Dio d'acqua. Il racconto della cosmogonia africana 8870319148, 9788870319149

A guidare il lettore è Ogotemmeli, un vecchio cacciatore cieco che narra i miti e le leggende del suo popolo, i Dogon de

164 92 7MB

Italian Pages 288 [290] Year 1996

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Dio d'acqua. Il racconto della cosmogonia africana
 8870319148, 9788870319149

Citation preview

La prim a «‘dizione ili Dio d 'a c q u a usi ì in F ran cia n d 1948. Si t r a t t a v a ili un volume concepito p e r un pubblico ili non specialisti, agli occhi ilei «piali Marcel G riaule vnle\ a so tto p or re una realtà per lo meno sorprenilente: i popoli clic il pregiudizio cu ropeo aveva sino ad allora cons ider ato ‘p r im iti v i’ posse dev ano in real tà una c u l t u r a complessa e raffinata. A guidare il lettore passo dopo passo in qu esta a\ v e n t u ra c Ogotemmeli. un vecchio cacciatore cie­ co. che n a r r a i miti e le leggende del suo popolo, i Dogmi dell Africa Occidentale. Le parole di questo s t r a o r d i n a r i o ‘ca n ta sto rie ' compongono un vero e p r o p r i o poema oral e sulle origini del l’universo, una cosmogonia africana non lontana dalle grandi narrazioni classiche, come la Teogonia di Fsimlo. La scoperta di questo ricchissimo mondo simbolico c religioso non solo arricchisce il patrimonio cu lt u ­ rale di lutti, ma contrihuisc«· ad allarga le in modo significativo la mode rna concezione dell'uomo. Marcel Griaule ( 1898- 1936) «'· stato uno dei più im­ p or ta nt i autropidogi . i Dogmi ce l e b r a r o n o , s e ­ condo i loro riti, u n 'i m p o n e n te cerimonia fun ebr e in suo onore.

Introduzione di Francesco Paolo Campione

La prima edizione di Dio d'acqua uscì in Francia nel 1948. Si trattava di un volume concepito per un pubblico di non specialisti, agli occhi dei quali Marcel Griaule voleva sottoporre una realtà per lo meno sorprendente: i popoli che il pregiudizio europeo aveva sino ad allora considera­ to 'primitivi' possedevano in realtà un’ordinata e coerente metafisica che, attraverso un ingente complesso di con­ nessioni simboliche, ne permeava profondamente l’insie­ me delle manifestazioni culturali e che, per usare le parole dello stesso Griaule, «presentava il vantaggio di proiettar­ si in mille riti c gesti su una scena dove si muove una folla di uomini vivi». L’interesse di Griaule per i Dogon non era un fatto re­ cente. 11 suo primo contatto materiale con il popolo del­ l’altipiano di Bandiagara risaliva a diciassette anni prima. A quell'epoca, l’etnologo francese, da poco passata la trentina, si trovava a capo di un progetto (la celebre mis­ sione Dakar-Gibuti) deliberato, con una legge ad hoc, dal Parlamento francese il 31 marzo del 1931. Si trattava di un’impresa collettiva concepita, per la prima volta, se­ condo un programma di ricerca sul campo affidato a spe­ cialisti con una formazione scientifica di carattere antro­ pologico. Nel corso di ventidue mesi, l’équipe guidata da Griaule (c della quale facevano parte Marcel Larger, Mi­ chel Leiris, Deborah Lifszyc, Eric Lutten, Jean Mouchey, Gaston-Louis Roux e André Schaeffner) avrebbe dovuto porre le basi di un programma di studi a lungo ceratine sulle culture africane, in particolare di quelle insediate nei territori dell’allora Africa Occidentale e Africa Equa­ toriale francese e dell’Etiopia. Essa era inoltre incaricata di provvedere alla raccolta di oggetti e opere d’arte che 7

Πκι d'acquit

avrebbero dovuto accrescere le collezioni del Museo Et­ nografico del Trocadero (oggi Musée de l’Homme). L’équipe guidata da Griaule giunse una prima volta in vista della regione montagnosa di Bandiagara il 17 set­ tembre del 19.31 e risiedette ininterrottamente a Sanga e nei villaggi vicini dal 28 settembre al 19 novembre (Leiris, 1951, pagg. 96-129). Nel corso di questi primi due mesi di lavoro apparve evidente, a Griaule come ai suoi compagni di lavoro, la singolarità e la ricchezza di una cultura che aveva saputo elaborare e difendere, in un am­ biente dalle risorse estremamente limitate, un sistema di vita materiale e spirituale di altissima qualità: «Al confronto di questa gente, tutto ciò che conosciamo a pro­ posito di negri o di bianchi ci sembra che assomigli a mascalzo­ ni, a canaglie, a lugubri buffoni. Religiosità formidabile. Il sacro trasuda da tutti i pori. Ogni cosa appare saggia e grave» (Leiris, 1951, pag. 97). Vale la pena qui sottolineare che le circostanze della ri­ cerca presso i Dogon si presentavano allora particolar­ mente favorevoli, e questo per diversi motivi. In primo luogo, nonostante l’occupazione militare fran­ cese avesse provocato inevitabili frustrazioni, e i contatti con gli europei qualche modificazione nei costumi locali, la spinta acculturante dell’Occidente non aveva ancora prodotto effetti degenerativi sulla struttura portante della civiltà endogena, cosa che sarebbe avvenuta, in verità a ritmo meno sostenuto che altrove, soltanto a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta. I dati in nostro possesso ci permettono anzi di ipotizzare che le ricerche di Griaule e di coloro che ne seguirono le orme si svolsero in quella particolare situazione che David B. Queen (1961, pag. 46) ha definito col nome di exploration (ricognizione cultura­ le), che comporta un rapporto pacifico fra culture che non hanno strutturato il conflitto, più o meno violento, quale piano di incontro, e dunque nella più favorevole delle for­ me di acculturazione, appena oltre l’integrazione. 8

Inmidittione

In secondo luogo, l’altipiano di Bandiagara (area rag' giungibile senza fatica coi mezzi di trasporto allora dispo­ nibili) coi suoi villaggi geograficamente coesi e la sua pòpolazione di circa 200-250 000 persone, rappresentava un ambito di studio estremamente vantaggioso: senza doversi sobbarcare l’onere di grandi spostamenti, il ricercatore poteva, con relativa facilità, raccogliere e confrontare di­ verse testimonianze su di un unico argomento, e indivi­ duare con buona precisione i rapporti con gli oggetti e con gli eventi cui queste si riferivano e, in definitiva, comporre così un quadro comparativamente vasto ed esaustivo. Lo stesso dicasi per i riti o per le espressioni del­ la cultura materiale e delle forme dell’arte. La letteratura scientifica sull’argomento si limitava a qualche scritto di carattere generale di Arnoud e Leo Frobenius, il che con­ correva a dare alla ricerca l’imprimatur di un'assoluta no­ vità. Non bisogna inline sottovalutare che i francesi, inol­ tre, potevano contare sul sostegno logistico e strumentale dell'Amministrazione coloniale, di cui, fatte le dovute di­ stinzioni, erano inevitabilmente anch’cssi in qualche modo espressione. Infine, fatto di gran lunga preminente, per quanto ri­ guardava il patrimonio ideologico ci si poteva avvalere del sostegno di una vera e propria classe di notabili erudiri il cui interesse nei confronti della propria cultura si carat­ terizzava in base alle attitudini e alla personale disposizio­ ne psicologica e, negli anni, si accresceva a contatto con gli altri sapienti. A tale caratteristica della cultura dogon, Griaule dedicò specificamente un suo scritto (Griaule, 1952), in cui troviamo, fra l’altro, anche un elenco degli anziani informatori che erano a quell’epoca praticamente in grado di padroneggiare i limiti e la natura della cono­ scenza tradizionale. Non deve quindi meravigliare se da una missione ini­ zialmente concepita sotto un profilo semi-continentale, sortì un programma di ricerche fortemente indirizzato in chiave monografica. Di ritorno in Francia, l’obiettivo pri9

Dio d'acqua

mario delle ricerche di Griaule divenne, come ha giusta* mente fatto notare Alfred Adler, quello di: «costituire un corpus di conoscenze il più completo possibile, capace di racchiudere in una totalità significante la cultura ma* feriale, i comportamenti sociali, i riti e, attraverso le credenze e i miti, i sistemi di rappresentazione religiosa e metafisica che ne sono la premessa» (Adler, 1991, pag. 310). Fra il 1931 ed il 1937, Griaule soggiornò altre tre volte presso i Dogon. Frutto di questa prima fase di srudi furono le due monografie Jeux dogons e Masques dogons pubblica* te, nel 1938, nelle Memorie dell’Instirut d’Ethnologie di Parigi. In queste due opere prese forma l’impostazione 1metodologica che rimarrà poi legata al nome dell’etnolo* ( go francese. Per Griaule, l’etnologia costituiva il prodotto di un «conglomerato di discipline» (Griaule & Dicrerlen, 1957) ciascuna delle quali contribuiva, secondo il proprio indirizzo specifico, ad esplorare ipotesi di lavoro che tro* vavano nelle concezioni mitologiche c ideologiche (e in particolare nelle cosmogonie) un punto di riferimento privilegiato. L'etnologo, lungi dall’essere uno specialista, doveva essere in grado di padroneggiare il più ampio no­ vero di competenze, orientando in primo luogo la sua at­ tività alla ricerca e al recupero della coralità delle fonti. L’influenza di Griaule si concretizzò, a partire dalla metà degli anni Trenta, nei lavori di una serie di ricercatori che approfondirono gli studi nei diversi campi della cultura dogon, facendone nel complesso una delle meglio cono­ sciute del mondo non-occidentale. Fra i principali ricor­ diamo Germaine Dieterlen, Denise Paulme, Solange de Ganay e Geneviève Calame-Griaule. Dopo l’intervallo bellico, Griaule, che nel 1943 era nel frattempo stato nominato professore di Etnologia genera­ le alla Sorbona, organizzò una nuova ricerca sul campo; nel 1946 era di nuovo a Sanga. A giudizio di molti dei suoi collaboratori, le sue intenzioni erano allora soprat­ tutto quelle di precisare e verificare la cospicua messe di informazioni già acquisite. 10

Introduzione*

I colloqui che Griaule, nell’ottobre-novembre di quell'anno, ebbe con Ogotemmeli, un vecchio cacciatore cieco, ritenuto fra i più alti depositari della tradizione dogon, costituirono in tal senso un'evento inaspettato che produsse un sostanziale mutamento delle convinzio­ ni scientifiche dell’autore: sino a quel momento, infatti, nel tentativo di ricostruire un quadro di riferimento ge­ nerale, lo studioso si era avvalso dei propri enunciati e dei propri ragionamenti scientifici per addentrarsi nel­ l’universo apparentemente disordinato dei miti e delle concezioni ideologiche africane. La lunga esposizione di Ogotemmeli mise invece a nudo una cosmologia siste­ matica presentata secondo il punto di vista dcIl’Altro. La somma delle conoscenze scientifiche sino ad allora acquisite non fu più l’oggetto della ricerca ma, in funzio­ ne strumentale, divenne una chiave per accedere a una forma di conoscenza più alta, a una visione del mondo ordinata e armonizzata da un coerente sistema metafisi­ co, e dotata di una razionalità sua propria. Per di più, se­ condo Griaule, tale visione contribuiva non soltanto a dare spiegazioni esaurienti sulle scelte sociali ed esisten­ ziali dell’uomo dogon, ma poteva utilmente essere ado­ perata anche per interpretare fenomeni estranei a quella cultura. Da questo mutamento di fondo, nonché da un intimo fastidio per l’etnocentrismo della cultura occidentale, proviene in buona parte la scelta di divulgare lo studio al grande pubblico (Dio d'acqua, XXXII giornata): «Non era, infatti, convenuto una volta per tutte che il Nero non poteva dare alcun apporto alla cultura, e che non poteva nemmeno riflettere forme antiche del pensiero del mondo? Non era stato relegato, in ogni tempo, al rango di schiavo? ‘Guardate i bassorilievi scolpiti dalle grandi civiltà dell’antichi­ tà! Dove sono i negri? Al loro pasto! Fra la gente di poco con­ to! Che influenza volete attribuire loro?’» La scelta di Griaule fu indubbiamente felice. Dio d’acqua conobbe un notevole successo e fu tradotto in parecchie 11

Dio d'acqua

lingue. Ogotemmeli divenne per molti una sorta di Ome­ ro negro, un simbolo esemplare della saggezza africana. Anche da un punto di vista scientifico, il lavoro di Griaule ebbe immediati riconoscimenti, contribuendo, fra l’altro, in modo decisivo a stimolare ricerche di carat­ tere sistematico sulla mentalità e sulla filosofia africana. Tali ricerche erano state inaugurate da uno studio del pa­ dre francescano olandese Placide Tempels (1948). Questi, a partire dalla disamina metodica dei discorsi e dei com­ portamenti rilevati in quasi due decenni di permanenza presso i BaLuba (un popolo dello Zaire), aveva tentato di delineare un’ipotesi del sistema più generale cui obbediva il loro pensiero. Fra le altre opere di maggior rilievo ricor­ diamo: Essai sur la religion bambara di Germain Dieterlen del 1950; Divine Horsemen. The Living Gods of Haiti del 1953 di Maya Deren, un’ex attrice americana iniziata alle dottrine misteriche del voudou haitiano; La philosophie bantU'Twandaise de l’Etre di Alexis Kagame del 1956, ope­ ra in cui un bantu (poi divenuto uno dei maggiori espo­ nenti dell’antropologia africana) riflette e approfondisce il complesso ontologico appreso negli anni della sua edu­ cazione tradizionale (Jahn, 1975, pagg. 105-106). Lo stes­ so Griaule continuò a lavorare con passione su questa strada, pubblicando numerosi saggi e mettendo mano, in­ sieme a Germaine Dieterlen, a uno studio monumentale che avrebbe dovuto costituire la summa mitologica della cultura dogon. Di tale opera, bruscamente interrotta dalla morte di Griaule, avvenuta a Parigi il 23 febbraio 1956, la Dieterlen pubblicò nel 1965 il primo volume (Griaule & Dieterlen, 1965). Oggi, naturalmente, a distanza di quasi cinquantanni dal­ la sua pubblicazione, occorre premettere alla riedizione dell’opera alcune considerazioni. La prima riguarda l’impianto stesso della ricerca. È stato infatti giustamente notato che anche il sistema cosmolo­ gico più ampio e articolato è, all’interno del patrimonio 12

Inrrffciuzionc

ideologico di chi lo esprime, soltanto una frazione organizzata di credenze (Sperber, 1984, pag. 68). E che se an­ che, per ipotesi remota, tale parte costituisse in realtà l’in­ tero universo delle conoscenze individuali, dovremmo prima di tutto interrogarci sugli scopi e le modalità della sua organizzazione e sul significato stesso della nozione di credenza che presuppone. Allo stato attuale della ricerca, inoltre, resta ancora da dimostrare che la cultura sia al suo interno un tutto unico, e non sia invece, per esempio, come ha proposto Clifford Geerz (1973), qualcosa di so­ stanzialmente distinto dalla struttura sociale e dalla psico­ logia individuale. In questo secondo caso, sarebbe quanto mai interessante verificare in che rapporto stanno fra loro l'aspetto cognitivo e l’edios nella visione del mondo espressa dal saggio di Bandiagara. Paradossalmente, l’aspetto sistematico delle rivelazioni di Ogotemmeli, ciò che costituì allora la novità della ri­ cerca e la genialità intrinseca dell’opera, ne risulta oggi, da un punto di vista scientifico, la parte più problematica. Anche riguardo al contenuto metodologico del discorso e all’interpretazione dei dati è opportuno che il lettore non specialista tenga conto di alcuni elementi di giudizio. La cultura del villaggio, in cui si muove Griaule nel cor­ so di tutta la sua narrazione, e che racchiude in sé l’idea del mondo, oggi, di fatto, non esiste più, né in Africa, né altrove. Coma ha scritto l’antropologo Alì Al’Amin Mazrui (1986, pag. 295): •Ciò che l’Africa ha sperimentato nel corso di questo secolo è stata soprattutto la considerevole transizione dal villaggio globa­ lizzato ('il mio popolo è il mondo’) al mondo vilìagpTzaui ('il po­ polo del mondo è il mio popolo'). Un violento shock ha scosso in profondità il continente, che a un tratto ha dovuto prendere coscienza che il villaggio non era più il mondo e che, anzi, il mondo era divenuto un villaggio. Il concetto di villaggio globa­ le è divenuto familiare, e l’idea che il pianeta Terra è un’isola solitaria nel cosmo è entrata in competizione con i più antichi miti e le più antiche leggende dell’Africa». 13

Πιο d'acqua

Questo stato di cose ha inevitabilmente comportato una revisione profonda del patrimonio ideologico tradizionale e una serie di ribaltamenti simbolici e di nuove colloca' zioni concettuali, i cui esiti sono ancora in atto. La maggior parte degli apparati concettuali di cui Griaule si serve per introdurre alcune sue deduzioni scientifiche sono da considerare soprattutto come elementi utili alla ricostruzione di una storia del pensiero etno-antropologico. In particolare, Griaule adopera il concetto di ‘totcmi' smo’ nel senso di una concezione religiosa per cui una se* rie di usanze di certi gruppi umani vengono assimilate a specie animali, non necessariamente reali. Come dimo> srrò Claude Lévi-Strauss in suo celebre volumetto del 1962, tale concezione era in realtà una distorsione arbitraria di elementi che avevano una portata di gran lunga più ampia. 1 fenomeni cosiddetti ‘totemici’ traducevano l’opposizione di due ordini, quello animale e quello urna' no, in cui attraverso la percezione dei caratteri delle diffe­ renze fra le specie animali (modello) gli individui di una cultura riuscivano a concettualizzare e darsi conto della complessità del proprio ordine sociale. Lo stessei discorso vale per quanto riguarda la percezione della regolarità nella forma e nel contenuto dei miti che, secondo l’ipote­ si strutturalista, derivano dalla presenza di schemi logici e di proprietà generali secondo le quali procede e si articola il pensiero umano. La ricerca di Griaule s’interessa soprattutto al risvolto astratto dei sistemi ideologici, preoccupandosi poco di ve­ rificare la presenza di proprietà esterne al racconto mito­ logico, nemmeno quando, come ha fatto notare Françoise Michel-Jones (1978), queste sarebbero potute derivare da un confronto fra i dati forniti dall’informatore e quelli provenienti dall’osservazione dei comportamenti quoti­ diani e dai fatti della culmra materiale.

14

Tntmdiisione

Il valore della testimonianza di Ogotemmeli rimane da un punto di vista metodologico qualcosa di difficilmente de­ finibile. In particolare è arduo determinare quanta parte del suo racconto appartenga effettivamente alla tradizio­ ne orale, e cioè a fonti riferite e trasmesse nel tempo di bocca in bocca, e quanto sia invece frutto di una persona­ le interpretazione e rilettura del patrimonio delle cono­ scenze collettive. Qua e là, durante i colloqui sembra di poter cogliere elementi che appartengono a tipologie co­ nosciute di tradizioni orali, come formule semplici (titoli, slogan, formule religiose, eccetera), genealogie e storie narrative condivise, ma la mancanza di riscontri certi mantiene queste percezioni a livello di semplici congettu­ re. Non si tratta di un problema di poco conto. Le ricer­ che sulle tradizioni orali, a partire dagli studi condotti da Jan Vansina all’inizio degli anni Sessanta, ne hanno infat­ ti dimostrato l’attendibilità come fonti per la ricostruzio­ ne della storia. E quanto questo sia importante per le cul­ ture africane, che non dispongono di documenti scritti del loro passato, è immediatamente chiaro per tutti. Inol­ tre, le tradizioni orali per poter essere impiegate come fonti devono poter rispondere ad una serie di requisiti (Vansina, 1976, pagg. 61-199), che non sono purtroppo deducibili dall’impostazione metodologica di Griaulc. Ciò non toglie, ben inteso, alcun valore documentario alla te­ stimonianza di Ogotemmeli, ma ne veicola in campo etno-storico la rilevanza specifica. E molto arguta, a tal proposito, la risposta data da Griaule (Prefazione) a chi reputava le informazioni del venerabile dogon «specula­ zioni individuali di interesse secondario», ma pone seri interrogativi riguardo all’uso estensivo (e comparativo) dei dati dedotti dalla testimonianza. Occorre infine riconoscere, come hanno fatto anche i più alti estimatori della sua opera (Hazoumé, 1957, pag. 175), che Griaule avrebbe senz’altro tratto vantaggio dalla co­ noscenza diretta della lingua dogon (nel corso dei suoi 15

Dio d'acqua

colloqui, si servì sempre di interpreti), in particolare per stabilire utili connessioni fra il significato generale e quel· lo letterale della testimonianza. Detto questo, non vorremmo che si avesse la tentazione di confinare esclusivamente Dio d’acqua fra i ‘classici’ del pensiero etnoantropologico. L’opera di Griaule possiede ancora oggi una vitalità insospettata, sulla quale credo sia opportuno soffermarsi. 11 mondo di Ogotemmeli, così come scaturisce dalla lunga serie di colloqui che costituiscono l’oggetto di que* sto volume, se non può essere considerato con certezza il prodotto di una serie di tradizioni orali, può essere senz’al­ tro considerato nei termini di un’etnofonte orale non for­ malizzata, e cioè di un documento etnostorico in grado di restituire importanti informazioni sulle dinamiche inter­ ne della cultura dogon, e di contribuire cpistemologicamente alla ricostruzione di una storia integrale (e quindi anche delle mentalità) del contesti socio-culturali che lo hanno prodotto (Rigoli, 1995). Le relazioni che intercorrono fra gli elementi simbolici della narrazione di Ogotemmeli non hanno significato solo in conformità del loro aspetto sistematico, né, soprat­ tutto, sono considerate, sia nelle parole del venerabile do­ gon, sia nell’esposizione di Griaule, esclusivamente alla stregua di ‘segni’ Le parti sistematiche del discorso di Ogotemmeli sono, per esempio, spesso precedute da com­ plesse elencazioni di concordanze simboliche, di carattere prevalentemente analogico. In questi casi, piuttosto che soffermarsi sull'analisi dei significati complessi che sem­ brano trasparire dagli enunciati, Griaule preferisce con­ centrare la sua attenzione sulla spiegazione che ne segue, fornita dal suo informatore, e sulle sue considerazioni che ne derivano di conseguenza. Ln qualche modo egli antepo­ ne cioè valutazioni di carattere psicologico, per le quali il simbolismo è considerato in certi casi come un fatto indi­ viduale, alle necessità di una teorìa del simbolo. Al livello 16

Introduzione

delle sue articolazioni interne, il sistema simbolico presen­ tato da Ogotemmelì e l’interpretazione di Griaule sembra­ no dunque offrire prospettive d’indagine molto interessan­ ti, specie se consideriamo che, alla luce di recenti teorie semiologiche del simbolismo, o di interpretazioni antropologiche che privilegiano l'aspetto motivazionale, le stesse elencazioni da cui abbiamo tratto spunto dovrebbero in­ durre il ricercatore a trovare un codice significante o ad addentrarsi in una difficile (e spesso infruttuosa) ricerca del valore di ciascun segno nell’esperienza collettiva. Se il carattere ordinato del ‘sistema del mondo' affresca­ to da Ogotemmelì non può pretendere di esaurire l'uni­ verso delle rappresentazioni simboliche dogon, ci permet­ te senz’altro di riflettere in profondità sul valore dei lega­ mi che legano l’uomo e la sua cultura aU’ambiente che lo circonda. La nostra quotidiana esperienza esistenziale ci porta a distinguere i meccanismi sociali dalle regole e dal delicato equilibrio della natura di cui facciamo biologica­ mente parte. In questo modo, come ha scritto Giovanna Antongini ( 1982, pag. 263): «è divenuto per noi estraneo e quasi incomprensibile il modo in cui tante delle società altre integrano e codificano nel vivere, nei miti c nei rituali la profonda conoscenza e comprensione del legame con l'ambiente naturale. Nel mondo dogon, [’ecosi­ stema salila l'insieme delle rappresentazioni, ossia il tutto, in un mosaico compiuto di cui in genere noi rendiamo a considerare le singole tessere». Elemento unificante di questa concezione è per i Dogon la Parola, che possiede al contempo una funzione metafi­ sica c un valore sociale, e interviene ai diversi livelli del­ l’esperienza quotidiana e delle dinamiche culturali. Infine, le qualità letterarie del volume, oltre a renderne piacevole la lettura, contribuiscono a restituire sfumature e percezioni negate al resoconto arido, anche se politically correct, di tanta parte dell’antropologia contemporanea. L’osservatore non è mai neutro: nel corso delle sue ricer17

Dio d'acqua

che egli interviene non solo con gli strumenti del proprio mestiere, ma interagisce con tutto il carico della sensibili' tà umana di cui è portatore. Escludere quest'ultima parte, come ha scritto Edgard Morin, significa privare il proprio lavoro della ricchezza della complessità di avvenimenti, azioni, retroazioni, determinazioni c rischi che costituisco' no il nostro mondo di fenomeni (Morin, 1990, pag. 21). In questo senso, il valore della grande lezione dell’ernologia da taccuino, che ha avuto in Francia esponenti del calibro di Griaule, di Leiris e del Lévi'Strauss di Tristi tro­ pici, e che non trova corrispondenza nella letteratura an­ tropologica italiana, se non in certe pagine di Fosco Ma­ rami, è ancora tutta da scoprire. BIBLIOGRAFIA CITATA A. Adler (1991) Griaule, in P. Bonte Pierre & M. Izard (a cura di) Dictionnaire de l’ethnologie et de (‘anthropologie, Presses Universitaires de France, Parigi, pagg. 109-HO. G. A ntonini ( 1982) Il cammino della pattila, in O. Calame-Griaule il mondo della parola. Etnologia e linguaggio dei dogmi. Bollati Boriagliieri, Torino, pagg. 261-270. G. Calamo Griaule (1985) Avant-propos a Dieu d'eau. Entetiens avec Ogotemméli, Fayard, Parigi. C. Geerz ( 1973) The Interpretation of Cultures. Selected Essays, Basic Books, New York (trad. it. Interpretazione di culture, Il Mulino. Bologna, 1987). M. Griaule (1952) Le savoir des Dogmi, in ‘Journal de la Société des Africanistes’, vol. XXII, Parigi. M. Griaule & G. Dicterlcn (1957) Méthode de l'ethnographie. Presses Universitaires de France, Parigi. (1965) La renani pâle, tomo I, Fascicolo I, Institut d'F.thnologie, Parigi. P. Ilazoumé (1957) Marcel Griaule, l'africain, in aa. vv. Morrei Griaule. Conseiller de ΓUnion française, Nouvelles Éditions Latines, Parigi, pagg. 173-176. J. Jahn (1975) Munru. La civiltà africana moderna, Einaudi, Torino. M. Leiris (1951) L'Afrique fantôme. De Dakar à D)ibuti, 1931-1933, Gallimard, Parigi. C. Lévi-Strauss ( 1962) Le totémisme aujourd'hui, Presses Universitaires de France, Parigi (trad. it. Il totemismo oggi, Feltrinelli, Milano, 1964). A.A. Maztui ( 1986) The Afikatts. A Triple Heritage, Little, Brown & Co., Boston. 18

Introduzione

F Michel'Jones ( 1978) Retour aux Dogqn, Le Sycomore» Parigi. E. Morin (1990) Introduction a la pensée complexé ESF, Parigi. D.B. Queen (1961) Exploration and Expansion of Europe, Routledge, Londra. A. Rigeli (1995) Le ragioni dell’emostoria, lia Palma, Palermo. D. Sperber (1984) Il sapere degli antropologi, Feltrinelli, Milano. P. Tempels ( 1948) La philosophie boritone, Présence africaine, Parigi, con una Introduzione (Niam M'Paya) di Alioune Diop. J. Vansina ( 1976) La tradition«! orale. Saggio di metodologia storica, edizio­ ne italiana aggiomara con un nuovo saggio dell'autore, Officina Edizio­ ni, Roma.

19

DIO D’ACQUA

La regione abitata dai Dogon

Prefazione

In uno dei più stupefacenti caos di rocce dell'Africa, vive un popolo di contadini guerrieri che fu uno degli ultimi, nel dominio (coloniale) francese, a perdere la sua indipendenza. Per la maggior parte dei Bianchi dell’Africa Occidenta­ le, i Dogon sono uomini pericolosi, forse i più arretrati della Federazione. Hanno fama di praticare ancora sacrifi­ ci umani e di difendersi tanto meglio contro le influenze esterne in quanto abitano un paese difficile. Alcuni lette­ rati hanno raccontato le loro piccole paure nel corso di spedizioni che supponevano temerarie. Sulla base di que­ ste leggende e con il pretesto di sommosse dovute spesso a dei malintesi, interi villaggi sono rimasti talvolta total­ mente isolati. In breve, i Dogon rappresenterebbero uno dei più begli esempi di selvaggia primitività; c questa opinione è con­ divisa da certi Neri musulmani che, intellettualmente, non sono meglio conformati dei Bianchi per giudicare quelli, fra i loro fratelli, che sono rimasti fedeli alle tradi­ zioni ancestrali. Solo i funzionari che si sono assunti il gravoso compito di amministrare questi uomini hanno imparato ad amarli. L'autore di questo libro e i suoi numerosi collaboratori frequentano i Dogon da una quindicina d’anni. Hanno pubblicato su di loro studi che ne fanno attualmente il popolo meglio conosciuto dell’Africa Occidentale france­ se: Les Ames des Dogon (G. Dieterlen, 1941), Les devises des Dogon (S. De Ganay, 1941), Masques dogons (M. Griaule, 1936); hanno portato alla cultura la prova che i Neri vivono secondo idee complesse, ma ordinate, e se­ condo sistemi di istituzioni e di riti nei quali nulla è la23

Din d’aojua

sciato al caso o alla fantasia. Questi studi, già dieci anni fa, richiamarono l’attenzione su alcuni fatti nuovi che ri' guardavano quella ‘forza vitale' della quale i sociologi ci parlavano da circa mezzo secolo. Dimostrarono Γimpor­ tanza primordiale della nozione di persona, nella sua con­ nessione a quelle di società, di universo, di divinità. In questo modo, l’ontologia dogon apriva nuovi orizzonti agli etnologi e situava il problema su un piano più vasto. D’altra parte, di recente (1945), un libro, che ha susci­ tato molta attenzione, La philosophie hamoue del rev. Pla­ cide Tempels, analizzava nozioni analoghe e poneva la questione se si debba «attribuire al pensiero bantu un si­ stema filosofico». Grazie al metodo e alla perseveranza, quindici anni dopo i primi passi mossi fra le rocce delle falesie di Bandiagara, questa domanda ha trovato risposta per quello che concerne i Dogon: questi uomini vivono su una co­ smogonia, su una metafisica c su una religione che li pon­ gono sullo stesso piano dei popoli dell’antichità e che la stessa cristologia avrebbe interesse a studiare. Questa dottrina, un uomo venerabile l’ha confidata al­ l’autore. Ogotemmeli, di Ogol Basso, un cacciatore dive­ nuto cieco in seguito a un incidente, doveva alla sua infer­ mità Tessersi potuto Istruire lungamente e con cura. Dota­ to di un’intelligenza eccezionale, di un’abilità fisica ancora visibile pur nel suo stato, di una saggezza il cui prestigio si estendeva in tutto il paese, egli aveva compreso l’interesse degli studi etnologici dei Bianchi e aveva atteso per quin­ dici anni l’occasione di rivelare ad essi la sua scienza. Vo­ leva, senza dubbio, che quei Bianchi fossero al corrente delle istituzioni, dei costumi e dei riti più importanti. Nell’ottobre del 1946, egli mandò a chiamare l'autore, e, per trentatré giorni, si svolsero dei colloqui indimenti­ cabili che misero a nudo l’ossatura di un sistema del mon­ do la cui conoscenza sconvolgerà da cima a fondo le idee correnti sulla mentalità nera come sulla mentalità dei pri­ mitivi in generale. 24

Prefazione

Si sarebbe tentaci di credere che si tratti di una dottrina esoterica. Qualcuno ha perfino anticipato, a prima vista e senza aspettare maggiori particolari, che si trattava di spe­ culazioni individuali di interesse secondario. Sono, del re­ sto, le stesse persone che giudicano opportuno spendere una vita intera sulle idee, apparentemente personali, di Platone o di Giuliano di Alicamasso. Pur non essendo conosciuta, nel suo insieme, che dagli anziani e da alcuni iniziati, questa dottrina non è esoteri­ ca perché ogni uomo che abbia raggiunto la maturità può possederla. Sacerdoti totemici di ogni età ne conoscono le parti corrispondenti alla loro specialità. Di più: i riti che si riferiscono a questo corpo di credenze sono pratica­ ti dal popolo intero. Certo questo popolo non ha sempre la conoscenza pro­ fonda dei suoi gesti e delle sue preghiere; ma, in questo, esso assomiglia a tutti gli altri popoli. Non si può accusare di esoterismo il dogma cristiano della transustanziazione con il pretesto che l’uomo della strada ignora questa paro­ la e ha appena delle idee vaghe sulla cosa. Una riserva dello stesso genere potrebbe essere avanzata circa il valore esplicativo e rappresentativo che questa dottrina ha rispetto alla mentalità nera in generale. Si po­ rrebbe obiettare che quello che vale per i Dogon non vale per le altre popolazioni dell'Africa Occidentale francese. A questo, l’autore e i suoi collaboratori possono rispon­ dere con. sicurezza: il pensiero bambara si fonda su una metafìsica altrettanto ordinata e ricca, i cui princìpi di base sono paragonabili a quelli dei Dogon. Gli studi di Germaine Dieterlen e di Solange de Ganay ne forniscono la prova. Lo stesso avviene per i Bozo, pescatori del Niger, per i Kurumba, coltivatori del centro dell’ansa del fiume, per gli enigmatici febbri delle stesse regioni, presso i quali le ricerche sono appena incominciate. Non si tratta, dunque, di un sistema di pensiero isolato, ma del primo esempio di una lunga serie. L’autore si augura di poter raggiungere due scopi: da una 25

Dio d'acqua

parte, portare a conoscenza di un pubblico non specialista, e senza l’abituale apparato scientifico, un’opera che la nor­ ma riserva ai soli eruditi; dall’altra, rendere omaggio al pri­ mo Nero della Federazione Occidentale che abbia rivelato al mondo dei Bianchi una cosmogonia altrettanto ricca di quella di Esiodo, poeta di un mondo morto, e una metafisi­ ca che presenta il vantaggio di proiettarsi in mille riti e ge­ sti su una scena dove si muove una folla di uomini vivi. (1948)

26

Gli Ogol

Bruscamente il sole si era levato dalla pianura di Gondo e dominava le terrazze di Ogol Basso. Gli uccelli avevano smesso di cantare, lasciandogli la parola. In quel cortile di caravanserraglio che è ogni accampamento sudanese, tra­ scorrevano gli ultimi minuti di pace. Intorno a un piatto dimenticato, dove, la sera prima, era rimasto un po' di cibo, qualche impronta di zoccolo d’asino indicava le visi­ te notturne. Quattro palle di sterco, nette come esemplari da museo, avrebbero potuto essere raccolte per le collezio­ ni del Laboratorio di Mammalogia: a quell’ora, non erano ancora un centro di attrazione per gli scarabei stercorari. Una grande roccia grigio-rosa, inclinata, formava una specie di tavola bassa nel cortile di servizio, davanti al­ l'edificio cubico di terra crepata che, volgendo le spalle al sol levante, spalancava tutte le sue finestre sulla valle di Dolo. Nessuna montagna si levava all’orizzonte, tranne, forse, a oriente: arrampicandosi su una terrazza, si sarebbe potu­ to vedere lo sperone discreto di Nìnu dominare i dirupi franosi di Banani. Eravamo immersi in un mare di arenaria solidificato in piena tempesca, con i suoi interminabili solchi di valli sabbiose c le sue onde appiattite di roccia scintillante di luce. Aridità. Protetti da spessori di paese, volti e corpi le­ vigati dai quincali di sabbia smossa dal vento. Nella penombra aperta a tutti i venti deU’edificio che non aveva battenti né alle porte né alle finestre, l’agita­ zione impercettibile del primo mattino incominciava. Quattro europei, sdraiati sotto le zanzariere-sarcofago, si scambiavano i lazzi abituali. Dalla parte del cortile, nel­ l'inondazione giallo-rosa antico della luce, un annegato dì 27

Din d'acqua

sole apparve fra i due pilastri del muro di cinta. Si fermò un istante a osservare la scenografia predisposta dalla not' te; vide la scodella, le tracce d'asino; vide anche, rove­ sciata nella polvere, la frangia di stuoia che proteggeva la cucina. Il suo sguardo si fissò, infine, sulla finestra dello sgabuzzino e notò il disordine degli steli di miglio destina­ ti a respingere i gatti. Mènyu era un mite Nero di Ogol Alto, che serviva con affetto i quattro stranieri che conosceva da molto tempo. Soffocò una bestemmia e, con le braccia traballanti nella sua lèvita bianca a larghe maniche, avanzò verso il disa­ stro. Il movimento si organizzò. Il servo Apurali aveva scam­ biato con il suo collega interminabili saluti. Altri Dogon arrivavano, riempiendo il cortile: donne, con i bambini sul dorso, che venivano per curarsi gli occhi; una ragazza ferita alla testa. Alcuni bambini nudi, con il ventre spor­ gente, prendevano posto per il lungo spettacolo del gior­ no. Sui muri, sulla roccia centrale, sugli scalini dcll’ediftciò, gli informatori c gli interpreti erano in attesa. Entra­ vano a gruppi quando venivano chiamati per nome. E questa scena, identica la vigilia e (’antivigilia, ripeteva tutte quelle che da quindici anni, a ogni soggiorno dei Bianchi, animavano lo sperone meridionale di Ogol Alto. In un angolo appartato della veranda, un europeo ripren­ deva l’indagine del giorno prima su un oscuro sacrificio of­ ferto in un crepaccio delle gole d'I. Per questo, si era calato nelle caverne e negli imbuti di arenarie, ne aveva seguito le comici a forma di canaletto di scolo, aveva raggiunto ro­ vine dove regnava un tanfo di belva e di pipistrello. Un vecchio Dogon forniva brandelli di risposte, svelando una verità frammentaria; accovacciato con le spalle al muro, aggrappato ai suoi misteri, abbandonava a poco a poco le sue posizioni, provava qualche menzogna, confuso o beffar­ do. 11 suo berretto frigio, color terra di Siena, gli ricadeva su un orecchio, nascondendo la sua nera faccia sbiadita, dalle labbra sottili, il naso affilato, gli occhi senza ciglia. 28

Gli O roI

Nella galleria nord, le gesticolazioni erano più vivaci. Una giovane europea orchestrava un coro di quattro Do* gon appartenenti a famiglie che parlavano ciascuna un dialetto diverso. Il lessico era così ricco e i verbi espressivi tanto numerosi, che si aveva l'impressione di trovarsi da' vanti a quattro ardenti attori occupati a mimare gli atteg' giamenti e a gridarsi gli esempi. La stanza a nord assomigliava invece a un confessionale; alcuni sacerdoti del culto degli Antenati parlavano con moderazione a un’europea ostinata e paziente. Alla galleria sud, infine, un’altra Bianca scriveva, sotto la dettatura di un Bambara dagli occhi vispi, le preghiere al Komo: «Komo! Uccisore di morti grassi!» «Sudariodei viventi!» I quattro punti cardinali risuonavano dunque dei rumori abituali, degli scoppi passeggeri e delle pause di ogni giorno. Tuttavia una piccola notizia stava avanzando verso l’edificio sul rilievo largo quanto una mano che separava due alti campi di miglio. Era nella mente dell'onesto Gana, figlio dell’Hogon, l'uomo più anziano dei villaggi ogol, c, quindi, il loro capo religioso. Gana teneva fra le labbra un bastoncino sfrega-denti che prendeva in mano ogni volta che doveva salutare qualche conoscente. Le sue brache a fondo largo e la sua tunica ampia mettevano fra le spighe una nota di colore pane bruciato. II sentiero terminava nella roccia di Ogol Alto, ed egli vi si inerpicò, seguendo una traccia che mille e mille piedi avevano segnato nell’arenaria. Dopo aver compiuto un generico gesto di saluto, penetrò nel cortile e apparve finalmente davanti al Bianco. Sorrise, e le sue orecchie si avvicinarono al cranio piccolo: «Un cacciatore vuole vedervi». «E malato?» Di solito, fra i Neri, sono i malati a fare queste richieste. In ogni altro caso, vedere un Bianco non presenta alcun interesse. 29

Dio il'acqua

«No! Vuole vendervi un amuleto.» «Quale?» «Un amuleto che gli avevate chiesto dieci anni fa in cambio delle cartucce.» «Non mi ricordo di questo...» Il Bianco si morse le labbra. Aveva, a un tratto, compre­ so la singolarità di quel modo di procedere. Disse: «Bene!», continuò il colloquio con il sacrificatore e man­ dò Gana a prendere l’oggetto. Gana, con il suo sfrega-denti in bocca, ripartì sulla pista luccicante, saltò giù dalla roccia di Ogol Alto, traversò il campo di miglio, si perse nell'intrico di Ogol Basso, entrò in un cortile e parlò a voce bassa davanti a una porta spa­ lancata. Una mano magra uscì dall’ombra per tendergli un trapezio di cuoio coperto di sangue rappreso. Gana ri­ fece la strada in senso inverso e si presentò davanti al Bianco. «E la formula? Hai la formula?» «Che formula?» «Fabbricazione e uso! Va’ a cercarla!» «Io la conosco» confidò il sacrificatore, quando Gana gli ebbe voltato le spalle. E la recitò immediatamente al Bianco, che la trascrisse. Gana e i suoi diciassette anni sapevano che contegno te­ nere quanto alle cose che riguardavano i grandi. Saltò an­ cora giù dalla roccia di Ogol Alto, ma, questa volta, restò piantato come un chiodo sulla pista dopo essersi tolto di bocca lo sfrega-denti con un gesto improvviso: una spina gli era entrata nel piede. Ripartì zoppicando, ritrovò il cortile nel dedalo di viuzze, si sedette sulla soglia oscura e parlò a lungo, togliendosi una scheggia dall'alluce. Gli rispose una voce lenta, che ascoltò con deferenza. Poi si rimise in cam­ mino con un leggero sospiro, e si ritrovò nella veranda, da­ vanti al Bianco rimasto solo. Toltosi di bocca lo sffega-denti, snocciolò la formula, dimenticando tre versetti che il suo interlocutore, leggendo le sue note, gli recitò. Per lo stupo­ re, Gana restò per un istante con la mascella penzoloni. 30

Gli Ogni

«Ma chi è questo vecchio cacciatore?» gli fu chiesto. Non capì bene e credette che gli venisse richiesta l’inse­ gna deH’uomo. disse, «vizé karandiang'. » Cioè; «Combattente! Combattente dalla forza invincibile!»

il

PRIMA GIORNATA

Ogotemmeli

A Ogol Basso, come in ogni villaggio dogon, case e granai erano affastellati gli uni sugli altri. Le terrazze di argilla si alternavano ai tetti conici di paglia. A ficcarsi nei suoi viottoli d'ombra e di luce, fra le piramidi tronche, i pri­ smi, i cubi e i cilindri dei granai e delle case, i portici ret­ tangolari, gli altari rossi o bianchi a forma di ernia om­ belicale, ci si sentiva come nani sperduti in un rompica­ po. Tutto era crepato sotto le piogge e il calore: le pareti di argilla e di paglia erano screpolate come pelle di pachi­ derma. Da sopra i muri dei cortiletti si vedevano, sotto le fondamenta dei granai, i polli, i cani gialli e, a volte, le grandi tartarughe, simbolo dei patriarchi. A un gomito del sentiero, ci si trovava davanti a una por­ ta tagliata con ('accetta, che, anche se fosse stata nuova, non avrebbe potuto ostruire l'entrata segnata da due piloni di terra c da un frontone di ceppi. Una porta larga come due spalle, con le venature del legno scavate dalle piogge invernali e simili a onde nelle quali i nodi si spalancavano come occhi. La siccità, le mani che vi si erano aggrappate, i musi delle capre avevano consumato il battente che stride­ va sul suo perno e sbatteva contro il muro con un rumore di gong, scoprendo il cortile miserabile dell'uomo più stra­ ordinario delle pianure e delle rocce, da Oropa fino a Nim­ bé, Asakarba e Tintam. 11 Bianco avanzò su un letame scar­ so di vecchio senza figli. Una facciata a cellette, forata al piano terreno da una porta bassa e, al primo piano, da un adito schiacciato, si drizzava al centro del cortile, nascon­ dendo l'edificio principale. Sul frontone si aprivano dieci nicchie per le rondini; otto coni sormontati da pietre piat­ te ornavano Lo spigolo. A destra e a sinistra, simili a dadi 32

Ogutcniinelf

giganteschi, si allineavano sei granai, due dei quali, di pròpriera del vicino, mostravano la facciata posteriore. Delle quattro costruzioni, una era vuota, un’altra sconnessa, la terza squarciata di traverso come un frutto morsicato. Una sola sopravviveva, piena a metà di semi. Di fronte, tra l’edificio principale e i granai, una casa bassa che chiudeva il cortile, racchiudeva il lieve rumore della vita. A destra, in un ridotto scoperto, delle piume ruotavano senza sosta, trascinate senza violenza da un mulinello di vento. L'uomo che accompagnava il Bianco lanciò le formule di saluto. Subito una voce, nella quale le parole suonava* no distintamente, rispose: «Dio vi porta! Dio vi porta!» «Salve! Come va il tuo corpo?» La voce si avvicinava lentamente. Dall’ombra interna venivano dei fruscii di mani sfregate sui muri e sul legno degli stipiti. Un bastone tastava le pareti; si sentì un suo* nar di orcio vuoto; alcuni pulcini minuscoli sbucarono a uno a uno dalla gattaiola, spinti da una grande vita che avanzava. Finalmente apparve una tunica bruna, tesa sulle cucitu­ re e sfrangiata dall'uso come una bandiera delle guerre di un tempo; poi una testa si chinò sotto l’architrave e l’uo­ mo si drizzò in tutta la sua statura, volgendo verso lo stra­ niero il suo volto indescrivibile: «Salute a coloro che hanno sete!» disse. Le labbra spesse parlavano la più pura lingua di Sanga. Non si vedeva nient’altro: esse sole vivevano. 11 resto era come ripiegato su se stesso, tanto più che, dopo le prime parole, la testa si era chinata verso terra. Le guance, i po­ melli, la fronte, le palpebre non erano che un’unica iden­ tica devastazione: increspati da cento rughe che conferi­ vano loro un rictus doloroso, come di un volto inondato da una luce troppo viva o sul quale cadesse di continuo una giagnuola di pietre. Tutto pareva ancora sotto i colpi di una scarica a bruciapelo, e gli occhi erano morti. Poi­ ché i due visitatori venivano da fuori e sjjsupponeva che

Dio iTacqua

avessero lavorato nella calura, l’uomo, appoggiato at suo bastone, disse infine: «Salute! Salute di fatica! Salute di sole!» La cosa più lunga, quel primo giorno, fu la scelta del luo­ go, di un posto angusto e appartato, della pietra dei collo­ qui. Davanti alla casa abitata, anche a lasciare all’inremo il vecchio Ogotemmeli, anche ad accostare la testa alla sua e a parlare come in un confessionale, si rischiava, se­ condo lui, di far drizzare le orecchie instancabili delle donne. Dall'altro lato della casa con la facciata, nell’esi­ guo corti letto battuto dal vento del nord, si poteva essere spiati dai bambini nascosti nei granai in rovina. Restava il cortile stesso, con il suo letame di miseria, la sua pietra cava, la sua cenere e il suo muro calamitoso, incurvato al centro, all’altezza dei curiosi. Ogotemmeli esitò ancora; c'era molto da dire sulla sco­ modità del cortile per le conversazioni fra uomini maturi. Il Bianco non apriva bocca che per approvare; insistette perfino sull’indiscrezione dei muri, sulla stupidaggine de­ gli uomini e, naturalmente, sull’inconcepibile curiosità delle donne, sulla loro inestinguibile sete di notizie. Era interessato da tutte quelle precauzioni che gli parevano esagerate per la semplice vendita di un amuleto. Finalmente Ogotemmeli si sedette sulla soglia della por­ ta inferiore della grande facciata; si ripiegò su se stesso, con il viso rivolto a terra, e, incrociando le mani sopra la testa, con i gomiti appoggiati ai ginocchi, aspettò. Il Bianco comprendeva a poco a poco che la vendita dell'amuleto non era che un pretesto. Non se ne parlò mai nei colloqui che seguirono, e la ragione profonda del gesto del vecchio doveva restare sconosciuta. Ma, da di­ versi particolari, apparve in seguito che Ogotemmeli vo­ leva dare allo straniero, il cui primo soggiorno nel paese risaliva ormai a quindici anni prima c nel quale aveva fi­ ducia, la stessa istruzione che egli aveva ricevuto da suo nonno e, poi, da suo padre. 34

Ogütcmmeli

Ogotemmeli aspeccava. Era lui stesso perplesso davanti alla situazione che aveva provocato, davanti a quell'uomo che non poteva vedere. Non che fosse per lui uno scono­ sciuto: da quindici anni sentiva parlare del gruppo di Bianchi che, sotto la sua guida, dormivano sulla terra e cavalcavano tra le rocce per studiare i costumi dei Dogon. Aveva seguito il loro lavoro fin dall’inizio, perché era molto legato con il vecchio Ambibè Babadyé, gran digni­ tario delle Maschere, e loro informatore ufficiale, morto da poco. Varie volte, nel corso di quei quindici anni, Ambibé era venuto a chiedergli informazioni e consigli. A t­ traverso i suoi racconti e secondo notizie raccolte da altri, si era fatta un’idea esatta delle intenzioni del suo interlo­ cutore, che aveva fama di essere particolarmente accanito nella ricerca. Ma il caso era unico. Come istruire un Bianco? Come portarlo al proprio livello per quanto riguarda gli oggetti, i riti, le credenze? Eppure, questo Bianco aveva già smonta­ to le Maschere, ne conosceva la lingua segreta; aveva per­ corso il paese in tutti i sensi e, su certe istituzioni, ne sape­ va quanto lui. Allora? 11 Bianco lo tolse d’imbarazzo: «Su che cosa stavate tirando, quando il vostro fucile vi è scoppiato in faccia?» «Su un porcospino.» Il Bianco voleva, per una via traversa, arrivare ai pro­ blemi della caccia, alle regole concernenti il mondo ani­ male e, da là, toccare il totemismo. «Fu un incidente» dichiarò il vecchio. «Ma era anche l’ultimo avvertimento. La divinazione mi aveva detto che dovevo smettere di cacciare, se volevo conservare i miei figli. La caccia, che è un lavoro di morte, attira la morte. Ho avuto ventuno figli. Me ne restano cinque.» Appariva, nelle sue parole, il grande dramma della mor­ talità nera, la lotta profonda di questi uomini senza difesa davanti alla morte, aggrappati alle loro credenze come tutti gli uomini della terra, credenze che consolano e spie35

Dio d'acque

gano, ma che non evitano la prova. Su questa scena di do­ lore apparve la personalità di Ogotemmeli, com’era in se stessa e nei suoi rapporti con le potenze soprannaturali. Fin dall’età di quindici anni era stato iniziato ai misteri della religione da suo nonno. Suo padre aveva continuato la sua istruzione dopo la morte del vecchio. Sembrava che queste ‘lezioni’ avessero avuto luogo durante più di venti anni, e che la famiglia di Ogotemmeli fosse di quelle in cui queste cose non venivano prese alla leggera. Senza dubbio, anche Ogotemmeli aveva dimostrato molto presto di possedere un’intelligenza sveglia e una grande abilità. Fino al suo accecamento era stato un cac­ ciatore prodigioso e, pur essendo orbo da un occhio dal­ l’infanzia in seguito al vaiolo, tornava al villaggio con le mani piene quando gli altri si affaticavano ancora nelle forre. Nella sua tecnica egli proiettava la sua profonda co­ noscenza della natura, degli animali, degli uomini e degli dèi. Dopo l’incidente la sua istruzione si era ancora accre­ sciuta. Ripiegato su se stesso, sui suoi altari e su ogni paro­ la intesa, era diventato uno degli spiriti più potenti delle falesie. 11 suo nome e la sua insegna erano conosciuti dalla gen­ te dell’altipiano e dei pendit scoscesi. «Tutti i ragazzini li sanno! » si diceva, e i postulanti si affollavano alla sua por­ ta, ogni giorno e perfino di notte. Poiché qualche berretto frigio spuntava da dietro i muri e le donne, da lontano, fa­ cevano dei segni, fu necessario partire per lasciare il posto ai clienti. Ma i contatti erano stati presi e i colloqui dove­ vano organizzarsi per tacito accordo, secondo una specie di programma e a delle ore opportune.

36

SECONDA GIORNATA

La prima parola e la sottana di fibre

Ogotemmeli si sedette sulla soglia, raschiò la tabacchiera di pelle indurita e depose sulla sua lingua una polvere gialla: «Il tabacco» disse «dà lo spirito giusto». E incominciò a scomporre il sistema del mondo. Perché bisognava incominciare dall’aurora delle cose. Ogotemmeli respinse come priva d'interesse l’origine dei quattordici sistemi solari di cui parla il popolo, composti di terre piatte e circolari, disposte a pila. Voleva trattare soltanto del sistema solare utile. Consentiva a prendere in considerazione le stelle, benché esse giocasse' ro un ruolo secondario: «È vero» diceva «che nella progressione dei tempi le donne staccavano le stelle per darle ai loro bambini. Essi le bucavano con un fuso e facevano girare queste trottole di fuoco per mostrarsi tra loro come funzionava il mondo. Ma non era che un gioco». Le stelle erano nate dalle pallottole di terra lanciate nello spazio dal dio Anima, dio unico. Egli aveva creato la luna e il sole secondo una tecnica più complicata, che non fu la prima conosciuta dagli uomini ma che è la prima di cui vi sia testimonianza per Dio: la fabbricazione del vasellame. 11 sole è, in un certo senso, un vaso portato all’incandescenza una volta per tutte e circondato da una spirale a otto avvolgimenti di rame rosso. La luna ha la stessa forma, ma il suo rame è bianco. E non è scaldata che per quarti. La spiegazione dei loro movimenti sarebbe venuta più tardi. Per il momento, era meglio tracciare le 37

Dio d'acqua

grandi linee di una scenografia e passare subito agli attori. Ogotemmeli volle tuttavia dare un’idea della grandezza del sole. «Alcuni» disse «pensano che sia grande come l’accam' pamento, il che farebbe trenta cubiti. Ma, in realtà, è più grande. Supera per superficie il cantone di Sanga.» E, dopo un’esitazione, aggiunse: «Forse è anche più grande». Quanto alle dimensioni della luna, egli rifiutò di soffer' marvisi. E non le precisò mai. La luna non aveva un ruolo importante. Se ne sarebbe riparlato. Disse tuttavia che, mentre i Neri erano creature di luce, estratti in pieno sole, era al chiaro di luna che erano stati creati i Bianchi; di qui il loro aspetto larvale. A questo punto Ogotemmeli sputò il suo tabacco. Non aveva nulla contro i Bianchi. Non diceva nemmeno di compiangerli. Li lasciava al loro destino, nelle terre del nord. 11 dio Amma prese dunque un budello di argilla, lo strinse in mano e lo lanciò come aveva fatto per gli astri. L’argilla si tende, avanza a nord, che è l’alto, si allunga a sud, che è il basso, benché tutto avvenga su un piano orizzontale. «La terra è coricata, ma il nord è in alto.» Essa si distende a oriente e a occidente, separando le sue membra come un feto nell’utero. Essa i un corpo, cioè una cosa le cui membra si sono separate da una massa centrale. E questo corpo è femmina, orientato da nord a sud, ap­ piattito, con la faccia rivolta al cielo. Un formicaio è il suo sesso, un nido di termiti la sua clitoride. Amma, che è solo e vuole unirsi a questa creatura, le si avvicina. È allora che si produsse il primo disordine dell’Universo. Ogotemmeli tacque. Con le mani incrociate sopra la te­ sta, era teso ad ascoltare i diversi suoni che provenivano dal cortile e dalle terrazze. Era giunto all’origine delle ca­ lamità, all’errore primordiale del Dio. 38

La prima parola c la sottana di fibre

«Se mi sentissero, avrei un’ammenda di un bue!» Quando Dio si avvicina, il termitaio si drizza, sbarra il passaggio e mostra la sua natura maschile. Esso è identico al sesso estraneo: l’unione non avrà luogo. Tuttavia Dio è onnipotente. Egli abbatte il termitaio ri' belle e si unisce alla terra escissa. Ma l’incidente originale doveva segnare per sempre il processo delle cose: dal· l’unione difettosa, invece dei gemelli previsti, nacque un essere unico, il Thus aureus, lo sciacallo, simbolo del disa' gio di Dio. Ogotemmeli parlava a voce sempre più bassa. Non si trat· tava più delle orecchie delle donne. Altri timpani, imma' feriali, potevano vibrare a quelle parole tremende. Il Bianco e il suo aiutante nero, il sergente Koguem, stavano chini sul vecchio come in uno spaventoso complotto. Ma egli era giunto alle imprese benefiche del Dio, e il tono ridivenne normale Dio ebbe ancora rapporti con la sua sposa e, questa vol­ ta, nulla intervenne a turbare la loro unione, perché l’escissione aveva fatto sparire la causa del primo disordi­ ne. L'acqua, seme divino, penetrò nel grembo della terra e ne segui un ciclo regolare di generazioni geme Ilari. Due esseri presero forma. «Dio li ha creati come dall'acqua. Erano di colore ver­ de, in forma di persona e di serpente. Dalla testa alle reni erano umani; la parte inferiore era serpente.» Gli occhi, rossi, erano spaccati come quelli degli uomini e la loro lingua biforcuta come quella dei rettili. Le brac­ cia, flessibili, non avevano articolazioni. Tutto il loro cor­ po era verde e liscio, scivoloso come la superficie dell’ac­ qua, provvisto di peli verdi e corti, annuncio di germina­ zioni c di vegetazione. Questi geni, detti Nommo, erano dunque due prodotti omogenei di Dio, come lui di essenza divina, concepiti senza incidenti e sviluppatisi secondo le regole nell’utero terrestre. Il loro destino li condusse al cielo, dove ricevet39

Dio d'acqua

tero l’istruzione dal loro padre. Non che Dio dovesse inse­ gnare loro la Parola, questa cosa indispensabile a tutte le creature come al sistema universale: la coppia era nata completa e perfetta; a causa delle sue otto membra, la sua cifra era otto, simbolo della parola. La coppia possedeva anche l’essenza di Dio, perché era fatta del suo seme, che è, a un tempo, il sostegno, la forma e la materia della forza vitale del mondo, sorgente di mo­ vimento e di perseveranza nell’essere. E questa forza è l'acqua. La coppia è presente in ogni specie di acqua: è l’acqua, quella dei mari, dei confini, dei torrenti, dei tem­ porali, del sorso che si beve dal mestolo Ogotemmeli si serviva indifferentemente dei termini 'acqua' e ‘Nonuno'. «Se non fosse staro per il Nomrao» diceva «non si sa­ rebbe nemmeno potuto creare la terra, perché la terra fu impastata, ed è attraverso l'acqua (attraverso il Nommo) che essa ricevette la vita.» «Che specie di vita è nella terra?» domandò il Bianco. «La forza vitale della terra è l’acqua. Dio ha impastato la terra con l'acqua. Nello stesso modo, egli ha fatto il sangue con l’acqua. Anche nella pietra vi è questa forza, perché l’umidità è dovunque.» Ma, se il Nommo è l’acqua, egli produce anche il rame. Nel cielo coperto sì vedono materializzarsi i raggi di sole sopra l’orizzonte di nebbia; questi raggi, escrementi dei geni, sono di rame e sono luce. Sono anche acqua, perché sostengono l’umidità terrestre nel suo cammino ascen­ dente. La coppia espelle luce perché essa è, anche, luce. Ogotemmeli cercava da un po’ di tempo qualcosa nella polvere. Finì con il raccogliere parecchi sassolini. Con un gesto rapido li lanciò nel cortile, al di sopra dei suoi due interlocutori che non dovettero nemmeno abbassare la testa. I proiettili ricaddero proprio nel punto in cui, qual­ che secondo prima, aveva cantato il gallo dell’Hogon. «Quel gallo è una burrasca. Distrugge le conversazioni.» E, visto che la bestia cantava di nuovo dall’altra parte 40

La prima parola c la auiuiui di flhrc

del muro, Ogotemmeli delegò a Koguem il compito di gettargli un pe2 zo di legno. Al suo ritorno, gli chiese se il gallo fosse uscito dal quartiere di Tabda. «E nel campo dell’Hogon» disse Koguem «e lo faccio sorvegliare da quattro bambini.» «Bene» disse Ogotemmeli con una risatina «che appro­ fitti del tempo che gli resta: mi hanno detto che sarà mangiato alla prossima libagione di birra-dei-Gemelli.» Riprese a parlare dei Geni Nomino, del Nommo, come diceva più correntemente, perché questa coppia di gemel­ li rappresentava l’unione perfetta, l’unità ideale. Il Nommo, dall’alto del cielo, vide sua madre, la Terra, nuda e priva della parola, senza dubbio in conseguenza del primo incidente avvenuto all’epoca dei rapporti con il Dio Amma. Bisognava mettere fine a questo disordine. Il Nommo discese sulla terra portando con sé qualche fibra presa dalle piante già create nelle regioni celesti. Ne sepa­ rò dieci pugni corrispondenti alle sue dieci dita e ne in­ trecciò cinque per metterle davanti e cinque per metterle dietro. Ancora oggi, gli uomini mascherati portano questi accessori che pendono fino ai loro piedi in spessi viticci. Ma lo scopo di questa veste non era soltanto il pudore. Essa presentava al mondo terrestre il primo atto di ordi­ namento universale e il segno elicoidale che si proietta su un piano nella forma di una linea spezzata e serpeg­ giante. Le fibre, infatti, ricadevano a terra a spirale, simbolo de­ gli uragani, dei meandri dei torrenti, dei turbini dì acqua e di vento, del procedere ondeggiante dei serpenti. Esse ri­ cordavano anche le spirali a otto avvolgimenti del sole, aspiratore di umidità. Erano esse stesse un sentiero d’ac­ qua perché gonfie delle frescure attinte alle piante celesti. Erano piene dell’essenza del Nommo, erano il Nommo stesso in movimento, come indicava la linea ondulata che può prolungarsi all’infinito. Ma il Nommo, quando parla, emette, come ogni essere, un vapore tiepido portatore di parola, parola esso stesso. E 41

Dio d'acquu

questo vapore sonoro, come ogni specie d'acqua, si muove secondo una linea elicoidale. Le spirali della sottana era' no dunque un sentiero di elezione per la parola che il ge­ nio voleva rivelare alla Terra. Egli pronunciava un sortile­ gio sulle sue mani portandole alle labbra mentre intrec­ ciava: così la sua parola umida sì avvolgeva a spirale con le trecce umide; la rivelazione spirituale penetrava l’insegnamento tecnico. Attraverso queste fibre piene di acqua e di parola, il Nommo era dunque continuamente presente davanti al sesso di sua madre. Così rivestita, la Terra aveva un lin­ guaggio, il primo di questo mondo, il più antico di tutti i tempi. Sintassi elementare, verbo raro, vocabolario senza grazia. Le parole erano aliti poco differenziati, ma tuttavia portatori di forza. Così com’era, la parola, senza sfumatu­ re, era adatta ai grandi lavori degli inizi. Nel mezzo di una parola, Ogotemmeli gettò un grido: ri­ spondeva all’insegna di caccia rivoltagli sopra l’incurvatu­ ra del muro dalla faccia prudente di Akundyo, sacerdote delle donne morte di parto c dei bambini nati morti. Akundyo aveva prima sputato da un lato, tenendo lo sguardo inchiodato sul piccolo gmppo di uomini. Portava un berretto frigio color melagrana, che gli copriva le orec­ chie, con una punta rialzata in forma di uraeus sulla radice del naso, alla maniera detta ’il vento soffia’. Pomelli spor­ genti e denti scintillanti, snocciolava complimenti che il vecchio gli restituiva immediatamente. Le formule alter­ nate raggiunsero un primo grado di esaltazione: «Che Dio» esclamò Ogotemmeli «che Dio maledica chi non ti ama a Ogol Basso!» L’agitazione si accrebbe ancora nel cuore di Akundyo, che rincarò la dose. «Che Dio» gridò finalmente il cicco «che Dio maledica me stesso se non ti amo! » 1 quattro uomini tirarono un respiro. Scherzarono sulla particolaie magrezza della selvaggina nella valle d’I. Final­ mente Akundyo si allontanò, dichiarando, in un francese 42

La prima paiola t U «emana di fibre

da truppa di colore, che andava a ‘mettersi sul sentiero del gabinetto del porcospino’, animale scaltro e stimato. Si tornò alla Parola. Essa aveva un ruolo di organizzazione: era, dunque, una buona cosa; e, tuttavia, essa aprì il varco al disordine. Lo sciacallo, infatti, figlio deluso e deludente di Dio, desiderò possederla e levò la mano sulle fibre che la portava' no, cioè sulla veste di sua madre. Questa oppose resistenza, perché si trattava di un gesto incestuoso, e s’inabissò nel proprio grembo, nel formicaio, sotto forma di formica. Ma lo sciacallo l'inseguì; non c’era, del resto, altra donna da desiderare nel mondo. Il buco che essa scavava non era mai abbastanza profondo, e, alla fine, dovette dichiararsi vinta. In questo modo, erano prefigurate le lotte equilibra­ te degli uomini e delle donne che si concludono, però, sempre con la vittoria dell’uomo. L’incesto ebbe grandi conseguenze; e, innanzi tutto, die­ de allo Sciacallo la Parola, il che doveva permettergli, per l’eternità, di rivelare agli indovini i disegni di Dio. Esso fu inoltre causa dell’apparizione del sangue me­ struale che tinse le fibre. Lo stato della Terra, divenuta impura, era incompatibile con il regno di Dio. Questi si distolse dalla sua sposa e decise di creare direttamente de­ gli esseri viventi. Dopo aver modellato una matrice nel­ l’argilla umida, la collocò sulla terra e, dall’atro del cielo, la coprì con una pallottola lanciata nello spazio. Fece lo stesso con un sesso d'uomo: lo depose sul suolo e lanciò una sfera che vi si conficcò sopra. Immediatamente le due masse si organizzarono: la Ioni vita si sviluppò; le membra si separarono dal nucleo, ap­ parvero due corpi e una coppia umana sorse dal fango. Fu allora che entrò in scena, con nuovi compiti, la cop­ pia dei Mommo; prevedendo che la regola fondamentale delle nascite doppie sarebbe stata abolita, potevano risul­ tarne degli errori paragonabili a quelli dello Sciacallo, nato da solo. Perché fu a causa della sua solitudine che il primo figlio di Dio agì come agì. 43

Dio d'acqua

«Nato solo» diceva Ogotemmeli «per questo lo Sciacal10 ha fatto più cose di quante possa dime la bocca.» Il genio disegnò sulla terra due figure sovrapposte, due anime, delle quali una era maschile e l’altra femminile. L'uomo si sdraiò sulle sue ombre e le assunse in sé tutte e due. Lo stesso fece la donna. Così, fin daU’origine, ogni essere umano fu provvisto di due anime di sesso diverso, o piuttosto di due princìpi corrispondenti a due persone distinte all’interno di ognuno. Nell’uomo, t’anima femminile s’insediò nel prepùzio. Nella donna, l’anima maschile fu portata dalla clitoride. Ma la prescienza del Nomino gli mostrò senza dubbio gli inconvenienti di questo compromesso. La vita umana non poteva adattarsi a questi esseri doppi; bisognava co· stringere ognuno a scegliere il sesso per il quale era appa­ rentemente meglio conformato. Il Nommo circoncise perciò l’uomo, cancellando in lui tutta la femminilità del prepuzio. Ma questo si trasformò in un animale che non è ‘né serpente, né insetto, ma è classificato fra i serpenti'. Questo animale porta il nome di na>. Si tratterebbe di una sorta di lucertola, nera e bianca come la coperta dei morti. Il suo nome significa anche ‘quattro’, cifra femminile, e ‘sole’, entità femmini­ le. 11 naj era il simbolo del dolore della circoncisione e della necessità in cui si trovava il maschio di soffrire an­ che lui nel suo sesso, come la donna. Allora l’uomo si unì alla sua compagna. Più tardi, essa diede alla luce i primi due figli di una serie di otto che do­ vevano essere gli antenati del popolo dogon. In quel mo­ mento, la sofferenza del parto si concentrò nella sua clito­ ride, che, recisa da una mano invisibile, si staccò e si al­ lontanò da lei, mutata in scorpione. La sacca velenifera e 11dardo simboleggiano l’organo, il veleno essendo l’acqua e il sangue del dolore.

44

La prima parola e la «oltana tli fibre

Tornando attraverso il campo coperto di miglio, l’Europeo si chiedeva il senso di tutti questi andirivieni e di tutti questi sbalzi del pensiero mitico: - un Dio manca la sua prima creazione; - le cose si ristabiliscono attraverso l'escissione della Ter­ ra e poi attraverso la nascita di una coppia di geni, inge­ gnosi e ingegneri del mondo, che portano una prima pa­ rola; - un incesto distrugge l’ordine e compromette la nascita dei gemelli; - l’ordine si ristabilisce attraverso la creazione di una cop­ pia umana; - la gemelliparità è sostituita da un’anima doppia (perché la gemelliparità?); - ma quest'anima doppia costituisce un pericolo: l’uomo dev'essere maschio e la donna femmina. Circoncisione ed escissione rimettono ancora una volta le cose in ordine (ma perché quel rury, perché quello scorpione?) Le risposte dovevano venire più tardi. Esse dovevano iscriversi nell’immenso edificio che il cieco faceva sorgere a poco a poco dalle nchbie millenarie. Sopra le teste dell’Europeo c di Koguem, i grappoli vio­ lacei di miglio si staccavano sul cielo plumbeo. Attraver­ savano un campo di spighe pesanti, coinè brandite in alro da mani invisibili, immobili sotto la brezza. Quando il mi­ glio cresce male, se le sue spighe sono leggere, si agita al minimo soffio di vento e al più piccolo rumore. 1 campi magri sono sonori. Ma il campo dell’abbondanza pesa nel vento e si offre in silenzio.

45

TERZA GIORNATA

La seconda parola e la tessitura

A penetrare nel cortile, pareva di rompere un ordine pre­ stabilito. Il cortile strozzato dove i nibbi, i più abili acro­ bati dell'aria, non potevano afferrare il pollame. Nella pietra incavata restava un avanzo di birra di miglio, di feccia, a dire la verità, dove si abbeveravano polli, gallo, chioccia e pulcini, insieme con un cane tigrato, bianco e giallo, con la coda a forma di falce, come una spada etio­ pe. Al colpo di gong della porta, questo mondo si era di­ sperso, lasciando il posto agli uomini. Ogotemmeli si in­ castrò nella soglia e incominciò a enumerare gli otto an­ tenati primordiali nati dalla coppia plasmata da Dio. 1 quattro più anziani erano maschi; femmine gli altri quat­ tro. Ma, per virtù di una grazia che doveva toccare solo ad essi, potevano fecondarsi da soli, essendo doppi e di due sessi. Di qui la discendenza delle otto famiglie dogon. Perché l’umanità si organizzava nel compromesso. La nascita unica, calamità permanente, trovava un debole ri­ medio nella concessione di un’anima doppia che il Nom­ ma disegnava sulla terra accanto alle partorienti. Essa ve­ niva incollata ai neonati tenendoli sospesi per le anche sopra l’immagine, in modo che mani e piedi toccassero il suolo. Poi l’anima superflua veniva recisa al momento della circoncisione e l’umanità proseguiva stentatamente il suo oscuro destino. Ma la sete celeste di perfezione non era spenta. La cop­ pia Nomino, che prendeva a poco a poco il posto del Dio suo padre, meditava la redenzione. Per risanare la condi46

La xcunda panila e la icwmira

zione degli uomini, bisognava portare le riforme e gli inse­ gnamenti su un piano umano. Il Nommo paventava i contatti temibili ira creature di carne e puri spiriti. Erano necessari atti intelligibili, che avessero luogo il più vicino possibile a coloro che dovevano trame utilità, nel loro ambiente. Bisognava che gli uomini, dopo la rigenerazio­ ne, fossero attirati nell’ideale come un contadino in un campo fertile. I Nummo discesero dunque sulla terra e penetrarono nel formicaio, sesso dal quale erano nati. Potevano in questo modo, fra l’altro, difendere la loro madre dalle pos­ sibili iniziative del loro fratello maggiore, lo Sciacallo in­ cestuoso. E, insieme, purificavano, con la loro presenza umida, luminosa e sonora, colei che, per Dio, restava per sempre contaminata, ma sulla quale poteva gradualmente diffondersi la purezza necessaria ai lavori della vita. In questo sesso, il Nommo maschio prese il posto della virilità esclusa al momento dell’escissione della clitoridetermitaio. La femmina si sostituì alla femminilità abolita con la circoncisione c il suo utero entrò in quello della terni. La coppia poteva così procedere all’opera di rigenerazio­ ne che intendeva condurre sostituendosi a Dio con il suo consenso. «Il Nommo, al posto di Amma, ’lavorava’ il lavoro di Anima» diceva il cieco. In quei tempi, avvolti nella nebbia, nei quali il mondo compiva la sua evoluzione, gli uomini non conoscevano la morte. Gli otto antenati nati dalla prima coppia umana vivevano dunque indefinitamente. Essi generarono otto discendenze distinte, ciascuna delle quali si riproduceva da sola, essendo, a un tempo, maschio e femmina. «I quattro maschi e le quattro femmine, a causa del loro basso (del loro sesso) erano otto doppi. I quattro uomini erano uomo c donna, le quattro donne erano donna e uomo. Per gli uomini, responsabile era l’uomo; per le don47

Dru ifacqua

ne, La donna. Si sono accoppiaci da soli; da soli si sono ingravidati; hanno procreato.» Ma quando il tempo fu compiuto, un oscuro istinto spinse il maggiore verso il formicaio occupato dai Nommo. Portava sul capo, in guisa di cappello e come per ripararsi dal sole, la scodella di legno in cui metteva il suo cibo. Introducendo i suoi due piedi nell'orifizio del grembo terre' stre, egli vi affondò lentamente, come per un parto a rove­ scio. Penetrò così tutto intero nella Terra e anche la sua testa scomparve. Ma lasciò sul suolo, come testimonianza del suo passaggio in questo mondo, la scodella che era sta­ ta trattenuta dai margini dell'apertura. Non restava più sul formicaio che un emisfero di legno, impregnato del cibo e dei gesti dello scomparso, simbolo del suo corpo, sìmbolo della sua natura umana come lo è della natura animale la spoglia che i rettili abbandonano dopo la muda. Liberatosi della condizione terrena, l'antenato fu accol­ to dalla coppia «génératrice. Il maschio lo condusse fino al fondo della terra, nelle acque uterine della sua compa­ gna. Egli si ripiegò come un feto, si rimpicciolì come un germe, raggiunse lo stato di acqua, seme di Dio, essenza dei due geni. E tutto questo era un lavoro di verbo: il maschio accom­ pagnava con la sua voce la femmina che parlava a se stes­ sa, che parlava al suo proprio sesso. 11 verbo penetrava in lei e si avvolgeva intorno all’utero in una spirale a otto anelli. E come la lamina elicoidale di rame che avvolge il sole gli conferisce il suo moto diurno, così la spirale di verbo imprimeva all'utero il movimento rigeneratore Compiuto in parole e acqua, il nuovo genio, espulso, sa­ liva al cielo. Gli otto antenati dovevano compiere uno dopo l’altro questa transustanziazione. Ma, quando fu il turno del settimo, la mutazione fu segnata da un avveni­ mento particolare. Il settimo rango è, infatti, quello della perfezione. Pur essendo qualitativamente uguale agli altri, esso è la som­ ma della femminilità, quattro, e della mascolinità, tre. È il 48

Lu seconda parola « I» tenitura

termine della serie perfetta, il simbolo dell’unione totale del maschio e della femmina, cioè, propriamente, del­ l’unità. E questo tutto omogeneo ha, in particolare, il ran­ go della padronanza della parola. L’ingresso nella Terra di colui che lo occupa doveva essere il preludio di sconvolgi­ menti benefici. Nel seno della Terra esso divenne come gli altri, acqua e genio. Si sviluppo come gli altri al ritmo delle parole pro­ nunciate dai due trasmutatoti. «Le parole che il Nomino femmina diceva a se stessa» disse Ogotemmeli «si avvolgevano a spirale ed entravano nel suo sesso. 11 Nommo maschio la aiutava. Furono que­ ste le parole che il settimo antenato apprese all’interno del ventre.» Queste parole, anche gli altri antenati le possedevano ugualmente, per effetto del loro passaggio nello stesso am­ biente; ma il loro rango non era di padronanza e servirse­ ne non era nei loro compiti. 11 settimo ricevette dunque la conoscenza perfetta di un verbo (il secondo che la Ter-| ni udiva) più chiaro del primo e non più, come il primo, riservato a pochi, ma destinato all’insieme degli uomini. Così egli poteva portare al mondo il progresso. In partico­ lare, ciò permetteva di scavalcare il malvagio figlio di Dio, lo Sciacallo; questi restava, sì, in possesso della prima parola, e poteva ancora, in virtù di essa, rivelare agli indo­ vini una parte dei disegni celesri; ma, nel futuro ordine delle cose, egli non doveva essere più che un satellite del­ la rivelazione. Questa parola feconda sviluppò la potenza del suo nuo-, vo portatore; per lui, la rigenerazione nel grembo della | Terra si trasformò a poco a poco in una presa di possesso di questo grembo. Occupò lentamente tutto il volume dell’organismo e vi si dispose come conveniva alle sue opere: le sue labbra si confusero con i margini del formi­ caio che divenne bocca e si aprì. Spuntarono dei denti acuminati. Se ne contarono prima sette per ciascun lab­ bro, poi dieci, cifra delle dita, poi quaranta, infine ottan49

Dio d'acqua

ta, cioè dieci per ogni antenato. L’apparizione di questi numeri era un segno del ritmo futuro della moltiplicazio­ ne delle famiglie; la crescita dei denti significava che il tempo del nuovo insegnamento era vicino. Ma anche allora si manifestò lo scrupolo dei geni: il Settimo non diede l’istruzione direttamente agli uomini, ma alla formica, incarnazione della Terra, familiare dei luoghi. Quando il momento fu venuto, alla luce del sole, il Set­ timo genio espulse dalla bocca ottanta fili di cotone che ripartì fra i suoi denti superiori utilizzati come quelli del pettine di un telaio. Formò così l’armatura dispari dell’or­ dito. Fece lo stesso con i denti inferiori per preparare i fili pari. Aprendo e chiudendo le mascelle, il genio imprime­ va all’ordito i movimenti che compiono i licci del telaio. E poiché tutto il suo volto partecipava all'opera, gli orna­ menti del naso rappresentavano la carrucola sulla quale oscillano i licci; e la spola non era altro che l’ornamento del labbro inferiore. Mentre i fili s’incrociavano e si separavano, le due pun­ te della lingua forcuta del genio spingevano alternativa­ mente il filo della trama c il tessuto si avvolgeva fuori del­ la bocca, nel soffio della seconda parola rivelata. 11 genio, infatti, parlava. Come aveva farro il Nommo al momento della prima divulgazione, egli rivelava il suo verbo attraverso una tecnica, perché esso fosse alla porta­ ta degli uomini. Mostrava così l’identità dei gesti materia­ li e delle forze spirituali, e, soprattutto, la necessità della loro cooperazione. Il genio declamava e le sue parole colmavano tutti gli interstizi della stoffa; esse erano intessute nei fili e faceva­ no corpo con il panno. Esse erano il tessuto stesso e il tes­ suto era il verbo. Per questo, stoffa si dice: soy, che signifi­ ca ‘è la parola’. E questo termine vuole anche dire ‘sette’, rango di colui che parla tessendo. Mentre questo lavoro si compiva, la formica andava e veniva tra i margini dell’orifizio, nel soffio del genio. 50

La seconda parola e Ih lettiuirn

ascoltando e tenendo a mente le parole. Provvista di que­ sta nuova istruzione, essa la comunicò agli uomini che si trovavano nelle vicinanze e che avevano già assistito alla trasformazione del sesso della Terra. Fino al momento in cui gli antenati si erano calati nel grembo della Terra, gli uomini abitavano in fosse scavate come tane nel suolo orizzontale. Quando la loro attenzio­ ne fu attratta dalle scodelle abbandonate, essi osservarono la forma del formicaio che trovarono più comodo dei loro buchi. La imitarono aprendo gallerie, creando camere al riparo della pioggia e incominciando ad ammassarvi le provviste ricavate dal raccolto. Si incamminavano così verso condizioni di vita meno rudimentali e, quando notarono la crescita dei denti in­ torno all’orifizio, li imitarono per costruire un riparo con­ tro le belve: dopo avere impastato delle grandi zanne di creta, le fecero seccare e le incastrarono nel suolo intorno all’ingresso delle loro dimore. Al momento di ricevere la loro seconda istruzione, gli uomini abitavano dunque dei ripari che erano già, in qualche modo, una prefigurazione della rivelazione e del grembo nel quale ciascuno di loro sarebbe disceso per ri­ generarsi quando ne fosse giunto il momento. E questo formicaio umano, con i suoi abitanti e i suoi granai, era anche l’immagine rudimentale di un sistema del mondo che doveva, molto più tardi, giungere dal cielo sotto for­ ma di un granaio meraviglioso. Queste oscure prefigura­ zioni dei tempi futuri avevano preparato gli uomini a rice­ vere i consigli della formica. Questa, dopo la dimostrazio­ ne, aveva messo da parte alcune fibre di cotone; le aveva ridotte in fili e, davanti agli uomini, tendeva i fili fra i denti dell’orifizio come aveva fatto il genio. Man mano che l'ordito era pronto, gli uomini intessevano il filo della trama gettandolo da destra e da sinistra, al ritmo delle mascelle che avevano ripreso il loro movimento; la stri­ scia ottenuta veniva avvolta intorno a un pezzo dì legno, abbozzo del subbio. 51

Dio d’acqua

Contemporaneamente la formica divulgava le parole e gli uomini le ripetevano. Così si ricostituiva sulle labbra della Terra il clima di vita in movimento, di forze trasposte c di soffi efficienti che il Settimo antenato aveva creato. Così l'incrociarsi dclPordito e della trama racchiudeva in sé le parole del nuovo insegnamento che diveniva eredità degli uomini e che i tessitori avrebbero trasmesso di generazione in generazione, agli schiocchi della spola e al rumore aspro della carrucola del telaio, detta ‘stridore del­ la parola’. Tutto questo avveniva alla luce del giorno, perché fila­ tura e tessitura sono lavori diurni. Lavorare di notte signi­ ficherebbe tessere strisce di silenzio e di ombra.

52

QUARTA GIORNATA

La terza parola e il granaio di terra pura

Ogotemmeli non aveva un’idea chiara di quello che fosse avvenuto in cielo dopo la metamorfosi degli otto antenati in Nommo. Certamente gli otto, dopo aver lasciato la ter­ ra al termine delle loro opere, avevano raggiunto la regio­ ne dove regna la coppia primordiale, autrice della loro tra­ sformazione. Certamente questa aveva autorità sugli altri e non si era fatta scrupolo d'imporre loro subita un'organiz­ zazione e delle regole di vita. Ma non apparve mai chiaramente perché questo mondo celeste si agitasse poi fino alla rottura, né perché questi disordini dovessero avere come conseguenza una riorga­ nizzazione del mondo umano che non aveva nulla a che fare con essi. Perché, alla fine, gli otto ridiscesero sulla terra in un gigantesco equipaggio di simboli dove si era insediata una terza e definitiva parola necessaria al funzio­ namento del mondo moderno. Ad ascoltare Ogotemmeli con rassegnazione, si ottene­ va soltanto questa risposta evasiva: «1 geni non cadono dal cielo che per collera o per uno spintone». Ogotemmeli aveva manifestamente coscienza dell’infi­ nita complicazione dei disegni di Dio o dei geni che lo so­ stituivano, e ripugnava a darsene una spiegazione. Malgrado ciò, si riuscì a precisare un quadro modesto ma soddisfacente di questo oscuro periodo. La coppia Nommo aveva accolto in cielo gli otto rige­ nerati. Ma, pur partecipando tutti di un’identica essenza, i più anziani avevano sui nuovi venuti i diritti della genitu53

DU>d'acqua

ra superiore e li organizzarono perciò in un sistema di re· gole, la più gravosa delle quali era la reciproca separazione e il divieto di frequentarsi. Come la società degli uomini, infatti, per la quale il nu­ mero è fattore di disordine, anche quella celeste sarebbe precipitata nel caos se tutti i suoi membri si fossero riuniti. Garantita da questa regola, la nuova generazione di Nommó doveva però sconvolgere il suo destino violan­ dola. Dio aveva dato agli otto un insieme di otto semi desti­ nati al loro nutrimento e di cui il primo antenato era re­ sponsabile. L’ultimo di questi otto semi, la Digitarla, era stato pubblicamente disprezzato dal suo destinatario, con il pretesto della sua piccolezza e della scomodità della sua preparazione. Egli arrivò perfino a giurare che non ne avrebbe mai mangiato. Venne tuttavia un periodo critico nel quale tutti i semi si esaurirono, tranne l’ultimo. 11 Primo e il Secondo ante­ nato, che avevano già infranto il precetto di separazione, si riunirono per consumare l’ultima provvista. Questo atto spinse al colmo la dismisura: esso segnava, infatti, la prima colpa commessa attraverso una rottura della parola data. I due antenati divennero impuri per il mondo celeste, cioè la loro nacura divenne incompatibile con la vita celeste. Decisero perciò di lasciare quelle regioni dove si sentivano stranieri e gli altri sei, solidali, si unirono a loro. Inoltre, essi volevano fuggire portando via con sé tutto ciò che po­ teva essere utile agli uomini, tra i quali sarebbero tornati. Fu allora che il primo antenato, senza dubbio sotto l’oc­ chio benevolo di Dio e forse con il suo aiuto, incominciò i preparativi per la partenza. Gli fu dato un paniere intrecciato, con l’apertura circo­ lare e il fondo quadrato, che doveva servire al trasporto della terra e dell’argilla necessarie all'edificazione di un si­ stema del mondo di cui egli sarebbe stato uno degli artefi­ ci. Questo paniere servi innanzi tutto da modello a un al­ tro canestro di grandi dimensioni; l'antenato lo costruì in 54

La terra panila o il granaio di terra pura

posizione rovesciata, con il fondo quadrato di otto cubiti per lato che faceva da tetto e l'apertura di venti cubiti di diametro poggiata al suolo; l’altezza era di dieci cubiti. Su questa armatura egli applicò della creta estratta dalla terra celeste, e, nel suo spessore, scolpì, a partire dal cen­ tro di ciascun lato del quadrato, una scalinata di dieci gra­ dini orientati verso uno dei punti cardinali. Nel sesto gra­ dino della scala nord, praticò un’apertura che permetteva di accedere all'interno formato di otto compartimenti di­ sposti su due piani. Simbolicamente, l’edificio così costruito aveva questo significato (vedi fig. 1): - la base circolare rappresentava il sole; - il tetto quadrato raffigurava il cielo; - un cerchio, proprio al centro del tetto, rappresentava la luna; - ogni piano orizzontale dello scalino essendo femmina e ogni piano verticale maschio, l’insieme delle quattro gradinate di dieci scalini prefigurava le otto decine di fa­ miglie nate dagli otto antenati. ì

E

N Figura 1. Il sistema del mondo (riprodotto nella forma del granaio dogon). 55

D k>il'Kqua

Ogni gradino faceva da soscegno a una categoria di crea' ture ed era in rapporto con una costellazione: - la scalinata settentrionale, corrispondente alle Pleia­ di, sosteneva gli uomini e i pesci; - la scalinata meridionale, Cintura di Orione, accoglie­ va gli animali domestici; - la scalinata orientale, Venere, era occupata dagli uC' celli; - la scalinata occidentale, corrispondente alla stella detta ‘a grande coda’, portava gli animali selvatici, i vege­ tali e gli insetti. A dire il vero, l’immagine del sistema del mondo non era uscita di getto e senza difficoltà dalle parole di Ogotemmeli. «Quando l'antenato è sceso dal ciclo» aveva detto in principio «egli stava in piedi su un pezzo quadrato di cic­ lo, non molto grande... press’a poco come una stuoia per dormire. Un po' più grande, però.» «E dove aveva preso questo pezzo di cielo/» «Era un pezzo di terra di ciclo.» «Ed era spesso?» «Sì, come una casa. Era alto dieci cubiti, con delle scale da ogni lato che indicavano i quattro punti cardinali.» Il cieco aveva alzato la testa, che teneva sempre rivolta a terra. Come spiegare queste forme geometriche, questi gradini, queste precise dimensioni? L’Europeo, all'inizio, aveva creduto di capire che si trattasse di un alto prisma fiancheggiato da quattro scale disposte a croce; tornava sempre, con insistenza, su questa forma che voleva com­ prendere esattamente, e il suo interlocutore, senza impa­ zienza, sperduto nelle sue tenebre, cercava a tentoni dei nuovi particolari. Finalmente, una specie di sorriso sciolse il suo volto devastato: Ogotemmeli aveva trovato. Spor­ gendosi all'interno della sua casa, quasi disteso sul dorso, frugò fra gli oggetti che stridevano, suonavano vuoto, ra­ schiavano il suolo sotto la sua mano. Nel vano della porta restavano di lui soltanto i ginocchi magri e i piedi aggrap56

La tei» parola l* il granaio di terni puni

pati alla roccia del cortile. II resto spariva nell’ombra. L’alca facciata era come un enorme volto appoggiato con la bocca a due tibie minuscole. Dopo qualche strappo, un oggetto usci da quelle profon­ dità misteriose e venne a inquadrarsi nello stipite. Era un canestro annerito dalla polvere e dalla fuliggine interna, un paniere con un’apertura rotonda e il fondo quadrato, sfasciato, slabbrato: una preda della miseria. La cosa andò a posarsi davanti alla porta perdendo dei fuscelli e il vecchio ricomparve per intero, con la mano sull'esempio recalcitrante. «Non serve più che a rinchiudere i polli» disse. E passatìdo lentamente le mani su quella rovina, spiegò il sistema del mondo.

57

Q U IN TA GIORNATA

La terza parola e la classificazione delle cose

Il paniere era stato messo vergognosamente da parte. Era rientrato nel mistero, alle spalle di Ogotcmmeli, e nessuno doveva più fame parola. C’era stata, nell’esibizione al sole di quella maceria, come una sfida alla vanità del mondo. D’altra parte, aveva adempiuto alla sua funzione. Tutto si era chiarito e la geometria divina si era precisata. Si pote­ va cosi incominciare l’enumerazione dettagliata delle cre­ ature ordinate ai quattro punti cardinali dell'edificio. La scala occidentale era occupata dagli animali selvati­ ci. Dal primo gradino in alto all’ultimn in basso, figurava­ no le antilopi, le ione, i gatti (che occupavano due gradi­ ni), i rettili e i sauri, le scimmie, le gazzelle, le marmotte, il leone, l’elefante. A cominciare dal sesto gradino, apparivano gli alberi, dal baobab fino alla Lannea acida, e su ognuno di questi vegetali erano gli insetti che vi si trovano comunemente °KK·· Sulla scalinata meridionale, erano disposti gli animali domestici. In primo luogo i gallinacei; poi gli ovini, i ca­ prini, i bovini, gli equini, i canidi c i gatti. Sull’ottavo e nono gradino si trovavano i cheioni: le grandi testuggini, che, in ogni famiglia, sostituiscono oggi i patriarchi durante la loro assenza, e le piccole, che ven­ gono messe lentamente a mòrte durante i sacrifìci di puri­ ficazione territoriale. In decima posizione venivano i ro­ ditori, ratti e topi della casa e della boscaglia. 58

La tenu parolu t» b da&ificasioiur «ielle cm«

La scalinata orientale era occupata dagli uccelli; sul primo gradino, i grandi rapaci e i calaos; sul secondo, gli struzzi e le cicogne; sul terzo, le piccole otarde e i vannelli; sul quarto, gli avvoltoi. Seguivano i piccoli rapaci e gli aironi. In settima posizione venivano i piccioni, in ottava le tortore, in nona, le anatre e, in ultima, le grandi otarde bianche e nere. La scalinata settentrionale era quella degli uomini e dei pesci. Presentava senza dubbio qualche complicazione, perché Ogotemmeli dovette ricominciare da capo varie volte pri­ ma di riuscire a dame una descrizione soddisfacente. Pensava che gli uomini fossero dei Bozo, i primi occu­ panti del Niger, riconosciuti ancora oggi da turti gli abi­ tanti dell’ansa del Niger come i soli veri pescatori. Ma la loro ripartizione sui gradini gli dava da pensare e fu sol­ tanto durante il secondo colloquili, in fine di giornata, che egli formulò una versione definitiva. Indubbiamente aveva consultato, nel frattempo, l’opi­ nione di qualche anziano. Su ciascuno dei due primi gradini stava un Bozo maschio, con un pesce aggrappato all’ombelico e pendente fra le sue gambe. Di questo accoppiamento dell’uomo con il pesce Ogotemmeli aveva un’idea chiara, che l’Europeo non riu­ scì pierò a comprendere: l'ombelico dell’uomo era stretto fra le branchie del piesce, il pesce, cioè, restava per intero fuori dal ventre. Del resto, il nome stesso che i Dogon dan­ no ai Bozo mostrerebbe, secondo Ogotemmeli, che il piesce cercava di penetrare nel corpo del suo portatore. Infatti, il termine di sologonon, o sorogonon, che ha dato poi Sorko, altro nome dei Bozo, significa letteralmente ‘che non è completamente entrato’. Questa parola si ap­ plicherebbe al pesce, cioè, in ultima analisi, al Bozo stes­ so, perché essi sono fratelli gemelli, come mostra questa congiunzione ombelicale. Su ognuno dei due gradini successivi, scava in piedi una donna bozo congiunta a un pesce nello stesso modo. 59

Dkl d'acqua

Sul quinto gradino si trovava, da sola, una donna bozo. Gli ultimi cinque gradini erano vuoti. Una domanda era nata nella mente del ricercatore: «Sull’edificio, vi era soltanto una parte degli animali e dei vegetali. Dov’erano gli altri?» «Ciascuno di quelli di cui abbiamo parlato è come un capofila. Dietro di lui stanno tutti quelli che appartengono alla stessa specie. L'antilope del primo gradino a est è la Walbanu, la rossa. Dopo di essa, vengono l’antilope bianca, la nera e l’antilope kâ. Sul primo gradino a sud, dove sta appollaiata la gallina, stanno anche la faraona, la pernice e la gallina-delle-rocce.» «Com’è possibile che tutte queste bestie entrassero in un gradino largo un cubito e alto altrettanto?» L'europeo aveva anche calcolato, in base alla pendenza delle pareti, che ogni piano orizzontale misurava in pro­ fondità sei decimi di cubito. Ma non fece parola di questa dimensione, per gentilezza, per non avere l’aria di voler ri­ vedere le bucce al celeste. «Tutto questo è stato detto in parole» replicò Ogoremmeli. «Tutto ί simbolo. Sui gradini stavano il simbolo delle antilopi, il simbolo degli avvoltoi calvi, il simbolo della iena macchiata.» E aggiunse, dopo una pausa: «Tutto ciò che si esprime attraverso i simboli, può en­ trare in un gradino di un cubito». Per il termine ‘simbolo’, si serviva di un’espressione composta il cui senso letterale era: ‘parola di questo basso mondo’. Ogotemmeli, dopo aver spiegato che l’edificio era un gra­ naio, cominciò a descriverne l’ordinamento. «L’insieme della cosa con le scale» disse «si chiama ‘Granaio del Signore della Terra Pura’. È diviso in otto compartimenti, quattro in basso e quattro in alto. La por­ ta si apre a nord, sul sesto scalino. Essa è come la bocca e il granaio è come il ventre, l’interno del mondo.» 60

La («ria parola e la clussihcasionc delle cow

Dal momento che l’edificio si rivelava essere il modello dei granai moderni, l’Europeo, per fissarsi nella mente vi­ sivamente la disposizione del sistema, confidò a voce bas­ sa, nell’orecchio del suo aiutante Koguem, la necessità di rivedere una di queste costruzioni. Il cortile era circonda­ to, su quasi metà del suo perimetro, da una mezza dozzina di esemplari. Ma ficcare la testa nella porta di un granaio significa pe­ netrare in un grembo, innervosire una famiglia, mettere a nudo delle viscere. Scrutare le provviste, i semi o le spighe che macerano nell’ombra, significa contare forze in poten­ za, insinuarsi in digestioni future. Koguem si confidò con il cieco, suggerendo una visita in una casa abbandonata che aveva notato a Dyamini-Kuradondo, villaggio di un'altra famiglia. Ma forse si poteva trovare un esempio più vicino. Ogotemmeli meditò. Evidentemente passava mentalmente in rivista, nella sua tenebra, i possibili granai demoliti della regione. In fondo alla lista figuravano senza dubbio i suoi, perché egli ne indicò due nel cortile posteriore. Quello più lontano era distrutto; era là che Koguem, dieci volte il giorno, lanciava delle pietre ai bambini che venivano a tendere le orecchie ai misteri del colloquio. L’altro era in buono stato, vuoto, ma chiuso. Per aprirlo furono necessarie due marre, perché la porta era serrata come una mascella. Ogotemmeli aspettava sulla sua so­ glia, le mani incrociate, come sempre, sopra la testa. Ko­ guem, di tanto in tanto, lo informava dei progressi del­ l'operazione. Quando la porta cedette, l’europeo si dispose nel varco da cui emanava un odore di vecchie granaglie. 1 quattro compartimenti inferiori di un granaió dogon sono separati da due tramezzi il cui incrocio forma una sorta di incavo che può contenere un vaso di coccio di forma sferica. Questo vaso, destinato ai semi o agli oggetti preziosi, forma il centro di tutta la costruzione. La porta sbocca proprio sopra questi compartimenti; è stretta e permette a stento il passaggio di un corpo umano. 61

Dio d'acquH

Sopra la porta, si sviluppa un piano con altri quattro scompartimenti: due occupano, sulla stessa linea, la pare­ te di fondo; gli altri due fiancheggiano le pareti lacerali. Insieme, formano una specie di cornicione su tre lati che lascia sgombro lo spazio dell’entrata e permette a un uomo di tenersi accoccolato sopra i compartimenti infe­ riori, con le spalle all’altezza del balcone. Nell’edificio celeste, questi compartimenti avevano un ordine: il primo era quello che si trovava, entrando, sulla destra nel piano inferiore; il secondo, quello in fondo a destra, e così di seguito girando. 11 quinto era quello in alto a destra e così di seguito fino all’ottavo, che era quel­ lo in alto a sinistra (vedi fig. 2). Ognuno di essi aveva ricevuto uno degli otto semi che erano stati daci da Dio agli otto antenati, in quest'ordine: il migliarino, il miglio bianco, il miglio d'ombra, il miglio femmina, il fagiolo, l’acetosella, il riso, la Digitana. Con ciascuno di questi semi erano tutti quelli che ap­ partenevano alla stessa specie.

S E —|— O N 7 1 6 8

Figura 2. Piante della base e del piano superiore del Sistema del mondo, nonché del granaio dogpn.

62

5

La (cm parola e la classificazione delle cose

Ma gli otto compartimenti non servivano soltanto da recipiente per i semi da diffondere fra gli uomini. Essi era­ no anche l’immagine degli otto organi principali del Ge­ nio dell’acqua, paragonabili a quelli degli uomini, con l’aggiunta del ventriglio, perché il genio ha la rapidità de­ gli uccelli. Questi organi erano ripartiti in questo modo: stomaco, ventriglio, cuore, piccolo fegato, milza, intestino, grande fegato, vescicola biliare. Al centro, un orcio di forma sferica simboleggiava l’ute­ ro; e un altro, più piccolo, ostruiva il primo., Esso contene­ va l’olio di Lärmen acida, e rappresentava il feto; e, a sua volta, era ostruito da un altro ancora più piccolo che con­ teneva profumo. Su quest'ultimo, figurava una doppia cu­ pola (vedi fig. 3). L'insieme di questi organi era tenuto insieme dalle pare­ ti e dai tramezzi interni che simboleggiavano lo scheletro. 1 quattro sostegni agli angoli del quadrato del tetto erano le quattro membra. Così il granaio era come una donna (GEMELLITÀ) (IGIENE)

(FETO)

UTERO

Figura 3. Serie di vasi posa al centra del Sistema del mondo. 63

Dio d'acquit

sdraiata sul dorso, che era il sole, con le braccia e le gam­ be sollevate a sorreggere il tetto, immagine del cielo. Le gambe erano a nord e il sesso era segnato dalla porta posta sul sesto gradino. Il granaio e tutto ciò che esso sorreggeva era dunque l’immagine del sistema del mondo nel suo nuovo ordine e il suo movimento era rappresentato dal movimento degli organi interni. Questi assorbivano un nutrimento simbo­ lico che seguiva il processo della digestione e della diffu­ sione sanguigna. Dai compartimenti 1 e 2 (stomaco e ventriglio), il nutrimento passava al 6 (intestino), e da lì in tutti gli altri, sotto forma di sangue c, finalmente, di soffio che termina nel fegato e nella vescicola biliare. Questo soffio è un vapore, un’acqua che porta ed è il prin­ cipio della vita. Alla voce sorda di Ogotcmmeli, la miseria del granaio abbandonato si animava, aiutata dal sole morente che sfondava l’orizzonte occidentale al di là delle gole d’I. Le sue pareti diventavano rossastre e riflettevano i bagliori sui piani d’argilla e sulla paglia del letame. Sul tetto, un fascio di acetosella amaranto si drizzava come una fiam­ ma. Si avvicinava l’istante in cui rutti i muri d’argilla oc­ cidentali di Ogni Alto e Ogol Basso si sarebbero infiam­ mati. L’edificio partecipava all’orgia di luce con tutta la sua superficie visibile. E, nell’ombra interiore, rivivevano i prodigi. 11 cieco, con la faccia rivolta a terra e le mani sulla nuca, si calava nel passato dei cicli. Raggiunse infine l’ul­ timo strato dei simboli che formavano l’universo conden­ sato nel granaio primordiale, un corpo gonfio di vita che ingoiava il nutrimento: «Ciò che viene mangiato» disse «è la luce del sole. L’escremento è la notte. I soffi della vita sono le nuvole, e il sangue è la pioggia che cade sul mondo».

64

SESTA GIORNATA

La terza parola, la discesa del granaio di terra pura e la morte

Ogotemmeli aveva omesso di collocare, nel suo sistema, lo scorpione e il nay. Il loro posto era sotto il granaio, nel cerchio che simholcggiava il sole. L’antenato costruttore aveva riunito sul tetto gli stru­ menti e gli attrezzi di una fucina, perché il suo compito era di portare agli uomini il ferro che avrebbe reso passibi­ le la coltivazione. Il mantice era formato da due vasi di terra cruda tritura­ ta insieme con peli di montone hianco; questi vasi erano fissati l'uno all’altro come due gemelli: la loro ampia aper­ tura era chiusa da una pelle. Da ciascuno di essi partiva un condotto di terra che terminava nel beccolare. 11 ma­ glio aveva la forma di una grossa spoletta di ferro, conica dalla parte del manico, quadrangolare dalla parte della percussione. L'incudine, di forma simile, era fissata su una traversa di legno. L’antenato Fabbro era armato di un arco di ferro e di frecce-fusi, Ne lanciò una nella terrazza del granaio, al centro del cerchio che raffigurava la luna; ne circondò il fusto con un lungo filo della Vergine che si av­ volse a rocchetto. Così l’intero edificio era un'enorme fusaiola. Presa una seconda freccia alla quale aveva attacca­ to l’altra estremità del filo, egli la scagliò nella volta cele­ ste perché servisse da punto d'appoggio. Quello che stava per derivarne era un complesso di simbo­ li (vedi fig. 4)· Innanzi nitro, il granaio meraviglioso era il sistema del 65

SISTEMA DEL MONDO

GRANAIO INCUDINE

FUSO U MAZZA DEL FABBRO

MANO DEL GENIO

FERRO DI SANTUARIO FERRO PER SGRANARE

CORPO DELGENIO

Figura 4. Complesso degli oggetti legati simbolicamente alla forma del Sistema del mando.

La terra perula, la discesa del granaio di terra pura e la morte

mondo, orientato e classificato secondo famiglie di creature. Era anche il paniere intrecciato che il suo costruttore aveva preso a modello e del quale gli uomini dovevano fare la loro unità di volume. L’unità di lunghezza era Taltezza e la larghezza del gradino delle scalinate, cioè un cubito. L’unità di superficie era la terrazza di otto cubiti di lato. Le due figure geometriche fondamentali erano espresse nella terrazza quadrata e nel cerchio della base, che, nel paniere, è, in verità, l’apertura. Era il modello del granaio nel quale gli uomini avrebbe« ro ammassato i loro raccolti. Era, perciò stesso, la realizzazione ideale e ultima della struttura del formicaio che era già servita da modello agli uomini per trasformare le loro abitazioni sotterranee. Era la fusaiola, materozza del fuso che il Fabbro aveva lanciato nella terrazza e che serviva da asse ail’avvolgi' mento del filo della discesa. Dava, simbolicamente, la forma del ferro per sgranare il cotone, spoletta a forma di doppio tronco di cono la cui sagoma è simile a quella del maglio del fabbro. Era la parte alca del maglio. Secondo la credenza pope« lare, era nel suo maglio che il Fabbro aveva portato agli uomini i semi. Era anche l'incudine quadrangolare, femmina, forgiata imitando il maglio, che ì maschio. Era la mano palmata del Nommo, di cui il maglio dà la figura. Era la parte superiore del corpo del Nommo, di cui il maglio è il simbolo: le due facce opposte rappresentano il petto e la schiena; le altre due sono le braccia. Era, infine, il corpo stesso della femminilità del Fabbro, che, come ogni essere, è doppio. Tutto era pronto per la partenza, mancava il fuoco della fucina. L’antenato scivolò neU'ofificina dei grandi Nommo che sono i fabbri del cielo e rubò un pezzo di sole sotto forma di brace e di ferro incandescente. Lo afferrò serven­ dosi di un ‘bastone di ladro’ la cui punta incurvata termi67

Dio d'acqua

nava con una fessura aperta come una bocca. Perdendo pezzi di brace e tornando sui suoi passi per raccoglierli, egli corse verso Pedifìcio di cui, nell’emozione, non riuscì a trovare l’entrata. Ne fece più volte il giro prima di poter scalare Lgradini e riguadagnare la terrazza dove nascose la sua refurtiva in una delle pelli del mantice, dicendo: «Guyo!» Che vuol dire: ‘rubato’. Da allora, questo nome è rimasto nella lingua e signifi­ ca: granaio. Esso ricorda che senza il fuoco della fucina e senza il ferro delle zappe, non ci sarebbe raccolto da am­ massare. Senza perdere un istante, il Fabbro lanciò il tronco-dicono-piramide lungo un arcobaleno. Senza che l’edificio girasse su se stesso, il filo si svolgeva a serpentina, immagi­ ne del procedere dell’acqua. Con in mano il suo maglio e il suo arco, il Fabbro stava in piedi sulla terrazza, pronto a difendersi contro lo spazio. Ma l’attacco fu inatteso: con un fracasso di tuono, una torcia scagliata dal Nomino femmina raggiunse la terraz­ za. Il Fabbro, per proteggersi, afferrò una delle pelli del mantice e la brandì sulla sua testa, creando così lo scudo. La pelle, che aveva ricevuto il pezzo di cielo, era divenuta di essenza solare e il fuoco celeste non poteva prevalere su di essa. Poi l’antenato spense con l'acqua del suo otre il legno incendiato che stava dando fuoco all’edificio. Que­ sto legno, che si chiama bazu, diede origine al culto del fuoco femmina. Un’altra folgore seguì alla prima, lanciata, questa volta, dal Nommo maschio. Ma non ebbe maggior effetto. 11 Fabbro spense la seconda torcia, detta anakyê, sulla quale doveva essere più tardi fondato il culto del fuoco maschio. L’edificio proseguì la sua corsa lungo l’arcobaleno. An­ dava, soltanto, più veloce a causa della spinta che le fol­ gori gli avevano impresso. Sulla terrazza, il Fabbro aveva ripreso la sua guardia; ma era stanco di tenere il suo maglio stretto nella mano e per68

Ιλ tem parola, la discesi viel granaio Ji («mi pura e la morie

ciò lo appoggiò, di traverso sulle sue braccia, leggermente tese in avanti. Quanto all'incudine, la portava a bandolie­ ra grazie a una lunga striscia di cuoio che gli passava intor­ no al collo e ricadeva alle sue spalle. La traversa di legno nella quale era conficcato il ferro gli batteva sulle gambe. Durante questa discesa, l’antenato aveva ancora la qua­ lità di genio dell'acqua, e il suo corpo, pur conservando un’apparenza umana dal momento che si trattava di un uomo rigenerato, era provvisto di membra flessibili come serpenti, simili alle braccia dei grandi Nommo. Il suolo si avvicinava rapidamente. L’antenato si teneva sempre diritto, con le braccia avanti, maglio e incudine posati sulle braccia. Sopravvenne l’urto finale che si pro­ dusse nel punto in cui l’arcobaleno toccava la terra. L’im­ patto sparpagliò in una nube di polvere gli animali, i ve­ getali e gli uomini scaglionati sui gradini. Quando fu tornata la calma, il Fabbro era ancora in pie­ di sulla terrazza, con la faccia volta verso il nord, e i suoi strumenti nella medesima posizione. Ma, nell’urto, il ma­ glio e l’incudine gli avevano spezzato braccia e gambe al­ l’altezza dei gomiti e delle ginocchia, che fino ad allora non possedeva. Egli ricevette così le arcicolazioni adatte alla nuova forma umana che si sarebbe diffusa sulla terra e che era destinata al lavoro. «Per il lavoro il suo braccio si è piegato.» 1 Le membra flessibili erano, infatti, inadatte al lavoro nella fucina e nei campi. Per battere il ferro incandescen­ te e per dissodare la cena, era necessaria la leva dell’avam­ braccio. Al momento di coccare il suolo, l’antenato era dunque pronto per la sua opera civilizzatrice. Discese lungo la gra­ dinata settentrionale e delimitò un campo quadrato di dieci volte otto cubiti per lato, che aveva lo stesso orien­ tamento della terrazza sulla quale l’antenato era disceso e costituiva la misura dell’appezzamento unitario. Questo campo fu diviso in ottanca volte ottanta quadrati di un cubito di lato, che furono ripartiti fra le otto famiglie, 69

Dio d'acqua

che discendevano dagli antenaci e avevano continuato il loro destino sulla terra. Lungo la mediana nord-sud del quadrato, furono costruite otto case d’abitazione, con terra alla quale era stata mescolata dell’argilla impastata presa dal granaio. A nord di questa linea fu collocata la fucina. «Il materiale celeste fu messo anche nel campo» disse Ogotemmeli. «Così il suolo fu purificato. E più tardi, quando la tecnica del dissodamento si diffuse fra gli uo­ mini, l’impurità della terra si ritirò.» 11 cieco insisteva sempre suH’impurìtà del suolo, causa del primo disordine: «Un tempo, al momento della creazione, la terra era pura. La palla lanciata da Dio era di argilla pura. Ma la colpa commessa con lo Sciacallo ha contaminato la terra e ha distrutto l'ordine del mondo. Per questo il Nomino è venuto a riorganizzarlo. La terra che è uscita dai cieli ed è discesa sulla terra era una terra pura. Nel luogo in cui essa si è posata, come in ogni luogo dissodato, essa ha trasmes­ so questa purezza. In tutti i luoghi in cui la coltura ha vin­ to, l’impurità si è ritirata». Il rinnovamento della terra non era la sola opera da compiere. «11 granaio è sceso pieno di nuovo nutrimento. Esso era destinato alla rigenerazione, al rinnovamento degli uomini.» Ma l’inizio di quest’opera doveva essere segnato da altri incidenti. I II Fabbro, ex Nommo, non poteva bastare, da solo, al suo compito di maestro. La sua funzione, del resto, era so­ prattutto quella di un tecnico e altri ammaestramenti era­ no necessari. Subito dopo il Fabbro, Primo antenato, sce­ sero gli altri sette. L’antenato dei Pellai e l’antenato dei Cantastorie seguirono un filo. Ognuno portava i suoi stru­ menti o i suoi attributi. Gli altri vennero subito dopo, se­ condo il loro rango. Fu allora che si produsse l’incidente che doveva orien­ tare la riorganizzazione. 70

La tersa pwola, la discesa del granaio di im a pura e la mon«

L’Ottavo antenato, rompendo l’ordine delle precedenze, scese prima del Settimo, Signore della Parola. Questi, corrucciato, si.volse contro gli altri e, giunto a terra, si preci' pitò nel granaio, sotto forma di un grande serpente, per prendervi i semi. Secondo un’altra versione, egli morse la pelle del mantice già installato nella fucina per disperdere i semi che vi erano stati deposti. Secondo altri ancora, egli era disceso contemporanea­ mente al Fabbro, assumendo la forma stessa del granaio; giunto sulla terra, aveva preso il corpo di un grande ser­ pente e tra i due geni era nata una lite. Comunque sia, il Fabbro, sia per sbarazzarsi di un avversario sia per seguire i grandi disegni di Dio, consigliò agli uomini di uccidere il serpente, di mangiarne il corpo e di dare a lui la testa. «Secondo altri» disse Ogotemnftli, che attribuiva una grande importanza a questa svolta della storia del mondo e che voleva esporre scrupolosamente l’attitudine dei geni, «secondo altri, il Fabbro, giungendo al suolo, trovò gli uo­ mini delle otto famiglie e installò accanto ad essi la sua of­ ficina. Non appena ebbe deposto le pelli del mantice, ap­ parve il grande serpente che si precipitò su di esse e disper­ se intorno i granelli di miglio. Gli uomini, vedendo questo intruso, e sorpresi dalle sue mosse, lo uccisero. 11 Fabbro li ringraziò, diede loro il cadavere perché lo mangiassero e tenne per sé la testa.» Ma tutte le versioni concordavano sulle conseguenze di quell’uccisione: «Quando ebbe la testa, il Fabbro la portò verso la pietra che gli serviva da sedile per battere il ferro, fece un buco in terra, vi seppellì la testa e la coprì con la pietra». «Allora» disse l’Europeo «il Nommo-Settimo antenato è presente in ogni fucina?» «Sì» rispose il cieco «ogni fabbro, quando lavora, è come se fosse seduto sulla testa del serpente.» Ma i labirinti di questo mistero non erano ancora finiti. «Il Nommo-Settimo antenato è stato ucciso dagli uomi­ ni sotto forma di serpente e la sua testa è stata sepolta. Ma 71

Dio (l'acqua

si può anche dire che egli era il granaio disceso dai cieli, che egli è stato spezzato e diviso, che la terra delle pareti è stata disseminata nel campo primordiale, e mischiata a quella delle abitazioni, che i semi contenuti nel suo ventre sono stati sotterrati nel suolo al momento della semi' na. Si può dire che il Settimo è stato ucciso e distrutto e sepolto come Serpente, come granaio, come semi.» «E perché proprio lui?» •«Perché era il Signore della Parola.» «E perché doveva morire?» Ogotemmeli non rispose direttamente. Aveva poggiato il mento sulle sue ginocchia sollevate contro il petto; guardava nella sua notte, con le mani sul­ le guance. «È morto verso la metà di novembre» disse. L’Europeo si accomiatò da lui. L'assenza di risposta, nel suo interlocutore, era sempre carica di promessa. Ed egli ricordava che due giorni prima, alla domanda: «Che cosa c’è nel granaio?» il vecchio aveva risposto: «molo!» cioè: «Niente!»

72

SETTIMA GIORNATA

La terza parola e il rigurgito del sistema del mondo

Nel cortile di Ogotemmeli, la vita era regolata dai polli, i cui terrori e le cui requie non duravano che un momento. Un panico generale, provocato dal lancio di una pietra o di un pezzo di legno, era seguito da appena qualche minu­ to di pace. Nei villaggi neri, i polli non sono quasi mai sazi. La loro vita è un’incessante frenesia alla ricerca del cibo, tanto più affannosa in quanto le superfici da esplora­ re sono limitate ai cortili e ai vicoli. 11 magro peso di que­ ste bestie ne fa, infatti, una facile preda per i nibbi; esse non possono difendersi che nell'ingombro delle abitazioni dove le picchiate e i voli radenti sono impossibili. Non appena Ogotemmeli si era seduta sulla soglia e l’Eu­ ropeo era assorto nella sua ricerca, il cortile si organizzava. I pulcini inciampavano nelle zucche piene di feccia di bir­ ra, scivolavano sulla pietra cava, correvano verso il muro alla più piccola ombra che oscurava lo zenith. Qualcuno, durante le ore calde, si addormentava sulle scarpe di corda dello straniero che non osava più muovere un alluce. 1pulcini, con le loro esili voci, erano una buona compa­ gnia. Ma i galli, e specialmente il gallo dell’Hogon, turba­ vano le cosmogonie, spezzavano le frasi, facevano scattare gridi e gesticolazioni. Ogotemmeli, il busto eretto nel var­ co della soglia, li malediceva con veemenza, senza omet­ tere l’augurio di vederli cotti. Un istante dopo, ricomin­ ciava il colloquio spezzato in pieno folgoramento del Fab­ bro, in piena meccanica celeste. 73

Dio «l'acqua

Questa settima giornata ogotemmeliana era stata sepa­ rata dalla sesta da una lunga settimana di ricerche nelle regioni del nord, e l’Europeo aveva betta di riannodare i colloqui. Si sedette sulla solita pietra, depose a terra il suo casco e vi gettò dentro le goyaves della sua colazione. «Dal momento in cui il Fabbro scese in terra, gli uomini ebbero in sorte le articolazioni. Fino allora, avevano ossa flessibili che non si piegavano abbastanza. Il braccio fiessibile non permette un buon lavoro.» D’altra parte, le braccia da sole e le mani nude non po­ tevano eseguire che compiti limitati; per questo il Fabbro, nei mesi che seguirono, diede agli uomini il ferro a forma di zappa e vi aggiunse un manico. La zappa era un braccio che prolungava quello dell’uomo. La comparsa della zap­ pa diede inizio ai lavori detl'agricoltura. Fino a quel mo­ mento, sulla terra cresceva solo qualche vegetale, come il cotone, che era raccolto per la tessitura, ma non coltiva­ to. Allo stesso modo, prima della discesa del granaio cele­ ste, sulla terra si trovavano soltanto pochi animali, come la formica, la termite, lo sciacallo, forse lo scorpione e la lucertola detta ‘sole’. Ma la presenza sulla terra della zappa dissodatrice e dei semi non era sufficiente perché cominciasse l’agricoltura: era necessaria la pioggia abbondante. Era anche necessario che gli uomini si organizzassero e che la totalità dei disegni divini si compisse. Otto famiglie, discendenti dagli otto antenati, vivevano sulla terra e l’uomo più vecchio di tutti apparteneva al­ l’ottava. Ora, l’ottavo rango, pur essendo uguale agli altri, ha un privilegio particolare: «Sette» disse Ogotemmeli «è il rango del Signore della Parola. 1, aggiunto a 7, dà 8. L’ottavo rango è quello della parola stessa. La parola è al di fuori del Settimo che la in­ segna. Essa è l’Ottavo antenato. L’Ottavo è il sostegno della parola che i primi sette avevano e che il Settimo in­ segnava». 74

La re i» parola e il rigurgita ilei sistema del montiti

Appartenendo all’ottava famiglia, il più vecchio dei vi' venti era, dunque, l’essere terrestre che più direttamente rappresentava la parola. Si chiamava Lebé. Ora, gli uomini possedevano una parola antica, la se' conda, appresa al momento della tessitura, che doveva ce­ dere il posto alla terza. L’insegnamento di questa nuova parola spettava al Nommo-antcnato Settimo, ucciso dagli uomini, la cui testa riposava sotto il sedile della fucina nella parte settentrionale del campo primordiale. Bisognava che il vecchio morisse per passare nel mede­ simo mondo del Settimo e per permettere la realizzazione dei disegni di Dio. Per questo il vecchio morì. «Ma» fece osservare Ogotemmeli «morì in apparenza. Alla gente semplice fu detto che il vecchio era morto. E si disse che il Settimo era stato ucciso e consumato. In real­ tà, né l’uno né l’altro sono morti. Il vecchio non poteva morire poiché la morte sarebbe apparsa soltanto più tardi. Il Settimo non poteva morire perché era Nommo.» «E perché ingannare gli uomini?» domandò l’Europeo. «Per far loro meglio capire le cose» rispose il cieco. E passò oltre. Dopo la morte del vecchio, il suo corpo fu deposto sulla terra, mentre si scavava, nel campo, non lontano dalla fu­ cina, una tomba orientata da nord a sud. Egli vi fu sepolto supino, con la testa a nord, nella posizione della terra e nel suo ombelico medesimo, cioè nel suo centro. Se lo misero in posizione supina, fu per adempiere ai di­ segni di Dio e anche perché gli uomini ignoravano la morte e i riti funebri. Più tardi, quando gli uomini inco­ minciarono a morire, essi vennero adagiati nel fondo del­ le tombe o nelle caverne, con la testa a nord, i maschi sul fianco destro e le donne sul fianco sinistro, nella stessa posizione che prendono per dormire sul terrapieno della seconda camera. Omisero anche di piegargli le membra per qualche istante, come si sarebbe fatto più tardi a tutti 75

Dio d'acqua

i morti, per dare loro temporaneamente la forma di feto e prefigurare così la rigenerazione. In tal modo il campo primordiale conteneva, da una parte, il corpo dell'uomo più vecchio e quest'uomo apparteneva all'ottava famiglia, ordine della parola. Contene' va, d'altra parte, sotto la pietra del Fabbro, la testa del Settimo antenato. Allora risuonò il primo rumore della fucina. Vibrò nelle profondità della terra e raggiunse il Settimo antenato ucciso dagli uomini. Alla cadenza del mantice doppio che attivava il fuoco e del maglio che batteva l’incudine, il Settimo Notnmo prese la sua forma di genio, dal tronco umano terminante in rettile. Poi, drizzandosi sulla coda, con gesti regolari delle braccia spinte in avanti e con scatti ritmici del cor­ po, nuotò la prima danza che lo condusse sotto terra nella tomba del vecchio. Al ritmo del lavoro della fucina, il Settimo si presentò a nord del corpo, dalla parte del cranio, e lo inghiottì; lo ri­ cevette nel suo utero e lo rigenerò. Infine, sempre al me­ desimo ritmo, vomitò nella tomba, in un torrente d’ac­ qua, il prodotto della metamorfosi. Quest'acqua, simbolo dei torrenti e degli stagni, formò nel luogo dove si trovava il corpo una pozza centrale dalla quale scaturirono, nelle cinque direzioni segnate dalla te­ sta c dalle membra, cinque fiumi. Quest’acqua era anche l’acqua del parto: l’utero del Nommo aveva trasformato in pietre colorare le ossa del­ l’uomo, e le emise nel fondo della tomba disegnando nel­ lo stesso punto occupato precedentemente dal corpo uno scheletro in posizione supina, con la testa a nord. «Il Settimo Nommo» disse Ogotemmeli «ha inghiottito il vecchio dalla resta e ha restituito in cambio le pietre dugué, ponendole nello stesso ordine del corpo disteso. Era come il disegno di un uomo facto con le pietre.» 11 disegno ricordava anche quello che il Nommo fa dell’anima di un uomo, a ogni nascita. E indicava, attra76

La terra parola e il rigurgito del Jisiema del morulo

verso la posizione delle pietre, ('ordinamento della società umana. «Egli ha organizzato il mondo vomitando i dugué che tracciavano il profilo di un’anima d’uomo.» Depose al suolo le pietre una per una, incominciando da quella della testa e dagli otto dugué principali, uno per antenato, che segnavano le articolazioni del bacino, delle spalle, delle ginocchia c dei gomiti; la precedenza era data alla destra; le pietre dei quattro antenati maschi si trova­ vano alle articolazioni del bacino e delle spalle, cioè al vertice delle membra; quelle delle quattro femmine alle altre quattro. «L'articolazione» dichiarò il cieco «è la cosa più impor­ tante nell'uomo.» Quindi le pietre del secondo ordine, emanazione delle prime otto, disegnarono le ossa lunghe, la colonna verte­ brale, le costole. Tutti questi dugué erano le pietre di alle­ anza che più tardi i sacerdoti totemici avrebbero portato intorno al collo. Erano i pegni d’affetto degli Otto Ante­ nati, i ricettacoli della loro forza vitale che essi volevano rimettere in circolazione nella loro discendenza. «I dugué erano otto, come gli antenati erano otto, come i semi erano otto. I dugué rappresentavano gli otto anziani dell'inizio dell’umanità. E gli otto uomini, gli otto semi, le otto arricolazioni sono nello stesso ordine dei dugué.» Tutti i colori dell’arcobaleno lungo il quale era sceso il Fabbro vi si trovavano rappresentati, ma non nel loro or­ dine naturale: la gamba sinistra era quasi nera; la destra e il braccio sinistro tendevano al rosso e il braccio destro al bianco. Ma non si poteva determinare altro che il colore dominante di ogni arto: Io scheletro, nel suo complesso, era multicolore. 1 colori degli otto dugué principali, rispettivamente as­ segnati all’antenato dello stesso ordine, ricordavano tanto quelli degli organi del granaio celeste, quanto quelli dei semi corrispondenti: - la prima pietra, giallo-marrone, come l’abito dogon, 77

Figura 5. Diagramma d'insieme del cosiddetto ‘Sistema sociale della Terza Parola'.

La tma parola « il ngufgito ilei sistema del mondo

Figura 6. Diagramma dei rapporti che regolano le parentele matrimoniali in hase al principio dell'alternanza destra/smistra, ahofbasso, pari!dispari,

maschiolfcmmina.

ricordava lo stomaco (1° scompartimento); - la seconda, rossastra, attraversata da una riga bianca, aveva il colore del ventriglio (2° scompartimento); - la terza era rossa come il cuore {.3° scompartimento); - la quarta biancastra come il miglio femmina (4° scom­ partimento); - la quinta bronzea come il fagiolo (5° scompartimento); - la sesta nera come l’acetosella pestata (6° scomparti­ mento); - la settima rosea come il fegato (7° scompartimento); - l’ottava verde e bianca come la bile (8° scomparti­ mento). Il Nommo espettorò anche le unghie del morto sotto forma di càuri in ragione di otto per ogni mano e per ogni piede. Li depose al posto delle mani e dei piedi incomin­ ciando da destra e nell’ordine seguente; 79

Dio d'acqua

- un càuri sul medio e un altro sull’indice per ricordare la qualità di gemelli dei due primi antenati; - uno sul pollice, poiché il terzo antenato era nato da solo; - uno sull’anulare e uno sul mignolo, per il quarto e il quinto antenato che erano pure gemelli; - uno sul pollice, l’indice e il medio, di nuovo, per il se­ sto, il settimo e l’ottavo antenato (vedi fig. 7). L’Europeo osservò incidentalmente che i cauri di ordine 7 e 8, cifre che sì riferiscono alla parola, erano posti sulle due dita (indice e medio) che, presso i Dogon, ‘separano’ le parole. Ogotemmeli non si spiegò su questo punto. Disse però che il medio, nel caso di morte sospetta, veniva lasciato fuori dal sudario, leggermente incurvato, perché indicasse e ‘agganciasse’ il criminale. Subito dopo tornò ai càuri.

Figura 7. Valori’ numerico delle dita della mano. 80

Li rena paiola e il rigurgito dei sistema del mondo

«Più tardi, quando fu inventato il commercio, si dove­ vano disporre i càuri per otto, nell’ordine delle dita. Si contavano tante volte otto càuri quante unghie c'erano nelle due mani, cioè ottanta. E otto volte 80, cioè 640, se­ gnava il termine del conto.» Fra le gambe della figura, il Nommo dispose il rame ri­ sultante dalla sua digestione, metallo che doveva servire a confezionare i braccialetti per uso rituale. La disposizione delle otto pietre delle articolazioni de­ terminò in seguito il sistema delle parentele acquisite per matrimonio, secondo il principio dell’alternanza della de­ stra c della sinistra, dell'alto c del basso, del pari e del di­ spari, del maschio e della femmina, cioè: -- 1* famiglia (coscia destra, maschio) con 8“ (avambrac­ cio sinistro, femmina); - 3" famiglia (braccio destro, maschio) con 6* (garretto sinistro, femmina); - 5‘ famiglia (garretto destro, femmina) con 4" (braccio sinistro, maschio); - 7" famiglia (avambraccio destro, femmina) con 2* (co­ scia sinistra, maschio). Queste alternanze (vedi fig. 6) si spingevano tanto lon­ tano che, nel caso, per esempio, dell’alto e del basso, non erano soltanto la parrc alta o la parte bassa del corpo che erano unite, ma anche la parte alta e la parte bassa delle membra. Così, una coscia (basso del corpo, parte alta di un arto) era unita a un avambraccio (parte alta del corpo, parte bassa di un arto). Queste unioni erano ripartite in modo che la somma dei ranghi delle due famiglie era sempre nove, rango dell’autorità territoriale (vedi fig. 8). Quanto alla pietra che occupava il posto del cranio, anch’essa aveva rango 9, perché era destinata all’autorità territoriale in ogni famiglia. Il sistema delle unioni matrimoniali era anche iscritto altrove: nella disposizione dei càuri in corrispondenza del­ le dita, il medio aveva rango uno e otto; l’indice aveva 81

Dio d'acqua

rango due e sette, il pollice tre e sei, per mostrare che l’accoppiamento dei ranghi si faceva su un solo dito. Accop­ piare e sposare significava congiungere in unità. Quanto all’anulare e al mignolo, che avevano rango 4 e 5, la loro unione significava accoppiare due gemelli di ses­ so opposto, cioè due esseri che ne formavano in realtà uno solo. Infatti, il Quarto antenato (maschio) e il Quin­ to (femmina), erano gemelli.

9

Figura 8. Diagramma della ripartizione delle unioni matrimoniali in base alla somma prodotta dai loro ranghi.

La narrazione di Ogoteinmeli non era stata priva di sbalzi. All’inizio, si era dato molta pena a proposito delle arricolazioni. Siccome non era possibile disegnare nella polve­ re, cercava di rendere concreti i suoi calcoli percuotendo­ si le cosce e gli avambracci. Inoltre, i polli, i cani e le donne indiscrete avevano in­ terrotto cento volte il colloquio. In particolare, mentre il cieco descriveva la danza sotterranea della resurrezione, Koguem si era dovuto precipitare a rotta di collo nel corti­ le, agitando le braccia e soffiando come un serpente. Era 82

La i« ra parola a il riKUigitn