E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma 9788858113240

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E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma
 9788858113240

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i Robinson / Letture

Di Emilio Gentile nelle nostre edizioni:

Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del terrore Fascismo. Storia e interpretazione Fascismo di pietra Il fascismo in tre capitoli La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo Italiani senza padri. Intervista sul Risorgimento (a cura di Simonetta Fiori)

Il mito dello Stato nuovo. Dal radicalismo nazionale al fascismo Né Stato né nazione. Italiani senza meta «La nostra sfida alle stelle». Futuristi in politica Le origini dell’Italia contemporanea. L’età giolittiana Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia A cura di Emilio Gentile:

Modernità totalitaria. Il fascismo italiano

Emilio Gentile E fu subito regime Il fascismo e la marcia su Roma

Editori Laterza

© 2012, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione ottobre 2012

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Edizione 5 6

Anno 2012 2013 2014 2015 2016 2017 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9577-4

Indice



Prologo. In tram e in treno

I. Gli zingari della politica

ix 3

Italia violenta, p. 3 - Un uomo e un giornale, p. 5 - Fasci di combattimento, p. 7 - Un cadavere politico, p. 9 - I nemici interni trionfano, p. 10 - Mobilitazione antisocialista, p. 13 - L’ora del fascismo, p. 16 - E guerra civile sia!, p. 18

II.

La milizia della nazione

22

Fascismo di massa, p. 22 - Indulgenza e connivenza, p. 24 - Il bolscevismo è vinto, ma il fascismo può perdere, p. 27 - Squadristi contro Mussolini, p. 28 - Il duce cede, lo squadrismo vince, p. 30 - Milizia fascista, p. 33 - Cultura di combattimento, p. 39

III. Dove impera il fascismo

43

Non durerà. Durerà. Forse, p. 43 - Un anti-Stato nello Stato, p. 44 - Impotenza governativa, impunità fascista, p. 48 - Democrazia in agonia, p. 50 - Il fascino dell’esercito fascista, p. 51

IV. Sfida allo Stato

54

Fra rivoluzione ed elezione, p. 54 - Realismo tattico, dinamismo rivoluzionario, p. 56 - Umiliare lo Stato, p. 58 Dove va il fascismo?, p. 62 - Stato, anti-Stato e fascismo, p. 64 - L’offensiva d’estate, p. 65 - Il governo capitola e l’offensiva continua, p. 68 - Prodromi di dittatura, minacce d’insurrezione, p. 71

V. In marcia Il falso dilemma, p. 75 - L’incompatibilità reale, p. 77 - «Dare agli avversari il senso del terrore», p. 80 - La battaglia decisiva, p. 84 - La vittoria del segretario del

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indice

partito fascista, p. 88 - Impotenza di Stato, p. 91 - Stato in potenza, p. 95

VI. L’attimo fuggente

98

Si parla di marcia su Roma, p. 98 - Eventualità di una dittatura, p. 101 - Il momento più difficile, p. 103 - I travagli del fascismo, p. 106 - La nuova milizia e il «capo supremo», p. 110 - Governanti in vacanza, fascisti in azione, p. 114 - L’offensiva continua, p. 117 - Un pericolo immane, p. 120 - Il momento più propizio, p. 123 - L’attimo può sfuggire, p. 127

VII. Insurrezione con trattative

130

Chi volle la marcia su Roma, p. 130 - Chi non voleva l’insurrezione, p. 134 - Il gioco delle parti, p. 138 - Trattative con insurrezione, p. 141 - Piano di marcia, p. 143 - Da Napoli a Roma, p. 147 - L’inganno partenopeo: la marcia è tramontata, p. 153

VIII. I fascisti marciano

157

La marcia non è tramontata, p. 157 - Manovre dei fascisti «antimarcia», p. 161 - Mussolini tratta, ma Bianchi vuole l’insurrezione, p. 163 - Inizia l’insurrezione, p. 169 - Il re a Roma, situazione oscura, p. 174 - Trattative arenate, p. 176 - Governanti a letto, fascisti in movimento, p. 179 - Insorti in marcia, governo in allerta, p. 183

IX.

L’attimo catturato

187

Il governo delibera lo stato d’assedio, p. 187 - Il rifiuto del re, p. 189 - Roma inneggia al re, p. 192 - E l’insurrezione continua, p. 194 - Una marcia resistibilissima, p. 198 - Quadrumvirato in confusione, p. 201 - «Fece fessi tutti», p. 203 - Il successo di un’insurrezione destinata al fallimento, p. 209 - In regime fascista, p. 216

X. Una rivoluzione all’italiana

219

Una rivoluzione bella e gioiosa, p. 219 - Che accadrà dell’Italia?, p. 221 - Immaturi per la democrazia, p. 224 - Una rivoluzione di tipo nuovo, p. 226

XI. Il grande equivoco Auguri a Mussolini, p. 230 - Una ferita nella nazione, p. 232 - Non c’è stata una rivoluzione, p. 235 - Ma qualcosa è caduto, p. 237 - Socialisti in difesa della costituzione, p. 239 - Mussolini è il meno pazzo, p. 241 - L’equivoco degli equivoci, p. 243

230

Indice ­­­­­vii

XII. Irrevocabile

246

Un parvenu al governo d’Italia, p. 246 - Il parlamento approva, p. 249 - Nuovo regime, p. 252 - Un irrevocabile fatto compiuto, p. 254 - Con premeditata ferocia, p. 255 - La rivoluzione continua, p. 259

Epilogo. L’attimo di un’era

263

Note

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Indice dei nomi

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Prologo

In tram e in treno

...in politica contano i fatti e il metodo ha importanza sostanziale... Luigi Salvatorelli (6 agosto 1922)

Si era rasato la barba e i baffi, si era fasciato la testa, sul cranio calvo aveva messo una parrucca, e sulla parrucca aveva calzato un berretto da operaio. Così mascherato, un uomo di quarantasette anni uscì dall’appartamento dove si nascondeva da un paio di settimane, salì su un tram quasi vuoto e incalzò di domande la donna che lo guidava per sapere cosa accadeva in città: sembrava che in città non accadesse nulla di insolito. Poi l’uomo scese dal tram e proseguì a piedi. Fu fermato da una pattuglia di soldati governativi che lo scambiarono per un ubriaco e lo lasciarono andare. Se l’avessero arrestato, il sogno che coltivava da venti anni sarebbe svanito per sempre. L’uomo che si aggirava per le vie di Pietrogrado la notte fra il 24 e il 25 ottobre 1917, si chiamava Vladimir Ulianov detto Lenin, era il capo del partito bolscevico e si stava recando al Palazzo Smolny per conquistare il potere. E ci riuscì. Lui stesso fu stupito dalla rapidità del successo. Fino al giorno prima, il successo era imprevedibile e il rischio di fallire era grande. Ma Lenin aveva intuito che il momento era propizio: bisognava cogliere l’attimo fuggente altrimenti il potere sarebbe sfuggito per sempre. E lo afferrò, con un’insurrezione senza spargimento di sangue. Il 25 ottobre, alle 2.35 del pomeriggio, Leon Trotsky, il principale artefice della rivoluzione bolscevica insieme con Lenin, annunciava la conquista del potere al Soviet di Pietrogrado: «Ci avevano detto che l’insurrezione avrebbe sommerso la rivoluzione in fiumi di sangue. A nostra conoscenza non c’è stata una sola

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prologo. in tram e in treno

vittima»1. «Le grandi masse non entrano in azione. Non ci sono scontri drammatici con le truppe. Niente di tutto quello che può associare all’idea di insurrezione una immaginazione educata agli avvenimenti storici»2. Nulla avvenne, il 25 ottobre, come poi fu rappresentato dalla mitologia del regime bolscevico, con le scene epiche di furibondi assalti compiuti da eroiche e gloriose masse rivoluzionarie, lanciate alla conquista del Palazzo d’Inverno sotto il fuoco di ingenti forze nemiche, lasciando centinaia di morti a terra. Cinque anni dopo, quasi negli stessi giorni, la sera del 29 ottobre 1922, un uomo di trentanove anni, calvo e mal rasato, con un modesto abito scuro e una camicia nera, salì su un treno a Milano, fra una folla acclamante: si chiamava Benito Mussolini, era il duce del partito fascista, e si stava recando a Roma a prendere il potere. Anche lui era stupito per il successo rapidamente ottenuto. Anche per lui, fino al giorno prima, il rischio di fallire era stato grande. Anche lui aveva intuito che bisognava cogliere l’attimo fuggente per conquistare un potere che altrimenti sarebbe sfuggito per sempre. E ci riuscì il 29 ottobre, dopo aver capeggiato nei due giorni precedenti un’insurrezione, da lui stesso chiamata «marcia su Roma», quasi senza spargimento di sangue. Nulla, nelle giornate della «marcia su Roma», avvenne come fu poi rappresentato dalla mitologia del regime fascista, con 300.000 squadristi bellicosamente armati, guidati da un duce indomito, decisi e risoluti, eroicamente lanciati alla conquista della capitale, fino al trionfo finale. Alle 10.50 del 30 ottobre, alla folla che lo accolse alla stazione di Roma, Mussolini disse: «Sono venuto a Roma per dare un governo alla Nazione. Tra poche ore la Nazione non avrà solo un ministro: avrà un governo»3. Ma l’Italia, dopo il 30 ottobre non ebbe solo un governo: ebbe un regime. In tram e in treno andarono a prendere il potere i capi delle due rivoluzioni antagoniste che segnarono profondamente la storia del ventesimo secolo. Dalle due rivoluzioni d’ottobre ebbero origine i primi regimi a partito unico della storia, accomunati, fin dagli anni Venti, sotto la denominazione di «regimi totalitari». Un confronto fra le due rivoluzioni fu fatto al momento stesso della «marcia su Roma» da un acuto diplomatico e raffinato intellettuale tedesco, il conte Harry Kessler, il quale la domenica del 29 ottobre 1922, a Berlino, annotò nel suo diario: «In Italia i fascisti

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hanno conquistato il potere con un colpo di Stato. Se riusciranno a conservarlo, allora questo è un evento storico che potrà avere conseguenze imprevedibili non solo per l’Italia ma per l’intera Europa. Può essere il primo passo verso la vittoria avanzata della controrivoluzione. Fino ad oggi i governi controrivoluzionari hanno agito, in Francia per esempio, come se fossero democratici e amanti della pace. In Italia, invece, si afferma un tipo di governo francamente antidemocratico e imperialista. Il colpo di Stato di Mussolini può essere paragonato a quello di Lenin nell’ottobre 1917, ma diretto in senso opposto, naturalmente. E può darsi che sfocerà in un periodo di nuovi disordini e di guerre in Europa»4. Una storia comparata fra la rivoluzione d’ottobre bolscevica e la rivoluzione d’ottobre fascista non è stata ancora tentata. Sarebbe una storia certamente utile per comprendere le novità del fenomeno rivoluzionario nel ventesimo secolo e la nascita dei primi due regimi totalitari. Ma perché una tale storia comparata possa essere scritta, è necessario che l’una e l’altra rivoluzione siano affrontate con lo stesso spregiudicato atteggiamento mentale, e siano poste su un piano comune di adeguata conoscenza e comprensione della loro specifica individualità e del loro significato storico. Da decenni, la storiografia sulla rivoluzione bolscevica ha confutato l’immagine mitica della rivoluzione d’ottobre, senza per questo ridurla alla realtà grottesca di Lenin truccato che va a prendere il potere viaggiando furtivamente in tram, descrivendola come la «cospirazione di una minoranza insignificante» o l’«avventura di un pugno di bolscevichi»5. Invece, nel caso italiano, a novant’anni dalla «marcia su Roma», gli studiosi sono ancora in grande disaccordo sul suo significato storico. Non una rivoluzione, ma un’«opera buffa» la definì Gaetano Salvemini negli anni Quaranta6. Oscillò fra serietà e sarcasmo Antonino Repaci, autore del più grosso studio finora dedicato alla «marcia su Roma», pubblicato nel 1963 e poi nel 1972, in una nuova edizione riveduta e accresciuta: egli esordiva affermando che «la conquista fascista del potere racchiude in sé, già tutto spiegato e nel pieno della sua maturità storico-politica, il fenomeno fascista e la intera problematica che gravita intorno al medesimo», ma poi concludeva riducendo la «marcia su Roma» a «una goffa kermesse»7. Una simile oscillazione di giudizio affiora nell’interpretazione della

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prologo. in tram e in treno

«marcia su Roma», come «messa in scena» e «rappresentazione», in un saggio che pure la colloca all’origine della sfida dei fascismi in Europa8. Ancora di recente è stato scritto che la «marcia su Roma» fu, in realtà, «poco più che una trascurabile adunata di utili idioti»9. Come è stato possibile che un’opera buffa, una goffa k ­ ermesse, una trascurabile adunata di utili idioti, abbia potuto generare uno dei fenomeni tragici del ventesimo secolo? È una domanda fondamentale, che il sarcasmo storiografico lascia senza risposta, ripetendo così l’errore di incomprensione commesso a suo tempo dalla maggior parte degli antifascisti, che non presero sul serio il fascismo e la «marcia su Roma». Poi, sconfitti e messi al bando dal fascismo, si consolarono ridicolizzando la «marcia su Roma» come una messa in scena, e proiettarono questa immagine su tutta la successiva esperienza del regime totalitario: e non capivano che, in tal modo, essi ridicolizzavano se stessi, perché si erano lasciati travolgere dai commedianti di un’opera buffa, i quali rimasero al potere per un ventennio, e furono detronizzati soltanto dopo essere stati sopraffatti e disfatti dagli eserciti stranieri in una seconda guerra mondiale10. L’autore di questo nuovo studio sulla «marcia su Roma» non è propenso, per abito mentale e per concezione del mestiere storiografico, a usare il sarcasmo come categoria di giudizio storico e a mutare una tragedia in farsa. Egli ha ricostruito l’esperienza della conquista fascista del potere attraverso le azioni dei protagonisti e i commenti degli osservatori contemporanei più perspicaci nell’intuire le conseguenze di quelle azioni. Il metodo narrativo intreccia la narrazione dei fatti con le voci dei protagonisti e degli osservatori, che sono state evidenziate in corsivo per sottolineare la loro autonomia nel contesto dei fatti narrati, con lo scopo di rendere più immediata la drammaticità delle situazioni in cui i protagonisti agirono, dovendo quotidianamente scegliere e decidere fra le molteplici possibilità del presente, ignorando il futuro. Motivo conduttore della narrazione è il confronto fra l’uomo d’azione e l’attimo fuggente, cioè il momento in cui la decisione umana interviene nelle circostanze per scegliere la via da seguire, senza avere nessuna certezza del successo, ma sapendo nello stesso tempo che la scelta non può essere evitata, e l’incapacità di catturare l’attimo fuggente sarebbe certamente catastrofica.

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Nelle sue riflessioni storiche sulla rivoluzione bolscevica, Trotsky seppe evocare il dramma della scelta del «momento giusto» per afferrare l’attimo fuggente, così come fu vissuto da coloro che erano alla guida del moto rivoluzionario: il compito di maggior responsabilità di una direzione rivoluzionaria è saper cogliere il momento preciso in cui lanciare l’insurrezione, fra un momento in cui il tentativo può essere prematuro e abortire e «il momento in cui un’occasione favorevole deve essere considerata perduta irrimediabilmente»11. La storia è una successione di eventi, ciascun evento è una successione di circostanze e di attimi, ciascun attimo è una concentrazione di molteplici possibilità fra circostanze molteplici, nelle quali anche il caso può avere una decisiva importanza. Il ritmo della storia è scandito dalla dialettica fra le circostanze, l’attimo e la decisione umana. Nella successione degli eventi che culminarono con la «marcia su Roma», ci furono circostanze e attimi nei quali gli uomini del fascismo si trovarono ad agire fra la possibilità del successo e la possibilità del fallimento. Le loro scelte non furono determinate da anonime forze collettive o da astratte entità, che adoperano gli individui come strumenti inconsapevoli, ma furono fatte da individui reali, che agivano, come tutti gli altri, fra circostanze e attimi di possibilità molteplici. Essi intuirono d’essere di fronte all’attimo fuggente, valutarono le circostanze, le possibilità, i rischi. E alla fine decisero. Questo libro è uno studio sulla genesi di una forza politica originale, organizzata in partito milizia, che riuscì a impadronirsi del governo di uno Stato parlamentare. Nulla di simile era mai accaduto. L’autore analizza, nelle varie concrete circostanze in cui essi agirono, le scelte, le decisioni e le azioni dei fascisti, durante la gravissima crisi che travagliò la democrazia italiana dopo la Grande Guerra, proprio quando più propizie apparivano le condizioni per un suo svolgimento e consolidamento. In soli tre anni di vita come movimento, in un solo anno di vita come partito, con un gruppo di giovani capi senza alcuna esperienza di amministrazione e di governo, il fascismo riuscì a sbaragliare con la violenza potenti forze organizzate, che avevano tre decenni di vita; riuscì a ingannare astuti politici e governanti di lungo corso e di consumata esperienza; riuscì a togliere il monopolio della forza, l’autorità e il prestigio a uno Stato che era uscito vincitore dalla prova di una

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guerra mondiale; e alla fine riuscì a conquistare il potere proclamando apertamente che l’avrebbe usato per distruggere lo Stato liberale e la democrazia. Come ciò sia potuto accadere, è raccontato in questo libro, attraverso i comportamenti dei vari protagonisti nello svolgersi degli eventi, dove decisione e incertezza, caso e necessità, iniziativa e inerzia, violenza e consenso, intelligenza e incomprensione, coraggio e viltà, si confrontarono, si incrociarono, si scontrarono e si intrecciarono drammaticamente, nel succedersi di circostanze e di situazioni contingenti dagli esiti imprevedibili. Sulle quali prevalse alla fine la volontà di potere e di dominio dei fascisti, schiacciando gli avversari con l’imposizione di un regime irrevocabile, nell’indifferenza passiva della maggioranza della popolazione. In questa storia della «marcia su Roma», fatti già narrati, anche da chi scrive, sono ricostruiti in una nuova e originale prospettiva, dopo una più ampia ricerca e una più approfondita riflessione sui fatti stessi. Ne è scaturita una maggiore conoscenza e comprensione dei ruoli individuali e collettivi, che, per taluni importanti aspetti, modifica sostanzialmente quanto ritenuto finora certo e acquisito dalla storiografia: per esempio, il ruolo di Mussolini risulta essere stato meno preponderante e meno determinante nelle vicende del fascismo, durante i primi tre anni e negli stessi eventi della «marcia su Roma», di quanto si è finora pensato. Negli anni di cui tratta questo libro, Mussolini non fu affatto «il capo indiscusso del partito fascista»12 né si manifestava allora, nel fascismo, «una cieca fede nel capo»13. Così come non fu la «marcia su Roma» il capolavoro politico esclusivo di Mussolini, perché lo fu altrettanto di Michele Bianchi, che del moto insurrezionale fu il primo e il più risoluto fautore: ma né l’uno né l’altro avrebbero potuto compiere il loro capolavoro politico senza il fondamentale ausilio del partito fascista con la massa degli squadristi. Si distacca poi nettamente dalle interpretazioni correnti, la valutazione sull’inizio del regime fascista proposta in questo libro. Il titolo E fu subito regime esprime chiaramente il giudizio dell’autore: il regime fascista, come nuova organizzazione e nuova condotta del potere politico, iniziò con la «marcia su Roma», come conseguenza della natura stessa del partito fascista, in quanto partito milizia, e del dominio che esso aveva già conquistato in gran parte d’Italia prima di estenderlo allo Stato italiano. Per questo

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giudizio, l’autore non rivendica alcuna paternità, essendo un giudizio già formulato, e con straordinaria lucidità e comprensione storica, da alcuni osservatori contemporanei, le cui voci il lettore sentirà spesso nelle pagine che seguono. La massima parte della narrazione è concentrata su un solo anno, il 1922, perché fu l’anno decisivo degli attimi fuggenti: per il fascismo, per i suoi avversari e per la democrazia italiana. In quell’anno, il fascismo poteva essere ancora arrestato, e forse annientato; la democrazia italiana poteva essere ancora salvata, e forse rafforzata. Dopo la «marcia su Roma», questa possibilità divenne, di giorno in giorno, un desiderio sempre più irrealizzabile. Un giornalista americano, Carleton Beals, che era a Roma nelle giornate della insurrezione fascista, ricordando che Cavour aveva orgogliosamente affermato che era gloria dell’Italia aver raggiunto l’unità nazionale senza sacrificare la libertà e senza patire la dittatura di un Cromwell, così commentava, il 30 ottobre, la conclusione della «marcia su Roma»: «Quali che siano gli illuminati benefici che il nuovo regime possa arrecare, l’Italia non può più menar quel vanto. La costituzione, la legalità, in Italia hanno tirato le cuoia. Da oggi, 30 ottobre 1922, la democrazia politica significa tanto poco quanto sotto il dominio di Cromwell. E non fa differenza se il gregge si è sottomesso al nuovo giogo volentieri. [...] una nuova era è cominciata in Italia – come iniziò in Roma con la dittatura di Silla. Gli eventi di questi giorni fanno parte di una tendenza europea iniziata con la Grande Guerra, che comprende la rivoluzione bolscevica, e può non concludersi nel corso della nostra generazione»14. Il giornalista non era un profeta, ma soltanto un realistico osservatore della realtà del fascismo. Il libro si conclude con uno sguardo generale sia alla condotta politica di Mussolini e dei fascisti nei primi mesi al governo, dalla quale emergevano già i tratti originari del nuovo regime fascista che essi erano decisi a instaurare, sia ai commenti dei pochi antifascisti, che della realtà del nuovo regime furono subito consapevoli, mentre moltissimi, fra quanti davano fiducia al governo Mussolini e quanti lo avversavano, ancora pensavano che il fascismo al potere, privo di idee, di programmi e di coesione, avrebbe fatto presto naufragio, disfacendosi. Mezzo secolo fa Nino Valeri, riflettendo su «quell’avvenimento capitale della nostra storia», quale fu la «marcia su Roma», si

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prologo. in tram e in treno

propose di rispondere «ad un angoscioso quesito», cioè se l’avvento del fascismo fu «la conseguenza di un insolito e passeggero affastellamento di motivi contingenti» oppure se fu l’ultima esplosione di un male radicato negli italiani, fatto di abitudine all’insubordinazione, di mancanza di senso civico, di gusto di imbrogliare il governo, qualunque governo, di assenteismo, di corruzione, di vizi, cioè, nati da secoli di governo dispotico». Con l’umiltà dello storico vero, Valeri dubitava di poter dare «una risposta esauriente a tale quesito, che lascia veramente col fiato sospeso gli uomini che pensano. Ciò che potrò fare da studioso di storia è di seguire gli sviluppi progressivi del proposito di marciare su Roma per punire i rappresentanti della vecchia Italia legale e instaurare il dominio delle squadre fasciste»15. Con pari umiltà, l’autore di questo libro si è posto un compito analogo, e al pari del fine storico, che fu il primo docente di Storia contemporanea incontrato all’inizio dei suoi studi universitari, si è sforzato anch’egli «di vedere come le cose sono effettivamente andate, appoggiandosi sui dati accertati della vicenda», per meglio conoscere e comprendere come il fascismo riuscì a conquistare il potere. Se da una più attenta ricostruzione del «come», il lettore avrà materia nuova per riflettere e comprendere anche il «perché», l’autore si sentirà appagato nella sua unica ambizione. Se il fascismo non avesse catturato, con la «marcia su Roma», l’attimo fuggente che gli consentì di andare al potere e di avviare la costruzione di un nuovo regime, il corso della storia sarebbe stato diverso in Italia, in Europa e forse nel resto del mondo. Ma l’autore racconta una storia realmente accaduta. E ha cercato, nel raccontarla, di restituire ai fatti narrati la drammaticità degli eventi, che non avevano esiti scontati né inevitabili; ha cercato di far rivivere nei protagonisti il travaglio di scelte e decisioni, fatte fra incertezze ed esitazioni, nella imprevedibile variabilità delle circostanze e degli attimi; e ha cercato, infine, di far sentire al lettore la drammaticità della storia nel corso del suo divenire, senza avvalersi, nel giudizio sugli eventi e sui protagonisti, della sua facile sapienza di postumo che sa già come la storia sarebbe andata a finire. Perché la fine della loro storia, i protagonisti delle vicende narrate in questo libro, non la conoscevano in anticipo. E anche il lettore dovrebbe fingere di non conoscerla, se vuol capire il senso della storia.

E fu subito regime

Ringraziamenti Nel corso degli anni e delle ricerche, l’autore ha contratto un debito di gratitudine verso i dirigenti e i funzionari dell’Archivio Centrale dello Stato, della Biblioteca della Camera dei Deputati e della Biblioteca di Storia moderna e contemporanea. L’autore ringrazia inoltre l’avvocato Paolo Balbo, la dottoressa Elisabetta Lecco, il dottor Lauro Rossi, la dottoressa Roberta Suzzi Valli, il dottor Ettore Tanzarella. Un ringraziamento particolare l’autore rivolge a Luciana Cannistrà, Maria Fraddosio e Mario Missori, nel segno di un’amicizia che si avvicina al trentennio.

I

Gli zingari della politica

Come l’Italia, dopo aver vinto nella Grande Guerra, fu travolta dalla violenza politica, fra un partito socialista, che voleva instaurare la dittatura sul modello bolscevico, e un neonato fascismo, che organizzava squadre armate per combattere i socialisti e attuare una «rivoluzione italiana».

Italia violenta La Grande Guerra si era conclusa con il trionfo del governo democratico in Europa1. Il crollo del militarismo tedesco, il disfacimento di secolari imperi autocratici, la nascita di Stati repubblicani, il maggiore ruolo attribuito al parlamento nelle nuove costituzioni erano i principali aspetti della democrazia politica europea nel 1919, caratterizzati dalla «tendenza a sottomettere al diritto l’insieme della vita collettiva»2. Era il trionfo del principio della sovranità popolare e del governo parlamentare: «Non c’è e non ci può essere una forma di Stato, al di fuori della democrazia, che possa realizzare la supremazia del diritto»3. Così pensavano coloro che dalla fine del primo conflitto mondiale speravano nella costruzione di un mondo sicuro per la democrazia. Tuttavia, in molti paesi europei, le speranze furono presto deluse4. La causa principale fu l’esplosione della violenza politica provocata, da una parte, dagli effetti della rivoluzione bolscevica, che trovò imitatori in vari Stati dell’Europa centrale e orientale; dall’altra, dall’esasperazione dei nazionalismi nei paesi che si sentivano umiliati per la sconfitta subita, ma anche in qualcuno dei paesi vincitori, delusi per non aver ottenuto maggiori ingrandimenti territoriali. In alcuni paesi europei, la violenza politica fu operata da organizzazioni paramilitari di reduci che si richiamavano all’esperienza della Grande Guerra. Uno di questi paesi fu l’Italia5.

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E fu subito regime

L’Italia era entrata nella Grande Guerra lacerata dalla con­ trapposizione fra i neutralisti, che rappresentavano la maggioranza sia nel paese sia nella Camera, e gli interventisti. La minoranza interventista alla fine prevalse, esibendosi in violente manifestazioni di piazza per imporre l’entrata in guerra al governo liberale. Il quale, comunque, aveva già deciso di partecipare al conflitto il 24 maggio 1915. Dopo tre anni e mezzo di guerra, l’Italia uscì vittoriosa, superando la prova più ardua mai sostenuta dagli italiani durante quasi sessant’anni di unità. Ma la soddisfazione della vittoria durò poco e si tramutò presto in una delusione tale da far apparire l’Italia come un paese sconfitto anziché vincitore6. Al tavolo della pace, i governanti italiani non seppero far valere le richieste del­l’Italia, che ottenne meno di quello che i nazionalisti reclamavano. Furono questi ultimi a creare il mito della «vittoria mutilata»7. Ma solo una minoranza di reduci lo accolse e si mobilitò per riscattare la vittoria: gran parte degli italiani, alle prime elezioni politiche del dopoguerra, nel novembre 1919, premiò il partito socialista e il partito popolare di ispirazione cattolica fondato da Luigi Sturzo nel gennaio 1919, cioè i due partiti di massa che rappresentavano la maggioranza degli italiani contrari alla guerra e ampi settori della popolazione rimasti per lungo tempo ostili allo Stato liberale8. Quando iniziò la pace, l’Italia si trovò in una situazione di guerra civile fra due schieramenti opposti, infiammati da fanatismo politico, che si combattevano violentemente come nemici irriducibili: da una parte i reduci che erano stati interventisti e si consideravano i difensori della vittoria, e dall’altra i socialisti, che condannavano la guerra, dileggiavano i reduci, disprezzavano gli ideali nazionali e volevano fare una rivoluzione proletaria e internazionalista sull’esempio della rivoluzione di Lenin9. A render più frequente il ricorso alla violenza nella lotta politica contribuì l’inasprimento della lotta di classe, causato dalla grave crisi economica del dopoguerra, che provocò quotidiane proteste, agitazioni e scioperi organizzati dai socialisti, accompagnati spesso da atti di violenza e da scontri cruenti con la forza pubblica. Fra il 1918 e il 1921, le statistiche della criminalità registrarono un’impennata: i morti per omicidio furono 983 nel 1918, 1.633 nel 1919, 2.661 nel 1920 e 2.750 nel 1921. I delitti di percosse e lesioni personali raddoppiarono da 58.148 nel 1918 a 108.208 nel 1922. I reati con-

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tro l’ordine pubblico salirono da 766 nel 1918 a 1.004 nel 1919, 1.785 nel 1920, 2.458 nel 192110. L’abitudine alla brutalità del combattimento, la familiarità con il pericolo e con la morte, il disprezzo per la vita umana, acquisiti durante la guerra da milioni di uomini al fronte, avevano allentato i freni inibitori all’uso della violenza. «Pur troppo, lo si deve constatare, la guerra ha lasciato dietro di sé questo strascico di violenza e di intemperanze. I cittadini non hanno ancora disarmato», osservava nel giugno 1921 un ispettore di pubblica sicurezza. «La guerra ha reso di più facile uso le armi micidiali. Tutti se ne muniscono, tutti se ne servono per ogni più futile causa. La resistenza alle Autorità, fatta prima di sole parole o di semplici atteggiamenti ostili, è ora accompagnata dall’uso delle armi»11. Un uomo e un giornale Al diffondersi della violenza nella lotta politica diedero uno speciale contributo i reduci della Grande Guerra, come i futuristi e gli arditi, che si consideravano l’avanguardia di una nuova Italia nata dall’esperienza delle trincee, reclamavano il diritto di compiere una «rivoluzione italiana», come essi la chiamavano, combattendo i «nemici interni» della nazione, cioè tutti coloro che avevano condannato la guerra e professavano ideologie socialiste e internazionaliste. Tra i fautori della «rivoluzione italiana» c’era Benito Mussolini12. Di temperamento ribelle e violento, animato da una fortissima ambizione, giornalista di grande talento e oratore di grande efficacia, Mussolini era apparso improvvisamente sulla scena politica italiana nel 1912, quando, a soli ventinove anni, era stato nominato direttore dell’«Avanti!», come esponente della corrente rivoluzionaria che aveva assunto in quell’anno la guida del partito socialista. Per due anni Mussolini incitò il proletariato alla lotta rivoluzionaria per abbattere lo Stato borghese. Internazionalista e antimilitarista, all’inizio del conflitto europeo, si era schierato immediatamente per la neutralità assoluta, ma nei primi mesi di guerra, dopo il fallimento dell’Internazionale socialista e l’adesione di quasi tutti i partiti socialisti al patriottismo nazionale, Mussolini si convertì all’interventismo, convinto che la guerra sarebbe stata l’occasione

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per abbattere l’autoritarismo e il militarismo degli imperi centrali e per promuovere la rivoluzione sociale in Europa. Per sostenere la campagna interventista, nell’ottobre 1914 si dimise dalla direzione dell’«Avanti!» e fondò un proprio quotidiano, «Il Popolo d’Italia», e fu per questo espulso dal partito socialista: dopo essere stato per due anni l’idolo delle masse proletarie e dei giovani rivoluzionari, Mussolini divenne per gli ex compagni di partito il «traditore» venduto al capitalismo per ambizione personale. Con il suo giornale, Mussolini fu un protagonista durante le violente agitazioni interventiste nel maggio 1915 per indurre il governo a dichiarare la guerra all’Austria. Entrata l’Italia in guerra, richiamato alle armi e inviato al fronte, si comportò da buon soldato, meritando la promozione a caporale. Congedato nel 1917 per le ferite riportate a causa dell’esplosione accidentale di un mortaio, Mussolini continuò a sostenere la guerra col suo giornale chiedendo, soprattutto dopo la rotta di Caporetto, una dittatura militare per giungere alla vittoria. Durante la guerra, avvenne il suo definitivo distacco dal socialismo, sostituito da un generico nazionalismo rivoluzionario, incentrato sull’idea che nelle trincee si era formata una nuova aristocrazia, la «trincerocrazia», destinata a governare l’Italia. Il 1° agosto del 1918, nella testata de «Il Popolo d’Italia», il sottotitolo «quotidiano socialista» fu sostituito con «quotidiano dei combattenti e dei produttori». Finita la guerra, Mussolini si ritrovò senza un seguito. Cercò allora di fare del suo giornale il portavoce degli ex combattenti. Il tentativo non ebbe successo perché all’iniziativa aderirono solo pochi reduci provenienti dall’interventismo rivoluzionario, i futuristi e gli arditi, con i quali fece lega per riprendere l’azione politica nell’Italia del dopoguerra13. Il 16 novembre 1918, appena dodici giorni dopo la fine della guerra, Mussolini e gli arditi erano già segnalati dalla polizia come responsabili di «avvenimenti torbidi», «prime avvisaglie di una prossima rivoluzione»14. Benito Mussolini a Milano crea certamente il disordine, egli ovunque palesemente parla chiaro, egli è quasi sempre accompagnato da suoi seguaci, da mutilati, da militari di ogni arma, da ufficiali e arditi, i quali continuamente minacciano, coi pugnali alla mano, tutti coloro che ritengono siano nemici interni della Patria e con questa scusa di alto patriottismo, stanno commettendo a Milano azioni violente di ogni specie.

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Nelle dimostrazioni sventola la bandiera nera degli arditi, ed in questi giorni sono state portate pure bandiere rosse; si è gridato da alcuni di essi Viva la Rivoluzione, Viva la Repubblica, abbasso la borghesia; altri gruppi hanno gridato Viva Lenin; e lo prova anche la dimostrazione di Domenica 10 andante, pubblicata nel Popolo d’Italia e fatta passare inosservata dalla censura. Gli ufficiali della guarnigione di ogni arma si uniscono ed applaudono a questo movimento di insurrezione contro le istituzioni, essi sono i primi a insultare e provocare ogni giorno cittadini che vanno per i loro affari creando spiacevoli incidenti e fra i quali q­ uello dell’on. Gambarotta [deputato socialista di Novara, N.d.A.], che transitava tranquillamente la Galleria con la moglie e la figlia. Gli arditi sono armati anche di nodosi bastoni, danno spettacolo raccapricciante, perché minacciano onesti cittadini che non hanno nulla da fare con la politica e quindi essi arditi cominciano a rendersi antipatici alla popolazione. A Milano in tutti i negozi, nei ritrovi e dovunque, si parla di rivoluzione e di repubblica. Fasci di combattimento Mussolini era politicamente un isolato quando decise di fondare i Fasci di combattimento a Milano, il 23 marzo 1919, in una riunione cui parteciparono una cinquantina di persone, interventisti e reduci provenienti dalla sinistra rivoluzionaria o repubblicana. La nascita del nuovo movimento passò quasi inosservata e l’unico giornale a parlarne diffusamente fu «Il Popolo d’Italia». Solo dal 15 agosto, il movimento fascista ebbe un proprio settimanale, «Il Fascio», che aveva come insegna non un fascio littorio ma un pugno chiuso che serrava un mazzo di spighe15. Nei propositi di Mussolini, il fascismo doveva essere un movimento temporaneo, un «antipartito» di ex combattenti che volevano agire per difendere la vittoria e combattere il socialismo. Il fascismo si proclamava repubblicano e anticlericale, proponeva un programma di radicali riforme istituzionali, economiche e sociali. I fascisti disprezzavano i partiti politici e il parlamento, volevano abolire il Senato e sostituire i deputati con i tecnici, esaltavano l’attivismo delle minoranze, e sostenevano le rivendicazioni espansioniste dell’Italia.

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Con i futuristi e gli arditi, che furono tra i fondatori dei Fasci, il fascismo si attribuì la guida della rivoluzione italiana per portare al potere gli uomini che avevano voluto e fatto la guerra16. La rivoluzione italiana, spiegava Mussolini, era stata iniziata nel 1915 dagli interventisti e doveva ora continuare fino all’«epilogo fatale»: «È la rivoluzione di una parte della nazione contro l’altra parte» e «mette di fronte due razze di italiani, due mentalità di italiani, due anime di italiani, due tipi di italiani: quelli che hanno fatto la guerra e quelli che non l’hanno fatta»17. Poco numerosi, i fascisti si fecero notare subito per l’uso della violenza. La loro prima manifestazione fu la distruzione della sede dell’«Avanti!» a Milano, il 15 aprile18. «Per noi la guerra non è cessata – affermava «Il Fascio» il 6 settembre 1919 –. Ai nemici esterni sono subentrati i nemici interni [...] da una parte gli italiani veri, amanti della grandezza della Patria; dall’altra i nemici di essa, i vigliacchi che attentano a tale grandezza e che ne premeditano la distruzione. [...] È l’azione diretta che occorre, l’azione energica, decisa, coraggiosa! Ed è a noi, interventisti della prima ora che spetta questo sacro compito». Per combattere contro i nemici interni, i fascisti milanesi costituirono fin dall’inizio del movimento un’organizzazione armata – come riferiva il 21 novembre 1919 il questore di Milano – che agiva «non solo contro le leggi dello Stato, e non solo con la tendenza alla usurpazione dei poteri della polizia, ma con il deliberato proposito di commettere reati contro le persone, contro gli agenti della forza pubblica, contro l’ordine pubblico per raggiungere finalità politiche ed elettorali secondo un preordinato e maturo proposito». L’organizzazione fascista aveva «una vera e propria gerarchia militare di capi e di gregari armati molti dei quali vestiti in uniforme e divisi in squadre dipendenti da un Comando unico», che «in determinate circostanze erano assoldati e ricevevano precise istruzioni circa il modo con cui dovevano eseguire i servizi che loro venivano commessi». Questo corpo armato, «a prescindere da ogni secondo fine sconfinante forse in più grave criminalità, consisteva precisamente nel proposito determinato e fermo e più volte pubblicamente manifestato e concretato dal fatto di avvalersi di qualunque mezzo anche illegale, e di ricorrere all’uso delle armi in modo sproporzionato alla provocazione, con deliberato proposito di lesioni personali e di omicidi pur di vincere qualsiasi ostacolo per il raggiungimento del fine

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propostosi, della reazione eccessiva e violenta contro le provocazioni socialiste anche semplicemente verbali». La formazione di nuclei armati – proseguiva il questore – procedeva «con lena instancabile» per «creare una forza temibile e considerevole per il conseguimento del fine che si concreta in un reato ben determinato contro l’ordine pubblico, e cioè tumulti sediziosi a mano armata, l’opposizione nelle vie e nelle piazze all’azione dell’Autorità e degli agenti di PS, la violenta repressione con armi di ogni anche lieve provocazione avversaria, il deliberato proposito di trascendere ad ogni occasione nella legittima difesa anche con reati contro le persone». I fascisti reagivano con una «violenza più sproporzionata» durante le loro manifestazioni, come accadde a Lodi durante la campagna elettorale del 1919, dove – riferiva il questore – bastò «che un atto, pur deplorevole, d’intolleranza collettiva si manifestasse da parte degli avversari con grida e gettito di oggetti atti ad offendere, perché i fascisti rispondessero con estrema violenza, facendo uso per preordinata intesa di rivoltelle contro la massa dei disturbatori, tanto che si dovettero deplorare due morti e circa quindici feriti, uno dei quali ultimi soccombeva qualche giorno dopo»19. Un cadavere politico Per oltre un anno, i Fasci di combattimento non fecero proseliti, neppure fra i reduci, che in maggioranza aderirono all’Associazione nazionale combattenti, orientata democraticamente20. Lo stesso fondatore del fascismo non contava sul futuro del suo movimento, e lasciò ad altri la carica di segretario generale dei Fasci, per figurare solo come un membro della Giunta esecutiva con compiti di propaganda21. In quel periodo, il fascino maggiore sui fascisti e sui vari gruppi di reduci fautori di una rivoluzione italiana lo esercitava Gabriele D’Annunzio, che il 12 settembre 1919 aveva occupato con i suoi legionari la città di Fiume per rivendicarne l’annessione all’Italia22. Nelle elezioni politiche del novembre 1919, i Fasci subirono una disfatta totale. Mussolini ebbe meno di 5.000 voti. Il giorno dopo le elezioni, l’«Avanti!» pubblicò la notizia che nelle acque di un canale era stato ritrovato il corpo di Mussolini in avanzato stato di putrefazione, e i socialisti milanesi inscenarono un funerale farsesco al cadavere politico.

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Alla fine del 1919, in Italia esistevano 37 Fasci con 800 iscritti. Nelle casse dei Fasci non c’erano soldi per stampare manifesti23. «Il Popolo d’Italia» perdeva lettori. E mentre nel mondo dei reduci continuava a sfolgorare l’astro dannunziano, l’astro mussoliniano era fioco e il movimento fascista languiva. Depresso e isolato, Mussolini chiuse il 1919 sbeffeggiando il parlamento e la politica, proclamò il suo disprezzo per «tutti i cristianesimi, da quello di Gesù a quello di Marx», e inneggiò al paganesimo e all’anarchia dell’individuo24. Per un attimo, pensò di vendere il suo giornale e di abbandonare la politica: «Non è poi detto che debba far sempre del giornalismo e della politica», confidò agli amici25. Pensò di diventare pilota aviatore, autore teatrale, scrittore di romanzi, o andarsene in giro per il mondo26. Ma l’attimo della rinuncia passò presto. E Mussolini salutò il nuovo anno con un articolo intitolato Navigare necesse est, irridendo a «tutti i ciarlatani – bianchi, rossi, neri – che mettono in commercio le droghe miracolose per dare la ‘felicità’ al genere umano», ed elevò ancora un inno libertario all’individuo: «Ma intanto navigare necesse est. Anche contro corrente. Anche contro il gregge. Anche se il naufragio attende i portatori solitari e orgogliosi della nostra eresia»27. Deciso a navigare a vista, senza una meta precisa, Mussolini si accinse a riprendere la lotta politica spostandosi a destra. Nel secondo congresso nazionale dei Fasci di combattimento, tenuto a Milano nel maggio 1920, il programma radicale, repubblicano e anticlericale fu accantonato. Il fascismo si presentò come difensore della borghesia produttiva e del capitalismo contro ogni esperimento di rivoluzione sociale. Ma questo non bastò a rilanciare il movimento. Per tutto il 1920, il fascismo rimase «su un binario morto», come disse Mussolini28. E continuò a navigare a vista, senza sapere dove andare, mentre in Italia trionfava il partito socialista. I nemici interni trionfano Nel XVI congresso nazionale del partito socialista, tenuto a Bologna nell’ottobre 1919, la maggioranza massimalista adottò un programma rivoluzionario che si ispirava alla rivoluzione bolscevica, salutata come «il più fausto evento nella storia del proletariato»29. Il nuovo statuto affermava che «la conquista violenta del

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potere politico da parte dei lavoratori dovrà segnare il trapasso del potere stesso dalla classe borghese a quella proletaria, instaurando così il regime transitorio della dittatura di tutto il proletariato». I massimalisti cominciarono a organizzare gli strumenti per la rivoluzione. Fin dall’inizio del 1919 pervennero al governo segnalazioni sulla «costituzione, entro le sezioni del partito, di speciali comitati segreti, incaricati di preparare tecnicamente la rivoluzione e di preparare l’avvento del proletariato al potere strappato con la violenza», come scriveva il questore di Roma il 20 marzo 191930. E un mese dopo, il prefetto di Napoli dava notizie di un comitato segreto di cui si parlava «in alcuni gruppi ristretti, con grande circospezione, per confermare la prossimità del movimento rivoluzionario»31. Durante le numerose agitazioni promosse dal partito socialista nel corso del 1919 e del 1920, con scioperi, occupazioni di terre, manifestazioni di piazza e insurrezioni locali, operò un’organizzazione armata, la Guardia Rossa, fondata a Torino in aprile, e presto presente in altre città32. Anche nel partito socialista, osservava nel 1921 il socialista indipendente Arturo Labriola, i reduci portarono «l’abitudine del menar le mani e il disprezzo della vita, la propria e quelle altrui»33. Si ebbe una desolante ripetizione di scioperi generali, spesso motivati con i più futili pretesti (un deputato socialista percosso, una sede di lavoratori invasa dalla forza pubblica, una minaccia di serrata, etc.). Qua e là ufficiali vennero percossi e costretti ad uscire dalla circolazione. A Torino un colonnello venne «reiteratamente accoltellato» [...]; a Milano è ucciso un carabiniere; a Mantova si devasta e saccheggia e si mettono in libertà duecento reclusi. Sono numerosi gli attentati contro gli ufficiali. Sembra – ma non è accertato – che vennero manomesse lapidi in onore dei caduti. Ad Empoli alcuni marinai di passaggio vennero uccisi per ragioni altrettanto futili quanto criminali. Né pare che possa negarsi una violazione di sepolcro, a scopo di offesa politica, in Mantova, a danno della famiglia Arrivabene. Con una fitta rete di sindacati, leghe contadine, cooperative, e con il controllo di molte amministrazioni comunali e provinciali, il partito socialista esercitava un dominio quasi incontrastato sulla vita politica e sull’attività economica in gran parte delle provincie

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della pianura padana, imponendo ai proprietari, con metodi vessatori, l’obbligo dell’assunzione dei lavoratori, aumenti salariali e condizioni contrattuali che riducevano il loro profitto. Anche i lavoratori erano obbligati a sottostare alle regole imposte dalle leghe, che avevano il monopolio della manodopera. Il proprietario, il commerciante, il negoziante, il lavoratore stesso, che si sottraeva alle imposizioni delle leghe, era condannato al boicottaggio34. «Baronie rosse» furono definiti dal comunista Palmiro Togliatti nel 1921 i metodi del dominio locale socialista35. Il segretario generale del PSI, Giacinto Menotti Serrati, ricordò qualche anno dopo che nelle regioni della Valle Padana dove dominava il partito socialista «non vi era villaggio che non fosse sotto la sua influenza. In ogni comune si trovava un sindacato di contadini, una casa del popolo, una cooperativa, e una cellula socialista. [...] In questo modo i sindacati dei contadini diventarono padroni della situazione; posero ai proprietari terrieri condizioni di lavoro tali da privarli praticamente quasi del tutto del diritto di proprietà sulla loro terra [...] gli attivisti rivoluzionari, invece di attirarsi le simpatie o almeno assicurarsi la neutralità della popolazione contadina, dei piccoli affittuari o dei piccoli proprietari, li irritarono con le loro azioni e suscitarono le loro ostilità; così nella provincia di Ferrara la lotta contro i ceti medi era particolarmente tenace e spietata»36. Alle elezioni politiche del 1919, il PSI ebbe quasi due milioni di voti e 156 deputati, diventando il primo partito nel parlamento italiano, seguito dal partito popolare, che ne ottenne 100. Contemporaneamente, ci fu una rapida crescita degli iscritti al partito, che da 23.000 nel 1918 aumentarono a oltre 200.000 nel 1920, mentre nello stesso periodo i lavoratori organizzati nella Confederazione generale del lavoro (CGdL), unita da un patto d’azione con il PSI, balzarono da 250.000 a 1.159.000 iscritti nel 1919 e a 2.150.000 nel 1920. Durante il «biennio rosso», nel 1919-20, il divampare violento del fanatismo politico e della lotta di classe fece apparire l’Italia un paese sull’orlo della guerra civile. «Sono dopo la lettura dei giornali di stamattina, come sotto un incubo rosso dal delinearsi della guerra civile in tutta Italia», scriveva il 4 maggio 1920 la socialista Anna Kuliscioff al suo compagno Filippo Turati, uno dei fondatori del partito socialista, e principale esponente della corrente riformista che si opponeva alla politica rivoluzionaria dei massimalisti:

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«Socialisti ammazzano cattolici, in Romagna pugilati fra socialisti e repubblicani, in Liguria tafferugli tra socialisti e anarchici, e dappertutto morti e feriti in conflitti sanguinosi con guardie regie e carabinieri [...] la realtà è che si va a un cataclisma a passi da gigante. [...] La gara coi comunisti sorpassa ogni prevedibile, ma una parte aiuta l’altra nel dissolversi della compagine sociale»37. Nella lettera non vi era cenno alla violenza dei fascisti, segno che allora il fascismo non era considerato ancora degno di nota. Mobilitazione antisocialista Dopo la disfatta elettorale, il fascismo accentuò la sua organizzazione militare38. Il 29 giugno il prefetto di Milano fu informato che il comitato centrale dei Fasci di combattimento, insieme ai rappresentanti della Società degli ufficiali in congedo, del comitato di organizzazione civile e delle associazioni degli arditi, aveva deciso «di raddoppiare le squadre fasciste già esistenti per reprimere ogni moto anarchico ed estremista, diffidandosi della repressione per mezzo dell’autorità militare», e di appoggiare con tutti i mezzi la costituzione delle nuove squadre39. Nell’estate, la segreteria dei Fasci diede nuove direttive per la formazione di squadre: «Con le stesse forze fasciste si crei [sic] delle squadre di 12 uomini comandati da un ufficiale mobilitato o no e a seconda della nostra circolare riservatissima del 3 corr. si uniformi la condotta dei fascisti alle istruzioni ricevute [...] nessun organismo in Italia è realmente combattivo come i fasci di Combattimento la cui definizione dice chiaramente il compito dei Fasci stessi»40. A settembre, i fascisti di Catania comunicavano di avere ottemperato alle direttive, formando «almeno 28 squadre armate di bastoni in mancanza d’altro» ma «urge l’invio di buone rivoltelle»41. Nel 1920, i Fasci di combattimento spesero lire 26.355,70 per l’acquisto di armi, soprattutto rivoltelle e munizioni, oltre che bastoni42. Nel novembre, le direttive sulle squadre divennero più dettagliate: «Costituito il Fascio scelga fra i suoi componenti i giovani più coraggiosi ed audaci e formi con essi le squadre di azione, squadre che hanno il compito di tenere la difensiva e l’offensiva in caso di bisogno contro il bolscevismo locale. Ogni squadra, per renderla più agile, consiglio che sia composta di non più di 10 persone oltre il caposquadra»43.

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Sorte come strumento di difesa e di rappresaglia, dalla metà del 1920 le squadre fasciste cominciarono a distruggere le organizzazioni socialiste e proletarie. L’iniziativa partì dal Fascio di Trieste, dove varie squadre di ex militari e di ufficiali erano state costituite nel maggio, d’intesa con il comitato centrale di Milano, per appoggiare l’azione di D’Annunzio a Fiume e per combattere i socialisti triestini e la minoranza slava44. Capeggiati dal toscano Francesco Giunta, il 13 luglio gli squadristi triestini assaltarono e incendiarono l’edificio dell’Hotel Balkan, sede del centro culturale e politico sloveno45. Una settimana dopo, a Roma, i fascisti si unirono ai nazionalisti che, per vendicare l’uccisione di un loro compagno, incendiarono la tipografia che stampava l’«Avanti!». Mussolini giustificò l’incendio come «una logica e legittima rappresaglia contro i predicatori quotidiani della violenza»46. Nei mesi successivi i fascisti furono coinvolti in altri episodi di violenza, a volte come vittime, altre volte come persecutori, ma sempre restando ai margini della scena politica, ancora dominata dal partito socialista47. La prima offensiva squadrista su larga scala fu lanciata dai fascisti alla fine del 1920, dopo che nel paese si era già avviata una mobilitazione di borghesi e ceti medi antisocialisti, in coincidenza con l’occupazione delle fabbriche nel settembre, che in alcune città, come Torino, sembrò preludere a un moto rivoluzionario, con le guardie rosse armate che presidiavano le officine occupate. Ci furono alcuni efferati episodi di violenza da parte degli occupanti, come l’assassinio di un impiegato della Fiat, volontario di guerra e nazionalista, e di una guardia carceraria ventenne48. L’occupazione delle fabbriche non aveva scopi rivoluzionari, ma destò comunque una grande paura nella borghesia, che si sentiva minacciata da un’imminente rivoluzione bolscevica mentre lo Stato liberale appariva assente o impotente. «Allora si vide lo Stato crollare, anzi passare ai nemici della borghesia – osservò Labriola –. La cosa era tanto più pericolosa quanto meno melodrammatica. Nessun attacco in forza minacciava la cittadella borghese. Il nemico non schierava in ordine di battaglia le sue formazioni militari. Ma era dappertutto: nelle Camere del Lavoro, nei municipi, nelle provincie, alla Camera, negli uffici, nei ministeri, spesso nelle caserme, talvolta fra le guardie regie e gli stessi carabinieri. L’ossessione socialista incombeva fatalmente da tutte le parti»49.

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L’occupazione delle fabbriche cessò dopo ventidue giorni, con un accordo fra la CGdL e la Confederazione degli industriali, raggiunto con la mediazione di Giolitti. Anche Mussolini approvò l’accordo, affermando che si era compiuta in Italia «una grande rivoluzione», in quanto un «rapporto giuridico plurisecolare è stato spezzato» perché l’operaio «nella sua qualità di produttore, entra nel recesso che gli era conteso, e conquista il diritto di controllare tutta l’attività economica nella quale egli ha parte»50. L’occasione per la reazione antisocialista furono le elezioni amministrative che si svolsero il 31 ottobre e il 7 novembre. Candidati liberali, democratici, nazionalisti e fascisti si presentarono uniti in blocchi elettorali, variamente denominati «nazionali», «patriottici» «antibolscevichi», patrocinati da Giovanni Giolitti, tornato alla guida del governo nel giugno del 1920. I blocchi antisocialisti ottennero il 56 per cento dei voti, aggiudicandosi 33 consigli provinciali su 69 e 4.655 comuni su 8.346, fra i quali vi erano grandi città come Venezia, Genova, Firenze, Roma, Napoli, Bari e Palermo. Il partito popolare ebbe la maggioranza in 1.613 comuni e 10 consigli provinciali. Anche il partito socialista ebbe un notevole successo, seppure inferiore rispetto alle elezioni politiche, ottenendo la maggioranza in 26 consigli provinciali e in 2.022 comuni, con la maggioranza assoluta ad Alessandria, Novara, Milano, Cremona, Belluno, Vicenza, Rovigo, Piacenza, Reggio Emilia, Modena, Ferrara, Bologna, Grosseto, e la maggioranza relativa a Pavia, Mantova, Verona, Massa, Livorno, Pesaro e Perugia51. Nello stesso periodo, gli iscritti al PSI aumentarono a 216.327, divisi in 4.367 sezioni, dei quali quasi il 70 per cento era al Nord52. Il successo elettorale rinfocolò la retorica rivoluzionaria dei massimalisti eletti alla guida di comuni e provincie: essi annunciarono, come fecero a Bologna dove detenevano la maggioranza assoluta, che avrebbero usato le istituzioni dello Stato borghese per combatterlo dall’interno «fino a determinarne il crollo e la rovina»53. La bandiera rossa, al posto del tricolore, sventolava dalle sedi dei municipi e dei consigli provinciali e le autorità governative non osavano intervenire per evitare violente conseguenze. «Noi non vogliamo discutere con i nostri nemici; noi vogliamo abbatterli», proclamavano i socialisti mantovani, dopo aver conquistato 59 comuni su 68 e 38 consiglieri provinciali su 4054. Il

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giorno dell’inaugurazione del consiglio provinciale, il presidente socialista dichiarò, alla presenza del prefetto, che il consiglio rifiutava ogni controllo statale e avrebbe agito come un organo politico obbediente al partito socialista. I comuni e le provincie sarebbero divenuti «fortilizi del proletariato»: «Gli eletti del proletariato – concluse il presidente – vi rimarranno a compiervi i loro doveri, finché non udranno la voce del proletariato stesso – marciante al definitivo assalto delle ultime difese borghesi – chiamarli al proprio posto di battaglia. Quel giorno, nelle sale dei mille e mille comuni e dei vari consigli provinciali conquistati al nostro Partito, echeggerà, come oggi, un solo grido, che sarà grido di redenzione: viva il Comunismo!»55. L’ora del fascismo Nonostante il successo elettorale e i toni trionfalistici, la vistosa potenza del partito socialista era tuttavia minata all’interno dalle aspre divisioni fra massimalisti, riformisti e comunisti, che già pensavano alla scissione attuata nel gennaio successivo. Intanto, dopo la sconfitta subita nell’agosto dall’Armata Rossa in Polonia, cominciava a tramontare il mito della rivoluzione bolscevica56. Stava passando la «sbornia bolscevica» che aveva «istupidito, corrotto e imbestialito gran parte delle masse operaie italiane», scrisse Mussolini il 7 ottobre, e rivendicò al fascismo il merito di avere «spezzato in diverse occasioni colla violenza l’infatuazione bolscevica»57. Oltre la mobilitazione antisocialista della borghesia nelle elezioni amministrative, un segno molto evidente che qualcosa stava cambiando nella situazione politica del paese, e in senso contrario al partito socialista, fu la celebrazione dell’anniversario della vittoria italiana, il 4 novembre: era la prima volta che questo avveniva, perché l’anno precedente il presidente del Consiglio Nitti l’aveva vietata temendo un’esplosione di violenza nel clima arroventato del momento58. Mussolini comprese che era giunto il momento opportuno per rilanciare il fascismo. Il partito socialista era entrato nella fase discendente della sua parabola per l’esaurimento della sua inconcludente politica rivoluzionaria senza rivoluzione e per i conflitti interni avviati a produrre scissioni. Nello stesso perio-

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do  stava tramontando anche l’astro dannunziano, che fino ad allora aveva oscurato Mussolini e il fascismo. L’avventura del poe­ta a Fiume era prossima alla fine, perché Giolitti si apprestava a firmare con il governo jugoslavo un accordo per risolvere la questione di Fiume. Da tempo, Mussolini aveva preso le distanze da D’Annunzio, pur professando a parole fedeltà alla sua impresa. Quando il poeta, fra settembre e ottobre, gli propose un progetto di colpo di Stato, che prevedeva l’appoggio dell’organizzazione armata fascista, Mussolini rispose accettando il progetto, ma rinviandone l’attuazione alla primavera del 192159. E quando, il 12 novembre, Giolitti firmò con la Jugoslavia il trattato di Rapallo, col quale veniva creato lo Stato libero di Fiume, Mussolini lo approvò, e solo a parole protestò quando Giolitti, nei giorni di Natale, pose fine a colpi di cannone all’impresa dannunziana60. Mussolini si apprestò ad afferrare l’attimo fuggente offerto dalla mobilitazione antisocialista per far uscire il fascismo dal binario morto. Ancora il 3 luglio aveva ripetuto che il fascismo «non vuole ‘durare’ oltre il tempo necessario ad assolvere il compito prefissosi»61. Il fascismo aveva continuato a navigare a vista, avendo come unica bussola il principio del «caso per caso», principio «essenzialmente fascista», affermava Mussolini il 26 agosto62. E ancora il 5 settembre, ai fascisti cremonesi, dichiarava: «Siamo una minoranza e non ci teniamo ad essere molti. [...] Siamo una formazione di combattimento e siamo anche gli zingari della politica italiana»63. Al momento delle elezioni amministrative, Mussolini decise di non partecipare alle elezioni milanesi, per evitare di andare incontro a un’altra sconfitta, e giustificò l’astensione dicendo che il fascismo non era «affatto un movimento politico in senso elettorale», ma un movimento, che era «sorto come una reazione alla degenerazione bolscevica del Pus», e si era affermato «attraverso le revolverate, gli incendi e le distruzioni», perciò chiese ai fascisti milanesi di astenersi dalla competizione elettorale ma di «preparare animi e mezzi per altre forse non lontane e certamente decisive battaglie», perché «le battaglie elettorali non sono più del nostro tempo»: «il fascismo non è un’accolta di politici, ma di guerrieri»64. Per rilanciare il suo movimento, Mussolini fu abile nel confezionargli un nuovo abito ideologico e una nuova immagine. Ac-

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centuò l’orientamento a destra, sostenendo che il fascismo era il più attivo e aggressivo movimento di difesa della borghesia produttiva. Assunse un atteggiamento rispettoso verso il cattolicesimo, dichiarando ai fascisti di Cremona il 5 settembre di non essere «un anticlericale di professione. [...] Ma meno ancora io voglio che siamo anticattolici» perché il cattolicesimo era una grande forza spirituale, che faceva della capitale d’Italia «la capitale di un immenso impero spirituale», che da Roma parlava «a quattrocento milioni di uomini», e che poteva essere utilizzato ai fini dell’espansione nazionale65. Infine, accentuò le ambizioni espansioniste del fascismo presentandolo come l’espressione di un rinnovato orgoglio italiano e di una moderna romanità, l’avanguardia di un’Italia nuova che ambiva a svolgere, come disse a Trieste il 20 settembre, «un altro compito universale» sulla scia della tradizione universale della Roma dell’antichità e del cristianesimo66. Associato al mito della romanità, per Mussolini il fascismo cessava di essere uno zingaro della politica, che viveva alla giornata, e assurgeva al rango di «tipica creazione del popolo italiano», un movimento con salde radici «nel solco della storia italiana», che rispondeva «all’oscuro istinto delle grandi masse popolari»67. Con questo nuovo abito ideologico, Mussolini predispose il fascismo ad afferrare l’occasione del successo elettorale borghese per collocarsi alla guida della reazione antisocialista. E guerra civile sia! L’ora nostra fu il titolo di un articolo, pubblicato il 14 ottobre, col quale Mussolini annunciava che il fascismo era «in un periodo di pieno, promettente, prodigioso sviluppo» per «generazione spontanea»68. Nei giorni successivi, durante le manifestazioni organizzate dal partito socialista per le vittime politiche e in difesa della Russia sovietica, il fascismo colse l’occasione per lanciare una offensiva squadrista69. L’organizzazione delle squadre era stata intensificata durante l’occupazione delle fabbriche, quando i fascisti temettero che «improvvisamente le forze rivoluzionarie addivengano alla decisione di tentare un colpo armato contro gli uffici pubblici», come aveva scritto il segretario dei Fasci, Umber-

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to Pasella, ai fascisti romani l’11 settembre: «d’altra parte anche la massa operaia è completamente armata e se non tutta una gran parte è decisa all’attacco [...] noi siamo in piede di guerra cosa che non potete voi comprendere che vivete in un ambiente paradisiaco in confronto all’ambiente dell’alta Italia e specialmente di Milano e di Torino. [...] I fascisti sono pronti e confidano che gli amici dell’Italia Centrale e Meridionale al momento opportuno ci sappiano coadiuvare»70. Furono ancora una volta gli squadristi triestini a dare inizio all’offensiva, il 14 ottobre: durante una manifestazione per la Russia, i fascisti si scontrarono con i manifestanti, e dopo il ferimento di un fascista, diedero l’assalto con armi e bombe alla sede del giornale comunista «Il Lavoratore» e l’incendiarono. Il giornale del partito socialista definì quanto era accaduto a Trieste «un altro episodio della guerra civile che imperversa in Italia». Il 16 ottobre, «Il Fascio», con un titolo a tutta pagina: Se la guerra civile ha da essere, ebbene sia!, plaudì «senza riserve al nuovo gesto punitivo» compiuto dai fascisti triestini, e incitò «i fascisti di tutta Italia a stringere sempre più animosamente le fila per prepararsi a nuove controffensive, per muovere a nuovi assalti vendicativi», pronti ad una «lotta mortale», «sempre più risolutamente in armi, disposti a sempre più furibondi combattimenti, senza nessuno scrupolo, senza alcun limite». La ripresa della violenza squadrista e la mutata situazione crea­ ta dalla mobilitazione borghese, scrisse Mussolini il 6 novembre, erano una manifestazione della «marcia del fascismo», che ora era descritto dal suo fondatore come un movimento «irresistibile, oramai; movimento destinato a rappresentare e a irreggimentare tutte le energie giovanili e nuove della nazione», «un grande movimento di revisione di tutti i valori politici e morali attuali», attorno al quale si affannavano «i giornali di tutti i colori», «per spiegare lo strano fenomeno di un anti-partito che si afferma e sbaraglia dovunque il partito per eccellenza, il Partito Socialista Ufficiale Italiano», combattendo con le sue armi «contro l’abietto partito che si propone di mascherare l’Italia alla moda di Lenin»: «Contro un partito che predica e pratica, quando può, l’insurrezione, i mezzi blandi non contano: ci vogliono i nostri. Noi abbiamo affrontato e affronteremo sempre i pussisti, perché il terreno della violenza non è per il Pus. È una dura, spietata, implacabile battaglia, quella

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che abbiamo impegnato, buttando tutto nella posta del gioco; ma ecco delinearsi l’affermazione trionfale del fascismo»71. La guerra civile antisocialista fu iniziata dai fascisti a Bologna il 20 novembre. Nei mesi precedenti, la provincia di Bologna era stata teatro di una durissima lotta fra la Federazione dei lavoratori della terra e l’Associazione agraria bolognese per il rinnovo dei patti agricoli. Ci fu uno sciopero che durò dieci mesi, danneggiando l’economia della provincia. Costretti ad accettare le condizioni imposte dalla Federterra, gli agrari covarono il proposito di reagire. Nelle elezioni amministrative, i socialisti bolognesi avevano conquistato la maggioranza assoluta al comune, e il 21 novembre, per l’insediamento del nuovo consiglio, avevano organizzato una grande manifestazione davanti a Palazzo d’Accursio. Il giorno precedente, i fascisti avevano diffuso un manifestino nel quale consigliavano di rimanere a casa: «Per le strade di Bologna debbono trovarsi solo fascisti e bolscevichi. Sarà la prova! la grande prova in nome d’Italia!». Quando il sindaco si affacciò al balcone contornato da bandiere rosse davanti a una numerosa folla, un gruppo di fascisti forzò il cordone di sorveglianza e si mescolò alla folla sparando colpi di rivoltella. Mentre esplose il panico fra la folla, dal palazzo furono lanciate alcune bombe, che uccisero alcune persone e ne ferirono oltre cinquanta, mentre nella sala del consiglio cadeva sotto i colpi di pistola un consigliere nazionalista, mutilato di guerra72. Il governo decise di sciogliere il consiglio comunale e nominare un commissario prefettizio. I fascisti bolognesi, protestando di essere vittime di un’aggressione, diedero inizio alla rappresaglia. «Da quel giorno a Bologna e nella provincia – scriveva il prefetto all’inizio del 1921 – si hanno a deplorare una serie di fatti e di incidenti, triste conseguenza della lotta ingaggiata e che purtroppo non accenna ancora ad aver fine. E l’esempio di Bologna trova pronti imitatori in tutte le città dell’Emilia, ed in molti altri centri importanti di Italia»73. Il 20 dicembre, a Ferrara, durante una dimostrazione fascista contro l’amministrazione socialista, rimasero uccisi tre fascisti e un socialista. Le associazioni dei mutilati, dei reduci, dei proprietari, dei commercianti e degli esercenti si unirono ai fascisti, al partito popolare e ai nazionalisti, per inviare al governo un telegramma di protesta contro il partito socialista. La minoranza del consiglio si dimise reclamando le dimissioni dell’ammini-

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strazione rossa74. Da quel momento, Ferrara divenne un nuovo centro propulsore dell’offensiva squadrista, scatenata contro le organizzazioni operaie della provincia. Simultaneamente, l’offensiva squadrista esplose in altre provincie e regioni della pianura padana, nel Veneto, nella Toscana, nell’Umbria e in Puglia, senza che nessuno l’avesse prevista, nemmeno il fondatore dei Fasci di combattimento, che da Milano assisteva al rapido dilagare di un movimento sostanzialmente nuovo, anche se nel nome e nei simboli si richiamava al movimento da lui fondato nel marzo 1919. In pochi mesi, sull’onda dell’offensiva squadrista, gli zingari della politica si trasformarono in movimento di massa, che proseguì la guerra civile eleggendosi a milizia della nazione.

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La milizia della nazione

Come il fascismo divenne un movimento di massa e si pose alla guida della reazione antisocialista arrogandosi il monopolio del patriottismo, e come superò una grave crisi interna trasformandosi in partito politico, con l’ambizione di arrivare al potere.

Fascismo di massa Dopo i sanguinosi fatti di Bologna e Ferrara, l’offensiva antisocialista dello squadrismo si svolse con straordinaria virulenza e rapidità. «Basterà fissare che è tra gli ultimi del 1920 ed i primi dell’anno in corso che si è cominciato a verificare questa guerra civile», scriveva nel giugno 1921 il direttore generale della pubblica sicurezza Giacomo Vigliani, delineando un quadro sintetico della «rapida ascesa della organizzazione fascista, che in alcune regioni soprattutto è veramente notevole»1. Se il Comitato Centrale, promotore e propulsore del movimento, risiedeva a Milano, la vera culla del fascismo fu l’Emilia, che era stata teatro delle più aspre lotte economiche. Bologna, Ferrara, Modena e Reggio furono le provincie più travagliate dalle agitazioni fasciste: poi le agitazioni stesse dilagavano in alcune provincie finitime del Piemontese (Alessandria, Novara), della Lombardia (Mantova, Cremona, Milano), del Veneto (Venezia, Padova, Rovigo, Verona), si trasferivano, più accentuate e più dolorose nei loro effetti, in un’altra regione, pur essa di recente travagliata da agitazioni agrarie: la Toscana. Dal contagio non si salvarono l’Umbria, la Romagna ed il Lazio. Nel meridionale [sic] qualche focolaio nelle Puglie (Bari, Foggia) dove pure le lotte agrarie erano state vive, e nel Napoletano. Quasi immuni la Sicilia e la Sardegna.

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Non sarebbe facile (né ciò è il compito di queste brevi note) esporre, sia pure in modo riassuntivo i vari fatti di quest’ultimo doloroso periodo. Del resto tutti si rassomigliano: sono incursioni compiute sopra autocarri da fascisti armati dirette a punire (con invasioni e distruzioni di circoli, di leghe e di cooperative, con sequestri di persone, con intimidazioni e violenze soprattutto contro i capi avversari) veri o presunti atti offensivi ed ingiusti compiuti da avversari socialisti, comunisti o popolari; sono le vendette di questi ultimi contro i primi: sono conflitti fra le due parti che hanno termine, quasi sempre, con numerosi feriti e con morti. Basterà fissare che è tra gli ultimi del 1920 ed i primi dell’anno in corso che si è cominciato a verificare questa guerra civile [...] Le spedizioni fasciste, le quali, come si è visto vengono eseguite facendo largo uso degli autocarri, offrono quest’altra caratteristica che si rivolgono cioè contro le sedi dei circoli e delle leghe socialiste per distruggerle. Tale tattica è in seguito, cosa più grave e dolorosa, condotta contro le cooperative che sorte in gran parte per opera dei socialisti, esplicano benefico effetto sull’economia nazionale. L’offensiva dello squadrismo fu giustificata come reazione alle violenze dei socialisti. Tuttavia, come osservò una rivista repubblicana non simpatizzante per l’estremismo socialista, era «un metodo tutto fascista quello d’incendiare un edificio, di devastare un locale, di distruggere documenti e carte private o di revolverare un cittadino per semplice rappresaglia. E questo metodo, a cui i socialisti non erano ancora arrivati – è una verità che bisogna pure riconoscere – è adesso adottato come metodo generale di lotta, senza riguardi a partiti, a uomini, a idee»2. Vittime della violenza politica nei primi mesi dell’offensiva squadrista, secondo i dati del ministero dell’Interno, furono soprattutto socialisti e militanti dei partiti non fascisti: dall’11 gennaio al 7 aprile 1921 i morti socialisti furono 41, i fascisti 25, gli estranei 41, e 20 fra gli agenti della forza pubblica; i feriti furono 123 socialisti, 108 fascisti, 107 estranei e 50 agenti3. Sospinto dal successo dell’offensiva squadrista, in circa sei mesi il fascismo s’ingrossò rapidamente, diventando un movimento di massa, composto in larga parte, nei capi e nei gregari, da ceti medi nuovi alla politica4. Fra ottobre e novembre del 1920, le iscrizioni ai Fasci erano state 1.065, a fine dicembre erano balzate

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a 10.860, su complessivi 20.165 iscritti in 88 sezioni. Tre mesi dopo, a fine marzo, le sezioni erano salite a 317 e gli iscritti a 80.476; un mese dopo, le sezioni aumentarono a 471, con 98.298 iscritti; a fine maggio, le sezioni erano più che raddoppiate, arrivando a 1.001 con 187.588 iscritti. L’espansione fascista avvenne soprattutto nel Nord, dove a fine maggio gli iscritti erano 114.487, mentre nel Sud erano 44.397 e nel Centro 28.704. Queste cifre riflettono altresì situazioni molto diverse: nel Nord l’espansione avvenne soprattutto nelle provincie della Valle Padana, nel Sud la maggior parte degli iscritti era in Puglia (17.621) e in Campania (11.149), mentre gli iscritti dell’Italia centrale erano concentrati prevalentemente in Toscana (14.340)5. Indulgenza e connivenza Il successo dell’offensiva squadrista fu favorito da prefetti, questori, funzionari di polizia, ufficiali dell’esercito, agenti, carabinieri, guardie regie e magistrati, che simpatizzavano con i fascisti condividendone il patriottismo e l’antisocialismo6. Furono rari i casi in cui la forza pubblica impedì o reagì contro la violenza fascista. La tolleranza e la connivenza delle autorità locali erano condannate dal governo, ma non per questo cessarono. Giolitti esigeva dai prefetti la prevenzione e la repressione delle spedizioni squadriste7. Ma i provvedimenti non furono efficaci, e ciò non solo per carente applicazione da parte delle autorità locali, ma anche per l’ambiguità della stessa politica giolittiana verso i fascisti. Giolitti considerava il fascismo un fenomeno contingente generato dalla guerra, che poteva però essergli utile per indebolire i socialisti e i popolari, e s’illudeva di poterlo controllare, ritenendo impossibile reprimerlo con la forza, perché, disse alla Camera il 26 giugno 1921, con i suoi 187.000 iscritti, il fascismo non era «una questione pura di polizia» ma «una questione altissima che va risolta in Parlamento. Ora il Governo si trova di fronte a questo fenomeno, nelle stesse condizioni in cui si trovò di fronte all’occupazione delle fabbriche. Allora il Governo credette suo dovere di non intervenire con la violenza. E mi lodo di non averlo fatto. Io procedo con lo stesso sistema, che ho seguito allora, e non ricorro alla violenza se non nei limiti della legge»8. Convinto di poter di-

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sarmare il fascismo favorendo il suo ingresso in parlamento, mentre ordinava ai prefetti di non tollerare la violenza squadrista, Giolitti accoglieva i fascisti nei Blocchi nazionali, che egli patrocinò per le elezioni politiche del maggio 1921, concludendo un’intesa con Mussolini, che si era dichiarato favorevole fin dall’inizio al governo Giolitti9. Su un’ottantina di candidati fascisti, 35 furono eletti. Mussolini ebbe un trionfo personale risultando eletto con 197.670 voti a Milano e con 173.343 voti a Bologna10. Durante le elezioni, la violenza squadrista continuò a imperversare. All’inizio della campagna elettorale, Giolitti aveva ordinato ai prefetti di garantire assoluta libertà di pensiero e di voto, impedendo ogni violenza. Nonostante ciò, il periodo delle elezioni fu uno dei più sanguinosi del dopoguerra: nel solo giorno delle votazioni, il 15 maggio, i morti furono 28, di cui 10 fascisti, 7 socialisti, 11 fra estranei e forza pubblica, mentre i feriti furono 104, di cui 37 fascisti, 26 socialisti, 38 estranei e 3 agenti. Il giorno successivo, furono uccisi 10 socialisti, 2 fascisti, 2 estranei, un agente, mentre i feriti furono 34 socialisti, 14 fascisti, 16 estranei e 4 agenti. Nei giorni fra il 16 e il 31 maggio, furono uccisi 31 socialisti, 16 fascisti, 20 estranei e 4 agenti; furono feriti 78 socialisti, 63 fascisti, 56 estranei e 19 agenti11. Dopo l’ingresso dei deputati fascisti in parlamento, la violenza squadrista continuò, così come continuarono le collusioni fra fascisti e forza pubblica. Come riferiva il direttore generale della pubblica sicurezza Vigliani nella relazione già citata, una inchiesta confermò la connivenza di funzionari locali con i fascisti, tanto che il governo prese «i provvedimenti del caso trasferendo i funzionari che si erano mostrati deficienti od inetti, punendo i colpevoli, provocando dai comandi competenti il trasloco o la punizione di quegli ufficiali dell’Arma CC.RR. o del Corpo delle Regie Guardie che avevano tenuto di fronte ai fascisti un contegno non del tutto parziale [sic], segnalando al Ministero della Guerra gli ufficiali dell’esercito che avevano partecipato a spedizioni di fascisti o comunque avevano favorito le loro imprese». Le dimensioni della connivenza erano probabilmente rilevanti, se tutti i reparti di carabinieri «di stanza a Bologna, Ferrara, Modena, Reggio Emilia, Parma, Rovigo, Firenze, Arezzo, Siena furono completamente cambiati. Lo stesso provvedimento fu applicato per alcuni reparti della regia guardia». Inoltre furono trasferiti i titolari di questura «che avevano dimo-

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strato di non possedere la fermezza e la prontezza richieste dalla non facile situazione»: «Vennero così traslocati oltre i questori di Bologna, Modena e Ferrara quelli di Bari, di Arezzo e di Ravenna. Anche 5 commissari e 5 vice commissari vennero per la stessa ragione traslocati e tre puniti. E tutti coloro che avevano dato prova di non volere o di non sapere compiere interamente il loro dovere furono inesorabilmente colpiti». Vigliani riteneva che questi provvedimenti fossero efficaci, tanto da affermare, all’indomani delle elezioni, che il movimento fascista «sembra ormai seguire la parabola discendente in quella parte della sua manifestazione che esce dai confini della legge». Ma la previsione era errata. Infatti, la situazione dell’ordine pubblico non migliorò nei mesi successivi, anzi peggiorò quando la guida del governo passò a Ivanoe Bonomi, dopo le dimissioni di Giolitti il 27 giugno, sfiduciato dagli stessi deputati fascisti che aveva contribuito a portare in parlamento12. Le violenze squadriste ripresero con più virulenza, mentre la connivenza fra autorità locali e fascisti aggravava l’immagine di debolezza dello Stato, come riconosceva lo stesso Bonomi in una conversazione con Turati, e da questi riferita alla Kuliscioff il 25 settembre 1921: il presidente del Consiglio ammetteva «le constatazioni di impotenza che conosciamo già, i progetti che non valgono nulla, gli agenti e i carabinieri che fascistizzano maledettamente, il Consiglio di disciplina composto magari di generali che, se denunciati, li assolve; la magistratura, fascistissima anch’essa, che gli fa cilecca, ecc. ecc.»13. Mentre l’offensiva squadrista era al culmine, gruppi di antifascisti cercarono di reagire creando proprie organizzazioni paramilitari. I comunisti crearono in varie città, Torino, Milano, Roma, Novara, Genova, Trieste, un’organizzazione illegale di squadre armate per la difesa delle sedi del partito comunista e la protezione delle sue manifestazioni, ma anche per attuare rappresaglie contro i fascisti14. I comunisti, dal canto loro, non rifiutavano la guerra civile, ritenendo che fosse il preludio necessario alla conquista rivoluzionaria del potere da parte del proletariato15. Inoltre, nell’estate del 1921 furono costituiti a Roma, Torino, Genova, Milano, Parma e in altre città, gli Arditi del popolo, gruppi paramilitari di anarchici, repubblicani, socialisti e comunisti, per difendere le organizzazioni del proletariato dagli assalti squadristi e combattere i fascisti con i loro stessi metodi violenti16.

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Le aggressioni ai fascisti furono il pretesto per scatenare nuove offensive squadriste: tuttavia, come osservava Labriola, gli eccessi della violenza fascista non potevano essere giustificati con gli eccessi della violenza socialista perché gli eccessi del fascismo «stanno a quelli del socialismo come 10.000 a 1»17. Anche fra i fascisti vi era chi, come il giurista Adolfo Zerboglio, riconosceva che il fascismo era responsabile di una «quantità di atti di estrema violenza, battendosi con gli avversari malmenati, feriti, uccisi, distruggendo ed incendiando sedi di Camere del lavoro, locali di circoli sovversivi, bandiere ed emblemi, compiendo spedizioni punitive, ed umiliando propagandisti, consiglieri e deputati sovversivi»18. Per arginare il dilagare di una guerra civile, Bonomi tentò una pacificazione fra socialisti e fascisti, cercando di far leva su Mussolini, che si mostrò subito propenso ad accoglierla19. Il bolscevismo è vinto, ma il fascismo può perdere Inorgoglito dall’imprevisto successo del movimento che si richiamava ai Fasci di combattimento da lui fondati, Mussolini era nello stesso tempo preoccupato per il suo futuro, perché si rendeva conto che il nuovo fascismo di massa, cresciuto tumultuosamente sull’onda della violenza squadrista, avrebbe potuto disgregarsi con la stessa rapidità con la quale si era aggregato, mancando di unità e di coesione. Un primo segnale di questo pericolo fu la polemica suscitata nel fascismo dalla dichiarazione sull’orientamento repubblicano dei Fasci, fatta da Mussolini subito dopo le elezioni, ma avversata dalla maggioranza dei deputati fascisti20. Molto più grave fu la crisi che esplose nelle file fasciste durante l’estate, quando i capi dello squadrismo si ribellarono contro l’iniziativa mussoliniana di sottoscrivere un patto di pacificazione con i socialisti e di smobilitare l’organizzazione paramilitare per dare un nuovo assetto politico al movimento fascista. In pochi giorni, nell’agosto del 1921, la ribellione antimussoliniana degli squadristi portò il fascismo sull’orlo della disgregazione21. All’origine dell’iniziativa pacificatrice di Mussolini vi fu la percezione che il fascismo fosse esposto al rischio di isolamento, perché l’uso della violenza non appariva più giustificabile all’opinione pubblica borghese, ora che la paura della rivoluzione bolscevica

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si stava dileguando, in Italia come nel resto d’Europa22. Lo stesso Mussolini scriveva il 2 luglio che il «bolscevismo alla russa è liquidato. [...] Una o due, o anche altre sette possono dedicarsi a predicarlo, ma ormai il mito leninista è scomparso dall’orizzonte della coscienza proletaria. I segni abbondano»; e aggiunse: «dire che un pericolo ‘bolscevico’ esiste ancora in Italia significa scambiare per realtà certe oblique paure. Il bolscevismo è vinto. Di più: è stato rinnegato dai capi e dalle masse». Di conseguenza, erano venute meno le condizioni che avevano provocato la violenta reazione squadrista: «noi pensiamo che la guerriglia civile si avvia all’epilogo e che non è lontano il giorno in cui sarà scritta la parola ‘fine’ a questo capitolo della nostra storia», perché la guerriglia civile «non può, non deve divenire una specie di caratteristica della vita italiana»23. Svanito il pericolo della rivoluzione sociale, la stampa borghese invocò il ripristino dell’ordine pubblico nel rispetto della legge da parte di tutti. Il «Corriere della Sera» deplorò il 14 giugno 1921 l’esordio violento dei deputati fascisti alla Camera, dove avevano aggredito il deputato comunista Misiano impedendogli di entrare a Montecitorio24. Mussolini non sconfessò l’aggressione fascista, ma precisò che si trattava di un episodio isolato che «non deve esser interpretato come un sistema»25. E nel suo primo discorso alla Camera, deprecò la guerra civile, dovuta al fatto che «tutti i partiti tendono a formarsi, a inquadrarsi in eserciti», e rivolse un appello ai socialisti: «La violenza non è per noi un sistema, non è un estetismo, e meno ancora uno sport: è una dura necessità alla quale ci siamo sottoposti. E aggiungo anche che siamo disposti a disarmare, se voi disarmate a vostra volta, soprattutto gli spiriti»26. Squadristi contro Mussolini Ma gli squadristi continuarono la pratica della violenza contro tutti i partiti avversari, mentre proseguivano le occupazioni delle città. Il 9 luglio gli squadristi romani occuparono Viterbo. Il 12 migliaia di squadristi provenienti da Padova e da Bologna invasero Treviso e distrussero la sede del partito repubblicano e quella di un giornale del partito popolare. Solo in un caso si scontrarono con la forza pubblica e rimasero soccombenti. Il 21 luglio, circa cinquecento squadristi si radunarono a Sarzana, in provincia di

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La Spezia, per ottenere la scarcerazione di alcuni fascisti imprigionati per precedenti violenze, ma incontrarono la decisa resistenza dei carabinieri, che aprirono il fuoco: alcuni fascisti caddero morti o feriti, altri si dispersero per le campagne, dove furono inseguiti dalla popolazione e trucidati: diciotto morti e una trentina di feriti furono le perdite fasciste27. Cinque giorni dopo gli squadristi sfogarono la loro vendetta a Roccastrada, in Maremma, facendo tredici morti e una ventina di feriti, e incendiarono le abitazioni del sindaco e dei consiglieri che avevano rifiutato di dimettersi28. Questi episodi rafforzarono in Mussolini il proposito di cercare una soluzione che ponesse fine alla guerra civile. Egli pensava, inoltre, che il fascismo dovesse chiudere la fase del movimento di combattimento per trasformarsi in un partito politico29. Infine, con la proposta della pacificazione, perseguiva anche uno scopo personale: imporre la propria autorità di fondatore e duce del fascismo sulla massa d’uomini nuovi, che si era aggregata sotto il simbolo dei Fasci attraverso la mobilitazione squadrista. Quando il 2 agosto fu firmato il patto di pacificazione fra il movimento fascista e il partito socialista, esplose la rivolta contro Mussolini degli squadristi, capeggiati da Roberto Farinacci, Italo Balbo, Leandro Arpinati, Bernardo Barbiellini Amidei, Giuseppe Bastianini, Renato Ricci, Pietro Marsich e Dino Grandi, un ventiquattrenne fascista bolognese che divenne il portavoce dei ribelli30. Gli squadristi rifiutarono di riconoscere in Mussolini il fondatore e il duce del fascismo, sostenendo che il fascismo era nato in Emilia e non a Milano; che il suo duce spirituale era D’Annunzio; e che il patto di pacificazione era un tradimento ai danni del fascismo. Mussolini rispose violentemente sul suo giornale: il 7 agosto scomunicò i ribelli accusandoli di provincialismo; si scagliò contro il «cattivo fascismo», diventato movimento terroristico al servizio degli agrari, circondato da un «cerchio d’odio», e minacciò di abbandonare il fascismo: «Il fascismo può fare a meno di me? Certo, ma anch’io posso fare a meno del fascismo. C’è posto per tutti in Italia: anche per trenta fascisti, il che significa, poi, per nessun fascismo»31. La scomunica mussoliniana non intimorì i ribelli, che il 16 agosto organizzarono a Bologna una grande adunata, dove, secondo quanto riferiva il prefetto, proposero di costituire un «blocco fascista Veneto-Emiliano-Romagnolo-Toscano-Marchigiano-Umbro con quotidiano proprio» e criticarono «assai acremente l’On.

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Mussolini»32. Mussolini reagì dimettendosi dal comitato centrale: «La partita è ormai chiusa», dichiarò il 18 agosto: «Chi è sconfitto deve andarsene. Ed io me ne vado dai primi posti. Resto, e spero di poter restare, semplice gregario del Fascio Milanese»33. Intanto, gli squadristi andavano in giro cantando «chi ha tradito tradirà» alludendo ai trascorsi socialisti di Mussolini. Il duce cede, lo squadrismo vince Gli antifascisti videro nella ribellione antimussoliniana la fine del fascismo. L’«Avanti!» commentò sarcasticamente le dimissioni di Mussolini: «Che il duce, che non è riuscito a scompaginare il socialismo, riesca a sfasciare il fascismo? O via, vediamo se ci riesce, e voi, fascisti, forza alla macchina contro il traditore»34. Venti giorni dopo aggiungeva: «La crisi del fascismo c’è, ed è profonda, insanabile, così tanto che deve inevitabilmente sboccare nella scissione netta precisa. [...] Più che la crisi è dunque lo sfacelo, nel momento stesso che il fascismo definisce il suo essere vero prettamente rea­ zionario, ingannatore, criminale»; insomma «il fascismo sta per finire di essere». Anche i comunisti pensarono che la frattura fra «fascismo milanese» e fascismo agrario fosse inevitabile: «Il movimento fascista si avvia a grandi passi verso la scissione», scriveva Antonio Gramsci il 26 agosto su «L’Ordine Nuovo»35. Le dimissioni di Mussolini disorientarono i ribelli. Pasella scrisse a Grandi, Farinacci e Balbo esortandoli a mandare un messaggio di solidarietà a Mussolini36. Farinacci e Balbo invitarono Mussolini a ritirare le dimissioni, dichiarando che l’adunata di Bologna era stata contro il trattato di pacificazione, non contro di lui. Fascisti da tutt’Italia mandarono messaggi di solidarietà a Mussolini, che li pubblicò vistosamente su «Il Popolo d’Italia». Forse queste manifestazioni di solidarietà e soprattutto il rifiuto di D’Annunzio di assumere la guida del fascismo, come gli era stato proposto dai capi ribelli, persuasero questi ultimi a non spingere oltre la rivolta, sapendo che nessuno di loro poteva sostituire Mussolini alla guida del fascismo; ma non erano neppure disposti a rinunciare all’organizzazione armata e ai metodi violenti dello squadrismo37. I primi passi verso la riconciliazione li fece Mussolini, quando si rese conto che stava rischiando grosso. Forse ripensò all’espe-

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rienza del 1914, quando si era illuso di convincere i socialisti a seguirlo sulla via dell’interventismo, per ritrovarsi alla fine espulso dal partito, accusato di tradimento e senza un seguito di massa col quale soddisfare la sua ambizione di potere. Ora che era nuovamente alla testa di un movimento di massa, non voleva rischiare di perderlo, rendendosi conto che la disgregazione del fascismo sarebbe stata probabilmente la sua fine politica. E così decise di cedere, pur facendo finta di nulla concedere. Il 23 agosto Mussolini rilanciò la proposta di trasformare il movimento fascista in un partito politico, ma conservando l’organizzazione militare38. Alla proposta mussoliniana seguirono tre mesi di discussioni e di trattative fra Mussolini e i capi della rivolta. La proposta fu dibattuta in numerosi congressi e adunate locali, e alla fine fu accettata39. Nel frattempo, gli squadristi ripresero l’offensiva contro le organizzazioni del proletariato e contro le amministrazioni socialiste per costringerle a dimettersi. Il 12 settembre, nell’anniversario dell’inizio dell’impresa di D’Annunzio, Balbo e Grandi organizzarono una spettacolare «marcia su Ravenna» con 3.000 squadristi, provenienti da Bologna e da Ferrara: dopo aver camminato tre giorni, gli squadristi occuparono la città, resero omaggio alla tomba di Dante, e devastarono la Camera del lavoro, i circoli socialisti, la sede della Federazione delle cooperative, facendo sulla pubblica piazza un rogo di carte, documenti, giornali, quadri, panche e libri, raccolti dai locali devastati. Due anni dopo, rievocando l’occupazione di Ravenna, Balbo disse: «Fu nel settembre del 1921, che lo squadrismo fascista di difesa prese una regolarissima forma militare. [...] Era quello un piccolo esercito che aveva marciato per tre giorni sulle vie polverose. [...] Era un esercito di studenti e contadini, lieto della faticosa marcia che gli donava l’applauso della popolazione attonita e la gioia della conquista. [...] Era la forza rivoluzionaria e militare del Fascismo [...] che per la prima volta si manifestava. L’esperimento era riuscito completamente. Lo squadrismo poteva trasformarsi da fenomeno locale in fenomeno nazionale: mancavano soltanto i capi e i gregari»40. L’esigenza di dare un ordinamento nazionale allo squadrismo fu accelerata dalla constatazione che la crisi del fascismo aveva incoraggiato la formazione di organizzazioni paramilitari antifasciste, considerate «segni non indubbi di idee di riscossa violenta da parte dei nemici della Patria», come affermava il comandante degli

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squadristi senesi in una circolare del 20 settembre, con la quale dava disposizioni precise sull’organizzazione delle squadre e sul loro impiego, troppo spesso lasciato a iniziative estemporanee41. Attenendosi a norme concordate probabilmente con il comitato centrale dei Fasci, le squadre dovevano essere formate da giovani di età non inferiore a diciotto anni, i quali «per provato coraggio, per adattamento fisico, per conosciuta serietà e fede, possano dare sicuro affidamento per assolvere i compiti affidati alle squadre d’azione». Ogni squadra doveva essere composta di 13 fascisti, e solo nei capoluoghi da 22, compresi gli alfieri e i capisquadra. «I fasci che potranno formare due o più squadre, affideranno ad una sola di esse il compito delle spedizioni militari fuori sede e le azioni di indole più delicata, di maggiore responsabilità e di maggior pericolo». La squadra prescelta doveva «prendere la denominazione Disperata» ed esser formata da giovani che «abbiano compiuto il servizio militare in periodo di guerra ed abbiano già prestato servizio in altre squadre fasciste». «Le altre squadre prenderanno simboli e nomi a piacimento; saranno adibite a servizi ed azioni locali, rappresentanza ecc. Potranno partecipare a spedizioni fuori sede solamente in caso di bisogno urgentissimo e assoluto. Ogni fascio avrà cura di conoscere i mezzi di locomozione esistenti nelle proprie località tenendo ben presenti quelli disponibili per eventuali movimenti delle proprie squadre d’azione. Il fascio che chiede rinforzi si impegna a pagare le spese sostenute per la spedizione (viaggio, vitto, alloggio) salvo decisione contraria [per] ordini superiori. I fascisti delle squadre d’azione dovranno avere tutti un’uniforme consistente in maglia e camiciotto con i distintivi e i simboli d’uso. La disciplina delle squadre deve essere assoluta. Ogni squadra avrà il suo capo squadra, ed ogni fascio un comandante di tutte le proprie squadre. Inesorabilmente dovranno essere colpiti quei fascisti che dimostrino poca serietà, titubanze nel momento del pericolo, indisciplina, ecc.». Gli ordini di movimento, impartiti dal comando, dovevano «essere eseguiti a costo di qualunque sacrificio, poiché essi significheranno sempre la imprescindibile necessità o l’urgente bisogno». Inoltre, le squadre d’azione dovevano essere mantenute in allenamento e in piena efficienza, con «opportune esercitazioni militari, ginnastica, passeggiate domenicali, ecc. Ogni appartenente alle squadre d’azione non

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potrà esimersi dall’intervenire con la massima rapidità possibile alle adunate della propria squadra; le mancanze al riguardo, sempre che non siano giustificate da gravissimi motivi, dovranno essere energicamente ed esemplarmente punite. Al riguardo, i Comandanti delle squadre d’azione pongano cura nello studiare, ciascuno per la propria località, il mezzo più rapido e più pratico per effettuare, di giorno e di notte, l’adunata dei propri uomini». Le squadre d’azione divennero l’organizzazione fondamentale del nuovo partito nazionale fascista: la costituzione del partito fu decisa al congresso nazionale dei Fasci, che si svolse a Roma dal 7 all’11 novembre42. La capitale, che tre giorni prima dell’apertura del congresso fascista aveva ospitato una grandiosa cerimonia patriottica per la tumulazione della salma del Milite Ignoto nell’Altare della Patria, con la partecipazione di centinaia di migliaia di persone, non fece buona accoglienza ai 10.000 fascisti giunti per il congresso. Il fascismo romano non aveva molti militanti. Per bloccare i treni che portavano i fascisti nella capitale, i socialisti proclamarono lo sciopero generale; ci furono incidenti e scontri violenti, e pochi romani assistettero curiosi al corteo fascista dopo la chiusura del congresso43. Il 15 novembre, prendendo a pretesto lo sciopero generale nella capitale e le aggressioni ai fascisti nei giorni del congresso, Mussolini dichiarò che il patto di pacificazione era «morto e sepolto»44. Il 27 dicembre, «Il Popolo d’Italia» pubblicava il programma e lo statuto del PNF, definito «una milizia volontaria posta al servizio della nazione» che svolgeva la sua attività «poggiando su tre cardini: ordine, disciplina, gerarchia». Il fascismo era definito un «organismo politico, economico, di combattimento», con la precisazione che nel «campo dell’organizzazione di combattimento il Partito Nazionale Fascista forma un tutto unico colle sue squadre, Milizia volontaria al servizio dello Stato nazionale, forza viva in cui l’idea fascista s’incarna e con cui si difende»45. Milizia fascista La direzione del PNF affidò l’incarico di elaborare il nuovo ordinamento delle squadre a un comando generale, formato da quattro ispettori generali, ciascuno per una delle quattro zone in cui

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fu suddivisa l’Italia, nominati dal comitato centrale del PNF. A tale carica furono nominati Asclepia Gandolfo, tenente generale in posizione ausiliaria speciale, come ispettore per la prima zona (Piemonte, Liguria e Lombardia, escluso il Mantovano); Italo Balbo per la seconda zona (Emilia-Romagna, Mantovano, Marche, le Tre Venezie e la Dalmazia); il tenente Ulisse Igliori per la terza zona (Abruzzo, Umbria, Lazio, Campania e Sardegna) e Dino Perrone Compagni per la quarta zona (Toscana, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia). In attesa di riunirsi con gli altri ispettori presso la sua villa a Oneglia, il 28 dicembre Gandolfo inviò al segretario del PNF uno schema di ordinamento modellato sulla legione romana, proponendo la suddivisione dei fascisti in «Principi» e «Triari», così da avere «due schiere, una pronta all’impresa, l’altra considerata come riserva da impiegarsi solamente nei casi disperati»46. Il generale aveva premesso al suo schema un preludio nel quale si affermava che i fascisti «non sono armati e non devono portare armi. Sono per i Fascisti armi potenti di lotta civile la coscienza di servire gli interessi della Nazione e la loro disciplina, che proviene dall’accettazione volontaria di una dipendenza graduata e dal riconoscimento di un’organizzazione gerarchica. [...] Le squadre di Principi sono squadre che si dedicano a tutti gli esercizi sportivi per sviluppare le energie morali e le attitudini fisiche e per mantenere in tutti viva l’abitudine alla disciplina collettiva. I Principi quindi prendono parte a tutte le manifestazioni sportive della propria regione»47. Il nuovo regolamento fu preparato all’inizio di gennaio: «Da tre giorni a Oneglia dal generale Gandolfo – annotava Balbo nel diario l’8 gennaio – assieme a Dino Perrone Compagni. Abbiamo buttato le basi dell’organizzazione delle squadre in ‘Milizia Fascista’. Domani parto per presentare il lavoro a Mussolini e alla Direzione del Partito»48. Nel testo definitivo, compilato dal generale dopo molteplici correzioni, non c’era alcun riferimento all’armamentario delle squadre di combattimento, ma scomparve anche l’affermazione che i fascisti «non sono armati e non devono portare armi». Fu adottata la distinzione in Principi e Triari. I Principi erano volontari «dipendenti dall’organizzazione di combattimento fascista», istituiti «per dare al Partito la caratteristica, sancita dagli Statuti, d’essere il Fascismo una milizia civile al servizio della Na-

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zione»; prima di essere arruolati, i militi dovevano prestare un giuramento solenne: «Nel nome di Dio e dell’Italia, nel nome di tutti i Caduti per la grandezza dell’Italia, giuro di consacrarmi tutto e per sempre al bene d’Italia». Non si parlava esplicitamente di armamento dei militi, ma che i Principi dovessero essere armati era però implicito nella definizione dei compiti che erano chiamati a svolgere, non solo «quando sia necessario far mostra di disciplina e di forza, o per gravi calamità pubbliche», ma quando dovevano «tutelare il Partito dalle violenze di altri partiti», e «quando la forza dello Stato si mostri deficiente o inadatta agli scopi». I Principi avevano una propria uniforme, composta di camicia nera, fascia nera alla cintola o cintura di cuoio, pantaloni con fasce, gambali o calzettoni, mentre era facoltativo il fez. Modellati, «per quanto è applicabile, sull’organizzazione militare Romana», invece dei manipoli i Fasci costituivano le squadre: «la squadra ha ormai la sua tradizione di sacrificio e di gloria». Le squadre erano composte da 20 a 50 uomini, ed erano suddivise in squadriglie di quattro uomini ciascuna, uno dei quali era il capo, mentre la squadra era comandata da un caposquadra e da due vicecapisquadra, i decurioni; quattro squadre formavano la centuria, comandata dal centurione; quattro centurie formavano la coorte, comandata dal seniore, e le coorti, da tre a nove, formavano la legione comandata da un console, che era il capo organizzatore della propria legione. Le legioni avevano come insegna l’aquila romana portata su di un’asta, ed erano libere di «adottare piccoli fregi o distintivi propri, previa autorizzazione del Comando Generale». I capi portavano nelle manopole della camicia i distintivi di grado, in cordoncino bianco per i capisquadriglia, in cordoncino d’oro per gli altri gradi. I consoli portavano il fascio littorio sormontato dalla stella d’Italia, in ricamo d’oro, su campo rosso, mentre gli ispettori generali portavano l’aquila romana in ricamo d’oro su campo d’argento. Al vertice della gerarchia vi era il comando generale, al quale competeva «mantenere uniformità di disciplina e di metodi, ed emanare quelle disposizioni d’indole generale (direttive) che debbono essere osservate da tutti»; era «il supremo consesso» al quale ricorrevano i consoli «nelle controversie e per decidere in ultima istanza gravi questioni disciplinari», e ad esso competeva «senza diritto di appello, la ratifica e la revoca dei diversi Comandi della Legione». L’organizzazione dell’esercito fascista era regolata dal-

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la massima disciplina, con pene morali per gli inadempienti, che variavano dal semplice rimprovero orale fino all’espulsione per gli incorreggibili, ma per ogni pena era consentito reclamo presso i consoli. Tutti i gradi erano elettivi, anche se si poteva derogare da tale regola «nei primordi della nuova organizzazione, e quando si palesi l’utilità di lasciare che uomini già provati assumano la direzione, per delega dei direttori dei singoli Fasci e delle Federazioni provinciali e con l’approvazione del Comando Generale». Di conseguenza, i Principi eleggevano i primi gradi della gerarchia, e questi a loro volta eleggevano i gradi successivi. I veri capi dell’organizzazione erano i consoli, ai quali spettava emanare norme, sorvegliare l’andamento tecnico, disciplinare e morale della legione. Nell’ambito regionale essi godevano della «massima autonomia» perché non si voleva «per mania d’uniformità e d’accentramento, distruggere tutto ciò che di buono e di bello è già stato creato o forma oggetto d’una tradizione regionale». Per quanto riguardava i rapporti gerarchici nelle azioni squadriste, le direttive prevedevano che i consoli riferissero al comando generale e all’ispettore generale di zona «solamente su questioni gravi e su tutte quelle altre questioni che interessano l’uniformità di indirizzo dell’organizzazione militare fascista». Nel caso che «gravi avvenimenti turbassero un paese o una provincia», i comandanti dovevano avvertire l’ispettore generale che doveva assumere personalmente la direzione di eventuali azioni squadriste. Ma in queste circostanze, per difendere le loro prerogative, i segretari politici locali potevano far appello allo statuto del partito, che subordinava il comando delle squadre al direttorio politico. Il criterio di lasciare massima autonomia all’organizzazione regionale nell’applicazione delle norme generali era stato formalmente suggerito «dal desiderio d’individuare con carattere proprio l’organizzazione della propria regione», ma in pratica era un adattamento di ripiego alla realtà di un apparato militare fascista, che era ancora un’aggregazione eterogenea di squadrismi locali, formati da «guerrieri» che non erano disposti a rinunciare alla loro autonomia di iniziativa e di azione, e ancor meno erano pronti a sottoporsi con disciplina al comando dei «politici». Un dirigente del fascismo genovese scriveva il 28 gennaio al generale Gandolfo per chiedergli un incontro, al fine di avere chiarimenti sul regola-

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mento «per disciplinare un po’ il sistema che va imperando, ognuno di fare ciò che meglio crede. Qui si chiede di fare uso di un bastone, che stia nei limiti della legge, ma uniforme, ma io, in una recente assemblea, diedi ordini tassativi di attendere gli ordini che saranno emanati dai Comandi Generali, nominati espressamente per lo studio e la compilazione del Regolamento»49. Ma neanche i dirigenti politici erano disposti a cedere agli ispettori generali la decisione e il comando delle azioni squadriste. Di ciò si era reso conto Perrone Compagni, quando assunse il comando delle squadre fiorentine per organizzare una rappresaglia, in seguito al ferimento di un fascista: il segretario provinciale, riferiva Perrone Compagni a Balbo il 14 gennaio, «si è ribellato ed ha detto che egli ha la responsabilità politica etc. etc. Io ho proseguito e la disciplina è rientrata, le azioni sono state belle e il Segretario Provinciale ha riconosciuto di aver fatto male. Ma ciò non è che indizio che quello avvenuto qui si ripeterà altrove e continuamente»50. Per questo motivo, l’ispettore toscano espresse forti perplessità sul criterio dell’elettività dei gradi, e avrebbe voluto escludere almeno l’elezione dei gradi più alti. «Sarà bene – scriveva a Balbo il 26 febbraio – prima di inviare lo statuto modificare se lo crederete, il punto che riguarda le elezioni. Che i comandanti di squadra siano nominati dagli squadristi può andare ma i seniores ed i consoli dovranno esser proposti dai direttori e ratificati o meglio accettati dagli ispettori di zona. L’elezione degli squadristi manda gli elementi più violenti e più avventurieri. [...] Io ho qui a Firenze le squadre che compiono atti di vera delinquenza e cretinamente concepiti ed eseguiti». E al suo richiamo alla disciplina, «il Direttorio e la segreteria provinciale rispondono che tali azioni le esige la situazione politica, che essendo normale, non mi riguarda»51. Questi episodi mostrarono la difficoltà di conciliare il principio gerarchico con l’elettività dei gradi. Inoltre, il criterio della democrazia interna non solo si scontrava con il principio della gerarchia militare, ma favoriva l’autonomia d’azione degli squadristi, che i «politici» avrebbero voluto contenere e controllare, autonomia accresciuta dal fatto che in gran parte dei fascismi locali il capo «politico» e il capo «guerriero» coincidevano nella stessa persona. L’adozione del metodo elettivo per la gerarchia rifletteva il rapporto personale che legava gli squadristi ai loro capi, liberamente scelti fra quelli che si erano mostrati particolarmente

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dotati di un proprio ascendente individuale nell’organizzare le squadre e guidare le loro azioni. I capi degli squadristi erano i capi politici dei vari fascismi provinciali; e dall’inscindibilità di questa identificazione, oltre che dal vincolo personale su cui si fondava la gerarchia locale, derivavano l’autonomia e l’autorità del loro potere, che non sempre essi erano disposti a subordinare alle direttive di organi superiori, politici o militari che fossero. Pur con queste difficoltà, il nuovo regolamento fu approvato dalla direzione del PNF. «Il nostro progetto è stato accolto benissimo – scriveva Balbo a Gandolfo il 28 gennaio – e v’abbiamo aggiunto solo una nota esplicativa per regolare i nostri rapporti con le Federazioni provinciali, ad evitare il ripetersi d’incidenti spiacevoli come quelli avvenuti fra Perrone e la Federazione fiorentina. L’opuscolo sarà pronto fra una settimana»52. E il 25 febbraio Balbo gli faceva sapere che gli opuscoli col nuovo ordinamento erano pronti per essere inviati: «Spero che entro marzo le legioni siano già regolarmente costituite. In aprile allora faremo un convegno: che cosa ne dice? Ha preparato il cifrario? Ormai diventa una necessità»53. Alla fine di febbraio, le Direttive per l’organizzazione delle squadre fasciste furono diramate con un’avvertenza: «Questo opuscolo come tutti gli ordini emanati dal Comando Generale, deve rimanere scrupolosamente riservato. Ne risponde con il proprio onore colui al quale è stato affidato, che alla sua volta, decadendo dalla propria carica, lo consegnerà al successore». In una nota Bianchi spiegava che le «Squadre di Combattimento sono costituite all’unico scopo d’arginare le violenze degli avversari e d’essere in grado di accorrere, a richiesta degli organi dirigenti, in difesa dei supremi interessi della Nazione. Tutti gli ordini e tutte le disposizioni emanate dagli Ispettori generali sono affidate al più scrupoloso vincolo del segreto»54. In una successiva circolare il comando generale avvertiva di distribuire l’opuscolo, annotando in elenco i consegnatari: «Crediamo inutile raccomandarvi il massimo riserbo tanto sul nostro Comando Generale, quanto sugli ordini e direttive che man mano emaneremo. Provvedete al sollecito inquadramento dei reparti, ed alla nomina dei Consoli, prendendo all’uopo contatto con i Segretari delle Federazioni provinciali della vostra regione. Le legioni entro il marzo venturo debbono essere un fatto compiuto e vi annuncio sin d’ora un gran rapporto di tutti i Consoli entro il mese d’Aprile, per studiare i vari problemi che presenta la nostra organizzazione»55.

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Cultura di combattimento La prassi della violenza permeava ogni aspetto del fascismo56. Fu il nucleo attorno al quale si sviluppò nei primi anni l’idea fascista della politica, condensata simbolicamente nella denominazione stessa dei Fasci di combattimento: la politica era una guerra civile contro gli avversari del fascismo, considerati solo per questo nemici irriducibili non solo del fascismo, ma della nazione, che i fascisti pretendevano fanaticamente di rappresentare in modo esclusivo57. La pratica della violenza fu sublimata come lo stile politico del fascismo. «Un tempo – scriveva un fascista nel 1920 – le associazioni politiche più ardenti di fede e più pugnaci arrivavano fino al comizio di protesta e fino alla dimostrazione. E ci arrivano anche ora. Solo che il fascismo va oltre. Va direttamente verso l’avversario politico e i suoi fortilizi. E si cimenta così. E va fino alle estreme conseguenze di ogni premessa»58. Coerente con la cultura di combattimento del fascismo fu il suo disprezzo per tutte le ideologie e per le concezioni razionali della vita e della politica, alle quali i fascisti opponevano l’esaltazione dell’azione come unico criterio per affermare la validità delle proprie convinzioni. Il fascismo assunse l’irrazionalismo e l’attivismo come atteggiamenti fondamentali verso la vita e la politica: «Azione – proclamava l’organo dei Fasci di combattimento – significa vita, instabilità, insofferenza [...] significa saper comprendere i tempi che si vivono, sapersi adattare all’atmosfera cambiata, agli avvenimenti che si susseguono, che si accavallano nel vorticoso ansare della civiltà moderna [...] significa relatività in tutto e per tutto, e incoerenza, perché la coerenza di per se stessa è tanto assurda e irreale, che non può esistere che colla fossilizzazione del pensiero, e la rinuncia a vivere [...] Sì, noi picchiamo, noi combattiamo: a pugni, a pedate, a legnate, a revolverate; noi rispondiamo alla violenza colla violenza, non con la supina acquiescenza [...] non usiamo i compromessi, i mezzi termini e le piccole menzogne, che sono l’arma dei vili e degli impotenti, per combattere i nostri nemici; ma scendiamo in piazza con una nostra fede e la nostra strafottenza – giovinezza eroica, impetuosa e generosa»59. I fascisti vantavano la superiorità del loro tipo umano, l’«uomo fascista», per la vitalità dei suoi istinti e per il coraggio della violenza, contrapposto alla impotenza senile dei «benpensanti» liberali

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e dei democratici, che non avevano saputo difendersi dall’aggressione socialista pur possedendo tutte le armi del potere statale. Allo stesso modo i fascisti accusavano di viltà i socialisti, perché dopo aver minacciato una spietata rivoluzione per distruggere la borghesia quando apparivano dominatori della piazza, ora fuggivano sotto l’impeto dello squadrismo, invocando la protezione dallo Stato borghese. Ad esaltare la presunta diversità antropologica dell’uomo fascista nei confronti dei militanti di altri partiti concorreva la giovane età dei dirigenti e della gran massa degli iscritti al partito fascista: Mussolini e Bianchi avevano 38 anni, De Vecchi 37, Giunta 34, Arpinati e Farinacci 29, Balbo, Barbiellini Amidei e Ricci 25, Bastianini 22. Coerente con i presupposti irrazionali della sua cultura di combattimento, l’adesione al fascismo era considerata un atto di fede, la militanza una dedizione totale, che si nutriva di miti più che di teorie. La concezione del mito, come fattore di mobilitazione, era esplicitamente professata dai fascisti. Il principale mito fascista fu la nazione, esaltata come entità sacra, di cui essi soltanto si consideravano gli interpreti, i custodi, i difensori. La sacralizzazione della nazione contribuiva a sacralizzare il fascismo stesso, legittimando il monopolio del patriottismo da parte dei fascisti, che pretendevano di essere una minoranza privilegiata di italiani nuovi, giovani forgiati dalla guerra, nei quali si era incarnata la volontà della nazione. Come milizia della nazione, i fascisti si sentivano legittimati a combattere i suoi nemici interni, cioè tutti coloro che avversavano il fascismo, anche se si trattava di patrioti che erano stati interventisti e combattenti. Infine, i fascisti pretendevano di essere la nuova classe dirigente, che voleva promuovere la collaborazione fra le classi in una rinnovata comunità nazionale consacrata al bene dell’Italia, senza sopprimere la gerarchia sociale fondata sul primato della borghesia e del ceto medio. L’organizzazione squadrista era considerata il modello embrionale della nuova Italia fascista: la squadra, scriveva un giovane squadrista toscano, operava «da mescolatore», che «amalgama gli elementi socialmente più disparati, studenti con operai, commercianti con professionisti; unisce e smussa diaframmi tra le classi, che difficilmente in altro modo potrebbero essere eliminati»60. Tuttavia, era la violenza il principale fattore di solidarietà fra gli squadristi: la complicità nelle azioni criminose, insieme con il fa-

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natismo nazionalista, cementava il loro cameratismo e li eccitava all’azione terroristica come rito di fusione della loro unione. Oltre che arma terroristica, la violenza svolgeva un’importante funzione di propaganda, seducendo e attraendo i giovani e i giovanissimi che non avevano partecipato all’esperienza della Grande Guerra ma ne subivano il fascino mitico61. L’offensiva contro il partito socialista e contro le organizzazioni del proletariato era vissuta dagli squadristi come una crociata per la liberazione della nazione dai suoi nemici interni, contro i quali ogni violenza era lecita, dalla bastonatura all’uccisione. Il manganello divenne l’emblema della «santa violenza» squadrista. L’umiliazione dell’avversario, obbligato a ingerire olio di ricino, la rappresaglia feroce con feriti e morti, la devastazione delle sedi delle organizzazioni avversarie, il rogo pubblico di giornali e di libri, il bando imposto a dirigenti, amministratori e parlamentari, erano celebrati dagli squadristi come riti di punizione inflitta dai custodi della nazione ai suoi dissacratori. Le spedizioni squadriste assumevano l’aspetto di una guerra di simboli, con la conquista e la distruzione di bandiere, icone ed emblemi degli avversari, o con l’imposizione della bandiera nazionale e del gagliardetto fascista, per consacrare la conquista violenta di un comune amministrato dai socialisti o l’inaugurazione di una sezione fascista dove prima dominavano gli avversari: «Sono stato a creare il Fascio ad Asti – scriveva il capo del fascismo torinese Cesare Maria De Vecchi a Cesare Rossi il 29 novembre 1920 – [...] e ieri sono andato a compiere a Bra una meravigliosa funzione che ha finito con l’invasione del municipio bolscevico per piantarvi il gagliardetto dei miei arditi ed il tricolore. Una cosa squisitamente fascista, direbbe Mussolini. Mi si è prestata così l’occasione di gettar le basi del Fascio per Bra, Alba ed Aosta»62. Gli squadristi inventarono emblemi, riti e simboli, che divennero parte integrante dello stile fascista, esibiti nelle manifestazioni squadriste, nei cortei e soprattutto nei funerali di fascisti uccisi: «I gagliardetti al vento, le camicie nere, gli elmi, gli inni, gli alalà, i fasci, il saluto romano, l’appello ai morti, le ‘sagre’, i giuramenti solenni, le parate al passo militare e tutto quell’insieme di riti che fanno scuotere la testa all’uomo ‘superiore’ della borghesia vecchia, stanno lì a dimostrare una potente resurrezione degli istinti originari della stirpe»63. Il culto dei fascisti caduti, consacrati co-

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me martiri, ebbe un posto centrale nella liturgia fascista, derivando anch’esso la sua origine dalla prassi della violenza celebrata come audace espressione di un forte carattere e attuazione di una virtù nobile ed eroica di intransigenza, necessaria alla rigenerazione della nazione, fino al prezzo della propria vita. Nella cultura politica, come nell’organizzazione e nell’azione, lo squadrismo si era imposto definitivamente, dando la sua impronta a tutto il partito nazionale fascista. Nella trasformazione del movimento fascista in un partito milizia, Mussolini era stato più un capo che segue che un capo che precede. Per essere riconosciuto e acclamato come duce, egli aveva dovuto accettare di diventare il capo di un partito armato, che agiva illegalmente nel paese come un esercito di occupazione, imponendo il suo dominio là dove fino a pochi mesi prima dominava il più forte partito italiano. Tuttavia, nonostante la posizione di forza conquistata, il fascismo si sosteneva su basi molto fragili, in una situazione gravida di incognite. L’esempio della parabola del socialismo era allarmante. I socialisti erano diventati il più forte partito italiano dopo trent’anni di attività, di lotte, di proselitismo, di organizzazione. Fra il 1919 e il 1921, il partito socialista avrebbe potuto afferrare l’attimo fuggente per conquistare il potere, ma non seppe riuscirci a causa di un’inconcludente politica rivoluzionaria e delle sue divisioni interne: persa l’occasione, l’edificio socialista, costruito e consolidato in trent’anni, si disgregò in pochi mesi sotto l’assalto delle squadre armate di un movimento che aveva appena due anni di vita. Il fascismo aveva saputo afferrare, alla fine del 1920, l’attimo fuggente offerto dalla mobilitazione borghese e dal declino socialista, per rilanciare la sua azione con lo squadrismo e diventare in dodici mesi un forte partito di massa, sottraendo allo Stato il monopolio della forza. Ma cosa sarebbe accaduto se l’esercito fascista, in un prossimo futuro, si fosse trovato di fronte, a contrastarlo, la forza legittima dello Stato deciso ad abbattere il dominio illegale di un partito milizia, perché assolutamente incompatibile con la sovranità dello Stato e con i principi, le istituzioni e le regole di un regime parlamentare? La risposta era scontata: se fragile si era rivelato l’edificio socialista, costruito in tre decenni, molto più fragile era l’edificio fascista, costruito in soli dodici mesi. E Mussolini lo sapeva.

III

Dove impera il fascismo

Come gran parte degli avversari non comprese la natura del fascismo, e come questo, imponendo il suo dominio in molte regioni, diresse la sua offensiva contro lo Stato liberale, proclamandosi l’avanguardia di un nuovo Stato antidemocratico.

Non durerà. Durerà. Forse Al momento della sua costituzione, il partito fascista era il più forte partito italiano e dominava incontrastato, con la violenza squadrista, su molte provincie dell’Italia del Nord e del Centro. Un partito di massa militarmente organizzato era un fenomeno nuovo nella storia delle democrazie parlamentari. In quel periodo, nessuna fra le varie organizzazioni paramilitari, che proliferarono in Europa dopo la prima guerra mondiale, aveva raggiunto la forza e le dimensioni di massa del PNF. La novità del fenomeno indusse la massima parte degli avversari e degli osservatori a considerare il fascismo un movimento effimero, perché privo di una propria ideologia, senza programmi, senza una propria forza sociale, senza unità e coesione, risultato contingente di aggregazioni provinciali accomunate solo dalla lotta armata contro i partiti e le organizzazioni del proletariato. Una volta terminata la funzione reazionaria come milizia al servizio della borghesia, il fascismo si sarebbe esaurito per mancanza di vitalità propria o si sarebbe disgregato per conflitti interni. Durante la rivolta antimussoliniana degli squadristi, il repubblicano Guido Bergamo notò «profondi segni di dissolvimento in seno al fascismo [...]. Il Mussolini non è più il Duce: gli equivoci sviluppatisi all’ombra dei gagliardetti sboccano oggi in atti di aperta ribellione. Ogni regione, ogni provincia, ogni paese ha

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il suo fascismo. [...] Ma portino i futuri congressi all’unità od alla scissione, il fascismo continuerà ovunque a vivere ed a difendere gli interessi che anche oggi lo hanno al loro servizio»1. Invece, secondo il socialista Giuseppe De Falco, il fascismo era «destinato a scomparire. [...] Del fascismo non resterà più nulla!»2. Non molto diverso era il giudizio dell’anarchico Luigi Fabbri, il quale riteneva che la durata del fascismo dipendeva dall’esercizio della violenza antiproletaria: «Il fascismo perderà tutto il suo prestigio e tutta la sua forza appena cesserà d’essere violento [...] Automaticamente, appena non vi sarà più la violenza ad impedirlo, riappariranno le bandiere rosse e le cravatte rosse e s’udiranno ricantar l’Internazionale e l’Inno dei lavoratori e Bandiera Rossa, dove oggi il provarvi soltanto può dar luogo alle spedizioni punitive»3. Pertanto, concludeva Fabbri, il fascismo, «frutto malsano della guerra» ed espressione di un istintivo «spirito di conservazione del regime politico ed economico attuale, non sarà eterno, certamente. Prima o poi finirà. [...] Ma può darsi anche il contrario: che il fascismo, ormai che è nato, non muoia così presto e di morte naturale»4. Luigi Sturzo riconosceva che il fascismo era diventato, al pari del socialismo e del popolarismo, una delle tre forze che davano l’assalto allo Stato centralizzatore e burocratico «nel decadimento del pensiero liberale democratico», come disse in una conferenza a Firenze il 18 gennaio 1922; ma considerava il fascismo ancora «troppo giovane per avere una tradizione, una letteratura, un movimento culturale, una costruzione logica provata dai fatti». Il fascismo viveva solo di «rettorica alternata di violenza» e perciò non poteva competere seriamente con il socialismo e con il popolarismo per la successione allo Stato liberale5. Un anti-Stato nello Stato Pochissimi compresero che il fascismo non era un fenomeno transitorio né si riduceva alla funzione di milizia mercenaria antiproletaria, perché, diventando movimento di massa, aveva acquistato una propria autonomia e fini propri e molto ambiziosi. La rivista repubblicana «La Critica Politica», nel novembre 1921, dopo la conclusione del congresso fascista, osservò che le giornate romane

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del fascismo offrivano «un materiale vastissimo di meditazione e di esperienza» perché avevano rivelato «sulla essenza e sui fini del fascismo assai più di quanto non abbia detto il Congresso»6. Il fascismo non può essere più considerato come un fenomeno transitorio della attuale crisi italiana. Esso minaccia l’avvenire stesso della Nazione, la sua libertà, la sua pace. [...] Il fascismo non sopporta dissensi: contesta agli avversari il diritto di pensare, di discutere, di operare alla luce del sole. Per esso le più faticose conquiste di sovranità popolare di questo ultimo secolo non hanno valore. L’Italia – tutta l’Italia – è nel fascismo. Non riconoscerlo, non scoprirsi il capo al passaggio di un gagliardetto o di una squadra di fascisti è considerato come un delitto di lesa maestà che può essere punito con la morte o, nella ipotesi migliore, a colpi di bastone. Si è preteso attribuire ai fascisti il merito di aver salvato l’Italia dal pericolo di una dittatura bolscevica. E non è, dunque, una forma di dittatura quella che essi stanno esercitando? E cosa farebbe, cosa ci darebbe, quella che essi eserciterebbero domani se riuscissero ad impadronirsi di tutti gli organi dello Stato? Perché – è inutile dissimularlo – è precisamente a ciò che il fascismo tende. Mussolini non ne fa mistero. I suoi discorsi, pur così vaghi e contraddittori in tutto il resto – sono su questo punto molto chiari. È appena di pochi giorni un suo articolo che si chiude così: «Non si fallirà alla mèta. Dopo di che vedremo a chi spetterà l’onere e l’onore di governare l’Italia!». E non si tratta solo di parole. I fascisti costituiscono un’organizzazione armata perfettamente inquadrata: l’unica organizzazione politica armata in Italia e l’unica che abbia tuttora la facoltà di essere armata e di armarsi: i fascisti sono i soli in Italia per il disarmo dei quali il Governo non abbia saputo e voluto far nulla. I trentamila fascisti che si erano dati convegno a Roma erano, per usare una frase di Mussolini, perfettamente attrezzati. Ed è molto dubbio quali fossero le precise intenzioni di quelle migliaia di uomini. Non certo... pacifiche. Il pericolo di un tentativo fascista per impadronirsi dello Stato è tutt’altro che lontano. E nessuno s’illuda che possa servire a stabilire una libertà maggiore, a realizzare in Italia nell’ordinamento dello Stato i principi della democrazia.

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Come a voler confermare le previsioni della rivista repubblicana, il 23 novembre la direzione del PNF pubblicò un manifesto in cui proclamava che il partito fascista si considerava al di sopra della legge e dello Stato: «Noi siamo una milizia volontaria posta al servizio della nazione, saremo con lo Stato e per lo Stato tutte le volte che esso si addimostrerà geloso custode e difensore e propagatore della tradizione nazionale, del sentimento nazionale, della volontà nazionale; capace di imporre a tutti i costi la sua volontà. Ci sostituiremo allo Stato tutte le volte che esso si manifesterà incapace di fronteggiare e di combattere, senza indulgenza funesta, le cause e gli elementi di disgregazione interiore dei principi della solidarietà nazionale. Ci schiereremo contro lo Stato qualora esso dovesse cadere nelle mani di coloro che minacciano e attentano alla vita del Paese»7. Era implicita, nel proclama, la pretesa che i fascisti fossero gli unici a decidere chi erano i nemici della nazione da colpire, e quando bisognava sostituirsi allo Stato se non adempiva ai suoi compiti. Il giorno dopo la pubblicazione del manifesto l’editorialista de «La Stampa» Luigi Salvatorelli, uno dei più acuti fra i primi pochissimi osservatori che compresero la natura del fascismo, commentò: giudicare se lo Stato «adempia o no a questi compiti nazionali, spetta al fascismo soltanto, che si sostituisce alla nazione o – che fa lo stesso – si identifica arbitrariamente con lei»8. Analoga osservazione valeva per la pretesa del PNF di essere una milizia volontaria al servizio della nazione: «Ma chi è che domanda o determina il servizio? La nazione attraverso i suoi organi legali, o il fascismo medesimo?In questo secondo caso, non la milizia è al servizio della nazione, ma la nazione serve come campo di esperimento per l’‘attivismo’ fascista». Salvatorelli giungeva alla stessa conclusione della rivista repubblicana: il fascismo era un pericolo per lo Stato democratico, perché qualunque partito «che contempli esplicitamente una sua sostituzione o contrapposizione allo Stato, come parte costitutiva della propria sfera d’azione, è, per ciò stesso, un partito formalmente antilegale e rivoluzionario». Il fascismo dava prova concreta di ciò nelle provincie dove aveva «la sua vera base di potenza: nel Basso Veneto e nell’Emilia soprattutto»: «Qui, appunto, il fascismo si è ‘sostituito allo Stato’ ed ha stabilito la propria dittatura, schiacciando gli avversari, cui è negato qualunque diritto politico e civile, e perfino quello di

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vivere», e in tal modo il fascismo «ha creato, appunto, l’Antistato, contro i propri avversari». La sfida fascista allo Stato liberale divenne più arrogante quando, nel dicembre, il governo Bonomi si accinse a varare provvedimenti che autorizzavano i prefetti a sciogliere le organizzazioni armate. Il 16 dicembre, «Il Popolo d’Italia» pubblicò un comunicato del segretario del PNF il quale perentoriamente dichiarava che le sezioni del partito e le squadre di combattimento formavano «un insieme inscindibile. [...] Lo scioglimento delle Squadre di combattimento risulterà pertanto praticamente impossibile se prima il governo non avrà dichiarato fuori della legge il Partito Nazionale Fascista in blocco». La sfida pubblicamente lanciata dal segretario del PNF metteva in luce l’impotenza dello Stato liberale di fronte a un partito che gli aveva sottratto il monopolio della forza per abolire di fatto in molte provincie d’Italia la libera circolazione di tutti i cittadini. Dove imperava la violenza squadrista, denunciava l’«Avanti!», vigeva il «reato di leso fascismo»: «È leso fascismo non iscriversi ai fasci di combattimento o non subire le imposizioni, leso fascismo non sciogliere le proprie leghe di resistenza, non consegnare agli emissari della borghesia il patrimonio delle organizzazioni operaie, leso fascismo non leggere i giornali del fascio ed autorizzati dal fascio, leso fascismo portare un fiore rosso, un vestito rosso, un nastro rosso»9. Il 2 dicembre il socialista Giacomo Matteotti denunciò alla Camera che nel Polesine gli squadristi «pubblicano i loro bollettini di guerra per le strade; le bande vanno attorno armate di bastoni, con le divise della morte, con revolver, moschetti, bombe e benzina pronte ad ogni momento ad esercitare violenza, di giorno e di notte»10. I fascisti non risparmiavano neppure i deputati: a Bari, il 25 settembre 1921 assassinarono il deputato socialista Giuseppe Di Vagno, già scampato a una precedente aggressione11. Inoltre gli squadristi imponevano le dimissioni agli amministratori socialisti accusandoli di sperperare il denaro pubblico in spese inutili o per vantaggio personale, e di vessare i cittadini borghesi con tasse esorbitanti. Nel corso del 1921, per motivi di ordine pubblico, furono sciolti 356 consigli comunali (rispetto ai 154 del 1919 e ai 289 del 1920), e di questi la maggior parte era stata sciolta nelle regioni dominate dal fascismo: 86 in Emilia, 82 nel Veneto, 59 in Lombardia, 92 in Toscana12.

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Impotenza governativa, impunità fascista «Siamo padroni della situazione», annotava nel suo diario il 1° gennaio 1922 Italo Balbo, venticinquenne capo dei fascisti ferraresi. La diffusione del dominio fascista avveniva quasi sempre senza che le autorità locali intervenissero per imporre il rispetto della legalità. Quasi sempre i fascisti responsabili delle violenze rimanevano sconosciuti o impuniti. Spesso i fascisti arrestati erano assolti per mancanza o per insufficienza di prove, perché le vittime temevano altre rappresaglie. La tattica fascista di mobilitare squadre di provincie diverse da quella dove si svolgeva l’azione, rendeva difficile o impossibile identificare i responsabili. E quando accadeva che i fascisti fossero arrestati e condannati, gli squadristi inscenavano manifestazioni per imporre la loro scarcerazione. A Bologna, il 10 febbraio, durante il processo a due fascisti, imputati di aver aggredito a mano armata alcuni socialisti in un’osteria, minacciandoli di morte se non avessero rilasciato una dichiarazione di ripudio delle loro idee politiche, gli squadristi, in massima parte studenti, invasero l’aula del tribunale durante il processo, che comunque si concluse con una severa condanna a due anni e undici mesi. Quando gli imputati «appresero la loro sorte scoppiò una violenta tempesta. I condannati si misero a oltraggiare il Tribunale e a cantare l’inno fascista, mentre i loro compagni che affollavano l’aula tenevano loro bordone» e provocarono una rissa che impedì alla forza pubblica presente di «adoperarsi, come meglio poteva, per ripristinare l’ordine», come riferiva nel suo rapporto l’ispettore generale di pubblica sicurezza Secchi. «La dimostrazione studentesca-fascista continuò nella via: un gruppo più audace si mise di corsa e arrivò in Piazza Vittorio Emanuele per protestare contro il Prefetto, all’invadenza del quale si faceva risalire la severa sentenza, e poiché la porta del palazzo della Prefettura era guardata da non molte guardie, il gruppo di dimostranti – 50 o 60 in tutto – riuscì ad entrare nel cortile e ad arrivare sempre di corsa al sommo dello scalone che conduce agli uffici della prefettura. Quivi però gli agenti di servizio riuscirono con rapida mossa a chiudere il cancello cosicché la forza pubblica che immediatamente intervenne riescì ad arrestare per oltraggio, violenza e resistenza una dozzina di fascisti fra i più accesi e intem-

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peranti»13. Seguì una nuova manifestazione di protesta dei fascisti bolognesi contro l’autorità giudiziaria e l’autorità politica, subito sedata con nuovi arresti; ma il giorno dopo i fascisti arrestati furono condannati a piccole multe «cosicché tutti furono rimessi senz’altro in libertà. Si formò allora una colonna di dimostranti che al canto dell’inno fascista e con grida ostili all’indirizzo del Prefetto Mori accompagnò i liberati alla sede del fascio». L’ispettore assicurava che la pubblica sicurezza aveva fatto il suo dovere, ma faceva anche notare che vi era nella città una diffusa simpatia nei confronti dei fascisti, perché ogni «fatto di carattere fascista che esca o poco o molto dalla legge trova immediatamente innumeri difensori che lo mettono in rapporto ai passati tempi di soggezione socialista e ne attenuano la importanza», mentre accusavano il prefetto di eccessiva durezza nei confronti dei fascisti. Episodi come quello di Bologna, frequenti in altre città dove l’autorità governativa cercava di frenare la violenza squadrista, accrescevano nei fascisti la pretesa dell’impunità, mentre acuivano in loro e nell’opinione pubblica la percezione dell’impotenza dello Stato liberale, come dimostrava la debolezza dei suoi governi. Fallito il patto di pacificazione, Bonomi aveva tentato di impedire connivenze e collusioni: ma così come era accaduto a Giolitti, le sue direttive rimasero inefficaci. Ciò portò alla fine del suo governo, il 2 febbraio14. Dopo una lunga crisi parlamentare, la più lunga nella storia d’Italia, l’incarico di formare il governo fu affidato a un deputato giolittiano di modesta personalità, Luigi Facta, che formò un ministero di coalizione con liberali, democratici e popolari15. Il governo Facta fu una soluzione di ripiego, imposta dalla necessità di avere un governo in carica perché l’Italia si era impegnata a ospitare, in aprile, la conferenza internazionale sulla ricostruzione dell’Europa, alla quale avrebbero partecipato, oltre ai rappresentanti delle potenze alleate, anche la Germania e la Russia comunista16. Durante la crisi, era affiorata l’ipotesi di un governo deciso a fronteggiare efficacemente la violenza fascista con il sostegno dei democratici, dei popolari e dei socialisti, ma un tale governo, osservò l’8 febbraio la Kuliscioff, avrebbe dovuto esser disposto ad «andare incontro a una probabile guerra civile, perché i fascisti sono forti, audaci e pieni di appetiti. Tutto sommato, è una situazione terribile, il paese di giorno in giorno

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si avvicina al precipizio. Ormai non so cosa possa salvarlo. Una rivoluzione, una guerra civile, nuove elezioni? Mezzi di troppo dubbia probabilità di riescita, e quindi la reazione, già esistente, sarebbe spinta ai suoi estremi termini. Chi ci perderà di più, saranno le organizzazioni operaie, i socialisti e il povero paese esausto»17. Contro l’ipotesi di un governo antifascista aveva sparato forte Mussolini, sia alla Camera sia sul giornale, e pertanto egli accolse con benevolenza il governo di Facta, che il 18 marzo ottenne la fiducia col voto favorevole dei fascisti. Democrazia in agonia La lunga crisi parlamentare aggravò il discredito dell’autorità statale. In meno di tre anni, dal 1919 al 1922, si erano succeduti quattro governi di breve durata, sorretti da maggioranze eterogenee. La loro precarietà aveva contribuito a far diffondere idee antiparlamentari e antidemocratiche, favorendo il partito fascista, che dell’antidemocrazia si era fatto alfiere. Gli studenti fascisti, che a Bologna avevano manifestato contro il prefetto, gridavano «Abbasso il parlamento» e sotto le finestre del comando di corpo d’armata avevano acclamato la dittatura militare. Commentando l’episodio, Mussolini lo definì «la prima manifestazione pubblica, alla quale molte altre potrebbero fare seguito, per il sempre più acuto senso di disgusto che l’attuale regime parlamentare provoca e della vasta e non inconfessata aspirazione delle popolazioni per un Governo che sappia governare». Mussolini riteneva ormai che la «impotenza fisiologica del Parlamento» fosse giunta alla «sua forma più acuta, proprio in uno dei momenti più delicati della vita nazionale»18. Egli considerava ormai finita l’era della democrazia. «Il biennio 1919-1920 rappresenta l’ultimo filo della matassa democratica elaborata durante un secolo», affermava in un articolo intitolato Da che parte va il mondo?, pubblicato il 25 febbraio sulla sua nuova rivista «Gerarchia» fondata il mese precedente. «La democrazia agonizza in tutti i paesi del mondo: in alcuni, come in Russia, è stata uccisa; in altri subisce un processo d’involuzione sempre più manifesto. Può darsi che nel secolo XIX il capitalismo avesse bisogno della democrazia: oggi può farne a meno. La guerra è stata ‘rivoluzio-

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naria’ nel senso che ha liquidato – fra fiumi di sangue – il secolo della democrazia, il secolo del numero, della maggioranza, della quantità»19. La condotta del governo Facta accrebbe il discredito della democrazia parlamentare. Al pari dei suoi predecessori, Facta manifestò subito il proposito di voler assicurare il rispetto della legge, ma neppure le sue direttive furono efficaci. Al governo continuarono a pervenire ogni giorno notizie di violenze fasciste, accompagnate da denunce di connivenza fra fascisti e forza pubblica, di inerzia o di parzialità delle autorità locali e della magistratura. I prefetti, anche se talvolta contestavano la veridicità delle accuse, riconoscevano che erano frequenti i casi di connivenza fra la forza pubblica e i fascisti, i quali erano abili nell’appellarsi al comune sentimento patriottico e alla comune difesa della nazione contro i sovversivi per conquistare le simpatie di agenti e carabinieri: «non si può negare – scriveva il prefetto di Rovigo il 22 aprile – in quelli della bassa forza una certa tendenza a guardare di buon occhio i fascisti che usano dell’accorgimento, in conformità anche dei propri principi politici, di mostrarsi benevoli verso i soldati in genere ed i carabinieri in ispecie»20. Lo stesso comandante generale dell’Arma dei carabinieri giudicava intollerabile «che sotto gli occhi dei Carabinieri inerti si compiano assalti a case private o sedi di associazioni, feroci atti di violenza contro le persone, incendi, devastazioni e talvolta veri e propri saccheggi»21. Il fascino dell’esercito fascista Se era intollerabile l’inerzia dei carabinieri di fronte alle violenze fasciste, lo era molto di più l’esistenza, nello Stato liberale, di un partito che disponeva di un proprio esercito, col quale spadroneggiava in molte città e provincie, spesso agendo senza alcun controllo da parte dei comandi superiori. L’organizzazione dell’esercito fascista, secondo le nuove norme definite all’inizio del 1922, fu tutt’altro che agevole e rapida, soprattutto per la scarsa disponibilità degli squadristi ad accettare la disciplina22. Eppure, nonostante le difficoltà per organizzare le squadre, l’apparato militare del partito era la forza del dominio fascista.

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Inoltre, l’esibizione dell’esercito fascista nelle manifestazioni pubbliche, la simbologia politica, militare e religiosa delle adunate e dei cortei avevano un effetto propagandistico molto suggestivo fra la gente e specialmente sui giovani23. Al fascino dei fascisti in parata non si sottrasse neppure un’antifascista come Anna Kuliscioff. Il 26 marzo, scriveva a Turati, si era «buscata un discreto mal di testa, volendo assistere dal balcone lo sfilare del corteo fascista», dopo aver sperato «che Domeneddio almeno lui non fosse fascista, e per l’ora della grande adunata avrebbe fatto diluviare come tutta stanotte e anche stamattina. Macchè! A mezzodì comparve il più bel sole di primavera, e la grande mobilitazione delle forze fasciste si è fatta con la benedizione del Signore, ma con scarso pubblico attorno»24. Il corteo però come tale è riuscito grandioso, imponente, ordinato. Vi parteciparono 20-30.000 persone; chi potrebbe valutarne il numero? Tutti quei giovani dai 17 ai 25 anni, gagliardi, agili, bei ragazzi inquadrati militarmente, se non si sapesse a che turpi scopi è rivolta la loro azione, fanno un effetto magnifico di bellezza e di forza. Il corteo per sfilare nella sua totalità impiegò almeno un’ora e mezzo di tempo; le rappresentanze più numerose furono quelle di Cremona, Mantova e Lomellina; la radunata lombarda di oggi sarà un coefficiente di gloria per cingere la crapa pelata del «duce», il quale apriva il corteo in piena tenuta fascista, tronfio e gongolante di gioia di fungere da generalissimo di un esercito baldo e giovane davvero. Si vede che per certe mire del suo arrivismo egli ci teneva moltissimo a far vedere che ha un esercito, e questo come tale è una forza civile e disciplinata. Come generale moderno, non abbandonò i suoi bravi neppure all’ora del rancio all’Arena, a cui parteciparono il «duce» e gli altri deputati intervenuti, e li licenziava in Piazza della Stazione con un discorso di elogio e di gratitudine. Appena finito il corteo in piazza del Duomo, si scatenò un temporale con un acquazzone e grandine da far scappare tutti, salvo i fascisti, che l’avevano preso con tutta la violenza. Domeneddio, per farsi perdonare le varie ore di sole primaverile concesse, credette però alla fine di infliggere loro una piccola mortificazione. Chissà che apoteosi conterà martedì mattina il «Popolo d’Italia». No, no, non è da illudersi: è un vero esercito militarizzato, disciplinato e pieno di ardore che si è costituito in Italia, è un esercito da muovere all’assalto non solo

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di qualche cooperativa o qualche Camera di Lavoro, ma per colpire molto più in alto. Non mi meraviglierei affatto che fra non molto s’impossessino del potere, creando una repubblica oligarchica, con Mussolini presidente e papa-re d’Italia. Il fascismo usò la sua forza militare anche fuori dei confini nazionali, come fece il 3 marzo, per effettuare un colpo di Stato a Fiume, che con il trattato di Rapallo aveva assunto la condizione internazionale di Stato libero25. Il governo provvisorio della città era affidato all’autonomista Riccardo Zanella, eletto dalla maggioranza dei fiumani presidente della Costituente, ma osteggiato dai fascisti e dagli altri partiti annessionisti. Il colpo di Stato fu organizzato da un comitato militare costituito dal Fascio di combattimento fiumano. In seguito all’uccisione di un fascista da parte della polizia, i fascisti capeggiati da Giunta diedero l’assalto al palazzo del governatore, dopo averlo sottoposto a cannonate, e costrinsero Zanella a cedere il potere a un comitato di difesa nazionale e a lasciare la città. Lì si recarono subito Balbo, alcuni deputati fascisti e membri della direzione del PNF. D’accordo con gli altri partiti, i fascisti proposero la nomina a governatore della città del fascista Giovanni Giuriati, che era già stato il primo capo di gabinetto di D’Annunzio a Fiume: ma il governo Facta non volle ratificare la nomina e invitò Giuriati a rinunciare, cosa che egli fece il 15 marzo26. Il 5 aprile, il governo italiano riconobbe come capo provvisorio dello Stato fiumano il vicepresidente della Costituente27. La soluzione accettata dal governo italiano deluse i fascisti. Il 15 marzo Balbo ordinò la smobilitazione: «Noi possiamo ormai andarcene da Fiume», annotava nel diario: «Non abbiamo nulla in comune con questa gente [...] L’avventura di Fiume è finita. [...] Il destino di Fiume è uno solo: uno sbocco: l’annessione. Torniamo dunque al compito maggiore, anche noi, che stiamo per lasciarla con un fondo di amarezza in cuore: andiamo a combattere per la conquista dell’Italia. Fiume si redime redimendo Roma»28.

IV

Sfida allo Stato

Come il fascismo, sbaragliati i partiti avversari, sfidò lo Stato liberale per umiliarlo mostrando la sua incapacità ad arrestare l’avanzata del partito armato, deciso a conquistare il potere.

Fra rivoluzione ed elezione Nei primi sei mesi del 1922, il partito fascista continuò ad accrescere la massa dei suoi iscritti, che fra aprile e maggio, aumentarono da 220.223 a 322.310, e le sezioni da 1.381 a 2.1241. Nello stesso periodo, si costituì la Confederazione delle corporazioni nazionali, cioè i sindacati fascisti, con circa 500.000 iscritti. Decine di migliaia di lavoratori della terra, dopo la distruzione delle organizzazioni socialiste, erano affluite nei sindacati fascisti per avere la possibilità di lavorare. Inoltre, il PNF aveva organizzazioni femminili e giovanili, cinque quotidiani, due riviste, una cinquantina di periodici locali ufficialmente o ufficiosamente espressione del PNF, e un seguito di massa che cresceva continuamente2. La forza del fascismo, tuttavia, non era consolidata. La stessa rapidità della crescita, facendo affluire decine di migliaia di nuovi iscritti senza selezione, rendeva difficile il processo di assestamento e di coesione. Molti capi squadristi continuavano ad agire di propria iniziativa. Inoltre, vi erano contrasti fra fascisti di diverse tendenze, che in taluni casi sfociarono in scissioni, con la costituzione di Fasci autonomi. Lo stesso Mussolini, all’inizio di marzo, mentre era in Germania, dovette fronteggiare una nuova fronda di uno dei ribelli dell’anno precedente, il veneziano Pietro Marsich, un idealista dannunziano, che protestò contro la «infausta egemonia di un uomo» nel fascismo e tentò una scissione, cercando di coinvolgere Balbo e Grandi, ma questi non aderirono e lo

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criticarono severamente3. Mussolini reagì al «miserabile tentativo di secessione», e presentò le sue dimissioni dalla direzione del PNF, rinviando ogni decisione al consiglio nazionale del partito4. Nella riunione, che si svolse a Milano dal 3 al 5 aprile, il consiglio nazionale respinse le dimissioni di Mussolini e deplorò Marsich5. Ma il fatto più importante fu che per la prima volta, in quella sede, Mussolini pose la questione della salita al potere. Il giorno prima del suo intervento, «Il Popolo d’Italia» aveva pubblicato un articolo di Grandi, il quale dichiarava il suo dissenso dall’ipotesi di una «presa di possesso violenta e dittatoriale dei poteri dello Stato», perché si era convinto «che la rivoluzione, in una società democratica come la nostra, non può essere mai un’esplosione improvvisa di violenza sovvertitrice, bensì un processo lento, quotidiano, intimo e assiduo»6. Mussolini si dichiarò d’accordo con Grandi nella scelta fra due concezioni in contrasto: «quella del colpo di Stato, e della marcia su Roma, e l’altra, che è la mia da due anni a questa parte», orientata in senso legalitario, anche se non escludeva «dai calcoli delle probabilità la rivoluzione violenta, come non la escludo in modo assoluto per il domani. Non si può ipotecare l’avvenire». Egli sostenne la necessità «di inserire, sempre più intimamente e profondamente, il fascismo nella vita totale della nazione italiana», valutando realisticamente la via da scegliere. La situazione economica, osservò, stava migliorando: i cambi si erano stabilizzati, c’erano segni di ripresa industriale, gli operai avevano «superata l’ondata di pigrizia ed hanno una manifesta riluttanza a scioperare». Invece, nel mondo politico, erano in atto tentativi per «isolare moralmente e materialmente il fascismo. [...] La nostra situazione non è dunque brillante. [...] Traccio la situazione colla freddezza di un clinico. Quell’alone di simpatia che ci seguì nel 1921 si è attenuato. Popolari, repubblicani, socialisti, comunisti, democratici, ci sono contro». Amici erano solo i liberali e i nazionalisti: ma se riteneva che i primi «in fondo sono innocui: hanno una simpatia per noi come in genere i vecchi hanno simpatia per i giovani», Mussolini disse di cominciare a «diffidare energicamente delle attestazioni di simpatia dei nazionalisti. Non vorrei che essi fossero i pescecani del fascismo, che ci sfruttassero e si arricchissero alle nostre spalle. [...] Riassumendo noi non abbiamo amici. Le simpatie del vasto pubblico si sono attenuate e sono in

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ogni caso mutevoli». Data la situazione, concluse Mussolini, il fascismo poteva contare soltanto sulle sue forze: per questo, doveva consolidare la sua coesione, contrastando i tentativi secessionisti, e consolidare la sua disciplina per meglio organizzare, controllare e utilizzare la sua forza armata. Mussolini proponeva che il fascismo «dichiari nettamente che è elezionista e cioè che partecipa coscientemente alla lotta elettorale», con le sue sole forze, senza fare blocchi con altri partiti, senza «nemmeno escludere l’eventualità di una partecipazione dei fascisti al potere dello Stato. Bisogna affermare che se domani sarà necessario ai fini supremi della nazione, i fascisti non esiteranno a dare i loro uomini al governo dello Stato». Nella prospettiva elettorale e governativa, Mussolini affrontò la questione della violenza: «Bisogna avere il coraggio di dire che c’è una violenza fascista legittima e sacrosanta. Ma mettersi dietro una siepe, andare nelle case, non è fascista. Non è umano e non è italiano. Anche la cronaca delle bastonature deve finire. A poco a poco si determina uno stato d’animo negativo nei nostri confronti. A poco a poco la opinione pubblica si allontana da noi. Bisogna ridurre la violenza alla legittima difesa», «permettere al fascismo parlamentare di agire» e nello stesso tempo «mantenere in efficienza le nostre squadre perché sono una garanzia del nostro movimento e delle nostre idee; imporre assolutamente l’egemonia del pensiero politico fascista; e, soprattutto, mantenersi fedeli al nostro statuto e al nostro programma». Solo compiendo tale «opera un po’ difficile, ma non impossibile», sarebbe avvenuto l’amalgama dei molti elementi «venuti a noi da tante parti», per fare del fascismo un «partito di azione politica, non frammentaria o caotica e profittatrice per certi individui e per certe categorie», volto a realizzare «il benessere e la grandezza della nazione italiana». Realismo tattico, dinamismo rivoluzionario La proposta di Mussolini fu accettata. All’unanimità fu approvato anche l’ordine del giorno presentato da Balbo e da altri capi dello squadrismo, che accoglieva la proposta mussoliniana sulla limitazione della violenza «la quale non può e non deve avere che carattere di legittima difesa»7. Nell’aprile, dunque, gli obiettivi

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di Mussolini per l’immediato futuro restavano nell’ambito parlamentare: vigilare per impedire la formazione di una maggioranza fra democratici, popolari e socialisti in funzione antifascista, e puntare le fortune del fascismo sulle nuove elezioni, non escludendo la partecipazione dei fascisti a un nuovo governo, con i liberali e la destra nazionalista oppure con i popolari e i socialisti riformisti, secondo le circostanze e le convenienze. Quanto all’ipotesi insurrezionale, il duce riteneva che in quel momento fosse irrealistica. Da qui la scelta della via elettorale, fatta per esigenze tattiche e non per conversione del fascismo al parlamentarismo. Così, almeno, l’intesero i capi squadristi, apprezzando il modo in cui Mussolini aveva illustrato «lo spirito manovriero col quale dobbiamo affrontare i problemi del momento, che sono la preparazione al più vasto programma del domani», come scriveva Balbo nel suo diario: «Il segreto ­– affermava Balbo – sta nel conservare il dinamismo rivoluzionario, questo fuoco interno che anima i fascisti, e nello stesso tempo nel tener d’occhio e nel dominare la realtà. [...] La piattaforma parlamentare non ci serve che di strumento per andare più avanti. Noi disprezziamo il Parlamento, ma dobbiamo servircene»8. Difficile dire se Mussolini condividesse simile interpretazione del suo «possibilismo tattico», come lo definiva Balbo. La sua preferenza tattica per la via parlamentare era dettata soprattutto dalla percezione del rischio di crisi e di declino per un partito cresciuto troppo rapidamente e scarsamente coeso, la cui sorte dipendeva dalle circostanze che ne avevano favorito l’ascesa, e che potevano mutare a suo danno. Inoltre, Mussolini si rendeva conto che le simpatie per il fascismo stavano scemando fra la borghesia, ora che, venuta meno la paura del bolscevismo, era anche meno propensa ad approvare la violenza squadrista. Proprio in quei giorni si stavano ultimando a Genova i preparativi per la conferenza internazionale alla quale erano invitati per la prima volta, insieme ai paesi vincitori della Grande Guerra, la Germania e la Russia bolscevica, che veniva a chiedere aiuti economici per far fronte alla rovina provocata dalla guerra civile e dalla grande carestia. Su sollecitazione di industriali e finanzieri, il governo italiano avviò trattative per un accordo commerciale fra Italia e Russia: «Per noi il pericolo comunista è in declino», scrisse nel suo diario l’industriale Ettore Conti, che presiedeva la com-

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missione italiana a Genova, «le forze organizzative dei combattenti e le affermazioni del fascismo hanno creato un clima di resistenza al propagarsi delle teorie bolsceviche»9. Il riconoscimento dei meriti antibolscevichi del fascismo poteva suonare anche come un benservito per liquidare il fascismo stesso, con il suo apparato militare. Mussolini intuì il pericolo e cercò di sventarlo esortando gli squadristi a limitare la pratica della violenza, e proponendo nello stesso tempo una più oculata selezione degli iscritti al PNF e l’adozione di una maggiore disciplina interna. Umiliare lo Stato Mussolini non aveva completa fiducia nel suo partito. Anche se al congresso di Roma era stato acclamato duce, gli era rimasta dentro una profonda diffidenza nei confronti della massa fascista e specialmente verso i capi locali dello squadrismo, anche se, dopo l’esperienza dell’estate precedente, non osava opporsi apertamente alle loro iniziative terroristiche. In primavera, lo squadrismo riprese l’offensiva su vasta scala, cogliendo qualsiasi pretesto, secondo le circostanze: il ferimento o l’uccisione di un fascista, la protesta contro le malversazioni delle amministrazioni socialiste, scioperi e manifestazioni di socialisti e comunisti. Ma la nuova offensiva squadrista fu soprattutto una sfida allo Stato, per dimostrare la sua impotenza: «Noi non abbiamo che un destino solo: svalutare nel ridicolo, fino all’assurdo, lo Stato che ci governa [...] Vogliamo distruggerlo con tutte le sue venerande istituzioni»10. Pochi giorni dopo il consiglio nazionale, Balbo pretese dal prefetto di Bologna Mori la scarcerazione di Guido Baroncini, capo del fascismo bolognese, arrestato per aver ingiuriato un carabiniere. Mori era un prefetto che non tollerava l’illegalismo squadrista, per questo i fascisti lo accusavano di trattarli «come teppisti comuni» e gli avevano affibbiato il soprannome di «viceré» per ricordare «i metodi borbonici di Franceschiello»11. L’11 aprile, durante la visita nel Ferrarese del ministro dell’Agricoltura, al prefetto Mori, che lo accompagnava, Balbo disse, fra il serio e il faceto, che «a un mio fischio migliaia di fascisti potevano circondarci e far prigioniero il Ministro popolare. Bastava un mio ordine. Ero incerto se darlo o no». I fascisti avrebbero potuto

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tenere in ostaggio il ministro fino alla scarcerazione di Baroncini e di altri fascisti imprigionati. Il prefetto assicurò che la carcerazione era solo precauzionale e che li avrebbe rilasciati. Pochi giorni dopo, Baroncini fu scarcerato pagando una multa di 500 lire12. L’episodio non era certo una vittoria per Balbo, ma tale apparve agli squadristi che se ne vantarono come prova della loro forza. Un’altra prova di forza fu la mobilitazione di 25.000 fascisti a Ferrara in occasione del 1° maggio, per boicottare lo sciopero proclamato dai socialisti, aggredendo i manifestanti: «Ovunque la giornata rossa si è trasformata in una manifestazione grandiosa di fede fascista»13. In molte altre città gli squadristi impedirono ai socialisti, ai comunisti e ai lavoratori di festeggiare il 1° maggio. Mussolini titolò Funerale il suo commento del giorno dopo, sostenendo che da trent’anni «a questa parte, non vi fu mai, nella storia del socialismo italiano, primo maggio più squallido e funereo di quello 1922»; e concluse: «Osiamo affermare che nel 1923 la festa più o meno ufficiale del primo maggio non ci sarà o sarà ridotta a un simulacro meschino e pietoso»14. Dieci giorni dopo, Balbo organizzò una nuova mobilitazione fascista a Ferrara per ottenere dal governo la concessione di lavori pubblici per i lavoratori disoccupati aderenti al fascismo15. Il 12 maggio, circa 40.000 squadristi e lavoratori provenienti da tutta la provincia occuparono la città paralizzata da uno sciopero generale proclamato da Balbo, nella totale inerzia delle autorità governative. «Il Balilla», organo della federazione fascista ferrarese, definì l’occupazione un altro esperimento dell’opera «costante, inesorabilmente costante» dei fascisti, «costruttori dello Stato Futuro», contro uno Stato immorale che affamava i lavoratori organizzati dal fascismo ferrarese negando la concessione di lavori pubblici16. L’occupazione cessò, due giorni dopo, quando il governo cedette alle richieste dei fascisti17. L’occupazione di Ferrara, scrisse il prefetto, era stata «una specie di esperimento, preludio di altre manifestazioni con altro carattere, non escluso quello strettamente ed esclusivamente politico»18. Il prefetto aveva visto giusto. Il 23 maggio i fascisti occuparono per tre giorni Rovigo, in segno di protesta per la mancata convalida di un deputato fascista19. Pochi giorni dopo, fu la volta di Bologna, dove l’occupazione fu decisa il 27 maggio, in seguito all’uccisione di un fascista, per protestare contro il decreto del prefetto Mori che

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vietava lo spostamento della manodopera fra i comuni della provincia, impedendo così ai fascisti di trovare lavoro per gli organizzati dei loro sindacati. Ma il vero obiettivo era l’allontanamento del prefetto, deciso a contrastare l’offensiva fascista. L’occupazione di Bologna avvenne in un momento di maggiore eccitazione degli squadristi, a causa di una ripresa dell’attività violenta da parte delle squadre comuniste e degli Arditi del popolo, con atti di aggressione, come quello avvenuto il 24 maggio a Roma, durante la manifestazione per la traslazione della salma di Enrico Toti al Verano. Quello stesso giorno, i nazionalisti e i fascisti avevano deciso di celebrare l’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia, dando l’assalto al quartiere San Lorenzo, roccaforte comunista. Squadre comuniste attaccarono il corteo che seguiva la salma di Toti, provocando uno scontro violento con la forza pubblica, spalleggiata dai nazionalisti e dai fascisti; ci furono morti e feriti20. Commentando i «fatti di Roma» Mussolini accusò il governo, considerando quanto era accaduto nella capitale una «conseguenza fatale dell’atteggiamento assurdo, immorale, suicida assunto dagli organi dello Stato italiano, i quali trattano alla stessa stregua coloro che sono morti per difendere e rafforzare lo Stato e gli altri che vivono, lottano e sparano per demolirlo». Lo Stato liberale, «impotente a dominare il cozzo delle fazioni, che non sono più fazioni, ma sono diventate ‘masse’ [...] è destinato a perire, vittima della sua stessa viltà». Mussolini concluse incitando i fascisti di tutta Italia a considerarsi «sin da questo momento materialmente e moralmente mobilitati. Se sarà necessario, scatterete fulmineamente, concentrandovi a masse nei posti che vi saranno indicati»21. Per Balbo, i «fatti di Roma» confermavano che i comunisti stavano preparando «una riscossa in grande stile», e ciò imponeva ai fascisti di «uscire dal circolo tragico e passare a una azione definitiva. Si marcia verso l’epilogo rivoluzionario del Fascismo, che non può essere altro che la conquista del potere»22. Balbo organizzò l’occupazione di Bologna come una «azione di grandi masse»23. La mobilitazione fu preceduta da una manifestazione di protesta organizzata da un comitato di commercianti, agricoltori, industriali e proprietari di case, che reclamarono l’allontanamento del prefetto, accusandolo, come scriveva il comitato al ministro dell’Interno, di volere instaurare «seguendo

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il consiglio degli spodestati rossi padroni della Provincia [...] sistemi medioevali di feroce repressione creando il disordine per ristabilire l’ordine, provocando anziché la pace la più feroce lotta civile»24. Il 27 maggio il direttorio del Fascio bolognese fu sciolto e i poteri furono assunti in un primo tempo da una commissione esecutiva di tre membri, poi la direzione dell’operazione passò a Balbo, che diede l’ordine della mobilitazione agli squadristi delle provincie di Ferrara, Bologna, Modena e Mantova. Nei due giorni successivi avvenne il concentramento nella città. Il 30 giunse a Bologna il segretario del PNF per seguire la mobilitazione. Nella notte del 31 e nei due giorni successivi, nonostante le misure di sbarramento decise da Mori e dai prefetti delle provincie limitrofe, continuò l’afflusso degli squadristi, che segnavano il loro passaggio devastando o incendiando Case del popolo, abitazioni private, circoli, cooperative, Camere del lavoro. Ci furono anche scontri fra fascisti e forza pubblica, ma lo stesso Balbo ricordò nel suo diario che molti ufficiali dell’esercito simpatizzarono apertamente con loro25. Oltre 20.000 squadristi occuparono la città, guastarono le linee telefoniche e telegrafiche, assediarono il prefetto nel palazzo del governo. «Questa adunata di Bologna – scrisse Balbo – non ha nulla di feroce: tende piuttosto a seppellire nel ridicolo il viceré Mori, tanto prepotente fino alla settimana scorsa e oggi ridotto all’impotenza»26. Se non fu feroce, l’adunata di Bologna fu comunque accompagnata da violenze squadriste, con aggressioni, bastonature, ferimenti, devastazioni e distruzioni; furono bastonati anche alcuni ufficiali della Guardia regia27. La borghesia cittadina plaudì all’occupazione. Industriali, commercianti, esercenti e produttori inviarono al presidente del Consiglio un telegramma per comunicare che la loro «imponente assemblea» aveva votato unanime un ordine del giorno per «stigmatizzare la politica della così detta neutralità tra partiti nazionali ed i partiti che vorrebbero distrutta la patria», e per deplorare «la condotta nefasta del prefetto Mori domandando immediato allontanamento di questo funzionario», dichiarandosi pronti «ad eseguire quelli che saranno gli ordini del comitato d’azione compresa la serrata generale»28. La città fu paralizzata dalla sospensione dei servizi pubblici voluta dai fascisti e dalla serrata degli industriali e dei commercianti.

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Dove va il fascismo? L’occupazione cessò il 2 giugno per ordine di Mussolini, il quale prese «formale impegno, nel caso che si rendesse necessaria una ripresa dell’agitazione, di venire tra voi a capeggiarla, ma avrà allora ampiezza più vasta e più lontani obbiettivi»29. Balbo diramò l’ordine del duce con un manifesto: «Noi che siamo soprattutto soldati, ubbidiamo». Al momento, i fascisti sgombrarono la città, ma il giornale fascista bolognese «L’Assalto» avvertì che la lotta era soltanto sospesa con un «armistizio»: «riprenderà, forse, anzi certo, e presto. E non sarà una lotta regionale, provinciale e municipale. Sarà una lotta nazionale, e sarà combattuta senza quartiere, con tutte le forze»30. I fascisti non avevano ottenuto il trasferimento del prefetto, ma fra gli stessi membri del governo vi era chi dubitava che «Facta abbia dovuto assumere impegni con i fascisti per ottenere il loro allontanamento da Bologna», come confidava in un colloquio privato Giovanni Amendola, ministro delle Colonie, deciso a dimettersi, con altri ministri, se Mori fosse stato trasferito31. L’occupazione di Bologna era stata una nuova prova di forza del fascismo, dalla quale l’autorità dello Stato usciva gravemente lesa, come osservava «La Stampa». Innanzitutto, le squadre fasciste «si sono mobilitate al comando di un uomo (neppure, si noti, al comando della Direzione del Partito); e quest’uomo è apparso dunque come il capo assoluto di una organizzazione armata perfetta, accampata, almeno in quel momento, contro lo Stato, e in ogni modo, dentro lo Stato»; e anche se l’uomo aveva fatto «buon uso del suo potere», «il potere medesimo non cessa, per questo, di apparire come estremamente pericoloso»; inoltre, «le squadre militari fasciste sono rimaste, per più giorni, padrone assolute di una delle maggiori città d’Italia e delle vie che ad essa adducevano», e se «non han fatto di peggio di quel che han fatto – né tuttavia le violenze sono state poche né lievi – occorre attribuirlo sia ad un resto di moderazione dei capi e dei gregari, sia al fatto che non avevan più nemici o comunque ostacoli contro cui sfogare la propria forza, piuttosto che preponderante, sola»32. Altrettanto preoccupato era il «Corriere della Sera»: pur riconoscendo al fascismo il merito di aver reagito contro i socialisti a difesa della nazione, il giornale milanese affermava che «sarebbe oggi un atto di viltà tacere il proprio dissenso dalle imprese del fascismo

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emiliano», perché lo spettacolo che aveva dato di sé «nell’Emilia e particolarmente a Bologna è tale da scoraggiare chiunque confidi nella collaborazione delle più vivaci forze costituzionali per la restaurazione dell’ordine pubblico e per il conseguimento di quella tranquilla libertà in cui tutte le opinioni e le tendenze sentano soltanto il freno della legge e l’argine degli interessi generali della nazione». Le gesta dell’Emilia e di Bologna, proseguiva il giornale, «fanno nascere o crescere il sospetto che una parte del fascismo intenda l’autorità dello Stato come autorità fascista dello Stato»: «Oggi si tratta d’un prefetto. Il prefetto deve andar via; e per questo tutte le forze fasciste dell’Emilia convergono a Bologna, lasciando tracce di violenza sul loro passaggio. Qua e là si sono guastate le comunicazioni telefoniche e telegrafiche, come è uso di guerra o di insurrezione. Si vuol far paura al Governo, perché obbedisca. [...] Se il Governo non cede, che faranno i fascisti? Resisteranno con le armi alla forza pubblica? Verseranno altro sangue fraterno, sotto le mura di quel Palazzo d’Accursio che, insanguinate da una prima strage, videro sorgere nell’orrore e nello sdegno dei cittadini la liberazione di Bologna dalla tirannia socialista?»33. Le domande poste dal direttore del «Corriere della Sera» mettevano a nudo una situazione gravemente anormale, dovuta alla presenza di un partito armato, che praticava il terrorismo politico e sfidava il governo ricattandolo e umiliandolo. Ma gli ammonimenti dell’autorevole giornale non ebbero alcun effetto, al pari degli appelli più volte rivolti dal presidente del Consiglio alle «opposte fazioni» affinché ponessero fine alle reciproche violenze. Nella prima metà del 1922, i fascisti presero di mira soprattutto il partito popolare, perché, sbaragliati i socialisti, il partito di don Sturzo, con la sua organizzazione politica, i suoi sindacati e la rete delle parrocchie, rimaneva il principale antagonista del partito fascista34. Mussolini non perdeva occasione per attaccare con virulenza polemica il partito popolare. Dal 1921, dismesso completamente l’atteggiamento anticristiano e anticlericale, il duce aveva cominciato a corteggiare la Chiesa esaltando l’universalità del cattolicesimo e proclamando che il fascismo era movimento rispettoso della religione35. Il fascismo si ergeva a paladino della religione cattolica, mentre, nello stesso tempo, Mussolini attaccava il partito popolare definendolo «un pericolo enorme per il cattolicismo in Italia», come disse in un’intervista il 2 giugno 192236.

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Come già era avvenuto per i socialisti, la violenza squadrista contro i popolari mirava a distruggere le cooperative e le leghe bianche per estendere il controllo fascista sia sui lavoratori che sugli stessi proprietari. «Con pubblico avviso – scriveva Sturzo al presidente del Consiglio il 13 febbraio – i proprietari venivano obbligati ad assumere solo operai fascisti. Le autorità locali rimangono estranee ed il Prefetto edotto dei fatti, lascia correre. Intanto mentre alcuni lavoratori pur di trovare lavoro si iscrivono ai fasci, da parte della maggioranza avviene resistenza e si temono reazioni»37. E di nuovo, dieci giorni dopo, Sturzo protestava con Bonomi per le violenze squadriste contro i popolari, denunciando l’inerzia delle autorità38. L’offensiva contro il partito popolare proseguì nei mesi successivi. In aprile, il giornale dei popolari mantovani definiva i fascisti peggiori dei socialisti: «Una volta coi socialisti non si poteva ragionare, non si poteva parlare tanto, adesso i fascisti protetti dal tricolore mandano gente assoldata fra i bolscevichi, non solo a interrompere ma a romper il muso a dei galantuomini che vanno per la loro strada e intendono difendere i loro interessi. Sono combattuti e perseguitati i popolari, i cattolici, i reduci collo stesso accanimento col quale si combattono i bolscevichi. In nome della libertà non si possono portare distintivi, neanche il tricolore, se non si è fascisti»39. Agli inizi di giugno, gli squadristi mantovani, in seguito al ferimento di due fascisti in uno scontro con i popolari, occuparono la città di Volta, e imposero le dimissioni dell’amministrazione comunale, retta dai popolari, e l’allontanamento del parroco40. Stato, anti-Stato e fascismo Nel mese di giugno, mentre fra i democratici, i popolari e i socialisti riformisti affiorava l’ipotesi di una collaborazione parlamentare per far fronte comune contro la violenza fascista, il fascismo intensificò la sfida allo Stato. Se il bene dell’Italia lo esigerà saremo anche contro lo Stato, titolava a tutta pagina il giornale fascista di Bologna «L’Assalto» il 17 giugno. Nell’editoriale, Grandi definiva il fascismo una rivoluzione politica di nuovi ceti medi e popolari creati dalla guerra, «la prima grande rivoluzione politica del nostro Paese»: «È ora che lo Stato liberale si decida. E ci faccia sapere se dobbiamo essere con lui o contro di lui: se dobbiamo essere noi lo stato, oppure se dobbiamo conquistarlo per forza»41.

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Venti giorni dopo, in un articolo intitolato Stato, anti-Stato e fascismo, pubblicato su «Gerarchia», Mussolini espose la sua idea sui rapporti «fra lo Stato in atto, che è lo Stato d’oggi, e lo Stato in potenza e in divenire, che è il fascismo», abbozzando i tratti dello Stato fascista, come egli lo concepiva. Lo Stato, secondo Mussolini, era un «sistema di gerarchie», ma «perché le gerarchie non siano categorie morte, è necessario che esse fluiscano in una sintesi, che convergano tutte ad uno scopo, che abbiano una loro anima, che si assomma nell’anima collettiva, per cui lo Stato deve esprimersi nella parte più eletta di una data società e dev’essere la guida delle altre classi minori». La decadenza delle gerarchie governanti provocava la decadenza dello Stato. «Quando la gerarchia dei politici vive giorno per giorno e non ha più la forza morale di perseguire scopi lontani, né di piegare le masse al raggiungimento di questi scopi, lo Stato viene a trovarsi di fronte a questo dilemma: o si dissolve dietro l’urto di un altro Stato o attraverso la rivoluzione sostituisce o rinsangua le gerarchie decadenti o insufficienti». Il fascismo, proseguiva il duce, era uno «Stato in potenza e in divenire», perché era una nuova gerarchia che muoveva alla conquista del potere. In passato, i fascisti avevano difeso lo Stato esistente contro «l’anti-Stato sovversivo», ma ora essi miravano «alla formazione dello Stato nazionale, qual è vagheggiato dal fascismo». Fra lo Stato attuale e lo Stato vagheggiato dal fascismo, asseriva Mussolini, vi era un’antitesi «profonda ed irreparabile» nell’ordine economico, politico e morale. Contro uno Stato liberale impotente, concludeva Mussolini, il fascismo «diverrà logicamente e storicamente l’anti-Stato nazionale»: «Ecco il compito della rivoluzione fascista, la quale potrà effettuarsi tanto sui binari di una lenta saturazione legale, come attraverso l’insurrezione armata, per cui il fascismo saggiamente ha provveduto, attrezzandosi per entrambe le eventualità»42. L’offensiva d’estate Nel corso di giugno e di luglio, le violenze fasciste si ripeterono quasi quotidianamente in varie provincie d’Italia43. A metà luglio, il governo subì una nuova umiliazione a Cremona, dove gli squadristi di Farinacci erano riusciti a prendere «il sopravvento

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in modo così notevole che essi ritenevano di poter in ogni occasione sostituirsi all’autorità, farsi giudici ed arbitri del pensiero e dell’azione degli altri partiti, pronunciare sentenze ed organizzare spedizioni punitive, usando violenza sulle persone e sulle cose», appoggiando, con il terrorismo squadrista, la lotta «ingaggiata contro le amministrazioni comunali, rosse e bianche, ma più specialmente rosse, da parte delle leghe dei contribuenti, impegnate a paralizzare e ad obbligare le amministrazioni stesse alle dimissioni per mancanza di denari in cassa»44. Il 1° maggio, gli squadristi si prepararono a impedire le manifestazioni socialcomuniste; dal suo giornale, Farinacci minacciò: «Cremona è nostra e guai a chi la tocca [...] se gli avversari lo vogliono, siamo pronti [...] ad iniziare un periodo di reazione salutare per disinfettare totalmente l’aria di Cremona»45. Il 3 luglio, in un afoso pomeriggio, approfittando dell’assenza del sindaco e degli assessori, Farinacci entrò nel municipio, occupò l’ufficio del sindaco e fece recapitare al prefetto una lettera nella quale lo informava che si sentiva «in diritto e in dovere di nominarmi Sindaco provvisorio di questo Comune», fino a quando il prefetto non avesse dichiarato dimissionaria l’amministrazione socialista e nominato un commissario prefettizio46. Contemporaneamente, Farinacci ordinò agli squadristi di occupare la piazza del comune per impedire alla forza pubblica di intervenire. Il prefetto denunciò Farinacci al procuratore del re e ordinò al questore di sgomberare la piazza con i carabinieri e la guardia regia, ma dopo ore di tensione, annunciò la nomina del commissario prefettizio47. L’episodio di Cremona suscitò una forte protesta da parte dei deputati socialisti, ai quali si associò il deputato popolare di Cremona Guido Miglioli, organizzatore cattolico dei contadini cremonesi accusato dai fascisti di praticare un «bolscevismo bianco», per chiedere al governo l’immediata restituzione del comune all’amministrazione socialista. Intanto, gli squadristi continuavano ad affluire nella città. Facta telegrafò al prefetto il 6 luglio: «Non posso assolutamente consentire che fascisti concentrandosi costì tentino coartare libertà amministratori codesto comune legalmente eletti e legittimi rappresentanti interessi cittadinanza. Provveda senza esitazione a rimpatriare forestieri ad allontanare tutti elementi torbidi e ad impedire nuovi arrivi. Ristabilire al più presto ordine e normalità vita è supremo inderogabile dovere.

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Non riuscendovi ne sarebbe compromessa dignità del Governo ed io non potrei non tenere S.V. personalmente responsabile»48. Ma il prefetto replicò che in città non c’era una «occupazione fascista», perché i fascisti coinvolti nell’occupazione del municipio il 3 luglio erano stati una decina, e la guardia regia aveva sbarrato «tempestivamente transito. Escludo qualsiasi violenza»49. Il governo revocò il commissario prefettizio, trasferì il questore e il procuratore, e aprì un’inchiesta sul comportamento della guardia regia. Farinacci considerò tali provvedimenti una sfida al fascismo cremonese, e il 13 luglio, con un manifesto alla cittadinanza, annunciò che il direttorio fascista passava i poteri ad un comitato segreto d’azione per organizzare una mobilitazione «col deliberato proposito d’opporre tutta la nostra forza e tutto il nostro buon diritto alla viltà ed alla debolezza dell’Autorità Centrale»50. Contemporaneamente, a Roma, il comando della coorte del Fascio di combattimento ordinava agli squadristi di tenersi pronti per un’azione antigovernativa: «È ora di finirla con le menzogne propagate dal Governo e con i provvedimenti presi da quelle canaglie, massa di porci, di mascalzoni, di farabutti che credono di governarci; perché io me ne frego altamente di prefetti e sottoprefetti e non ho simpatie personali per nessuno; bisogna cessare di fare i gentiluomini; per cui vi ordino di tenervi pronti per qualsiasi evenienza»51. Quello stesso giorno, Sturzo comunicava al sottosegretario all’Interno un telegramma che gli era pervenuto dai popolari di Cremona: «Cremona nuovamente occupata banda armata in gran numero urge provvedere estremo limite immediatamente proibizione porto bastoni situazione gravissima fascio minaccia di insorgere contro di noi»52. Quattromila fascisti cremonesi e mantovani invasero la città. Operando con la consueta tattica dell’attacco simultaneo in gruppi separati contro vari obiettivi, occuparono il municipio, distrussero una Camera del lavoro, una cooperativa, un circolo e una tipografia proletaria. Il giorno successivo, tramite il prefetto, i rappresentanti di diversi partiti cremonesi, dai liberali ai repubblicani, fecero sapere al governo «che non partito fascista ma grandissima parte cittadinanza ritiene come offensiva città Cremona trattamento usatole ultimi provvedimenti», cioè la revoca del commissario prefettizio, il trasferimento del questore e l’inchiesta sulla guardia regia, e pertanto chiedevano

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«scioglimento consiglio comunale inetto esautorato»53. La stessa richiesta, aggiungeva il prefetto, era fatta dai fascisti per risolvere la situazione «oltremodo pericolosa possibilità immanente gravi conflitti spargimento di sangue finora evitato». Ad ogni modo, il prefetto assicurava che erano state prese «maggiori misure mantenimento rigoroso ordine pubblico e eventuale risoluta azione forza»54. Ma la situazione peggiorò la mattina del 15, quando si seppe che un fascista era stato ucciso dai carabinieri: allora, un migliaio di fascisti occupò la prefettura mentre altri invasero e devastarono l’abitazione di Miglioli55. L’occupazione continuò finché Mussolini ordinò di sospenderla, perché, scrisse a Farinacci, proseguirla «diventerebbe dannoso per noi. [...] È meglio dare ancora una volta spettacolo di disciplina e non forzare le situazioni in modo da non cacciarci in un vicolo senza uscita»56. Gli squadristi cremonesi obbedirono e sgombrarono la città. Il governo capitola e l’offensiva continua Nel rapporto inviato il 18 luglio, dopo aver condotto un’inchiesta a Cremona, l’ispettore generale di pubblica sicurezza Antonio Sgadari attribuiva al prefetto il merito di aver saputo contenere, con l’«ascendente personale» che esercitava «su tutte le classi sociali» e con i provvedimenti adottati dall’autorità di polizia, l’azione di una massa di fascisti «che si muoveva ad un comando come un solo uomo», e che «avrebbe potuto abbandonarsi ad ogni sorta di violenze». L’ispettore affermava che «il fatto di aver raggiunto l’allontanamento da Cremona di una così forte adunata di fascisti (una buona parte fu fatta partire anche a mezzo di camions della Questura scortati) evitando effusione di sangue, costituisce un risultato veramente importante nell’interesse dell’ordine pubblico. Giacché un conflitto con le sue funeste conseguenze in Cremona in quel momento, avrebbe avuto gravissime violente ripercussioni nella città e nella provincia, nelle vicine provincie e anche altrove»57. Quel che il linguaggio involuto dell’ispettore cercava di mascherare, era una nuova capitolazione dello Stato di fronte al partito armato: il 17 luglio l’amministrazione cremonese fu

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sciolta, come avevano preteso i fascisti, mentre anche altre amministrazioni socialiste della provincia rassegnarono le dimissioni per protesta. Il giorno dopo, nonostante l’elogio dell’ispettore di pubblica sicurezza, il prefetto Guadagnini fu collocato a riposo. Ma non fu ristabilito il rispetto della legalità: il 18 luglio, il giornale di Farinacci proclamò la messa al bando dalla città di Miglioli e del deputato socialista Giuseppe Garibotti: «All’on. Miglioli e all’on. Garibotti si tolgono per sempre l’acqua e il fuoco [...] Se ne stiano a Roma o vadano all’inferno. Qui da noi non hanno più diritto di cittadinanza, non hanno più diritto d’ospitalità [...] La loro presenza non è più tollerabile»58. L’offensiva terroristica degli squadristi cremonesi continuò nei giorni successivi, costringendo altre amministrazioni socialiste a rassegnare le dimissioni: al 31 luglio, erano 35 le amministrazioni che si erano dimesse perché ritenevano «ormai insostenibile situazione», e nessuna accolse l’invito a desistere fatto dal nuovo prefetto di Cremona, il quale però precisava che le dimissioni «furono anche in genere motivate da gravi difficoltà amministrative e forse insufficienza amministratori»59. Per far fronte all’offensiva squadrista, era stata costituita il 20 febbraio, su iniziativa del Sindacato ferrovieri, l’Alleanza del lavoro, che univa la Federazione nazionale dei lavoratori dei porti, la Confederazione generale del lavoro, l’Unione italiana dei lavoratori e l’Unione sindacale italiana, allo scopo di «opporre alle forze coalizzate della reazione l’alleanza delle forze proletarie»60. Nelle zone dove avvenivano le violenze squadriste, l’Alleanza del lavoro proclamava lo sciopero generale, ma ciò dava il pretesto ai fascisti per intensificare l’offensiva terroristica, che nel mese di luglio assunse l’aspetto di una guerra di conquista: così la descriveva lo stesso Mussolini, che su «Il Popolo d’Italia» del 15 luglio annunciò trionfalmente, con lo stile di un bollettino di guerra, l’avanzata vittoriosa dell’esercito fascista all’interno del paese, mentre «la massima confusione regna nel campo nemico»61. Il fascismo italiano è attualmente impegnato in alcune decisive battaglie di epurazione locale. Bisogna richiamare su di esse l’attenzione di tutti i fascisti che non sono direttamente chiamati all’azione. [...] La situazione è rovesciata. Rimini nelle nostre mani significa il braccio della tenaglia che ci mancava per serrare l’Emilia e la

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Romagna e nello stesso tempo Rimini fascista è il ponte di passaggio per la penetrazione nella marca contigua. Avanguardie animose del fascismo, a Pesaro, a Fermo, a Pergola, ad Jesi ci assicurano che anche le Marche non resisteranno a lungo alla nostra fatale avanzata. Ad Andria la vittoria è ormai conquistata dalle nostre milizie. I tentativi di riscossa della cosiddetta Alleanza del lavoro sono falliti. Il rovesciamento della situazione ad Andria, è di somma importanza per la nostra azione nelle Puglie. Bisogna ora che il Fascio di Bari si decida finalmente ad organizzarsi in modo da essere all’altezza della situazione. Passando dalla Puglia al Lazio, le cronache di questi giorni hanno registrato gli episodi di Viterbo e la conseguente concentrazione fascista. [...] Venendo al nord, troviamo le forze del fascismo impegnate in Liguria. Siamo al riguardo assolutamente tranquilli. Sestri Ponente non sarà più ripresa dai rossi. Né l’ignobile coalizione social-massone-migliolina riuscirà a riprendere Cremona. Di fronte alle proteste per i metodi terroristici dello squadrismo, proteste che divennero frequenti anche sulla stampa liberale, Mussolini ripeteva che l’organizzazione militare fascista era «pienamente legittimata dal fatto dell’esistenza di una organizzazione militare socialcomunista»; che le rappresaglie fasciste erano state «una dura necessità», e che la tattica fascista si adeguava «necessariamente alla tattica dei socialcomunisti. Essi hanno voluto la guerra civile: noi abbiamo raccolta la sfida e non desisteremo sino al raggiungimento della vittoria totale»62. Ma era ormai evidente che la sfida del fascismo era soprattutto nei confronti del governo, che di fatto capitolava anche quando faceva mostra di resistere. Così avvenne a Bologna, dove alla fine di giugno si parlava del trasferimento di Mori: «Il prefetto Mori trasferito ‘in punizione’ a Palermo?», domandava «Il Giornale d’Italia» il 29 giugno, e il 5 luglio confermava: «La fine di un regno a Bologna. Il comm. Mori se ne va». Tre giorni dopo i fascisti cantavano vittoria sul loro giornale: «Che val infatti dichiarare che formalmente non si cede alle pressioni della piazza, quando invece la capitolazione è effettiva?». In effetti, a Bologna il governo aveva capitolato da tempo: l’ispettore generale di pubblica sicurezza Paolo Di Tarsia, inviato per un’inchiesta sulla situazione politica bolognese, aveva scritto nella sua relazione che la situazione sarebbe tornata alla normalità «sicuramente, appena sarà

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nominato il nuovo Prefetto, avendosi ora in sostanza una situazione irregolare pel fatto che la prefettura manca della possibilità di esercitare la sua funzione politica che ne è l’essenza, poiché il Fascio e tutti i simpatizzanti con esso, quindi la maggior parte della cittadinanza ha tagliato i rapporti con la prefettura, la quale in questi momenti si trova nella impossibilità di adempiere alle istruzioni governative, di fare cioè pratiche per la pacificazione dei vari partiti»63. Mori fu trasferito a Bari, dove il 26 agosto fu accolto da una manifestazione di protesta dei fascisti pugliesi. Commentando i fatti di Bologna, la rivista fascista «Polemica» osservò che la «battaglia contro lo stato liberale, schiavo del politicantismo rosso e nero, certo non è ancora vinta», ma già si delineava all’orizzonte una nuova sfida, perché il «dato primordiale di ogni movimento rivoluzionario è la conquista dello Stato. Il Fascismo forma i suoi quadri, allena le sue milizie – le squadre d’azione – che dovranno insorgere, salire, conquistare, crescere, combattere per lo stato fascista. Lo stato liberale vile ed incosciente non è lo stato nazionale, quindi non lo stato fascista. Deve essere rovesciato. L’urto delle varie forze non è lontano; segnerà ancora una vittoria fascista»64. Prodromi di dittatura, minacce d’insurrezione Le gesta squadriste a Ferrara, Bologna, Cremona mostravano con brutale evidenza che il fascismo disprezzava le regole essenziali della convivenza civile e politica in uno Stato liberale: «Da qualche tempo, malgrado i consigli dei dirigenti – scriveva il ‘Corriere della Sera’ il 16 luglio – le squadre fasciste compiono atti che non sono soltanto contrari alle norme di legge, ma non trovano neppure giustificazione in un elemento sentimentale di ritorsione. Non si può negare che parecchi deputati socialisti non possono ritornare nei loro collegi senza rischio della vita, che gli atteggiamenti assunti da uomini di parte popolare e di parte socialista sono considerati spesso dai fascisti meritevoli di rappresaglia contro le loro persone e le loro cose, che infine quando in una qualsiasi questione locale occorre sostenere una tesi, questa è dai fascisti sostenuta con illegali spiegamenti di forze»65. Secondo «Critica Sociale», la rivista di Treves e Turati, la «marcia vittoriosa – tra

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il sangue e le fiamme – del fascismo» tendeva a instaurare una «dittatura submilitare», favorita dall’antiparlamentarismo della destra conservatrice, un «antiparlamentarismo della disperazione, che auspica, nel seno della borghesia, dal caos anarchico il principio dittatorio»66. I fascisti stavano di fatto demolendo lo Stato liberale, instaurando, con il terrorismo squadrista, propri potentati dittatoriali, come notava «La Stampa» in un editoriale del 18 luglio, scritto certamente da Salvatorelli, dove era analizzata con realismo la natura dittatoriale del fascismo e la sua pericolosità per lo Stato liberale67. Che cosa fosse il fascismo, che volesse, di che fosse capace, noi vedemmo sin da principio e dicemmo chiaramente. Ammettiamo che non tutti, subito, potessero rendersi conto della natura vera del fenomeno fascista. Oggi, ingannarsi non è più possibile a nessuno che sia dotato di una intelligenza normale. Il fascismo è un movimento che tende con tutti i mezzi a impadronirsi dello Stato e di tutta la vita nazionale per stabilire la sua dittatura assoluta ed unica. Il mezzo essenziale per riuscirvi è, nel programma e nello spirito dei capi e dei seguaci, la completa soppressione di tutte le libertà costituzionali pubbliche e private, che è quanto dire la distruzione dello Statuto e di tutta l’opera liberale del Risorgimento italiano. Quando la dittatura fosse stabilita in modo che non una istituzione potesse esistere, non un atto compiersi, non una parola pronunciarsi se non di totale dedizione e obbedienza al fascismo, allora questo sarebbe disposto a sospendere l’uso della violenza, per mancanza di obiettivo, riservandosi sempre di riprenderlo al primo cenno di rinnovata resistenza. Il piano di conquista violenta si compie con una metodicità risultante, insieme, dai fatti e dalle dichiarazioni fasciste. Dopo l’invasione delle campagne, il fascismo lavora adesso alla capitolazione dei piccoli centri; una volta terminata l’occupazione di questi, verrà la volta delle grandi città, circondate e investite da ogni parte. Nell’Emilia il piano è quasi completamente realizzato in tutte e tre le sue fasi, e a Bologna il prefetto effettivo è il rag. Baroncini. La Toscana è in gran parte conquistata sotto il dominio del march. Perrone, e a Firenze i fascisti sono padroni del terreno. Intorno a Milano, a Torino, a Genova, gli approcci cominciano con le occupazioni di Novara e di Sestri Ponente. Intorno a Roma si medita d’incominciare a formare

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il cerchio: si è avuto a Viterbo un esperimento di mobilitazione. Tutto questo è confessato esplicitamente dagli organi fascisti: si legga per es., il Popolo d’Italia di sabato 15 corrente. Nessun rimprovero, nessun ammonimento si può rivolgere al partito fascista movendo, come taluni pietosamente tentano, dalla sua logica interna. Esso ha sempre proclamato di essere antiliberale – di volere cioè, la distruzione delle istituzioni liberali – e antilegalitario: ha sempre affermato di riconoscere lo Stato e di obbedire alla legge soltanto se e in quanto Stato e legge coincidano col suo particolare volere. Esistono, oggi, due soli partiti in Italia che esplicitamente respingono la pregiudiziale legalitaria: fascismo e comunismo. Ma la forza per tradurre in atto le premesse sovversive è quasi unicamente del primo. Il giornale torinese poneva un quesito di estrema gravità al governo Facta, che contava i fascisti nella sua maggioranza e aveva fra i suoi membri alcuni esponenti della destra conservatrice, che alla Camera era alleata con il partito fascista, come il ministro dei Lavori pubblici Vincenzo Riccio, seguace di Salandra, e il ministro della Guerra Pietro Lanza di Scalea, un agrario siciliano vicino ai nazionalisti: «E allora il quesito che si impone è questo: è ammissibile che del Ministero, organo supremo dello Stato, faccia parte chi è rappresentante d’un partito antistatale o è solidale con esso? È ammissibile che concorra a costituire il governo e a dirigerne l’azione, che deve provvedere alla tutela della legge e delle libertà istituzionali, chi quella legge e quella libertà rinnega e conculca, di fatto e di diritto? [...] Occorre sapere, insomma, se l’on. Riccio, e soprattutto l’on. Di Scalea che, quale ministro della guerra, presiede insieme col ministro dell’interno alle forze incaricate di ristabilire l’ordine e tutelare la legge, rappresentino lo Stato costituzionale e liberale o l’antistato fascista. Nel secondo dei casi, essi non possono restare un minuto di più al potere». Il 19 luglio, Facta annunciava le dimissioni del suo governo, dopo l’approvazione di un ordine del giorno di sfiducia presentato dai popolari: contro il governo votarono, con i popolari, i socialisti, i comunisti, i repubblicani, i socialisti riformisti, i democratici e anche i fascisti, mentre a favore votarono i nazionalisti, la destra liberale, i giolittiani e gli agrari68. A determinare la caduta del governo furono i fatti di Cremona. L’iniziativa della sfidu-

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cia mirava a preparare le condizioni per una nuova maggioranza costituzionale antifascista, formata dai liberali democratici, dai popolari e dai socialisti riformisti. Mussolini votò contro il governo, annunciando che il fascismo era prossimo a risolvere il «suo interno tormento»: se «vuole essere un Partito legalitario, cioè un Partito di governo, o se vorrà invece essere un Partito insurrezionale». I fascisti erano disposti ad appoggiare solo un governo in grado di risolvere «il problema della pacificazione, inteso come una normalizzazione dei rapporti fra i diversi partiti», mentre «nessun governo si potrà reggere in Italia quando abbia nel suo programma le mitragliatrici contro il fascismo. [...] Ma se per avventura, da questa crisi che è ormai in atto, dovesse uscire un governo di violenta reazione antifascista, prendete atto, onorevoli colleghi, che noi reagiremo con la massima energia e con la massima inflessibilità. Noi, alla reazione, risponderemo insorgendo». Mussolini concluse dichiarando che egli preferiva che il fascismo «arrivi a partecipare alla vita dello Stato attraverso una saturazione legale, attraverso una preparazione alla conquista legale. Ma è anche l’altra eventualità, che io debbo, per obbligo di coscienza, prospettare, perché ognuno di voi, nella crisi di domani, discutendo nei gruppi, preparando la soluzione della crisi, tenga conto di queste mie dichiarazioni, che affido alla vostra meditazione e alla vostra coscienza. Ho finito» 69.

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Come nell’agosto 1922 il partito fascista, spregiando l’autorità dello Stato, scatenò una nuova offensiva contro le organizzazioni avversarie, e mostrò chiaramente, nei fatti e con le parole, quel che era, e dove voleva arrivare. E come pochi, al solito, lo capirono.

Il falso dilemma Partito di governo o partito insurrezionale: al prefetto di Milano, che lo riferì a Facta, Mussolini disse il 18 luglio che avrebbe posto il dilemma alla direzione del partito e al gruppo parlamentare fascista: «O il fascismo vuol essere un movimento anti-legale che opera per conquista Stato ed in questa ipotesi, che egli [Mussolini] esclude, non è possibile partecipare al Governo o fascismo vuol essere movimento che, nelle vie legali, contiene eccessi altri partiti, ed in questo caso egli reclama pieni poteri per controllare le iniziative locali e, occorrendo, respingerle: intende fare anche una revisione degli associati. Qualora non gli dessero questi poteri, egli abbandonerebbe fascismo a se stesso»1. Se appare molto dubbia la sincerità dell’affermazione di Mussolini, che avrebbe abbandonato il fascismo a se stesso, era certamente sincero quando dichiarava di volere controllare le iniziative locali, contenere la violenza squadrista, effettuare la revisione degli iscritti, e preparare così, per via legale, la partecipazione del fascismo al governo. In quel momento, Mussolini riteneva impraticabile la via insurrezionale. Scegliendo la via legale, forse pensava a una nuova trasformazione del partito fascista in un partito nazionale del lavoro, così come lo aveva già progettato nel 1918 e riproposto alla vigilia del trattato di pacificazione. E forse non aveva abbandonato del tutto il progetto, dopo che aveva dovuto subire la costituzione del fascismo in partito milizia2.

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Alla trasformazione del partito milizia in un partito nazionale del lavoro, avrebbero acconsentito altri dirigenti fascisti come Cesare Rossi, Michele Terzaghi, Massimo Rocca, Dino Grandi, i quali consideravano esaurito lo squadrismo dopo la disfatta del predominio socialista; sbaragliati gli avversari, il fascismo doveva deporre le armi e assumere una nuova funzione: diventare il fulcro di una nuova destra, come vagheggiava Massimo Rocca, o un partito nazionale e democratico di massa, come auspicava Grandi, ispirato agli ideali patriottici e laici della tradizione risorgimentale, promotore del rinnovamento dello Stato, aprendo il parlamento ai tecnici e ai competenti3. Questi orientamenti ideologici erano accennati nel programma del partito fascista, che fra le sue organizzazioni aveva i Gruppi di competenza, espressione di una tendenza tecnocratica presente nel fascismo fin dalle origini4. Inoltre, il partito fascista, trasformato in partito nazionale del lavoro, avrebbe potuto valorizzare i suoi sindacati di varie categorie, le corporazioni nazionali, con oltre mezzo milione di iscritti: i dirigenti sindacali fascisti propugnavano la collaborazione fra le classi nell’interesse supremo della nazione, entro l’orbita di uno Stato nuovo che avrebbe affidato lo sviluppo della produzione alla libera concorrenza delle forze individuali e associate5. Erano, questi, orientamenti e temi variamente discussi sulla stampa fascista, specialmente da quando, costituito il partito, si era posto il problema di elaborare un coerente sistema di idee fasciste sullo Stato, sulla nazione e sulla società per definire gli indirizzi generali e i programmi di politica interna e di politica estera. Nell’estate del 1922 il problema non era ancora risolto. Nel partito fascista coesistevano idee politiche, economiche e sociali diverse e contraddittorie. In teoria, nessuno degli orientamenti ideologici esposti dai fascisti, specialmente in materia di politica economica e sociale, era inconciliabile con lo Stato liberale e il regime parlamentare. Pertanto, il successo dell’uno o dell’altro orientamento, all’interno del partito fascista, avrebbe potuto favorire la sua trasformazione da partito di combattimento in partito di governo: nella realtà, nessuno di questi orientamenti aveva tanta forza di persuasione da indurre la massa degli squadristi a diventare cittadini rispettosi dei principi, delle istituzioni e delle leggi dello Stato liberale e del regime parlamentare. Ciò che definiva la natura del partito fascista, e ne fissava i caratteri indelebili, che lo

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rendevano irrimediabilmente incompatibile con lo Stato liberale, non erano le sue dichiarazioni ideologiche e i suoi programmi politici, ma erano la sua organizzazione armata e le sue azioni di violenza e di dominio, il fanatismo politico che identificava il fascismo con la nazione, e la pretesa integralista al monopolio del patriottismo, che di quella identificazione era conseguenza inevitabile. Nonostante la preferenza per la via legalitaria espressa dal duce, i fascisti intensificarono la pratica quotidiana delle violenze per sfidare l’autorità governativa, ostentando massimo disprezzo per il liberalismo, la democrazia, il parlamento. E Mussolini stesso non si asteneva dall’eccitare il fanatismo antidemocratico con i suoi articoli e i suoi discorsi. «La Camera italiana fa schifo, ma tanto schifo», scriveva il 2 luglio Mussolini, coinvolgendo nel suo giudizio anche il paese che l’aveva eletta, perché egli rifiutava la distinzione fra «il paese che sarebbe virtuoso e la Camera scandalosa»6. Il disprezzo per il parlamento nasceva dalla pretesa del fascismo di essere l’unico partito che esprimeva la volontà della nazione, anche se alla Camera aveva appena trenta deputati. I fascisti rivendicavano una condizione privilegiata di superiorità nei confronti di tutti gli altri partiti, del parlamento e dello Stato liberale, attribuendosi, in nome della nazione, la prerogativa di sottrarre a uno Stato imbelle il monopolio della forza per esercitarla contro tutti coloro che i fascisti consideravano antinazionali perché antifascisti o non simpatizzanti per il fascismo. L’incompatibilità reale Nei confronti dello Stato liberale, l’atteggiamento di un fascista legalitario come Grandi non era diverso da quello degli squadristi. Il 22 luglio, su «L’Assalto», Grandi legittimava la violenza fascista perché esprimeva la volontà della nazione contro un parlamento e uno Stato che non la rappresentavano. Le dimissioni di Facta non indicavano solo un «trapasso da un governo a un altro», perché la crisi «è più vasta e profonda. La Nazione ha ancora una volta superato il Parlamento, e fa per conto suo». Si delineava così un contrasto «angoscioso e fatale tra lo Stato nei suoi organi rappresentativi, e la grande massa del popolo italiano, il quale ha oggi un’altra volontà, chiaramente manifestata, e segue per pro-

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prio conto altre vie». In questo contrasto, la volontà della nazione era rappresentata, secondo Grandi, non dai partiti presenti in parlamento, ma dalle nuove «unità politiche gagliarde, poderose, volitive», «l’espressione unanime della nuova volontà nazionale», che si concretizzava nell’azione di conquista dell’esercito fascista: «Le invasioni e la presa di possesso violenta dei Comuni e delle Amministrazioni in quasi tutta l’Italia, il contrasto ogni giorno più tragico tra le antiche e le nuove forze, sono l’indice di una nuova situazione politica che si è già maturata nel Paese»7. Come fosse compatibile la conquista violenta dei comuni e delle amministrazioni con una soluzione legalitaria del dilemma mussoliniano, era un quesito che non sfiorava Grandi e Mussolini. Forse perché erano consapevoli della falsità del dilemma stesso. Eppure, molti liberali continuarono a credere nella serietà del dilemma mussoliniano, e mostrandosi concilianti e tolleranti verso il fascismo, chiudendo uno o due occhi sulle sue violenze, si sforzarono di spingere Mussolini e i fascisti a convertirsi alla legalità. A una simile conversione non credeva Salvatorelli: nella pratica quotidiana, scriveva il 19 luglio, il partito fascista stava attuando un «attacco antistatale» minacciando non soltanto «le libertà statutarie, i diritti pubblici e privati dei singoli», ma «l’esistenza medesima dello Stato», perché lo aggrediva «nei suoi tre elementi essenziali: il Parlamento, il governo di gabinetto, il legame di obbedienza delle forze armate alle autorità statali». Il parlamento era attaccato dai fascisti «colle violenze premeditate contro un numero cospicuo di deputati», ai quali era impedito di esercitare la loro funzione; poi era attaccato con le intimidazioni di piazza «perché il Parlamento sospenda ed abdichi alle sue funzioni di discussione e di controllo, a fine di potere più tranquillamente stabilire il regime della violenza in tutto il paese»; era ancora attaccato con «l’affermazione di una ineguaglianza di diritti e di doveri fra i cittadini, per cui ad una parte sarebbe obbligo obbedire allo Stato senza esserne difesa, ed all’altra sarebbe lecito comportarsi in senso precisamente opposto»; e, infine, lo Stato liberale era attaccato con «l’aperto incitamento alle forze armate dello Stato, perché, in caso di conflitti, dolorosi e deprecabili, ma la cui eventualità è insita nella natura dello Stato stesso, si ribellino agli ordini superiori, facendo causa comune colla piazza in rivolta». Tutto ciò era, per Salvatorelli, un «bolscevismo reazionario – pe-

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ricolo infinitamente più reale, oggi, del bolscevismo comunista». E contro il «bolscevismo reazionario», Salvatorelli invocava «il fronte unico di tutti gli elementi legalitari e patriottici – mai le due cose sono state talmente identiche – esistenti ancora in Italia. Per lo Statuto e per lo Stato»8. L’appello di Salvatorelli cadde nel vuoto. Fra i liberali, sia conservatori sia democratici, prevalse la convinzione che fosse ormai indispensabile coinvolgere i fascisti nel governo per ricondurre il paese alla normalità. Oltre che da interessi e calcoli politici, questo atteggiamento derivava dalla incapacità della classe dirigente a risolvere la gravissima situazione creata dalla presenza di un partito armato che agiva e dominava nel paese come un esercito di conquista e di occupazione. Essi temevano che una reazione della forza legittima dello Stato contro la forza illegale del fascismo avrebbe provocato un bagno di sangue e favorito la ripresa dei socialcomunisti. Questo atteggiamento cominciò ad affermarsi e poi a prevalere proprio durante la crisi del governo Facta, che fu, per questo, un momento decisivo nell’agonia dello Stato liberale. «Forse – osservava il 20 luglio Giovanni Amendola, ministro nel governo dimissionario – siamo giunti alla fase culminante della crisi profonda ed oscura che travaglia non da ora il nostro paese, ma che assume in questi giorni manifestazioni esasperate ed imponenza minacciosa [...] qui non si tratta soltanto di una crisi di Governo». Il giudizio del democratico Amendola era simile a quello del fascista Grandi, ma opposte erano la valutazione delle cause e la proposta dei rimedi. Per Amendola la causa era «il mito della violenza» che «ritorna e trionfa»: «la rissa in campo aperto fra le fazioni, la guerra guerreggiata fra le classi, l’urto fra squadre armate per la conquista violenta dei municipi [...] semina ogni giorno le vie delle città e delle campagne di cadaveri e di feriti». In questa situazione, l’unico rimedio necessario era «salvare lo Stato», la salute del quale «non può venire che dal perfetto funzionamento degli organismi rappresentativi», mentre era follia l’illusione «di credere all’azione extralegale, che origina da minoranze non investite dal crisma della sovranità popolare, e che provoca fatalmente – prima o poi – la reazione delle minoranze avverse», in una perpetua guerra civile fra fazioni inconciliabili, che rendevano impossibile affrontare e risolvere le molte e gravi crisi che minacciavano la rovina del paese9.

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Le riflessioni di Amendola dimostravano che il dilemma mussoliniano fra partito di governo e partito insurrezionale poggiava su premesse inconsistenti. Del resto, quale che fosse la preferenza di Mussolini, a sciogliere il dilemma non fu il duce, ma il segretario nazionale del PNF Michele Bianchi, il più deciso assertore di una insurrezione per conquistare il potere. «Dare agli avversari il senso del terrore» Gli squadristi non si ponevano il dilemma mussoliniano, continuando l’attività terroristica. Inorgogliti dal successo, moltiplicarono e intensificarono le spedizioni contro gli avversari, con espedienti che rendevano difficile alla forza pubblica prevenire le incursioni, impedire le violenze e individuare i responsabili, come faceva notare il prefetto di Milano il 19 luglio: «Il territorio della Provincia di Milano trovasi incuneato fra Cremona, Piacenza, Pavia e Novara. Per quanto si sia vigilanti – sono frequenti incursioni di facinorosi di dette provincie che invitati da elementi locali i quali rimangono in stato di inerzia compiono rapidamente gesta e rappresaglie delittuose e ritornano con mezzi celeri alle loro provincie»10. La stessa difficoltà era segnalata dal prefetto di Mantova il 2 agosto: «In ordine poi a quanto specialmente riguarda le incursioni fasciste, si reputa opportuno notificare che queste – come è noto – vengono preparate rapidamente, nella massima segretezza e con obiettivi, cosicché hanno carattere di sorpresa. Gli autocarri, nella maggior parte dei casi, non partono dai centri abitati, ma dalle corti e dalle case sparse, per cui difficilmente si riesce a prevenire e ad impedire le adunate»11. Nello stesso tempo, gli squadristi intensificarono il metodo inaugurato da Balbo a Ferrara, effettuando l’invasione e l’occupazione di intere città, soprattutto nelle regioni dove il fascismo non era ancora penetrato. Il pretesto per scatenare una nuova offensiva fu lo sciopero generale proclamato il 18 luglio in Piemonte per protestare contro l’occupazione fascista di Novara. Nei giorni successivi lo sciopero generale fu proclamato dall’Alleanza del lavoro anche in Lombardia e nelle Marche. Causa della spedizione fu la morte di un agricoltore fascista, ucciso il 9. Nonostante l’intervento della forza pubblica per impedire la rappresaglia, ri-

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feriva il prefetto di Novara, i fascisti di notte «si sparpagliarono in varie direzioni, compiendo danneggiamenti e distruzioni di circoli di più o meno lontani comunelli e frazioni sforniti di forza pubblica, senza però compiere alcun attentato su persone». I dirigenti socialisti decisero di «proclamare uno sciopero di protesta ad oltranza contro le violenze fasciste rappresentate dai danneggiamenti ai circoli socialisti», nonostante il tentativo del prefetto di dissuaderli12. Allo sciopero, gli industriali reagirono proclamando la serrata, gli agricoltori denunciando il concordato agricolo, e i fascisti effettuando un «concentramento di squadre fasciste dalla Lomellina e da altre regioni per sostituire gli scioperanti e proteggere i liberi lavoratori della terra»13. In seguito all’uccisione di un altro giovane fascista, i fascisti occuparono Novara abbandonandosi «a rappresaglie con inaudita violenza. A gruppi, i fascisti si portarono in varie zone, ove danneggiarono, devastarono, incendiarono locali e abitazioni di sovversivi, nulla risparmiando, incuranti di pericoli e dei presidî di forza pubblica che, ovunque, riuscirono a sopraffare. A Novara assalirono ed incendiarono la Camera del lavoro, custodita da 150 uomini, fra soldati e regie guardie, con un danno di oltre 100 mila lire, distrussero i circoli di Porta Mortara e della Bicocca ed occuparono il Municipio dove, però, nulla toccarono». Nei giorni successivi furono devastati i circoli, le Camere del lavoro, le Case del popolo, le cooperative e le abitazioni di socialisti e comunisti in numerosi comuni. Intanto a Novara si era costituito un comitato di difesa cittadina, composto dai rappresentanti di tutti i partiti costituzionali, «per sorreggere l’azione fascista, della quale era stata affidata la direzione al Deputato On.le Cesare Maria De Vecchi», e per chiedere lo scioglimento del consiglio comunale socialista «i cui membri, all’infuriare della reazione, si erano allontanati», insieme al sindaco e al deputato socialista. Il 20 luglio, sciolto il consiglio comunale e nominato un commissario prefettizio, dal palazzo comunale «parlò alla folla radunatasi, l’On. De Vecchi, il quale prese impegno di non consentire, con qualunque mezzo, il ritorno degli amministratori socialisti». Il 24 i fascisti celebrarono la vittoria con un altro comizio di De Vecchi, che si assunse tutta la responsabilità di quanto era stato operato dai fascisti: «Oltre quaranta Comuni sono stati piegati da una forza travolgente. I covi della belva rossa sono stati distrutti a

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centinaia. Mai in Italia passò vento più purificatore e di più leonina forza. Dovunque nel Circondario di Novara splende e palpita il tricolore riconsacrato tra le pingui risaie al sole di Luglio che avvampa. La vostra violenza necessaria deve oggi terminare. Giustizia è fatta»14. Mussolini su «Il Popolo d’Italia» proclamò il fallimento dello sciopero generale anche in Lombardia e nelle Marche15. La direzione del partito fascista gli faceva eco dichiarando che il tentativo di una controffensiva antifascista «è stato stroncato a Novara» e non era riuscito neppure nelle altre regioni16. Insieme ai socialisti e ai comunisti, principale bersaglio della nuova offensiva squadrista continuò ad essere il partito popolare. Alla fine di maggio, Sturzo aveva scritto a Facta per denunciare la situazione nel Mantovano che «di giorno in giorno va inasprendosi, anziché migliorare. Le condizioni generali permangono gravissime: sembra instaurato un regime di corruzione, di inganno, di menzogna, tra violenze, intimidazioni, teatrali parate di vessilliferi della morte e della sopraffazione»17. Alla fine di giugno, il direttorio provinciale del PNF deliberò «di trattare d’ora in avanti alla stessa stregua degli aderenti al partito social-comunista, tutti quegli iscritti al P.P. della nostra provincia che, dimentichi di appartenere a un partito che si dice costituzionale, si uniscono agli elementi estremisti più accesi, pur di combattere il Partito Fascista, il Partito Nazionale per eccellenza»18. E di nuovo, l’8 luglio i dirigenti provinciali del PNF ordinavano ai fascisti «di attenersi rigidamente all’ordine del giorno del PNF nel quale si dichiara di considerare alla stessa stregua dei comunisti gli elementi estremisti del PPI». Il prefetto sollecitava la questura e l’autorità giudiziaria a «esaminare se sia il caso di procedere contro il Direttorio Provinciale per istigazione a delinquere», ma lui stesso precisava che «nell’ordine pubblico non si ravvisano gli estremi per l’incriminazione»19. Il 22 luglio Facta telegrafò al prefetto di Mantova di «non tollerare nessuna violenza, ed invece prendere tutte le decisioni più energiche per impedirle»20. Ma le violenze squadriste continuarono: il 27 luglio Sturzo denunciava nuovamente le bastonature a giovani militanti del suo partito e «le violenze contro consiglieri comunali per imporre dimissioni»21. L’offensiva estiva degli squadristi investì anche i repubblicani. Accadde a Ravenna, occupata il 27 luglio da migliaia di fascisti

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capeggiati da Balbo22. La sera del 26, per celebrare i funerali di un fascista ucciso durante uno sciopero dell’Alleanza del lavoro, numerose squadre di fascisti bolognesi e ferraresi invasero la città. L’Alleanza del lavoro estese lo sciopero generale in tutta la regione. Il giorno successivo Balbo impose la chiusura dei negozi per «lutto fascista» e ingiunse ai dirigenti socialisti, repubblicani e comunisti di abbandonare la città nelle ventiquattro ore successive. Gli squadristi assaltarono il municipio e la Camera del lavoro, e occuparono la Casa del popolo repubblicana, che Balbo usò come ostaggio per costringere i repubblicani a staccarsi dall’Alleanza del lavoro, minacciando di distruggerla se non avessero ottemperato al suo ultimatum23. Intanto, per vendicare l’uccisione di un altro fascista, la notte del 28 i fascisti incendiarono un antico palazzo che era sede della Federazione delle cooperative socialiste. «Abbiamo compiuto quest’impresa – commentava Balbo nel diario – con lo stesso spirito con cui si distruggevano in guerra i depositi del nemico. L’incendio del grande edificio proiettava sinistri bagliori nella notte. Tutta la città ne era illuminata. Dobbiamo oltre a tutto dare agli avversari il senso del terrore. Non si uccidono impunemente i fascisti»24. Quello stesso giorno, giunse a Balbo un telegramma di Bianchi che ordinava di fermare l’azione e attendere l’arrivo di Grandi, che aveva il mandato di raggiungere un accordo con i repubblicani. Irato per l’ordine di «sospendere all’improvviso il movimento delle squadre mentre ci sono ancora dei morti per le strade», Balbo non volle partecipare alle trattative e sottoscrivere l’accordo concluso da Grandi con i repubblicani ravennati, ai quali il 29 fu riconsegnata la Casa del popolo. «La Voce repubblicana» definì l’accordo Il concordato con Attila25. Mentre le squadre smobilitavano, Balbo ebbe la notizia che a Borgo San Rocco, nei pressi di Ravenna, un fascista ferrarese era stato ucciso e altri erano stati feriti. Immediatamente fu scatenata la rappresaglia con la distruzione dei circoli comunisti, socialisti e anarchici. Poi, ottenuti dal questore i camion col pretesto di allontanare dalla città gli squadristi esasperati, Balbo li usò per estendere la rappresaglia su tutta la provincia, dalla mattina del 29 alla mattina del 30: «Siamo passati da Rimini, Sant’Arcangelo, Savignano, Cesena, Bertinoro, per tutti i centri e le ville tra la provincia di Forlì e la provincia di Ravenna, distruggendo ed

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incendiando tutte le case rosse sedi di organizzazioni socialiste e comuniste. È stata una notte terribile. Il nostro passaggio era segnato da alte colonne di fuoco e di fumo. Tutta la pianura di Romagna fino ai colli è stata sottoposta alla esasperata rappresaglia dei fascisti, decisi a finirla per sempre col terrore rosso»26. La battaglia decisiva I «barbarici fatti di Ravenna», come li definì «La Stampa», avvennero mentre era in corso la crisi di governo. Nel tentativo di risolverla si avvicendarono Vittorio Emanuele Orlando, Bonomi, il popolare Filippo Meda e il democratico liberale Giuseppe De Nava27. I socialisti riformisti dichiararono di essere disponibili a partecipare a un governo con popolari e democratici per ristabilire la legalità: per la prima volta, Turati si recò al Quirinale per le consultazioni del re; ma i massimalisti furono contrari. I popolari non volevano partecipare a un governo né con i socialisti né con i fascisti. Giolitti, che era all’estero, fece sapere con una lettera pubblicata da «La Tribuna» il 26 luglio, che non si aspettava nulla di buono per il paese «da un connubio Sturzo-Treves-Turati». La situazione parlamentare che aveva provocato la caduta di Facta, mirante a formare una maggioranza antifascista, non gli faceva vedere «la possibilità di una soluzione che corrisponda ai veri interessi del Paese. Il nuovo governo o si getterà a capofitto nella lotta contro il fascismo, e porterà a vera guerra civile; oppure userà la necessaria prudenza, e i paurosi, che procurarono questa crisi, lo rovesceranno. Sono fuori, ne ringrazio Iddio, e resto fuori»28. Mussolini ventilò l’ipotesi di una coalizione fra popolari, socialisti e fascisti, come aveva fatto un anno prima, sostenendo che era l’unica maggioranza parlamentare in grado di realizzare un governo di pacificazione nazionale, ma nello stesso tempo continuava a bersagliare socialisti e popolari con violenti e sarcastici strali polemici, minimizzando la gravità della violenza fascista: «Non bisogna esagerare – disse in un’intervista il 29 luglio – l’estensione della guerra civile che infierisce. Colui che percorre l’Italia nota presto che si tratta di avvenimenti parziali, che in molti luoghi si limitano a risse domenicali», pur riconoscendo che «accanto a incidenti trascurabili, ne avvengono altri di una gravità incontesta-

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bile, in cui lo stato di spirito dei fascisti e dei socialisti comunisti si manifesta con molto ardore»29. Alla fine, la crisi ministeriale ebbe una soluzione di ripiego: quando, il 30 luglio, si seppe che stava per essere proclamato uno sciopero generale in tutta Italia, il re diede il reincarico a Facta che in un solo giorno formò il governo, effettuando alcune sostituzioni: fra i nuovi ministri vi erano Paolo Taddei all’Interno, Giulio Alessio alla Giustizia e Marcello Soleri alla Guerra. Il secondo governo Facta entrò in carica il 1° agosto. In quello stesso giorno iniziava in tutta Italia lo sciopero generale deciso il 29 luglio da un comitato segreto d’azione dell’Alleanza del lavoro. La ragione dello sciopero era difendere le «libertà politiche e sindacali minacciate dalle insorgenti forze reazionarie» e la «conquista della democrazia», e ammonire il governo «perché venga posto fine, e per sempre, ad ogni azione violentatrice delle civili libertà, che debbono trovare presidio e garanzia nell’imperio della legge». Ai lavoratori, il comitato segreto raccomandava di «assolutamente astenersi dal commettere atti di violenza che tornerebbero a scapito della solennità della manifestazione e si presterebbero alla sicura speculazione degli avversari, salvi i casi di legittima difesa delle persone e delle istituzioni, contro le quali, malauguratamente, la violenza avversaria dovesse scatenare i suoi furori»30. Fu per questo che lo sciopero generale del 1° agosto fu chiamato uno «sciopero legalitario». Trapelata sui giornali il 30, la notizia dello sciopero consentì ai fascisti di prepararsi a contrastarlo. Il giorno successivo, la direzione del PNF pubblicò un proclama nel quale dava «quarantotto ore di tempo allo Stato perché dia prova della sua autorità in confronto di tutti i suoi dipendenti e di coloro che attentano alla esistenza stessa della nazione. Trascorso questo termine, il fascismo rivendicherà piena libertà di azione e si sostituirà allo Stato che avrà ancora una volta dimostrata la sua impotenza»31. Con una circolare segreta, Bianchi ordinò l’immediata mobilitazione delle squadre, per intervenire se lo Stato non avesse stroncato lo sciopero nel termine imposto dalla direzione del PNF: le squadre dovevano procedere all’occupazione dei capoluoghi delle provincie, sorvegliare i nodi stradali e se «la rappresaglia si imporrà, dovrà essere fulminea»32. Il 1° agosto la direzione del PNF ordinò ai deputati fascisti di raggiungere subito le loro sedi «per partecipare come di dovere

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all’azione». Lo stesso giorno, Bianchi si recò dal ministro dell’Interno per confermare l’ultimatum, mostrandogli il telegramma spedito ai deputati fascisti33. Il giorno successivo, «Il Popolo d’Italia» pubblicava un comunicato del PNF su un altro colloquio avuto da Bianchi, insieme agli onorevoli De Vecchi e Acerbo, con il presidente del Consiglio e con il ministro dell’Interno, nel quale i fascisti avevano ribadito che il partito fascista «fedele all’impegno assunto verso la Nazione, non può decampare dalla linea tracciata nel proclama lanciato al Paese». Facta e Taddei, aggiungeva il comunicato, avevano assicurato che «il Governo senza ulteriore indugio, prenderà i provvedimenti necessari per fronteggiare la situazione creata dallo sciopero»34. Quel giorno stesso, Taddei telegrafò ai prefetti l’ordine di «procedere immediatamente all’arresto dei ferrovieri fiduciari del personale ferroviario capi del movimento di sciopero», se lo sciopero ferroviario non fosse cessato entro il giorno successivo35. Ma al momento nessuna misura fu presa per respingere l’ultimatum fascista allo Stato. Al consiglio nazionale del PNF, il 13 agosto, Bianchi raccontò di aver ripetuto, nel colloquio con Facta e Taddei, «i termini dell’ultimatum sette ore prima che esso scadesse, avvertendo nello stesso tempo i due Ministri della serietà delle intenzioni fasciste. Il Governo non credette di dare a queste parole il peso che meritavano, ma dopo la scadenza dovettero pentirsene»36. Nelle quarantotto ore precedenti la scadenza dell’ultimatum, i fascisti «non stettero inoperosi», come riferiva la direzione generale di pubblica sicurezza, «ma si sostituirono agli scioperanti per assicurare alcuni pubblici servizi e per far sì che lo sciopero avesse la minore estensione ed il minor numero di partecipanti: di qui contrasti in molte città del Regno, qua e là degenerati in conflitti con morti e feriti, specialmente nell’Italia settentrionale»37. Nei primi due giorni di sciopero si contarono 12 morti e 62 feriti; le perdite fasciste erano 8 morti e 26 feriti38. Il 2 agosto l’Alleanza decretò la cessazione dello sciopero per le ore 12 del giorno successivo, non volendo dare l’impressione di piegarsi all’ultimatum fascista. Ma Bianchi ordinò ai fascisti di attuare comunque la rappresaglia, che durò cinque giorni dopo la cessazione dello sciopero, con numerose città invase, amministrazioni costrette alle dimissioni, municipi occupati, sindacati, cooperative, circoli distrutti, giornali bruciati39. A Milano, la sera

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del 3 agosto i fascisti, capeggiati da Rossi, Finzi, Forni e Farinacci occuparono Palazzo Marino per defenestrare l’amministrazione socialista e riuscirono a coinvolgere D’Annunzio, che era in città per ragioni private, convincendolo a parlare dal balcone del municipio occupato. Il poeta invocò la concordia nazionale senza nominare il fascismo, ma la sua presenza fu comunque un successo propagandistico, che i fascisti sfruttarono per far credere che D’Annunzio era con loro40. I propositi dei fascisti milanesi erano anche più gravi, come scriveva il prefetto di Milano a Facta, riferendogli quanto gli aveva detto Finzi: i fascisti miravano allo scioglimento della Camera, intendevano occupare tutti i comuni socialisti e avevano «già pronte liste di persone che dovranno essere eliminate. A Milano per esempio la lista comprende 64 nomi. Io non so se questa sia iattanza – aggiungeva il prefetto –, ma i fatti che stanno accadendo possono far supporre che si abbiano degli intendimenti assai risoluti»41. La rappresaglia nella capitale lombarda fu conclusa il 4 agosto con l’incendio della sede dell’«Avanti!»42. In quello stesso giorno, migliaia di squadristi provenienti dalle provincie vicine invasero Genova. Il comando dell’occupazione fu assunto da un comitato d’azione di cui facevano parte Massimo Rocca, Edmondo Rossoni, Alberto De Stefani, Renato Ricci e Edoardo Torre. I fascisti occuparono Palazzo San Giorgio, sede delle organizzazioni marinare, e obbligarono il senatore Ronco, presidente del Consorzio autonomo del porto, a revocare le concessioni alle cooperative dei lavoratori: poi distrussero la sede del giornale socialista riformista «Il Lavoro»43. Ad Ancona, 3.000 squadristi provenienti dall’Emilia e dall’Umbria incendiarono le sedi operaie dopo violenti scontri con anarchici, repubblicani e comunisti44. Incidenti e violenze con morti e feriti si ebbero a Livorno, a Bari e in altre città. A Bari, tuttavia, i fascisti non riuscirono a invadere la città vecchia difesa dagli Arditi del popolo45. A Parma 4.000 squadristi, guidati da Balbo, non poterono occupare la città perché furono bloccati dalla resistenza armata degli Arditi del popolo e della popolazione operaia, sotto la guida dal deputato massimalista Guido Picelli. La presenza dell’esercito, accolto festosamente dalla popolazione, impedì un conflitto armato fra le due parti, anche se vi furono sei morti «uccisi da colpi isolati di fucile tirati dai fascisti contro viandanti da

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essi presunti sovversivi» e numerosi feriti46. Dopo cinque giorni Balbo ordinò la ritirata, facendo mostra, per salvare la faccia, di cedere solo per ossequio agli ordini dell’autorità militare che aveva assunto i poteri nella città47. La vittoria del segretario del partito fascista Il 5 agosto «Il Popolo d’Italia» pubblicava come bollettino di guerra «un primo elenco approssimativo delle ritorsioni effettuate e conseguenti occupazioni eseguite dai fascisti»: 28 circoli, 13 Camere del lavoro, 9 cooperative distrutti; 5 municipi occupati, numerose amministrazioni socialiste dimissionarie48. Due giorni dopo, Bianchi inviò alle federazioni provinciali una circolare riservata, con l’avvertenza «leggere e distruggere», nella quale annunciava che «il fascismo ha vinto, battendo in pieno gli avversari e sgominandoli, la sua battaglia campale» e che in serata avrebbe dato l’ordine di smobilitazione, mantenendo però un presidio dove «la situazione non fosse per noi rassicurante»; avvertiva poi che era intenzione delle autorità, «a bufera calmata», «procedere al sequestro delle armi. Date, in proposito, ordini tassativi perché, senza indugio alcuno, armi e munizioni siano messe al sicuro»49. Il giorno successivo, i fascisti ebbero l’ordine di smobilitazione. «Bisogna avere il coraggio di confessarlo: lo sciopero generale proclamato e ordinato dall’Alleanza del Lavoro è stata la nostra Caporetto», scrisse Turati il 12 agosto su «La Giustizia»: «Usciamo da questa prova clamorosamente battuti. [...] Bisogna avere il coraggio di riconoscerlo: i fascisti sono oggi i padroni del campo»50. E il giorno dopo, al consiglio nazionale del PNF, Bianchi proclamava: «La vittoria fascista nostra è stata quella che è stata. Strepitosa, assoluta, superiore a tutte le previsioni. Gli stessi avversari sono costretti a riconoscerlo»51. Inoltre, lo sciopero legalitario fece recuperare ai fascisti gran parte delle simpatie dell’opinione pubblica borghese, che erano venute scemando durante le violente offensive di luglio. La «Caporetto socialista» era stata soprattutto una vittoria del segretario del PNF. Infatti, l’iniziativa di dare un ultimatum allo Stato e di ordinare la mobilitazione per stroncare lo sciopero e compiere la rappresaglia, fu presa da Bianchi, contro il parere

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degli altri membri della direzione e dello stesso Mussolini, il quale, secondo informazioni pervenute alla questura di Roma, intervenendo in una riunione dei fascisti romani, il 2 agosto, aveva dichiarato che i fascisti non dovevano «iniziare azioni di rappresaglia se non provocati»52. Che Mussolini non fosse d’accordo con l’iniziativa del segretario del partito in occasione dello sciopero generale, lo confermava lo stesso Bianchi in una lettera che gli scrisse due anni dopo, il 10 giugno 1924. Ricorda, Duce, che ti sono stato a fianco con pieno disinteresse, sempre, e più specialmente nei momenti tristi e difficili, quando si era un pugno di uomini e si rischiava tutti; ricorda che l’opera mia valse quel che valse a inquadrare il Partito e a renderlo capace di fronteggiare la situazione del 1921-1922; ricorda che la marcia su Roma non sarebbe stata possibile se nell’agosto del 1922 il Fascismo non avesse stroncato lo sciopero legalitario imponendo per mia iniziativa, soltanto per mia iniziativa contro il difforme parere del vecchio gruppo parlamentare e le tue strapazzate all’Hotel Savoia contro il mio «colpo di testa», l’ultimatum delle 48 ore; ricorda che prendendomi del matto dai saggi che pontificavano di politica a Montecitorio alla vigilia della marcia su Roma lanciavo per primo – 26 ottobre 1922 – l’idea di un governo Mussolini 53. Un’ulteriore conferma sul ruolo decisivo di Bianchi nella «Caporetto socialista» la diede Cesare Rossi in una lettera scritta il 7 agosto 1926 al segretario federale di Milano, per rettificare la sua affermazione che la mobilitazione era stata ordinata da Mussolini: Rossi precisò che «la mobilitazione fu ordinata dalla Direzione del Partito, che funzionava in quel periodo con una certa autonomia di giudizio e di azione, e prevalentemente per volontà di Michelino Bianchi, il quale in quell’anno dette due volte prova di grande energia e di tempestività politica»54. Mussolini non ebbe alcun ruolo nella mobilitazione ordinata da Bianchi, anche se, come deputato, avrebbe dovuto rientrare a Milano. Invece, mentre a Milano i fascisti erano impegnati in un’azione che poteva risultare molto rischiosa, considerato che vi furono tre morti fascisti, Mussolini era a Roma55. Sulla stampa romana si parlò di disobbedienza dei fascisti milanesi agli ordini di Mussolini, il quale però smentì, scrivendo il 4 agosto al diret-

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torio del Fascio milanese una lettera pubblicata su «Il Popolo d’Italia», dicendo di dolersi «moltissimo che la necessità di una battaglia impegnata su tutto il fronte nazionale» lo aveva tenuto «nelle scorse giornate lontano da voi», e dichiarando quindi che le «azioni di rappresaglia che avete scatenato hanno la mia incondizionata approvazione. Anzi, e di ciò prendano nota alcuni giornali romani – i quali parlano di disobbedienza ad ordini che io non ho mai dato né potevo dare – prendano nota che se fossi stato a Milano avrei lavorato a preparare una rappresaglia su scala ancora più vasta»56. Che Bianchi sia stato l’artefice e la guida della rappresaglia squadrista lo conferma il diario del capo di gabinetto del ministro Taddei, Efrem Ferraris, il quale annotava il 5 agosto: «La situazione interna è sempre grave per le rappresaglie fasciste. Michele Bianchi da qui incoraggia all’azione. Lui vorrebbe la rivoluzione a scadenza di ventiquattro ore. Taddei lo manda a chiamare ed ha con lui un colloquio di due ore»57. E il 16 agosto, Ferraris annotò un altro colloquio di Taddei con Bianchi «perché moderi le intemperanze dei fascisti che si fanno sempre più violente con crescente spargimento di sangue ed intensificarsi di odii e di vendette. Ma Bianchi è un fanatico ed ha la testardaggine di molti uomini della sua terra. È molto più facile ragionare con Mussolini»58. Bianchi aveva agito in modo coerente con il suo ruolo di segretario generale di un partito milizia che doveva il suo successo esclusivamente all’offensiva squadrista. Egli non concepì mai diversamente la politica del fascismo, sapendo di avere dalla sua parte i capi dello squadrismo e la massa dei fascisti. Per Bianchi, la fedeltà a Mussolini, col quale collaborava fin dall’interventismo, era fuori discussione, riconoscendogli superiori doti di capo: ma non era disposto a seguirlo nelle sue manovre politiche, quando gli parevano troppo caute o tali da impedire al fascismo di afferrare il momento opportuno per fare un altro balzo verso la conquista del potere, incalzando lo stesso Mussolini, quando sembrava esitante o irresoluto. Forse anche prima di Mussolini, Bianchi ebbe la percezione, dopo la «Caporetto socialista», che il fascismo poteva compiere il balzo finale per conquistare il potere, o con nuove elezioni o con una mobilitazione insurrezionale.

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Impotenza di Stato Nei giorni della rappresaglia fascista, lo Stato liberale subì una grave umiliazione, che si aggiungeva a quelle ricevute nei mesi precedenti, perché si mostrò impotente a impedire la nuova e più vasta offensiva dello squadrismo. Ma era un atto di umiliazione dello Stato anche l’ultimatum di Bianchi al governo, così come lo erano i colloqui che il presidente del Consiglio e il ministro dell’Interno ebbero con i capi di un partito milizia, che, dopo aver sottratto allo Stato il monopolio della forza, lo sfidava e lo ricattava con la pretesa di essere il partito della nazione, che sostituiva uno Stato vile e imbelle per salvare l’Italia dai nemici interni. Il secondo governo Facta cercò di intervenire per arginare l’azione illegale dei fascisti, ma i ministri non erano concordi sulle misure da prendere, e ciò indebolì gravemente la sua risolutezza. Il contrasto maggiore era fra Taddei, Alessio, Soleri, Amendola, decisi a far valere l’autorità dello Stato contro l’illegalismo del partito armato, e gli altri membri del governo, come Riccio, esponente della destra filofascista, contrari all’adozione di misure estreme per obbligare i fascisti a rispettare la legge59. Il 4 agosto, il nuovo ministro della Guerra inviò ai comandanti di corpo d’armata una circolare riservata per ricordare loro, alludendo alle frequenti manifestazioni di simpatia delle forze armate verso i fascisti, che il «più alto servizio civico, che l’Esercito, espressione superiore della intangibilità dello Stato, possa rendere alla Patria, è quello di affermarsi e di mostrarsi superiore, nel nome e per l’imperio della legge, ed estraneo a tutte le fazioni e tendenze di parte qualunque ne sia l’insegna»60. Nella prima riunione del nuovo governo, il 5 agosto, Alessio propose di «promulgare lo stato d’assedio con poteri eccezionali in alcune delle città in cui il fermento era maggiore» perché alla violenza «non potevasi che rispondere con la forza e ciò tanto più in quanto questa forza era legittimata dalla stessa funzione di difesa» che il governo rappresentava. Lo stato d’assedio «avrebbe reso possibile lo scioglimento delle forze armate del fascismo e con esse soppresso lo strumento di continua ribellione, il mezzo con cui la vita dei cittadini non fascisti era abbandonata al loro delittuoso capriccio, l’arma più sicura del terrore, che essi [diffondevano] e quindi la cessazione completa della loro influenza»61.

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La proposta del ministro della Giustizia non fu accettata, mentre fu approvata la proposta del passaggio dei poteri civili all’autorità militare, fatta da Riccio, la «lancia spezzata del fascismo nel gabinetto», come lo definì Alessio62. Ma anche Riccio era turbato dalla violenza fascista, se nello stesso giorno confidava a Salandra che «quello che sta succedendo in alcune città italiane mi mette nella più difficile situazione. Io sono scoraggiato. Come si possono sostenere più i fascisti? E nota che non sono solamente i gregari, nota che a Milano, a Livorno vi erano i deputati. Ad Ancona avrebbe partecipato anche Gray, nazionalista. Come si fa a sostenere tante violenze?»63. Alla fine, il Consiglio dei ministri deliberò la pubblicazione di un manifesto al paese, nel quale in nome dell’Italia chiedeva «ai suoi figli di desistere dalle lotte che la dilaniano», avvertendo che il governo aveva «il supremo dovere di difendere lo Stato, i suoi cittadini, gli interessi generali e i diritti individuali a qualunque costo, con qualunque mezzo, inflessibilmente contro chiunque vi attenti»64. Nello stesso giorno, Taddei diede ai prefetti di Milano, Genova, Ancona, Livorno e Parma, l’autorizzazione a trasferire i poteri all’autorità militare, quando si fossero verificati concentramenti di squadre. Nei giorni successivi, l’autorizzazione fu estesa ad altri capoluoghi. Ai comandanti militari incaricati di assumere i poteri, Taddei disse che l’esercito avrebbe dovuto ristabilire l’ordine pubblico, anche con l’uso delle armi, se necessario65. Il ministro della Guerra confermò le istruzioni date da Taddei «certo che esse riceveranno integrale rigida esecuzione», perché il governo voleva «che attuale situazione di violenza sia fronteggiata risolutamente con tutti i mezzi e ricondotta alla normalità»66. Ma il comportamento delle autorità militari non fu ovunque pari a quel che Soleri e Taddei si aspettavano. Salvo qualche sporadico scontro, in nessuna città furono usate le armi contro gli squadristi, né ci fu opposizione al concentramento delle squadre, e in molti casi la forza pubblica solidarizzò con loro67. I comandi militari giustificarono il loro comportamento con la difficoltà di applicare le istruzioni ricevute senza correre rischi più gravi per il paese. Ai ministri dell’Interno e della Guerra, il comandante del corpo d’armata di Milano faceva notare che, per potere applicare le loro istruzioni in modo efficace, occorreva adottare un piano coordinato di smantellamento simultaneo dell’organizzazione fa-

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scista in tutto il territorio nazionale, perché essa derivava «la sua potenza dal numero forte dei suoi aderenti, dalla possibilità di farne affluire prontamente un gran numero da altrove, dalla simpatia che in questo momento, in cui tace la parte avversaria (comunisti) tutto il pubblico manifesta; e soprattutto dall’impulso che proviene da Roma». Pertanto, proseguiva il generale, per fronteggiare una simile organizzazione «in modo efficace (disarmo di migliaia di persone, perquisizioni palesi e non solo segrete, e, se occorre, annullamento dei centri) occorre essere disposti ad andare sino in fondo all’estremo limite». Ma proprio questo era «il punto delicato del quale occorre ben precisare le intenzioni: poiché se non si è disposti a giungere fino alle più estreme conseguenze che avrebbero estensione forse in tutto il regno e non solo locale, ed a dare per conseguenza i mezzi occorrenti per fronteggiarla», era meglio attenersi ad «un atteggiamento oculato limitando gli atti di energia a fronteggiare le manifeste violenze, ed astenersi dal prendere iniziative locali per distruggere l’organizzazione: cosa che dovrebbe farsi contemporaneamente verso il direttorio centrale che alimenta l’agitazione». Bisognava però tener presenti, avvertiva il generale, i rischi che una simile operazione avrebbe comportato, perché «a titolo di semplice ipotesi non è da escludere che una azione a fondo ed estesa contro i fascisti provochi conseguentemente un riaffermarsi del partito comunista, oggi muto; ed in tal caso l’autorità militare si potrebbe trovare nella mostruosa condizione di cooperare con tale partito contro i fascisti a meno di avere mezzi tali da fronteggiare le due fazioni contemporaneamente»68. Le obiezioni del generale sulle difficoltà di applicazione delle istruzioni per reprimere la violenza fascista, compresa l’ipotesi di procedere allo scioglimento delle squadre armate, coincidevano quasi alla lettera con quelle espresse il 18 agosto dal prefetto di Milano, il quale invitava il governo a «considerare se sia, in definitiva, utile allo Stato e quindi politicamente necessario, una azione repressiva che iniziata per cause locali, potrebbe, dagli avvenimenti, essere forzata ad estendersi a tutto il territorio del Regno», perché, pur «raggiungendosi attraverso a sanguinose lotte civili la disfatta o lo scioglimento del fascismo» c’era però il rischio di «suscitare la risollevazione degli spiriti e dei partiti sovversivi, che ora covano nella impotenza il rancore per le patite sconfitte e che esploderebbero, cessato il pericolo da cui si sentono paralizzati,

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con movimenti di fiera ed implacabile vendetta, non solo contro il fascismo, ma contro la borghesia e contro il regime di cui furono sempre implacabili nemici». Pertanto, il prefetto riteneva più opportuno un atteggiamento conciliante verso i fascisti, per convincerli a rientrare nella legalità. In conclusione, consigliava il prefetto, «in ogni provvedimento contro i fascisti debbano tenersi presenti le conseguenze che ne deriverebbero di guerre civili e di rafforzamento dei partiti rivoluzionari che anelano alla riscossa»69. Le argomentazioni del generale e del prefetto esprimevano emblematicamente l’atteggiamento della classe dirigente nei confronti del fascismo: un atteggiamento ambiguo, dove si mescolavano vari motivi: il timore che la repressione del fascismo avrebbe provocato la rinascita dei sovversivi; la confessione di impotenza di fronte alla potenza che il partito fascista aveva raggiunto con la sua organizzazione armata e la massa dei suoi iscritti; e, infine, la speranza di riuscire a persuadere il fascismo a deporre le armi ed entrare nella legalità, facendolo partecipare al governo. Furono questi i motivi che indussero il presidente del Consiglio e la maggioranza dei ministri a non approvare, il 16 agosto, il disegno di decreto-legge elaborato dal ministro della Giustizia, che prevedeva pene molto severe, a cominciare dall’arresto, per organizzatori e comandanti di corpi armati illegali, considerandoli correi di tutte le azioni delittuose commesse dai componenti dei corpi stessi. Simili provvedimenti miravano a smantellare il partito milizia con l’arresto di tutti i suoi capi e con lo scioglimento delle squadre armate. Dopo varie obiezioni, il progetto di Alessio fu respinto70. I fascisti interpretarono l’atteggiamento del governo come una ulteriore prova della debolezza del regime democratico, e ciò contribuì ad esaltare, come osservò il questore di Milano Giovanni Gasti, il loro spirito «pieno di sicurezza nella propria forza e nella prossima vittoria, ardente di odio contro i sovversivi, determinato alle più rischiose imprese e alle più decise azioni, senza alcuna preoccupazione delle conseguenze e con sprezzo della vita», nutrito, per di più, dal «convincimento che le truppe e le forze statali per simpatia verso di essi e delle loro idealità non condurranno mai contro i fascisti un’azione a fondo e risolutiva per mezzo delle armi»71. La palese impotenza dimostrata dallo Stato nella prima settimana di agosto fu il maggior fattore che spinse il partito fascista a ritenere ormai aperta la via per la sua ascesa al potere.

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Stato in potenza Il 6 agosto «La Stampa» pubblicò un editoriale sulle ultime gesta squadriste. Con la consueta acutezza, Salvatorelli osservava che in quei giorni si era chiuso il periodo di crisi interna del fascismo, inaugurato da Mussolini il 19 luglio con «il dilemma del legalitarismo o dell’insurrezionalismo», perché il partito fascista «per ora, ha scelto il secondo corno del dilemma». Dopo la fine dello sciopero generale, osservava Salvatorelli, il partito fascista vittorioso avrebbe potuto «sviluppare la tendenza legalitaria manifestata nei giorni precedenti» fino «ad entrare definitivamente nell’orbita legalitaria, con una posizione preminente fra i partiti costituzionali»; invece, scatenando l’offensiva squadrista, il fascismo aveva dimostrato con i fatti che preferiva «ritornare all’illegalità, sostituendosi sistematicamente e dichiaratamente allo Stato». Quali che fossero le motivazioni della scelta, commentava Salvatorelli, «in politica contano i fatti e il metodo ha importanza sostanziale». Del resto, lo stesso «bollettino ufficiale del partito», che ostentava le violenze compiute, dimostrava che il fascismo «si considera, non come un partito in lotta contro un altro partito entro i termini dello Stato, ma come un esercito che conquista sopra un altro esercito un territorio considerato res nullius»72. La conferma delle considerazioni di Salvatorelli venne dagli stessi fascisti, tre giorni dopo, durante la discussione sul voto di fiducia al governo Facta. Il 9 agosto, presentando il suo nuovo governo, il presidente del Consiglio dichiarò di volere seguire la via della pacificazione e della difesa dello Stato, che «non può essere sostituito da nessuno», perché «esso solo ha il diritto e il dovere di intervenire, onde le cose ritornino alle loro condizioni normali», mentre «l’intervento di altri elementi costituisce una condizione per la quale i cittadini si scagliano contro cittadini; il che può essere inizio funesto di lotte crudeli, di minacce e di pericoli. Non c’è che un mezzo, giova ancora ripeterlo: l’imperio della legge»73. Senza ristabilire l’imperio della legge, disse Facta, sarebbe iniziata una «crudele lotta politica». Ma la crudele lotta politica era in corso da oltre un anno. E fece addirittura il suo ingresso nell’aula della Camera quello stesso giorno, mentre Facta presentava il suo secondo governo. Stava parlando il deputato comunista Repossi fra le voci ostili dei fa-

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scisti, e quando disse che le masse dovevano reagire con le armi contro «la reazione che imperversa», i fascisti urlarono: «Non deve parlare più. Questa è apologia di reato!». Il fascista Giunta fece il gesto di estrarre un’arma e fu trattenuto a forza dai colleghi mentre continuava a gridare: «Se continua così, qui si spara!». Dopo la fine della seduta, Giunta mostrò la rivoltella ai giornalisti: «Sì, ditelo pure che sono armato e che ho il coraggio di sparare dentro l’aula e fuori, come sono capace di schiaffeggiare qualche carognone»74. Minaccioso fu anche il discorso del fascista Dario Lupi, che annunciò il voto contrario del suo partito, affermando che per superare l’«attuale, tumultuoso tragico periodo» era necessario «debellare i nemici della Nazione»: e se il governo non era in grado di farlo, il fascismo avrebbe «continuato con impeto e con fede nell’attuazione del compito nazionale commessogli da Dio e dal destino»75. Il deputato concluse il suo discorso ripetendo il dilemma mussoliniano: «o lo Stato assorbirà il fascismo o il fascismo si sostituirà allo Stato». Quello stesso giorno, su «Il Popolo d’Italia», Mussolini definì la pacificazione «un assurdo» e affermò che la lotta del fascismo contro i partiti avversari «sarà continuata e intensificata fino al giorno in cui essi si arrenderanno all’ineluttabile», riconoscendo, «con la loro resa a discrezione, che il fascismo non è un capriccio di uomini e un mercato di coscienze e un inquadramento di violenti, sibbene un profondo misterioso prodigio della razza, l’inizio di una lunga epoca della storia italiana, la fine dell’imbelle Stato liberale italiano e del suo antagonistico parassita, il socialismo, e la formazione dello Stato nazionale che non mercanteggia o mendica la sua esistenza, ma la rivendica e la impone a tutti»76. Dagli atti e dalle parole, era ormai evidente che il fascismo non intendeva rinunciare ai metodi violenti, né all’arrogante pretesa di godere di una diversità privilegiata, come partito che si identificava con la nazione, considerandosi non solo al di sopra degli altri partiti, ma anche della legge e dello Stato, perché Dio e il destino avevano investito i fascisti di una missione nazionale. Commentando ironicamente il discorso di Lupi, il liberale Mario Vinciguerra osservò che l’invocazione a Dio non era altro che la ricerca della «sanzione superiore che tutti i moti rivoluzionari cercano nel momento della loro maturità». E rivoluzionario, per

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Vinciguerra, il partito fascista lo era, perché «è campato ai confini dello Stato; lo tiene sotto il tiro delle sue armi; dichiara che esso possiede la virtù, di cui spezza il pane ai partiti alleati; che gli altri partiti sono nel peccato; che il governo è sospettato e tollerato, finché si comporta in modo da non suscitare lo sdegno del suddetto partito»; e infine, era rivoluzionario perché «agisce libero da qualsiasi freno di autorità superiore e precisamente in quel momento tipico, in cui mira ad impossessarsi del potere legislativo»: «Io penso – affermava Vinciguerra – che se non si coglie, attraverso manifestazioni certo molto contraddittorie e molto equivoche, l’intimo senso rivoluzionario del fascismo, si perde un elemento di prim’ordine per orientarsi in certo modo nel guazzabuglio della nostra vita politica»77. Ma anche senza invocare una sanzione divina, i fascisti si consideravano uno Stato in potenza che era in lotta contro un impotente Stato liberale, apprestandosi a compiere una prova di forza risolutiva per andare al potere. Dopo la vittoria di agosto, mentre continuavano le spedizioni squadriste, sulla stampa fascista si moltiplicarono gli attacchi alla democrazia e allo Stato liberale, mentre si parlava più frequentemente di Stato fascista e se ne abbozzavano i caratteri. «Gerarchia» affermava il 25 agosto, che il termine ultimo del fascismo era «la distruzione dello Stato liberale» perché un «sistema di governo come l’attuale, fondato unicamente sul compromesso, sul mezzo termine, sull’espediente è condannato già dalla storia. O per opera di un nemico esterno o per interno sommovimento la democrazia deve perire»78. Poche settimane dopo, «Il Popolo d’Italia» affermava che l’avvento del fascismo al potere doveva essere «veramente un’interruzione, una spezzatura, una rettificazione dell’autorità attualmente legittima», per «realizzare una concezione diversa dello stato», secondo «il mito dell’azione fascista, non ancora completamente definito ma di formazione sicura», «ristabilendo il valore pratico e l’applicazione mistica della disciplina, della gerarchia, dell’autorità e della violenza indispensabile», e «sostituendo alle masse gli Eroi e alle maggioranze l’Uomo»79.

VI

L’attimo fuggente

Come non fu l’ebbrezza del successo, ma il timore di perdere che spinse il partito fascista a preparare una marcia su Roma, afferrando l’attimo fuggente per non fare la fine del partito socialista.

Si parla di marcia su Roma Dall’agosto in poi, cominciarono a circolare le voci di una marcia fascista sulla capitale1. Dell’esistenza di un piano militare fascista aveva scritto Palmiro Togliatti all’inizio di luglio, dopo l’occupazione fascista di Rimini2. Il fascismo alla conquista della capitale era il titolo di un articolo pubblicato il 6 agosto sull’«Avanti!», nel quale si affermava che c’era un «piano militare del fascismo, ideato con perizia da generali e ufficiali che dirigono le squadre d’azione», un piano che si svolgeva «con precisione e con metodo», e «con la piena acquiescenza del Governo» che forniva mezzi per la sua attuazione. Come prova dell’esistenza del piano militare fascista, il giornale socialista descriveva l’effettiva marcia di conquista compiuta fino a quel momento dal fascismo, muovendo dalla pianura padana verso la Toscana, l’Umbria, la Liguria e le Marche, già conquistate. «A questo punto c’è una sosta, ma una sosta di pochi giorni, se non di poche ore. L’esercito fascista si prepara all’ultima ripresa, a conquistare la capitale. [...] La capitale è la mèta. La mèta per l’esercizio effettivo di potere da parte dell’esercito che ha tanta potenza di armi e tanti mezzi finanziari»3. Il giornale socialista fu subito smentito da «Il Popolo d’Italia» che ridicolizzò la notizia parlando di «fifa dei socialisti»4. L’8 agosto l’ufficio stampa del PNF comunicò che la voce «messa in circolazione che i fascisti puntino su Roma per tentare un colpo di Stato è destituita di fondamento»5. Tuttavia, tre giorni dopo, in

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un’intervista a «Il Mattino», Mussolini disse che la «marcia su Roma» era «in atto, nel senso storico, se non in quello propriamente insurrettivo; è, cioè, in atto la formazione di una nuova classe politica italiana, alla quale sarà commesso l’arduo compito di governare – dico governare – la nazione». Mussolini non escludeva la possibilità di una effettiva marcia fascista sulla capitale: «Questa marcia è strategicamente possibile, attraverso le tre grandi direttrici: la costiera adriatica, quella tirrenica e la valle del Tevere, che sono ora totalmente in nostro assoluto potere». Ma la marcia sulla capitale, precisò Mussolini, non era ancora «‘politicamente’ inevitabile e fatale», perché se era «certissimo» che il fascismo voleva diventare Stato, non era «altrettanto certo che per raggiungere tale obiettivo si imponga il colpo di Stato. Bisogna però noverare questo fra le possibili eventualità di domani»6. Nella stessa intervista, Mussolini parlò della mobilitazione fascista per il Mezzogiorno, dove il fascismo era presente in modo consistente soltanto in Puglia e a Napoli, e annunciò la convocazione del consiglio nazionale del PNF a Napoli, il 24 ottobre, per discutere i problemi delle regioni meridionali7. A questo scopo, due giorni dopo l’intervista, la direzione del partito aveva convocato una riunione con «i rappresentanti più influenti e attivi del Mezzogiorno, per concretare tutto un piano d’azione politicoeconomico-militare che dovrà trovare inizio efficace prima del prossimo convegno di Napoli»8. Il piano d’azione fascista nel Mezzogiorno mise in allarme il ministro dell’Interno, che il 13 agosto ordinò ai prefetti di farvi fronte con un’azione «immediata ed energica» per «impedire e reprimere i concentramenti di fazioni armate anche prima che raggiungano le località designate», e per «soffocare ogni focolare di ribellione contro lo Stato e alle sue leggi prima che questa prenda proporzioni troppo gravi per essere combattuta con pronta efficacia, e senza l’impiego di mezzi non sempre disponibili». I prefetti, pertanto, «appena le violenze consuete si verifichino», dovevano subito procedere non solo all’accertamento delle singole responsabilità degli autori, ma anche «all’arresto di coloro che ne hanno certamente la responsabilità morale come ispiratori»9. Di marcia fascista sulla capitale tornò a parlare il giornale di Mussolini, il 16 agosto, con un articolo di Gaetano Polverelli, il quale affermava che la «marcia su Roma» non era da intender-

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si «come marcia militare che conduca ad una nuova Porta Pia» bensì come «una marcia spirituale della nuova generazione verso il Governo per liberare Roma da una classe politica pusillanime e dalle cricche parassitarie socialiste che vivono sullo Stato liberale come su un cadavere»; la marcia sulla capitale era la continuazione della marcia iniziata dalla nuova Italia a Vittorio Veneto e destinata a concludersi con l’avvento del fascismo al potere. «Il Fascismo potrà salire al potere per la via legale delle elezioni, se gli attuali responsabili saranno abbastanza intelligenti da lasciare aperta questa via», altrimenti, se «la camarilla socialistoide riuscirà a impedire la legale consultazione della popolazione, il Fascismo potrà vedere legittimato l’ultimo suo atto di forza», per compiere «il fatale avvento della ‘nuova Italia imperiale’»10. Mentre incominciavano a circolare le voci di una «marcia su Roma», i fascisti, pur smentendole, parlavano ora più frequentemente di rivoluzione fascista in corso, che doveva inevitabilmente concludersi con la conquista della capitale, per risolvere la grave crisi che travagliava il paese, la cui causa originaria e fondamentale era la democrazia, l’inefficienza del sistema parlamentare, l’inettitudine senile della vecchia classe dirigente, l’intrinseca debolezza dello Stato liberale. Iniziata per reagire alla crisi italiana, la rivoluzione fascista, affermava Agostino Lanzillo su «Il Popolo d’Italia» il 22 agosto, era «una forza imponente che dovrà compiere il suo percorso» fino a «colpire lo Stato»: per questo, era necessaria ancora la violenza fascista, che svolgeva «una funzione sociale»: «La lotta dei fascisti dovrà dare il colpo risolutivo, attraverso l’esercizio della violenza. Ecco tutto»11. Marciare su Roma voleva dire marciare contro lo Stato liberale, definito dalla rivista fascista napoletana «Polemica» come una «vecchia ciabatta», che «non esiste se non come un difforme avanzo del secolo passato», che bisognava abbattere anche con l’uso della violenza, per imporre il nuovo Stato fascista concepito come «totalità di interessi e di principi organici»12 . Quando, all’inizio di agosto, i fascisti cominciarono a parlare di una «marcia su Roma», usavano ancora l’espressione in senso mitico e metaforico, influenzati da evocazioni mazziniane e garibaldine, e forse anche dalle più recenti suggestioni dannunziane, intendendo riassumere con una formula di grande effetto propagandistico la volontà di conquistare il potere per trasformare

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lo Stato. Ma presto la formula divenne un concreto proposito di conquista del potere, come dimostrava la decisione di estendere l’azione fascista verso il Sud. Nel Mezzogiorno, osservò Amendola, il fascismo si proponeva di attuare una «conquista animata da travolgente sete di dominio», impiegando «la violenza e l’organizzazione militare» per «sottomettere al nuovo verbo le prone folle meridionali, da condurre poi, in ordine serrato, per smantellare il decrepito, spregevole Stato liberale italiano»13. Eventualità di una dittatura La situazione creata nel paese dalla violenza del partito fascista e dall’imposizione del suo dominio in gran parte dell’Italia settentrionale e centrale, faceva apparire ormai prossimo un assalto al potere statale, mentre la degradazione dello Stato liberale, impotente a reprimere la violenza del partito armato, lasciava temere o invocare, secondo i punti di vista, l’avvento di una dittatura14. La situazione era emblematicamente riassunta nella prima pagina del settimanale dei monarchici assolutisti «Il Principe» del 15 agosto, dove campeggiava il titolo Colpo di Stato fascista?, e al centro vi era un articolo intitolato Dittatura. Della «eventualità della dittatura» parlava anche «La Critica Politica» del 25 agosto, considerandola un possibile epilogo della crisi sociale italiana che «continua a svilupparsi con manifestazioni sempre più gravi, senza che se ne vedano nettamente le cause profonde e il probabile sbocco»15. Tutto quello che sino a ieri parve conquista definitiva e irrevocabile del cosiddetto progresso civile oggi è in pericolo. L’istituto parlamentare è in disfacimento; la libertà di stampa, di organizzazione, di pensiero è contestata o repressa da forze private; lo Stato liberale appare vuoto di ogni contenuto reale, privo com’è di una fede e di una volontà. Noi assistiamo al crollo di una classe dirigente minata dalla sua corruzione interiore e premuta dalle classi nuove, che affiorano tumultuosamente con lineamenti imprecisi, e che istintivamente si volgono al mito della dittatura per uscire dal caos e assumere una forma storica. Tre anni fa erano i socialisti che più audacemente martellavano le vecchie classi dirigenti, e annunciava-

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no prossima la loro dittatura: oggi sono le diverse forze confluenti nel movimento fascista a tendere verso la dittatura, forma politica inevitabile di ogni trapasso. Pur non auspicandola, la rivista repubblicana pensava che la dittatura sarebbe forse scaturita dalla stessa crisi dello Stato italiano che in Italia «fu ed è una ristretta oligarchia essenzialmente politica e burocratica, nella quale in questi ultimi decenni hanno influito notevolmente dei gruppi plutocratici e dei gruppi proletarii». Il parlamento esercitava sulla vita italiana una scarsa influenza, che non corrispondeva comunque «al pensiero e alla volontà della Nazione»: «tra il Parlamento e il Paese non vi è alcuna rispondenza», perché il suffragio universale e la rappresentanza proporzionale, che avrebbero dovuto crearla, erano «completamente falliti al loro scopo, peggiorando la situazione anziché migliorarla: il livello morale e intellettuale del Parlamento dal 1909 al 1922 si è andato abbassando sempre più, attraverso ogni consultazione del Paese, e le venture elezioni – più o meno prossime – aggraveranno ancora la situazione». Nell’acutizzarsi continuo della crisi, l’oligarchia «burocratica e parassitaria» che deteneva il potere era ormai «senza bussola: non ha una fede, non ha una volontà: cerca solo di conservare le sue posizioni», dimostrandosi «impotente a ristabilire l’ordine pubblico: con ogni probabilità solo una rivoluzione o un colpo di Stato possono sbarazzare il Paese dal suo ingombro». La diagnosi della crisi italiana, fatta dalla rivista repubblicana, rifletteva con acume la gravità della situazione nella quale maturò il piano fascista di una «marcia su Roma». Nulla ormai sembrava ostacolare l’ascesa del fascismo al potere: il partito fascista era il più forte partito nel paese, aveva un seguito di massa quale mai nessun altro partito italiano aveva avuto, era affiancato da sindacati che gli garantivano il sostegno di oltre mezzo milione di lavoratori. Di fronte al fascismo c’erano un governo diviso e debole; un partito socialista lacerato da contrasti interni che preludevano a una nuova scissione; un partito popolare diviso da correnti interne e privato del pieno appoggio del Vaticano; un partito comunista compatto ma isolato, arroccato nella sua intransigenza, sempre in attesa di lanciare la rivoluzione proletaria; un partito repubblicano sul quale i fascisti esercitavano una pressione disgregatrice; un variegato schieramento di liberali e democratici, frammentati in

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gruppi di personalità rivali; masse proletarie stanche, depresse e rassegnate; una borghesia largamente favorevole al fascismo; i ceti medi, e specialmente nuovi ceti medi, laici e patriottici entusiasti per il fascismo, cui fornivano la gran parte dei capi e dei militanti. Infine, il fascismo aveva di fronte prefetti, funzionari di polizia, magistrati e militari non ostili, se non simpatizzanti16. Inoltre, a favore dell’ascesa del fascismo al potere giocava l’atteggiamento di tutti i principali esponenti della classe dirigente, cioè gli ex presidenti del Consiglio e quello in carica: tutti escludevano l’uso della forza legittima dello Stato per combattere e reprimere la forza illegale del fascismo, temendo che la repressione avrebbe provocato una sanguinosa guerra civile e ridato vigore ai rivoluzionari socialcomunisti; e tutti erano convinti che fosse ormai necessario coinvolgere i fascisti nella responsabilità di governo, chiamandoli a far parte di una qualche coalizione capace di costituire una meno precaria maggioranza alla Camera, che sostenesse una qualche combinazione ministeriale, presieduta da uno dei vecchi esponenti del liberalismo o della democrazia, che includesse rappresentanti del partito fascista. Il momento più difficile Eppure, nonostante la situazione così favorevole per il fascismo, il 13 agosto, aprendo i lavori del comitato centrale del PNF, che si svolsero a Milano sotto la presidenza di Mussolini, Bianchi affermava: «Quello di oggi è forse il momento più difficile che il fascismo abbia mai attraversato»17. La riunione, che si svolse dal 13 al 14, fu il momento più importante, dopo il congresso di fondazione, nella brevissima storia del partito fascista perché fu posto allora, in modo concreto, il problema della conquista del potere, sotto l’urgenza di una decisione, che fu sollecitata non dall’euforia della vittoria conseguita, ma dal timore di una possibile disfatta futura. Fu il segretario del partito a porre la questione in termini drammatici. Dopo la «strepitosa» vittoria, disse Bianchi, il fascismo si trovava «di fronte a un compito che investe delicate ed enormi responsabilità: ingenti masse di lavoratori vengono verso di noi. I nostri 700 mila iscritti nei Sindacati saranno ben presto un milione. Il problema va esaminato profondamente e seriamente».

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Il Fascismo si impone ormai all’attenzione degli avversari: o esso diventerà la linfa di cui lo Stato sarà nutrito, oppure ci sosti­ tuiremo allo Stato. Questo evento maturerà nel giro di pochi mesi. Io voglio augurarmi che i ciechi dirigenti italiani comprendano questa fatalità. Il movimento fascista è un fiume troppo gonfio per non dovere incutere dei timori e dei timori salutari. O avremo in breve tempo le elezioni generali e con le elezioni una rappresen­ tanza proporzionata al valore ed al peso politico che rappresentiamo nel nostro Paese e pertanto ci toccherà l’onere e l’onore del potere: o, diversamente, nuove azioni si renderanno forse indispensabili. O questo monito verrà accolto o, in caso contrario, il Fascismo dovrà fare suo il secondo corno del dilemma che Mussolini ha enunciato alla Camera. Il giudizio sulla gravità del momento fu condiviso da tutti i partecipanti, concordi nell’individuare le difficoltà che insidiavano la forza del fascismo. La prima, già indicata da Bianchi, era la massa dei lavoratori organizzati nei sindacati fascisti ai quali, approssimandosi la stagione invernale, era necessario assicurare il lavoro: «abbiamo dei contadini che hanno bisogno di lavoro», disse Farinacci: «Credete voi che Dello Sbarba [deputato socialriformista e ministro del Lavoro] dia del lavoro ai nostri organizzati? I socialisti si trovano in condizioni favorevolissime perché ora hanno pochissimi organizzati e tutto l’appoggio del Governo. Avverrà che i nostri contadini ed operai avranno l’impressione di essere abbandonati. Quindi è urgente risolvere il dilemma: o andare al potere per le vie legali o per le vie extra legali». L’altra difficoltà era l’afflusso incontrollato di nuovi iscritti: gli «ultimi arrivati», disse Baroncini, erano «il vero pericolo» perché potevano «causare le stesse delusioni che già ebbe a soffrire il Partito socialista». C’era poi l’indisciplina degli squadristi, che non si attenevano agli ordini del partito, come lamentava Balbo: «Bisogna richiamare i fascisti ad uno spirito feroce di disciplina. Bisogna cominciare a cacciare via, se occorre, un mucchio di gente, ma la disciplina va mantenuta ad ogni costo». Balbo propose di affiancare alla direzione politica una direzione militare, come organo «tecnico e strategico» per dare «una direttiva unitaria a tutto l’inquadramento militare fascista». Ma la difficoltà più formidabile era la scelta

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della via per andare al potere. Al termine della riunione, Mussolini riassunse la discussione, riproponendo i termini del dilemma fra elezione e insurrezione. La discussione è stata esauriente e conclusiva: 1) c’è una linea sulla quale siamo tutti d’accordo: siamo tutti convinti che il fascismo deve divenire Stato; 2) che deve divenire Stato non per nutrire le sue speciali clientele formate o da formarsi, ma per tutelare gli interessi della nazione, della collettività; 3) che per diventare Stato noi abbiamo due mezzi: il mezzo legale delle elezioni e il mezzo extralegale dell’insurrezione. Bisogna ponderare prima di prendere una decisione. E questa decisione non potrà essere presa che tenendo conto di molti fattori di ordine pratico, politico, ed anche degli imponderabili. Il momento è molto delicato e occorre pensare bene a tutte le evenienze. Il Governo è già al corrente delle nostre intenzioni per le dichiarazioni fatte da me e da Lupi. Bisogna preparare quindi molto energicamente la forza politica, materiale e morale e la preparazione elettorale. Non vorrei che trovandoci domani di fronte alla soluzione più facile fossimo impreparati ed il responso delle urne fosse tale da dare agli altri motivo di dire che non abbiamo fatto alcuna conquista di anime. Bisogna che la preparazione dell’una e dell’altra eventualità sia intrapresa da per tutto con la massima energia. La riunione si concluse con la votazione di vari ordini del giorno. I più importanti riguardavano l’organizzazione delle squadre e le elezioni politiche. Su proposta di Balbo e Bianchi, fu deciso di affidare a un comando supremo composto di tre persone «il compito dell’esecuzione di ogni movimento di ordine militare che le circostanze e i programmi fascisti avessero a determinare»18. Quanto alle elezioni, fu approvato l’ordine del giorno presentato da Farinacci, Rocca e Baroncini, col quale il partito fascista chiedeva lo scioglimento della Camera come «unico modo perché il Paese, sentendo equamente rappresentate le sue correnti più vitali, risparmi a sé stesso quelle pericolose e inevitabili agitazioni che altrimenti ne deriverebbero», ma davano «nello stesso tempo mandato alla Direzione del Partito perché l’organizzazione delle forze fasciste identifichi la sua preparazione e la sua efficacia pronta ad affrontare qualsiasi evento».

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Nel commentare le risoluzioni approvate dal comitato centrale del PNF, «La Stampa» osservò che il partito fascista aveva riproposto con arroganza il dilemma «o elezioni o violenza», al quale il giornale torinese riteneva necessario «opporre, da chiunque conservi una briciola di senso statale, la pregiudiziale legalitaria», affermando decisamente che «deve considerarsi inammissibile che un partito faccia appello, per affermare la propria forza, al verdetto delle urne, secondo le forme legali del nostro regime costituzionale, e palesemente e al tempo stesso minacci la rivolta, la sedizione armata, il colpo di Stato»19. L’equivoco su cui qui si gioca è quello di far credere che il fascismo si trovi costretto a porre lui stesso questo dilemma fra legalità e rivoluzione, per la propria salvezza; ma ciò è precisamente il contrario della verità. Il fascismo non si trova innanzi a nessun bivio necessario, perché nessuno lo minaccia, e nessuno gli contesta il suo posto al sole; tocca a lui, e a lui solo, scegliere fra la scheda e l’insurrezione. Se preferisce la prima, esso deve senz’altro rinunciare, preventivamente, alla seconda. Questo martellamento di colpi rivoltosi in piazza e di progressi costituzionali in Parlamento è inammissibile. O tutti in piazza per la rivolta, o tutti in Parlamento per la legalità. Decidersi! [...] Occorre ripetere, una volta di più, al fascismo di decidersi. Se esso vuole farsi «Stato», secondo l’espressione dell’on. Mussolini, deve rinunciare preventivamente alla violenza dal basso come a quella dall’alto: alla rivoluzione come al colpo di Stato. Dicevamo a bella posta: preventivamente. Non si può ammettere, cioè, il dilemma: o lo Stato capitola, facendo quello che voglio io, o me ne impadronisco con la forza. Ancora una volta, il legalitarismo non è un’alternativa: è una pregiudiziale. Prima la si accetta, poi si ha il diritto di diventare «Stato» per le vie ordinarie, e nella misura in cui queste lo consentono. I travagli del fascismo Nella dichiarazione di Mussolini al comitato centrale del PNF sembrava che non vi fosse nulla di nuovo rispetto a quanto egli andava dicendo da un mese: ma una novità c’era, e molto importante, per-

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ché segnalava un’altra difficoltà, e non la meno grave, per il fascismo: l’imprevedibilità del risultato delle elezioni politiche. Mussolini era consapevole che il fascismo era diventato il più forte partito italiano con la violenza, e non attraverso una laboriosa attività di persuasione per avere un consenso convinto. Le masse lavoratrici erano affluite nei sindacati fascisti perché gli squadristi avevano distrutto le organizzazioni socialiste: ma nulla garantiva che vi sarebbero rimaste se il fascismo non avesse assicurato loro il lavoro. Quanto alla borghesia in generale, agli agrari e agli industriali finanziatori del fascismo, i dirigenti fascisti sapevano che la loro adesione e il loro sostegno finanziario erano dovuti principalmente alla paura della rivoluzione socialista: ma ora che il «pericolo bolscevico» era tramontato e i lavoratori non avevano più la forza dei sindacati e delle leghe socialiste per difenderli, gli agrari e gli industriali non sentivano più la necessità di finanziare gli squadristi. Nel corso del 1922 ci fu un calo dei finanziamenti pervenuti nelle casse del partito fascista20. Inoltre, per dare lavoro ai loro organizzati, i sindacati fascisti dovettero iniziare a fare pressione sui proprietari che rifiutavano le loro richieste: in Toscana e in Emilia, i fascisti ricorsero al metodo delle leghe socialiste, compresa l’occupazione delle proprietà, per imporre ai possidenti il rispetto degli accordi contrattuali sottoscritti con i sindacati fascisti e l’impiego della manodopera da loro organizzata21. I rapporti con i lavoratori e con gli agrari provocarono dissidi fra i fascisti, come accadde nel fascismo ferrarese, dove ci fu uno scontro fra Balbo e i dirigenti del Fascio che appoggiavano uno sciopero degli operai degli zuccherifici contro la riduzione dei salari fissati da un accordo fra la federazione fascista e i proprietari. Un’inchiesta della direzione del partito censurò Balbo ma espulse i suoi oppositori, che diedero vita a un Fascio autonomo22. Il fascismo, osservò «Critica Sociale» alla fine di settembre, era «costretto ad assumere una funzione di tutela dei diritti operai», ricorrendo «ai metodi sindacali di imposizione, per ottenere o la sostituzione dei lavoratori impiegati o un più largo impiego di mano d’opera». Ma così facendo, il fascismo rischiava di perdere il sostegno dei suoi finanziatori: «Coloro che s’indussero a sborsar denaro per l’arruolamento, l’armamento, l’approvvigionamento, le mobilitazioni, di un esercito che comprende ormai centinaia di migliaia di persone e costa parecchi milioni ogni giorno, consen-

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tiranno a continuare i loro contributi quando sarà più diffusa e chiara la constatazione che quell’esercito non serve ai fini per cui essi intesero di aiutarne la costituzione?»23. E considerando l’accresciuta massa degli iscritti al partito fascista, «Critica Sociale» constatava che «il numero rappresenta per il fascismo una causa di debolezza, anche se gli serve per incutere maggiore spavento». Movimento eterogeneo privo di una fisionomia, di una funzione e di un programma propri, il fascismo, secondo la rivista socialista, non era una «forza politica»: nel «periodo della sua massima espansione il fascismo è pertanto già in crisi, ed è la sensazione di questa crisi che lo spinge a tentar conquiste sempre nuove». Pur errando nel sottovalutare l’autonomia del fascismo, la rivista socialista comprese che il fascismo era costretto dalla sua stessa origine e dalla sua natura, a rimanere sul piede di guerra e a marciare verso nuove conquiste, per far fronte alle difficoltà che nascevano dalla stessa crescita della sua forza. È il senso di queste difficoltà che spinge il fascismo (e più lo spingerà domani, se sarà prigioniero della sua conquista del Mezzogiorno) a tentar di conquistare il potere. L’insurrezione o la chiamata al Quirinale (il dilemma o il binomio posto da Mussolini) sono veramente indifferenti per esso, appunto perché la conquista dello Stato non è espressione di un programma né mezzo per l’attuazione di un programma, ma è una necessità, o è la speranza di poter così risolvere le antitesi e le difficoltà che il crescere delle forze gli va accumulando nel seno. Ma anche il possesso del potere politico è una forza per chi deve obbedire a un solo impulso e marciare in una sola direzione, non per chi è sospinto da impulsi diversi che lo traggono in opposte direzioni. Anche qui si può avere la possibilità di reggersi per qualche tempo finché le tasse dello Stato e il credito offrano modo di saziare una parte di quegli appetiti che si sono sollecitati, dando forniture e lavori, compiendo confische di ricchezze da distribuire ai propri accoliti, creando privilegi e monopoli di produzione di vendita, di lavoro... Ma poi... poi non ci sarebbe che la guerra esterna o la rapina interna o la più disordinata catastrofe insurrezionale. I «travagli del fascismo», come li definiva la rivista socialista, derivavano anche dalla massa dei nuovi aderenti al PNF e dagli

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squadristi. Il rapido aumento degli iscritti, passati in soli due mesi, fra aprile e maggio, da 220.233 a 322.310, aveva portato nel partito una massa eterogenea che non dava alcun affidamento: «un grosso pericolo – ammoniva «Gerarchia» – minaccia oggi visibilmente il Fascismo per la rapidità stessa della sua travolgente fortuna. E consiste nel difetto di adeguata selezione con cui esso accoglie ed assorbe masse di gregari, che vengono a lui senza averne immedesimato lo spirito. Il peso morto di codesta turba avventizia potrebbe riserbare alla eletta suscitatrice e guidatrice della rivolta ideale delle origini amare delusioni e tristi sorprese»24. Occorreva un controllo severissimo sugli iscritti e una severissima disciplina per selezionare la qualità contro la quantità, ribadiva il 16 settembre «L’Assalto»: «Se questo cardine fondamentale crollasse, trascinerebbe nella rovina il partito fascista. Il PUS insegna»25. I dirigenti nazionali avevano più volte raccomandato a quelli locali di vigilare attentamente sulle nuove iscrizioni, per evitare di far entrare nel partito provocatori, informatori della polizia o delinquenti comuni26. Il 24 agosto, Bianchi vietò le iscrizioni in massa: ogni singola domanda doveva essere controfirmata da due soci presentatori, mentre i direttori dei Fasci dovevano vigilare perché i nuovi iscritti «non abbiano a coprire cariche rappresentative o posti di fiducia prima di aver dato prove di devozione, fedeltà e disciplina al Partito»27. Una delle conseguenze dell’ingrossamento del partito fu il diffondersi di dissidi a livello locale, che provocarono la nascita di Fasci autonomi28. Il 7 settembre Mussolini chiese sanzioni severe per imporre «la più rigida disciplina. Il fascismo è destinato fra poco ad assumere tremende responsabilità: quelle inerenti al Governo della nazione. [...] Per via legale o per via illegale – il dilemma più che da volontà di uomini sarà risolto dal peso delle circostanze – il fascismo avrà domani la responsabilità del Governo della nazione». Pertanto, il partito doveva «imporsi il più duro cilizio della disciplina, se vuole, domani, imporre una disciplina a tutta la nazione». In materia di disciplina, Mussolini esigeva inflessibilità, perché, essendo il fascismo «un esercito non può limitarsi ad espellere un traditore o un disertore. Misure più radicali s’inpongono»29. Una settimana dopo, il 13 settembre, il duce tornò a insistere sul problema della disciplina in relazione alla pratica della violenza,

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che «è utile, è intelligente, è morale, soltanto quando è disciplinata e pone a se stessa obiettivi precisi», mentre in caso contrario può «sboccare nel puro e semplice banditismo, per motivi più o meno confessabili e con enorme danno per il prestigio del fascismo». Quella fascista doveva essere «la violenza di un esercito in guerra, doveva essere chirurgica e cavalleresca. [...] La violenza sporadica, individuale, inintelligente, non controllata deve assolutamente finire [...] Insomma, la violenza del fascismo deve essere collettiva: cioè di squadre, di coorti, di legioni, di masse, poiché solo così attuata raggiunge i suoi obiettivi e non varca certi limiti»30. Introdurre la disciplina nella massa fascista non era facile, nonostante fosse uno dei cardini del partito milizia. Uno stato di diffusa indisciplina era presente ovunque nel fascismo, in parte per la sua origine e crescita come fenomeno spontaneo di vari fascismi provinciali, in parte per il carattere stesso dello squadrismo, nel quale l’iniziativa della violenza era spesso presa senza consultare i dirigenti politici o senza attenersi agli ordini degli organi centrali. L’ordinamento della milizia fascista adottato all’inizio del 1922, non aveva avuto risultati efficaci. Il 21 luglio, nel pieno dell’offensiva terroristica, la direzione del PNF aveva lanciato un manifesto per esortare i fascisti alla disciplina: «Una coordinazione della nostra attività s’impone. Le iniziative locali devono essere approvate dagli organi supremi, per evitare ogni dispersione di energia ed applicare razionalmente le nostre forze»31. La nuova milizia e il «capo supremo» Come aveva deliberato il comitato centrale, la direzione del PNF nominò a far parte del nuovo comando generale della «Milizia per la sicurezza nazionale», come fu ufficialmente denominata, Balbo, De Vecchi e Emilio De Bono, un generale in posizione ausiliaria speciale, che aveva aderito al partito solo da qualche mese32. Il nuovo regolamento fu elaborato da De Vecchi e De Bono il 15 settembre33. Esso sanciva il principio che il partito fascista «è sempre una milizia», «al servizio di Dio e della Patria italiana». Tutti gli iscritti erano «tenuti ad obbedire alle sue speciali leggi d’onore ed alla disciplina militare della milizia fascista, rigidamente fonda-

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ta sulle gerarchie», e dovevano prestare giuramento: «Nel nome di Dio e dell’Italia, nel nome di tutti i caduti per la grandezza dell’Italia, giuro di consacrarmi tutto e per sempre al bene Dell’Italia». Il regolamento stabiliva che la milizia fascista «è strettamente subordinata agli organi politici del Partito tenuto il debito conto del valore delle gerarchie». Tuttavia essa non doveva essere considerata soltanto «il braccio armato del Partito ma una unità inscindibile con esso così che ogni fascista è un milite della idea senza distinzione ed il Fascismo intero è milizia, ogni violazione di questo fondamentale principio è tradimento». L’innovazione più importante fu l’abolizione del principio elettivo dei capi: tutti i gradi della gerarchia militare «vengono scelti ed assegnati alle unità della milizia fascista dalla superiore gerarchia, sentito il parere delle autorità politiche». Nominato dalla direzione del partito, il comando generale nominava dodici ispettori generali di zona, che dovevano essere confermati dalla direzione. Gli ispettori avevano funzioni di comando su tutte le legioni comprese nella loro giurisdizione e spettava a loro proporre al comando generale, d’accordo con la federazione provinciale, la nomina dei comandanti di legione. «Il Comandante di Legione – precisava il nuovo ordinamento – è quello che ha maggiore importanza dal lato morale. È sulla Legione che deve poggiare la solidità della milizia Fascista». Il comandante doveva sorvegliare e dirigere l’«opera educatrice» dei reparti, di cui doveva regolare i movimenti di concentramento e comandare le azioni. Seguivano poi, nella scala gerarchica, i comandanti di coorte, nominati dagli ispettori di zona su proposta dei comandanti di legione, sempre d’accordo con la federazione provinciale; quindi i comandanti di centuria, di manipolo e di squadra, nominati dal comandante della legione, su proposta dei comandanti di coorte e d’accordo con i direttori dei Fasci, da cui venivano scelti34. Il nuovo ordinamento incentrava la gerarchia sulla figura del «capo», definita allo stesso modo per il partito e per la milizia: «I capi del Fascismo, militari e politici, hanno sopra di loro il peso delle più gravi responsabilità. Chi intende di costituire oggi le nuove gerarchie per l’Italia di domani deve possedere la tempra di un capostipite feudale, la volontà di un dominatore, il fascino che solleva ondate d’amore di un apostolo, il cuore vasto come l’Italia. Deve prima che di fede, di forza, di passione, di armi,

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essere maestro di sacrificio [...] deve pretendere la disciplina più dura dei gregari ed essere a sua volta profondamente disciplinato. Mancando questi doveri si rende impuro». Come precisavano le Istruzioni per l’organizzazione ed il funzionamento delle legioni della milizia, pubblicate su «Il Popolo d’Italia» del 12 ottobre, i capi erano «gli amici degli squadristi. La loro autorità sui componenti la squadra deve essere fraterna e deve potersi sempre esercitare con il naturale ascendente che una persona può facilmente avere su un piccolo gruppo di propri simili». Era dovere del capo estendere la sorveglianza sulla «correttezza assoluta» dei suoi compagni «anche nella vita privata». Le innovazioni introdotte dal regolamento della milizia nella gerarchia riflettevano le direttive di Mussolini sulla necessità di adottare nel partito una disciplina assoluta, e investivano pertanto tutta l’organizzazione fascista. Nella scala gerarchica, al grado militare era equiparato un grado politico; i gradi militari erano: comandanti generali, ispettori generali di zona, consoli, comando di coorte, comando di centuria, comando di manipolo; i gradi politici equiparati erano: capo del partito, segretario politico generale, membri della direzione del partito, vicesegretari generali, segretario generale amministrativo, delegati regionali, deputati, segretari provinciali e membri dei direttori provinciali, segretari dei Fasci e membri dei rispettivi direttori, collocati nell’ordine gerarchico secondo il numero degli iscritti. Ma il nuovo ordinamento introduceva un’altra importantissima innovazione, che riguardava tutto il partito: la figura del «Capo Supremo» o «Capo del Partito», che appariva al di sopra del segretario politico generale, senza alcuna specificazione sulle procedure per la sua nomina, sulle sue funzioni e competenze. L’articolo 5 del regolamento affermava: «L’ubbidienza per questa milizia volontaria deve essere cieca, assoluta, rispettosa fino al culmine delle gerarchie, al Capo Supremo ed alla Direzione del Partito»; l’articolo 54 stabiliva: «Possono venire concesse medaglie al valore sul campo soltanto dai Comandanti Generali, o dal Capo del Partito». Ora, poiché nella scala gerarchica era chiaramente affermato che il capo del partito era al di sopra del segretario politico nazionale, era evidente che la nuova carica si riferiva alla persona di Mussolini, che nella gerarchia del partito figurava ancora, ufficialmente, solo come membro della direzione, anche

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se nella stampa fascista era ormai invalso già l’appellativo di «duce». L’introduzione della figura del «Capo Supremo» era il primo riconoscimento formale del ruolo di capo del partito fascista a Mussolini, collocandolo al di sopra del segretario generale. La pubblicazione del regolamento della milizia su «Il Popolo d’Italia», ufficializzando l’esistenza in Italia di un esercito di partito, era un altro atto di sfida contro lo Stato liberale, «un prece­dente di enorme gravità», come lo definiva il giornale democratico antifascista «Il Mondo», perché faceva scempio delle leggi fondamentali del regime costituzionale, prefigurando «un regime interno, nel quale la lotta di partito, invece di svolgersi sul terreno delle serene competizioni d’idee, fosse destinata a perpetuarsi in una serie sanguinosa di opposte violenze»35. E quando il 12 ottobre il giornale di Mussolini pubblicò le istruzioni per ­l’organizzazione e il funzionamento delle legioni, il giornale di Amendola fece risuonare ancora più forte il grido di allarme per il pericolo che l’esistenza di un esercito di partito rappresentava per la democrazia italiana36. La nomenclatura e i distintivi della gerarchia e le disposizioni che disciplinano l’organizzazione militare fascista rivelano una mentalità ed uno spirito guerrieri che non si conciliano con la nostra civiltà e che non sono tanto pericolosi per se stessi quanto per il contagio che ne può derivare in confronto degli altri partiti. Se, infatti, ogni partito potesse liberamente costituire, come suoi strumenti di difesa e di propaganda, delle milizie armate, la vita nazionale sarebbe perpetuamente depressa sotto la minaccia della guerra civile; e la mancanza dell’ordine e della pace determinerebbe la paralisi di ogni energia produttiva. Ciò che significherebbe miseria interna e umiliazione internazionale. Dicemmo – e ripetiamo – che in un regime costituzionale non è tollerabile la formazione di questi eserciti di partito accanto all’esercito nazionale; così come ripugna al più elementare sentimento di umanità e di patriottismo concepire azioni militari e promozioni sul campo e distintivi d’onore, quando tutto ciò dovesse essere la consacrazione e l’effetto di guerriglie civili. Il fascismo non cercò affatto di celare l’incompatibilità del suo esercito di partito con il regime democratico: anzi, dopo aver pubblicato il regolamento della milizia fascista, «Il Popolo d’Italia»

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ostentò la funzione antidemocratica dell’organizzazione militare fascista: «La democrazia – scriveva Agostino Lanzillo il 18 ottobre – non può apprezzare l’importanza di questo fenomeno [...] la democrazia italiana teme giustamente che lo sviluppo militare fascista possa essere portatore di tirannia»37. La decisione di mantenere un esercito di partito, non più giustificato neppure dalla necessità di reagire al «pericolo bolscevico», dimostrava che il fascismo non intendeva in alcun modo sottostare alle leggi dello Stato costituzionale, ma chiaramente mirava a costringere lo Stato liberale a capitolare alla sua richiesta del potere; e per ottenerlo era deciso a usare la sua organizzazione armata contro lo Stato stesso. Di fronte alla nuova arrogante sfida del partito armato, il governo non reagì. Il giorno in cui «Il Popolo d’Italia» pubblicò il regolamento della milizia fascista, il capo di gabinetto mostrò al ministro dell’Interno una copia del giornale, e gli chiese: «Cosa ne pensi? Se il Governo dopo questa sfida se ne sta alla finestra, come ha fatto finora, si coprirà di ridicolo». Il ministro non rispose, ma mostrò un foglio nel quale aveva scritto le sue dimissioni, motivandole: «Se al Consiglio dei ministri non si approvano le misure che io esporrò per tentare di uscire da questa situazione umiliante, me ne vado». Ma il Consiglio dei ministri, diviso da tendenze contrastanti, «fece nulla, e Taddei, per deferenza a Facta che lo implorò di non creare una nuova crisi, ritirò le dimissioni»38. Governanti in vacanza, fascisti in azione Dalla metà di agosto, Camera e Senato furono chiusi. La riapertura era prevista per il 7 novembre. Il re era in villeggiatura fuori Roma. Il 17 agosto anche il presidente del Consiglio aveva lasciato Roma per andare a trascorrere le vacanze a Pinerolo, e rimase a lungo assente dalla capitale39. Quando il Consiglio dei ministri riprese i lavori a metà settembre, le questioni discusse riguardarono principalmente la politica estera. Il 24 settembre Facta era di nuovo a Pinerolo, dove i suoi elettori vollero festeggiare il trentennale della sua vita parlamentare, offrendogli un banchetto con 3.200 commensali, «fra cui figuravano 71 senatori, 117 deputati e tutte le rappresentanze di quelle nobili e patriottiche provincie», come

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ricordò il ministro Alessio, che ebbe l’incarico di porgere il saluto al presidente del Consiglio. «Io lo accettai – ricordava il ministro – nella speranza che questo mio omaggio avvicinasse l’On. Facta all’indirizzo di energica resistenza, che io con Amendola e Taddei rappresentavamo nel gabinetto e lo eccitasse a uscire da quella sua continua e perseverante altalena di incertezze»40. Alessio fece l’elogio della democrazia italiana che nell’ultimo quarto di secolo, «divenuta partito di governo, dopo un tremendo periodo di convulsioni e di strazi, sotto la guida di Giovanni Giolitti e Giuseppe Zanardelli», aveva promosso l’ascensione del proletariato e lo svolgimento della libertà politica ed economica che trasse dal popolo le energie per «la nostra resistenza nella guerra mondiale e vennero rese possibili grandi vittorie del Piave e di Vittorio Veneto, decisive per la storia d’Europa. Non si può concepire invero un grande stato moderno senza una potente forza morale, che lo aiuti. Non vi ha forza morale con la violenza degli individui o delle masse. La violenza può assicurare brevi successi temporanei, ma chiamisi terrore o chiamisi termidoro, uccide sempre sé stessa. Lo strumento della dignità dello stato è il suffragio universale che solo la democrazia diede all’Italia. Dalla vicina tomba di Santena una grande voce sussurra: ‘È facile governare con lo stato d’assedio’ e addita come basi dello stato la spontanea libertà dei liberi cittadini italiani». E Alessio concluse: «O Luigi Facta, a te difensore da trent’anni delle nazionali libertà, a te, espressione della forza e della dignità dello stato, alzo il bicchiere in quest’ora fatidica della nostra storia». Ma Facta «rimase sordo a siffatti incitamenti»41. Nel suo discorso, il bonario presidente del Consiglio evitò di parlare di politica e pronunciò generiche frasi di circostanza sulla necessità di salvaguardare la dignità dello Stato, chiedendo il sostegno di tutti i cittadini. Mussolini definì il banchetto di Pinerolo «un funerale di primissima classe»: ricordò con rispetto che Facta aveva perso un figlio nella Grande Guerra, ma subito ironizzò sui baffi all’insù del presidente del Consiglio, che facevano venire voglia di tirarli; definì «uno scherzo» il fatto che Facta fosse presidente del Consiglio, «uno scherzo, reso possibile soltanto dalla scriteriata delinquenza del Parlamento italiano»; e commentò sarcasticamente il discorso del presidente del Consiglio invitando gli italiani a metterlo a confronto con il discorso che egli aveva fatto quattro giorni prima ad

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Udine: «La voce del fascismo e quella del liberalismo declinante. Gli italiani sono pregati di confrontare, di meditare, di scegliere»42. A Udine il 20 settembre, in occasione di una grande adunata fascista, Mussolini aveva tenuto uno dei suoi discorsi più importanti per definire l’atteggiamento del fascismo in previsione della sua salita al potere, affermando in modo netto che l’antitesi fra lo Stato liberale impotente e lo Stato fascista in potenza era ormai prossima alla soluzione, con l’avvento al potere della rivoluzione fascista43. Mussolini delineò il suo modo di intendere la rivoluzione come profonda trasformazione di regime politico, che non voleva coinvolgere l’istituzione monarchica. Egli non fece una esplicita dichiarazione di fedeltà alla monarchia, ma espresse una sorta di lealismo condizionato, accompagnato da un appello al re vagamente ricattatorio: «la monarchia – disse – non ha alcun interesse a osteggiare quella che ormai bisogna chiamare la rivoluzione fascista. Non è nel suo interesse, perché se lo facesse, diverrebbe subito bersaglio, e, se diventasse bersaglio, è certo che noi non potremmo risparmiarla perché sarebbe per noi una questione di vita o di morte». Se i fascisti erano repubblicani, aggiunse Mussolini, non lo erano per un pregiudizio istituzionale, perché il loro «atteggiamento di fronte alle istituzioni politiche non è impegnativo in nessun senso», ma «perché vediamo un monarca non sufficientemente monarca», mentre riconoscevano alla monarchia il «compito bellissimo, un compito di importanza storica incalcolabile», quello cioè di rappresentare «la continuità storica della nazione». Ma il lealismo condizionato aveva un’altra, più sostanziosa motivazione, esposta da Mussolini, quando precisò che il fascismo escludeva dai suoi bersagli la monarchia «perché pensiamo che gran parte dell’Italia vedrebbe con sospetto una trasformazione del regime che andasse fino a quel punto», col rischio, da una parte, di dare una spinta al separatismo regionale, e dall’altra, di trasformare molti italiani «indifferenti di fronte alla monarchia» in suoi simpatizzanti, i quali avrebbero trovato dei «motivi sentimentali rispettabilissimi per attaccare il fascismo che avesse colpito questo bersaglio». Il bersaglio del fascismo non era la monarchia, ma la classe politica, che doveva essere detronizzata per rinnovare l’Italia con «una profonda trasformazione del nostro regime politico»: una

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trasformazione, precisò Mussolini, che doveva avere dei limiti: «bisogna evitare che la rivoluzione fascista metta tutto in gioco. Qualche punto fermo bisogna lasciarlo, perché non si dia l’impressione al popolo che tutto crolla, che tutto deve ricominciare perché allora alla ondata di entusiasmo del primo tempo succederebbero le ondate di panico del secondo e forse ondate successive, che potrebbero travolgere la prima». Ciò che la rivoluzione fascista doveva demolire era «la superstruttura socialistoide-democratica» dello Stato italiano. «Il nostro programma è semplice: vogliamo governare l’Italia». Mussolini fece solo una vaga allusione alla «marcia su Roma» quando disse che Roma era la meta del fascismo, come lo era stata di Mazzini e di Garibaldi: «noi pensiamo di fare di Roma la città del nostro spirito, una città, cioè, depurata, disinfettata da tutti gli elementi che la corrompono e la infangano; pensiamo di fare di Roma il cuore pulsante, lo spirito alacre dell’Italia imperiale che noi sogniamo». Quattro giorni dopo, a Cremona, davanti a 30.000 fascisti, Mussolini disse che bisognava risolvere il contrasto «fra un’Italia di politicanti imbelli e l’Italia sana, forte, vigorosa, che si prepara a dare il colpo di scopa definitivo a tutti gli insufficienti, a tutti i mestieranti, a tutta la schiuma infetta della società italiana. [...] Insomma, noi vogliamo che l’Italia diventi fascista, poiché siamo stanchi di vederla all’interno governata con principi e con uomini che oscillano continuamente fra la negligenza e la viltà; e siamo, soprattutto, stanchi di vederla considerata all’estero come una quantità trascurabile». Nella conclusione, Mussolini proclamò che il fascismo proseguiva la marcia iniziata dall’Italia al Piave e a Vittorio Veneto: «È dalle rive del Piave che noi abbiamo iniziato la marcia che non può fermarsi fino a quando non abbia raggiunto la mèta suprema: Roma! E non ci saranno ostacoli, né di uomini né di cose che potranno fermarci!»44. L’offensiva continua Le adunate di Udine e di Cremona erano tappe della marcia fascista verso il potere. E mentre i parlamentari, il re e il presidente del Consiglio erano in vacanza, i fascisti proseguirono la loro offensiva. Il 26 agosto a Treviso, in seguito all’uccisione di un fascista,

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gli squadristi organizzarono una mobilitazione contro il deputato repubblicano Guido Bergamo e lo costrinsero a lasciare la città45. Il 29 Matteotti fu costretto a partire da Varazze, accompagnato alla stazione dai funzionari e dagli squadristi46. Il 1° settembre squadristi provenienti dalle Marche e dall’Umbria occuparono Terni dove bastonarono un deputato socialista e distrussero due Camere del lavoro, i circoli socialisti e comunisti47. Il 7 settembre 6.000 squadristi si concentrarono a Massa per chiedere la scarcerazione di otto fascisti e la ottennero. Due giorni dopo, Civitavecchia fu invasa dagli squadristi che imposero le dimissioni all’amministrazione comunale socialista e costrinsero le organizzazioni sindacali a sottoporsi alle condizioni dei fascisti48. Il 14 ad Ancona gli squadristi impedirono un banchetto offerto al deputato del partito popolare Antonino Anile, ministro della Pubblica istruzione49. Il 16 Farinacci attaccò sul suo giornale il prefetto e il questore che lo aveva diffidato perché aveva pubblicato un trafiletto nel quale si avvertivano i deputati Miglioli e Garibotti di non tornare a Cremona50. Di fronte alle quotidiane violenze fasciste, i ministri Taddei e Alessio sollecitavano prefetti e magistrati ad essere rigorosi nell’imporre a tutti il rispetto della legge. Il 22 agosto, riferendosi a «violenze e minacce contro libertà di stampa quotidiana», Taddei richiamò l’attenzione dei prefetti «affinché tentativi di violenze siano repressi, dando immediato corso alle denunce e agli arresti dove questi sono consentiti dalla natura del reato»51. E il 14 settembre sollecitò la punizione, con «massima prontezza severità», dei «delitti commessi contro membri del Parlamento causa loro funzioni»52. E ancora il 16 settembre, in seguito ai frequenti «ripetuti concentramenti di squadre fasciste in determinati Comuni, col fine, non dissimulato, di turbare il normale funzionamento delle Amministrazioni municipali elettive, e d’influire sulle loro deliberazioni, costringendole a dare le dimissioni», Taddei tornava a richiamare l’attenzione dei prefetti sulle norme del codice penale che punivano l’organizzazione di bande armate, i concentramenti per commettere violenze contro gli amministratori, e anche «il semplice ‘far parte’ di una radunata di dieci o più persone, la quale, mediante violenza o minaccia, tende a commettere delitto». «Data l’unità di organizzazione, di comando e di azione delle squadre fasciste», continuava il ministro, «basterà, dunque,

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che tre fascisti risultino palesemente armati, perché il delitto commesso da tutte le squadre, che partecipano all’azione, debba considerarsi commesso con armi». In tutti questi casi, ricordava il ministro ai prefetti, il codice penale «sancisce l’arresto in caso di flagranza», per cui il ministro raccomandava «la maggiore diligenza nell’accertamento e nella denuncia di questi delitti, che offendono la libertà della funzione amministrativa, fondamento di ogni libertà politica»53. Ma le stesse reiterate raccomandazioni del ministro dimostravano che gli ordini di contrastare la violenza squadrista non avevano nessuna o poca efficacia. E mentre «i delitti e le violenze continuavano, si ripetevano», ricordava Alessio, e non di rado «restavano impuniti o sotto la violenza della folla eccitata dai fascisti, si affrettavano i processi con decisioni per loro favorevoli», il governo «diviso fra tre correnti nicchiava, si baloccava in continue discussioni e finiva per rinviare le sue decisioni ad altra seduta»: così, mentre il partito armato continuava la sua avanzata da conquistatore, «le sedute del Consiglio dei Ministri si seguivano e succedevano senza nulla concludere»54. Agli inizi di ottobre, il fascismo si lanciò all’occupazione del Trentino e dell’Alto Adige, dove dalla fine della guerra governava come commissario regio il senatore Luigi Credaro, ma poco era stato modificato della precedente amministrazione austriaca. I fascisti accusavano il governatore di non attuare l’italianizzazione della regione, tanto che gli amministratori allogeni esponevano ancora i simboli asburgici invece del tricolore e del ritratto del re55. L’occupazione di Bolzano, effettuata per ordine di Mussolini, iniziò il 1° ottobre, con un grande concentramento di squadristi trentini, veneti, lombardi, comandati da Giunta, Farinacci, Alberto De Stefani e Achille Starace, che occuparono il municipio e imposero la sostituzione del sindaco allogeno con un commissario governativo. Il giorno successivo, le squadre occuparono anche Trento, per costringere il governatore Credaro a dare le dimissioni e a lasciare la città. L’occupazione si svolse senza alcuna resistenza da parte della forza pubblica, che pure era sufficiente a respingere gli squadristi, come denunciò nella sua inchiesta l’ispettore Di Tarsia56. Anzi, il generale Ghersi, comandante del corpo d’armata di Verona, partecipò con altri ufficiali all’incontro dei capi fascisti con il governatore, accusato di rappresentare nella regione l’im-

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potenza dello Stato, e garantì sul suo onore che Credaro avrebbe lasciato la città. Il 4 ottobre, parlando da un balcone a Bolzano, De Stefani disse: «Questa è la prima tappa della marcia su Roma, e contiamo già una vittoria che sarà memorabile. Questa vittoria si chiama Bolzano»57. Il 10 ottobre, il Consiglio dei ministri ratificò l’operato fascista accettando le dimissioni di Credaro e sopprimendo i commissari di Trento e Trieste, sostituiti da due prefetti. Un pericolo immane Lo Stato fascista si è imposto a Bolzano, proclamò trionfalmente «Il Popolo d’Italia» il 4 ottobre con titolo a tutta pagina, mentre il «Corriere della Sera» denunciava l’impotenza del governo, che ormai sembrava limitare la sua responsabilità «a coronare con sanzioni ufficiali l’opera del partito fascista», fornendo così «una specie di provocazione per gli ardimenti e anche per gli eccessi dei fascisti. I quali, dopo aver raggiunto di volta in volta il loro scopo, o quello che nei primi risultati superficiali sembra uno scopo raggiunto, si volgono con parole di disprezzo allo Stato ‘liberale’, che in verità non è né liberale né altro, poiché in chi giace in letargo non è altra qualità che quella del sonno». Eccitati dalla debolezza del governo, proseguiva Albertini, molti fascisti non conoscevano più limiti alla loro azione: «La coscienza della propria forza è ora nel fascismo in istato di ebbrezza presso molti gregari, ma pone ai capi l’obbligo di arginare questa forza e di condurla al Governo del Paese». Ma per condurla al governo, precisava Albertini, non c’era «proprio bisogno d’una marcia rivoluzionaria su Roma, poiché non si fanno rivoluzioni dove non sono fieri ostacoli da abbattere»58. Il direttore del giornale milanese ragionava da liberale, e perciò non considerava che, dal punto di vista fascista, la marcia sulla capitale, anche se non c’erano ostacoli da abbattere, era comunque vista come la meta della rivoluzione fascista, il «grande atto» che doveva coronare, con la conquista del potere centrale, la vittoria dello Stato fascista in potenza sullo Stato liberale impotente. Mussolini lo disse chiaramente la sera del 4 ottobre a Milano, parlando al circolo rionale «Antonio Sciesa»59. Il duce esaltò le squadre fasciste che a San Terenzo, nel golfo di La Spezia, ave-

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vano soccorso la popolazione dopo l’esplosione di una polveriera che aveva distrutto l’intero paese, con duecento morti e oltre seicento feriti, e associò quest’azione alla conquista fascista di Trento e Bolzano, presentando l’una e l’altra come prove dell’esistenza di uno Stato fascista in potenza, efficiente, forte, deciso e solidale, che difendeva, affermava e faceva rispettare la nazione, di fronte a uno Stato liberale impotente e imbelle, ormai avviato alla sepoltura. C’era in Italia un dissidio fra nazione e Stato: «L’Italia è una nazione. L’Italia non è uno Stato. [...] Ma alla nazione deve darsi lo Stato. E lo Stato non c’è. Oggi il giornale che rappresenta il liberalismo in Italia – il giornale più diffuso in Italia [...] constatava che in Italia ci sono due governi e quando ce ne sono due, ce n’è uno di più. Lo Stato di ieri e lo Stato di domani». Il fascismo era lo Stato di domani perché rappresentava l’Italia venuta dalle trincee, forte e piena di vita, che i governanti liberali, espressione dello Stato di ieri, non erano in grado di comprendere e di governare: «L’urto è inevitabile». Il fascismo dichiarava apertamente di esser pronto a «dare l’assalto allo Stato». Poi, Mussolini annunciò la fine dello Stato liberale e della democrazia, delineando la condotta del prossimo Stato fascista. Ormai lo Stato liberale è una maschera dietro la quale non c’è nessuna faccia. È una impalcatura; ma dietro non c’è nessun edificio. Ci sono delle forze; ma dietro di esse non c’è più lo spirito. Tutti quelli che dovrebbero essere a sostegno di questo Stato, sentono che esso sta toccando gli estremi limiti della vergogna, della impotenza e del ridicolo. [...] Non abbiamo grandi ostacoli da superare, perché la nazione è con noi. La nazione si sente rappresentata da noi. Certamente non possiamo promettere l’albero della libertà sulle pubbliche piazze; non possiamo dare la libertà a coloro che ne profitterebbero per assassinarci. Qui è la stoltezza dello Stato liberale: che dà la libertà a tutti, anche a coloro che se ne servono per abbatterlo. Noi non daremo questa libertà. Nemmeno se la richiesta di questa libertà fosse avvolta nella vecchia carta stinta degli immortali principi! [...] Dividiamo gli italiani in tre categorie: gli italiani «indifferenti», che rimarranno nelle loro case ad attendere; i «simpatizzanti», che potranno circolare; e finalmente gli italiani «nemici», e questi non circoleranno.

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Contro una classe politica, non contro la monarchia, marciavano dunque i fascisti, ma nella classe politica da detronizzare il fascismo vedeva l’espressione di un regime politico che doveva essere profondamente trasformato60. Come echeggiando gli argomenti di Mussolini sull’atteggiamento fascista verso la monarchia, fra l’8 e il 15 ottobre, Giuseppe Bottai sviluppò la «questione del regime» parlando di «agnosticismo fascista» nei confronti della monarchia, che andava però superato distinguendo l’istituzione monarchica dal «reggimento politico» che aveva dato pessima prova di sé durante il «biennio rosso» perché non «fu schermo valido a salvaguardare la Nazione» contro «l’irrompere rovinoso d’una concezione materialistica», che fu arrestato soltanto dall’insorgere del fascismo, sceso in lotta per salvare la nazione senza porsi la questione del regime. Ma ora che i fascisti si accingevano a conquistare il potere, osservava Bottai, l’agnosticismo di fronte al regime diventava «ogni giorno più un grave impaccio per il Fascismo», per cui egli proponeva ai fascisti di riconoscere la funzione che la monarchia poteva ancora avere, come espressione dell’unità nazionale e del principio di autorità: «Il riconoscimento di questo fatto da parte del Fascismo significa: che la monarchia deve esercitare questa sua missione, pena la soppressione; che il Fascismo prende atto di una situazione contingente, ma non assume impegni, mutabili anche a situazione mutata»61. Mussolini era ormai convinto che lo Stato liberale fosse agonizzante: bisognava solo dargli il colpo di grazia. «Se in Italia ci fosse un Governo degno di questo nome – disse a Cesare Rossi quando fu pubblicato il regolamento della milizia fascista – oggi stesso dovrebbe mandare qui i suoi agenti e carabinieri a scioglierci e ad occupare le nostre sedi. Non è concepibile un’organizzazione armata con tanto di quadri e di Regolamento in uno Stato che ha il suo Esercito e la sua Polizia. Soltanto che in Italia lo Stato non c’è. È inutile, dobbiamo per forza andare al potere noi. Se no la storia d’Italia diventa una pochade»62. Lo stato agonizzante della democrazia italiana era rappresentato, da una parte, dalla impotenza del governo, e, dall’altra, dalla potenza aggressiva del partito armato, che pubblicamente annunciava di volere instaurare uno Stato antiliberale e antidemocratico, così come era già operante nella realtà dei potentati locali instaurati dai capi squadristi.

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Molti, dai liberali simpatizzanti per il fascismo agli antifascisti, considerarono gli annunci del futuro Stato fascista soltanto una retorica da gradassi, che mascherava confusione di idee e mancanza di programmi: ma il dominio del partito fascista e l’impotenza del governo a contrastarlo erano fatti reali, e insieme questi fatti cooperavano ad affossare lo Stato liberale e la democrazia. «Intanto si fanno dei preparativi per la marcia fascista del ’22 che dovrebbe porre fine al regime», scriveva alla moglie il 5 ottobre Giuseppe Donati, giovane militante del partito popolare; e due giorni dopo ipotizzava: «Forse si prepara – dietro il sipario di un ritorno trionfale di Giolitti, salvator patriae – una risurrezione violenta di Salandra» con «i destri che devono assumere il potere per il travolgimento stesso di quel governo extralegale fascista che ha effettivamente dominato il paese da maggio ad oggi», constatando che «i fascisti governavano di fatto, senza contrasti e senza alcuna responsabilità»63. Di questa realtà, pochi si rendevano conto, riconoscendo che sulla democrazia italiana incombeva un «pericolo immane», come lo definiva Amendola l’8 ottobre: «Oggi si parla apertamente di lotta fra uno Stato che prende nome da un partito e lo Stato che si definisce ufficiale», ma tutti coloro che non avevano smarrito «la coscienza della realtà ed il senso dell’equilibrio non possono indugiare nella scelta di campo» e difendere lo Stato per «salvare dalla rovina il patrimonio materiale e morale della collettività nazionale», mentre «la prevalenza oppressiva di un partito sullo Stato lancerebbe nel vortice sovvertitore di violenze alterne ed opposte gli spiriti sediziosi ed illusi; e determinerebbe, dentro e fuori i confini, l’umiliazione dei principii e lo sfacelo dei valori stessi, che il fascismo, sorgendo, proclamò di voler servire e proteggere»64. Il ministro delle Colonie aveva compreso che uno scontro fra il fascismo e lo Stato liberale era prossimo e inevitabile. Anche se la vittoria dello Stato in potenza sullo Stato impotente non era affatto scontata. Il momento più propizio La sera del 24 agosto, parlando nella piccola sede del Fascio di Levanto, dove la famiglia trascorreva l’estate, Mussolini accennò alla conquista del potere: «Voi sapete che io amo più i fatti delle

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parole. Il momento per noi è propizio; anzi, direi fortunato. Se il governo sarà intelligente, ci darà il potere pacificamente; se non sarà intelligente, lo prenderemo con la forza. Dobbiamo marciare su Roma per toglierla di mano ai politicanti imbelli ed inetti. Quando la campana suonerà, marceremo come un sol uomo»65. L’affermazione mussoliniana, secondo cui quello era il momento più propizio per il fascismo, sembrava contraddire Bianchi, che lo considerava invece il momento più difficile, ma la divergenza era solo apparente, perché Bianchi si riferiva ai rischi cui sarebbe andato incontro il fascismo se non fosse andato al potere, mentre Mussolini si riferiva alle condizioni favorevoli che quello stesso momento offriva al fascismo per andare al potere. Quali fossero le condizioni favorevoli, Mussolini lo spiegò un pomeriggio fra il 6 e il 10 ottobre a Cesare Rossi: il fascismo «straripa ovunque» con la sua organizzazione armata e militare, mentre l’antifascismo «non è più in grado di opporre alcuna resistenza risolutiva; basterà sorvegliare qualche zona isolata e qualche uomo»; carabinieri e guardie regie «specialmente nelle provincie, sono visibilmente con noi», così come i quadri dell’esercito «ci seconderanno perché sentono che noi siamo l’Italia venuta su dalle trincee. Il governo Facta non sparerà contro di noi, anche se Taddei ha qualche velleità autoritaria». Quanto ai monarchici, proseguì Mussolini, «sono rassicurati dal mio discorso di Udine; a Napoli sarò ancora più esplicito». I parlamentari, fallite le manovre collaborazioniste di socialisti e popolari, «pensano soltanto a mettersi bene con noi. I punti neri della situazione sono: Parma, D’Annunzio, il Re, e l’indisciplina dei fascisti. Sarebbe seccante che in un’azione decisiva a cui da qualche giorno io penso seriamente si fosse imbottigliati a mezza strada nel centro della Valle Padana». D’Annunzio, anche se esercitava «sempre un fascino enorme anche su parte dei nostri», per Mussolini era «un inconcludente» e non sarebbe stato difficile manovrarlo. «I fascisti mi danno più pensiero di tutti, come materiale umano per un’azione di grande respiro; sono sorti feudi personali e delle oligarchie di zona che bisognerà investire e domare al fine supremo. In quanto al Sovrano è certo una figura enigmatica, ma ci sono altre molle intorno a lui che faremo funzionare...»66. La valutazione mussoliniana della situazione era abbastanza realistica sia negli aspetti positivi sia in quelli negativi. Che fra

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quelli negativi vi fossero soprattutto i fascisti, rivelava quanto egli fosse ancora diffidente verso il suo stesso partito, considerandolo un aggregato poco coeso di «feudi personali» e di squadristi indisciplinati. Eppure, fino a quel momento, l’aggregato, come forza militare, aveva funzionato efficacemente per sbaragliare in pochi mesi i più forti avversari, fino a diventare un antagonista diretto dello Stato liberale. E benché poco coeso e poco disciplinato, il successo delle spedizioni squadriste era comunque risultato dell’obbedienza dei gregari ai capi. Inoltre, le adunate e i congressi provinciali fascisti, che si svolsero numerosi fra agosto e ottobre, in tutte le regioni dove esistevano Fasci o dove nuovi Fasci venivano costituiti, contribuirono a dare maggior consistenza all’aggregato fascista, unificando la massa dei militanti attorno ad alcuni miti comuni – la nazione, la guerra, la vittoria, la romanità, l’impero – simbolicamente condensati nel mito della «marcia su Roma»67. Dopo la riunione del comitato centrale del PNF a metà agosto, ci fu nelle settimane successive un incremento dell’attività organizzativa dei Fasci, nell’ambito sindacale, e nell’inquadramento delle donne e dei giovani. Infine, nel settore della propaganda, un convegno della stampa fascista tenuto il 17 ottobre a Milano valse «a imprimere alla stampa del partito maggiore unità di indirizzo pel conseguimento di una più efficace azione sulla pubblica opinione»68. Quanto agli altri ostacoli che il fascismo avrebbe potuto incontrare sulla via del potere, Mussolini aveva ragione di ritenere che non ve ne fossero né da parte del governo, nonostante l’antifascismo di alcuni ministri, né da parte dei principali esponenti liberali, perché tutti pensavano ad associare i fascisti al governo, per incanalare il fascismo nel regime parlamentare: in più, il nuovo partito liberale, costituito a Bologna il 10 ottobre, nacque con un deciso orientamento conservatore, dissociando ufficialmente il liberalismo dalla democrazia, mentre i vari gruppi dei liberali democratici non furono in grado di realizzare la loro unificazione69. Sull’esercito, forse l’ottimismo di Mussolini era eccessivo, ma comunque giustificato dalla simpatia verso il fascismo diffusa fra gli alti gradi e dai numerosi episodi di connivenza di ufficiali e soldati con i fascisti: ciò gli consentiva di sperare in un atteggiamento di benevole neutralità, che le manifestazioni di omaggio tributate

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dai fascisti all’esercito di Vittorio Veneto cercavano di favorire70. L’atteggiamento dell’esercito dipendeva soprattutto da quello del re. Vittorio Emanuele III era un’incognita: non nutriva simpatie per un movimento che si era professato antimonarchico fino alle dichiarazioni mussoliniane di Udine, ma fra i familiari del re, dalla regina madre al duca d’Aosta, vi erano simpatie verso il fascismo, per il suo antisocialismo e per il suo patriottismo. Su queste simpatie, probabilmente, contava Mussolini per influire sul re71. Infine, D’Annunzio: dotato ancora di fascino, con un seguito di fedeli legionari non fascisti o antifascisti; considerato da vari esponenti liberali, compreso Facta, una importante pedina da usare per contrastare una conquista fascista del potere, facendogli svolgere il ruolo di grande pacificatore della nazione, sotto il cui segno tutti dovevano deporre le armi e unirsi per il bene dell’Italia. Anche i fascisti avevano cercato di avvalersi del poeta durante l’occupazione del comune di Milano, ma D’Annunzio aveva subito preso le distanze, collocandosi al centro di un giro di trattative, che includevano Mussolini, Nitti, Orlando e Facta: tuttavia il suo oscillante atteggiamento di fronte alle iniziative che lo volevano protagonista, come la convocazione di una grandiosa celebrazione pacificatrice in occasione del 4 novembre, patrocinata dal governo, lo facevano giustamente considerare un «inconcludente» da Mussolini. Il quale, però, continuò a corteggiarlo per circuirlo e neutralizzarlo72. Sul fronte degli antifascisti, la loro impotenza era un dato reale. La disfatta dello sciopero legalitario aveva accelerato la disgregazione del partito socialista, «ridotto ormai – come ricordava Pietro Nenni – l’ombra di sé stesso (con 60.000 iscritti invece dei 300.000 del 1919)»73. Il 4 ottobre, al XIX congresso del PSI a Roma, Turati decise la scissione dai massimalisti e diede vita, con Claudio Treves e Giacomo Matteotti, al partito socialista unitario italiano. Due giorni dopo, la CGdL denunciò il patto di alleanza con il partito socialista e si dichiarò indipendente da ogni partito. Intanto, i comunisti, neppure concordi fra di loro sulla condotta da seguire per preparare la rivoluzione proletaria, continuavano a polemizzare contro i socialisti d’ogni tendenza e contro gli antifascisti liberali e democratici74. Quanto al partito popolare, Mussolini constatava il 7 ottobre che era «scosso da una crisi profonda»75. L’intransigenza antifasci-

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sta del segretario Sturzo era contrastata dalle correnti della destra cattolica ostili a qualsiasi accordo con i socialisti e non contrarie al fascismo: a indebolire maggiormente Sturzo, giunse la pubblicazione, il 19 ottobre, di una circolare inviata il 2 ottobre dal segretario di Stato vaticano ai vescovi italiani ai quali raccomandava di mantenersi al di fuori della politica, affermando la totale estraneità della Chiesa al partito popolare76. L’attimo può sfuggire Insomma, considerata la situazione politica del momento, la valutazione che ne diede Mussolini il 6 ottobre era realistica. Mai un partito, in Italia, si era trovato in condizioni più favorevoli per diventare partito di governo in un regime parlamentare. Niente sembrava impedire al partito fascista di accedere legalmente al potere: niente, tranne la sua natura di partito milizia, che lo rendeva incompatibile con la democrazia parlamentare. Da qui la sua ambiguità verso la via da seguire per andare al potere. Ma questo atteggiamento, utile per la tattica ricattatoria nei confronti del governo, alla lunga poteva rivelarsi dannoso se si fosse protratto troppo, perché avrebbe consentito agli avversari di trovare il modo per far fronte comune contro il fascismo: una possibilità, questa, non improbabile ora che era nato un nuovo partito socialista riformista decisamente collaborazionista, mentre da parte dei liberali e dei democratici si insisteva con urgenza sulla necessità di sostituire il governo Facta con un altro più autorevole e risoluto, capace di restaurare l’ordine e l’imperio della legge nei confronti di chiunque. Molti parlamentari, dai socialisti ai democratici, guardavano all’ottantenne Giolitti come all’unico politico cui affidare la salvezza della democrazia italiana. Mussolini era tuttavia convinto che un nuovo ministero «sia pure presieduto da Giolitti, non può fare una politica di antifascismo», visto che lo stesso parlamentare piemontese l’aveva da tempo esclusa: ma pensava anche che un governo Giolitti con rappresentanza fascista fosse di «difficile attuazione», e comunque, egli dichiarava che il fascismo non era disposto a «vendere la sua primogenitura ideale per il famoso piatto di lenticchie, che potrebbe consistere in un portafoglio o in un paio di portafogli»: «Date le forze di cui

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dispone nel paese, il fascismo non può andare al potere dalla porta di servizio», era la conclusione di Mussolini77. All’inizio di ottobre, egli avviò una trattativa con Giolitti, tramite il prefetto di Milano Lusignoli, facendo credere di voler raggiungere un accordo per la formazione di un governo con partecipazione dei fascisti e nuove elezioni politiche. Per parte sua, Giolitti continuava a sostenere che il fascismo era un problema politico e non di polizia, e l’unica soluzione era la partecipazione fascista al governo in un ministero di coalizione. Invece, una coalizione antifascista decisa a reprimere il fascismo, secondo lo statista piemontese, avrebbe inevitabilmente scatenato la guerra civile. Eppure, nonostante le trattative in corso, Mussolini temeva il ritorno al governo del vecchio statista78. I suoi timori erano confermati da un rapporto redatto il 17 ottobre dal capo dell’Ufficio informazioni dello stato maggiore dell’esercito, sulla base delle confidenze avute da «un vecchio amico dell’on. Mussolini che ha avuto con questi recentemente un lungo colloquio»79. L’on. Mussolini vede la cosa dall’alto e non vuol discutere la partecipazione ad un Ministero Giolitti. Egli vede il crollo del fascismo se perdura ancora la situazione politica attuale; perciò parla della necessità assoluta per il fascismo di uscirne con un grande atto. A questo proposito ha detto che tutto è pronto per il colpo militare: il generale De Bono, l’on. De Vecchi e Italo Balbo sono i comandanti di Armata; l’ordine di mobilitazione prevede tutte le operazioni; l’inquadramento è perfetto. Mussolini è così sicuro di vincere e di essere il padrone della situazione che ha previsto anche i primi atti del suo governo. Pare che sia nelle intenzioni dell’on. Mussolini di effettuare il colpo prima del 10 Novembre, probabilmente il 4. L’amico ha fatto presente all’on. Mussolini che sarebbe una migliore soluzione la partecipazione del fascismo al governo anziché avventurarsi in un esperimento sanguinoso che potrebbe prostrare il Paese ed abbattere sopra di esso grandi sciagure. Ma il leader fascista vedrebbe tale partecipazione da un punto di vista egoistico e si sarebbe espresso così: «Vorrebbero imprigionarmi; la partecipazione al governo sarebbe la liquidazione del fascismo». Erano dunque vari i motivi per i quali la situazione del fascismo e del paese appariva in quel periodo a Mussolini, allo stesso

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tempo, come il momento più difficile e il momento più propizio per il fascismo. Al culmine del «biennio nero», il partito fascista si trovava in una condizione analoga a quella nella quale si era trovato il partito socialista durante il «biennio rosso», quando forte e potente con i suoi 150 deputati, oltre 200.000 iscritti, e due milioni di lavoratori organizzati dalla CGdL, avrebbe potuto osare la conquista del potere nel momento che appariva propizio, mobilitando le masse col mito della rivoluzione bolscevica. Ma il partito socialista non aveva saputo osare per afferrare l’attimo fuggente, perdendo l’occasione per andare al potere. La conseguenza fu che l’enorme edificio socialista, costruito in trent’anni di lotte e di organizzazione, tumultuosamente affollato da masse di lavoratori durante il «biennio rosso», rovinò in pochi mesi sotto l’offensiva squadrista. Ora il fascismo era in una situazione analoga: il momento era propizio, ma se i fascisti non fossero stati pronti ad afferrare l’attimo fuggente, quale sorte sarebbe toccata all’edificio fascista, costruito appena da un anno, se i fascisti avessero perso l’occasione di conquistare il potere? Nei primi giorni di ottobre, a Milano, nella sede delle squadre d’azione «Sauro» e «Carnaro», Mussolini disse: «L’attimo fuggente che i socialisti non hanno saputo afferrare è ora nelle mani del fascismo; noi uomini d’azione non ce lo lasceremo sfuggire e marceremo»80.

VII

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Come il fascismo preparò l’insurrezione, mentre i liberali credettero che Mussolini avesse scelto la legalità, e i comunisti pensavano che l’annunciata marcia su Roma fosse la farsa di un movimento al tramonto.

Chi volle la marcia su Roma Fu Mussolini a volere la marcia sulla capitale: concordano, su questo, varie testimonianze fasciste. In una delle prime cronistorie della «marcia su Roma» pubblicate nel 1923, un fascista romano scrisse: «Alla fine di settembre, a Roma, la Direzione del Partito Fascista affidava a Mussolini i pieni poteri. La storica riunione che decise l’azione avveniva in via Montedoro 28, nella sede del Sindacato Italiano delle Cooperative»1. Un altro cronista fascista, ancora nel 1923, scrisse che la direzione del PNF affidò a Mussolini «il più ampio mandato per una azione politica e militare. Il piano nelle grandi linee è abbozzato da Mussolini e comunicato riservatamente a Michele Bianchi e a qualche amico intimo»2. Il 30 settembre 1922 «Il Popolo d’Italia» dava una succinta notizia della riunione romana, in cui erano presenti Mussolini, Bianchi, Balbo, Giuseppe Bastianini, Massimo Rocca, Gaetano Postiglione, Alessandro Dudan, Giovanni Marinelli, Teruzzi e, per il gruppo parlamentare, De Vecchi e Costanzo Ciano. Si discusse di vari argomenti, fra i quali la revisione degli iscritti, il convegno della stampa fascista, la questione di Fiume, e il giorno successivo ci si occupò dell’organizzazione del partito: nessun accenno alla marcia sulla capitale. Nel 1929, lo storico ufficiale della rivoluzione fascista Giorgio Alberto Chiurco scriveva che fu in quell’occasione che Mussolini annunciò la «marcia su Roma»3. Nel suo diario del 1922 Balbo annotava l’adunata del 29 settem-

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bre, con la sua proposta di compiere «un’azione in grande stile su Parma» e «stroncare per sempre l’organizzazione sovversiva», prima «che si inizi qualsiasi movimento fascista di larga portata in Alta Italia». La nota conclude: «In tutti noi è la certezza che il movimento insurrezionale per la conquista integrale del potere abbia la prevalenza. Dio lo voglia!». Ma nessun accenno faceva Balbo alla decisione mussoliniana di marciare sulla capitale4. Non ne parlava neppure Pietro Gorgolini, definito da Mussolini «lo storico del fascismo», che scrisse alla fine del 1922 un libro sulla «rivoluzione delle camicie nere» con prefazione di Bianchi: la narrazione iniziava con l’adunata di Napoli del 24 ottobre, preceduta da una generica considerazione su «Mussolini, che aveva un suo programma e idee da vendere, non voleva né poteva perdere tempo. Egli, camminante per le vie maestre della storia con passo spedito, voleva afferrare l’attimo fuggente» che doveva portarlo al potere5. Nelle sue memorie, pubblicate nel 1952, Massimo Rocca negava di aver partecipato alla riunione del 29 settembre: egli sosteneva che Mussolini cominciò a pensare alla marcia sulla capitale dopo l’agosto del 1922, perché «temette che, a lungo andare lo squadrismo gli sfuggisse di mano o una rivolta maturasse contro di lui: e questo timore non fu estraneo alla sua decisione di afferrare il potere al più presto, in qualsiasi modo. ‘Bisogna andare al Governo per arginare la guerra civile, a costo di condannare due volte invece di una le camicie nere che non ubbidiscono’. Quelle parole, dette con tono deciso, parvero sincere alle non poche persone che le udirono [...] Ma pochi, almeno fino all’agosto 1922, pensavano di conquistare il potere illegalmente [...] La marcia su Roma nacque insomma nei soli cervelli di Mussolini e dell’oligarchia [...] e perciò venne decisa e attuata di sorpresa, senza che la direzione del partito ne sapesse nulla»6. Rocca precisava che la spinta all’azione fu dettata dalla crisi del secondo governo Facta, orientato a cedere il posto a Giolitti: «Mussolini comprese che la crisi aperta gli offriva l’ultima occasione di agire. ‘O li freghiamo subito, o ci fregheranno domani’: questa frase semistorica definiva le sue intenzioni ed anche la sua chiaroveggenza puramente istintiva»7. Nella rievocazione del retroscena della «marcia su Roma», pubblicata nel 1949, Cesare Rossi affermava: «È fra il 6 ed il 10 ottobre che Mussolini si decide ad osare la grande avventura»8.

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Quanto al protagonista di queste testimonianze, Mussolini affermò sempre di essere stato l’ideatore e l’artefice della «marcia su Roma». Nel 1927, in un numero speciale dedicato all’evento da «Gerarchia», il duce scrisse che l’idea della marcia maturò nell’agosto del 1922, «un punto culminante nella storia contemporanea d’Italia»: «è con l’agosto del 1922 che comincia il periodo insurrezionale del fascismo che si conclude con la marcia su Roma. L’insurrezione dura, quindi, esattamente tre mesi». Il periodo insurrezionale, continuava il duce, giunse «al suo epilogo» dopo l’adunata di Napoli, quando gli «indugi furono troncati dall’ultima manovra tentata dal governo a sfondo patriottico, combattentistico. Bisognava impedire che la cerimonia del 4 novembre giovi a prolungare l’agonia del regime, ormai condannato. [...] L’azione del 28 ottobre deve precedere la manovra preparata per il 4 novembre. Non si può tardare più oltre»9. Altre testimonianze, invece, attribuiscono la decisione della «marcia su Roma» a Michele Bianchi, oppure lo presentano come il principale promotore dell’insurrezione, vincendo le ultime esitazioni dello stesso duce, allo scopo di imporre la nomina di Mussolini a presidente del Consiglio. Anni dopo la fine del fascismo, alla domanda su chi fu il fautore più deciso della «marcia su Roma» tra Mussolini e Bianchi, Giacomo Acerbo, che nel 1922 era deputato e membro del comitato centrale del PNF, rispose: «È difficile dirlo»10. Alla stessa domanda, Giuseppe Bottai, uno dei comandanti delle colonne squadriste incaricate di marciare sulla capitale, rispose: «Il fautore più deciso di una conquista anche violenta del potere fu Michele Bianchi. Mussolini propendeva a credere a una successione quasi automatica, nella decadenza progressiva del potere»11. Anche un testimone estraneo al fascismo, il capo di gabinetto del ministro dell’Interno Efrem Ferraris, che seguì lo svolgimento dell’insurrezione fascista dal Viminale, attribuì la decisione della «marcia su Roma» al segretario del PNF. Secondo Ferraris, Mussolini era uno «spirito audace, quando lo montavano, ma per natura incerto e dubbioso, si preoccupava del salto nel buio che poteva derivare dalla soluzione violenta per l’assunzione totalitaria ed extra-costituzionale del potere», perché comprendeva che «per quanto sorretto dalla simpatia della pubblica opinione, il fascismo era pur sempre un partito di minoranza». Tuttavia, aggiungeva Ferraris, «pure accarezzando la soluzione costituzionale», Mussolini «non perdeva di vista le possi-

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bilità di una soluzione extra-legale caldeggiata da Michele Bianchi e da Balbo; perché il programma era per lui: – il Fascismo al potere; tenere diverse vie aperte per giungervi e scegliere al momento opportuno la via più rapida». Perciò, mentre trattava con Giolitti, Mussolini «lasciava che Michele Bianchi spingesse innanzi con instancabile alacrità l’organizzazione del partito e della milizia e lo studio dei piani di mobilitazione per la eventuale marcia su Roma»12. Per Ferraris, il «vero istigatore della marcia fu Michele Bianchi, temperamento chiuso ma tenacissimo, come lo sono gli uomini della sua terra, nelle risoluzioni prese. Fu lui che inscenò la grande adunata di Napoli che nelle sue intenzioni doveva ‘montare’ Mussolini e rompere gli indugi nelle trattative per una soluzione di compromesso parlamentare, che egli assolutamente non voleva»13. Che fosse stato Mussolini o Bianchi a volere la «marcia su Roma», a nulla sarebbe comunque valso il loro volere se a condividerlo non ci fosse stata la massa dei capi e dei gregari dello squadrismo, primo fra tutti Italo Balbo, l’unico fra i comandanti generali della milizia fascista che fin dall’inizio affiancò Bianchi come intransigente sostenitore dell’insurrezione. Gli squadristi erano la forza dominatrice del fascismo, senza la quale nessuna manovra, nessuna trattativa, nessuna personale capacità politica d’afferrare l’attimo fuggente, avrebbe condotto al potere il fascismo. Fu questa forza che consentì la conquista del potere attraverso un’originale tattica rivoluzionaria, che combinò la preparazione e l’attuazione dell’insurrezione inserendola in una trama di trattative, condotte con abilità dai due tessitori principali, Mussolini a Milano e Bianchi a Roma, gli stessi che decisero l’insurrezione come azione di pressione e di ricatto per condurre il fascismo al potere. Tuttavia, la loro abilità di manovra sarebbe stata priva di efficacia, se alle loro spalle i due non avessero avuto un partito armato che aveva conquistato il dominio in molte regioni dell’Italia settentrionale e centrale, con l’esercizio di una forza illegale contrapposta al monopolio della forza legittima dello Stato. Mussolini e Bianchi, sia pure con differente risolutezza, scelsero la via insurrezionale non solo perché la giudicarono la più adatta ad afferrare l’attimo fuggente, ma perché su quella via il partito che essi guidavano si era incamminato fin dalla sua nascita ed era quasi obbligato a percorrerla. La massa dei militanti fascisti non era disposta a rinunciare al potere locale che aveva conquistato, anzi era decisa

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a conservarlo in modo irrevocabile, e a estenderlo per completare «l’opera intrapresa», togliendo ai sovversivi «ogni possibilità di riprendere il sopravvento», come disse Bianchi a una riunione del Fascio romano il 27 agosto: «Le azioni fasciste dovranno continuare, se pure non in forma violenta e collettiva. A tal uopo un piano organico di azione sarà compiuto e se ne curerà l’attuazione metodica in ogni regione d’Italia. [...] Le posizioni perdute dai socialisti dovranno essere tenute dai fascisti, i quali non permetteranno mai che il Governo reintegri i sovversivi nelle Camere del lavoro incendiate, nelle cooperative e soprattutto nelle amministrazioni comunali»14. Rientrava probabilmente nel piano organico di Bianchi la campagna per le nuove elezioni politiche, lanciata alla fine di agosto, con la richiesta di una riforma elettorale che revocasse il metodo proporzionale: ma né la richiesta di nuove elezioni né le trattative avviate con gli ex presidenti del Consiglio nelle prime settimane di ottobre, comportarono la rinuncia alla violenza squadrista: ancora il 14 ottobre gli squadristi occuparono il municipio di Vicenza per costringere l’amministrazione socialista a dare le dimissioni, convalidate dal prefetto che nominò un commissario15. Il piano delineato da Bianchi, negando pregiudizialmente ai «sovversivi» il diritto di ricostruire quel che era stato distrutto dalla violenza fascista, escludeva comunque la restaurazione della legalità. Ciò che il partito aveva conquistato con la sua forza illegale non sarebbe stato mai ceduto: di conseguenza, l’irrevocabilità del potere locale rendeva la via insurrezionale l’unica percorribile per la conquista del potere centrale. Oltre che dalla volontà di Mussolini e di Bianchi, l’insurrezione denominata «marcia su Roma» nacque dall’organizzazione armata e dalla pratica terroristica del partito fascista e dalla sua insanabile incompatibilità con il regime democratico parlamentare. Storicamente, dunque, fu il partito milizia a volere la «marcia su Roma»: il duce e il segretario furono gli interpreti e gli esecutori della sua volontà16. Chi non voleva l’insurrezione Fu Lenin principalmente, sostenuto decisamente da Trotsky, a volere la conquista rivoluzionaria del potere, mentre gli altri dirigenti bolscevichi la ritenevano immatura o impossibile. Quando il

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10 ottobre 1917, in una riunione segreta del comitato centrale del partito bolscevico, Lenin sostenne la necessità dell’insurrezione, non tutti furono d’accordo. Kamenev e Zinoviev votarono contro, ritenendola un rischio inconsulto. E continuarono a essere contrari, tanto che Lenin ne chiese l’espulsione dal partito, fino al giorno in cui l’insurrezione bolscevica fu attuata. E allora i due si adeguarono. Anche fra i dirigenti fascisti, alcuni furono contrari all’insurrezione e la osteggiarono, più o meno apertamente, cercando motivi ed espedienti per impedirla. Nella discussione sulla scelta della strada da seguire, tra elezione e insurrezione, svolta dal comitato centrale del 14 agosto, si erano dichiarati favorevoli alle elezioni anticipate Grandi, Acerbo, Rocca e Baroncini, mentre Bianchi, Balbo, Farinacci e Bottai erano favorevoli all’insurrezione17. Apertamente contrario all’insurrezione era Grandi, come lo era alla militarizzazione del fascismo. Per questo, dopo aver presentato le dimissioni dalla direzione del PNF, che tuttavia le respinse, Grandi si appartò «inquieto e deluso» dalla vita del partito, non partecipò alle adunate di Udine e Cremona, e si dedicò esclusivamente a curare la propaganda e la cultura politica, come direttore della casa editrice del PNF «Imperia»18. In un colloquio che ebbero il 3 ottobre, Balbo rimproverò a Grandi il suo defilarsi dal partito: in un momento decisivo, in cui Mussolini – diceva Balbo – «ha finalmente capito e che finalmente si addimostra orientato verso l’inevitabilità dello sbocco insurrezionale, facendo cioè ritorno a quelle che erano state le nostre posizioni di un anno fa, ecco che sei tu a fare il parlamentare, il giolittiano, a sollevare dubbi, ad appartarti improvvisamente. Così non va. Così non va». Grandi replicò che la situazione era interamente diversa da un anno prima, quando il fascismo era una minoranza, perché dopo il fallimento dello sciopero legalitario «la pubblica opinione, ossia la stragrande maggioranza degli italiani, si è schierata apertamente con noi»; di conseguenza, il fascismo era in grado di «conquistare il potere senza bisogno di ricorrere al rimedio chirurgico, eroico ma pericoloso, dell’insurrezione [...] voi, con Mussolini in testa vi preparate a fare l’insurrezione e ciò proprio quando di insurrezione non c’è più bisogno. Questo è un errore ed io non ci sto. La trasformazione del partito in esercito che voi state facendo dal mese di agosto in qua, oltre che annul-

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lare l’autorità e la responsabilità politica e collegiale della direzione del partito, renderà ad un certo punto fatale lo scoppio del movimento insurrezionale, col rischio che Monarchia, Esercito, Parlamento ma soprattutto il popolo siano ad un tratto contro di noi. [...] No, caro Balbo, io non ci sto a giocare all’insurrezione»19. Nei giorni successivi, Grandi manifestò pubblicamente la sua avversione all’insurrezione. «La conquista dello Stato non deve essere una conquista militaresca ed armata conseguita attraverso la lotta barricadiera», scrisse il 14 ottobre su «L’Assalto»20. Quello stesso giorno, «Il Popolo d’Italia» pubblicò un’intervista nella quale Grandi diceva di essere «un po’ preoccupato da tutto l’assetto militaresco che va ogni giorno assumendo il nostro Partito, e che lo fa rassomigliare quasi più ad un esercito che ad un movimento politico», e in questa sua preoccupazione Grandi coinvolgeva lo stesso Mussolini, che ne avrebbe condiviso il motivo, avendogli detto durante una conversazione: «Stiamo attenti che lo squadrismo non mangi il Fascismo!». Per Grandi, il fascismo stava «passando rapidamente, dal suo periodo di guerra, ad un periodo molto più difficile e pieno di incognite assai più gravi, quello della ricostruzione nazionale e, cioè, del Governo dello Stato. In questo secondo momento è fuor di dubbio, che l’Esercito delle Camicie nere, dovrà necessariamente scomparire o quanto mai modificare, sostanzialmente i suoi metodi e le sue finalità. Occorre, invece, una classe dirigente, matura, consapevole, preparata a risolvere i formidabili problemi che ci attendono. Questa funzione duratura del fascismo sarà, soprattutto, la sua giustificazione storica»21. Dal 13 ottobre Grandi fu a Ginevra per partecipare alla Conferenza internazionale del lavoro. E il 23 andò a far visita al grande sociologo Vilfredo Pareto a Losanna: parlando del fascismo, Grandi espose i dubbi sull’insurrezione e disse che Mussolini aveva intrapreso «la via sbagliata»; con sua sorpresa, Pareto fu di parere contrario, e spiegò che il fascismo godeva al momento di «un vento eccezionalmente favorevole», e sarebbe stato errore non profittarne, perché il popolo italiano era per sua natura mutevole. Mussolini, disse Pareto, «è sulla via giusta. Fa bene a tirare diritto, minacciando cose grosse. Ella è in errore. Vi è un tempo per tutto, un tempo per essere legalitari e un tempo per essere rivoluzionari. Il popolo italiano ama i fatti piccoli e le parole grosse: Mussolini

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ha dimostrato sinora di conoscere bene la sua gente. Non credo che Ella abbia serio motivo di mettersi di traverso». Grandi uscì dal colloquio «alquanto disorientato, ma non convinto». Tornato in albergo, trovò un telegramma di Balbo: «Non mancare assolutamente a Napoli». Il giorno dopo, Grandi partì per andare a Napoli per il consiglio nazionale del PNF22. Fra i dirigenti fascisti contrari all’insurrezione c’era anche De Vecchi, ma per motivi diversi da quelli di Grandi. De Vecchi, infatti, non era affatto contrario alla militarizzazione del fascismo, alla quale aveva dato un contributo decisivo come uno dei comandanti generali della milizia e principale estensore del suo nuovo ordinamento, nel contenuto e nello stile. De Vecchi non era neppure contrario alla violenza, anzi aveva capeggiato gesta squadriste, come l’occupazione di Novara, proclamando la necessità della violenza a oltranza, fino alla definitiva vittoria del fascismo «perché la violenza è forza e perché di forza ha bisogno il rammollito Stato democratico»; e perché, violando la legge «formale e scritta per seguire le vie della morale e dell’onore», il fascismo procedeva «trionfante per la sua via», creando «le fondamenta dell’Italia imperiale, opera titanica, con la tenacia di altri soldati, i legionari Romani», e combatteva «come gli arditi» preferendo «bruciare se stesso in un grande rogo piuttosto che vivere come i democratici in una ‘Italietta’ contaminata, putrida, senile, pidocchiosa, patria di imbelli e castrati pacifisti anche a costo dell’onore, che belano di umanità per vigliaccheria in un mondo di lupi»23. Il 2 ottobre, De Vecchi dichiarò ai fascisti torinesi che ci si trovava ormai di fronte a un’alternativa definitiva: o il fascismo assorbiva lo Stato o lo Stato assorbiva il fascismo, per dare all’Italia una nuova classe dirigente «e foggiare lo spirito degno di Roma»: ma per ottenere ciò, era necessaria la disciplina, tanto al fascismo quanto all’Italia: «Ogni fascista è un soldato disciplinato da un regolamento molto più severo di quello della milizia militare. Se l’Italia non si impone tale disciplina, la vita nazionale andrà a rotoli»24. Ma anche se era un convinto assertore del fascismo militarizzato e violento, De Vecchi si sentiva prima di tutto un fedele suddito del re, e mai avrebbe aderito a un piano insurrezionale mirante a rimettere in discussione la monarchia. È perciò verosimile che egli non condividesse «le velleità rivoluzionarie di Mussolini», come scrisse nelle sue memorie, probabilmente perché dubitava

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della sua recente conversione alla monarchia25. La sua opposizione all’insurrezione ebbe un carattere ambiguo, perché, pur avversandola, accettò di essere coinvolto personalmente nella preparazione del piano insurrezionale in tutte le sue fasi, come uno dei capi scelti per dirigerla, insieme a Bianchi, Balbo e De Bono26. Il gioco delle parti Mussolini non volle assumere personalmente il ruolo di capo dell’insurrezione, delegando tutti i poteri al quadrumvirato, e ne seguì l’attuazione da Milano, da dove proseguì le trattative con Giolitti27. Nei giorni precedenti la «marcia su Roma», ci fu una sorta di gioco delle parti fra Bianchi intransigente e Mussolini possibilista, fra un segretario rivoluzionario e un duce diplomatico. Ma entrambi operarono con molta abilità per confondere e disorientare gli aspiranti alla presidenza di un nuovo governo con la partecipazione fascista. Mentre si accingevano ad attuare l’insurrezione, Mussolini e Bianchi trattarono con i principali esponenti liberali: Facta, Giolitti, Nitti, Orlando, Salandra28. Trattarono separatamente con ciascuno di loro, e fecero credere a ognuno che era il candidato preferito dai fascisti. Mentre Bianchi ebbe colloqui con Facta, Mussolini gestì le trattative con Giolitti attraverso il prefetto di Milano, e nello stesso tempo intavolò trattative con Salandra, Nitti e Orlando. A tutti furono fatte le stesse proposte: elezioni anticipate in breve tempo e congrua rappresentanza fascista nel nuovo governo. Secondo quanto riferiva Lusignoli a Giolitti l’8 ottobre, Mussolini assicurava che i fascisti erano disposti a collaborare solo con Giolitti, «perché il capo deve essere, data la condizione del Paese, molto autorevole ed esperto»29. Lo stesso Mussolini, aggiungeva Lusignoli, avanzava due proposte: un governo composto dai rappresentanti di tutti i partiti, esclusi socialisti e nittiani, e con una presenza fascista limitata a un ministro e a due sottosegretari, che però si impegnava a fare le elezioni; oppure un «grande Ministero», nel quale «si dovrebbe dare ai fascisti una parte proporzionata alla forza che hanno nel Paese», cioè quattro portafogli (Esteri, Guerra, Marina, Lavoro o Lavori pubblici), rinunciando a elezioni immediate. In tal modo, avrebbe

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detto Mussolini, «o i fascisti, in numero notevole nel Ministero, si affermano e sarà bene pel Paese; o non saranno capaci di affermarsi e allora il pallone fascista sarà sgonfiato e il Paese troverà un’altra via». Mussolini garantiva che i fascisti l’avrebbero seguito perché «fanno quello che vuole lui», e aveva dato «l’assicurazione più formale ed assoluta» che, una volta scelta una delle due soluzioni, le violenze fasciste sarebbero cessate. Secondo quanto scriveva Lusignoli il 13 ottobre, sul problema del governo e delle elezioni, ci sarebbe stata all’inizio una divergenza fra Mussolini, che voleva sostituire subito Facta con Giolitti, e Bianchi, che invece voleva mantenere il ministero in carica per fare subito le elezioni. La divergenza era stata però superata perché Bianchi aveva ceduto alle idee di Mussolini e ora desideravano entrambi «vivamente» una crisi extraparlamentare, giudicando «pericolosissimo perdere anche un giorno»: «Chiedono solo che la crisi non avvenga prima del 24 corrente, giorno in cui a Napoli tengono la riunione del loro Consiglio nazionale, che delibererà la collaborazione dei fascisti al governo. Mussolini seguita a ritenere che siano sufficienti un Ministro e due Sottosegretari, mentre Bianchi desidererebbe qualcosa di più; ma questa è ora una questione secondaria»30. Mentre trattava con Giolitti, negli stessi giorni Mussolini avrebbe confidato al nazionalista Lui­ gi Federzoni, secondo la testimonianza di questi, che bisognava «arrivare invece a una soluzione imperniata sul nome di Vittorio Emanuele Orlando. Orlando è una bella figura; una bella figura di italiano, prima di tutto. Con lui si potrebbe lavorare volentieri»31. Intanto, a Roma, Bianchi lusingava Facta, col quale ebbe almeno tre colloqui, il 7, l’11 e il 15 ottobre. In un’intervista rilasciata dopo il primo colloquio, nel quale Bianchi aveva chiesto le elezioni politiche a brevissima scadenza perché la Camera non rappresentava più la nazione, il segretario fascista fece l’elogio di Facta, «uomo dotato di squisito senso politico e di grande amore di patria. Quella che molti si ostinano a chiamare debolezza dell’attuale presidente del Consiglio è invece saggezza politica. L’on. Facta ha avuto, lui solo, il merito di aver saputo evitare l’urto fra le forze fasciste e le forze dello Stato»32. I colloqui di Facta con Bianchi fecero nascere nel ministro della Guerra Soleri il sospetto che il presidente del Consiglio, nonostante le reiterate affermazioni di voler quanto prima cedere il posto a Giolitti, in realtà non fosse

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alieno dall’ambizioso proposito di ottenere un terzo incarico per formare un governo con i fascisti, «tenendo segreta ai ministri l’azione che andava svolgendo, in tutta buona fede – non certamente pari nell’altra parte – allo scopo di evitare che scoppiasse un conflitto, e di fare entrare i fascisti nel suo ministero»33. Facta e gli ex presidenti del Consiglio credevano di poter manovrare Mussolini per incanalare il fascismo entro l’alveo dello Stato liberale. Divisi da antiche rivalità personali, ciascuno pensò di utilizzare il fascismo nella speranza di giovare alla propria fortuna politica, alla conservazione dello Stato liberale e alla salvezza dell’Italia, ma tutti concordavano nel rifiutare l’uso della forza legale per reprimere la forza illegale del fascismo, temendo che la repressione avrebbe scatenato una guerra civile fra lo Stato e il fascismo, della quale si sarebbero avvantaggiati solo i socialisti e i comunisti. Oltre ciò, era convinzione diffusa che una politica repressiva nei confronti del partito milizia fosse alquanto difficile da attuare, come ripeteva il prefetto di Milano, che assecondava la trattativa fra Giolitti e Mussolini, con la speranza di essere il successore di Taddei34. Il prefetto agitava lo spettro di una riscossa dei massimalisti e dei comunisti: «Invece – scriveva Lusignoli a Giolitti l’11 ottobre –, se si incanalano subito i fascisti chiamandoli al governo, può essere che si scindano: la parte più moderata potrà essere una forza utile; contro gli altri l’autorità dello Stato potrà agire liberamente»35. Coinvolgere i fascisti nel governo appariva l’unica via praticabile, secondo gli aspiranti alla presidenza del Consiglio, per porre fine alla violenza squadrista. Salandra dichiarava che bisognava «dare senza indugio forma legale all’inevitabile avvento del fascismo al potere»36. Il 19 e il 20 ottobre, mentre erano in corso le trattative con Mussolini, Nitti disse pubblicamente: «La democrazia esiste, il socialismo esiste, ma il Fascismo, come fenomeno etico sociale, esiste ed ha assunto un’estensione che nessun uomo di Governo può trascurare». Di conseguenza, per ristabilire l’ordine e consolidare la democrazia, era necessario consultare il paese e formare subito un nuovo governo impiegando «tutte le forze vive per raccogliere del Fascismo la parte ideale, che è stata la causa del suo sviluppo», utilizzandolo insieme con «le forze più sane e più operose che vengono dalle masse popolari, incanalandolo nelle forme legalitarie delle nostre istituzioni». E per ottenere ciò

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era necessario accogliere la richiesta del PNF per lo scioglimento della Camera e nuove elezioni a breve termine37. Quanto a Giolitti, che il 27 ottobre avrebbe compiuto ottant’anni, quattro giorni prima disse al consiglio provinciale di Cuneo che il fascismo doveva avere nella vita italiana «quel posto al quale il numero dei suoi aderenti gli dà diritto; ma nelle vie legali, le sole che possono dare vera e durevole autorità ad un partito nell’orbita costituzionale, le sole per le quali si può attuare la parte fondamentale del programma di quel partito, di rialzare cioè l’autorità dello Stato per la salvezza, la grandezza e la prosperità della patria»38. Trattative con insurrezione Con tali atteggiamenti dei maggiori uomini politici liberali, condivisi dall’opinione pubblica costituzionale, dagli industriali e dagli agrari, da gran parte della borghesia e dei ceti medi, la via legale per andare al potere era non solo aperta, ma addirittura spalancata davanti al partito fascista, se avesse voluto veramente percorrerla, senza bisogno di una mobilitazione insurrezionale. Ma all’insurrezione né Mussolini né Bianchi intendevano rinunciare: per entrambi, infatti, le trattative non erano un’alternativa all’insurrezione, ma un fattore complementare per il suo successo. L’insurrezione era necessaria per un duplice scopo: fare pressione sul governo per costringerlo a dimettersi, e fare apparire l’ascesa del fascismo al potere non come un normale cambio di governo ma come un trapasso di regime: l’insurrezione era il «grande atto», reale e simbolico nello stesso tempo, col quale il partito milizia doveva arrivare al potere, sconfiggendo l’impotente Stato liberale, per costruire il nuovo Stato fascista. Era questo, molto probabilmente, il motivo per cui Mussolini e Bianchi ritenevano necessaria la «marcia su Roma», anche se la marcia sulla capitale da parte delle legioni squadriste apparteneva più all’aspetto simbolico che a quello effettivo dell’insurrezione fascista. È plausibile pensare che neppure i capi fascisti più infervorati per l’insurrezione ritenessero realmente possibile una conquista armata della capitale: Roma era una città dove il fascismo stentava a impiantarsi e i fascisti erano poco numerosi;

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le dimensioni urbane della capitale escludevano la fattibilità di un’occupazione come era avvenuto a Ferrara e a Bologna; la forza pubblica disponibile nella capitale, esercito, carabinieri, polizia, guardia regia, sarebbe stata sufficiente a stroncare qualsiasi tentativo di assalto squadrista. Gli organizzatori dell’insurrezione erano consapevoli dell’inadeguatezza della milizia fascista per una «marcia su Roma» concepita in termini esclusivamente o prevalentemente militari. Non per questo, tuttavia, l’insurrezione era concepita soltanto come una minaccia retorica o un bluff: per essere efficace come strumento di pressione sulle trattative politiche, l’insurrezione doveva essere realmente attuata, non con un’effettiva marcia sulla capitale, bensì attraverso la mobilitazione degli squadristi in tutte le città dove il fascismo già dominava, occupando sedi governative e uffici pubblici, in modo da creare una situazione di confusione per impedire al governo di capire tempestivamente quel che stava accadendo e di poter procedere tempestivamente a stroncare l’insurrezione. In altre parole, la «marcia su Roma» doveva avere successo in altre parti d’Italia, per poter aprire al fascismo le porte della capitale. Mentre le trattative, affiancate all’insurrezione, erano una delle chiavi per agevolare l’apertura delle porte, perché sfondarle a mano armata sarebbe stato impossibile. La combinazione delle trattative con l’insurrezione fu l’originalità tecnica, per così dire, della «marcia su Roma» come complesso di azioni per la conquista del potere. Un’insurrezione con trattative era una combinazione apparentemente tanto paradossale, da essere indicata come prova dell’inconsistenza del moto insurrezionale fascista, mentre, al contrario, fu il fattore principale del suo successo, perché riuscì a confondere il governo sulle vere intenzioni fasciste, a dividere gli aspiranti alla successione alla guida del governo, a disorientare i governanti e soprattutto il re. Nel piano insurrezionale fascista, l’ostacolo principale era rappresentato dal re, dal quale dipendeva l’esercito. I fascisti sapevano di poter contare su molte simpatie nell’esercito, dalla truppa fino agli alti gradi, ma non potevano fare affidamento solo su di esse per sperare nella sua neutralità durante il moto insurrezionale39. Preparando la «marcia su Roma», fu massima cura di Mussolini e del partito fascista manifestare in tutti i modi rispetto per l’esercito. I fascisti si vantavano di aver difeso l’esercito quando i «nemici della

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nazione» lo dileggiavano e insultavano e aggredivano i reduci, così come enfatizzavano la comunanza di valori, di ideali e di scopi, convergenti nel culto della patria e nella difesa della nazione. Fra esercito e fascismo, scriveva un tenente colonnello su «Cremona Nuova», vi era una «naturale cooperazione, non sancita da alcun patto ma suggellata da una tacita, fraterna solidarietà», nella lotta contro il socialismo, «reo di avere, unico fra tutti i socialismi del mondo – forse per la sua stessa immaturità civile e politica – rinnegato la Patria», ed era perciò «divenuto straniero nella sua stessa terra, e, nel suo contenuto antinazionale, agendo in odio alla Patria»40. Lo stesso giornale tacciò di «idiozia» l’affermazione che il generale Badoglio avrebbe pronunciato il 13 ottobre a una riunione: «Al primo fuoco, tutto il fascismo crollerà»: «che ci sia in questo momento della gente in Italia – commentava il colonnello – che pensi soffocare il fascismo in un bagno di sangue è cosa supremamente idiota. [...] L’esercito contro il fascismo! È come dire la nazione contro il fascismo, e cioè la nazione contro se stessa»41. All’esercito principalmente fu rivolto il proclama del quadrumvirato, diffuso il 27 ottobre, per annunciare che «l’ora della battaglia decisiva è suonata»; l’insurrezione fascista era presentata come una ripresa dell’offensiva che quattro anni prima l’esercito italiano aveva lanciato contro gli austriaci conquistando la vittoria: «oggi, l’esercito delle Camicie Nere riafferra la vittoria mutilata e, puntando disperatamente su Roma, la riconduce alla gloria del Campidoglio [...] L’esercito, riserva e salvaguardia della nazione, non deve partecipare alla lotta. Il fascismo rinnova la sua altissima ammirazione all’Esercito di Vittorio Veneto»42. Il fascismo, aggiungeva il proclama, non marciava neppure «contro gli agenti della forza pubblica», ma «contro una classe politica di imbelli e di deficienti che in quattro lunghi anni non ha saputo dare un governo alla nazione»43. Piano di marcia Erano già in corso le trattative di Mussolini con Giolitti, quando Pareto, il 17 ottobre, scrisse all’amico Maffeo Pantaleoni: «Quel volpone di Giolitti sta preparando la disfatta del fascismo. Credo che se i fascisti si lasciano addomesticare, sono finiti. [...] La

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moltitudine che ora abbandona i socialisti, abbandonerà i fascisti, perché questi non potranno ad essa dare da rosicchiare la luna. Occorre dunque fare la rivoluzione prima dell’abbandono, perché altrimenti è festa finita»44. Il sociologo non sapeva che il giorno prima, a Milano, nella sede del Fascio, c’era stata una riunione in cui fu deciso un piano di massima per l’insurrezione. La riunione era stata convocata il pomeriggio del 16 ottobre da Mussolini, che aveva invitato a partecipare i tre comandanti della milizia, Bianchi, Teruzzi, vicesegretario del PNF, e i generali in congedo Gustavo Fara e Sante Ceccherini45. Era stato invitato a partecipare anche Ulisse Igliori, capitano e mutilato di guerra, capo dei fascisti romani e ispettore generale della milizia, il quale giunse quando la riunione era già terminata46. La riunione si svolse fra contrasti molto vivaci. Ancor prima di cominciare, appena giunti, il generale De Bono e De Vecchi si adontarono perché non erano stati avvertiti della presenza dei due generali, che non facevano parte della milizia, e volevano andar via, ma Mussolini li convinse a restare. In apertura di seduta, De Bono manifestò nuovamente il suo disappunto per la presenza degli altri due generali, ma Mussolini spiegò che per l’azione rivoluzionaria credeva «utile vi siano Generali in divisa, alla testa dei gruppi insorti». De Bono si convinse, ma i due generali chiesero allora di ritirarsi; furono tuttavia trattenuti da De Bono che disse di non aver nulla di personale, anzi si disse «ben lieto di averli agli ordini»47. Mussolini esordì dicendo che il governo e le correnti antifasciste tendevano «a soffocare il nostro movimento», e che Giolitti «crede di poterci offrire due portafogli: ma ce ne vogliono sei per noi o nulla»: «Ed allora bisogna mettere in azione le masse, per creare la crisi extraparlamentare e andare al governo. Bisogna impedire a Giolitti di andare al governo. Come ha fatto sparare su D’Annunzio farebbe sparare sui fascisti. Questo è il momento. L’opinione pubblica attende ed i sovversivi si uniscono in alleanze sindacali. Oggi nessun capo sovversivo si prende la responsabilità di proclamare scioperi generali»48. Quindi Mussolini espose il piano d’azione che doveva scattare sabato 21 ottobre: alle ore 12 cessava «di funzionare la direzione: entrerebbe in potere un quadrumvirato: Balbo, De Bono, De Vecchi, Bianchi. Indi: il Piemonte sommerge Torino, la Lombardia Milano; da Piacen-

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za a Rimini: Parma. Frattanto si formano tre armate ad Ancona, Orte, Civitavecchia, comandate da Fara, De Bono, Ceccherini». Un proclama del quadrumvirato, redatto da Mussolini, avrebbe annunciato l’insurrezione spiegando gli obiettivi del fascismo. Nel frattempo si sarebbe continuato «a sbandierare l’adunata di Napoli». Mussolini concluse: «Credo che tutti saranno d’accordo; in caso contrario vi prevengo che attacco ugualmente. È inutile attendere il perfezionamento delle forze, che non si può ottenere». La discussione che seguì fu animata, perché il piano mussoliniano incontrò l’opposizione dei generali e di De Vecchi: De Bono obiettò che «manca il funzionamento delle gerarchie» e aggiunse: «io sto lavorandomi l’Esercito. Qualche tempo in più fa bene». De Vecchi obiettò che «il nostro organismo militare è in trasformazione, quindi più debole. La macchina è lenta. Ritorna a chiedere 40 giorni per perfezionare l’organismo. Per la forma: in esecuzione il regolamento di disciplina. Occorre formare masse di manovra». Mussolini allora domandò: «e se il momento politico cambia?», ma il generale Fara obiettò che non credeva «al baubau della necessità immediata. Appoggia la dilazione De Vecchi. Dice che non conosce gli uomini, i comandanti». De Vecchi criticò «ancora l’attuale funzionamento delle legioni». Alla fine, Mussolini concluse osservando che «lo scopo della riunione è raggiunto», perché vi era «unanimità di vedute sulla indispensabilità dell’azione» e sulle sue modalità, che i presenti si accordavano sulla data, e raccomandò «che il comando della Milizia non si divida ma studi subito i vari problemi», e chiuse dicendo: «D’Annunzio è favorevole»49. L’opposizione dei generali e di De Vecchi irritò molto Mussolini. Finita la riunione, entrò furente nell’ufficio di Rossi e si mise a camminare su e giù ripetendo: «Se Giolitti torna al potere siamo f... Ricordati che a Fiume in altra occasione ha fatto cannoneggiare D’Annunzio. Bisogna bruciare le tappe. Non la volevano capire quelli là... Ma ho puntato i piedi. Entro questo mese bisogna che tutti i preparativi siano ultimati. [...] Dice che mancano i bottoni alle uose... Capisci?! ...Ma sì, credono di dover organizzare una parata d’onore. Dicono che non sono pronte le divise, ecco. E non capiscono che se lasciamo passare questo momento favorevole è finita per noi»50. In effetti, sostenuto da Bianchi e da Balbo, Mussolini aveva vinto51. Tanto che due giorni dopo, i tre comandanti della milizia,

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insieme a Teruzzi che teneva il collegamento con la direzione del PNF, si riunirono a Bordighera per predisporre il piano d’azione dell’insurrezione. Fu stabilito che tre colonne squadriste si sarebbero concentrate a Santa Marinella, Monterotondo e Tivoli, rispettivamente comandate da Perrone Compagni coadiuvato dal generale Ceccherini; da Ulisse Igliori coadiuvato dal generale Fara, e da Giuseppe Bottai. Come sede del quadrumvirato durante l’insurrezione fu scelta Perugia, mentre Foligno sarebbe stata il punto di concentramento per le forze di riserva al comando del generale Zamboni52. Mentre erano a Bordighera, De Vecchi e De Bono andarono a rendere omaggio alla regina madre nella sua villa: «Ci introduce il conte Belgioioso, fascistone», ha raccontato De Bono: «L’augusta Donna è più fascista di noi! Ci ha trattenuto tre quarti d’ora interessandosi profondamente al nostro movimento e mostrandosi entusiasta dei nostri regolamenti appena appena allora resi di pubblica ragione. Nel congedarci le dico: ‘Maestà, noi guardiamo a V.M. come alla stella del nostro cammino’; ed essa rispose: ‘Io sono sempre per le cose grandi e buone’»53. Il 20 e il 21 ottobre, a Firenze, i tre comandanti della milizia, insieme a Bianchi e Giovanni Giuriati, tennero a rapporto i comandanti delle legioni, per predisporre l’adunata di Napoli, ma soprattutto per stabilire modalità e tempi del piano insurrezionale, che fu così definito: 1) mobilitazione delle squadre e occupazione degli edifici pubblici nelle città principali; 2) concentramento delle squadre a Santa Marinella, Perugia, Tivoli, Monterotondo, Volturno; 3) un ultimatum al governo Facta «per la cessione generale dei poteri dello Stato»; 4) entrata in Roma e presa di possesso «ad ogni costo» dei ministeri, ma in caso di sconfitta le milizie «avrebbero dovuto ripiegare verso l’Italia centrale, protette dalle riserve ammassate nell’Umbria»; 5) costituzione di un governo fascista in una città dell’Italia centrale e radunata rapida delle camicie nere della Valle Padana per la ripresa dell’azione su Roma «fino alla vittoria ed al possesso»: «Nel doloroso caso di un investimento bellico, la colonna Bottai (Tivoli e Valmontone) accerchierà il quartiere S. Lorenzo entrando da Porta Tiburtina e da Porta Maggiore, la colonna Igliori con Fara (Monterotondo) premerà da Porta Salaria e da Porta Pia e la colonna Perrone (Santa Marinella) da Trastevere»54.

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Da Napoli a Roma Le ultime decisioni sul piano insurrezionale furono prese a Napoli, mentre si svolgeva la grande adunata programmata come prima mobilitazione per la conquista fascista dell’Italia meridionale55. Fra il 23 e il 24 ottobre, circa 40.000 fascisti e 20.000 lavoratori, provenienti da tutta Italia con treni speciali, invasero pacificamente la città partenopea. Facta aveva autorizzato l’adunata e non ostacolò il movimento delle squadre, convinto che dopo il consiglio nazionale i fascisti avrebbero deciso la loro partecipazione al governo, come lasciavano credere le dichiarazioni di Bianchi e di Mussolini, mentre lui continuava a confidare nella presenza di D’Annunzio a Roma per la grande manifestazione patriottica del 4 novembre, che avrebbe dovuto preparare le condizioni per un nuovo governo di unità nazionale, magari presieduto dallo stesso Facta. Fino al 23 ottobre, il poeta gli aveva assicurato: «Ci rivedremo a Roma»56. Facta era fiducioso perché, come telegrafò al re la mattina del 23, riteneva che «non avverrà nulla di importante riunione fascista Napoli salvo sempre imprevedibili incidenti. Del resto assicuro furono prese tutte le precauzioni. Quanto eventuale colpo su Roma si è provveduto con ogni cura. Autorità militari che sarebbero incaricate servizio danno ferma assicurazione che è impossibile penetrazione in Roma». Ciò nonostante, Facta assicurava «rigorosa sorveglianza trattandosi gente molto facile cambiamento idee», ritenendo che la situazione politica si fosse «rischiarata» e che non ci sarebbero state difficoltà «per pronta soluzione», quando il governo «molto precario per la sua costituzione ormai compromessa da dissensi interni», avrebbe lasciato il posto, ma non prima «che sia assicurato modo assoluto trapasso Governo mani sicure e sia evitata lunga crisi come quella precedente»57. Ma di tutt’altro tono era la lettera che Facta scrisse a Giolitti in quei giorni, per informarlo della gravità della situazione, trovandosi a «tirare innanzi con un Ministero contro il quale da ogni parte, e dalla stampa e dal mondo parlamentare, si dice una cosa sola, e cioè: come è possibile che il governo viva in queste condizioni?». Alla grave condizione di «un governo ormai morto come l’attuale», si aggiungeva la gravità della situazione generale: «I fascisti, che ormai vedono arrivare la loro parte discendente,

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faranno qualunque pazzia ove non si trovi il modo di prenderli. Pazzia vuol dire gettare il Paese nella rovina; quand’anche (ciò che fermamente credo) li si tenesse a freno, tuttavia le conseguenze di rancore e d’odio sarebbero sempre enormi». Pertanto, concludeva Facta, «la soluzione è urgentissima» ed egli faceva appello all’amico Giolitti perché provvedesse ad assicurarla al paese: «è impossibile che quando in Italia c’è un uomo come te, non si trovi una via d’uscita. È questo il pensiero che mi conforta»58. La mattina del 24, al teatro San Carlo, il duce del partito armato fu accolto dal prefetto, dal sindaco e dalla giunta al completo, da un gruppo di deputati meridionali, dai dirigenti fascisti e da circa 7.000 persone stipate nel teatro, che lo salutarono con una ovazione trionfale. Mussolini esordì esaltando il popolo napoletano e le virtù dei meridionali, ma dal punto di vista propriamente politico non disse nulla di nuovo rispetto ai precedenti discorsi a Udine, Cremona e Milano59. Accusò «il deficiente Governo che siede a Roma, ove accanto al galantomismo bonario ed inutile dell’on. Facta, stanno tre anime nere della reazione antifascista – alludo ai signori Taddei, Amendola ed Alessio», di mettere «il problema sul terreno della pubblica sicurezza e dell’ordine pubblico». Ribadì la volontà del fascismo di «diventare Stato» per «immettere nello Stato liberale – che ha assolti i suoi compiti che sono stati grandiosi e che noi non dimentichiamo [...] tutta la forza delle nuove generazioni italiane che sono uscite dalla guerra e dalla vittoria». Alluse all’alternativa insurrezionale, dicendo che se «nella storia si determinino dei forti contrasti d’interessi e d’idee, è la forza che all’ultimo decide. Ecco perché noi abbiamo raccolte e potentemente inquadrate e ferreamente disciplinate le nostre legioni: perché se l’urto dovesse decidersi sul terreno della forza, la vittoria tocchi a noi». Ma poi precisò che il fascismo, per diventare Stato, aveva scelto la via legale, chiedendo lo scioglimento della Camera, la riforma elettorale ed elezioni a breve scadenza; quanto alla partecipazione al governo, disse che le richieste non erano eccessive, limitandosi al ministero degli Esteri, della Guerra, della Marina, del Lavoro e dei Lavori pubblici, aggiungendo che «in questa soluzione legalitaria» era esclusa la sua diretta partecipazione al Governo, perché, dovendo «mantenere ancora nel pugno il fascismo io debbo avere una vasta elasticità di movimenti anche ai fini, dirò così, giornalistici e polemici».

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Mussolini ribadì che il fascismo non intendeva attaccare la monarchia, riconoscendone la funzione unitaria, ma dando per scontato che la monarchia non avrebbe potuto opporsi «a quelle che sono le tendenze della nuova forza nazionale». Confermò il disprezzo per il parlamentarismo ma promise ironicamente che il fascismo non avrebbe tolto «al popolo il suo giocattolo (il Parlamento). Diciamo ‘giocattolo’ perché gran parte del popolo lo stima per tale». Negò un futuro per la democrazia, che era stata «utile ed efficace per la nazione nel secolo XIX, può darsi che nel secolo XX sia qualche altra forma politica che potenzii di più la comunione della società nazionale». Rese omaggio all’esercito, una delle istituzioni nelle quali si impersonava la nazione, ricordando che il fascismo lo aveva difeso quando era dileggiato. Esaltò la nazione identificandola col mito fondamentale del fascismo: «Il nostro mito è la nazione, il nostro mito è la grandezza della nazione. E a questo mito, a questa grandezza, che noi vogliamo tradurre in una realtà completa, noi subordiniamo tutto il resto». Concluse affermando che il fascismo voleva la pacificazione fra tutti gli italiani disposti ad «adottare il minimo comune denominatore che rende possibile la convivenza civile», ma «con coloro che insidiano noi, e, soprattutto insidiano la nazione, non ci può essere pace se non dopo la vittoria!». Nel pomeriggio, al campo sportivo dell’Arenaccia, Mussolini passò in rivista le milizie; poi, di fronte alla folla degli squadristi ammassati in piazza Plebiscito, urlando «A Roma! A Roma!», affiancato dai quadrumviri e dai dirigenti del PNF, il duce assunse un tono minaccioso: «o ci daranno il governo o lo prenderemo, calando su Roma. Ormai si tratta di giorni e forse di ore. È necessario, per l’azione che dovrà essere simultanea e che dovrà in ogni parte d’Italia prendere per la gola la miserabile classe politica dominante, che voi riguadagnate sollecitamente le vostre sedi. E io vi dico e vi assicuro e vi giuro che gli ordini, se sarà necessario, verranno». Quindi invitò gli squadristi a recarsi al comando del corpo d’armata per «fare una dimostrazione di simpatia all’Esercito» e concluse gridando «Viva l’Esercito! Viva il Fascismo. Viva l’Italia»60. Ma quando De Vecchi gli disse «in tono di comando» di gridare anche «Viva il Re!» Mussolini non rispose, e la terza volta che De Vecchi insistette, rispose secco: «No. Finiscila!», e chiesto del perché, guardando la folla, disse: «Basta che gridino loro...

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Basta e avanza!»61. Obbedendo all’invito del duce, gli squadristi si recarono sotto la sede del comando del corpo d’armata per fare una calorosa dimostrazione, chiedendo e ottenendo l’esposizione della bandiera. Quel giorno stesso, il generale Federico Baistrocchi, comandante della Divisione militare di Napoli, si recò a visitare Mussolini all’Hotel Vesuvio per assicurarlo che i reparti dell’esercito dislocati nel Mezzogiorno seguivano con grande simpatia il fascismo e il suo duce62. La sera, in una riunione all’Hotel Vesuvio, Mussolini stabilì con Bianchi, con i tre comandanti della milizia e con i vicesegretari del PNF il piano definitivo della marcia: alla mezzanotte fra il 26 e il 27 le gerarchie politiche avrebbero ceduto al quadrumvirato tutti i poteri; il venerdì 27 sarebbe stato diramato l’ordine per la «mobilitazione occulta», quindi il 28 «scatto sugli obbiettivi parziali, che sono prefetture e questure, stazioni ferroviarie, poste e telegrafi, stazioni radio, giornali e circoli antifascisti, camere del lavoro. Una volta conquistate le città, nello stesso giorno si proceda al concentramento delle squadre sulle colonne designate per la Marcia su Roma: a Santa Marinella, Monterotondo e Tivoli»; quindi, la mattina del 28 «scatto sincrono delle tre colonne sulla Capitale. Nella stessa mattinata del 28, sabato, sarà pubblicato il proclama del Quadrumvirato, da Perugia, dove avrà sede». In caso di resistenza armata del governo, «evitare, finché possibile, uno scontro coi reparti dell’Esercito, verso i quali occorre manifestare sentimenti di simpatia e di rispetto», ma «neppure accettare l’aiuto che fosse eventualmente offerto alle squadre d’azione dai reggimenti. Questa eventualità sarà presa in considerazione dal Quadrumvirato soltanto in caso di conflitto». Per l’armamento, erano stati individuati alcuni depositi di armi, e comunque «i fascisti potranno procedere al disarmo dei piccoli distaccamenti dei carabinieri nella campagna». Il punto più importante del piano deciso a Napoli era però la definizione dello scopo dell’insurrezione, che al momento non prevedeva un governo fascista presieduto da Mussolini: «Obiettivo del movimento: la conquista del potere con un Ministero che abbia almeno sei ministri nostri nei dicasteri più importanti»63. Il giorno successivo i comandanti delle zone ebbero l’ordine di raggiungere le loro sedi con le disposizioni per «la mobilitazione occulta del 27»64. Il pomeriggio anche Mussolini partì per Milano,

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da dove seguì lo sviluppo del «grande atto» mantenendo aperte però le trattative con Giolitti, Salandra, Nitti e Facta per ogni eventuale soluzione di ripiego e di compromesso, prima durante o dopo il l’insurrezione. Il 26 «Il Popolo d’Italia» pubblicava un’intervista rilasciata sei giorni prima da Mussolini al «Manchester Guardian», nella quale esponeva un vero e proprio programma di governo. Il duce ribadiva che i fascisti erano «disposti ad entrare in trattative con gli altri partiti (eccettuato naturalmente il Partito Socialista) per la formazione di un nuovo Gabinetto. Ma noi vogliamo cinque portafogli: Interni, Esteri, Guerra, Marina e Lavoro. Se Giolitti e Salandra accetteranno questa nostra proposta, noi saremo lieti di assumere il peso del potere allo scopo di superare le difficoltà della nazione». Alla domanda come avrebbe potuto conciliare «l’esistenza di due eserciti (quello regolare e quello delle camicie nere) se voi foste al potere», Mussolini rispose: «Se io fossi membro di un Gabinetto con un programma fascista direi subito chiaramente al popolo italiano che i conflitti devono terminare. Ciascuno deve tornare al lavoro ed agire per il benessere del paese. Se sarò io al potere non ci sarà alcuna ragione perché le camicie nere abbiano ad agire. Esse obbediranno ai miei ordini e sapranno mantenere la pace. In pieno accordo con tutti gli altri cittadini, esse abbandoneranno ogni antagonismo politico per servire solo la grande causa comune, e cioè il benessere della nostra amata Patria». Mussolini concluse candidandosi al ruolo di salvatore della patria: «Personalmente non sono ansioso di salire al potere. Non sono così stolto da desiderare un portafoglio per mera ambizione personale. So quanto conto nella politica italiana e non c’è proprio bisogno che io salga al potere come ministro o anche come presidente per affermare la mia autorità. Io accetterò il grave compito di governare il paese solo perché so che l’Italia può essere salvata solo mercé il nostro patriottismo e la nostra energia»65. Dopo la partenza di Mussolini e di altri dirigenti, i lavori del consiglio nazionale si svolsero fino al 26, mentre la pioggia si abbatteva sulla città. Nel frattempo era giunto a Napoli anche Grandi, per esporre al convegno la relazione sul gruppo parlamentare fascista66. Balbo lo informò che l’insurrezione era decisa, e che, su sua proposta, Grandi era stato nominato capo di stato maggiore del quadrumvirato, così «tu righerai diritto e obbedirai

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agli ordini, pena il codice militare che da mezzanotte di domani entrerà in vigore». Disse che Mussolini era d’accordo e che aveva indicato come obiettivo «la conquista del potere con un governo che abbia almeno sei Ministri fascisti nei dicasteri più importanti». Al che Grandi replicò: «Ma tutto questo è follia. Non si fa una insurrezione per strappare sei posti di Ministro al governo». Ma Balbo a sua volta accusò l’amico di essere stato contaminato dal parlamentarismo mentre Mussolini era tornato rivoluzionario, e si congedò frettolosamente dandogli appuntamento a Perugia «dove da domani sera il Comando Supremo comincerà a funzionare coordinando l’azione nelle province coll’azione delle colonne che marceranno su Roma». Grandi andò allora in cerca di De Vecchi, il quale, nel frattempo, aveva rivelato a Ciano quanto era stato deciso da Mussolini e dal quadrumvirato, dicendogli che bisognava avvertire il re attraverso «una persona di assoluta fiducia»; Ciano propose di parlarne all’ammiraglio Thaon di Revel, che si trovava a Napoli, ed entrambi si recarono da quest’ultimo, che fu sconcertato da quanto gli rivelò De Vecchi e volle la loro parola d’onore che fosse tutto vero e non si trattava di «vuote minacce». I due la diedero e lo pregarono di mettersi in contatto con il re67. Nelle ore successive, De Vecchi incontrò Grandi, al quale riferì dell’incontro con l’ammiraglio e «di avere urgentemente spedito a Torino un messaggero segreto al Duca d’Aosta»68. Il messaggero, ha raccontato De Vecchi, era un tenente che «partì precipitosamente da Napoli e, appena arrivato a Torino, comunicò al Duca d’Aosta» il suo messaggio; a sua volta, il duca «telegrafò subito in cifra al Sovrano, il quale gli rispose di astenersi da qualsiasi azione e di rimanere in città, in attesa di ordini»69. Grandi ribadì pubblicamente la sua opposizione in un articolo, scritto il 26 ma pubblicato da «L’Assalto» il 28 ottobre, quando l’insurrezione era già iniziata, nel quale affermava di non credere «che la violenza barricadiera sia necessaria in linea pregiudiziale e assoluta allo sbocco del fascismo nello stato. Molti di noi lo pensano. Io no. Bisogna tentare oggi l’intentatibile e l’impossibile per evitare alla nazione giorni di sangue e di guerra civile. [...] Noi vorremmo e speriamo ancora, e domandiamo una soluzione legalitaria e costituzionale», mentre le soluzioni violente e barricadiere dovevano essere considerate «da chi di ragione e veramente ama il proprio paese, l’estrema e disperata Ratio». Confermata

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la sua opposizione all’insurrezione, Grandi dichiarava però che l’avrebbe accettata per disciplina: «Oggi le gerarchie politiche del nostro partito non esistono più. Noi siamo in questo momento un esercito dove c’è chi comanda e al quale noi abbiamo un dovere solo: ubbidire»70. Grandi ripeté la sua opposizione all’insurrezione anche nel discorso che tenne al consiglio nazionale il 25 ottobre: «L’assemblea mi ascolta con freddezza glaciale. Michele Bianchi mi guarda torvo. Il mio appello alla ragione cade nel vuoto»71. Poi, come a rintuzzare l’opposizione di Grandi, alla conclusione dei lavori, il segretario del partito «sollevando le braccia in atteggiamento ispirato», richiamò tutti i presenti «al giuramento: ‘La lotta sarà svolta e condotta sino in fondo, attraverso il cruento sacrificio, inesorabilmente e vittoriosamente’»72. L’inganno partenopeo: la marcia è tramontata I lavori del convegno fascista, dopo la partenza di Mussolini, si svolsero svogliatamente, in una sala semideserta, perché era chiaro che il convegno era diventato un rituale oratorio senza conseguenze, come fece capire subito il segretario del partito, il quale fece una relazione brevissima, dicendo che gli avvenimenti avevano superato gran parte degli argomenti all’ordine del giorno: «Insomma, fascisti, a Napoli ci piove. Che ci state a fare? Io a mezzogiorno di domani debbo essere a Roma». «Eppure – commentava Balbo – bisogna che la commedia del Congresso continui ancora, per lo meno fino a tutto domani. Soltanto così potremo ingannare il Governo e l’opinione pubblica»73. La sera del 26, tutti i dirigenti fascisti avevano lasciato Napoli per andare a preparare la mobilitazione insurrezionale. Balbo e De Bono raggiunsero Perugia, Bianchi tornò nella capitale, dove arrivarono anche De Vecchi, Ciano e Grandi, tutti e tre «d’accordo di rivolgerci a Salandra e di lasciare da parte, per il momento, l’onorevole Orlando»74. L’inganno ordito dai fascisti con la «commedia» partenopea riuscì a indurre in errore i governanti, i partiti avversari e l’opinione pubblica. Molti pensarono che i fascisti si sarebbero effettivamente accontentati di cinque ministeri come compenso per la scelta legalitaria di partecipare a un governo di coalizione, senza

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pretenderne la presidenza. «La Stampa» deplorò le espressioni sprezzanti di Mussolini sul parlamento e la democrazia, ma diede per vero che «il fascismo si è deciso per il terreno della legalità e per la collaborazione al governo. E se è così, è conveniente passar sopra a certi rimasugli di eccessi verbali, e riconoscere la prova di saggezza e di patriottismo ch’esso dà»75. Nel mondo politico romano, riferiva ancora il giornale torinese, si commentava positivamente il discorso mussoliniano al San Carlo, considerandolo l’espressione del «pensiero ufficiale fascista» e manifestazione di una «assennata détente fascista», di cui aveva dato prova il «carattere pienamente legalitario del discorso, così da escludere che il partito fascista possa ricorrere ai metodi insurrezionali»76. E il giorno dopo «La Stampa» confermava il suo giudizio, affermando che le frasi bellicose del duce fascista in piazza erano «fatte per la platea» e non dovevano «essere interpretate come annullamento delle dichiarazioni legalitarie fatte precedentemente», pur esortando i fascisti a persuadersi «di una verità, non politica, ma semplicemente umana: che quando si tratta per concludere un accordo – come oggi fanno i fascisti con i partiti democratici per una collaborazione di Governo – non è lecito contemporaneamente, insultare e minacciare coloro con cui si tratta. Lo vietano, in pari tempo, l’educazione e il buon senso»77. Alle minacce insurrezionali non credevano neppure i socialisti. «A noi – affermava l’«Avanti!» il 25 ottobre – non preme sapere con quali transazioni il vecchio liberalismo si accorderà col fascismo né ci interessa se i fascisti avranno da Giolitti o da altri cinque portafogli ministeriali che l’on. Mussolini ha chiesto nel discorso di Napoli. Crediamo che questa transazione si farà, lo crediamo perché è nell’ordine naturale delle cose, perché la borghesia è logicamente portata nella crisi più grave a bloccarsi»78. Ingannati dalla «commedia» partenopea furono anche gli antifascisti che non prendevano ancora il fascismo sul serio. La fine della farsa era il titolo del commento che l’organo comunista «L’Ordine Nuovo» dedicò alle giornate fasciste a Napoli, osservando sarcasticamente che mai un convegno politico aveva avuto «una chiusa più grottesca. Del resto tutte le sedute sono state la degna appendice alla parata di burattini che riempì le strade napoletane di moltitudine curiosa»79. Si riscontrava l’effetto dell’inganno fascista a Napoli anche nell’editoriale dello stesso

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giornale, che addirittura prevedeva imminente la disgregazione del fascismo, così come era avvenuto al partito socialista. Il confronto fra i due partiti fatto dal giornale comunista non era privo di acute considerazioni sulle loro somiglianze come movimenti di masse eterogenee raccolte attorno a un mito rivoluzionario di conquista del potere80. Entrambi i partiti, osservava «L’Ordine Nuovo», avevano «contenuto in sé la possibilità di una conquista del potere, cioè di una cacciata degli attuali ceti dirigenti. Per il fascismo, ciò è stato prima una conseguenza della sua origine da un nuovo ceto di piccoli borghesi aspiranti al dominio politico», poi era stata, e continuava ad essere conseguenza «del compiuto assorbimento di una parte delle masse che ciecamente avevano seguito l’ondata rivoluzionaria-bolscevica del 1919-1920». Per accontentare le aspirazioni di dominio di questi ceti, proseguiva l’organo comunista, Mussolini e «lo stato maggiore reazionario del Partito fascista hanno trovato la formula della ‘marcia su Roma’ [...] Forse non manca chi concepisce la ‘marcia’ allo stesso modo come due anni fa concepiva la rivoluzione e non è nemmeno da escludere che, se attuasse sul serio una conquista del potere, il fascismo potrebbe riuscire ad accontentare per un certo tempo tutte le parti di una massa varia ed eterogenea quale è la sua». Ma il programma di conquista, osservava «L’Ordine Nuovo», era stato adoperato fino a quel momento dal fascismo «esclusivamente come una minaccia», e proprio in ciò «l’analogia tra massimalismo e fascismo mussoliniano è perfetta», perché anche il socialismo massimalista «era un pletorico movimento di masse, risultante da una disorganica confusione di elementi eterogenei, mossi da scopi diversi, riuniti da un ‘mito’ comune sì a tutti, ma molto indistinto. E anche il massimalismo si serviva del mito solo come di una minaccia alle classi dirigenti senza curarsi del fatto che il prolungarsi di una situazione equivoca doveva portare alla disgregazione l’esercito raccogliticcio che lo seguiva». Sulla base di queste somiglianze, l’organo comunista giungeva alla conclusione che il fascismo era entrato in una fase di declino. Il discorso di Mussolini a Napoli confermava che il fascismo, al pari del socialismo massimalista, era incapace di uscire «dalla tattica della minaccia», e perciò si credeva che «negli avvenimenti degli ultimi giorni sono già più che i sintomi della disgregazione anche del fascismo come movimento autonomo». I fascisti si sa-

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rebbero accontentati di risolvere il dilemma fra insurrezione e legalità accettando la transazione con Giolitti per i cinque ministeri, perché mancava nei loro capi la consapevolezza di un movimento storico: «Se esistesse, essi sentirebbero la necessità di approfittare dell’unità esteriore che oggi ancora sussiste, almeno per tentare la conquista tanto minacciata. Ma se il loro pensiero è stato bene espresso da Mussolini [...] vuol dire che essi stessi sono già entrati completamente negli ingranaggi della tradizionale macchina politica italiana e che difficilmente sfuggiranno al destino che li attende». Che il fascismo fosse prossimo alla curva discendente della sua parabola lo pensava anche Giuseppe Donati, pur giungendo a una previsione opposta a quella del giornale comunista, come scriveva alla moglie il 27 ottobre: «Tieni in mente questa, se l’indovino: – i fascisti a Napoli si sono convinti che la curva della loro parabola è prossima, e che il momento migliore per tentare la scalata al potere o è questo o non ci sarà per loro mai più»81. Donati interpretava correttamente la valutazione che i fascisti facevano della situazione, una valutazione che, per Mussolini, ebbe l’avallo autorevole di Vilfredo Pareto, il quale, alla vigilia del congresso di Napoli, gli aveva fatto pervenire il suo consiglio: «O ora o mai più»82. La «commedia» delle giornate fasciste a Napoli ingannò soprattutto il presidente del Consiglio. Alla conclusione della prima giornata, il 24 ottobre, alle 21.40, Facta aveva telegrafato al re: «Credo ormai tramontato progetto marcia su Roma. Tuttavia conservasi massima vigilanza»83. E il giorno successivo, alle 17.30, mentre avvertiva il re che la situazione del suo governo era diventata «insostenibile per vari dissensi fra parecchi ministri», assicurandolo che stava cercando di «ritardare scoppio dissenso fino a quando non sia sicura una forte base di successione», Facta ribadiva: «Credo che nota calata a Roma sia definitivamente tramontata»84.

VIII

I fascisti marciano

Come ebbe inizio un’insurrezione che i governanti non presero sul serio, convinti di poter imbrigliare i fascisti in una combinazione ministeriale, e come se ne andarono a dormire, dopo aver predisposto un piano per la difesa della capitale.

La marcia non è tramontata La sera del 25 ottobre, alle 20.45, il ministero dell’Interno riceveva dal prefetto di Brescia la notizia che D’Annunzio, malato, rinunciava «irrevocabilmente» ad andare a Roma per il 4 novembre: la principale pedina con la quale Facta sperava di dare scacco matto a Mussolini usciva dalla scacchiera1. Da quel momento, di ora in ora, le notizie che gli giunsero smentirono la sua previsione sulla marcia tramontata, ma non delusero ancora la sua speranza di potere trattare con Mussolini per associarlo a un governo presieduto da Giolitti oppure – forse sua segreta ambizione – da lui stesso2. Alle 22.45, il prefetto di Milano comunicò al ministro dell’Interno che il proposito di una «azione simultanea su Roma ed altre città» manifestato da Mussolini a Napoli, era confermato da Milano. Infatti, da «informazioni segrete» Lusignoli aveva appreso che si stava preparando un colpo di mano da parte di alcuni ufficiali con i fascisti, per la notte fra il 27 e il 28, «piazzandosi centro città dimostrazione unione esercito coi fascisti ed incitamento alla defezione. Contemporaneamente fascisti locali tenterebbero occupazione pubblici uffici e sequestro prefetto e questore»3. La mattina del 26, il prefetto ebbe una riunione con il comandante del corpo d’armata per predisporre la difesa degli uffici governativi, prospettando al governo tre ipotesi su come far fronte a un eventuale assalto fascista: «o lasciar fare, o imporsi

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col numero, o sopraffare tentativo con uso armi. Prego telegrafarmi quale via presceglie Governo, dal quale attendo invio mezzi adeguati»4. Alle 11.35 Facta e Taddei assicurarono Lusignoli che avrebbero inviato i «rinforzi nella maggior misura possibile. Ad ogni modo, verificandosi tentativi contro uffici e organi governativi, si dovrà, esperito ogni altro mezzo, far uso delle armi. Il Governo dispone pure che al primo manifestarsi atti insurrezione accennati Suo telegramma, V.S. ceda immediatamente Suoi poteri alla Autorità Militare»5. Alle 12.10 il ministro dell’Interno ripeté gli stessi ordini a tutti i prefetti del Regno col telegramma cifrato n° 23727, nel quale riferiva di varie notizie pervenute su «tentativi insurrezionali che sarebbero stati predisposti dal Partito fascista e che verrebbero in data immediatamente prossima attuati con presa possesso uffici governativi in alcuni centri. Quando tali tentativi siano per manifestarsi, si dovrà, esperito ogni altro mezzo, resistere con le armi»6. Quella stessa mattina, il ministro Alessio incontrò al Viminale Taddei, il quale «tutto giulivo» gli comunicò «di aver tutto disposto coi Prefetti per l’arresto immediato dei capi del movimento, che si intuiva dovesse scoppiare di ora in ora. Bastava, mi disse, un semplice telegramma perché l’arresto dei capi fosse un fatto compiuto»7. Intanto, alle 12, Facta aveva telegrafato al re per informarlo sulla «possibilità qualche tentativo fascista», assicurando però che il governo avrebbe provveduto «energicamente», e che erano state date le «più rigorose disposizioni onde soffocare subito qualunque movimento pericoloso» per l’ordine pubblico. Aggiunse che Mussolini gli aveva fatto sapere il giorno precedente, tramite un suo incaricato, di esser disposto a partecipare al governo, rinunciando a qualcuno dei ministeri richiesti, purché fosse un governo presieduto da Facta. Il quale però aveva preso tempo non volendo dare «appiglio qualche decisione precipitata». Il re non aveva alcuna simpatia per i fascisti e forse neppure per Mussolini, ma approvò il comportamento di Facta, perché, disse, non conveniva «abbandonare il contatto con l’on. Mussolini la cui proposta può costituire una opportuna soluzione delle presenti difficoltà, poiché il solo efficace mezzo di evitare le scosse pericolose è quello di associare il fascismo al Governo nelle vie legali»8. Quello stesso giorno, Camillo Corradini, già sottosegretario all’Interno nell’ultimo governo Giolitti, a nome di Facta illustrò a

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Giolitti la gravità della situazione: nella capitale le «voci diventano sempre più catastrofiche. Si afferma sia ordinata mobilitazione per domani sera» e «tutti temono catastrofi irreparabili se non si dà immediata impressione che un governo riprenda le fila del Paese»; anche esponenti popolari, compreso Sturzo, gli avevano detto che c’era «necessità tu prenda immediatamente guida governo»: «A me pare che giorni perduti siano pericolosi. Risultami che Bianchi abbia fatto pressioni su Facta perché rimanga scopo fare elezioni senza controllo. Questi rifiutò sdegnosamente. Tesi di tutti è ormai questa che occorre spingere conclusione fascisti e ove non possa concludersi affrettare costituzione governo senza fascisti». Facta non escludeva le sue dimissioni per il giorno successivo «per ritiro Riccio séguito atteggiamento minaccioso fascisti»9. Intanto, si profilava un’altra candidatura alla presidenza del Consiglio, quella di Salandra, avanzata dai nazionalisti e dai fascisti contrari alla «marcia su Roma». La mattina del 26, De Vecchi si recò con Ciano dal politico pugliese e gli chiese di far presente al re che erano necessarie le immediate dimissioni del governo altrimenti sarebbe iniziata l’insurrezione. Per provocare le dimissioni del ministero, Salandra contava sul suo amico e sodale Riccio: «sarà la leva che farà saltare il Governo», avrebbe detto Salandra a De Vecchi10. Non potendo comunicare direttamente con il re, Salandra andò da Facta sia per sollecitare il rientro del re a Roma sia per indurlo a dare le dimissioni. Il presidente s’impegnò a telegrafare al re e a convocare nel pomeriggio il Consiglio dei ministri, anche se «si mostrò titubante» perché era «propenso a credere che le minacce dei fascisti fossero in parte un bluff» e confidava comunque nella possibilità del governo di resistere11. Il pomeriggio alle 16, Facta convocò i ministri presenti a Roma, ai quali propose le dimissioni del governo. Si oppose subito Alessio «sostenendo che un governo non doveva ritirarsi nel momento del pericolo ma difendere lo Stato», e procedere, se necessario, all’arresto immediato dei capi, «e così senz’altro silurare il movimento rivoluzionario», facendo affidamento sulla fedeltà dell’esercito, perché i generali che erano con Mussolini o erano pensionati o avevano abbandonato il servizio. Alessio ha raccontato di aver battagliato per tre ore, ma Facta rimase fermo nella sua proposta, avendo fiducia nella possibilità di un compromesso

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con Mussolini, al quale disse di avere scritto una lunga lettera12. Alla fine, i ministri deliberarono di mettere a disposizione del presidente i loro portafogli «per lasciargli ampia libertà di riesaminare la situazione politica», mentre Facta, riservandosi la decisione sulla sorte del governo, propose di rivolgere un appello al paese per invitarlo all’unità e alla concordia: se tale appello fosse stato vano, aggiunse, il governo aveva «il supremo dovere di difendere lo Stato a qualunque costo e con qualunque mezzo e contro chiunque attenti alle sue leggi» assumendosi «ogni responsabilità per la inflessibile tutela della sicurezza, dei diritti dello Stato»13. La riunione, durata fino alle 21, fu «vivace ed in taluni istanti animatissima», come riferiva «La Stampa», che giudicava grave la situazione dubitando della disponibilità dei fascisti a far parte di un governo presieduto da Facta o da un altro esponente liberale14. Mentre si svolgeva la riunione dei ministri, giungevano nuove voci di un «prossimo movimento insurrezionale diretto a impadronirsi con mezzi violenti dei poteri dello Stato», come telegrafava alle 17 il ministro della Guerra a tutti i comandanti di corpo d’armata15. Pur dicendosi certo «che nessun elemento militare potrà aderire a tale movimento infrangendo essenziali doveri giuramento militare», il ministro invitava i comandanti a disporre «per intensificare vigilanza nonché per eliminare qualsiasi diversa convinzione che da alcuno fosse nutrita in buona fede», e a tenersi pronti ad assumere i poteri per il mantenimento dell’ordine pubblico appena ricevuto ordini dal ministero dell’Interno. Il comandante della Divisione di Roma assicurò prontamente il ministro che i reparti avrebbero risposto «pienamente, in qualsiasi eventualità per quanto dolorosa, agli ordini del Governo». Nelle ore successive, cominciarono a giungere al ministero dell’Interno telegrammi dai prefetti che riferivano dei preparativi insurrezionali. Alle 21 il prefetto di Pisa faceva sapere che dalle confidenze di un autorevole dirigente fascista tornato da Napoli, «risulterebbe Direzione Partito disporrebbe mobilitazione solo nel caso non avesse assicurazione elezioni avranno luogo prima». Due ore dopo, il prefetto di Genova comunicava notizie su prossimi moti insurrezionali fascisti: «Secondo tali notizie sarebbe deciso di prendere possesso del Governo in Roma nella occasione del prossimo 4 novembre e contemporaneamente avrebbero luogo forti adunate nei principali centri per fare una dimostrazione ed

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affermazione di forza con eventuale presa possesso uffici governativi. Da altre fonti invece non risulterebbero confermate tali notizie ma si conferma che se un’azione del genere dovesse essere eseguita gli ordini relativi verrebbero comunicati nel modo più segreto ed in forma convenzionale dalla Direzione Centrale del Partito al fiduciario e all’ultimo momento di guisa che anche i capi delle squadre di azione ne sarebbero informati soltanto all’atto di iniziare l’azione. Pertanto vi è estrema difficoltà di avere notizie precise e di controllare le voci che corrono»16. Manovre dei fascisti «antimarcia» Intanto, nel pomeriggio del 26 ottobre, proseguirono nella capitale le manovre dei fascisti che volevano evitare l’insurrezione. Alle 18.30 De Vecchi informò Grandi del suo colloquio con Salandra e dell’azione che questi aveva compiuto per persuadere il governo a dimettersi per far posto a un governo con la partecipazione dei fascisti. Grandi insistette per orientarsi verso una soluzione Orlando, mentre De Vecchi continuava «a caldeggiare Salandra». Scrisse Grandi nel suo diario: «Mi assicura che ad una soluzione Salandra stanno attivamente lavorando in questo momento anche i nazionalisti con alla testa Federzoni. De Vecchi non è certo tenero verso Federzoni, ma entrambi finiscono tuttavia per aiutarsi a vicenda, senza saperlo»17. Per avere il consenso di Mussolini alla candidatura di Salandra, Ciano era andato a Milano, ma Grandi era certo che Mussolini avrebbe preferito Orlando. Alle 21, dopo aver saputo che i ministri avevano messo a disposizione i portafogli, Grandi e De Vecchi tornarono da Salandra, il quale si dichiarò «cautamente ottimista a condizione che lo scoppio dell’insurrezione possa venire ritardato di almeno 24 ore, per dare a lui la materiale possibilità di comunicare personalmente col Sovrano». Dopo il colloquio, i due fascisti «antimarcia» andarono a cercare Bianchi, e lo trovarono in piazza Montecitorio «a colloquio con alcuni giornalisti davanti al portone d’ingresso». Lo misero al corrente dell’incontro con Salandra e della necessità di non precipitare l’azione. «Con nostro stupore – annotò Grandi nel diario – e dopo qualche esitazione Bianchi si dichiara d’accordo e si impegna a dare subito le conseguenti disposizioni. Non capisco

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questa impreveduta, apparente remissività da parte di Bianchi. Il quale, o sta inseguendo un suo piano segreto che però non riesco a immaginare, ovvero è in possesso di notizie che noi ignoriamo». Apparentemente disposto ad assecondare le manovre di De Vecchi e Grandi, Bianchi accondiscese anche a sottoscrivere insieme con loro un ordine esplicito, a nome del quadrumvirato, da far pervenire subito ai fascisti di Bologna e di Cremona, «i più impazienti di prendere ad iniziare il movimento insurrezionale», per ordinare il rinvio dell’azione alle ore 12 del 28 ottobre, invece che alle 12 del 27 come era stato precedentemente stabilito. Grandi stesso accompagnò i due messaggeri alla stazione per prendere il primo treno diretto a Bologna e a Cremona. «Ventiquattro ore di respiro non sono molte, ma nel frattempo molte cose possono accadere», annotò Grandi18. La remissività di Bianchi era effettivamente solo apparente, perché il segretario del PNF aveva tutt’altra idea sulla soluzione governativa, e lo aveva detto chiaramente ai giornalisti quella sera: la crisi era stata determinata da Mussolini, e quindi «l’on. Mussolini ha il diritto di ricevere dal Re l’incarico di formare il nuovo Ministero»19. Mentre tutto questo avveniva, il re era in villeggiatura a San Rossore. Solo alle ore 0.10 del 27 ottobre, con considerevole ritardo, Facta decise di informare il re sulla nuova situazione, inviandogli un lungo telegramma cifrato, nel quale tuttavia evitò di usare toni allarmistici, limitandosi a segnalare «un certo nervosismo dipendente dalle voci che fascisti stiano per promuovere in tutta Italia movimenti insurrezionali», voci della cui attendibilità il presidente dubitava perché «da molti si ritiene notizia esagerata allo scopo di fare pressioni indole parlamentare cioè crisi ministeriale e non apertura Parlamento». La sorte del suo governo, aggiungeva Facta, era ormai compromessa, ma ne aveva evitato la caduta per ottemperare al consiglio del re «di non perdere i contatti con Mussolini che feci avvertire» per guadagnare tempo «perché si manifesti più sicuramente successione». Pertanto, si permetteva di far sapere al re che «ogni parte politica desidera che V.M. venga a Roma»: anche da parte fascista, precisava Facta, si riteneva «provvidenziale venuta V.M. Roma senza ritardo». Il presidente si associava a tale desiderio, convinto che la presenza del re nella capitale avrebbe riportato la tranquillità e favorito subito la possibilità di una soluzione che «può avvenire da un momento all’altro»20.

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Venti minuti dopo, Facta telegrafò all’onorevole Agostino Mattoli a Cavour per sollecitare la presenza di Giolitti a Roma, assicurandolo di aver evitato la caduta del governo per prendere tempo e «non certo per ricostituire il Ministero. Sarebbe assai bene che il nostro grande amico venisse subito a Roma. Così non si può andare avanti»21. All’1.30 Lusignoli faceva sapere a Facta che la mattina aveva parlato con Mussolini. Questi aveva escluso un’azione fascista su Milano e dopo lunghissima discussione lo aveva pregato di sondare la disponibilità di Giolitti a dare «ai fascisti quattro portafogli, esclusi Esteri e Guerra, quattro Sottosegretari ed il Commissariato per l’Aviazione. Nel caso adesione Giolitti, egli si è riservato darmi definitiva risposta». Lusignoli era andato subito a Cavour, aveva avuto la disponibilità di Giolitti, e ne avrebbe riferito l’indomani a Mussolini22. Mussolini tratta, ma Bianchi vuole l’insurrezione Mussolini teneva ancora in piedi la trattativa con Giolitti, e nello stesso tempo manteneva i contatti con gli altri ex presidenti del Consiglio23. Non tutte le trattative avevano per lui la stessa importanza né si svolgevano sullo stesso piano di possibilità, quale che fosse alla fine la soluzione da preferire. Secondo Cesare Rossi, stretto collaboratore e ascoltato consigliere di Mussolini, «vere» erano le trattative con Giolitti, e «finte» quelle con Orlando e con Salandra24. Prova della differenza era il fatto che, mentre con Giolitti Mussolini trattava personalmente da Milano, mediante Lusignoli, con gli altri due le trattative erano condotte a Roma soprattutto da De Vecchi, Grandi, Acerbo, Ciano, cioè dai fascisti contrari alla marcia. Dei vecchi liberali, Giolitti era quello che Mussolini maggiormente stimava: gli piaceva la sua eloquenza asciutta e precisa – «non dice mai una parola di troppo» – e ne apprezzava la lunga esperienza di governo; forse ne ammirava anche l’autorità e la decisione, ma nello stesso tempo lo temeva. In Salandra, Mussolini stimava il presidente dell’intervento e il senso dello Stato, ma lo considerava troppo conservatore, mentre di Orlando, pur stimandolo come «presidente della Vittoria», non gli piaceva l’abito troppo professorale, il parlamentarismo e la tendenza alle concessioni. Secondo Rossi, se non vi fossero state condizioni favorevoli a una rapida ascesa dei fasci-

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sti al potere, Mussolini «si sarebbe piegato ad un pateracchio col vecchio statista piemontese», perciò le trattative con Giolitti non erano soltanto manovre temporeggiatrici ma avevano «un minimo di possibilità ed erano condotte con una certa dose di buonafede»25. Sulla buonafede di Mussolini nelle trattative con Giolitti si può avere qualche dubbio, come pure si può dubitare della sua disponibilità a partecipare a un governo presieduto dallo statista piemontese. Ma ammesso anche che questa eventualità fosse accettata in buonafede da Mussolini, la sua fattibilità, come soluzione parlamentare della crisi aperta con la minacciata «marcia su Roma», avrebbe certamente incontrato l’ostilità dei fascisti fautori di un governo Salandra, come De Vecchi, che il 27 ottobre rilasciò un’intervista a «La Gazzetta del Popolo», pubblicata il giorno successivo, in cui affermò che «nessuna intesa è possibile, secondo me, tra il fascismo e l’on. Giolitti. Io, e con me altri responsabili delle direttive fasciste, non dimentico: l’on. Giolitti è l’uomo delle congreghe, delle insidie ai partiti, delle clientele personali, della corruzione dell’anima nazionale – come nel 1915 [...]. Del decadimento del costume politico in Italia l’on. Giolitti è responsabile forse come nessun altro»26. L’antigiolittismo, evocato da De Vecchi, era radicato nella cultura politica fascista e perciò molto difficilmente la maggioranza dei fascisti avrebbe seguito Mussolini in una combinazione parlamentare con Giolitti, il simbolo più odiato della vecchia Italia che il fascismo voleva soppiantare. Inoltre, era prevedibile che un governo Giolitti, anche con la partecipazione fascista, avrebbe comunque comportato lo scioglimento dell’apparato militare fascista: ed era molto probabile che i capi dello squadrismo si sarebbero opposti con virulenza a tale eventualità, come avevano già fatto nel 1921 contro il «patto di pacificazione», ribellandosi al duce. Decisamente contrario alla partecipazione dei fascisti a un governo Giolitti, ma anche a un governo Salandra, era soprattutto il segretario del PNF. Bianchi considerava le trattative solo un modo per ingannare e confondere i vecchi politici liberali, e fece tutto il possibile per sventare le manovre dei fascisti «antimarcia», che volevano evitare l’insurrezione con la partecipazione dei fascisti a un governo presieduto da Salandra o da Orlando, ma nello stesso tempo volle forzare anche Mussolini ad accettare una soluzione integralmente fascista. Bianchi stesso, tre anni dopo, in una lettera

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inviata a Mussolini, rievocava la sua azione nei giorni precedenti l’inizio dell’insurrezione27. 26 ott. 922. Di ritorno a Roma, dopo aver troncato il Congresso di Napoli, noto uno stato d’animo di indecisione in parecchi dei nostri amici deputati. Il Ministero Facta è in crisi. A Montecitorio si fa la cabala della successione. Si parla di possibilità e opportunità di combinazioni. Rilevo la gravità del tentennamento, in relazione a quanto già deciso all’Hotel Vesuvio di Napoli durante lo storico convegno convocato nella tua camera d’albergo: e cioè l’inizio dell’azione alla mezzanotte del 27. Tu sei già a Milano; De Bono e Balbo a Perugia; i dodici incaricati del Comando delle Legioni nelle località assegnate. Faccio quanto è in me per troncare il gioco delle combinazioni montecitoriali. Lancio sui giornali questa breve intervista: Michele Bianchi vuole un Ministero Mussolini. [...] Montecitorio continua a bollire. La mia intervista è l’intervista se non di un pazzo, di un esagerato. Sono le più blande espressioni. 27 ott. 922. Bisogna raggiungere Perugia dove già si trovano De Bono e Balbo. Ho l’impressione che De Vecchi non intenda muoversi da Roma. E a Roma non si fa che perdere del tempo. Tra la notte del 26 mi hai telefonato da Milano, semplicemente e recisamente: «Andare in fondo. Nulla da mutare a quanto deciso». Non riesco a rintracciare De Vecchi. Gli invio, la mattina del 27, all’Albergo dov’è alloggiato, la seguente lettera: «Carissimo De Vecchi, Solo alle ore 1 di stanotte ho potuto scambiare telefonicamente qualche parola con Mussolini. La brevissima conversazione può riassumersi così: «Nulla da mutare a quanto deciso. Io parto fra qualche ora per Perugia. Ormai non si può più arretrare. Anche le circostanze accadute in queste ultime ore favoriscono il nostro piano. Non bisogna lasciarsi sfuggire il momento. Agire dunque e a fondo. Entro domattina, sabato, tu dovresti far di tutto per essere a Perugia. Una enorme responsabilità grava sul Quadrumvirato Supremo e impone si proceda di pieno accordo, anche per evitare ordini e contr’ordini che potrebbero riuscire fatali». Parlando con i giornalisti la sera del 26, «mentre si recava al telefono per conferire con l’on. Mussolini a Milano», Bianchi dis-

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se che la crisi del governo era conseguenza della manifestazione fascista a Napoli, quindi era una crisi extraparlamentare che aveva messo da parte la Camera liquidando il governo Facta con «un elogio funebre», e sostenne la «necessità di affidare il governo a coloro che rappresentano la parte migliore del paese»: «La successione non può, dunque, toccare se non a coloro che fuori del Parlamento hanno determinato la crisi: cioè ai fascisti. A semplice luce di buon senso si vede che non è più il caso di ricorrere alle solite combinazioni ministeriali. [...] Al lume del buon senso si dovrebbe avere un Ministero Mussolini! D’altra parte apparirebbe una soluzione perfettamente costituzionale della crisi, perché darebbe il potere al capo del partito che ha causato le dimissioni del ministero»28. In altre versioni giornalistiche, come su «La Stampa», la richiesta di un governo Mussolini era perentoria: era chiaro che «per volontà del paese il Governo non possa essere assunto che da un uomo solo: Mussolini. Mussolini presidente del Consiglio, sarà l’esponente logico e naturale di tutta la grande maggioranza della Nazione». Chiesto poi «in quale proporzione» i fascisti avrebbero accettato di partecipare a un governo con Giolitti, Salandra o Orlando, Bianchi aveva risposto: «Non posso ammettere combinazioni perché la indicazione da parte del Paese è una sola compatibile: Mussolini»29. Altre dichiarazioni rilasciate da Bianchi la sera del 26 erano citate da «Il Popolo d’Italia»: il segretario, mentre smentiva «recisamente» la voce di una marcia fascista su Roma, definiva «fandonie» le voci di un accordo con Salandra: «un ministero Salandra sarebbe anche fuori dell’inquadramento del buon senso», come «lo sarebbe uno Giolitti o Orlando, o Giolitti-Orlando», perché l’unica soluzione era il governo Mussolini30. In un’altra versione delle sue dichiarazioni, il segretario del PNF avrebbe aggiunto: «Ieri l’altro si poteva parlare di una combinazione diretta da altre personalità con il nostro concorso. Ma oggi la situazione è radicalmente mutata. Oggi non siamo noi a provocare il colpo di Stato. Sono gli altri che, se si rifiutano di riconoscere la realtà della situazione, cioè di chiamare i fascisti alla direzione del Governo, tentano il colpo di Stato. Noi a Roma ci siamo già»31. Nelle varie versioni, le dichiarazioni di Bianchi concordavano nell’esprimere, con tipica improntitudine rivoluzionaria, la pretesa di un unico partito di rappresentare esso solo il paese, contro una

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Camera democraticamente eletta, quasi che i trenta deputati del PNF avessero una legittimazione a governare maggiore degli altri cinquecento deputati degli altri partiti. Non si sa se la richiesta intransigente di un governo Mussolini fu concordata da Bianchi col duce oppure se fu una personale iniziativa per troncare ogni manovra contraria e per far pressione sullo stesso Mussolini, mentre stava per iniziare l’insurrezione. Forse, alla vigilia della «marcia su Roma», il duce non era ancora convinto di rischiare tutto: in ogni caso, se l’iniziativa di Bianchi fosse fallita, avrebbe potuto sconfessarla come iniziativa personale del segretario del partito, e accettare un’altra soluzione che non fosse un governo Mussolini32. Comunque sia, Bianchi fu il primo e il più deciso fautore di un governo Mussolini, e considerò l’azione insurrezionale il mezzo indispensabile per impedire qualsiasi manovra tendente a raggiungere una soluzione diversa, come quella auspicata dai fascisti «antimarcia». Dopo aver rilasciato le sue dichiarazioni, alle 2.40 del 27 ottobre Bianchi telefonò alla sede de «Il Popolo d’Italia» e parlò con Cesare Rossi, per insistere sull’azione insurrezionale. «Allora si rimane d’accordo su quanto si è detto a Napoli?», chiese a Rossi, il quale rispose di sì, ma aggiunse che c’era «qualcosa di nuovo», di cui non poteva parlare per telefono, accennando a «qualche temperamento in vista»; ma, di fronte al disappunto di Bianchi, subito precisò che si trattava di un temperamento «utilitario», solo per qualche giorno. Poi Bianchi parlò con Finzi, al quale ribadì: «Quanto a noi non dobbiamo recedere d’un passo» – «Assolutamente» – «Mi pare che la nostra via sia tracciata» – «Fermamente» – «Questo che mi dici mi conforta molto, coraggio», concluse Bianchi33. Le assicurazioni di Rossi e Finzi non dovettero convincere del tutto Bianchi se, alle 3, telefonò di nuovo per parlare direttamente con Mussolini, dal quale ebbe chiarimenti sulla novità accennata da Rossi, cioè che Giolitti era disposto a dare ai fascisti quattro «portafogli importanti» (Marina, Tesoro, Agricoltura e Colonie, la Guerra, «che sarebbe data a qualche nostro amico») e quattro sottoportafogli34. BIANCHI: E allora? MUSSOLINI: Allora mi ha fatto telefonare da Cavour che stamattina alle nove sarà di ritorno. BIANCHI: Benito...

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MUSSOLINI: Dimmi. BIANCHI: Benito vuoi sentire me? Vuoi sentire il mio fermo proposito irrevocabile? MUSSOLINI: Sì... Sì... BIANCHI: Rispondi: NO. MUSSOLINI: ...È naturale, la macchina ormai è montata e niente la può fermare. BIANCHI: È fatale come il destino stesso quello che sta per avvenire... Ormai non è più il caso di discutere il portafoglio. MUSSOLINI: È naturale... BIANCHI: Allora rimaniamo d’accordo; io posso anche comunicare questo a nome tuo? MUSSOLINI: Aspetta prima... Sentiamo quello che dice Lusignoli... domani vediamo di riparlarci. BIANCHI: Va bene. MUSSOLINI: Così perché tu possa essere a giorno di tutto il movimento, ti dirò anche il resoconto che mi farà Lusignoli. BIANCHI: Bene, bene. MUSSOLINI: Addio. BIANCHI: Addio. Rassicurato da Mussolini, alle 9 del 27 ottobre Bianchi partì per raggiungere Balbo e De Bono a Perugia, dopo aver cercato invano De Vecchi, al quale lasciò la lettera già citata, per ammonirlo a desistere da manovre contrarie al piano insurrezionale. Appena letta la lettera, alle 9.30 De Vecchi si precipitò da Grandi – alloggiavano nello stesso albergo – per fargliela leggere. Grandi rimase sorpreso, domandandosi quale nuovo fatto avesse indotto Bianchi ad annullare l’ordine del rinvio dell’azione fascista. «Quale sarà stato l’effettivo contenuto del colloquio telefonico di stanotte tra Mussolini e Bianchi? È stato Mussolini a spingere l’azione? È stato invece Bianchi a forzare la mano a Mussolini impegnandolo a interrompere le trattative intavolate con Giolitti per il tramite di Lusignoli, prefetto di Milano, trattative di cui ieri sera si parlava insistentemente nei corridoi della Camera? È stato il movimento insurrezionale a scattare da sé in anticipo sul piano di esecuzione precedentemente stabilito?». Di fronte all’imprevisto mutamento di Bianchi, Grandi e De Vecchi non abbandonarono la loro manovra. Alle 11 tornarono da Salandra per fargli presente la neces-

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sità di accelerare i tempi, insistendo sull’urgente rientro del re a Roma, sulle dimissioni senza indugio del governo e su un incontro fra il re e De Vecchi. Due ore dopo, su richiesta di Orlando, Grandi si recò a trovarlo nella sua casa, dove il «presidente della Vittoria» lo informò del suo incontro con Giolitti a Cavour e delle trattative fra Giolitti e Mussolini, esprimendo l’impressione che le trattative fossero «destinate al fallimento»35. Orlando riteneva necessarie le dimissioni di Facta e la rapida costituzione di un governo «di unione nazionale con Mussolini ministro dell’Interno e col programma di elezioni generali immediate», dicendosi pronto a collaborare con Giolitti e Salandra. De Vecchi, informato da Grandi del suo colloquio con Orlando, insistette «col preferire la soluzione Salandra che i nazionalisti danno già come certa»36. E mentre il quadrumviro faceva un ultimo tentativo per bloccare l’insurrezione o impedire comunque che si arrivasse alla soluzione di un governo Mussolini, ritenendola forse impossibile, la macchina insurrezionale si metteva in movimento. Inizia l’insurrezione Le avvisaglie del moto insurrezionale divennero frequenti nelle prime ore del 27 ottobre, ma già nella notte fra il 26 e il 27, scriveva il prefetto di Brescia, si notava «principio panico per incertezza situazione», per cui chiedeva il rientro urgente di tutti i militari in licenza37. Alle 2 di mattina del 27 il ministero dell’Interno veniva a sapere dal prefetto di Napoli, che a sua volta l’aveva saputo da un «fiduciario attendibile», che esistevano «quattro piani differenti» per l’azione fascista: «primo, marcia convergente su Roma, occupazione pubblici uffici, edifici etc. Secondo, occupazione simultanea uffici e servizi pubblici principali città che si deterrebbero in ostaggio. Terzo, finta manovra convergente su Roma per obbligare radunarsi maggiori contingenti fine attuare invece piano secondo. Quarto, mobilitazione ordinata solo scopo impressionare pubblica opinione e premere sui governanti e raggiungere così propri obbiettivi senza colpo ferire. Ha aggiunto però avere qualche elemento credere trattasi ora piano numero tre»38. L’allarme di un’imminente mobilitazione fascista si stava diffondendo rapidamente. Da varie prefetture furono sollecitati

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chiarimenti sull’azione da intraprendere, secondo le disposizioni date col telegramma n° 23727 di resistere ai tentativi insurrezionali anche con le armi, «esperito ogni altro mezzo», e soprattutto per segnalare, in riferimento a questo ordine, la scarsità o l’inadeguatezza della forza militare di cui disponevano. Alle 10, il prefetto di Grosseto chiedeva «se eventuale cessione poteri all’Autorità militare debba essere fatta al Comandante di questo presidio oppure, come riterrei, Comandante Divisione militare anche battaglione mobile Livorno da cui questo presidio dipende. Nel caso che dovesse farsi Colonnello Comandante questo presidio, compio dovere informare V.E. essere egli assolutamente impari al bisogno e che fra presidio locale e Orbetello, gli unici della provincia, potranno oggigiorno mettere insieme sì e no 50 uomini truppe. Attendo urgenza disposizioni». Alla stessa ora il prefetto di Lucca faceva sapere che «Carabinieri che ho potuto concentrare qui a poca truppa disponibile non bastano fronteggiare possibili atti insurrezionali. Poiché da tempo è stata assegnata questa provincia una compagnia R. Guardia non ancora venuta perché locali non pronti. Prego inviare corrispondente per ordine pubblico normale». Alle 12.40 giungeva da Firenze notizia della «gravità situazione e mobilitazione fascista in atto». A Pisa i fascisti presero l’iniziativa, con notevole anticipo rispetto all’ora stabilita dal piano insurrezionale39. Alle 13 Taddei apprendeva dal prefetto di Pisa che la mobilitazione era iniziata alle 12.10 «con interruzioni varie linee telefoniche e telegrafiche specialmente verso Firenze e requisizione spontanea o coattiva autovetture. Giunge pure notizia numerosi fascisti alla spicciolata sono stati visti su treni diretti Roma. In questo momento mi si segnala che giungono camions con fascisti armati pronti ad ogni evento. Ritengo quindi necessario cedere poteri Autorità Militare con la quale sono stati già presi accordi del caso»40. Alle 16.15 giungeva da Pisa la conferma che l’insurrezione era in corso: «fascisti hanno occupato numerosi Uffici Postelegrafici rurali e provincia» distribuendo un manifestino a mano «diretto ad Ufficiali, Soldati e cittadini a firma ‘I Fascisti’ i quali dicono che marciano su Roma per ridare all’Italia e la libertà concludendo: Viva Esercito, Viva il Re, Viva l’Italia. Comando Presidio assumendo poteri ore 11.30 ha pubblicato manifesto in cui vieta assembramenti, circolazione autoveicoli, porto d’armi e bastoni, limita orario esercizi oltre altre limitazioni».

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Intanto, alle 15.15 il ministero dell’Interno apprendeva da Genova che «in previsione moti insurrezionali da parte fascista di cui momento non è prevedibile ed anche per dare impressione tanto al Partito che alla città Governo è pronto affrontare con risolutezza situazione», il prefetto aveva disposto che fossero «convenientemente presidiati gli uffici governativi più importanti con forza pubblica e truppa marina disponibile», prendendo inoltre accordi con le autorità militari «perché a primo accenno insurrezionale assuma immediatamente poteri». Intanto da Venezia il prefetto riferiva di aver saputo da informazioni confidenziali che «moto insurrezionale fascista avrebbe inizio stasera in tutta Italia». Anche a Cremona il moto insurrezionale iniziò su ordine di Farinacci prima dell’ora prevista. Il segnale fu l’improvviso spegnimento dell’illuminazione pubblica alle ore 18. Con l’oscurità, un’ora dopo, settanta fascisti penetrarono a sorpresa nella questura e nella prefettura, riferiva il prefetto, «senza che i carabinieri e regie guardie di servizio facessero alcuna resistenza. Contemporaneamente venivano occupati uffici telegrafici e telefonici. Alle mie proteste opposero che questa azione si compie contemporaneamente in tutta Italia. Intervenuto subito Comando Presidio gli ho ceduto poteri ed egli ha fatto sgombrare con sopravvenuti rinforzi mio ufficio e ritirare i fascisti in una stanza ove sono guardati a vista. Si prevede ora sgombro ufficio postelegrafico. Si nota affluenza fascisti della provincia dietro ordini segretissimi ricevuti. Avverto che qui si dispone poca forza insufficiente gravi esigenze che si potrebbero presentare». Mentre in città proseguiva il concentramento dei fascisti dalla campagna, in un paese vicino tre fascisti rimasero uccisi in un conflitto a fuoco con i carabinieri durante un assalto alla caserma. In altre località gli assalti alle caserme ebbero successo. La sera del 27, alle 23.30, riferiva il prefetto il giorno successivo, «un forte nucleo fascista tentava nuovo assalto Prefettura a mezzo scale di corda cercando vincere resistenza forza pubblica con automobili lanciati contro di essa. Esaurito ogni mezzo persuasione desistere vennero dati squilli tromba dopo di che verificossi conflitto nel quale si ebbero quattro morti ed alcuni feriti fascisti e sette feriti forze dell’ordine. Pressione continua. Si nota minaccioso concentramento fascisti. In Prefettura permangono circa 40 fascisti asserragliati in mia anticamera. Ufficio Postelegrafico e telefonico ancora occupato da fascisti. Forza inadeguata bisogni»41.

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Intanto si segnalavano i primi movimenti di fascisti verso la capitale: «Risultami – telegrafava il prefetto di Chieti alle 19.20 – che questa notte con treno ore 24 squadre fascisti questa provincia partirebbero da Pescara volta Roma scopo imprecisato per partecipare funerali fascista Veroli ucciso Tivoli. Ritengo che al massimo tratterebbesi di un nucleo di circa 150 camicie nere. Mentre attendo personalmente intensificazione indagini per più concreti accertamenti, segnalo quanto precede per eventuali istruzioni di carattere generale»42. Dalle ore 20 in poi, al ministero dell’Interno giunsero con rapida successione, da varie provincie, le notizie della mobilitazione fascista. Alle 20, da Livorno si apprendeva che la città era ancora tranquilla, ma che al ritorno da Napoli, il marchese Dino Perrone aveva avuto colloqui con fascisti toscani: «In seguito ordine mobilitazione – scriveva il prefetto – squadristi hanno vestito divisa. Si presume che preparansi a partire. Ho tenuto riunione con intervento autorità militari di mare e di terra e autorità P.S. predisporre servizi per tutela Prefettura Questura e uffici telegrafici». Il prefetto di Venezia comunicava che era confermata «da molte parti azione fascisti per questa sera. Sciaccaluga Segretario Provinciale recatosi oggi Padova segnalato e scortato. È qui sostituito da Avv. Magrini che recatosi ora anche a nome On. Giuriati presso Ammiraglio per fargli dichiarazione lealismo marina esercito. Molto turbato ha dichiarato sperare che notizie di Roma, non comprendesi in qual senso, impediscano avvenimenti gravi. Lasciatosi sfuggire che fascisti si assicureranno comunicazioni ad ogni costo. In riunione tenuta oggi Prefettura con principali autorità militari e di P.S. si sono concordati tutti servizi ora in corso attuazione». Alle 20.10 da Udine il prefetto riferiva la voce che «domattina si effettuerà in questa provincia mobilitazione generale fascista con occupazione pubblici uffici. Assicuro avere disposto conformemente istruzioni ricevute». Mezz’ora dopo, giungeva il telegramma del prefetto di Ferrara, «confidenzialmente informato che stasera sarebbe qui giunto ordine mobilitare fasci provincia che inizierebbesi stanotte giornata domani con adunata questa città ed obbiettivo per ora occupazione Ufficio Postale Telegrafico e Stazione ferroviaria. Provvedo subito presidiare esigue forze mia disposizione detto ufficio e stazione e altri servizi sicurezza e non mancherò attenermi istruzioni impartite con telegramma n° 23727 ove circostanze rendessero necessario poteri Autorità Militare».

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Alle prime notizie sull’inizio dell’insurrezione, a Roma si cominciò a predisporre le misure per fronteggiarla e soprattutto per difendere la capitale. Nel pomeriggio del 27 ottobre, fra le 17 e le 18.30, il direttore generale della pubblica sicurezza tenne una riunione con il prefetto, il questore e il generale Pugliese, comandante della Divisione di Roma. Li informò che da tutto il paese erano segnalati «concentramenti e partenze già iniziate, di masse di fascisti per Roma», e chiese al generale «in quale modo egli ritenga si possa arrestare o almeno ritardare, tale concentramento nella Capitale». Il generale rispose che il piano di difesa, approvato dal ministro della Guerra e dal ministro dell’Interno, era stato già predisposto sin dal 21 ottobre, e prospettò «la possibilità e l’opportunità, a suo giudizio, di interrompere linee ferroviarie, per cui siano segnalati notevoli spostamenti di fascisti, e precisamente nelle stazioni di Civitavecchia, Viterbo, Orte, Avezzano, Segni». Ma prima di attuarlo, il generale rinnovò la richiesta di un ordine scritto del governo «che precisi quale debba essere il contegno delle Forze armate di fronte ad atti arbitrari fascisti, e consenta ai Comandanti dei dislocamenti suaccennati di decidere essi sul posto, in base agli ordini tassativi che darà loro il Comando della Divisione, quale sia il momento in cui attuare eventuali interruzioni». All’obiezione del direttore generale che l’ordine scritto non era necessario, perché il piano del generale era stato già approvato verbalmente, il generale insistette, finché ricevette da Taddei un telegramma con l’ordine di arrestare, nelle stazioni da lui indicate, tutti i treni con fascisti diretti alla capitale e di «impedire con qualunque mezzo che essi possano proseguire, ricorrendo anche alla interruzione delle linee ferroviarie in più punti, e come estrema misura, facendo anche uso delle armi»43. Prima delle 21 l’ordine fu diramato dal generale ai comandi competenti, con le disposizioni su come procedere per impedire ai fascisti di avanzare verso la capitale, consentendo il proseguimento, di fronte a un eventuale rifiuto, a non più di trecento fascisti complessivamente44. Fra le 21 e le 22, il generale Pugliese fu informato che da Monterotondo e da Tivoli i carabinieri avevano segnalato «un preannunciato concentramento, nella giornata del 27 Ottobre, di 10.000 fascisti in Monterotondo e l’ordine colà pervenuto di fare preparare, per le ore antimeridiane del 28 Ottobre, 10.000 razioni di pane, nonché di far mattare 10 vitelli». Di conseguenza, il generale dispose che «siano fortemente occupati i

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ponti Salario e della batteria Nomentana, allo scopo di costituire un primo sbarramento contro le provenienze da Monterotondo e da Mentana», e ordinò di rafforzare il presidio nei pressi di Villa Savoia. Intanto, poiché continuavano a pervenire al comando della Divisione «da fonti varie notizie imprecisate, circa movimenti insurrezionali, già attuati e riusciti nella Toscana», il generale riunì i comandanti dei settori per dare le norme in merito al pronto passaggio, ritenuto imminente, della tutela dell’ordine pubblico dall’autorità politica all’autorità militare. Il re a Roma, situazione oscura Intanto, alle 20.05 era giunto a Roma da San Rossore Vittorio Emanuele III. Alla stazione lo attendevano il presidente Facta, il direttore generale di pubblica sicurezza, il prefetto e il questore. Il re s’intrattenne subito nella saletta reale a colloquio con Facta, che lo informò della situazione. Sul colloquio ci sono versioni contrastanti. Due di esse si basano su quanto avrebbe riferito lo stesso presidente del Consiglio. Al collega Alessio, che lo racconta nelle sue memorie, Facta riferì che il re «era molto stanco, annoiato, quasi avvilito per le difficoltà che gli si affacciavano. Facta confermò il giorno dopo – e le parole vennero confermate dall’aiutante di campo Cittadini alle ore 4 della successiva mattina, presenti l’On. Paratore ed altri –: che il Re disse in piemontese: ‘Non faccio un ministero durante la violenza: abbandono tutto: vado con mia moglie e mio figlio in campagna’»45. Il senatore Alberto Bergamini ha raccontato invece di aver appreso da Facta che il re, alla proposta dello «stato d’assedio in massima deliberato dal ministero», avrebbe risposto che era una misura molto grave, che non aveva consentito neppure «nei momenti più turbinosi», e Facta avrebbe replicato: «Ma come si può tollerare che i fascisti occupino la capitale suscitando chi sa quale disordine e imponendo la loro volontà che è la conquista, illegale, del governo?». E il re: «Vero, purtroppo. Ma aspettiamo almeno finché è possibile, fin che c’è la speranza di evitare un conflitto funesto. Voglia stasera, tardi, portarmi a villa Savoia gli ultimi telegrammi, e ultime notizie»46. Diversa la versione di Soleri, il quale racconta che ai ministri

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incontrati alla stazione, il re «risolutamente dichiarò che Roma avrebbe dovuto essere difesa a qualunque costo, e che i fascisti armati non dovevano essere lasciati entrare nella capitale. La Corona doveva potere deliberare in piena libertà, e non sotto la pressione dei moschetti fascisti». Secondo Soleri, fra le disposizioni per la difesa della capitale «era manifestamente compresa la misura dello stato d’assedio», perché «il semplice passaggio dei poteri per la tutela dell’ordine pubblico dai prefetti alle autorità militari non avrebbe manifestamente costituito un provvedimento adeguato alla gravità della situazione ed alla impressione che occorreva dare della decisione del Governo di stroncare la marcia su Roma e di impedire ai fascisti il successo del loro colpo di mano contro lo Stato»47. Altra ancora la versione del generale Cittadini, aiutante di campo del re, presente al colloquio, il quale ha riferito che il re non avrebbe parlato di stato d’assedio, ma avrebbe detto a Facta: «mi proponga con il consenso totale dei ministri, i provvedimenti che crede debbano essere messi in effetto; vedrò io poi – giacché non conosco i dettagli della gravissima situazione che lei mi descrive – cosa si deve fare»48. Quanto a Vittorio Emanuele III, non esiste una sua versione del colloquio, salvo, forse, un generico accenno fatto nel 1945, rispondendo a un questionario: «Il Re informò sempre Facta di quanto venne a sapere sui preparativi di un movimento illegale dei fascisti, perché il Governo lo potesse stroncare»49. Quale che sia la versione più attendibile, è certo che quella sera, alle 21, Facta si recò a Villa Savoia e presentò al re le dimissioni del governo. Forse Facta era veramente deciso a lasciare il posto a Giolitti per tornare in famiglia, come scriveva continuamente alla moglie e alla figlia: da tempo si era convinto che il suo governo, a causa delle divisioni interne, era «ormai morto», come aveva scritto il 23 ottobre a Giolitti50. Pur sollecitando Giolitti ad andare a Roma per assumere di nuovo la guida del governo, di fronte alle continue indecisioni ed esitazioni del suo autorevole amico, Facta non aveva forse perso la speranza di poter essere chiamato a svolgere il ruolo di salvatore della patria, a capo di un terzo ministero con la partecipazione dei fascisti. Proprio in quei giorni, Facta aveva avuto colloqui con Bianchi, che gli fece credere che i fascisti avrebbero partecipato a un governo da lui presieduto51. E alle lusinghe di Bianchi non era

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rimasto insensibile, se alla moglie scriveva il 25 ottobre, contento che l’«affare di Napoli è andato benissimo»; che «stamani ho ricevuto deputati di tutti i gruppi per dirmi che per carità non andassi via, che restassi al Ministero, che l’unico Ministero possibile è il mio ecc. ecc. ecc. Ma il più importante è questo, che i fascisti mi mandarono a dire che essi sono disposti a venire con me in un rimpasto e che sciolgono le squadre e che entrano nella legalità ecc. ecc. Tutto questo mi lascia perfettamente indifferente, perché io me ne vado»52. Non si sa se di queste profferte fasciste Facta abbia parlato al re la sera del 27 ottobre a Villa Savoia. «La Stampa», il giorno successivo, riferiva che durante il colloquio durato circa un’ora, il presidente informò il sovrano dei motivi che lo avevano condotto alle dimissioni, e il re, «secondo la formula», si era «riservato di deliberare. Domani incominceranno al Quirinale le consultazioni»53. Per il quotidiano torinese, si era in una «situazione oscura»: «La sfinge della crisi affaccia da stasera il suo enigmatico profilo sull’orizzonte politico. Nulla, per ora, di confortante. Le dimissioni, del resto inevitabili, del Ministero Facta, hanno gettato di colpo la situazione di fronte a un brutale dilemma: o un Ministero Giolitti, ovvero una soluzione extra-parlamentare Salandra. I fascisti si spingono fino ad una combinazione Mussolini, ma per adesso non è il caso di parlarne»54. Nel colloquio col re, probabilmente Facta parlò anche dell’eventuale proclamazione dello stato d’assedio, avendo saputo dal prefetto di Milano che le trattative con Giolitti si erano arenate. E forse il re diede un assenso di massima, pur consigliando di differire il provvedimento per vedere il volgere degli eventi, e per capire meglio quali fossero le reali intenzioni di Mussolini. Trattative arenate Il 28 ottobre «La Gazzetta del Popolo» pubblicava un’intervista a De Vecchi, rilasciata il giorno prima, nella quale il quadrumviro volle proclamare «forte che il fascismo non è contro lo Stato, ma contro l’attuale decadimento dell’autorità statale», e pertanto si assumeva il compito di «proteggere tutte le istituzioni nostre, da quelle sacre e antiche della Monarchia di Savoia a quella recentis-

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sima del suffragio universale. Statuto, Parlamento, legislazione sociale, sono al sommo dei nostri pensieri, ma noi vogliamo che ogni cosa ritorni alle pure fonti originarie». Quanto alla formazione del nuovo governo, De Vecchi espresse un pensiero nettamente opposto a quanto il giorno prima aveva dichiarato il quadrumviro Bianchi, affermando che «se in un primo tempo la soluzione Mussolini si può differire, mi sembra che l’on. Salandra e l’on. Orlando potrebbero benissimo essere i capi di un Ministero con la nostra partecipazione»55. Alle affermazioni di De Vecchi fece autorevole eco il generale Armando Diaz, che in quei giorni era a Firenze e che rilasciò una dichiarazione a «La Nazione» in cui disse di apprezzare «le lucide, importantissime dichiarazioni dell’on. De Vecchi», le quali dimostravano che gli «uomini che guidano la massa fascista hanno la testa sul collo» e poiché «hanno già detto di voler operare nella legalità», non c’era motivo di temere: pertanto, concludeva il generale, «se le dichiarazioni corrispondono alla realtà dei fatti, è possibile l’incanalamento delle forze nazionali nella legalità. Il resto è affidato all’avvedutezza degli uomini di Governo»56. Anche Mussolini, la mattina del 27 ottobre, si mostrava disponibile a una soluzione Salandra, col quale si era incontrato quattro giorni prima, alla vigilia della partenza per Napoli. E il 27 mattina gli telefonò per sondare la sua disponibilità a presiedere un ministero con i fascisti, ma rifiutò di recarsi a Roma per discuterne57. A Ciano, che manteneva le trattative con Salandra e si accingeva a tornare a Roma, Mussolini precisò che «i limiti della condiscendenza fascista» a una combinazione parlamentare con Salandra o con Orlando, erano l’assegnazione di cinque ministeri – Interno, Giustizia, Guerra, Lavoro, Istruzione o Lavori pubblici – e lo scioglimento della Camera, mentre lui stesso si riservava di accettare o meno di entrare nel governo58. La richiesta non era molto diversa da quella annunciata a Napoli e ripetuta a Giolitti il giorno prima, ma, come osservò Albertini commentando le trattative fra Salandra e Mussolini, del duce fascista non c’era da fidarsi: «è un despota mutevole ed impressionabile, per non dire intrattabile. Lo vedremo alla prova»59. Ma la sera del 27 ottobre, iniziati i moti insurrezionali, la situazione appariva sostanzialmente cambiata, come scriveva da Milano a Giolitti Corradini, comunicandogli le sue considerazioni sul

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moto insurrezionale appena iniziato, che erano molto perspicaci per la percezione delle reali intenzioni di Mussolini60. Pareva che le cose procedessero verso l’accordo, ma dopo, nel pomeriggio, la scena è cambiata. Vi sono qui notizie di atti che hanno compiuto le squadre a Cremona, dove sono stati occupati gli uffici postali e telegrafici. A Pisa pare che i poteri siano passati all’Autorità Militare. V’è in altri termini, tutto un inizio di azione da parte dei fasci che secondo informazioni frammentarie, pare abbia lo scopo di esercitare una forte pressione per arrivare alla costituzione di un governo fascista, che, secondo alcuni, dovrebbe essere capeggiato da Salandra, secondo altri dallo stesso Mussolini. La verità, a quanto sembra, è che Mussolini accenna a cedere alle tendenze dei suoi estremisti. Intanto è arrivato il Re a Roma. Esamina tu se non sia opportuno che tu sia a Roma al più presto. Io ti riferisco un poco l’impressione di molta gente, tu, naturalmente, che hai giudizio per tutti farai quello che giudichi necessario. Persisto nel ritenere che si tratta di una pressione, ma sarebbe grave se mancasse a chi di dovere il conforto del tuo consiglio e si lasciasse ai soliti uomini la risoluzione di problemi che questo stato di cose presenta. L’incertezza è massima nelle autorità di polizia e prefettizia. Si è prescritto dal Governo di fronteggiare sino a fare uso in caso di necessità, delle armi. In altri termini il Governo non vede in tutto questo movimento il carattere insurrezionale, poiché in tal caso non può trattarsi di un fatto parziale di polizia, ma di un vero movimento che dovrebbe essere trattato come tale e quindi arresto dei capi, governo militare, ecc. Se questo non avviene si avranno guai parziali, vittime senza risultati e con la certezza che gli atti sporadici qua e là non impediranno i risultati favorevoli all’insurrezione e non faranno che inasprire e ingigantire il movimento. Questa è la mia impressione. A Roma non se ne capisce nulla, quello che è peggio si danno notizie incerte e contraddittorie. Secondo la testimonianza di Cesare Rossi, il 27 ottobre Mussolini aveva già deciso che non avrebbe accettato nessun compromesso con i vecchi politici liberali, tentando di riuscire a ottenere alla fine, col ricatto dell’insurrezione, l’incarico di formare

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il nuovo governo, tanto che mostrò a Rossi persino una lista dei futuri ministri61. Comunque la sera dell’inizio dell’insurrezione, per sviare i sospetti delle autorità che lo sorvegliavano, Mussolini andò a teatro con la moglie e la figlia, per assistere alla rappresentazione del Cigno di Ferenc Molnar62. Durante il secondo atto, un giovane redattore de «Il Popolo d’Italia», Luigi Freddi, lo raggiunse e cercò con gesti di richiamare la sua attenzione, ma Mussolini gli fece segno di tacere. Alla fine dell’atto, lo seguì nel corridoio, e apprese che a Cremona era iniziata l’insurrezione63. Governanti a letto, fascisti in movimento Mentre a Milano Mussolini era a teatro, a Roma il presidente del Consiglio, dopo l’incontro con il re, verso le 22 era andato in albergo a dormire. Anzi, prima di andare a letto, aveva concesso anche ai funzionari del Viminale «il permesso di andare a dormire, perché tanto c’è la crisi, siamo dimissionari, e io ho detto che andassero, che ci saremmo visti domani mattina»64. Verso le 23, andò a coricarsi anche Soleri, nel suo appartamento al ministero della Guerra65. Forse andarono a letto anche il re e gli altri membri del governo, probabilmente perché nessuno valutò ancora la gravità di quanto stava accadendo. Forse tutti pensavano ancora che l’insurrezione annunciata fosse soltanto una minaccia per esercitare una pressione politica sul governo e costringerlo a dimettersi lasciando il posto a un nuovo governo con alcuni ministri fascisti. Del resto, dopo tanti mesi di mobilitazione squadrista, di pratica terroristica e di occupazioni di città, le avvisaglie insurrezionali apparivano iniziative locali, tali comunque da non richiedere la necessità di una veglia allarmata, per fronteggiare un’insurrezione che forse non ci sarebbe stata. Lo pensava anche il direttore generale della pubblica sicurezza, il quale alle 0.30 del 28 ottobre telefonò al generale Pugliese per comunicargli l’ordine del ministro dell’Interno, che a partire da quel momento la tutela dell’ordine pubblico passava all’autorità militare. Il generale però voleva «ordini precisi e scritti, circa i compiti da assolvere, e circa il contegno delle truppe di fronte a eventuali tentativi insurrezionali per penetrare e agire nella Capitale», ma il direttore generale della pubblica sicurezza rispose: «Gli ordini saranno dati

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domattina; tanto, i fascisti non possono essere qui prima delle 7 di domani. Io ora me ne vado a dormire»66. Mentre Facta, Soleri e il direttore generale della pubblica sicurezza erano andati a dormire, al ministero dell’Interno continuavano a giungere in rapida successione telefonate e telegrammi che segnalavano la diffusione dell’insurrezione fascista. Alle 21 era pervenuta dal prefetto di Verona la notizia che la direzione del partito fascista aveva ordinato «per la mezzanotte di oggi mobilitazione generale e che tutti servizi logistici sarebbero pronti compreso quello ferroviario, vettovagliamento, sanitario. Squadre questa provincia sarebbero comandate dal Capitano Starace qui giunto ieri da Milano che attenderebbe ordine partito iniziare azione della quale non è stato possibile accertare obbiettivo»67. Alle 22.10 era giunta da Siena la notizia che nel pomeriggio «iniziatasi questa città e comuni limitrofi mobilitazione fascisti con ordine attendere disciplinati eventuali disposizioni che verranno impartite da comitato segreto. Fino ad ora nessun incidente». Alle 22.30, il prefetto di Pisa telegrafava che «concentramento ha qui radunato nel pomeriggio circa 4.000 fascisti che dopo aver percorso stasera in corteo principali vie, si sono riuniti in piazza Cavalieri ove hanno parlato fascisti Letti [recte Betti] di Pisa e Borri di Cascina, annunciando tenersi pronti per procedere con qualunque mezzo ed a qualunque costo». Gli oratori avevano dichiarato che «le masse fasciste sono alleate esercito per benessere nazionale e Re. Fascisti si sono poi sciolti e distribuiti negli accantonamenti. Nessun incidente. Altro numeroso concentramento è stato eseguito Cecina dai fascisti del Volterrano e molti altri fascisti sono pronti nel Campiglionese e Piombino sempre, dicesi, per marciare su Roma». Alle 22.35 il prefetto di Ancona comunicava di aver raccolto vari indizi sul concentramento di fascisti «di cui non è chiaro scopo» previsto per la mattina successiva, lamentando di non avere forze sufficienti per contrastarli. Anche il prefetto di Novara rilevava di non avere forze sufficienti per fronteggiare un moto insurrezionale e chiedeva rinforzi. Eguale richiesta perveniva dal prefetto di Perugia, il quale comunicava che i fascisti avevano «avuto ordine mobilitazione, avrebbero come primo obbiettivo occupare fabbrica d’armi per impadronirsi fucili e mitragliatrici. Provveduto modo migliore ma non sufficiente per tutela predetta fabbrica

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d’armi. Occorre quindi urgenza rinforzare colà con primo mezzo utile, almeno 100 CC.RR., che prego inviare direttamente da Roma non potendo provvedere per altre urgenti necessità». E ancora da Perugia arrivava a mezzanotte un telegramma inviato alle 21.45, che comunicava l’arrivo di De Bono e Balbo in città, dove ebbero subito «contatti continui maggiori esponenti fascio locale e notasi movimenti tali da fare dubitare esista già mobilitazione fasci umbri anche per notizie che mi pervengono dalla provincia, personalità suddette farebbero comprendere qui convenute per concentramento fascisti per caso in cui situazione ministeriale potendo risolvere loro vantaggio e creare opposizione da parte fazioni contrarie fascismo, sia necessario impiego forze mobilitate Umbria. Ho impartito istruzioni Sottoprefetti perché verificandosi stanotte partenze fascisti per Roma, curino che questi siano disarmati e facciano urgenti segnalazioni Commissario P.S. stazione ferroviaria Termini. Qui fa seguito [sic]con speciale attenzione movimento direttivo fascista e mi riservo comunicare ulteriori notizie». Quella stessa sera, alle 23.30 i fascisti procedettero all’occupazione della prefettura come riferiva il prefetto di Perugia la mattina del 28, dopo aver ceduto i poteri all’autorità militare. Prefetto di Perugia, 28 ottobre Informo Onorevole Ministero che ore 24.35 stanotte ho ceduto poteri Autorità Militare, conformità disposizioni ricevute. Tale determinazione è stata ritenuta inevitabile, dato repentino aggravarsi situazione, che in alcun modo sarebbe stato possibile fronteggiare con scarsi mezzi a disposizione. Ieri sera, infatti, verso le 23.30, mentre Città veniva circondata con movimenti rapidissimi da oltre duemila fascisti in pieno assetto di guerra, affluenti con mezzi celeri da Comuni vicini, presentavasi a me apposita Commissione che emanava dal Quadrumvirato De Bono, Balbo, Crespi [sic] e Bianchi, e di cui facevano parte gli ­­On/li Pighetti, Crespi e Mastromattei, chiedendomi, a nome del Comando Militare Fascista cessione miei poteri nelle loro mani. Mi rifiutai con fierezza e dignità, spiegando nel modo più persuasivo la inattendibilità della loro richiesta. Di fronte però alla minacciata immediata invasione fascista, ad ogni costo, e con forze preponderanti degli Uffici della Prefettura,

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valutata rapidamente situazione e riconosciuta, anche su dichiarazione esplicita del reggente la Questura, impossibilità ed inopportunità qualsiasi resistenza armata, che avrebbe portato soltanto ad inutile e pericoloso spargimento di sangue, dichiarai formalmente alla Commissione, che avrei ceduto senz’altro i miei poteri all’Autorità militare e che pur volendo evitare, per considerazioni superiori, disperata resistenza, consideravo peraltro occupazione locali Ufficio Prefettura da parte loro atto illegale e violento. Intanto mentre le altre forze numerose facevano il loro ingresso in Città, i primi forti nuclei fascisti invadevano l’atrio del Palazzo Provinciale, e gli Uffici di Questura e l’Ufficio Telegrafico della Prefettura, occupandoli. Alle ore 2.15 del 28 ottobre, anche il prefetto di Milano si rendeva conto che un’insurrezione era in atto e lo faceva sapere al ministero dell’Interno con un telegramma, pervenuto al Viminale alle 3: «Movimento che va determinandosi in diverse provincie, accenna ad un movimento di carattere generale, al quale non può non attribuirsi fisionomia di un moto insurrezionale. Questo movimento a Milano ha un effettivo principio in due fatti specifici: la mobilitazione indetta per domattina, l’azione dell’on. Finzi che dichiara al Corriere della Sera che d’ora innanzi giornali sono sotto la giurisdizione fascista. In presenza questi fatti, ho ritenuto necessario che tutela ordine pubblico sia assunta dall’autorità militare e ciò allo scopo di mettere fascisti di fronte all’autorità stessa, verso la quale essi dichiarano professare il più grande ossequio. Ciò servirà per quanto possibile evitare conflitti di polizia»68. Fu probabilmente in seguito a questo telegramma che Ferraris, alle 3 del mattino, telefonò «a casa di Facta e Taddei, che avevano lasciato il Viminale poche ore prima, per metterli al corrente di quanto andava succedendo». Il presidente disse di convocare subito il Consiglio dei ministri per le 5 del mattino69. Il racconto di Ferraris non corrisponde alla testimonianza del sottosegretario Aldo Rossini, il quale sostiene di aver tirato giù dal letto Facta prima delle 3, con la notizia che l’insurrezione era effettivamente iniziata. Rossini ha raccontato di avere incontrato casualmente verso mezzanotte, mentre era con un altro sottosegretario, Giuseppe Beneduce, Grandi e De Vecchi che dissero di essere in partenza per Perugia «da dove sarebbero ripartiti per Roma con le colonne fasciste»70. I due sottosegretari corsero dal presidente Facta e lo

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trovarono «che dormiva placidamente nella modesta sua residenza all’Hotel Londres»71. «Si alzò, con quei due enormi baffi bianchi, svegliato improvvisamente: ‘Cosa c’è? Cosa c’è?’. Sopra di sé aveva steso i pantaloni, la giacca e il gilè, perché faceva freddo e non aveva avuto neanche lo spirito d’iniziativa di chiamare la cameriera perché gli desse una coperta»72. Rimasto «assai stupito e scosso dalla notizia inattesissima», Facta voleva convocare immediatamente il Consiglio dei ministri, ma Rossini lo persuase «a compiere prima accertamenti a mezzo radio militare, circa la reale situazione», dato che il governo era dimissionario «e si sarebbe coperto di ridicolo riunendosi alle 2 di notte senza notizie gravi»73. Poi, mentre Beneduce andò a cercare Taddei, Rossini corse a svegliare Soleri. Fu subito convocata una riunione al ministero della Guerra, per adottare le misure necessarie a proteggere la capitale e fronteggiare l’insurrezione. Insorti in marcia, governo in allerta La riunione al ministero della Guerra iniziò alle 3.30. Erano presenti Facta, Taddei, Soleri, il generale Pugliese e il capo di gabinetto del ministero della Guerra74. Intanto, Ferraris seguiva dal Viminale il movimento insurrezionale: «i telefoni che collegavano le prefetture al Ministero non avevano tregua e dopo la mezzanotte le notizie divennero allarmanti. Assistevo nella notte, nel silenzio delle grandi sale del Viminale, allo sfaldarsi dell’autorità e dei poteri dello Stato. Si infittivano, sui grandi fogli che tenevo dinanzi a me, i nomi che andavo notando delle prefetture occupate, le indicazioni degli uffici telegrafici invasi, di presidî militari che avevano fraternizzato coi fascisti fornendoli di armi, dei treni che le milizie requisivano e che si avviavano carichi di armati verso la Capitale»75. Prefetto di Siena, 28 ottobre, ore 1.00 Stasera ore 20 circa 1500 fascisti, giunti alla spicciolata da provincia, presentaronsi inquadrati avanti caserma 37° fanteria e penetrati di sorpresa, ne asportarono circa 300 fucili e quattro mitragliatrici che distribuironsi tra loro. Recatisi quindi deposito Santa Chiara, ottennero forzosamente alcune casse di munizioni. Data esigua forza militari presenti, non poté effettuarsi tentativo resistenza. Fascisti

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recaronsi poi sede del fascio attendendo ordini loro comando. Cittadinanza accoglie plaudendo squadre fasciste ed inneggiando Re, esercito e Patria. Ordine pubblico non altrimenti turbato. Conformità istruzioni telegrafiche ministeriali di ieri n° 23727, ho passato questo momento poteri Autorità Militare. Prefetto di Piacenza, 28 ottobre, ore 2.20 Quest’oggi repentinamente tutte sezioni fasciste sono state mobilitate e nella serata con ogni mezzo convennero Piacenza numerosissime squadre. Con forze polizia disponibili attuaronsi prime misure vigilanza, ma contegno fascisti sinora tranquillo. Ore 23 larga commissione, costituita da on. Terzaghi e Piatti, dirigenti federazione fascista provinciale, insieme con ex ufficiali superiori esercito, maggioranza sindaci provincia, chiesero conferire con me. Esposero che larga mobilitazione fasci provincia aveva carattere generale in Italia per determinazioni dettate comitato centrale e che aveva compito cooperare con prefetti, quali rappresentanti dello stato e non del Governo, per attivazione tutte misure dirette rafforzamento stato stesso. Soggiunsero che fasci erano completamente ordini Corona e che loro contegno attuale mirava principalmente mettere in guardia parlamentarismo contro macchinazioni dirette debellare loro movimento e scemare credito nazionale. Domani avrò altro abboccamento ed intanto continuo vigilanza per la quale ho disposto concentramento carabinieri della provincia non potendo contare che solamente sopra circa 200 soldati oltre distaccamento regie guardie. Mi mantengo contatto anche con autorità militare. Generale comandante Corpo d’armata, Firenze, 28 ottobre, ore 3.35 Informo che fra ore 23.45 e ore 24 ieri sera Firenze nuclei fascisti occuparono sede poste e telegrafi e stazione ferroviaria principale. Squadre fasciste a piedi armate circolano città. Giunge notizia che ad Empoli ove concentratisi ieri sera circa 450 fascisti da Montespertoli, alcuni nuclei occupata stazione ferroviaria e richiesto due treni per Roma; che da Borgo San Lorenzo nuclei fascisti partiti su tre autocarri; che presso Pisa è stato formato treno diretto cinque per Roma e vi salirono alcune centinaia di fascisti; che 500 fascisti circa provenienti Romagna e Mugello partiti treno da Pontassieve diretti Roma ad ora zero minuti.

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Di fronte alla notizia delle prime occupazioni, nella riunione al ministero della Guerra, Facta e Taddei manifestarono «la propria dolorosa sorpresa» perché le forze armate non avevano saputo impedirle, ma il generale Pugliese protestò «recisamente» che ciò era avvenuto per «mancanza di ordini precisi circa il contegno da tenere di fronte alle violenze fasciste», ricordando che il suo piano preventivo contro i tentativi insurrezionali, presentato il 27 settembre, era rimasto senza risposta, e affermò che, al di fuori di Roma, era mancata la collaborazione fra autorità politica e autorità militare, che era stata «tenuta costantemente all’oscuro della situazione». Il generale pertanto faceva ricadere la responsabilità sull’autorità politica, che aveva conservato i poteri per tutta la giornata del 27, e aveva quindi la piena disponibilità delle forze armate locali, ma non aveva provveduto né a prevenire né a rea­ gire. Occorrevano, concluse il generale, ordini scritti e precisi: allora, le autorità militari avrebbero immediatamente ristabilito l’ordine. Taddei si impegnò a dare tali ordini, mentre Facta fece «indire per le 5.30 del 28 Ottobre, il Consiglio dei Ministri, essendo intendimento di proporre il decreto dello stato d’assedio», per impedire «che si attuino in Roma le occupazioni arbitrarie segnalate in altre città del Regno» e «garantire la sicurezza del Re, che ritiene minacciata». Il generale diede piena assicurazione in merito. «L’on. Facta aggiunge che si ritirerà nel Viminale, di dove non uscirà che morto»76. Conclusa la riunione alle 5, il deputato Bevione, Rossini, il ministro Rossi e Soleri prepararono una bozza di manifesto per il proclama dello stato d’assedio. Il generale Pugliese fece stampare un volantino con un ordine del giorno agli ufficiali, sottufficiali, caporali e soldati, perché nella «grave ora che volge abbia presente ciascuno il prestato giuramento di fedeltà alla Sua Maestà del Re ed allo Statuto, Legge fondamentale dello Stato nella quale riposa la libertà e l’indipendenza d’Italia. Contro Roma, madre di civiltà, niuno ha mai osato marciare per soffocare l’idea di libertà che in essa si personifica. A voi difenderla fino all’ultimo sangue ed esser degni della sua Storia»77. Dopo la riunione, accompagnato dal suo segretario Amedeo Paoletti, Facta si recò a Villa Savoia, dove ebbe un colloquio di una ventina di minuti con il re. Dopo il colloquio, ha raccontato Paoletti, Facta «ordinò all’autista di tornare al Viminale dovendo-

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si – così mi disse – preparare lo stato d’assedio, che S.M. avrebbe dovuto firmare la mattina seguente»78. Intanto, Taddei era andato al Viminale. Mentre veniva aggiornato sulla situazione da Ferraris, questi ricevette una telefonata di Bianchi, il quale lo incaricò di informare Facta «che la macchina è in movimento e nulla la fermerà. È giunto il momento di assumere da parte del Governo responsabilità nette e precise. Io mi auguro che S.E. Facta non vorrà far scorrere sangue d’italiani». Giunto poco dopo, Facta si «rabbuiò in volto» nell’apprendere che la situazione peggiorava «e disse con voce ferma: – A questo punto non c’è che una soluzione. È la rivolta e alla rivolta si resisterà. – Ed esclamò in dialetto: ‘se a voelo avnì a devo porteme via a toch’ (‘se vogliono venire devono portarmi via a pezzi’)»79.

IX

L’attimo catturato

Come lo Stato liberale perse l’attimo fuggente per reprimere l’insurrezione, e ciò consentì ai fascisti di proseguire spavaldi la loro marcia di conquista, mentre il duce «fece fessi tutti», sventando l’ultima manovra per mutilare la sua vittoria.

Il governo delibera lo stato d’assedio Verso le 4.30, al Viminale, cominciarono ad arrivare i ministri. Il capo di gabinetto accolse Riccio, il più filofascista fra i membri del governo, dicendogli con un sorriso: «I suoi amici sono alle porte». Ma il ministro reagì: «Che amici, che amici! Questa è una cosa indegna. Mussolini si è lasciato prendere la mano. Stato d’assedio ci vuole, stato d’assedio!»1. Giunse anche il generale Cittadini, inviato dal re per essere aggiornato sulla situazione, che commentò dicendo «non mi pare ancora allarmante», ma Ferraris replicò: «Io mi permetto di non condividere questo suo ottimismo». Il capo di gabinetto ha raccontato che il generale Cittadini «si trattenne ancora un altro poco, mentre io mano a mano gli segnalavo le notizie, naturalmente sempre peggiori, poi tornò a Villa Savoia. Intanto il Consiglio dei Ministri aveva inizio»2. Invece, secondo le testimonianze di altri ministri, l’aiutante di campo del re fu presente al Consiglio. Paratore, ministro del Tesoro, ha affermato che il generale si presentò alle 6 del mattino, per annunziare «che S.M. il Re aveva avuto notizie di incertezze sulla proclamazione dello stato d’assedio, e comunicò, per incarico avuto dal Sovrano, l’assoluta necessità dello stato d’assedio»3. Secondo Bertone, ministro delle Finanze, il generale «si allontanò solo dopo che vide deliberato lo stato d’assedio»4. Secondo Rossini, infine, il generale Cittadini si era recato al Consiglio dei ministri e «aveva approvato tutto quello che si stava facendo»5.

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Il Consiglio iniziò dopo le 5 e si concluse alle 6. Facta espose la situazione insurrezionale iniziata nella notte, e Taddei illustrò le misure che erano state prese «per impedire con tutti i mezzi l’occupazione di Roma e dei pubblici poteri esistenti in Italia da parte dei fascisti», secondo le disposizioni date dal generale Pugliese. Gli altri ministri si dichiararono solidali col ministro dell’Interno e approvarono le misure. Quindi, il Consiglio deliberò unanime «di proporre al re la proclamazione dello stato d’assedio»6. Alle 7.10 fu ordinato ai prefetti e ai comandi militari «di mantenere l’ordine pubblico e di impedire occupazione uffici pubblici, consumazione violenze e concentramenti e dislocazione armati, usando tutti i mezzi a qualunque costo, con arresto immediato tutti senza eccezione capi e promotori del moto insurrezionale contro poteri Stato»7. Intanto alle 7, il generale Pugliese redasse un bando, approvato dal ministro dell’Interno, col quale si rendeva noto il divieto di riunioni pubbliche con più di cinque persone, la revoca delle licenze di portare armi, per cui nessuno poteva circolare armato e i negozi di armi dovevano rimanere chiusi, si vietava la circolazione degli autoveicoli e delle vetture tranviarie, la chiusura degli esercizi pubblici alle 21, la sospensione di tutti gli spettacoli8. Alla stessa ora, Taddei comunicò a Pugliese la delibera dello stato d’assedio, aggiungendo che il Consiglio aveva «assoluta fiducia nel Comandante della Divisione; doversi agire con grande energia; essere certa la vittoria». Alle 7.20 Pugliese ricevette dal direttore generale di pubblica sicurezza l’ordine di vietare la partenza dei giornali da Roma e contemporaneamente ricevette da Facta e Taddei l’incarico di «provvedere alla difesa della Capitale con tutti i mezzi disponibili, impedendo ad ogni costo l’ingresso delle squadre fasciste nella città, e che girino comunque in città armati e in divisa»9. Infine, alle 7.50 fu trasmesso ai prefetti e ai comandanti militari il telegramma n° 23859: «Consiglio dei ministri ha deciso proclamazione stato assedio in tutte provincie Regno da mezzogiorno oggi. Relativo decreto sarà pubblicato subito. Frattanto SS.LL. usino immediatamente di tutti i mezzi eccezionali per mantenimento ordine pubblico e sicurezza proprietà e persone»10. In seguito a questi provvedimenti, furono dislocati reparti militari con mitragliatrici e cavalli di Frisia presso il Viminale, Montecitorio, il ministero della Guerra, il Quirinale e Villa Savoia, oltre che presso le principali strade di accesso alla città e presso i ponti.

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Pochi minuti dopo le 8, avendo appreso che da Pisa e da Cecina erano partiti per Roma 2.250 fascisti con vari treni, Pugliese ordinò l’immediata interruzione della ferrovia a Civitavecchia, e gli fu risposto che era stata già interrotta dal comandante del presidio per impedire il proseguimento di un treno con 800 fascisti che si erano rifiutati di scendere11. Alle 8.10 il ministero dell’Interno ordinava al generale Pugliese di occupare militarmente la sede dei fascisti nella capitale e di «arrestare tutti i capi fascisti, anche se appartenenti all’Esercito in posizione ausiliaria speciale»12. Alle 8.30 veniva affisso sui muri della capitale il manifesto del governo ai cittadini per dare notizia delle manifestazioni sediziose «che avvengono in alcune provincie d’Italia coordinate al fine di ostacolare il normale funzionamento dei poteri dello Stato e tali da gettare il Paese nel più grave turbamento. Il Governo fino a quando era possibile ha cercato tutte le vie di conciliazione nella speranza di ricondurre la concordia negli animi e di assicurare la tranquilla soluzione della crisi. Di fronte ai tentativi insurrezionali esso, dimissionario, ha il dovere di mantenere con tutti i mezzi e a qualunque costo l’ordine. E questo dovere compirà per intero a salvaguardia dei cittadini e delle libere istituzioni costituzionali»13. Alle 8.45 il ministero dell’Interno comunicò ai comandi militari che da quel momento era istituita la censura telegrafica e alle 9.10 fu comunicata la sospensione del servizio telefonico privato interurbano e internazionale14. Il rifiuto del re Verso le 9, Facta si recò a Villa Savoia con il testo del decreto che proclamava lo stato d’assedio: ma il sovrano non volle firmarlo. Non si sa nulla di preciso sui motivi che indussero il re a cambiare radicalmente parere sullo stato d’assedio fra le 5 e le 9 del mattino. Le versioni sul contenuto dei colloqui fra il re e il presidente del Consiglio sono molto contrastanti, e varie sono le ipotesi formulate da testimoni e da storici per spiegare i motivi che avrebbero indotto il re a mutare la sua decisione: la volontà di evitare una sanguinosa guerra civile perché gli era stato detto che alle porte della capitale vi era una massa fascista soverchiante rispetto alle forze armate preposte a difenderla; la sensazione di essere

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stato abbandonato da un governo dimissionario e lasciato solo a decidere nella gravità dell’ora; i consigli o le pressioni di esponenti nazionalisti e di personalità filofasciste degli ambienti monarchici e militari; le simpatie fasciste della regina madre; i dubbi, che sarebbero stati insinuati nella mente dubbiosa del re da Thaon di Revel, da Diaz e da altri generali, sull’effettiva compattezza dell’esercito nell’obbedienza; la preoccupazione di salvare il trono, temendo o sospettando un accordo fra i fascisti e il duca d’Aosta per sostituirlo; la speranza di poter ancora disinnescare la carica eversiva fascista con una combinazione governativa, che le molteplici trattative fra Mussolini e i vari esponenti liberali facevano apparire possibile e prossima; e non sarebbe mancato neppure l’intervento della massoneria, simpatizzante per il fascismo, sul re e sui generali ad essa iscritti15. Fra i membri del governo, ci fu chi sospettò che fosse stato lo stesso Facta a consigliare il re a non firmare, perché convinto di poter addivenire a un accordo con Mussolini per un suo terzo ministero con partecipazione fascista16. Ciascuno di questi motivi può aver influito sulla decisione del re. Nel 1941, parlando con il generale Paolo Puntoni, il re disse: «Nel 1922 ho dovuto chiamare al governo ‘questa gente’ perché tutti gli altri, chi in un modo chi in un altro, mi hanno abbandonato. Per 48 ore, io in persona ho dovuto dare ordini direttamente al questore e al comandante del corpo d’armata perché gli italiani non si ammazzassero fra loro»17. Nel settembre 1945, a un’esplicita domanda sulla «ragione più valida, più forte, più persuasiva che consigliò di non reagire alla marcia su Roma», domanda che gli era stata posta in un questionario da un gruppo di senatori monarchici antifascisti, Vittorio Emanuele aveva risposto: «Evitare spargimento di sangue, date le notizie delle provincie che erano già nelle mani dei fascisti e l’impossibilità di impedire l’occupazione di Roma. Nelle truppe e perfino nelle Guardie regie erano molti elementi filofascisti. Le autorità assicuravano che i fascisti armati giunti presso Roma erano più di centomila»18. Forse fu veramente il timore di provocare una guerra civile la ragione che indusse il re a rifiutare la firma al decreto di stato d’assedio. Lo stesso timore, del resto, era stato manifestato da un uomo politico di lunga esperienza come Giolitti, così come era condiviso da Facta e dagli altri aspiranti a succedergli, tutti contrari a reprimere con la forza il fascismo e tutti disposti a formare

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un governo con i fascisti. Inoltre, la delibera dello stato d’assedio era stata presa all’ultimo momento da un governo dimissionario che da tempo era stato dichiarato morto dal suo stesso presidente, il quale nei mesi precedenti aveva dato ampia prova di essere impotente a fronteggiare la violenza fascista; e che ancora giorni prima riteneva tramontata la marcia fascista sulla capitale; e che persino poche ore prima di deliberare lo stato d’assedio era andato tranquillamente a dormire come se nulla di grave stesse accadendo; e che alla fine, improvvisamente destato alla realtà, si era reso conto del pericolo e aveva deliberato le misure estreme per reprimere un movimento sedizioso capeggiato da un uomo politico, col quale, tuttavia, tutti i candidati a presiedere il nuovo governo stavano trattando. Eppure, sapevano tutti che Mussolini era il capo di bande armate, che da due anni spadroneggiavano nel paese proclamandosi milizia della nazione, anti-Stato, Stato in potenza, operando come un esercito di conquista, che assaltava e occupava città; distruggeva le organizzazioni avversarie; imponeva dimissioni a consigli comunali e provinciali democraticamente eletti; perseguitava e metteva al bando dalla loro città parlamentari e membri del governo; dileggiava e ricattava persino il capo dello Stato, ponendogli come alternativa o la consegna del potere al duce del partito armato o la fine violenta della monarchia. Perché – potrebbe aver pensato Vittorio Emanuele III fra le 5 e le 9 del 28 ottobre – se tutti trattavano per andare al governo con il duce del fascismo, proprio lui doveva assumersi la responsabilità di una decisione che avrebbe precluso la via a una soluzione legalitaria e pacifica, e forse provocato una guerra civile? Se a queste considerazioni si aggiungono i dubbi sul comportamento dell’esercito, che per quanto fedele al re, aveva tuttavia già mostrato, dagli alti gradi fino alla truppa, palesi simpatie per il fascismo; se si aggiunge la previsione che, reprimendo il fascismo, si sarebbero rianimati il socialismo e il comunismo: allora, sommando tutte queste considerazioni, è storicamente plausibile pensare che il re, rifiutandosi di firmare lo stato d’assedio, abbia voluto mantenere la porta aperta per una soluzione legalitaria. Ma anche un’altra potrebbe essere stata la motivazione del rifiuto. Trovandosi in uno dei momenti più agitati della sua vita di regnante, lasciato solo a dover prendere una così grave e fatale

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decisione, un uomo profondamente scettico, chiuso e diffidente per carattere e per educazione, qual era Vittorio Emanuele III, può aver ritenuto giusto restituire alla classe dirigente la responsabilità di fare il possibile per trovare una soluzione pacifica alla crisi, giungendo alla formazione di un governo con la partecipazione dei fascisti, che era poi la soluzione caldeggiata da tutta la classe dirigente, dagli alti gradi dell’esercito, dagli industriali, dall’opinione pubblica liberale, dai nazionalisti, dai fascisti «antimarcia», fino allo stesso Mussolini. Del resto, potrebbe aver pensato il re, Mussolini non aveva la pretesa di essere lui – a soli trentanove anni, deputato solo da un anno, senza nessuna esperienza benché minima di governo e di amministrazione della cosa pubblica, un ex socialista rivoluzionario ferocemente antimonarchico, e per giunta capo di bande armate – a ricevere dal re l’incarico di formare il governo. Dopo tutto, la crisi poteva comunque essere superata concedendo ai fascisti qualche ministero in un governo presieduto da qualcuno dei vecchi presidenti liberali fedeli alla monarchia, per incanalare il fascismo nello Stato liberale: con lo stato d’assedio, questo non sarebbe stato più possibile. Forse, alla conclusione di simili riflessioni, il re potrebbe aver pensato che rifiutare la firma allo stato d’assedio fosse una decisione saggia e realistica nell’interesse del paese, della monarchia e della sua dinastia. Roma inneggia al re Facta era «cereo in volto» quando tornò al Viminale e comunicò ai ministri il rifiuto del re19. L’inattesa notizia suscitò «lo stupore e le proteste dei ministri, che ritennero si dovesse insistere col re per la firma di quel decreto, costituente la sola misura adeguata alla gravità della situazione di un assalto armato allo Stato»20. Ma il re fu irremovibile nel suo rifiuto. Oltre tutto, la comunicazione dello stato d’assedio era stata già inviata ai prefetti e ai comandanti militari, e il proclama era già affisso nella capitale. Repentinamente, il governo dovette revocare tutti gli ordini relativi allo stato d’assedio che aveva inviato poche ore prima. Alle 12 il ministro Taddei comunicò ai prefetti e ai comandi di corpo d’armata e di divisione che le «disposizioni odierno telegramma n° 23859 circa stato d’assedio non debbono avere corso». Mezz’ora dopo, seguiva un

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secondo telegramma: «Ferme restando tutte le altre disposizioni contenute telegramma odierno avvertesi che non dovranno avere esecuzione quelle relative arresto dirigenti movimento»21. Alle 13 l’Agenzia Stefani fu autorizzata a diffondere la notizia della revoca dello stato d’assedio. Se il re aveva avuto qualche dubbio sulla validità del suo rifiuto, il modo in cui la notizia fu accolta nella capitale dovette confortarlo. La città, che fino alla mattina era stata sotto l’incubo di una guerra civile, semideserta, senza veicoli in circolazione, senza comunicazioni telefoniche e telegrafiche, con soldati armati di mitragliatrici e cavalli di Frisia che presidiavano strade, ponti ed edifici pubblici, improvvisamente, alla notizia della revoca dello stato d’assedio, si rianimò e manifestò il suo entusiasmo. I primi ad esultare, tornando spavaldi in circolazione, furono naturalmente i fascisti, che insieme ai nazionalisti andarono sotto il Quirinale ancora presidiato dalle truppe22. «Vi partecipai – ricordava un giovane giornalista fascista –; era un pomeriggio piovoso; eravamo appena qualche centinaio di giovani; Piazza del Quirinale era ben guardata con una prima fila di carabinieri schierata su via Ventiquattro Maggio; gli ordini erano rigorosi, i carabinieri vedendo avanzare la turba di giovani che li acclamavano fecero ginocchi a terra con i moschetti puntati; me ne trovai uno con la canna all’altezza della mia gola; ma l’incertezza fu breve; venne l’ordine di lasciarci passare fino alla Piazza dove lo schieramento era fitto e impenetrabile. Fu una dimostrazione di saluto e di entusiasmo»23. Ci furono altre manifestazioni e cortei, con comizi di fascisti e di nazionalisti inneggianti al re che aveva evitato la guerra civile. La sera, il sindaco, con tutta la giunta comunale, si recò al Quirinale, mentre alcune migliaia di cittadini erano nella piazza in attesa di vedere il re al balcone. Ma il sindaco, uscendo dal Quirinale, disse che il re ringraziava per la magnifica dimostrazione e invitò la folla a sciogliersi al grido di «Viva l’Italia! Viva il re!». Si formò allora un corteo che dal colle si recò all’Altare della Patria, applaudendo ai reparti militari dislocati lungo la strada col grido «Evviva l’Esercito!». Alcuni fascisti fecero dimostrazione ostile presso la sede del giornale «Il Mondo» tentando di invaderla, ma furono bloccati dalla guardia regia. Quel giorno «Il Popolo d’Italia» uscì con titoli e sottotitoli in prima pagina: La storia d’Italia a una svolta decisiva! La mobilitazio-

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ne dei fasci è già avvenuta in Toscana. Tutte le caserme di Siena occupate dai fascisti. I grigio-verde fraternizzano con le «Camicie Nere». E l’insurrezione continua Intanto, i fascisti proseguivano la marcia di conquista senza incontrare quasi nessun ostacolo da parte delle autorità politiche e militari. Inoltre, essi operarono in modo da turbare il meno possibile l’ordine pubblico ed evitando di gettare nel panico la popolazione, che in varie città neppure si accorse di quello che stava avvenendo. Il codice di comportamento degli insorti prevedeva: «Rispetto sommo alle chiese, alle caserme, ed alle truppe eguale sentimento fin dove possibile», come ricordava il capitano Ulisse Igliori, comandante della colonna che doveva marciare su Roma da Monterotondo24. Inoltre, tutte le azioni squadriste si svolsero al grido di «viva il re, viva l’esercito!». Dal moto insurrezionale furono investite l’Italia settentrionale e l’Italia centrale, mentre nell’Italia meridionale ci furono solo concentramenti di squadristi senza occupazioni, tranne che a Foggia. La dinamica dell’insurrezione, fra il 27 e il 30 ottobre, ebbe caratteristiche diverse secondo le situazioni e le circostanze, ma complessivamente seguì la pratica ormai consolidata delle precedenti offensive squadriste, solo che ora furono condotte contemporaneamente in gran parte delle città dove gli squadristi avevano già un dominio locale o contro le città ancora amministrate dai socialisti o dove le offensive squadriste non avevano avuto successo. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, prima di procedere all’occupazione degli uffici governativi, gli insorti proposero una trattativa con l’autorità politica o militare per procedere a un’occupazione pacifica, sostenendo che si trattava di azione insurrezionale non contro lo Stato monarchico, ma contro una classe politica e contro un governo di corrotti, di inetti e di imbelli. Tuttavia, non mancarono scontri e incidenti, con alcuni morti e feriti sia da parte fascista sia da parte della forza pubblica, ma nella maggior parte delle situazioni o i fascisti, di fronte alla ferma resistenza incontrata, rinunciarono all’attacco oppure la forza pubblica fu costretta a cedere perché esigua, quando non cedette manifestando solidarietà con i sediziosi25.

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Prefetto di Mantova, 28 ottobre, ore 11.10 Stanotte ore 3.30 improvvisamente masse più migliaia fascisti armati anche di mitragliatrici occuparono questo capoluogo bloccando caserme Comando presidio Prefettura, davanti la quale avvenne con Guardia Regia scambio fucilate con due guardie regie ed otto fascisti feriti non gravemente. Attesa questa preponderanza forze fasciste, ulteriore resistenza avrebbe determinato inutile spargimento di sangue e funeste conseguenze nella città inevitabile quindi trattative in seguito alle quali On. Buttafochi rimane meco Prefettura. Prefetto di Padova, 28 ottobre, ore 12 Ore due scorsa notte con treno merci giunti qui circa mille fascisti da Vicenza, che uniti forze locali Fascio combattimento, vincendo resistenza opposta da personale polizia preposto vigilanza occuparono accessi uffici centrali postelegrafonici lasciando peraltro che servizio continuasse regolarmente. Successivamente, mentre gruppo oltre quattrocento stazionava adiacenze Prefettura, presentossi a me Commissione composta Generale Divisione posizione ausiliaria Bertolini Francesco, capo direttorio locale Sezione; Comm. Augusto Calore, dirigente Associazione Agraria e direttore giornale «Provincia» nei cui uffici ha preso stanza Comando squadre fasciste operanti e Avv. Alessandro Nova, chiedendo fossero ceduti poteri polizia autorità militare, ciò che a norma istruzioni Ministeriali avevo già fatto appena iniziatosi movimento. Paghi di tale assicurazione in numero di oltre un migliaio recaronsi diretti dalla Commissione predetta Comando Divisione Militare dove conferirono con Generale Boriani che ha assunto direzione servizi tutela ordine pubblico. Finora nessun incidente grave si è verificato, fatta eccezione esplosione avvenuta presso caffè Pedrocchi producendo lesioni non gravi a tre fascisti. Comandante Divisione disposto ritorno loro sedi Carabinieri che erano stati concentrati dalla Provincia, facendo integrare vigilanza pubblici uffici con picchetti venti militari ciascuno. Fascisti adunati qui si calcolano circa quattromila e movimento insieme Direttorio locale è diretto da Sciaccaluga qui venuto da Venezia e Favaron Mario Console Sezione fascista. Prefetto di Alessandria, 28 ottobre, ore 13 A completamento mie comunicazioni radiotelegrafiche odierne, ieri seguito istruzioni ministeriali conferii con capi fascisti e ebbi assi-

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curazione formale che nessun movimento insurrezionale preparavasi per Alessandria, ma che a Milano erano riuniti deputati e consoli fascisti. On. Torre Edoardo ritornò nella notte da Milano con ordine segreti ed immediatamente ordinò segreta mobilitazione fascisti. Ore sei numerosi fascisti, dopo aver prima invasa caserma 38° Fanteria malmenato ufficiale picchetto e piantone di Guardia si impossessarono circa duecento fucili, dieci mitragliatrici con numerose munizioni. Così armati invadevano Prefettura e Questura che era vigilata da dieci carabinieri che vennero disarmati: quindi Uffici dei Telefoni, Poste e Telegrafi. Questore subito informato recavasi caserma carabinieri e riuniti carabinieri disponibili circa trenta uomini comandati da Tenente Colonnello Divisione Interna recavasi Prefettura per liberarla dai fascisti ma lungo strada giungeva ordine Colonnello Comandante Legione concentrare Carabinieri Comando Divisione Militare ove maggiore Generale Breganze prima impiegare truppa e Carabinieri seguito esplicita richiesta Questore per sgombero Prefettura e Questura sotto sua direzione, volle conferire meco che ero sequestrato in Prefettura. Intanto visto aggravarsi situazione per manifesta insurrezione contro poteri Stato, giusta istruzioni alle ore 9 cedevo poteri civili Autorità Militare. Conferii subito nel mio Gabinetto con Generale che dichiarò non avere forze sufficienti per affrontare conflitto con fascisti avendo a sua disposizione duecento carabinieri, uno o due compagnie di appena cento uomini e mille reclute che non hanno prestato giuramento. Insistetti perché ad ogni costo fossero sgombrati uffici Prefettura subito e Questura nonché uffici telegrafici e telefonici e generale assicurò vi avrebbe provveduto dopo esperite pratiche conciliative con On. Torre e dirigenti fascisti. Fino a questo momento fascisti non hanno sgomberato Prefettura e Questura ma hanno lasciato libero ingresso impiegati. Uffici sono stati anche evacuati da fascisti e funzionano regolarmente colle limitazioni ordinate dal Ministero competente. Finora nessun conflitto e nessun incidente fra fascisti e forza pubblica. Prefetto di Bari, 28 ottobre, ore 12.30 Nel dubbio che a codesto Ministero non siano giunte comunicazioni da Foggia causa interruzione telegrafica e telefonica informo che notizie qui giunte fascisti avrebbero occupato Uffici Pubblici compresa Prefettura e stazione ferroviaria ove Guardie e Carabinieri colà di transito vengono fermati, disarmati e costretti indossare camicia nera.

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Generale comandante del Corpo d’armata, Bologna, 28 ottobre DIVISIONE DI BOLOGNA Il Prefetto di Bologna sino dal ventisei comunicava all’autorità militare quali sarebbero stati gli obiettitivi dell’occupazione fascista et cioè: Prefettura-Poste et telegrafi-Telefoni-Banca d’Italia-Tesoreria. Con la cessione dei poteri avvenuta alle ore quattordici di oggi l’autorità militare ha, con le poche forze disponibili, adempiuto ai suoi compiti superando non lievi difficoltà. Episodi notevoli ed impreveduti della giornata sono stati quelli della formale occupazione della stazione ferroviaria; con disarmo di qualche Regia Guardia; dei Magazzini di Borgo Panigale contenenti materiali a disposizione dell’Associazione tubercolotici di guerra; con disarmo di pochi militari di guardia. Al carcere civile ed alla Direzione centrale automobilistica i fascisti poterono impossessarsi di quattro mitragliatrici e per tali fatti sono già in corso le relative inchieste disciplinari a carico dei responsabili. I fascisti riuscirono ad occupare il Campo d’Aviazione. Sono stati già emanati gli ordini perché all’alba il campo venga sgombrato. Da Rovigo sono state segnalate sottrazioni di armi al locale presidio ed anche per tale fatto est in corso la relativa inchiesta. A Ferrara fascisti occuparono Poste-Telegrafi-Telefoni-Stazione et Tribunale. Da varie stazioni di Carabinieri Reali viene segnalato disarmo dei militari. [...] A Venezia i poteri sono stati passati all’autorità militare alle ore quattordici, ma la città si mantiene calma. DIVISIONE DI RAVENNA L’autorità politica della provincia di Ravenna ha ceduto il potere alla autorità militare senza che sia avvenuto nulla di notevole. A Forlì sei ufficiali tra cui un tenente dei Carabinieri, furono dai fascisti, nella notte dal ventisette al ventotto, messi nella impossibilità di difendersi e sequestrati per breve tempo. Sono stati segnalati forti concentramenti fascisti nei maggiori centri urbani senza però nulla di grave. DIVISIONE DI TREVISO Sino da questa mattina è stata segnalata la occupazione fascista degli Uffici Telegrafici et Telefonici et temporanea occupazione Pre-

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fettura. Prefetto di Treviso ha ceduto poteri alla autorità militare. Nulla di notevole è stato fino ad ora segnalato. Ho questa sera conferito col Prefetto e mi ha comunicato possibilità prossima soluzione attuale crisi. Ho disposto che date esigue forze disponibili mantengasi ad ogni costo intangibilità centri vitali sopra indicati e caserme e, con disponibile riserva, essere pronti eventuali atti aggressivi. Una marcia resistibilissima Nelle giustificazioni addotte da Vittorio Emanuele per il rifiuto dello stato d’assedio vi erano gravi inesattezze, non si sa quanto dovute a convinzione o a convenienza: l’aver dovuto dare personalmente ordini al comandante del corpo d’armata, l’impossibilità di impedire l’occupazione di Roma, la presenza di oltre 100.000 fascisti alle porte della capitale. In verità, non risulta alcun contatto diretto fra il re e il generale Pugliese, comandante ad interim del corpo d’armata di Roma; l’eventuale occupazione della capitale fu resa impossibile dalla mattina del 28 ottobre e lo rimase fino alla sera del 29, grazie alle misure adottate dal generale con l’interruzione delle linee ferroviarie nelle stazioni di Civitavecchia, Orte, Avezzano e Segni, che bloccarono i treni con i fascisti, soprattutto toscani, umbri, marchigiani e abruzzesi, costringendoli ad accamparsi a un’ottantina di chilometri da Roma. Inoltre, secondo i calcoli di Pugliese, i fascisti giunti nei dintorni della capitale la mattina del 28 ottobre non erano più di 26.000, secondo altre stime il loro numero oscillava fra 5.000 e 14.000. Quale che fosse il loro numero, la forza armata a disposizione del comandante della Divisione per la difesa della capitale ammontava complessivamente a circa 28.000 uomini fra soldati, carabinieri, guardie di finanza e guardie regie; disponeva di 60 mitragliatrici, 26 cannoni, 15 autoblindate, e avrebbe quindi potuto sbaragliare le schiere fasciste se avessero veramente tentato l’assalto alla capitale: «sarebbero bastati pochi colpi di cannone a salve, per disperdere e disarmare quelle torme», ha ricordato il generale Pugliese rievocando il suo operato nei giorni della «marcia su Roma»26. A Roma, l’autorità militare aveva già assunto i pieni poteri e provveduto a bloccare le strade di accesso alla capitale e i ponti

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principali. In aggiunta alle forze armate regolari, erano pronte a difendere la capitale e la monarchia le milizie in camicia azzurra dell’Associazione nazionalista italiana27. Il capo dei «Sempre pronti», Raffaele Paolucci, ha dichiarato: «noi dovevamo schierarci a difesa del Capo dello Stato. Se questi avesse accettato di chiamare Mussolini al potere noi avremmo seguito; se avesse dichiarato lo stato d’assedio noi ci saremmo uniti alla forza pubblica». Paolucci fece adunare i circa 4.000 «Sempre pronti» della capitale e fece arrivare «dalla campagna romana i reparti della cavalleria azzurra dell’agro» e ordinò «che le legioni più vicine alla capitale raggiungessero Roma di urgenza con qualunque mezzo. [...] I miei uomini erano tutti perfettamente equipaggiati, e questa volta, armati con fucili fornitimi dal comando di Corpo d’Armata di Roma»28. Impegnati a favorire un nuovo governo presieduto da Salandra, i dirigenti nazionalisti intendevano non soltanto difendere la monarchia, ma ostacolare una conquista integrale del potere da parte dei fascisti. «I nazionalisti – ha ricordato Soleri – avevano chiesto di partecipare in camicia azzurra alla difesa di Roma. I reticolati dinanzi al Quirinale erano stati posti proprio da loro, ed essi intendevano di presidiarli. Molti ex combattenti si erano presentati al ministro della Guerra per mettersi a sua disposizione, e gli esponenti dei mutilati – i Delcroix, gli Host-Venturi, i Romano – avevano chiesto di comandare i reparti dell’esercito che avrebbero dovuto fronteggiare i fascisti»29. Gli squadristi accampati nei dintorni di Roma erano male equipaggiati, poco armati, appiedati, sprovvisti di alloggio sotto una pioggia torrenziale, «sporchi di fango e di polvere, affamati e assetati», come li descriveva il generale Sante Ceccherini, associato a Perrone Compagni nel comando della colonna stanziata a Santa Marinella30. A Civitavecchia, ricordava uno squadrista toscano, «la stazione e le adiacenze sono occupate dalle truppe regolari che hanno un ordine categorico: resistere. Il treno non può proseguire; le squadre del Genio hanno tagliati i binari che giacciono ammassati a cataste, parallelamente alla via. [...] I comandanti delle unità sono a colloquio con le autorità militari. Colloquio cortese, ma freddo, di drammatica intensità. Da una parte una volontà ferma, che nessuna forza avrebbe potuto rimuovere; dall’altra dei soldati italiani con un ordine da far rispettare. Il treno non avrebbe proseguito: erano stati tagliati i

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binari e massicce locomotive poste traverso la via, per impedire i possibili allacciamenti; mitragliatrici piazzate in posizione e moschetti di carabinieri pronti... L’arma della fedeltà, magari con la morte nell’anima, avrebbe mantenuto la consegna». I fascisti furono lasciati proseguire a piedi per Santa Marinella lungo la via Aurelia: «Piove: scroscia l’acqua, di traverso, investe in pieno i volti che appena si corrugano, penetra fra le pieghe delle mantelline, schiocca sulle pozzanghere, sollevando una spruzzaglia fangosa». A Santa Marinella, gli squadristi stanchi e assetati non trovarono acqua potabile perché erano state bloccate le condotte31. Non erano molto diverse le condizioni delle colonne radunate a Monterotondo e a Tivoli32. La mattina del 28 ottobre non avvenne lo «scatto sincrono» delle tre colonne per dare l’assalto alla capitale, secondo il piano deciso a Napoli il 24 ottobre33. Fino alle prime ore del pomeriggio del 29, le colonne squadriste accampate nei dintorni della capitale ignoravano ancora quel che avrebbero dovuto fare. Le notizie che ricevevano dalla capitale erano confuse e contraddittorie, erano quasi inesistenti gli ordini del quadrumvirato per mancanza di collegamento, e le condizioni in cui si trovavano le legioni, mentre pioveva ininterrottamente da tre giorni, erano peggiorate, come riferiva Perrone Compagni nel rapporto inviato alle 21 del 29 a Perugia tramite uno squadrista in motocicletta34. A tutt’ora sono presenti in Santa Marinella n. 6143 camicie nere così dislocate: in Santa Marinella 2413; parte della legione di Pisa; manipoli di Livorno e Carrara. A Civitavecchia (stazione) n. 3730. Legione di Grosseto e parte della legione di Lucca. La forza presente è divisa a cagione dell’orribile tempo e della impossibilità di ricoverare persone a Santa Marinella. Deficienze: Mancano acqua, viveri e danaro. Informazioni: La truppa – regio esercito – ha tolta parte della ferrovia fra Civitavecchia e Santa Marinella. Alcuni ferrovieri mi informano che tale atto è stato compiuto in altre località della linea Pisa-Civitavecchia. Dalle ore 16 ad ora non sono passati che due treni completamente vuoti sul percorso RomaSanta Marinella. Collegamento: Impossibile il collegamento con codesto superio-

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re Comando. Da Perugia a qua, con macchina Fiat 510 abbiamo impiegato circa 9 ore. Prego disporre collegamento immediato con Roma, con la quale può essermi facile comunicare. Durante i giorni delle operazioni, ricordava Igliori, «mancarono a Monterotondo, a Tivoli e credo anche a Santa Marinella, gli ordini di Perugia, sede del Quadrumvirato»35. Igliori aveva criticato la scelta di Perugia come sede del comando generale fascista, prevedendo che la «possibilità di comunicazione fra le colonne operanti e Perugia sarebbe stata estremamente difficile, essendo quella città tagliata fuori dalle grandi linee ferroviarie, scarse e lunghissime le vie ordinarie, e non potendosi fare alcun assegnamento sul telegrafo e sul telefono». Igliori avrebbe voluto spostare il comando a Orte, non lontano da Tivoli e con possibilità di comunicazione con Santa Marinella. «La cosa fu trovata giusta ma non si poté attuare perché mancava la possibilità in quel momento di chiedere il parere del Duce». Lo stesso De Bono, valutando da generale la situazione, paventò un insuccesso: «Se devo parlare come generale devo confessare che i collegamenti non hanno certo funzionato alla perfezione. So che il concentramento è compiuto; ma non ho nessun elemento che mi conforti circa l’opportunità e il momento di mettere in marcia le colonne. Va bene fidarsi della iniziativa dei comandanti; ma in questo caso la iniziativa potrebbe portare slegamento nell’azione e quindi anche possibile insuccesso»36. Quadrumvirato in confusione Fra gli stessi quadrumviri mancò concordia e coordinamento. Intanto, giunsero a Perugia in tempi differenti: Balbo e De Bono arrivarono la notte del 26 e alloggiarono all’Hotel Brufani, scelto come sede del quartier generale insurrezionale, di fronte al palazzo della prefettura; Bianchi arrivò alle 10 del 27 partendo da Roma senza saper nulla di De Vecchi37. Quando, poco dopo la mezzanotte, fu occupata la prefettura, Balbo era dovuto correre in auto a Firenze per controllare il moto insurrezionale scoppiato in anticipo, riuscendo a impedire un assalto alla prefettura, dove era il generale Diaz, ospite del prefetto, e ritornò a Perugia la mattina

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del 2838. E solo quella mattina arrivarono a Perugia anche De Vecchi e Grandi39. Ma appena furono insieme, sorsero contrasti fra De Vecchi e gli altri quadrumviri sostenitori dell’insurrezione. «Al Comando – annotava Balbo – c’è molto nervosismo. Sappiamo che non tutti i capi fascisti erano fino a ieri decisi per l’azione. Qualcuno la giudicava prematura, qualche altro pensava che fosse preferibile una soluzione parlamentare»40. Contrastanti sono anche le versioni da essi date in diari e memorie su quel che dissero e fecero a Perugia41. Ma le versioni concordano nel rievocare la confusione regnante nel comando generale. «La situazione era quanto mai confusa e al Comando le idee erano poco chiare e discordi», ha raccontato De Vecchi42. De Bono annotava il 28 ottobre nel diario di campagna tutto quel che non funzionava nel comando dell’insurrezione43. De Vecchi ha fatto qui un’apparizione stamane e poi è ritornato a Roma. È bene che lui sia là. Non si capisce ancora precisamente come si svolgeranno le cose. Io non mi intrigo di politica, se non in quanto voglio il completo nostro trionfo, con Mussolini al potere. Sento vociferare di accordi con Salandra: niente, niente. Michelino, che ha un profondo senso politico, è perfettamente del mio parere. Vaghissime notizie da fuori; si sa di conflitti a Cremona e Bologna. Come mi immaginavo il Quadrumvirato, e quindi il Comando supremo, è quasi isolato dalle azioni che si svolgono nelle provincie. Del resto noi non vi potremmo praticamente intervenire. Con le colonne marcianti su Roma siamo abbastanza in contatto mediante automobili e motociclette. La radunata procede bene. È segnalata una interruzione ferroviaria a sud di Orte; ma è presto riparata. Zamboni mi notifica da Foligno di aver radunato circa tremila uomini, dei quali però poco più di trecento armati. Bisogna andare a caccia di fucili. Bianchi prova invano a telefonare a Milano e a Roma. Dall’ufficio dei telegrafi ci vengono comunicati tutti i telegrammi e verso le 10 ne arriva uno poco allegro: È proclamato lo stato d’assedio e vi è l’ordine di arrestare i capi del movimento ovunque si trovino e qualunque siano.

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Balbo non è tornato; ma giunge notizia che i concentramenti di Santa Marinella e Monte Rotondo si completano. A Spoleto s’è fatto un colpo di mano su una caserma asportandone tremila fucili. Dopo le 10 del 28 ottobre, De Vecchi, con Grandi, ripartì in auto per Roma, sotto la pioggia, dopo una telefonata del generale Cittadini che gli chiedeva a nome del re di rientrare subito nella capitale, ma senza dirne il motivo44. Fu probabilmente prima della sua partenza che i quadrumviri firmarono, in quanto membri del «quadrumvirato supremo fascista investito di pieni poteri politici e militari», una dichiarazione, con la quale si impegnavano a non accettare altra conclusione dell’insurrezione che la formazione di un governo presieduto da Mussolini: «1. Data l’avvenuta mobilitazione delle forze fasciste, la sola soluzione politica accettabile è un ministero MUSSOLINI; 2. Nel caso la soluzione politica suaccennata, dovesse incontrare delle difficoltà, si procederà nelle operazioni militari necessarie per il raggiungimento della vittoria; 3. Quale che sia la forma e il metodo della soluzione vittoriosa, la MILIZIA FASCISTA dovrà attraversare Roma; 4. Per l’indicazione e l’assegnazione dei portafogli si delegano con pieno mandato di fiducia il Segretario generale del Partito ed il Presidente del Gruppo parlamentare Fascista»45. Balbo pubblicò nel libro del suo diario una foto della dichiarazione, senza precisare quando fu scritta e firmata, e ne attribuì l’idea a De Bono, il quale però non ne parlava nel suo diario di campagna46. Nessuna menzione della dichiarazione da lui sottoscritta fu fatta da De Vecchi nelle memorie, anche se fu probabilmente la sua preferenza per un governo Salandra a indurre gli altri a vincolarlo, con un impegno scritto, alla richiesta di un governo Mussolini. Ma, nonostante l’impegno sottoscritto, appena giunto a Roma De Vecchi riprese a manovrare con Grandi per un governo Salandra con partecipazione fascista47. «Fece fessi tutti» Alle 11 del 28 ottobre Facta tornò al Quirinale per rassegnare le dimissioni del governo. Alle 13.30 il re iniziò le consultazioni col presidente della Camera. Alle 14.30 ricevette Salandra. Anche

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Giolitti, che non era a Roma, fu sollecitato da Facta a partecipare alle consultazioni: l’ottantenne parlamentare rispose d’essere raffreddato, ma si sarebbe comunque mosso se invitato dal re; tuttavia, dopo aver fatto annunciare alle 12.40 la sua partenza da Torino, alle 15 fece sapere che il prefetto lo aveva avvertito che era impossibile per lui recarsi a Roma48. Alle 16 il re ricevette De Vecchi e gli disse di aver rifiutato di firmare lo stato d’assedio «per non buttare gli italiani nella guerra civile», e che si orientava verso l’incarico a Salandra, anche se avrebbe preferito Giolitti. De Vecchi rispose che Mussolini si era dichiarato favorevole a un governo presieduto da Salandra, ma si riservava di chiedergli conferma. Alle 18 Salandra ebbe l’incarico. Le manovre per convincere Mussolini ad accettare un governo con Salandra erano iniziate dalla mattina del 28, quando ancora non si sapeva che il re avrebbe rifiutato di firmare lo stato d’assedio. Federzoni gli aveva telefonato verso le 8 per sollecitarlo ad andare immediatamente a Roma, dicendogli che c’era lo stato d’assedio e il re minacciava di andarsene se non gli si lasciava libertà di agire senza la pressione di un’insurrezione. Mussolini rispose che non poteva lasciare Milano perché l’azione era già in corso; che il movimento era «serio in tutta Italia» e che egli avrebbe accettato «quelle soluzioni che il comando supremo deciderà», ma aggiunse che la crisi doveva avere come soluzione «un governo di fascisti»49. Alla telefonata assistette Cesare Rossi, al quale Mussolini, prima di mettersi la cuffia, aveva detto: «C’è qualche manovra in vista», e quando finì la conversazione, commentò: «Te lo dicevo io?! Manovra preveduta»50. Alle 9.45, Federzoni telefonò di nuovo per dire a Mussolini che avrebbe ricevuto «prestissimo l’invito da parte del Re per venire a Roma, capisci bene!», ma ottenne solo un generico assenso. Alle 11 Federzoni telefonò a Lusignoli per far sapere a Mussolini che doveva andare subito a Roma perché c’era «ancora la possibilità di risolvere la cosa nella maniera come egli desidera, ma senza creare perturbazioni»; Mussolini gli fece dire che sarebbe andato a Roma in aeroplano51. Intanto, si moltiplicarono a Milano le pressioni per indurlo ad accettare Salandra. Intervenne personalmente il deputato nazionalista Alfredo Rocco, che lo andò a trovare a «Il Popolo d’Italia» con un gruppo di importanti esponenti del mondo politico ed economico, per dirgli che a Roma prevaleva l’idea di un ministero

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Salandra o Orlando con lui come ministro dell’Interno. Mussolini replicò che non era più tempo per un governo Salandra o Orlando, ma intendeva formare un suo ministero, e diede a Rocco la lista delle persone che intendeva chiamare a farne parte52. Alle 16, Lusignoli telefonò a Facta per riferirgli una telefonata di Mussolini: «non viene a Roma se non ha espressamente l’incarico di formare lui il Ministero. Di più mi ha detto che adesso mi manda la lista dei ministri dal deputato Rocco, lista che ti comunicherò»53. Nello stesso tempo, Lusignoli scriveva a Giolitti per informarlo che le cose stavano precipitando «in tutta Italia. Qui a Milano con grandi sforzi tento di evitare eccessi e spargimenti di sangue. Ma la situazione si è improvvisamente aggravata dopo che Mussolini ha saputo che l’incarico è stato dato a Salandra. Il Mussolini non vuole assolutamente che Salandra faccia il suo Gabinetto. Egli vuole farlo personalmente, ed è già pronta una lista di Ministri e Sottosegretari», tra i quali lo stesso Lusignoli, che però aveva già detto a Mussolini di non poter accettare. A voce, poi, Mussolini aveva confermato a Lusignoli «che se qualora non fosse possibile una soluzione mussoliniana, non vi è altra soluzione che quella che fa capo a V.E. Ora, io ho la sicura persuasione che ogni minuto di ritardo produca danni che possono essere irreparabili». Lusignoli pertanto sollecitava Giolitti a non sospendere la partenza, come gli era stato telegrafato, ma a recarsi al più presto a Roma54. Nonostante l’allusione a un governo con Giolitti come ripiego, Mussolini mantenne ferma la sua richiesta, che confermò al generale Cittadini, quando gli telefonò alle 17.10 per pregarlo di aderire, «attraverso la garanzia di De Vecchi», all’invito del re a recarsi a Roma: De Vecchi faceva dire a Mussolini che per ordine del re «e in pieno accordo con colleghi comando generale prego di venire immediatamente a Roma con ogni mezzo». Mussolini replicò secco: «Dica a De Vecchi che io non posso muovermi da Milano se non ho l’incarico ufficioso di comporre il Governo». Circa un’ora dopo, un incaricato di De Vecchi telefonava a De Bono per fargli sapere che le notizie a Roma erano «buone, molto buone, la soluzione della crisi sarà indubbiamente orientata nel senso desiderato» e perciò raccomandava «la massima calma. L’ordine di stato d’assedio non esiste ed è stato proprio S.M. a non volerlo, quindi le cose non potevano andare in modo più soddisfacente»55.

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L’allusione di De Vecchi a una soluzione che si stava orientando nel senso desiderato, non si riferiva certamente a un incarico a Mussolini, perché nella notte del 28 il quadrumviro, con Grandi e Ciano, continuò a manovrare in favore di Salandra. A sera tarda «Il Giornale d’Italia» pubblicò un’edizione straordinaria per annunciare la costituzione di un governo Salandra-Mussolini con quattro portafogli ai fascisti: forse era un’altra manovra per fare pressione su Mussolini. A mezzanotte, Salandra ricevette De Vecchi, Grandi e Ciano ai quali chiese di intervenire su Mussolini per fargli avere una risposta definitiva per la mattina successiva56. Fra la mezzanotte del 28 e le prime ore del 29 De Vecchi, Grandi e Ciano fecero un ultimo tentativo per avere il consenso di Mussolini a un governo Salandra, convincendo altri deputati e dirigenti fascisti a sostenere la loro richiesta. Riuscirono a mettersi in contatto telefonico con Mussolini tramite il Viminale, ma la risposta fu sarcastica, come ha ricordato uno dei presenti, Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del PNF: «Non valeva la pena – disse Mussolini – di mobilitare l’esercito fascista, di fare una rivoluzione, di avere dei morti, per una soluzione Salandra-Mussolini. Non accetto». E Marinelli aggiungeva: «Si sentì il colpo secco del ricevitore battere forte sull’apparecchio»57. La stessa secca risposta diede a Federzoni che all’1.25 del 29 fece un ultimo tentativo per convincerlo ad accettare il governo Salandra: «Non si tratta di mutilare la vittoria – disse il nazionalista a Mussolini – ma di affermarci con senso di responsabilità, di equilibrio e di forza...; questo anche a nome di De Vecchi, Ciano ed altri, e anche noi che siamo qui presenti». E Mussolini: «io non accetto assolutissimamente questa soluzione [...] non ho intenzione di andare al governo con Salandra. [...] Piuttosto che andare con un Ministero Salandra, avrei preferito molto volentieri un Gabinetto Giolitti»58. E per troncare ogni altro tentativo manovriero per sottrargli il potere che vedeva ormai a portata di mano, la mattina del 29 ottobre «Il Popolo d’Italia» usciva con un conciso editoriale di Mussolini, che annunciava la vittoria ormai prossima della rivoluzione fascista59. La situazione è questa: gran parte dell’Italia settentrionale è in pieno potere dei fascisti. Tutta l’Italia centrale, Toscana, Umbria, Marche, Alto Lazio, è tutta occupata dalle «Camicie Nere». Dove non sono state prese d’assalto le questure e le prefetture, i fascisti

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hanno occupato stazioni e poste, cioè i gangli nervosi della vita della nazione. L’autorità politica – un poco sorpresa e molto sgomentata – non è stata capace di fronteggiare il movimento, perché un movimento di questo genere non si contiene e meno ancora si schiaccia. La vittoria si delinea vastissima, tra il consenso quasi unanime della nazione. Ma la vittoria non può essere mutilata da combinazione dell’ultima ora. Per arrivare a una transazione Salandra non valeva la pena di mobilitare. Il Governo dev’essere nettamente fascista. Il fascismo non abuserà della vittoria ma intende che non venga diminuita – Ciò sia ben chiaro a tutti. [...] Ogni altra soluzione è da respingersi. [...] L’incoscienza di certi politici di Roma oscilla tra il grottesco e la fatalità. Si decidano! Il fascismo vuole il potere e lo avrà. Mussolini era deciso a giocare il tutto per tutto, stroncando definitivamente ogni manovra dei fascisti «antimarcia», dei nazionalisti, dei conservatori per costringerlo ad accettare la soluzione Salandra, caldeggiata dal re, dagli alti gradi dell’esercito, da esponenti autorevoli del mondo politico, economico e industriale. Dopo essere riuscito a eliminare dalla strada verso il potere Giolitti, Orlando, Facta, Nitti, e anche D’Annunzio, era impossibile per Mussolini lasciarsi irretire da Salandra, con una manovra ordita da uno dei quadrumviri della «marcia su Roma» e dal capo di stato maggiore del comando generale dell’insurrezione fascista. Quando De Vecchi, Grandi e Ciano fecero un ultimo tentativo, inviandogli un telegramma per dire che il governo Salandra era voluto dal re, la risposta di Mussolini «arrivò subito, secca, concisa: ‘Fate pure. Io non parteciperò mai a un simile Ministero. Mussolini’». De Vecchi riferì la risposta ultimativa di Mussolini a Salandra, il quale disse: «E se io formassi un Ministero senza i Fascisti?», ma il quadrumviro replicò: «Mi avrebbe contro». De Vecchi fu poi ricevuto dal re, che gli disse che i fascisti rifiutando il governo Salandra stavano «commettendo un gravissimo errore», e il quadrumviro rispose che continuava a pensarla come Salandra ma «Mussolini, però, rifiuta e ci dice che se vogliamo possiamo entrare senza di lui. In tali condizioni, però, è come non entrare. In questo momento, quindi, non c’è altra soluzione che una Presidenza Mussolini»60. La domenica 29 ottobre, alle 9, Salandra andò al Quirinale per rimettere l’incarico. A mezzogiorno, il direttore del «Corriere della

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Sera» raccontava in una conversazione telefonica di aver parlato con Mussolini, assolutamente deciso «a non entrare in un ministero Salandra, vuol farlo lui e non viene a Roma fino a che non gli sarà dato l’incarico». Stando così le cose, Albertini riteneva che sarebbe stato bene affrettare il conferimento dell’incarico a Mussolini, consolandosi al pensiero che, «una volta venuto a Roma per formare il ministero, si potrà influire su di lui perché faccia un gabinetto migliore di quello che aveva già annunciato ieri sera. [...] Una volta che sarà venuto a Roma, si potrà influir molto di più»61. Quest’ultima convinzione era probabilmente l’eco di una presunzione corale di tutta la classe dirigente liberale, costretta a dover accettare un governo presieduto da Mussolini, che essa non aveva auspicato, non aveva voluto e aveva fatto il possibile per evitare. Nella tarda mattinata, Polverelli e Grandi telefonarono a Mussolini dal Quirinale, per comunicargli che il re aveva deciso di affidargli l’incarico di costituire il nuovo Gabinetto, perciò doveva recarsi al più presto a Roma. Mussolini domandò se la notizia era autentica, ma non si accontentò della loro conferma: «Prima di partire desidero avere un telegramma di Cittadini in cui mi sia confermata la comunicazione che mi hai dato. Appena ricevuto il telegramma partirò subito con qualunque mezzo; anche in aeroplano». Polverelli lo assicurò che la notizia era «assolutamente ufficiale» perché il re aveva chiamato De Vecchi per dirglielo e De Vecchi aveva incaricato Polverelli di telefonare a Mussolini. Ma questi, parendogli forse sospetto che non gli avesse telefonato direttamente De Vecchi, ribadì: «Va bene, va bene. Ma io ho bisogno assoluto di avere un telegramma di Cittadini. Appena avrò il telegramma parto subito in aeroplano»62. Il telegramma arrivò poco dopo: «Sua Maestà il Re la prega di recarsi subito a Roma desiderando offrirle l’incarico di formare il Ministero». Ma Mussolini non partì subito in aeroplano. Non partì subito neanche in treno, rifiutando un treno speciale predisposto da Lusignoli che partiva alle 15. E prese ancora tempo per varare un’edizione straordinaria del suo giornale con l’annuncio della vittoria63. Preferì poi viaggiare in vagone letto, con un treno normale, il direttissimo 17, che partiva dalla stazione centrale di Milano alle 20.30 per giungere a Roma, secondo l’orario, alle 9.10. La vittoria di Mussolini era completa, a coronamento di un’impresa che aveva preparato in una ventina di giorni con straordina-

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ria abilità. «In quei venti giorni – ha scritto Cesare Rossi che gli fu vicino quotidianamente – Mussolini fu veramente grande nell’arte di muovere fili. Fece tutti fessi, per dirla volgarmente»64. Il successo di un’insurrezione destinata al fallimento Se Mussolini riuscì a «fare tutti fessi», ciò gli fu possibile non soltanto per la sua straordinaria abilità di manovratore politico e per la credulità che ebbero nei suoi confronti astuti e consumati anziani uomini politici, ma perché tutte le abili manovre del duce si svolgevano mentre era in corso l’insurrezione delle «camicie nere». Una volta iniziata, l’insurrezione proseguì ovunque, nonostante i draconiani provvedimenti presi dal governo, ancor prima della proclamazione dello stato d’assedio, come l’arresto dei capi e dei promotori e l’uso delle armi contro i sediziosi. Le azioni insurrezionali fasciste avvennero mentre erano in vigore gli ordini che prevedevano, al primo movimento sedizioso, il passaggio dei poteri dall’autorità politica all’autorità militare: ma furono pochi i casi in cui ciò valse a prevenire o impedire il moto insurrezionale. Nessun dirigente fascista fu arrestato. Nei giorni dell’insurrezione, Mussolini fu spesso in prefettura a Milano: secondo Cesare Rossi, se Lusignoli, nelle prime ore del mattino del 28, avesse ottemperato agli ordini ricevuti, facendo arrestare Mussolini, «tutto si sarebbe svolto diversamente»65. I provvedimenti decisi dal governo prima di deliberare lo stato d’assedio, se rigorosamente applicati, sarebbero stati sufficienti a stroncare sul nascere i moti insurrezionali. Nelle poche città dove le autorità politiche e militari furono risolute nel contrastare l’insurrezione, esse impedirono agli squadristi di occupare prefetture, uffici pubblici, stazioni ferroviarie e di dare l’assalto alle caserme, senza per questo provocare una guerra civile né spargimento di sangue, se non in qualche caso, come a Cremona e a San Ruffillo, vicino Bologna, dove il 29 ottobre due squadristi furono uccisi dai carabinieri mentre assaltavano la caserma66. Nei giorni della «marcia su Roma», ci furono complessivamente 30 morti di parte fascista, dei quali 10 a Cremona, 8 a Bologna e in provincia, e 3 a Roma67.

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Prefetto di Pavia, 28 ottobre, ore 18.10 Stamattina verso le ore 9.30 avvenuto questo capoluogo improvviso concentramento circa 4000 fascisti di cui varie centinaia armati moschetto, fucili e bombe. Stamane stesso come avevo già telegrafato codesto Ministero poteri passarono Autorità Militare. Fascisti tentarono irruzione Prefettura ed altri pubblici uffici, ma forza posta a protezione impedì che tentativo avesse effetto. Soltanto circa dieci fascisti riuscirono clandestinamente penetrare edifici provincia passando poi corridoio interno adiacente Prefettura che resta presidiata da esigua truppa qui disponibile e guardie regie. Mercé opera persuasiva svolta funzionari, ufficiali forza pubblica evitati conflitti mantenendo ordine pubblico salvo lievissimi incidenti. Annunziasi per stasera arrivo altri 2000 fascisti. Ho già chiesto Autorità militare che provveda sollecito sgombro detti dieci fascisti penetrati adiacenza prefettura68. Prefetto di Novara, 28 ottobre, ore 18.50 Riassumo notizie mobilitazione fascista anche qui iniziatasi stamane. Fino ore otto nessun incidente mentre mobilitazione andava intensificando. Ore otto trasmessi poteri Autorità Militare ed iniziatosi ritiro armi da armaioli e società tiro a segno. Ore 12 occupato qui senza violenza ufficio telegrafico centrale quasi subito sgombrato e presidiato autorità militari. A Galliate stamane fascisti occuparono adiacenze caserma carabinieri permanendovi ed inoltre asportarono sette fucili di quella società tiro a segno. A Pallanza ufficio postale occupato fascisti, ma poi sgombrato e occupato carabinieri. A Biella occupato da fascisti ufficio telegrafico. Finora nessun’altra notizia dalla provincia. Prefetto di Ravenna, 28 ottobre, ore 20.55 Stamattina trascorsa tranquilla. Nel pomeriggio forte colonna fascista inquadrata sfilò dinanzi palazzo prefettura e commissione chiese, ma non ottenne, essere ricevuta da me. Fu pure chiesta esposizione bandiere prefettura ma anche questo rifiutai avendo tale esposizione significato evidente riconoscimento moto diretto contro poteri dello Stato. Commissione venne più tardi ricevuta dal Generale Comandante Divisione Militare cui chiese consegna pacifica uffici prefettura per affermare azione fascista. Generale naturalmente oppose energico e reciso rifiuto avvertendo che avrebbe usato tutti i

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mezzi a sua disposizione per impedire violenze. Finora non si è verificato alcun incidente in città. Da Lugo arrivami notizia occupazione ufficio telefonico da parte fascisti. Mantengomi continuamente contatto con comandante divisione. Prefetto di Novara, 28 ottobre, ore 23.30 Questa sera forte gruppo di circa 200 fascisti tentò invadere Prefettura ma tentativo fu sventato. Nessun’altra novità viene segnalata. In gran parte delle città coinvolte nel moto insurrezionale, gli squadristi riuscirono a occupare prefetture, questure, uffici postali e telegrafici, stazioni ferroviarie, senza incontrare una forte resistenza, anche perché in molti casi la forza pubblica disponibile era esigua a fronte degli insorti e costretta a cedere. Ci furono anche numerosi assalti alle caserme della fanteria e dei carabinieri per prelevare le armi, e assalti alle prigioni per liberare i fascisti arrestati. In quasi tutte le città dove avvenne l’insurrezione, i dirigenti fascisti locali si recarono a parlamentare con il prefetto o con il comandante militare per trattare le condizioni per un’occupazione pacifica, anche soltanto simbolica, degli edifici governativi e degli altri uffici pubblici. E quasi sempre l’accordo fu raggiunto. Il movimento insurrezionale ebbe una rapida accelerazione quando si diffuse la notizia che lo stato d’assedio era stato revocato, e soprattutto quando, fra la sera del 28 e la mattina del 29 ottobre, cominciò a diffondersi la voce di un possibile incarico a Mussolini. Alle 22.30 del 28 ottobre, il ministero della Guerra comunicava ai comandanti dei corpi d’armata che dato «l’attuale orientamento verso un probabile Gabinetto Mussolini, le direttive date ai vari Corpi d’Armata da questo Ministero (Gabinetto) sono di evitare possibilmente spargimento di sangue, usando mezzi pacifici e persuasivi»69. La repentina revoca di tutti i provvedimenti contro gli insorti, il rapido susseguirsi di ordini e contro ordini nel giro di poche ore, disorientò le autorità militari, mentre incoraggiò i fascisti, resi spavaldi dall’impunità, a proseguire l’azione senza più incontrare alcuna resistenza, ma trattando con le autorità politiche e militari per procedere a occupazioni pacifiche e simboliche, come l’esposizione del gagliardetto fascista dal palazzo della

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prefettura, ma senza rinunciare ad azioni violente o persecutorie, come la messa al bando o il sequestro di qualche prefetto o questore, devastazioni di sedi delle organizzazioni dei partiti avversari, imposizione delle dimissioni alle amministrazioni comunali. Prefetto di Padova, 29 ottobre Direttorio fascista recatosi da me comunicavano richiesta fascisti qui concentrati mio allontanamento da Padova e pregavami assentarmi per qualche giorno scopo evitare violenze. Essendomi riservata risposta ho consultato generale comandante corpo armata cui ieri trasmisi poteri P.S. per vedere se era caso rintuzzare imposizione con forza. Generale dichiaratomi che conflitto causalmente gravissimo non avrebbe evitato violente rappresaglie mio carico consigliandomi fingere mia urgente chiamata Roma da parte Ministero per dignità personale Governo. Date queste condizioni non mi resta che per evitare fatti irreparabili cui conseguenze potevano essere anche ­[illeg.] nell’interesse del Governo. Presenterommi domani V.E. per maggiori spiegazioni. Prefetto di Bergamo, 29 ottobre, ore 13.05 Da ieri poteri per mantenimento ordine pubblico questa provincia furono assunti, come già telegrafai, dall’Autorità militare. La notte scorsa fascisti armati, vincendo facilmente resistenza forza pubblica, occuparono uffici postali e telegrafici, per modo che momentaneamente questo capoluogo trovasi completamente isolato. Autorità disponesi però ricuperare detti uffici colla forza. Rivoltosi armati tentano e talora riescono a disarmare ufficiali, guardie regie e carabinieri. Appena si riuscirà ristabilire comunicazioni, riferirò sulla situazione, finora incerta. Generale comandante Divisione di Ancona, 29 ottobre, ore 18.35 Circa ore dieci 400 fascisti inquadrati militarmente e armati ripartiti in tre gruppi assalirono contemporaneamente tre caserme Regia Guardia Finanza. Sorpresi pochi uomini in turno riposo asportarono senza violenza circa sessanta moschetti e poche munizioni. Comandante circolo procede inchiesta per accertare eventuali responsabilità guardie. Prefetto ritenendo ciò costituire atto insurrezione ha rimesso poteri autorità militare. Verso ore 12 fascisti presentatisi caserma Regia Guardia per la P.S. chiedendo armi non

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conseguirono intento energico rifiuto Regia Guardia. Fascisti qui convenuti circa mille vestono loro speciale uniforme percorrono frequentemente città apparentemente disarmati e ostentano ossequio autorità militare. Popolazione mantiensi estranea movimento conducendo vita normale. In Fabriano nazionalisti e fascisti hanno posto un presidio scalo ferroviario e locale Regie Poste e Telegrafi. Ordine pubblico normale. Amministrazione popolare Ostravetere seguito pressioni fascisti deciso rassegnare dimissioni, nessun incidente. In Macerata, Fano, Pesaro, Ascoli Piceno cortei fascisti e comizi senza incidenti. Contegno ufficiali e truppa nulla da segnalare. Ministeri informati. Prefetto di Genova, 29 ottobre, ore 20.15 Oggi verso ore 16 mentre commissione dirigenti fascisti conferiva con me in ufficio squadristi di sorpresa in numero rilevante improvvisamente irruppero nel palazzo provincia dopo colluttazione con RR.GG. e con marinai di guardia disarmo momentaneo di alcuni di questi ultimi. Commissione che trovavasi presso di me a mie proteste mi diedero parola d’onore che se avessi fatto esporre bandiera nazionale avrebbero fatto subito sgombrare cortile palazzo ove erano radunati fascisti. Risposi che bandiera nazionale ero sempre pronto esporla senza bisogno condizioni. Dopo di che dirigenti fascisti ritiraronsi facendo opera persuasione presso fascisti di sgombrare cortile. Commissione quindi si recò comando divisione seguita da fascisti dei quali piccolo nucleo rimase nel porticato del pianterreno ove hanno sede uffici amministrazione provinciale. Al comandante della divisione che lo richiese promisero far ritirare in breve tempo anche questo piccolo nucleo come di fatti già è avvenuto. Uffici Prefetture che hanno sede piano superiore nello stesso palazzo non furono occupati. Nessun incidente grave. Prefetto di Como, 30 ottobre Il 29 verso 10.30, due ore dopo affidamento ordine pubblico militari, numerosi fascisti convenuti da provincia irruppero nella Prefettura senza incontrare resistenza da parte truppa, con la quale subito fraternizzarono. Cedendo invito autorità lasciarono Prefettura, sgombrati anche uffici poste telegrafi telefoni, ma lasciato due incaricati fascisti con consenso autorità militari. Nel pomeriggio corteo inneggiante re ed esercito.

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Nei tre giorni di insurrezione, i fascisti erano riusciti a imporre il loro controllo in alcune città del Piemonte, in molte città della Valle Padana e in varie città del Veneto, nella Venezia Giulia, in Liguria, in Toscana, nelle Marche, mentre nelle regioni meridionali, a parte la Puglia e la Campania, non ci furono significative azioni squadriste. Non ci furono tentativi di occupazione né a Torino né a Milano. A Torino la mobilitazione era iniziata nella giornata del 28, «senza però vi sia finora direttiva precisa. Nuclei fascisti hanno percorso città scortati forza pubblica. Continuano servizi vigilanza. Presi accordi con autorità militari», riferiva il prefetto la sera del 28. Tre ore dopo, il prefetto confermava che la città era tranquilla. «Verso 22 forte gruppo fascisti aveva percorso ordinatamente la città entra stazione Porta nuova senza occupare uffici e binari, mezz’ora dopo intervento funzionario e pubblica forza abbandonarono e si sciolsero»70. A Milano, l’autorità militare mantenne il controllo della situazione, anche se ci furono momenti di tensione quando gli squadristi, la notte del 28, tentarono di assaltare la sede dell’«Avanti!» presidiata dalle guardie regie «che con forte azione fuoco hanno obbligato assalitori resistere loro divisamento. Nel conflitto rimasero feriti leggermente sette guardie regie e undici fascisti di cui uno gravemente. Verso successive ore 20 altro nucleo fascisti postelegrafonici hanno occupato senza incidenti locali poste centrali»71. Altri momenti di tensione ci furono fra squadristi e guardie regie presso le sedi del Fascio e de «Il Popolo d’Italia», protette con barricate da fascisti armati, e uno scontro violento fu evitato con l’intervento di Mussolini, che fece retrocedere gli squadristi di fronte all’irremovibile fermezza del comandante delle guardie regie. Neanche a Bologna i fascisti riuscirono a occupare la prefettura, ma in provincia furono occupate varie caserme di carabinieri e nella città gli squadristi capeggiati dal deputato fascista Leandro Arpinati, comandante della legione bolognese, nel pomeriggio del 28 fecero irruzione nelle carceri giudiziarie, e «bloccati armata mano ufficiale esercito addetto a mitragliatrice collocata a difesa cortile carceri e direttore carceri, impadronironsi chiavi cancello sfondavano porta reparto detenuti fascisti, ne liberarono 34 e allontanavansi poscia asportando le due mitragliatrici e tre fucili dei soldati mitraglieri»72. La situazione si aggravò nel pomeriggio

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del 29, quando giunse a Bologna la notizia che i carabinieri a San Ruffillo avevano ucciso due fascisti mentre tentavano l’assalto alla caserma; ma con accortezza, e mostrando atteggiamento conciliante verso i fascisti, il generale che aveva assunto i pieni poteri evitò altri incidenti73. A Roma, dopo la revoca dello stato d’assedio, ci fu un repentino capovolgimento della situazione per quanto riguardava la difesa della capitale dai fascisti. Alle 22.30 del 28 ottobre, il comando del corpo d’armata trasmise la seguente comunicazione del ministero della Guerra: «Dato l’attuale orientamento verso un probabile Gabinetto Mussolini, le direttive date ai vari Corpi d’Armata da questo Ministero (Gabinetto) sono di evitare possibilmente spargimento di sangue, usando mezzi pacifici e persuasivi»; alle 14.30 del 29, il ministro dell’Interno ordinava telefonicamente al generale Pugliese, il quale ne riferiva al comandante di corpo d’armata mezz’ora dopo, che «data la nuova situazione, deve assolutamente evitarsi spargimento di sangue». Di conseguenza, alle 15, il generale rendeva noto ai comandi dipendenti che «essendo variata la situazione, e conseguentemente gli ordini superiori, tutti i reparti dipendenti del Presidio dovranno astenersi dall’uso delle armi, qualora i fascisti cercassero di entrare in Roma» e quando fossero giunti ai posti di sbarramento, bisognava inviare presso di loro «ufficiali superiori adatti a svolgere opera persuasiva, intesa a dimostrare a detti fascisti, l’assoluta necessità che essi si astengano dall’entrare in città, in attesa dell’arrivo dell’on. Mussolini, incaricato della formazione del nuovo Ministero»74. Il generale Pugliese obbedì, «costretto a dare un ordine così contrario a quello precedente, e così mortificante per l’Esercito, il quale, pur essendo padrone della situazione, doveva, a causa degli ordini del Governo, cercare di svolgere opera di persuasione presso i fascisti al fine di non turbare quella legalità, che l’Esercito stesso con la sola dimostrazione della propria forza avrebbe saputo pienamente ristabilire»75. In questo modo, un’insurrezione che pareva destinata a fallire, sia per gravi difetti di concezione e di attuazione da parte dei suoi promotori, sia per la scarsa possibilità di resistere di fronte a una reazione armata della forza legale dello Stato, si avviò al completo successo, con la conquista del potere.

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In regime fascista Il rifiuto di firmare il decreto dello stato d’assedio, mentre l’insurrezione era in marcia, consentì al partito fascista di afferrare l’attimo fuggente per conquistare il potere centrale, senza dovere nulla cedere del potere locale già conquistato, e senza dover neppure recedere dalle sue pretese e dalle sue ambizioni di Stato in potenza che sfidava e ricattava uno Stato impotente, che aveva rinunciato a usare la sua forza legale per reprimere la forza illegale di un esercito di partito, lasciando al duce del partito armato la prerogativa di dettare le condizioni per la sua ascesa al potere. La sera del 27 ottobre gli squadristi di Piacenza avevano iniziato l’insurrezione con un messaggio al prefetto in cui proclamavano: «La città da questo momento è in regime fascista. I fascisti riconoscono la monarchia e lo Stato e disconoscono il Governo parlamentare, ritenendolo esautorato, perché non risponde ai sentimenti del Paese»76. A Bologna, il 28 ottobre, il comando insurrezionale fascista fece affiggere un manifesto che proclamava l’assunzione del potere nella città da parte della milizia fascista: «Da questo momento la città e la provincia di Bologna sono sottoposte al controllo della milizia fascista che ne prende possesso riaffermando propria devozione al Re e all’Esercito vittorioso e alla Patria. Tutti i servizi pubblici e privati debbono funzionare regolarmente. I negozi debbono rimanere aperti. Chiunque approfittasse dell’attuale situazione per rialzare i prezzi delle merci o per turbare in qualsiasi modo l’andamento della vita cittadina verrà punito in maniera esemplare». Dopo l’uccisione dei due fascisti a San Ruffillo, Arpinati fece affiggere per la città un manifestino nel quale affermava che «tutti i carabinieri che circolano per le strade di Bologna sono responsabili del duplice assassinio di San Ruffillo. I Fascisti hanno l’obbligo di agire di conseguenza»77. Contro uno Stato impotente, con la «marcia su Roma» aveva vinto lo Stato in potenza di un partito armato. Il comportamento dei fascisti nei giorni dell’insurrezione mostrava chiaramente che essi si consideravano i detentori di un potere irrevocabile al di sopra della legge, e come tali avevano trattato alla pari con le autorità politiche e militari, ottenendo così una sorta di legittimazione alla loro pretesa di essere la milizia della nazione, che poteva impunemente usare la propria forza illegale contro il legittimo

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governo parlamentare per imporre l’ascesa al potere del loro duce e il riconoscimento del predominio privilegiato del partito fascista nello Stato italiano. Il presidente incaricato partì da Milano alle 20.30 e giunse a Roma il 30 ottobre alle 10.50, con oltre un’ora di ritardo dovuta alle soste che Mussolini fece lungo il percorso per rispondere alle manifestazioni che gli squadristi tributarono al loro duce. A Civitavecchia, il duce sostò per essere acclamato e passare in rassegna gli squadristi che inneggiavano alla vittoria. Alla stazione della capitale fu accolto da Bianchi, Acerbo, il prefetto e il questore di Roma. Dopo una breve sosta in albergo, Mussolini, in camicia nera, si diresse con Bianchi e Acerbo al Quirinale dove arrivò alle 11.15. Il colloquio col re durò meno di un’ora. La sera, alle 19.20, il nuovo presidente del Consiglio tornò dal re con la lista dei ministri del suo governo: ne facevano parte tre ministri fascisti, due popolari, due democratici, un nazionalista, un demosociale, un liberale, un indipendente e due militari; su diciotto sottosegretari, nove erano fascisti, quattro popolari, due nazionalisti, due demosociali e un liberale. Mussolini tenne per sé il ministero degli Esteri e il ministero degli Interni. Bianchi fu nominato segretario generale agli Interni e De Bono direttore generale della pubblica sicurezza. Intanto, le colonne degli squadristi accampati nei dintorni di Roma ebbero finalmente da Mussolini l’autorizzazione a entrare nella capitale. Il 31 ottobre, con una spettacolare sfilata durata cinque ore da piazza del Popolo al Quirinale e poi all’Altare della Patria, i fascisti celebrarono trionfalmente l’avvento del loro duce al governo. La sera del 31 ottobre, dopo la sfilata di alcune decine di migliaia di camicie nere provenienti da tutta l’Italia, Mussolini il trionfatore si concesse un momento di riposo nel suo appartamento all’Hotel Savoia. Sprofondato in una poltrona con i piedi appoggiati su un’altra poltrona, rilassato, «schietto, calmo, anzi, freddo, umanissimo, smobilitato», si abbandonò confidenzialmente a pacate riflessioni col suo amico Cesare Rossi, facendo ad alta voce ragionevoli e oneste considerazioni sui motivi del successo fascista, sul comportamento degli uomini che avversavano il fascismo e sulle circostanze propizie che gli avevano consentito di afferrare l’attimo fuggente78.

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Bisogna riconoscere che le altrui divisioni ci hanno potentemente aiutato. Ah! Tutti quei candidati al Governo: Bonomi, De Nicola, Orlando, Giolitti, De Nava, Fera, Meda, Nitti... Sembrava il disperato appello nominale dei santoni del parlamentarismo in agonia. E quel povero Facta che apre una crisi ministeriale dopo la nostra adunata di Napoli?!... Ti raccomando poi la passività dell’antifascismo. Sì, va bene, dopo lo «sciopero legalitario» quella barca faceva acqua da tutte le parti; l’«Alleanza del Lavoro» l’aveva portata a picco. Ma, insomma, anche uno scioperetto generale purchessia, gettato fra le nostre gambe ci avrebbe assai entravés. Certo, se al Governo ci fosse stato Giolitti forse le cose non sarebbero andate così liscie. Quell’uomo sa dare ai prefetti la sensazione della sicurezza e della stabilità... Nelle nostre zone, in Toscana, e nella Valle Padana, ci sarebbero state delle fiere resistenze, ma non so se ce l’avremmo fatta davvero. Quando uno Stato vuol difendersi può sempre difendersi ed allora esso vince. La verità è che lo Stato in Italia non esisteva più. Intanto ce n’erano due: il nostro in embrione, e quello ufficiale che andava per forza d’inerzia, grazie alle scartoffie dei suoi funzionari. In fondo sono loro che rappresentano la continuità degli Stati a regime parlamentare... La «marcia su Roma» non era avvenuta come il piano insurrezionale fascista aveva previsto e immaginato, ma l’insurrezione, denominata con quella mitica formula, aveva avuto successo e si era conclusa con una vittoria completa. E la vittoria della «marcia su Roma» non consisteva soltanto nell’incarico conferito a Mussolini, ma fu soprattutto il consolidamento e l’estensione del dominio del partito fascista, detentore della forza illegale che aveva consentito al suo duce di pretendere e ottenere dal re quel che nessuno, fino alla mattina del 29 ottobre, aveva immaginato né pensato di concedergli: l’ascesa del fascismo al potere non fu il risultato di un compromesso, ma di una resa dello Stato liberale al ricatto insurrezionale di un partito armato, che in cambio non concesse altro che generiche e ambigue promesse di restaurare la legalità costituzionale. Di fatto, la vittoria della «marcia su Roma» esaltò nei fascisti la convinzione di essere l’unico partito che impersonava la volontà della nazione col diritto di governare il paese, al di fuori e al di sopra della legge, dello Stato costituzionale e del regime parlamentare.

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Una rivoluzione all’italiana

Come i paesi democratici commentarono l’avvento del fascismo al potere, plaudendo alla rivoluzione incruenta, mentre qualcuno parlò di italica incapacità a governarsi democraticamente. Con l’eccezione di qualche intelligente osservatore sulla novità del «regime fascista».

Una rivoluzione bella e gioiosa «Qui stiamo assistendo a una bella rivoluzione di giovani», scriveva al padre l’ambasciatore degli Stati Uniti Richard Child, il 31 ottobre: «Nessun pericolo. È ricca di colore e di entusiasmo»1. E alcuni giorni dopo scriveva al suo governo: «Nessuna rivoluzione è avvenuta in modo altrettanto rapido e ha ottenuto così facilmente successo»2. Ammiratore di Mussolini, Child elogiava il nuovo presidente del Consiglio, così diverso dai suoi predecessori per il suo «carattere magnetico, il portamento fiero e l’oratoria efficace»: un uomo politico nuovo, che agiva con decisione e vigore, e sapeva infondere nella nazione «zelo, speranza e una calma temporanea». Dopo anni di disordini e di conflitti, Mussolini interpretava il desiderio degli italiani a vivere un periodo di pace e di tranquillità domestica3. L’ambasciatore conosceva personalmente Mussolini, il quale nei giorni precedenti la «marcia su Roma» aveva voluto incontrarlo per sapere quale sarebbe stato l’atteggiamento del governo americano nei confronti di una ascesa del fascismo al potere. Ed è probabile che ne avesse avuto una risposta positiva4. In effetti, come riferiva l’ambasciatore italiano negli Stati Uniti, l’esito della «marcia su Roma» era stato accolto a Washington con «compiacimento per la rapida soluzione della crisi» e con «simpatia per elementi ideali caratterizzanti movimento fascista. Vedesi nel

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successo di questi scomparsa definitiva del pericolo bolscevico in Italia ed esempio salutare per tutti i Paesi»5. La valutazione del governo repubblicano era condivisa dall’opinione pubblica conservatrice, che considerava il fascismo una sorta di versione latina dell’American Legion, la principale associazione patriottica degli Stati Uniti di orientamento molto conservatore, e plaudiva inoltre alla conclusione di una «rivoluzione incruenta», che si sperava avrebbe riportato legge e ordine in Italia, sotto la guida di un capo dinamico e pragmatico. La stampa conservatrice descriveva Mussolini come un eroe che aveva debellato il «drago rosso» difendendo i diritti della piccola e media borghesia. Opposta era invece la valutazione dei liberali e dei radicali, che nel fascismo non vedevano altro che un movimento di mercenari assoldati dalla borghesia agraria e industriale per restaurare il suo dominio6. I governi e l’opinione pubblica occidentale avevano seguito con apprensione gli avvenimenti italiani che scandirono l’ascesa del fascismo al potere, preoccupandosi naturalmente più per le conseguenze che avrebbe avuto sulla politica estera dell’Italia, che per quelle sulla sua politica interna. Infatti, il nazionalismo fascista, con vaghe ma ostentate dichiarazioni imperialiste, destava inquietudine degli Stati che avevano un contenzioso di confine con l’Italia dopo la Grande Guerra, come la Jugoslavia per la questione di Fiume. E molto preoccupato per l’avvento del fascismo al potere era anche il governo svizzero, secondo quanto riferiva l’ambasciatore di Germania a Berna il 31 ottobre, perché gli svizzeri temevano «un divampare del movimento irredentistico nel Ticino», tanto che il procuratore confederale, «non propriamente fornito a dismisura di doti intellettuali», precisava l’ambasciatore tedesco, «ancora l’ultimo giorno prima della ‘vittoria’ fascista» aveva rinnovato «l’ordine di bando dalla Svizzera contro Mussolini per bolscevismo e anarchismo», ordinando «alle autorità svizzere di confine nel Ticino di tener lontano a qualunque costo l’individuo di cui sopra dal sacro suolo della Confederazione». La conferma del bando nei confronti del duce del fascismo, quando era ancora incerta la sua salita al potere, probabilmente mirava a impedire che Mussolini, in caso di fallimento dell’insurrezione da lui capeggiata, potesse cercare scampo in Svizzera per non finire in galera in Italia. Tuttavia, appena il governo svizzero seppe che il duce fascista aveva avuto l’incarico di formare il governo, si af-

X. Una rivoluzione all’italiana ­­­­­221

frettò a far uscire un comunicato per dichiarare che il bando nei suoi confronti era stato revocato da tempo7. Nelle altre democrazie europee, le reazioni alla «marcia su Roma» furono diverse e contrastanti, con valutazioni che andavano dall’entusiasmo alla condanna, secondo gli orientamenti politici dei governi e dell’opinione pubblica. Tutti furono comunque sorpresi dalla rapidità e dalla facilità della conquista fascista del potere: una rivoluzione, osservavano tutti, che si era svolta senza spargimento di sangue e senza incontrare resistenza da parte degli avversari del fascismo, per concludersi, alla fine, in una forma pacifica e costituzionale. Pochi osservatori stranieri negavano che la «marcia su Roma» fosse stata una rivoluzione, sia pur di un tipo nuovo e particolare. Considerando il corso del movimento che aveva portato Mussolini al potere, scriveva l’ambasciatore inglese Richard Graham il 4 novembre, era «difficile negare che era stato rivoluzionario», anche se, precisava, era «più esatto definirlo contro-rivoluzionario», e che per un momento aveva minacciato di diventare antimonarchico, anche se poi il sentimento monarchico prevalente fra i suoi migliori si era dimostrato talmente forte da far superare quel momento e condurre il movimento stesso a sostenere la monarchia8. Anche per il console americano a Venezia la «marcia su Roma» era stata una rivoluzione, perché «le forze costituzionali del governo italiano erano state sopraffatte dalle forze fasciste», ma ciò non doveva allarmare, aggiungeva il console, perché il fascismo era un «movimento molto popolare e patriottico»9. Un giudizio analogo esprimeva il corrispondente da Roma de «L’Illustration», descrivendo l’entrata delle squadre fasciste nella capitale: «È una vera rivoluzione quella che si è appena conclusa, in modo pacifico e con il generale consenso»10. Il fascismo, commentava un altro osservatore francese, lo storico Paul Hazard, che aveva seguito gli avvenimenti in Italia, aveva compiuto una «rivoluzione senza rivolta»11. Che accadrà dell’Italia? L’immagine del fascismo come un baluardo contro il bolscevismo e il salvatore dell’Italia dalla rovina incontrò largo credito negli Stati democratici europei. «Da questo punto di vista – osservava

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l’ambasciatore americano a Londra il 31 ottobre – il trionfo del fascismo in Italia appare come un colpo mortale al Bolscevismo, se il nuovo governo riuscirà a durare. I fascisti mancano di esperienza e di giudizio, ma il loro impeto è sano e la responsabilità del governo può raffreddare il loro ardente fanatismo»12. Anche l’opinione pubblica inglese aveva accolto con sollievo l’esito pacifico della «marcia su Roma»13. La prima impressione generale, scriveva l’ambasciatore italiano, era stata «di sorpresa, anche a causa speciale mutabilità. Ma rapidamente subentrò più serena ed ottimistica valutazione avvenimenti»14. I conservatori giudicavano positivamente il governo di Mussolini, al quale attribuivano il merito di aver posto fine a una sequela di governi inetti e a un periodo di decadenza e di corruzione, e di aver preso l’impegno di restaurare l’ordine e la legalità. Anche i giornali laburisti espressero giudizi genericamente positivi sulla «rivoluzione incruenta» del fascismo, che aveva assicurato all’Italia un governo forte, promettendo il risanamento finanziario e la ripresa economica15. Atteggiamenti analoghi si riscontravano in Francia, come riferiva l’ambasciatore italiano: la stampa conservatrice era entusiasta, mentre quella democratica cercava di non mostrarsi «troppo decisamente ostile»16. Da Parigi, Gaetano Salvemini scriveva l’11 novembre: «tutti sono aux anges perché credono che il fascismo abbia... abbattuto il bolscevismo, mentre proprio il bolscevismo ha incominciato ad essere pericoloso in Italia»17. In Svezia, il governo socialdemocratico non aveva alcuna simpatia per il nuovo governo fascista, mentre a esso guardavano con favore i militari e i conservatori18. Similmente in Germania, i governanti della repubblica di Weimar erano preoccupati per i riflessi che gli avvenimenti italiani avrebbero potuto avere sulla politica interna tedesca. I cattolici e i socialdemocratici tedeschi, alleati nella coalizione di governo, diffidavano del fascismo come movimento rivoluzionario di destra. Il presidente del Consiglio bavarese temeva che l’esempio fascista potesse essere seguito dai nazionalsocialisti di Adolf Hitler. Invece i partiti della destra tedesca plaudirono alla vittoria fascista19. Hitler stesso aveva seguito con molta attenzione gli avvenimenti italiani; per conoscere meglio il fascismo, prima della «marcia su Roma», aveva cercato di stabilire qualche contatto con Mussolini, inviando in Italia un proprio emissario, Karl Lüdke, il quale incontrò Mussolini a Milano ma constatò «che

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non aveva mai sentito parlare di Hitler»20. I fascisti negavano allora di avere alcuna affinità con il nazionalsocialismo. «La stampa estera accoglie Mussolini con benevola attesa», scriveva Anna Kuliscioff a Turati il 13 novembre. E il motivo principale dell’atteggiamento di attesa benevola può essere riassunto col commento della rivista francese «L’Illustration»: «Il fascismo ha realizzato in Italia le sue ambizioni. Non gli resta ora che mettere in atto il suo programma. Fino a pochi giorni fa, era l’opposizione pronta alla lotta. Da ora, è il governo al potere. Il suo capo, Benito Mussolini, ha cambiato la camicia nera per la redingote e il cappello a cilindro da ‘primo ministro’, e questa metamorfosi d’abbigliamento acquista un significato simbolico. La rivoluzione, se così si può chiamarla, è stata pacifica, perché rispondeva al bisogno intimo del paese, stanco dell’agitazione comunista e deluso dai politicanti. La rivoluzione ha trovato il suo sostegno più solido nel re stesso, che si è affidato a Mussolini per compiere la rigenerazione della nazione»21. Tuttavia, se nelle democrazie occidentali l’apprezzamento positivo per l’esito costituzionale della «marcia su Roma» era generalmente condiviso, caute erano le previsioni sulle conseguenze che il fascismo al potere avrebbe potuto avere per l’Italia, e non solo per l’Italia. Molte perplessità destavano soprattutto la natura del partito fascista e il modo violento adoperato per imporsi e dominare che inducevano a formulare ipotesi contrastanti, oscillanti fra ottimismo e pessimismo, come quelle che raccoglieva l’ambasciatore inglese presso la Santa Sede negli ambienti vaticani il 31 ottobre. Ottimista si dichiarava monsignore Borgongini Duca, il quale osservava che, se la rivoluzione fascista aveva effettivamente usurpato l’autorità dello Stato, il partito fascista era comunque un partito d’ordine e avrebbe probabilmente governato bene, con ministri saggiamente scelti, mentre «era scomparso il regime semisocialista sotto il quale il paese aveva penato in passato». Certo, precisava il monsignore, c’era stata una rivoluzione, ma era stata una rivoluzione «tipicamente italiana, un piatto di spaghetti, e il modo in cui il cambiamento era avvenuto non doveva suscitare troppa apprensione solo perché era stato del tutto incostituzionale». Dunque, per il monsignore, non c’erano guai in vista, ma tutto sarebbe naturalmente dipeso dalla capacità del nuovo governo di mantenere la disciplina, tenendo sotto controllo gli estremisti.

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Tutt’altro che ottimistiche erano le valutazioni che il diplomatico britannico riscontrava in altri circoli vaticani, dove il «via libera» dato dal re ai fascisti era considerato una «resa completa» dell’autorità, perché «trattando con la rivoluzione, il re aveva praticamente aperto la strada verso la sua abdicazione mettendosi nelle mani di repubblicani». Il partito fascista – facevano notare i pessimisti in Vaticano – era tutt’altro che omogeneo, e se molti fascisti erano fedeli alla monarchia e impegnati a risollevare il paese, «non erano pochi quelli che rappresentavano un pericolo per entrambi». Insomma, concludeva il diplomatico britannico, la situazione creata dalla «marcia su Roma» appariva ancora «così oscura e piena di possibilità», da non essere sorpreso per «l’ampia divergenza di vedute secondo il grado di fiducia concesso alla capacità dei capi fascisti di mantenere l’ordine e la disciplina»22. Immaturi per la democrazia Le maggiori perplessità sull’avvento di Mussolini al governo erano suscitate dall’ideologia antidemocratica, dai metodi violenti, dall’organizzazione militare del partito fascista: tutti aspetti, questi, decisamente deprecati dall’opinione pubblica liberale e democratica occidentale, pur non ostile al nuovo governo. Anche gli osservatori stranieri più entusiasti per l’esito incruento della rivoluzione fascista, come l’ambasciatore americano, riconoscevano che la «marcia su Roma» aveva inferto un grave colpo allo Stato costituzionale. Al di là di «ogni argomentazione tecnica per dare un’apparenza di costituzionalità» all’ascesa del fascismo al potere, osservava Child, era innegabile che l’essenza di quanto era accaduto consisteva «nel fatto che il re, il governo e il parlamento, con la resa delle loro prerogative costituzionali, avevano capitolato davanti alla forza. Per ristabilire il prestigio della legge, il fascismo si è messo sotto i piedi la legge e l’ordine, e per diventare lo Stato italiano ha usato impunemente la forza»: in questo modo «la politica anticostituzionale fascista ha avuto un completo successo»23. L’ambasciatore aveva comunque fiducia nella capacità di Mussolini di imporre il suo controllo sugli estremisti del partito, appoggiando i fascisti moderati favorevoli alla restaurazione dell’ordine costituzionale.

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Meno ottimista era l’incaricato d’affari dell’ambasciata americana a Roma Franklin Gunther. Questi riteneva che il «colpo di Stato» compiuto da Mussolini poteva diventare un cattivo precedente, incoraggiando l’organizzazione di altri colpi di Stato in senso contrario al fascismo, che avrebbero fatto precipitare nuovamente l’Italia nel caos24. Non diverse erano le preoccupazioni sul futuro dell’Italia manifestate dall’opinione pubblica inglese, quasi unanime nel deplorare la violenza e i metodi anticostituzionali usati dal partito fascista per andare al potere. Questi metodi ponevano una pesante ipoteca sulla capacità del fascismo di ricondurre l’Italia ad una condizione di ordine e di legalità, avviandola verso la restaurazione finanziaria e la ricostruzione economica, rispettando il sistema parlamentare e le garanzie costituzionali. E molti, in verità, erano i dubbi sulla possibilità di trasformare un partito armato, abituato alla violenza, in un partito d’ordine, rispettoso della legge e della libertà dei partiti avversari25. In gran parte, i dubbi sul futuro dell’Italia dopo l’avvento del fascismo al potere erano attenuati dall’ammirazione per la personalità di Mussolini e dalla constatazione che, chiamato alla guida del governo, egli aveva mostrato intenzioni e comportamenti misurati e pacifici, sia in politica interna sia in politica estera. Del resto, in tutte le considerazioni degli stranieri sulla peculiarità della rivoluzione fascista, circolava un motivo comune, che riguardava il carattere degli italiani, al quale si facevano risalire molti aspetti della crisi dello Stato liberale e dell’avvento al potere del fascismo, con allusioni, tinteggiate di razzismo antropologico, all’incapacità degli italiani di dar vita a un genuino sistema parlamentare. Ancor prima della «marcia su Roma», l’ambasciatore americano aveva previsto che l’ascesa del fascismo al potere avrebbe comportato la fine della democrazia costituzionale, perché «un popolo come gli italiani [... ] agogna ad essere governato con la maniera forte»26. Il vero bersaglio della rivoluzione fascista, osservava per parte sua l’ambasciatore britannico, era il parlamentarismo: «Il sistema parlamentare, come esiste nel nostro tempo, non ha prosperato felicemente in Italia. Non è rispettato, e quando il signor Mussolini allude al parlamento come a un ‘giocattolo’ del popolo, nessuno è rimasto scioccato». Il motivo di questo disprezzo, secondo l’ambasciatore britannico, derivava dal fatto che il sistema parlamentare «non era cresciuto con la crescita del popolo, ma fu imposto già confezionato

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su una popolazione che non era ancora matura per ricevere i suoi benefici». Ed era per questa ragione che il sistema parlamentare, in Italia, «è degenerato invece di svilupparsi»27. E dalla degenerazione del parlamento era scaturita l’avversione per la democrazia che aveva generato il fascismo e la sua rivoluzione: «La rivoluzione odierna è una rivoluzione contro un sistema che, almeno al momento, non è riuscito a soddisfare i bisogni del paese». L’ambasciatore faceva comunque notare al suo governo, che sin dal primo momento dell’ascesa al potere, il fascismo aveva avuto già qualche effetto positivo sugli italiani: dopo aver assistito alla sfilata delle camicie nere nella capitale, egli riteneva giusto riconoscere che «l’ordine e la disciplina mostrati dai fascisti erano stati notevoli, considerato che la razza italiana è per temperamento indisciplinata». Decisamente opposta era la previsione di un autorevole giornale inglese come «The Daily Telegraph», che il 30 ottobre, commentando la «marcia su Roma», scriveva con toni molto cupi: «È ancora troppo presto per predire le piene conseguenze di questo atto di pericolosa follia.[...] Sotto il perverso genio di Mussolini, il movimento, se riesce nell’attuale tentativo di dominare la situazione, è più atto a portare l’Italia al caos completo e alla rovina ed a privarla di ogni autorità ed influenza nei consigli d’Europa»28. Una rivoluzione di tipo nuovo Meno catastrofico era il giudizio sulla «marcia su Roma» espresso nello stesso giorno dall’incaricato dell’ambasciata francese a Roma, François Charles-Roux. Descrivendo nel suo rapporto «questa specie di rivoluzione, di un tipo particolare e propriamente italiano» e la «dittatura legalizzata» cui aveva dato origine, piuttosto che lasciarsi andare a previsioni sul futuro, il diplomatico francese si sforzava di comprendere il significato di quanto stava accadendo sotto i suoi occhi, nei giorni confusi del passaggio dallo stato insurrezionale alla formazione del nuovo governo, durante i quali non era stato «affatto facile distinguere né il nuovo governo dall’insurrezione da cui era nato né il Presidente del Consiglio dal capo degli insorti». Si era così avuto, continuava il diplomatico, un «fenomeno di concomitanza, quale si produce a conclusione di tutti i moti coronati dal successo e all’inizio di tutti i regimi sorti

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da questi moti», e caratterizzato, nel caso della «marcia su Roma», dal passaggio del partito fascista «dallo stato di guerra allo stato di pace, restando naturalmente come punto di appoggio del nuovo regime e come strumento del governo nel paese»29. Questo perspicace diplomatico francese fece una realistica valutazione del significato della «marcia su Roma», come atto di nascita di un nuovo regime. La sua fu l’analisi più acuta fra le tante fatte dagli osservatori stranieri mentre gli eventi erano ancora in corso30. Per Charles-Roux, l’ascesa del fascismo al potere era il compimento di una rivoluzione – «perché è stata una rivoluzione» – anticomunista, antisocialista e anti-internazionalista, che aveva fatto leva su «una specie di sentimento religioso della patria», per preparare e attuare l’insurrezione, e su quello stesso sentimento continuava a puntare per conservare le numerose simpatie che aveva saputo suscitare nell’opinione pubblica e che il successo aveva rafforzato: era un patriottismo «che assumeva nella massa fascista un carattere di esaltazione smodata», e che solo in Mussolini e negli elementi non fascisti che collaboravano con lui al governo era temperato dal senso di responsabilità31. Quel che era accaduto poteva apparire sconcertante a un francese, spiegava il diplomatico, perché non corrispondeva a nessuna delle consuete categorie «nelle quali siamo soliti classificare i fatti politici e sociali»: «Il colpo di Stato, per noi, è compiuto o dal potere esecutivo o da parte di un generale, e in entrambi i casi per mezzo dell’esercito regolare. La rivoluzione, secondo i nostri precedenti, è fatta di solito in nome e a vantaggio delle idee progressiste, e non avviene senza spargimento di sangue, e va fino in fondo, rovesciando un regime. L’insurrezione, la sommossa è fatta dall’operaio o dal contadino in camice, dal piccolo borghese in abiti civili, a volte dalla guardia nazionale o dagli allievi del Politecnico»; ma nel caso della «marcia su Roma», osservava il diplomatico, si era in presenza di un fatto nuovo: «I fascisti si sono impadroniti del potere per mezzo di un ‘pronunciamento’ compiuto da una armata irregolare, e hanno dichiarato di agire in nome della patria e nell’interesse dello Stato al quale attentavano». Si trattava, secondo il diplomatico, di un genere di insurrezione che rientrava però nelle tradizioni italiane, che l’Italia moderna aveva ereditato dall’Italia disunita del tempo del Rinascimento e del Risorgimento, fino al 187032.

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Proseguendo la sua analisi nei giorni successivi, Charles-Roux fermava l’attenzione sulla natura del nuovo governo presieduto da Mussolini, variamente denominato dalla stampa italiana «grande governo nazionale» o «il governo della Vittoria», e lo definiva senza esitazione come «governo dittatoriale» chiamato ad agire come tale, perché, spiegava in un rapporto del 15 novembre, Mussolini, «capo e anima del fascismo, si era impadronito del potere con un colpo di mano, di fronte al quale l’autorità legale aveva prontamente capitolato» e la sua vittoria aveva dunque portato ad una «dittatura legalizzata»33. È proprio in tal modo che io credo si possa esattamente definire l’impresa di cui l’Italia è stata teatro, e il suo risultato è stato che un partito, che era diventato uno Stato nello Stato e che per sue esigenze aveva creato una vera e propria armata irregolare, ha finito con l’assorbire lo Stato. E tanto poco esso si preoccupa di nasconderlo, da vantarsi di avere instaurato lo «Stato fascista». E di fatti lo governa in modo dittatoriale; ma dal momento che il timbro della legalità è stato rapidamente impresso sul colpo di mano, e che l’armatura costituzionale del paese teoricamente è rimasta intatta, la dittatura fascista – o piuttosto mussoliniana – è stata legalizzata. E se le cose procederanno nel senso voluto dal signor Mussolini, sarà legalizzata sempre di più con la sanzione della Camera a quanto è avvenuto, con l’assegno in bianco per le riforme in programma, e, una volta approvata la nuova legge elettorale, con la elezione di una Camera in armonia col nuovo Governo. Su tutta l’impresa compiuta dal fascismo, dall’inizio alla fine, il diplomatico francese vedeva comunque la forte impronta di Mussolini e delle sue qualità, utili per esercitare il potere: «audacia, decisione, volontà, autorità». Tuttavia, Charles-Roux non si lasciava incantare dal successo fascista, né credeva che questo fosse unicamente dovuto alla forza del partito e alle capacità di Mussolini. Le ragioni della vittoria del fascismo andavano ricercate «meno nella sua forza che nella debolezza delle persone e delle cose che si è trovato ad affrontare. La forza del fascismo, il partito, l’armata, non sarebbero neppure concepibili se non si tenesse conto di questo secondo fattore. [...]. C’è stato un colpo di Stato perché lo Stato era divenuto una preda». E per quanto cattiva

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fosse l’opinione che si aveva delle condizioni dello Stato italiano, «e la mia era pessima» precisava il diplomatico, «la debolezza che esso ha rivelato mentre era sotto attacco, è andata ben oltre l’idea che se ne aveva». Alla luce delle sue lucide considerazioni sulle ragioni del successo fascista, il diplomatico procedeva a formulare la propria interpretazione della rivoluzione fascista: «È stata una contro-rivoluzione nazionale, piuttosto che nazionalista, perché c’era stata, di fatto, una rivoluzione comunista latente nel 1920-21, seguita da un periodo di decomposizione politica. È stata un’insurrezione contro i detentori del potere, perché chi lo deteneva non lo esercitava e non lo difendeva. È stata una reazione contro i vecchi partiti politici, perché erano decrepiti e le loro rivalità rendevano impotenti le coalizioni ministeriali dei loro rappresentanti al Governo. A queste coalizioni non partecipava il partito socialista ufficiale, disorganizzato e diviso. Del resto, le masse operaie condividevano la sfiducia che i metodi di governo dei vecchi partiti avevano suscitato in tutti gli strati della popolazione. È per questo che nessuno ha battuto ciglio e nessuna resistenza popolare, né proletaria né borghese, nessun tentativo di opposizione è stato fatto contro l’assalto e la scalata al potere di Mussolini». Al proprio rapporto, Charles-Roux allegava quello del commissario speciale a Mentone del 20 novembre, il quale così concludeva: «L’Italia sta facendo attualmente un’esperienza decisiva dalla quale dipende il suo avvenire. È certamente all’alba di tempi nuovi. Buoni o cattivi? Ecco quel che, al momento, è impossibile dire»34.

XI

Il grande equivoco

Come si commentò in Italia, fra speranza e timore, fiducia e rassegnazione, l’insediamento di Mussolini al governo, in attesa di vedere quel che il fascismo avrebbe fatto per ridare ordine e legalità al paese.

Auguri a Mussolini Il 31 ottobre «La Stampa» intervistò «una persona amica» di Giolitti che nei giorni precedenti aveva avuto ripetute occasioni di avvicinarlo, per domandargli notizie sull’«illustre uomo di Stato» e sulle sue reazioni all’avvento del fascismo al potere. La persona amica rispose che Giolitti stava benissimo, aveva seguito «con l’attenzione e la serenità consueta gli avvenimenti svolgentisi in Italia» e si preparava a recarsi a Roma per partecipare ai lavori parlamentari. Aggiunse che Giolitti non si nascondeva «il carattere indubbiamente anormale» dei fatti accaduti, ma riteneva che, «una volta scartata la via costituzionale ordinaria, l’unica soluzione della crisi fosse un Governo Mussolini e che soluzioni intermedie non avevano ragione d’essere». Quanto all’impressione che Giolitti aveva del nuovo governo, la persona amica rispondeva: «Impressione complessiva buona; ma naturalmente egli aspetta, per il giudizio vero, gli atti»: «Se il nuovo Governo, sanando il dualismo di poteri che s’era formato – soprattutto il dualismo delle forze armate – sarà veramente un governo forte, dopo i governi deboli imposti negli ultimi tempi da errate speculazioni di partiti, e saprà tutelare l’ordine, la legge, la pace sociale; se darà all’estero l’impressione di una politica sinceramente pacifica e rispettosa dei trattati, pur essendo dignitosamente nazionale; se attuerà una politica di rigida economia per combattere il disavanzo, la sua opera sarà certamente approvabile anche da chi non consenta

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nella via seguita per arrivare al potere. L’on. Giolitti ritiene che il Paese abbia estremo bisogno di uomini di volontà, finora troppo scarsi al Governo, e si augura che l’on. Mussolini adoperi la sua, indubbiamente forte, a dritto segno e con giusto equilibrio, per il bene del Paese»1. Alcuni giorni dopo, «L’Illustrazione Italiana», la patinata ed elegante rivista della borghesia italiana, echeggiava l’augurio giolittiano tirando un sospiro di sollievo per il modo in cui il nuovo presidente del Consiglio aveva composto il suo governo, chiamando a farne parte rappresentanti di vari partiti costituzionali dopo rapidissime consultazioni, condotte «con prestigio veramente dittatoriale», perché «aveva già una sua lista e si limitò, per lo più, a fare ai collaboratori, da lui desiderati, l’offerta e a sollecitarne l’accettazione». La rivista osservava però che il duce «non intendeva costituire una dittatura di partito, come il successo del moto da lui diretto poteva far credere», ma era deciso a usare la vittoria «con la moderazione che aveva solennemente promesso avanti di partire da Milano in un telegramma a Gabriele D’Annunzio, che con due lettere gliela aveva raccomandata». Per questo, aveva costituito un governo «sulla base più larga possibile, nelle condizioni della Camera attuale [...] un governo che fosse, in un certo senso, di concentrazione nazionale». La rivista rimaneva invece cauta nel giudizio sulla rivoluzione appena accaduta, riservandosi di giudicarla non «in sé ma nei risultati», per i quali c’era in Italia «una attesa immensa; anzi una ardente speranza; anzi una lieta fiducia»2. «Se il Governo, nato da questa rivoluzione, sarà, come vuole, come promette, un vigoroso Governo, un Governo veramente fattivo, esso dovrà rendere più sacra e intangibile la maestà della legge. Saremo allora felici d’aver patito le ansie e le angoscie di questi giorni»3. La fiducia della «Illustrazione Italiana» verso il governo Mussolini rispecchiava l’orientamento prevalente fra la borghesia che aveva plaudito al fascismo perché aveva sventato il pericolo di una rivoluzione comunista, debellato il socialismo, e portato al potere uomini nuovi, scacciando vecchi e inetti governanti «di pasta molliccia», «gente che si ostinava a rimanere al governo non si sa perché, non avendo né idee da far trionfare, né forza per difendere questa assenza di idee, né sì disinteressato amor di patria da saper scomparire all’ora opportuna, né sì modesta conoscenza

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dello spirito pubblico, da rendersi conto che il paese non li voleva più, e non voleva più neppure tutti gli altri soliti ministrabili e già tanti ministrati simili a loro». Nonostante i metodi usati per giungere al potere, i nuovi governanti fascisti meritavano fiducia, anche perché erano giovani, e se mancavano di esperienza, non mancavano di energia e di volontà: «Per la prima volta i ministeri non saran pieni di barbe grigie; di barbe, cioè, che si sono imbiancate nell’attesa di incorniciare un viso di ministro, e son diventate, pelo per pelo, fredde di colore, per ben rappresentare anime sufficientemente gelide, per ascendere al potere». E si aveva fiducia che il fascismo al potere, divenuto «men gaio e avventuroso, e canoro», avrebbe mantenuto la promessa di difendere la vittoria, ricostituire l’esercito e fare economie fino all’osso. «Nessun governo ebbe mai grandi possibilità come quelle che ha oggi Benito Mussolini», concludeva la rivista, auspicando la cessazione degli odi per «risanare l’Italia» che «anela alla pacificazione». Una ferita nella nazione Non altrettanto fiducioso nel valutare l’avvento del fascismo al potere era il principale e più autorevole quotidiano della borghesia liberale, il «Corriere della Sera». Pur non negando «il merito del fascismo nella liberazione della patria dalla rovinosa tracotanza degli uni e dalla sciagurata accomodevolezza e complicità degli altri», il quotidiano milanese esprimeva il 2 novembre la condanna della mobilitazione insurrezionale fascista perché «una ferita è stata aperta nella nostra vita nazionale e perché una soluzione costituzionale non può senz’altro rimarginare tale ferita». Vi era stata una «sproporzione fra il gesto e la necessità, disarmonia profonda tra il fine immediato, che si poteva pacificamente ottenere, e l’enorme turbamento portato non tanto nella vita materiale quanto nella coscienza di questa nazione non ancora del tutto maturata ai doveri raramente inebrianti e raramente pittoreschi onde è costituita una possente disciplina civile»4. Non c’era necessità di «rinchiudere in soffitta la costituzione», «occupare l’Italia con una milizia partigiana, chiedere armi ai depositi militari e alle caserme e ottenerle o portarle via, porre

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l’esercito davanti all’opinione pubblica nella condizione di sentir pesare sopra di sé molti dubbi – perché vi sono istituti pei quali la fiducia dev’essere perfetta – per arrivar a formare un Ministero di maggioranza [...] un Ministero in cui i ministri fascisti fossero quattro, in cui l’on. Mussolini potesse far sentire la sua volontà e la sua energia da presidente del Consiglio anziché da ministro accanto a un presidente del Consiglio facilmente accomodevole». La gravità della ferita inferta alla nazione dalla «marcia su Roma» era nel perpetuare un sistema di violenza nella lotta politica che durava da quattro anni, «nella forza travolgente dell’una o dell’altra passione», e che stava avvezzando gli italiani «a vedere nella violenza la via dell’avanzamento o la possibilità delle soluzioni e a considerare un partito tanto più forte quanto più minaccioso», come mostrava la «indifferenza musulmana con cui il pubblico grosso ha assistito all’insurrezione fascista e al crollo senza dignità d’ogni autorità costituita – e all’umiliazione di tutti i poteri dello Stato, nessuno escluso». Quello presieduto da Mussolini era un ministero che, di fronte all’universale attesa di vederlo composto da «uomini espertissimi, buoni tecnici finalmente là dove i tecnici occorrono», mostrava «in più d’un caso» il «vecchio difetto della subordinazione d’ogni necessità superiore alla necessità inferiore delle combinazioni parlamentari». Inquietato dalla dichiarazione del nuovo presidente del Consiglio, che intendeva «salvaguardare la libertà di stampa, purché la stampa sia degna della libertà», Albertini scriveva: «Se dovremo vivere per un tempo indeterminato in regime d’eccezione, domandiamo che esso sia almeno un regime e non un arbitrio variabile da luogo a luogo, da umore a umore di segretari e squadristi». Più francamente, in privato, il direttore del «Corriere della Sera» esprimeva a Luigi Einaudi, il 31 ottobre, il suo «profondo disgusto» per quanto era avvenuto, «per cui diremo a Mussolini parecchie verità. Per esempio, la costituzione del suo ministero è semplicemente ridicola»5. Nei giorni successivi, Albertini apprezzò i propositi pacificatori manifestati dal nuovo governo nel suo primo comunicato ufficiale, specialmente per quanto si riferiva al ristabilimento dell’ordine, «ma intanto – obiettava il 3 novembre – le persecuzioni contro gli avversari, e non solo contro i veri avversari, continuano. Ancora s’invadono case, si sequestrano carte, si oltraggiano so-

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cialisti e democratici con oltraggi che offendono il senso della civiltà più delle violenze sanguinose. Ogni gruppo di fascisti che vuol tagliare una barba o far ingoiare dell’olio di ricino è libero di procedere a queste gesta». Al nuovo governo, e soprattutto al presidente del Consiglio, Albertini lanciava una sfida, esortandolo a «farsi obbedire anche dai fascisti» per «imporre a tutti la calma e il rispetto della legge»: «La prima dimostrazione che un Governo, un vero Governo, esista finalmente, è che ci sia un Governo solo e che tutti i cittadini, senza distinzione di parte, obbediscano lealmente e interamente alla restaurata autorità dello Stato»6. Ma nei mesi successivi, il direttore del «Corriere della Sera» perse ogni speranza che Mussolini fosse veramente capace di ristabilire il rispetto dell’autorità dello Stato da parte di tutti i cittadini, fascisti compresi, e si convinse presto che il duce neppure lo voleva, mirando esclusivamente a consolidare il potere con qualsia­si mezzo. Fu, per Albertini, la rivelazione del grande equivoco in cui egli era incorso, insieme a gran parte della borghesia conservatrice e liberale, che aveva plaudito alla violenza squadrista contro il socialismo, illudendosi di poter poi persuadere il fascismo a rientrare nell’ordine e nella legalità dello Stato liberale. Era, questa, una responsabilità che veniva rinfacciata ad Albertini: «Io sento con voi – gli scriveva Giuseppe Prezzolini il 3 novembre – tutto il dolore per il modo come si sono svolte queste giornate; sento l’offesa che si è recata e si reca alla libertà, la quale non sarà così presto sanata. Ma mi domando se voi non vi sentite abbastanza responsabili di tutto ciò, per non avere a tempo levata la voce contro le illegalità, gli abusi, le brutalità che si stavano commettendo. Troppe volte avete fatto l’apologia del bastone e dei denti aguzzi dei fascisti, per potervi oggi lagnare di quello che non è, in somma, che la loro logica conclusione, si noti bene, da molto tempo preannunziata dal fascismo. Se ciò è accaduto, si deve perché in tutti gli italiani, e persino in voi, che siete i migliori per carattere, per indipendenza e per intelligenza della libertà, l’amore per questa e per le istituzioni sue è purtroppo assai caduto». La gran massa degli italiani, continuava Prezzolini, comprese «le classi dirigenti nella quasi totalità», aveva mostrato di poter «perdere tutte le sue libertà civili senza una protesta. Questa massa (compresi soprattutto i dirigenti) ha bisogno di essere educata o meglio rieducata a sentire la dignità di cittadino e di uomo. Siamo

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tutti un po’ colpevoli di esserci illusi che le libertà erano acquisite, che non si potevano più perdere; e le abbiamo trascurate, messe in disparte, lasciando che qualcuno cominciasse a pestarle; e quel tale ha finito per buttarle dalla finestra. È colpa sua o nostra? Io credo più nostra, che sua»7. Non c’è stata una rivoluzione Nel grande equivoco del fascismo come restauratore dello Stato liberale non era mai incorso l’editorialista de «La Stampa» Luigi Salvatorelli. Osservando fin dalle origini l’azione del fascismo con una lucidità realistica, rara fra gli osservatori contemporanei, e resa probabilmente più acuta dalla sua formazione di storico, Salvatorelli osservò che le giornate dell’ottobre 1922 erano «la conclusione logica delle giornate del maggio 1915»: nel 1915 ci fu l’insurrezione non contro il governo, ma contro il parlamento, per imporre l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra, nel 1922 «l’insurrezione è stata contro il governo – e implicitamente contro la maggioranza parlamentare – per la conquista dello Stato»8. In entrambi i casi, la monarchia aveva accettato l’insurrezione legalizzandola con la sua approvazione, nell’apparente continuità dello Stato costituzionale. Esaminando il fascismo in questo quadro storico, Salvatorelli riteneva che all’origine dell’equivoco in cui era caduta la borghesia italiana, vi era stato un grave errore di comprensione della natura del fascismo, «interpretato dalla massima parte della borghesia italiana nel senso più meschinamente erroneo possibile», credendo che fosse «unicamente un movimento spontaneo e inconsapevole di difesa conservatrice e di riscossa borghese; e quando l’interpretazione era meno angusta, lo si definiva semplicemente come reazione del patriottismo esasperato». Nell’un caso e nell’altro, continuava Salvatorelli, si negava al fascismo «il carattere di vero e proprio movimento politico, di partito organizzato per fini propri, di classe sociale specifica, mirante alla conquista del potere per proprio conto», professando un’ideologia antiliberale e antidemocratica, non solo antisocialista e anticomunista. E ora che il fascismo era giunto al potere, Salvatorelli deplorava «l’offesa, anche se temporanea, fatta alla libertà ed alla legge»,

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professando «intatta ed alta la nostra fede liberale e legalitaria», ma concedeva tuttavia che «l’attacco aperto e la diretta presa di possesso dello Stato» erano «preferibili – materialmente e moralmente – a quella esautorazione progressiva, a quella coesistenza d’un governo legittimo formale e di uno effettivo extralegale, a cui abbiamo assistito in questi due anni»: «Andrebbe errato e farebbe anche, secondo noi, opera dannosa, chi oggi parlasse di rivoluzione compiuta, di Stato liberale morto, perché non si può parlare di rivoluzione là dove uno Stato vero non era, o almeno non era più; e non è vera morte là dove non esisteva più vita vera». Salvatorelli apriva tuttavia uno spiraglio alla speranza, augurando che «attraverso il disordine si riesca finalmente all’ordine, attraverso la dittatura alla libertà». Sul fronte opposto, socialisti e comunisti negavano che l’ascesa del fascismo al potere fosse stata una rivoluzione. Anzi, nel momento in cui i fascisti si insediavano, vari dirigenti del partito socialista massimalista e del partito comunista erano a Mosca, per partecipare al IV congresso della Terza Internazionale, convinti che nulla di veramente grave stesse accadendo in Italia. Gli avvenimenti delle ultime due settimane, scriveva Pietro Nenni sull’«Avanti!» il 14 novembre, «non hanno soverchiamente sorpreso il paese e la classe operaia. Indifferenza? No. Ma l’avvento del fascismo al potere era già da tutti considerato così inevitabile e prossimo, che il modo di questo avvento non poteva né molto interessare, né molto commuovere»9. Si è parlato di una rivoluzione fascista. Il motto è pomposo, sonoro. I fatti sono forse più modesti. L’abdicazione dei poteri statali era giunta a tal punto, che ormai i fascisti non avevano che da allungare la mano per cogliere il frutto maturo del potere. [...] Nel fascismo non era tutto bluf ma c’era molto bluf e, di fronte a delle mitragliatrici che avessero cantato, l’ardore delle camicie nere si sarebbe molto attenuato e soprattutto si sarebbe attenuato l’ardire dei capi. Ma avere delle mitragliatrici, dei fucili, dei cannoni non conta, se difetta lo spirito di risolutezza e d’azione e sarebbe occorso credere al miracolo per attribuire a quell’imbecille di Facta facoltà e spirito di risolutezza e di azione. Il 27 ottobre, all’atto della mobilitazione fascista, lo Stato legale e costituzionale da un pezzo non esisteva più.

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Diversamente dai socialisti, che comunque consideravano la «marcia su Roma» un colpo di Stato, i comunisti negavano «all’avvento ogni carattere rivoluzionario e ogni parvenza anche lontana di colpo di Stato», come affermava «La Rassegna comunista», perché un colpo di Stato «abbatte un ceto dirigente e muta le leggi fondamentali di uno stato; fino a oggi, la vittoria fascista ha rinnovato un gabinetto»10. Nel messaggio ai lavoratori italiani, la Terza Internazionale codificava il giudizio comunista sull’avvento del fascismo al potere definendolo un colpo di Stato controrivoluzionario: il fascismo era un’arma nelle mani dei grandi proprietari terrieri, mentre la borghesia industriale e commerciale seguiva «con ansia l’esperimento di feroce reazione che considera come un bolscevismo nero». Il segretario della Terza Internazionale Zinoviev sostenne che l’ascesa del fascismo al potere era, dal punto di vista storico, «una commedia. Fra qualche mese la situazione evolverà a vantaggio della classe operaia; per ora è un colpo di stato serio, una vera controrivoluzione»11. Rimasti soccombenti sotto l’assalto dello squadrismo, non riu­ scendo a trovare la capacità, la volontà, la decisione di opporsi alla sua salita al potere, i partiti dell’estrema sinistra cercavano di consolarsi della sconfitta patita negando al fascismo qualsiasi autonomia come movimento politico, qualsiasi capacità di poter dar vita, politicamente, a qualcosa di diverso e più originale della tradizionale dittatura borghese, qual era stato, fin dalla nascita, lo Stato italiano. In conclusione, per la sinistra comunista e socialista, l’ascesa del fascismo al potere non era stata una rivoluzione, ma tutt’al più un conflitto all’interno della stessa borghesia, fra fazioni in lotta, e perciò, che vincesse l’una o l’altra, nulla cambiava per il proletariato, che era in effetti rimasto passivo di fronte alla conquista fascista del potere. Ma qualcosa è caduto «Le organizzazioni operaie sono rimaste estranee alle due fazioni in lotta», commentava con rassegnazione «Battaglie sindacali», l’organo della Confederazione Generale del Lavoro il 7 novembre, mentre il «vecchio Stato appena ha sentito bussare alle porte si è affrettato a spalancarle lasciando libera entrata allo

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Stato fascista, accontentandosi della promessa che sul frontone si sarebbe mantenuto, per rispetto, la vecchia insegna [...] Quanto vi possa essere di conservatore o di rivoluzionario nel rivolgimento attuale sarebbe azzardato tentare di precisare. Certo si è che qualcosa è caduto, che una breccia è stata aperta nelle mura del vecchio mondo politico, e che il movimento iniziato dal fascismo è passabile di successivi, ulteriori sviluppi»12. Dopo aver proclamato la fine del patto di alleanza col partito socialista, forse incoraggiati dall’invito di Mussolini a considerare la possibilità di una loro collaborazione col suo ministero (invito però subito revocato per il veto dei nazionalisti, dei sindacalisti fascisti e dei capi squadristi), i dirigenti confederali, al pari di quelli delle cooperative, assunsero un atteggiamento di attesa nei confronti del governo Mussolini, sperando soprattutto di ottenere la sopravvivenza delle loro organizzazioni13. Un’analoga condotta ebbero i socialisti unitari, pur ribadendo il giudizio negativo sul fascismo e sul modo col quale era giunto al potere, attraverso la «lacerazione di tutti gli ordini costituiti», come scriveva «Critica Sociale» il 15 novembre14. Di quanto era accaduto la rivista di Treves e Turati accusava innanzitutto le classi dirigenti, perché invece di ergersi a difesa del regime democratico parlamentare, «l’avevano abbandonato alla sua sorte», facendosi anzi «complici della offesa» per mostrar poi di «essere appieno riconciliati con gli offensori»: e non avrebbero potuto comportarsi diversamente, dopo che avevano visto, «plaudenti più che consenzienti, formarsi uno Stato nello Stato, un esercito privato accanto all’esercito nazionale», istigando «alla sospensione delle più fondamentali guarentigie del vivere comune, ai danni del partito socialista e del proletariato»: «i balordi» mostrarono una tardiva resipiscenza solo quando «si avvidero che quelle forze extralegali, da esse incitate ed armate, seguendo la loro logica istintiva, dopo aver sbaragliato le falangi del partito socialista, si volgevano contro lo stesso ceto dirigente per espropriarlo del potere e instaurare un ordine nuovo e diverso contro il decrepito ordine precedente. [...] L’illegalismo fascista è passato sui loro corpi dopo essere passato, con l’incendio e con l’assassinio, sui corpi dei capilega. [...] Il colpo di Stato non fu compiuto in quella giornata del morente ottobre, in cui si confusero le truppe regie con le ‘camicie nere’, ma quel giorno che primamente lo Stato abdicò alle ‘camicie nere’ il dirit-

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to di punire, attributo supremo e il più terribile della sovranità». Così, continuava «Critica Sociale», le classi dirigenti erano cadute nell’equivoco di credere possibile conciliare il fascismo con lo Stato parlamentare, senza rendersi conto che il «nuovo ceto dirigente, portato in alto dalla insurrezione e divenuto Stato, non presenta armonia alcuna tra la sua organizzazione e i suoi principii», quali la «restaurazione dell’autorità, il culto rinnovato della Patria», che erano «denominatori troppo comuni per fondarvi sopra un Governo, anzi uno Stato nuovo». Una loro specificazione in senso fascista, cioè l’identificazione della restaurata autorità dello Stato con l’autorità del partito fascista, non dissimile dalla posizione del bolscevismo «che il fascismo ha confutato con le ragioni del manganello», era gravida di nefaste conseguenze per la libertà e la legalità, prefigurando «l’ipotesi di un regime fascistico di ostracismo alla democrazia» e soprattutto «alla lotta di classe proletaria». Tutto ciò, per i socialisti riformisti, rappresentava un ritorno reazionario al passato, perché, «sebbene un nuovo ceto politico sia emerso dalla trionfata violenza, noi contestiamo che si tratti di vera rivoluzione», perché «l’insurrezione non ha un programma, e ciò che fluttua tra le incoerenze e le contraddizioni del nuovo regime è mera reazione e sterile ritorno a forme oltrepassate». Contro la reazione fascista, i socialisti riformisti si ergevano a difensori delle libertà e della legalità costituzionale, perché erano conquiste non solo della borghesia ma anche del proletariato. Pertanto, il proletariato doveva prepararsi a difendere la legalità costituzionale, come aveva già fatto contro la reazione nel 1894 e nel 1898, promuovendo, «una nuova lega di tutti gli uomini liberi, al di fuori e al di sopra delle angustie concezioni di parte, per la riconquista, nonché della comune dignità, delle condizioni essenziali alla esistenza e allo sviluppo di tutti i partiti, per la salvaguardia degli interessi collettivi più alti e veramente nazionali»15. Socialisti in difesa della costituzione I socialisti unitari si opponevano all’atteggiamento dei massimalisti e dei comunisti, che quasi si rallegravano per la vittoria fascista, perché, rivelando la sua sostanza reazionaria, aveva decretato la morte della democrazia parlamentare. Certo, «per

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chi è rivoluzionario», osservava il socialista riformista Giovanni Zibordi su «Critica Sociale», era logico «non riscaldarsi per le sorti della legalità e della costituzione» e indurre una parte della massa proletaria, quella «educata dal massimalismo, a rallegrarsi dei colpi che il Fascismo menava allo Stato ‘borghese’, anche se i colpi rimbalzavano sulle teste socialiste e operaie» restando indifferenti dinanzi a un fatto che non riguardava il proletariato: «La lite era fra lo Stato vecchio e uno nuovo, ma sempre antisocialista, fra due correnti della borghesia»16. Diverso doveva essere invece il comportamento di chi «senz’essere bigotto della legalità, crede, come noi, alla verità dell’evoluzione e alla norma delle maggioranze liberamente interrogate». Comunque lo si volesse definire – «Colpo di Stato? Rivoluzione? Dittatura militare sui generis? Roba ‘da Messico’?» – l’ascesa del fascismo al potere, per Zibordi, era soprattutto «l’epilogo naturale e prevedibile di una sovversione degli istituti, delle leggi, dei costumi, dei procedimenti consueti, la quale si andava operando da due anni, e appunto per questo poté coronarsi senza sforzo né urto tragico e appariscente». Toccava dunque ai socialisti riformisti e al proletariato non sedotto dal mito rivoluzionario esigere il rispetto della costituzione, mentre la stessa borghesia liberale plaudiva «al dittatore anche per la lacerazione della Costituzione», scriveva la Kuliscioff a Turati il 14 novembre suggerendogli argomenti da trattare nel suo prossimo discorso alla Camera per il voto sulla fiducia al governo Mussolini: «Dovrete voi socialisti erigervi a difensori delle istituzioni? Non sarebbe troppo logico per un partito che è virtualmente rivoluzionario pel suo spirito innovatore. E allora si può forse girare la posizione nel senso, anziché difendere la costituzionalità, attaccare la dittatura in genere di qualsiasi natura fosse: fascista, comunista o giacobina in genere»17. E il giorno dopo aggiungeva: «Del resto, caro mio vegiotti, se una settimana fa si poteva essere ancora perplessi quanto alle previsioni sulle direttive del Napoleo­ne in sessantaquattresimo, oggi si vede già chiaro, ed è evidente che tende alla dittatura perfetta». Di conseguenza, la Kuliscioff consigliava al suo compagno che la parte principale del discorso alla Camera dovesse essere diretta «contro la dittatura in genere, l’impossibilità che possa attuarsi a lungo in un paese civile, e la reazione che verrà, inevitabile, immancabile

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anche da parte della borghesia industriale, la quale per svilupparsi ha gli stessi bisogni del proletariato: le libertà di coalizione e la libertà di contrattazione nel campo del lavoro»18. Mussolini è il meno pazzo Gaetano Salvemini era a Parigi quando il fascismo giunse al potere. Il 3 novembre scriveva a Ernesto Rossi i suoi commenti sui primi giorni di Mussolini al governo, preoccupato per quel che il nuovo presidente del Consiglio avrebbe fatto in politica estera, specialmente nei confronti della Jugoslavia per la questione di Fiume. Ma altrettanto preoccupate erano le previsioni di Salvemini sulla politica interna: «Io non credo che per il momento si avranno difficoltà gravi. Siamo nella luna di miele mussoliniana. Ma ben presto si riveleranno le difficoltà reali, che la violenza non risolve, anzi ingigantisce, e che solamente la collaborazione del maggior numero possibile di partiti intelligenti avrebbe potuto, se non superare, attenuare e rendere tollerabili. Ma partiti intelligenti in Italia non ce n’è, e di collaborazione non c’è da pensare. E allora?». Ci si affidava alla speranza, rispondeva Salvemini, che Mussolini fosse capace di dar prova di saggezza: «Mussolini è meno pazzo dei giovinetti fascisti. Ma fuori del fascismo, c’è D’Annunzio, che detesta Mussolini; è il più pazzo di tutti, è il vero direttore spirituale dei fascisti, e aspetta la ora di buttar giù Mussolini facendo il superfascista e la supercamicia nera. [...] D’Annunzio si fa avanti a fare il supermussolini, e prende il suo posto. Mussolini si stroncherà nel problema adriatico. [...] Se Mussolini potesse chiudersi nella politica interna per uno o due anni e non occuparsi di politica estera, e si mettesse a fare economie fino all’osso, avrebbe con sé i 9/10 dei non matti, che sono dopotutto, i 9/10 dell’Italia. Ma egli è il capo e il prigioniero e lo strumento dei matti. E deve essere matto. [...] Può darsi che Mussolini riesca a dar prova di saggezza, riorganizzando l’Italia all’interno ed evitando guai internazionali»19. Tutti quelli che, pur non essendo fascisti o essendo antifascisti, si esprimevano a favore di Mussolini, gli riconoscevano una personalità energica e volitiva, che possedeva il prestigio e l’autorità per imporsi ai suoi seguaci, e gli attribuivano anche senso della

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realtà e della misura per non assecondarli nelle loro ambizioni estremiste. «La maggior forza morale che possegga oggi il Governo dell’on. Mussolini – osservava il direttore del «Corriere della Sera» il 3 novembre – è la fiducia nella energia del Presidente del Consiglio. Molti pensano che sarà possibile a lui ciò che non fu possibile ad altri anche quando questi altri non mancavano di buon volere, e che almeno la timidezza diventerà il fondamento della saggezza per quelli che furono già riottosi e che, sotto altri governanti, continuerebbero irriducibilmente nella loro riottosità funesta. Molti anzi restringono tutto il loro ottimismo in questa semplice ma chiara opinione: – Egli sa comandare e sa farsi obbedire»20. Inoltre, attorno alla figura di Mussolini, osservava Gino Luzzatto in una lettera a Salvemini il 13 novembre, vi era «l’enorme aspettativa del paese, che nella sua gran maggioranza non solo si è acquietata al colpo di Stato, ma ha applaudito, aspettandosi dal dittatore il miracolo della ricostruzione immediata». Luzzatto era meno pessimista sulla gravità della situazione. Intanto, perché non riteneva che D’Annunzio potesse scalzare Mussolini, dal momento che il suo ascendente era «alquanto in ribasso», e non era «nemmeno lontanamente confrontabile con quello di Mussolini», pur senza escludere che «il Dannunzianismo possa farsi pericoloso il giorno in cui le corporazioni sindacali, vistesi deluse dal fascismo al potere, si rivoltassero contro Mussolini e si dichiarassero per il socialismo... fiumano»: una ipotesi, questa, che presupponeva la convinzione che la vittoria dei fascisti fosse «di carattere effimero; mentre tutti gli atti di Mussolini, dopo il facile colpo di stato, dimostrano in lui la ferma volontà di assicurarsi un potere dittatoriale, più o meno larvato, e di assicurarselo per lungo tempo»21. Poi era meno pessimista perché pensava che, al punto in cui «Giolitti, Bonomi e Facta avevano lasciato venire le cose, permettendo ed incoraggiando la costituzione di bande armate, lasciando loro piena libertà di movimento e di azione e l’impunità più completa; quando si era finito per permettere che queste bande si organizzassero in un vero e proprio esercito, con infiltrazioni nell’esercito regolare e nella Pubblica Sicurezza; a questo punto io dico che, per quanto riguarda l’interno, l’assunzione di Mussolini al potere era stato almeno un meno peggio, e può rappresentare l’inizio di un ritorno alla legalità e alla normalità». E infine, Luzzatto era meno pessimista perché aveva «l’im-

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pressione che prevalga in lui il desiderio di assicurarsi il potere e che questo lo trattenga da ogni colpo di testa»22. L’equivoco degli equivoci La fiducia in Mussolini era molto diffusa dopo la «marcia su Roma» non solo fra liberali e conservatori, che collaboravano con il suo governo o lo fiancheggiavano, ma anche fra liberali, demo­ cratici e socialisti, che gli erano contrari, e pensavano tuttavia che non convenisse augurarsi un suo immediato fallimento, per timore di precipitare nuovamente nel caos politico e sociale degli ultimi anni, in mancanza di alternative più autorevoli. Più per rassegnazione al fatto compiuto che per convinzione che l’ascesa al potere di Mussolini fosse un’effettiva ed efficace soluzione alla degradazione dello Stato liberale, democratici come Giovanni Amendola sperarono che qualcosa di buono potesse pur venire dal governo di Mussolini, concedendogli un credito di fiducia, o piuttosto una tregua, a breve scadenza, attendendo di giudicarlo dai fatti e dai risultati. Il deputato di Sarno non approvava certamente, come scriveva a Carlo Cassola il 7 novembre, il «metodo che ha trionfato tra i battimani del volgo codardo – che noi guardammo in faccia quando s’imbestiava nel bolscevismo, e da cui vogliamo tenerci lontani e distinti oggi, che saturo di viltà e di appetiti, s’incanala servilmente dietro il nuovo padrone. Noi diciamo quello che tutti pensano e che pochi osano dire: che cioè la legalità ha subito un oltraggio irreparabile, che nessuna finalità, nessuna considerazione di circostanze può giustificare, e di cui sentiranno il danno coloro stessi che, giunti al potere, hanno il debito di restaurare lo stato, e trovano lo stato fatalmente indebolito dal colpo di ieri»23. A chi manifestava scoramento e chiedeva consigli per l’azione, Amendola scriveva il 10 novembre che quanto era avvenuto era «gravissimo», ma bisognava comunque augurarsi «che il nuovo governo sappia e possa fare tutto il bene di cui l’Italia ha bisogno. Esso ha bisogno di fare molto, ma molto bene, per far dimenticare il colpo di piccone dato alle fondamenta dello stato»24. E il giorno dopo, a chi probabilmente gli riferiva di segnali da parte del nuovo governo tutt’altro che incoraggianti, Amendola ripeteva: «I

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sintomi dell’attività del nuovo governo, di cui mi parlate sono indiscutibili: ma dobbiamo anche tener conto delle difficoltà in cui esso si trova nel fronteggiare il fenomeno da cui è nato. A questo momento è onesto non negare la sua buona volontà: vedremo, alla prova, la capacità e i risultati»25. Non furono molti i sostenitori dello Stato parlamentare che non caddero nell’equivoco di credere che il duce di un partito armato sarebbe stato disposto a rimettere il paese sul binario della legalità e delle libertà costituzionali. Quelli che lo credettero, dimostravano di non prendere sul serio quanto Mussolini e fascisti andavano da tempo sbandierando in discorsi, scritti e azioni, per ostentare il loro disprezzo per la libertà e la legalità costituzionale, confermando una concezione antiliberale e antidemocratica dello Stato, che rifletteva coerentemente quanto essi praticamente facevano, per imporre nello Stato e nella società il loro dominio di partito pretendente al monopolio del potere. Dopo il rifiuto del re a firmare lo stato d’assedio, questo equivoco fu uno dei principali fattori che agevolarono l’azione del partito fascista per realizzare la sua aspirazione. All’origine dell’equivoco vi era l’errata valutazione del fascismo come movimento contingente ed effimero, che aveva avuto volontà e decisione per sconfiggere gli avversari con la violenza, fino ad arrivare al potere, ma non avendo competenza ed esperienza per governare lo Stato, avrebbe dovuto cedere presto la guida a politici esperti e competenti. La formazione di un governo di coalizione, e le abili manovre mussoliniane per tranquillizzare le istituzioni, favorirono l’equivoco. Per i liberali rivoluzionari come Piero Gobetti o democratici radicali come Salvemini, il governo Mussolini era solo una versione nuova delle dittature parlamentari che avevano governato l’Italia negli ultimi sessant’anni: un nuovo «giolittismo», sostenuto da una organizzazione armata. Il credito di fiducia concesso a Mussolini era condiviso da quanti – dalla monarchia alla Chiesa, dalle forze economiche alla borghesia professionale e intellettuale, fino alla più ampia cerchia dei ceti medi – avevano accolto con favore il suo avvento al governo. Pur senza approvare il fascismo e i suoi metodi violenti, essi manifestavano stima, ammirazione e persino entusiasmo per l’uomo nuovo della politica italiana, quasi attendendo da lui la salvezza della nazione. Di tutto ciò si meravigliava e si addolorava

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un molto anziano senatore liberale, vedendo nella diffusa attesa di un salvatore, la rovina dello Stato liberale e dell’Italia: «La ‘salvezza’, dunque, a prezzo della violenza e della illegalità!», commentava Giustino Fortunato il 6 novembre da Napoli, dove «tutti ‘delirano’ dalla gioia, ‘plaudenti’ a tutto quello che è accaduto e accade»: «E può davvero esser la salvezza un tanto precedente e un vano mutar di nomi, fermo restando il pervicace anarchico nostro carattere?»26. Il giorno dopo, don Giustino scriveva ancora più amareggiato: «Son rimasto letteralmente solo in tutta Napoli, posso dire – non dico a dar contro alla inimmaginabile tragicommedia avvenuta, – ma a deplorare, che noi si fosse così giù da doverla spiegare, se non addirittura giustificare. E quante bassezze, quante viltà, quante sconcezze! Questo il frutto della ‘novella Italia’?»27. E ancora l’8 novembre, in un crescendo di disperazione, don Giustino scriveva a Gaetano Mosca: «Io, che tante volte, in questi amarissimi giorni, mi son domandato del pensier tuo intorno a tanta unanime aberrazione di menti e di animi, non so resistere a chiederti, in precedenza, anche con sole poche parole su cartolina, se convieni o pur no meco nel giudizio pessimistico di quest’altra ultima follia post bellica, che ha nome ‘fascismo’.[...] Tanto, come semplice notizia: anche Benedetto Croce ha plaudito e plaude al Mussolino [sic]. [...]. E a me pare di sognare!»28.

XII

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Come Mussolini, il più giovane primo ministro nella storia dell’Italia unita, annunciò che l’ascesa del fascismo al potere era irrevocabile, dichiarando che non di un cambio di governo si trattava ma di un trapasso di regime, con l’ambizione di durare decenni.

Un parvenu al governo d’Italia Era ampia la fiducia con la quale fu accolto il nuovo governo, soprattutto perché a presiederlo era Mussolini. Anche se la sua biografia politica non offriva molti dati incoraggianti la fiducia. Di origine popolana, quale non aveva avuto in Italia nessun altro presidente del Consiglio, a trentanove anni Mussolini era il più giovane primo ministro nella storia dell’Italia unita e il più giovane fra i governanti dei maggiori Stati europei e non europei nel momento dell’ascesa al potere. Non aveva alcuna esperienza di governo né di amministrazione della cosa pubblica. Era entrato alla Camera dei deputati soltanto sedici mesi prima, alla testa di un partito armato, che fino a un anno prima di salire al potere si professava ancora tendenzialmente repubblicano. Fino a otto anni prima, Mussolini era stato il direttore dell’organo ufficiale di un partito socialista rivoluzionario, che voleva abbattere con la violenza lo Stato monarchico e la borghesia. E appena due anni prima di salire al potere si era definito lui stesso uno zingaro della politica, capo di un movimento insignificante con meno di mille iscritti. Poi, in soli due anni, si era trovato ad essere il duce di un partito milizia, che aveva conquistato con la violenza un dominio incontrastato in molte regioni, e attuando un’insurrezione aveva preteso e ottenuto dal re di uno Stato costituzionale e parlamentare l’incarico di formare il nuovo governo1.

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Mai era successo «né in Italia né altrove», commentava «L’Illustrazione Italiana», «che alla Presidenza del Consiglio fosse chiamato un deputato di prima legislatura che nemmeno avesse fatto parte di un qualsiasi governo, sia pure come l’ultimo dei sottosegretari. E c’era curiosità per sapere come avrebbe saputo condursi da Primo Ministro, di fronte al Parlamento»2. La curiosità fu presto appagata. Il pomeriggio del 16 novembre l’aula di Montecitorio aveva «un aspetto fantastico», quale «in un trentennio di frequentazione della tribuna della stampa non riesco a ricordare», con le tribune «spaventosamente gremite» e i corridoi laterali «letteralmente ostruiti dalla folla»3. Il debutto del primo ministro avvenne con un discorso quale mai era stato pronunciato, per la sprezzante brutalità del linguaggio, nell’aula di Montecitorio da parte di un presidente del Consiglio. Nell’esordio, Mussolini non si rivolse ai deputati con il consueto «Onorevoli colleghi», ma con un secco «Signori», dichiarando di compiere solo un «atto di formale deferenza verso di voi» perché il suo governo non era l’espressione della maggioranza parlamentare, ma della parte migliore del popolo italiano, che «ha scavalcato un ministero e si è dato un Governo al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento». E subito aggiunse: «Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perché ognuno lo sappia, che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle ‘camicie nere’, inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della nazione». Poi, sempre più minaccioso e sprezzante, Mussolini disse che avrebbe potuto stravincere, ma si era imposto volontariamente dei limiti: «Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto»4. Quindi assicurò che le libertà statutarie «non saranno vulnerate, la legge sarà fatta rispettare a qualunque costo. Lo Stato è forte e dimostrerà la sua forza contro tutti, anche contro l’eventuale illegalismo fascista», perché lo Stato «non intende abdicare davanti a chicchessia» e che chiunque «si erga contro lo Stato sarà punito». Annunciò però che «lo Stato fascista costituirà forse una polizia unica, perfettamente organizzata, di grande mobilità e di elevato spirito morale». Con tono moderato, illustrò gli orientamenti ge-

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nerali della politica interna ed estera del governo. Ma nella conclusione, annunciata da un altro «Signori!», Mussolini riprese il tono brutale e minaccioso dell’esordio: «Io non voglio, finché mi sarà possibile, governare contro la Camera: ma la Camera deve sentire la sua particolare posizione che la rende passibile di scioglimento fra due giorni o fra due anni». Quindi chiese i pieni poteri per un anno, e chiuse con un’invocazione a Dio affinché «mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica»5. Quando finì di parlare, ci furono fragorosi applausi dai banchi della destra, mentre il resto della Camera rimase silenzioso, salvo pochi applausi di alcuni deputati popolari. Fascisti e nazionalisti si precipitarono a congratularsi con Mussolini, «ma questi, volendo evitare i complimenti, prende alcuni fogli dal tavolo e si mette a leggere, tanto che i deputati rimasti ritornano lentamente verso i loro settori. Solo due o tre deputati fascisti hanno dall’on. Mussolini una frettolosa stretta di mano; gli altri deputati fascisti si pongono sull’attenti salutando col gesto romano»6. Poi, il presidente del Consiglio si recò con i ministri al Senato, dove ripeté le dichiarazioni fatte alla Camera, ma con tono rispettoso e deferente, rivolgendosi ai «Signori Senatori», e spiegò che la prima parte delle sue dichiarazioni lette alla Camera «non riguarda minimamente il Senato», che considerava «una forza dello Stato, come una riserva dello Stato, come un organo necessario per la giusta e oculata amministrazione dello Stato»7. Il debutto del ministero Mussolini, commentò «La Stampa» in un editoriale intitolato Il dominatore, sarebbe rimasto «memorabile negli annali del Parlamento italiano», per «le frustate brutali che l’uomo emerso dalla rivoluzione di ottobre non ha lesinato all’assemblea che gli stava innanzi e che non ha reagito», rimanendo sbigottita, salvo i fascisti plaudenti, «e nulla ha opposto alle parole del dittatore in veste di capo del Governo». C’era stato solo il grido isolato del deputato socialista Modigliani: «Viva il Parlamento!», che aveva scatenato l’ira dei deputati fascisti minaccianti una spedizione punitiva contro di lui: un grido solitario, e null’altro. Durante la sospensione della seduta, parecchi deputati democratici, popolari e socialisti si erano avvicinati a Giolitti dicendogli che era necessaria una protesta per difendere la dignità della Camera, altrimenti «all’assemblea non restava che andarsene». «Non vedo questa necessità! Io approvo pienamente il discorso

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pronunciato dal presidente del Consiglio», replicò l’ottantenne parlamentare: «Questa Camera ha il Governo che si merita. Essa non ha saputo darsi in quattro crisi un Governo e il Governo se lo è dato il paese da sé»8. Il parlamento approva L’atteggiamento di Giolitti indusse i deputati a desistere dal proposito di dare le dimissioni in massa per protesta. Il giorno dopo, nella discussione sulle comunicazioni del governo, mentre i deputati dell’opposizione parlavano illustrando i motivi del loro voto contrario al governo, Mussolini, ostentando indifferenza a quanto essi dicevano, «s’era mischiato ai deputati del gruppo fascista, all’estremo settore destro, e, aperto un giornale, pareva profondamente interessato a quella lettura. Non era di sicuro un’attitudine molto riguardosa verso la maestà dell’assemblea legislativa. [...] Le poche parole che rivolse alla Camera le disse in modo quasi casuale, ora da un capo ora dall’altro del banco ministeriale, dove gli accadesse di sedere in quel momento della seduta, che spese vagabondeggiando dall’uno all’altro seggio», interrompendo spesso gli oratori antifascisti con commenti sarcastici. E quando il presidente della Camera gli diede la parola per l’ultima volta, «l’invito lo raggiunse che era in piedi in mezzo all’emiciclo. E parlò di là fra la sorpresa dei formalisti e lo scandalo dei devoti del cerimoniale che scrollavano il capo a tanto dispregio delle buone norme tradizionali»9. Altra, e più volgare manifestazione del nuovo stile introdotto alla Camera dai governanti fascisti furono le triviali interruzioni, mentre parlava Turati, da parte di Giunta, che si rivolse al deputato socialista gridando «Smettetela, vecchia baldracca», e da parte del sottosegretario De Vecchi, che insultò i popolari chiamandoli «cialtroni», replicando poi arrogantemente al presidente della Camera, che annunciò le sue dimissioni. Fu Mussolini a rimediare, recandosi al banco della presidenza per invitare De Nicola a ritirare le dimissioni, cosa che avvenne, fra gli applausi della maggioranza, quando anche De Vecchi si recò a scusarsi col presidente della Camera10. La Camera votò la fiducia al governo con 306 voti contro 116 e 7 astenuti, mentre 76 deputati erano assenti: votarono contro

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i socialisti unitari, i massimalisti, i comunisti, i repubblicani e i sardisti; si astennero i deputati della minoranza slava e tedesca; votarono a favore, con i fascisti, i liberali, i democratici di vari gruppi, i nazionalisti e i popolari. Il 25 novembre la Camera discusse e votò il disegno di legge per «munire il Governo del Re di ampi poteri che gli consentano di risolvere liberamente, senza le difficoltà della procedura parlamentare, i più urgenti problemi della finanza e della pubblica amministrazione». Fu approvato con 275 voti favorevoli e 90 contrari11. Al Senato la discussione si svolse il 26 e il 27 novembre12. Ancora più rare che alla Camera furono le voci contrarie al governo, fra le tante dei senatori che plaudirono al nuovo movimento salvatore della patria, convinti che Mussolini non avesse in mente l’avvento di una dittatura, come scrisse nel suo diario il senatore Ettore Conti13. Solo il senatore Luigi Albertini, da «costituzionale intransigente» e da «liberale impenitente», denunciò la grave ferita inferta alla tradizione costituzionale italiana e la brutalità sprezzante del linguaggio antiparlamentare di Mussolini. Tuttavia dichiarò che dal nuovo governo si attendeva che mantenesse le promesse di restaurare la legalità contro l’arbitrio e di porre fine all’esistenza «in Italia di due corpi armati, quello dei fasci e quello dello Stato», perché nessuno poteva «farsi avanti per decretarsi il monopolio di una interpretazione infallibile del vero interesse italiano», che spettava solo «ai poteri responsabili»14. Votarono a favore del governo 164 senatori, contro 26, su 190 votanti, ma risultarono assenti 202 senatori. Commentando il voto della Camera, l’ambasciatore francese osservò che Mussolini aveva «dato l’impressione di essere padrone della situazione e se l’istituzione parlamentare ha trovato oggi molti difensori, la Camera attuale non ne ha trovato nessuno, nemmeno nel suo seno. Più tardi ci sarà certamente una reazione sui principi misconosciuti e violati dopo il 26 ottobre, ma nessuna è prevedibile immediatamente a favore di una classe politica così duramente maltrattata»15. Il giorno in cui la Camera votava la fiducia al governo, Anna Kuliscioff sfogò la sua indignazione con Turati, «tanto sono piena di disgusto, avvilita e quasi sgomenta dello spettro di rovine che si prospetta nell’avvenire. Tutto è estremamente pazzesco: le scudisciate distribuite in pieno a tutta la Camera, il disprezzo

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del Parlamento, gli insulti ai deputati, pronti a schiacciarlo coi loro voti di fiducia, la nessuna reazione dei sputacchiati e umiliati deputati, salvo un timido grido di Modigliani, non seguito da nessuno e caduto nel vuoto in mezzo al servilismo sbigottito di tutti. E il presindente della Camera, custode della dignità del Parlamento, che non ebbe né uno scatto, né una parola di difesa di chi egli rappresentava nella sua carica di eletto degli eletti! Oh, che schifo, che umiliazione, che desolazione di vivere o vegetare in un momento così torbido nella storia del nostro povero paese! [...] Dopo il colpo di stato bonapartista di Benito I non gli rimarrà che di chiudere la Camera, appena ottenuto il bilancio provvisorio e i pieni poteri sino al giugno del 1923. Non faccio delle ipotesi ottimiste su reazioni nel Paese: il dittatore starà in piedi finché gli piacerà, e deputati e Paese cominceranno forse a reagire, quando la disoccupazione comincerà a essere minacciosa»16. E il giorno dopo, la Kuliscioff aggiungeva che, dati i «tempi manicomiali», non era «da meravigliarsi che, dopo l’accesso epilettico di ieri, culminato nel fattaccio De Vecchi-De Nicola, fosse subentrata una détente generale. Mussolini ha cambiato tono e venne a più miti consigli, avendo ripiegato la frusta sotto il banco dei ministri, salvo a sfoggiarla di nuovo secondo che gli tornerà più o meno utile», senza neppure escludere una possibile collaborazione dei socialisti unitari, tanto più che il discorso di Turati era apparso alla sua compagna, «fiero e mordace nella forma», ma «tutt’altro che feroce» nella sostanza17. Le frustate dell’altro ieri alla Camera, gli insulti di De Vecchi ai popolari, le velleità di un fiero gesto prima di morire di qualche parlamentare più in vista, la stessa minaccia del De Nicola, tutto si è quietato prima del voto, e i 306 che votarono pel ministero furono tutti addomesticati subito dal tono più parlamentare del domatore... dei conigli. [...] E ora cosa succederà? Probabilmente la concessione dei pieni poteri e poi la discussione della riforma elettorale. Votata anche questa come la vorrà il dittatore, i deputati, come cani bastonati, torneranno ai loro collegi nella speranza che in primavera alle elezioni possano tornare come squadristi dei blocchi nazionali. Non illudiamoci: Mussolini è furbo e non gli manca l’intuito politico; a elezioni fatte col manganello si insedierà per una durata non prevedibile.

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Nuovo regime Il governo Mussolini, nato per incarico del re ma attraverso il ricatto di un moto insurrezionale, aveva ricevuto dal parlamento la sua convalida costituzionale. Concedendo la fiducia e gli ampi poteri, la maggioranza parlamentare aveva espresso un orientamento condiviso dalle istituzioni statali e dalla borghesia conservatrice e liberale, mentre il resto della popolazione era rimasto largamente passivo o indifferente a quanto era accaduto. Così facendo, la maggioranza parlamentare riteneva di aver compiuto quanto era necessario per favorire il rapido assorbimento del fascismo nello Stato costituzionale, come se nulla di grave fosse veramente accaduto in Italia fra il 27 e il 30 ottobre. Si confermava così l’atteggiamento di autoillusione, che aveva portato il generale Sani, comandante del corpo d’armata di Bologna, a ritenere, come scriveva il 6 novembre, che «i fatti avvenuti nei giorni decorsi non abbiano costituito alcunché di allarmante, e quanto meno un’offesa alla sovranità dello Stato»18. Allo stesso modo, nelle discussioni alla Camera e al Senato, quasi nessuno dei parlamentari denunciò la gravità delle violenze compiute dai fascisti nella capitale nei giorni successivi al 29 ottobre, con 19 morti e 20 feriti gravi e la maggior parte dei quali vittime dei fascisti19. Tuttavia, insediato Mussolini al governo e sanata apparentemente l’insurrezione con il voto di fiducia del parlamento, per la maggioranza parlamentare, per le istituzioni statali, per la borghesia conservatrice e liberale, la violenza squadrista sembrava essere relegata in un passato ormai concluso, che lo stesso governo Mussolini dichiarava di voler definitivamente chiudere assicurando che non avrebbe tollerato l’illegalismo fascista. «È dunque vero che niente è accaduto?», si domandava la rivista fascista «Polemica», all’indomani della «marcia su Roma»20. Non la pensavano così i pochi antifascisti che per primi considerarono l’avvento del governo Mussolini l’inizio di un nuovo regime, anche se non ne prevedevano la durata. Le espressioni «nuovo regime» e «regime fascista» cominciarono a circolare subito dopo la «marcia su Roma». Gaetano Salvemini, che si trovava a Parigi, in una lettera scritta il 29 ottobre a Ernesto Rossi, già pensava che, andando Mussolini al governo, gli si sarebbe posto il problema di dimettersi dal suo posto di professore universitario «piuttosto che compiere un atto contro la mia coscienza e contro

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la mia dignità: per esempio aderire al nuovo regime, giurare fedeltà, ecc.»21. E ancora Salvemini parlava di «nuovo regime» in una lettera a Gaetano Mosca del 22 novembre, dove, commentando il modo illegale col quale il fascismo era giunto al potere, scriveva che non era «il caso di formalizzarsi troppo per un disordine di più o di meno. Ogni regime nuovo nasce da un atto più o meno illegale. Quel che importa è che il nuovo regime si riveli utile al paese e sia accettato da quello che è il vero plebiscito, che legittima tutte le illegalità, l’acquiescenza più o meno ovvia del paese»22. Cinque giorni prima, Giuseppe Prezzolini aveva annunciato a Salvemini l’«idea di fare una rivista di coltura, che raccolga le fila di coloro che non accettano il nuovo regime»23. All’inizio del 1923, Anna Kuliscioff, nella corrispondenza con Turati, usava già l’espressione «regime fascista»24. Parlando alla Camera il 2 febbraio 1923, il socialista unitario Giuseppe Canepa disse che non era nella responsabilità del suo gruppo parlamentare «impedire il pieno esperimento del regime fascista», pur continuando a difendere le «libertà manomesse, segnatamente per le organizzazioni proletarie», e a denunciare le «violazioni alle guarentigie parlamentari» e «le offese ai deputati»25. Col termine «regime», secondo il significato più comune in quel tempo, s’intendeva definire un complesso di norme e di regole applicate a una condotta di vita, la modalità di funzionamento di un meccanismo, o l’andamento più o meno costante di un fenomeno naturale. Mentre non era consueto usare il termine per definire il governo di uno Stato parlamentare, dove il potere esecutivo era esercitato temporaneamente da governanti approvati da una maggioranza parlamentare eletta in libere competizioni elettorali, ed era sempre revocabile se non più sostenuto dal consenso parlamentare o elettorale. Il governo di uno Stato liberale non era un regime, ma l’organo esecutivo del regime parlamentare, inteso come il complesso dei principi costituzionali e delle istituzioni dello Stato liberale o democratico. Invece i fascisti, nell’adoperare l’espressione «regime fascista», attribuirono subito al termine un significato nuovo e peculiare, che era antitetico alla concezione liberale e parlamentare del governo: essi intendevano affermare il carattere irrevocabile del governo fascista, associandolo alla convinzione che il fascismo era un partito rivoluzionario portatore di uno Stato nuovo, che non poteva essere assorbito né incana-

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lato nello Stato liberale parlamentare, ma doveva operare per la sua trasformazione e il suo superamento. I fascisti manifestarono apertamente la volontà di rendere irrevocabile la loro ascesa al potere subito dopo la «marcia su Roma», e continuarono a ripeterlo con insistenza sempre più frequente nei mesi successivi. Come fece, fin dall’inizio del suo governo, lo stesso Mussolini. Un irrevocabile fatto compiuto Nei primi tempi, Mussolini non usò la parola «regime» per definire il suo governo, preferendo chiamarlo, secondo le circostanze, «governo nazionale» o «governo fascista», ma fin dall’inizio lo associò all’idea della rivoluzione fascista e alla concezione fascista dello Stato, unificandole nell’idea dell’irrevocabilità del suo avvento al potere. Dopo aver affermato alla Camera di essere al governo per difendere e potenziare la rivoluzione delle camicie nere, Mussolini non perse occasione, in Italia e all’estero, per ribadire il carattere rivoluzionario della «marcia su Roma», intendendo per «rivoluzione» l’assunzione del potere in maniera irrevocabile. «Abbiamo il potere e lo conserveremo con tutta la disciplina, la forza e l’energia che saranno necessarie», disse il 22 novembre all’inviato speciale di un giornale francese mentre era a Losanna per una conferenza internazionale26. Alcune settimane dopo, l’11 dicembre, a Londra, dove si trovava per una conferenza sulle riparazioni, il duce disse ai fascisti italiani residenti nella capitale britannica, che la rivoluzione fascista «è appena incominciata» e ogni tentativo di riscossa da parte degli avversari «sarà inesorabilmente schiacciato. L’Italia vecchia è morta e non risorgerà»27. Il giorno prima, in una intervista al «Daily Herald», Mussolini aveva annunciato: «L’organizzazione militare fascista sarà conservata per la difesa dello Stato fascista»28. E il 15 dicembre, al Consiglio dei ministri, chiese di essere autorizzato ad agire con i mezzi che avrebbe ritenuto più opportuni contro chiunque provocasse disordine nella nazione, riferendosi però in particolare ad «alcune esigue minoranze di politicanti che non si rassegnano all’assoluta irrevocabilità del fatto compiuto nell’ottobre col trapasso di regime»29. Le dichiarazioni mussoliniane sull’irrevocabilità del regime fascista non erano retorica. Ad esse seguirono subito i fatti. La sera

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del 15 dicembre, dopo il Consiglio dei ministri, Mussolini riunì nel suo appartamento in albergo i membri fascisti del governo, il segretario e i vicesegretari del partito fascista e i membri della direzione, il segretario dei sindacati fascisti, il generale De Bono che era stato nominato capo della polizia, Michele Bianchi che era stato nominato segretario generale al ministero dell’Interno, e Cesare Rossi. Nasceva così il Gran Consiglio del fascismo, nuovo organo supremo del PNF presieduto da Mussolini. «Il Popolo d’Italia» definì la creazione del Gran Consiglio un «avvenimento sostanziale per lo sviluppo e l’affermazione della politica fascista», da «considerarsi definitivo per la netta fisionomia che sarà per prendere lo Stato fascista uscito dalla rivoluzione»30. Il primo argomento di cui si occupò il Gran Consiglio fu «la migliore utilizzazione delle organizzazioni militari fasciste, iniziando la costituzione dei primi nuclei scelti col titolo di Milizia per la sicurezza nazionale». Nella stessa sessione, fu deliberato che le corporazioni sindacali avrebbero assunto il nome di «fasciste» e che solo ad esse sarebbe stata concessa la rappresentanza nei corpi consultivi dello Stato. Fu approvato anche il progetto di riforma elettorale con sistema maggioritario proposto da Bianchi, che concedeva i tre quarti dei seggi alla lista che otteneva la maggioranza relativa. Il 19 dicembre, parlando a una rappresentanza di squadristi senesi, Mussolini disse: «Lo Stato fascista è forte e deciso a difendersi a tutti i costi con l’energia più fredda e inesorabile» e annunciò la prossima istituzione della «Milizia per la Sicurezza Nazionale», che era «il primo passo dell’opera di identificazione del fascismo con lo Stato»31. Con premeditata ferocia Mentre il fascismo introduceva fondamentali innovazioni nella sua organizzazione di partito, che avevano però pesanti ripercussioni anche sulla organizzazione dello Stato, come l’istituzione della Milizia per la sicurezza nazionale, gli squadristi continuavano impuniti le loro violenze, nonostante i reiterati e imperiosi ordini di Mussolini, del sottosegretario all’Interno Finzi e del capo della polizia De Bono ai prefetti per reprimere anche l’illegalismo fascista. Ma i loro ordini non avevano maggior efficacia di quelli

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impartiti dai precedenti governi liberali. L’avvento del fascismo al potere non fu la restaurazione dell’ordine pubblico e dell’imperio della legge, ma l’inizio di un regime di disordine autocratico, dove l’unico fattore di disordine era il partito fascista con le sue pretese di predominio, specialmente a livello locale, nei confronti degli stessi rappresentanti del governo. Considerandosi ormai detentori del potere, gli squadristi spadroneggiavano con accresciuta arroganza, prepotenza e violenza; anche se erano cessate le offensive contro le città, proseguivano le offensive contro tutti i partiti non fascisti, contro le cooperative e le Camere del lavoro che erano sopravvissute ai precedenti assalti. «Questo – scriveva il 10 novembre il direttore del Consorzio provinciale delle cooperative di consumo di Bologna – è il periodo in cui si dà l’assalto definitivo a tutte le nostre Cooperative di consumo che esistono, e sono le migliori»32. La violenza squadrista non risparmiava neanche i partiti che collaboravano col governo Mussolini. In provincia di Brescia, dove il partito popolare aveva largo seguito, i fascisti trattavano i popolari come nemici per distruggere la loro egemonia, non risparmiando neppure il clero. Il 4 dicembre squadristi armati di pugnali e rivoltelle invasero una canonica, aggredirono e sequestrarono il parroco e il curato, ma si scontrarono con la popolazione che reagì e dopo una sparatoria riuscì a liberare i due sacerdoti. L’episodio violento divenne un caso nazionale in seguito alla ferma protesta del vescovo di Brescia, monsignor Gaggia, che pubblicamente invocò giustizia contro «l’orda di teppisti», «emuli di Unni e Vandali», una «feroce masnada» che rendeva le civili contrade «preda di assassini»33. Risuonava ancora l’eco di quanto avvenuto a Brescia, quando accaddero i fatti di Torino. Nel capoluogo piemontese, dal 18 al 20 dicembre, gli squadristi scatenarono una violentissima rappresaglia provocando una strage34. Per vendicare la morte di due fascisti uccisi da un comunista per questioni private, gli squadristi assassinarono con deliberata ferocia undici comunisti e socialisti, o ritenuti tali; spadroneggiarono per tre giorni nella città; ferirono gravemente ventisei persone; terrorizzarono famiglie inermi devastando le loro abitazioni; aggredirono, perquisirono e sequestrarono molte persone, che furono picchiate e costrette a ingerire olio di ricino; assaltarono e devastarono il palazzo dell’Associazione generale degli operai, e i locali dell’organo comunista «L’Or-

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dine Nuovo», minacciando di morte Antonio Gramsci e altri redattori del giornale; occuparono la sede di un circolo giovanile e incendiarono l’edificio della Camera del lavoro, impedendo ai pompieri di intervenire finché non si avvertì il pericolo di propagazione dell’incendio alle abitazioni contigue. E mentre l’edificio bruciava, gli squadristi cantavano, suonavano e danzavano come a «festeggiare quel grande falò. La letizia osannante dei fascisti nello sfondo rossastro dell’ardente rogo nel giorno di tante uccisioni pareva avere macabre risonanze», scrissero nella loro relazione l’ispettore generale di P.S. Giovanni Gasti e il deputato fascista Francesco Giunta, incaricati da Mussolini di condurre un’inchiesta sulla strage di Torino35. La loro relazione, pur adducendo vari motivi per spiegare la virulenza della rappresaglia fascista attribuendone la causa scatenante ai comunisti, denunciava con franchezza la premeditata ferocia degli squadristi. La rappresaglia si è svolta infatti da parte delle squadre della Legione torinese in modo così disordinato e caotico, con tanta irruenza e con tanto acciecamento di passione che fu superato ogni limite non solo di comprensibile giustizia sommaria, ma di razionalità, di coerenza, di proporzione e di umanità; e questo sconfinamento da ogni criterio di commisurazione e di responsabilità, questo sbrigliamento da ogni freno morale portò ad errori inconcepibili, a scambi di personale, ed al sacrificio di vittime innocenti consumato in circostanze di tale efferatezza da insinuare nell’animo un senso di invincibile angoscia. Ed il raccapriccio si ingigantisce ed il pubblico danno trascende la stessa enorme gravità dei luttuosi episodi ove si consideri che essi non furono il risultato di singole determinazioni di volontà individuali sfrenatesi improvvisamente nell’impeto di incoercibili impulsività e nelle immediate ritorsioni di una reazione violenta, ma furono l’effetto calcolato e voluto, sia pure come sanzione punitrice e giustiziera, delle deliberazioni di uomini che avevano responsabilità di decisione e di comando, di vigilanza e di guida, che dovevano essere pienamente consapevoli delle conseguenze morali, giuridiche e politiche dei loro ordini, che non dovevano essere ignari né delle direttive del governo, né degli eccessi cui poteva trascendere una massa di centinaia di giovani lanciati ad una repressione in grande stile a cui non erano stati imposti né limiti né controlli, né misura

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di tempo o di spazio, cosicché le uccisioni poterono continuare anche dopo il primo giorno dell’attentato comunista, quando il ragionamento doveva necessariamente subentrare a prospettare tutta la voragine che si stava scavando. La premeditazione o la incoscienza del Direttorio del Fascio torinese e del Comando della Legione incute raccapriccio e sgomento. La strage compiuta dagli squadristi avvenne con la totale inerzia delle autorità governative durante i giorni della selvaggia rappresaglia. Il contegno delle autorità di pubblica sicurezza era stato «nella grave contingenza quasi interamente passivo». In quei giorni il prefetto e il questore non erano a Torino, e il vicequestore non aveva preso nessuna misura per prevenire o contenere entro certi limiti la rappresaglia pubblicamente annunciata con manifesti, limitandosi a informare il prefetto e a tentare di dissuadere il segretario federale del PNF e il direttorio del Fascio dai loro propositi di vendetta. E lo stesso atteggiamento passivo ebbero i comandi dei carabinieri e delle guardie regie. Superava «ogni credibilità», si legge nella relazione, il fatto che «nei tre giorni dei disordini neppure un’ordinanza di servizio, neppure un fonogramma circolare di istruzioni, di direttive, di disposizioni fu diramato dal Reggente la Questura agli Uffici dipendenti, ai Comandi dei Carabinieri e delle Guardie Regie». E mentre la cittadinanza «viveva ore di angoscia e di ansia, di fronte all’imperversare della raffica fascista e all’incalzarsi delle notizie degli omicidi e degli incendi» e «mirava con stupore le camicie nere pattugliare armate per la città, fermare i tram, perquisire i cittadini, scorazzare in automobile ed in camions, la Questura rimaneva silenziosa e più che silenziosa, assente». Il comandante degli squadristi, Pietro Brandimarte, principale organizzatore della rappresaglia, in un’intervista rilasciata a «Il Secolo» il 18 dicembre, disse, con macabra vanteria, che le vittime erano state più di venti, scelte da una lista di trecento fra comunisti e socialisti, e confermò che la strage era stata premeditata per terrorizzare gli avversari e farli desistere da altri agguati contro i fascisti: «I comunisti sono avvisati. Abbiamo l’elenco di tutti loro e se si verificheranno altri incidenti gravi come questo, noi li scoveremo e daremo altri esempi»36. De Vecchi, pur estraneo alla strage, inviò un telegramma per approvare l’operato degli squadristi come una giusta vendetta, mentre Mussolini definì il massacro «un’onta per

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la razza umana» minacciando punizioni esemplari per i colpevoli37. Ma nessuna punizione esemplare fu inflitta agli squadristi responsabili di massacri e di violenze. Anzi, il 22 dicembre, fu approvato un decreto d’amnistia per tutti i reati «commessi in occasione o per causa di movimenti politici o determinati da movente politico, quando il fatto sia stato commesso per un fine nazionale, immediato o mediato»38. Un mese dopo, a La Spezia, la rappresaglia per l’uccisione di un fascista provocò quattordici morti e un centinaio di feriti. Dal 1° novembre 1922 al 31 marzo 1923 non meno di 118 persone morirono per mano fascista39. La rivoluzione continua Pur promettendo continuamente a parole la normalizzazione dell’ordine pubblico, nei fatti Mussolini tollerò, e in alcuni casi comandò, l’uso della violenza per ridurre gli oppositori all’impotenza ed estendere il potere del fascismo in tutto il paese. La forza armata dello squadrismo fu legalizzata come Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN): il decreto che la istituiva fu presentato e approvato dal Consiglio dei ministri il 28 dicembre e dal Gran Consiglio nella sua seconda riunione ufficiale, tenuta la notte fra il 12 e il 13 gennaio 192340. Tutte le altre formazioni di tipo o inquadramento militare, compresa la Guardia Regia, furono sciolte. La nuova milizia, dichiarò Mussolini, «sarà essenzialmente fascista, avendo essa Milizia lo scopo di proteggere gli inevitabili ed inesorabili sviluppi della rivoluzione d’ottobre»41. Nella terza riunione, tenuta il 13 gennaio, il Gran Consiglio approvò la trasformazione della direzione del PNF in due segretariati generali, uno politico e uno amministrativo; la nomina dei «commissari politici del fascismo, agli ordini diretti del Presidente del Consiglio»; la riaffermazione della «leale devozione alla monarchia, intesa come espressione della sintesi suprema dei valori nazionali e come elemento fondamentale della continuità dell’unità della Patria», contro la «svalutazione della funzione politica e storica della Corona da parte delle caste che finora avevano monopolizzato il potere attraverso la degenerazione democratica del regime parlamentare». Infine, il Gran Consiglio approvò una mozione di Michele Bianchi, confermato segretario generale del partito, con

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la quale si ammonivano «i nemici larvati o palesi del fascismo, individui o gruppi di qualsiasi partito, che ogni loro tentativo di revocare il fatto compiuto con la grande rivoluzione fascista dell’ottobre 1922 sarà inesorabilmente schiacciato dal Governo»42. Il resoconto della riunione non dava chiarimenti sulla funzione dei nuovi commissari politici del fascismo, ma il giorno dopo il giornale di Farinacci «Cremona Nuova» attribuiva a Mussolini una dichiarazione in proposito: «Creerò – avrebbe detto Mussolini – dei prefetti volanti: essi saranno dislocati rapidamente in provincia, secondo le necessità»43. E due mesi dopo, Mussolini spiegò che il commissario politico fascista era un «elemento integratore del prefetto», delegato a «sorvegliare un certo numero di Regioni» per quanto riguardava le condizioni dell’ordine pubblico «particolarmente nei riguardi delle organizzazioni fasciste e dei rapporti di queste con gli altri partiti e con il prefetto», intervenendo «prontamente a risolvere le situazioni imbrogliate, a comporre i dissidi, eliminare i dissensi, reprimere gli abusi»44. Commentando il 17 dicembre 1922 la prima riunione del Gran Consiglio, «La Stampa» osservò perspicacemente che l’istituzione del nuovo organo fascista e le deliberazioni che esso aveva preso, rappresentavano «una notevole accentuazione del regime fascista tanto che si potrebbe dire che il nuovo periodo rivoluzionario del fascismo sia sostanzialmente più significativo del periodo iniziale. [...] Dal complesso degli avvenimenti emerge ad ogni modo che siamo ancora una volta in piena rivoluzione»45. Il giornale torinese confermò il 14 gennaio 1923 questa interpretazione delle decisioni del Gran Consiglio: infatti, nel commentare le due successive sessioni del Gran Consiglio, «La Stampa» avvertì che «se vengono esaminate a fondo le deliberazioni prese e si procede alla loro coordinazione, si constata che le riunioni di ieri e di oggi hanno avuto di mira obbiettivi importanti, cioè il raggiungimento del completo assetto del regime fascista e la riaffermazione dei suoi propositi rivoluzionari aggiungendovi il monito della irrevocabilità dell’attuale stato di cose e la minaccia di schiacciamento a chiunque (individuo ovvero collettività) osasse attraversare la via all’on. Mussolini. Il Consiglio è venuto alla sistemazione pressoché completa (teoricamente parlando) del regime fascista, completando la trasformazione dello squadrismo e accentrando nelle mani dell’on. Mussolini – fiancheggiato da due segretariati

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generali, politico l’uno e amministrativo l’altro – i poteri finora assegnati alla Direzione del partito nazionale fascista»46. Le considerazioni del giornale torinese sull’instaurazione in corso del regime fascista, furono confermate da varie dichiarazioni di parte fascista fatte nello stesso periodo. Il 1° gennaio 1923, ricevendo per gli auguri di Capodanno i componenti del suo governo, Mussolini disse: «Il compito storico che ci attende è questo: fare di questa nazione uno Stato, cioè una idea morale che si incarni e si esprima in un sistema di gerarchie individuate, responsabili, i cui componenti, dal più alto al più basso, sentano l’orgoglio ed il privilegio di compiere il proprio dovere. [...] Costituire lo Stato unico unitario, unico depositario di tutta la storia, di tutto l’avvenire, di tutta la forza della nazione italiana»47. Nel primo numero del nuovo anno, «Il Popolo d’Italia» intitolava l’articolo in cui riferiva le parole del presidente del Consiglio L’instaurazione dello Stato Fascista nel pensiero e nei propositi di Mussolini. Nell’editoriale, il giornale mussoliniano rievocò l’anno trascorso, indicando nell’intervento fascista durante lo sciopero legalitario «la prova generale dello Stato fascista», mentre lo Stato liberale rivelò allora definitivamente «la sua inguaribile debolezza e la sua assoluta incapacità a dirigere ancora la nazione». Il fascismo «si sostituì in tutto e per tutto allo Stato» iniziando allora la sua «vera e travolgente ascesa» fino al compimento della marcia sulla capitale: «Roma è ripresa e riconsacrata per sempre alla coscienza nazionale»48. Con la marcia su Roma s’inizia la rivoluzione fascista. C’è gente che tra il serio e il faceto ancora si domanda in che cosa consista questa «rivoluzione». In essa non sa vedere che un cambiamento di ministri, nient’altro. Questa gente non vuol capire che col Fascismo è andato al potere lo spirito di Vittorio Veneto, che tutto vuol purificare e rifecondare, che vuole liberare dalle pastoie la giovane Nazione e ridarle l’ampio respiro di potenza mediterranea, si vuole disperdere con sistematici e freddi tagli chirurgici la vecchia mentalità campanilistica, parassitaria, la vecchia concezione democratica e demagogica e creare la gerarchia dei valori, la disciplina, l’ordine e la nuova mentalità per la quale il cittadino è considerato come un milite, che all’interno e all’estero è intieramente e solamente legato alle sorti della Nazione.

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Tanta immensa opera non si compie né in un giorno né in un anno ma in decenni. È per questo che abbiamo detto che con la marcia su Roma s’inizia la rivoluzione fascista. Soltanto i rammolliti ideologi, gli architetti dei vari progetti di felicità universale credono ai miracoli e ai trapassi celeri. Che in Italia, nei primi due mesi dopo l’insediamento del fascismo al potere, fosse già in atto la costruzione di un nuovo regime antidemocratico, appariva del tutto chiaro ed evidente ad un acuto osservatore come Salvatorelli. Commentando il 21 dicembre la creazione del Gran Consiglio, l’annunciata istituzione della Milizia nazionale e la strage fascista a Torino, Salvatorelli osservò con disincantato realismo che tutti quegli avvenimenti dimostravano la fallacia della speranza di quanti avevano creduto che il fascismo, chiuso l’episodio rivoluzionario dell’insurrezione e del colpo di Stato, si sarebbe inquadrato nelle istituzioni politiche preesistenti. «Per conto nostro, su questo punto noi fummo sempre di parere diverso: dicemmo fin dal principio che ci pareva trattarsi non di un episodio rivoluzionario già chiuso, ma di una vera rivoluzione sboccante in una dittatura. [...] Sulla dittatura, dunque, non avemmo dubbi e la prospettammo subito, illustrandola come una conseguenza degli avvenimenti»49. Ma non si trattava, precisava Salvatorelli, di una dittatura «con carattere nazionale superiore ai partiti», la quale avrebbe permesso, «anche a chi non riteneva, per onesta convinzione, di entrare nell’orbita del fascismo, una collaborazione politica indiretta, consistente nel propugnare o combattere idee, provvedimenti, movimenti politici ed economici, secondo un criterio di utilità nazionale conciliabile con il nuovo stato di fatto». Invece, gli ultimi fatti e atti del fascismo mostravano il contrario: «l’importanza delle ultime manifestazioni governative sta appunto in questo: che esse significano chiaramente e imperiosamente, senza possibilità di dubbi o di discussioni, la volontà del nuovo governo di respingere qualsiasi collaborazione politica, diretta o indiretta, da parte di elementi non fascisti. Il nuovo governo, cioè, si decide per la terza via, quella della dittatura di parte; e intende che nessuna attività politica si svolga presentemente in Italia all’infuori del fascismo, sul quale soltanto intende basare la propria vita e la propria azione».

Epilogo

L’attimo di un’era

Dureremo trenta anni per lo meno ed avremo tempo di dimostrare la nostra originalità. Benito Mussolini (10 febbraio 1923) Ma da tutto l’insieme mi par di vedere che il Regime Fascista si avvia rapidamente verso lo sfacelo. Gaetano Salvemini (2 maggio 1923)

Nei primi mesi del 1923, il repubblicano Giovanni Conti fece un’inchiesta fra gli scrittori italiani invitandoli a rispondere alle domande: «Da che parte va il mondo? La democrazia italiana è al fallimento?». La premessa dell’inchiesta era che in Italia, prima della Grande Guerra, «rarissimi erano gli avversari dell’idea e del metodo democratico, dell’idea della sovranità popolare, della libertà, delle autonomie, della educazione del popolo all’esercizio del suo potere sovrano». Durante la guerra mondiale, «si previde con la vittoria dell’Intesa il trionfo della democrazia». Poi, finito il conflitto, con la caduta dello zarismo, dell’impero germanico e dell’impero asburgico, «si ritenne compiuto il presagio del trionfo democratico in tutta l’Europa». E «il sorgere di venti repubbliche, il discredito del principio monarchico nei paesi in cui esso era più profondamente radicato, sostenevano, con la evidenza del fatto, la convinzione ovunque diffusa». In Italia, «tutti i partiti e gli aggruppamenti politici», ad eccezione dei nazionalisti intransigenti antidemocratici, «costruirono i loro programmi sulla base, per tutti indiscutibile e inattaccabile, del principio democratico».

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Poi anche in Italia si sviluppò il fenomeno del bolscevismo, che «mirava alla dittatura: era la negazione pura e semplice dell’idea democratica». Ma il bolscevismo tramontò, «le moltitudini proletarie furono ancora una volta disfatte e un nuovo periodo di vita politica ebbe inizio in Italia: il periodo anti-democratico». Fu allora che anche il fascismo «democratico, socialista, espropriatore, tendenzialmente repubblicano del 1919 e del 1920 divenne volontariamente e di proposito anti-democratico, nazionalista, imperialista, guelfo, dittatoriale». Da questa premessa, derivava la domanda che Conti rivolgeva agli scrittori italiani: «Credete che il mondo vada, davvero, verso destra, che siamo giunti alla bancarotta della democrazia (intesa come idea e come metodo) e di ogni movimento verso una società ed uno stato ordinati su basi di equità e di solidarietà?»1. Risposero scrittori d’ogni tendenza, dal nazionalista al socialista, dal democratico al conservatore, dal liberale all’anarchico. Le risposte furono le più varie e contrastanti. Tuttavia, nel riassumerle per trarne una conclusione, il repubblicano Arcangelo Ghisleri rilevò «come quasi tutti gli scrittori, che hanno risposto, benché di età, di professione e di partiti differenti, considerano temporaneo e transitorio il fenomeno fascista e il suo esperimento al potere. E che il mondo non va a destra»2. Il più esplicito fra gli scrittori convinti della durata limitata del fascismo fu Gaetano Salvemini. Alla domanda dell’inchiesta, lo storico rispose che «se ‘andare a sinistra’ è accettare gli ideali e la pratica autentica della democrazia, cioè appellarsi al consenso del maggior numero nella lotta contro ogni privilegio che non sia giustificato dalla sua utilità sociale, e per la conquista del ‘diritto eguale per tutti’ (che non è la eguaglianza materiale assoluta, ma la eguaglianza delle posizioni iniziali) – e se ‘andare a destra’ è difendere i privilegi esistenti e costituire privilegi nuovi a favore dei gruppi sociali prevalenti nei poteri pubblici, e minacciare la galera e la morte a chi non obbedisca ai padroni dell’ora – in questo caso mi par chiaro che il mondo, lungi dall’andare a destra, vada a sinistra ovunque». Passando in rassegna i principali paesi europei, come apparivano all’inizio del 1923, Salvemini osservava che la Germania, anche se si allontanava la possibilità di un predominio socialista, mai più sarebbe tornata «il paese militarmente gerarchizzato

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dell’anteguerra»; lo sfacelo dell’impero austro-ungarico, anche se fosse seguito da tentativi di parziali restaurazioni dell’antico regime, aveva comunque assestato colpi mortali al sistema dei privilegi prebellici; in Inghilterra, la maggioranza della popolazione andava tutt’altro che a destra; in Francia, tutto dimostrava che si preparava una ripresa della sinistra; e persino in Russia, «che ha offerto agli uomini di destra il modello della dittatura antidemocratica, già il regime accenna a cedere il campo a un nuovo sistema politico, in cui possa farsi sentire il peso di forze, non più esclusivamente conformi alle ideologie comuniste: movimento, che sembra dirigersi verso destra, se veramente la burocratizzazione della vita economica si deve considerare come un movimento di sinistra in confronto della proprietà privata; ma è un ritorno a sinistra, se la procedura democratica nella pubblica amministrazione è un fatto di sinistra, in confronto della procedura dittatoriale». Venendo a parlare dell’Italia, Salvemini affermava che era stata la «pratica pseudodemocratica» dell’anteguerra a determinare negli ultimi due anni un movimento verso destra. «Ma già si moltiplicano gli accenni ad un ritorno a sinistra», aggiungeva lo storico. E di tale ritorno dell’Italia verso sinistra, «che o prima o poi non potrà non manifestarsi fra noi», egli era tanto sicuro, da domandarsi piuttosto se il ritorno a sinistra «condurrà veramente ad una realizzazione (nei limiti del possibile) degli ideali autentici della democrazia, oppure se sarà un cieco ritorno alle pratiche pseudodemocratiche e pseudorivoluzionarie, da cui è stata determinata la reazione fascista». Nella probabilità del verificarsi della seconda ipotesi, argomentava Salvemini, era «desiderabile che il regime fascista continui, bene o male, e magari più bene che male, a tenersi su. Perché fra Mussolini e tutti i suoi possibili successori attuali, non c’è da esitare. È preferibile il primo», affermava lo storico antifascista, perché rendeva «impossibile il ritorno di tutti i vecchi commedianti parlamentari» dissolvendo «molte delle vecchie oligarchie pseudodemocratiche»; costringeva gli autentici elementi di sinistra a rivedere i programmi e le tattiche dei loro partiti; dava tempo «alle vecchie cariatidi democratiche di uscire dalla circolazione e lasciar via libera a una nuova generazione non compromessa nelle prevaricazioni antiche»; e infine, Mussolini era preferibile «perché rieduca il nostro paese al bisogno delle libertà politiche, privandolo non solamente a fatti, ma quel che è

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più educativo, a parole di quelle libertà: le quali sono come l’aria: se ne sente la necessità solamente quando comincia ad essere negata o misurata». In conclusione, Salvemini incitava «i democratici sul serio» non solo a resistere al fascismo, ma a combattere con la stessa intransigenza «quegli pseudodemocratici, che si atteggiano a successori del fascismo, disposti pur di liberarsi nella Camera da Mussolini, a regalarci nel paese un nuovo governo ‘democratico’: per esempio un ministro Orlando-Bonomi-Facta-GasparottoCarnazza, ecc. ecc». E terminava con una previsione: «Il guaio è che il regime fascista minaccia di sfasciarsi con troppa rapidità»3. Non erano pochi gli antifascisti intransigenti che al pari di Gobetti e Salvemini disprezzavano così tanto la democrazia parlamentare italiana, impersonata da uomini politici come Giolitti, perché la consideravano una falsa democrazia che mascherava una dittatura, da preferire un esperimento di autentica dittatura come quello fascista, pensando che sarebbe stata per gli italiani una dura esperienza di educazione alla vera democrazia4. E non erano pochi gli antifascisti che, come Salvemini, prevedevano una vita effimera per il regime fascista. Li induceva a questa previsione la situazione del partito fascista, che fin dai primi mesi del 1923 fu sconquassato da una serie di crisi interne, provocate dall’accresciuto peso di nuove centinaia di migliaia di iscritti saliti sul carro del vincitore dopo la «marcia su Roma», dalle spinte disgregatrici di rivaleggianti ambizioni e appetiti di potere fra vecchi e nuovi fascisti, da conflitti ideologici fra moderati, intransigenti, revisionisti, integralisti, dissidenti; e infine da una insorgente contrapposizione fra un mussolinismo «buono» e un fascismo «cattivo». Il partito fascista sembrò prossimo a disgregarsi, investendo con la sua crisi la possibilità di sopravvivenza del governo Mussolini5. Di una morte prossima del fascismo, sia del partito sia del governo, era convinta Anna Kuliscioff, che il 30 maggio 1923 scriveva al suo compagno: «le cose precipitano dappertutto e sta per nascere qualche era, se non nuova, un po’ diversa dall’oggi. Anzi, per parte mia non cado in eccessivi ottimismi, come non ero troppo pessimista fino ad ora, ti confesso, però che lo sfacelo del fascismo così rapido e precipitoso fa nascere il timore che la valanga non travolga con la sua precipitazione uomini e partiti, che combattono contro la insipienza e l’ignoranza della dittatura

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per burla. Chi avrebbe osato solo sperare che dopo sette mesi si arrivasse a una débâcle così rumorosa e così poco gloriosa. [...] La divina provvidenza ha ben organizzato il castigo; i colpi quasi mortali non vengono da voialtri [...] ma dal seno stesso del fascismo al potere. [...] Temo che la valanga non precipiti troppo; è probabile che si arrivi ad un placido tramonto, ad una morte naturale senza resurrezioni possibili»6. Mussolini era superstizioso e potrebbe aver fatto i debiti scongiuri nel leggere le previsioni di Salvemini, che trovavano eco negli auspici della Kuliscioff privatamente espressi, e in molte altre simili ipotesi pubblicamente manifestate da vari antifascisti sulla incombente fine del regime fascista. Forse avevano funzione di scongiuri le dichiarazioni sulla irrevocabilità del fascismo al potere che il duce reiterò con insistenza nei primi mesi del 1923. La rivoluzione fascista, dichiarò il 6 gennaio ai rappresentanti dei lavoratori del porto di Genova, era iniziata con la vittoria interventista nel maggio del 1915, «è continuata nell’ottobre 1922 e continua e continuerà per un pezzo»7. E venti giorni dopo, incontrando gli operai del Poligrafico dello Stato, ribadiva che il suo governo era «nato da una grande rivoluzione che si svilupperà durante tutto il secolo in corso»8. Non avrebbe alcun senso storico rimproverare agli antifascisti di essersi illusi sulla durata effimera e transitoria del regime fascista, come non lo avrebbe irridere Mussolini per le sue profezie sulla durata secolare della rivoluzione fascista. All’inizio del 1923 nessuno poteva prevedere se e quanto sarebbe durato il fascismo, neppure Mussolini. Molti contemporanei prefiguravano per il regime fascista appena iniziato una vita breve perché negavano che avesse idee e programmi per governare. Molti storici hanno condiviso questo giudizio: hanno negato che il fascismo avesse una propria idea di Stato nuovo da costruire, e hanno attribuito la sua permanenza al potere principalmente alla debolezza dei suoi avversari, a circostanze fortuite e fortunate, a compromessi, espedienti e adattamenti di una politica opportunista che improvvisava giorno per giorno; oppure hanno considerato la costruzione del regime fascista principalmente una conseguenza del delitto Matteotti, collocando la data di inizio della sua costruzione al periodo successivo al discorso mussoliniano del 3 gennaio 19259. È stato scritto, a questo proposito, che il fascismo al potere mosse i «primi passi nel segno dell’incertezza», prima di procedere

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ad imporre la «dittatura a viso aperto» il 3 gennaio 1925, mentre «sul piano dell’azione politica e del concreto esercizio del potere dimostrò subito, sia pure in maniera ancora non del tutto scoperta, il suo carattere di movimento sostanzialmente eversore del regime liberale-parlamentare»10. È stato scritto anche che non vi era in Mussolini, nei primi mesi al governo, «una chiara volontà autoritaria» e che il fascismo, pur se contrario alla libertà che «aveva contrassegnato lo Stato postunitario e soprattutto postbellico», tuttavia «non aveva una propria chiara alternativa a questo Stato e i suoi capi più responsabili, in primo luogo Mussolini, davano alla loro avversione solo il valore di una richiesta di maggiore autorità all’esecutivo, e se mai (e meno esplicitamente), di una riforma tecnica del legislativo per renderlo più consono alle esigenze di una moderna società pluralistica quale si avviava a diventare quella italiana (esigenza questa che non pochi liberali accettavano anch’essi), senza mettere in discussione le fondamenta dell’assetto costituzionale e in particolare il sistema parlamentare»11. Mancava certamente ai fascisti, al momento dell’avvento al potere, un dettagliato programma di trasformazione dello Stato, secondo un progetto di Stato nuovo elaborato teoricamente in anticipo. Molto raramente, nella storia, nelle vicende concrete di altre esperienze rivoluzionarie di conquista del potere e di creazione di un nuovo regime, si riscontra la presenza di un dettagliato programma e di un elaborato progetto teorico: ma certamente è comune a tutti i governanti rivoluzionari la volontà di conservare il potere conquistato con qualsiasi mezzo, adoperandolo per creare nuovi istituti e nuove organizzazioni, attraverso le quali avviare la costruzione di un nuovo regime. Del resto, anche i rivoluzionari che in qualche caso erano provvisti di un progetto elaborato in anticipo, dopo aver conquistato il potere, dovettero accantonarlo o adattarlo alle situazioni nuove, come accadde a Lenin e al suo progetto teorico di nuovo regime elaborato in Stato e rivoluzione, prima della rivoluzione d’ottobre. La discordanza fra il progetto teorico di Lenin e la realtà del regime bolscevico come fu costruito dopo la rivoluzione d’ottobre fu netta e assoluta. Nel caso del fascismo, invece, si può constatare una maggiore concordanza fra i tratti generali dello Stato fascista, antiliberale e antidemocratico, delineati da Mussolini prima della

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«marcia su Roma», e i tratti concreti originari, che configurarono la realtà del nuovo regime fascista fin dai primi mesi dopo l’ascesa al potere. «Per la prima volta – affermava «Il Popolo d’Italia» il 10 gennaio 1923 –, la conquista del potere è stata considerata un inizio e non una fine», perché il fascismo non intendeva «limitarsi a dirigere il Paese», ma si proponeva «anzitutto di agire sul Paese. Dunque il Governo Fascista vuol fare lo Stato fascista [...] un’organizzazione statale capace di resistere sempre agli assalti dei nemici interni ed esterni»12. Fin dalla «marcia su Roma», per il duce e per i fascisti, una cosa era chiara e certa: la permanenza del fascismo al potere non era condizionata né dalla volontà del re né dal consenso del parlamento e dell’elettorato. Mussolini, ammoniva il quotidiano fascista «Giornale di Roma» il 9 aprile 1923, derivava «il titolo e la forza del suo governo presidenziale da una rivoluzione vittoriosa, cioè dalla marcia su Roma», pur avendo acconsentito «a dare al suo Governo l’investitura della Corona»13. Il fascismo era deciso a proseguire la sua rivoluzione per realizzare un nuovo Stato antisocialista, antiliberale e antidemocratico, agendo in modo coerente e conseguente con tutto quanto il partito fascista aveva fatto fin da quando aveva iniziato la sua sfida allo Stato liberale, proclamando che lo avrebbe sostituito con lo Stato fascista, fondato sulla identificazione del fascismo con tutta la nazione: «A rigor di termini – affermava Farinacci il 16 gennaio 1923 su «Cremona Nuova» – non si può nemmeno affermare che il fascismo è un partito, ma più esattamente che è uno Stato nazionale in formazione»14. Chi non accettava questa identificazione come un dogma indiscutibile, era trattato da nemico del fascismo e della nazione; e come nemici del fascismo e della nazione furono trattati anche quei fascisti dissidenti – pochi in verità – che ritenevano esaurita la rivoluzione fascista con l’avvento di Mussolini al governo e condannavano la pretesa del partito fascista di arrogarsi il monopolio del potere e della politica mettendo al bando dalla vita pubblica uomini e partiti che non si sottomettevano al suo dominio. Contro gli oppositori del fascismo, governo e partito, l’organo dei fascisti di Como, «Il Gagliardetto», invocava il 24 febbraio «coercizioni di Stato inesorabili, per opporre un baluardo tremendo a tutte le attività pseudo-politiche che attentano

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all’integrità nazionale»; e un mese dopo ripeteva la minaccia terroristica: «i ‘randellatori’ di ieri saranno i ‘fucilieri’ di domani se si intaccherà l’opera del fascismo»15. Bisognava «potenziare la rivoluzione», proclamava il giornale fascista bolognese «L’Assalto» il 17 marzo, perché molti non avevano capito che la conquista di Roma non era stata solo la caduta di un ministero ma l’avvento di «forze spirituali e materiali invincibili perché giovani»16. E quattro giorni dopo, l’omonimo giornale dei fascisti di Perugia ammoniva che lo «Stato fascista non tollera nemici; li combatte e li distrugge. È la caratteristica principale del fascismo»17. Dichiarazioni simili, nei primi mesi del governo Mussolini, apparivano numerose, quotidianamente, sulla stampa fascista nella capitale e nelle provincie, espressione di una volontà collettiva di dominio intransigente e incondizionato, che materialmente si manifestava con l’esercizio della violenza contro tutti gli altri partiti, persino quelli che partecipavano al governo Mussolini, per indebolirli e disgregarli, associandoli tutti in un’unica sprezzante condanna, come residui di una vecchia Italia che doveva essere seppellita dalla nuova Italia fascista, perché quel che di realistico essi avevano nei loro programmi, affermava «Cremona Nuova» il 15 marzo, era stato assorbito dal partito fascista: in tal modo, gli altri partiti erano stati «svuotati completamente da una forza nuova che di essi si è assimilato ciò che è vitale e perenne lasciando cadere ciò che è caduco, effimero, transitorio»18. Più brutalmente, il giornale dei fascisti bolognesi dichiarava il 28 aprile: «la nostra azione si esercita a scompaginare i vecchi partiti dell’anti-rivoluzione. Essi vengono disciolti o dispersi o divisi. [...] Sbaragliare i partiti, scioglierli, ucciderli, significa dimostrare che la Nazione ha una propria individualità. [...] Così i partiti diminuiscono o scompaiono. Non hanno diritto di vita quelli che negano la Nazione. Lo Stato non può rimanere in balia del parlamento», perché solo il fascismo, con la sua milizia, «rappresenta tutta l’Italia. Chi è fuori o è un nemico o è un morto»19. Questa volontà collettiva di dominio non era confinata alle correnti estremiste del fascismo, ma era condivisa, e aveva la sua più autorevole e pubblica conferma dallo stesso Mussolini. Nel gennaio 1923, su «Gerarchia», il duce annunciò l’inizio del «tempo secondo» della rivoluzione fascista, sentenziando che «l’epoca

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dei Giolitti, dei Nitti, dei Bonomi, dei Salandra, degli Orlando e minori dei dell’Olimpo parlamentare è finita. C’è stata fra l’ottobre e il novembre una gigantesca messa in liquidazione: di uomini, di metodi, di dottrine. Ciò appartiene ormai al regno dell’irrevocabile. [...] Non v’è dubbio che il secondo tempo della nostra rivoluzione è straordinariamente difficile e straordinariamente importante. Il secondo tempo decide il destino della Rivoluzione»: «Il secondo tempo deve armonizzare il vecchio col nuovo; ciò che di sacro e di forte sta nel passato, ciò che di sacro e di forte ci reca nel suo inesauribile grembo, l’avvenire»20. L’8 gennaio, rivolgendosi ai decorati di medaglia d’oro radunati a Roma, il duce ripeteva: «Non si torna indietro! Ciò che è stato è irrevocabile! Tutte le vecchie classi, i vecchi partiti, i vecchi uomini e le più o meno antiquate cariatidi sono state spazzate dalla rivoluzione fascista e nessun prodigio potrà ricomporre questi cocci che devono passare al museo delle cose più o meno venerande»21. Mussolini e i fascisti manifestavano un disprezzo assoluto per tutti gli altri partiti, compresi quelli che collaboravano al governo e lo sostenevano in parlamento, considerandoli residui della vecchia Italia, «che si attarda ancora a bamboleggiare formule, che rimpiange certi miti che la realtà storica si è incaricata essa stessa di frantumare irreparabilmente, obliqui personaggi che hanno sempre una lagrima per il loro passato e per i loro sedicenti mali, politicanti che, quando danno qualche scarso segno di vita, mi fanno l’impressione di larve che escano dai cimiteri della preistoria», come ripeté Mussolini l’11 marzo inaugurando la nuova sede dell’Associazione nazionale dei mutilati22. Accadeva così, osservò Amendola, «che gli stessi partiti partecipanti al Governo – dal nazionalista al popolare e al demo sociale – fossero quotidianamente umiliati nelle pubbliche manifestazioni degli organi fascisti dirigenti, e fossero, in fondo alle provincie, abbandonati senza difesa al ‘braccio secolare’ di fascisti della sesta giornata, cui s’inchinavano – e s’inchinano ancora, putroppo! – tutti i poteri dello Stato»23. In effetti, il presidente del Consiglio non concepiva la collaborazione al suo governo degli esponenti di altri partiti, se non come adesione completa alla sua politica, con la rinuncia a ogni atteggiamento critico verso il fascismo. Nello stesso tempo, il duce ispirò, assecondò, incoraggiò e diresse l’azione violenta dei fascisti contro gli altri partiti, per disgregarli, svuotarli, distruggerli,

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quando non poté assorbirli nel partito fascista, come avvenne per l’Associazione nazionalista italiana nel febbraio 1923, mirando a conquistare il monopolio del potere e della politica24. La conquista del monopolio del potere politico fu l’obiettivo perseguito dal fascismo subito dopo l’ascesa al potere, anche se i modi e i tempi per conseguirlo erano concepiti diversamente dal duce e dalle varie correnti del partito fascista. Lo stesso era avvenuto in Russia, dopo la rivoluzione d’ottobre, dove la nascita del regime bolscevico fu innanzitutto il risultato della volontà di preservare e consolidare il potere conquistato, eliminando gli altri partiti che avevano concorso a formare il primo governo sovietico25. Non fu tuttavia al modello della dittatura bolscevica che il fascismo si ispirò per costruire il suo regime: esso fu conseguenza dell’applicazione, alla dimensione governativa e statale, del metodo usato dal partito fascista nei due anni precedenti per imporre il proprio dominio sul piano locale. L’esperienza bolscevica, con gli anni di spietata guerra civile, il disastro economico, la devastazione sociale e la faticosa ricostruzione dello Stato con criteri più realistici, insegnarono piuttosto al fascismo a intraprendere un’altra strada, ad adottare un altro metodo, per consolidare e monopolizzare il potere conquistato, evitando il rischio di conseguenze disastrose simili a quelle provocate dalla rivoluzione bolscevica, che avrebbero condotto il fascismo alla disfatta. Annunciando il «tempo secondo» della rivoluzione fascista, Mussolini volle definire la sua peculiarità e originalità: mentre la rivoluzione bolscevica, volendo distruggere tutto e subito, aveva frantumato in mille pezzi la macchina dello Stato, precipitando il paese in una rovinosa guerra civile, per poi dover tornare a ricostruire lo Stato su fondamenta autoritarie, la rivoluzione fascista, affermava il duce, «non demolisce tutta intera e tutta in una volta quella delicata e complessa macchina che è l’amministrazione di un grande Stato; procede per gradi, per pezzi. [...] La rivoluzione fascista può prendere come motto: nulla dies sine linea»26. Eppure, nonostante sostanziali differenze fra i due nuovi esperimenti rivoluzionari del ventesimo secolo, le somiglianze non mancavano e furono notate fin dai primi mesi del fascismo al potere, sia dai fascisti sia dagli antifascisti non comunisti. Mussolini stesso indicò la principale somiglianza fra fascismo e bolscevismo nella conquista irrevocabile del potere e nella ne-

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gazione del liberalismo: «le più grandi esperienze del dopoguerra, quelle che sono in istato di movimento sotto i nostri occhi, segnano la sconfitta del liberalismo. In Russia e in Italia – affermava il duce nel marzo 1923 su «Gerarchia» – si è dimostrato che si può governare al di fuori, al di sopra e contro tutta la ideologia liberale. Il comunismo e il fascismo sono al di fuori del liberalismo»27. Commentando il 30 marzo l’articolo mussoliniano, «La Voce repubblicana» approvò «l’accostamento dei due reggimenti oligarchici, autocratici» perché «fascismo e comunismo, anzi bolscevismo, sono due aspetti, in differenti ambienti politici e sociali, di una stessa mentalità, di uno stesso metodo, di una stessa utopia politica. Non esistono problemi di diritto, ma soltanto di forza»28. Forza e consenso era intitolato l’articolo dove il duce rilevò la somiglianza fra fascismo e comunismo: nello stesso articolo, egli espose in modo chiaro la concezione che il fascismo aveva del governo e del modo in cui intendeva servirsene per conservare il potere: «Quando un gruppo o un partito è al potere, esso ha l’obbligo di fortificarvisi e di difendersi contro tutti», facendo ricorso principalmente all’uso della forza, «e si intende forza fisica, forza armata», perché senza la forza, il governo «sarà alla mercé del primo gruppo organizzato e deciso ad abbatterlo»29. Un governo poteva ricercare il consenso dei cittadini, ma doveva fondare unicamente sulla forza il suo potere, perché il consenso «è mutevole come le formazioni della sabbia in riva al mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale». Il duce liquidava sprezzantemente «gli immortali principi» delle concezioni liberali e democratiche dello Stato, dichiarando che il fascismo «getta al macero queste teorie antivitali», per riaffermare il primato della forza come fondamento del governo, in sintonia con la realtà dei tempi nuovi, che aveva decretato la fine del liberalismo e della democrazia. «La libertà non è oggi più la vergine casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima metà del secolo scorso», perché sulle nuove generazioni c’erano altre parole che esercitavano «un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia, disciplina». Il «povero liberalismo italiano, che va gemendo e battagliando per una più grande libertà», concludeva il duce, era in ritardo sulla storia, «completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità», mentre moderno e vitale era il fascismo che era «già passato, e se necessario, tornerà ancora

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tranquillamente a passare sul corpo più o meno decomposto della Dea Libertà». Con la stessa franchezza e brutalità di linguaggio, il presidente del Consiglio spiegò ai ministri che lo strumento principale con il quale il fascismo era deciso a conservare il potere, calpestando il corpo ormai cadavere della libertà, era la forza armata della sua milizia: il 1° febbraio, annunciando al Consiglio dei ministri che una legione romana della Milizia avrebbe assunto la tutela dell’ordine pubblico davanti a Montecitorio e a Palazzo Madama, Mussolini disse: «il regime, dal punto di vista politico, sarà validamente difeso dalla Milizia per la Sicurezza Nazionale»30. Non risulta che vi fossero obiezioni da parte dei membri non fascisti del governo alle minacciose dichiarazioni sulla difesa armata del regime fascista né sulla decisione di far presidiare le sedi del parlamento italiano dai militi fascisti. E non ve ne furono neppure quando, un mese dopo, il presidente del Consiglio ripeté ai ministri che egli voleva «governare, se possibile, col consenso del maggior numero di cittadini; ma nell’attesa che questo consenso si formi, si alimenti e si fortifichi, io accantono il massimo delle forze disponibili», perché «in ogni caso, quando mancasse il consenso, c’è la forza. Per tutti i provvedimenti anche più duri che il Governo prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o accettarli per alto spirito di patriottismo o subirli. Così io concepisco lo Stato e così comprendo l’arte di governare la Nazione»31. Mai si era udito, nella storia degli Stati parlamentari, un presidente del Consiglio, appena insediato al governo, dichiarare che la sua ascesa al potere era un evento irrevocabile, perché era l’inizio di una rivoluzione destinata a durare decenni. E mai era accaduto che il primo ministro di un governo parlamentare avesse al suo comando una milizia armata di partito, mantenuta a spese dello Stato, pronta a schiacciare chiunque si fosse opposto al governo fascista e ai «prossimi, inesorabili sviluppi» della rivoluzione fascista, come disse Mussolini il 10 aprile alle legioni della MVSN di Milano32. Solo pochi antifascisti presero sul serio quel che i fascisti facevano e dicevano annunciando la nascita di un nuovo regime. All’inizio del 1923, Salvatorelli mise in evidenza i fatti salienti che dimostravano come fosse effettivamente in corso la costruzione di un regime a partito unico, di uno Stato-partito. Il primo di questi fatti era la concretizzazione, attraverso l’attività del governo e del

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partito fascista, di una concezione dello Stato che emergeva, scriveva Salvatorelli il 13 febbraio, con una «fisionomia ben propria ed inequivocabile. Attraverso tutti i verbalismi retorici e confusionari, appare ben chiaro, nel fascismo, questo pensiero fondamentale: lo Stato fascista non ammette opposizione politica attiva. [...] L’attività politica non può essere che una sola, quella che svolge il governo. In altre parole: il fascismo nega quella libertà della lotta politica che costituisce per l’appunto il principio fondamentale del liberalismo e dello Stato liberale»: «La radice dei guai, teoretici e pratici, è pur sempre una: il concetto dogmatico e antiliberale dello Stato e della nazione»33. Il secondo fatto, inevitabile conseguenza del primo, scriveva Salvatorelli il 21 febbraio, era la «identificazione del fascismo collo Stato e colla nazione», dalla quale seguiva «ineluttabilmente, che il non fascista sia catalogato come antistatale e antinazionale»34. E due mesi dopo, il 25 aprile, commentando il brusco licenziamento dal governo dei ministri del partito popolare, Salvatorelli intuiva quel che veramente volevano Mussolini e il partito fascista: «si vuole la dittatura di parte e il ‘partito unico’, cioè la fine della vita politica come la si concepisce in Europa da cento anni a questa parte»35. L’azione congiunta di questi due processi in atto rendeva assolutamente impossibile una qualsiasi forma di coesistenza fra governo fascista e Stato liberale, perché il fascismo rifiutava integralmente, in parole e in atti, il principio stesso sul quale si fondava il governo dello Stato liberale, cioè la libertà dei cittadini e il loro diritto a scegliere e revocare attraverso una libera e pacifica competizione elettorale i propri governanti. La «pretesa del partito al governo di identificarsi con lo Stato – scrisse «Il Mondo» il 30 marzo, commentando l’articolo Forza e consenso – è inconciliabile non soltanto con la dottrina liberale, ma con qualsiasi filosofia politica, se si eccettui qualche forma autocratica di tipo orientale»36. E il giorno successivo, il giornale approfondiva l’analisi della condotta del governo e del partito fascista, specialmente per quanto riguardava la loro pretesa di imporre a tutti gli italiani la propria concezione della nazione e dello Stato37. Se il fascismo si proponesse soltanto di governare l’Italia, esso oggi potrebbe tacere ed operare. Se i cittadini italiani vi danno il loro consenso, oppure vi lasciano fare, voi avete tutto quello che vi

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occorre per governare: agite, dunque, e lasciate a ciascuno la signoria della propria coscienza. Un partito può ambire il dominio della vita pubblica, ma non deve oltrepassare i confini della coscienza privata, nella quale ciascuno è libero di cercare il suo rifugio. Senonché il fascismo non ha mirato tanto a governare l’Italia, quanto a monopolizzare il controllo delle coscienze italiane. Non gli basta il possesso del potere: vuole il possesso delle coscienze private di tutti i cittadini, vuole la «conversione» degli italiani. Conversione a che cosa? Si è osservato spesso che il fascismo non aveva abbastanza idee per costruirsi un programma, ed è occorsa la fusione col nazionalismo per dargli una dottrina politica. Eppure il fascismo ha le pretese di una religione [...] ha tuttavia le supreme ambizioni e le inumane intransigenze di una crociata religiosa. Non promette la felicità a chi non si converta, non concede scampo a chi non si lasci battezzare. Di nuovo, il 5 aprile, «Il Mondo» tornava a riflettere sull’integralismo fascista, che negava diritto di cittadinanza a ogni altra «ideologia che non sia quella fascista»: «il fascismo è il punto fermo, la parola definitiva, oltre è l’eterodossia, l’apostasia, l’antinazione! E se qualcuno per avventura pensasse che il bene della nazione meglio servirebbe altra ideologia che quella fascista, ecco il qualcuno si porrebbe fuori della società e perciò contro di lui sarebbero legittimi l’ostracismo e la compressione»38. Così pensando e agendo, i fascisti stavano imponendo una discriminazione fra i cittadini dello Stato italiano, attribuendo a se stessi i privilegi di «una casta dominante chiusa, implacabile nella sua avversione per la maggioranza degli uomini ai quali ha deciso di elargire il vantaggio del suo governo»39. Allo stesso modo, osservò Giovanni Amendola l’11 aprile, il fascismo affiancava agli organi dello Stato i nuovi organi del partito, producendo un dualismo che distruggeva le basi fondamentali dello Stato liberale40. Noi abbiamo visto svolgersi ed estendersi ogni giorno di più, la attuazione di un disegno, alla lunga insostenibile, nel quale, accanto ad ogni organo statale viene collocato un organo fascista, che lo domina, lo controlla e lo paralizza: il Gran Consiglio accanto al Consiglio dei Ministri, i Commissari politici accanto ai prefetti, i segretari dei fasci accanto ai vari organi dell’autorità statale, ecc. È superfluo aggiungere che, in questo sistema, spetta al Ministro, al

Epilogo. L’attimo di un’era ­­­­­277

Prefetto, al Questore, al funzionario in genere di ubbidire al corrispondente grado della gerarchia fascista. E non parliamo delle libertà individuali, argomento ormai di dileggio che serve soltanto a commemorare una divinità proclamata decrepita o addirittura defunta. Ci limitiamo solo a constatare la strana e pericolosa mentalità – ormai dominante in molti circoli ufficiosi od autorizzati – che tende a dividere i cittadini italiani in fascisti e non fascisti; mentalità che, ripercuotendosi nei fatti, finirebbe col creare nello stesso paese due caste, una inferiore e una privilegiata. Andando di questo passo, si arriverebbe a tollerare appena l’esistenza e la materiale circolazione dei non fascisti, a patto ch’essi dimentichino di avere delle idee, dei sentimenti, una loro vita morale, e si rassegnassero a contribuire alle spese dello Stato, senza discuterne il governo, che per essi – considerati minorenni civili – è addirittura «res aliena», incontrollabile e fuori discussione. Forse nessun altro partito rivoluzionario, prima e dopo la conquista del potere, fu altrettanto esplicito nell’esporre con brutale sincerità la propria idea del governo e dello Stato. «Il fascismo è quello che è», osservò «La Voce repubblicana» il 27 aprile 1923, «ma non gli si può da nessuno rimproverare mancanza di coraggio delle proprie opinioni: vive e si nutre di brutale sincerità»41. E fin dai primi mesi al potere, il fascismo agì in modo conseguente per realizzare la sua concezione del governo e dello Stato, mentre quelli che avrebbero potuto impedirglielo o non lo presero sul serio o rimasero a guardare, aspettando che il fascismo si disfacesse da sé. In tal modo, senza rendersene conto, gli antifascisti consentirono ai fascisti di consolidare ed espandere il loro potere. Così, l’attimo fuggente catturato con la «marcia su Roma» divenne l’inizio di una nuova era. Il 22 aprile, Fortunato, in una lettera a Salvemini, aggiungeva ironicamente alla data «1° anno dell’Era nuova»42. Il 19 ottobre 1923, scrivendo un messaggio di saluto al nuovo direttore di un giornale di ex combattenti, Mussolini ricordò che «si avvicina il primo anniversario di quella che fu e rimane una grande rivoluzione». E a fianco della data aggiunse: «Anno I dell’èra fascista»43. Cesare Rossi, che gli era dappresso, notò la singolare datazione, e non ne afferrò subito il significato: «Cosa scrivi ancora?», gli chiese. E il duce, dopo aver ripetuto a voce la nuova datazione, spiegò: «Bisogna cominciare ad inoltrarsi nel tempo»44.

Note

Abbreviazioni: Archivio Centrale dello Stato, Roma ACS: b.: busta BSMC: Biblioteca di Storia moderna e contemporanea, Roma fasc.: fascicolo Ministère des Affaires étrangères MAE: MI, DGPS, CA: Ministero dell’Interno, Direzione generale della pubblica sicurezza, categorie annuali MRF, CC: Mostra della Rivoluzione fascista, carteggio del comitato centrale dei Fasci di combattimento Mussolini, Opera omnia: Opera omnia di B. Mussolini, a cura di E. e D. Susmel, 35 voll., La Fenice, Firenze 1951-1963 PCM: Presidenza del Consiglio dei ministri, Gabinetto, Atti 1919-1936 PNF: Partito nazionale fascista Public Record Office, Foreign Office PRO, FO: Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato SPD, CR: NB. I documenti d’archivio citati nel volume sono stati consultati nel corso di ricerche condotte presso l’Archivio Centrale dello Stato all’inizio degli anni Ottanta. Forse nel corso degli anni vi è stata qualche variazione nella classificazione dei documenti e nella loro collocazione, ma l’indicazione della categoria e dell’anno ne rendono comunque possibile il reperimento.

prologo 1. L. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, vol. 2, Mondadori, Milano 1969, p. 1138.  2. Ivi, p. 1131.  3. «Il Giornale d’Italia», 31 ottobre 1922.  4. H. Kessler, The Diaries of a Cosmopolitan 1918-1937, Weidenfeld and Nicolson, London 1999, p. 19.  5. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, cit., p. 1195.  6. G. Salvemini, Le origini del fascismo in Italia. Lezioni di Harvard, a cura di R. Vivarelli, Feltrinelli, Milano 1979, p. 390.  7. A. Repaci, La marcia su Roma, Rizzoli, Milano 1972, p. 15 e p. 594.  8. H. Woller, Roma, 28 ottobre 1922. L’Europa e la sfida dei fascismi, Il Mulino, Bologna 2001, p.

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note

13 (ed. or. Rom, 28 Oktober 1922. Die faschistische Herausforderung, Deutscher Taschenbuch Verlag, München 1999).  9. D. Sassoon, Come nasce un dittatore. Le cause del trionfo di Mussolini, Rizzoli, Milano 2010, p. 24 (ed. or. Mussolini and the Rise of Fascism, HarperCollins, London 2007).  10. Una differente corrente di interpretazioni del significato storico della «marcia su Roma», non condizionata dal sarcasmo storiografico, si è sviluppata nel corso degli ultimi decenni con gli studi di R. De Felice, Mussolini il fascista 19211925, Einaudi, Torino 1966; P. Alatri, Le origini del fascismo, Editori Riuniti, Roma 1971; A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, Roma-Bari 1974 (ed. or. The Seizure of Power. Fascism in Italy 1919-1929, Weidenfeld and Nicolson, London 1973); E. Santarelli, Storia del fascismo, Editori Riuniti, Roma 1981; E. Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Laterza, Roma-Bari 1989; G. Santomassimo, La marcia su Roma, Giunti, Firenze 2000; G. Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2006.  11. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, cit., p. 1070.  12. Woller, Roma, 28 ottobre 1922, cit., p. 9.  13. Ivi, p. 8. 14. C. Beals, Rome or Death. The Story of Fascism, John Long, London 1923, pp. 297-298.  15. N. Valeri, La marcia su Roma, in Fascismo e antifascismo (19181936), Feltrinelli, Milano 1961, pp. 103-119. CAPITOLO I

§ Italia violenta 1. Cfr. G. Guy-Grand, La Démocratie et l’après-guerre, Garnier frères, Paris 1922.  2. B. Mirkine-Guetzévitch, Les constitutions de l’Europe nouvelle, Delagrave, Paris 1930, p. 11. 3. Ivi, p. 15.  4. Cfr. C. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese. Francia Germania e Italia nel decennio successivo alla prima guerra mondiale, De Donato, Bari 1979, pp. 23 sgg. (ed. or. Recasting Bourgeois Europe: Stabilization in France, Germany, and Italy in the Decade After World War I, Princeton University Press, Princeton 1975); G.L. Mosse, Le guerre mondiali dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 75 sgg. (ed. or. Fallen Soldiers: Reshaping the Memory of the World Wars, Oxford University Press, Oxford 1990); M. Mazower, Le ombre dell’Europa, Garzanti, Milano 2000, pp. 17 sgg. (ed. or. Dark Continent: Europe’s Twentieth Century, Knopf, New York 1998). 5. Cfr. R. Gerwarth, J. Horne (eds), War and Peace, Oxford University Press, Oxford (di prossima pubblicazione).  6. Cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, VIII, La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l’avvento del fascismo, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 222 sgg.  7. Cfr. G. Salvemini, Le origini del fascismo in Italia. Lezioni di Harvard, a cura di R. Vivarelli, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 31-33.  8. Cfr. E. Gentile, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Le Monnier, Firenze 2000, pp. 26 sgg.  9. Cfr. F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo (1918-1921), Utet, Torino, pp. 11 sgg.  10. Cfr. E. Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 471-476.  11. ACS, MI, DGPS, CA, 1921, G1, fasc. «Fasci di combattimento. Affari generali».

note al capitolo I ­­­­­281

§ Un uomo e un giornale 12. Cfr. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Einaudi, Torino 1965.  13. Cfr. F. Cordova, Arditi e legionari dannunziani, Marsilio, Padova 1969; G. Rochat, Gli arditi della grande guerra. Origini, battaglie, miti, Feltrinelli, Milano 1981.  14. ACS, MI, DGPS, 1919, C2, b. 124.

§ Fasci di combattimento 15. Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., p. 33.  16. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 419 sgg.; Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 3 sgg.  17. Mussolini, Opera omnia, XIV, p. 21.  18. Cfr. A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 83 sgg. (ed. or. The Seizure of Power. Fascism in Italy 1919-1929, Weidenfeld and Nicolson, London 1973). 19. ACS, MI, DGPS, CA, 1919, E1, fasc. «Elezioni politiche. Milano».

§ Un cadavere politico 20. G. Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Laterza, RomaBari 1974.  21. Cfr. E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 133.  22. Cfr. M. Ledeen, D’Annunzio a Fiume, Laterza, Roma-Bari 1975; R. De Felice, D’Annunzio politico. 1918-1938, Laterza, RomaBari 1978; A. Ercolani, Da Fiume a Rijeka. Profilo storico-politico dal 1918 al 1947, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 95 sgg.  23. C. Rossi, Mussolini com’era, Ruffolo, Roma 1947, p. 88.  24. Mussolini, Opera omnia, XIV, pp. 193-194.  25. Rossi, Mussolini com’era, cit., p. 87.  26. Cfr. M. Sarfatti, Dux, Mondadori, Milano 1926, p. 230.  27. Ivi, pp. 231-232.  28. Rossi, Mussolini com’era, cit., p. 87.

§ I nemici interni trionfano 29. Il Partito Socialista Italiano nei suoi Congressi, III, 1917-1926, a cura di F. Pedone, Edizioni Avanti!, Milano 1963, pp. 45 sgg.; cfr. G. Sabbatucci, I socialisti e la crisi dello Stato liberale in Italia (1918-1926), in Storia del socialismo italiano, diretta da G. Sabbatucci, III, Guerra e dopoguerra (1914-1926), Il Poligono, Roma 1980, pp. 171 sgg.  30. Citato in G. Minasi, L’attività illegale del PSI nel biennio 1919-1920, in «Storia contemporanea», n. 4, 1978, p. 726.  31. Ivi, p. 686.  32. Ivi, pp. 709 sgg.  33. A. Labriola, Le due politiche. Fascismo e riformismo, Morano, Napoli 1923, p. 165.  34. Cfr. A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L’Italia dal 1918 al 1922 (1950), con una premessa di R. De Felice, 2 voll., Laterza, Bari 1965, pp. 152-159.  35. P. Togliatti, Baronie rosse, in «L’Ordine Nuovo», 5 giugno 1921. Cfr. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, cit., pp. 152-159.  36. Citato in G. Petracchi, L’avvento del fascismo in un inedito per l’Italia di Giacinto Menotti Serrati, in «Storia contemporanea», nn. 4-5, 1980,

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note

pp. 635-655.  37. F. Turati, A. Kuliscioff, Carteggio, raccolto da A. Schiavi, a cura di F. Pedone, vol. V, Torino 1977, pp. 469-470.

§ Mobilitazione antisocialista 38. Cfr. «Il Fascio», 17 aprile 1920.  39. ACS, MI, DGPS, 1921, G1, b. 102.  40. ACS, MRF, CC, b. 26, fasc. «Catania», copia di lettera di C. Rossi, 17 luglio 1920.  41. Ivi, lettera di S. Guglielmi a Pasella, 23 settembre 1920.  42. ACS, PNF, Direttorio, Servizi Amministrativi, b. 1.  43. ACS, MRF, CC, b. 22, fasc. «Agnone».  44. Cfr. M. Risolo, Il Fascismo nella Venezia Giulia dalle origini alla marcia su Roma, I, Dalle origini al Natale di Sangue, Edizioni Celvi, Trieste 1932, pp. 32-33.  45. Cfr. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale: 1886-2006, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 141-145; A. Vinci, Sentinelle della patria. Il fascismo al confine orientale 1918-1941, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 78-86; F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo (1918-1921), Utet, Torino 2009, pp. 245-247.  46. Mussolini, Opera omnia, XV, p. 108. Cfr. Fabbri, Le origini della guerra civile, cit., pp. 245-247.  47. Cfr. ivi, pp. 252 sgg.  48. Ivi, pp. 274 sgg.  49. Labriola, Le due politiche, cit., p. 170.  50. Mussolini, Opera omnia, XV, p. 231.  51. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, cit., pp. 335-336.  52. Sabbatucci, I socialisti nella crisi dello Stato liberale, cit., p. 245.  53. Citato in B. Della Casa, Il movimento operaio e socialista a Bologna dall’occupazione delle fabbriche al Patto di pacificazione, in Movimento operaio e fascismo nell’Emilia-Romagna 1919-1923, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 20.  54. Per noi, in «La Nuova Terra», 28 febbraio 1920; cfr. E. Gentile, La crisi del socialismo e la nascita del fascismo nel Mantovano, in «Storia contemporanea», nn. 4-5, 1979, pp. 633-696.  55. Atti del consiglio provinciale, Mantova 1920, pp. 190-192.

§ L’ora del fascismo 56. Cfr. O. Figes, La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924, Corbaccio, Milano 1997, pp. 844-845 (ed. or. A People’s Tragedy 1891-1924, Jonathan Cape, London 1996).  57. Ivi, p. 247.  58. Cfr. I. Bonomi, Dal socialismo al fascismo. La sconfitta del socialismo. La crisi dello Stato e del Parlamento. Il fascismo, Formiggini, Roma 1924, p. 41. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 148-149; Fabbri, Le origini della guerra civile, cit., pp. 326 sgg.  59. Cfr. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 618 sgg.  60. Ivi, pp. 645 sgg.  61. Mussolini, Opera omnia, XV, p. 76.  62. Ivi, p. 169.  63. Ivi, p. 183.  64. Ivi, pp. 260-263.  65. Ivi, p. 187.  66. Ivi, pp. 217-218. Sulla nuova romanità fascista, cfr. E. Gentile, Fascismo di pietra, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 33 sgg.  67. Ivi, pp. 272-273.

§ E guerra civile sia! 68. Ivi, pp. 258-259.  69. Fabbri, Le origini della guerra civile, cit., pp. 307 sgg.  70. ACS, MRF, CC, b. 38. fasc. «Roma».  71. Mussolini, Opera omnia, XV, pp. 298-301.  72. Cfr. N.S. Onofri, La strage di Palazzo d’Accursio. Origine

note al capitolo II ­­­­­283

e nascita del fascismo bolognese 1919-1920, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 252-289; Fabbri, Le origini della guerra civile, cit., pp. 349 sgg.  73. ACS, MI, DGPS, CA, 1921, G1, fasc. «Fasci di combattimento. Bologna».  74. Cfr. P. Corner, Il fascismo a Ferrara. 1915-1925, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 131-133; A. Roveri, Le origini del fascismo a Ferrara, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 100-106. capitolo II

§ Fascismo di massa 1. ACS, MI, DGPS, 1921, G1, b. 90, fasc. «Fasci di combattimento. Affari generali».  2. La natura del fascismo, in «La Critica Politica», 16 novembre 1921.  3. Cfr. E. Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 471.  4. Ivi, pp. 158 sgg.; pp. 556 sgg.  5. Ivi, pp. 153-160.

§ Indulgenza e connivenza 6. Cfr. M. Saija, I prefetti italiani nella crisi dello Stato liberale, Giuffrè, Milano 2001, pp. 247 sgg.  7. Cfr. G. De Rosa, Giolitti e il fascismo in alcune sue lettere inedite, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1957.  8. Atti del Parlamento italiano, Camera dei Deputati, Legislatura XXVI, 1a sessione, Discussioni, tornata del 26 giugno 1921, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1923, p. 296.  9. Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Einaudi, Torino 1966, pp. 28 sgg.; Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 103 sgg.  10. Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 204-206.  11. Ivi, p. 202.  12. Cfr. De Felice, Mussolini il fascista, cit., pp. 101 sgg.  13. F. Turati, A. Kuliscioff, Carteggio, V, 1919-1922. Dopoguerra e fascismo, raccolto da A. Schiavi, a cura di F. Pedone, Einaudi, Torino 1977, p. 712.  14. Cfr. G. Palazzolo, L’apparato illegale del Partito comunista d’Italia nel 1921-1922 e la lotta contro il fascismo, in «Rivista storica del socialismo», n. 29, 1966, pp. 95-142; P. Spriano, Storia del partito comunista, I, Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino 1967, pp. 171 sgg.  15. Cfr. R. De Felice, La «guerra civile 1919-1922» in un documento del Partito Comunista d’Italia, in «Rivista storica del socialismo», n. 27, 1966, pp. 104-125.  16. Cfr. E. Francescangeli, Arditi del popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione antifascista. 1917-1922, Odradek, Roma 2000.  17. A. Labriola, Le due politiche. Fascismo e riformismo, Morano, Napoli 1923, p. 169.  18. A. Zerboglio, Il fascismo: dati, impressioni, appunti, Cappelli, Bologna 1922, p. 9.  19. Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 222 sgg.

§ Il bolscevismo è vinto, ma il fascismo può perdere 20. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 220 sgg.  21. De Felice, Mussolini il fascista, cit., pp. 100 sgg.; Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 215

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note

sgg.  22. Cfr. A. Ulam, Storia della politica estera sovietica (1917-1967), Rizzoli, Milano 1970, pp. 189 sgg. (ed. or. Expansion and Coexistence: The History of Soviet Foreing Policy, 1917-1967, Praeger, New York-Washington 1970); A. Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica. 1914-1945, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 133 sgg.  23. Mussolini, Opera omnia, XVI, pp. 20-21.  24. Citato in Corriere della Sera (1919-1943), antologia a cura di P. Melograni, Cappelli, Bologna 1965, p. 83.  25. Mussolini, Opera omnia, XVI, p. 417.  26. Ivi, p. 445.

§ Squadristi contro Mussolini 27. Cfr. La storia come identità. I fatti di Sarzana del 21 luglio 1921 nella storiografia nazionale ed europea, Ippogrifo Liguria, Lerici 2003.  28. Cfr. A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L’Italia dal 1918 al 1922 (1950), con una premessa di R. De Felice, 2 voll., Laterza, Bari 1965, p. 242.  29. Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 214 sgg.  30. Cfr. D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 145 sgg.  31. Mussolini, Opera omnia, XVII, pp. 90-91.  32. Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 288-295.  33. Mussolini, Opera omnia, XVII, p. 105.

§ Il duce cede, lo squadrismo vince 34. La ‘degringolade’, in «Avanti!», 10 agosto 1921.  35. A. Gramsci, Sul fascismo, a cura di E. Santarelli, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 137.  36. ACS, MRF, CC, b. 24.  37. Cfr. Grandi, Il mio paese, cit., p. 151.  38. Mussolini, Opera omnia, XVII, p. 113.  39. Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 322 sgg.  40. La Milizia Nazionale, i suoi compiti e la sua azione in un quadrato discorso di Italo Balbo a Milano, in «Il Popolo d’Italia», 24 aprile 1923.  41. Circolare del comandante generale delle squadre dei Fasci della provincia di Siena, in BSMC, Fondo Asclepia Gandolfo, b. 65, fasc. E/5.  42. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 361 sgg.  43. Cfr. E. Gentile, Fascismo di pietra, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 5 sgg.  44. Mussolini, Opera omnia, XVII, p. 240.  45. Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 386 sgg.

§ Milizia fascista 46. BSMC, Fondo Asclepia Gandolfo, b. 65, fasc. E/6.  47. Ivi, b. 65, fasc. E/7.  48. I. Balbo, Diario 1922, Mondadori, Milano 1932, p. 23.  49. BSMC, Fondo Asclepia Gandolfo, b. 65, fasc. E/13.  50. Archivio Balbo, 1921-1922, fasc. «Dino Perrone Compagni».  51. Ibid.  52. BSMC, Fondo Asclepia Gandolfo, b. 66, fasc. E/9.  53. Ivi, b. 65, fasc. E/12.  54. Ivi, b. 65, fasc. E/8a.  55. Ivi, b. 65, fasc. E/8b.

note al capitolo III ­­­­­285

§ Cultura di combattimento 56. Cfr. A. Aquarone, Violenza e consenso nel fascismo italiano, in «Storia contemporanea», n. 1, 1979, pp. 145-155; A. Lyttelton, Fascismo e violenza: conflitto sociale e azione politica in Italia nel primo dopoguerra; J. Petersen, Il problema della violenza nel fascismo italiano; P. Nello, La violenza fascista ovvero dello squadrismo nazionalrivoluzionario, in «Storia contemporanea», n. 6, 1982, pp. 965-1025; Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 148 sgg.; pp. 494 sgg.; G. Albanese, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-1922, Il Poligrafo, Venezia 2001, pp. 81 sgg.  57. Cfr. E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Il Mulino, Bologna 2012; Id., Storia del partito fascista, cit., pp. 460 sgg.  58. P. Belli, Revolverate, Tipografia Paolo Cuppini, Bologna 1921, p. 70.  59. D. Bianchi, ...i fascisti picchiano, in «Il Fascio», 23 ottobre 1920.  60. M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano 1919-1922, Bonacci, Roma 1980, p. 85.  61. Cfr. E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 42 sgg.  62. ACS, MRF, CC, b. 41, fasc. «Torino».  63. G. Lumbroso, La genesi e i fini del fascismo, in «Gerarchia», ottobre 1922.

capitolo III

§ Non durerà. Durerà. Forse 1. G. Bergamo, Il fascismo giudicato da un repubblicano (1921), in Il fascismo e i partiti politici italiani. Testimonianze 1921-1923, a cura di R. De Felice, Cappelli, Bologna 1966, p. 87.  2. G. De Falco, Fascismo, milizia di classe (1921), in Il fascismo e i partiti politici italiani, cit., pp. 118-119.  3. L. Fabbri, La controrivoluzione preventiva (1922), in Il fascismo e i partiti politici italiani, cit., p. 240 [corsivo nel testo].  4. Ivi, pp. 260-261.  5. L. Sturzo, I discorsi politici, Istituto Luigi Sturzo, Roma 1961, p. 196.

§ Un anti-Stato nello Stato 6. La natura del fascismo, in «La Critica Politica», 16 novembre 1921.  7. «Il Popolo d’Italia», 23 novembre 1921.  8. Questione insoluta, in «La Stampa», 24 novembre 1921, ora in L. Salvatorelli, Nazionalfascismo (1923), Einaudi, Torino 1977, pp. 62-65.  9. I propositi di pacificazione del fascismo agrario, in «Avanti!», 3 luglio 1921.  10. Atti del Parlamento italiano, Camera dei Deputati, Legislatura XXVI, 1a Sessione, Discussioni, tornata del 2 dicembre 1921, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1923, p. 2000.  11. Cfr. S. Colarizi, Dopoguerra e fascismo in Puglia (1919-1926), Laterza, Bari 1971, pp. 193 sgg.  12. Cfr. Annuario statistico italiano, seconda serie, vol. VIII, 1919-1921, Istituto nazionale di statistica, Roma 1925, p. 172.

­­­­­286

note

§ Impotenza governativa, impunità fascista 13. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 113.  14. Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Einaudi, Torino 1966, pp. 202 sgg.  15. Cfr. D. Veneruso, La vigilia del fascismo. Il primo ministero Facta nella crisi dello stato liberale in Italia, Il Mulino, Bologna 1968; De Felice, Mussolini il fascista, cit., pp. 210 sgg.  16. Cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, VIII, La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l’avvento del fascismo, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 389 sgg.  17. F. Turati, A. Kuliscioff, Carteggio, V, 1919-1922. Dopoguerra e fascismo, raccolto da A. Schiavi, a cura di F. Pedone, Einaudi, Torino 1977, p. 813.

§ Democrazia in agonia 18. Mussolini, Opera omnia, XVIII, p. 47.  19. Ivi, pp. 66-72.  20. ACS, MI, DGPS, CA, 1922, G1, fasc. «Fasci di combattimento. Rovigo».  21. ACS, PCM, 1922, b. 653, fasc. 1/6-3-1936 «Ordine Pubblico».

§ Il fascino dell’esercito fascista 22. BSMC, Fondo Asclepia Gandolfo, b. 65, fasc. E/19.  23. Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 527 sgg.; Id., Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 37 sgg.  24. Turati, Kuliscioff, Carteggio, cit., pp. 867-868.  25. Cfr. E. Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), Laterza, Bari 1966, pp. 159 sgg.; A. Ercolani, Da Fiume e Rijeka. Profilo storico-politico dal 1918 al 1947, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 131 sgg.  26. G. Giuriati, La parabola di Mussolini nei ricordi di un gerarca, a cura di E. Gentile, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 21 sgg.  27. Ercolani, Da Fiume e Rijeka, cit., p. 135.  28. I. Balbo, Diario 1922, Mondadori, Milano 1932, pp. 37-40. capitolo IV

§ Fra rivoluzione ed elezione 1. ACS, MI, DGPS, CA, 1925, G1, fasc. «Fasci di combattimento. Movimento sezioni e soci».  2. Cfr. E. Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 386 sgg.  3. Cfr. ivi, pp. 453-455.  4. Mussolini, Opera omnia, XVIII, p. 98.  5. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 456-457; cfr. G. Albanese, Pietro Marsich, Cierre, Verona 2003, pp. 67-68.  6. D. Grandi, Il mito e la realtà, in «Il Popolo d’Italia», 3 aprile 1922. Cfr. D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 156-157; Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 444-445; P. Nello, Dino Grandi. La formazione di un leader fascista, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 149 sgg.

note al capitolo IV ­­­­­287

§ Realismo tattico, dinamismo rivoluzionario 7. «Il Popolo d’Italia», 4 e 5 aprile 1922. Cfr. I. Balbo, Diario 1922, Mondadori, Milano 1932, pp. 40 sgg.  8. Balbo, Diario 1922, cit., pp. 42-43.  9. E. Conti, Dal taccuino di un borghese, Garzanti, Milano 1946, pp. 280-281.

§ Umiliare lo Stato 10. Balbo, Diario 1922, cit., p. 30.  11. Ivi, p. 46.  12. Ivi, p. 49.  13. Ivi, p. 59.  14. Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 174-175.  15. Cfr. Veneruso, La vigilia del fascismo, cit., pp. 338 sgg.  16. T. Beltrami, Immoralità statale, in «Il Balilla», 14 maggio 1922.  17. Balbo, Diario 1922, cit., pp. 60 sgg. Cfr. P. Corner, Il fascismo a Ferrara. 1915-1925, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 241 sgg.  18. Citato in Veneruso, La vigilia del fascismo, cit., p. 334n.  19. Balbo, Diario 1922, cit., pp. 73-74.  20. Cfr. G.A. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista 1919-1922, IV, Anno 1922, parte I, Vallecchi, Firenze 1929, pp. 131 sgg.; P. Spriano, Storia del partito comunista, I, Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino 1967, p. 173.  21. Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 208-209.  22. Balbo, Diario 1922, cit., p. 75.  23. Cfr. Veneruso, La vigilia del fascismo, cit., pp. 337 sgg.  24. ACS, MI, DGPS, CA, 1922, G1, fasc. «Fasci di combattimento. Bologna».  25. Balbo, Diario 1922, cit., p. 79.  26. Ivi, p. 81.  27. Cfr. La situazione a Bologna, in «La Stampa», 2 giugno 1922.  28. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 113.

§ Dove va il fascismo? 29. Mussolini, Opera omnia, XVIII, p. 483.  30. Armistizio, in «L’Assalto», 3 giugno 1922.  31. Lettera di A. Rossini ad A. Albertini, Roma 5 giugno 1922, in L. Albertini, Epistolario 1911-1926, III, Il dopoguerra, a cura di O. Barié, Mondadori, Milano 1968, p. 1554.  32. Oltre Montecitorio, in «La Stampa», 4 giugno 1922.  33. Disciplina, in «Corriere della sera», 2 giugno 1922, ripr. in Corriere della Sera (1919-1943), antologia a cura di P. Melograni, Cappelli, Bologna 1965, pp. 103-106.  34. Cfr. G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia. Il Partito popolare italiano, Laterza, Bari 1966, pp. 213 sgg.  35. Cfr. E. Gentile, Contro Cesare. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 86 sgg.  36. Mussolini, Opera omnia, XVIII, p. 221. Cfr. Gentile, Contro Cesare, cit., pp. 86 sgg.  37. ACS, Gabinetto Bonomi, b. 2, fasc. 4.  38. ACS, MI, DGPS, CA, 1922, G1, fasc. «Fasci di combattimento. Mantova», lettera di Surzo a Bonomi, Roma 24 febbraio 1922.  39. Bolscevismo, in «La Scintilla», 16 aprile 1922.  40. Cfr. Veneruso, La vigilia del fascismo, cit., p. 349.

§ Stato, anti-Stato e fascismo 41. D. Grandi, Dilemma, in «L’Assalto», 17 giugno 1922.  42. Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 258-263.

­­­­­288

note

§ L’offensiva d’estate 43. Veneruso, La vigilia del fascismo, cit., pp. 352-356nn.  44. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 120, fasc. «Fasci di combattimento. Cremona», rapporto del prefetto, 4 marzo 1922.  45. Noi e loro, in «Cremona Nuova», 1° maggio 1922.  46. R. Farinacci, Squadrismo. Dal mio diario della vigilia 1919-1922, Edizioni Ardita, Roma 1933, p. 128.  47. Ivi, pp. 129-130.  48. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 120.  49. Ivi, telegramma n. 988, 6 luglio 1922.  50. Farinacci, Squadrismo, cit., p. 131.  51. Citato in E. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, Leonardo, Roma 1946, p. 22.  52. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 120, telegramma inviato a nome di Sturzo da G. Spataro, 13 luglio 1922.  53. Ivi, telegramma n. 1050, 14 luglio 1922.  54. Ivi, telegramma n. 1051, 14 luglio 1922.  55. Ivi, rapporto del prefetto Guadagnini, 16 luglio 1922.  56. Farinacci, Squadrismo, cit., p. 137.

§ Il governo capitola e l’offensiva continua 57. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 120.  58. G. Brambati, Garibotti e Miglioli non devono più rivedere Cremona, in «Cremona Nuova», 18 luglio 1922.  59. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 120, telegramma n. 1130, 31 luglio 1922.  60. «Avanti!», 21 febbraio 1922.  61. Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 282-283.  62. Ivi, pp. 287-288.  63. ACS, MI, DGPS, Atti speciali 18581940, 3/8.  64. G. Cante, Il monito di Bologna, in «Polemica», luglio 1922.

§ Prodromi di dittatura, minacce d’insurrezione 65. A.R., Il supremo interesse nazionale, in «Corriere della Sera», 16 luglio 1922, ripr. in Corriere della Sera (1919-1943), cit., p. 106.  66. C. Treves, Della dittatura..., in «Critica Sociale», 16-31 luglio 1922.  67. Il Governo e la Destra, in «La Stampa», 18 luglio 1922.  68. Cfr. Veneruso, La vigilia del fascismo, cit., pp. 470 sgg.  69. Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 289-293. capitolo V

§ Il falso dilemma 1. Citato in R. De Felice, Mussolini il fascista 1921-1925, Einaudi, Torino 1966, p. 255.  2. Cfr. E. Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 687-688.  3. Cfr. E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Il Mulino, Bologna 2011, pp. 283 sgg.; Id., Storia del partito fascista, cit., pp. 108-112.  4. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 399 sgg.  5. Cfr. F. Cordova, Le origini dei sindacati fascisti. 1918-1926, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 67 sgg.  6. Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 266-267.

note al capitolo V ­­­­­289

§ L’incompatibilità reale 7. D. Grandi, Allo svolto, in «L’Assalto», 21-22 luglio 1922.  8. Per lo Statuto e per lo Stato, in «La Stampa», 19 luglio 1922, ripr. in L. Salvatorelli, Nazionalfascismo (1923), Einaudi, Torino 1977, pp. 75-77.  9. G. Amendola, La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924, Ricciardi, Napoli 1960, pp. 3-6.

§ «Dare agli avversari il senso del terrore» 10. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 102.  11. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 133.  12. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 139, fasc. «Novara», rapporto del prefetto De Fabbritiis al ministero dell’Interno, Novara 27 luglio 1922. Cfr. C. Bermani, La battaglia di Novara. 9-24 luglio 1922, DeriveApprodi, Roma 2010.  13. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 139, fasc. «Novara», rapporto dell’ispettore generale di pubblica sicurezza Paolella al ministero dell’Interno, Novara 29 agosto 1922.  14. Citato in G.A. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista 1919-1922, IV, Anno 1922, parte I, Vallecchi, Firenze 1929, p. 180.  15. Mussolini, Opera omnia, XVIII, p. 302.  16. Ivi, p. 304.  17. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 133, fasc. «Mantova».  18. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 134, fasc. «Mantova», sottofasc. «Volta Mantovana», il prefetto Coffari al ministero dell’Interno, 26 giugno 1922.  19. Ivi, rapporto del 12 luglio 1922.  20. Ivi, telegramma di Facta al prefetto Coffari, 27 luglio 1922.  21. Ivi, rapporto del 27 luglio 1922.  22. Cfr. L. Casali, Fascisti, repubblicani e socialisti in Romagna nel 1922. La «conquista» di Ravenna, in «Movimento di Liberazione in Italia», ottobre-dicembre 1968, pp. 12-36.  23. Cfr. I. Balbo, Diario 1922, Mondadori, Milano 1932, p. 101.  24. Ivi, p. 103.  25. Cfr. Casali, Fascismo, repubblicani e socialisti, cit., p. 30.  26. Balbo, Diario 1922, cit., p. 109.

§ La battaglia decisiva 27. Cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, VIII, La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l’avvento del fascismo, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 393 sgg.  28. Citato in A. Repaci, La marcia su Roma, Rizzoli, Milano 1972, p. 618.  29. Mussolini, Opera omnia, XVIII, p. 320.  30. Citato in Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 627.  31. Ivi, p. 629.  32. Citato in Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, cit., pp. 192-193.  33. Cfr. E. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, Leo­ nardo, Roma 1946, p. 33.  34. «Il Popolo d’Italia», 3 agosto 1922.  35. Citato in Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., p. 34.  36. M. Bianchi, I discorsi e gli scritti, con prefazione di B. Mussolini, Libreria del Littorio, Roma 1931, p. 68. Manca una biografia storica di Bianchi; per un breve profilo si veda A. Riosa, Michele Bianchi, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 10, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1968; M. Fatica, Michele Bianchi, in Uomini e volti del fascismo, a cura di F. Cordova, Bulzoni, Roma 1980, pp. 31-61.  37. Citato in Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., p. 39.  38. ACS, MI, DGPS, CA, 1922, C1, fasc. «Sciopero generale politico».  39. Cfr. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, cit., pp. 193 sgg.; A. Tasca, Nascita e avvento del

­­­­­290

note

fascismo. L’Italia dal 1918 al 1922 (1950), con una premessa di R. De Felice, 2 voll., Laterza, Bari 1965, pp. 336 sgg.; P. Alatri, Le origini del fascismo, Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 146-155; Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 31 sgg.; G. Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 41 sgg.  40. Cfr. Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 35 sgg.; M. Canali, Cesare Rossi. Da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 193 sgg.  41. Citato in Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., p. 45.  42. Cfr. P. Nenni, Sei anni di guerra civile, Rizzoli, Milano-Roma 1945, pp. 122 sgg.  43. Cfr. F. Alberico, Le origini e lo sviluppo del fascismo a Genova. La violenza politica dal dopoguerra alla costituzione del regime, Unicopli, Milano 2009, pp. 145 sgg.  44. Cfr. M. Millozzi, Le origini del fascismo nell’anconetano, Argalia, Urbino 1974, pp. 67 sgg.  45. Cfr. S. Colarizi, Dopoguerra e fascismo in Puglia (1919-1926), Laterza, Bari 1971, p. 221.  46. Cfr. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., p. 43.  47. Cfr. Balbo, Diario 1922, cit., pp. 113 sgg.; M. De Micheli, Barricate a Parma, Editori Riuniti, Roma 1960; E. Francescangeli, Arditi del popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione antifascista (1917-1922), Odradek, Roma 2000, pp. 131 sgg.; M. Palazzino (a cura di), «Da prefetto Parma a gabinetto Ministro Interni». Le barricate antifasciste del 1922 attraverso i dispacci dell’ordine pubblico, Archivio di Stato-Silva editore, Parma 2002.

§ La vittoria del segretario del partito fascista 48. Cfr. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, cit., pp. 343-346.  49. Citato in Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, cit., p. 289.  50. Citato in Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 667.  51. Cfr. Bianchi, I discorsi e gli scritti, cit., p. 68.  52. Citato in Gentile, Storia del partito fascista, cit., p. 607. In quella riunione Mussolini disse di non rinnegare la violenza, ma era «assolutamente necessario che sia chirurgica e si fermi non appena raggiunti gli obiettivi. Essa non va usata contro le masse, che sono per gran parte composte di illusi o di esaltati, che noi, anziché legnare, dobbiamo attrarre, ma va contro coloro che in malafede tentano di lanciare queste masse verso la rovina» (Mussolini, Opera omnia, XVIII, p. 330).  53. ACS, Carte Bianchi, b. 1, fasc. 2.  54. ACS, Casellario politico centrale, b. 4437, fasc. «Rossi Cesare».  55. Cesare Rossi ha sostenuto nei suoi ricordi su Mussolini che questi era rimasto a Roma trattenuto da un’avventura galante (C. Rossi, Mussolini com’era, Ruffolo, Roma 1947, p. 229), mentre secondo De Felice in quei giorni Mussolini era a Roma per cercare di trovare un accordo con Nitti e con D’Annunzio in vista di una combinazione governativa di pacificazione nazionale. Cfr. De Felice, Mussolini il fascista, cit., pp. 282 sgg.  56. Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 485-486.  57. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., p. 44.  58. Ivi, p. 49. Bianchi era nato a Belmonte Calabro il 22 luglio 1883.

§ Impotenza di Stato 59. Cfr. A. Fiori, Mussolini e il fascismo nel carteggio Riccio-Salandra, in «Nuova Storia Contemporanea», marzo-aprile 2005, pp. 15-42.  60. Citato in

note al capitolo VI ­­­­­291

Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 647.  61. G. Alessio, La crisi dello Stato parlamentare e l’avvento del fascismo. Memorie inedite di un ex-ministro, Cedam, Padova 1946, pp. 27-28.  62. Ivi, p. 28.  63. Citato in Fiori, Mussolini e il fascismo, cit., p. 26.  64. Citato in Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 650.  65. ACS, MI, DGPS, 1922, C1, b. 56.  66. Citato in Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 655.  67. Cfr. M. Mondini, La politica delle armi. Il ruolo dell’esercito nell’avvento del fascismo, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 150 sgg.  68. Citato in Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 611-612. Cfr. Mondini, La politica delle armi, cit., pp. 151 sgg.  69. Citato in Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 612-613.  70. Cfr. Alessio, La crisi dello Stato parlamentare, cit., pp. 35 sgg.  71. Citato in De Felice, Mussolini il fascista, cit., p. 279n.

§ Stato in potenza 72. Conclusioni, in «La Stampa», 6 agosto 1922, ripr. in Salvatorelli, Nazionalfascismo, cit., pp. 78-79.  73. Parla il Presidente del Consiglio, in «La Stampa», 10 agosto 1922.  74. «La Stampa», 10 agosto 1922.  75. La discussione, ivi.  76. Mussolini, Opera omnia, XVIII, p. 344.  77. M. Vinciguerra, Come siamo arrivati alla rivoluzione fascista (agosto 1922), in Id., Il fascismo visto da un solitario ed altri saggi sull’Italia dal 28 ottobre ad oggi, Le Monnier, Firenze 1963, pp. 55-56.  78. Volt [pseud. di Vincenzo Fani Ciotti], Il concetto sociologico dello Stato, in «Gerarchia», 25 agosto 1922.  79. A. Mazzotti, La questione dell’Autorità e la «marcia su Roma», in «Il Popolo d’Italia», 15 settembre 1922.

Capitolo VI

§ Si parla di marcia su Roma 1. Cfr. G. Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 58-65.  2. P. Togliatti, Opere, I, a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 517-521.  3. Ripr. in Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 536537.  4. La marcia su Roma e la ‘fifa’ dei socialisti, in «Il Popolo d’Italia», 6 agosto 1922.  5. Citato in Mussolini, Opera omnia, XVIII, p. 538.  6. Ivi, p. 349.  7. Cfr. Mezzogiorno e fascismo, 2 voll., a cura di P. Laveglia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1978.  8. Citato in G.A. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista 1919-1922, IV, Anno 1922, parte I, Vallecchi, Firenze 1929, p. 261.  9. ACS, MI, DGPS, CA, 1922, G1, fasc. «Fasci di combattimento. Propaganda fascista nelle regioni meridionali». Cfr. E. Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 552 sgg.  10. G. Polverelli, La marcia su Roma, in «Il Popolo d’Italia», 16 agosto 1922.  11. A. Lanzillo, La violenza del fascismo, in «Il Popolo d’Italia», 22 agosto 1922.  12. A. Goglia, Il fascismo e lo Stato, in «Polemica», agosto 1922.  13. G. Amendola, La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924, Ricciardi, Napoli 1960, p. 14.

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note

§ Eventualità di una dittatura 14. Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 574-575.  15. G. Pierangeli, La eventualità della dittatura, in «La Critica Politica», 25 agosto 1922.  16. Cfr. E. Gentile, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Le Monnier, Firenze 2000, pp. 29 sgg.

§ Il momento più difficile 17. I resoconti del convegno, pubblicati su «Il Popolo d’Italia», 15 agosto 1922, sono in parte riprodotti in Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, cit., pp. 257-264.  18. Ivi, p. 261.  19. Decidersi, in «La Stampa», 15 agosto 1922.

§ I travagli del fascismo 20. Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., p. 436.  21. Ivi, pp. 619 sgg.  22. Cfr. P. Corner, Il fascismo a Ferrara. 1915-1925, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 248 sgg.  23. Observer, I travagli del fascismo, in «Critica Sociale», 16-30 settembre 1922.  24. G. Prato, Monopolio e concorrenza sindacale, in «Gerarchia», settembre 1922.  25. P. Zama, Sulle soglie di casa, in «L’Assalto», 16 settembre 1922.  26. Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., p. 625.  27. Citato in Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, cit., p. 286.  28. Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., p. 624.  29. Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 391-392.  30. Ivi, pp. 399400.  31. Citato in Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, cit., p. 185.

§ La nuova milizia e il «capo supremo» 32. Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 626 sgg.  33. Cfr. I. Balbo, Diario 1922, Mondadori, Milano 1932, p. 150. Il testo del nuovo regolamento, pubblicato su «Il Popolo d’Italia» del 3 ottobre 1922, è riprodotto in Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, cit., pp. 489-495.  34. Anche la composizione dei reparti fu modificata per renderli più compatti e unitari. Abolita la squadriglia di 4 uomini, primo elemento della milizia divenne la squadra, composta da 15/20 uomini invece che 20/50, al comando di un Capo squadra; tre squadre componevano un manipolo, al comando di un Decurione; tre manipoli formavano la centuria al comando di un Centurione; tre «centurie» formavano la «coorte» comandata da un Seniore e infine la «legione», composta da tre a sei «coorti», comandata da un Console. Le «legioni» potevano essere riunite in gruppi sotto il comando degli ispettori di zona o di speciali comandanti appositamente designati. La riunione dei reparti, dalle «squadre» alle «coorti», doveva essere fatta nella stessa città o borgata. Nelle «legioni» potevano poi essere costituiti anche dei reparti speciali di ciclisti e motociclisti, così come potevano essere costituiti in squadre, in caso di necessità, telegrafisti, telefonisti, radiotelegrafisti, piloti aviatori, automobilisti. «Non si costituiscono reparti di mitraglieri e di cannonieri; ma i fascisti che nell’Esercito servirono come tali saranno tenuti in

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speciale evidenza per ogni eventualità». Le istruzioni per la milizia prescrivevano anche l’uso e i tipi di uniforme, di gradi, di saluto. Per quanto riguardava le spese per l’organizzazione e la funzionalità degli ispettori generali, la direzione del PNF le assegnò a carico delle federazioni che avevano sede nella zona.  35. Il regolamento della milizia fascista, in «Il Mondo», 5 ottobre 1922.  36. La gerarchia militare fascista, in «Il Mondo», 13 ottobre 1922.  37. A. Lanzillo, L’uomo e la gerarchia, in «Il Popolo d’Italia», 18 ottobre 1922.  38. E. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, Leonardo, Roma 1946, pp. 55-56.

§ Governanti in vacanza, fascisti in azione 39. Cfr. G. Alessio, La crisi dello Stato parlamentare e l’avvento del fascismo. Memorie inedite di un ex-ministro, Cedam, Padova 1946, p. 44.  40. Ivi, pp. 4849. Cfr. La manifestazione di Pinerolo all’on. Facta per il trentennio della sua vita parlamentare, in «La Stampa», 25 settembre 1922.  41. Ivi, p. 50.  42. Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 428-429.  43. Ivi, pp. 412-421.  44. Ivi, pp. 422-423.

§ L’offensiva continua 45. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, cit., p. 277.  46. Cfr. P. Alatri, Le origini del fascismo, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 194.  47. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, cit., pp. 306-307.  48. Ivi, pp. 312-314.  49. Cfr. Alatri, Le origini del fascismo, cit., pp. 194-195.  50. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 129, fasc. «Fasci di combattimento», lettera del questore al procuratore del re, Cremona 26 settembre 1922.  51. Citato in A. Repaci, La marcia su Roma, Rizzoli, Milano 1972, p. 676.  52. Ivi, pp. 682-683.  53. Ivi, pp. 685-686.  54. Alessio, La crisi dello Stato parlamentare, cit., p. 44, p. 52.  55. Già nell’aprile dell’anno precedente gli squadristi capeggiati da Achille Starace avevano tentato di compiere una spedizione punitiva a Bolzano, ma l’allora presidente del Consiglio Giolitti aveva ordinato al commissario regio di impedire la spedizione a qualunque costo: «Se per connivenza o debolezza, tale ordine non fosse eseguito Governo considererebbe tale disubbidienza come vero tradimento e provvederebbe in conseguenza. Qui si tratta del buon nome dell’Italia e non è quindi tollerabile qualsiasi debolezza», perché quanto avveniva a Bolzano «è indegno di un paese civile e produrrà all’estero grave discredito all’Italia». E in un successivo telegramma Giolitti aveva ribadito: «Se pretesi patrioti fossero pagati da una potenza nemica non potrebbero fare opera più dannosa alla Patria. È necessaria una repressione immediata esemplare. Tutti quelli che presero parte alla nefanda azione devono essere arrestati. Mi telegrafi esecuzione e mi indichi condotta forza pubblica che era sul posto. Ricordi che dalla energia della repressione dipende l’opinione che l’estero si farà dell’Italia». Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., p. 203.  56. ACS, MI, DGPS, CA, 1922, G1, fasc. «Fasci di combattimento. Trento».  57. Cfr. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, cit., pp. 403 sgg.; R. Farinacci, Squadrismo. Dal mio diario della vigilia 1919-1922, Edizioni Ardita, Roma 1933, pp. 160-162; S. Benvenuti, Il Fascismo nella Venezia Tridentina, Società di Studi Trentini di Scienze storiche, Trento 1976, pp. 136 sgg.

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note

§ Un pericolo immane 58. Urgenza di un Governo, in «Corriere della Sera», 4 ottobre 1922, ripr. in Corriere della Sera (1919-1943), antologia a cura di P. Melograni, Cappelli, Bologna 1965, pp. 141-144.  59. Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 433440.  60. Ivi, p. 436.  61. G. Bottai, Il regime e l’agnosticismo fascista, in «Il Giornale di Roma», 8 ottobre 1922, ripr. in Id., Pagine di critica fascista, a cura di F.M. Pacces, Le Monnier, Firenze 1942, pp. 202-212.  62. C. Rossi, Trentatré vicende mussoliniane, Ceschina, Milano 1958, pp. 122-123.  63. Citato in Il delitto Matteotti tra il Viminale e l’Aventino. Dagli atti del processo De Bono davanti all’Alta Corte di Giustizia, a cura di G. Rossini, Il Mulino, Bologna 1966, p. 18.  64. Amendola, La democrazia italiana contro il fascismo, cit., pp. 42-43.

§ Il momento più propizio 65. Citato in G. Pini, D. Susmel, Mussolini. L’uomo e l’opera, II, Dal fascismo alla dittatura (1919-1925), La Fenice, Firenze 1957, p. 204.  66. Rossi, Trentatré vicende mussoliniane, cit., pp. 126-127.  67. Cfr. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, cit., pp. 278 sgg.  68. Il Convegno della stampa fascista italiana, in «Il Popolo d’Italia», 18 ottobre 1922. La stampa fascista comprendeva 5 quotidiani e 85 periodici provinciali e locali. Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 628, 629n.  69. Cfr. N. Valeri, Da Giolitti a Mussolini (1956), Garzanti, Milano 1972, pp. 115-119; Alatri, Le origini del fascismo, cit., pp. 208213.  70. Cfr. M. Mondini, La politica delle armi. Il ruolo dell’esercito nell’avvento del fascismo, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 153 sgg.  71. Cfr. D. Bartoli, La fine della monarchia, Mondadori, Milano 1966, pp. 144 sgg.; R. De Felice, Mussolini il fascista 1921-1925, Einaudi, Torino 1966, pp. 313 sgg.; Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 143 sgg.  72. Cfr. N. Valeri, D’Annunzio davanti al fascismo, Le Monnier, Firenze 1963, pp. 70 sgg.; R. De Felice, D’Annunzio politico. 1918-1938, Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 170 sgg.; P. Alatri, Gabriele D’Annunzio, Utet, Torino 1983, pp. 506 sgg.  73. P. Nenni, Pagine di diario, Garzanti, Milano 1947, pp. 83-84.  74. Cfr. G. Sabbatucci, I socialisti nella crisi dello Stato liberale (1918-1925), in Storia del socialismo italiano, diretta da G. Sabbatucci, vol. III, Guerra e dopoguerra (1914-1926), Il Poligono, Roma 1980, pp. 317 sgg.  75. Mussolini, Opera omnia, XVIII, p. 442.  76. Cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, VIII, La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l’avvento del fascismo, Feltrinelli, Milano 1978, p. 400.

§ L’attimo può sfuggire 77. Mussolini, Opera omnia, XVIII, p. 442.  78. Cfr. De Felice, Mussolini il fascista, cit., pp. 304 sgg.  79. Il testo del rapporto in Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 772-773.  80. Citato in Pini, Susmel, Mussolini, cit., p. 225.

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Capitolo VII

§ Chi volle la marcia su Roma 1. P. Mariani, La marcia su Roma, Studio editoriale romano, Roma 1923, p. 17.  2. A. Benedetti, Il 28 ottobre, in Le tre giornate di Roma, a cura di S. Mennini, Toccafondi, Borgo San Lorenzo 1922, citato in A. Repaci, La marcia su Roma, Rizzoli, Milano 1972, p. 355.  3. G.A. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista 1919-1922, V, Anno 1922, parte II, Vallecchi, Firenze 1929, p. 7.  4. I. Balbo, Diario 1922, Mondadori, Milano 1932, p. 159.  5. P. Gorgolini, La rivoluzione fascista, Silvestrelli & Cappelletti, Torino 1923, p. 17.  6. M. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, Edizioni Libraie Italiane, Milano 1952, pp. 106-107.  7. Ivi, pp. 110-111.  8. C. Rossi, Trentatré vicende mussoliniane, Ceschina, Milano 1958, p. 126.  9. B. Mussolini, Preludi della marcia su Roma, in «Gerarchia», ottobre 1927. Negli anni successivi Mussolini diede altre rievocazioni della preparazione della marcia, che non si discostavano da questa ora citata.  10. Citato in Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 915.  11. Ivi, p. 923.  12. E. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, Leonardo, Roma 1946, pp. 56-57.  13. Ivi, pp. 9-10.  14. Citato in Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 334.  15. «Il Popolo d’Italia», 15 ottobre 1922.  16. Fra gli storici che si sono occupati della «marcia su Roma», la maggior parte ha attribuito a Mussolini il ruolo di principale o unico protagonista, concordi nel considerarla il suo «capolavoro»: cfr. A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo (1950), con una premessa di R. De Felice, 2 voll., Laterza, Bari 1965, pp. 391 sgg.; Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 89 sgg. («il vero protagonista fu lui, e lui soltanto»); R. De Felice, Mussolini il fascista 1921-1929, Einaudi, Torino 1966, pp. 282 sgg.; P. Alatri, Le origini del fascismo, Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 225 sgg.; E. Santarelli, Storia del fascismo, I, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 307 sgg.; G. Santomassimo, La marcia su Roma, Giunti, Firenze 2000, pp. 52 sgg. Maggior risalto al ruolo di Bianchi è stato dato invece da A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 132 sgg. (ed. or. The Seizure of Power. Fascism in Italy 1919-1929, Weidenfeld and Nicolson, London 1973): «Bianchi, e soprattutto Balbo», scrive Lyttelton, «fornirono a Mussolini l’appoggio morale e politico di cui abbisognava (va sottolineato che in seguito fu proprio la loro risolutezza a mantenere Mussolini, che esitava, sulla strada dell’insurrezione)»; e da E. Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 642 sgg. La questione non è trattata in G. Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 65 sgg.

§ Chi non voleva l’insurrezione 17. Cfr. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 616-618.  18. Cfr. D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice, Il Mulino, Bologna 1985, p. 164; P. Nello, Dino Grandi. La formazione di un leader fascista, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 170 sgg.; Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 630-632.  19. Grandi, Il mio paese, cit., pp. 166-167.  20. Citato in ivi, p. 164.  21. Il programma di «Imperia», in «Il Popolo d’Italia», 14 ottobre

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note

1922.  22. Grandi, Il mio paese, cit., p. 172. Sull’atteggiamento di Pareto verso il fascismo e i suoi rapporti con Mussolini alla vigilia della «marcia su Roma», cfr. De Felice, Mussolini il fascista, cit., pp. 304-306; M. Luchetti, Pareto e il fascismo alla luce dei carteggi editi, in V. Pareto, Lettere a Arturo Linaker 18851923, a cura di M. Luchetti, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1972, pp. 213 sgg.  23. Citato in Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 353-354.  24. Una importante assemblea generale dei fascisti torinesi, in «Il Popolo d’Italia», 2 ottobre 1922.  25. De Vecchi, Un quadrumviro scomodo, cit., p. 61.  26. Appare per molti aspetti poco attendibile la versione che De Vecchi ha dato nelle sue memorie delle vicende della «marcia su Roma», attribuendosi un ruolo di costante oppositore di Mussolini, di Bianchi e di Balbo. A parte imprecisioni e inesattezze, il derisorio scetticismo verso il piano insurrezionale, che De Vecchi narrava di aver sempre ostentato in polemica con Mussolini, Bianchi e Balbo, appare incoerente col fatto che egli comunque accettò di essere pienamente coinvolto nell’attuazione di quello stesso piano, come membro del «quadrumvirato» preposto al comando dell’insurrezione.

§ Il gioco delle parti 27. Secondo alcuni storici, Mussolini sarebbe rimasto a Milano per avere la possibilità di una via di fuga verso la Svizzera in caso di fallimento dell’insurrezione: cfr. G. Salvemini, Le origini del fascismo in Italia. Lezioni di Harvard, a cura di R. Vivarelli, Feltrinelli, Milano 1979, p. 381. Non era tuttavia scontato che il governo elvetico avrebbe dato rifugio a un Mussolini fuggiasco, inseguito da un ordine di cattura del governo italiano come capo e ispiratore di un movimento insurrezionale: durante il suo giovanile soggiorno in Svizzera fra il 1902 e il 1905, Mussolini era stato arrestato e per due volte espulso. Cfr. infra, pp. 220-221.  28. Cfr. N. Valeri, Da Giolitti a Mussolini (1956), Garzanti, Milano 1972, pp. 133 sgg.; De Felice, Mussolini il fascista, cit., pp. 283 sgg.; Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 357 sgg.  29. Citato in Valeri, Da Giolitti a Mussolini, cit., pp. 169-172.  30. Ivi, pp. 178-182.  31. L. Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, Mondadori, Milano 1967, p. 71.  32. La situazione politica, in «Il Popolo d’Italia», 8 ottobre 1922.  33. M. Soleri, Memorie, Einaudi, Torino 1949, p. 148.  34. Cfr. Rossi, Trentatré vicende mussoliniane, cit., pp. 155-159; M. Saija, I prefetti italiani nella crisi dello stato liberale, vol. 2, Giuffrè, Milano 2005, pp. 136 sgg.  35. Citato in Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 743-746.  36. Citato in Valeri, Da Giolitti a Mussolini, cit., p. 119.  37. Citato in Tasca, Nascita e avvento del fascismo, cit., p. 434.  38. Citato in Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 787-788.

§ Trattative con insurrezione 39. Cfr. Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 173-178; De Felice, Mussolini il fascista, cit., pp. 322-327; G. Rochat, L’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini (1919-1925), Laterza, Bari 1967, pp. 397 sgg.; M. Mondini, La politica delle armi. Il ruolo dell’esercito nell’avvento del fascismo, Laterza, Roma-

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Bari 2006, pp. 83 sgg.; pp. 145 sgg.  40. C. Romano, Esercito e fascismo, in «Cremona Nuova», 3 settembre 1922.  41. Esercito e fascismo, in «Cremona Nuova», 15 ottobre 1922. Più temperato nel tono fu il commento di Mussolini, Esercito e fascismo, in «Il Popolo d’Italia», 14 ottobre 1922, ripr. in Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 443-444.  42. Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 462-463.  43. Ibid.

§ Piano di marcia 44. V. Pareto, Lettere a Maffeo Pantaleoni 1890-1923, a cura di G. De Rosa, III, 1907-1923, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1962, p. 313.  45. Il verbale della riunione, redatto da Balbo, fu pubblicato su «Il Popolo d’Italia» del 28 ottobre 1938, ora in Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 581-582. Cfr. I. Balbo, Diario 1922, Mondadori, Milano 1932, pp. 177-183 (in una nota premessa al libro De Bono e De Vecchi attestavano che il diario di Balbo conteneva una «esatta e scrupolosa esposizione degli avvenimenti che ci hanno condotto a Roma nelle memorabili giornate dell’ottobre 1922»); G. Fara, Memorie e note, in «Gerarchia», ottobre 1927, pp. 967-969; E. De Bono, Diario di campagna, in «Gerarchia», ottobre 1927, pp. 960-962; De Vecchi, Il quadrumviro scomodo, cit., pp. 65-67; C. Rossi, Mussolini com’era, Ruffolo, Roma 1947, pp. 113-117; Id., Trentatré vicende mussoliniane, cit., pp. 128-129.  46. Cfr. G. Pini, D. Susmel, Mussolini. L’uomo e l’opera, II, Dal fascismo alla dittatura (1919-1925), La Fenice, Firenze 1957, p. 222.  47. Balbo, Diario 1922, cit., pp. 177-178.  48. Questa e le citazioni seguenti sono tratte dal verbale dell’adunata, cfr. n. 45.  49. Per neutralizzare un’eventuale partecipazione del poeta a una manovra governativa contro il fascismo, Mussolini aveva avuto un incontro segreto con D’Annunzio a Gardone l’11 ottobre, e la mattina del 16 fu sottoscritto a Milano un concordato fra il PNF e la Federazione italiana dei lavoratori del mare, legata a D’Annunzio, in base al quale il partito fascista si impegnava a sciogliere le proprie corporazioni marinare facendo passare i loro iscritti nella FILM. Il risultato fu che D’Annunzio alla fine rinunciò a partecipare alla celebrazione del 4 novembre, prevista dal governo come un espediente per contrastare il fascismo in nome della pacificazione nazionale. Cfr. De Felice, Mussolini il fascista, cit., pp. 339-342.  50. Rossi, Trentatré vicende mussoliniane, cit., pp. 131-132. Il timore di Mussolini per un ritorno di Giolitti al governo e la conseguente fretta di andare al potere sono confermati da De Vecchi, che così riferisce quanto detto da Mussolini durante la riunione: «L’atto rivoluzionario della Marcia su Roma – disse – o si compie subito o non si farà più. Il tempo è maturo e il Governo è marcio. Lo spettro di Giolitti viene avanti pian piano e voi sapete che con Giolitti al potere è meglio pensare ad altro» (Il quadrumviro scomodo, cit., p. 66). Nessun cenno all’evocazione mussoliniana dello «spettro di Giolitti» è nel Diario di Balbo.  51. Balbo, Diario 1922, cit., p. 180.  52. Un resoconto della riunione è in Balbo, Diario 1922, cit., pp. 183-187; De Bono, Diario di campagna, cit., p. 961 (ma data al 20 e 21 ottobre la riunione a Bordighera); diversa la versione della riunione data da De Vecchi, Il quadrumviro scomodo, cit., pp. 66-67.  53. De Bono, Diario di campagna, cit., p. 962. De Vecchi ha raccontato di aver approfittato dell’udienza «per mettere al corrente la Regina Madre di quanto

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note

stava maturando, convinto che lei, a sua volta, ne avrebbe informato il Re. Era l’unico mezzo, questo, per scongiurare un urto fra le forze fasciste e reparti dell’Esercito e per far sì che la crisi, ormai inevitabile, rimanesse circoscritta all’ambito governativo con carattere esclusivamente politico» (Il quadrumviro scomodo, cit., p. 67). Sulla assenza di Balbo e Teruzzi all’incontro con la regina madre, divergono le motivazioni date da Balbo (Diario 1922, cit., p. 185) e da De Vecchi (Il quadrumviro scomodo, cit., pp. 67-68).  54. Sulla riunione cfr. Balbo, Diario 1922, cit., pp. 186-189. Il piano della mobilitazione è in Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, cit., p. 20.

§ Da Napoli a Roma 55. Sulle giornate dell’adunata fascista a Napoli e sui lavori del consiglio nazionale del PNF, cfr. «Il Popolo d’Italia», 25-27 ottobre 1922; ACS, MI, DGPS, CA, 1922, G1, fasc. «Fasci di combattimento. Napoli».  56. Cfr. Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 787.  57. Ivi, p. 789.  58. Ivi, pp. 792-793.  59. Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 453-460.  60. Ivi, pp. 459-460.  61. De Vecchi, Il quadrumviro scomodo, cit., p. 71.  62. Cfr. Rossi, Trentatré vicende mussoliniane, cit., pp. 150-151.  63. Balbo, Diario 1922, cit., pp. 195-198.  64. Ivi, p. 198.  65. Mussolini, Opera omnia, XVIII, pp. 449-452.  66. Grandi, Il mio paese, cit., pp. 174 sgg.  67. De Vecchi, Il quadrumviro scomodo, cit., pp. 69-70.  68. Grandi, Il mio paese, cit., p. 176.  69. De Vecchi, Il quadrumviro scomodo, cit., p. 72.  70. D. Grandi, Ubbidire!, in «L’Assalto», 28 ottobre 1922.  71. Grandi, Il mio paese, cit., p. 177.  72. Ivi, p. 178.

§ L’inganno partenopeo: la marcia è tramontata 73. Balbo, Diario 1922, cit., p. 199.  74. De Vecchi, Il quadrumviro scomodo, cit., p. 72.  75. Forza personale, in «La Stampa», 25 ottobre 1922.  76. «Détente», in «La Stampa», 25 ottobre 1922.  77. Postille a un discorso, in «La Stampa», 26 ottobre 1922.  78. Annaspamenti nel vuoto, in «Avanti!», 25 ottobre 1922, ripr. in P. Nenni, La battaglia socialista contro il fascismo 19221944, a cura di D. Zucàro, Mursia, Milano 1977, pp. 25-26.  79. L’adunata di Napoli. La fine della farsa, in «L’Ordine Nuovo», 27 ottobre 1922.  80. «Massimalismo» fascista, in «L’Ordine Nuovo», 27 ottobre 1922.  81. Citato in Il delitto Matteotti tra il Viminale e l’Aventino. Dagli Atti del processo De Bono davanti all’Alta Corte di Giustizia, a cura di G. Rossini, Il Mulino, Bologna 1966, p. 19.  82. Cfr. De Felice, Mussolini il fascista, cit., p. 306. Il messaggio paretiano a Mussolini è messo in dubbio da M. Luchetti (cfr. Pareto, Lettere ad Arturo Linaker 1885-1923, cit., p. 223), ma è coerente con quanto Pareto aveva detto a Grandi nel loro incontro del 23 ottobre e con quanto Pareto scrisse a M. Pantaleoni il 29 ottobre: «Domani altresì il telegrafo ci farà noto che ne è della ‘rivoluzione’ fascista. Se non si compie ora, è probabile che non si compierà mai più; il che non vuol dire che un’altra rivoluzione sia impossibile» (Pareto, Lettere a Maffeo Pantaleoni 1890-1923, III, cit., p. 315).  83. Citato in Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 796.  84. Ivi, p. 802.

note al capitolo VIII ­­­­­299

Capitolo VIII

§ La marcia non è tramontata 1. Citato in A. Repaci, La marcia su Roma, Rizzoli, Milano 1972, p. 802.  2. N. Valeri, Da Giolitti a Mussolini (1956), Garzanti, Milano 1974, p. 188.  3. ACS, MI, DGPS, CA, 1922, G1, b. 105, fasc. «Fasci di combattimento. Stato d’assedio», il prefetto di Milano al ministero dell’Interno, 25 ottobre 1922, trasmesso alle ore 22.45, pervenuto alle ore 1 del 26.  4. Ivi, 26 ottobre 1922, trasmesso alle ore 9.42, pervenuto alle ore 10.30.  5. Ivi, Facta e Taddei al prefetto di Milano, 26 ottobre 1922, telegramma n. 23722, trasmesso alle 11.35.  6. Ivi, Taddei ai prefetti del Regno, 26 ottobre 1922, telegramma n. 23727, trasmesso alle 12.10.  7. G. Alessio, La crisi dello Stato parlamentare e l’avvento del fascismo. Memorie inedite di un ex-ministro, Cedam, Padova 1946, pp. 54-55.  8. Il testo dei due telegrammi è in Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 808-809.  9. Valeri, Da Giolitti a Mussolini, cit., pp. 188-190.  10. C.M. De Vecchi di Val Cismon, Il quadrumviro scomodo. Il vero Mussolini nelle memorie del più monarchico dei fascisti, a cura di L. Romersa, Mursia, Milano 1983, p. 72.  11. A. Salandra, Memorie politiche, Garzanti, Milano 1951, pp. 433-444; D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice, Il Mulino, Bologna 1985, p. 178.  12. Alessio, La crisi dello Stato parlamentare, cit., p. 55.  13. Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 807.  14. Come è precipitata la situazione, in «La Stampa», 27 ottobre 1922.  15. Citato in E. Pugliese, Io difendo l’Esercito, Rispoli, Napoli 1946, p. 42.  16. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 105, fasc. «Fasci di combattimento. Stato d’assedio», il prefetto Poggi al ministero dell’Interno, 26 ottobre 1922, trasmesso alle 21.10, pervenuto alle 23.

§ Manovre dei fascisti «antimarcia» 17. Grandi, Il mio paese, cit., p. 178. La candidatura di Salandra era fortemente appoggiata dai nazionalisti, decisi a contrastare in ogni modo l’insurrezione fascista, sia per il timore che investisse l’istituzione monarchica sia perché, essendo stati i pionieri della riscossa antisocialista, antiliberale e antidemocratica e di uno Stato forte, autoritario e imperialista, ed essendo organizzati dal 1910 nell’Associazione nazionalista italiana, si reputavano i «padri nobili» del fascismo, che essi consideravano un braccio armato della dottrina nazionalista, le truppe di massa, di cui loro erano l’avanguardia e la guida colta e cosciente. Oltre tutto, fin dal 1919 i nazionalisti avevano organizzato proprie squadre per contrastare con la violenza le agitazioni socialiste. Col motto «Sempre pronti per la Patria e per il Re» e la camicia azzurra come simbolo, la milizia nazionalista contava nel 1922 alcune decine di migliaia di uomini, prevalentemente nella capitale e nel Mezzogiorno. Nonostante le affinità, i due movimenti erano rivali nella pretesa di incarnare la volontà della nazione, e fra loro si erano avuti nel settembre 1922 anche scontri violenti. Cfr. F. Gaeta, Il nazionalismo italiano (1965), Laterza, Roma-Bari 1981; R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Einaudi, Torino 1966, pp. 194-195; pp. 366-372; E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1975), Il Mulino, Bologna 2011, pp. 283 sgg.;

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note

A. Roccucci, Roma capitale del nazionalismo (1908-1923), Archivio Guido Izzi, Roma 2001, pp. 472 sgg.  18. Ivi, p. 179.  19. Come è precipitata la situazione, in «La Stampa», 27 ottobre 1922.  20. Citato in Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 814.  21. Ivi, p. 815.  22. Ibid.

§ Mussolini tratta, ma Bianchi vuole l’insurrezione 23. Cfr. De Felice, Mussolini il fascista, cit., pp. 336 sgg.; Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 357 sgg.  24. C. Rossi, Trentatré vicende mussoliniane, Ceschina, Milano 1958, pp. 137-142.  25. Ivi, pp. 138-139.  26. Citato in Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 832-833.  27. ACS, Carte Bianchi, b. 1, fasc. 2, lettera di Bianchi a Mussolini, 23 gennaio 1925.  28. Ivi, ritaglio di giornale allegato da Bianchi alla sua lettera a Mussolini.  29. «La Stampa», 28 ottobre 1922.  30. La crisi ministeriale e la sua soluzione secondo Michele Bianchi, in «Il Popolo d’Italia», 28 ottobre 1922.  31. Citato in E. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, Leonardo, Roma 1946, pp. 84-85.  32. Concordano su questa interpretazione sia De Felice, Mussolini il fascista, cit., p. 308, sia Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 95.  33. Ferraris, La marcia su Roma, cit., pp. 87-88.  34. Ivi, pp. 87-90.  35. Grandi, Il mio paese, cit., p. 180.  36. Ibid.

§ Inizia l’insurrezione 37. Il prefetto De Martino al ministero dell’Interno, 26 ottobre 1922, trasmesso alle 23, pervenuto alle 3.30 del 27 ottobre. Questo e i successivi telegrammi sono in ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 105, fasc. «Fasci di combattimento. Stato d’assedio».  38. Il prefetto Pesce al ministero dell’Interno, 26 ottobre 1922, trasmesso alle ore 24, pervenuto alle ore 2 del 27 ottobre.  39. G.A. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista 1919-1922, V, Anno 1922, parte II, Vallecchi, Firenze 1929, p. 152.  40. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 105, fasc. «Fasci di combattimento. Stato d’assedio».  41. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 105, fasc. «Fasci di combattimento. Stato d’assedio». Cfr. R. Farinacci, Squadrismo. Dal mio diario della vigilia 1919-1922, Edizioni Ardita, Roma 1933, pp. 171 sgg.  42. Questo e i successivi telegrammi, salvo diversa indicazione, sono in ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 105, fasc. «Fasci di combattimento. Stato d’assedio».  43. E. Pugliese, Io difendo l’Esercito, Rispoli, Napoli 1946, pp. 47-48. Ferraris riferisce di una riunione con il comandante della Divisione militare, il comandante generale dei Carabinieri, il comandante generale delle guardie regie e il direttore generale delle ferrovie, convocata da Taddei nel suo gabinetto alle ore 18 del 27 ottobre, con la presenza di Facta. Il quale «chiese anzitutto al generale Pugliese, comandante la divisione, che egli dichiarasse sinceramente sul suo onore se in caso di conflitto si poteva contare sul lealismo dell’esercito. Il generale dichiarò: – se il Governo darà ordini scritti e precisi ne rispondo pienamente; ufficiali e soldati faranno il loro dovere». Allora, prosegue Ferraris, «si concretò un piano di difesa militare della Capitale e Taddei assicurò il Comandante la divisione che al momento opportuno avrebbe fatto pervenire l’ordine scritto per l’intervento armato, fino alle estreme conseguenze,

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dell’esercito in caso di azione insurrezionale da parte dei fascisti». Per parte sua, il direttore generale delle ferrovie avrebbe provveduto subito al taglio dei binari a due chilometri dalla capitale su tutte le linee convergenti verso Roma (La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., pp. 94-95). A proposito di questa rievocazione, Pugliese attribuisce a Ferraris «qualche confusione [...] di date, di persone intervenute a tale riunione, nonché di argomenti in questa trattati» e smentisce che gli sia stata rivolta da Facta, «il quale non era presente», la domanda sulla fedeltà dell’esercito «né in quella circostanza né in quella forma, che egli avrebbe considerata lesiva dell’onore dei suoi dipendenti» (Pugliese, Io difendo l’Esercito, cit., p. 13). Secondo Pugliese, Ferraris avrebbe confuso la riunione del 27 ottobre con quella tenuta il 28 ottobre dalle ore 3.30 alle 5 (ivi, p. 54).  44. Pugliese, Io difendo l’Esercito, cit., pp. 50-52.

§ Il re a Roma, situazione oscura 45. Alessio, La crisi dello Stato parlamentare, cit., p. 56.  46. A. Bergamini, Vittorio Emanuele III e il Parlamento, in «Politica parlamentare», gennaiofebbraio 1949.  47. M. Soleri, Memorie, Einaudi, Torino 1949, p. 150. Ferraris non cita alcuna reazione da parte del re: «Nella saletta Reale vi fu un breve colloquio nel quale Facta mise rapidamente il Sovrano al corrente della situazione e prospettò gli sviluppi che essa poteva prendere; poi il Sovrano si diresse rapidamente a Villa Savoia» (La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., p. 95). Tuttavia, in una successiva dichiarazione, Ferraris ha affermato che messo al corrente da Facta «delle misure che si intendevano prendere per difendere la Capitale (erano già in opera i cavalli di Frisia) [...] il Re non oppose eccezioni» (ripr. in Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 934). Secondo De Vecchi, Facta avrebbe detto al re: «Cosa devo fare, Maestà, per fronteggiare la situazione? Il Re lo guardò appena e rispose: ‘Mantenga l’ordine pubblico’. Non aggiunse altro e se ne andò a Villa Savoia» (Il quadrumviro scomodo, cit., p. 73).  48. Citato in N. D’Aroma, Vent’anni insieme. Vittorio Emanuele III e Mussolini, Cappelli, Bologna 1957, p. 124.  49. P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III (1958), Il Mulino, Bologna 1993, p. 291.  50. Cfr. supra, pp. 147-148.  51. Soleri, Memorie, cit., p. 148.  52. Citato in Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 803.  53. L’on. Facta al Quirinale, in «La Stampa», 28 ottobre 1922.  54. Situazione oscura, ivi.

§ Trattative arenate 55. Citato in Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 832-834.  56. Ivi, pp. 834835.  57. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., p. 91; Salandra, Memorie politiche, cit., p. 356.  58. C. Rossi, Mussolini com’era, Ruffolo, Roma 1947, p. 122.  59. L. Albertini, Epistolario 1911-1926, III, Il dopoguerra, a cura di O. Barié, Mondadori, Milano 1968, p. 1594.  60. Ripr. in Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 829-830.  61. Rossi, Mussolini com’era, cit., p. 123.  62. R. Mussolini, La mia vita con Benito, Mondadori, Milano 1948, p. 68.  63. Cfr. P.V. Cannistraro, B.R. Sullivan, Il Duce’s Other Woman. The Untold Story of Mar-

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note

gherita Sarfatti, Benito Mussolini’s Jewish Mistress, and how She Helped Him Come to Power, W. Morrow and Co., New York 1993, p. 261. Secondo i due biografi, Mussolini sarebbe andato a teatro con Margherita Sarfatti e la figlia di questa.

§ Governanti a letto, fascisti in movimento 64. Testimonianza di A. Rossini in S. Zavoli, Nascita di una dittatura, SEI, Torino 1973, p. 133.  65. Soleri, Memorie, cit., p. 151.  66. Pugliese, Io difendo l’Esercito, cit., p. 53.  67. Questo e i successivi telegrammi sul moto insurrezionale fascista sono in ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 105, fasc. «Fasci di combattimento. Stato d’assedio».  68. A Milano, la notte del 27, l’insurrezione era stata annunciata con una diffida ai principali quotidiani fatta personalmente nelle loro sedi, da un gruppo di fascisti composto da Cesare Rossi, Aldo Finzi, Manlio Morgagni e Amerigo Dumini: «La diffida – spiegava Rossi l’anno dopo in un’intervista – consisteva nell’invito agli avversari ed agli altri elementi dubbi, di prendere atto di quanto stava per succedere, e nella preghiera, fatta soprattutto nel loro interesse, di non ostacolare il fatale cozzo, per non costringere a radicali misure, indiscutibili e doverose nei momenti di suprema responsabilità» (Come fu preparata e vinta la battaglia per la conquista della capitale, in «Corriere Italiano», 26 ottobre 1923). Rossi e Finzi si recarono alla sede del «Corriere della Sera» per avvertire il direttore Alberto Albertini, che sostituiva il fratello Luigi, che i fascisti intendevano «impadronirsi del governo e imporre alla stampa il rispetto della loro volontà. I giornali sarebbero stati divisi in tre categorie: i favorevoli, i neutri, i contrari. Contro questi ultimi le più violente sanzioni». I due chiesero quindi cosa voleva fare il «Corriere» e il direttore rispose che il giornale «avrebbe pensato ai casi suoi», e ne avrebbe comunque parlato col fratello Luigi prima di decidere (L. Albertini, I giorni di un liberale. Diari 1907-1923, a cura di L. Monzali, Il Mulino, Bologna, p. 395).  69. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., p. 95.  70. Dichiarazione di A. Rossini in Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 947-950. Cfr. Soleri, Memorie, cit., p. 151.  71. Dichiarazione di A. Rossini in Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 950.  72. Testimonianza di A. Rossini in Zavoli, Nascita di una dittatura, cit., pp. 132-133.  73. Dichiarazioni di A. Rossini in Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 950.

§ Insorti in marcia, governo in allerta 74. Pugliese, Io difendo l’Esercito, cit., pp. 54-56. Il riassunto della riunione riportato nel libro di Pugliese è tratto dal diario della Divisione di Roma. Né Soleri né Ferraris danno notizia di questa riunione, che Soleri confonde con la riunione del Consiglio dei ministri al Viminale (Memorie, cit., p. 151). Il generale Pugliese, che nel 1922 comandava la 16a Divisione di Fanteria di stanza a Roma ed era comandante ad interim dell’intera guarnigione incaricata della difesa della capitale, fu uno dei più risoluti sostenitori della necessità di contrastare con ogni mezzo l’insurrezione fascista, sicuro che l’esercito sarebbe stato fedele al giuramento prestato al re e allo Statuto. Ingiustamente accusato di essere stato poco coraggioso nella Grande Guerra e di essere stato fautore del fascismo al momento

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della «marcia su Roma» da E. Lussu (Marcia su Roma e dintorni, Einaudi, Torino 1976, p. 58; il libro era stato pubblicato per la prima volta all’estero nel 1933), Pugliese respinse le accuse dimostrando con un’ampia documentazione quel che aveva fatto per sollecitare il governo a reprimere l’insurrezione fascista. Contro le reiterate e ingiuriose accuse di Lussu, Pugliese documentò la correttezza del suo operato in un altro libro, che riprendeva in parte il precedente, L’esercito e la cosiddetta Marcia su Roma. La verità ufficialmente documentata contro la menzogna. L’esercito fece il suo dovere, Tipografia Regionale, Roma 1958. Cfr. M. Michaelis, Il generale Pugliese e la difesa di Roma, in «Rassegna mensile di Israel», giugnoluglio 1962, pp. 262-283.  75. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., p. 95.  76. Il verbale della riunione è riprodotto in Pugliese, Io difendo l’Esercito, cit., pp. 54-55.  77. In L’Esercito nei giorni della «marcia su Roma»: dalle «Memorie storiche» della 16a Divisione di Fanteria di stanza a Roma nel 1922, a cura di R. De Felice, in «Storia contemporanea», n. 6, 1984, pp. 1207-1210.  78. Citato in E. Ferraris, Re Vittorio, Facta e lo stato d’assedio, in «La Stampa», 21 febbraio 1948. Paoletti non precisava l’ora in cui si recò con Facta dal re a Villa Savoia, ma fu comunque prima del Consiglio dei ministri delle 5.30. Secondo Repaci (La marcia su Roma, cit., p. 490), Facta si sarebbe recato dal re alle 2, dopo la riunione al ministero della Guerra, ma dal diario della Divisione di Roma, citato da Pugliese, risulta che la riunione iniziò alle 3.30 e si concluse alle 5.  79. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., p. 97. Capitolo IX

§ Il governo delibera lo stato d’assedio 1. E. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, Leonardo, Roma 1946, pp. 99-100.  2. Ibid. Repaci attribuisce erroneamente al racconto di Ferraris la presenza del generale Cittadini alla seduta del Consiglio (A. Repaci, La marcia su Roma, Rizzoli, Milano 1972, p. 491). Cittadini confermò la sua presenza (N. D’Aroma, Vent’anni insieme. Vittorio Emanuele e Mussolini, Cappelli, Bologna 1957, p. 124). Invece il generale Ambrogio Clerici, altro aiutante di campo del re, avrebbe dato a De Vecchi una testimonianza scritta in cui negava la presenza del generale Cittadini al Consiglio dei ministri. De Vecchi, per parte sua, negava un secondo incontro del re con Facta prima della mattina del 28 ottobre, che invece è attestato dal segretario di Facta Paoletti. Cfr. C.M. De Vecchi di Val Cismon, Il quadrumviro scomodo, a cura di L. Romersa, Mursia, Milano 1983, pp. 73-74.  3. Come fu consegnato il Governo a Mussolini, in «Politica parlamentare», giugno 1962, p. 36. In una precedente dichiarazione, Paratore aveva detto che il generale Cittadini «affermò, di fronte alla perplessità di qualche ministro, che non deliberando lo stato d’assedio, il Capo dello Stato avrebbe abbandonato l’Italia» («Politica parlamentare», luglio 1949, p. 64).  4. Dichiazione di G.B. Bertone a Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 918.  5. In S. Zavoli, Nascita di una dittatura, SEI, Torino 1973, p. 134.  6. Citato in M. Soleri, Memorie, Einaudi, Torino 1949, pp. 151-152.  7. E. Pugliese, Io difendo l’Esercito, Rispoli, Napoli 1946, pp. 60-61.  8. Ivi, p. 57.  9. Ivi, p. 58.  10. Citato in Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., p. 102.  11. Pu-

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note

gliese, Io difendo l’Esercito, cit., p. 60.  12. Ibid.  13. Citato in Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., pp. 102-103.  14. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 105, fasc. «Fasci di combattimento. Stato d’assedio».

§ Il rifiuto del re 15. Cfr. Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 494 sgg.; R. De Felice, Mussolini il fascista 1921-1925, Einaudi, Torino 1966, pp. 359 sgg.  16. Cfr. G. Alessio, La crisi dello Stato parlamentare e l’avvento del fascismo. Memorie inedite di un ex-ministro, Cedam, Padova 1946, pp. 54-56; Soleri, Memorie, cit., pp. 152-154. Sulla base di varie testimonianze raccolte personalmente, Salvemini riteneva che i militari avessero avuto un ruolo primario e decisivo nel successo del fascismo e soprattutto nella decisione del re di non firmare il decreto di stato d’assedio, fino a considerare la «marcia su Roma» un colpo di Stato eseguito dai fascisti ma ordito dalle alte gerarchie militari. Secondo Salvemini, decisivo sarebbe stato anche, in sintonia con i militari, l’intervento sul re dei nazionalisti Federzoni e Roberto Forges Davanzati. Cfr. G. Salvemini, Memorie e soliloqui. Diario 1922-1923, a cura di R. Pertici, Il Mulino, Bologna 2001. Per una equilibrata valutazione dell’atteggiamento dei militari, cfr. M. Mondini, La politica delle armi. Il ruolo dell’esercito nell’avvento del fascismo, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 167 sgg.; sul ruolo della massoneria cfr. G. Vannoni, Massoneria, fascismo e Chiesa cattolica, Laterza, Roma-Bari 1980, pp. 72-82; A. Livi, Massoneria e fascismo, Bastogi, Foggia 2000, pp. 71-78; F. Conti, Storia della massoneria italiana dal Risorgimento al fascismo, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 300 sgg.  17. P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, a cura di R. De Felice, Il Mulino, Bologna 1993, p. 37.  18. Ivi, p. 292.

§ Roma inneggia al re 19. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., p. 109.  20. Soleri, Memorie, cit., p. 153.  21. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 105, fasc. «Fasci di combattimento. Stato d’assedio».  22. Cfr. Entusiasmo a Roma per l’intervento del Re, in «La Stampa», 29 ottobre 1922.  23. A. Signoretti, Come diventai fascista, Volpe, Roma 1967, p. 151.

§ E l’insurrezione continua 24. U. Igliori, La colonna Igliori, in «Gerarchia», ottobre 1927, p. 1002.  25. Una dettagliata ma apologetica narrazione cronachistica dei moti insurrezionali fascisti è in G.A. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista 1919-1922, V, Anno 1922, Parte II, Vallecchi, Firenze 1929: nonostante le imprecisioni e le esagerazioni, i fatti narrati sono sostanzialmente confermati dalla documentazione archivistica. Una narrazione di carattere storiografico, ma meno dettagliata, è in A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo (1950), con una premessa di R. De Felice, 2 voll., Laterza, Bari 1965, pp. 458 sgg.; Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 513 sgg., enfatizza troppo l’aspetto fallimentare minimizzando il peso che

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il moto insurrezionale ebbe per il successo della manovra politica mussoliniana e per il consolidamento e l’espansione del dominio fascista a livello locale; una sintesi degli avvenimenti principali in G. Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 84 sgg. Sul comportamento dell’esercito nei giorni dell’insurrezione, cfr. Albanese, La marcia su Roma, cit., pp. 163-169; Mondini, La politica delle armi, cit., pp. 168 sgg.

§ Una marcia resistibilissima 26. Pugliese, Io difendo l’Esercito, cit., pp. 71 sgg. Sulle diverse stime del numero dei fascisti concentrati nei dintorni di Roma, cfr. Repaci, La marcia su Roma, cit., pp. 459-461.  27. Cfr. F. Gaeta, Nazionalismo italiano, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1965, pp. 218 sgg.; De Felice, Mussolini il fascista, cit., pp. 368369; A. Roccucci, Roma capitale del nazionalismo (1908-1923), Archivio Guido Izzi, Roma 2001, pp. 524-525.  28. R. Paolucci, Il mio piccolo mondo perduto, Cappelli, Bologna 1952, p. 296.  29. Soleri, Memorie, cit., pp. 150-151.  30. S. Ceccherini, Le legioni toscane, in «Gerarchia», ottobre 1927, p. 982.  31. Dario Lischi (Darioski), La marcia su Roma con la colonna Lamarmora, Florentia, Firenze 1923, pp. 60 sgg.  32. Cfr. G. Bottai, La colonna Bottai, e U. Igliori, La colonna Igliori, in «Gerarchia», ottobre 1927, pp. 986-1011.  33. I. Balbo, Diario 1922, Mondadori, Milano 1932, p. 197. Cfr. C.G. Segre, Il diario di Balbo e il mito della marcia su Roma. La fede di un soldato, in «Rassegna degli Archivi di Stato», maggio-dicembre 1983, pp. 333-341.  34. D. Perrone Compagni, La colonna Perrone, in «Gerarchia», ottobre 1927, pp. 994-995.  35. U. Igliori, La colonna Igliori, ivi, pp. 1002-1003.  36. E. De Bono, Diario di campagna, ivi, p. 965.

§ Quadrumvirato in confusione 37. De Bono, Diario di campagna, cit., p. 962.  38. Balbo, Diario 1922, cit., pp. 204 sgg.  39. Cfr. D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice, Il Mulino, Bologna 1983, pp. 181 sgg. De Vecchi, Il quadrumviro scomodo, cit., pp. 75 sgg.  40. Balbo, Diario 1922, cit., p. 209.  41. De Vecchi ha raccontato di aver subito protestato per l’occupazione della prefettura, che pure era prevista dal piano insurrezionale che il quadrumviro aveva accettato di eseguire, e di essere ripartito da Perugia poco dopo le 10 del 28 ottobre perché sollecitato da una telefonata del generale Cittadini che gli chiedeva a nome del re di rientrare immediatamente a Roma. Ha raccontato, inoltre, che mentre riferiva agli altri quadrumviri la telefonata di Cittadini, gli giunse da Roma una telefonata di Federzoni, il quale gli avrebbe detto che il re era deciso ad abdicare. Alla telefonata di Federzoni, secondo il racconto di De Vecchi, avrebbe risposto in un primo momento De Bono, ma gli avrebbe subito passato la cornetta; Grandi ha scritto invece che Federzoni parlò con De Bono, per chiedergli di sospendere l’insurrezione: ma nel suo diario di campagna, De Bono non faceva alcun cenno alla telefonata di Federzoni, mentre affermava che il quadrumvirato aveva appreso la notizia dello stato d’assedio dal telegramma inviato da Taddei ai prefetti e ricevuto dai fascisti che occupavano l’ufficio telegrafico. Nel diario

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note

Balbo scriveva «De Vecchi è ritornato subito a Roma», ma non faceva alcun cenno alla telefonata di Cittadini né a quella di Federzoni, e inoltre scriveva di un ritorno a Perugia di De Vecchi con Grandi la mattina del 29 ottobre, mentre i due, rientrati a Roma alle 14 del 28, rimasero nella capitale per perorare la formazione di un governo Salandra-Mussolini. Grandi narra nel suo diario che la telefonata di Federzoni a Perugia mandò fuori dai gangheri De Vecchi, che si mise ad inveire: «Federzoni vuole fare il salvatore della patria atteggiandosi a mediatore e pacere tra il Re, il Governo, Mussolini, Salandra!» (Grandi, Il mio paese, cit., p. 182). Inoltre, De Vecchi ha raccontato che la notizia dello stato d’assedio aveva sgomentato De Bono e Bianchi, disposti a cedere, mentre Balbo era deciso a resistere (De Vecchi, Il quadrumviro scomodo, cit., p. 79). La versione di De Vecchi non è confermata né dal diario di Grandi né da Balbo, mentre per quanto riguarda De Bono e Bianchi, essa contrasta con la decisione degli stessi di proporre e far sottoscrivere allo stesso De Vecchi l’impegno di lottare fino ad ottenere il governo Mussolini.  42. De Vecchi, Il quadrumviro scomodo, cit., p. 76.  43. De Bono, Diario di campagna, cit., p. 963.  44. De Vecchi, Il quadrumviro scomodo, cit., p. 76.  45. Balbo, Diario 1922, cit., p. 208.  46. De Bono, Diario di campagna, cit., p. 963. Cfr. A. Aquarone, Emilio De Bono e la marcia su Roma, in «Rassegna degli Archivi di Stato», maggio-dicembre 1983, p. 32.  47. Cfr. De Vecchi, Il quadrumviro scomodo, cit., pp. 80-81; Grandi, Il mio paese, cit., pp. 182-183.

§ «Fece fessi tutti» 48. Cfr. Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 850.  49. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., pp. 108-109.  50. C. Rossi, Trentatré vicende mussoliniane, Ceschina, Milano 1958, p. 162. Della telefonata di Federzoni a Mussolini la mattina del 28 ottobre diede una diversa versione, sette anni dopo, in una lettera scritta a Mussolini il 31 ottobre 1929, Aldo Finzi, che era con lui a Milano: «Infatti, la mattina del 28 ottobre 1922 raccolsi io la comunicazione dell’on. Federzoni e te la riferii, e per non equivocare te la ripeto oggi. Ecco le parole dell’on. Federzoni: ‘Ti prego, insisti presso quel benedetto uomo, perché la situazione nei riguardi di S.M. si aggrava... Ormai si è decisi da concedere tutte le richieste di Napoli, con presidenza Salandra’. Quando ti riferii ciò, tu andasti personalmente al telefono e dicesti, me presente, che le richieste di Napoli non potevano più bastare, perché ormai il dado era tratto, la Rivoluzione era in marcia e già il sangue dei martiri fascisti bagnava le piazze d’Italia e non poteva consentire a nessuno di pensare a qualsiasi forma di transazione! Rammento tutta la gioia che la tua decisa risposta provocò a tutti noi presidianti il ‘Popolo d’Italia’, e ricordo esattamente un’ora dopo, il Prefetto Lusignoli diede il primo annunzio verbale seguito da conferma telegrafica, che S.M. ti incaricava di comporre il nuovo Governo. Sette anni, non possono, non debbono essere sufficienti a falsare la Storia, ed il Fascismo deve sapere che contro le lusinghe che pervenivano in quel momento anche da parte alleata tu e tu solo fosti l’arbitro della situazione ed il salvatore di tutti i diritti della Rivoluzione» (ACS, Carte Finzi, b. 5, fasc. 5, sott. 3).  51. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., p. 114.  52. A. Rocco, Gli antecedenti, lo spirito e le date della marcia su Roma, in «L’Idea

note al capitolo X ­­­­­307

Nazionale», 28 ottobre 1923. Cfr. P. Melograni, Gli industriali e Mussolini. Rapporti tra Confindustria e fascismo dal 1919 al 1929, Longanesi, Milano 1972, pp. 36-39.  53. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., p. 116.  54. Repaci, La marcia su Roma, cit., p. 863.  55. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., pp. 115-117.  56. Cfr. Grandi, Il mio paese, cit., p. 183.  57. G. Marinelli, Le ultime ore del vecchio regime, in «Gerarchia», ottobre 1927, p. 1014.  58. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., pp. 119120.  59. Mussolini, Opera omnia, XVIII, p. 463.  60. De Vecchi, Il quadrumviro scomodo, cit., p. 82.  61. Citato in Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, cit., pp. 122-123.  62. Ivi, pp. 125-126.  63. Cfr. L. Albertini, I giorni di un liberale. Diari 1907-1923, a cura di L. Monzali, Il Mulino, Bologna 2000, p. 399.  64. Rossi, Trentatré vicende mussoliniane, cit., p. 128.

§ Il successo di un’insurrezione destinata al fallimento 65. Ivi, pp. 137 sgg.  66. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 106, fasc. 28, Relazione sugli avvenimenti svoltisi nella provincia di Bologna, dal giorno 26 ottobre all’8 novembre del generale di corpo d’armata Ugo Sani.  67. Cfr. De Felice, Mussolini il fascista, cit., p. 358n.  68. Questa e le successive citazioni, salvo diversa indicazione, sono tratte dal fondo ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 105 e b. 106.  69. Citato in Pugliese, Io difendo l’Esercito, cit., p. 78.  70. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 106, rapporto del prefetto Olivieri, Torino 28 ottobre 1922, ore 19.25.  71. Ivi, rapporto del comandante compagnia carabinieri al Comando generale, Milano 29 ottobre 1922, ore 0.5.  72. Ivi, rapporto del prefetto di Bologna, 28 ottobre 1922, ore 19.25.  73. Ivi, relazione sugli avvenimenti svoltisi a Bologna dal 26 al 5 novembre del generale U. Sani al ministero dell’Interno, Bologna, 6 novembre 1922.  74. Pugliese, Io difendo l’Esercito, cit., pp. 78-79.  75. Ivi, p. 80.

§ In regime fascista 76. Citato in Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, cit., p. 96.  77. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 106, relazione sugli avvenimenti svoltisi a Bologna dal 26 ottobre al 5 novembre del generale U. Sani al ministero dell’Interno, Bologna, 6 novembre 1922.  78. Rossi, Trentatré vicende mussoliniane, cit., pp. 99-100. Capitolo X

§ Una rivoluzione bella e gioiosa 1. Citato in D.F. Schmitz, The United States and Fascist Italy, 1922-1940, The University of North Carolina Press, Chapel Hill-London 1988, p. 58.  2. Citato in L.A. De Santi, United States Relations with Italy Under Mussolini 1921-1941, Ph.D. Dissertation, Columbia University, 1951, p. 38.  3. Citato in Schmitz, The

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note

United States and Fascist Italy, cit., p. 56.  4. Ivi, pp. 52-53.  5. Ivi, p. 25.  6. Cfr. L.W. Jordan, America’s Mussolini: The United States and Italy 1915-1936, Ph.D. Dissertation, University of Virginia, 1972, p. 41.  7. Citato in G. Rumi, Alle origini della politica estera fascista 1918-1923, Laterza, Bari 1968, p. 265.  8. PRO, FO 371/7569, C 15130/366/22, Italian Political Crisis, Rome 31 October 1922.  9. Citato in Schmitz, The United States and Fascist Italy, cit., p. 55.  10. T. Vaucher, Le fascisme au pouvoir, in «L’Illustration», 4 novembre 1922.  11. P. Hazard, Psychologie du fasciste, in «L’Illustration», 11 novembre 1922.

§ Che accadrà dell’Italia? 12. Citato in Schmitz, The United States and Fascist Italy, cit., p. 53.  13. Cfr. A. Berselli, L’opinione pubblica inglese e l’avvento del fascismo, Franco Angeli, Milano 1971.  14. Documenti diplomatici italiani, serie VII, 19221935, vol. I, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1953, pp. 18-19.  15. Cfr. R. Bosworth, The British Press, the Conservative, and Mussolini, 1920-1934, in «Journal of Contemporary History», n. 2, 1970, pp. 163-182; C. Keserich, The British Labour Press and Italian Fascism, 1922-1925, in «Journal of Contemporary History», n. 4, 1975, pp. 579-591.  16. Documenti diplomatici italiani, serie VII, 1922-1935, cit., p. 19. Cfr. P. Milza, Le fascisme italien et la presse française 1920-1940, Complexe, Paris 1987, pp. 77 sgg.  17. U. Zanotti-Bianco, Carteggio 1919-1928, a cura di V. Carinci e A. Jannazzo, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 276.  18. Documenti diplomatici italiani, serie VII, 1922-1935, cit., p. 22.  19. Ivi, p. 12. Cfr. J. Petersen, Il fascismo italiano visto dalla Repubblica di Weimar, in «Storia contemporanea», n. 3, 1978, pp. 497-529; K.-P. Hoepke, La destra tedesca e il fascismo, Il Mulino, Bologna 1971, p. 139 (ed. or. Die deutsche Rechte und der italienische Faschismus, Droste Verlag, Düsseldorf 1968); R. De Felice, Mussolini e Hitler. I rapporti segreti (1922-1933), Le Monnier, Firenze 1983.  20. Citato in De Felice, Mussolini e Hitler, cit., p. 27.  21. En Italie, in «L’Illustration», 11 novembre 1922.  22. PRO, FO 371/7660, Attitude of Vatican towards new Italian government, 6 November 1922.

§ Immaturi per la democrazia 23. Citato in Schmitz, The United States and Fascist Italy, cit., p. 55.  24. Ivi, pp. 62-63.  25. Cfr. Berselli, L’opinione pubblica inglese, cit., p. 87.  26. Citato in Schmitz, The United States and Fascist Italy, cit., p. 52.  27. PRO, FO 371/7660 C 15208/366/22, 3 November 1922.  28. Citato in Berselli, L’opinione pubblica inglese, cit., p. 89n.

§ Una rivoluzione di tipo nuovo 29. MAE, Europe 1918-1940, Italie, vol. 63, Les débuts de la dictature légalisée de M. Mussolini, Roma, 30 novembre 1922.  30. Cfr. F. Charles-Roux, Souvenir diplomatiques. Une grande ambassade à Rome (1919-1925), Fayard, Paris 1961,

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pp. 181 sgg.  31. MAE, Europe 1918-1940, Italie, vol. 62, Roma, 2 novembre 1922.  32. Ivi, rapporto del 3 novembre 1922.  33. Ivi, rapporto del 15 novembre 1922.  34. MAE, Europe 1918-1940, Italie, vol. 63, Roma, 7 gennaio 1923. Capitolo XI

§ Auguri a Mussolini 1. Giolitti e la situazione, in «La Stampa», 1° novembre 1922.  2. «L’Illustrazione Italiana», 5 novembre 1922.  3. Nobiluomo Vidal [pseud. di R. Simoni], Intermezzi. Le giornate fasciste, in «L’Illustrazione Italiana», 5 novembre 1922.

§ Una ferita nella nazione 4. In attesa, in «Corriere della Sera», 2 novembre 1922, ripr. in Corriere della Sera (1919-1943), antologia a cura di P. Melograni, Cappelli, Bologna 1965, pp. 167-170.  5. L. Albertini, Epistolario 1911-1926, IV, Il fascismo al potere, a cura di O. Barié, Mondadori, Milano 1968, pp. 1641-1642.  6. L. Albertini, Un Governo solo, in «Corriere della Sera», 3 novembre 1922, ripr. in Corriere della Sera (1919-1943), cit., p. 172.  7. Albertini, Epistolario, cit., pp. 1646-1647.

§ Non c’è stata una rivoluzione 8. Una pagina di storia italiana, in «La Stampa», 1° novembre 1922, ripr. in L. Salvatorelli, Nazionalfascismo (1923), Einaudi, Torino 1977, pp. 82-88.  9. P. Nenni, Una pagina di storia, in «Avanti!», 14 novembre 1922, ripr. in Id., La battaglia socialista contro il fascismo 1922-1944, a cura di D. Zucàro, presentazione di G. Arfè, Mursia, Milano 1977, pp. 30-34.  10. Citato in P. Spriano, Storia del partito comunista, I, Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino 1967, p. 234n.  11. Citato in ivi, p. 239.

§ Ma qualcosa è caduto 12. Nei nostri confini, in «Battaglie sindacali», 7 novembre 1922.  13. Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista 1921-1925, Einaudi, Torino 1966, pp. 308386.  14. Ore di attesa e di preparazione, in «Critica Sociale», 1-15 novembre 1922. 15. Ibid.

§ Socialisti in difesa della costituzione 16. G. Zibordi, Così si arrivò all’epilogo, in «Critica Sociale», 1-15 novembre 1922.  17. F. Turati, A. Kuliscioff, Carteggio, V, 1919-1922. Dopoguerra e

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note

fascismo, raccolto da A. Schiavi, a cura di F. Pedone, Einaudi, Torino 1977, p. 897.  18. Ivi, p. 899.

§ Mussolini è il meno pazzo 19. G. Salvemini, Carteggio 1921-1926, a cura di E. Tagliacozzo, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 103-107. Per altri commenti di Salvemini sugli esordi del governo Mussolini, cfr. G. Salvemini, Memorie e soliloqui. Diario 1922-1923, a cura di R. Pertici, Il Mulino, Bologna 2001.  20. Albertini, Un Governo solo, cit., p. 171.  21. Salvemini, Carteggio, cit., p. 125.  22. Ivi, p. 126.

§ L’equivoco degli equivoci 23. G. Amendola, Carteggio 1919-1922, a cura di E. D’Auria, Lacaita, Manduria 2003, p. 577.  24. Ivi, pp. 582-583, lettera a M. Figurelli, [Roma], 10 novembre 1922.  25. Ivi, pp. 584-585, lettera a G. Marone, Roma, 11 novembre 1922.  26. G. Fortunato, Carteggio 1912-1922, a cura di E. Gentile, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 416, lettera a A. Cefaly.  27. Ibid.  28. Ivi, pp. 416-417. Capitolo XII

§ Un parvenu al governo d’Italia 1. Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista 1921-1925, Einaudi, Torino 1966, pp. 388 sgg.; A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 151 sgg. (ed. or. The Seizure of Power. Fascism in Italy 1919-1929, Weidenfeld and Nicolson, London 1973); E. Gentile, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Le Monnier, Firenze 2000, pp. 63 sgg.; G. Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 147 sgg.  2. Petronio, Conversazioni romane. Mussoliniana, in «L’Illustrazione Italiana», 26 novembre 1922.  3. Nell’aula rigurgitante, in «La Stampa», 17 novembre 1922.  4. Atti del Parlamento italiano, Camera dei Deputati, Legislatura XXVI, 1a Sessione 1921-1923, Discussioni, tornata del 16 novembre 1922, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1923, pp. 8390-8394.  5. Ivi, p. 8394.  6. Nell’aula rigurgitante, in «La Stampa», 17 novembre 1922.  7. Atti del Parlamento italiano, Camera dei Senatori, Legislatura XXVI, 1a Sessione 1921-1923, Discussioni, tornata del 16 novembre 1922, Tipografia del Senato, Roma 1923, p. 3999.  8. Nell’aula rigurgitante, cit.

§ Il parlamento approva 9. Petronio, Conversazioni romane, cit.  10. «La Stampa», 18 novembre 1922.  11. Atti del Parlamento italiano, Camera dei Deputati, Legislatura

note al capitolo XII ­­­­­311

XXVI, 1a Sessione 1921-1923, Discussioni, tornata del 25 novembre 1922, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1923, pp. 8711-8713.  12. Cfr. E. Gentile, Senato e senatori nel regime fascista, in Repertorio biografico dei Senatori dell’Italia fascista, a cura di E. Gentile, E. Campochiaro, Bibliopolis, Napoli 2003, pp. 22-24; Cfr. D. Musiedlak, Lo stato fascista e la sua classe politica 1922-1924, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 300-302; L. Zani, Crisi del liberalismo e del parlamentarismo nel Senato italiano dopo la marcia su Roma, in Alfredo Rocco: dalla crisi del parlamentarismo alla costruzione dello Stato nuovo, a cura di E. Gentile, F. Lanchester, A. Tarquini, Carocci, Roma 2010, pp. 131 sgg.  13. E. Conti, Dal taccuino di un borghese, Garzanti, Milano 1946, pp. 304-307.  14. Atti del Parlamento italiano, Camera dei Senatori, Legislatura XXVI, 1a Sessione 1921-1923, Discussioni, tornata del 26 novembre 1922, Tipografia del Senato, Roma 1923, pp. 4213-4217. Cfr. L. Albertini, In difesa della libertà. Discorsi e scritti, Rizzoli, Roma 1947, pp. 39-54.  15. MAE, Europe 1918-1940, Italie, vol. 63, Roma, 18 novembre 1922.  16. F. Turati, A. Kuliscioff, Carteggio, V, 1919-1922. Dopoguerra e fascismo, a cura di F. Pedone, Einaudi, Torino 1977, p. 902.  17. Ivi, p. 904. 

§ Nuovo regime 18. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 106, fasc. 28.  19. Cfr. G. Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 117-120. C’erano stati scontri a fuoco fra fascisti e antifascisti in vari quartieri della capitale. A San Lorenzo si ebbero tredici morti. La mattina del 31 ottobre, un giovane operaio fu aggredito da una trentina di fascisti per motivi non accertati, fu «legato con le mani alla schiena ed ucciso sul posto». Gli squadristi devastarono le abitazioni di Nitti, del deputato socialista Giuseppe Sardelli, dei deputati comunisti Antonio Graziadei e Nicola Bombacci e di altri militanti comunisti, mentre al segretario di Bombacci rasarono la barba e gli tinsero il viso e i capelli di bianco, rosso e verde; nel quartiere Salario i fascisti ricercarono «i più noti sovversivi che accompagnavano ai posti di concentramento e li obbligavano a bere l’olio di ricino»; furono inoltre devastate sedi di organizzazioni socialiste e comuniste. Le violenze squadriste nella capitale continuarono nei due giorni successivi. Cfr. ACS, MI, DGPS, 1922, G1, b. 106, fasc. 28, notiziario dalle ore 10 del 31 ottobre 1922 alle ore 6.30 del 1° novembre; notiziario del 1° novembre dalle ore 8.30 alle ore 11.30; notiziario dalle 6 antimeridiane del 2 novembre alle 7 del 3.  20. La Direzione, La nostra rivoluzione. La marcia su Roma, in «Polemica», settembre-novembre 1922.  21. G. Salvemini, Carteggio 1921-1926, a cura di E. Tagliacozzo, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 101.  22. Ivi, p. 146.  23. Ivi, p. 141.  24. Cfr. F. Turati, A. Kuliscioff, Carteggio, VI, 1923-1925. Il delitto Matteotti e l’Aventino, a cura di F. Pedone, Einaudi, Torino 1977, lettere dell’8 e del 9 febbraio 1923, pp. 8-9.  25. Atti del Parlamento italiano, Camera dei Deputati, Legislatura XXVI, 1a Sessione, Discussioni, tornata del 6 febbraio 1923, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1923, p. 8757.

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note

§ Un irrevocabile fatto compiuto 26. Mussolini, Opera omnia, XIX, p. 40.  27. Ivi, pp. 62-63.  28. Ivi, p. 61.  29. Ivi, p. 66.  30. Dopo il Gran Consiglio Fascista, in «Il Popolo d’Italia», 17 dicembre 1922.  31. Mussolini, Opera omnia, XIX, p. 73.

§ Con premeditata ferocia 32. ACS, MI, Gabinetto Finzi, b. 1, fasc. 6.  33. Cfr. P. Corsini, Il feudo di Augusto Turati. Fascismo e lotta politica a Brescia (1922-1926), Franco Angeli, Milano 1988, pp. 48 sgg.  34. Cfr. R. De Felice, I fatti di Torino, in «Studi Storici», gennaio-marzo 1963, pp. 51-122.  35. ACS, SPD, CR, b. 26, Gran Consiglio 1923, sott. 1, inserto A «Fatti di Torino». La relazione è pubblicata anche in De Felice, I fatti di Torino, cit.  36. G. Bongiovanni, Come si sono svolti i fatti di Torino. Un colloquio con il console della legione piemontese, in «Il Secolo», 20 dicembre 1922.  37. Citato in M. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, ELI, Milano 1952, p. 148.  38. Citato in A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino 1965, pp. 25-26.  39. Cfr. G. Salvemini, Le origini del fascismo in Italia. Le lezioni di Harvard, a cura di R. Vivarelli, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 396-397.

§ La rivoluzione continua 40. Cfr. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, cit., pp. 7681.  41. Mussolini, Opera omnia, XIX, p. 97.  42 Ivi, p. 99.  43. Le decisioni del Gran Consiglio Fascista per la milizia, il nazionalismo e i datori di lavoro, in «Cremona Nuova», 14 gennaio 1923.  44. L’On. Mussolini illustra i compiti dei Commissari politici, in «Il Giornale di Roma», 19 marzo 1923.  45. Dal Consiglio dei Ministri al gran Consiglio fascista, in «La Stampa», 17 dicembre 1922.  46. Il Gran Consiglio Fascista, in «La Stampa», 14 gennaio 1923.  47. Mussolini, Opera omnia, XIX, p. 82.  48. Cose vecchie e nuove, in «Il Popolo d’Italia», 2 gennaio 1923.  49. Chiarimento di posizioni, in «La Stampa», 21 dicembre 1922, parzialmente ripr. in L. Salvatorelli, Nazionalfascismo (1923), Einaudi, Torino 1977, pp. 96-98.

Epilogo 1. Dove va il Mondo? Inchiesta tra scrittori italiani con la conclusione di Arcangelo Ghisleri, Libreria Politica Moderna, Roma 1923, pp. 5-7.  2. Ivi, p. 69.  3. Ivi, pp. 66-69. In un colloquio con Ghisleri, il 26 maggio a Roma, Salvemini ribadì di ritenere «preferibile Mussolini ad una nuova combinazione parlamentare a base di Giolitti e Bonomi e Orlando e genii simili: oggi bisogna fare l’opposizione all’opposizione, piuttosto che dare addosso a Mussolini: perché Mussolini si liquida da sé, perché è un clown e perché è circondato da ragazzacci: ma gli aspiranti al soglio come successori di Mussolini sono sempre

note all’epilogo ­­­­­313

i vecchi intriganti parlamentari, che con la loro stupidità e viltà hanno reso possibile e necessario Mussolini» (Memorie e soliloqui. Diario 1922-1923, a cura di R. Pertici, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 370-371).  4. Cfr. P.G. Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo. Gli anni del regime, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 3 sgg.  5. Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Einaudi, Torino 1967, pp. 415 sgg.; A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, Roma-Bari 1974 (ed. or. The Seizure of Power. Fascism in Italy 1919-1929, Weidenfeld and Nicolson, London 1973); E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista 1918-1925 (1991), Il Mulino, Bologna 2011, pp. 323 sgg.; Id., Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Le Monnier, Firenze 2000, pp. 71 sgg.  6. F. Turati, A. Kuliscioff, Carteggio, VI, 1923-1925. Il delitto Matteotti e l’Aventino, a cura di F. Pedone, Einaudi, Torino 1977, pp. 44-45.  7. Mussolini, Opera omnia, XIX, p. 92.  8. Ivi, p. 95.  9. E. Gentile, Il discorso del 3 gennaio 1925 e la nascita del regime fascista, in Il Parlamento italiano, vol. XI, 2, 1923-1928, Nuova Cei, Milano 1990, pp. 141-157.  10. A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino 1965, pp. 3-15.  11. De Felice, Mussolini il fascista, cit., pp. 476-478.  12. F. Meriano, Rivoluzione e restaurazione, in «Il Popolo d’Italia», 10 gennaio 1923.  13. Monito necessario, in «Il Giornale di Roma», 9 aprile 1923.  14. Il Fascismo e il suo avvenire, in «Cremona Nuova», 16 gennaio 1923.  15. I «randellatori» di ieri saranno i «fucilieri» di domani, in «Il Gagliardetto», 31 marzo 1923.  16. G. Pini, La settimana, in «L’Assalto», 17 marzo 1923.  17. Sottomettersi o dimettersi, in «L’Assalto», 21 marzo 1923.  18. Lo svuotamento dei partiti, in «Cremona Nuova», 15 marzo 1923.  19. G. Pini, Abbiamo giurato!, in «L’Assalto», 28 aprile 1923.  20. Mussolini, Opera omnia, XIX, pp. 116-117.  21. Ivi, p. 95.  22. Ivi, pp. 167-168.  23. G. Amendola, La democrazia italiana contro il fascismo (1922-1924), Ricciardi, Napoli 1960, p. 76.  24. Cfr. E. Gentile, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Le Monnier, Firenze 2000, pp. 66 sgg.  25. Cfr. E.H. Carr, The Bolshevik Revolution 1917-1923, I, Penguin Books, London 1969, pp. 160 sgg.  26. Mussolini, Opera omnia, XIX, p. 117.  27. Ivi, p. 195.  28. La nuova arte di Governo, in «La Voce repubblicana», 30 marzo 1923.  29. Mussolini, Opera omnia, XIX, p. 196.  30. Ivi, p. 121.  31. Ivi, p. 163.  32. Ivi, p. 201.  33. Liberalismo e fascismo, in «La Stampa», 13 febbraio 1923, ripr. in L. Salvatorelli, Nazionalfascismo (1923), Einaudi, Torino 1977, p. 99.  34. Stato e partito, in «La Stampa», 21 febbraio 1923, in Salvatorelli, Nazionalfascismo, cit., pp. 102103.  35. Secondo tempo, in «La Stampa», 25 aprile 1923.  36. Forza e consenso, in «Il Mondo», 30 marzo 1923.  37. La libertà è anche un fine, in «Il Mondo», 5 aprile 1923.  38. La conversione, in «Il Mondo», 1° aprile 1923.  39. Crisi di orientamento, in «Il Mondo», 26 aprile 1923.  40. Amendola, La democrazia italiana contro il fascismo, cit., pp. 84-85.  41. Passato, presente e futuro, in «La Voce repubblicana», 27 aprile 1923.  42. G. Fortunato, Carteggio. 1923-1926, a cura di E. Gentile, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 23.  43. Mussolini, Opera omnia, XX, p. 335.  44. C. Rossi, Mussolini com’era, Ruffolo, Roma 1947, p. 145.

Indice dei nomi

Alatri, Paolo, 280, 290, 293-295. Albanese, Giulia, 280, 285, 290-291, 295, 305, 310-311. Alberico, Francesca, 290. Albertini, Alberto, 287, 302. Albertini, Luigi, 120, 177, 208, 233234, 250, 287, 301-302, 307, 309, 310-311. Alessio, Giulio, 85, 91-92, 94, 115, 118-119, 148, 158-159, 174, 291, 293, 299, 301, 304. Amendola, Giovanni, 62, 79-80, 91, 101, 113, 115, 123, 148, 243, 271, 276, 289, 291, 294, 310, 313. Anile, Antonino, 118. Apih, Elio, 286. Aquarone, Alberto, 285, 306, 312-313. Arfè, Gaetano, 309. Arpinati, Leandro, 29, 40, 214. Badoglio, Pietro, 143. Baistrocchi, Federico, 150. Balbo, Italo, 29-31, 34, 37-38, 40, 48, 53-54, 56-62, 80, 83, 87-88, 104105, 107, 110, 128, 130-131, 133, 135-138, 144-145, 151-153, 165, 168, 181, 201-203, 284, 286-287, 289-290, 292, 295-298, 305-306. Barbiellini Amidei, Bernardo, 29, 40. Barié, Ottavio, 287, 301, 309. Baroncini, Guido, 58-59, 104-105, 135. Bartoli, Domenico, 294. Bastianini, Giuseppe, 29, 40, 130. Beals, Carleton, xiv, 280. Belli, Piero, 285. Beltrami, T., 287. Benedetti, A., 295.

Beneduce, Giuseppe, 182-183. Benvenuti, Sergio, 293. Bergamini, Alberto, 174, 301. Bergamo, Guido, 43, 118, 285. Berselli, Aldo, 308. Bertolini, Francesco, 195. Bertone, Giovanbattista, 187. Betti, Camillo, 180. Bevione, Giuseppe, 185. Bianchi, D., 285. Bianchi, Michele, xiv, 38, 80, 83, 8586, 88-91, 103-105, 124, 130-135, 138-139, 141, 144-147, 150, 153, 159, 161-162, 164-168, 175, 181, 186, 202, 217, 255, 259, 289-290, 296, 306. Bombacci, Nicola, 311. Bongiovanni, G., 312. Bonomi, Ivanoe, 26, 64, 84, 218, 242, 266, 271, 282, 312. Borgongini Duca, Francesco, 223. Boriani, Giuseppe, 195. Borri, Dino, 180. Bosworth, Richard J.B., 308. Bottai, Giuseppe, 122, 132, 135, 146, 294, 305. Brambati, Giacomo, 288. Brandimarte, Pietro, 258. Breganze, Giovanni, 196. Buttafochi, Carlo, 195. Calore, Augusto, 195. Campochiaro, Emilia, 311. Canali, Mauro, 290. Candeloro, Giorgio, 280, 282, 286, 289, 294. Canepa, Giuseppe, 253.

­­­­­316 Cannistraro, Philip V., 301. Cante, G., 288. Carinci, Valeriana, 308. Carnazza, Gabriello, 266. Carr, Edward Hallett, 313. Casali, Luciano, 289. Cassola, Carlo, 243. Cattaruzza, Marina, 282. Cavour, Camillo Benso, conte di, xiv. Ceccherini, Sante, 144-146, 199, 305. Charles-Roux, François, 226-229, 308. Child, Richard, 219, 224. Chiurco, Giorgio Alberto, 130, 287, 289-293, 295, 298, 300, 304, 307. Ciano, Costanzo, 130, 152-153, 159, 161, 163, 177, 206-207. Cittadini, Arturo, 187, 205, 208, 303, 305. Clerici, Ambrogio, 303. Colarizi, Simona, 285, 290. Conti, Ettore, 57, 250, 287. Conti, Fulvio, 304, 311. Conti, Giovanni, 263. Cordova, Ferdinando, 281, 288-289. Corner, Paul, 283, 292. Corradini, Camillo, 158, 177. Corsini, Paolo, 312. Credaro, Luigi, 119. Crespi, Daniele, 181. Croce, Benedetto, 245. Cromwell, Oliver, xiv. Dalla Casa, Brunella, 282. D’Annunzio, Gabriele, 9, 14, 17, 2931, 53, 87, 124, 126, 144-145, 147, 157, 207, 231, 241-242, 290, 297. D’Aroma, Nino, 301, 303. D’Auria, Elio, 310. De Bono, Emilio, 110, 128, 138, 144146, 153, 165, 168, 181, 201-203, 205-206, 217, 255, 297, 305-306. De Falco, Giuseppe, 44. De Felice, Renzo, 280-286, 288, 290291, 294-300, 304-305, 307-313. Delcroix, Carlo, 199. De Micheli, Mario, 290. De Nava, Giuseppe, 84, 218. De Nicola, Enrico, 218, 249, 251. De Rosa, Gabriele, 283, 287, 297.

indice dei nomi

De Santi, Louis A., 307. De Stefani, Alberto, 87, 119-120. De Vecchi, Cesare Maria, 40-41, 81, 86, 110, 128, 130, 137, 144-146, 149, 152-153, 159, 161-165, 168-169, 176-177, 182, 201-207, 249, 251, 258, 296-299, 301, 303, 305-307. Diaz, Armando, 177, 190, 201. Di Tarsia, Paolo, 70, 119. Di Vagno, Giuseppe, 47. Donati, Giuseppe, 123, 156. Dudan, Alessandro, 130. Dumini, Amerigo, 302. Einaudi, Luigi, 233. Ercolani, Antonella, 286. Fabbri, Fabio, 280, 282. Fabbri, Luigi, 44, 285. Facta, Luigi, 49-51, 53, 62, 66, 73, 75, 77, 79, 82, 84-87, 91, 95, 114-115, 124, 126-127, 131, 138-140, 146148, 151, 156-160, 162-163, 166, 169, 174-176, 180, 182-183, 185186, 188-190, 192, 203-205, 207, 218, 236, 242, 266, 289, 299-301, 303. Fani Ciotti, Vincenzo, vedi Volt. Fara, Gustavo, 144-146, 297. Farinacci, Roberto, 29-30, 40, 65-69, 87, 104-105, 118-119, 135, 171, 260, 269, 288, 293. Fatica, Michele, 289. Favaron, Mario, 195. Federzoni, Luigi, 139, 161, 204, 296, 304-306. Fera, Luigi, 218. Ferraris, Efrem, 90, 132, 182-183, 186-187, 288-290, 293, 295, 300304, 306-307. Figes, Orlando, 282. Finzi, Aldo, 87, 167, 255, 302, 306. Fiori, Antonio, 290-291. Forges Davanzati, Roberto, 304. Forni, Cesare, 87. Fortunato, Giustino, 245, 277, 310, 313. Francescangeli, Eros, 283, 290. Freddi, Luigi, 179.

indice dei nomi

Gaeta, Franco, 299, 305. Gaggia, Giacinto, 256. Gambarotta, Guglielmo, 7. Gandolfo, Asclepia, 34, 38. Garibaldi, Giuseppe, 117. Garibotti, Giuseppe, 69, 118. Gasparotto, Luigi, 266. Gasti, Giovanni, 94, 257. Gentile, Emilio, 280-288, 290-295, 299, 310-311, 313. Gerwarth, Robert, 280. Ghersi, Giovanni, 119. Ghisleri, Arcangelo, 264. Giolitti, Giovanni, 15, 17, 24-26, 49, 84, 115, 123, 127-128, 131, 133, 138141, 143-145, 147, 151, 154, 156159, 163-164, 166-169, 175-177, 190, 204-205, 207, 218, 230-231, 242, 248-249, 266, 271, 293, 297, 312. Giunta, Francesco, 14, 40, 96, 119, 249, 257. Giuriati, Giovanni, 53, 146, 172, 286. Gobetti, Piero, 244, 266. Goglia, Antonio, 291. Gorgolini, Pietro, 131, 295. Graham, Richard, 221. Gramsci, Antonio, 30, 257, 284. Grandi, Dino, 29-31, 54-55, 64, 7678, 83, 135-137, 151-153, 161-163, 168-169, 182, 202-203, 206-208, 284, 286-287, 289, 295-296, 298299, 305-307. Gray, Ezio M., 92. Graziadei, Antonio, 311. Guadagnini, Giuseppe, 69. Gunther, Franklin, 225. Guy-Grand, Georges, 280. Hazard, Paul, 221, 308. Hitler, Adolf, 222-223. Hoepke, Klaus-Peter, 308. Horne, John, 280. Host-Venturi, Nino, 199. Igliori, Ulisse, 34, 144, 146, 194, 201, 304-305. Jannazzo, Antonio, 308. Jordan, Laylon Wayne, 308.

­317 Kamenev, Lev, 135. Keserich, Charles, 308. Kessler, Harry, x, 279. Kuliscioff, Anna, 12, 26, 49, 52, 223, 240, 250-251, 253, 266-267, 282283, 286, 309, 311, 313. Labriola, Arturo, 11, 27, 281-283. Lanchester, Fulco, 311. Lanza di Scalea, Pietro, 73. Lanzillo, Agostino, 100, 114, 291, 293. Laveglia, Pietro, 291. Ledeen, Michael Arthur, 281. Lenin, pseud. di Ulianov, Vladimir, ix, xi, 4, 7, 134-135, 268. Livi, Angelo, 304. Luchetti, Marcello, 296, 298. Lüdke, Karl, 222. Lumbroso, Giacomo, 285. Lupi, Dario, 96. Lusignoli, Alfredo, 128, 138-140, 158, 163, 168, 204-205, 209. Lussu, Emilio, 303. Luzzatto, Gino, 242. Lyttelton, Adrian, 280-281, 285, 295, 310, 313. Magrini, Igino Maria, 172. Maier, Charles S., 280. Mariani, Pietro, 295. Marinelli, Giovanni, 130, 206, 307. Marsich, Pietro, 29, 54-55. Marx, Karl, 10. Mastromattei, Giuseppe, 181. Matteotti, Giacomo, 47, 118, 126. Mattoli, Agostino, 163. Mazower, Mark, 280. Mazzini, Giuseppe, 117. Mazzotti, Amedeo, 291. Meda, Filippo, 84, 218. Melograni, Piero, 284, 294, 307, 309. Mennini, Siro, 295. Menotti Serrati, Giacinto, 12. Meriano, Francesco, 313. Michaelis, Meir, 303. Miglioli, Guido, 66, 68, 118. Millozzi, Michele, 290. Milza, Pierre, 308. Minasi, Giampiero, 281.

­­­­­318 Mirkine-Guetzévitch, Boris, 280. Modigliani, Giuseppe Emanuele, 248, 251. Molnár, Ferenc, pseud. di Neumann, Ferenc, 179. Mondini, Marco, 291, 294, 296, 304. Morgagni, Manlio, 302. Mori, Cesare, 49, 58-59, 61-62, 70-71. Mosca, Gaetano, 245, 253. Mosse, George L., 280. Musiedlak, Didier, 311. Mussolini, Benito, x-xi, xiv-xv, 5-10, 14-19, 25, 27-31, 33-34, 38, 40-43, 45, 50, 53-60, 62-63, 65, 68-70, 7475, 77-78, 80, 82, 84, 89-90, 95-96, 99, 103-109, 112-113, 115-117, 119-145, 147-169, 176-179, 187, 190-192, 199, 202-209, 211, 214215, 217-234, 238, 240-244, 246252, 254-261, 263, 265-272, 274275, 277, 281-282, 284, 286-298, 300, 302, 306-307, 310, 312-313. Mussolini, Rachele, 301. Nello, Paolo, 285-286. Nenni, Pietro, 126, 236, 290, 294, 298, 309. Nitti, Francesco Saverio, 16, 126, 138, 151, 207, 218, 271, 290, 311. Nobiluomo Vidal, pseud. di Simoni, Renato, 309. Nova, Alessandro, 195. Onofri, Nazario Sauro, 282. Orlando, Vittorio Emanuele, 84, 126, 138-139, 153, 161, 163-164, 166, 169, 177, 205, 207, 218, 266, 271, 312. Pacces, Francesco Maria, 294. Palazzino, Mario, 290. Palazzolo, Guglielmo, 283. Pantaleoni, Maffeo, 143. Paoletti, Amedeo, 185, 303. Paolucci, Raffaele, 199, 305. Paratore, Giuseppe, 174, 187, 303. Pareto, Vilfredo, 136, 156, 296-298. Pasella, Umberto, 30. Pedone, Franco, 281-282, 286, 310311, 313.

indice dei nomi

Perrone Compagni, Dino, 34, 37-38, 172, 199-200, 305. Pertici, Roberto, 304, 310, 313. Pesce, Angelo, 300. Petersen, Jens, 308. Petracchi, Giorgio, 281. Piatti, Camillo, 184. Picelli, Guido, 87. Pierangeli, Giulio, 292. Pighetti, Guido, 181. Pini, Giorgio, 294, 297, 313. Polverelli, Gaetano, 99, 208, 291. Postiglione, Gaetano, 130. Prato, Giuseppe, 292. Prezzolini, Giuseppe, 234, 253. Pugliese, Emanuele, 173, 183, 185, 188, 198, 215, 299-305, 307. Puntoni, Paolo, 190, 301, 304. Ragionieri, Ernesto, 291. Repaci, Antonino, xi, 290-291, 293, 295-296, 298-307. Repossi, Luigi, 95. Ricci, Renato, 29, 40, 87. Riccio, Vincenzo, 73, 91-92, 159, 187. Riosa, Alceo, 289. Risolo, Michele, 282. Rocca, Massimo, 76, 87, 105, 130131, 135, 295, 312. Rocco, Alfredo, 204-205, 306. Roccucci, Adriano, 300, 305. Rochat, Giorgio, 281, 296. Romano, Carlo, 297. Romano, Ruggero, 199. Romersa, Luigi, 299, 303. Rossi, Cesare, 41, 76, 87, 89, 122, 124, 131, 145, 163, 167, 178-179, 185, 204, 209, 217, 255, 277, 281, 290, 294-298, 300-302, 306-307, 313. Rossi, Ernesto, 241, 252. Rossini, Aldo, 182-183, 185, 187, 287, 302. Rossini, Giuseppe, 294, 298. Rossoni, Edmondo, 87. Roveri, Alessandro, 283. Rumi, Giorgio, 308. Sabbatucci, Giovanni, 281-282, 294. Saija, Marcello, 283, 296.

­319

indice dei nomi

Salandra, Antonio, 73, 92, 123, 138, 140, 151, 159, 161, 163-164, 166, 168-169, 177, 199, 202-207, 271, 299, 301, 306. Salvatorelli, Luigi, ix, 46, 72, 78-79, 95, 235-236, 262, 274-275, 285, 289, 291, 309, 312-313. Salvemini, Gaetano, xi, 222, 241-242, 244, 252-253, 263-267, 277, 279280, 296, 304, 310-312. Sani, Ugo, 252, 307. Santarelli, Enzo, 280, 295. Santomassimo, Gianpasquale, 280, 295. Sardelli, Giuseppe, 311. Sarfatti, Margherita, 281. Sassoon, Donald, 280. Schiavi, Alessandro, 286, 310. Schmitz, David F., 307-308. Sciaccaluga, Stefano, 172, 195. Segre, Claudio G., 305. Sgadari, Antonio, 68. Signoretti, Alfredo, 304. Silla, Lucio Cornelio, xv. Simoni, Renato, vedi Nobiluomo Vidal. Soleri, Marcello, 85, 91-92, 139, 174175, 179-180, 183, 185, 296, 301305. Spriano, Paolo, 283, 287, 309. Starace, Achille, 119, 180, 293. Sturzo, Luigi, 4, 44, 63-64, 82, 84, 127, 159, 285. Sullivan, Brian R., 301. Susmel, Duilio, 294, 297. Taddei, Paolo, 85-86, 90-92, 114, 118, 124, 148, 158, 173, 182-183, 185186, 188, 192, 300, 305. Tagliacozzo, Enzo, 310-311. Tarquini, Alessandra, 311. Tasca, Angelo, 281, 284, 290, 295296, 304. Teruzzi, Attilio, 130, 144, 146, 298.

Terzaghi, Michele, 76, 184. Thaon di Revel, Paolo Emilio, 152, 190. Togliatti, Palmiro, 12, 98, 281, 291. Torre, Edoardo, 87, 196. Toti, Enrico, 60. Treves, Claudio, 71, 84, 126, 238. Trotsky, Leon, ix, xiii, 134, 279-280. Turati, Filippo, 12, 26, 52, 71, 84, 88, 126, 223, 238, 240, 249-251, 253, 282-283, 286, 309, 311, 313. Ulam, Adam B., 284. Ulianov, Vladimir, vedi Lenin. Valeri, Nino, xv-xvi, 280, 294, 296, 299. Vannoni, Gianni, 304. Vaucher, Theodore, 308. Veneruso, Danilo, 286-288. Veroli, Guglielmo, 172. Vigliani, Giacomo, 22, 25. Vinciguerra, Mario, 96-97, 291. Vittorio Emanuele III di Savoia, re d’Italia, 126, 174-175, 190-192, 198. Vivarelli, Roberto, 280. Volt, pseud. di Fani Ciotti, Vincenzo, 291. Woller, Hans, 279-280. Zama, Pietro, 292. Zamboni, Umberto, 146, 202. Zanardelli, Giuseppe, 115. Zanella, Riccardo, 53. Zani, Luciano, 311. Zanotti-Bianco, Umberto, pseud. Giorgio D’Acandia, 308. Zavoli, Sergio, 302-303. Zerboglio, Adolfo, 27, 283. Zibordi, Giovanni, 240, 309. Zinoviev, Grigorij, 135, 237. Zucàro, Domenico, 298, 309. Zunino, Pier Giorgio, 313.