Cultura e lingue classiche. 2° Convegno di aggiornamento e di didattica. Roma, 31 ottobre - 1 novembre 1987. 2 8821301664

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Cultura e lingue classiche. 2° Convegno di aggiornamento e di didattica. Roma, 31 ottobre - 1 novembre 1987. 2
 8821301664

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STUDI - TESTI - COMMENTI PATRISTICI

a cura della Facoltà di Lettere cristiane e classiche Pontifìcium Institutum Altioris Latinitatis della Università Pontificia Salesiana

CULTURA E LINGUE CLASSICHE

2 2 ° C onvegno d i aggiornam ento e di didattica R o m a , 31 o tto b r e -1 novem bre 1987

a cura di

BIAGIO AMATA

LAS

ROMA

PRESENTAZIONE

« Veterum Sapientia, in Graecorum Romanorumque inclusa litteris, itemque clarissima antiquorum populorum monumenta doctrinae, quasi quaedam praenuntia aurora sunt habenda evangelicae veritatis, quam Filius Dei, gratiae disciplinaeque arbiter et magister, ilìuminator ac deductor generis humani (Tert., Apologeticum 21), his nuntiavit in terris». IOANNES PP. XXIII

Accanto a sintomi preoccupanti di emarginazione sistematica della cultura italiana sul fronte europeo, non può non destare giustificato allarme il crollo di popolarità della cultura cosiddetta classica, o meglio, umanistica, all’interno del­ la stessa nazione italiana.1 Alcune costatazioni, pur nell’ambito ristretto della loro quantificazione, so­ no assai significative, e, qualora i rilevamenti IS T A T venissero suffragati da ulte­ riori obiettivi e generali riscontri, non lascerebbero senza condanna quanti, con sistematica occulta persuasione, hanno avuto interesse, ovvero hanno incoscien­ temente e ostinatamente contribuito a demolire il patrimonio dei valori umani del civis per inconfessabili pretese di dominio sulle masse. La fuga dei cervelli verso gli Stati Uniti d ’America o nazioni europee, l ’af­ fermarsi prepotente della lingua inglese nei congressi nazionali ed internazionali, il vuoto penoso che si crea in aula in tali occasioni quando inizia un dibattito in lingua italiana, nonché la prassi strisciante di emarginare l ’italiano, privilegiando come lingue scientifiche l ’inglese, il tedesco e il francese (cfr. la collana Studies in Greek and Latin Linguistics, edita da Van Gorcum, Assen/Maastricht, The Netherlands - Wolfeboro, New Hampshire, USA), testimoniano a sufficienza il crollo non della cultura classica soltanto, ma della capacità stessa di fare cultura dell’intera nazione italiana.

i II Bollettino Mensile di Statistica 11, novembre 1987, 18s, riporta i seguenti dati di iscrizione al settore dell’istruzione, aggiornati al 1° ottobre 1987: licei ginnasi 212.359 di cui 51.814 al primo anno licei scientifici 384.612 di cui 97.128 “ “ “

università:

© Ottobre 1988 by LAS - Libreria Ateneo Salesiano Piazza dell’Ateneo Salesiano, 1 - 00139 ROMA ISBN 88-213-0166-4 Tipografia «Don Bosco» - Via Prenestina, 468 - 00171 Roma

gruppo “ “ “ “ “ “ “ “

scientifico medicina ingegneria agraria economico polit.-soc. giuridico letterario

Lettere

93.294 di cui 28.847 23.980 di cui 11.773 120.513 di cui 35.369 20.331 di cui 5.705 124.031 di cui 43.263 54.435 di cui 21.657 130.756 di cui 40.986 154.617 di cuiv48.875

35.211 di cui 10.653

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Presentazione

Biagio Amata

Il richiamo alle fo n ti del sapere europeo non è, né vuole essere discriminante nei confronti di chi con quel sapere non è venuto a contatto, essendo proprio del­ l ’Umanesimo abbattere ogni discriminazione, che possa o sembri violare i diritti fondamentali e la dignità della persona umana. L ’Europa dell’utopia cristiana, dagli Urali all’Atlantico, di recente riproposta autorevolmente nell’impegno apo­ stolico del Santo Padre Giovanni Paolo II, è la vera erede di quanto l ’Occidente, pur tra le luci e le ombre cfe/Γάνθρωπίνη φύσις, ha potuto di volta in volta rico­ struire sulle macerie di ricorrenti barbarie. Il Convegno « Cultura e Lingue Classiche» ha inteso mantenere vivo il dibat­ tito tra una cultura sostanzialmente dell’effimero e una cultura che non è presun­ zione chiamare perenne. E d ecco affacciarsi l ’esigenza di ridefinire il concetto stesso di cultura e di umanesimo, rapinati alle dimensioni dello spirito, per essere fa tti oggetto di stru­ mentali e demagogiche alternative giornalistiche. Cultura ed umanesimo, classi­ camente, sono la εγκύκλιος παιδεία, quale venne delineandosi storicamente a partire dalle intuizioni dei pensatori greci e quale venne completata, dopo secolari bar­ riere, dal messaggio cristiano. Cultura è la riverenza per l ’uomo, a partire dall’i­ nizio della sua esistenza e attraverso tutte le fasi del suo dispiegamento, anche quando tale evoluzione non sia possibile o non è più sufficientemente sostenuta, per cause interne od esterne, che ne mortificano lo sviluppo. Essa ha un risvolto tutto intimo e personale, che coincide con la coscienza individuale, come ne ha altri, che la vincolano al gruppo familiare ed etnico, ed altri ancora a misura pla­ netaria, che la tuffano nella problematica immensa e schiacciante che rende infe­ lice, sostanzialmente, l ’uomo di oggi. M a a tutti l ’umanesimo-cristianesimo ha saputo dare attraverso i secoli, e ripropone ancora, la speranza. Ed è la prima caratteristica dell’umanesimo. L ’uo­ mo non è chiuso in un atollo di sabbia nell’immenso universo, ma ha ali per ele­ varsi e spaziare verso l ’azzurro e l ’infinito. E d ha saputo dare l ’amore. Nella multiforme espressione di interventi, spontanei e imposti ad un tempo dalla soli­ darietà umana e dal precetto evangelico, ha portato a tutti il calore fraterno e familiare. Senza pretendere riconoscimenti, qui in terra, senza quel chiassoso autopresentarsi e autoesaltarsi, propri delle pubbliche istituzioni, che monopolizza­ no faraoniche gestioni del denaro dei cittadini, con pari e palese inefficienza. E d ha portato il progresso civile. Migliaia di esseri umani hanno lottato contro le te­ nebre dell’ignoranza, per affinare il linguaggio, questo mezzo divino di comuni­ cazione tra gli uomini, per scoprire le intime leggi del pensiero e del numero, che permettono di cogliere persino l ’essenza delle cose e di contare al di là della fin i­ tudine di un cervello umano, dello spazio, del tempo. Oggi studiare le lingue classiche significa, deve significare, l ’appropriazione di tanto tesoro e il suo approfondimento, per non riinizializzare di continuo il percorso della civiltà, tentando inutilmente di rifondarla su ipotetiche e disumane teorizzazioni di eguaglianza, culturale e finanziaria, o di supremazia, politica e militare, i cui fru tti sono inevitabilmente l ’odio e la guerra, la sopraffazione gra­

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tuita e il massacro orgiastico. La ricchezza e l ’autorità di un sapere vagliato da innumerevoli generazioni è sempre attuale, nei suoi elementi propositivi, come in quelli che appartengono alla storia. L ’aggiornamento segnato nel sottotitolo del Convegno, comunemente inte­ so in senso empirico, si ispira invece a più alte idealità e vuole essere un rilancio di concezioni di vita, racchiuse nel dramma personale di ogni singola figura lette­ raria. Studiarle vuol dire interrogarle e acquisirle ancora per l ’umanità. Posse­ derle significa saper cogliere e trasmettere la linfa vitale della loro esperienza. Non quindi un aggiornamento di dati, pur necessario all’onesto docente, ma attualizzazione di messaggio; come neppure esposizione di soggettivi, se pur brillanti, espe­ rimenti didattici, quanto trasmissione vitale e integrale di valori dello spirito. Va da sé che lo strumento linguistico è la chiave per la lettura dei classici. Da qui l ’impegno perché possa essere posseduto in modo vivo e meno categoriale, per­ ché gli strumenti tecnici siano sempre al servizio del Verbo, che è il cuore di ogni insegnamento e la cui funzione primordiale non può essere sminuita neppure dai più sofisticati congegni. Le categorie, letterarie e matematiche, hanno un indub­ bio valore all’interno di ogni singola disciplina: rinnovarle, riportarle a genuini parametri, non è giuoco scolastico, ma nobile tentativo di facilitare all’uomo l ’ap­ prendimento e la memorizzazione del maggior numero di dati e della capacità di elaborarne altri. La ricerca dell’effimero e di immediati guadagni impoveriscono lo spirito e sono alla base del disimpegno personale e pubblico, che rende possibi­ li e facili il crimine, la violenza, la guerra. Roma, 31 gennaio 1988 Biagio Amata

Introduzione

«STUDIA HUMANITATIS» E «SAPIENTIA PATRUM» NEL PROGETTO DI PAPA GIOVANNI XXIII. A 25 anni dalla Costituzione Apostolica «Veterum Sapientia» Calogero RIGGI

Premessa

La cultura classica, nobilitatis et maiestatis piena ( Vet. Sap. 131), è stata in speciale modo affidata da Papa Giovanni al nostro Academicum Latinitatis Institutum 25 anni or sono allo scopo di promuovere lo studio delle fonti greche e latine della tradizione cristiana. Non possiamo cancellare la memoria del suo insegnamento volto con sorriso bonario non a risuscitare un κόσμος έπέων άπατηλός (Platone), ma a suscitare un superamento gioiosamente ironico del comune ab­ bandono di quegli studi oggi humanitus impediti (Agostino). Son chiamati liberales, quia liberos homines faciunt (Vergerlo), a cominciare dalla grammatica ostiaria (Salutati) per finire a quella ìnstitutio in bonas artes che costituisce un insostituibile humanitatis cibus (Cicerone), in quanto insegnano quod estprimum, sibi vivere (Seneca). Tale l’insegnamento degli antichi sapienti. Ancora Solone insegna spectandum terminum vitae, ancora Chilone esorta all’autocoscienza, ancora Cleobulo invita a riconoscere il limite esistenziale, secondo il delfico precetto da Euripide e da Terenzio riecheggiato nel ne quid nimis che deve regolare gli humana fata (Seneca). La scuola antica educò a questa sapienza, con realismo invitando a non fidare nei giuramenti perché diffìcilis humani animi coniectura est (Seneca), a con­ siderare le malleverie (soggette al regimen providentiaé) talora così imprevedibili da far dire a Talete: έγγύα, παρά δ’ατα (Ausonio). L ’uomo diventerà un dio per l’altro uomo e non più il sofistico lupo, se avrà conosciuto se stesso e gli altri come individui facenti parte di una società composta dei πλεΐστοι κακοί (Biante), redimibili per via di una impegnata μελέτη (Periandro) e di quella permanens humanitas (Seneca) che sa cogliere il καιρός (Pittaco). Bisogna diventare umani mo­ dellandoci non sulle ferine ποιότητες ma sulle άρηταί degli eroi (Cicerone), soprattutto sul Verbo immanente in noi, neìV alvearium cordis (Petrarca). La parola espressione della lingua, ovvero il messaggio inviatoci dal codice degli antichi exemplaria graeca et latina cuiusvis aetatis, il buon papa Giovanni volle assumere come modelli di riferimento per la scuola senza la pretesa di fare dei latinisti come Cicerone (Poliziano). Nel venticinquesimo anniversario della Veterum Sapientia di papa Giovanni

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Introduzione

Calogero Riggi

X X III,1 il secondo convegno di aggiornamento e di didattica su Cultura e Lin­ gue Classiche non può non rievocare la cara e buona immagine paterna nei suoi tratti originali di cultore dell’antico e di promotore del rinnovamento, di ironico sorriso e di severo impegno, nell’ambito di un giudizio equilibrato indipendente daH’opinione comune che rifiuta per sazietà il cibo vitale trasmesso dalla cultura fondata sulla rivelazione naturale e soprannaturale.2 Il sorriso del papa buono, affabilmente indulgente nei riguardi delle umane debolezze, ci sembra illuminan­ te anche nei confronti del nostro latino talora quasi maccheronico,3 pm-sempre testimone di quella sapienza greco-romana su cui si fonda la civiltà occidentale e cristiana.4 Papa Giovanni ci si presenta come Socrate amante dell’antica sapien­ za (Protagora 342 B), ci invita come Plutarco al banchetto dei Sette Sapienti, vuol rinnovare i nostri ludi scolari secondo lo spirito di Ausonio. La scuola può rifiutare le proprie radici? È una espressione del più generale male del secolo, di uno spleen che si am­ manta della veste del riformismo in ogni attività dello spirito: estetica e logica, economica ed etica.5 Non vogliamo drammatizzare, ma avere l’atteggiamento lu­ dico che caratterizzò la classica visione del m ondo,6 da Platone a Plutarco o ad

1 Acta Apostolicae Sedis - Commentarium officiale, Città del Vaticano LIV, 3 (1962), pp. 134-135. La costituzione ha come sottotitolo: De Latinitatis studio provehendo. Si chiude con 8 punti di indole precettiva pratica: sull’insegnamento del latino nelle scuole dei seminari; sull’uso della lin­ gua latina «in altiorìbus sacris disciplina tradendis sive in sacris habendis ritibus»; sulla preparazione filologica e storica dei futuri insegnanti di latino e greco nonché dei futuri ufficiali di curia « ad epistolarum commercium exercendum», cfr. pp. 133-135. 2 Sulla sazietà come disgusto originale del Bene, cfr. M. H arl , Recherches sur l ’origénisme d ’Origène: la «satiété» (κόρος) de la contemplation comme m otif de la chute des àmes, Studia Patri­ stica V ili, TU 93, Berlino 1966, pp. 373-405. 3 Cfr. U.E. P aoli, Il latino maccheronico, Firenze 1949, pp. 27.41.57. A nostro giudizio, non si tratta soltanto di un vezzo elegante e sorridente di persone colte, ma talora di una reazione aggressi­ va, di comicità squillante come in Aristofane (cfr. Thesmoph. 1185; Lys. 81), oppure sommessa come nel fam oso philosophetéon, floccifactéon di Cicerone. In quest’ultimo caso il sorriso può diventare ironico o autoironico. 4 Ci rifacciamo all’esordio della costituzione: « Veterum Sapientia, in Graecorum Romanorum-

que inclusa litteris..., monumenta doctrinae, quasi quaedampraenuntia aurora sunt habenda evangelicae veritatis, quam Filius Dei... nuntiavit in terris». s Sul veternus come psicosi maniaco-depressiva, spleen o ennui, cfr. per es. Lucrezio, De re­ rum natura III, 1051-1092. Lo stato patologico è descritto come peso che opprime il cuore, affanno che spinge a trasmigrare di luogo in luogo per l’illusione di deporre la gravitas che affatica, il taedium vitae: «Exit saepe foras magnis ex aedibus ille, /esse domi quem pertaesumst, subitoque revertit» (1058-1059). La diagnosi del morbo è quella dei Sette Sapienti, del se quisque modo fugit: «Oscitat... aut abit in somnum gravis» (1063-1066) chi, toccata la soglia della villa raggiunta con veloci puledri a briglia sciolta, essendo malato ignora la causa del suo male. Il rimedio è lo γνώθι σεαυτόν di Solone o di Socrate; per Lucrezio il conoscere, prima d’ogni altra cosa, la natura delle cose e del tempo eter­ no che sovrasta post mortemi dove καιρός e τέλος βίου si identificano forgiando veri piaceri, perché l’arida bocca non sarà più tormentata dalla perenne sete di vita, essendo eterna morte (1085-1092). 6 Cfr. Opere di Decimo Magno Ausonio, a cura di A. Pastorino, Torino 1971 (ristampa 1978), Ludus septem sapientum, pp. 554-571.

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Ausonio, dai maestri della neosofistica a quelli dell’umanesimo e persino ai mo­ derni filosofi romantici o positivisti (Nietzsche, Comte). C ’è tanta distanza tra gli ideali e le nostre realtà! Prendendo però lo spunto dal richiamo dei nostri maestri di pedagogia pa­ storale a considerare la cultura come grande sacramento, di cui i sacramenti pro­ priamente detti non sono che l’esplosione simbolica,7 domandiamoci seriamente se l’esperienza degli antichi saggi che precedettero l’annuncio evangelico nella cul­ tura greco-romana può coinvolgere ancor oggi. Forse che la realtà da loro espres­ sa non è suscettibile di rinnovata comprensione? Può il moderno non rivivere schemi fantastici antichi?

1. Modelli di riferimento tra i «Veteres sapientes»

Studi di umanità furono chiamati da Leonardo Bruni quelli che attraverso le humanae litterae trasformano la vita individuale e sociale dallo stato ferino a quello di essere cosciente della naturae ratio: «quaepropterea humanitatis studia nuncupantur, quod hominem perficiant atque exornent».s Paolo Vergerlo chia­ mò tale cultura «liberale» perché essa genera uomini liberi: «idcirco liberalis, quod liberos homines fa cit» .9 I rinascimentali crearono il mito di una renovatio, de­ molitrice del medioevo per via dell’incontro con opere perdute o fin da allora sco­ nosciute; 10 ma gli antichi classici erano già noti, studiati e amati come maestri delle artes dictandi e di ogni ricerca del bello e del buono, di uno stile armonico di vita da raggiungere con lavoro e fatica, come fece Ercole nel liberare da ogni genere di mostri il mondo: «in quo persuadere conatur, inexpugnabilibus locis, monstruosis terrae laboribus superatis, viris fortissimis astra deberi»." L’umanesimo storico considerò 1’άνθρωπότης come « hominum condicio na­ turate»,12 innata capacità di «non facere quod non optima possis vel facere quod non pessime facias»,13 virtualità di φρόνησις e di γενναιότης che si traduce in 7 άτόπως

Aristotele e la rivalutazione delle passioni nella tragedia

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nell’Accademia opponevano i propri scritti a quelli di Platone, o, come vuole il Rostagni,18 gli interlocutori del già citato dialogo aristotelico περί ποιητών, nel corso del quale essi adducevano le proprie ragioni e confutavano le obiezioni de­ gli altri, lasciando comunque ad Aristotele di trarre le conclusioni della discussio­ ne dal suo punto di vista, come esige appunto il dialogo aristotelico.19 d) L ’accenno al «politico» potrebbe far pensare che del problema Aristotele si occupasse in un’altra opera giovanile intitolata appunto πολιτικός20 e non nel περί ποιητών. Ma si badi. Il πολιτικός di Proclo, che corrisponde al πολιτικός di Aristotele, e cioè all’uomo della polis, all’uomo che ha il comando e, insieme, sottostà al comando secondo la rotazione del tempo, si spiega alla luce della cir­ costanza che la trattazione aristotelica si riferisce a quella platonica, e cioè alla Repubblica. Il problema dell’arte era per Platone estetico e, insieme, etico: in quan­ to tale era pure politico: esigeva, quindi, una risposta in campo etico, anche se tale risposta diventava operativa quando fosse venuta in mano al «politico» che nella costruzione della «politela» avesse disposto le cose in modo che rispondes­ sero tutte all’ordinamento migliore. Quindi il problema etico-estetico era il pre­ ponderante: di necessità poi rimbalzava nella sfera politica, pur conservando la sua natura estetica. Questo esige che di per sé fosse affrontato e discusso piutto­ sto in un’opera di estetica che di politica. Tanto più che Aristotele, per quanto possiamo congetturare dai titoli rimastici, cercò di distinguere con più attenzione le varie sfere di competenze delle singole arti. e) La dottrina che Proclo riporta ad Aristotele e che tendeva a rivalorizzare i πάθη, si fonda su due operazioni: I. la soddisfazione moderata di tali passioni (έμμέτρως άποπιμπλάναι), IL l’uso di loro come collaboratori per l’educazione, una volta curato quel che v’è in essi di nocivo (τό πεπονηκός αύτών θεραπεύσαντας). Quindi un’operazione di alleggerimento per restituire ai pathe la loro carica nor­ male e poi l’uso di loro per le tante necessità della vita. 3. Dunque, già nelle opere cosiddette «essoteriche» e cioè quelle pubblicate, il pensiero di Aristotele in rapporto ai πάθη è pienamente formato. Riappare uguale nella Retorica, nell 'Etica, nella Politica:21 nello stesso senso fu inteso da chi lo studiò, ad es. da Seneca che nel de ira cita più passi di Aristotele sull’οργή e li commenta.22 Si discute sulla collocazione di tali passi, ma tutto lascia pensare che facessero parte di un perduto περί παθών, un’opera forse di scuola, alla quale i

18 A . Rostagni,

o . c.

I, p. 287 sgg.

19 Su tale caratteristica del dialogo aristotelico cfr. A ristotele, I Frammenti dei Dialoghi cit. I, p. 55 sgg. 20 Aristotelis Fragmenta Selecta cit., pp. 63-67. 21 Per la Retorica cfr. II, capp. 2-12 che rappresentano un blocco ben compatto relativo allo studio delle passioni; per l’Etica Nicomachea cfr. II, 4, 1105b 19 sgg.; per la Politica vedi oltre. 22 Mi permetto di rimandare al mio Aristotele e il de ira di Seneca, in «Studi Filosofici», Isti­ tuto Universitario Orientale, II (1979), pp. 61-93.

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Renato Laurenti

cataloghi accennano sia pure in modo un po’ ambiguo, e che risale senza dubbio al tempo del discepolato di Aristotele presso Platone. In uno di questi si legge: «ira, inquit Aristoteles,23 necessaria est, nec quicquam sine illa expugnaripotest, nisi illa implet animum et spiritum accendit. Utendum autem illa est non ut duce sed ut milite». Dunque l’ira è necessaria, deve dare all’uomo un certo impulso all’azione, deve però obbedire al cenno della ragione, in quanto è soldato, non capo. In altre parole deve restare nei limiti che la ragione le assegna e pertanto ha da evitare eccessi e difetti, soprattutto gli eccessi. Di qui si giustifica lo sfogo delle passioni τών παθών άπεράσεις,24 grazie al quale possono acquistare la giu­ sta valenza e presentarsi utili alla ragione, come al capo. È il problema della ca­ tarsi, un problema che si stende per largo raggio, anche se prende una fisonomia tutta propria in rapporto all’arte. Data la stretta connessione tra passione e catar­ si, non sarà inutile aggiungere qualcosa in proposito. Catarsi ha significato ampio, come dimostra la sua storia.25 Forse ebbe la sua prima applicazione nel campo della medicina e della religione, che in taluni casi tendevano allo stesso fine, a ristabilire cioè l’equilibrio in chi ne era privo. Interessante al riguardo un brano dei Problemi che studia il melanconico. Il me­ lanconico o atrabiliare è condizionato nella sua vita fisiologica e affettiva dalla bile, per cui è portato ad atteggiamenti diversi. «L ’atrabile,26 che è fredda per natura e non superficialmente, se sta nel corpo come s’è detto, e cioè se eccede il modo, εάν ύπερβάλλη, produce prostrazioni o torpori o scoramenti o paure: se poi si scalda in modo eccessivo, εάν δ’ύπερθερμανθή, produce ilarità con canti, alie­ nazione della mente, eruzione di ulceri e cose simili». E più avanti: «quando il temperamento derivante dall’atrabile è troppo freddo,27 produce nell’animo di­ verse forme di scoramento, quando è troppo caldo, di confidenza». Entrambi gli stati sono anormali, e pertanto hanno bisogno di cura. Si tratta di ridurre il trop­ po freddo e il troppo caldo e quindi di riportare e l’uno e l’altro alla misura. A tal fine ci sono molti mezzi: il vino, il rapporto sessuale, la musica, una certa mu­ sica catartica e calmante. Infatti Poi. V ili 7, 1341b 32 sg. accenna a vari tipi di musica28 e tra questi a una speciale musica sacra, dalla quale, taluni, in braccio all’esaltazione o comunque ad atteggiamenti entusiastici, sono ricondotti allo stato normale «come se avessero avuto una cura e una purificazione: ώσπερ ΐατρείας τυχόντας καί καθάρσεως». E continua: «Questo stesso effetto (il ristabilimento dello stato normale) devono provare quelli che sono proclivi alla pietà e al timore e,

23 Sen ., de ira 1, 9, 2. 24 L’espressione è di Proclo nel frammento citato alla nota 15. 25 Sulla storia di «catarsi» cfr. J. C r o i s s a n t , Aristote et les mysteres, Paris 1932, passim. 26 Problem. X X XI, 1, 954a 21-26. 27 ibid. 955a 13-16. 28 In realtà Aristotele distingue tre tipi di musica: a) etica o etopoietica, che mira a formare il carattere; b) prammatica o descrittiva, che narra delle azioni, dei πράγματα; c) entusiastica, che è in rapporto con l’entusiasmo, uno stato di esaltazione, riportato spesso all’azione degli dèi.

Aristotele e la rivalutazione delle passioni nella tragedia

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insomma, a tutte queste passioni, e gli altri nei limiti in cui ognuno ne partecipa e per tutti dev’esserci una purificazione, e un sollievo accompagnato da piacere». Queste parole si riportano a Poet. 6,1449b 24-31, alla definizione della tra­ gedia, la quale «per mezzo della pietà e del terrore finisce con l’effettuare le puri­ ficazioni di cosiffatte passioni29 δι’ έλέου καί φόβου περαίνουσα τήν τών τοιούτων παθημάτων κάθαρσιν. Insomma, come l’organismo deve mantenersi in condizioni normali, lontano dal troppo e dal troppo poco, per cui quando si presenta un difetto o un eccesso, conviene curarlo, così deve fare l’anima, liberarsi dal troppo e dal troppo poco, che le impedisce l’attività naturale. Confrontiamo rapidamente i quattro testi. Il περί ποιητών sottolinea che la purificazione consiste non negli eccessi, ma in attività moderate; la Politica parla di musica sacra che sgrava lo stato entusiastico di taluni e lo riconduce alla nor­ malità: qualcosa di simile dicono i Problemi, concordando in ciò con la Poetica che parla di purificazione delle passioni mediante la pietà e il terrore. Si tratta in tu tt’e quattro i testi di un alleggerimento della passione; li diversifica il mezzo col quale la purificazione è ottenuta. Tra questi mezzi, comunque, c’è la rappre­ sentazione artistica, ossia, più in generale, la poesia. La tragedia, proponendo trame particolari e vicende e azioni, si svolge sotto il segno άεΐΐ’έλεος e del φόβος, e cioè di sentimenti che, in qualunque modo si definiscono, legano tra loro gli uomini o li allontanano gli uni dagli altri. Lo spettatore, in quanto ha anch’egli i sentimenti dell’έλεος e del φόβος, è coinvolto nella vicenda rappresentata, e la vive non nella realtà, ma nell’imitazione, quell’imitazione che procura piacere.30 Da siffatta «convivenza» ricava un grande beneficio e cioè la passione ch’egli ha e che di fronte alla rappresentazione si esaspera, nella rappresentazione, allo stes­ so modo, si distende. Il piacere ch’essa gli offre lo conquista sicché nell’animo suo si instaura una condizione di calma piacevole, di pace dilettosa che, termina­ ta la rappresentazione, gli permette di affrontare i problemi della esistenza con una capacità e alacrità nuova o rinnovata che non avrebbe mai sperato di ottene­ re. Le passioni dell’animo suo, scontrandosi con quelle che si agitano sulla scena acquistano uno spessore lieve, una trasparenza cristallina che le rendono soldati intelligenti e pronti ai comandi della ragione.31 Per questo Aristotele indugia co­ sì a lungo nella Poetica a esaminare le varie parti della tragedia, soprattutto la consistenza della favola, l’intreccio, l’esito. Dunque, la potenza della catarsi era stata colta da Aristotele già nel depoetis: l’attesta Proclo, l’attesta Giamblico de myst. I, 1132 in un brano ch’è molto simile a quello di Proclo per cui si pensa che derivi dalla stessa fonte: 29 Sulla nozione di ‘catarsi’ cfr. J. B e r n a y s , Aristotle on thè effect o f Tragedy, in «Articles on Aristotle, edited by J. Barnes, M. Schofield, R. Sorabji», London 1979 IV, p. 154 sgg. Sulle inter­ pretazioni che si sono date di τ ώ ν τ ο ιο ύ τ ω ν π α θ η μ ά τ ω ν κ ά θ α ρ σ ις cfr. A r i s t o t e l i s Ars Poetica, edicion trilingue por V. G a r c i a Y e b r a , Madrid 1974, p. 352 sgg. 30 Cfr. Poet. 4, 1448b 8 τό χαίρειν τοϊς μιμήμασι πάντας e 14, 1453b 11-14.

3ΐ Cfr. nota 23. 32 Aristotelis Fragmenta Selecta cit., p. 70.

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Renato Laurenti

«Quando le potenze delle passioni umane che stanno in noi sono represse da ogni parte, diventano più violente, quando, invece, le si sollecita ad una atti­ vità moderata ed entro limiti moderati, godono moderatamente e sono sod­ disfatte, per cui, in seguito, purificate, si placano per opera della persuasione e non della violenza. Per questo, contemplando nella commedia e nella tra­ gedia le passioni altrui, stabilizziamo le nostre passioni, le riduciamo a più giusta misura e le purifichiamo e nel corso dei riti, mediante gli spettacoli e l’audizione delle oscenità, ci liberiamo del danno che ci coglierebbe se le pra­ ticassimo»

C’è pure un altro motivo che può servire a confermare la nostra tesi. Abbia­ mo citato il libro V ili della Politica, un libro che si aggancia strettamente al VII e che non è compiuto. VII e Vili costituiscono un blocco compatto33 e per la for­ ma e per il contenuto. Trattano di educazione e il tema ben si adatta a un’opera politica, vista l’importanza che l’educazione aveva per il futuro cittadino. Ma sui due libri pendono tanti problemi: tra i più complessi quello relativo alla loro com­ posizione. Motivi interni e certe particolarità — ad es. l’inserzione di interi brani di scritti essoterici nel dettato vero e proprio della Politica — conducono alla con­ clusione che i due libri sono relativamente antichi: potrebbero essere addirittura la bozza di un progetto pedagogico, che ha poi preso corpo in un’altra opera gio­ vanile di Aristotele, il περί παιδείας, di cui purtroppo abbiamo solo due frammen­ ti.34 Comunque, se i libri VII e V ili della Politica risalgono alla prima attività di Aristotele, e in essi si parla di musica catartica, come s’è visto, ne deriva che anche la nozione di catarsi — e di catarsi mediante l’arte, ossia la poesia — a quell’epoca fosse acquisita da Aristotele. Dato per vero quel che si è detto, risulterebbe snellito il problema del cosid­ detto svolgimento del pensiero aristotelico. Nessuno nega a un pensatore, tanto meno ad Aristotele, il diritto di tornare sulle sue posizioni, di modificarle, di adat­ tarle alla visione sempre più piena ch’egli si forma delle cose. È pur vero, però, che la ricostruzione di tale svolgimento ha valore quando di questo pensatore si abbia tutta l’opera, giacché i frammenti possono essere soggetti a interpretazioni diverse, addirittura contrarie. E, dunque, far leva sui frammenti per fermare ta­ lune posizioni, che poi sarebbero state scavalcate da altre, non è il metodo mi­ gliore. Se, al contrario riusciamo a determinare in una certa opera, o, meglio, in un certo gruppo di opere la presenza di un concetto fondamentale, che le spie­ ghi e le illumini, la cosa cambia. È forse il caso di Aristotele. Per il quale si do­ vrebbe riprendere con più attenzione lo studio di φύσις e alla luce di φύσις ricostruire lo scontro tra lui e il Maestro in tutti i campi, dalla metafisica alla psicologia, alla politica, alla retorica, alla poesia e via dicendo. Da tale ricostruzione si ve­ drebbe come l’unico concetto che Aristotele oppose al Maestro si rifranga ugual­ 33 Per tutto il problema rimando al mio Genesi e Formazione della Politica, Padova 1965, p. 82 sgg. 34 Aristotelis Fragmenta Selecta cit., p. 61.

Aristotele e la rivalutazione delle passioni nella tragedia

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mente in tutti i campi e solleciti la stessa risposta, sia pure in forme diverse. Ne verrebbe fuori una rappresentazione del pensiero aristotelico un po’ diversa da quella comune, ma più unitaria e forse più logica perché è più logico spiegare il particolare alla luce dell’universale, cercando di comprendere oscillazioni e cambiarhenti, che non dalla formula particolare e spesso muta, perché frammentaria e ambigua, risalire all’idea che dovrebbe illuminarla. Si prospettano allora due raccordi: Platone/idea, Aristotele/physis. Si pos­ sono spiegare in qualche modo? Naturalmente una spiegazione comporterebbe un penetrare nell’umanità dei due pensatori, che, come tutti sanno, sono molto diversi per origine (l’uno ateniese, l’altro ionico) per nobiltà (l’uno discendente da Solone, l’altro più modestamente da medici) per educazione (l’uno agganciato all’ambiente politico e, dunque, indirizzato al governo della polis, l’altro aggan­ ciato a un ambiente intellettuale e scientifico) per istruzione (l’uno che trova in Socrate la spinta verso il τί έστιν, l’altro che col padre indaga nei segreti della na­ tura) e via dicendo. È ingenuo credere che queste cosiddette cause riescano a spie­ gare la diversa impostazione dei due: lo spirito va al di là di tutto ciò, ma tutto ciò è, in qualche modo, la spia di una certa impostazione dello spirito e può indi­ care la via sulla quale ci si deve mettere per cercare di capire lo spirito stesso.

B. IL TEATRO DI SENECA PER UN NUOVO PUBBLICO Alberto GRILLI

1. Per inquadrare il problema di quale fosse il pubblico cui Seneca destinava le sue tragedie, occorre partire dal problema che lo ingloba, cioè se Seneca ha composto drammi da mettere in scena. Problema che appare anche nelle usuali letterature e su cui si è scritto molto, prò e contro. Poche le voci prò e queste o di studiosi d’alto ingenio o di molto modesti mediocri. Prendo il più recente lavoro che appartiene a questa seconda categoria, quello di Dana Ferrin Sutton dal titolo già di per sé significativo, Seneca on thè Stage,' e mi rendo conto di come e perché si vada divagando inconsistentemente su un Seneca uomo di tea­ tro: è chiaro che, per esempio, non si possono prendere in esame le «various compositional weaknesses» che appaiono nel nostro autore contrapponendo da una parte «a theatergoer caught up in thè excitement of a play», cui tali debolezze sfuggono senz’altro, e dall’altro «thè reader». Quale lettore? e si badi che l’inesi­ stente lettore è definito «thè thoughtful and dispassionate reader». Dico che il lettore non esiste, perché normalmente sia la declamatio sia la recitatio erano fat­ te ad alta voce dall’autore stesso: si vorrà ammettere che almeno lui non sia stato «dispassionate»; e così, se non era l’autore, la persona di sua fiducia da lui istrui­ ta. Ma se il problema che si propone la Sutton è impostato su un lettore che non esiste, è ovvio che le soluzioni saranno brillanti, ma erronee. Non mi è mai occorso di riscontrare nei sostenitori delle tragedie di Seneca come teatro di scena, neanche nelle finissime pagine di Pierre Grimal (che rappre­ senta il polo opposto ai mediocri, di cui dicevo),12 una considerazione che per tut­ ta la letteratura antica è fondamentale: la lettura non era fatta solamente con gli occhi, era fatta ad alta voce, o, tutt’al più, a mezza voce, anche se il lettore era solo con se stesso. Questo giustifica il dispiego di tanti mezzi retorici anche in testi storici e didattici; ma questo spiega perché anche in drammi da recitazione si sentisse l’esigenza di espedienti identici a quelli di scena, perché il recitante fos­ se sostenuto nella sua lettura-recitazione.

1 Leiden 1986, pp. 70. 2 P. Grimal, Le ròte de la mise en scène dans les tragédies de Sénèque. Clytemnestre et Cas­ sandre dans l’Agamemnon, in Théatre et spectacle dans l ’antiquité, Paris 1981, pp. 123-139.

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Io credo che la lettura muta sia venuta nascendo e via via sviluppandosi col cristianesimo accanto alla lettura del culto: quando il fedele attraverso la Sacra Scrittura si trova facie adfaciem , come dice Paolo,3 davanti a Dio, alla Sua pa­ rola, alla Sua verità. Allora acquista tutto il suo significato l’episodio tra Agosti­ no, maestro di retorica, studioso di neoplatonismo, ma estraneo alla fede, e Ambrogio, uomo di fede e vescovo. Intendo rifarmi al celebre passo delle «Con­ fessioni», quando Agostino, entrato nello studio del santo vescovo, lo vede leg­ gere in silenzio: Cum legebat, oculi ducebanturperpaginas et cor intellectum rimabatur, vox autem et lingua quiescebant. «Mentre leggeva gli occhi scorrevano le pagine e la sua intelligenza ne inda­ gava il senso, ma la voce e la lingua non si muovevano».4

In più Agostino tenta delle spiegazioni assurde per spiegare il fatto, proprio perché presso lui è talmente insolito da non trovarne motivazioni plausibili. S’ag­ giunga che la meraviglia è ancora tale più o meno, quattordici anni dopo, quando compone la sua opera. A che scopo ho detto tutto questo? Per poter raggiungere la sicurezza che tre secoli prima la lettura a voce era l’unica corrente. Sicché le tragedie di Seneca non sono state mai ‘lette’ nel senso che noi diamo normalmente a questo termine: ‘recitate’ sì e, direi, dall’autore o da un anagnoste scelto ad hoc·,5 ma Seneca, co­ me vedremo, aspirava a un altro più vasto pubblico. Sarebbe poi strano che il testo da recitare non dovesse servirsi di tutte le fin­ zioni sceniche proprie del dramma sul palcoscenico, tanto più necessarie per crea­ re illusione nell’ascoltatore e per trasformarlo in certo qual modo in spettatore. Valga come esempio Troades 928-932: utrum ab Idaeis iugis iactanda virgo est, arcis an celsae edito mittenda saxo? num per has vastum in mare volvenda rupes, latere quas scisso levat altum vadoso Sigeon spectans sinu? «(Dimmi), la vergine dev’essere gettata giù dalla cime dell’Ida o dall’alta ru­ pe dell’eccelsa rocca? o dev’essere fatta rotolare da questi scogli nel mare scon­ finato, scogli che il Sigeo leva sul suo fianco dirupato guardando l’alto mare dall’arco delle basse acque?».

3 1 Rom 13, 12. 4 A g ., conf. 6,3,3. s II ridicolo discorso di D.F. Sutton, o . c . , p. 5, e di B. W alker, ree. a Z wierlein, Die Rezitationsdramen Senecas, «C P» 64, 1969, p. 185, che si chiedono se la recitazione era fatta da un solo recitatore è demolita dall’attuale esperienza di Peter A . Arnott con il suo splendido teatro delle ma­ rionette, in cui egli recita Sofocle, Euripide, Menandro, Aristofane.

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Has rupes, è chiaro, è «queste rupi che vediamo» ed è molto patetico che dopo le vette dell’Ida visibili da ogni luogo, dopo la rocca che si leva sulla pianu­ ra, si indichi con un gesto il luogo più vicino, ma in realtà inesistente, perché nes­ suna scena antica era in grado di rappresentare il promontorio Sigeo dirupato sul mare.6 Dirò la verità, l’immaginare, qui e altrove, tanta sceneggiatura costa troppo caro: per la Medea, per fare un altro esempio, perché tanto patire per una sterile spiegazione dei rapporti scenici tra reggia di Creonte, casa di Medea, altare di Ecate? Non è più semplice accettare i gesti di mano che il recitante fa volta a volta a indicare luoghi che esistono solo per la connivenza tra il recitante e il suo pub­ blico? Non possiamo pretendere che il teatro antico avesse le mirabili scenografie di Visconti e di Strehler: la fantasia, allora, era ancora più vivace che non ai tem­ pi della mia gioventù. Si pensi a quanto gli Ateniesi sapevano aggiungere alle sce­ ne stabili o quasi; del resto gli ‘spettatori’ delle sale di recitazione non avevano nulla davanti a sé, ma se tra l’anagnoste e il suo pubblico scoccava la scintilla, quasi come in una lampada ad arco, tutto si trasfigurava nella fantasia dell’ascol­ tatore. Forse siamo noi, aspiranti al razionalismo, che non riusciamo a cogliere il potere e l’ambito della fantasia. 2. Non è senza una ragione che ho insistito sull’inutilità della pretesa di una scena teatrale alle spalle dei drammi senecani; il fatto che ci siano grossi ostacoli a sostenere che queste tragedie siano fatte per essere spettacolo sulla scena — si pensi alle tante sensate dimostrazioni della poca o nulla drammaticità dei lunghi monologhi, per fare un caso — mi serve per quanto vorrei arrivare a mostrare a proposito del pubblico di questo teatro tra virgolette. La prima domanda che mi pongo è questa: il teatro di Seneca può essere messo sullo stesso piano della tragedia arcaica? o di quella augustea? Direi che il solo fatto che tutto il teatro di Seneca non ha un solo dramma che si rifaccia al patriottico ciclo troiano, salvo le Troades (ΓAgamennone non rientra in questro quadro), e la mancanza assoluta di quegli spiriti civili che pur traspaiono dai frammenti della tragedia arcaica, ci assicurano che non si tratta di un teatro sensibile alle sollecitazioni politiche come il teatro repubblicano. Né si può dire che questo dipenda dal regime del principato, perché YAtreus di Scauro e le tragedie di Materno avevano contenuti politici. Senz’altro è difficile impo­ stare un giudizio relativamente al teatro augusteo; ma quale sia la crisi del teatro augusteo è stato detto con chiarezza e fine spirito d’osservazione da Antonio La Penna.7 Può valer la pena di rivolgere un momento la nostra attenzione a quale potesse essere il pubblico del primo periodo dell’impero, relativamente alla tragedia.

6 Ecuba è sotto il campo acheo, collocato lungo la spiaggia sabbiosa del dolce arco che termi­ na al Sigeo: anche Seneca lo sa. Sul passo si vedano le inconsistenti osservazioni di D.F. Sutton, p. 10. 7 A . La P enna , Orazio e l ’ideologia del principato, Torino 1962, pp. 152-158.

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Nel 47 Pomponio Secondo rappresenta una sua tragedia (non ne conoscia­ mo il titolo), che fallisce in mezzo ai probra del popolino:8 non sarà stato certo perché l’autore e ra parum tragicus, come dicevano i suoi contemporanei,9 è che il grosso del pubblico agli spettacoli di poco spasso schiamazzava. Ma a proposi­ to di Pomponio, Quintiliano ci dà una notizia che ha tutto il suo peso in vista dei nostri interessi per Seneca e che per questo riporto integralmente: Narri memini iuvenis admodum inter Pomponium ac Senecam etiam praefationibus esse tractatum an 'gradus eliminai3 in tragoedia dici potuisset. «Mi ricordo di quando ero molto giovane che tra Pomponio e Seneca si era discusso anche attraversopraefationes se ‘gradus eliminai’si fosse potuto di­ re in una tragedia».10

Una premessa: Quintiliano nasce nel 35 d.C. e l’episodio che lo ha colpito non può essere successo prima dei suoi 15 anni, cioè attorno al 50; il che è confer­ mato dal fatto che Seneca dal 41 al 49 non poteva essere a Roma, in quanto in esilio in Corsica. Appurata la data, mi preme di mettere in chiaro il significato e l’uso di praefa tio : appunto per eliminare ora ogni dubbio in proposito ho lasciato il termine in latino. Chi c’informa è Plinio il Giovane in una notissima lettera (1, 13, 1-2) scritta a Sosio Senecione, l’amico di Plutarco: «Quest’anno ha portato una gran fioritura di poeti: per tutto il mese di aprile non ci fu quasi giorno senza che qualcuno abbia tenuto una lettura (quo non recifarei aliquis)... purtroppo la gente va di malavoglia ad ascoltare. La mag­ gior parte siede fuori sulla piazza e passa il tempo dell’audizione a chiacchie­ rare; di tanto in tanto si fanno dire se il recitatore è entrato, se ha pronunciato il preambolo (praefationem), se ha già fatto passare per buona parte il suo libro».

È chiaro che la praefatio è il preambolo, espositivo o critico (come quelli di Pomponio e Seneca), che introduce la recitazione. Quando dunque Seneca difen­ de la sua concezione del linguaggio tragico rifiutando gli arcaismi,11*lo faceva in occasione della lettura di una sua tragedia: questo poco dopo il 50. Si deve dun­ que ammettere che almeno le tragedie composte in quel periodo non erano state concepite per il teatro: e non fa meraviglia che non lo fossero a quell’epoca nep­ pure quelle di Pomponio dopo il fiasco teatrale di qualche anno prima. Si vorrà tanto più ammettere che le tragedie che Seneca aveva ripreso a scrivere attorno al 62, un po’ — come dicevano i maligni — per dar ombra agl’interessi tragici

8 T a c ., ann. 11,13,1. 9 Ce ne dà notizia Q u i n t ., inst. 10,1,98. 10 Q u i n t ., inst. 8,3,31. 11 Dato che l ’ennianismo non compare nelle tragedie di Seneca, in cui del resto gli arcaismi so­ no del tutto assenti, arcaizzante doveva essere Pomponio.

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di Nerone, un po’, subito dopo, per la crisi in cui egli si era venuto a trovare, non sono composte per la scena; forse nemmeno per le sale di recitazione. È un uomo che protegge la sua vita, vitat comitantis, rarus per urbem .n Se non vado errato, la successiva tappa, segnata da Curiazio Materno, è del 77 e grazie a quanto ci riferisce Tacito nel Dialogus sappiamo che non c’è più spazio altro che per recitazioni.13 Il cammino del tempo è andato inesorabilmente verso la scomparsa totale della tragedia su palcoscenico. 3. Ma prima di fermarmi definitivamente sul pubblico cui Seneca si rivolge­ va, o almeno intendeva rivolgersi, vorrei avanzare un’osservazione che non è così marginale rispetto al medesimo problema: messo a confronto con l’ultimo tea­ tro, quello dell’età augustea, Seneca ha un Thyestes, come quello di Vario, e una Medea, come quella di Ovidio; non ci mancano esempi a chiarirci come in mondo antico la ripresa d’un tema obbediva a due esigenze: o il nuovo gusto dei tempi era mutato richiedendo un diverso piano stilistico, o il modificarsi di condizioni sociali, morali, politiche comportava un diverso modulo intepretativo. In una per­ sonalità come Seneca la prima ipotesi ha poca probabilità di cogliere nel segno. O almeno, se il problema stilistico si presenta, esso è intimamente legato a pro­ blemi del contenuto: si veda, per esempio, il De tranquillitate animi, che non ri­ prende pedissequamente il περί ευθυμίας di Panezio, ma ne trasforma il linguaggio ancor più che i contenuti, passando dal tono di scritto aristocratico (che traspare ancora da alcuni passi dell’omonimo opuscolo di Plutarco) al tono di scritto uni­ versale, come s’addice a un maestro di coscienze. È un punto su cui dovremo tor­ nare tra breve. Emerge già da questo cenno che anche per le tragedie lo stimolo sostanziale a dedicarvisi dovette essere dettato a Seneca da una sua intima neces­ sità interpretativa. Questa considerazione ci può aiutare a identificare la nuova interpretatio senecana dei due μΰθοι già tanto sfruttati? Sono convinto — e penso che tutti siamo convinti — che un uomo dell’impe­ gno morale del nostro, sia rivolto all’attività politica, sia all’iniziativa etica, non ha visto nelle tragedie un mezzo di diletto. Io non ritengo che si possa seguire il glorioso Teuffel13 quando osserva che, pur non avendo date per le tragedie, non ci si deve dimenticare che durante l’esilio in Corsica «hatte Seneca zu dergleichen am ehesten Musse und Stimmung»; ma il passo cui egli rinvia della Conso­ latio ad Helviam non dice questo: animus omnis occupationis expers operibus suis vacai et modo se levioribus studiis oblectat, modo ad considerandam suam universique naturam veri avidus insurgit. 12 T a c ., ann. 14,52,2. 36,3. Che praefatio fosse προλαλιά, che quindi si trattasse di recitazioni già avesse visto G. B o i s s i e r , Les tragédies de Sénèque ont-elles été représentées?, Paris 1861 (da «Jour­ nal de l ’Instruction publique»), p. 23; cfr. anche C. C i c h o r i u s , Romische Studien , Leipzig 1922 (Darmstadt 1961), pp. 426-429. ο W. S. T e u f f e l , Geschichte der ròmischen Literatur, Lipsia-Berlino,71920 II 226.

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«L’animo libero da ogni faccenda si dedica alle attività che gli son proprie e ora si ricrea con occupazioni decisamente leggere, ora s’innalza a conside­ rare la natura sua e dell’universo, avido di verità».14

Mentre si diffonde sulla seconda, alta tematica, Seneca nulla dice della pri­ ma: se, però, i leviora studia sono occupazioni poetiche, il termine, meglio che alle tragedie in cui è evidente l’interesse per la psicologia umana, s’adatta a epi­ grammi; per un tale genere poetico leggero lo spazio, del resto, c’è, come testimo­ nia Plinio il Giovane.15 Si tratta in sostanza solo di qualche cosa che serve ad avocare animum nel periodo difficile della relegazione. Ma se è così, alle tragedie senecane va trovato altro scopo che Yoblectatio dell’autore e dei fruitori. Per altro verso è evidente che al rientro dalla Corsica, quando per la prima volta abbiamo la certezza di un Seneca scrittore tragico, egli non poteva più pensare a un pubblico da teatro (se pure ci aveva mai pensato) per la situazione che abbiamo riscontrato: e infatti abbiam visto che non ci pen­ sò. Certo il pubblico delle recitationes era più disposto ad accogliere un testo estre­ mamente serio come quello dei drammi anneani. È però un fatto che l’autore, continuò questa sua attività anche quando il pubblico delle recitationes era ormai escluso per una forma di cautela, che, se non fosse stata di Seneca, sarebbe stata della pavida alta società di allora. Perché almeno una tragedia, la «Fedra», è sta­ ta composta quando Seneca aveva deciso il suo ritiro da corte e aveva chiare le conseguenze del suo gesto; per questo problema rimando alla discussione che ne ho fatto altrove,16 mostrando la salda coincidenza concettuale tra il monologo di Ippolito (vv. 483-564) e il De tranquìllitate animi e allo stesso tempo la fitta rete di rapporti concettuali e formali di questo monologo con la Lettera 90. Cam­ bio d ’intendimenti o proseguimento di uno stesso itinerario? Le tragedie non lo dicono. 4. Quale allora possa essere il nuovo pubblico cui Seneca aspira, dovrà esse­ re cercato, se possibile, in Seneca stesso, il quale per i Dialogi ha scelto un suo pubblico e ha un suo metodo per raggiungerlo e persuaderlo. In proposito a me occorre alla memoria un passo del già citato De tranquillitate animi che nella sua evidenza è paradigmatico: dice Seneca a Sereno, dopo aver ascoltato tutti i sintomi della sua malattia, o meglio convalescenza, come la definisce Seneca stesso,17 e dopo avergli dichiarato che ideale alto e difficile da raggiungere è Ι’εύθυμία, l’equilibrio spirituale: 14 Sen ., cons. Helv. 20,1. 15 P lin ., ep. 5,3,2-5. Di questa stessa opinione è C. P rato, Gli epigrammi di L. Anneo Sene­ ca, Bari 1955, p. X. 16 A. G rilli, Seneca di fronte a Ippolito in “ Studi offerti a Francesco Della Corte” III, Urbi­ no, 1988, pp. 299-311. π Sen . , tr.an. 2,1 : nec ulli propius admoverim exemplo quam eorum qui ex longa et gravi va­

letudine expliciti ... omnem calorem corporis sui calumniantur.

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Quomodo ad hanc perveniri possit in universum quaeramus: sumes tu ex publico remedio quantum voles. «Come vi si possa giungere, cerchiamolo genericamente: dal rimedio per tut­ ti prenderai tu la parte che vorrai»

e prosegue a mo’ di chiosa: Totum interim vitium in medium protrahendum est, ex quo agnoscet quisque partem suam. «Intanto dobbiamo porre in luce il difetto nel suo insieme, e di esso ciascuno riconoscerà ciò che gli spetta».18

Il procedimento è quello della terapia delle passioni che troviamo anche nel II libro delle «Tuscolane», altro scritto sotto la diretta influenza di Panezio:19 si parte dall’identificazione della passione, quid esset et quale. Ma solo senecano è il momento successivo, sumes tu expublico. Anzi questo è il segreto delle tera­ pia delle passioni di Seneca, l’offrire ai suoi «pazienti» una gamma di possibili soluzioni, più o meno convergenti. Quello stile che a Frontone pareva, con scarsa penetrazione, confusa... eloquentia catachannae ritu, «a mo’ di albero che butta frutti da più innesti»,20 è come un prisma dalle innumerevoli facce, che sfaccet­ ta ogni concetto etico in maniera che ognuno in una delle facce trovi riflessa l’im­ magine di sé. Questo atteggiamento che felicemente tanti anni fa la Guillemin aveva defi­ nito come quello d’un «directeur d’àmes»21 è fondamentale in tutto il Seneca che conserviamo, ma tanto più man mano che gli anni della sua esperienza avanzano, fin a sentirlo vivacissimo nelle «Lettere a Lucilio». È il desiderio di raggiungere non delle masse (Seneca le aborre), ma i singoli, toccando le fibre del loro sentire, del loro intelletto individuali; solo così l’insegnamento che mira a dissuadere dal male morale e poi, sul cammino del progresso — è Seneca a dire ad imperfectos et mediocres et male sanos hic meus sermo pertinet22 —, a guidare non verso l’a­ patia del vecchio stoicismo, ma verso la serenità dello spirito, l’eutimia, che to­ glie la durezza adamantina dal saggio stoico e si presenta raggiungibile anche all’uomo comune, purché di nobile sentire, solo così tale insegnamento si offre in forme idonee, una per una, a ogni singolo essere umano. In questa particolare ricerca del contatto diretto con gli animi umani vorrei collocare anche le tragedie con la loro carica di «pathos» (lo dico in senso retorico­ estetico) molto superiore a quella di «ethos». Se guardiamo la produzione dram18 Sen ., tr.an. 2,4-5 (trad. di L. Castiglioni). 19 Su tutto ciò v. la mia introduzione a C icerone, Il II libro delle Tuscolane, Brescia 1987, pp. 52-54 in particolare. 20 F ronton. p. 149, 12 v.H. 21 A.M . Guillemin, Sénèque directeur d ’àmes, «REL» 30, 1952.

22 Sen ., tr.an. 11,1.

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matica di Seneca con questa angolazione, vediamo emergere molti segni d’un im­ pegno filosofico che vengono a determinare il rapporto tra l’autore e un pubblico sotto luce particolare. 5. Passiamo rapidamente in rassegna almeno alcune delle tragedie, quelle che presentano questo impegno. Parto dall’Hercules Furens:2ì la scelta della figura dell’eroe che rappresenta il simbolo del saggio prima cinico e poi stoico vuol of­ frire un tema d’ampia visione; infatti Seneca ci presenta l’evoluzione di Ercole furens (sia pure per l’intervento di Giunone), cioè stolto, perché il paradosso stoi­ co è πας φαΟλος μαίνεται, per eccesso, nim ium ,2324 che — con un messaggio di fe­ de allo stuolo di μαίνοντες sulla via del progresso morale — arriva alla fine a riconquistare la ragione, il λόγος, che è simbolo di saggezza. Si veda l’ultima sce­ na: Teseo si rivolge all’eroe: Surge et adversa impetu perfringe solito. Nunc tuum nulli imparem animum malo résumé, nunc magna tibi virtute agendum est: Herculem irasci veto «Su, e spezza col tuo consueto impeto le avversità. Ora solleva il tuo animo superiore a ogni male, ora devi agire con grande virtù: proibisci a Ercole di essere preda dell’ira»

e quando, riavute le armi, Ercole minaccia di uccidersi, il padre lo richiama: ecce iam facies scelus volens sciensque «ecco, ormai commettarai una colpa volendolo e sapendolo»

e alla disperazione d’Èrcole replica Teseo negli ultimi versi della tragedia: Nostra te tellus manet illa te, Alcide, vocat.25

Atene, che ha assolto Marte davanti all’Areopago, assolverà anche Eracle dal tor­ mento della sua coscienza e lo restituirà a saggezza. Un elemento di rilievo nella vicenda di Ercole furens che volge a saviezza com­ pare nei vv. 1088-1094. Il coro assiste al sonno dell’eroe dopo l’accesso di pazzia

23 Non mi risulta viceversa, che VHercules Oeteus sulla cui autenticità la critica aveva grossi dubbi, sia stato studiato a fondo sotto l’aspetto della dottrina filosofica. 24 Sen ., HF. 186. In un passo successivo Megara dice chiaro: Iniqua raro maximìs virtutibus

fortuna parcit; nemo se tuto diu periculis offerre tam crebris potest: quem saepe transit casus, aliquando invenit. Anche qui il tema del nimium, anche se in altra direzione. 23 Sen ., HF. 1274-1277; 1300-1301; 1341-1343.

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che gli ha fatto uccidere moglie e figli e invoca il Sonno, requies animi (v. 1066), a che doni riposo a Ercole finché mens repetat pristina cursum (v. 1081); quindi contemplando Ercole addormentato commenta: nec adhuc omnis expulit aestus sed ut ingenti vexata Noto servai longos unda tumultus et iam vento cessante tumet * * * Pelle insanos fluctus animi, redeat pietas virtusque viro. «Non ha ancora cacciato tutta la tempesta, ma come le onde agitate da un possente vento conservano a lungo il loro sconvolgimento e quando già cade il vento restano gonfie * * * Caccia i flutti del suo animo invaso dalla pazzia, gli sia restituito il senso dell’amore, torni all’eroe la sua virtù».26*

Il mio interesse è dovuto al fato che la similitudine col mare compare anche nei Dialogi, sia nel De tranquilitate animi proprio nel passo sulla convalescenza dalle passioni, cui ho fatto riferimento in precedenza, e nel De brevitate vitae. Eccovi i due passi: — tr. an. 2,1: sicut est quidam tremor etiam tranquilli maris, utique cum ex tempestate requievit — br. v. 2,3: velut profundum mare in quo post ventum quoque volutatio est.

Ma la situazione di Ercole non è quella del De brevitate vitae, dove si parla «se mai per puro caso tocca un po’ di requie» dalla pressione dei desideri. Certo è che tra l’altro dialogo e la tragedia, la similitudine è completamente pertinente nel primo, non nella seconda, ma non crederei che si tratti di elemento che possa contribuire alla datazione dell’«Ercole», se non ci soccorresse il primo coro della stessa tragedia, che è un inno al lavoro che riprende al sorgere del giorno, intro­ ducendo un lungo passo che esalta la vita contemplativa e condanna la vita politi­ ca: tanto più che anche qui la pertinenza di questa tematica è scarsa, introdotta com’è dalla celebrazione della «vita semplice» per concludersi con un Dum fata sinunt vivite laeti.21 La tragedia presenta dunque tutta un’intelaiatura di motivi filosofici, pertinenti e non pertinenti: interessanti questi ultimi, perché ci rivelano pieghe intime delle esigenze del loro autore. 6. Sopra tutto a me non pare possibile che quattro tragedie siano dedicate agli esiti rovinosi della passione, in particolare di una delle passioni capitali, 1’έπιθυμία, il desiderio, che προηγείται insieme al timore, sì da finire coll’essere cau26 Sen ., HF. 1088-1094. Versi difficili da rendere per l’ambivalenza dei termini, che sono stati abilmente scelti per servire alla tempesta dell’animo e a quella degli elementi. 22 Sen ., HF. 159-178.

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delle altre due passioni, piacere e dolore;28 naturalmente ogni tragedia ha di mi­ ra un particolare aspetto di quelli in cui la scuola suddivide la passioni capitali. Una forma di έπιθυμία è l’amore (έρως), definito επιθυμία σωματικής συνουσίας, «desiderio di congiungimento carnale».29 Non c’è bisogno di documentare come la «Fedra» sia la tragedia del travolgimento per la cieca passione d’amore. Così la scuola definiva 1’όργή quale έπιθυμία τιμωρίας του άδικηκέναι δοκοΰντος, «il desiderio di vendetta da parte di chi ritiene di aver ricevuto un torto».30 È questa la situazione di Medea, che trascina alla rovina il re e sua figlia, ma an­ che i due figli suoi. Il tema dell’ira appare esplicitamente e più volte; ora è la Nu­ trice (simbolo del Λόγος, come la Nutrice della «Fedra») che ammonisce: ira quae tegitur nocet; professa perdunt odia vindictae locum; anche Medea parla di iras... nostras; anche il coro interviene a commentare: caecus est ignis stimulatus ira; e infine la Nutrice ci dà una descrizione dell’irato: recursat huc et huc motu effero furoris ore signa lymphati gerens. Fiammata facies spiritum ex alto citai, proclamai, oculos uberi fletu rigat, renidet: omnis specimen affectus capit. Quo pondus animi vergat, ubi ponat minas haeret: minatur aestuat queritur gemit. Ubi se iste fluctus franget? exundat furor: non facile secum versai aut medium scelus; se vincet: irae novimus veteris notas. Magnum aliquid instai efferum immane impiumi vultus furoris cerno. Di fallant metum. «Corre avanti e indietro, qua e là con corsa dissennata portando sul volto i segni di un furore pazzo. La sua faccia infiammata mostra un respiro gros­ so e profondo, lancia urli, bagna gli occhi di un pianto incessante, ride: ha in sé gli aspetti di ogni passione. A che miri il suo risentimento, dove finisca­ no le sue minacce è incerta: minaccia, tempesta, si duole, geme. Dove an­ dranno a infrangersi questi fiotti? Straripa il suo furore: medita un crimine non comune né mediocre; sorpasserà se stessa: riconosco i segni della sua ira antica. Incombe qualche cosa di grave, di efferato, di disumano, di empio: le vedo l’espressione della follia. Che gli dei smentiscano i miei timori!».31

Come si vede, il materiale è quello che Seneca aveva utilizzato già nel De ira. Accanto a due eroine, due eroi: nel «Tieste» e nell’«Agamennone». Il «Tie28 SVF III 378. 29 SVF III 397 = [Andr.] I 90 (cap. 4), p. 231 G.Th. so Ibid. 31 Seni., Med. 153-154; 414; 591; 385-396.

Il teatro di Seneca per un nuovo pubblico

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ste» è il dramma dell’odio, quello di Atreo per il fratello; lo dice esplicitamente Atreo stesso: per nos odia se nostra explicent, lo dice disperatamente Tieste alla fine della tragedia: sic odia pon isi32 Ora l’odio, il μίσος, è per gli stoici έπιθυμία τοΰ κακώς είναι τινι μετά προσκοπής τίνος καί παρατάσεως, «un desiderio di male per qualcuno accompagnato da una forma di offesa e da continuità nel tem po».33 Infine abbiamo il dramma del rancore: κότος è οργή καιρόν έπιτηροΰσα είς τιμωρίαν, «rancore è un’ira che spia il momento per la vendetta».34 Questa è la condizione di Clitemestra nell’«Agamennone» e il rancore appare sulle sue lab­ bra più volte, a partire dal ricordo di Ifigenia in Aulide. Almeno per il momento non sono in grado di dare una giustificazione filoso­ fica delle altre tragedie, e forse per alcune essa non c’è: ma in tutte appare la con­ danna dell’eccesso, che nello stoicismo è il momento primo della passione, definita ορμή πλεονάζουσα, «un impulso eccessivo», e τής ανθρώπινης ψυχής τοΰ λόγου δια­ στροφήν, «perversione della ragione dell’anima um ana».35 La ragione, rappresen­ tata dalla Nutrice sia nella «Fedra», sia nella «Medea», ma, se pur meno, anche nell’«Agamennone» è destinata a soccombere, quando non ci si opponga all’insorgere della passione, che non per niente è ορμή άπειθής λόγω, «impulso che non obbedisce alla ragione».36 7. Se tiriamo le somme di tutte le singole cose che siam venuti considerando, emergono alcuni aspetti nuovi riguardo alle intenzioni di Seneca e quindi riguar­ do a quello che doveva essere il suo pubblico. Se non vado errato, si può arrivare in breve a delle conclusioni. 1) Le tragedie di Seneca non sono scritte per il palcoscenico: quindi il loro autore non le pensava adatte, così come le veniva scrivendo, per raggiungere il grosso pubblico. A questa convinzione hanno di sicuro contribuito la constata­ zione dell’abbassamento del livello di potenziali ascoltatori (vedi caso di Pompo­ nio Secondo) e non meno la consapevolezza dell’alta problematica del testo. 2) Seneca continua a scrivere tragedie anche dopo la crisi del 62, quando non avrebbe più potuto presentarle in recitazioni: quindi aveva rinunciato al pubblico di quelle riunioni, o lo aveva rifiutato, ma non a un pubblico. Non sapendo se qualcuna delle tragedie che possediamo era stata composta tra il 49 e il 62, man­ chiamo di un termine di confronto che ci permetta di dire come Seneca si rivol-

32 Sen ., Th. 323; 1025. 33 SVF III 396 = D .L .7, 113. Non giustifico qui la lezione προσκοπής per la vulgata προκοπή; rinvio alla mia nota II μίσος stoico e il testo di Diogene Laerzio >

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Dal Neoterismo all’«Ars Poetica». Teorizzazione, tradizione letteraria e tecniche poetiche nella cultura latina del I secolo a.C. (Giuseppe Aricò) .....................................................................................................

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Metodi di ricerca nella letteratura cristiana antica (Luigi Franco Pizzo­ lato) .......................................................................................................

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Paideia, retorica e teatro greco (Giuseppina Basta Donzelli) ............

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Lingua e arguzia nell’« Ars amatoria» di Ovidio (.Armando Salvatore)

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Virgilio e gli elegiaci (Giovanni D ’Anna) ............................................. Premessa ............................................................................................. 1. Virgilio e Tibullo ......................................................................... 2. Virgilio, Properzio e Gallo ......................................................... 3. Properzio e l’Eneide .................................................................... Conclusione ........................................................................................

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Sul «significato storico» delle commedie plautine (Salvatore D ’Elia) I tempi di Plauto ............................................................................... Alcune interpretazioni moderne delle commedie ......................... Una valutazione difficile .................................................................. II traduttore ....................................................................................... La reattività culturale ....................................................................... La trasformazione delle commedie greche .................................... Plauto e il mondo greco ..................................................................

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A. «Analogia» e «Anomalia» nella grammatica antica (Antonio Traglia) ........................................................................................... B. «Analogia» e «Anomalia» nei loro fondamenti umani (Calo­ gero Riggi) .................................................................................... 2. Seminario: «Il dramma antico» ........................................................

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A. Aristotele e la rivalutazione delle passioni nella tragedia (Rena­ to Laurenti) ................................................................................... » 181 B. Il teatro di Seneca per un nuovo pubblico (Alberto Grilli) .. » 191 C. Struttura e retorica del tragico nelle «Heroides» di Ovidio (Re­ mo Giomini) .................................................................................. » 203 D. Appunti di antropologia greca dedotti dalla problematica tra­ gica (Enrico dal Covolo) ............................................................. » 215 1. Introduzione ........................................................................... » 216 2. Approccio alla problematica tragica ................................. » 218 3. L’articolarsi della problematica tragica in Eschilo, Sofocle ed Euripide: ........................................................................... » / 220 a) Eschilo, con particolare riferimento aIVAgamennone ». 220 b) Sofocle, con particolare riferimento alVEdipo Re ...... » 223 c) Euripide, con particolare riferimento alla Medea ........ » 226 4. Linee di sintesi: l’autocomprensione dell’uomo nella trage­ dia attica ................................................................................ » 229 5. Conclusione: per un confronto con differenti concezioni antropologiche ...................................................................... » 231 3. Seminarium ideologicum et culturale: «De Latinitate nostris tempo­ ribus» ...........................................................................................................

Introductio (Lambertus Pigini) ....................................................... A. Quid aetas nostra haurire possit ex auctoribus Latinis (Nicolaus Sallmanri) .............................................................................. B. Quomodo institutio linguae Latinae necessaria sit discipulis nostrotum temporum (Claudius Pica) ..........................................

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STUDI - TESTI - COMMENTI PATRISTICI________________ __________________ _________ 328

Indice generale

C. Quid dicendum de amota institutione linguae Latinae ab Italicis scholis medii ordinis (.Ioannes Carolus Rossi) .................. D. Oportet iterum vigeat et floreat in Europa studium linguae La­ tinae (Gaius Licoppe) ..................................................................

a cura d e lla F a co ltà di Lettere c ris tia n e e c la s s ic h e d e il’UPS Voi. 1: e sa u rito

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4. Seminarium methodologicum: «De novissimis experimentis in docenda lingua Latina» ........................................................................... »

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Introductio (Lambertus Pigini) ....................................................... A. Quomodo et quorsum lingua Latina sit docenda et discenda? (Caelestis Eichenseer) .................................................................. B. Quomodo magistri se idoneos reddant ad linguam Latinam docendam Latine (Guido Angelino) .............................................. C. De Latinitate viva hodierna (Suitbertus H. Siedi, o.c.d.) .... D. Quomodo Latinitas viva melius possit propagari (Marius Alexa)

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Saluto dell’Em.mo Card. Opilio Rossi ................................................. Saluto del Rev.mo Superiore dell’UPS .................................................

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Saluto del Rettor Magnifico dell’UPS .................................................. Messaggio del Presidente della Cassa di Risparmio di Roma ........... Invito .......................................................................................................... Programma ................................................................................................ Contributi e interventi consegnati alla Segreteria: A. Festa (Rapporti tra la letteratura classica e cristiana) ........... G. Sega (.Didattica del greco) ......................................................... C. Coivano (Interpretazioni psicanalitiche e antropologiche della tragedia greca: applicazioni didattiche) .................................... R. Calderini (Il latino nelle scuole italiane) ................................. Adesioni .....................................................................................................

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Indice dei nomi .........................................................................................

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NOTE DI CRONACA

2. Felici S. (a cura), Cristologia e catechesi patristica -1, pp. 264, L. 15.000 ( = Bibl. Scien­ ze Rei., 31) 3. Felici S. (a cura), Cristologia e catechesi patristica - 2, pp. 200 + 8 tav. f.t., L. 12.000 (= Bibl. Scienze Rei., 42) 4. Felici S. (a cura), Ecclesiologia e catechesi patristica. «Sentirsi Chiesa», pp. 348 + 18 tav. f.t. L. 25.000 (= Bibl. Scienze Rei., 46) 5. Felici S. (a cura), Spirito Santo e catechesi patristica, pp. 304, L. 30.000 (= Bibl. Scien­ ze Rei., 54) 6. Felici S. (a cura), Catechesi battesimale e riconciliazione nei Padri del IV secolo, pp. 162 + 10 tav. f.t, L. 18.000 ( - Bibl. Scienze Rei., 60) 7. Amata B., Problemi di antropologia arnobiana, pp. 172, L. 18.000 ( = Bibl. Scienze Rei., 64) 8. Felici S. (a cura), Morte e immortalità nella catechesi dei Padri del lll-IV secolo, pp. 292, L. 35.000 (= Bibl. Scienze Rei, 66) 9. Riggi C., Epistrophe, Tensione verso la Divina Armonia. Scritti di filologia patristica raccolti in occasione del LXX genetliaco a cura di B. Amata, pp. XXVI-960, L. 70.000 (= Bibl. Scienze Rei., 70) 10. Felici S. (a cura), Spiritualità del lavoro nella catechesi dei Padri del lll-IV secolo, pp. 284 + 4 tav. f.t. L. 35.000 (= Bibl. Scienze Rei., 75) 11. Felici S. (a cura), Crescita dell’uomo nella catechesi dei Padri (età prenicena), pp. 290 + 4 tav. f.t., L. 35.000 (= Bibl. Scienze Rei., 78) 12. Felici S. (a cura), Crescita dell’uomo nella catechesi dei Padri (età postnicena), pp. 328, L. 35.000 (= Bibl. Scienze Rei., 80) 13. Amata B. (a cura), Cultura e lingue classiche (1), pp. 158, L. 20.000 14. Amata B. (a cura), Cultura e lingue classiche (2), pp. 328, L. 30.000 *

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Bonifacio E. (a cura), Gilberto di Tournai, De modo addiscendi, pp. 320, L. 15.000 Pavanetto C., Elementa linguae et grammaticae latinae, pp. 128, L. 12.500 —, Litterarum graecarum classicarum lineamenta potiora: pars prior: pp. 156, L. 20.000 pars altera: pp. 172, L. 20.000 Riggi C., Epifanio contro Mani, pp. 456, L. 18.000 Stella P.T., L’ilemorfismo di Giovanni Duns Scoto, pp. LXIV-274, L. 17.000 Tifone R., La psicolinguistica oggi, pp. 316, L. 13.000 —, L’insegnamento delle materie linguistiche e artistiche. Saggio di una didattica del­ l’espressione, pp. 368, L. 15.000

TEXTUS ET STUDIA IN HISTORIAM SCHOLASTICAE

1. D. Durandi a Sancto Porciano O.P., Quolibeta avenionensia tria. A cura di P.T. Stella, pp. VIII-332, L. 18.000 2. Petri de Palude O.P., Tractatus de potestate Papae. A cura di P.T. Stella, pp. 292, L. 15.000

STUDIA GRATIANA

Voi. Voi. Voi. Voi. Voi. Voi.

I (1953), Miscellanea, pp. XXXII-576, 42 tav. f.t., L. 42.000 Il (1954), Miscellanea, pp. 702, 47 tav. f.t., L. 48.000 Ili (1955), Miscellanea, pp. 636, 47 tav. f.t., L. 44.000 IV (1957), Miscellanea, pp. 296, 28 tav. f.t., L. 20.000 V (1957), Atti del Convegno di Bologna (1952), pp. 132, 7 tav. f.t., L. 10.000 VI (1959), Catalogo degli incunabuli e delle edizioni del «Decretum Gratiani», pp. 458, L. 32.000 Voi. VII (1959), Miscellanea, pp. 478, 28 tav. f.t., L. 32.000 Voi. Vili (1962), Miscellanea, pp. VI-642, 13 tav. f.t., L. 32.000 Voi. IX (1966), Miscellanea, pp. 584, 3 tav. f.t., L. 40.000 Voi. X (1967), Diplovataccius Th., De praestantia doctorum. Libro IX: De Claris iurisconsultis, pp. 684, L. 48.000 Voi. XI (1967), Collectanea Stephan Kuttner: I, pp. XXVI-568, 4 tav. f.t., L. 40.000 Voi. XII (1967), Collectanea Stephan Kuttner: II, pp. 584, 4 tav. f.t. a colori L. 40.000 Voi. XIII (1968), Collectanea Stephan Kuttner: Ili, pp. VIII-538, 4 tav. f.t., L. 40.000 Voi. XIV (1968), Collectanea Stephan Kuttner: IV, pp. 540, 3 tav. f.t., L. 40.000 Voi. XV (1972), Post-Scripta. Miscellanea in onore di Gaines Post, pp. XVI-790, L. 56.000 Voli. XVI-XVIl-XVI11(1975), Melnikas A., The corpus of thè miniatures in thè manuscripts of Decretum Gratiani, pp. 1270 di cui 208 tav. a col. e 1800 riproduzioni in b.n., cm. 24 x 33, L. 950.000 Voli. XIX-XX (1976), Mélanges G. Fransen, pp. XVI-960, L. 102.000 Voli. XXI-XXIl-XXI11(1978), Prerovsky U. (a cura), Liber Pontificalis nella recensione di Pietro Guglielmo OSB e del card. Pandolfo, glossato da Pietro Bohier OSB, vescovo di Orvie­ to, pp. XVI-1756, L. 234.000

STUDI GREGORIANI

Nuova Serie: Per la storia della «Libertas Ecclesia» Voi. Voi. Voi. Voi.

Vili (1970), Indici volumi l-VI, pp. XII-720, L. 30.000 IX (1972), Miscellanea sulla Riforma Gregoriana, pp. 536, L. 25.000 X (1976), Convegno internazionale di Studi Damianei (1972), pp. 344, L. 20.000 XI (1978), H.E.J. Cowdrey, Two studies in Cluniac History 1049-1126; Robinson I.S., Eine unbekannte Streitschrift Ciber die Sakramente von Exkommunizierten im Munchener Kodex Lat. 618, pp. 400, L. 28.000 Voi. XII (1985), Szabó-Bechstein B., Libertas Ecclesia. Ein Schliisselbegriff des Investiturstreits und seine Vorgeschichte. 4.-11. Jahrhundert, pp. XXIV-240, L. 36.000 N.B. I voli. I-VII rich ie d e rli d ire tta m e n te a: «B enedictina», V ia O stiense 186, 00146 ROMA

E D I T R I C E L A S - Piazza dell’Ateneo Salesiano 1 - 00139 ROMA Tel. (06) 881.21.40 - 881.20.41 - Telefax (06) 881.20.57 - ccp. 57492001