cavalleria infernale

La prima parte , riprendendo la tematica del demo­ niaco che rovina il mondo umano, introduce una tremen­ da cavalleria infernale: tuttavia nel ripetersi di immagini affini c'è uno sviluppo costante. In questo caso si aggiun­ ge che l'azione demoniaca porta anche alla morte fisica e all' autentica distruzione degli uomini. I quattro angeli si trasformano in un esercito sterminato, una cavalleria in­ fernale lanciata all 'attacco dell'umanità: la sua descrizio­ ne è conclusa da un intervento ermeneutico (9, 1 9) che aiuta a comprenderne il valore, dicendo che il potere di que298

sti simbolici cavalli sta nella bocca e nella coda ( cf 9,3 . 1 O) . La bocca è l'organo della parola; ma in queste figure dalla bocca esce un fumo asfissiante, terribile simbolo di un discorso che uccide. La coda non è particolarmente significativa, ma qui assume la forma di serpente: così è chiaro il velenoso e assassino simbolo demoniaco . La cavalleria infernale assume insomma i connotati del flagello della guerra: in esso Giovanni vede un segno eloquente dell'orgoglio e della violenza demoniaca che rovin ano l'umanità. La reazione degli uomini di fronte a queste piaghe è simile a quella degli Egiziani secondo il racconto di Esodo: ostinazione e rifiuto. Il culto riservato agli idoli è indicato come l'effetto della corruzione portata dai demoni: essi rovinano l'umanità e si fanno adorare come divinità. Strettamente legata all'idolatria è l'immoralità: il mondo umano è profondamente corrotto; il sistema terrestre pervertito dalle forze del male è chiuso a Dio e diviene quindi fonte e strumento di morte. Nonostante la lezione delle piaghe, l'umanità non riesce da sola a liberarsi e a cambiare mentalità.

Flagello della guerra

Idolatria e corruzione

La rivelazione di Dio (10,1-1 1 )

Quindi l a seconda parte (10,1-1 1 ,14) propone l'inter­ vento di Dio come assolutamente necessario per porre ri­ medio a tale situazione corrotta. Il tema di questa seconda parte è appunto la rivelazione di Dio nell'economia vete­ rotestamentaria come proposta del rimedio. Tale tematica è sviluppata in tre scene: anzitutto un angelo offre un li­ bretto da mangiare, poi viene evocata la misurazione del tempio e infine il grande quadro dei due testimoni si con­ clude col terremoto cosmico che determina una reazione umana positiva. In una nuova visione ( c. 10) viene presentato un an­ gelo diverso dai precedenti, inserito in un grandioso qua­ dro che evoca una scena marina dopo un temporale, quan­ do le nubi si squarciano e il sole lancia attraverso di esse 299

Tre scene di rivelazione divina

L'angelo col piccolo libro

Rivelazione provvisoria e incompleta

Mangiare il rotolo

Il libro dolce-amaro

due potenti raggi, mentre si intravedono i colori dell'arco­ baleno. L'angelo compare sulla scena dotato di forza e ca­ ratterizzato da simboli tipici delle teofanie: nella sua mano sta un piccolo libro, intorno al quale si concentra tutta la visione. Improvvisamente si aggiunge come nuovo ele­ mento la voce di sette tuoni, che un comando preciso or­ dina di non mettere per iscritto, ma di conservarne il se­ greto: probabilmente Giovanni intende sottolineare così l'incompletezza della rivelazione anticotestamentaria sim­ boleggiata dal libretto e contrapporle la piena rivelazione contenuta nella sua opera (cf 22,10). Dopo la parentesi dei tuoni, ritorna protagonista l'angelo iniziale che, prima di consegnare il libretto, annuncia il compimento del mistero di Dio, oggetto della buona notizia annunziata dai profeti: questo evento è simbolicamente riservato alla settima tromba. Non viene però spiegato in che cosa consista tale «mistero»; il chiarimento verrà in seguito; per il momento all'autore interessa creare tensione verso il compimento e ripetere che la rivelazione angelica è provvisoria e incom­ pleta. Quindi un nuovo ordine impartito dalla voce celeste ripropone lo stesso gesto simbolico narrato da Ezechiele, al momento della sua vocazione (cf Ez 2,8-3,3): mangiare il rotolo scritto significa, da parte del profeta, assimilare il messaggio divino ed essere in grado di trasmetterlo ad al­ tri. Sembra dunque evidente che il libretto contenga la ri­ velazione divina affidata ai profeti. Ma fra il modello e la versione apocalittica c'è un'importante differenza: mentre Ezechiele menzionava solo la dolcezza del libro, Giovanni presenta una contrapposizione , aggiungendo anche l'im­ pressione di amarezza. Il contrasto è fra la bocca e il ven­ tre, quindi in una successione cronologica: dapprima sem­ bra dolce, ma poi si rivela amaro. Vi si può riconoscere un altro indizio che connota la rivelazione antica in tensione verso il compimento, quindi limitata e imperfetta. Al veg­ gente cristiano infine viene affidato un ulteriore incarico profetico, che consiste nel comunicare al mondo intero il messaggio assimilato. 300

La misurazione del tempio ( 1 1 , 1 -3)

La scena della misurazione del tempio allude ad un 'al­ tra fondamentale caratteristica della rivelazione anticote­ stamentaria che riguarda il santuario: riecheggiando famose scene profetiche, Giovanni le rielabora in modo originale. L' allusione alle drammatiche occupazioni e distruzioni di Gerusalemme ribadisce che l'antico santuario non era per­ fetto e intangibile, come sanno bene Ezechiele e Zaccaria . Il contrasto con la