Il fascismo e la razza: la scienza italiana e le politiche razziali del regime 8815116125, 9788815116123

Le politiche razziali del fascismo furono dettate esclusivamente da scelte di politica estera, e in particolare dall

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Il fascismo e la razza: la scienza italiana e le politiche razziali del regime
 8815116125,  9788815116123

Table of contents :
problemi e scenari ..............15
Razzismo scientifico e antisemitismo ..............37

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Giorgio Israel

Il fascismo e la razza La scienza italiana e le politiche razziali del regime

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Il fascismo e la razza Le politiche razziali del fascismo furono dettate esclusivamente da scelte di politica estera, e in particolare dall'alleanza stretta con Hitler, oppure ebbero radici e motivazioni autoctone? Razzismo e antisemitismo furono elementi costitutivi dell'ideologia fascista? Quale fu il coinvolgimento della società italiana? E quale il contributo di scienziati e intellettuali? Sono alcuni degli interrogativi cruciali con cui negli ultimi anni si è confrontata la storiografia, nell'intento di fare luce su origini e messa in opera delle leggi razziali antiebraiche volute dal regime nel 1938. Giorgio Israel torna sull'argomento e in questo libro documenta con rigore come il razzismo di Stato trovasse sostegno in talune elaborazioni teoriche della scienza italiana, dall'antropologia all'eugenetica, alla demografia. Quanto al mondo universitario, se per un verso scontò l'espulsione degli scienziati ebrei, per un altro contribuì alla politica razziale del regime, salvo poi, nel dopoguerra, «dimenticarsi» delle compromissioni, in un processo di rimozione che in molti casi dura ancora oggi.

Giorgio Israel Insegna Storia della matematica nella Sapienza - Università di Roma. Con il Mulino ha pubblicato «Scienza e razza nell'Italia fascista» (con P. Nastasi, 1998), «La questione ebraica oggi» (2002), «La Kabbalah» (2005). Tra i suoi libri recenti: «Chi sono i nemici della scienza?» (2008, Premio Capalbio), «Il mondo come gioco matematico» (2008, con A. Millón Gasca, Premio Peano).

La storia dell’antisemitismo esiste, è un dato di fatto. Ma quello che offusca tale realtà è che questa storia dell’antisemitismo, infine realizzata, non ha in nessun modo eliminato l’antisemitismo dalla storia. Essa continua a drenare nelle sue acque inquinate Xanti mascherato da complementi mutevoli (-giu­ daismo, -semitismo, -sionismo), ma l’oggetto resta lo stesso: l’uomo ebreo. Anche l’obiettivo è lo stesso: il suo sterminio. Fin tanto che il «termine» non sarà realizzato, l’antisemita non avrà pace. Non si può trarre alcuna lezione dalla storia se non che i suoi protagonisti dispongono di un guardaroba inesauribile: vi trovano la maschera appropriata all’Â/c et nunc del loro folle ruolo. André Neher, Hanno ritrovato la loro anima. Percorsi di Teshuvah, Genova, Marietti, 2006

Giorgio Israel

Il fascismo e la razza La scienza italiana e le politiche razziali del regime

Società editrice il Mulino

Ladri di Biblioteche

Progetto Fascismo 2019

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

ISBN

978-88-15-11612-3

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Indice

Introduzione I.

IL

III.

7

La questione razziale in Italia: problemi e scenari

15

1. La centralità della questione «scientifica» 2. Specificità del caso italiano 3. Problemi storiografici e interpretazioni a confronto

15 20 27

Razzismo scientifico e antisemitismo

37

1. Origini del razzismo 2. Le teorie razziali nei contesti nazionali e il caso italiano 3. La confluenza dell’antisemitismo nel razzismo moderno e l’immagine dell’ebreo 4. Gli ebrei e la scienza 5. Il caso italiano

37

Teorie della razza nell’Italia fascista

95

1. 2. 3. 4. 5.

IV.

p.

Dal nazionalismo al «problema dei problemi» Demografia e statistica Dalla demografia all’eugenetica I contributi dell’antropologia Il coinvolgimento della comunità scientifica: un bilancio

48

57 66 82

95 116 129 145 152

L’antisemitismo di stato

159

1. Un andamento fluttuante 2. Una scelta di politica razziale

159 169

6

Indice

3. Il Manifesto-, genesi, conflitti, revisioni 4. La campagna razziale contro gli ebrei 5. L’ondata investe la comunità scientifica

V.

Le correnti del razzismo fascista 1. 2. 3. 4.

VI.

Razzismo spiritualistico-romano «scientifico» Altri razzismi La mostra nazionale della razza e altri sviluppi Il razzismo riscrive la storia della scienza

p.

178 202 222

233 233 253 263 274

La comunità scientifica di fronte al razzismo

289

1. La presenza ebraica nella comunità scientifica italiana 2. La comunità scientifica di fronte all’estromissione degli ebrei 3. La discriminazione 4. Le conseguenze delle politiche razziali

289

306 318 325

Epilogo

333

Note

351

Riferimenti bibliografici

389

Indice dei nomi

431

Introduzione

La storiografìa delle politiche razziali antiebraiche nell’Italia fascista ha subito uno sviluppo straordinariamente rilevante nel corso di mezzo secolo. Negli anni Sessanta le conoscenze su questo tema erano racchiuse quasi interamente nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice [1961], opera tanto più rilevante e meritoria in quanto rompeva un lungo silenzio attorno a esso e anche attorno al tema dello sterminio degli ebrei nei lager nazisti. In questo silenzio anche la sinistra antifascista (e, in particolare, comunista) aveva avuto una responsabilità non secondaria. Erano gli anni in cui si tendeva a spiegare il razzismo come una manifestazione dell’odio di classe1. Gli ebrei internati e sterminati nei lager rientravano nella generica categoria di «de­ portati» e le politiche razziali del fascismo erano viste come una delle tante infamie della dittatura, neppure tra le più efferate. La tendenza a considerare il razzismo antiebraico del fascismo un fenomeno secondario e privo di interesse specifico si sommava all’inclinazione a sottolinearne le differenze con quello hitleriano. Si finiva con il parlare di razzismo «blando». In fondo - si diceva e si scriveva - il fascismo «discriminava, non perseguitava» gli ebrei, quasi che essere cacciati dal posto di lavoro per motivi di razza fosse una innocua penale in un gioco di società. Tutto il male veniva addossato al razzismo germanico. In questa tenden­ za all’assoluzione o alla minimizzazione hanno giocato un ruolo importante coloro che si erano compromessi non soltanto con il regime - vale a dire la stragrande maggioranza degli italiani - ma anche con le politiche razziali, e che avevano mostrato uno zelo neppure richiesto nel promuovere la campagna razziale. Nel suo li­ bro, De Felice ricordava come l’Italia, negli anni Trenta e Quaranta, avesse visto una produzione di pubblicistica antisemita «vastissima quanto mai si possa immaginare» [ibidem, 359, 444]. Nel 1946 gli

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Introduzione

autori dei misfatti razziali e quanti si erano compromessi furono assolti con grande generosità. Furono loro restituite le posizioni di potere di cui avevano goduto negli anni del fascismo, al punto che essi si trovarono persino a gestire la reintegrazione di quelli che avevano perseguitato. Vi fu addirittura chi fu epurato soltanto perché non era stato antifascista pur essendo stato vittima del fascismo in quanto ebreo. L’occultamento e il rovesciamento delle responsabilità sono testimoniati dal numero delle aule o istituti universitari che, nel dopoguerra, sono stati intitolati a coloro che si erano quantomeno sporcati le scarpe con la politica razziale del regime. In questa gigantesca opera di «lavacro», destra e si­ nistra hanno purtroppo attuato tristi forme di connivenza che la letteratura più recente sta portando alla luce non senza suscitare reazioni di fastidio o di ira2. In questo contesto, un capitolo specifico riguarda gli intellet­ tuali che, come osservò lo stesso De Felice, furono la categoria più coinvolta - e massicciamente - nella campagna razziale. Come stupirsi allora se, nell’ambito degli studi storici sulle po­ litiche razziali del fascismo, la «questione degli intellettuali» è stata clamorosamente trascurata? Era ovvio che chi deteneva gli strumenti dell’analisi storica non fosse disponibile a rivolgerli contro se stesso o anche soltanto contro i propri colleghi, che già l’amnistia politica aveva lavato di ogni colpa per i misfatti commessi o per le grandi e piccole viltà. Sotto questo profilo, non deve neppure stupire che il libro di De Felice sia stato allora accolto con scarso favore e abbia anzi destato reazioni di fastidio. Esso rappresentò un atto di coraggio notevole per la denuncia aspra che vi si faceva delle compromissioni degli intellettuali con le politiche della razza: Due settori in particolare [...] offrirono all’antisemitismo un certo nu­ mero di adesioni non trascurabile: la cultura e i giovani [...] Che la cultura italiana, fascista e profascista che essa fosse, abbia aderito su larghissima scala all’antisemitismo non è un mistero per nessuno [...] Pochi uomini di cultura, anche tra coloro che godevano di tali posizioni di prestigio da non avere nulla da perdere, seppero mantenersi estranei alla canea di quegli anni. L’unico dei «grandi» che forse più seppe farlo fu Gentile. Tra gli altri, casi come quello di Bontempelli - che osò rinfacciare a Bottai la sua adesione all’antisemitismo - come quello di G.E. Barié5 - che all’università di Milano insorse pubblicamente contro chi voleva vedere nella filosofia di Spinoza una prova del «pervertimento giudaico» -, come anche quello di Marinetti, rimasero casi isolati [...] E non si venga a gettare la colpa di

Introduzione

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questa abiezione sul regime solamente: chi non volle unirsi alla canea lo fece, rinunciando agli onori e alle prebende, è vero, ma salvando il suo onore e la sua dignità di uomo di cultura [...] Il fatto è che troppi «uomini di cultura» videro nell’antisemitismo di Stato una maniera per mettersi in mostra, fare carriera, fare danaro, per sfogare i loro rancori e le loro invidie contro questo o quel loro collega [ibidem, 442-4441.

Tuttavia, nel suo libro De Felice decideva di non insistere su questo tema, di non sviluppare un esame esaustivo della lettera­ tura antisemita «colta», per non avviare una sorta di «caccia alla rovescia». Non ci interessa tentare di capire se si sia trattato di un atto di generosità nei confronti dei colleglli. Quel che conta è che qui risiede la maggiore debolezza del libro di De Felice. La sua analisi sorvola completamente, o quasi, sul mondo intellet­ tuale e universitario. Spesso mancano o sono appena menzionati protagonisti di primo piano della politica razziale. Per esempio, quasi non si cita Sabato Visco, che pure fu a capo dell’Ufficio razza del ministero della Cultura popolare. Nel parlare del co­ siddetto Manifesto degli scienziati razzisti si compiono clamorosi errori, come quello di menzionare Pende come l’unica «figura di primo piano» tra i firmatari, quasi si trattasse di una lista di «giovani assistenti» o figure modeste, mentre tra di esse vi era il presidente dell’Istat Franco Savorgnan e il patron della psichia­ tria italiana Arturo Donaggio. Ma la conseguenza più negativa dell’aver omesso un’analisi dell’atteggiamento del mondo culturale e universitario era la riduzione della vicenda del razzismo fascista a una questione meramente politica e persino soltanto di politica internazionale, e quindi l’aver accreditato la tesi secondo cui il fascismo non aveva mai avuto propensioni razziste, tantomeno antisémite, e che la scelta di promulgare una legislazione razziale era stata conseguenza del patto d’acciaio con Hitler, e quindi soltanto una concessione all’alleato nazista. Questa tesi venne in effetti sostenuta da De Felice, anche se poi egli la corresse nella biografia di Mussolini, in cui sottolineava l’esistenza di un filo che legava le politiche pronataliste ed eugenetiche del fascismo con le politiche razziali, ammettendo quindi l’esistenza di correnti razziste autoctone. Ma su questo torneremo nel seguito. Quel che ci preme sottolineare è che l’opera di De Felice, malgrado alcune affermazioni che andavano in senso opposto, mise in discussione solo in parte la diffusa interpretazione riduttiva del razzismo fascista. Poteva così accadere - non per responsabilità di

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Introduzione

De Felice, ovviamente, ma per l’inesistenza di una letteratura ap­ profondita sull’argomento - che anche uno storico avvertito come George L. Mosse emettesse affermazioni superficiali come questa: L’Italia ha protetto i suoi ebrei ovunque le sia stato possibile. Nell’otto­ bre 1938 Mussolini aveva promulgato le proprie leggi razziali, che vietavano i matrimoni misti, escludevano gli ebrei dal servizio militare e proibivano loro di avere grosse proprietà terriere; egli però volle che questa legge fosse inoperante nei confronti di quegli ebrei che avevano partecipato alla prima guerra mondiale o al movimento fascista e coniò personalmente lo slogan «discriminare, non perseguitare». Le leggi razziali avevano lo scopo di dare al fascismo, ormai invecchiato al potere, un nuovo dinami­ smo - un compito che esse non avrebbero assolto dato che in Italia non esisteva una tradizione razzista antiebraica. Le leggi razziali intendevano anche rappresentare un gesto di amicizia verso Hitler, ma nemmeno in questo caso diedero risultati migliori, anzi i nazisti si meravigliarono per il fallimento fascista nel far osservare le leggi. Mussolini non era un razzista [Mosse 1985, 214-215].

È bizzarro considerare la promulgazione di leggi razziali «blande» come il miglior modo di proteggere i propri ebrei «ovunque fosse possibile». Di fatto, Mosse si lasciava ingenuamente incantare proprio dallo slogan mussoliniano e ne faceva una chiave di interpretazione storiografica. Quanto al fatto che Mussolini fosse un razzista, era sufficiente ascoltare il dittatore stesso per rendersene conto. È indubbio che il razzismo antisemita ebbe un ruolo costitutivo nell’ideologia nazista, mentre non lo ebbe in quella fascista. E altrettanto indubbio che le leggi razziali fasciste furono meno severe di quelle naziste, che non vi fu una politica di deportazione e sterminio, e la collaborazione con le politiche razziali naziste si limitò al periodo della Repubblica sociale italiana. Ma ciò non autorizza a liquidare la questione del razzismo fascista come una sorta di escrescenza marginale prodotta da scelte opportunistiche in politica estera. L’esistenza di un coinvolgimento del mondo intellettuale, vastissimo al di là di ogni immaginazione - per dirla con De Felice -, imponeva di sviluppare un’analisi più approfondita del ruolo di tale mondo, e in particolare di quello scientifico, che era naturalmente coin­ volto in una tematica «scientifica» come quella della razza. Ma una simile ricerca storiografica iniziò soltanto verso la fine degli anni Ottanta, senza volere con ciò togliere nulla all’importanza di contributi come quelli di Roberto Finzi, Michele Sarfatti e Mario

Introduzione

11

Toscano. Un passo decisivo fu rappresentato dal convegno sul cinquantenario delle leggi razziali, promosso nell’ottobre del 1988 dal presidente della Camera dei deputati Nilde lotti4. Tale convegno, sebbene prevalentemente dedicato agli aspetti legisla­ tivi, vide alcuni primi tentativi di affrontare la tematica culturale e scientifica; in particolare da parte di Gabriele Turi, sul tema del ruolo e del destino degli intellettuali nella politica razziale del fascismo, e da parte di chi scrive, sul tema del ruolo della comunità scientifica e delle conseguenze subite dalla scienza ita­ liana5. Dopo pochi anni un importante articolo di Mauro Raspanti [1994] propose un’analisi dell’ideologia del razzismo fascista che evidenziava l’esistenza di diversi «razzismi» del fascismo. Il 1998, sessantesimo anniversario delle leggi razziali, ha segna­ to l’inizio di una nuova letteratura sull’argomento che si è espansa nel decennio successivo a un livello quantitativo sorprendente, anche se non sempre a un livello qualitativo altrettanto elevato. Ogni tentativo di citazione condurrebbe a omissioni e non inten­ diamo fare torto a nessuno. Il merito di questa nuova letteratura è stato di aver preso di petto le questioni cruciali lasciate aperte dalle interpretazioni precedenti, e che potremmo riassumere nei seguenti interrogativi. Le politiche razziali del fascismo furono dettate esclusivamente da scelte di politica estera, e in particolare dall’alleanza stretta con Hitler, oppure ebbero radici e motivazioni autoctone? Il razzismo fu un elemento costitutivo dell’ideologia fascista? In caso affermativo, quale fu la natura della concezione razzista del fascismo ed è fondato asserire che nel fascismo si confrontarono diverse visioni del razzismo? L’antisemitismo fu un elemento costitutivo dell’ideologia fascista, come lo fu di quella nazista? Quale fu il livello di coinvolgimento della società italiana, nei suoi differenti strati, nelle politiche razziali antiebraiche? In che misura il mondo scientifico si compromise nelle politiche razziali e diede un contributo alla loro formulazione teorica? Quale ruolo ebbero le ricerche nel campo dell’eugenetica e della teoria delle popolazioni nella definizione di un’ideologia razzista in Italia? Le politiche razziali ebbero conseguenze sul mondo della cultura e della scienza paragonabili a quelle verificatesi in Germania? Si potrebbe continuare, ma l’elenco precedente è sufficiente a delineare un programma di ricerca molto vasto e che travalica i limiti ristretti entro cui si erano sviluppate le analisi storiografiche sull’argomento fino a una quindicina di anni fa. Non tenteremo

4*

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Introduzione

qui di descrivere le caratteristiche di questa nuova letteratura e il tipo di risposte che sono state date alle domande precedenti. Ci limiteremo a dire che un tratto precipuo della storiografìa dell’ultimo decennio è stato il superamento dell’idea secondo cui le politiche razziali del fascismo sono da ricondurre esclusivamente a scelte di politica estera. Ma al di là di questo tratto comune le risposte divergono, e anche di molto, soprattutto sul tema del ruolo della scienza e degli scienziati nonché sulla valutazione delle caratteristiche dell’ideologia fascista della razza. Nel 1998 uscì presso II Mulino un libro, scritto in fruttuosa collaborazione con Pietro Nastasi, dal titolo Scienza e razza nell’Italia fascista. Lo scopo era analizzare il «ruolo che la questione scientifica e gli scienziati hanno avuto nello sviluppo delle politiche razziali», sul quale - osservavamo - «pochissimo è stato scritto nel nostro paese» [Israel e Nastasi 1998, 8-9]. La tesi fondamentale del libro era la seguente: Il mondo scientifico italiano si è lasciato coinvolgere in modo assai rilevante nella politica della razza, anche se si è raramente abbandonato a forme di razzismo estremo del tipo di quello germanico. In fin dei conti, il primo documento ufficiale con cui prende le mosse la politica della razza è un Manifesto degli scienziati razzisti. Inoltre, anche in Italia si è sviluppata una tematica scientifica tendente a giustificare il razzismo. Tuttavia, essa è servita prevalentemente ad affermarne una visione «italica» (dominata da un approccio «spiritualistico») che è stata sostenuta e difesa di fronte all’alleato germanico, anche nei momenti in cui l’alleanza era strettissima. Ciò dimostra che il razzismo italiano non fu affatto un fenomeno di pura e semplice importazione del razzismo nazista, anche se la scelta razziale fu certamente influenzata dall’alleanza con la Germania. Proprio nel mondo scientifico si levarono voci tese a difendere questa autonomia e specificità italiane e, al contempo, ad affermare la piena adesione ai provvedimenti legislativi antiebraici del regime. Questi aspetti e queste teorizzazioni sono stati finora trascurati del tutto o bollati come marginali e insignificanti. Proprio qui risiede la causa della clamorosa insufficienza della storiografia nell’analisi del razzismo nellTtalia fascista. Si è confusa l’abiezione morale o l’inconsistenza teorico-scientifica con la pura e semplice inesistenza del fenomeno: in altri termini, poiché i razzisti «scientifici» erano immorali e magari sciocchi e ignoranti, le loro teorizzazioni erano irrilevanti e prive di peso6. Purtroppo, la logica che ispira siffatti ragionamenti è banalmente falsa: tanto varrebbe dire che, siccome il Mein Kampf di Adolf Hitler è teoricamente inconsistente, esso fu anche ininfluente. Il razzismo scientifico italiano è esistito, ha avuto consistenza. Anzi, è nella corrente della demografia e dell’eugenetica che è stato allevato l’interesse per la questione razziale, anche come questione

Introduzione

13

politica, e sono state costruite le giustificazioni per le scelte pratiche poi assunte. Ignorando la questione scientifica, la storiografia ha ignorato ipso facto la questione razziale in Italia7.

Queste critiche rivolte alla storiografia, a mio avviso, sono ancora pienamente valide, ma non possono essere più riproposte oggi tal quali, a distanza di un decennio, nel corso del quale è stata pubblicata una gran messe di studi che affrontano la que­ stione scientifica, sia pure, in pochi casi, per ribadire il diniego della sua rilevanza. La ristampa del libro, come se nulla fosse avvenuto, non era possibile. Appariva necessaria una riscrittura completa che tenesse conto delle nuove acquisizioni storiogra­ fiche, che si confrontasse con le tesi formulate in questi anni (e anche con talune critiche espresse nei confronti del libro) e che facesse ricorso a materiali bibliografici o archivistici successiva­ mente acquisiti, omettendo invece la trascrizione in appendice di documenti allora difficilmente reperibili e oggi largamente disponibili. Una siffatta riscrittura non poteva non implicare revisioni e raffinamenti interpretativi. Con queste finalità ho re­ alizzato il libro presente, da solo, poiché il collega Pietro Nastasi non era disponibile a questa impresa proposta da Ugo Berti, che ringrazio per l’interesse e la stima8.

4*

Capitolo primo

La questione razziale in Italia: problemi e scenari

1. La centralità della questione «scientifica»

Nel 1952, a pochi anni dalla più grande tragedia provocata dal razzismo nella storia, Claude Lévi-Strauss identificava le radici del «peccato originale dell’antropologia» nella «confusione tra la nozione puramente biologica di razza (supponendo, d’altra parte, che, anche questo su terreno limitato, questa nozione possa pretendere aH’obbiettività, il che è contestato dalla gene­ tica moderna) e le produzioni sociologiche e psicologiche delle culture umane» [Lévi-Strauss 2001, 32-33]. E aggiungeva che, per aver commesso questo errore, Joseph-Auguste de Gobineau «si era trovato racchiuso in un cerchio infernale che conduce da un errore intellettuale che non esclude la buona fede alla legit­ timazione involontaria di tutti i tentativi di discriminazione e di sfruttamento» [ibidem]. Concentriamo l’attenzione su quel che sta scritto fra le parentesi nella prima citazione. Se la nozione di razza non può pretendere ad alcuna obiettività, allora il «peccato originale» dell’antropologia consiste non tanto nella confusione di cui parla Lévi-Strauss, quanto nell’aver accettato acriticamente l’idea che esista un substrato biologico il quale sarebbe la causa delle differenze sociologiche e psicologiche delle culture uma­ ne. La modifica non è di poco conto. Difatti, in un caso stiamo dicendo che le razze esistono e sono definite in termini biologici, ma che non esiste alcuna corrispondenza tra le diversità biologiche e le diversità culturali. Nell’altro caso stiamo parlando di una costruzione che si svolge tutta a livello ideologico, senza alcun riferimento coerente a un insieme di fatti. È indubbio che rispetto agli anni in cui scriveva Lévi-Strauss esista oggi una maggiore consapevolezza del fatto che il concetto di razza è privo di qualsiasi fondamento oggettivo e che non è

16

Capitolo primo

«scientifico»1. Tuttavia, questa consapevolezza viene per lo più affermata nei seguenti termini: non è possibile ricorrere al concetto di razza perché esso si è rivelato scientificamente inconsistente, ma, se si fosse rivelato fondato, ne faremmo uso. Questa riserva è probabilmente influenzata dalla constatazione che, nel passato, un numero considerevole di scienziati rispettabili ha dato credito al concetto di razza. Non si ha il coraggio di dire apertamente che quando qualche scienziato discettava di razza in lui parlava un ideologo allo stato puro. Proprio trattando di Gobineau, Hermann Keyserling ha sottolineato che quel contava nella sua costruzione era il mito razziale e non il suo fondamento oggettivo: «Non è la verità delle idee che conta dal punto di vista storico, ma la loro corrispondenza e la loro congruenza con delle tendenze oscure e profonde [...] Qual è il fermento che Gobineau ha introdotto nell’evoluzione storica? Precisamente la coscienza della razza [...] il fatto che la razza in quanto tale ha un valore» [Keyserling 1934, 243]. E Pierre-André Taguieff così commenta: Keyserling dissocia il valore di verità della teoria gobiniana dalla questione pragmatica dell’efficacia simbolica dell’idea gobinista, in quanto essa non si riduce a un concetto. La forza del mito razziale è indipendente dalla scientificità dell’analisi razziologica. Poco importa allora che la no­ zione di razza sia un’idea chiara e distinta. Per esercitare il suo influsso le basta essere oscura e distinta, nel senso che, presente alla coscienza come un’idea distinta, trae la sua potenza dalle forze oscure dell’inconscio [Taguieff 2002, 69].

Un’analisi storica anche sommaria mostra che la nozione di razza è sempre stata un’idea oscura e distinta. Non abbiamo alcuna simpatia per le visioni mitiche dell’oggettivismo scientifico e non riteniamo che esistano rigidi criteri di demarcazione tra «scienza» e «non scienza». Tuttavia, esiste un vero e proprio abisso tra la nozione di razza’e concetti di cui pure la scienza si è disfatta, come quelli di flogisto o di etere. Difatti, questi ultimi si riferivano comunque a un insieme di fatti ben definiti e ne offrivano un modello esplicativo abbastanza coerente. An­ che l’ipotesi geocentrica si è dimostrata contraddittoria con le osservazioni, ma il sistema tolemaico ha offerto per secoli una soddisfacente descrizione (e previsione) di un insieme di fatti molto ben definito: il moto del sistema dei corpi celesti. A quale insieme ben definito di fatti corrisponde il concetto di razza? A nessuno. Basta a confermarlo il gran numero di definizioni

La questione razziale in Italia: problemi e scenari

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diversissime di razza che sono state date nel corso di due secoli, ognuna delle quali si riferiva a insiemi di «fatti» (ammesso che fossero tali!) assai lontani l’uno dall’altro e spesso totalmente contraddittori. Di più: accade spesso che il riferimento a una «razza» non indichi neppure dei fatti biologici, ma un insieme di atteggiamenti psicologici, spirituali o culturali. In fin dei conti quel che Mosse attribuisce a Galton può essere imputato a chiunque abbia fatto uso, in un modo o in un altro, della pa­ rola razza-, indicare con essa in modo vago un «gruppo» umano legato da una qualche sorta di affinità o di ereditarietà [Mosse 1985, 83]. Occorre sottolineare che le teorie razziali non sono assolutamente sempre biologiche. Questo fatto è divenuto incomprensibile per molti storici che pensano che ogni razzismo non possa che essere biologico: secondo costoro il razzismo non biologico sareb­ be un ossimoro. In tal modo essi si tolgono di torno il problema del razzismo non biologico e dei suoi sostenitori2 affermando che i razzisti spiritualisti si sbagliavano: come il borghese gentiluomo di Molière questi razzisti parlavano in prosa (ovvero in biologia) senza saperlo. Ma le cose non stanno così. Il vero errore consiste nel credere ingenuamente che il concetto di razza abbia una radice nei fatti biologici e, in quanto tale, abbia qualche forma di relazione intrinseca con le scienze naturali. Invece, si tratta di un concetto fluttuante e che si radica, di volta in volta e in modo arbitrario, praticamente dappertutto: in biologia, in etnografia, in antropologia, nelle teorie evoluzionistiche, nella filologia storica e comparata, e via elencando. In conclusione, la nozione di razza non è la rappresentazione, la descrizione o il modello di fatti concreti ben definiti. Essa è piuttosto la proiezione di un’ideologia, è un’idea che si dota di volta in volta, e in modo del tutto arbitrario, di un sistema di rappresentazioni empiriche che non sono necessariamente materiali (biologiche), al fine principale di stabilire in termini oggettivi (scientifici) l’esistenza delle differenze ed eventualmente (quasi sempre) al fine di propugnare la supremazia delle identità «migliori». La natura dell’idea di razza spiega il riproporsi ostinato, persino cocciuto, delle visioni razziali, a onta di ogni insuccesso teorico e di ogni catastrofe morale. In fin dei conti, la fisica si è liberata senza problemi dell’idea di flogisto e chi ripropo­ nesse oggi il modello tolemaico verrebbe trattato come uno

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stravagante. Al contrario, chi ripropone il discorso sulla razza gode di una tolleranza sconosciuta in altri contesti. E vero: oggi è meno usuale parlare di razze e di teorie razziali, dopo quel che è accaduto con lo sterminio degli ebrei e con altre orrende stragi razziali, come la tragedia del Rwanda. Inoltre, le ricerche di Luigi Luca Cavalli-Sforza [1996; Cavalli-Sforza, Menozzi e Piazza 1997] hanno confutato il carattere scientifico del concet­ to di razza. Dovremmo quindi considerarci al riparo sotto ogni profilo: teorico e morale. Purtroppo non è così. Se la parola razza è screditata e si fa il possibile per evitare di farne uso, l’ideologia che ne ha ispirato l’introduzione è sempre in agguato ed è pronta a riaffacciarsi. La tentazione di stabilire in termini «scientifici» le differenze mentali, psicologiche, culturali e sociali appare incoercibile, quanto lo è la tentazione razzista - ovvero la tentazione di affermare la superiorità di un gruppo rispetto ad altri - e il ricorso a un’oggettivazione di tipo biologico appare la via più comoda. Queste tendenze si riaffacciano ostinatamente perché nessuna delle confutazioni delle teorie razziali ha cen­ trato la questione più importante, ovvero il fatto che la pretesa scientificità di queste teorie è soltanto uno schermo che serve a nascondere la loro natura puramente ideologica. Il punto nodale è che ci si è limitati a confutare il concetto di razza utilizzando l’analisi della discendenza genetica per mostrare che non sono esistite razze originarie diverse e che discendiamo tutti da un unico ceppo; e per mostrare che è possibile seguire i percorsi delle differenziazioni dal ceppo originario ponendole in paral­ lelo con le differenziazioni somatiche, culturali e linguistiche. In tal modo, viene riproposto però uno dei «peccati originali» dell’antropologia - nel senso della nostra versione dell’enun­ ciato di Lévi-Strauss - e cioè l’idea che le formazioni culturali, psicologiche e sociologiche siano riconducibili a un substrato matériale che ha un ruolo caitsale rispetto a esse. Nella vecchia antropologia si parlava di sangue o si misuravano i crani, oggi si parla di geni e si analizza il Dna, ma concettualmente non cambia nulla. L’idea che «tutto è genetico» e che noi siamo un prodotto dei nostri geni non ha nulla di scientifico: è una pura e semplice credenza metafisica materialistica. Perciò è sempre il vecchio tipo di mistificazione che viene riproposto, nel quadro aggiornato delle conoscenze contemporanee. Ancora una volta la scienza viene usata per contrabbandare come oggettivo e scien­ tifico quel che è soltanto pura ideologia. E non deve stupire se

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si finisce di nuovo con il parlare di razza come se si trattasse di qualcosa di esistente3. La nostra conclusione è che ogni analisi storiografica e con­ cettuale delle concezioni razziali e delle loro applicazioni pratiche è fuorviarne se non aggredisce a fondo la «questione scientifica». Quel che si è in prevalenza fatto finora è ignorare sostanzialmente tale questione, sia considerandola irrilevante (nelle storiografie prevalentemente politiche), sia considerandola «scontata», in quanto appartenente a un altro contesto, quello scientifico per l’appunto, essendo compito dello storico del razzismo occuparsi soltanto delle implicazioni sociali e politiche delle teorie razziali. Occorre invece cessare di dare per acquisito che esista un fonda­ mento scientifico di queste concezioni, o anche soltanto che esse abbiano mai avuto qualcosa a che fare con la conoscenza di fatti reali. Il problema è che ci si deve muovere su un crinale molto sottile che è determinato da un dato oggettivo e da un fattore soggettivo: le teorie razziali sono non scientifiche, secondo un criterio minimale di scientificità, al di sotto del quale non ha senso neppure tentare di definire delle caratteristiche specifiche dell’attività scientifica; ma, al contempo, sono sentite e presentate come tali da coloro che le coltivano. Pertanto la relazione con la scienza delle teorie razziali è interamente fondata sulla convinzione soggettiva della loro scientificità. Tale colossale manifestazione di illusione e giustificazione da parte dei protagonisti nei con­ fronti di se stessi e degli altri, deve essere presa sul serio e non bollata come truffa, espressione di pura malafede o paravento dietro cui viene veicolata un’intenzione meramente politica4. Se si parte da una premessa del genere si perviene alla conclusione che l’aspetto scientifico è irrilevante e di facciata e si costruisce un’analisi storiografica semplificata fino allo schematismo. Se invece si concede qualcosa alla loro scientificità oggettiva, si rischia di rendere impossibile la definizione di qualsiasi criterio di demarcazione dell’attività scientifica, sia pur vago e storica­ mente determinato, e di giustificare le teorie razziali molto di più di quanto sia ragionevole fare5. In fondo, sono stati gli stessi protagonisti a incaricarsi di confutare entrambi questi punti di vista. Prendiamo il caso del celebre statistico Giorgio Mortara. Egli fece ricorso al concetto di razza e, come è stato notato, «sotto la sua direzione, il “Giornale degli economisti” pubblicò nel 1927 articoli come quello del demografo Franco Savorgnan, uno dei futuri redattori del Manifesto degli scienziati razzisti, dal

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significativo titolo La composizione razziale della popolazione ame­ ricana [Savorgnan 1927] nel quale i concetti di razza superiore e inferiore costituiscono la base dell’argomentazione» [Baffigi e Magnani 2008, 14]. Tuttavia, come vedremo, quando Mortara dovette compilare la scheda predisposta dal regime fascista per accertare la razza dei professori universitari, vi appose l’osserva­ zione che egli non poteva dichiarare di appartenere a una razza «della quale scientificamente nega l’esistenza». Insomma, sia pure tardivamente e sotto l’effetto dei provvedimenti razziali, Mortara si rese conto dell’inconsistenza scientifica, oltre della pericolosità, dell’indirizzo assunto dalla ricerca demografica. Gran parte della storiografia è viziata dalla mancata deco­ struzione del significato ideologico delle concezioni razziali e dal fatto di dare per scontata l’esistenza di una loro relazione con la scienza, invece di riconoscere che questa relazione è piuttosto, ed esclusivamente, una relazione con lo scientismo. Soltanto un approccio di questo genere - libero da soggezioni nei confronti di una scientificità inesistente - può pervenire a interpretazioni fondate e utili a indicare la via per liberarsi dall’eterna ripropo­ sizione di uno dei più nefasti pregiudizi della storia.

2. Specificità del caso italiano L’impresa scientifica è caratterizzata da un curioso paradosso. Da un lato essa si sviluppa su un terreno culturale specifico ed è inevitabilmente connessa a una realtà nazionale, d’altro lato essa aspira all’universalità e quindi è tendenzialmente internazionalista se non addirittura cosmopolita. Non c’è sviluppo della storia della scienza che possa essere compreso se non in relazione a un con­ testo culturale, sociale, politico, filosofico e persino teologico che ha precise relazioni con una realtà nazionale. La nascita e i primi sviluppi del calcolo infinitesimale in Europa avvennero nell’am­ bito del confronto tra due visioni, quella di Newton e quella di Leibniz, che esprimevano culture profondamente differenti legate rispettivamente al contesto inglese e al contesto continentale. Il concetto di legge naturale ebbe la sua più chiara espressione nella filosofia cartesiana e non trovò terreno facile nel contesto culturale inglese in cui Robert Boyle ironizzava sulle «leggi cattoliche del moto»6. L’accettazione o il rifiuto di determinate teorie scientifiche o di determinati approcci metodologici possono essere spiegati

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soltanto in riferimento a specifiche culture regionali, nazionali, o tutt’al più continentali7. Ciò detto, è innegabile che la scienza per sua natura tende all’universalità. Le scienze naturali mirano a ricavare conclusioni oggettive, valide in ogni luogo e in ogni tempo, aspirano a enunciare leggi universali. L’epistemologia scientifica ha assunto a fondamento la visione cartesiana di «legge naturale» e, per quanto la scienza contemporanea abbia abbandonato il mondo delle certezze assolute a profitto di un atteggiamento pragmatico e utilitaristico, l’atteggiamento di tanti scienziati è persistentemente rivolto alla ricerca di risultati riconoscibili come oggettivi, su cui il tempo non possa far presa. Del resto, un pilastro della scienza è la ripetibilità degli esperimenti, il principio secondo cui, a parità di condizioni iniziali, un fenomeno si riprodurrà sempre allo stesso modo. Senza un simile principio non sarebbe possibile neppure una tecnologia. Pertanto, poiché la scienza è il terreno prediletto dell’oggettivismo essa tende all’universale e a superare, sia pure entro certi limiti, le diversità culturali e ad abbattere i confini na­ zionali (e anche linguistici) entro cui si è sviluppata. Insomma, la scienza è un’impresa che, pur essendo indissolubilmente connessa a realtà culturali particolari, tende al cosmopolitismo e a fornire risultati validi per tutti. Anche qui è possibile cogliere il fossato che separa scienze come la matematica, la fisica, la chimica o la biologia dalle teorie eugenetiche e razziali. Per quanto queste ultime aspirino all’oggettività e dichiarino di presentare conclusioni di valore generale, in realtà non riescono a svincolarsi neanche per un istante dal contesto culturale, ideologico, sociale e politico che le ha ispirate. Beninteso, è facile produrre esempi di teorici dell’eugenetica razziale che hanno avuto influsso in altre culture e in altri paesi, magari assai più che nei loro, come fu il caso di Georges Vacher de Lapouge (apprezzato più in Germania che in Francia), o che hanno avuto un influsso internazionale ampio, come Francis Galton. Ma è impossibile fornire un esempio di una specifica teoria razziale che sia stata universalmente accettata, cui sia stata riconosciuta una validità generale. Insomma, è impossibile indicare un testo di eugenetica o teoria delle razze che sia stato punto di riferimento universalmente riconosciuto al pari di certi testi di fisica o di matematica. La seguente osservazione può ulteriormente chiarire la differenza con le discipline scientifiche tradizionali. Esistono molti testi di storia della matematica e della fisica senza ulteriori aggettivi «nazionali» (mentre le ricerche

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sulle scuole nazionali appartengono alla letteratura specialisti­ ca). Al contrario, si possono citare quanti si vogliano testi che trattano della storia di una specifica tradizione nazionale nel campo dell’eugenetica o delle teorie razziali, ma non esiste una soddisfacente storiografia generale, unitaria e comparata, delle teorie eugenetiche e razziali e forse, per i motivi anzidetti, essa è molto difficile, se non impossibile. Che cosa unisce allora le diverse correnti nazionali nel cam­ po delle teorie razziali? Non esiste un patrimonio condiviso di conoscenze dotate di qualche base oggettiva, un accordo su un insieme di definizioni fondamentali, un confronto sistematico di teorie e di interpretazioni. Quel che unisce le diverse correnti è soltanto un’idea, una convinzione generica-. l’esistenza di differenze qualitative tra gruppi umani - dovute a fattori di vario genere - che definiscono una ripartizione dell’umanità in razze. A tale con­ vinzione si associa sistematicamente l’idea che le caratteristiche distintive delle razze, e in particolare della «propria», vadano preservate, accentuate e valorizzate in ogni modo. Come avremo modo di constatare attraverso vari esempi, tale convinzione si manifesta sia quando è accompagnata da quella secondo cui la ripartizione in razze è graduata in base a un ordine di superiorità dell’una rispetto all’altra, sia quando si afferma che non esistono razze superiori e inferiori. In altri termini, che si aderisca o meno a una visione marcatamente «razzista», la visione razziale implica un’idea di isolamento delle diversità. Al di fuori di questo tratto comune le diverse teorie razziali non condividono nulla, neppure le definizioni di base. L’inconsistenza dei fondamenti oggettivi delle teorie razziali è confermata dal fatto che quel che emerge prepotentemente in esse sono i moventi, gli atteggiamenti, le finalità. Limitiamoci a quattro osservazioni. 1) I teprici della razza si ripartiscono in pessimisti e ottimisti. I primi hanno una visione catastrofica del futuro perché, mentre affermano la superiorità di una razza, prevedono l’ineluttabilità del meticciato visto come causa di sicura decadenza8. Al contrario, coloro che ripongono fiducia negli interventi dell’eugenetica confidano di poter preservare e anche migliorare le caratteristiche razziali da loro ritenute po­ sitive (in generale quelle della «loro» razza). 2) Questi ultimi si dividono sui provvedimenti da adottare: di qui la distinzione fra eugenetica positiva ed eugenetica negativa?. L’eugenetica positiva era sorretta dalla convinzione che fosse sufficiente facilitare le

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unioni fra individui di buona «qualità» in modo da produrre il maggior numero possibile di individui ben dotati, nonché mettere in opera programmi di igiene fisica, di assistenza prima e dopo il parto, di cura e «miglioramento» dell’infanzia, di determinazione delle migliori forme di alimentazione. I fautori dell’eugenetica negativa ritenevano che i metodi «positivi» fossero del tutto in­ sufficienti e che occorresse intervenire direttamente sui matrimoni vietando quelli con soggetti «inferiori», sulle nascite e persino sterilizzando gli individui «difettosi». E quasi superfluo dire che gli apparati teorici dei due tipi di eugenisti sono largamente influenzati da queste due diverse visioni operative. 3) Un’altra divisione è quella tra «liberisti» e «pianificatori»: mentre i primi ritengono che il miglior corso degli eventi sia quello che si affida ai processi naturali spontanei, i secondi ritengono che sia pre­ feribile intervenire pilotando le interazioni fra razze e che in tal modo si possano ottenere i risultati migliori. Alla prima categoria appartengono i «darwinisti sociali» ed essa è più diffusa nelle democrazie liberali. Il secondo punto di vista è caratteristico del razzismo dei regimi totalitari e un suo tipico esponente è Georges Vacher de Lapouge, anche se il suo razzismo è tinto di accenti pessimistici, il che mostra come le varie distinzioni si intersechino in modi complicati. 4) Non esiste alcun consenso circa la scala di valutazione delle razze. Ciò è particolarmente evidente nel caso degli ebrei. Per esempio, non si può dire che Gobineau sia antisemita. In taluni casi i teorici della razza sono antisemiti, in altri non lo sono, oppure appoggiano la loro ostilità antiebraica sulla convinzione che gli ebrei siano razzialmente superiori, e proprio per questo più pericolosi. In altri casi, l’antisemitismo più virulento è puramente politico-sociale, come nel caso di Charles Maurras, che rigettava le teorie razziali e razziste. In conclusione, le teorizzazioni razziali sono pesantemente influenzate da fattori culturali e politico-sociali che si radicano entro le varie identità nazionali, le quali ne costituiscono pertanto il più forte fattore caratterizzante. Anche quando determinate teorizzazioni vengono trasferite in un altro contesto esse ne risultano profondamente trasfigurate. Per esempio, è indubbio che il razzismo nazista si ispirò largamente (anche per esplicita ammissione dei suoi teorici) alle visioni di Gobineau e di Vacher de Lapouge e all’eugenetica di Galton e di Karl Pearson. Tutta­ via, nel nuovo contesto, spariscono il pessimismo di Gobineau, il socialismo antimilitarista e utopistico di Vacher de Lapouge e A

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il liberismo del darwinismo sociale e viene conservato soltanto quel che si accorda con i miti del razzismo germanico nazista. Nel prossimo capitolo tenteremo di delineare i tratti fondamentali delle concezioni razziali prevalenti nei differenti contesti nazionali e, in particolare, i tratti specifici assunti dall’antisemitismo. Qui abbiamo voluto evidenziare il carattere determinante delle culture nazionali per sottolineare come sia inutile parlare delle politiche razziali nell’Italia fascista - e, in particolare, di quelle antiebraiche - se non si tiene conto del contesto specifi­ co in cui si sono sviluppate. Molto schematicamente potremmo caratterizzare il contesto italiano mediante quattro aspetti fon­ damentali. Le due prime osservazioni sono quasi ovvie. L’Italia è un paese di formazione recente e la cui identità nazionale è stata sempre debole. E curioso notare che, a dispetto della secolare frammentazione politica della penisola, la sua identità linguistica è stata sempre forte, persino più che in paesi a forte identità na­ zionale, come la Spagna. Cionondimeno il sentimento di identità nazionale italiano è stato sempre debole. Difatti, uno dei compiti principali che si diede il fascismo fu proprio quello di sviluppare un intenso sentimento nazionalistico. Inoltre, l’Italia ha avuto una storia coloniale modesta e talora anche sfortunata, ed è noto quanto il colonialismo sia stato un fattore di intensificazione del nazionalismo e anche di sentimenti razzisti in molti paesi euro­ pei. Ed ecco il terzo aspetto: la scarsa presa delle teorie razziali «scientifiche» nella cultura italiana è stata conseguenza anche della presenza della Chiesa cattolica che non poteva accettarle senza contraddire la sua visione dell’unicità delle creature uma­ ne, tutte derivanti dal medesimo ceppo, e tra cui era possibile porre soltanto discriminanti di carattere confessionale. In effetti, la diffusione delle teorie razziali in Italia è legata all’ingresso del pensiero positivistico e, in taluni casi, esplicitamente antireligioso. L’unica eccezione nel mondo cattolico è rappresentata dalla Com­ pagnia di Gesù in cui, come vedremo, il razzismo scientifico trovò sostenitori. Ciò trova spiegazione nelle tradizionali propensioni scientiste del mondo gesuita. Infine, anche per quanto riguarda l’antisemitismo si può ben dire che in Italia questo sentimento abbia sempre avuto bassa intensità e scarsa diffusione, con una sola notevole eccezione: l’antigiudaismo religioso cattolico. Men­ tre l’antisemitismo politico e razziale fece ingresso tardi in Italia e non ebbe mai un grado di intensità neppure lontanamente

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paragonabile a quello verificatosi in Francia ai tempi Adi’affaire Dreyfus, l’antisemitismo religioso (o antigiudaismo10) fu coltivato intensamente e si espresse in forme particolarmente virulente, per quasi un secolo, sulle pagine dell’organo della Compagnia di Gesù «La Civiltà Cattolica» [cfr. Taradel e Raggi 2000]. Questi elementi bastano a far capire le peculiarità del caso italiano e le ragioni per cui più d’uno ha sostenuto che una vera e propria corrente razzista non sia mai esistita in Italia. A fronte della Germania, le caratteristiche ideologiche del razzismo italiano e della campagna razziale sviluppata dal regime fascista sono molto più sfumate e difficili da definire. In Francia e in Germania si sono manifestate correnti razziste e antisémite (non necessariamente, ma molto spesso, collegate fra di loro) aventi caratteristiche precise e di forte intensità. In Italia non si è mani­ festato nulla di paragonabile, quantomeno sul piano dell’intensità e dell’influenza sul complesso della società. Negli anni del caso Dreyfus la Francia si dilaniava letteralmente in fazioni contrap­ poste e imponenti correnti antisémite si raggruppavano attorno all’Action française di Charles Maurras o dietro a personaggi come Édouard Drumont. In Germania si preparava il terreno di un razzismo biologico oltranzista che si saldava con un anti­ semitismo che aveva continuato ad alimentarsi di mai eliminate restrizioni sociali nei confronti degli ebrei. Nulla del genere in Italia. È certamente facile incontrare manifestazioni di ostilità nei confronti degli ebrei, per esempio da parte di personaggi di rilievo come l’economista Maffeo Pantaleoni, ma occorrerà attendere la seconda parte del Ventennio fascista per veder emergere veri e propri propagandisti del razzismo antisemita, come Giovanni Preziosi, i quali tuttavia non ebbero mai in Italia l’influsso di cui godettero in Francia un Maurras o un Maurice Barrés. Un altro dato significativo è il seguente: mentre in Germania si sviluppò fin dall’Ottocento un’intensa polemica attorno all’esistenza di una «scienza ebraica» di natura diversa da quella «ariana», che avrebbe rischiato di inquinarne le caratteristiche positive, nulla del genere si manifestò in Italia, almeno prima degli ultimi anni del fascismo. In conclusione, ripetiamo che l’unica componente coerentemente antisemita in Italia si espresse nel mondo cattolico e, in particolare, negli ambienti gesuiti. È facile comprendere perché qualcuno abbia sostenuto che una questione ebraica in Italia non sia mai esistita, che l’antisemi­ tismo non abbia mai avuto una rilevanza significativa e che non

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sia mai neppure esistita alcuna corrente razzista. Le leggi razziali del 1938 sarebbero state un incidente di percorso, un’escrescenza estranea al fascismo stesso. Esse sarebbero state una conseguenza accidentale dell’improvvida alleanza di Mussolini con Hitler, un pegno di fedeltà pagato sull’altare del patto d’acciaio. Ma qui ci si sbaglia. Se è vero che in Italia tutto fu più sfu­ mato, che l’antisemitismo ebbe una bassa intensità (ma non fu certamente inesistente!), è falso che il razzismo non abbia avuto corso in Italia e neppure nel Ventennio fascista. Se è innegabile che l’antisemitismo non fu un elemento costitutivo dell’ideologia fascista (a differenza di quella nazista), il razzismo invece lo fu, e fin dai primi anni del regime. La questione della razza fu indi­ cata molto presto da Mussolini come uno dei temi centrali della dottrina e della pratica fasciste. Per molti anni non si trattò di un razzismo antisemita, ma è difficile pensare che la manipolazione del razzismo non possa fecondare il terreno su cui trovano facile sviluppo i razzismi «concreti», quelli che prendono di mira un particolare gruppo umano. Naturalmente, un’analisi storiografica seria deve affrontare il duplice compito di descrivere la natura e gli sviluppi del razzismo fascista e di spiegare in che modo ed entro quali limiti abbiano favorito l’adozione di una legislazione razziale, al di là degli aspetti di mera concessione alle richieste di Hitler. Si tratta della questione più delicata su cui la storiografia si è divisa e si divide, come vedremo nel prossimo paragrafo. Per ora, restiamo all’indicazione generale dei tratti del caso italiano, osservando che anche sugli indirizzi di questo razzismo autoc­ tono non poteva non farsi sentire la presenza della Chiesa e del mondo cattolico. Questa presenza ebbe l’effetto di mitigare in tutti i modi le propensioni verso un razzismo di tipo biologico, per favorire invece un’idea di razza ispirata a una visione più spiritualistica e non basata gu differenze materiali tra gruppi umani. Si trattava quindi di stemperare l’idea di razza basandola non tanto su differenze di sangue o genetiche quanto su diversità culturali, sociali, ambientali, religiose che si erano accentuate nel corso dell’evoluzione storica, insomma qualcosa di prossimo al concetto di etnia11. Siamo quindi di fronte a un contesto molto sfumato e articolato che permette di comprendere perché la questione del razzismo e delle politiche razziali nell’Italia fascista presenti un grado di complessità di gran lunga maggiore di quello che si incontra nel caso tedesco e richieda di mettere in opera strumenti analitici

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raffinati. Ciò spiega e anche giustifica l’esplosione di una così vasta letteratura e di notevoli divergenze interpretative. Non giustifica invece la propensione alla semplificazione, all’enunciazione di tesi drastiche e visibilmente condizionate da pregiudizi politici o ideologici e la tentazione di liquidare senza discussione le tesi diverse o addirittura di ignorarle.

3. Problemi storiografici e interpretazioni a confronto

Non ci proponiamo qui di fare una rassegna della lettera­ tura concernente il nostro tema. Una siffatta rassegna rischia quasi certamente di essere incompleta e pertanto ingiustamente omissiva. D’altra parte, il lettore interessato può rivolgersi a un recente articolo di Tommaso Dell’Era [2007] che è dedicato alla storiografia riguardante il cosiddetto Manifesto degli scienziati razzisti ma che di fatto descrive tutte le correnti della storiografia generale: difatti è proprio attorno all’analisi del Manifesto e delle sue vicende che vengono alla luce tutte le differenze interpretative. Essa rappresenta una sorta di pietra di paragone delle diverse visioni storiografiche dell’ideologia razziale del fascismo. Invece di fare un elenco delle differenti posizioni o una rico­ struzione storica del loro succedersi (che è quel che fa il citato articolo di Dell’Era), riassumeremo i temi principali attorno ai quali ruotano e si distinguono le varie interpretazioni. Possiamo ridurli a tre: essi, peraltro, non sono nettamente distinti e spesso si intrecciano fra di loro. 1) Il tema classico. E possibile riassumerlo nella domanda seguente: è esistito, oppure no, un razzismo fascista autoctono e avente caratteristiche chiaramente distinguibili da quelle del razzismo nazista? A questa domanda si accompagna quella analoga in cui a razzismo si sostituisca antisémitisme?1 e a cui è connessa la questione di importanza centrale se la tematica antisemita abbia avuto un ruolo costitutivo nell’ideologia fascista, analogamente a quanto è accaduto nel caso del nazismo. 2) Sono esistiti più razzismi del fascismo? E evidente che chi risponde negativamente alla prima domanda risponde negativamente anche alla seconda, e cioè afferma che l’unico razzismo conosciuto in Italia è stato quello importato dalla Germania e copiato dal modello nazista. Una risposta affermativa comporta una descrizione analitica e attenta dei differenti punti di vista

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e la ricostruzione storica delle controversie che li hanno con­ trapposti. 3) La questione scientifica. Qui si pongono numerose domande. La scienza italiana ha avuto un ruolo nell’elaborazione di una o più ideologie razziali del fascismo ed è stata coinvolta in un dibattito teorico fra approcci differenti? Qual è stato il grado di coinvolgimento degli scienziati nelle politiche razziali? Anche qui è evidente che chi risponde negativamente alla prima domanda ritiene pure che il coinvolgimento (grande o piccolo che sia sta­ to) degli scienziati italiani si sia limitato a un’adesione passiva ai dogmi del razzismo hitleriano. Viceversa, chi ritiene che vi siano state forme di elaborazione autonoma si pone il problema di studiare il ruolo delle discipline coinvolte nella tematica razziale: antropologia, genetica, eugenetica, demografia ecc. Al riguardo si pone una domanda fondamentale: queste discipline scientifi­ che sono state forzatamente coinvolte in un ruolo di supporto strumentale e quasi propagandistico oppure hanno avuto un ruolo attivo nell’alimentare l’ideologia razziale? Ne discende la questione più dibattuta: esiste un «piano inclinato» che conduce dalla pratica di discipline controverse come l’antropologia fisica e l’eugenetica allo sviluppo dell’ideologia razziale, e addirittura dell’antisemitismo, oppure esistono correlazioni ma non strettamente causali; oppure non esiste alcuna correlazione? Riguardo al tema numero 1 la storiografia ha avuto un anda­ mento univoco. I primi contributi postbellici minimizzarono forte­ mente la vicenda del razzismo fascista riducendola a un’operazione imposta dall’esterno o a una manifestazione di conformismo13. Il classico volume di De Felice [1961], pur convalidando l’idea che le politiche razziali fossero state imposte da ragioni di politica estera, offrì una panoramica vasta e dettagliata che permise di cogliere, per la prima volta, la rilevanza di tali politiche e del coihvolgimento di tante personalità nella loro difesa, propaganda e attuazione. Tuttavia, la questione ideologica non venne presa in considerazione De Felice. Anzi, egli negò qualsiasi rilievo teorico ai documenti del razzismo fascista e qualsiasi dignità scientifica ai loro estensori. Il primo contributo che considerò seriamente l’esistenza di un’ideologia fascista della razza risale alla fine de­ gli anni Sessanta e fu dovuto allo storico statunitense A. James Gregor [1969]. A partire da questo momento, e passando per i contributi di Meir Michaelis [1978], la questione ideologica assume un peso crescente fino al già citato articolo di Mauro

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Raspanti [1994] che va oltre, stabilendo esplicitamente resisten­ za di diversi «razzismi» del fascismo. A questo punto, l’analisi s’intreccia con quella del ruolo della questione scientifica. Ma su questo aspetto torneremo dopo. Qui interessa sottolineare l’andamento univoco della storiografia che è contrassegnato dal progressivo isolamento delle tesi «minimizzatrici» e dall’imporsi della convinzione che le politiche razziali del fascismo fossero state qualcosa di autoctono, di rilevante e con caratteristiche di intensità e di durezza sottovalutate. Il pendolo interpretativo è quindi oscillato dalla parte opposta. Ciò ha rappresentato un notevole progresso. Ma è ormai difficile negare che l’oscillazione è andata troppo in là. Si assiste spesso a esagerazioni giornalistiche fuori misura14. Vengono pubblicati libri che sconfinano nell’invettiva. Un esempio emblematico è dato dal volume dedicato da Franco Cuomo [2005] ai firmatari del Manifesto che fa di Nicola Pende un Rosenberg italiano, accusa i dieci firmatari di aver «legittimato» la deportazione di ottomila ebrei italiani e termina addirittura con un ammonimento rivolto ai loro discendenti. Più serio è il volume di Giorgio Fabre [2005] su Mussolini, il cui intento è dimostrare, attraverso la produzio­ ne di numerosi documenti, che Mussolini nutriva fin dall’inizio sentimenti razzisti e antisemiti. Tuttavia, anche in questo caso ci si trova di fronte a una tesi estrema che si pretende avvalorata da una massa di prove «documentarie». Al riguardo, non biso­ gnerebbe mai dimenticare che vale per la storia l’ammonimento di Henri Poincaré a proposito della scienza: parafrasando, la storiografia non è un insieme di documenti più di quanto una casa non sia un cumulo di pietre. L’accumulazione di documenti non produce alcuna interpretazione, così come dall’accumulazione di osservazioni non deriva alcuna teoria. Purtroppo, è sempre più diffusa la tendenza a privilegiare una storiografia che ammassa documenti su documenti, quasi fosse suo compito realizzare una cartografia 1:1 che dimostrerebbe in modo inoppugnabile le interpretazioni proposte. Il guaio è che la storia passata non è mai ricostruibile nella sua interezza, per motivi che è superfluo spiegare, tantomeno è suscettibile di interpretazioni univoche e indiscutibili. Pertanto, lo storico deve esibire senza infingimenti le sue tesi storiografiche e il suo compito primario è mostrare che la selezione documentaria che egli adduce come prova della loro validità è seria e fondata. Insomma, egli deve spiegare perché un documento è significativo rispetto alla tesi proposta, e perché lo

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è più di altri che accrediterebbero tesi differenti. Fabre lamenta che un libro possa essere demolito soltanto per il titolo, ma è indubbio che intitolarlo Mussolini razzista e sottotitolarlo La formazione di un antisemita o è un errore da matita blu oppure rivela l’intento di piegare l’analisi storiografica ad agitazione pro­ pagandistica. Come già abbiamo osservato, sono numerosi i casi di razzisti non antisemiti e di antisemiti non razzisti. Mussolini era sia razzista che antisemita? In un precedente libro [Israel e Nastasi 1998] si è proposta una tesi più articolata: Mussolini fu certamente razzista, sia pure in un senso non coincidente con quello nazista, ma non fu antisemita, nel senso che non concepì mai l’antisemitismo come un elemento strutturale e fondante dell’ideologia del regime, come avvenne invece nel caso nazista. Non a caso, Mussolini condannò più volte e duramente la poli­ tica razziale antisemita hitleriana tacciandola di barbarie. Non è buona storiografia soffocare questo corposo fatto politico sotto un ammasso di documenti di ineguale peso e significato, i quali oltretutto non si prestano a un’interpretazione semplice e univo­ ca15. Mussolini nutriva pregiudizi antiebraici generici purtroppo molto diffusi e di cui si potrebbe fare un tristissimo inventario che annovererebbe nomi come quelli di Benedetto Croce, per non dire di Agostino Gemelli, al pari di tanti altri fascisti succes­ sivamente «redenti»16. Ma ciò non giustifica affatto il presentarlo come l’intellettuale del Novecento - e quanto poco Mussolini fosse un intellettuale lo ha spiegato benissimo De Felice! - che in Italia, e non soltanto, avrebbe pensato e scritto più di chiun­ que altro in termini di razza, razzismo e antisemitismo. Anche le carte inedite di Claretta Petacci recentemente pubblicate [Suttora 2009] forniscono un’interpretazione ben diversa, che è quella che seguiremo: e cioè di un Mussolini incline a un razzismo gene­ rico che egli estremizza alla vigilia del 1938, quando sceglie di calcare la mano su questo tèma per imprimere una nuova svolta rivoluzionaria al fascismo, e le cui manifestazioni antisémite più estreme datano dal 1938 e sono chiaramente legate alla definitiva rottura con il movimento sionista. A cosa giova il radicalismo storiografico, la tendenza a mettere sullo stesso piano nazismo e fascismo, a passare da un estremo all’altro, dalla tesi secondo cui le politiche razziali furono un incidente di percorso subito e non condiviso dallo stesso regime fascista alla tesi secondo cui l’Italia non fu seconda a nessuno per la severità delle leggi imposte agli ebrei? A mio avviso, le

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ragioni sono essenzialmente politiche e hanno a che fare con le vicissitudini del comuniSmo e del postcomunismo. Non intendo approfondire qui questa tematica17. Mi limiterò a dire che in una prima fase si è teso a minimizzare o a mettere in sordina la questione razziale sia per ragioni ideologiche - l’intento di sostenere che le radici del nazismo e del fascismo erano essenzial­ mente legate alla lotta di classe e quindi il razzismo era soltanto un fenomeno «sovrastrutturale» - sia per ragioni di opportunità - l’esigenza di nascondere i trascorsi imbarazzanti di coloro che erano passati armi e bagagli dal fascismo alla sinistra, in parti­ colare comunista [cfr. Serri 2005; Battista 2007]. In questa fase, l’idea del carattere unico dello sterminio degli ebrei era avversata fortemente in quanto si riteneva che mettesse in secondo piano la caratteristica principale del nazifascismo, e cioè la sua natura di strumento violento della repressione borghese antiproletaria. Il progressivo disgregarsi dell’ideologia marxista e la crisi del comuniSmo «reale» hanno condotto invece al recupero dell’idea vilipesa del carattere eccezionale della Shoah: il più grande cri­ mine (razziale) della storia si collocava su un piano ben diverso rispetto a quelli compiuti in nome del comuniSmo. Questa estrema trovata difensiva del comuniSmo richiedeva, nel contesto italiano, di decretare che il fascismo aveva commesso crimini non minori di quelli del confratello nazista. Di qui l’accanimento con cui le politiche razziali del fascismo sono state valutate come altrettanto gravi (se non di più!) di quelle naziste: identificare il fascismo con il male assoluto costituiva l’estrema linea giustificazionista del comuniSmo e l’affermazione della necessità imperitura di fondare la democrazia italiana sulla mobilitazione antifascista. Non sorprende quindi che sia la storiografia tendente a mi­ nimizzare il razzismo fascista sia quella tendente a esasperarne i contorni fino all’estremo limite abbiano congiurato, e congiurino, a stendere una cortina di silenzio sulle tesi «intermedie», ovvero quelle che sostengono che nel fascismo sono esistiti razzismi autoctoni, i quali si sono combattuti, e che la linea prevalente è stata quella «moderata», pur non volendo sottrarre un’oncia alla drammatica gravità dei misfatti compiuti nei confronti degli ebrei e dei popoli delle colonie africane. Poiché le vicende del Manifesto costituiscono la prova più evidente dell’esistenza di questi fascismi, dei loro antagonismi e svelano chi ebbe la meglio in questo confronto, non stupisce che esse costituiscano l’aspetto più imbarazzante, da eludere a tutti i costi. E non stupisce quindi

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che il libro di circa un decennio fa [Israel e Nastasi 1998] sia stato progressivamente censurato, evitando persino di citarlo, e soprattutto rifiutandosi di prendere atto delle vicende seguite alla pubblicazione del Manifesto™. E un atteggiamento condiviso da un gran numero di testi aderenti all’interpretazione radicale del secondo tipo. Ma anche in un’opera più equilibrata, come il recente libro di Marie-Anne Matard-Bonucci [2008], si arriva al punto di sostenere che l’opposizione di Nicola Pende al testo del Manifesto «portò al suo isolamento e gli diede l’occasione di sperimentare a sue spese cosa significasse sotto il fascismo l’espressione di un pensiero dissidente, per non aver capito che sul terreno della razza la scienza era chiaramente subordinata alla politica». Al contrario, è platealmente evidente che, nello scontro, Pende l’ebbe vinta, non fu affatto isolato, e mostrò di non essere affatto una voce «dissidente» del regime, bensì una delle sue voci più autorevoli e rispettate19. Una simile falsificazio­ ne dei fatti serve all’autrice per dimostrare a tutti i costi che la scienza e gli scienziati non c’entravano nulla e che la svolta del 1938 era dettata da esigenze meramente politiche che suggerirono l’imitazione del modello nazista. Insomma, tra i due modelli storiografici estremi non c’è spazio intermedio: o si asserisce che il fascismo ha adottato per importazione dalla Germania un modello di razzismo biologistico del tutto estraneo alla tradizione culturale e scientifica italiana e senza alcun coinvolgimento significativo degli scienziati (anzi, per Matard-Bonucci, Pende era addirittura un «dissidente»); oppure si asserisce che il fascismo ha elaborato un suo modello razziale autoctono, per certi versi ancor più radicale di quello germanico, e comunque prevalentemente biologistico e struttu­ ralmente antisemita. . Si tratta di rappresentazioni radicali che non stanno in piedi e che pretendono di semplificare una realtà molto complicata. Il panorama del razzismo italiano è assai più frastagliato di quello del razzismo germanico e richiede un’analisi più complessa e sottile. In Italia si sono manifestati e combattuti molti razzismi: un razzismo biologico, talora vicino a quello germanico, anche se spesso con pretese di originalità; un razzismo politico e un antisemitismo politico; un razzismo spiritualistico con accenti misticheggianti, come nel caso di Julius Evola; un razzismo spiri­ tualistico ispirato al mito della romanità e attento alle istanze del mondo cattolico. Come vedremo più avanti, la pretesa di dimo­

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strare che la legislazione razziale fascista fosse biologistica20 può essere avanzata soltanto al prezzo di un’arrampicata sugli specchi ed è stata confutata ante litteram dallo stesso Nicola Pende. Ma c’è un elemento che attraversa buona parte della storiogra­ fia: la resistenza accanita ad ammettere che la questione scientifica abbia avuto un ruolo importante in tutta la vicenda, che molti scienziati abbiano avuto un ruolo tutt’altro che subordinato e meramente esecutivo, che la genetica, l’eugenetica, l’antropologia e la demografia abbiano contribuito a creare un clima culturale favorevole all’accettazione delle ideologie razziste. Le ragioni di questa resistenza ad aprire le porte alla tema­ tica scientifica e alla storia della scienza sono molteplici e sono certamente anche di natura «territoriale»: una sorta di fastidio degli storici politici a vedere entrare nel «loro» campo altri au­ tori e altre problematiche e a doversi misurare con una tematica inconsueta. Ma c’è un’altra ragione più profonda e meno banale: la difficoltà ad ammettere che un’impresa così nobile, neutrale e positiva come la scienza possa essere stata terreno del male, o comunque abbia contribuito a giustificare scelte efferate. «La scienza è buona, la scienza è progresso, democrazia, razionalità. La scienza è intrinsecamente estranea al fanatismo e al razzismo». In taluni casi, si tratta di uno scientismo di maniera, frutto di luoghi comuni accettati in modo conformistico. In altri casi, si tratta di scientismo ideologico e programmatico e la dichiarazione che eugenetica e razzismo non hanno alcun punto di contatto ha motivazioni addirittura legate a polemiche attuali21. Il cavallo di battaglia di chi sostiene che la scienza e gli scienziati non abbiano avuto alcun ruolo nel razzismo è l’attri­ buzione della cosiddetta teoria del «piano inclinato» (o dello «scivolamento») a chi è di opinione opposta alla loro. La teoria del «piano inclinato» consisterebbe nel sostenere l’esistenza di un legame causale tra la diffusione teorica e pratica dell’eugenetica e l’adozione di politiche razziali, insomma nell’affermazione che l’eugenetica conduce inevitabilmente a uno scivolamento, come su un piano inclinato, verso il razzismo di stato. Tale teoria è giustamente accusata di rozzezza e di schematismo. L’esempio principe addotto per sostenere l’inconsistenza di questa teoria è dato dal caso dei paesi scandinavi, in cui l’adozione di poli­ tiche eugenetiche, talora anche molto brutali, non comportò la promulgazione di leggi razziali, tantomeno di leggi antiebraiche. Si potrebbe osservare che molti di coloro che danno prova di

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tanto rigore e cura nell’evitare di appioppare etichette razziste quando si parla di scienza, sono invece pronti a qualificare come razziste le più disparate manifestazioni purché suscitino un so­ spetto anche vaghissimo di intolleranza. Ma non c’è bisogno di trincerarsi dietro argomenti polemici. Il fatto semplicissimo è che la teoria del «piano inclinato» non ha nulla a che fare con le tesi esposte nel volume del 1998 né con quelle sostenute in questo libro. Chi scrive non condivide quella teoria né punto né poco. Ed è troppo facile confutare le tesi altrui presentandole in modo ridicolo. Ritengo, al contrario, che l’adozione di politiche razziali sia sempre stata il frutto di una convergenza di fattori e mai di uno soltanto, e che, in assenza di una volontà di tradurre il razzismo in scelte politiche concrete, tale adozione non possa verificarsi, come dimostra il passato storico. Tuttavia, ciò non è una buona ragione per escludere che i fattori non politici abbiano avuto un ruolo nella creazione del clima adatto per lo sviluppo di un razzismo di stato, né per escludere che determinate teorie «scientifiche» siano state uno di questi fattori22. In breve, la situazione è ben descritta dalle parole di Mosse: «Le correnti principali dell’eugenetica e dell’igiene razziale non portarono direttamente alla politica nazista, ma indirettamente contribuirono a renderla possibile» [Mosse 1985, 85]. Una simile tesi - la convergenza di fattori e il contributo delle teorie eugenetiche allo sviluppo del razzismo di stato non ha nulla a che fare con la teoria del «piano inclinato». Essa ha il merito di non accantonare il fenomeno storico imponente dell’adesione di tanti scienziati eugenisti, demografi e antropologi alle teorie della razza, le quali sono certamente l’unico supporto teorico di cui si è avvalso e può avvalersi il razzismo. Ma ogni protesta e ogni tentativo di argomentare sono stati e saranno inutili: per le tesi «intermedie» e articolate non vi è spazio. La critica principale rivolta al libro del 199823, e che non mancherà di essere rivolta al presente volume, è di aver sostenuto la teoria del «piano inclinato». E ben comprensibile che in una prima fase fosse difficile affrontare la tematica delle diverse sfumature delle concezioni razziali in tutta la sua complessità. Di fronte all’orrore della Shoah appariva difficile discettare di differenze e notare che il razzismo di Rosenberg era diverso da quello di Eugen Fischer, ovvero che persino in campo germanico esisteva una differenza tra una concezione distica del razzismo (quella di Rosenberg, influenzata

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dalla visione di Ludwig Ferdinand Clauss) e una radicalmente materialistica (Fischer). Sembrava che il razzismo non potesse che riferirsi a fatti esclusivamente materiali. Anche Gregor, nel già menzionato libro, svolse un’analisi inficiata dall’idea che il razzi­ smo non sia concepibile altro che in termini puramente biologici. Sfuggiva a Gregor che anche nella prima fase del fascismo l’idea di razza non si riduceva a quella di nazione in quanto era basata su una tematica demografica ed eugenetica. D’altra parte, egli sbagliava gravemente identificando l’antisemitismo coerente con il determinismo biologico: l’antisemitismo di Charles Maurras fu tanto radicale quanto privo di motivazioni biologiche. E quindi falso che una legislazione antisemita non possa basarsi altro che sul biologismo. Ragionare in questi termini equivale ad attribuire al razzismo «scientifico» un’oggettività che non ha mai avuto e non può avere. Tutti questi giudizi schematici e grossolani erano comprensibili in una fase iniziale in cui l’analisi dell’ideologia razzista e dei suoi rapporti con la scienza era ai primordi. Oggi non sono più ammissibili e possono essere soltanto frutto di pregiudizi. Per queste ragioni non ci illudiamo: anche questo libro sarà accusato di proporre la teoria del «piano inclinato». Fino a quan­ do la storiografia si baserà su affermazioni impermeabili a ogni argomentazione e dettate da pregiudizi ideologici e politici la produzione di un numero crescente di libri avrà lo stesso risultato sul piano della comprensione dei fatti degli infiniti tentativi di Sisifo di spingere il masso verso la vetta del monte.

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Origini del razzismo

La storia mal sopporta le rappresentazioni schematiche e le semplificazioni. Sarebbe velleitario voler identificare in modo preciso il momento e il contesto in cui nasce la tentazione raz­ ziale, ovvero la pretesa di classificare l’umanità in gruppi ordinati lungo una scala di superiorità fisica e morale. L’intolleranza per l’«altro» e la tentazione di considerarlo inferiore e disprezzabile ha lasciato tracce in ogni angolo della storia. Nondimeno, l’idea di fondare quella classificazione su princìpi oggettivi e «scientifici», e quindi apparentemente neutrali e indipendenti da ogni forma di intolleranza, appartiene indiscutibilmente alla modernità ed è legata al tentativo di fondare un’antropologia scientifica. Se si guarda alla storia passata è facile constatare che nessuno, prima del Settecento, aveva seriamente pensato di sottoporre l’uomo a un’analisi scientifica analoga a quella messa in atto nella sfera dei fenomeni inanimati e neppure a un sistema di classificazioni analogo a quello messo in atto nel campo del vivente vegetale e animale. Anche il razionalismo greco non si è mai spinto fino al punto di mettere sullo stesso piano lo studio del mondo naturale e la riflessione sulla sfera umana: la posizione affatto speciale e privilegiata dell’uomo nel cosmo non viene mai messa in discus­ sione e ciò si riflette nella concezione della struttura del cosmo stesso. Tale centralità dell’uomo viene straordinariamente accen­ tuata nella concezione ebraica e in quella cristiana. Queste due concezioni si sono divise, e persino contrapposte, circa il valore da attribuire al percorso terreno dell’uomo. Ciononostante esse hanno condiviso il riconoscimento della sua centralità, dell’autonomia della sfera morale dalla natura e dell’esistenza di un «senso» del mondo. Nell’ebraismo biblico la rinuncia a ogni atteggiamento

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prometeico - la natura viene vista soprattutto come «creazione» divina e osservata con meraviglia e ammirazione - ha come con­ tropartita l’elevazione dell’uomo al di sopra di tutto il creato, la sua collocazione appena un gradino al di sotto di Dio1: Quando contemplo i tuoi cieli, opera delle tue mani, la luna e le stelle che hai disposto... Che è l’uomo da ricordarti di lui, il figlio dell’uomo ché tu ne debba aver cura? L’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di splendore l’hai coronato, l’hai costituito sopra l’opera delle tue mani, ogni cosa hai posto sotto i suoi piedi... Salmo 8,4-7

Anche l’accettazione del razionalismo aristotelico da parte di pensatori come Maimonide e Tommaso d’Aquino non ha intaccato il principio della centralità dell’uomo, che verrà ulteriormente esaltato nel pensiero rinascimentale: il mondo morale e la sfera del pensiero umano restano irriducibili alla naturalità. Eric Voegelin ha individuato un passaggio cruciale quando ha osservato che l’emergere dell’idea di razza «è un epifenomeno di un lungo processo storico caratterizzato dal cambiamento dell’im­ magine originaria dell’uomo» [Voegelin 1933a, trad. it. p. 19] e ha identificato questo cambiamento nel progressivo abbandono dell’antropologia cristiana che «solleva l’uomo al di fuori della natura» e, «anche se lo presenta come una creatura fra le altre, come un essere finito fra gli altri, non lo giustappone mai al resto; l’uomo sta fra Dio e il mondo subumano. [...] In virtù dell’anima l’uomo è unito al pneuma divino; in virtù del suo corpo, la sua sarx, egli partecipa della transitorietà» [ibidem, 20]. Voegelin descrive nel suo libro un percorso che ha inizio con l’affermarsi di una nuova concezione della natura vivente, in conseguenza dei grandi sviluppi della zoologia e della botanica entro cui spicca l’opera di Georges-Louis de Buffon, e che fa crescere con la conoscenza della natura «subumana» anche quella delle caratteristiche fisiche dell’uomo. Tale fase culmina con l’antropologia kantiana che, pur assimilando l’idea della centralità del fenomeno vitale, è ancora «per metà cristiana», per aprire poi la via a una seconda fase che afferma la visione dell’uomo come essere vivente unifi­ cato nel significato della sua esistenza terrena. Si perviene così

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«all’immagine perfetta di figura umana in sé completa che Cari Gustav Carus individua in Goethe - la persona perfetta, nello spirito e nel corpo, dai natali illustri, nel quale salute mentale, attività produttiva, bellezza e vigore si combinano e si fondono [...] le questioni della razza potranno quindi affermarsi in tutta la loro portata, supportate da argomenti irrefutabili e incrollabili, solidamente fondati sulla validità acquisita di una certa immagi­ ne e dell’esperienza diretta. Carus [...] è il primo a sviluppare, ispirato dalla teoria di Goethe, una precisa teoria della razza» [ibidem, 31]. Non seguiremo ulteriormente Voegelin in questa ricostruzione che ha un carattere tendenzioso in quanto mira a enfatizzare una concezione di razza - quella di Carus - che egli contrappone in modo vivacemente polemico alle concezioni «scientiste» e alle riduzioni matèrialiste dell’idea di razza di cui attribuisce la responsabilità al liberalismo e al marxismo e che è dominante nel nazismo. Per Voegelin, lo spiritualismo cristiano non può essere sostituito da una visione materialistica: in entrambi i casi si distrugge l’idea che «lo spirito non è una sostanza senza vita così come il corpo non è una mera appendice della persona», mentre «l’uomo, in quanto sostanza spirituale, corporea e stori­ ca, non può essere “spiegato” attraverso qualcosa che sia meno dell’uomo stesso, cioè attraverso la sua physis» [ibidem, 47]. Di qui il violento attacco contro l’errore di analizzare l’associazione degli uomini in termini di «organizzazione», contro l’antropo­ logia fisica e il razzismo biologico: «E tremendo pensare di dover riconoscere coloro dai quali discendiamo e coloro di cui ci circondiamo non dal loro aspetto, dalle loro parole e dai loro gesti ma dal loro indice cranico e dalle proporzioni delle loro estremità» [ibidem, 49]. Tuttavia, proprio questa polemica mette in luce i nodi cruciali che caratterizzano l’origine e lo sviluppo storico delle ideologie della razza. Voegelin coglie il punto: la nascita delle teorie razziali è legata alla crisi della concezione antropologica giudaico-cristiana che attribuisce all’uomo una posizione centrale nel mondo, al prevalere di una visione natu­ ralistica che fa degli esseri umani un oggetto di analisi scientifica al pari di qualsiasi altro fenomeno e che è determinata dallo sviluppo delle scienze naturali. Nell’Ottocento, l’irruzione del pensiero romantico produce una biforcazione in questa corrente di pensiero: all’oggettivismo dell’antropologia settecentesca - di orientamento materialista e influenzato dal modello delle scienze

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fisico-matematiche - si contrappone una visione vitalista che trova la sua più chiara espressione nel pensiero di Johann Gottfried Herder e che culmina nella teoria della razza di Carus, la quale, a sua volta, influenzerà Clauss. Pertanto, il pensiero razziale, pur prendendo le mosse da una comune visione naturalistica, si articola in una gamma di posizioni diverse che si caratterizzano per il differente peso attribuito ai fattori materiali e spirituali dell’uomo, e vanno dal biologismo più radicale a posizioni che valorizzano i fattori spirituali, come la visione «per metà cristiana» di Kant (per dirla con Voegelin). È comunque indubbio che il radicale cambiamento di visione antropologica che apre la strada alle ideologie razziali è strettamente legato al diffondersi di una visione scientista che ha come motore l’infatuazione per il newtonianesimo così bene descritta da Alexandre Koyré. Il successo della fisica newtoniana era tale che si ritenne che le sue caratteristiche concettuali e metodi­ che fossero l’unica via possibile per edificare qualsiasi scienza: «tutte le scienze nuove che apparvero nel Settecento - scienze dell’uomo e della società - tentarono di conformarsi al modello newtoniano della conoscenza empirico-deduttiva» [Koyré 1968, 39]. Si presentava tuttavia una seria difficoltà: il mondo naturale appariva dominato da un ordine e da un’armonia inesistenti nel mondo dell’uomo. Pertanto, il compito di costruire le scienze umane era molto più complesso di quello delle scienze naturali. Non si trattava di scoprire le leggi che regolano la sfera umana: ha senso cercare l’ordine nel disordine? Si trattava piuttosto di determinare le norme che possono introdurre nella sfera umana un ordine paragonabile a quello che domina il mondo della natura inanimata. «[...] il disordine e la disarmonia erano opera dell’uomo, risultavano dai suoi tentativi stupidi e ignoranti di interferire con le leggi della natura [...] Il rimedio appariva chiaro: torniamo alla natura, alla nostra propria natura, viviamo e agiamo secondo le sue leggi» [ibidem, 41]. Insomma, le scienze umane richiedevano, a differenza di quelle fisico-matematiche, un approccio normativo. Il Settecento è un secolo fondamentalmente riformatore, che pretende di abolire il disordine e l’ingiustizia che deturpano la società imponendo le leggi naturali riscoperte con lo strumento dell’analisi scientifica razionale. Il Settecento è il secolo che vede i primi sviluppi della storiografia moderna: esso assoggetta questo nuovo strumento al fine dell’analisi razionale della natura

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profonda dell’uomo. La migliore descrizione di questa conce­ zione normativa è data dalla nota sentenza del fondatore della setta dei fisiocratici, François Quesnay: «Non cerchiamo lezioni dalla storia delle nazioni o degli sbandamenti dell’umanità che ci presentano soltanto un abisso di disordine» [Quesnay 1767, 55]. Il Settecento è anche il secolo dell’ottimismo della ragione: esso guarda al futuro e rigetta il passato, convinto di poter rifare ex novo la società e l’uomo. Le società del passato vanno studiate per comprendere le leggi naturali violate e da ripristinare, e non certo per imitarne l’assurdo e caotico regime. L’uomo va esaminato, studiato, classificato e analizzato in tutte le sue ca­ ratteristiche per determinare la forma ideale perturbata cui esso deve ritornare e conformarsi. L’interesse per la natura dell’uomo trova un ulteriore sti­ molo nei viaggi di esplorazione e nei processi di colonizzazione che avevano permesso di entrare a contatto con una varietà impensabile di gruppi umani dotati di caratteristiche fisiche, psicologiche e di costume straordinariamente diverse. Di fronte a tanto materiale empirico inedito l’antropologia illuministica si accinge a studiare l’uomo con lo stesso rigore delle scienze fisico-matematiche, addirittura mutuandone l’approccio quan­ titativo, come nel caso dell’antropometria: misura crani, nasi, fronti, arti, forma dei capelli, colori delle pelli e, su queste basi, classifica. Inoltre, sotto l’influsso di una visione materialistica inclina a spiegare le caratteristiche psicologiche a partire da quelle fisiche. Così classifica i gruppi umani e apre la strada alla determinazione delle razze. E quasi superfluo dire che, in questo modo, si apre la strada alla considerazione delle diversità, al rilevare che esistono gruppi di individui «inferiori» e «superiori». L’intenzione è oggettiva e «scientifica», ma attraverso questo pertugio s’insinuano i pregiu­ dizi, talora in forme plateali. Sarebbe lungo tracciare un pano­ rama degli sbandamenti di questa antropologia e delle sinistre considerazioni cui essa si abbandonò, per la credenza di tanti pensatori illuministi nel primato dell’uomo bianco e nell’infe­ riorità delle altre razze. Da Pierre-Louis Moreau de Maupertuis a Georges-Louis Buffon, da Voltaire a Paul-Henri d’Holbach, da David Hume a Immanuel Kant, il coro è quasi unanime e non di rado eccede i toni già infelicissimi della voce «Negro»2 Enciclopedia di d’Alembert e Diderot. Tutti questi pensatori sono universalisti dichiarati, ma il loro universalismo non sempre

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si dispiega con coerenza. Fra coloro che più seppero resistere alla tentazione del pregiudizio vanno ricordati, come coerenti esponenti di una visione universale dell’uomo e della sua dignità, Charles Secondât de Montesquieu, Etienne Bonnot de Condillac e Marie Jean-Antoine Caritat de Condorcet3. L’ossessione scientista e la pretesa di voler rifare uomo e società dalle fondamenta spiegano il singolare paradosso per cui la concezione politico-culturale più progressiva e liberatrice che si sia proposta nella modernità abbia anche dato una spinta poderosa allo sviluppo di una visione razziale dell’umanità. Per comprendere meglio questa singolare miscela di tolleranza e di razzismo ci si può riferire a un famoso pamphlet settecen­ tesco, il saggio dell’Abbé Grégoire [1789] sulla «rigenerazione fisica, morale e politica degli Ebrei». E difficile sottovalutare il lato nobile di quest’opera che cerca di spiegare gran parte delle caratteristiche dell’ebreo comunemente ritenute deteriori come dovute alla crudeltà delle nazioni che «da diciotto secoli calpe­ stano i rottami di Israele». E difficile non apprezzare lo slancio con cui l’autore propugna l’ingresso degli ebrei a pieno titolo nella vita della nazione e che si realizzò con il conferimento della cittadinanza nel 1792. È altrettanto difficile non trovare irritan­ ti certe caratterizzazioni dell’ebreo: la puzza, il viso pallido, il naso adunco e gli occhi affossati, la barba rada, e i tanti segni di degrado fisico e morale che, secondo l’Abbé, ne rendevano l’immagine spiacevole agli occhi del resto del mondo. Non meno discutibile è la pretesa di voler omologare l’ebreo al modello di cittadino ideale che ha in mente l’Abbé Grégoire. L’arringa che egli fa in favore degli ebrei è basata sull’idea che, se il presente li vede repellenti, il futuro offre loro un’opportunità che la società non deve loro negare. Qui incontriamo alcune manifestazioni di quell’«essenzialismo» indicato come causa del razzismo occi­ dentale. Ma la questione è più sottile. Noi non troviamo affatto illegittima l’idea che l’Abbé Grégoire difenda i valori della società di cui vuol aprire le porte agli ebrei; né riteniamo sbagliato che egli consideri questa società come la «migliore»; tantomeno che richieda a chi vi entra di conformarsi ai princìpi di convivenza ci­ vile che essa si è data, i quali, peraltro, possono evolvere in ragione della dinamica politica e sociale. Se questo è l’essenzialismo che si vorrebbe rigettare, noi non lo rigettiamo. Al contrario, siamo fermamente convinti che, se una simile visione non avesse trionfa­ to, gli ebrei d’Europa sarebbero ancora agli angoli delle strade a

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vendere stracci con una rotella gialla al collo. Quindi, sotto questo profilo, ci collochiamo all’esatto opposto dei critici postmoderni dell’umanesimo illuminista. Quel che colpisce negativamente nel saggio deU’Abbé Grégoire è la sordità assoluta nei confronti della spiritualità ebraica, nei confronti delle ragioni etiche, morali e religiose della vita dell’ebreo, l’assenza totale di curiosità culturale e antropologica. La religione ebraica è vista come un’accozzaglia di «storie assurde», «uno smarrimento inconcepibile»; l’ebreo è attaccato a «tradizioni burlesche che suscitano al più il sorriso della pietà». E un atteggiamento totalmente chiuso al dialogo e al confronto. Il sostanziale disinteresse per l’altro assomiglia a quello del moderno multiculturalista. Entrambe le visioni sono sorde-, la prima perché mira all’assimilazione totale (non soltanto politica, civile, sociale, ma religiosa, spirituale, mentale e persino fisica), la seconda per un malinteso principio di «rispetto» che si ribalta nell’incomunicabilità e ha come unico sbocco la sele­ zione darwiniana del più forte. Ma non basta, perché il difetto principale dell’approccio dell’Abbé Grégoire è ben rappresentato nel titolo. Non si parla di integrazione sociale e politica degli ebrei, della loro liberazione, o anche di emancipazione (termine assai alla moda in un certo periodo). Si parla di rigenerazione, e questa rigenerazione è non soltanto politica, ma anche morale e persino fisica, con un singolare preannuncio dell’eugenetica. Quindi, la posta in gioco è molto più deU’«assimilazione», che già sarebbe discutibile, ma non è affatto inevitabile conseguenza di un discorso che difenda il primato di un modello di convivenza. La posta in gioco è la «rigenerazione». Non si tratta soltanto di trasformare l’ebreo ghettizzato in un cittadino - con la stipula di un contratto sociale che impone dei doveri e offre dei diritti, tra cui quelli di coltivare la propria spiritualità, la propria religione, e tutti quei costumi che non offendano la libertà altrui - bensì di trasformarlo in un altro tipo diuomo, rigenerandolo in conformità al modello di umanità ideale. Qui sta la pretesa inaccettabile, la matrice di un’idea totalita­ ria e razzista, a dispetto delle più nobili intenzioni. Difatti, fino a che si propone un ideale di miglioramento individuale, come libera scelta, secondo un modello che ciascuno può darsi entro il quadro delle concezioni sociali, politiche e morali che sono il fondamento del contratto sociale - e senza le quali un contratto sociale non potrebbe esistere - è difficile avanzare obiezioni. Ma quando si prescrive come obbligo la rigenerazione in conformità

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a un modello generale, e per giunta la si prescrive come obbligo sociale, ci si addentra su un terreno minato. Un’ideologia siffatta ha bisogno di un modello di uomo cui dovrebbe conformarsi il gruppo umano «degenerato» o l’intera umanità destinata a «rigenerarsi». Su questo terreno non si può essere troppo severi con il movimento illuminista. Non bisogna dimenticare che il pensiero illuministico è proiettato verso il futu­ ro, mira alla costruzione di un uomo nuovo il cui modello non è rigidamente definito. Il riscatto degli «inferiori» e dei «degenerati» va visto nella prospettiva della costruzione di un’umanità nuova, libera dalle superstizioni, giusta e dedita a vivere e progredire sulla base della scienza e della conoscenza. Il modello non è quindi rigidamente preconfezionato, ma il progetto è doppiamente gra­ vido di conseguenze pericolose: in primo luogo per il carattere astratto e antiumano di ogni progetto palingenetico, in secondo luogo perché, in fin dei conti, l’ideale di uomo che finisce con l’imporsi è quello dell’uomo bianco europeo emancipato e che fonda la propria esistenza sull’idea di progresso tipica della con­ cezione illuminista. Sappiamo bene che nell’Ottocento il movimento illuminista fu duramente attaccato dal movimento romantico e, se non fu definitivamente sconfitto, il suo influsso venne drasticamente ridimensionato. Esso continuò a mantenere un’influenza signifi­ cativa nell’ambito delle scienze naturali, la quale fu seriamente messa in discussione anche in questo ambito. Eppure, l’ideale palingenetico e la tendenza verso un ideale di rigenerazione sociale gravido dei rischi che abbiamo appena descritto non sparirono, anzi si riproposero al di là della crisi dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese. Come potè accadere tutto ciò? Koyré ha descritto molto bene l’opposizione fondamentale tra il movimento illuminista e fi movimento romantico sul tema della storia. Mentre il primo ha interesse per la storia soltanto in funzione della scoperta della vera natura umana ma non nutre alcuna nostalgia per il passato e guarda all’avvenire, il movimento romantico nutre per il passato un’autentica venerazione. Il pensiero romantico (e ogni storicismo è più o meno erede del pen­ siero romantico), pensiero «vegetativo» secondo l’ammirevole espressione di Gustav Hübener, opera molto volentieri con categorie, o meglio, con immagini, organiciste e soprattutto botaniche. Si parla di sviluppo, di crescita, di radici; si oppongono le istituzioni formate «da una crescita

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naturale» (natürlich gewachsen} a quelle che sono «fabbricate artificial­ mente» (künstlich gemacht), cioè si oppone l’azione incosciente e istintiva delle società umane alla loro azione cosciente e deliberata, le tradizioni alle innovazioni ecc. Questa concezione - o atteggiamento - che considera il processo storico come qualcosa che si sviluppa in modo quasi autonomo, e che vede nell’uomo non un agente, ma un prodotto dell’evoluzione storica e delle sue forze impersonali o transpersonali, non è, necessariamente, legata a una filosofia politica, o a una filosofia della storia, reazionaria: la crescita non è immobilità, l’albero non è la sua radice e il fiore la gem­ ma... Di fatto, e probabilmente perché la crescita vegetale è un processo lento, e un processo che nella fase nuova conserva molto spesso la fase passata, la concezione romantica si accompagna quasi sempre - vi sono stati dei romantici rivoluzionari - a un atteggiamento conservatore o anche reazionario: il grande valore attribuito alla tradizione sfocia presto nell’opposizione al cambiamento, all’idealizzazione del passato, all’utopia archeologica [Koyré 1973, 105-106],

Ma proprio perché ha un così grande culto del passato il pensiero romantico è angosciato dall’opera di distruzione che ne vuol fare il progressismo illuminista e rivoluzionario. Di qui il de­ siderio di restaurarlo, di andare indietro alla ricerca di un’umanità perduta o corrotta. Il movimento romantico sogna un passato da ripristinare o un futuro che sia abitato da uomini simili agli anti­ chi, capaci di far rivivere nella modernità i nobili princìpi di un tempo. Si ripropone così, sia pure in termini di idealità opposte, un mito palingenetico. In una prima fase il movimento romantico esprime soltanto una visione nostalgica che si accontenta dell’espressione letteraria e poetica che esso contrappone alla scienza, sorgente di tutti i mali. Ma questa diffidenza lascia poi il posto a un atteggiamento più aperto che riconosce alla scienza un ruolo importante purché non assoggettato al metodo fisico-matematico. In coerenza con la sua visione «vegetativa», è nelle scienze naturali e umane che il romanticismo vede un nuovo approccio scientifico «vitalistico» estraneo al meccanicismo. L’Ottocento è caratterizzato da una netta separazione fra scienze naturali e scienze umane, in termini di oggetto e di metodo. Purché vi sia indipendenza di metodo un approccio scientifico è possibile anche nella sociologia e nella psicologia. Nell’Ottocento la medicina conosce la sua progressiva trasformazione in «scienza esatta» plasmata sul principio del determinismo. In fin dei conti, lo stesso marxismo rappresenta una visione scientista in campo sociale, influenzata da un lato

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dal grande esempio del newtonianesimo (che si fa sentire nella propensione a ricorrere a schematizzazioni di tipo matematico) e, dall’altro, dallo storicismo romantico. La ricostruzione palingenetica della società corrotta dal razionalismo settecentesco e dalla rivoluzione individua come strumento fondamentale la ricerca dei miti fondatori capaci di rappresentare in modo stabile e indiscutibile la natura, l’essenza della società da restaurare. Torneremo più in là con maggiore dettaglio su questi miti fondatori così bene descritti da Léon Poliakov e che fanno comprendere come si siano formate le ideologie razziste nell’Europa di fine Ottocento. Qui la scienza ha giocato ancora una volta una parte importante. «Al diffuso razzismo popolare, che si potrebbe definire “naturale”, perché è indubbiamente altrettanto antico del genere umano, si aggiunge un razzismo che tenta di organizzarsi su fondamenti scientifici, un razzismo “razionale” di seconda natura», e che si giustifica con i trionfi della «Ragione geometrica o meccanica che pre­ tende di sottomettere alla sua giurisdizione suprema tanto Dio quanto gli uomini, e che vola di trionfo in trionfo» [Poliakov 1987, 166-167]. Certo, una visione nostalgica del passato, soprattutto se confinata nel contesto letterario o poetico, non è sufficiente a vincere la battaglia contro il progressismo illuminista e a re­ staurare i valori del passato. Per far questo occorre scendere sul terreno politico e adottare un approccio radicale. Così, nel campo reazionario iniziano a delinearsi i tratti di un movimento che si contrappone punto per punto al progressismo, ma che ne imita i metodi, le parole d’ordine e la tecnica politica, incluso il radicalismo rivoluzionario che, nella sua semplicità, appare lo strumento più efficace per rigenerare il mondo riportando alla vita i miti fondatori delle razze originarie. Così la reazione scopre lo straordinario vantaggio di ciò che François Furet ha definito assai efficacemente il «piantare le tende nel campo della rivoluzione» [Furet 1995,48], nonché di giustificare i propri miti in termini scientifici. Nel passato storico è possibile ritrovare le radici dell’uomo «autentico» con cui vorremmo ricostruire una società ideale, mentre la scienza fornisce la dimostrazione della superiorità e della desiderabilità di quel modello. Furet osserva inoltre che il fascismo - ovvero la metamorfosi rivoluzionaria della reazione - è fin dalle origini inseparabile dal comuniSmo di cui combatte gli obiettivi imitandone i metodi: la

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sua originalità è consistita nella «riappropriazione dello spirito rivoluzionario al servizio di un progetto antiuniversalista» [ibidem, 47]. La radice comune è meno oscura di quanto sembri a prima vista. Difatti, Marx è soltanto in apparenza rivolto al futuro, il quale è, per lui, piuttosto una proiezione del passato, di un passato ancor più lontano dei sogni medioevali dei romantici: è il mito di un uomo ideale incorrotto che nulla ha a che fare con l’astratto atomo sociale degli illuministi. Marx guarda all’«infanzia sociale dell’umanità, quando l’umanità si espandeva in completa bellez­ za», prima che avvenisse il peccato, la caduta, ovvero l’alienazione consistente nell’aver iniziato a scambiare denaro anziché amore: «se presupponi Xuomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore, fiducia con fiducia» [Marx 1968]. Per restaurare quel mondo di «completa bellezza» serve un progetto escatologico di rifondazione totale della società che ricostruisca dalle fondamenta il paradiso perduto, demolisca la vecchia società per sostituirla con un’altra nuova di zecca: lo strumento di questo progetto è la rivoluzione. Peraltro, a riprova dello scambio di temi tra i due fronti, lo stesso Marx ammise che la teoria della lotta delle classi gli era stata ispirata dalla lettura delle opere di Thierry e di Guizot che spiegavano la storia della Francia con lo schema della «lotta delle razze», ovvero della lotta della razza gallo-romana contro la razza franca4. In conclusione, l’emergere del razzismo è un processo di grande complessità in cui intervengono molti fattori e che ha molteplici sorgenti. Due elementi sono tuttavia di gran lunga preponderanti: il radicale rifiuto da parte dell’uomo borghese per il mondo in cui vive, l’«odio di sé» che conduce al desiderio di azzerare tutto e ricominciare da un ideale che ora viene cercato in un lontano e perduto passato, ora in un futuro mitico da co­ struire con la forza della ragione; il ruolo del pensiero scientifico nella determinazione di questo futuro o nella giustificazione della superiorità di un particolare passato. E indubbio che l’idea di razza è scaturita da una visione reazionaria volta a cercare la salvezza nella riscoperta delle radici perdute e offuscate dagli errori della modernità. Tuttavia, per individuare le caratteristiche della «propria» razza e affermarne la superiorità - e quindi per propugnare una visione razzista - un ruolo cruciale verrà giocato dalla scienza, a partire da quell’antropologia fisica tanto cara al razionalismo illuminista, fino alla genetica, in un intreccio com­ plicato e fantasioso con le scienze umane e sociali. 4«

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2. Le teorie razziali nei contesti nazionali e il caso italiano

Anni fa un paragrafo dedicato a questo tema sarebbe sta­ to indispensabile e fortemente innovativo. Oggi molti studi sull’argomento - e altri via via più approfonditi che vengono continuamente pubblicati - lo rendono quasi superfluo se non in quanto sintesi di temi che sono importanti per la nostra analisi, soprattutto con riferimento al caso italiano. Nella letteratura un posto di rilievo è occupato dal volume sul «mito ariano» pubblicato da Léon Poliakov una ventina di anni fa [Polia­ kov 1987]. Per quanti importanti approfondimenti siano stati compiuti in seguito, a Poliakov resta il merito di aver indicato una linea di ricerca appropriata ed efficace. Come abbiamo già accennato, secondo Poliakov l’obiettivo di una ricostruzione palingenetica della società si è indirizzato in modo spontaneo verso la ricerca di quella natura umana primigenia che era stata successivamente corrotta dai veleni della modernità. Ognuna delle grandi civiltà nazionali europee è andata ossessivamente alla ricerca di queste radici e quindi alla ricostruzione dei suoi miti fondatori. Quanto si trattasse di miti è superfluo dirlo. Po­ teva forse un paese come la Spagna, che aveva visto per secoli la presenza sulla sua terra di un intreccio di popoli e civiltà, in particolare cristiani, arabi ed ebrei, fregiarsi di una purezza di sangue riconducibile a un ceppo primigenio? Di certo una simile pretesa non aveva senso, ma qui ancor più che liberarsi della corruzione della modernità si trattava di andare indietro allo stesso Medioevo per ricercare un’identità privilegiata e nobile che varie presenze spurie avevano inquinato: questa identità anteriore all’invasione musulmana era rappresentata dalla razza gotica. Come ricorda Poliakov, il dizionario dell’Accademia spagnola riportava ancora all’epoca in cui egli scriveva il suo libro, sotto la voce «Godo»: «Hacerse de los godos, vantarsi di essere nobile: ser godo, essere di antica nobiltà». Uno spagnolo aveva diritto a sentirsi tale nella misura in cui il suo sangue era autenticamente «gotico». Per quanto riguarda la Francia Poliakov ricorda che la ricerca del mito fondatore è stata più complicata e controversa: franchi o galli? Ne nacque la celebre controversia delle «due razze» attorno a cui si arrovellarono tanti intellettuali francesi tra Sette e Ottocento, gli uni propendendo per il nobile ceppo libero e indomito dei franchi, contrapposto ai galli sottomessi e servili, gli

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altri esaltando la grandezza della razza gallica capace di giocare con la morte come nessuno e la saggezza dei druidi che avevano insegnato al mondo l’immortalità dell’anima. Fu una contesa che si spense attorno all’accettazione dell’idea che la Francia era una miscela razziale e che si era composta in modo unitario, sia pure attraverso lunghe convulsioni. Diversa fu la vicenda inglese che disponeva di quattro grandi mitologie (greco-romana, celtica, germanica e biblica) e si orientò verso un intreccio delle ultime due per costruire il proprio mito d’origine, trasmettendolo anche al di là dell’Atlantico. Ben altrimenti complessa è la mitologia originaria tedesca, sebbene si possa schematicamente affermare che essa finì con l’accentrarsi attorno ai temi dell’unità della lingua e del sangue. Di qui il duplice orientamento del razzismo tedesco in cui un’idea di razza basata su un’antropologia fisica (e che trovava la sua più compiuta espressione nelle idee di Eugen Fischer) conviveva con quella che si basava su un’idea più spirituale in cui «sangue e anima sono solamente differenti espressioni di un’immagine unitaria dell’uomo nordico» [Voegelin 1933b, 15]. Maggiore attenzione va riservata qui al caso italiano che pre­ senta caratteristiche completamente diverse, se non altro perché la componente nazionalistica è apparsa in Italia tardi, per ovvie ragioni storiche, e non ha avuto radici e consistenza neppure lontanamente paragonabili a quelle presenti in altri paesi europei. Per quanto riguarda l’esistenza di sentimenti di appartenenza a un ceppo razziale, va osservato che l’Italia si presenta assai tardivamente all’appuntamento con questa tematica: alla fine dell’era napoleonica, quando tutta l’Europa cominciava a essere affascinata dal concetto di razza, l’Italia non esisteva ancora come nazione. E quando si costituì l’unità nazionale la ricerca di un fattore distintivo e caratteristico non seguì le strade su cui si erano incamminate altre nazioni europee. Mentre si diffondeva impetuosamente il mito dell’uomo nordico, mentre molti spagnoli si lasciavano suggestionare dall’idea di un’antica radice gotica e la Francia si tormentava nella controversia sull’ascendenza franca o gallica, e mentre persino la disincantata Inghilterra si lasciava sedurre da ondate di passione germano-celtica, l’Italia doveva fronteggiare l’inconsistenza della propria identità etnica e il carattere assolutamente peculiare del mito fondatore dell’ita­ lianità. Anche qui prenderemo le mosse dall’analisi di Poliakov, sviluppandola.