Dizionario interdisciplinare di scienza e fede. Cultura scientifica, teologia e filosofia [Vol. 2] 978-8831192651

Il rapporto tra scienza e fede è un tema centrale del dibattito contemporaneo ed è argomento ricorrente in molte pubblic

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DIZIONARIO INTERDISCIPLINARE DI

SCIENZA E FEDE CULTURA SCIENTIFICA, FILOSOFIA E TEOLOGIA

a cura di Giuseppe Tanzella-Nitti e Alberto Strumia

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U rbaniana U niversity Press

Città Nuova

© 2002, Urbaniana University Press 00120 Città del Vaticano Via Urbano VIII, 16 - 00165 Roma tel.: 06.6988.1745/2182 Fax: 06.6988.2182 e-mail: [email protected]; [email protected] web: http://www.urbaniana.edu/uup ISBN 88-401-1050-X Città Nuova Editrice Via degli Scipioni, 265 - 00192 Roma tel. 063216212 - e-mail: [email protected] ISBN 88-311-9265-5 ILLUSTRAZIONI DI COPERTINA:

In alto: La creazione del cielo (XII secolo). Monreale - Duomo. Al centro: Guido Bonatti (1230-1296), Tractatus de Nativitatt'bus (codice miniato del XIV secolo). Vienna Osterreichische Nationalbibliothek. Immagine della terra che circoscrive una serena figura di fanciullo, sintesi armonica del rapporto fra microcosmo e macrocosmo. Imprimatur:

t Mons. Cesare Nosiglia, Arcivescovo titolare di Vittoriana, Vicegerente di Roma, 25 gennaio 2002

La traduzione, l'adattamento totale o parziale, la riproduzione con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm, i film, le fotocopie), nonché la memorizzazione elettronica, sono riservati per tutti i Paesi. Finito di stampare nel mese di febbraio 2002 dalla Tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. 00148 Roma - Via S. Romano in Garfagnana, 23 - te!. 066530467 - e-mail: [email protected]

Curatori generali GIUSEPPE TANZELLA-NIITI

Pontificia Università della Santa Croce, Roma ALBERTO STRUMIA

Università degli Studi di Bari Istituto Veritatis Splendor, Bologna

Comitato scientifico Giuseppe Del Re, Fiorenzo Facchini, Eugenio Fizzotti, Mario Gargantini, Ludovico Galleni, Gualberto Gismondi, Michele Marsonet, Gaspare Mura, Andrea Porcarelli, Bernard Tommaso Vinaty

Segreteria organizzativa Alessandro Salucci Capo redattore Sandro Scalabrin Assistente di redazione Paola Bozzi

Traduttori e collaboratori Valeria Ascheri, Federica Bergamino, Fulvio Boccitto, Raffaella della Valle, Giampaolo del Monte, Serenella Morandotti, Carlo Serafini, Ettore Tovo I curatori ringraziano la John Templeton Foundation per la concessione, al Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, di un grant a sostegno delle opere dedicate al rapporto fra Scienze e Religione

RAGIONE

DH 2765-2768; Pio IX, Qui pluribus, 7.2.1878, DH 2775-2777; Concilio Vaticano /, DH 3015-3020; Pio Xli, Humani generis, DH 3892-3893; Gaudium et spes, 15; Donum veritatis, 1O; Fides et ratio, 2429, 36-48. I. Diverse accezioni del termine - II. L' esercizio della ragione all'interno della fede: la patristica e la teologia medievale - III. Il concetto "moderno" di ragione -IV. Il concetto "postmoderno" di ragione: tra ragione tecnica e "crisi" della ragione - V. Il rapporto tra la ragione e la fede nella prospettiva cristiana: la posizione del pensiero cattolico e quella dei riformatori - VI. Lariconduzione dell'esercizio della ragione all'interno di un'antropologia compiuta, aperta alla trascendenza della fede. I. Diverse accezioni del termine Nella tradizione filosofica occidentale il termine «ragione» è utilizzato per indicare I' aspetto speculativo della facoltà conoscitiva del1'uomo. L'etimologia latina di questa parola, ratio, molto probabilmente collegata alla stessa radice verbale di ratus (stabilito, definito, pensato), rimanda all'attività del "calcolare" e del "porre in relazione". Tuttavia il significato profondo di ragione si coglie in modo particolare a partire dalla sua origine greca. Il latino ratio traduce il greco l6gos, che esprime la funzione ragionatrice e discorsiva della ricerca conoscitiva umana e dell'atto del conoscere razionale: è possibile perciò comprendere in modo specifi-

co cos'è la ragione in riferimento al peculiare tipo di conoscenza alla quale essa permette di accedere. La conoscenza raggiunta attraverso la ragione è infatti diversa da quella offerta dal (...,)mito (gr. m9thos), base della esperienza religiosa greca, e da quella prodotta dalle opinioni (gr. d6xai), molto diffusa nell'esperienza quotidiana. Essa ha una connotazione tipica di solito collegata con un importante evento nella storia della cultura occidentale: la nascita della scienza filosofica in quanto interrogazione sulla totalità del reale con l'aiuto del solo l6gos. Si tratta dell'attività cognitiva dello spirito umano volta a cercare e trovare le "ragioni o cause ultime" delle cose, attraverso l'uso esclusivo del l6gos, cioè sola ratione. Sotto questo aspetto, il termine l6gos indica non solo il particolare approccio conoscitivo sulla realtà, ma anche, in senso più oggettivo, il fondamento stesso di una cosa, la sua intelligibilità, la sua essenza. Così, la storia della filosofia greca può essere globalmente letta come l'insieme di tutti i tentativi realizzati alla scoperta delle istruzioni epistemologiche necessarie per l'uso corretto del 16gos. Nella schiera dei primi grandi pensatori greci emergono - per il loro contributo fondamentale alla questione - senz'altro i nomi di Parmenide, di Socrate, ma soprattutto quelli di Platone e di Aristotele. La "seconda navigazione" di Platone (427347 a.C.) invita l'uomo dotato di l6gos a non fermarsi alle apparenze dei fenomeni: il compimento di un atto razionale richiede il passaggio dalle cose del mondo (fugaci figure della realtà) alle loro «Idee eterne», attraverso un processo dialettico reso possibile dal dialogo discorsivo (cfr. Fedone, 99d-10ld). Nel discorrere, la mente umana può approdare all'intuizione delle essenze o Idee, grazie alla reminiscenza di quanto l'anima contemplava nella pianura della verità (Iperuranio) prima di essere gettata nella storia, secondo l'antropologia platonica

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caratterizzata dalla dottrina della metempsicosi. Qui l'aspetto illuminante-intuitivo predomina nell'evento razionale. Aristotele (384-322 a.C.), invece, sottolineerà meglio il momento discorsivo: l'esperienza autentica della conoscenza è data dal giudizio. Nel giudizio l'uomo razionale stabilisce rapporti tra gli enti, scruta le relazioni significative tra essi, e, con procedimento sillogistico, giunge al sapere fondato, l'epistéme. La formulazione dei giudizi è ultimamente consentita dalla incontrovertibile presenza di alcuni "principi supremi", dei quali non è possibile alcuna dimostrazione e la cui verità può essere solo afferrata dalla mente umana: il primo di questi è il "principio di noncontraddizione" (.W METAFISICA, 1.2). Nella facoltà conoscitiva dell'uomo si delinea dunque - secondo la concezione greca una certa tensione tra l'elemento discorsivo e quello intuitivo: proprio su questa base, la terminologia filosofica perverrà successivamente alla distinzione tra "intelletto" e "ragione". In ogni caso, si registra un generalizzato consenso intorno alla definizione di ragione quale «guida autonoma dell'uomo in tutti i campi nei quali un'indagin.e o una ricerca è possibile» (Abbagnano, 1998, p. 892). Essa costituisce, cosl, la cifra della ricerca libera e rappresenta la grandezza specifica dell'uomo. Cicerone (106-43 a.C.) ha scritto: «per la ragione siamo superiori alle bestie» (De Legibus, I, 10,30); a lui ha fatto eco Boezio (480 ca.-524) con la sua famosa definizione di persona: «Persona è la sostanza individuale di natura razionale» (De duabus naturis et una persona Christi, 3). Questa determinazione fondamentale dell'umano permette di identificare ilfil rouge della storia dell'Occidente proprio nelle discussioni filosofiche e scientifiche circa il valore, i limiti, le regole e la struttura della ragione: qui è anche il luogo emblematico nel quale viene alla luce l'ininterrotta opera di confronto/contrapposizione tra la religione e la ricerca teoretica, tra il sapere filosofico e quello scientifico. Le tappe più significative di questa "lotta" sono scandite da alcuni avvenimenti-chiave della civiltà occidentale: il sorgere del cristianesimo con la necessità di un approfondimento "razionale" del suo annuncio; la grande sistemazione dell'enciclopedia del sapere umano realizzatasi nel Medioevo; il Rinascimento e la Riforma Protestante, che costituiscono il quadro di riferimento per la nascita della modernità (da Cartesio sino ad Hegel, per la

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linea filosofica, e da Galileo sino al neopositivismo, per la linea scientifica); e infine l'attuale epoca della "crisi" della ragione (espressa dalle forme del cosiddetto "pensiero debole", vedi infra, IV), nella quale a chi proclama tale condizione quale ineluttabile destino della ragione occidentale è stato rivolto dalle pagine della Fides et ratio (1998) l'invito a porre di nuovo mano alla questione della ragione per riscoprirne e rinvigorirne la capacità veritativa, la sua potente tensione metafisica oltre che sapienziale.

II. L'esercizio della ragione all'interno della fede: la patristica e la teologia medievale L'invito rivolto da parte dell'apostolo Pietro ai cristiani di essere «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (JPt 3,15), costituisce nella patristica e nella teologia medioevale il punto di riferimento imprescindibile circa il ruolo della ragione nell'opera di evangelizzazione. Realisticamente occorre notare che la Chiesa delle origini non si interessò in modo diretto del rapporto tra la ragione e la fede come una questione da dover risolvere. La Chiesa era doverosamente concentrata sull'annuncio gioioso ed entusiastico del Vangelo e sulla chiarificazione delle implicazioni morali della fede cristiana. Ma proprio in questo contesto, già a partire dal II secolo, si assiste alla nascita della cosiddetta letteratura apologetica con il suo duplice e complementare compito: da un lato rafforzare le ragioni critiche della nuova esperienza e dottrina cristiana, dall'altro respingere le accuse e le obiezioni formulate contro il cristianesimo (.W PADRI DELLA CHIESA, II). L'esecuzione di questo compito nel periodo patristico rimane altamente paradigmatica anche per la teologia di oggi, come lo fu per ogni altra epoca, anche per quella medioevale (cfr. Fides et ratio, 36-48). L'atteggiamento verso la filosofia è una preziosa spia del modo con cui i Padri declinarono il rapporto tra fede e ragione. All'inizio, cioè per tutto il II e III secolo, esso è duplice: da una parte, vi è una posizione (rintracciabile in parte già con Ireneo di Lione) più incline al sospetto, che per difendere l'integrità della fede tende a separarla nettamente dalla ragione pervenendo così alla pratica di un certo (.W) fideismo, secondo la nota espressione di Tertulliano:

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«Che cosa hanno in comune Atene e Gerusalemme? Che cosa l' AC'.cademia e la Chiesa?» (De praescriptione haereticorum, VII, 9). Dal1' altra, si registra la ricerca di un maggior dialogo e di una possibile intesa, sulla scia della teoria dei spermatikoì l6goi elaborata da Giustino, la quale ricomprende l'esercizio della ragione dei filosofi (anche di quelli prima di Cristo) come una espressione del Logos divino. In questa direzione occorre ricordare l'opera di Clemente Alessandrino, per il quale la filosofia è una buona propedeutica alla fede (-1' GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL LoGOS, I). Certo, rispetto all'elaborazione della dottrina cristiana vera e propria l'utilizzo della ragione è inteso e praticato in modo meramente strumentale. Tuttavia, già in Origene si ravvisa la nascita di una prima teologia cristiana e quindi di un esercizio "teologico" della ragione. Nei suoi numerosi scritti, e con l'intento di difendere la fede cristiana dagli attacchi del filosofo Celso (Contra Celsum), egli dichiarò che «bisogna rafforzare la fede con il ragionamento [... ] partendo dalle nozioni comuni elaborate dalla filosofia greca» (De principiis, I, 7,1). La ragione serve alla Rivelazione non solo in quanto ne permette una comprensione più adeguata, ma anche perché ne realizza una mediazione sempre più accessibile al destinatario. Nel periodo di massimo sviluppo della Patristica - a partire cioè dal IV secolo - non è difficile trovare opere di grandi sintesi nelle quali il dialogo tra fede e ragione viene elaborato e praticato in modo sommamente armonico, pervenendo a maggiore sistematizzazione: si pensi ai Padri Cappadoci che, impegnati a difendere la fede dagli attacchi del razionalismo di Eunomio, evidenziano i limiti della ragione e insistono sul riferimento alla parola rivelata. Un posto del tutto particolare occupa l'eminente figura di sant' Agostino (354-430) la cui dottrina rappresenterà per secoli un riferimento obbligato e luminoso. La sua vicenda personale lo portò più volte a riflettere sulla questione del ruolo della ragione all'interno dell'elaborazione teologica della fede (-1' AooSTINO DI IPPONA, Il), conferendole un valore positivo nonostante la sua insufficienza nell'indicare e nel raggiungere il vero scopo della vita umana: l'incontro con il Verbo Incarnato, l'unica Verità che può acquietare la mente e il cuore dell'uomo. Se a Gesù Cristo si arriva attraverso la conversione e la fede, è altrettanto vero che

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in questo cammino, nel quale tutto l'uomo è coinvolto, il contributo della ragione è importante e decisivo. «Nessuno certo crede alcunché se prima non ha pensato di doverlo credere» (De praedestinatione sanctorum, II, 5) egli afferma, senza nulla togliere all'apporto della volontà: «Con l'amore si domanda, con l'amore si cerca, con l'amore si aderisce alla rivelazione, con l'amore infine si rimane in quello che è stato rivelato» (De moribus ecclesiae, I, 17 ,31). Nella ricerca teologica, poi, grande è l'investimento di energie riservato all'esercizio della ragione nel conseguimento della Verità intera, la quale alla fine si svela come "dono" da ricevere e non è frutto di una ricerca unilaterale del soggetto. Si delinea, così, una tensione singolare di reciprocità tra ragione e fede, il cui rapporto non è pensabile quale semplice accostamento di due elementi in sé separati e autonomi, ma piuttosto dinamicamente interagenti in modo organico nell'effettività del pensare credente: credo ut intelligam e intelligo ut credam (-1' UNITÀ DEL SAPERE, VI.1). È allora possibile sostenere, in estrema sintesi, che i Padri «accolsero in pieno la ragione aperta all'assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione» (Fides et ratio, 41). I primi scrittori medievali proseguirono in maniera creativa e arricchente la prospettiva agostiniana, progressivamente sottolineando con chiarezza il primato della fede sulla ragione sotto l'influenza del modello di pensiero di Dionigi Pseudoareopagita: poiché grazie alla fede i credenti sono intimamente partecipi della Verità, ad essa devono sempre più tendere in un cammino di ascesi che si compie nell'estasi, cioè nell'unione piena con Dio. Da qui prese l'avvio la grandiosa corrente di spiritualità monastica, nella quale l'elemento centrale è proprio la fede, sostenuta dalla (-1') preghiera e mai abbandonata dal pensiero. Oltre il cliché di un Medioevo ritenuto fideistico (dovuto principalmente ad una storiografia illuministica), è necessario e opportuno riconoscere le intime tensioni che percorrono questo periodo storico, a partire soprattutto dal secolo XL La nascita delle (-1') Università, il rinnovamento del metodo di insegnamento della teologia (la disputatio ), e di scrittura dei testi teologici (la Summa), la valorizzazione della dialettica nella ricerca (attraverso la quaestio), invitano a un uso della ragione non più semplicemente strumentale, come pur avveniva nella

Ragione compilazione e nella sistemazione delle Sentenze dei Padri: la ragione diventa ora una vera e propria fonte di conoscenza di fronte alla quale anche la fede può essere posta in giudizio. Questo cambiamento di paradigma, che ovviamente non fu privo di turbamenti - come dimostra ad esempio la polemica accesa tra Pietro Abelardo e Bernardo di Chiaravalle -, fu tuttavia all'origine delle grandi opere teologiche medievali, tra le quali meritano speciale menzione quella di Anselmo di Canterbury e quella di (;r) Tommaso d'Aquino. Il motto fides quaerens intellectum (armonicamente correlato al suo inverso intellectus quaerens fidem) interpreta molto bene il programma teologico-filosofico di s. Anselmo (1033-1109). Egli crede, ma vuole capire ciò che crede. Assertore di un profondo legame tra fede e intelligenza, Anselmo apre il dialogo con il non credente e con l"'infedele", sicuro che la mente umana dischiude un itinerario di intelligenza praticabile a chiunque usi la ragione in modo onesto. Perciò egli non teme di riflettere razionalmente pregando il suo Dio: non ha timore di approntare una prova razionale dell'esistenza di Dio nell'invocazione della grazia che deve illuminarlo nel cammino della sua scoperta. La fede viene al pensiero. Il pensiero non disdegna di avanzare nella fede stessa. Una volta accolta la Rivelazione, contenuta nella Parola di Dio, il credente ha la necessità di trovare nel contenuto di fede delle ragioni, delle strutture di senso universali, in una ricerca che quasi prescinde dalla Rivelazione stessa. Per Anselmo, infatti, l'atto proprio del pensare si avvicina a quello del vedere, ed è teso a portare all'evidenza, a rendere sempre più chiaro l'oggetto al quale esso si applica. In questo modo la ragione giunge, in conclusione, ad ammettere come necessario ciò che viene detto dalla fede. Il famoso argomento del Proslogion intreccia i due livelli della riflessione unitaria di s. Anselmo: quello della "sola ragione", della motivazione critica spinta al massimo della sua necessità implicativa, e quello della fede che cerca di comprendersi, in cerca dell'intelligenza della propria misteriosa oscurità. Denominato impropriamente "Padre della Scolastica" - non esiste ancora in Anselmo la distinzione chiara tra ragione e fede, tra filosofia e teologia, come sarà riconosciuta dagli scolastici (;r TEOLOGIA, II e IV) -, egli rifondò su nuove basi la teologia con una particolare figura della ragio-

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ne che non è riconducibile né all'intellectus della patristica, né alla ratio dell'alta scolastica (cfr. Staglianò, 1996, pp. 66-88). Con gli strumenti della dialettica - dall'analisi dell'esperienza all'induzione, dal sillogismo al principio di analogia - coniugata, senza · confusioni equivocanti, con lo slancio mistico che supplisce agli inevitabili limiti dell 'intelligere, Riccardo di San Vittore (1110 ca. -1173) pretende di penetrare nelle profondità di Dio. Nonostante l'oscurità che avvolge i misteri divini: «non stanchiamoci di tentare, per quanto è lecito e possibile, di comprendere con la ragione ciò che riteniamo per fede» (De Trinitate, Prologo). Urgono, allora, non tanto argomentazioni plausibili, ma "necessarie" (rationes necessariae) per dimostrare l'esistenza della Trinità, la sua interiore dinamica e la sua attività esterna, cosi come risulta dalla regola della fede cattolica: il percorso pretende essere filosofico, logico, dialettico. Il ricorso alla ragione filosofica (o meglio a figure storiche di ragione, come quella neoplatonica e quella aristotelica) nell' esplicitazione approfondita della dottrina cristiana, richiedeva un equilibrio profondo nel rapporto tra fede e ragione, con una serie di distinzioni negli ambiti, nei rispettivi ruoli e nelle mutue possibilità di interrelazione. Solo Tommaso d' Aquino (1224-1274) organizzerà sistematicamente tale ricorso in forma compiuta, quando la teologia chiarirà meglio il proprio statuto epistemologico. La teologia, inserita nelle università, doveva darsi uno statuto scientifico, che solo dall'utilizzo della ratio autonoma poteva derivarle (;r TEOLOGIA, III; TOMMASO D'AQUINO, III-IV). L'evento culturalmente più rilevante del XIII secolo è la riscoperta di Aristotele, in particolare del suo pensiero metafisico, considerato come l'espressione della capacità veritativa della ragione pura. Tommaso, recependo la lezione metafisica di Aristotele, si dotava di uno strumento concettuale "autonomo" e poteva giungere a una maggiore distinzione degli ambiti propri della fede e della ragione - conseguentemente della filosofia e della teologia -, più di quanto il neoplatonismo agostiniano permettesse. Per s. Tommaso, l'apporto della ragione in quanto tale è indh;pensabile nella difesa e nel1' annuncio delle verità cristiane, perché essa rappresenta quanto esiste di "comune" in tutti

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gli uomini (cfr. Contra Genti/es, I, c. 2): la ragione ha i suoi propri princlpi e nel suo esercizio conoscitivo giunge alla scoperta di alcune verità (naturali) che sono preziose premesse su cui innestare il discorso tipico della religione e della fede. In questa prospettiva, Tommaso può dichiarare sia l' ("") autonomia e la libertà della ragione umana, e sia, per riferimento alla fede, i suoi strutturali limiti e la sua creaturale inferiorità, senza per altro inficiarne mai il valore. È ovvio che la rivelazione soprannaturale della fede non si sovrappone esternamente alla ricerca di senso e di verità dell'uomo, ma corrisponde alla sua profonda aspirazione alla felicità, offrendole un compimento eccedente. Per il principio tomistico "dell'armonia tra la grazia e la natura", oltre ogni contrapposizione, si ammette un reciproco servizio tra fede e ragione: la distanza e la trascendenza della fede non impediscono alla ragione «illuminata dalla fede» di offrire quanto di meglio riesce a elaborare sul piano logico e su quello metafisico per la comprensione "analogica" del mistero del Dio uno e trino("" ANALOGIA, Ili), consentendo una certa intelligibilità agli aspetti più oscuri e inaccessibili della rivelazione cristiana: la realtà, nell'unico Dio, di una molteplicità di processioni, relazioni e persone che non solo non distruggono la sua assoluta semplicità, ma ne costituiscono la stessa ragion d'essere. Il punto di partenza di Tommaso è, del resto, proprio la ("") creazione, quale opera buona di Dio, che però trova la sua piena realizzazione nell'incarnazione del Verbo e quindi nella salvezza operata da("") Gesù Cristo. Si delinea allora una duplice dimensione nell'antropologia tomistica che consente un'equilibrata valorizzazione e un armonico ordinamento dei diversi elementi propri dell'esperienza dell'uomo. Preziosa, in questa direzione, è la distinzione tomasiana tra "intelletto" e "ragione": «il nome "intelletto" infatti deriva da un'intima penetrazione della verità, mentre quello di "ragione" dalla ricerca e dal discorso» (Summa theologiae, 11-11, q. 49, a. 5, ad 3um).

III. Il concetto "moderno" di ragione Il concetto "moderno" di ragione quale guida libera e progressiva della conoscenza umana viene fatto risalire a("") Cartesio (15961650). Molti sottolineano a tal punto il ruolo di

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questo pensatore da postulare un'effettiva soluzione di continuità con la cultura precedente. In realtà, a preparare e a favorire il sorgere della riflessione cartesiana vanno indicati numerosi fattori. Già a partire da Tommaso, il quale distingue ragione e fede, e nel solco della linea teologica che da Sigieri di Bramante, passando per Duns Scoto, giunge a Guglielmo da Ockham, si assiste sempre di più all'accentuazione dell'autonomia della ragione rispetto alla fede (cfr. E. Gilson, 1930; cfr. anche Verweyen, 1990). Non bisogna poi dimenticare la "rivoluzione" rinascimentale con il suo profondo antropocentrismo, corroborato dalle nuove scoperte geografiche: si assiste all'affermarsi di una nuova forma di "spiritualità-mentalità", che introduce un'insuperabile instabilità nella visione teocentrica del mondo medioevale. Le prime ricerche di tipo scientifico, inoltre, specie a partire da F. Bacone (1561-1626), avviano quel processo di "disincanto del mondo", coerente all'instaurazione di un nuovo quadro della società dove non è più il sapiente a doversi giustificare davanti al teologo, ma viceversa. In questo contesto occorre menzionare la forza dirompente esercitata dalla Riforma protestante e dalle guerre di religione: soprattutto quest'ultime imposero lesigenza di cercare un nuovo centro di unificazione tra gli uomini, non essendo più essa garantita dalla religione, e proprio nella ragione si troverà l'istanza uni versale a cui riferirsi per l'organizzazione del sapere e del vivere quotidiano. La concezione moderna fa della ragione "l'istanza suprema e ultima" per l'orientamento dell'esistenza umana, del conoscere e dell'agire dell'uomo. Tale processo trova il suo incipit nel cogito cartesiano, per la filosofia("" DESCARTES, IV), e nell'opera di ( "") Galileo e di ("") Newton, per la scienza. Chiarito subito che intercorre una netta differenza tra il razionalismo seicentesco e quello illuministico (cfr. Bosco, 1977) - essendo quest'ultimo totalmente sganciato da una qualsivoglia prospettiva metafisica-, si può riconoscere proprio nell'insistenza con la quale Cartesio concentra la problematica filosofica sul tema della soggettività l'avvio di quel movimento di pensiero che farà della ragione il "giudice universale" su tutte le domande umane, anche quelle della religione. Per Cartesio, infatti, «la capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso - ciò che propriamente si dice buon senso o ragione - è per natura uguale in

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tutti gli uomini e, quindi, [ ... ] la diversità delle nostre opinioni non deriva dal fatto che gli uni sono più ragionevoli degli altri, ma soltanto dal condurre i nostri pensieri per diverse vie e dal non considerare le stesse cose. Non basta infatti esser dotati di un buon ingegno; importa soprattutto applicarlo bene» (Discorso sul metodo, 1637, tr. it. in "Opere filosofiche", voi. I, Torino 1994, p. 498). Da qui l'urgenza di individuare le regole idonee a indirizzare la ragione nel suo compito fondamentale di guida conoscitiva e morale dell'uomo, tenendo come paradigma di riferimento il sapere matematico. Con Cartesio e, sulla sua scia, con (,.,..) Leibniz e Spinoza, la ragione non è semplicemente una facoltà conoscitiva, ma la realtà stessa dell'essere dell'uomo (res cogitans). Successivamente, con Locke e con l'empirismo inglese, la ragione verrà intesa quale puro strumento di conoscenza probabile o, al massimo, certa. Nella disputa filosofica della modernità tra empirismo e razionalismo, la ragione illuministica troverà un trampolino di lancio per giungere alla sua più compiuta definizione nel pensiero di (,.,..) Kant, grazie all'influenza esercitata su di lui e su tanti altri pensatori illuministi dalla scienza moderna (il progetto dell' Encyclopédie), quale modello del sapere. La nascita della scienza moderna, e in particolare della fisica, a opera di Galileo (15641642), proseguita e sistematizzata poi da Newton (1642-1727) nei suoi Philosophiae naturalis principia mathematica (1687), segna uno iato molto forte con la scienza pre-moderna. L' emergere dell'elemento quantitativo su quello qualitativo, la forza probante dell'esperimento, il progressivo abbandono delle prospettive metafisiche determineranno un formidabile sviluppo nella comprensione del "funzionamento del mondo", la cui realtà ora si vuole comprendere senza aggancio al ( ,.,..) mistero. Sebbene nella maggior parte degli autori che furono protagonisti di questo cambiamento un tale sviluppo non fu interpretato in chiave anti-religiosa, esso segnò tuttavia l'ingresso in un'epoca nella quale, grazie al nuovo pensiero scientifico, quasi tutto avrebbe ricevuto ormai una spiegazione senza più ricorrere all'aiuto della teologia o della Rivelazione biblica. Se è forse esagerato ritenere che la razionalità moderna nasca proprio dalla critica al dogma cristiano e alla sua prospetti va cosmologica, derivata in gran parte dall'assunzione del modello aristotelico (cfr. Lawrence, 1999), certo è che la modernità si

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propone come un programma dichiaratamente anti-aristotelico (ma non anti-cristiano, almeno nelle intenzioni), coinvolgendo nella sua critica molte "espressioni del cristianesimo" in quanto dipendenti concettualmente dall'aristotelismo. La progressiva emancipazione e indipendenza della (,.,..) natura e dell'intelletto da ogni trascendenza e da ogni mediazione che non fosse immanente alla natura e all'intelletto stesso, produsse quella esaltata libido sciendi che pretese strappare alla realtà il mistero gelosamente custodito, invece che contemplarla con stupore. Per penetrare la realtà con tutte le energie fondamentali dell'intelletto si rendeva necessario recidere definitivamente il vincolo che teneva unite la teologia e la fisica e fu questa l'opera degli Enciclopedisti francesi (,.,.. ENCICLOPEDISMO).

"Il cielo stellato", che insieme alla legge morale interiore desta lo stupore di Kant (17241804), non è altro che proprio quell"'ordine" visibile nel cosmo ali' occhio della scienza, di cui si ritiene di svelare il segreto(,.,.. KANT, IV): da qui l'entusiasmo con il quale si indica nella ragione diventata "adulta" l'essenza stessa dell'illuminismo (cfr. Risposta alla domanda: che cos'é l'illuminismo?, 1784). Il tribunale supremo della ragione non riconosce oltre alcuna autorità: tutto è sottoposto al suo giudizio secondo il compito assegnato da Kant alla Critica della ragion pura (1781 e 17872). La ragion pura, infatti: «non s'immischia nelle controversie che si riferiscono immediatamente agli oggetti, ma è istituita per determinare e per giudicare i diritti della ragione in generale» (tr. it. RomaBari 1991 6 , p. 467). L'analisi kantiana circa le condizioni di possibilità del sapere individua nella facoltà co" noscitiva superiore dell'uomo, distinta da quella inferiore della sensibilità, due usi possibili, quello dell'intelletto e quello della ragione. «Se l'intelletto può essere una facoltà dell'unità dei fenomeni mediante le regole, la ragione è la facoltà dell'unità delle regole, dell'intelletto mediante i princìpi. Essa, dunque, non si indirizza mai immediatamente all'esperienza o a un oggetto qualsiasi, ma all'intelletto, per imprimere alle conoscenze molteplici di esso un'unità a priori per mezzo di concetti; unità, che può dir~ si razionale, ed è di tutt'altra specie da quella che può essere prodotta dall'intelletto» (ibidem, p. 240). Essendo così stabilito che solo il riferimento all'esperienza dà garanzia di conoscenza

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vera, l'uso della ragione potrà essere, con parole di Kant, semplicemente regolativo e non "costitutivo". La ragione non offre nulla da conoscere nel suo procedere argomentativo: gli oggetti a cui essa punta la sua attenzione nel ricondurre ad unità le molteplici conoscenze dell'intelletto - come l'idea di mondo, l'idea di (;r) Dio, l'idea di ("") anima-, in quanto non commisurabili con l'esperienza, danno luogo solo a conoscenze fittizie (paralogismi), se da essi si pretende una conoscenza vera e non semplicemente regolativa, se cioè si pretende che queste idee ci dicano come le cose stanno in realtà("" METAFISICA, II.4). Poiché la ragione moderna si è autoposta nelle proprie leggi e nei propri confini, essa ha posto ogni cosa all'interno del proprio orizzonte, chiudendo tutto nei propri limiti. Lo scritto kantiano del 1793 La Religione nei confini della pura ragione appare, in questo senso, non solo programmatico, ma anche conclusivo di un itinerario di pensiero che ha voluto spiazzare il "sapere critico della fede", in concreto la scienza teologica speculativa (;r KANT, I-II). La famosa espressione della prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, secondo cui Kant ha dovuto superare (aufheben) il sapere per far posto alla fede, è quanto mai significativa. L'autolimitazione della ragione teoretica solo su oggetti della esperienza possibile creava uno spazio del tutto particolare alla ragione pratica e ai suoi postulati. La fede in Dio, nella libertà e nell'immortalità dello spirito umano non più giustificabili teoreticamente venivano compresi da Kant come «religione nei confini della pura ragione», essendo la religione, obiettivamente considerata, nient'altro che la conoscenza di tutti i nostri doveri morali considerati come comandamenti divini. Un nuovo rapporto tra ragione e fede veniva, così, proposto e veicolato. Precisamente quel rapporto che sulla doverosa distinzione degli ambiti perviene ad una loro effettiva separazione, rendendo inutile (e intollerabile) qualsiasi fondazione razionale (teoretico-speculativa) del motivo di fede, in quanto la fede appare fondabile e giustificabile solo ed esclusivamente in ambito praticoetico. L'oscillazione kantiana tra un uso "assoluto" e uno "critico" della ragione sta alla base della tensione che il criticismo ha nei confronti dell'elemento religioso e la complessità dell'atteggiamento religioso dell'Illuminismo (cfr. Bosco, 1977).

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Il tratto più singolare e comune all'epoca dei Lumi in tutti i campi fondamentali del sapere (la conoscenza della natura, la religione, la gnoseologia, la psicologia, la storia, il diritto, l'estetica) resta comunque il seguente: il guadagno di una nozione di ragione, creduta unica e immutabile, che nel proprio espandersi cognitivo in tutte le diramazioni dell'esistente non si disperde, ma ritrova sempre se stessa con maggiore consapevolezza e più intensa coscienza di sé, delle proprie forze attive e delle proprie potenziali capacità intellettive, protese al dominio del tutto. Di questo tutto essa pretende (e ritiene di) poter scoprire la forma che lo pervade e governa, offrendone una sua determinazione matematica attraverso il numero e la misura. È noto come dopo Kant e in reazione al suo pensiero si è espressa l'esigenza di una ragione filosofica che non assolutizzi la "dimostrazione" come metodo esclusivo del discorrere, ma sappia giovarsi di ciò che è "altro", "eteronomo" per ampliare l'orizzonte della propria navigazione veritativa, fino all'Assoluto. Non l'intelletto, ma la fede sarà la chiave sicura e completa. È il caso solo di rilevare le tendenziali istanze fideistiche che serpeggiano abbastanza chiaramente in queste posizioni (con F.H. Jacobi e J. Hamann): è forse l'esito acritico verso cui spinge, per contrasto, ogni eccessiva assolutizzazione della ragione. Anche J.G. Herder (1744-1803) incontra la stessa questione e ne fa un motivo costante della sua critica all'Illuminismo: la ragione non è realtà originaria nell'umano, ma, pur nella sua originalità, è un prodotto e comunque realtà successiva nel dinamismo della vita cosciente dell'uomo. Così la ragione umana non è surclassata, ma contestualizzata, non impoverita, quanto alle proprie possibilità teoretiche, ma collocata al centro di una totalità più ampia, per la quale l'uomo è propriamente un essere "senziente", e questo ne riferisce opportunamente la sua natura e le sue storiche condizioni (...,. ERMENEUTICA, V.l). La ragione non crea, ma è creata: questa acquisizione permette di precisarne la sua "gettatezza esistenziale", i suoi limiti e le proprie possibilità conoscitive. Anche la ragione è una funzione di forze organiche che la precedono e la rendono ·possibile: si tratta di forze invisibili e formative dalla cui incarnazione dipende lo svolgimento del corso e dello sviluppo sia della natura che della storia umana nella sua globalità.

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Tuttavia, la ragione moderna che aveva trovato in Kant una delle sue più alte espressioni, con Georg F. Hegel (1770-1831) giungerà alla sua consumazione definitiva. Portando a termine il superamento delle aporie del sistema kantiano avviato da Fichte e da Schelling, Hegel punta decisamente sul carattere dialettico della ragione, che costituisce per lui, a differenza di Kant, la superiorità della ragione rispetto all'intelletto: essa non si pone di fronte ai concetti in modo esterno, ma li vive dall'interno nel loro passare l'uno all'altro. La "ragione hegeliana", in questo movimento, supera la distinzione tra soggettivo e oggettivo, stabilendo in se stessa l'identità di pensiero e di realtà: «L'autocoscienza, ossia la certezza che le sue determinazioni sono tanto oggettive - determinazioni dell'essenza delle cose-, quanto suoi propri pensieri, è la ragione; la quale, in quanto è siffatta identità, è non solo la sostanza assoluta, ma la verità come sapere» (G. Hegel, Enciclo-

pedia delle scienze filosofiche in compendio, 1817, tr. it. Bari 1951 3 , p. 401). La ragione è quindi lassoluto infinito che si realizza nel dispiegamento dei suoi momenti finiti non solo in sede logica ma anche in quella storica: «tutto ciò che è razionale è reale» (ibidem, p. 7). Si assiste in tal modo alla costruzione di un sistema chiuso e perfettamente necessario in ogni sua esplicitazione, dove il margine di azione libera del soggetto finito è concretamente nullo. Tutto è sottoposto alla "furbizia" della ragione e tutto riceve un'interpretazione razionale. Con Hegel il progetto cartesiano di una ragione guida autonoma dell'uomo giunge al suo compiuto apogeo. Tuttavia, nello stesso tempo, il sistema hegeliano pone le condizioni per una sua fortissima contestazione: la ragione non è più a servizio del soggetto, ma è il soggetto una funzione della ragione("" IDEALISMO, 11.1). Un analogo sviluppo può essere ravvisato nelle vicende della razionalità in campo scientifico, con un particolare riferimento al positivismo ottocentesco ("" POSITIVISMO, I). Le nuove scoperte in campo tecnico e la discussione sul1' origine della specie umana ("" DARWIN, III) favorirono la sopravvalutazione della scienza quale vero sapere-guida del genere umano, fautore di un progresso irresistibile. Esemplarmente in Auguste Comte (1798-1857), la scienza viene considerata l'autentico erede della filosofia, come questa lo sarebbe stata della religione. Il movimento che qui si avvia giungerà senza

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soluzione di continuità sino alle discussioni del Circolo di Vienna, dalle quali nasceranno il neopositivismo logico e il razionalismo critico, concentrate nell'esecuzione del programma di una "concezione scientifica del mondo" ("" PoSITIVISMO, Il). Il legame che unisce questi passaggi, e che è insieme la base. per la loro revisione, è l'ambiguo atteggiamento verso la ragione: da una parte, si registra un uso ipercritico della ragione empirica nei confronti di qualsiasi speculazione filosofica, specialmente verso quelle di tipo metafisico; dall'altra si denuncia l'acritica fiducia nei confronti della ragione empirica stessa, come nel pensiero di ("") Karl Popper, il quale con il suo programma fallibilista tenterà di dare una soluzione plausibile al1' aporia.

IV. Il concetto "postmoderno" di ragione: tra ragione tecnica e "crisi" della ragione Il passaggio dalla modernità alla contemporaneità, ormai generalmente indicato col nome di «postmodernità», è segnato da una radicale critica della ragione, di cui sono precursori indiscussi S. Kierkegaard (1813-1855), con la sua tenace difesa del "singolo", e soprattutto F. Nietzsche (1844-1900), per il quale «il mondo ci appare logico perché prima noi lo abbiamo logicizzato» (Opere, Milano 19792, vol. VIIl/2, p. 72). La post-modernità si comprende come epoca della "crisi" della ragione e della sua consapevolezza. Diversi e non sempre isolabili sono stati i fattori che hanno provocato tale situazione. Anzitutto è da menzionare la crisi della "ragione storica" (cfr. Penati, 1987), da intendere come diffuso sentimento generale - all'inizio del secolo XX - di sfiducia nei riguardi del progresso indefinito promesso dalla scienza ("" PROGRESSO, III-IV) e dalla ("") tecnologia. Magistrali interpreti di questo disagio sono soprattutto alcuni grandi scrittori d'inizio secolo, tra i quali merita un ricordo R. Musil con il suo L'uomo senza qualità (1933). Con accentuato pessimismo essi sottolineano le scarse possibilità dell'uomo di incidere in modo positivo sulla sua storia e di ritrovare punti forti di orientamento per le questioni vitali dell'esistenza. In tale contesto, il prorompente avvento delle "scienze umane" (sociologia, etnologia comparata, antropologia culturale, ecc.), mettono a

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fuoco il pesante condizionmnento culturale e storico sull'agire umano in generale e sulla ricerca scientifica in specie (;r EPISTEMOLOGIA, III). In particolare, l'avvio della psicologia analitica di (;F) Sigmund Freud (1856-1939) impose la presa di coscienza collettiva della complessità dell'operare umano personale e sociale, spesso dominato anche da dinamismi inconsci, difficilmente controllabili con i sistemi razionali collaudati in precedenza. Un'altra serie di considerazioni deve invece riguardare l'impatto sconvolgente prodotto sulla coscienza pubblica, e quindi su quella filosofica, dalle tragedie dei regimi politici totalitari, dalla seconda guerra mondiale, dai campi di concentramento con l'eccidio degli ebrei nella barbarie dell'Olocausto, dal progressivo irrigidimento dell'apparato statale sovietico (con il contemporaneo ripensamento in Europa del marxismo), dall'avvento della società consumistica con i suoi fenomeni di omologazione e di globalizzazione economica e mass-mediale (;F INFORMAZIONE, VII). In campo specificatamente filosofico, proprio negli anni Trenta, Edmund Husserl (18591938) denunciò con efficacia la minimalizzazione dell'orizzonte di ricerca e l'oscuramento delle questioni riguardanti la domanda di senso dell'esistenza umana operata dalla scienza moderna (cfr. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, 1935-1936, postuma 1954). Ad Husserl farà eco Martin Heidegger (1889-1976), per il quale, invece, l'attuale deriva della "ragione classica" in "ragione scientifica", e quindi in mera tecnica, è da leggere quale prosecuzione inevitabile e dunque "destino" di quel modello di conoscenza stabilito proprio dal l6gos greco che si vuole esattamente come dominio del pensiero sull'essere. Trattando gli enti come oggetti di manipolazione e sperimentazione, e riducendo l'essere a "fondo stabile" sul quale il soggetto può misurm·e la propria potenza pratica, nella tecnica trova la sua conclusione, per Heidegger, la metafisica occidentale dell' ontoteologia (cfr. La questione del pensiero, 1969). In tale ambito va pure ricordato tutto il dibattito, avviato da Max Weber, sulla "razionalità moderna" e sulle "nuove forme di razionalità", particolarmente acceso nella seconda metà del secolo XX (cfr. Tomasello, 1998). Insieme a quella della "ragione storica", e trasversalmente a essa, decisiva è la crisi della

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"ragione scientifica", la cui comprensione è fondamentale per intendere la crisi della "ragione ontologica". Il Novecento si apre, infatti, con la messa in discussione della fisica e della matematica, quei "saperi" ai quali si era ispirata esattamente la ragione moderna da Cartesio a Kant: si tratta di una rivoluzione che investe l'intero ambito concettuale di queste due scienze. L'avvento della teoria della (;F) relatività di Albert Einstein sfalda alla radice l'assolutezza di tutti i concetti (tempo, spazio, velocità, ecc.) su cui era fino a quel momento fondata la fisica classica e la sua comprensione delle (;r) leggi naturali. I teoremi di incompletezza (;r) Godei e la logica intuizionistica e costruttivistica di Brouwer sanzionano la dissoluzione dell'ideale dell'autofondazione del sapere matematico, in quanto l'ente matematico è riconosciuto quale prodotto di un'attività mentale costruttiva. Intanto l'evoluzione della speculazione filosofica del secolo scorso portava alla ribalta nuovi stili teorici di pensiero. Anzitutto la grande svolta della filosofia del linguaggio, poi la corrente variegata dell'esistenzialismo, e infine la prospettiva della (;r) ermeneutica (cfr. D' Agostini, 1999), tutte prospettive di pensiero che insisteranno molto sui limiti del soggetto umano, predisponendo un processo di restrizione dell'orizzonte della attività critico-teoretico fino al limite imposto dal poststrutturalismo decostruzionista di Jacques Derrida (n. 1930): qui è chiara la volontà di sostituire definitivamente la riflessione della metafisica "logocentrica" della presenza con una forma di pensiero minimalista. Semplici evocazioni, ma necessarie per comprendere adeguatamente le analisi offerte da J. Lyotard (n. 1924) nel suo testo La condizione postmoderna del 1979, riconosciuto quale terminus a quo della riflessione avviata sulla postmodernità. In questo saggio viene offerta un'immagine della società contemporanea nella quale si possono già verificare gli effetti dovuti al dissolvimento della ragione classica e dei suoi principi-guida. Perduta ogni centralizzazione dei processi sociali, la società è colta nella sua insuperabile frantumazione, con regole e linguaggi altamente specializzati, incapaci di una qualsivoglia comunicazione tra loro. In questa società i rapporti tra gli individui sono mobili e contemporaneamente complessi: si assiste ad una vera e propria diffusione di cellule "mona-

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diche" e "nomadiche" che non si riconoscono più in alcun centro. Tutto scorre velocemente e nel vortice dell'incessante trasformazione di tutto, l'eterogeneità delle visioni del mondo, riferite ai vissuti singolari degli individui e dei gruppi, irriducibilmente autonomi, consuma quella "diffusa perdita di esperienza" che è alla base della crisi di senso e di orientamento di tutti e particolarmente delle giovani generazioni; a questo contribuiscono notevolmente anche le accelerazioni impresse alla vita quotidiana dagli sviluppi tecnologici che rompono il quadro di riferimento del passato. In tale contesto anche la condizione del sapere deve mutare. Bisogna prendere atto della fine delle "grandi narrazioni" (i grand récits), che davano il senso del vero e del giusto. Permangono solo i singoli e piccoli discorsi che non aspirano ad alcuna giustificazione universale perché si è persa proprio l'istanza regolativa dell'universalità. Alla riflessione di Lyotard, di taglio socioculturale, risponde in campo filosofico l'opera a cura di G. Vattimo e P.A. Rovatti Il pensiero debole del 1983, preceduta da quella a cura di A. Gargani La crisi della ragione nel 1979. Il "pensiero debole" non si presenta, innanzitutto, come una proposta, ma come lettura della crisi della ragione moderna: è un invito a una conversione di paradigma nell'atteggiamento filosofico di fondo. I suoi teorici non ritengono più praticabile la strada di una ricostruzione della ragione, ma sostengono l'ineluttabilità della fine della "forza" progettuale del soggetto metafisico moderno (propongono un suo "dimagrimento") e della ragione che su di esso si modellava. Senza rimpiangere il passato o sperare in una ripresa futura del pensiero metafisico, occorre invece prendere coscienza dell'impossibilità delle pretese della ragione classica, aprendosi a un modo nuovo di orientarsi nel mondo con una forte connotazione etica di responsabilità per l"'altro" e per il "diverso'', ritenendo così di poter andare oltre la violenza omologante e uniformante della logica e della dialettica moderne. Con pertinenza si può sostenere che lo sviluppo concettuale del pensiero debole si basa su una semantizzazione della "ragione classica" metodologicamente non esplicitata (cfr. Volontè, 1987). Per questo, la sua critica e la sua proposta - carica di non poco pathos - fa difficoltà a portarsi oltre le semplici affermazioni di principio, per la carenza dell'esecuzio-

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ne del programma filosofico più urgente della contemporaneità: l'istituzione di un profilo post-cartesiano della ragione, alla cui esplicitazione il pensiero debole seppure in modo obliquo partecipa.

V. Il rapporto tra la ragione e la fede nella prospettiva cristiana: la posizione del pensiero cattolico e quella dei riformatori Cattolicesimo e protestantesimo esprimono modi differenti di intendere il rapporto fede e ragione, ultimamente riconducibili all~ ,l_oro diversa antropologia. ' · ·· È superficiale liquidare la riflessione di matrice protestante sul tema, sommariamente, con l'etichetta di "fideismo". Sarebbe poco rispettoso della dialettica interna al mondo nato dalla Riforma. Distinguibile è, solo per esempio, la posizione dei riformatori, più equilibrata, da quella dei loro epigoni maggiormente animati da preoccupazioni di tipo apologetico contro gli avversari cattolici (cfr. C. Karakash, G. Vincent, G-Ph. Widmer, 1995). Per(""') Lutero (1483-1546) la fede è un puro dono di Dio, a essa va data la priorità: «Dio crea la fede in noi e allo stesso modo la conserva. Per iniziare, egli dona la fede attraverso la Parola; e ancora attraverso la Parola la tiene in esercizio, la fa crescere, la rende salda e la perfeziona» (Commento alla lettera dei Galati (1535), I, 11-12, Weimarer Ausgabe, vol. 40/1, p. 130). La ragione deve essere sottomessa alla fede: la fede è infatti un dono soprannaturale, mentre la ragione, in quanto dono naturale, può esercitare la sua potenza solo sotto la sua guida. Anche perché, dopo il peccato originale, la ragione è stata consistentemente infranta e ferita, perdendo perciò la sua forza. Per questo una comprensione adeguata delle sferzanti espressioni di Lutero contro la ragione - definita anche «prostituta cieca del diavolo» (..., LUTERO, II.1) -, richiede che vengano inserite nel quadro del suo forte "staurocentrismo": solo la "croce di Cristo" è rivelazione del Dio che salva l'umanità (e la ragione) dalla condizione di male in cui versa. La manifestazione del mistero di Dio in Gesù Cristo è nello stesso tempo "rivelazione e nascondimento'', il cui concentrato simbolico è appunto la croce del Figlio di Dio, dinanzi alla quale la ragione deve riconoscere i suoi limiti strutturali. Per Lutero biso-

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gna attraversare }"'assurdo" della Croc~ per poter afferrare i raggi della luce di Dio. E necessario quindi un atteggiamento di radicale umiltà e di totale e cieco affidamento che nulla ha da spartire con i tentativi della ragione "naturale" di giungere con la sua presunzione e arroganza alla conoscenza del Creatore. La fede purifica allora la ragione, la quale, lasciata a se stessa, può provocare danni enormi in materia teologica. In sintesi, più che condannare la ragione, Lutero intende umiliarla, non per rigettarla ma per riformarla. Anche per Calvino (1509-1564) la ragione è un dono creato da Dio, ma distinto dagli altri doni soprannaturali quali la fede, la giustizia. Il peccato però attacca e corrompe la natura umana e solo l'azione dello Spirito di Cristo può guarire e restaurare la ragione, che allora può esplicare le sue potenzialità e anche ricevere un ruolo nel campo della fede. Successivamente i teologi protestanti sottolinearono maggiormente il peso della fede e l'autonomia della conoscenza teologica, lasciando alla ragione lo spazio libero della conoscenza non-teologica. Veniva in tal modo favorita l'immersione totale della ragione - ormai sganciata dal riferimento metafisico offertole dalla fede-, nel campo del1' attività delle scienze, di cui si esalta cosl la tensione dialettica rispetto alla teologia e alla fede. A motivo dell'influenza esercitata sulla teologia cattolica e su quella protestante del XX secolo, ricordiamo la posizione del teologo evangelico Karl Barth (1886-1968): l'esistenza di qualcosa come la fede è un radicale miracolo; l'uomo può aprirsi a essa solo in vittù della Parola di Dio e mai a partire dalle sue forze. Per questo Barth, soprattutto nella fase giovanile della sua ricerca, lascia trasparire come insormontabile la separazione tra la fede e la conoscenza di origine umana, condannando in modo molto severo ogni "teologia naturale", ogni tentativo di risalire a Dio con l'aiuto della sola ragione (;t DIO, IV; METAFISICA, V)), criticando aspramente il principio teorico soggiacente a ogni impresa razionalistica circa l'esistenza stessa di Dio, cioè la "cattolica" analogia entis. Nelle opere della maturità, modificando leggermente il suo pensiero, egli afferma che la fede è un atto compiuto alla luce della ragione, benché resti in ogni caso escluso qualsiasi movimento verso la fede dipendente da un'evidenza diversa da quella che è la fede stessa ad offrire.

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La posizione cattolica sul tema del rapporto tra fede e ragione (;t FEDE, IV) trova la sua più chiara formulazione in due documenti del (;t) Magistero della Chiesa: la costituzione del Concilio Vaticano I Dei Filius (1870) e l'enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio (1998). Quest'ultimo documento è espressamente dedicato al rapporto tra fede e ragione, del quale presenta una ricostruzione storica accurata sullo sfondo del tema dell'umana ricerca della (;t) verità. Il capitolo IV della Dei Filius tratta in modo specifico dell'argomento (cfr. DH 30153020). Innanzitutto si afferma che la conoscenza umana si attua entro un «duplice ordine»: quello naturale e quello soprannaturale (duplex ardo cognitionis, non solum principio, sed obiecto etiam distincto). La ragione naturale ha una portata limitata e non le è possibile accedere ai misteri nascosti in Dio: anche dopo la rivelazione di Cristo questi misteri superano le capacità di comprensione dell'intelletto umano. Fede e ragione, però, in quanto provengono da un'unica causa, Dio, non possono trovarsi se non artificiosamente in contraddizione, anzi debbono aiutarsi a vicenda. La retta ragione, infatti, mostra i fondamenti della fede e può raggiungere una certa conoscenza in materia teologica, mentre la fede invera la ragione con i dati della Rivelazione, ampliando l'orizzonte della sua indagine cognitiva. Questa posizione verrà ribadita dall'intervento di Leone XIII con l'enciclica Aeterni Patris (1879), nel riproporre il modello tomista per il rinnovamento e il rilancio della teologia cattolica, intendendo così risolvere la vexata quaestio del rapporto tra filosofia e teologia: la fede è stella di orientamento di una ragione che, alla sua luce, si rettifica e offre il proprio contributo nella conoscenza della realtà. In un contesto culturale profondamente segnato dal "nichilismo" e dalla rinuncia alla ricerca della verità, l'enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II ritorna sul tema del rapporto fede e ragione, riaffermando dal punto di vista cattolico alcune urgenze fondamentali. Nel dinamismo promettente dischiuso dalla "circolarità" di fede e ragione i pericoli nascosti nella "ragione tarlata" di alcune linee di pensiero recensite dal documento - l'eclettismo, lo storicismo, lo scientismo, il (;t) pragmatismo c il nichilismo - dovrebbero potersi superare. In una relazione armonica con la fede cristiana, la ra-

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gione umana dovrebbe trovarsi nella condizione ottimale per il suo esercizio, poiché la fede non blocca le legittime espansioni conoscitive della ragione a ogni livello, semmai stigmatizza i suoi eccessi, i suoi abusi, i suoi equivoci, quelle possibili degenerazioni che la storia ha in modo sofferto registrato e in nome delle quali gli stessi fautori della ragione autonoma oggi la vogliono cosl debole da risultare del tutto inconsistente. Ma una ragione troppo debole non orienta l'umano vivere, non aiuta nemmeno a riconoscere, almeno inizialmente, ciò che è umanamente vero e ciò che è solo illusione della mente. Non serve però nemmeno alla fede. Infatti: «è illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione» (Fides etratio, 48). Da qui l'invito a tutti, teologi, filosofi e scienziati, perché permettano il riconoscimento delle oggettive capacità della ragione di ricercare e trovare la verità. Che la ragione "sia se stessa" è importante per la fede, perché un "credere senza ragioni" (cioè senza ragione) non appartiene di fatto alla storia della coscienza credente cattolica. La tradizione cattolica registra dunque una nuova condanna del (..ir) fideismo, quale atteggiamento che crede senza tenere in conto le esigenze della ragione umana, misconoscendone le potenzialità. La forma cattolica del credere cristiano meglio si percepisce attraverso la formula di fides quaerens intellectum (fede che cerca l'intelligenza del credere), rispondendo così alla richiesta dell'apostolo Pietro circa il dovere di «rendere sempre ragione della speranza che è in noi» (JPt 3,15). Un rendere ragione che non è solo limitato all'azione caritativa, ma anche alla "testimonianza della parola", del l6gos, della ragione. La fede non può scadere nel soggettivismo e nella privatizzazione intimistica, ma deve potersi dotare di un linguaggio attraverso il quale comunicare culturalmente e razionalmente. La fede e la ragione sono chiamate, pertanto, alla reciproca collaborazione, cominciando a superare la frattura moderna tra una fede considerata solo come "irrazionale" e di una ragione ritenuta alla sua altezza solo se "scientifica". Da qui l'importanza di recuperare il carattere "conoscitivo" della fede e il valore "sapienziale" - quindi non solo meramente tecnico - della ragione aperta alle questioni di senso (cfr. Colombo, 1999).

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VI. La riconduzione dell'esercizio della ragione all'interno di un'antropologia compiuta, aperta alla trascendenza della fede La questione del rapporto fede e ragione approda cosl dal livello epistemologico a quello, fondamentale e ultimo, che è "antropologico''. La fede e la ragione, infatti, sono entrambe specifiche attuazioni dell'uomo che vive, soffre, gioisce, cerca un compimento felice dell'esistenza. Perciò devono sostenersi a vicenda: «la fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità. È Dio ad aver posto nel cuore dell'uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso» (Fides et ratio, Proemio). Due ali per l'unico volo dell'uomo, in sé profondamente unito: fede e ragione restano espressioni diverse (benché armoniche) della tensione dell'uomo alla verità, del movimento intenzionale della coscienza umana verso la realtà. Proprio questa radicazione nell'uomo garantisce l'inevitabile "unità del loro attuarsi dialettico": in quanto atto della persona, la fede non è se stessa se non perché tiene conto di tutte le. fonti e di tutte le forme di conoscenza che il soggetto ha giudicata "ragionevoli": razionalità scientifica, sapere estetico, sapienziale, morale, senza dimenticare quel sapere sempre implicato nell'ordinaria fiducia dell'altro (..W FEDE, Il). Ma anche la ragione, quale atto della persona, è se stessa solo dentro il ritmo di un'espansione conoscitiva del soggetto che giunge alla verità in quanto liberamente decide con responsabilità per essa, ultimamente affidandosi. L'orizzonte antropologico appare perciò il contesto più adeguato per reimpostare e ricomprendere la questione della ragione. Molteplici sono i sintomi che sollecitano questa impresa: per esempio, i problemi connessi con la globalizzazione del mercato e la crescente disparità nella distribuzione delle risorse tra le popolazioni del nostro pianeta richiedono una riflessione sulla giustizia sociale che non può essere affidata alle logiche delle borse e della speculazione finanziaria di una "razionalità mercantile" (..W ETICA DELLO SVILUPPO); ancora, l'integrazione sociale tra le diverse culture non può essere esclusivamente sequestrata dalle logiche di fa-

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zioni sociali o dal capriccio di alleanze di convenienza, senza aver eseguito a monte un discernimento critico capace di esibire criteri intelligenti di decisione; infine, l'avvento delle biotecnologie e della sperimentazione genetica (I' BIOETICA), se da una parte corona lo sforzo della ricerca scientifica, dall'altra apre pesanti interrogativi a cui la tecnica con la sua pretesa di autogiustificazione non intende e non può in ultima analisi dare risposta. È allora urgente riaprire il capitolo della competenza cognitiva della ragione umana e della sua capacità di fornire risposte ai tanti interrogativi che provengono dalla vita e dalla storia umana. Non basta dichiarare la "morte" della ragione classica per scongiurare il sorgere di inquietanti problemi che necessitano di una riflessione fondamentale. Filosofia, teologia e scienza sono chiamate a operare in modo sinergico per istituire un profilo della ragione capace di infrangere il riduzionismo cartesiano della soggettività totalmente risolta nella res cogitans, precisando cosi che il soggetto di ogni conoscenza della verità è la coscienza umana e non semplicemente la ragione (cfr. Angelini, 1999), e analizzando i diversi modi (etico, estetico, religioso e simbolico) che mediano il rapporto tra la coscienza e la verità, nel gioco insuperabile dell'esercizio della libertà (cfr. Sequeri, 1996). In una parola, occorre ricondurre l'esercizio della ragione all'interno di un'antropologia completa, aperta ad un trascendimento che si compie ultimamente nella fede (1' UNITÀ DEL SAPERE, VI). L'esistenza di una dimensione auto-trascendente nella conoscenza naturale è testimoniata dal fatto che l'uomo è un essere interrogante, un instancabile ricercatore della(""') verità (cfr. Fides et ratio, 28). Una Verità che lo trascende infinitamente, lo supera incommensurabilmente, eppure perdutamente lo attrae. Egli pone perciò domande, di continuo, senza arrestarsi. Lo fa con tale radicalità, da diventare domanda a se stesso. Guadagnando poco a poco campo nella conoscenza di se stesso e del mondo che lo circonda, si riconosce "animale razionale", intelligente, con la capacità di intelligere, intus-legere, leggere dentro la vita e di legare (léghein) significativamente gli avvenimenti storici nella loro pluralità e tutti gli aspetti della realtà nella loro diversità e ricchezza, portando la responsabilità di dare ordine (conferire "essere" o precisare il posto nell'essere delle singole cose) a tutto, aiutando il reale a diventare co-

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smo, ad essere colto come un tutto (1' UNIVERSO, IV), sfuggendo al non senso della frammentarietà e del disorientamento della libertà. Ma l'uomo è anche "animale linguistico", essere altamente comunicativo: ascolta e parla, annuncia e comprende, interpreta e si interroga, cerca risposte, indaga sempre oltre. La sua ragione è "ragione ermeneutica", ma non per questo condannata a restare imbrigliata nel conflitto delle interpretazioni senza mai pervenire alla conoscenza della verità (cfr. Botturi, 1997). Viene comunque qui a galla quell' apriori innato della relazionalità che, se non venisse coltivato, potrebbe condurre l'uomo all'aporia di un'esistenza di fmstrante autoripiegamento e di incomunicabilità, alla contraddizione di una vita defraudata dell'essere che è e pretende espressione: il dono che parla il linguaggio degli affetti, dell'amicizia (éros, philfa), dell'amore (agape). L'uomo è immerso nella natura, è un essere naturale, è corpo: occorre riconoscerlo contro ogni idealismo. Ma non è interamente in balia della natura, ne emerge infatti trascendendola, perché l'uomo è spirito incarnato: occorre affermarlo oltre ogni determinismo. Nella sua reale immersione naturale, egli è capacità di distanziamento e di effettiva alterità, è capacità di dare e di ricevere, è libertà di amare. Si potrebbe sintetizzare il felice guadagno con le parole della Fides et ratio: «ovunque l'uomo scopre la presenza di un richiamo all'assoluto e al trascendente, lì gli si apre uno spiraglio verso la dimensione metafisica del reale: nella verità, nella bellezza, nei valori morali, nella persona altrui, nell'essere stesso, in Dio» (n. 83). L'uomo è sl un essere interrogante, ma il suo interrogativo originario non è - come si ripete spesso a partire dalle affermazioni di Leibniz riprese da Heidegger - «perché c'è l'essere e non il nulla?». Non il "perché" del soggetto sta all'origine dell'inquietudine conoscitiva dell'uomo, ma piuttosto un'altra domanda, forse più radicale: «Man hu? Cos'è?» (cfr. Es 16,15). È la domanda della meraviglia dello sguardo che sa contemplare la realtà senza nulla imporle, lasciandola essere per quella che è. È la domanda grata di chi all'emergere di ogni realtà (cosmo o persona) si vede anticipato dalla vita in una promessa di felicità e gioia che lo invita ad agire amando, realizzando se stesso come persona tra persone nel mondo, nell"apertura al Dio trascendente, ultimo garante (e testimone nella credibilità storica del Cristo croci-

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fisso e risorto) dell'infinita capacità d'amore insita nella libertà dell'uomo. Che la coscienza umana sia capace di fare proprie le ragioni della scienza, della filosofia e della fede, è un'esigenza dell'unità della realtà e dell'unità della persona (.ir UNITÀ DEL SAPERE, IV-VI). La realtà non si lascia afferrare unilateralmente, chiede invece "sinergia" anche nell'approccio cognitivo, e questo almeno sotto tre specifici aspetti (cfr. Baronchelli, 1999): l'uomo tenta di descriverla in ogni suo movimento, dall'infinitamente grande dell'evoluzione cosmologica all'infinitamente piccolo delle particelle atomiche e subatomiche, attraverso la scienza; di contemplarla nella sua globalità di essere e nelle sue ultime strutture fondanti, attraverso la filosofia; di riconoscerla nella sua apertura interiore al Trascendente assoluto che ne permette il suo continuo evolversi verso sempre nuova ricchezza di vita e di essere, attraverso la teologia. Dal canto suo, la persona coglie l'esigenza di questa sinergia attraverso l'unità della sua risposta, nella fede, a Dio che si rivela, la cui Parola offre le ragioni che svelano il senso piò profondo di ciascuno di quei livelli (.ir RIDUZIONISMO, V). Entro questa sinergia, imposta dunque dalla realtà e dettata dall'unità della coscienza umana che vi accede, sarà possibile ribadire il carattere cognitivo della fede stessa, quale vero principio epistemico, riscoprendo anche che l'orizzonte all'interno del quale si esercita l'attività specifica della sua ragione riflessa è più ampio di quello legato al "tecnicamente" manipolabile o allo "scientificamente" comprensibile. In particolare le questioni di senso impongono un'attuazione della ragione "non incurvata" o chiusa in se stessa, ma aperta e disponibile alla promessa di felicità e di giustizia che abita la soggettività umana. ANTONIO STAGLIANÒ

Vedi: FEDE; FIDEISMO; IDEALISMO; METAFISICA; TEOLOGIA; UNITÀ DEL SAPERE; VERITÀ; DESCARTES, R., KANT, I.; TOMMASO D'AQUINO.

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I. Principali significati del termine - Il. Il realismo metafisico - III. Problema del realismo e problema della verità - IV. Il realismo della scienza naturale moderna V. La crisi delle scienze esatte e la sua lettura come crisi della verità scientifica - VI. Il quadro anti-realista dell'epistemologia analitica contemporanea - VII. Il riguadagno della portata conoscitiva e veritativa della scienza - VIII. Difesa del realismo scientifico - IX. Importanza del realismo rispetto al contesto generale della filosofia - X. Suggerimenti bibliografici. I. Principali significati del termine Il termine «realismo» ha assunto vari significati nella storia del pensiero, e non ha un grande interesse passarli tutti in rassegna. Ci limiteremo a ricordarne due principali. Si usa generalmente denominare con «realismo» un certo insieme di dottrine sostenute da filosofi medievali nella famosa "disputa sugli universali", distinguendolo dal «concettualismo» e dal «nominalismo». A sua volta, si suole ulteriormente distinguere un «realismo esagerato» da un «realismo moderato». In sostanza, il problema che origina queste differenze riguarda il "tipo di realtà" che si deve attribuire a quegli universali che sono i generi e le specie: si tratta quindi di un dibattito di natura squisitamente "ontologica". I realisti detti "esagerati" sostenevano

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che questi universali hanno un'esistenza piena e autonoma in sé (l'esempio classico è quello delle Idee platoniche). Per usare una terminologia aristotelica, diremo che per i realisti esagerati gli universali (ossia i caratteri intelligibili delle cose) hanno lo statuto ontologico di vere e proprie "sostanze" (immateriali). I nominalisti sostenevano che la realtà in sé appartiene soltanto agli individui concreti e materiali, cosicché gli universali si riducono a "nomi", con i quali noi raggruppiamo terminologicamente gli enti che mostrano certe somiglianze (si tratta in sostanza dell'espressione di un empirismo radicale, che svaluta la portata autenticamente conoscitiva dell'intelletto). I concettualisti riconoscevano una certa realtà degli universali, riducendoli però a semplici "enti di ragione", quali sono appunto i concetti: essi, pertanto, hanno un certo grado di realtà, ma unicamente di tipo mentale. Infine, i realisti detti "moderati", accogliendo l'insegnamento di Aristotele, riconoscevano che gli universali, in quanto essenze, hanno un'effettiva esistenza nella realtà, di cui costituiscono l'aspetto intelligibile, ed hanno pure un'esistenza nell'intelletto, in quanto questo è capace di astrarli dalla realtà sensibile. Questo realismo viene detto "moderato" in quanto agli universali viene riconosciuta un'esistenza "nella realtà", tuttavia non in forma di sostanza, in quanto né la materia, né la forma (per usare la terminologia aristotelica) sono sostanze, bensì tale è soltanto (in senso pieno) il sinolo di materia e forma. Inoltre, in quanto presenti nell'intelletto sotto forma di concetti, essi hanno pure una realtà di tipo mentale. Questa posizione, sostenuta in particolare da ("') Tommaso d'Aquino, implicava il riconoscimento di una "intuizione intellettuale" (che si opera a partire dal sens.ibile). È in certo senso curioso che la precedente suddivisione, per quanto riferentesi ad un con-

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testo storico tanto remoto, affiori in certi autori contemporanei. Ad esempio, W.O. Quine (1908-2000) (cfr. Il problema del significato, Roma 1966) riprende il problema degli universali, distinguendo le posizioni del realismo, del concettualismo e del nominalismo, ma identificando sommariamente il realismo con il platonismo (ossia ignorando completamente il realismo moderato). Per quanto un po' curiosa (soprattutto per l'ignoranza storica che spesso rivela), questa ripresa della vecchia problematica non è del tutto sorprendente, tenuto conto dell'empirismo radicale che caratterizza la filosofia analitica contemporanea e la sua negazione dell'intuizione intellettuale, cosicché il nominalismo finisce con l'essere la posizione preferita, e ha dato luogo anche a teorizzazioni non certo disprezzabili, fra le quali basti qui menzionare (oltre al già citato Quine) quella di Nelson Goodman (cfr. The Structure of Appearence, 1951; Ways of World-making, 1978; Of Mind and Other Matters, 1984). Non possiamo qui soffermarci sulle notevoli difficoltà teoretiche che deve affrontare il nominalismo contemporaneo come conseguenza di aver ammesso come esistenti unicamente gli individui e aver ignorato la specificità dell'intuizione intellettuale; basti dire che, dal punto di vista strettamente tecnico, gli riesce molto difficile maneggiare nozioni fondamentali come quelle di insieme("' CANTOR, IV-V) e di("') infinito e, dal punto di vista gnoseologico, è costretto a manovre "linguistiche" assai artificiose per offrire un'interpretazione degli universali coerente con i suoi presupposti. L'altra accezione di «realismo» si sviluppa in seno alla filosofia moderna dove sta a indicare l'opposto di «idealismo». Essa ha una connotazione prettamente gnoseologica, e deriva direttamente da quel "dualismo gnoseologico" che fa da presupposto dogmatico e inconsapevole alla filosofia moderna la quale, avendo perduto il concetto classico di "identità intenzionale" fra essere e pensiero, afferma che noi conosciamo le nostre rappresentazioni (che vengono chiamate idee) e non le cose. Si pone pertanto il problema di sapere se, partendo da queste basi, è ancora possibile parlare di una conoscenza della realtà (realismo), o se per noi la realtà si riduce al contenuto delle nostre idee (;t IDEALISMO). Nella filosofia moderna, sia il realismo che l'idealismo soffrono di un male comune,

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ossia dell'aver ignorato la vera natura dell'intuizione intellettuale. Gli empiristi la negano in senso assoluto, i razionalisti l'ammettono come capacità dell'intelletto di aver presenti i propri contenuti astratti, ma anche in questo caso si tratta di una intuizione di essenze, e non di quella intuizione astraente che sa cogliere l'intelligibile nelle realtà sensibili grazie all'identità intenzionale di cui già si è detto. ("') Kant, che si era preoccupato di offrire una teoria della conoscenza che in qualche modo potesse raggiungere un mondo indipendente dall'intelletto, dedica un capitolo della Critica della Ragion Pura ad una «Confutazione dell'idealismo» e presenta la sua posizione come un «idealismo trascendentale» che è nello stesso tempo un realismo empirico, fondata sulla sua concezione della pura "recettività" passiva del senso (che però è capace di "intuire"), cui si accompagna l'attività unificatrice e ordinatrice dell'intelletto (che però non "intuisce"), grazie alla quale le impressioni sensibili vengono ordinate in un mondo di "oggetti". Questi però non sono la "realtà in sé" (che per Kant rimane inconoscibile), bensì un mondo di "fenomeni" (ossia di pure apparenze) cui l'opera trascendentale dell'intelletto conferisce lo statuto di una struttura universale e necessaria. Il superamento del dualismo gnoseologico di cui Kant era ancora prigioniero è stato compiuto dall'Idealismo trascendentale, il quale ha riguadagnato l'identità di essere e pensiero, ma concependola non già come identità intenzionale, bensì come identità ontologica (ossia riducendo l'essere al pensiero; ;r IDEALISMO II). Anche per l'idealismo, pertanto, l'intuizione intellettuale è una intuizione di essenze che, lungi dal prendere le mosse dal1' esperienza sensibile, cerca di "dedurre" dalla riflessione razionale sulle essenze i contenuti molteplici dell'esperienza, ossia di affermare !"'esistenza" del reale empirico così come si presenta ai sensi.

IL Il realismo metafisico L'espressione «realismo metafisico» è stata coniata, o per lo meno rimessa in circolazione, in anni recenti ad opera di Hilary Putnam (n. 1926) il quale, occupandosi del realismo scientifico, rifiuta quello che egli chiama, appunto, «realismo metafisico» e che, secondo lui, si identifica con la tesi dell'esistenza di una realtà

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in sé completamente autonoma e distinta dal soggetto conoscente e la cui conoscenza adeguata sarebbe possibile soltanto disponendo dell"'occhio di Dio", mentre la scienza non dispone di tale possibilità di conoscenza totale e infallibile dei propri oggetti. In questo senso si può dire che la sua posizione rientra in una tendenza oggi abbastanza diffusa che vuol distinguere un realismo detto "ingenuo" (e che sarebbe quello del senso comune, persuaso non solo che esistono cose indipendenti dal nostro pensiero, ma anche che noi siamo in grado di conoscerle cosl come sono), da un realismo detto "critico" che, in sostanza, riconosce una certa portata realistica solo alla conoscenza scientifica (-1' DIALOGO SCIENZE-TEOLOGIA, Il). Osserviamo di passaggio che l'espressione «realismo critico» era già stata impiegata agli inizi del Novecento da parte di autori aderenti al realismo di tipo classico ma che, preoccupati di contrastare le difficoltà mosse dal pensiero idealistico allora molto influente, avevano cercato di mostrare - in realtà in modo non sempre perspicuo - come la posizione realista si potesse riguadagnare pur accettando certe impostazioni idealistiche e superandole. Noi intendiamo viceversa come «realismo metafisico» una posizione meno pretenziosa, ossia quella che, in sostanza, si limita a recuperare l'identità intenzionale fra essere e pensiero anche nel caso del1'uomo. Ciò significa che il nostro pensiero è in grado di cogliere l'essere e, grazie alla capacità astrattiva dell'intelletto, di intuirne alcune caratteristiche essenziali. In questa impresa conoscitiva l'intelletto non perde i suoi caratteri di finitezza, che consistono essenzialmente in due fatti: in primo luogo nel fatto che lastrazione intellettuale parte necessariamente dai contenuti dell'(-1') esperienza sensibile; in secondo luogo che I' elaborazione di un sapere a partire dall'astrazione di alcuni (e solo alcuni) caratteri generalissimi dell'essere avviene mediante il lavoro della ragione che inferisce e dimostra. Tale lavoro conduce all'elaborazione di una conoscenza della "realtà in quanto tale", che viene appunto detta metafisica secondo l'accezione classica di questo concetto (che risale alla definizione aristotelica di «Scienza prima»; (;r METAFISICA 11.1). Pur trattandosi di una conoscenza che si pone "dal punto di vista dell'intero" (proprio perché si occupa della realtà in quanto tale, dalla quale niente può debordare, poiché fuori dalla realtà

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non si dà altro che il nulla), non pretende di essere una conoscenza del "tutto", ossia della "totalità del reale" nelle sue infinite determinazioni. Per questo il realismo metafisico che qui difendiamo non si identifica con una conoscenza "dell'occhio di Dio", ma riveste un significato duplice. In primo luogo, un significato "metodologico", ossia il rifiuto del presupposto dualistico, di cui continua ad essere prigioniera anche la filosofia analitica contemporanea, secondo cui noi non conosciamo le cose, ma solo le nostre rappresentazioni (presupposto rafforzato in tale filosofia dalla tesi della "intrascendibilità del linguaggio", che frappone un'ulteriore barriera conoscitiva a quella "intrascendibilità del pensiero" che aveva caratterizzato la filosofia moderna), e ciò perché riconosce che il contenuto del pensiero altro non è che la realtà in quanto ad esso presente intenzionalmente, e non già in quanto semplicemente "rappresentata". In secondo luogo, riveste un significato anche disciplinare, in quanto riconosce al pensiero, nel suo sforzo di elaborare una conoscenza del reale in quanto tale, il diritto di accedere a conoscenze non direttamente astratte dall'esperienza, ossia di costruire una metafisica dotata delle caratteristiche di un sapere anche in quelle sue affermazioni che trascendono il campo dell'esperienza sensibile. Il compito che ci proponiamo in questa sede non è quello di sviluppare il realismo metafisico in questo secondo aspetto (ossia di indicare come si giustifica un "sapere metafisico"), bensl quello di mostrare come il realismo metafisico, inteso nel suo senso metodologico, è in grado di dar conto della conoscenza scientifica in modo più adeguato di quanto riescano a fare le concezioni anti-realistiche di tanta parte della filosofia della scienza attuale.

III. Problema del realismo e problema della verità La definizione classica della verità come "adeguazione dell'intelletto e della realtà" non soltanto corrisponde al modo con cui anche il senso comune concepisce la verità, ma non è stata mai rifiutata nella storia del pensiero (ivi incluso il pensiei"o contemporaneo; ;r VERITÀ, 11.1 ). Il dualismo gnoseologico introdotto dalla filosofia moderna ha avuto tuttavia leffetto di declassare tale definizione allo stato di pura definizione nominale (come si legge esplicita-

Realismo mente in Cartesio e Kant, ma implicitamente in moltissimi altri autori) in quanto, avendo presupposto che noi non conosciamo la realtà, ma le nostre rappresentazioni, ha fatto sorgere il problema di sapere "come" noi possiamo garantirci che le nostre rappresentazioni corrispondano alla realtà. In altri termini, nessun pensatore che si occupi seriamente del problema della verità mette in dubbio che, ad esempio, la proposizione «c'è un gatto su questo divano» è vera se e solo se "in realtà" c'è un gatto su questo divano: la questione che viene posta è quella di come sappiamo se c'è realmente un gatto sul divano. Per questo l'interesse della riflessione filosofica si è spostato interamente sui "criteri di verità". Le vie intraprese hanno dato luogo sostanzialmente a due tipi di teorie: la prima è la «teoria coerentista» della verità, secondo la quale, se siamo in grado di costruire un quadro logicamente coerente di tutte le nostre rappresentazioni, siamo autorizzati a ritenere che tale quadro corrisponda alla struttura della realtà così come essa è. Iniziata (implicitamente) da ("') Cartesio, questa impresa mostrò ben presto, specie in ("') Leibinz, la sua maggior difficoltà, consistente nel fatto che essa implica una "analisi infinita". Hegel accettò la sfida e, dopo aver dichiarato esplicitamente che «il vero è l'intero», si accinse a ricostruire logicamente il contenuto dell'intero, ritenendo che fosse possibile dedurre logicamente il reale concreto da una pura ispezione razionale del pensabile, ma proprio questa pretesa di dedurre I"'esistenza dalle essenze" (ignorando un avvertimento in tal senso già espresso da Aristotele, ribadito da Tommaso d'Aquino e altri pensatori scolastici, e dallo stesso Kant) condusse al naufragio il suo idealismo trascendentale e quelle dottrine che cercarono di salvarlo mediante opportune correzioni. L'altra strada fu battuta dalle filosofie empiriste che, presupponendo acriticamente l'esistenza di un "mondo esterno" di oggetti materiali (presupposto "naturalistico"), e aderendo (altrettanto acriticamente) al paradigma causale della scienza moderna, affermarono che noi possiamo fidarci delle sensazioni come accesso alla realtà poiché queste sono il risultato di un'azione fisica del mondo esterno sui nostri sensi. L'intelletto non apporta nulla di proprio alla conoscenza, in quanto la sua attività corretta consiste soltanto in un comporre e organizzare i contenuti delle sensazioni, senza aggiungere nulla di suo (e

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quindi ponendoci al riparo da ogni possibile distorsione del reale). Persino Kant si lasciò irretire in questo equivoco, quando affermò la «passività del senso» e, almeno in un primo momento, scivolò in quella «concezione causale del noumeno» (ossia in quella tesi secondo cui dobbiamo ammettere i noumeni come ciò da cui provengono le nostre impressioni sensibili) che si vide costretto a lasciar cadere nella seconda edizione della Critica della ragion pura (1787). Era troppo chiaro, infatti, che non è lecito (nel criticismo kantiano) applicare la categoria della causalità al di fuori della sfera dei fenomeni (di qui la lapidaria affermazione di Jacobi : «senza la cosa in sé non si entra nel criticismo, ma con la cosa in sé nòn vi si rimane», da cui prese avvio la famosa "eliminazione della cosa in sé" che costituì il compito immane addossatosi dall'Idealismo trascendentale). A dispetto di tutto ciò, lempirismo radicale che permea tanta parte della filosofia contemporanea ha indotto a rispolverare questa vecchia concezione, nelle diverse forme di quella "teoria causale della percezione" che si coniuga molto bene col programma di "naturalizzazione della conoscenza" esso pure inaugurato da Quine e oggi di gran moda. La debolezza di tale posizione era già sta'ta evidenziata in un'efficace osservazione di Cartesio: la sensazione di solletico prodotta dallo sfregamento di una piuma sulla pelle non assomiglia in nulla alla piuma che l'ha causata. In altri termini, ogni teoria di questo tipo ignora la differenza ontologica sussistente fra i due ordini di realtà: quello fisico e quello psichico (includendo in esso la sfera percettiva e quella in senso lato mentale). Solo un realismo metafisico (nel senso qui chiarito e difeso) è in grado di evitare simili scogli, in quanto per esso il conoscere è semplicemente la "presenza" di un ente alle nostre facoltà conoscitive: in tale presenza consiste la rappresentazione, che pertanto non è un qualcosa che viene dal di fuori, che è prodotto dal reale, ma è il reale medesimo con cui si identifica (intenzionalmente) la facoltà conoscitiva. E ciò vale tanto per il senso quanto per l'intelletto, i quali hanno "presente" il reale secondo le caratteristiche loro proprie: ogni senso, essendo caratterizzato da una propria fisicità, può aver presenti soltanto certe qualità, appunto, "sensibili" e non altre. L'intelletto, invece, potendo "conoscere tutte le cose", ossia, come nota Tommaso d'Aquino, avendo la possibilità di

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«divenire in certo modo tutte le cose» (cfr. Summa theologiae, I, q. 14, a. 1; q. 16, a. 3), ossia di identificarsi intenzionalmente con qualunque oggetto, può cogliere tutti gli intelligibili, in quanto non ha una sua physis, una "fisicità" particolare, il che, fra l'altro, è una prova della sua immaterialità. L'aver smarrito questa essenziale consapevolezza è uno dei punti di maggior debolezza del kantismo, che ha creduto di offrire una teoria delle strutture proprie dell'intelletto che costringono il reale a "regolarsi" su di esso, subendone l'inquadramento categoriale.

IV. Il realismo della scienza naturale moderna Per quanto l'anti-realismo sia una posizione filosofica che pretende di trarre le sue giustificazioni da una comprensione adeguata del tipo di conoscenza che si realizza nelle scienze naturali, va detto che, in realtà, la scienza moderna si costituì entro un quadro concettuale autenticamente realista. (;r) Galileo e(""') Newton infatti (per limitarci ai due esempi più paradigmatici), sostennero indubbiamente che, nel caso delle «sostanze naturali» (ossia degli oggetti e processi fisici, e solo in tal caso), noi non possiamo penetrare la loro «essenza vera ed intrinseca» (Galileo), o conoscere le loro «qualità occulte» (Newton), ma con ciò intesero negare che la scienza fisica possa avvalersi di quella conoscenza "dell'occhio di Dio" di cui già si è detto. Secondo loro, tuttavia, noi possiamo conoscere certi "accidenti reali" del mondo fisico (Galileo), ossia dei "fenomeni" intesi come "qualità manifeste" delle cose (Newton). Queste caratteristiche si colgono attraverso i sensi, ma sono lette e interpretate dall'intelletto, che, in particolare, è in grado di matematizzarle e di costruire dei modelli "ideali" dei processi fisici che vengono poi sottoposti al controllo dell'esperimento, che a sua volta, pur comportando l'osservazione sensibile, è una situazione idealizzata artificialmente costruita per porre in evidenza soltanto gli attributi della realtà che sono stati "astratti" dalla lettura intellettuale. Fu Kant a fornire la prima lettura anti-realista delle scienze naturali, in quanto pretese di interpretare la innegabile forza conoscitiva di queste entro il quadro di quel presupposto dualistico che egli condivideva con tutto il pensie-

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ro moderno (presupposto condensato nella sua famosa tesi che noi non possiamo conoscere le "cose in sé"). Secondo lui, noi conosciamo soltanto fenomeni di natura sensoriale (i quali, però, diventano per lui "pure apparenze'', e non sono più caratteristiche "manifeste" del reale fisico), e li unifichiamo in un mondo di "oggetti" grazie all'opera sistematrice del nostro intelletto che impone loro le sue forme pure ·a priori (ossia le "categorie"). Questo radicale passaggio avviene non soltanto in forza del presupposto dualistico, ma anche in forza di un secondo presupposto, ossia della negazione dell'intuizione intellettuale: per Kant (come già si è detto) solo il senso intuisce, mentre l'intelletto si limita ad unificare le intuizioni sensibili, producendo una conoscenza universale e necessaria degli oggetti che, però, non sono più le "cose reali". Questa concezione kantiana è perdurata lungamente in seno alle interpretazioni "filosofiche" della conoscenza umana in generale, e di quella scientifica in particolare (ed è rintracciabile, in forme spesso inconsapevoli, anche in posizioni della filosofia analitica della scienza contemporanee). Va per altro riconosciuto che i grandi successi conoscitivi e applicativi della scienza durante l'Ottocento diminuirono l'impatto culturale delle tesi kantiane e, a livello di convinzione comune, prevalse la visione positivista, secondo cui la scienza è in grado di fornirci una conoscenza "vera" e sicura della realtà (""' PosITiVISMO). Per questo la crisi delle scienze esatte maturata alla fine dell'Ottocento trascinò con sé anche una crisi profonda del realismo (dapprima scientifico, e poi in senso generale).

V. La crisi delle scienze esatte e la sua lettura come crisi della verità scientifica È noto che, verso la fine dell'Ottocento, tanto le matematiche quanto la fisica attraversarono una crisi profonda. Limitandoci alla fisica, basti dire che la (""') meccanica, nonostante i suoi superbi sviluppi teorici e pratici, si era mostrata inadeguata ad assorbire nei suoi quadri interpretativi ed esplicativi i nuovi settori della termodinamica e dell'elettromagnetismo, ancor prima che l'avvento della teoria della(""') relatività e della (""') meccanica quantistica evidenziasse, agli inizi del Novecento, la necessità di abbandonare, o modificare profondamente,

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molti concetti, leggi e princlpi di quella che, ormai, venne chiamata la "fisica classica". L'interpretazione generale che fu offerta di una simile crisi fu che la fisica classica si era rivelata "falsa" nello studio della natura. 1\1ttavia, non ne fu tratta la conclusione che, pertanto, ci si doveva impegnare a scoprire una nuova teoria fisica "vera", bensl, a partire da Ernst Mach (18381916), si affermò che nelle scienze non v'è da ricercare alcuna verità, e addirittura alcuna pretesa di conoscenza. Questa, infatti, è contenuta esclusivamente nelle percezioni sensoriali , mentre concetti, leggi, princlpi e teorie servono nelle scienze soltanto per organizzare i dati percettivi in modo economicamente utile per far previsioni e applicazioni. Questo "empirismo radicale", svalutando una volta ancora l'intuizione intellettuale, riduceva il lavoro teorico della scienza alla proposta di "convenzioni" che si conservano fin tanto che servono, e si cambiano quando non servono più. In tal modo andava perduta quella che a molti era parsa la più solida forma della verità, ossia la verità scientifica, e alla scienza veniva addirittura negato un valore conoscitivo (;F EPISTEMOWGIA, Il).

VI. Il quadro anti-realista dell'epistemologia analitica contemporanea

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dei termini osservativi (ossia di quelli che esprimono nel linguaggio il riferimento diretto all'esperienza sensibile). Ma neppure questo sforzo ebbe successo, poiché gli sviluppi della filosofia analitica del linguaggio approdarono a far dipendere interamente il significato dei termini (ivi compresi quelli osservativi) dal1' intero "contesto" teorico (olismo semantico di Quine), cosicché si perdeva non soltanto la possibilità di un riferimento empirico-fattuale della scienza, ma addirittura la possibilità di confrontare teorie rivali sulla base delle risultanze sperimentali. Pertanto quel debolissimo e inadeguato sapore "realistico", che ancora permaneva nel primitivo neopositivismo, grazie alla sua ispirazione empirista, si perde del tutto nelle nuove epistemologie di stampo analitico che, ormai, si qualificano come post-empiriste. La scienza non conosce la realtà, ma può solo "costruirsi i propri oggetti" e i propri dati, accontentandosi di una coerenza interna che non le assicura neppure una superiorità conoscitiva rispetto alle pseudoscienze, come l'(;r) alchimia, l'astrologia o la magia (conclusioni estreme cui perviene, ad esempio, P. Feyerabend nell'ultima sua opera di rilievo: Farewell to Reason, 1988).

VII. Il riguadagno della portata conoscitiva e veritativa della scienza

La situazione non migliorò di molto neppure in seno a quella corrente del pensiero noQuella sopra delineata è la conclusione vecentesco che riaffermò in modo perentorio della più diffusa e influente epistemologia conl'esclusività della scienza come impresa conotemporanea (non ci è possibile, in questa sede, scitiva (impegnandosi in una lotta programmasoffermarci sulle forme molto diversificate sia tica contro la metafisica), ossia in seno al neodi realismo che di anti-realismo che in essa sopositivismo logico (;r POSITIVISMO, II). Questo, no presenti), ma non è detto che essa debba esinfatti, sostenne un empirismo radicale e lo acsere l'ultima parola dell'epistemologia attuale. Per riguadagnare una comprensione più corretcompagnò con una rivalutazione della (;F) rata della scienza è necessario (e sufficiente) riafgione, intesa però come pura attività calcolistifermare tre punti: recuperare la legittimità e la ca, dimostrativa, analitica, che assicura il rigofunzione dell'intuizione intellettuale, superare re, ma senza apportare nuove conoscenze (;r RAGIONE, III-IV). Per giunta, questa svalutail riduzionismo linguistico, riconoscere la dizione del pensiero si iscrisse in un'adesione a mensione referenziale della scienza. quella svolta linguistica che ha caratterizzato Per quanto concerne il primo punto, si trattanta parte della filosofia contemporanea, co- _ ta di riconoscere che ogni scienza si istituisce considerando la realtà da un certo "punto di visicché la stessa scienza venne ridotta ad un insieme di costruzioni linguistiche, nelle quali lo sta", ossia limitando la sua indagine a un nusforzo dei neoempiristi logici cercò di mostrare mero ristretto di attributi che l'intelletto astrae la eliminabilità di principio dei termini "teoridal concreto, e a partire dai quali viene coci", grazie ad una loro riduzione, per mezzo di struendo una certa immagine ideale o modello complesse procedure definitorie, al significato ideale entro cui si cercano di comprendere e

R spiegare i fenomeni (ossia quel campo di oggetti che sono stati "ritagliati" entro la realtà grazie alla selezione di quei determinati attributi). Questo modello è un contenuto di pensiero, che deve esplicitarsi in un numero adeguato di ipotesi formulate linguisticamente. L'insieme di queste ipotesi costituisce la "teoria" scientifica che, da questo punto di vista, è per davvero un costrutto linguistico, ma che "esprime" il modello intellettuale. Ogni scienza empirica, tuttavia, si preoccupa di collegare alcuni dei suoi predicati di base a ben determinate procedure operazionali (solitamente di osservazione e di misura), che ne costituiscono la dimensione referenziale, in quanto esse si applicano alla realtà concreta delle cose e, in particolare, consentono di controllare intersoggettivamente, mediante gli esperimenti, quelle conclusioni che la teoria consente di dedurre dalle ipotesi. A questo punto si può riprendere in esame il concetto di (-") verità. Questa è una proprietà del giudizio e, per estensione, della proposizione che lo esprime, e spetta al giudizio affermare, a proposito di ciò a cui si riferisce, ossia del suo "referente", ciò che esso è realmente (utilizzando una terminologia tradizionale, che tuttavia oggi rischia di esser fraintesa per il cambiamento storicamente subito dai termini che essa usa, si direbbe che la "verità logica" del giudizio consiste nel suo esprimere la "verità ontologica" di ciò che l'oggetto cui il giudizio si riferisce è "realmente"). Quindi una proposizione non è mai vera (o falsa) di per sé, ma solo "relativamente" agli oggetti o referenti di cui parla. Pertanto le proposizioni di una scienza sono vere o false non in senso assoluto, ma solo relativamente ai suoi referenti. Si vede pertanto che le proposizioni contenenti esclusivamente predicati operazionali risultano "immediatamente" vere o false (dei loro referenti) e anche le ipotesi e le teorie sono necessariamente vere o false a proposito dei loro oggetti (non possiamo qui soffermarci a chiarire in che senso si può estendere il concetto di verità dalle singole proposizioni alle teorie). A questo punto non è difficile capire che, quando si affermava che la fisica classica si era rivelata "falsa", si immaginava che essa si riferisse alla realtà fisica in senso assoluto, ossia totale, mentre anch'essa non poteva far altro che riferirsi a un suo delimitato campo di oggetti e, "a proposito di questi", essa rimane vera ancor oggi, mentre ad essa si affiancano altre teorie fisiche, che si

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occupano di campi di oggetti diversi e, essi pure, limitati.(-" MECCANICA, III) È appena il caso di osservare che quanto qui affermato non equivale per nulla all'ammissione di un "relativismo" della verità, il quale sostiene che questa è "relativa" al soggetto che la esprime, o all'epoca storica in cui viene proposta, o al contesto culturale o linguistico in cui viene affermata. La relatività di cui qui si tratta consiste semplicemente nel fatto del tutto evidente che ogni discorso non può esser vero (o falso) che a proposito di ciò di cui parla.

VIII. Difesa del realismo scientifico Recuperati il valore conoscitivo e la portata veritativa della scienza, sempre a proposito dei suoi oggetti, è la stessa nozione di verità che ci conduce a riaffermare il realismo scientifico. Infatti gli oggetti della scienza non sono né puri costrutti intellettuali, né entità fittizie introdotte al solo scopo di facilitare la nostra padronanza delle percezioni sensibili. Essi sono enti concreti che "esemplificano" determinati costrutti intellettuali, nella misura in cui i "criteri di referenzialità" di cui una data scienza si avvale consentono di asserire che essi godono di quegli attributi che i costrutti intellettuali attribuiscono loro. In altri termini, è ben vero che, come Aristotele e Tommaso d'Aquino chiaramente riconobbero, "la verità è nell'intelletto", ma essa è nell'intelletto quando nel giudizio (che è appunto opera dell'intelletto) si afferma una conformità (adaequatio) con quanto è "presente" all'intelletto, ossia rispetto ai "referenti" del giudizio. Pertanto, gli stessi sostenitori del dualismo gnoseologico, avendo identificato tali referenti con le rappresentazioni, sono costretti a concepire la verità come puro fatto interno al pensiero (si pensi alla nozione kantiana di oggetto e a certe forme attuali di "realismo interno" alla maniera di Putnam), in quanto per essi solo le rappresentazioni sono "presenti" al pensiero. Fuori da questo gratuito presupposto, però, se il referente è il reale stesso in quanto (intenzionalmente) presente all'intelletto, ammettere la verità di un giudizio (o di una teoria) implica anche ammettere la realtà (ontologicamente) extramentale dei referenti. Nel caso della scienza tali referenti, ripetiamo, non sono la realtà nella sua totalità, bensì quegli "oggetti" che esemplificano nel concreto un certo insieme

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strutturato di predicati, e che si raggiungono mediante i criteri operazionali di referenzialità (ossia né pensando, né parlando, ma "facendo" qualcosa). Tali oggetti sono quindi reali, e tali sono anche quelli (non più direttamente "osservabili") che una teoria vera introduce a livello teorico-esplicativo: si può negare la loro realtà solo a prezzo di negare la verità della teoria.

IX. Importanza del realismo rispetto al contesto generale della filosofia Se si recupera il realismo scientifico, si recupera anche la condizione culturale per affermare il realismo metafisico, poiché il realismo scientifico si riguadagna: superando il dualismo gnoseologico, riconoscendo il ruolo dell'intuizione intellettuale, accettando l'uso sintetico della ragione nella mediazione dell'esperienza. Sono queste le condizioni per costruire una ("")metafisica come sapere, nel doppio senso di un'indagine della realtà in quanto tale e di una conoscenza del soprasensibile. Le differenze rispetto alla scienza non vengono cancellate, ma si riducono al fatto che la metafisica si pone "dal punto di vista dell'intero" senza restrizioni. Tale prospettiva consente, in particolare, di tener conto di aspetti dell'esperienza vissuta che sfuggono ai criteri materiali di referenzialità della scienza (tali forme di esperienza includono, ad esempio, l'esperienza morale, l'esperienza estetica, l'esperienza religiosa e, in generale, tutte quelle forme del vissuto umano che inducono spontaneamente ad esprimere "giudizi di valore"; ..... ESPERIENZA, III.4 e V). In secondo luogo, si possono legittimamente applicare, in tale problematizzazione più ampia, anche criteri metodologici che la scienza, in modo del tutto storicamente contingente, ha deciso di escludere, quali il principio di finalità, il concetto di un ordine del reale e così via. Sono del tutto evidenti i vantaggi di poter ridare dignità conoscitiva, in tal modo, ad una teologia razionale, ad un'etica normativa, ad una teoria non fisicalista della persona, ad una comprensione assiologica della società e della storia, ad un "senso della vita" non puramente materialista o utilitarista. Queste sono alcune delle ragioni per le quali la questione del realismo merita di essere approfondita, e la tesi realista merita di essere ribadita, anche al di fuori di una semplice disputa epistemologica sul realismo scientifico.

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X. Suggerimenti bibliografici Informazioni sul problema degli universali nella filosofia medievale sono reperibili in qualunque buon manuale dedicato alla storia di essa. Pregevole è il contributo di M. McCord Adams nel volume The Cambridge History of Later Medieval Philosophy (1982). Per uno studio storico-teoretico può vedersi Cocchiarella (1986); significativo per gli autorevoli contributi che contiene è il volume curato da J .M. Bochenski, The Problem of Universals (1956). Le tesi del realismo sono state evidenziate in modo efficace per contrasto con il suo avversario teorico più diretto, ossia il nominalismo, che ha costituito l'oggetto di numerosissimi studi, fra i quali basti citare di P. Vignaux, Nominalisme au XIV siècle (1981), mentre un'opera di carattere sistematico sul nominalismo è il volume di R. Eberle, Nominalistic Systems (1960). Data la notevole varietà di accezioni, non è possibile indicare volumi esplicitamente dedicati al realismo, e bisognerebbe entrare in una estesissima elencazione di saggi e articoli dedicati a vari aspetti di questo problema. È più facile, invece, indicare alcune opere in cui si difende una "filosofia realista", e fra queste spiccano per chiarezza e profondità quelle di G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell'esperienza, Conversazioni di metafisica, Studi di filosofia moderna, Studi sull'idealismo, apparse in tempi diversi, ma recentemente ripubblicate nella collezione completa delle sue opere realizzata a Milano dall'Editrice Vita e Pensiero (cfr. Bontadini, 1995-1996). In questi scritti viene, in particolare, evidenziato anche il percorso del dualismo gnoseologico moderno, la sua dissoluzione nell'idealismo, e la possibilità di una fondazione di una metafisica dell'essere di tipo rigorosamente conoscitivo. Un altro autore che ha lucidamente difeso una filosofia realista è("") Jacques Maritain, del quale meritano menzione soprattutto Distinguere per unire, o i gradi del sapere (1974); Breve trattato dell'esistenza e dell'esistente (1974); Sette lezioni sull'essere (1979). Se il dibattito sul realismo, generalmente inteso, è tanto variegato e disperso, altrettanto si deve ripetere per il problema del realismo scientifico. Un'opera di carattere complessivo espressamente dedicata a questo tema è quella di R. Harré (1986), mentre un volume di saggi

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curato da J. Leplin (1984) è di particolare utilità, in quanto raccoglie contributi dei più noti protagonisti di questo dibattito nel mondo angloamericano, da Boyd a Fine, a Glymour, Hacking, Laudan, Putnam, van Fraassen, e ciascuno di essi è corredato da ampi riferimenti bibliografici. Non sembra utile, pertanto, elencare qui le singole opere di questi autori, anche perché in esse il tema del realismo e dell'antirealismo è spesso mescolato a molte considerazioni epistemologiche di natura diversa. Va detto, per altro, che dette opere sono per la maggior parte disponibili in lingua italiana, così come quelle di ("") Popper, Kuhn, Feyerabend, che hanno agganci col tema del realismo, ma nel complesso si pongono da angolature diverse, che su questo tema si riflettono più o meno indirettamente. Per quanto riguarda la delineazione della conoscenza scientifica che è stata presentata in questa sede, e i suoi rapporti col sapere metafisico e la fede religiosa, ci permettiamo di rinviare ai seguenti nostri lavori: Temi e problemi di filosofia della fisica (1974); Scienza e fede. Nuove prospettive su un vecchio problema (1983); Philosophie, science, métaphysique (1987); Filosofia, scienza e verità (1989); Filosofia della natura, scienza e cosmologia (1995); il volume da noi curato Realism and Quantum Physics (1997) ed i vari nostri contributi in opere collettive riportati nella bibliografia finale. EVANDRO AGAZZI

Vedi: EPISTEMOLOGIA; ESPERIENZA; IDEALISMO; METAFISICA; POSITIVISMO; VERITÀ.

Bibliografia: E. G!LSON, Le réalisme méthodique, Téqui, Paris 1936; J.M. BocHBNSKI (a cura di), The Problem of Universals, Univ. of Notre Dame Press, Notre Dame (IN) 1956; R. EBBRLB, Nominalistic Systems, Reidel, Dordrecht 1960; E. AGAZZI, Temi e problemi di filosofia della fisica, Abete, Roma 1974; M. HBsss, The Structure of Scientific lnference, Univ. of California Press, Berkeley - Los Angeles 1974; J. MARITAIN,

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Distinguere per unire, o i gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1974; IDBM, Breve trattato dell'esistenza e dell'esistente, Morcelliana, Brescia 1974; IDBM, Sette lezioni sull'essere, Massimo, Milano 1979; E. AGAZZI, Considerazioni. epistemologiche su scienza e metafisica, in "Teoria e metodo delle scienze", a cura di C. Huber, Università Gregoriana, Roma 1981, pp. 311-340; P. VIGNAUX, Nominalisme au XIV siècle, Vrin, Paris 1981; M. McCORD ADAMS, Universals in the Early Fourteenth Century, in "The Cambridge History of Later Medieval Philosophy", Cambridge Univ. Press, Cambridge 1982, pp. 411439; E. AGAZZI, Scienza e fede. Nuove prospettive su un vecchio problema, Massimo, Milano 1983; J. LBPLIN (a cura di), Scientific Realism, Univ. of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1984; E. AGAZZI, La questione del realismo scientifico, in "Scienza e filosofia. Saggi in onore di Ludovico Geymonat", a cura di C. Mangione, Garzanti, Milano 1985, pp. 171-192; R. HARRÉ, Varieties of Realism, Blackwell, Oxford 1986; N. COCCHIARELLA, Logica! lnvestigations of Predication Theory and the Problem of Universals, Bibliopolis, Napoli 1986; J.L. ARONSON, Una filosofia realista della scienza, Armando, Roma 1987; E. AGAZZI, Philosophie, science, métaphysique, Editions Universitaires, Fribourg 1987; IDEM, Science and metaphysics: nvo Kinds of Knowledge, "Epistemologia" 11 (1988), fase. spec., pp. 11-28; IDBM, On the Different Kinds of Truth, in "Les formes actuelles du vrai", a cura di N. Incardona, Enchiridion, Palermo 1988, pp. 11-38; IDEM, Filosofia, scienza e verità (con F. Minazzi e L. Geymonat), Rusconi, Milano 1989; J. SANGUINBTI, Einstein y el realismo cientifico, "Sapientia" 47 (1992), pp. 131-150; J.L. ARONSON, R. HARRÉ, E. WAY, Realism Rescued. How Scientific Progress is Possible, Duckworth, London 1994; R. BROWN, Smoke and Mirrors: how science reflects reality, Routledge, London 1994; A. PAGNINT (a cura di), Realismo/antirealismo. Aspetti del dibattito epistemologico contemporaneo, La Nuova Italia, Firenze 1995; J. ZYCrNSKI, Realismo scientifico e metafisica, in "La verità scientifica", a cura di R. Martfnez, Armando, Roma 1995, pp. 115-125; E. AGAZZI, Filosofia della natura, scienza e cosmologia, Piemme, Casale Monferrato 1995; G. BoNTADINI, Saggio di una metafisica dell'esperienza, Vita e Pensiero, Milano 1995 2 ; IDEM, Conversazioni di metafisica, 2 voli., Vita e Pensiero, Milano 19952 ; IDBM, Studi sull'idealismo, Vita e Pensiero, Milano 1995; IDEM, Studi sulla filosofia moderna, Vita e Pensiero, Milano 1996; E. AGAZZI (a cura di), Realism and Quantum Physics, Rodopi, Amsterdam 1997.

Relatività, Teoria della RELATIVITÀ, TEORIA DELLA

I. La teoria della relatività ristretta - II. La teoria della relatività generale - III. La ricerca dell'unificazione - IV. Questioni scientifico-filosofiche. Tra i fisici del XX secolo (-") Albert Einstein (1879-1955) è certamente quello che ha maggiormente determinato l'immagine dello scienziato per antonomasia, sia presso i colleghi fisici che presso la gente comune, fino a diventare un vero e proprio mito. Chi non conosce, magari anche senza comprenderla del tutto, la formula E = m c 2 ? E questa popolarità non è di certo dovuta soltanto all'immagine un po' buffa e cordiale che vediamo nelle sue foto più famose (capelli lunghi e arruffati, baffoni, sguardo acuto insieme un po' trasognato e volto che ispira simpatia ... ), ma soprattutto all'innovazione che la «teoria della relatività» ha introdotto nel modo di fare fisica e che ha creato in tutti la convinzione di essere di fronte ad un vero genio, tra i più grandi che la scienza moderna abbia avuto. Anche se il premio Nobel gli fu attribuito nel 1905 (lo stesso anno in cui fu pubblicata la teoria della relatività "ristretta") per sua la teoria sull'effetto fotoelettrico - da lui interpretato in termini di quanti di luce (fotoni) di energia proporzionale alla frequenza della radiazione - e non per la teoria della relatività, il suo nome rimarrà sempre legato inseparabilmente e principalmente a quest'ultima. E quando si dice "relatività" si dice una delle più belle sintesi scientifiche recenti, che ha permesso lo sviluppo di un'intera(-") cosmologia, che ha rivoluzionato i concetti di(-") tempo, di spazio, di (-") materia, anche dal punto di vista filosofico oltre che scientifico, e che insieme alla (-") meccanica quantistica rappresenta il pilastro portante di tutta la fisica come oggi la conosciamo. Ma la teoria della relatività ha avuto una ricaduta di notevole portata sia sulla cultura del XX secolo, che sull'immaginario collettivo, spesso attraverso indebite alterazioni o interpretazioni non del tutto corrette. Ad essa si è ascritta, ad esempio, la responsabilità (per alcuni il merito) di aver favorito e poi consolidato il relativismo come concezione filosofica tesa a negare l'esistenza di una verità stabile o di valori assoluti (ritroviamo sorprendentemente

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questa motivazione fra le ragioni con cui larivista internazionale Times attribuiva ad Einstein il titolo di personaggio più importante del XX secolo). Vi sono poi le sue estrapolazioni fantascientifiche come i "viaggi nel tempo", e quelle ispirate ai suoi paradossi (a tutti noto quello "dei due gemelli") ed è forse proprio questo ciò che l'ha resa più popolare di tutte le altre teorie scientifiche. La teoria della relatività si è sviluppata secondo due tappe successive che costituiscono, anche dal punto di vista epistemologico, due teorie vere e proprie: la «teoria della relatività ristretta» (o "speciale", o "particolare") e la «teoria della relatività generale». La seconda, tuttavia, non può essere intesa come una semplice estensione della prima: la costruzione delle due teorie, infatti, fu guidata da due "filosofie" e metodologie molto diverse, espressioni di un cammino di maturazione scientifica e filosofica del loro autore. Nelle considerazioni che seguono non ci occuperemo tanto di un'esposizione tecnica della "relatività" (per questo rimandiamo il lettore ai numerosi testi specialistici o divulgativi, vari dei quali scritti dal suo stesso Autore: vedi Bibliografia), quanto di comprenderne il tracciato epistemologico nelle sue linee essenziali, riferendoci prima alla teoria della relatività ristretta, poi a quella generale e infine sviluppando alcune considerazioni sulle problematiche scientifico-filosofiche che ne risultano coinvolte.

I. La teoria della relatività ristretta 1. L'approccio fisico. La teoria della relatività ristretta (1905) nasce per un'esigenza che potremmo chiamare "sperimentale": bisognava dare una spiegazione coerente e soddisfacente del risultato del celebre esperimento di Michelson-Morley (1881 e 1887), con il quale si eraripetutamente cercato di rivelare la composizione della velocità della luce con quella del moto di traslazione della terra attorno al sole (cfr. Pais, 1986, pp. 123-132). Secondo la cinematica "classica" le due velocità si sarebbero dovute sommare se la terra andava incontro alla sorgente luminosa, e sottrarre se si allontanava da essa. E questo avrebbe permesso di misurare la velocità con la quale la terra si muoveva nello spazio assoluto, come concepito da Newton, e cioè rispetto all"'etere" che lo riempiva e attraverso il

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Die im nachfolgenden dargelegte Theorie 'bil>, diceva s. Girolamo (Contra /ohannem Hierosolymitanum, 31). L'identità del corpo risorto con il corpo terrestre, tuttavia, non vuol dire una stretta "identità materiale" fra gli elementi fisici della condizione terrena e quelli oggetto dello stato risorto, come già suggerirono i primi autori cristiani, come Teofilo di Antiochia, Taziano, Atenagora o Ilario di Poitiers. Servendosi dell'immagine del vaso di creta ricostruito ancora una volta, presente nel profeta Geremia (cfr. Ger 18, 1-10), Origene aveva spiegato che la materia di cui saranno composti i nostri corpi risuscitati non è necessariamente identica a quella del corpo terreno e che, in ogni caso, la logica di tale trasformazione appartiene al potere creatore di Dio (cfr. Homiliae in Jeremiam, 18, 4). Fra l'altro, non va dimenticato che il semplice metabolismo umano rinnova continuamente, in un ciclo di pochi anni, gli elementi fisici e chimici che compongono la materialità del nostro corpo. Alcuni autori medievali, come Durando di s. Porziano (1270 ca.-1334), hanno suggerito che }'"identità formale", riguardante essenzialmente l'identità dell'anima umana, «unica forma del corpo»("' ANIMA, V), sarebbe sufficiente ad assicurare l'integrità del medesimo corpo umano nella resurrezione (cfr. In IV Sent., d. 44, q. 1). L'ipotesi è stata ripresa in tempi recenti da neo-tomisti quali Hettinger, Scheel, Billot, Michel, Feuling. Tale posizione in realtà non è lontana da quella di Origene, basata sulla comprensione paolina della resurrezione come lo sviluppo di un seme (cfr. /Cor 15,35), o come la presenza di un'immagine spirituale (gr. efdos) che non cambia durante tutte le trasformazioni cui soggiace la vita umana e che persisterà dopo la glorificazione. Tale visione, tuttavia, riteniamo non tributi un sufficiente realismo alla resurrezione di Gesù, avvenuta «il terzo giorno». Essa non tiene sufficientemente conto delle implicazioni escatologiche della perenne prassi liturgica di venerare le reliquie dei santi (cfr. DH 1822; Ratzinger, 1957), ed il significato del dogma dell'assunzione in cielo di Maria, madre di Gesù (cfr. Ratzinger 1979, pp. 120-122). Già in epoca patristica, inoltre, alla comprensione di Origene della resurrezione in termini alquanto "spiritualisti" si opposero le posizioni di altri autori, come Metodio di Olimpo (m. 310 ca.) e

Resurrezione

Gregorio di Nissa (335-395) (cfr. Crouzel, 1972; Chadwick, 1948; Daniélou, 1953). In epoca patristica è alla formula «resurrezione della carne» che viene prestata particolare attenzione. Essa ha un carattere fondamentalmente anti-gnostico (van Eijk), sia perché afferma il valore inerente e teologico della materia e del corpo umano, sia perché ribadisce, attraverso un riferimento all'espressione aramaica «ogni carne» (eb. kol-basar, cioè tutti), il carattere "universale" della resurrezione finale. Gli gnostici valentiniani, infatti, intendevano restringere il numero dei destinati alla resurrezione in quanto, identificando erroneamente la nozione di salvezza con quella di resurrezione, ritenevano che soltanto gli «scelti» o «spirituali» (gr. pneumatik6i), non passibili di giudizio, vi fossero stati eletti. Specificamente, la formula «resurrezione di questo corpo» sorse anche per sottolineare la continuità "etica" fra la vita presente e quella futura, e dunque il valore e la proiezione eterni delle azioni umane compiute nelle storia, sebbene queste fossero svolte in un contesto finito e limitato nel tempo (cfr. O'Callaghan 1989a; van Eijk, 1974). Tertulliano riassumeva succintamente la visione degli gnostici affermando che «nessuno vive cos} immerso nella carne come coloro che negano la resurrezione della carne» (De resurrectione, 11, 1). La posizione di molti autori cristiani dei primi secoli è in fondo riepilogata da una dichiarazione del Concilio Lateranense IV: «Tutti risorgeranno con i corpi di cui sono ora rivestiti, per ricevere, secondo che le loro opere siano state buone o malvagie, gli uni la pena eterna, gli altri la gloria eterna [ ... ]» (DH 801). Risulta chiaro che la resurrezione finale non è distinta dal ritorno nella gloria di Gesù risorto (Parusia), né dal giudizio finale ed universale, ma è il primo frutto della Parusia e come la condizione perché vi sia un giudizio universale sui santi e sui peccatori. Ancora secondo Tertulliano, «il giudizio è proprio quella realtà che rende la resurrezione interamente necessaria» (De resurrectione, 14, 8). Per quanto visto, la resurrezione non può essere considerata un sinonimo di salvezza, come sostenuto dai valentiniani (il NT afferma tra laltro che, se non tutti si salvano, certamente tutti risorgono), ma risponde alla volontà di Dio di essere fedele alla sua originaria decisione di creare gli esseri umani, in corpo e anima, come esseri immortali.

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4. La resurrezione ed il cosmo. In continuità con la dottrina della resurrezione finale, la Chiesa ha sostenuto che il ritorno del Cristo risorto nella gloria implicherà non solo la resurrezione universale ed il giudizio finale degli esseri umani, ma anche la trasformazione ed il rinnovamento del cosmo materiale, di cui l'uomo è stato posto a capo (..ir CREAZIONE, VI). «Anche l'universo visibile è destinato ad essere trasformato, affinché il mondo stesso, restaurato nel suo stato primitivo, sia, senza più alcun ostacolo, al servizio dei giusti, partecipando alla loro glorificazione in Gesù Cristo riso1to» (CCC 1047; cfr. anche Lumen gentium, 48; Gaudium et spes, 39). La Sacra Scrittura parla certamente di una discontinuità fra il cosmo presente ed il futuro universo glorificato (Rm 8,19-21; 2Pt 3,10-13; Ap 21,1-2), ma non della sua distruzione, perché fra i due vi è anche vera continuità. Insistendo sulla continuità esistente fra creazione e salvezza, in opposizione allo gnostico Marcione, Tertulliano osservava acutamente che «Dio giudica perché è il Signore, ed è il Signore perché è il Creatore, ed è il Creatore perché è Dio» (De resurrectione, 14, 6). Il giudizio potrebbe difficilmente essere visto come qualcosa di pienamente giusto se la resurrezione fosse compresa come una sorta di violenta intrusione nella realtà creata già esistente: lo stesso Dio che giudica è l'unico Creatore e Signore dell'universo e di tutto ciò che vi si contiene.

V. Recenti visioni filosofico-teologiche circa la resurrezione La dottrina sulla resurrezione, di Cristo e di tutti gli uomini, sebbene non sia stata negata lungo tutto il periodo medievale, a partire dai Riformatori, e poi nella modernità, andò gradualmente indebolendo la sua capacità di sollecitare la riflessione teologica, filosofica e scientifica. Ciò fu dovuto ad una serie di fattori. In prima istanza, un certo individualismo in campo etico, ed anche in merito alla nozione di salvezza, aveva spogliato la resurrezione finale della centralità che possedeva una volta come espressione dell'aspetto cosmico e sociale della salvezza. Inoltre, l'insegnamento di papa Benedetto XII circa la definitività della salvezza immediatamente dopo la morte (cfr. cost. Benedictus Deus, 1336, DH 1000) fu giudicata da al-

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cuni come qualcosa che spingeva verso la stessa direzione. In seconda istanza, un certo ritorno ai principi basilari, quando non alla stessa terminologia, del platonismo, condusse la filosofia e la spiritualità a prestare maggiore attenzione, a loro volta, allo spirito umano e alla soggettività, alla res cogitans, distraendole cosl dalla res extensa ("" DESCARTBS, VI), alla quale i filosofi diedero progressivamente sempre minore importanza. A modo di esempio("") Kant, nella sua opera La religione nei limiti della semplice ragione (1793), osservava che non poteva vedersi la ragione del perché trascinarsi dietro, per tutta l'eternità, un corpo che, per quanto purificato fosse, risultava in fin dei conti sempre fatto di materia. Come risultato, il giudizio finale e la salvezza escatologica venivano sempre più collegate con il comportamento etico dell'anima individuale e immortale("" ANIMA, V-VI), e non più con la resurrezione finale che, a motivo della sua propria natura, coinvolgeva la manifestazione - e dunque il giudizio - del vero stato dell'individuo non solo di fronte a Dio, ma anche di fronte al resto dell'umanità. Separato dalla resurrezione, il giudizio finale scivolò lentamente verso una visione etica di tipo individualista, interiore e soggettivista, disattento alla ("') natura, sia umana che cosmica. Tale approccio etico, affiancato da quella visione platonica del soggetto umano tipica del periodo moderno, condusse gradualmente verso una comprensione meramente simbolica della resurrezione (sia quella di Gesù Cristo che quella futura dell'umanità), comprensione divenuta poi piuttosto comune durante tutto il XX secolo. La buona novella della resurrezione di Gesù e, attraverso di lui, di quella dell'intera umanità, aveva come riferimento principale la vita personale o interiore, ma aveva poco o nulla da dire al mondo materiale o alla corporeità dell'uomo in quanto tale in merito alla loro origine, significato o destino. La("") materia con le sue leggi e proprietà, diveniva dominio esclusivo delle scienze. Filosofi e scienziati marxisti, come ad esempio Ernst Bloch (1885-1977), svilupparono teorie sull'origine ed evoluzione della materia, della vita e del cosmo che col passare del tempo segnarono il definitivo divorzio di questi dalla trascendenza (cfr. O'Callaghan, 1989b).

Alcuni teologi di tradizione riformata del XX secolo, come Karl Barth, Paul Althaus e

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ResmTezione

Oscar Cullmann hanno cercato di recuperare la dottrina sulla resurrezione come il punto centrale dell'antropologia cristiana, e della teologia in generale, principalmente sottolineando l'importanza che la Scrittura tributa alla resurrezione, separandola da quelle note di carattere ellenico, di ambito escatologico, che parevano aver preso il suo posto, vale a dire l'enfasi eccessiva posta sull'individualità della salvezza e sulla natura immortale dell'anima, a spese di quella del corpo. Accanto, e nonostante, tale rinnovamento, altri autori hanno operato uno sviluppo ed un consolidamento di una visione della resurrezione e della salvezza alquanto, per cosl dire, anticosmologiche. Fra questi, ha esercitato una notevole influenza l'esegeta luterano Rudolf Bultmann (1884-1976); in ambito cattolico si potrebbero menzionare Durwell e von Balthasar. Bultmann ha interpretato il NT ed i testi cristiani primitivi che parlano della resurrezione in termini di una personale decisione di fede in essa, di stampo individualista ed esistenzialista. Secondo questo teologo, la resurrezione di Gesù può essere considerata un evento, ed un evento reale, solo per il credente. Attraverso la loro fede in lui, i cristiani sono già risorti: i credenti sono già viventi e salvati. In tale visione l'universo fisico resta in qualche modo impermeabile alla potenza della grazia divina: «Grazie alla conoscenza delle forze e delle leggi della natura è liquidata - egli scrive - la credenza negli spiriti e nei demoni... Non ci si può servire della luce elettrica e della radio, o far ricorso in caso di malattia ai moderni ritrovati medici e clinici, e nello stesso tempo credere nel mondo degli spiriti e dei miracoli propostoci dal Nuovo Testamento» (Nuovo Testamento e mitologia, a cura di H.W. Bartsch, Brescia 1973, pp. 109-110). I miracoli del NT, ed in particolare i racconti della resurrezione, non dovrebbero dunque essere considerati come racconti letterali di eventi reali ("" MIRACOLO, IV.2). Il termine con cui Bultmann qualifica i testi di genere apocalittico che offrono una visione realistica della resurrezione finale è «escatologia mitica», un realismo secondo lui sconfessato semplicemente dal fatto che la Parusia di Cristo non ha avuto luogo come la si sarebbe aspettata nel contesto degli scritti del NT: la storia non è finita ma, come ognuno può vedere - egli osserva - continuerà il suo corso. Il termine «resurrezione della carne» è interpretato dai seguaci di Bultmann come una

Resurrezione

sorta di ellenizzazione della originaria teologia ebraica, che resterebbe personalista e non di carattere oggettivo e sostanziale. È dunque comprensibile che Bultmann sostenesse, in linea con la descrizione dell'uomo fatta da Martin Heidegger (1889-1976) quale «essere per la morte», che i discorsi del NT sull' «ultimo giorno» dovessero essere rimpiazzati da un discorso sulla «morte dell'individuo». La posizione di Bultmann, nonostante il significato e la centralità che egli cerca di restituire alla dottrina cristiana sulla resurrezione, mina in realtà tutto questo insegnamento, riducendolo ad un simbolo che libera l'uomo dalla materia e dal cosmo, invece di considerarlo un evento divino che irrompe con la forza dello Spirito, e che conduce la materia ed il cosmo verso la loro perfezione escatologica, conferendo loro una dignità che i filosofi e gli scienziati avrebbero difficilmente considerato possibile.

VI. Resurrezione, Materia e Cosmo La cosmologia classica di Platone e di Aristotele, almeno fino a("") Newton, ha considerato il mondo in termini fissisti o meccanici. Gli dèi, fedeli alla loro natura immobile ed immortale, avevano lasciato il cosmo più o meno come era stato fatto, con le sue leggi eterne ed immutabili, eventualmente arricchite da graduali e regolari modulazioni. Similmente, si immaginava che le anime interagissero con i corpi in modo alquanto estrinseco. Il problema del confronto fra scienza e religione diviene allora quello delle descrizione di diverse possibili mediazioni fra il mondo dello ("") spirito e quello della materia. Cosl intese le cose, un'azione divina sul cosmo tende ad essere considerata, per forza di cose, una sorta di "interventismo", perfino dal carattere catastrofico e distruttivo. Un intervento divino di tipo "fisico" fu considerato impensabile da molti autori ("" MIRACOLO, IV. l) e simili descrizioni dovevano essere ritenute, quando registrate, come appartenenti al linguaggio del ("") mito. Il credo nella resurrezione rientrerebbe allora in questo tipo di linguaggio, perché originatosi nel contesto della letteratura apocalittica. A questo punto deve essere posto il seguente dilemma: la promessa della resurrezione va vista come un fenomeno che si raccorda con le possibilità della natura, una potenzialità già

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inscritta, in un modo o nell'altro, nelle sue leggi e nella sua evoluzione, qualcosa di simile a quanto celebravano i riti egiziani della fertilità? Oppure, in alternativa, si dovrà comprendere la resurrezione come un intervento divino che non ha altra scelta che ignorare, evitare o sostanzialmente alterare le leggi di natura, come una sorta di creazione alternativa che coinvolge inevitabilmente una visione della realtà dualista, fortemente apocalittica, o comunque retta da tensioni contrastanti? Molti autori hanno compreso che ogni sistema etico e spirituale, non importa quanto sia alta la dignità che esso tributa agli esseri umani, se non si presenta radicato nella realtà e nel dinamismo dell'universo, nella materia e nella corporeità umana, corre il rischio di divenire assai poco significativo, impraticabile e minimalista. Inoltre, i progressi compiuti nel campo della fisica hanno portato alla generale consapevolezza che la materia e le sue leggi non sono più interpretabili all'interno di uno schema strettamente determinista, sempre e comunque predicibile, governato da rigide regole ("" DETERMINISMO/INDETERMINISMO). La realtà fisica è comunemente percepita come un processo dinamico che si realizza secondo due binari, quello di una entropia sempre crescente, che coinvolge pertanto una crescente destrutturazione e dissoluzione dell'universo, e quello di una progressiva strutturazione e complessità, almeno in quanto trattasi di sistemi aperti e non chiusi ("" EVOLUZIONE; COMPLESSITÀ), processi che potrebbero essere neanche del tutto impermeabili o indipendenti perfino da fattori di tipo personale o spirituale. Inoltre, gli sviluppi nella moderna antropologia filosofica sono basati, e in un grado piuttosto significativo, su studi della fenomenologia del corporeità umana (come quelli svolti da Bruaire, Henry, Merleau-Ponty e Welte), secondo un orientamento che pare contrastare le antropologie centrate solo sullo spirito e le tendenze psicologizzanti tipiche dei secoli scorsi, almeno da Descartes in poi. La considerazione di fattori come i precedenti ha spinto, lungo tutto il XX secolo, verso lo sforzo di riscoprire le implicazioni strettamente cosmologiche ed antropologiche della salvezza cristiana, ed in modo specifico della resurrezione. L'opera della salvezza realizzata da Cristo coinvolge infatti non solo la restaurazione dell'armonia rotta dal peccato e dalla morte, conseguenze della originaria disobbe-

R dienza degli esseri umani (" CREAZIONE, II.2), ma anche la definitiva glorificazione del cosmo creato da Dio. In tal senso, la resurrezione di Gesù Cristo dai morti (e la promessa della nostra resurrezione con lui) non è soltanto il segno tangibi~e ~ell'amore.gioioso.del Pa?re verso il suo Figho, «fattosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,7) e della sua disposizione misericordiosa al perdono de.gli esseri umani. La resurrezione costituisce anche la perenne e suprema affermazione del Padre sull'universo creato, il suo desiderio di esprimere il suo potere e la sua sovranità sulla creazione senza per questo distruggerla o umiliarla, ma assecondando e confermando la sua realtà interna, ed elevando la creazione tutta, in Cristo, alla pienezza dello splendore e della gloria. Uno degli autori che si sono espressi in maniera più esplicita in proposito è stato (") P. Teilhard de Chardin, considerando il processo di evoluzione dell'intero universo come quello di una generale convergenza verso un Punto Omega, rappresentativo di una perfezione finale e coincidente con l'avvento del "Cristo cosmico". Si tratta certamente di una posizione influente (in autori come Martelet, Mersch, Maldamé e l'ortodosso Clément), poiché l'intuizione teilhardiana riguardo il "Cristo cosmico" dà espressione ad un elemento importante della comprensione cristiana del cosmo. Questa sua comprensione esclusivamente escatologica della "cristificazione" cosmica, però, tende sia verso l'estensione dell'unione ipostatica in Cristo all'intera realtà del cosmo - una sorta di "pancristismo", al quale forse alludeva Pio XII nella sua enciclica Mystici corporis (1943) (cfr. DH 3816) -, sia verso una comprensione dell'intervento di Dio sulla natura che "richiamerebbe" la creazione verso il suo fine ultimo, quasi dall'esterno. Di fatto, una vera comprensione cristiana dell'universo e della materia nella luce della resurrezione escatologica può essere fondata solo su una piena visione cristologica della creazione in quanto tale (cfr. O'Callaghan, 1995). Secondo il pensiero platonico o neoplatonico, Dio ha creato, o piuttosto "formato", l'universo, una volta per tutte, in modo statico, attraverso l'opera nel tempo di un Demiurgo, come una sorta di mediatore fra l'eternità e la trascendenza del Divino e l'intrattabile corruttibilità della materia. Espressioni in accordo con

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questo pensiero potrebbero essere rintracciate nel NT: Dio crea tutto attraverso la sua Parola (cfr. Gv 1,3), o attraverso Cristo (cfr. JCor 8,6; Col 1,16). Ma il NT va ben più in là, impiegando altri due modi di considerare la relazione fra Cristo e il cosmo. Il primo di essi è il fatto, come emerge nella Lettera ai Colossesi, che Dio ha creato l'universo non solo "attraverso" Cristo, ma "per" Cristo (Col 1,16). Questo testo lascia ben chiaro che la Parola non è un mero strumento o il mezzo perché la creazione e la perfezione del cosmo abbiano luogo, un mezzo che sarebbe subordinato ad un altro fine ultimo (come ad esempio la bontà o la beatificazione dell'universo), un mezzo da cui, alla fine del processo, si potrebbe poi prescindere. Pertanto, se la Parola creatrice fosse in funzione dell'esistenza o della perfezione della creazione, essa sarebbe in definitiva contingente, non pienamente divina, come sostenuto da Ario (256-336) nella sua lettura neoplatonica del NT. In accordo con la fede cristiana, invece, Cristo - Parola di Dio destinata ad incarnarsi - è essa stessa, e non altri, "il fine e lo scopo supremo" dell'universo. In altre parole, fin dalla sua origine, l'universo si dirige verso null'altro che la sua perfezione ultima, Gesù Cristo, Parola eterna di Dio fatta carne, il Signore Risorto dell'intera creazione. Il ruolo finale di Cristo specifica ancora meglio l'espressione che la creazione è stata fatta "attraverso" la Parola. Un secondo modo lo offre s. Paolo quando afferma che noi non siamo stati solo salvati, ma anche creati "in Cristo": «tutte le cose sussistono in lui» (Col 1,17); «[Lui] che sostiene tutto con la potenza della sua parola» (Eb 1,3). In altri termini, Cristo non ha il mero ruolo di causa "strumentale" della creazione, nel senso che le dà una forma una volta per tutte quando il mondo è stato formato, e neanche solo la sua causa "finale'', nel senso che tutta la creazione punta verso di lui. In altre parole, Cristo non è la causa "estrinseca" di una creazione che aspira ad una perfezione al di là di se stessa. Piuttosto, come divinità creativa, egli è sempre presente nella creazione, la mantiene in esistenza, muove le creature ad agire in accordo con la loro natura specifica, le conduce al loro fine ultimo, perché «in lui noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17 ,28). Se nell' AT Jahvè è considerato la sorgente della vita, nel NT è Gesù Cristo che dà la vita (cfr. Gv 4,10). Egli è capace di

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farlo perché «come il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso» (Gv 5,26). Si deve dunque dire che tutte le cose create ricevono esistenza, sussistenza, vitalità, intelligibilità e consistenza dall'inesauribile .sorgente di Vita che è il Verbo di Dio (;r VITA, III, V). L'universo, nel suo insieme, può essere considerato in certo modo come qualcosa di vivo, che è stato creato, vivificato, conservato, e che viene condotto alla sua perfezione escatologica dall'interno, attraverso l'opera dello stesso Verbo di Dio fatto uomo. La culminazione di questo processo, tanto nella sfera umana, come in quella cosmica, è proprio la resurrezione finale, realizzata attraverso la potenza di colui che è «la resurrezione e la vita» (Gv 11,27). Conç:ludendo, la fede nella resurrezione finale mediante la potenza creatrice di Dio - per i cristiani basata sull'intrepida testimonianza degli Apostoli che "hanno visto" il Signore Gesù Cristo risorto - agisce come un potente catalizzatore, attraverso la storia, per lo sviluppo ed il consolidamento dell'antropologia e dell'etica cristiane, e, col passo dei secoli, per lo sviluppo della scienza. Inoltre, questa fede ha insegnato qualcosa che il mondo antico non avrebbe mai sospettato: che la materia corruttibile era stata creata da Dio con una vocazione all'eternità. La cosmologia classica, con un approccio all'universo di tipo statico e meccanicista, rese difficile l'intelligenza di una dottrina sulla resurrezione che non fosse compresa come una discontinuità, un intervento estrinseco di Dio, o a volte in termini puramente simbolici. Si può anche capire che, nell'epoca moderna, essa abbia corso il rischio di perdere interesse e significato presso non pochi filosofi o scienziati cristiani. Tuttavia, una rinnovata teologia della creazione "attraverso Cristo", "per Cristo" e "in Cristo", così come una comprensione maggiormente dinamica ed aperta dell'universo fisico, hanno reso possibile oggi chiarire e recuperare il pieno versante "cosmico" della fede nella resurrezione, il quale, però, non era mai stato assente dalla prassi ecclesiale, dalla liturgia, dall'arte e dalla devozione eucaristica. PAUL O'CALLAGHAN Vedi: ANIMA; GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL Looos; MATERIA; MORTE; VANGELI; VITA.

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Fides et ratio, 88. I. Diversi tipi di riduzionismo - Il. Gerarchia ed emergenza - III. Comprensione scientifica - IV. Aspetti filosofici e teologici del riduzionismo - V. Considerazioni conclusive: la realtà è un'unità a molti livelli. Un riduzionista ritiene che un sistema complesso non sia nient'altro che la somma delle sue parti, per cui si può dar ragione del sistema "riducendone" la considerazione a quella dei singoli costituenti. Un antiriduzionista, al contrario, ritiene che il tutto sia maggiore della somma delle parti, per cui vi sono proprietà "olistiche" che non possono essere descritte in termini dei puri elementi costituenti.

I. Diversi tipi di riduzionismo Il «riduzionismo strutturale» (constitutive reductionism) ammette che, quando un sistema complesso venga effettivamente decomposto nei suoi elementi, le parti che ne risultano siano esclusivamente quelle che corrispondono agli elementi costituenti che ci si aspetterebbe di trovare. Ad esempio, un organismo vivente potrebbe essere suddiviso fino alle molecole che lo compongono, senza che alla fine vi sia rimasto

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alcun "ingrediente" extra, come potrebbe essere la "scintilla della vita", che il vitalismo invoca come fattore che distingue gli esseri viventi dalla materia inanimata. Questo tipo di riduzionismo trova un'accoglienza assai vasta. Tuttavia esso non comporta in alcun modo la tesi che i viventi siano "nient'altro" che agglomerati di molecole, perché la loro scomposizione porta di fatto alla morte dell'organismo. Il riduzionismo di questo genere è molto vicino al «riduzionismo metodologico» (methodological reductionism), che rappresenta la strategia scientifica, altamente praticata, consistente nello studiare il "tutto" frantumandolo nelle sue parti costituenti. Ancora una volta, il successo della strategia non implica però che ogni aspetto rilevante del "tutto" possa essere studiato in questo modo. Un secondo tipo di riduzionismo potrebbe essere chiamato «riduzionismo concettuale» (conceptual reductionism), nel quale si sostiene che i concetti applicabili al tutto possono essere interamente espressi in termini di concetti che si applicano alle parti. La dizione «riduzionismo epistemologico» (epistemological reductionism) è pure in uso per designarlo. Un esempio ben riuscito di una "riduzione" di questo genere è offerto dall'impiego della teoria cinetica dei gas per ridurre il concetto di temperatura (sorto nell'ambito della termodinamica della materia macroscopica) all'esatto equivalente, rappresentato dell'energia cinetica media delle molecole del gas. Ma ci sono anche molti altri esempi che stanno ad indicare come riduzioni di questo tipo non siano sempre possibili. Le singole molecole d'acqua non possiedono la

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proprietà dell'umidità, che rappresenta invece una proprietà concettualmente irriducibile del comportamento di un grande insieme di queste molecole (essa è generata dalle forze intermolecolari che sono all'origine della proprietà macroscopica chiamata "tensione superficiale"). Inoltre le scienze biologiche impiegano molti concetti essenziali per il loro lavoro, come convenienza, adattamento, organo, sessualità, nicchia ecologica, ecc., che non possono essere tradotti in enunciati relativi alle sole molecole. Un terzo tipo è il «riduzionismo causale» (causal reductionism). Esso comporta che le cause agenti sul tutto producano semplicemente la somma degli effetti delle singole cause agenti sulle parti. Nel caso dell'umidità, una simile riduzione sembra riuscire, partendo dall'ipotesi ragionevole che la tensione superficiale sia interamente generata dall'azione delle forze molecolari. Dal momento che ad entrambi i livelli si ha a che fare con proprietà puramente energetiche, la traduzione da un livello all'altro sembra plausibile. Viceversa, non è del tutto chiaro come la somma delle scariche delle sinapsi neuronali possa combinarsi per produrre i qualia (percezioni, emozioni) mentali, dal momento che sembra esserci una chiara differenza qualitativa tra i due livelli (" MENTE-CORPO, RAPPORTO). Il riduzionismo causale è un parente stretto del «riduzionismo ontologico» (ontologica[ reductionism), che equivale ad affermare che il tutto è la somma delle parti. È possibile, in realtà, sostenere il riduzionismo strutturale e rifiutare il riduzionismo causale, come fanno molti. Una strategia che consente di sostenere questa posizione è quella di abbracciare il "contestualismo" (contextualism), che consiste nel ritenere che il comportamento degli elementi costituenti dipenda dalla natura del tutto che essi vanno a costituire.

II. Gerarchia ed emergenza Nel caso si sostengano tutti e tre i tipi di riduzionismo - posizione, questa, che potremmo chiamare "riduzionismo forte" - la vera ontologia che risulta essere alla base di tutto, è esclusivamente quella dei costituenti fondamentali. Tutto il resto è una semplice elaborazione conseguente. E, da questo punto di vista, la fisica delle particelle elementari viene ad essere la disciplina fondamentale: tutte le altre cose, com-

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preso il resto della fisica, attraverso la biologia e, più in su, attraverso la psicologia, l'antropologia e la sociologia non sarebbero altro che corollari. Ci troveremmo ad avere l'equivalente moderno dell'antica asserzione che tutto è fatto «di atomi e di vuoto»(" MATERIALISMO, I). Naturalmente questa sarebbe solo un'affermazione di principio, dal momento che la derivazione di quei corollari sarebbe ben al di là delle umane possibilità. Già in fisica, la descrizione, pienamente adeguata, di un pezzo macroscopico di materia comporta l'esame del comportamento di un insieme di atomi dell'ordine numerico di 1023 • In altre parole le prese di posizione riduzioniste, o antiriduzioniste, sono sempre di carattere metafisico. Possono essere motivate da estrapolazioni dei risultati delle scienze naturali e umane, ma non possono mai essere pienamente sostenute solo con argomenti scientifici. Perciò, in pratica, c'è una gerarchia delle scienze, nella quale la scienza "superiore" attinge alle risorse di quella "inferiore", ma necessita anche, per rivolgersi ai problemi posti dai fenomeni particolari che costituiscono il suo oggetto proprio, di far ricorso al proprio stile di argomentazione e al proprio apparato concettuale. La (") chimica si rapporta alla fisica in questo modo e la(") biologia si rapporta ad entrambe. Al di sopra della biologia si colloca la successione delle scienze umane: psicologia, antropologia, sociologia. La gerarchia è ordinata in un modo naturale che viene a dipendere da un qualche concetto di "complessità crescente". Benché vi siano delle difficoltà tecniche nel definire con precisione il significato di "crescita della complessità", è intuitivamente convincente il fatto che una successione come quella del tipo quark, molecola, cellula, entità pluricellulare, essere cosciente, essere autocosciente, rappresenti una scala ascendente di tal genere. È importante riconoscere che non è semplicemente la "grandezza" a costituire l'essenza della (") complessità, ma il grado di intrinseca interrelazione e reciprocità presente tra le parti. Sebbene l'universo osservabile contenga qualcosa dell'ordine di 1022 stelle, la cosmologia è un soggetto molto più semplice della biologia umana. I livelli di una gerarchia possono essere distinti grazie all"'emergenza" di alcune proprietà che si presentano ad un livello superiore, delle proprietà cioè che non si manifestano ai li-

R velli più bassi. La (;r) vita e la coscienza rappresentano i due esempi di emergenza forse a noi più noti e che maggiormente ci meravigliano. Una domanda critica è se il fenomeno dell'emergenza sia semplicemente l'espressione di un antiriduzionismo concettuale, o se abbia un più profondo significato ontologico. Abbiamo visto come l'emergenza dell'umidità dell'acqua sembri essere semplicemente un esempio del genere "concettuale", in cui delle proprietà energetiche, ad un livello, producono delle proprietà energetiche al livello superiore, in una maniera del tutto non problematica. Viceversa, l'emergere della coscienza sembra resistere ad un tentativo di comprensione in termini di emergenza puramente concettuale. C'è una lacuna davvero notevole tra la gli aspetti metodologicamente riduzionistico-concettuali dei processi neuronali le più semplici esperienze mentali coscienti, come l'aver fame, o il vedere un colore azzurro, e non vi è nessun collegamento ovvio tra i due livelli. Riconoscere questo fatto solleva la questione se, in questo caso, non sia necessario condividere anche un antiriduzionismo di tipo "causale". Se l'esecuzione delle intenzioni mentali è un atto libero della persona umana, sembrerebbe questo il caso in cui agisce una causalità olistica irriducibile (intenzione umana). Infine, osserviamo che coloro che hanno una forte tendenza verso il riduzionismo, come Francis Crick (La scienza e l'anima, Milano 1994) e Richard Dawkins (Il gene egoista, Milano 1992), non scendono, però, al di sotto del livello della propria disciplina nei loro intenti esplicativi, ma si accontentano di inquadrare le loro considerazioni al livello delle molecole, o dei geni, senza spingersi fino al livello dei quarks.

III. Comprensione scientifica È utile, a questo punto, annotare un certo numero di indicazioni, che provengono dalla scienza moderna e che incoraggiano l'adozione di una posizione antiriduzionista. a) Contrariamente a quanto avviene in un quadro interpretativo fisico di tipo newtoniano (;r MECCANICA, III.l), che considera gli atomi come corpi che si muovono nel vuoto inteso come un contenitore spaziale, la (;r) relatività generale di Einstein lega insieme lo spazio, il tem-

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po e la materia, in una stretta e intrinseca interrelazione. b) L'effetto EPR [dal nome di A. Einstein, B. Podolski e N. Rosen, scienziati che ne teorizzarono per primi l'esperimento] mostra come, quando due entità quantistiche interagiscono tra loro, esse rimangono reciprocamente interconnesse; per quanto grande sia la distanza a cui esse si trovano ed indipendentemente da questa, esse si comportano in effetti come un unico sistema (;r MECCANICA QUANTISTICA, V). Dunque, il mondo subatomico non può essere descritto in termini atomistici. c) I "sistemi fisici complessi" manifestano molte proprietà che non possono essere previste con la sola considerazione dei loro costituenti separati. Ad esempio, gli elettroni in movimento che appartengono agli atomi dei metalli possiedono una struttura dei livelli energetici a bande. Ciò significa che esistono degli intervalli di energia che sono loro accessibili ed altri che non lo sono. E questo è in contrasto completo con il modo di comportarsi degli elettroni liberi, le cui energie possono assumere qualsiasi valore. d) La "teoria del caos" (cfr. Gleick, 1989) è lo studio di quei sistemi che sono altamente sensibili alle condizioni iniziali. In essi, il più piccolo cambiamento che avvenga nell'intorno dei valori delle condizioni iniziali, cambia completamente il comportamento futuro e dunque la prevedibilità di tutto il sistema. Questi sistemi sono assai diffusi e la loro vulnerabilità ambientale significa che non sono genuinamente isolabili. Essi devono essere trattati olisticamente, insieme a tutto il loro contesto. e) La "teoria della complessità" (cfr. Kauffman, 1995) si occupa del comportamento di quei sistemi complessi (cfr. supra, c), i cui costituenti sono legati fra loro con delle specifiche relazioni. Questa nuova scienza, che attualmente sta ancora mettendo i suoi primi passi, e che si basa in larga misura sulla modellizzazione al computer, ha mostrato che sistemi di questo genere sono in grado di generare spontaneamente un numero impressionante di forme o modelli (patterns) nel campionario complessivo del loro comportamento. Questo ha suggerito a qualcuno che, quando sarà stata trovata una teoria adeguatamente formulata, essa non coinvolgerà solo la descrizione delle relazioni esistenti tra i cstituenti, ma anche quella sorta di capacità di tipo olistico di dare origine a mo-

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delli o comportamenti unitari o ricorrenti, che è stata denominata "informazione attiva" (cfr. Polkinghorne, 2000). f) Le cellule biologiche sono sistemi biochimici di elevata complessità interrelazionale. Anche se è divenuto ormai convenzionale parlare del DNA come di portatore di informazione (;r BIOLOGIA, IV), questo contenuto informazionale è significativo ed è attivato soltanto all'interno dell'intero contesto della cellula vivente. Se isolato, il DNA non è niente di più che una struttura chimica molto complessa. g) Il premio Nobel Roger Sperry, studioso del cervello, ha introdotto il concetto di causalità top-down [influenza dall'alto verso il basso], cioè una causalità del tutto sulle parti che egli riteneva intervenisse nelle interrelazioni causali che intercorrono tra mente e cervello (cfr. Sperry, 1983). L'idea della causalità topdown è stata successivamente adottata da un certo numero di altri autori.

IV. Aspetti filosofici e teologici del riduzionismo 1. Razionalità. Il riduzionismo forte si trova a diretto confronto con il problema della natura della razionalità. Se la realtà non è altro che interazione di particelle elementari, allora tutto accade a caso e chi può dire che i movimenti della bocca di automi di forma umana siano le articolazioni di un discorso razionale? Chi o cosa può certificare che il modo di parlare sia valido e veritiero? Il riduzionista forte taglia proprio il ramo su cui cerca di stare seduto, mettendo in pericolo quegli argomenti che egli ritiene difendano la sua posizione. 2. Metafisica. Le classiche posizioni filosofiche del fisicalismo o dell'idealismo hanno entrambe un carattere essenzialmente riduzionista, dal momento che riducono la realtà semplicemente al dato materiale, o a quello mentale. Il dualismo sostanziale, di tipo platonico o cartesiano, è essenzialmente antiriduzionista, nel senso che riconosce uno statuto di realtà sia al dato materiale che a quello mentale. Tuttavia ha incontrato molti problemi, la cui radice sta nella difficoltà di spiegare come il mentale e il materiale entrino in relazione reciproca. Ma vi sono anche numerose altre posizioni filosofiche contemporanee che hanno ugualmente un carattere antiriduzionista.

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Una è il "monismo duale" (dual-aspect monism) - a volte chiamato "fisicalismo non riduzionista" - che afferma esservi un solo genere di sussistenza (substance ), ma che esso può essere esperito secondo due poli complementari, quello del "materiale" e quello del "mentale". Un simile modo di trattare il rapporto mente/materia è antiriduzionista. In un modo diverso, anche la "filosofia del processo" di (;r) Alfred North Whitehead (1861-1947) si oppone al riduzionismo: essa si basa su una metafisica dei singoli eventi o "occorrenze reali" (actual occasions). Questi possono rispondere a gradi di complessità diversificati e non li si può "ridurre" ad un denominatore comune. Un'altra proposta antiriduzionista è stata avanzata da Niels Bohr (18851962) quando ha suggerito di esportare dalla meccanica quantistica il suo concetto di "complementarità", utilizzandone le virtualità come un modo concettuale per collegare la vita e la materia. Bohr ha sottolineato il fatto, già rilevato, che ridurre il vivente alle sue parti molecolari non serve che ad ucciderlo e che le due procedure alternative, quella di accostarvisi nella sua interezza olistica, oppure quella di operarne una decomposizione materiale, sono tra loro incompatibili. Nessuna delle due formulazioni metafisiche, comunque, è priva di difficoltà. 3. Teologia. Non c'è bisogno di sottolineare l'interesse della teologia ad una prospettiva antiriduzionistica di comprensione della realtà. A partire da Lucrezio (ca. 98-54 a.C.), quanti hanno portato avanti l'ipotesi che non esistono altro che gli atomi e il vuoto hanno anche terminato con lo sposare l'(;r) ateismo. La realtà di tutto ciò che è mentale e spirituale è d'importanza vitale per la religione, e la realtà di tutto ciò che è materiale è d'importanza vitale per il cristianesimo, la religione del Verbo fatto carne (;r GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL Looos, IV). La teologia dovrebbe sentirsi confortata dal fatto che vi è un sufficiente incoraggiamento, sia da parte di una scienza correttamente elaborata, sia da parte di una filosofia ben perseguita, a difendere la posizione antiriduzionista.

V. Considerazioni conclusive: la realtà è un'unità a molti livelli 1. Insufficienza della prospettiva riduzionista. La conoscenza che risulta dalla nostra in-

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dagine del mondo - riproponiamo qui quanto già sviluppato in altro luogo (cfr. Polkinghorne, 1987, pp. 128-129 e 143-145) - può dunque venire organizzata in una gerarchia corrispondente alla complessità del sistema o disciplina considerata come fondamentale: fisica, chimica, biochimica, biologia, psicologia, sociologia, teologia. Ma che relazione c'è tra questi differenti livelli di descrizione? Il "riduzionista" integrale ha la risposta pronta: alla fine, tutto si riduce alla fisica("" POSITIVISMO). Il resto non è altro che un'increspatura epifenomenica sulla superficie di un sostrato fisico, proprio come le onde generate dal vento in un campo di grano non sono nient'altro che il movimento di molte spighe. Questa risposta è molto semplice, ma non è plausibile. Un autoritratto di Rembrandt è allora solo un insieme di macchioline di colore, o un sonetto di Shakespeare nient'altro che ghirigori d'inchiostro sopra un foglio di carta? Questo è ciò che rimane smontando il quadro o il sonetto. Non troveremo certo un ingrediente "extra", qualcosa come lo spirito dell'arte o della poesia. Mi sembra che un «riduzionismo strutturale» possa venir accettato, che si possa sottoscrivere cioè la tesi per cui le unità a partire dalle quali sono costituite le entità del mondo fisico siano proprio le particelle elementari studiate dalla fisica di base. In biologia il vitalismo sembra ormai morto definitivamente. I successi della biologia molecolare non ci spingono certo a credere nella necessità di una misteriosa entelechia o di un élan vitale per trasformare la materia inanimata in un essere vivente. Il riduzionista radicale sceglie però una posizione più forte, accettando un «riduzionismo concettuale» che nega l'emergere, con la crescente complessità dell'organizzazione, di livelli di significato totalmente nuovi e di possibilità che non sono in linea di principio riducibili a quelli che a loro soggiacciono. Perché il «riduzionismo strutturale» non giunga al «riduzionismo concettuale», si rende necessaria un'attenta analisi del grado in cui una vera "novità" può apparire a questi crescenti livelli di organizzazione. Fino a che punto l'intero è più della somma delle sue parti? Questo risultato viene sicuramente raggiunto attraverso l'effetto di potenziamento generato dalla mutua interazione cooperativa, resa possibile da componenti che si integrano in un'unità più grande.

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Credo che abbia ragione chi difende l'("") autonomia della propria disciplina contro le pretese imperialistiche della fisica. Gli animali sono certamente composti di atomi, ma non per questo la biologia si riduce a un complicato corollario della fisica atomica. E sintomatico che, per essere compresi, i concetti biologici abbiano bisogno dell'ambiente vivente nel quale trovano la loro espressione. Proviamo a considerare una frase di questo tipo: «la biologia molecolare ci ha permesso di comprendere più a fondo dal punto di vista biochimico come il programma genetico sia codificato nel DNA e come l'RNA trasferisca le parti appropriate di quel piano per controllare la produzione delle proteine». In questa frase c'è senz'altro una confusione di linguaggi. La biochimica può parlare della dinamica molecolare degli amminoacidi che si aggregano per formare proteine. Il linguaggio informativo del "programma" e del "piano" si riferisce, però, a un tipo di discorso differente e disgiunto, che comincia ad avere senso solo in un contesto cellulare. 2. Scienze e teologia. Del grande fisico sperimentale dell'Ottocento Michael Faraday, che era credente e cristiano praticante, è stato detto, forse a torto, che quando entrava in laboratorio dimenticava la religione e che quando ne usciva dimenticava la scienza. Spero che non fosse vero. Viviamo in un unico mondo e scienza e("") teologia ne esplorano aspetti differenti. Nonostante le ovvie differenze, le due discipline hanno in comune il fatto che entrambe richiedono tentativi correggibili di comprendere l'("") esperienza. Si occupano infatti entrambe di esplorare il modo in cui le cose sono e a questo, infine, si sottopongono. Esse sono perciò in grado di interagire l'una con l'altra: la teologia, spiegando la fonte dell'ordine e della struttura che la scienza assume e conferma nella sua indagine del mondo; la scienza, attraverso lo studio delle condizioni adatte alla creazione, che devono essere soddisfatte da ogni descrizione del Creatore e della sua attività. La loro relazione non è priva di rompicapi, ma coloro che prendono con uguale serietà quanto viene raccontato dalla scienza e dalla religione non sono affatto obbligati né a dividere la loro riflessione in compartimenti stagni, né a cercare compromessi in malafede. La realtà è un'unità a molti livelli. Posso percepire un'altra persona come un aggregato di atomi, ma anche come un sistema biochimi-

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co aperto in interazione con l'ambiente, o come un esemplare di homo sapiens, come un oggetto di bellezza, o come qualcuno i cui bisogni meritano il mio rispetto e la mia compassione, o infine come un fratello per cui Cristo è morto. Tutti questi aspetti sono veri e coesistono in maniera misteriosa in quell'unica persona. Se ne negassi uno, significherebbe che sminuisco sia quella persona che me stesso, che tento di capirla; significherebbe non rendere giustizia alla ricchezza della realtà. Una giustificazione del teismo è che nel Dio Creatore, il fondamento di tutto ciò che è, questi livelli differenti trovano il loro spazio e la loro garanzia. Egli è la fonte della connessione, colui il cui atto creativo contiene in sé le prospettive del mondo della scienza, dell'estetica, dell'etica e della religione, come espressioni della sua ragione, gioia, volontà e presenza("" CREAZIONE). Questo carattere di intreccio del mondo creato trova la sua espressione più piena nel concetto di sacramento, un segno esteriore e visibile di una grazia interiore e spirituale("" SIMBOLO, IV), una meravigliosa fusione degli interessi di scienza e teologia. E così, nella ("") Eucaristia, il pane e il vino che, nelle parole della liturgia, "la terra ha dato e l'uomo ha fatto", divengono il corpo e il sangue di Cristo, la fonte della vita spirituale. Il più grande sacramento, paragonati al quale tutti gli altri sono solo specificazioni e "ombre", è l'incarnazione in cui «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Il Verbo, il l6gos, combina due nozioni, una greca e una ebraica. Per i Greci il l6gos era il principio razionale ordinatore dell'universo. Per gli Ebrei la parola del Signore era l'attività di Dio nel mondo. La scienza delinea un mondo di ordine razionale che si sviluppa attraverso lo svolgimento di un processo, una fusione di intuizioni greche ed ebrai-

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che. La teologia afferma che il mondo, nel suo aspetto scientifico, è un'espressione del "mondo di Dio", in quanto, «tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,3). JOHN C. POLKINGHORNE

Vedi: ANALOGIA; BIOLOGIA; COMPLESSITÀ; MATERIA; MATERIALISMO; POSITIVISMO; PRAGMATISMO.

Bibliografia: R.W. SPERRY, Science and Moral Priority, Columbia Univ. Press, New York 1983; A.R. PEACOCKE, God and the New Biology, Dent, London 1986, capp. 1-4; H. MARGENAU, Il miracolo dell'esistenza, Armando, Roma 1987; J.C. POLKINGHORNE, Scienza e fede, Mondadori, Milano 1987; J. GLEICK, Caos, Rizzoli, Milano 1989; I.G. BARBOUR, Religion in an Age of Science, Harper and Row, New York 1990, pp. 165-171; T. e I. ARECCHI, I simboli e la realtà, Jaca Book, Milano 1990; E. AGAZZI (a cura di), The Problem of Reductionism in Science, Kluwer, Dordrecht 1991; G. NICOLIS E I. PRIGOGINE, La complessità. Esplorazioni nei nuovi campi della scienza, Einaudi, Torino 1991; G. BASTI, Il rapporto mente-corpo nella filosofia e nella scienza, BSD, Bologna 1991; G. DEL RE, Una chiave di lettura: l'essere e la verità come f andamenti della scienza, in T. Torrance, Senso del divino e scienza moderna, LEV, Città del Vaticano 1992, pp. 5-37; M.' CINI, Un paradiso perduto. Dall'universo delle leggi naturali al mondo dei processi evolutivi, Feltrinelli, Milano 1994; S. KAUFFMAN, At Home in the Universe, Oxford Univ. Press, New York 1995; J. BARROW, Impossibilità. I limiti della scienza e la scienza dei limiti, Rizzoli, Milano 1999; F. BERTELÈ, A. OLMI, A. SALUCCI, A. STRUMIA, Scienza, analogia, astrazione. Tommaso d'Aquino e le scienze della complessità, Il Poligrafo, Padova 1999; J.C. POLKINGHORNE, Credere in Dio nell'età della scienza, R. Cortina, Milano 2000.

SACRA SCRITTURA

Leone XIII, Providentissimus Deus, 18.11. 1893; Benedetto XV, Spiritus Paraclitus, 15.9.1920; Pio Xli, Divino afflante Spiritu, 30.9.1943; Dei Verbum, 11-17; Giovanni Paolo Il: Discorso in occasione del 350° anniversario della pubblicazione del "Dialogo sui due massimi sistemi del mondo", 9.5.1983, Insegnamenti Vl,1 (1983), pp. 1192-1199; Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze nel 50° della Rifondazione, Insegnamenti IX,2 (1986), pp. 12741285; Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 31.10.1992, Insegnamenti XV,2 (1992), pp. 456-465. PCB, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, 15.4.1993, EV 13, 2846-3150; Fides etratio, 7-12, 16-23, 45-48. I. Sacra Scrittura e visione scientifica del mondo: i principali nodi storici - II. La questione biblica e il progresso delle scienze - III. Il contenuto della Sacra Scrittura alla luce dell'analisi storico-critica contemporanea - IV. L'utilizzo delle scienze come discipline ausiliari nello studio della Sacra Scrittura - V. Alcuni aspetti del dibattito contemporaneo fra autorità delle Scritture e pensiero scientifico. I. Sacra Scrittura e visione scientifica del mondo: i principali nodi storici Il rapporto fra Sacra Scrittura e visione scientifica del mondo costituisce un aspetto particolare e assai rilevante del problema del

rapporto fra scienza e fede. La sua corretta comprensione dipende, in prima istanza, dal significato che si attribuisce alla parola «scienza», ma contemporaneamente anche da un corretto significato attribuito alla parola «fede», riconosciuta come significante un atto di natura razionale; cioè un atto "ragionevole" e non un sorta di impulso irrazionale del solo sentimento o della sola volontà. La comprensione di tale specifica natura della (""') fede è possibile ove si coglie il rapporto esistente fra verità, fede e ragione. Dal punto di vista concettuale un utile punto di partenza, a questo scopo, è offerto da quanto affermato nell'enciclica Fides et ratio, per la quale la ragione umana e la fede sono come le due «ali» con cui lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità (cfr. Proemio). La(""') ragione umana si manifesta, in forma privilegiata, in due teITeni: quello della filosofia, intesa come ricerca dei principi ultimi che fondano la realtà osservabile, e quello della scienza, intesa soprattutto come conoscenza rigorosa, basata sull'evidenza sperimentale e formulata in leggi di tipo matematico. Occorre chiarire subito che il concetto di scienza, in senso generale ed ampio, non si applica solo alle cosiddette «scienze positive», di tipo fisico, chimico o naturale, ma anche e soprattutto alle discipline di tipo filosofico, basate sui principi primi della conoscenza, nonché alle scienze di tipo storico, il cui criterio di verità si basa sulla certezza morale. Per quanto riguarda la nozione di Sacra Scrittura, essa si ricollega a quella più generale di Rivelazione: la «Sacra Scrittura», infatti, è definita come fonte della Rivelazione (cfr. Dei Verbum, 7).11 Catechismo della Chiesa Cattolica definisce la Sacra Scrittura in rapporto alla manifestazione di Dio nella storia e nella Rivelazione, facendo leva sull'evento dell'Incarnazione del Verbo, seconda Persona della SS. Trinità: «Nella condiscendenza della sua bontà,

Sacra Scrittura Dio, per rivelarsi agli uomini, parla in parole umane: "Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell'uomo, come già il Verbo dell'Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile all'uomo" (Dei Verbum, 13)» (CCC 101). La Sacra Scrittura è dunque, allo stesso tempo, opera di Dio e degli uomini, e mantiene pertanto una stretta relazione con l'Incarnazione del Verbo: Dio si esprime nella Scrittura mediante parole umane che si riferiscono sempre alla Parola perfetta in cui Dio si è espresso da sempre e per sempre ("" GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL Looos). Definiamo quindi la «Rivelazione» come I' automanifestazione del mistero della volontà di Dio, «mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2Pt 1,4)» (Dei Verbum, 2). Nell'ambito di questa automanifestazione, libera e gratuita, Dio si esprime nelle Sacre Scritture con parole umane, assumendo il linguaggio degli uomini, in modo che «nei libri sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro» (ibidem, 21). La Sacra Scrittura è dunque la Parola di Dio, ed in ogni sua espressione riecheggia la Parola di Dio come Persona, ossia il Verbo Incarnato (cfr. CCC 101-104). 1. Profilo storico del rapporto tra la Sacra Scrittura e le scienze. Il rapporto fra la Sacra Scrittura e la visione scientifica del mondo ha cominciato ad offrire elementi di vivo dibattito fin dai secoli III e IV a causa della natma di certe correnti filosofiche, come il relativismo scettico di Celso (Il sec.) e la teosofia neoplatonica di Porfirio (233-305). Sia Celso che Porfirio posero in dubbio la natura divina di Cristo sulla base di alcune discordanze riscontrate tra i ("") Vangeli. Le loro teorie furono ribattute rispettivamente da Origene (185 ca. -253 ca.) e ("")Agostino (354-430). Ma quando si pensa al rapporto fra scienza e Sacra Scrittura il pensiero corre subito al caso di("") Galileo Galilei (1564-1642). Il problema posto dallo scienziato pisano affonda le sue radici verso la fine del secolo XIV quando, a causa del declino della teologia e della filosofia scolastiche, si produsse nel pensiero occidentale una separazione prima tra scienza e filosofia, e poi tra fede e ragione. Le cause di

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questa separazione sono molteplici, ma risalgono fondamentalmente alla cadenza pessimista del nominalismo ed alla svolta "soggettivista" impressa alla gnoseologia. Il frutto di questa separazione fu duplice: da una parte, la ragione proclamava la sua autonomia, ma si vedeva poi subito preda dello scetticismo("" RAGIONE, III), già con Montaigne (1533-1592). Per sfuggire allo scetticismo nominalista, il pensiero umano si rifugiava nella fede come unico mezzo per conoscere con certezza la verità. Ma l'autonomia della ragione provocò nelle medesime circostanze anche l'effetto opposto, quello del razionalismo, inteso come sforzo per "razionalizzare", ossia rendere evidente e dimostrabile, sia la fede, sia la rivelazione, sforzo che troverà il suo primo radicale esponente in Spinoza (16321677). Nel processo di messa in discussione della Rivelazione, e quindi della Sacra Scrittura, possiamo distinguere varie fasi, segnate da personalità di rilievo come("") Lutero,("") Descartes e ("") Kant (per il ruolo svolto in proposito da questi autori, cfr. J. Maritain, Tre riformatori. Lutero, Cartesio, Rousseau, Brescia 1983). Lutero (1483-1546) si colloca in un periodo travagliato del pensiero, nel quale la ragione umana, avvolta dallo scetticismo della tarda scolastica di autori come Guglielmo di Ockham e Nicola di Autrecourt nei secoli XIV e XV, si rifugia esclusivamente nella fede (sola fide) e nel contenuto della Rivelazione. Lutero è un vigoroso anti-intellettualista, che considera la metafisica come la causa di tutti i mali e difende il "libero esame" della Sacra Scrittura, convinto che lo Spirito Santo assista e guidi l'intelletto di ogni fedele. In quegli stessi decenni, agli inizi del XVI secolo, si andavano affermando le scienze sperimentali e logiche, specie con F. Bacone (1561-1626) con una decisa presa di posizione contro la fisica aristotelica, sebbene ne restasse vigente il contesto concettuale, con non poche ambiguità che trascinavano con sé anche la critica alla metafisica, compresa adesso riduttivamente, ormai persa la mediazione del pensiero tomista e della migliore scolastica. Ulteriori passi, nella costituzione del problema della Sacra Scrittura, furono dovuti al razionalismo di Descartes (1596-1650) e soprattutto all'Illuminismo, con la loro pretesa di elevare la ragione umana a misura di tutte le cose. Le correnti razionaliste di quel tempo influirono sull'interpretazione della Sacra Scrittura ad

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EL PRINCf PIO Dio creo el cielo & la tena:& la cerra crl infru él:uofa&uacua:& letC· ncbreeranofopra la fa, àadelabi!fo.Etel fpiri· to del fignore era tnenarofopra le acque, Dlffcdio.Siafada laluce:&làd:a e la lu ce .Etuide Dio la luce cflét bona:& dilli· fe la luce da le tenebre:& appello la luce di:& le tenebre nolte.Ecfattoe la fcra & 1111tim u11od1:ctiamdio dille.Sia fal:to el firnuméco in~ezcJÙle 2cque:elquaf diuida le acqt1cda le acqae.Etfcçe dio el firma1nc11to:& dluifeleacqutd:iettano forto cl fivn.amtnro daqu.cllccbcnno fo pra cl firmam~nto.Etfalro~cofif&chiz mo Dioel fimiamenm cklo;&.fiaéto e fera & marina cl fecondo dUWsln cUITe Dio.Lcacquechefonofouoelcielo fia. no congrega cc In 4J.10loco.& apargi lari. da:& fall:oecofì.Et duamo Dio !arida terra:& k co11grcgacionede le acque ap. pe!lomarc.~tuit'e Dio'clftte buono: & d1IJ'e.Gcl'tllinela tetta haba uirente &; fa ci;1 cl feme:& cl legno pomlfcro che fa. cl aet fmdo fecondo la fua gcneratio11e.

Lafemcnzadelquar lìain fe medefimo Copra la terra:& cofi faltoe.Er la terra .p dulfc lhcrba uircnte:& faciemc il feme fe condo la fua gcnerationc: & cl legno fo. ciente d frutto:& hauenrc cbfcaduno d femtlltc fecondo la fua fpecic,& uidc dio elferebona:&faltaefrrn &macinaci rer ::o di.Eciamdilfc Dio.Siano falle le lui minarle 11elfim1amenro dcl cielo:&frpa rinoc:tdi& la notte:& liana in fcgni:& tempi:& di:& anlJi: pcrche refplc11dano nelfirmamentodel ciclo: & illun1iuano latcrra.Etcofi fatto e.Erfcced1odol gr.i di Juminarii:el !nminaremag.ioreche foprafl:elfcal di:& el luminare minore che foprafl:ciTc ala node.Etcriam fece dio le !l:elle:&pofe quelle nel fimummro dcl. c1elo:perche luceffino Copra la cena:& lì gnorizaffeno al di& alanolle:& d1uidcf fenola luce&lctcnebra.Etuidedio elfer bono:& fa&o e fera &: 1mdna cl quarto dì,lidamdilfe Dio.Producano le acque elrepriledclcanlme ulueote & uolatile fopralatttra:rottoel lìnnamenrodel de lo.Et mo Oiolc Balene grande: &: ogni anìmauiuente&m1.uabtlc:lcqual le ac. quc haueua11oprod11él:enele foe fpecie: &ognluoladlefecondolafua generatio ne,Euùdc DloerTcrbuono: & benedìlfe dlì dicendo.Crefccte& mnlriplicate: & reanpletc le acque dclm:ue. Et multipli dunolludellifopra la rcn:a.Ecfa& e fe, ra&madnaelquintodi.DìfTc diam dio ptududu la !tt!alanima uiuéfc ne la fua gcmratiouc:&iumenti:& Il reptilì: &le bellic della tetta ferodo le fue qttalitade, """~""....."" Et fafioeco.li.ErfeccDiolebcfticdella Rl~ft3~~fJ..I mrafecor1dole fue fptdC"Jà i.umenti: Ile ogni repdledel2 retta nda fiugeoeraùo.

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Illust1:azione della pagina di apertura del Libro della Genesi, tratta dalla Bibbia in lingua volgare pubblicata nel 1517 a Venezia da G. Rusconi.

Sacra Scrittura

opera di Richard Simon (1638-1712) e successivamente, in seguito al dibattito tra razionalismo ed empirismo, la filosofia critica di Kant (1724-1804) entrò anch'essa nel merito dell'interpretazione dei Vangeli, soprattutto in chiave morale, dando luogo allo studio della figura di Gesù come grande Maestro morale. Nel secolo XIX, mentre in Francia la ragione umana veniva sottovalutata dal(""') fideismo e dal tradizionalismo (ad opera di autori come L.E. Bautain e A. Bonnetty), che basavano la certezza umana solo sulla Rivelazione divina, la stessa ragione fu assunta, invece, a regola assoluta ed universale del sapere dal razionalismo panteista degli Idealisti tedeschi, specie con Fichte, Schelling, Hegel e, nella teologia cattolica, con Hermes, Giinther e Frohschammer (""'IDEALISMO II, IV.I). In questo periodo si posero i fondamenti delle scienze storiche e letterarie. In tale contesto l'interpretazione della Sacra Scrittura si fece problematica, perché venne posto con speciale radicalità il problema della «ispirazione» della Sacra Scrittura e della sua veridicità nei confronti dei dati forniti dalle scienze naturali e storiche, che cer·cavano di precisare il contesto storico e letterario della Bibbia. Sorse così, soprattutto ad opera degli epigoni degli idealisti, come Schleiermacher, Baur, Strauss, Wellhausen, la cosiddetta «questione biblica» (""' VANGELI, I). Per tutti questi autori, iniziatori o sostenitori di ciò che è stato chiamato il «protestantesimo liberale», la Rivelazione è solo un momento nel processo di autoconoscenza dell'Assoluto, il quale è, quindi, l'autore della Rivelazione. In questo senso, la ragione umana non solo può comprendere i misteri di Dio, ma li può dimostrare. Riguardo la Sacra Scrittura, il protestantesimo liberale propugnò una critica storica implacabile, insieme ad una critica letteraria che oscillava tra due estremi: la storia delle letterature orientali e la ricostruzione di uno "spirito nazionale". Se il primo estremo faceva considerare la Bibbia come una delle molte opere letterarie dell'Oriente Medio, il secondo dissolveva l'ispirazione in una generica compenetrazione nello spirito di un popolo. Tanto il fideismo quanto il razionalismo idealista furono esaminati e respinti dal Concilio Vaticano I (1870) nella Costituzione Dei Filius (cfr. DH 3008-3020). Il Concilio Vaticano I ha affermato con· decisione che fra i due ordini di conoscenza, la fede e la ragione, non vi può

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essere opposizione, giacché Dio è tanto l'autore della Rivelazione, quanto la Causa agente del pensiero umano. La ragione e la Rivelazione non possono che confluire verso un unico oggetto - Dio somma Verità - considerato da due punti di vista: a) per quanto concerne i misteri nascosti della sua natura intima ed il suo disegno provvidenziale, accessibili solo alla luce della fede (lumenfidei); b) per ciò che può essere conosciuto a partire dalla Creazione, in quanto accessibile alla ragione con la sua luce naturale (naturale rationis lumen). 2. Il sorgere delle scienze ed il caso Galilei. Nell'occuparsi dei rapporti fra fede e ragione, nel suo capitolo IV, l'enciclica Fides etratio (1998) riserva una sezione alla storia della separazione, avvenuta nella cultura dell'Occidente, tra la fede e la ragione, facendo rilevare che tale separazione ha coinciso·con la nascita del pensiero scientifico fisico-matematico (cfr. nn. 45-46). La fissura iniziale si è sempte più allargata, sino a trasformarsi in una vera e propria opposizione con il sorgere del razionalismo critico cartesiano. A partire da Descartes, infatti, è sorto il progetto di ricostruire tutto il sapere filosofico sulla base del metodo empirico matematico: in altri termini, la metodologia conoscitiva della matematica e della fisica è stata elevata a paradigma della conoscenza umana in generale. Ciò ha comportato, anche se i primi difensori del nuovo metodo non se ne rendevano conto, un rifiuto della(""') metafisica, e quindi la negazione della comprensibilità della fede. Questa dolorosa separazione è stata favorita da vari fattori, tra i quali si possono segnalare la difesa ad oltranza, da parte di alcuni settori "teologici", di un metodo scientifico antiquato, connotato irrimediabilmente dal ricorso alle auctoritates e dalla difesa del sistema astronomico tolemaico, che sembrava indissolubilmente legato ad alcune tesi metafisiche irrinunciabili; da parte dei novatores, l'esigenza, avvertita anch'essa come irrinunciabile, di stabilire un dominio di certezze al di là di qualsiasi possibile dubbio, basata sulla certezza ed universalità di cui sembravano godere le conoscenze fornite dal metodo empirico positivo. Come ha segnalato Maritain (cfr. Sept Leçons sur l'etre, Paris 1933), ciò equivaleva a sostituire la ricerca della (""') verità con il desiderio della certezza, e quindi a porre come ideale del sapere filosofico non la contemplazione del-

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l'essere, ma l'imporsi dell'evidenza (more geometrico demonstrata), sia nel suo aspetto empirico, sia nella sua dimensione deduttiva a priori a partire da principi universalmente accettati (/ DESCARTES, Il). Il passaggio da questa posizione - preoccupata di giungere ali' evidenza alla soggettività del principio di immanenza è facilmente comprensibile: una volta accettato il principio di immanenza ("" IDEALISMO, 11.3), è fin troppo semplice, poi, da una parte rifiutare la metafisica, e dall'altra considerare la Rivelazione come una autoconoscenza e non più come autodonazione trascendente il mondo. In questo processo di messa in questione del conoscere umano e della natura della Rivelazione, la controversia suscitata da Galileo ha, tutto sommato, un ruolo secondario, ma è istruttiva ed esemplare per ciò che riguarda l'impostazione dei rapporti tra l'esegesi biblica e le scienze. In essa, infatti, si percepisce l'inevitabile conflitto che doveva necessariamente sorgere tra la scienza sperimentale e l'insieme di convinzioni, derivate da quell'interpretazione semplicistica dei fenomeni naturali offerta dalla fisica ereditata dall'epoca classica, come, ad esempio, l'esistenza di quattro elementi fondamentali (terra, acqua, aria e fuoco) oppure l'esistenza di una vis vitalis, per distinguere le cose animate (piante, animali) dalle inanimate. Alcune di queste convinzioni erano diventate, nel corso dei secoli, quasi dei punti di riferimento della vita quotidiana. L'immobilità della terra, infatti, e la sua centralità all'interno dei sette cieli che la sovrastavano, erano l'espressione astronomica di un'idea filosofica. La terra era il culmine della creazione divina, ma era, nello stesso tempo, distinta e lontana dal ("") cielo. La terra era il punto più basso dell'universo e sopra di essa, a grande distanza, si aprivano le diverse sfere celesti mobili, e quindi I' «empireo», considerato la sede dei beati("" ALIGHIERI, ill.1). La scoperta che questa non era la realtà delle cose, dovuta al progressivo affermarsi del modello copernicano, non rappresentava solo una rivoluzione astronomica, ma un cambio di riferimenti vitali. La terra stava adesso nel cielo, più esattamente nel terzo cielo a partire dal sole, ed il sole occupava il luogo centrale ("" COPERNICO, Il). Le scoperte astronomiche permesse dall'impiego del cannocchiale da parte di Galileo, ebbero perciò una ripercussione immediata nella cosmologia e, quindi, sulla Sacra Scrittura, che sembrava favorire l'antica cosmologia. I

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dati raccolti dallo scienziato pisano non solo rendevano improbabile il sistema tolemaico ("" GALILEI, III), e quindi la fisica aristotelica, ma sembravano contraddire l'interpretazione letterale e fino ad allora indiscussa di certi passi biblici (cfr. Gs 10,12-13; Sal 19,5-7; 92,1 e 104,5; Gb 10,12-13: Qo 1,4-5; Sir46,4; /s 38,78) .. Giudicata con la prospettiva del tempo, la controversia pone in evidenza la scarsa capacità, da parte delle strutture culturali già stabilite, di assimilare le nuove idee scientifiche e l'epistemologia che le accompagnava. La diffidenza ·con cui i filosofi scolastici ed i teologi accolsero la nuova cosmologia fa vedere fino a qual punto la scolastica aveva perso nel secolo XVI la sua caratteristica di philosophia perennis. Un tale apparato filosofico non soltanto non serviva più alla conoscenza scientifica, ma rimaneva "stretto" anche alla Rivelazione, che era ora compresa con meno profondità di quando non era stato all'epoca patristica e medievale. D'altra parte, per emettere un giudizio equilibrato, occorre considerare che il contesto culturale europeo era in piena effervescenza, sotto lo shock, non ancora superato, della riforma protestante. I riformatori non avevano esitato, infatti, a ripudiare la metafisica e I' aristotelismo come responsabili della visione legalista dell'etica. Ciò induceva a vedere germi di protestantesimo in qualsiasi novità che si presentasse come anti-aristotelica. Non si può neanche dimenticare, infatti, che pochi decenni prima del Galilei era stato condannato al rogo ("")Giordano Bruno (1548-1600) ed erano ancora vivi gli echi di quella condanna. Il caso di Galilei è, come si è detto, paradigmatico, perché fa vedere in azione le componenti culturali di una separazione che perdura fino ai nostri giorni. È lo scontro fra un eccessivo "teologismo" ed una visione della scienza svincolata dai suoi presupposti gnoseologici. Sotto la pressione degli avvenimenti - sospetti di riformismo luterano, sconvolgimento della fisica astronomica tradizionale, polemiche contro l'intero sistema aristotelico-, si ricorse ad una soluzione frettolosa e che non rispettava le giuste esigenze della scienza quale la condanna e labiura, anche se Galilei, contrariamente a quanto una certa storiografia ottocentesca ha ideologicamente veicolato, fu trattato con grande umanità e comprensione. Il fondo della questione, perciò, non è privo di interesse perché ci sembra confluissero in

Sacra Scrittura esso tre problemi di grande importanza. Il primo si riferisce alla necessità di stabilire i criteri ermeneutici della Bibbia nelle questioni apparentemente in contrasto con i dati delle scienze naturali. Il secondo problema era quello di fissare delle premesse gnoseologiche (il metodo) che consentissero di accogliere le nuove teorie astronomiche in una gnoseologia universalmente valida. Il terzo problema, il più spinoso secondo noi, era quello di mantenere la continuità filosofica fra il nuovo metodo scientifico e i fondamenti della metafisica. In definitiva, nella vicenda delle teorie dello scienziato pisano erano in giuoco la definizione e la permanenza di una philosophia prima. 3. Le affermazioni di Galilei sull'ermeneutica biblica. Il pensiero di Galilei per ciò che riguarda la Sacra Scrittura si trova condensato principalmente in due lettere: quella a Padre Benedetto Castelli, del 21 dicembre 1613, e quella alla Granduchessa Maria Cristina di Lorena, terminata nel giugno del 1615. Entrambe precedono le disposizioni disciplinari del sant'Uffizio del febbraio del 1616 e rappresentano in certo modo la preparazione della sua difesa ("" GALILEI, Il.2). Nelle due lettere, più estesamente in quella alla granduchessa madre, Galileo espone la sua convinzione della compatibilità fra la Sacra Scrittura ed il sistema copernicano. Lo scienziato parte da una affermazione basilare: tra due verità non ci può essere contraddizione. Come dice nella missiva alla granduchessa: «Sopra questa ragione [la realtà del sistema copernicano] parmi primeramente da considerare, essere santissimamente detto e prudentissimamente stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta volta che si sia penetrato il suo vero sentimento; il qual non credo che si possa negare esser molte volte recondito e molto diverso da quello che suona il puro significato delle parole» (Opere, Firenze 1968, vol. V, p. 315); ed in una forma più teologica al Castelli: «procedendo di pari dal Verbo Divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio [ ... ] pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch'avesser nelle parole diverso sembiante» (ibidem, pp. 282-283). La soluzione sta quindi nell'interpre-

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tare la Scrittura in un senso che si discosta da quello immediato e letterale, com'è il caso quando si dice che Dio ha occhi, mani, dita, oppure si pente, si adira, sente compassione. L'ermeneutica biblica proposta dal Galilei poggia quindi su due punti fermi: l'inerranza della Sacra Scrittura e l'impossibilità di attribuire sempre un significato assolutamente letterale ai testi biblici (vedi infra, III). Implicitamente, inoltre, Galilei sostiene la compatibilità della scienza e della Rivelazione, quando afferma che non si può ricorrere al dato rivelato nelle questioni che non sono di fede. Infine lo scienziato italiano afferma che laddove non è possibile attribuire un significato assolutamente letterale alle espressioni scritturistiche, lo scrittore sacro si adatta al modo di parlare e di pensare comune e ordinario.

II. La questione biblica e il progresso delle scienze 1. Gli sviluppi nel contesto del progresso scientifico dei secoli XVJ/1-XJX. Sopite la questione suscitata dal Galilei e le vicehde che l'accompagnarono, l'inerranza della Sacra Scrittura venne rimessa in discussione nella seconda metà del secolo XVIII ed ancor più nel secolo successivo. Il Concilio Ecumenico Vaticano I, al dare risposta al razionalismo ed al fideismo, stabili anche la "verità fondante" di ogni interpretazione, segnalandola nella «ispirazione» della Sacra Scrittura. > o «eminente», che solo alcuni testi presentano oltre al

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senso letterale. Si tratta di un senso che completa e specifica quello letterale, riferendolo ad un soggetto scelto in una molteplicità (ciò che spiega il nome di "eminente") oppure che conferisce al termine di riferimento una profondità e una pienezza speciali. Un esempio è quello di una proprietà che si afferma di molti individui, ma si applica in senso più proprio e completo (ciò che spiega l'aggettivo plenior) ad uno solo tra di essi. È il caso di Gen 3,15, quando Dio annuncia che stabilirà un'inimicizia tra il serpente e la donna (con articolo), tra la discendenza del serpente e quella della donna. Questa donna è direttamente ed immediatamente Eva, ma è anche un nome collettivo che indica tutte le donne, in quanto possono possedere una discendenza. Eppure, la presenza dell'articolo induce a pensare ad una donna in particolare. Se si tiene presente il NT, nella Lettera ai Galati s. Paolo afferma che Cristo nacque «da una donna» (Gal 4,4). Il nome «donna» si attribuisce, quindi, in modo eminente o più perfetto alla Madre di Gesù Cristo. Il senso plenior può essere ignorato dall'autore umano e venire manifestato, a posteriori, solo dall'unità della Sacra Scrittura e dalla connessione dei misteri della fede (analogia Scripturarum ed analogia fidei). Per affermare, infatti, che un testo possiede un senso plenior e' è bisogno di riferirsi a ciò che si conosce mediante altre fonti, che possono essere altri testi scritturistici o anche gli insegnamenti della Tradizione Apostolica. Il «senso tipico» o «figurativo» è un altro significato o senso biblico che va affiancato al letterale: in alcuni casi è quello che si ricollega al parallelismo esistente tra persone, cose od avvenimenti nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Le persone, cose od avvenimenti del1' AT sono cosl «figure» o «tipi» (gr. tjpoi) delle realtà del NT. Il rapporto di correlazione si può stabilire solo se è rivelato dalla stessa Scrittura o dalla Tradizione, in modo particolare se su di esso vi è stato il consenso unanime dei (.,....)Padri della Chiesa. Tra i vari esempi di senso tipico si può citare il discorso del Signore nella sinagoga di Cafarnao (cfr. Gv 6,22-65) quando rivelò che la manna era figura del vero pane del cielo o pane della vita, ossia della (.,....) Eucaristia. In un altro momento della sua predicazione (cfr. Mt 12,38-40; Mc 8,11-12; Le 11,29-32) Gesù stesso stabilisce un parallelismo fra le vicende di Giona (cioè i tre giorni trascorsi nel ventre del cetaceo) e quelle della

s sua morte e resurrezione. Allo stesso modo la Lettera agli Ebrei afferma che tutto ciò che si riferisce alla costruzione del Tabernacolo e dell'arca erano «ombre», ossia figure della realtà, che è quella del Corpo di Cristo, del suo Sacrificio e della Chiesa (cfr. Eb 8,5; 9,9 e 9,23). S. Paolo stesso rivela che gli episodi narrati nel libro dell'Esodo erano figura delle realtà cristiane: la Chiesa ed i sacramenti (cfr. 1 Cor 10,6.11). Presso i Padri, ad esempio, l'arca di Noè è stata costantemente interpretata come figura del battesimo, e il sacrificio di Abele e quello di Melchisedec come una prefigurazione del sacrificio redentore di Cristo. Molti personaggi dell' AT sono per i Padri una figura di Gesù Cristo; tra i quali i più comuni sono Abele, Isacco, Giuseppe, Mosè, Giosuè, Davide, Salomone, Geremia, Giobbe. Ciò non vuol dire, ovviamente, che tutti gli aspetti della loro vita fossero una "figura" di Cristo, ma che l'aspetto più significativo della loro esistenza trova in Cristo la sua spiegazione più compiuta. I tre sensi fin qui considerati - cioè il letterale, il plenior ed il senso tipico - sono sensi "del testo", in quanto sono voluti dall'autore umano (senso letterale) o divino (plenior e tipico). I Padri della Chiesa sono soliti parlare però di un senso della Sacra Scrittura che va al di là della lettera del testo e permette di penetrare nella realtà divina. Questo senso è di solito chiamato «senso spirituale», per distinguerlo da quello letterale. A volte il senso spirituale coincide con il tipico, ma in altre occasioni è un senso che l'interprete scopre alla luce della totalità della fede. In questo caso si tratta di un senso che deriva dall'applicazione di un testo biblico ad una situazione attuale, con certe sfumature di simbolismo e di allegoria. In questo senso, per esempio, si possono interpretare tutte le prescrizioni relative alla purezza ed impurezza legali, specialmente quelle che si riferiscono alle distinte forme di lebbra, come simboli del peccato in generale e specialmente del peccato contro la castità. A questa categoria appartiene anche la simbologia numerica. S. Agostino, per esempio, vede nell'invio dei discepoli "di due in due" un simbolo del doppio precetto della carità. Anche il fatto che i discepoli fossero 72 è per il vescovo d'Ippona un simbolo della perfezione del Nuovo Testamento rispetto all' Antico: 72 è infatti il risultato della somma 70+2, ossia sette volte (simbolo della perfezione) dieci (i comandamenti dell'Antica Legge) più il

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doppio precetto della carità. È evidente che questo senso deve essere impiegato con prudenza e moderazione, rispettando sempre il senso letterale. In questi limiti, il senso spirituale può risultare utile per le sue applicazioni di carattere pastorale. 3. Criteri e metodi per trovare il significato di un testo. Il principio fondamentale da tener presente è che la Sacra Scrittura è parte della Rivelazione, e che essa è stata affidata alla Chiesa. Il significato di un testo, quindi, è collegato alla totalità della Rivelazione in una duplice direzione: non vi può mai essere contraddizione tra due testi e un testo oscuro riceve luce da testi più chiari o da verità della Rivelazione meglio conosciute. Inoltre il testo non è slegato dalla Chiesa, perché è stato in essa ricevuto e da essa trasmesso. Come ricorda il Vaticano 11, inoltre, occorre ricorrere alla Tradizione, dato che Scrittura e Tradizione costituiscono l'unica fonte della Rivelazione. La Tradizione, rispetto alla Scrittura, ha una funzione esplicativa, difensiva e diffusiva. Nell'interpretare perciò il testo sacro, occorre sempre conoscere ciò che dice la Tradizione a proposito di un passo della Sacra Scrittura, consultando le fonti opportune. Tra esse bisogna citare, in primo luogo, le opere dei Padri della Chiesa e degli scrittori ecclesiastici. Fra le dichiarazioni del Concilio Vaticano I vi fu infatti anche quella che non è lecito interpretare un testo contro il consenso unanime dei Padri (cfr. DH 3307). Il Magistero successivo confermò tale asserzione e ne estese la portata, chiarendo che il parere anche di un singolo Padre merita fiducia, se si tratta di un autore che ripete o difende la dottrina ricevuta e non una sua opinione personale. È il caso, per esempio, di s. Atanasio, s. Basilio e s. Gregorio di Nazianzo nella controversia con gli ariani, quello di s. Cirillo di Alessandria di fronte ai nestoriani, di s. Agostino contro i Pelagiani, di s. Leone Magno contro i monofisiti o di s. Massimo il Confessore contro gli iconoclasti. Il consenso unanime dei Padri (quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est, come affermava s. Vincenzo di Lerins) è criterio certo della Tradizione. Cosl pure lo è il consenso unanime dei Dottori della Chiesa e dei teologi attraverso i secoli. Si possono menzionare come fonti della Tradizione anche le liturgie antiche, tanto in Oriente quanto in Occidente, specialmente la liturgia Romana, e l'arte sacra. Ricordiamo inoltre che

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esiste anche un'infallibilità della Chiesa in credendo: una verità creduta da tutti e dovunque, in modo ininterrotto, da tempo immemorabile, in unione con i legittimi Pastori, appartiene certamente al deposito della fede anche se non è stata definita dal Magistero. Si parla, in questo caso, del sensus /idei del popolo di Dio (cfr. Lumen gentium, 12). La Sacra Scrittura, la Tradizione ed il Magistero costituiscono un'unità tale che uno di essi non può sussistere senza gli altri (cfr. Dei Verbum, 10). Il deposito della fede, contenuto nella Rivelazione, è stato affidato alla Chiesa perché essa lo conservi intatto, lo conosca con sempre maggiore profondità, lo difenda dalle interpretazioni erronee e lo annunci agli uomini di tutti i tempi. Ciò vale in particolare per la Sacra Scrittura, come parte della Rivelazione medesima. Il suo senso corretto è quello che mantenne e mantiene la Chiesa, come dichiarato attraverso il suo (;r) Magistero, sia nelle sue forme solenni e straordinarie (Concili Ecumenici e Definizioni ex cathedra del Romano Pontefice), sia mediante le sue forme di esercizio ordinario ed universale, come nelle Encicliche e negli altri documenti del Papa o dei Vescovi in comunione con lui (cfr. Lumen gentium, 25). Sono assai pochi i casi nei quali il Magistero ha proposto in modo definitivo il senso di un testo biblico. Si possono menzionare in proposito il decreto sul peccato originale promulgato dal Concilio di Trento (17 .6.1546; cfr. DH 1510-1516), nel quale si afferma che il testo di Rm 5,12 si riferisce al peccato originale, commesso da Adamo e presente come proprio in ogni uomo, non per imitazione ma per propagazione (cfr. DH 1512). Vi è poi quanto affermato dal Concilio Vaticano I in merito ai testi di Mt 16,16-18 e Gv 21,15-17, per i quali si dichiara in che essi si riferiscono esplicitamente al primato universale di Pietro su tutta la Chiesa, primato che comprende anche l'infallibilità del suo Ma~istero (Pastor Aeternus, 18.7.1870, DH 3053). E invece più frequente il caso di testi biblici che vengono citati come punto di appoggio per insegnare una verità di fede, ma senza la volontà di definirne il significato: ne sono un esempio il testo del saluto dell'Arcangelo Gabriele a Maria (Le 1,28: «Ti saluto, piena di grazia») e quello del cosiddetto protovangelo (cfr. Gen 3,15), addotti come fondamento biblico dell'immunità di Maria dal peccato originale, cioè della sua «Immacolata Concezione» (cfr. Pio IX, Ineffabilis

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Deus, 8.12.1854). In epoca più recente il Magistero ha svolto soprattutto una funzione di orientamento degli studi biblici, senza voler limitare il campo degli studi né la libertà di ricerca degli esegeti. Sono particolarmente significativi in tal senso i già citati due interventi della PCB del 1964 e del 1993. La Sacra Scrittura si inserisce nel contesto globale della Rivelazione, ossia nell'insieme di tutte le verità oggetto di fede. Poiché Dio ne è l'autore principale, la Sacra Scrittura costituisce una unità a motivo, appunto, dell'unicità del suo Autore divino. Ciò significa che per chiarire il significato di un passo biblico si può ricorrere ad altre verità di fede o ad altri testi della stessa Scrittura. Questo modo di procedere, che costituisce un vero principio ermeneutico, riceve il nome di «analogia della fede» (analogia /idei) e, nel caso del ricorso ad altri testi interni alla Scrittura, si chiama «analogia della fede scritturistica» (cfr. DH 3016, 3887). · Fissati i criteri teologici, il campo che resta alla ricerca esegetica è assai ampio. Questa ricerca deve svolgersi secondo le regole della critica letteraria e storica. Il primo compito è perciò la fissazione di un testo criticamente sicuro (compito proprio della critica testuale). Quando si è stabilito il testo, occorre sottometterlo ad una lettura minuziosa ed attenta. Questa lettura deve effettuarsi sul testo originale e risolvere i vari problemi di ordine grammaticale e lessicale: struttura della frase e del periodo, ordine delle parole, significato dei termini utilizzati. Si tratta, in sintesi, di scoprire con la maggiore esattezza possibile ciò che l'autore umano ha voluto dire. Le norme fondamentali di critica letteraria stabiliscono che il significato di un testo si può ricavare, e si deve ricavare, non solo dalla lettura del testo ma anche dalla considerazione del "contesto"; si tratta sia del contesto prossimo - ciò che precede o segue il testo - sia di quello remoto: cioè la struttura e la finalità di tutta l'opera o del particolare libro, le circostanze storiche nelle quali il testo fu concepito e redatto, le eventuali fonti alle quali attinse l'autore umano o i modelli che seguì o imitò, le altre opere o scritti dello stesso autore. È sempre molto importante stabilire il genere letterario del testo considerato, perché ogni genere letterario deve tener conto dei testi paralleli dello stesso o di altri autori per stabilire analogie di significato. ·

s 4. I metodi ermeneutici storico-critici. L'uso sistematico di questi criteri crea un "metodo" ermeneutico. Dato che i criteri esposti si basano sulle scienze storiche, i metodi relativi possono essere inglobati tutti sotto il nome di «metodo storico-critico». Come spiega il citato documento della PCB del 1993, «poiché la Sacra Scrittura, in quanto "Parola di Dio in linguaggio umano", è stata composta da autori umani in tutte le sue parti e in tutte le sue fonti, la sua giusta comprensione non solo ammette come legittima, ma richiede, l'utilizzazione di questo metodo» (EV 13, 2862). L'utilizzazione di questo metodo, in ogni caso, deve essere unita ad un attento discernimento, allo scopo di eliminare gli apriorismi filosofici che possono condizionarlo, dato il suo originario sviluppo in un contesto razionalista ed idealista("" ERMENEUTICA, VII). Il metodo storico-critico è un metodo essenzialmente "storico" perché cerca di ricostruire, attraverso le fonti, i documenti, le paiticolarità letterarie, la storia della formazione di un testo. Si parla, in questo senso, di un "metodo diacronico". Esso si distingue dai metodi "sincronici", che cercano di stabilire il significato a partire dal testo così come ci è pervenuto, mettendone in evidenza i collegamenti, le strutture e le regole di redazione. Oltre al metodo o ai metodi diacronici, come si è detto, vi sono metodi sincronici, i quali non considerano la gestazione e la formazione di un testo, ma solo il suo rapporto con il contesto o la sua coerenza interna. Il documento del 1993 ne cita tre: l'analisi retorica, le teorie della narratologia e lanalisi semiotica. Il primo consiste nel rilevare e descrivere il significato e la funzione delle varie parti di un testo alla luce del proposito generale dell'autore; il secondo metodo si centra sulla natura e sul processo del racconto, mettendo in luce l'autore reale, l'autore fittizio, il lettore reale, il lettore fittizio ed il filo narrativo; il terzo, infine, cerca di identificare i personaggi e le idee che muovono una narrazione. Dal punto di vista metodologico, i metodi sincronici si avvicinano al testo con il minor numero possibile di presupposti e ne indagano la struttura, sia in superficie (contesto letterario, aspetti grammaticali e sintattici, risorse stilistiche, frasi fatte, ecc.), sia in profondità (elementi logico dimostrativi, contenuti e generi letterari, ecc.). Questi metodi possono essere di utile complemento ai metodi diacronici e consentono di evitarne gli eccessi soggettivisti. Occorre però

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precisare che anche i metodi sincronici si sono formati a partire da gnoseologie o scienze del linguaggio di tipo immanentista (fenomenologia, positivismo, esistenzialismo, strutturalismo). I metodi sincronici esigono un'analisi particolareggiata del testo, fino ai più minuti elementi, ma non sempre giungono a stabilirne il significato in modo chiaro. Se non si basano su un("") realismo gnoseologico possono condurre a una sterile dissezione del testo. Osserviamo infine che il documento della PCB del 1993 opera una distinzione tra "metodo", che è un sistema globale di spiegazione, ed "approccio'', che è una visione parziale, o realizzata sotto una determinata angolatura. Tra gli approcci vengono citati in primo luogo il canonico, il ricorso alle tradizioni interpretative giudaiche, la storia degli effetti del testo. Altri approcci, dovuti al contributo delle scienze umane, sono: l'approccio sociologico, l'antropologia culturale, la psicoanalisi e la psicologia; esistono poi approcci contestuali, che cioè tengono conto delle necessità e del contesto dei lettori, come le prospettive operate dalla teologia della liberazione e dalla teologia femminista. Al termine di questi «approcci» il documento discuterà, in una sezione a parte, in cosa consista la «lettura fondamentalista» ed il fondamentalismo biblico (vedi infra, V.4). All'interprete cattolico non si preclude alcuno di questi metodi od approcci al testo, ma egli deve esaminarli e valutarli criticamente, alla luce della loro compatibilità con la fede e con una retta concezione di Dio, del mondo e del1'uomo. Per questo motivo il documento manifesta chiare riserve riguardo gli approcci della teologia della liberazione e del femminismo e, soprattutto, quello operato dalla lettura fondamentalista, mentre il giudizio sugli altri metodi od approcci dipende sostanzialmente dalla particolare filosofia che essi collocano alla loro base e quale punto di partenza delle loro argomentazioni.

IV. L'utilizzo delle scienze come discipline ausiliari nello studio della Sacra Scrittura L'utilizzo delle scienze, sia filosofiche che positive, non comporta pertanto alcun pericolo per l'interpretazione della Sacra Scrittura, se si mantengono chiari i rispettivi fondamenti e li-

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miti. Non solo: le scienze vengono in aiuto al1' esegesi biblica quali "discipline ausiliari'', in quanto permettono di conoscere meglio il contesto geografico, storico e letterario del Libri Sacri. Si pone quindi la domanda: quali sono i requisiti che deve possedere una scienza per non contrastare con la Sacra Scrittura? E quali requisiti deve possedere una scienza ausiliare? Da quanto precedentemente detto, si ricava con facilità che il primo requisito richiesto ad una scienza, sia essa di tipo filosofico, o di tipo empirico-matematico, è la compatibilità dei suoi presupposti con il contenuto della Rivelazione divina, considerata nel suo insieme, quale lettura della verità dell'uomo e del mondo alla luce della loro condizione creaturale. Ciò comporta a sua volta, come dato non questionabile, l'affermazione della possibilità, da parte del pensiero umano, di conoscere la ("") verità e di trasmettere tale conoscenza. Occorre, in altri termini, aver superato il dilemma che si poneva Descartes circa il dubbio metodico. Accettare quest'ultimo equivarrebbe a situarsi in una linea di pensiero che sbocca inevitabilmente nell'immanentismo gnoseologico. La scienza corre il pericolo di essere in contrasto con la Rivelazione quando, ignorando i suoi limiti ed i suoi fondamenti, pretende di erigersi a unica forma di conoscenza (..., POSITIVISMO) o quando fissa nella "presenza a un soggetto" il punto di partenza del conoscere("" IDEALISMO). Occorre aver chiaro che la verità, intesa come adaequatio rei et intellectus, è soprattutto l' adeguamento dell'intelletto alla res piuttosto che l'inverso. In questo senso, l'affermazione che la scienza può solo conoscere il "come" delle cose, ma non il loro "perché" - affermazione che ha continuato ad avere buon gioco anche in un contesto neopositivista -, e che quindi la conoscenza umana sarebbe sempre e soltanto conoscenza di un modello, racchiude una negazione della possibilità della Rivelazione. Se la conoscenza umana è solo un autoconoscenza, si resta inevitabilmente presi nelle maglie di un soggettivismo privo di garanzie. Quanto si verificò storicamente con il razionalismo cartesiano, l '-i+ltnninismo, il razionalismo idealista ed il positivismo, può verificarsi oggi, in relazione ali' esegesi, con alcuni usi della logica e delle scienze del linguaggio (semiotica, semantica, lessicologia e grammatica): anche in questo caso saremmo di fronte ad un razionalismo esa-

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cerbato che, basato su un dubbio metodologico, si limiterebbe ad affermare il "come se" delle cose, rifuggendo dall'affermazione ontica. In linea di principio l'esegeta può ricorrere a tutte le scienze che "l'aiutino a capire il significato dei fatti". Ci siamo prima riferiti alla storia, all'archeologia, alla filologia, alla sociologia, alla psicologia; in una parola, tutto ciò che ci permette di comprendere meglio il pensiero di un autore, dalle sue circostanze storiche fino alla psicologia del suo subconscio, può offrire un aiuto, a volte molto utile, per meglio intendere un testo. Essere compatibili con la Rivelazione, la sua possibilità storica ed il suo contenuto, vuol dire per le scienze essere aperte alla trascendenza e non restare confinate in una pretesa autosufficienza intellettuale. In altri termini, si richiede che l'esercizio delle scienze non si nutra di un substrato razionalista o fideista, cosa che può essere evitata quando es~e si mantengono all'interno del proprio oggetto formale e ne colgono l'apertura verso altri campi della conoscenza. Come caso particolare, è necessario che tali scienze siano aperte, dall'interno del loro metodo, all'irriducibilità del problema dei fondamenti, a livello gnoseologico ed ontologico, e ammettano in fondo l'elemento soprannaturale (nel caso specifico una rivelazione divina ispirata ed inerrante), per lo meno come possibilità. Occorre infine che le scienze ausiliari siano basate su una conoscenza ontologica (ens et verum convertuntur) e siano guidate da una gnoseologia metafisica, ossia rivolta all'ente in sé e in tutta la sua ampiezza, e non limitata al solo soggetto conoscente. A questa fruttuosa interazione dinamica con la Scrittura possono partecipare non solo le scienze umane, storiche o letterarie, ma anche le scienze naturali ("" SCIENZE NATURALI, UTILIZZO IN TEOLOGIA). La più precisa conoscenza che esse ci danno del creato in tutte le sue dimensioni, da quella del suo sviluppo storico a quella della ricchezza dei suoi componenti, può aiutare la migliore comprensione della Parola di Dio scritta e trasmessa, purché i criteri prima segnalati vengano rispettati. Il loro ruolo è senza dubbio assai importante a motivo della grande quantità di conoscenze contestuali che esse, forse più delle scienze umane, sono in grado oggi di fornire. Allo stesso tempo non va dimenticato che il testo sacro ha come motivo di fondo la rivelazione delle verità che segnano i rapporti fra l'uomo e Dio e solo secondaria-

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mente quella delle verità concernenti la realtà materiale in se stessa, oggetto delle scienze naturali. Queste ultime verità vengono lette quasi essenzialmente all'interno di una dimensione antropologica, che troverà la sua pienezza in una dimensione cristologica, anch'essa normativa dei rapporti fra Dio e il mondo creato (;t GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL Looos, II). L'idea che ogni conoscenza, anche quella derivante dallo studio della natura, poteva venire utilizzata dal teologo per una corretta esegesi apparteneva già alla tradizione patristica ed è rintracciabile nella teologia medievale. Nel contesto epocale di (.•") Tommaso d'Aquino tale fonte di conoscenza era principalmente quella derivante dalle opere di Aristotele, che egli assumeva come punto di riferimento per la "filosofia naturale" piuttosto che per le sue riflessioni su Dio (per le quali l'Aquinate si rivolgerà più volentieri al neoplatonismo). L'impiego fatto di tali conoscenze nella teologia, ed in misura minore, ma significativa, anche nello studio della Scrittura, può ben riepilogarsi nella nota affermazione che «coloro che si servono degli insegnamenti filosofici nella sacra dottrina, indirizzandoli in ossequio alla fede, non mescolano l'acqua con il vino, ma, piuttosto, trasformano l'acqua in vino» (Super Librum Boethii de Trinitate, q. 2, a. 3, ad 5um). Prima di lui, così lo aveva espresso Agostino: «Quanto più si progredisce nella scienza, più si ammirano le Sacre Scritture, poiché la loro profondità le fa insondabili» (Ad Orosium contra Priscillanistas, n. 9).

V. Alcuni aspetti del dibattito contemporaneo fra autorità delle Scritture e pensiero scientifico 1. La metafora dei due "Libri". Nella tradizione teologica cristiana accanto al "Libro della Scrittura" ha trovato spazio, sebbene con diverse vicissitudini, la metafora del "Libro della Natura". Sorta in ambito patristico e presente in s. Agostino, essa riecheggia poi nella modernità con Bacone, Galileo e Keplero (;t AGOSTINO, V; KEPLER, VI) per giungere fino ai nostri giorni, non senza qualche ambiguità, attraverso la teologia naturale del Settecento e dell'Ottocento. La metafora ha riacquistato oggi interesse nelle riflessioni filosofiche di alcuni scienziati ed è stata ripresa recentemente an-

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che dalla Fides et ratio (cfr. n. 19). Nella prospettiva dei rapporti fra Sacra Scrittura e pensiero scientifico può essere utile farne riferimento. Si tratta di due libri certamente diversi ma non indipendenti, perché hanno lo stesso Autore. È diverso il loro linguaggio - quello della Natura è scritto con i caratteri della matematica e della geometria, come ricordava Galileo nel Saggiatore-, ma la conoscenza dell'uno diviene importante ai fini di una migliore comprensione dell'altro. La persona umana .è costitutivamente capace di comprendere entrambi i linguaggi e di riconoscere la necessità che essi convergano in un sapere armonico ed unitario. La teologia medievale affiancherà a questi due libri un terzo, il "Libro della Croce", per ricordare che l'uomo, a motivo dell'oscuramento recato dal peccato, non è sempre in grado cii leggere correttamente il libro della Natura: la comprensione della Rivelazione, il cui principio ermeneutico centrale resta il mistero pasquale di Gesù Cristo, dovrà sempre fare i conti con il paradosso e con lo scandalo della croce. In alcuni momenti della storia, separare la "finalità" dei due diversi libri può essere sembrata la strada più facile per evitare conflitti fra scienza e Scrittura: il primo libro - come ricordava il card. Baronio all'epoca del caso Galileo a proposito delle scienze astronomiche - doveva dirci "come va il cielo", mentre il secondo "come si va in cielo". Questa strategia, sebbene potesse a prima vista servire per fare un po' d'ordine, alla lunga avrebbe offerto il fianco al sorgere di ambiguità e di pericolosi malintesi. Il libro della Natura parla dello stesso Dio che la Scrittura dice aver creato il cielo e la terra, e per coloro ai quali non sono ancora giunti né il messaggio biblico, né la conoscenza del Vangelo, è un libro che certamente possiede una dimensione salvifica (cfr. At 17,26-28; Rm 1,2022 e 2,14-15; Lumen gentium, 16). Il libro della Natura prepara l'uomo ad accogliere il contenuto del libro della Scrittura (cfr. Fides etratio, 36) e quest'ultimo illumina, con la grazia della Rivelazione divina, il senso ed il significato ultimo di quanto appartiene alla Natura, rivelando la verità più profonda della creazione ( ;r GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL Looos, III). Perché il riferimento al "Libro della Natura" sia oggi significativo all'interno del dialogo fra Sacra Scrittura e scienze naturali è dunque necessario che, pur nel rispetto del-

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la autonomia metodologica e dei diversi linguaggi, la metafora sia capace di cogliere anche i collegamenti e le reciproche implicazioni sottese dai due libri. 2. Opportuni chiarimenti in sede esegetica. Un secondo aspetto degli odierni rapporti fra scienze e Scrittura riguarda lo scarso rigore esegetico con cui si affrontano alcune questioni bibliche in rapporto a presunte incompatibilità con i risultati delle scienze. Con una certa frequenza alcuni autori sottolineano il valore "mitico" di buona parte dei racconti biblici, associando a questo aggettivo non tanto l'idea di una conoscenza arcaica trasmessa e mediata attraverso importanti categorie narrative e culturali ("" MITO), quanto piuttosto quella di racconti fantasiosi ed ingenui, di carattere popolare, dai quali non ci si deve preoccupare di estrarre un contenuto veritativo stabile e coerente. Si tratta in fondo di un altro esempio di come trovare una facile via d'uscita a supposte incompatibilità: la conoscenza scientifica non "provoca", né "risulta provocata'', dal messaggio biblico, perché quest'ultimo avrebbe un valore soggettivo e totalmente allegorico. Le narrazioni della creazione del cosmo, della prima coppia umana, la loro condizione di intimità con Dio e la triste esperienza del peccato, l'episodio del diluvio, la vocazione dei patriarchi e gli avvenimenti più antichi della storia della salvezza, sarebbero immagini senza alcuna corrispondenza con la storia reale dei popoli e delle culture. Una corretta esegesi non può assumere acriticamente una simile concezione del mito. Il senso allegorico, ove presente, non cancella la presenza di verità che l'autore sacro ha voluto trasmettere con quelle narrazioni: l'umanità può conoscere il messaggio veritativo e salvifico che esse contengono, senza che si resti imprigionati in un circolo ermeneutico chiuso, ove il continuo rimando simbolico finisce col non dire più nulla, perché incapace di rimandare al di là di se stesso. Assumere il valore "storico" di molti racconti biblici, ove così venga esplicitamente chiesto dal Magistero della Chiesa, non implica d'altra parte che tutti i singoli fatti narrati siano precisamente accaduti nel modo indicato dal testo sacro, bensì che i racconti abbiano il loro fondamento ultimo nella storia, in fatti, opere e parole che Dio ha realmente operato, e che l'agiografo ha descritto con il linguaggio in quel momento più appropriato o a lui dispo-

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nibile, lasciando poi all'esegeta il compito di esplicitarne il senso valido per ogni tempo. Talvolta i conflitti sorgono quando i cultori delle scienze naturali vedono la Sacra Scrittura come un insieme di "formulazioni di autorità", assumere le quali vorrebbe dire interrompere il progresso delle scienze o falsificarne i risultati. La mediazione dell'esegesi, della teologia e della filosofia, è scarsamente presa in considerazione, così come pure l'idea di "progresso o sviluppo dogmatico": tutto il dibattito fra fede e scienza sembra esaurirsi assai riduttivamente in un confronto fra versetti biblici e scoperte scientifiche. Tale pericolo è maggiormente presente in quelle tradizioni religiose le quali, pur riconoscendosi nel "Libro della Scrittura", lo utilizzano in modo immediato e talvolta istintivo, escludendo o riducendo al minimo la necessaria suddetta mediazione. Si tratta, invece, di una opportuna mediazione "scientjfica" in senso proprio, sia perché deve ricorrere ali' impiego dei criteri dell'esegesi scientifica, sia perché si giova, quando necessario, anche delle scienze positive e sperimentali, che possono contribuire con i loro risultati a chiarire meglio il contenuto di una verità di fede o favorirne un certo sviluppo dogmatico omogeneo. L'impiego frammentario ed isolato di frasi bibliche, in linea generale, non è mai il modo migliore di impostare un confronto con la visione scientifica del mondo, perché la Scrittura possiede una sua unità e coerenza e va considerata alla luce dell'analogia della fede, del collegamento esistente fra i vari misteri divini e, non ultimo, alla luce del buon senso. 3. Alcuni problemi di attualità. Le raccomandazioni prima ricordate valgono in modo particolare per alcuni temi di attualità nel dibattito fra Rivelazione cristiana e lettura scientifica del mondo. Per quanto riguarda il "problema delle origini", oggi tematizzato o almeno suscitato anche ali' interno delle scienze, va ricordato che il messaggio biblico sulla rivelazione dei rapporti originari ed originanti fra Dio e l'umanità, fra Dio e la natura, non va limitato ai primi capitoli del testo genesiaco. Questi versetti, pur nella loro solennità ed importanza, non esauriscono certo il senso di quei rapporti, né contengono tutta la dottrina biblica sulla creazione: quest'ultima va cercata anche nei libri sapienziali e profetici e nell'interpretazione che ne ha dato la teologia dei Padri. Né una vera conoscenza di cosa sia la creazione può prescin-

s dere dal messaggio del NT, in particolare dal1' annuncio escatologico di una «nuova creazione» le cui primizie ci SC?_no già date nella resurrezione di Gesù Cristo. E in questa ottica che va anche affrontato il rapporto con le scienze in merito agli scenari finali dell'universo fisico e alla sua trasfigurazione futura (;r RESURREZIONE, VI; CREAZIONE, VI). Sempre all'interno della dottrina biblica della creazione risulta evidentemente sterile ed esegeticamente sc01Tetto focalizzare il confronto fra Scrittura e pensiero scientifico attorno alla dialettica fra "creazionismo" ed "evoluzionismo"; il primo inteso come un paradigma fissista che affermerebbe la comparsa immediata di tutte le specie dei viventi, negando la possibilità di trasformazioni biologiche o perfino geologiche (;r GEOLOGIA), ed il secondo come paradigma filosofico che interpreti la morfogenesi di tutta la realtà in termini di uno sviluppo necessario ed immanente oppure come gioco di una cieca casualità (;r CREAZIONE, V). L'esegesi biblica può confrontarsi e dialogare con i fatti, e dunque con l'evoluzione, fisica o biologica, spiegata in modo scientifico, liberata da presupposti di carattere filosofico aprioristico. La presenza di analoghi presupposti non va esclusa neanche per quanto concerne il tema del «monogenismo», cioè l'origine di tutto il genere umano da una sola coppia di progenitori. A volte si presenta tale convincimento, suffragato da vari passi biblici e dall'insegnamento del magistero cattolico, come qualcosa di certamente smentito dai risultati scientifici, senza riflettere sul fatto che la ricostruzione scientifica, per quanto accurata possibile, non potrà mai giungere, per ovvi motivi, a prove apodittiche pro o contro di esso. A ciò va aggiunta la considerazione che l'analisi scientifica può dedurre a posteriori se e quando ci si trova di fronte a reperti certamente umani, ma non può concludere nulla sulla comparsa di una prima coppia di progenitori, in quanto la "causa ultima" di tale comparsa - sia essa l'animazione spirituale di un corpo, un nuovo intervento creativo di Dio, ecc. - non è di ordine empirico, mentre lo sono solo le conseguenze ad esso riconducibili. Dal canto suo, il magistero ecclesiastico ha affrontato il tema con chiarezza ed insieme prudenza: il monogenismo appare così legato alle conseguenze "normati ve" dei progenitori per tutto il genere umano, alla dottrina sul peccato originale in particolare, ma anche alla rica-

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pitolazione in Cristo di quanto significato in Adamo, al punto che un abbandono del monogenismo obbligherebbe la teologia ad una seria ricomprensione di molti contenuti della Rivelazione. La dichiarazione principale in proposito resta sempre quella dell'Humani generis: «Ifedeli non possono abbracciare quella opinione i cui assertori insegnano che dopo Adamo sono esistiti qui sulla terra dei veri uomini, che non hanno avuto da lui origine come progenitore di tutti gli uomini per generazione naturale, o che Adamo rappresenta l'insieme di molti progenitori; non sembra infatti possibile concordare (cum nequaquam appareat quomodo componi) queste affermazioni con quanto le fonti della Rivelazione e gli atti del Magistero ci insegnano circa il peccato originale, che proviene da un vero peccato commesso individualmente da Adamo e personalmente e che, trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio» (DH 3897). Non vi sono attualmente dei risultati scientifici che impongano di abbandonare questa comprensione teologica, né potrebbero, per quanto prima detto, essercene di apodittici in futuro. 4. Il rischio del "fondamentalismo biblico": la Scrittura non sposa una specifica visione fisica o biologica del mondo. Buona parte dei conflitti o dei dibattiti prima accennati possono facilmente trovm·e una composizione evitando ciò che viene chiamata una «lettura fondamentalista» della Bibbia. Così ne parla il documento della PCB del 1993: «La lettura fondamentalista parte dal principio che la Bibbia, essendo Parola di Dio ispirata ed esente da errore, deve essere letta ed interpretata letteralmente in tutti i suoi dettagli. Ma per "interpretazione letterale" essa intende un'interpretazione primaria, letteralista, che esclude cioè ogni sforzo di comprensione della Bibbia che tenga conto della sua crescita nel corso della storia e nel suo sviluppo. Si oppone perciò all'utilizzazione del metodo storico-critico per l'interpretazione della Scrittura, così come ad ogni altro metodo scientifico [ ... ]. Il problema di base di questa lettura fondamentalista è che, rifiutando di tener conto del carattere storico della rivelazione biblica, si rende incapace di accettare pienamente la verità dell'Incarnazione. Il fondamentalismo evita la stretta relazione del divino e dell'umano nei rapporti con Dio. Rifiuta di ammettere che la Parola di Dio ispirata è stata espressa in linguaggio umano ed è stata redatta,

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sotto l'ispirazione divina, da autori umani le cui capacità e risorse erano limitate. Per questa ragione tende a trattare il testo biblico come se fosse stato dettato parola per parola dallo Spirito e non arriva a riconoscere che la Parola di Dio è stata formulata in un linguaggio e una fraseologia condizionati da un data epoca» (EV 13, 2971 e 2974). In accordo con questi princlpi, si comprende perché, sebbene nella Bibbia si rispecchiano una o più visioni del cosmo contemporanee al1' epoca in cui scriveva l'autore sacro, non si possa affermare che il cristianesimo (e prima l'ebraismo) abbia "sposato" una particolare cosmologia. «Il fondamentalismo porta inoltre ad una grande ristrettezza di vedute: ritiene infatti come conforme alla realtà, perché la si trova espressa nella Bibbia, una cosmologia antica superata, il che impedisce il dialogo con una concezione più aperta dei rapporti tra cultura e fede» (EV 13, 2978). Sono invece i rapporti fondanti fra Dio e il creato, fra Dio e l'uomo, così come le relazioni fra la persona umana - creata ad immagine e somiglianza di Dio - ed il resto della natura, a costituire il nucleo essenziale del messaggio biblico, con la sua storia di amore e di libertà, di peccato e di salvezza, di dono ricevuto e di compito da svolgere, di responsabilità storica e di attesa della rivelazione definitiva dei figli di Dio (cfr. Rm 8,19). CLAUDIO BASEVI

Vedi: CREAZIONE; ERMENEUTICA; GEOLOGIA; GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL LoGos; SAPIENZA, LIBRO DELLA; TEOLOGIA; VANGELI; AGOSTINO DI lPPONA; GALILEI, G.

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Concilio Vaticano I, DS 3015; Fides etratio, 16-20.

I. Genesi e genere letterario - Il. Sapienza ed ellenismo - III. Rapporto tra filosofia/ scienza e fede. I. Genesi e genere letterario Sbocciato probabilmente verso la fine del I sec. a.e., alle soglie del cristianesimo e in epoca augustea, il libro deuterocanonico della Sapienza è una delle testimonianze più suggestive del fermento intellettuale del giudaismo di Alessandria di Egitto che aveva alle spalle l'importante operazione della versione biblica greca dei Settanta e che stava per generare la figura complessa e polimorfa di Filone Alessandrino (20 a.C.-50 d.C.). Posta simbolicamente sotto il patronato di Salomone, segno ideale della sapienza, l'opera è difficilmente catalogabile secondo un unico genere letterario definito, ferma restando la sua appartenenza al più ampio orizzonte sapienziale. Potrebbe rimandare a un embrionale trattato teologico che ruota attorno a tre nuclei tematici capitali: l'immortalità (cc. 1-5), la nozione di sapienza (cc. 6-9), larilettura simbolica e "midrashica" della storia esodica e dei suoi prodromi. C'è, dunque, al suo interno il genere del midrash, una specie di esegesi allegorico-omiletico-morale delle Scritture; questo genere induce l'autore a usare anche la tonalità del discorso protrettico ed esortativo, ma affiora pure il taglio epidittico o dimostrativo con una netta impronta retorica (generi praticati nell' ellenismo). Da un lato, infatti", si vuole esortare gli Ebrei a prendere coscienza della nobiltà del loro patrimonio spirituale e culturale, in un momento in cui affioravano le prime reazioni ostili antigiudaiche e le relative tentazioni di apostasia o anche di sincretismo (c. 2). D'altro lato, si vuole offrire alla cultura circostante ed alla sua sensibilità la visione tradizionale ebraica mostrandone la ricchezza e la sua compatibilità con l'orizzonte ellenistico (un intento che, per certi versi, potremmo definire di dialogo interreligioso e persino di "ecumenismo"). Non manca naturalmente anche il ricorso alle risor-

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se del linguaggio e della stilistica greca, come avremo occasione di puntualizzare: un esempio piuttosto macroscopico è l'uso della "sincrasi" o comparazione sistematica, condotta per antitesi nei cc. 11-19. Da questa qualità letteraria generale derivano alcuni corollari piuttosto evidenti. Proprio perché l'opera è al tempo stesso parenetica a livello intragiudaico ma è kerigmatica per l'ambito esterno, è indubbio il suo approccio e il suo intreccio con la cultura greca, ovviamente vagliata alla luce delle basi ideologiche anticotestamentarie a cui l'autore è sempre saldamente ancorato. In questa prospettiva il libro della Sapienza risulta particolarmente significativo come un modello di dialogo tra fede e ragione, tra teologia e filosofia, tra sapienza e speculazione e può risultare come un esempio di transculturalizzazione. Una operazione, quest'ultima, che avrà il suo apice proprio ad Alessandria con Filone, ma che ha molteplici testimonianze anche nell' AT: un esempio per tutti è l'opera del Siracide, espressione del giudaismo palestinese, più conservatore ma non per questo insensibile alle nuove istanze dell'ellenismo.

II. Sapienza ed ellenismo Affronteremo, innanzitutto, in modo essenziale il nesso tra libro della Sapienza ed ellenismo, nesso diversamente valutato dagli studiosi che oscillano tra il riconoscimento di un'impronta nettamente greca nei 19 capitoli dell'opera e la convinzione di una blanda infarinatura, dovuta all'atmosfera respirata dall'autore, fermo restando per tutti il fondamento biblico di partenza. Forse l'atteggiamento più cauto è quello intermedio che riconosce all'autore del libro della Sapienza una sensibilità attenta alla temperie culturale circostante: Platone e il platonismo, soprattutto popolare, lo stoicismo, l'epicureismo, il neopitagorismo occhieggiano a più riprese nel testo, insieme a un linguaggio che risente della comunicazione culturale greca. Ecco alcuni esempi specifici (e non meramente lessicali o semantici), in attesa di offrire un quadro più compiuto proprio nelle aree tematiche che successivamente approfondiremo. 1. Cosmologia. Ci riferiamo innanzitutto alla visione cosmologica del libro della Sapienza. In Sap 1,7 sembra esservi un'allusione - na-

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turalmente spoglia di ogni implicazioni panteistica - alla visione stoica dell"'anima del mondo": «lo spirito del Signore riempie l'ecumene», cioè l'universo. Anche la sapienza divina espleta la stessa funzione: infatti, «pur rimanendo in se stessa, tutto rinnova» (7 ,27), «estendendosi da un confine all'altro con forza» (8,1). La (""') creazione viene delineata in Sap 11,17 ricorrendo ce1tamente al testo biblico ove il nulla è simbolicamente rappresentato dal toha waboha, cioè da qualcosa di informe e di desertico (Gen 1,2), ma riformulando il concetto con una terminologia del tardo platonismo (Posidonio, ispirato al Timeo 51a): Dio «ha creato il mondo da una materia informe (amorphos hyle)» senza per questo avallare l'idea di una materia preesistente ma trovando questa locuzione adatta ad esprimere il dettato simbolico di Gen 1,2. La locuzione, tra l'altro, riesce anche a coniugare in sé i concetti di "forma" e "materia" tipici della metafisica aristotelica. La creazione risulta alla fine ordinata e armonica, secondo quanto si faceva intuire nel racconto di Gen 1, e questa perfezione è espressa in Sap 11,20 con l'asserzione: «tu hai disposto tutto con misura, calcolo e peso». Capace di rimanere sul crinale tra ebraismo ed ellenismo, l'autore echeggia qui Js 40,12 ma anche un'analoga formula generale di matrice pitagorica ripresa pure da Platone (cfr. Leggi VI, 757b) e variamente usata dalla tradizione greca. Non manca poi nella rappresentazione finale dell'esodo escatologico il ricorso al cosiddetto "metabolismo dell'essere" presente in alcune cosmologie ellenistiche: «Tutta la creazione assume da capo, nel suo genere, nuova forma (letteralmente "nuova tipologia")» (19,6); «gli elementi scambiavano ordine fra loro, come le note di un'arpa variano la qualità del ritmo, pur mantenendo sempre la stessa tonalità» (19,18). A livello sintetico generale risulta di particolare interesse il paragrafo 7,17-20 ove alla sapienza divina personificata viene attribuito un programma conoscitivo analogo a quello della cultura greca cosl come essa veniva insegnata nelle accademie (il pensiero potrebbe correre al Museon di Alessandria d'Egitto). Infatti si elencano argomenti di varia qualità che hanno riscontri nella ricerca greca, come è documentato dagli studiosi attenti a registrare tali parallelismi (in particolare citiamo C. Larcher, 1983-1985 e J.M. Reese, 1983): «la conoscenza infallibile degli esseri» comprende,

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infatti, «la struttura del cosmo, l'energia degli elementi, il principio, la fine e il mezzo dei tempi, l'alternanza dei solstizi e la successione delle stagioni, il ciclo degli anni e la posizione degli astri, la natura degli animali e gli istinti delle fiere, gli impulsi degli spiriti e i ragionamenti degli uomini, la varietà delle piante e le proprietà delle radici». Siamo, dunque in presenza di un vero e proprio quadro della scienza ellenistica che è quasi "canonizzato" e ricondotto sotto il manto della sapienza divina rivelata ai fedeli. 2. Antropologia. Se passiamo alla visione antropologica del libro della Sapienza, è subito significativo il ricorso al lessico greco che introduce la psycM (anima), il s8ma (corpo), I' athanas(a (immortalità), I' aphthars(a (incorruttibilità), e cosl via. In attesa di precisare successivamente la struttura di base di questa antropologia, cerchiamo ora di esemplificare alcuni evidenti attenzioni alla prospettiva greca. Un cenno particolare merita innanzitutto l'avvio del discorso che gli empi (o apostati) pronunziano nel c. 2. In esso si fa chiaro riferimento ad alcune concezioni "materialistiche" della cultura ellenistica: «Per caso noi siamo nati e dopo saremo come se non fossimo esistiti; è un fumo il soffio delle nostre narici e il pensiero è una scintilla emessa dal battito cardiaco. Una volta estinta, il corpo diverrà cenere e lo spirito si dissiperà come aria inconsistente» (Sap 2,2-3). In questa rappresentazione affiorano echi della visione epicurea e cinica secondo cui la combinazione casuale di atomi è alla radice della nostra costituzione, mentre la composizione ignea dell'anima, votata con la morte ali' estinzione, riflette una tesi dello stoicismo medio (esplicitata poi da Marco Aurelio). Anche se il tema non è ignoto alla stessa Bibbia (cfr. Qo 2,24; 3,12-13; 5,17-18; 8,15; 9,7-8), il carpe diem presente nello stesso discorso del c. 2 risente dei moduli simbolici greci soprattutto epicurei (in particolare l'immagine floreale): «Orsù, godiamoci i beni presenti, approfittiamo delle creature con l'ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito e di profumo, non lasciamoci sfuggire nessun fiore primaverile, coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscano! Nessuno manchi alla nostra orgia provocante ... !» (Sap 2,6-9). Naturalmente il distacco critico da questa concezione metafisica e morale della vita è netta e l'autore si rivela, cosi, capace di discernimento trovandosi di

s fronte a una cultura dai valori evidenti ma anche dai limiti inequivocabili. L'antropologia greca lascia la sua impronta più netta in un passo che, a prima vista, sembra adottare la tesi della preesistenza delle anime. Secondo questa concezione l'("') anima immortale penetrerebbe nella corporeità risultandone in qualche modo contaminata e, per questo, essa anelerebbe alla liberazione che si compie nel momento della morte. Ecco il testo di Sap 8,1920 che mette in scena Salomone: «Ero un fanciullo di nobile natura e avevo ricevuto in sorte un'anima buona o, piuttosto, essendo buono, ero entrato in un corpo senza macchia». La precisazione è significativa perché introduce la possibilità, piuttosto aliena al mondo greco, di un "corpo senza macchia", nella convinzione che tutte «le creature del mondo sono sane e in esse non c'è veleno di morte» (1,14), mentre non si esita a parlare di un' «anima che opera il male» (1,4). L'impressione dell'avallo della preesistenza dell'anima da parte del nostro autore è, certo, frutto del suo contatto con la cultura greca, ma è da correggere in base al contesto ove si rivela che il tema non è tanto quello della preesistenza quanto piuttosto quello della preminenza dell'anima. È per questa via, più generale, che il libro della Sapienza si mette il dialogo con la visione greca. È ciò che emerge in modo nitido in Sap 9,15: «Il corpo corruttibile appesantisce l'anima e la tenda di argilla grava la mente dai molti pensieri». La dichiarazione riflette l' antropologia greca e, in particolare, sembra ammiccare al Fedone di Platone (cfr. Fedone, 8lc), senza però accedere a un'impostazione nettamente dualistica. Infatti, da un lato, non mancano echi biblici riguardanti la fragilità della «tenda d' argilla», cioè dell'esistenza umana (cfr. Gb 4,19.21; Is 33,20; 38,12; cfr. Gen 2,7); d'altro lato, l'autore vuole semplicemente affermare la debolezza costituzionale e il limite della creatura umana, i cui «ragionamenti sono esitanti e incerte le riflessioni» (Sap 9,14), la cui incapacità si rivela persino nel «raffigurare le realtà terrestri, scoprendo con fatica già quelle che sono a portata di mano» (Sap 9,16). Pur usando un linguaggio "metafisico" greco, il sapiente biblico vuole dunque riproporre la tradizione ebraica simbolica e, in questo, rivela un abile tentativo di ritrascrizione dell'antico messaggio biblico secondo le nuove formule esterne. In questa linea è significativo anche il ricorso al concetto greco di "coscienza" (syne{desis) in

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Sap 17,11(10): «La malizia, condannata dalla propria testimonianza, è cosa da temere e, quando la coscienza la opprime, presume sempre il peggio». · Ci sono, poi, altri particolari che illustrano il dialogo che il libro instaura con la cultura greca, respirata nell'area egizia: pensiamo, ad esempio, alle quattro virtù cardinali già note a Platone, proposte in Sap 8,7, all'armonia cosmica al cui interno si collocano i miracoli (vv. 19,18-21), alla nozione di provvidenza (pr6noia) divina ai vv. 14,3 e 17,2, elaborata sulla base della teoria stoica come principio che penetra e regge l'universo, all'uso del sorite, un sillogismo di matrice aristotelica ma a formulazione stoica, presente ai vv. 6,17-20, o anche all'ipotesi di A.G. Wright secondo la quale si applicherebbe in modo costante (escluse le digressioni di Sap 11,17-12,22 e 13,1-15,17) a livello strutturale la "sezione aurea", per cui il numero dei versi di ogni sezione minore starebbe al numero dei versi della sezione maggiore contigua, come quella maggiore sta alla somma delle due (m:M =M:m+M).

III. Rapporto tra filosofia/scienza e fede 1. L'immortalità. Noi ora, come si era annunziato, vorremmo invece soffermarci in modo essenziale su alcuni temi maggiori dai quali emerge l'intreccio tra filosofia/scienza e fede. Concretamente seguiremo la struttura dell'opera nella sua sostanziale tripartizione tematica. Innanzitutto è significativa la riflessione sull'immortalità (athanas{a-aphthars{a). Il pensiero ebraico classico era, al riguardo, partito da una prospettiva piuttosto semplificata, basata su un soggiorno comune dei defunti, lo se,ol, ove si consumava una pallida e umbratile sopravvivenza lontano da Dio (cfr. Is 38,18). Si era poi aperto a nuove istanze per cui al giusto si offriva la possibilità di essere "assunto" nella luce della comunione divina (così per Enoc in Gen 5,24, per Elia in 2Re 2, 11 e per gli oranti dei Sal 16; 49; 73). Il contatto col mondo persiano, prima, e con quello ellenistico, poi, avevano condotto la rivelazione biblica a un approdo resurrezionistico (Ez 37, ad esempio) o immortalistico (cfr. 2Mac 7,12; Dn 12). Ebbene, il libro della Sapienza è quasi il punto terminale di questo itinerario, uno sbocco certamente sostenuto dall'atmosfera greca re-

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spirata dal suo autore e dalle credenze popolari dell'area del Delta egiziano. Tuttavia, la consonanza col pensiero greco - ampiamente dimostrata dalle ricerche esegetiche moderne - non impedisce che la proposta sapienziale risulti originale, rivelando in tal modo un interessante equilibrio tra ragione e fede. Quella proposta dal nostro testo, soprattutto nei primi cinque capitoli, è infatti una immortalità "beata". Essa non è solo (e tanto) la conseguenza logica di una qualità metafisica della psychi, dell'anima, cioè della sua spiritualità e quindi incorruttibilità, come insegnava la dottrina platonica del Fedone, bensl essa è dono, grazia divina. E questo per la qualità squisitamente teologica di tale immortalità: essa, infatti, implica la comunione piena con Dio, conseguenza di quell'intimità che il fedele già gode durante l'esistenza terrena giusta (cfr. Sap 1,15). Questo status della persona (psychi ha una accezione più ampia di quella comune greca) è suggellato dal!' episkopé, cioè da una "visita-giudizio" che Dio compie a sigillo della storia (cfr. Sap 1,9; 3,7; 4,20). Gli empi, invece, vengono relegati nell'Ade (lo se'{)[) che cessa, perciò, di essere la dimora indifferenziata dei defunti per essere sostanzialmente identificabile con l"'inferno" (cfr. vv. 4,18ss). Questo duplice destino, positivo e negativo, è illustrato soprattutto nei cc. 3-4 con una sequenza di dittici antitetici in cui a una scena col destino glorioso e beato del giusto (cfr. vv. 3,1-9; 3,13-15; 4,1-2; 4,7-16) si oppone una scena oscura riservata al destino dell'empio (vv. 3,10-12; 3,16-19; 4,3-6; 4,17-20). È curioso notare che la sensibilità muta e si evolve rispetto al tradizionale retroterra biblico (cfr. Dt 23,2; Gen 25,21; Is 47,9): la donna sterile e l'eunuco, considerati dall'antico Israele quasi come un ramo secco, vengono ora additati come modelli esemplari della giustizia praticata e, perciò, sono rappresentati come coloro che riceveranno un posto qualificato nell'immortalità beata (cfr. vv. 3,13-15); così, il giusto morto prematuramente, considerato come un maledetto dalla tradizionale dottrina retributiva che nella vita lunga e patriarcale intuiva una ricompensa celeste, è invece dalla Sapienza esaltato come un prediletto da Dio (cfr. vv. 4,7-16). Suggestiva è anche la rilettura del giudizio divino finale che perde molti elementi dell'apparato simbolico tradizionale per trasferirsi su un piano teologicamente più elaborato. Infatti

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nel c. 5 l'accusa ai malvagi non è estrinseca e "giudiziaria", o forense, bensl interiore e psicologica, cioè scaturisce da una personale autocritica che sboccia dall'autocoscienza del male perpetrato. Il rimorso permane anche nell'aldilà ed è verdetto di autocondanna e strumento di punizione. Potremmo quasi dire che nell'oltrevita presentato dal nostro sapiente l'incamminarsi verso il castigo o il premio nasce da una consapevolezza e da una sorta di affinità elettiva. Si riconosce, così, lo sforzo ermeneutico per rendere anche "razionalmente" giustificabile il giudizio, come anche l'attenzione a superare gli schemi realistico-simbolici della dottrina tradizionale ebraica cosl da rendere la sostanza del messaggio più comprensibile e accettabile al1' orizzonte greco circostante. 2. La sapienza. Un secondo tema particolarmente rilevante è quello riguardante la sapienza (sophfa), una categoria che nell~.antico Vicino Oriente aveva generato un genere letterario specifico di taglio esperienziale-filosofico-scientifico, dedicato all'analisi del reale nella sua entità e nelle sue relazioni. La categoria hokmah, ovvero «sapienza», nella riflessione biblica era stata utilizzata anche in sede strettamente teologica per delineare i rapporti tra Creatore e creazione. Si era, così, trovato uno strumento ideologico ed ermeneutico per riequilibrare la trascendenza divina, cioè la sua alterità rispetto alla creatura, e la sua immanenza, cioè la sua efficace presenza nell'armonia cosmica (cfr. Prv 1; 8; Gb 28; Sir 24; Bar 3,94,4: in questi due ultimi testi si era proceduto a una "giudaizzazione" del concetto di sapienza divino-umana, identificando la sophfa con la stessa Torah). Nella rielaborazione del nostro libro (cc. 6-9), pur senza accogliere la nozione delle ipostasi platoniche (il Vero, il Bello, il Buono in sé), si attribuisce alla sapienza una più marcata consistenza, rendendola una personificazione con la funzione netta di mediazione tra Dio e l'ambito cosmo-soteriologico (si veda anche il c. 10). In questa operazione - che, tra l'altro, ricorrerà anche alla trasposizione in chiave monoteistica delle qualità della dea pagana della sapienza, Iside - il libro della Sapienza ha sicuramente attinto alla filosofia stoica e platonica. Esemplare in questo senso è la lista degli 21 attributi (cifra simbolica!) della sapienza divina presente in Sap 7,22-24 e descritta come pneama (spirito): non mancano, infatti, contatti con

s un frammento stoico attribuito a Cleante e citato da Clemente Alessandrino (150-215 ca.) (Protrettico VI, 72) ed Eusebio (Praeparatio evangelica XIII, 13) e con le aretalogie o elenchi di virtù delle varie divinità. Si evocano, però, anche immagini di luce (cfr. Sap 7,25-26), riconducibili piutto,sto a matrici simboliche anticotestamentarie. E, comunque, evidente, nel1' interpretazione generale della categoria "sapienza" da parte del nostro autore, lo sforzo di pervenire a una sintesi tra l'umanesimo antropocentrico greco e l'umanesimo teocentrico ebraico, superando ogni dualismo in un contrappunto armonico. Significativo in questa linea ·è anche il tentativo di coniugare l'aspetto etico tipicamente biblico, secondo il quale la sapienza è sorgente di giustizia (e quindi di immortalità: cfr. cc. 9-10; si veda anche Sap 1,15) con quello cosmologico greco, come è attestato dall'attribuzione alla sapienza divina di tutta la conoscenza della cultura ellenistica (cfr. Sap 7,17-20). 3. L'analogia: dalle creature al Creatore. Nella scia di quanto si è finora detto, possiamo proporre un'ulteriore considerazione che assumiamo dalla terza parte dell'opera, quella del midrash esodico dei cc. 11-19, e in particolare da quel trattatello sull'idolatria in esso incastonato (cc. 13-15), accuratamente analizzato nelle sue matrici ellenistiche da M. Gilbert, C. Larcher, F. Ricken e altri. Prima di isolare il passo sul quale vogliamo attirare l'attenzione (quello di Sap 13,5), è necessaria una breve nota contestuale. Nei cc. 11-19 si sviluppa una sequenza di sette antitesi che, sulla base di simboli dell'Esodo, oppone la sorte dei giusti e degli empi: acque del Nilo ed acqua dalla roccia (vv. 11,514), quaglie per i giusti e piaga delle rane per i malvagi (vv. 16,1-4), serpente di bronzo per Israele e cavallette e mosche per gli oppressori egiziani (16,5-14), piogge e uragani per gli empi, manna per i fedeli (vv. 16,15-29), tenebre e luce (vv. 17,1-18,4), lo sterminatore dei primogeniti egiziani si arresta davanti a Israele (vv. 18,5-25), il mar Rosso che copre i peccatori e che si trasforma in tappeto erboso per i giusti (vv. 19,1-9). Come è evidente, la storia esodica è trasposta su un piano "psicologico" e metastorico, mentre Ebrei ed Egiziani diventano emblemi dello scontro tra bene e male con lo sbocco finale del trionfo della giustizia. Ebbene, la sequenza settenaria ha innestato all'interno un altro settenario di degenera.zio-

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ni religiose: idolatria cosmica (vv. 13,1-9), idolatria materialistica (vv. 13,10-19), idolatria nautica (vv. 14,1-11), idolatria funeraria (vv. 14,15-16), idolatria imperiale (vv. 14,17-21), idolatria commerciale (vv. 15,7-13), idolatria zoolatrica (vv. 15,14-19). Sostanzialmente sono tre forme di aberrazione religiosa: la divinizzazione delle forze naturali (vv. 13,1-9), la meno grave, considerato lo splendore del cosmo e il fascino "divino" che da esso si sprigiona (e qui si sente ancora una volta la sensibilità dell'autore stimolata dalla cosmologia greca); il culto degli idoli antropomorfici (vv. 13,10-15,13); la zoolatria, la forma più grave agli occhi dell'autore perché testimoniata dalla prassi del mondo egizio in cui egli vive. Lo schema riflette in sostanza l'apologetica giudeo-ellenistica che in Filone avrà il massimo esponente ma che già era praticata dai filosofi greci (si pensi a Evemero, le cui argomentazioni non sembrano ignote all'autore della Sapienza). Ma ciò che per i Greci era solo un grossolano errore ideologico per il Nostro è, invece, un delitto religioso (in questo senso egli si connette alla satira anti-idolatrica di ls 44 e Ger 10). È, dunque, all'interno di questa riflessione sulla degenerazione della religione che ci imbattiamo in un passo divenuto famoso nella discussione sul rapporto tra fede e ragione, in particolare sulla possibilità della conoscenza di Dio a partire dalle realtà create (,,., Dm, IV.1). Nel primo caso del settenario idolatrico (vv. 13,1-9) è preso in esame il culto astrale e terrestre, evocando tra l'altro la tetrade cosmologica (vv. 13,2: fuoco, aria, acqua, il mondo). Pur giudicando in modo blando questa forma idolatrica (vv. 13,6-7), l'autore non la giustifica perché egli considera il creato come via aperta per raggiungere il Creatore: «Se stupiti per la bellezza (di questi elementi), li hanno scambiati per dèi, pensino quanto è superiore il loro Signore: li ha creati, infatti, lo stesso autore della bellezza. Se sono colpiti dalla loro potenza e attività, pensino da questo quanto più potente è colui che li ha creati» (vv. 13,3-4). Ed è a questo punto che l'autore formula in modo rigoroso la tesi: «Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia (anal6giis) si contempla il loro Creatore» (v. 13,5). L'innovazione che viene introdotta rispetto alla tradizionale riflessione di Israele è evidente. Nell' AT Dio è conosciuto a partire dalla sua rivelazione all'interno della storia. La letteratura

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sapienziale aveva spostato l'accento anche sulla teofania rivelatrice nello spazio cosmico (Sai 19,2-7), ma la prospettiva era sempre teologica. Ora, invece, l'angolo di visuale è antropologico e, se si vuole, razionale. Il verbo usato è, infatti, theorefn che rimanda al lessico platonico e aristotelico ove è espressione suprema dell'attività intellettuale umana; è, però, probabile che il nostro autore carichi il verbo di una forza ulteriore affermando una conoscenza razionale che coinvolge una specie di intuizione e di percezione mistica e vitale. Si tratta, quindi, di una ricerca logica, chiara, distinta ma anche partecipe. Il verbo e il tema sono peraltro presenti anche nel De mundo di Aristotele ove si dichiara che «l' inconoscibile per natura viene conosciuto dalle stesse opere» (physei athebrétos ap 'aut{)n t8n érgon theoreftai: VI, 339b, 22). La via che questa "teoresi" percorre è definita con l'avverbio anal6gos, un termine non usato dalla precedente letteratura greca per il nostro dibattito (sarà solo il platonico Albino, autore nel II secolo d.C. di un sommario della dottrina di Platone, a ricorrere a questo vocabolo con la stessa finalità). La ("") analogia contiene nella sua accezione greca un rimando all'idea di proporzione, sia in senso tecnico-matematico per cui si ha identità di relazione a due a due dei termini di una equazione, sia in senso più generico per indicare una relazione di similitudine tra gli estremi di un paragone, sia in senso più lato per abbracciare le connessioni di somiglianza o di derivazione tra realtà diverse. Sap 13,5 è il primo testo in cui viene applicato lo schema della proporzione o dell'analogia per delineare il rapporto creatura-Dio. Si tratta di un procedimento ascendente o di inferenza: dalla creazione si può procedere conoscitivamente (theorefn) sino al Creatore, salvaguardando le proporzioni, cioè affermando le somiglianze e rispettando le differenze. L'autore presenta, cosi, sul tappeto del dibattito della conoscibilità di Dio - risolto ottimisticamente dal platonismo e dallo stoicismo e scetticamente dalle correnti accademiche (cfr. Cicerone, De natura deorum, III) - una sua proposta originale, capace di tenere in equilibrio i due termini della questione senza prevaricare dall'una o dall'altra parte. La filosofia stoica, ad esempio, si trovava imprigionata nel cerchio dell'immanenza per cui essere e pensiero umano e divino si identificavano. L'autore sacro, invece, da un lato afferma energicamente la di-

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stinzione e la distanza tra creature e Creatore condannando appunto l'idolatria cosmicoastrale (cfr. Sap 15,3-4); d'altro lato, però, riconosce un rappo1to reale tra creature e Creatore che non è di identità bensl di "analogia". Si spezza in tal modo il cerchio dell'immanenza ma si rigetta anche ogni scetticismo gnoseologico nei confronti Dio. Su questa strada, che è razionale nel senso pieno sopra delineato, si muoverà anche Paolo nella Lettera ai Romani. Pur non usando esplicitamente il termine "analogia", ne adotta il procedimento e anch'egli si muove nel contesto delle degenerazioni spirituali: «Dalla creazione del mondo in poi, le sue (di Dio) perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui conosciute, come la sua eterna potenza e divinità» (Rm 1,20). L'apostolo, però, pur attribuendo valore e consistenza a questo tipo di conoscenza per cui «sono-inescusabili» coloro che «pur conoscendo Dio, non l'hanno glorificato», afferma il primato della rivelazione divina, nello spirito della tradizione biblica a cui non si sottrae neppure l'autore della Sapienza. Il procedimento introdotto da quest'ultimo, e. che può essere ricondotto alla cosiddetta "conoscenza naturale" di Dio, affiora anche in Filone (Quod deterius potiori insidiari soleat 124-125, ove si gioca sulla duplice semantica di poiimata, "opere" e "poemi" di Dio), e nei(""') Padri della Chiesa che spesso citano Sap 13,5 (Origene, Eusebio, Atanasio, Didimo, Cirillo Alessandrino, Cirillo Gerosolimitano, Gregorio Nisseno, Giovanni Crisostomo, Teodoreto, Ilario). Ma avrà uno sviluppo sistematico nella filosofia scolastica e riceverà il suo sigillo autorevole nel Concilio Vaticano I (cfr. DH 3015), ove però si citerà solo Rm 1,20 e non il contributo decisivo che l'antico autore sapienziale giudaico-ellenistico aveva offerto. Sarà l'enciclica di Giovanni Paolo II, Fides et ratio (1998) a rivolgere una particolare attenzione al testo di Sap 13,1-5 sulla conoscenza analogica di Dio a partire dal creato (cfr. n. 19). Il più ampio contesto dedicato a questo libro della Scrittura (cfr. nn. 16-20) rappresenta un riconoscimento del suo ruolo non solo per il nostro tema specifico, ma più in generale per un fecondo dialogo tra fede e ragione, tra rivelazione e conoscenza, tra cultura sacra ebraica e mondo greco. GIANFRANCO RAVASI

s Vedi:

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ANALOGIA; CREAZIONE; MORTE; NATURA;

SACRA SCRITTURA.

Bibliografia: Edizione critica del testo: J. ZIEGLER, Sapientia Salomonis, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1962. Commenti esegetici: F. FELDMANN, Das Buch der Weisheit, Hanstein, Bonn 1926; J. FJCHTNER, Weisheit Salomos, Mohr, Tiibingen 1938; J. FISCHER, Das Buch der Weisheit, Echter, Wiirzburg 1950; J. REIDER, The Book of Wisdom, Harper, New York 1957; E.O. CLARK, The Wisdom of Salomon, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1973; D. WINSTON, The Wisdom of Salomon, Doubleday, New York 1979; M. CONTI, Sapienza, Paoline, Roma 19813; C. LARCHER, Le livre de la Sagesse ou la Sagesse de Salomon, 3 voli., Gabalda, Paris 1983-1985; J.M. REESE, The Book of Wisdom, Song of Songs, Glazier, Wilmington 1983; G. SCARPAT, Libro della Sapienza, 3 voll., Paideia, Brescia 1989-2000; A. SCHMITT, Weisheit, Echter, Wiirzburg 1989; J. ViLCHEZ LfNDEZ, Sapienza, Boria, Roma 1990; M. PRIOTTO, Sapienza, "La Bibbia Piemme", a cura di L. Pacomio, F. Dalla Vecchia, A. Pitta, Piemme, Casale Monferrato 19962, pp. 1515-1569. Saggi specifici sulla teologia del libro della Sapienza e sul rapporto tra filosofia/scienza e fede: S. LANGE, The Wisdom of Salomon and Plato, "Journal of Biblica] Literature" 55 (1936), pp. 293-306; L. ALLEVI, L'ellenismo nel libro della Sapienza, "Scuola Cattolica" 71 (1943), pp. 337-348; D. COLOMBO, Pneuma sophias eiusque actio in munda in Libro Sapientiae, "Studii Biblici Franciscani Liber Annuus" 1 (1950-51), pp. 107-160; Th. FINAN, Hellenistìc Humanism in the Book of Wisdom, "Irish Theological Quarterly" 27 (1960), pp. 30-48; V. TCHERIKOVER, Hellenistic Civilization and the Jews, Jewish Pubi. Soc., Philadelphia 1961; G. CASTELLINO, Il paganesimo di Romani 1, Sapienza 13-14 e .la storia delle religioni, "Studiorum Paulinorum Congressus lnternationalis Catholicus, 1961", Biblica] Institute Press,

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Scienza, origini cristiane

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SCIENZA, ORIGINI CRISTIANE

I. Introduzione - Il. Le condizioni della nascita della scienza - III. I primi secoli cristiani - IV. Il Medioevo - V. Scienza e fede cristiana - VI. Galileo - VII. La scoperta dell'origine cristiana della scienza. I. Introduzione La presenza della scienza nella nostra vita e la moltitudine delle sue applicazioni tecnologiche ci sono così familiari da darle tutte per scontate. Eppure non troviamo nulla di simile nelle grandi civiltà del passato: lo sviluppo delle scienze è storicamente una caratteristica esclusiva della civiltà occidentale. In quelle antiche vi troviamo certamente strutture sociali altamente sviluppate, grandi città, uomini e donne di grande cultura, magnifiche opere architettoniche, la lavorazione del metallo, l'arte della ceramica e anche la filosofia, il teatro e la letteratura. Ma della scienza quale oggi la conosciamo, nessuna traccia. È necessario mettere in chiaro fin d'ora in modo più particolareggiato che cosa intendiamo precisamente per scienza moderna. Nelle civiltà antiche spesso troviamo uomini di grande talento nel sapere pratico e altresì valenti pensatori speculativi, che tentarono di comprendere il mondo. Si pensi in particolare agli antichi Greci e al grande contributo che hanno dato allo sviluppo della matematica e dell'astronomia pratica. Democrito di Abdera (460 ca.-370 a.C.), per esempio, rifletteva sulla possibilità che il mondo fosse composto di atomi, le più piccole particelle solide indivisibili. Ma egli non aveva la minima idea di come avrebbe potuto provare se le cose stessero veramente così e, in tal caso, come avremmo potuto scoprire la loro grandezza e la loro struttura. Tale questione, come molte altre, ha trovato risposta soltanto nel nostro secolo. I Greci cercavano di scoprire il mondo, immaginando l'essenza delle cose e deducendone il loro comp01tamento. Concepivano un mondo frutto di un pensiero, un mondo in cui ogni cosa tendeva a trovare il proprio posto naturale. Era un modo di pensare troppo ambizioso e sbagliato: non possiamo immaginare l'essenza delle cose. Toccò a Galileo Galilei (1564-

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1642), che andava costruendo sull'opera dei suoi precursori del Medioevo, capire che occorreva un approccio alla realtà ben più modesto e minuzioso. I fenomeni fisici non vanno solo osservati, vanno anche misurati con la maggior precisione possibile, e i dati ricavati devono essere messi in correlazione con la matematica. Nel secolo XIII ciò era già stato capito da Roberto Grossatesta (1175-1253), il quale si rifece alle regole della geometria per comprendere i fenomeni ottici. Galileo andò oltre e studiò il moto della caduta dei corpi, misurando il tempo impiegato a cadere da una determinata altezza, e verificando i risultati con equazioni matematiche. Ponendo l'accento sul fatto che la scienza è quantitativa e non qualitativa, che è basata su misure esatte e che, come lui stesso dice, il libro della natura è «scritto in linguaggio matematico», Galileo si pone alla soglia della scienza moderna. Attraverso la sua intuizione del metodo scientifico, attraverso le sue minuziose osservazioni e misure, e mediante la sua visione del futuro, contribuì più di chiunque altro a demolire la fisica aristotelica e ad aprire la via alla scienza moderna. L'opera di Galileo dimostrò pure l'importanza del rapporto tra la scienza e la tecnologia. Egli credeva e sosteneva con molta franchezza che la Bibbia era stata scritta, secondo l'espressione del Baronia, «per insegnarci come si vada in cielo e non come si muova il cielo». In altre parole, la Sacra Scrittura spesso utilizza espressioni del linguaggio in uso senza intenzione di affermare una particolare teoria scientifica. È, dunque, importante distinguere il discorso teologico da quello scientifico, ciascuno dei quali ha metodi e criteri di verità diversi. Al1' epoca di Galileo la discussione era tragicamente intorbidata dall'opposizione degli aristotelici alle sue scoperte e dall'incomprensione del fatto che le vere scoperte scientifiche mostrano le opere del Creatore. Anzi, esaminando le origini della scienza moderna, ci renderemmo conto, come vedremo, che essa è radicata nelle convinzioni cristiane sulla natura del mondo materiale. Per scienza moderna intendo la comprensione quantitativa dettagliata del mondo materiale espressa sotto forma di equazioni differenziali. Ciò fu realizzato per la prima volta da (") Isaac Newton quando enunciò le sue tre leggi e mostrò come servirsene per calcolare sia il movimento dei pianeti sia la caduta di una

s mela. Allo stesso modo ("") Clerk Maxwell poté dimostrare come le sue equazioni consentivano di comprendere i fenomeni elettrici e magnetici. Nel microcosmo degli atomi e dei nuclei, la meccanica quantistica, abitualmente mediante equazioni della forma dell'equazione di Schrodinger, ha la medesima funzione. Il modello è sempre il medesimo: se si conoscono le condizioni iniziali, si può calcolare la susseguente evoluzione del sistema, con i suoi dettagli quantitativi. Questa conoscenza dettagliata del mondo è la base essenziale di tutta la tecnologia moderna. Senza di essa, non ci sarebbero né aerei, né televisione, né centrali elettriche. Certo, potremmo dire che, in qualche misura, staremmo meglio senza la moderna tecnologia, ed è evidente che la conoscenza che abbiamo acquisito è purtroppo spesso utilizzata a fin di male. Potremmo anche pensare che senza la scienza moderna la maggior parte di noi non sarebbe qui, e la maggior parte di molti altri uomini vivrebbe in condizioni assai arretrate. Questo ci induce a porci la seguente domanda: perché, tra le tante civiltà del mondo, la scienza nella sua forma moderna si è sviluppata nella nostra civiltà ed è fiorita in Europa nel secondo millennio? A tale domanda possiamo rispondere prendendo in considerazione ciò che è unico nella nostra civiltà, per poi metterlo in relazione con l'origine della scienza.

II. Le condizioni della nascita della scienza Tutte le grandi civiltà sono caratterizzate da una struttura sociale progredita, che permette a certe persone di dedicare il loro tempo all'indagine speculativa della natura, senza vedersi costrette a dover provvedere alla loro sussistenza materiale. La maggior parte delle grandi civiltà hanno anche avuto sistemi di scrittura che consentivano di fissare e conservare il loro pensiero, e alcune di esse conoscevano la matematica. Vi si trovano anche forme di ingegno pratico indispensabili alla costruzione di stmmenti utili. Sono tutte cose che potremmo chiamare "condizioni materiali dell'emergere della scienza", ma data la loro estensione universale e non limitata al1' ambito occidentale, dobbiamo cercare altrove la risposta al nostro precedente interrogativo. Risulta invece determinante lo spirito con cui ci si pone di fronte al mondo materiale. Se

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ritenessimo ad esempio che il mondo fosse qualcosa di cattivo e non fosse degno della nostra attenzione, precluderemmo in pratica la possibilità di studiarlo in tutti i suoi particolari. Perché possa nascere la scienza, è necessario giudicare il mondo, in un certo modo, come qualcosa di buono, o per lo meno neutro. Dobbiamo inoltre credere che il mondo sia razionale e ordinato: ciò che scopriamo un giorno deve essere vero anche il giorno dopo e deve esserlo anche in altri luoghi. E tale ordine deve essere di un genere particolare. Se credessimo che l'ordine del mondo fosse qualcosa di necessario, qualcosa cioè che non potrebbe essere diversamente, potremmo sperare di scoprirlo semplicemente riflettendovi su deduttivamente, come facciamo in matematica. Se invece l'ordine del mondo è un ordine dipendente o contingente, qualcosa cioè che potrebbe essere anche diverso da come è, il solo modo di conoscerlo è di considerarlo quale esso è in realtà, facendo pertanto degli esperimenti. La ricerca scientifica è una professione frustrante e troppo spesso i risultati sono scarsi o si fanno attendere. Non è difficile, a volte, abbandonare il lavoro. Sovente il solo mezzo per riuscire nell'impresa è quello di perseverare con tenacia a qualunque costo; ma ciò è possibile soltanto a condizione che si creda fermamente nell'esistenza di un ordine e che questo ordine possa essere scoperto. Inoltre, dobbiamo credere che l'ordine della natura sia accessibile alla mente umana e che l'impresa di scoprirlo possa davvero portarsi a compimento. Alla conoscenza scientifica non si può pervenire se non attraverso gli sforzi di collaborazione di un grandissimo numero di uomini e di donne, sforzi che richiedono molti anni. Ciò non si realizzerebbe mai se la conoscenza cui ognuno arrivasse fosse mantenuta segreta, anziché essere liberamente comunicata e condivisa. Abbiamo precedentemente riepilogato alcune convinzioni riguardanti il mondo materiale, cui si può giungere attraverso l'investigazione e che sono necessarie perché la scienza possa compiere i suoi primi passi. Sono convinzioni che tutti i membri di una società devono possedere e anche tenere per certe. Possono sembrarci abbastanza logiche, ma costituiscono un insieme di convinzioni che si è trovato, per così dire, perfettamente amalgamato una sola volta nel corso della storia umana. Basta prendere in esame le convinzioni riguardanti il mondo

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materiale che possiamo rintracciare nelle altre civiltà, per trovare qualcosa di molto diverso. La (,..,,) materia, ad esempio; è ritenuta spesso qualcosa di malvagio o controllata da demoni capricciosi. In un simile terreno la scienza non avrebbe potuto attecchire. Una convinzione generalmente condivisa da molte antiche civiltà è quella di un universo ciclico; essa viene talvolta chiamata la dottrina del Grande Anno; secondo tale convinzione, dopo un tempo molto lungo, tutto si ripete di nuovo. Non c'è nulla di nuovo; tutto ciò che avviene è già avvenuto un'infinità di volte in passato e si ripeterà un'infinità di altre volte in futuro. Una simile convinzione è enormemente paralizzante: se siamo preda di un destino inesorabile, perché tentare di fare qualcosa di nuovo? Ci troviamo quindi di fronte al seguente interrogativo: perché quell'insieme di convinzioni del tutto singolare, che è necessario per il fiorire della scienza venne a trovarsi nello spirito europeo? Come abbiamo visto, la scienza moderna spiccò veramente il volo con Newton, ma le sue origini si possono trovare nell'opera di Galileo e di non pochi altri nel corso dei secoli precedenti. Siamo cosl condotti a cercare le radici della scienza nel Medioevo. L'origine della scienza può, anzi, essere intravista molto addietro, nei primi secoli cristiani, dai quali prenderemo l'avvio nella nostra disamina.

III. I primi secoli cristiani Nei secoli che seguirono la nascita del cristianesimo, i cristiani non erano che una piccola setta perseguitata in mezzo ai cultori di altre religioni ben affermate. La loro intransigente avversione nei confronti delle idee pagane li rendeva sospetti agli occhi degli scienziati e dei filosofi greci. Eppure, la dottrina cristiana racchiudeva un insieme di convinzioni riguardo al mondo naturale che finalmente condussero al primo vagito vitale della scienza, nel tardo Medioevo, e alla sua successiva fioritura nel Rinascimento. Le basi di tali convinzioni erano già patrimonio degli Israeliti, in particolare la convinzione circa la razionalità del mondo. Le convinzioni dell'Antico Testamento riguardo alla creazione erano state consolidate e meglio comprese attraverso l'insegnamento del Nuovo Testamento. A proposito della creazio-

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ne, il pensiero cristiano pone l'accento non soltanto sul fatto che l'universo è stato creato da Dio a partire dal nulla e nel tempo, ma anche sul fatto che esso dipende totalmente da Dio, pur essendo da Lui del tutto distinto (,..,, CREAZIONE, III-IV). A ogni istante, l'universo nella sua esistenza è sostenuto da Dio e, senza questo potere che lo conserva nell'essere, cadrebbe nel nulla. Nei primi secoli cristiani si ebbero appassionate discussioni sulla natura di Cristo e le eresie pullularono. Fu compito di una serie di Concili della Chiesa definire la vera natura di Cristo. Nel Concilio di Nicea (325) venne formulato un Credo che, ripreso e completato dal Concilio di Costantinopoli (481 ), rimane la principale professione della fede cristiana: Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem, factorem coeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium. Et in unum Dominum lesum Christum, Filium Dei unigenitum. Et ex Patre natum ante omnia saecula. Deum de Deo, lumen de lumine, Deum verum de Deo vero. Genitum, non factum, consubstantialem Patri: per quem omnia facta sunt... (DH 150) È facile che si ripetano queste sacre parole senza rendersi pienamente conto della loro portata e ancor meno della loro importanza per la scienza. L'inizio del Credo di Nicea afferma la creazione dell'universo da parte di Dio: Factorem coeli et terrae. Uno dei modi più diffusi di concepire il rapporto fra Dio e il mondo contrario alla Rivelazione cristiana fu il (,..,,) panteismo, che non faceva distinzione alcuna tra Dio e la sua creazione, ritenendo che essa facesse in qualche maniera parte di Dio. Nel mondo greco-romano l'universo era concepito come un'emanazione da un principio divino, che non era distinto dall'universo. Il panteismo è esplicitamente escluso dal Concilio di Nicea, il quale proclamò che Gesù Cristo è il Figlio Unigenito di Dio. Cristo è generato, non creato. Soltanto Cristo fu generato e quindi condivise la sostanza di Dio; l'universo fu creato, non generato (Et in unum Dominum lesum Christum, Filium Dei unigenitum ... Genitum, non factum). Mentre il panteismo era una delle dottrine che nelle culture antiche impedivano il sorgere della scienza, il Credo di Nicea, al contrario, spianò la strada alla sua nascita. Parecchie cosmologie antiche ritenevano che il mondo fosse il campo di battaglia tra due princlpi eterni, il Bene e il Male. Tale dualismo

s era certamente ·un ostacolo per la scienza, perché se così fosse, il mondo sarebbe stato l'imprevedibile risultato di una lotta continua. Il dualismo venne escluso già dal Credo di Nicea (325), quando esso afferma che tutto è stato creato per mezzo di Cristo: per quem omnia facta sunt (cfr. DH 125). È propria della dottrina cristiana della creazione la convinzione che Dio abbia creato l'universo con la più libera delle decisioni. Egli non era costretto né a creare, come fece, né a non creare. Ne deriva che l'universo non ha carattere di necessità: avrebbe potuto anche non essere creato, oppure essere creato in altro modo. Non è quindi possibile conoscere l'universo attraverso il pensiero puro o ragionando a priori. Si può solo sperare di arrivare a comprenderlo studiandolo e facendo esperimenti. Ecco perché la dottrina cristiana della creazione implicitamente incoraggia il metodo sperimentale, il quale resta di importanza essenziale per lo sviluppo della scienza. Tutte le culture dell'antichità avevano una concezione ciclica del mondo ed era, questa, una delle convinzioni che ostacolavano il progresso scientifico. Il pessimismo insito nella stessa concezione ciclica fu spazzato via in modo decisivo dalla convinzione dell'unica Incarnazione del Cristo; dopo tale evento, il tempo e la storia rivelarono definitivamente la loro logica lineare, avente cioè un inizio ed una fine. Le discussioni teologiche dei primi secoli cristiani sembrano lontane; è però indubbio che ebbero un'importanza decisiva per la storia. Oggi, chi ha sentito parlare dei valentiniani, dei marcioniti, dei nicolaiti, degli encratiti, dei borboriani, degli ofiti o dei setiani, per citarne soltanto alcuni? Pochi di più sono coloro che hanno sentito parlare degli ariani, un'eresia presente anche ai nostri giorni. Ario e i suoi seguaci erano disposti ad accettare il termine e il concetto di «unigenito» (monogenis), ma era per loro inaccettabile quello di «consustanziale» (homoousios), perché non si trovava nella Sacra Scrittura. Se il giovane diacono Atanasio non avesse avuto la meglio su di loro, il cristianesimo sarebbe stato completamente distrutto. Nella Lettera ai Colossesi, s. Paolo dice che in Cristo tutte le cose sussistono e che tutto fu creato per mezzo di lui e in vista di lui (cfr. Col 1,16-17). Poiché egli presentò Cristo come il divino l6gos, ne deriva di conseguenza che la creazione poteva essere interamente vi-

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sta come qualcosa di razionale e di ordinato ("" GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL LOGOS). Nel volgere dei primi secoli cristiani, le tendenze dei teologi furono diverse: si passava dalla posizione di Tertulliano (160-215 ca.), piuttosto diffidente nei confronti dei filosofi, a quella di coloro, più numerosi, che come il martire Giustino (100-165 ca.) o Clemente di Alessandria (150-215 ca.) ritenevano il pensiero greco un valido aiuto alla teologia, sebbene suggerissero di non studiarlo come qualcosa fine a se stesso("" PADRI DELLA CHIESA). Perfino Agostino di Ippona (354-430) che era stato in gioventù un appassionato cultore delle arti liberali - fra le quali si annoveravano anche la geometria e l'astronomia - in seguito le apprezzò poco. Nondimeno, la sua teologia stimolava allo studio sistematico del mondo naturale, poiché rifletteva la convinzione che il mondo, dato il suo carattere sacramentale, simboleggiasse verità spirituali. Agostino fu un osservatore estremamente acuto di una vasta gamma di fenomeni naturali: spiava tutto ciò che potesse offrire anche solo un fugace barlume della Ragione che riteneva presente in tutto. Aveva un vivo interesse per la natura, in primo luogo perché essa, all'osservatore attento, rivelava Dio. Le sue riflessioni filosofiche sulla natura sono tuttora considerate tra le più profonde che siano mai state scritte ("" AGOSTINO, V). All'inizio del VI secolo, Giovanni Filopono, un platonico che viveva ad Alessandria, scrisse estesamente sul mondo materiale, mostrando quanto influissero le convinzioni cri~tiane su quelle del mondo pagano circostante, specialmente su quelle che provenivano dal1' antica Grecia. Si dedicò in modo particolare al commento di Aristotele, per il quale aveva una grandissima ammirazione, ma ogniqualvolta l'insegnamento di Aristotele non collimava con la convinzione cristiana, egli non esitava a prenderne le distanze. È particolarmente importante un passo dei suoi commentari sulla fisica di Aristotele in cui egli, a differenza del filosofo greco, affermava che tutti i corpi cadono nel vuoto alla stessa velocità, indipendentemente dal peso, e che i proiettili attraversano l' arfa non a causa del movimento dell'aria, ma perché hanno ricevuto inizialmente una certa quantità di energia cinetica. Questa idea anticipa significativamente le idee presenti nelle teorie di Galileo, e denota una netta rottura con la fisica ari-

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stotelica. Filopono non fu il primo autore del1' Antichità a staccarsi da Aristotele, ma egli se ne distanziò in un modo più evidente e decisivo. Il suo rifiuto delle idee aristoteliche nasceva dalle sue convinzioni cristiane, in particolare quelle fondate sulla dottrina della creazione. Affrontando il problema del movimento, egli poneva l'interrogativo: «Il sole, la luna e le stelle avrebbero potuto non ricevere da Dio, loro creatore, una certa energia cinetica, nello stesso modo in cui gli oggetti pesanti e leggeri ricevettero una direzione secondo la quale muoversi?». Egli credeva altresì che le stelle non sono composte d'etere, ma di materia ordinaria, e in tal modo negava la distinzione fatta da Aristotele fra materia celeste e materia terrestre. Ciò dimostra che le convinzioni cristiane riguardanti il mondo sono incompatibili con la visione aristqtelica della divinità della materia celeste e dell'eternità del movimento. Era quindi inevitabile che la diffusione del cristianesimo determinasse il tramonto della fisica aristotelica, aprendo così la via alla scienza moderna.

IV. Il Medioevo Il Medioevo è spesso dimenticato o giudicato negativamente. Un'analisi oggettiva dimostra però che si tratta di una delle epoche notevolmente più creative della storia umana. Per Medioevo si intende il periodo che va dall'anno 800 al 1450, considerando tardo Medioevo gli ultimi secoli, cioè l'arco di tempo dal 1200 al 1450. In questa epoca ebbero luogo in Europa Occidentale la fondazione delle(""') Università, l'inizio di sviluppi tecnologici senza precedenti che consentirono un miglioramento del tenore di vita, l'organizzazione di un.sistema finanziario di grande estensione, ma soprattutto la nascita della scienza moderna. Alla base di tutto ciò vi era un nuovo modo di rapportarsi al mondo materiale, una fiducia, un dinamismo e una capacità di decisione mai conosciuti prima. Fu un tempo di grande fermento intellettuale. In Europa vennero fondate varie Università e gli scritti degli antichi Greci incominciavano ad essere disponibili in traduzione. Veniva ripensata la teologia cristiana e per la sua riformulazione si ricorreva a concetti di pensatori greci, estranei in se stessi alla teologia, ma di singolare efficacia espressi-

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va. Gli scritti di Agostino e di altri, come Filopono, creavano già rapporti nuovi con il mondo naturale. Le due principali caratteristiche della tradizione intellettuale occidentale che rendono possibile la scienza sono l'insistenza sulla coerenza logica e la verifica sperimentale. Entrambe sono già qualitativamente presenti presso i Greci; il contributo essenziale del Medioevo, a questo riguardo, fu però quello di affinare tali caratteristiche, stabilendo tra loro un legame più reale. Ciò venne attuato soprattutto grazie all'insistenza sulla precisione quantitativa, che può essere raggiunta utilizzando la matematica per formulare le teorie, poi per verificarle non mediante semplici osservazioni, ma per mezzo di misure precise. Questo passaggio fu realizzato nel XII secolo, soprattutto da Roberto Grossatesta, ritenuto il fondatore della scienza sperimentale. La sua opera sulla scienza sperimentale dipendeva non poco da Platone, il quale insegnava che le forme pure, che stanno dietro I' apparenza delle cose, sono per natura matematiche. Pertanto, se vogliamo dimostrarlo, le nostre teorie devono essere matematiche e il risultato dei nostri rilievi deve essere espresso in numeri. Grossatesta elaborò in modo assai dettagliato la sua teoria sul metodo scientifico, sebbene personalmente avesse fatto pochi esperimenti. Raccomandava il metodo dell'analisi e della sintesi; in altri termini, sosteneva che il problema dapprima deve essere scisso nelle sue parti più semplici e, quando ognuna è stata compresa, i risultati possono essere messi insieme per arrivare a dare la spiegazione dell'intero problema. Le osservazioni stesse e gli esperimenti possono suggerire ipotesi e anche teorie, che è possibile poi verificare oppure invalidare, confrontandole con nuove osservazioni e nuove misure. Grossatesta applicò il suo metodo innanzi tutto ai fenomeni della luce. Credeva che la luce fosse la forma più elementare, il principio primo del movimento, e da ciò deduceva che le leggi della luce avrebbero dovuto stare alla base della spiegazione scientifica. Dio creò la luce e tutto venne dalla luce. La luce stessa, nel suo modo di propagarsi, di riflettersi, di rifrangersi segue regole geometriche, ed è il mezzo con cui i corpi più elevati esercitano la loro influenza su quelli più bassi. Di conseguenza, anche il movimento è matematico. Egli studiò l'arcobaleno e le sue critiche alle spiegazioni

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date da Aristotele e da Seneca furono passi proficui sulla via che conduceva a un'adeguata spiegazione dei fenomeni. Nella sua opera è implicita l'insistenza sulla misura quantitativa, e anche questa deriva dall'insistenza della Bibbia sulla razionalità dell'opera del Creatore, che tutto fissò in numero, peso e misura (cfr. Sap

11,20). . Non si dovrebbe pensare che gli esempi sopra riferiti siano caratteristici della concezione medievale del mondo. In realtà, sono piuttosto atipici trattandosi di un'età caratterizzata da una sconcertante mescolanza di profonda perspicacia e di ingenua credulità, di sano ragionamento e di fantastiche superstizioni, di analisi critica e di formule magiche. Tuttavia, nonostante una simile farragine, balza evidentissima l'insistenza sul pensiero razionale, la formulazione matematica e la verifica quantitativa, il che avrebbe alla fine condotto alla scienza moderna. Forse, agli inizi, altro non fu che un bagliore nell'oscurità, un bagliore che divenne però sempre più intenso, fino alla nascita della scienza moderna, in ordine alla quale l'esigenza della precisione quantitativa ebbe un'importanza di primo piano; e ciò fu reso possibile dal vigoroso sviluppo tecnologico che si ebbe lungo il Medioevo. All'inizio del Medioevo furono i monasteri ad apparire come i principali centri dell'innovazione tecnologica. Essi furono innanzi tutto case di preghiera, ma la necessità di una larga autosufficienza (essi sorgevano spesso in zone molto arretrate e sottosviluppate) costringeva i monaci a dispiegare una vasta gamma di capacità nei più svariati campi: dalla costruzione di edifici all'architettura, all'agricoltura, al settore tessile, all'orologeria, alla metallurgia, all'incisione. A partire dal XIII secolo, le Università fondate in un gran numero di centri cittadini come Bologna, Padova, Parigi, Oxford, Praga, divennero ben presto attivissimi centri di studio. Gli studenti vi si applicavano all'apprendimento di molte discipline: la grammatica, la dialettica, la retorica, la musica, la filosofia della natura, l'aritmetica e la geometria, realizzando cosl un connubio tra le arti liberali e meccaniche. Nell'età medievale l'università rispondeva pienamente al suo nome: essa assicurava infatti un'educazione universale cd era una struttura che comprendeva una componente scientifica e tecnologica importante.

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Tale fervore di attività stimolava lo sviluppo del commercio internazionale, perché le merci erano esportate da un paese all'altro in quantità sempre maggiori. Ciò richiedeva un sistema monetario solido, che andava dal conio della moneta a un'organizzazione bancaria internazionale. Sorsero banche di grandi mercanti come i Medici a Firenze, che controllavano il commercio in tutta l'Europa. Questo favorl un accentuato miglioramento del livello di vita, sebbene questo subisse delle battute d'arresto, in certi periodi, a causa delle carestie, delle pestilenze e delle guerre.

V. Scienza e fede cristiana Il Medioevo vide sbocciare, per la prima volta nella storia, una civiltà "cristiana". Poiché le idee cristiane andavano progressivamente impregnando lo spirito europeo costituendo cosl la concezione dominante riguardo al mondo e alla natura, dovremmo chiederci quale sia il concetto cristiano del "mondo materiale" e come esso si leghi a quelle convinzioni che abbiamo prima riconosciuto come necessarie per la nascita della scienza. Il cristiano crede che il mondo è buono. Nel primo capitolo della Genesi leggiamo: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31). La materia fu ulteriormente nobilitata dall'Incarnazione, allorché «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). La materia è ordinata e razionale, perché fu creata da un Dio fonte di razionalità. Nel (-1') Libro della Sapienza leggiamo che il Creatore «ha tutto disposto secondo misura, calcolo e peso» (Sap 11,20), una delle frasi della Bibbia maggiormente citate durante il Medioevo. L'ordine del mondo materiale è frutto di una libera scelta di Dio. Egli avrebbe potuto creare il mondo in molte altre maniere, ma scelse di crearlo cosl. Ciò indica l'importanza delle nostre convinzioni teologiche in rapporto al nostro modo di concepire il mondo materiale. Si attribuisce a Dio, allo stesso tempo, la razionalità e la libertà. Se si pone troppa insistenza sulla sua razionalità a scapito della sua libertà, ci si trova allora di fronte a un mondo chiuso e necessario, senza nessuna possibilità di scienza. Se, al contrario, si accentua troppo f01temente la libertà di Dio a scapito della sua razionalità, eccoci di fronte a

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un mondo totalmente imprevedibile, e, ancora una volta, senza alcuna possibilità di scienza. I cristiani credono che l'ordine della natura sia accessibile alla mente umana e credono che sia possibile acquisire conoscenze sul mondo, perché Dio comandò all'uomo di dominare la terra: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Gen 1,28). Ma la visione cristiana offre una nuova motivazione allo sviluppo della pensiero scientifico: infatti, attraverso le conoscenze acquisite mediante la ricerca scientifica, siamo anche in grado di progredire nella nostra conoscenza di Dio. Nella parabola dei talenti (cfr. Mt25,14-30) Gesù sollecita a sviluppare pienamente tutte le proprie capacità, e fra queste va intesa anche l'acquisizione di una sempre più vasta e approfondita conoscenza del mondo attraverso l'osservazione e l'esperienza. Dell'ultima condizione per lo sviluppo della scienza, la convinzione, cioè, che la conoscenza debba essere liberamente condivisa, se ne trova sempre testimonianza nel Libro della Sapienza: «Senza frode imparai e senza invidia io dono, non nascondo le sue ricchezze. Essa è un tesoro inesauribile per gli uomini; quanti se lo procurano si attirano l'amicizia di Dio, sono a lui raccomandati per i doni del sud insegnamento» (Sap 7,13-14). Si può cosl mettere in luce che lungo i secoli che precedettero la nascita della scienza moderna lo spirito collettivo dell'Europa si ispirava a un sistema di convinzioni che comprendeva proprio quegli elementi particolarmente necessari allo sviluppo delle scienze. Si può a ragione affermare che vi è una continuità viva e organica tra rivelazione cristiana e pensiero scientifico, proprio perché il cristianesimo offriva le convinzioni che resero possibile la nascita della scienza moderna ed anche il clima morale che ne poteva favorire lo sviluppo. Si potrebbe tuttavia sostenere che si trattò di una . pura coincidenza storica; come potremmo essere sicuri che si tratti di un'autentica influenza causale? È possibile accertarlo esaminando l'opera di alcuni filosofi del tardo Medioevo. Nell'epoca medievale le idee prevalenti sulla natura del mondo avevano come fonte il pensiero aristotelico. Aristotele sosteneva l'eternità del mondo, l'esistenza di un ciclo universale in un mondo caratterizzato dal determi-

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nismo, perfino in ciò che concerne gli oggetti materiali. Riteneva inoltre che la materia celeste, il mondo delle stelle e dei pianeti, fosse incorruttibile, contrariamente alla materia terrestre, che poteva invece subire mutamenti. Tali convinzioni, di fatto, impedirono lo sviluppo di un autentico pensiero scientifico. Perché la scienza potesse svilupparsi nella sua forma moderna, fu necessario sbarazzare il campo dal pesante ingombro dell'aristotelismo. Il prestigio di Aristotele era tale che l'insegnamento dei filosofi delle scuole medievali consisteva essenzialmente nel commento delle sue opere. Eppure, alcuni dei princìpi di Aristotele erano incompatibili con la fede cristiana e i filosofi non esitavano a scostarsene quando sembrava loro necessario. Sorgevano così accese discussioni su diversi argomenti, in particolare su quelli che riguardavano la creazione del mondo e il movimento dei corpi. Nel 1277 jl Vescovo di Parigi, Etienne Tempier giudicò necessario condannare 219 proposizioni filosofiche ritenute contrarie alla fede cristiana. Ciò comportò una svolta nella storia del pensiero perché le successive speculazioni filosofiche sul movimento furono orientate verso una direzione che condusse al tramonto della fisica aristotelica, aprendo così la via alla scienza moderna. Uno di questi filosofi, Giovanni Buridano (1290-1358 ca.), si interessava in modo particolare alla natura del movimento. Si tratta del problema fondamentale della fisica: una vera scienza, fin dal suo inizio, non può che prendere avvio da esso ("" MECCANICA). In piena coerenza con la sua fede nella creazione, Buridano scrisse che: «Dio, creando il mondo, collocò ognuna delle sfere celesti come gli parve bene, e, nel far ciò, impresse loro un impulso che permise alle sfere di muoversi senza che Egli dovesse ancora intervenire, eccezion fatta per l'influenza generale mediante la quale Egli prende parte, come ca-agente, a tutto ciò che si produce». Si può qui ravvisare una chiara rottura con Aristotele, che sosteneva essere continua 1' azione dell'agente per l'intera durata del movimento. Quello che Buridano chiamava "impulso", venne in seguito precisato nel concetto di movimento, e l'idea espressa nel passo citato diventò la prima legge del moto di Newton. Gli studi di Buridano ebbero una larga diffusione e le sue idee furono conosciute in tutta l'Europa, in particolare da Leonardo da Vinci e dagli scienziati del Rinascimento.

s La fede cristiana nella creazione del mondo da parte di Dio minò anche la nettissima distinzione fatta da Aristotele tra materia celeste e terrestre. Dal momento che entrambe sono create da Dio, perché dovrebbe esservi una differenza? Ciò permise a Newton di comprendere che la forza che attira una mela facendola cadere sulla terra è la stessa che mantiene in orbita la luna. Uno dei fattori vitali per lo sviluppo di ogni scienza è la convinzione che si possa costruire nel mondo una catena causale di fatti, cioè l'idea che ogni avvenimento sia il preciso risultato di avvenimenti precedenti. Solo in tal modo è possibile realizzare una corrispondenza fra le verifiche sperimentali che noi possiamo fare e la bontà delle nostre teorie, pur ammettendo un certo margine di incertezza. Un corollario che ne deriva è che, se vogliamo provare la validità delle nostre teorie, dobbiamo fare delle verifiche con la maggior precisione possibile. L'insistenza sulla precisione è essenziale per il progresso della scienza. Ne abbiamo un esempio nello studio di Keplero (1571-1630) sull'orbita del pianeta Marte (..W KEPLER, III). Erano state compiute da Tycho Brahe certe misurazioni estremamente precise sulla sua posizione, senza dubbio le più precise che si potessero fm·e prima dell'invenzione del telescopio. Keplero si prefisse di scoprirne l'orbita. Sulla scia di Aristotele, credeva che l'orbita fosse circolare, come conviene alla materia celeste incorruttibile. Scoprl che, in effetti, è quasi circolare, ma sebbene si dedicasse alla sua ricerca con la più grande diligenza, non riuscì a far corrispondere i suoi risultati alle misure di Tycho. Giunse a scoprire un'orbita circolare che corrispondeva con i dati solo all'incirca entro dieci gradi d'arco, ma non entro due, come era richiesto dall'esattezza delle misure. Molti avrebbero detto che ci si poteva accontentare e sarebbero passati oltre. Ma questo non era lo stile di Keplero, il quale era persuaso che la coincidenza dovesse essere esatta, salvo qualche incertezza dovuta alle misure. Così, insistette nella sua ricerca per anni, finché si rese conto che non si sarebbe potuto mai far coincidere perfettamente l'orbita osservata con un cerchio. Allora provò con un'ellisse e l'orbita ne riuscì perfettamente coincidente. Fu come aprire un varco che rese possibile la ricerca di Newton sulle orbite dei pianeti, ricerca mediante la quale questi dimostrò, partendo d"alla sua

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teoria della dinamica celeste, che le orbite planetarie dovevano essere in realtà necessariamente ellittiche. Questa tappa di vitale importanza per lo sviluppo della scienza poté essere raggiunta, come abbiamo più volte osservato, grazie alla ferma convinzione di un ordine insito nella natura. Ciò spinse (..W) Alfred N. Whitehead (1861-1947) a dire nelle sue Lowell Lectures su La scienza e il mondo moderno (1925) che «il Medioevo fu un lungo tirocinio della mentalità dell'Europa occidentale nel senso dell'ordine». E, come se ciò non bastasse, aggiunse che la cultura medievale è stata determinante per la conformazione della mentalità occidentale perché ha favorito «la fede inespugnabile che ogni evento particolare può essere correlato, in modo perfettamente definito, ai suoi antecedenti e fungere da esempio di principi generali. Senza questa fede l'enorme lavoro degli scienziati sarebbe disperato. È questa fede istintiva, vivamente sostenuta dall'immaginazione, che costituisce il principio motore della ricerca: v'è un segreto, e questo segreto può essere svelato» (tr. it. Torino 1979, p. 30). Chiedendosi poi come mai tale convinzione fosse così saldamente radicata nello spirito europeo, ne concludeva che la fede nella possibilità di una scienza, fede che precedette lo sviluppo della teoria scientifica moderna, deriva inconsciamente dalla teologia medievale. Ci si potrebbe domandare se l'espressione "conseguenza inconscia" (inconscious derivative) impiegata da Whitehead sia il termine più appropriato, dal momento che molti di quegli uomini del Medioevo erano consapevoli ed espliciti circa il fatto che la loro fatica di studiosi metteva in luce le opere del Creatore. Anzi, alcune convinzioni chiaramente cristiane ebbero un ruolo decisivo nel rendere possibile la nascita della scienza moderna. La concezione di un universo ciclico, ad esempio, paralizzante _per il nascere e il progredire della scienza, fu scalzata via in modo decisivo dalla fede cristiana nell'unicità dell'Incarnazione. Grazie proprio a questo evento, la storia cessò di essere un'infinita serie di cicli che si ripetevano, e divenne una storia lineare con un inizio e una fine (..W TEMPO, IV). G.K. Chesterton lo sottolineava cosi a proposito della dottrina dell'eterno ritorno: «Sono davvero fiero di osservare che essa fiorl prima del sorgere e del diffondersi del cristianesimo e ritorna quando il cristianesimo viene dimenticato».

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VI. Galileo I filosofi aristotelici consideravano l'universo come un organismo vivente ripieno di finalismi e lo analizzavano in termini di essenze e di cause. (-"')Galileo, sulla scia di Euclide e di Archimede, lo concepiva come formato di oggetti che si muovono secondo leggi matematiche, le quali si possono scoprire con l'esperimento. Pertanto studiò in modo nuovo il problema del movimento, cercando non le sue cause, ma le pure descrizioni matematiche del modo in cui gli oggetti si muovono. Galileo doveva superare la generale convinzione secondo cui i Greci avrebbero conseguito il vertice della conoscenza in tutte le arti e in tutte le scienze, tanto che ogni problema poteva essere studiato ricorrendo alla loro autorità. L'idea del progressivo ampliarsi e approfondirsi della conoscenza, tanto diffusa oggi, era evidentemente inesistente. La natura ha parlato per bocca di Aristotele e il nostro compito è di ascoltare e interpretare. Galileo, però, credeva che il Libro della natura fosse scritto in linguaggio matematico e che noi lo potessimo leggere facendo osservazioni e compiendo esperimenti. Già Keplero si era reso conto dell'importanza della esattezza numerica per l'osservazione dei cieli e aveva formulato le leggi del movimento dei pianeti. Galileo fece la stessa cosa per i movimenti sulla superficie terrestre. Studiò il modo in cui le sfere rotolavano su un piano inclinato e il modo in cui i proiettili fendevano l'aria, e poté esprimere i risultati conseguiti in semplici leggi che mettevano in relazione la posizione, la velocità, il tempo. I concetti fondamentali della dinamica furono stabiliti qualitativamente da Buridano e dai suoi successori e sollevarono molte discussioni sul movimento di caduta dei corpi e su quello dei proiettili, in particolare riguardo al rapporto tra la distanza di caduta e il tempo, nel primo caso, e alla traiettoria seguita dai proiettili, nel secondo. Concetti come quello di movimento e di energia raggiunsero la loro precisione attuale solo dopo secoli di studio. Galileo comprese l'importanza della precisione delle misure, ma si trovava in una situazione ben più difficile di quella di Keplero. Lunghi periodi, come quelli della rotazione dei pianeti, possono essere misurati solo con una precisione relativa quando si dispone di strumenti

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primitivi, ma è ancor più difficile misurare con precisione il tempo immensamente più breve che impiega un corpo a cadere da una detenninata distanza. Secondo un aneddoto probabilmente apocrifo, Galileo si servì delle pulsazioni del suo polso per misurare il periodo di oscillazione della lampada della cattedrale di Pisa, e scopri che esso non dipendeva dall'ampiezza. Per la caduta di un corpo è necessaria una misura più precisa e Galileo usò un sottile getto d'acqua che usciva da una grande giara, pesando quanta ne era sgorgata durante la caduta. In seguito accrebbe l'esattezza della sua misurazione facendo rotolare una sfera su un piano inclinato, invece di lasciarla cadere liberamente: in questo modo il tempo di caduta era più lungo e lo si poteva misurare più facilmente. Mediante tali esperimenti Galileo dimostrò che la distanza percorsa era proporzionale al quadrato del tempo. Questa legge vale .anche per la caduta libera. Galileo arrivò ad una valutazione approssimativa di quello che oggi chiamiamo il movimento dei proiettili e scoprl che la gittata è massima quando l'angolo di elevazione della pistola è di 45°. Il famoso aneddoto che vuole che Galileo abbia gettato due pesi dalla sommità della Torre Pendente di Pisa è apocrifo; comunque, lo scienziato dimostrò che il tempo di caduta è indipendente dalla massa, contrariamente a quanto sostenuto da Aristotele. Come abbiamo visto parlando di Keplero, il progresso della scienza dipende spesso dalla precisione delle misure. Quelle di Brahe erano le più precise possibili mediante l'osservazione diretta. La tappa successiva, l'invenzione del telescopio, è dovuta principalmente a Galileo. Le lenti, nel corso dei secoli, erano state usate negli spettacoli. Keplero intuì il loro singolare potere, e i primi telescopi che ingrandivano tre o quattro volte gli oggetti furono realizzati nei Paesi Bassi e in Francia. Galileo sentì parlare di questi strumenti e riuscì a costruire un cannocchiale che ingrandiva trenta volte, ed era quindi ben più potente di tutti gli altri allora esistenti. Dopo che osservazioni di oggetti lontani sulla terra l'ebbero convinto dello scarso apporto che il suo telescopio poteva dare alla conoscenza, decise di puntarlo verso il cielo e ben presto fece una serie di importanti scoperte. Osservò le macchie solari e le montagne lunari, imperfezioni insospettate in quelle che, secondo Aristotele, erano sfere pe1fette. Osservò vari satelliti del pianeta Giove e scoprl che essi compivano il loro movi-

s mento di rivoluzione intorno al pianeta. Era precisamente come un sistema solare in miniatura e costituiva una sorta di convalida della concezione copernicana del sistema solare. La ricerca di Galileo ebbe un'importanza decisiva sotto parecchi aspetti. Egli sostituì le speculazioni qualitative e non verificabili degli aristotelici con un ragionamento matematico quantitativo so~retto ~a una. precisa ~eri~ica sperimentale. Dimostro che gh strumenti scientifici, come il telescopio, potevano essere utilizzati per accrescere la potenza dei nostri sensi in maniera affidabile. Criticò l'uso di concetti non ben definiti e non verificabili, come quello di "perfezione assoluta" e dimostrò che il loro posto non è nella scienza. Sostituì i termini vaghi della lingua corrente con una nuova terminologia scientifica, nella quale a ogni concetto è attribuito un preciso significato matematico e verificabile. Lo spirito della nuova scienza era ottimista. Galileo, infatti, non dubitava che le antiche incomprensioni e i vecchi pregiudizi sarebbero stati vinti, i segreti della natura svelati e il mondo trasformato. In tal modo, con Galileo la fisica aristotelica, già minata da non pochi secoli, giunse al suo tramonto. I filosofi aristotelici faticarono a darsi per vinti. Presentarono varie obiezioni apparentemente plausibili all'opera di Galileo, obiezioni che a poco a poco, però, si rivelarono false o insostenibili. Gli argomenti di Galileo a sostegno del movimento della terra intorno al sole erano certamente inesatti, per esempio quelli riguardanti l'origine delle maree, e dovette passare qualche secolo perché fossero corretti. Galileo comprese tuttavia la fondamentale importanza della teoria copernicana e riusci a confutare la maggior parte degli argomenti che si adducevano per dimostrarne la falsità. Ciò rese possibili gli ulteriori sviluppi della scienza, grazie ai quali si giunse alla prova definitiva della validità della teoria copernicana (;r COPERNICO, IV.l). Galileo comprese che, se la nuova scienza voleva tI"ionfare, doveva essere sostenuta dalla Chiesa. Contava molti amici nelle alte sfere ecclesiastiche, i quali erano tutt'altro che indifferenti ai suoi studi. Tuttavia, i suoi avversari aristotelici poterono cogliere nella Sacra Scrittura dei passi che sembravano contraddire il sistema eliocentrico, fra cui il notissimo passo di Giosuè sul sole che veniva fermato (cfr. Gs 10,12). Galileo pensava che la Sacra Scrittura utilizzas-

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Scienza, origini cristiane

se spesso il linguaggio della vita quotidiana, senza prendere posizione sulle teorie scientifiche (.I' SACRA SCRITTURA, I). Era pertanto inevitabile che lo scontro tra Galileo e gli aristotelici si trasferisse sul piano teologico, in un periodo molto delicato per la Chiesa, a causa delle conseguenze della Riforma protestante. In quel momento critico per lo sviluppo della scienza, il dibattito sulla natura della scienza, sul suo metodo e sulla validità delle sue conclusioni nel contesto dell'insegnamento della Chiesa, assunse un'importanza rilevantissima. E la assume anche ai nostri giorni.

VII. La scoperta dell'origine cristiana della scienza Le radici cristiane della scienza moderna sono poco conosciute. Chi ne mise per primo in luce l'evidenza fu il fisico francese (.I') Pierre Duhem (1861-1916). Fisico teorico dedicatosi al campo della termodinamica, Duhem aveva sempre avuto un vivo interesse per la storia della fisica. Gli fu chiesto di scrivere una serie di articoli sulla storia della meccanica e nel primo, com'era naturale, trattò delle idee degli antichi Greci. Analogamente alla maggior parte degli storici delle scienze della sua epoca, egli pensava di sorvolare su quanto accadde durante il Medioevo per arrivare decisamente ai giganti del Rinascimento. Ma Duhem era un uomo scrupoloso, che non si accontentava di fonti di seconda mano. Trovò oscuri riferimenti a un'opera anteriore e, seguendoli, soprattutto negli archivi di Parigi, scoprl il lavoro di Buridano, del suo allievo Nicola Oresme, e quelli di molti altri studiosi medievali, riconoscendone il contributo assai significativo all'origine delle scienze moderne. Duhem scrisse due volumi sulla storia della meccanica, tre su Leonardo da Vinci, poi incominciò la sua opera più importante, il Système du Monde. Scrivendo sulla dottrina del Grande Anno, Duhem vi affermava: «Alla costruzione di questo sistema contribuirono tutti i discepoli della filosofia ellenica - peripatetici, stoici, neoplatonici -; a questo sistema Abu Masar offrl l'omaggio degli Arabi; i rabbini più illustri, da Filone di Alessandria a Maimonide, l'avevano accettato. Per condannarlo e gettarlo a mare come una mostruosa superstizione, dovette venire il cristianesimo».

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Scienza, migini cristiane

Il primo volume del Système du Monde, dedicato all'epoca dei Greci, fu pubblicato nel 1913 e venne grandemente esaltato da George Sarton, fondatore ed editore del giornale "lsis", che disse di attendere con impazienza la pubblicazione del secondo volume. Quando però lo lesse, comprese che ciò che il fisico francese aveva scoperto era del tutto inconciliabile con le sue tendenze secolariste. Duhem morl prematuramente nel 1916, quando erano stati pubblicati solo i primi cinque volumi del Système du Monde. Lasciava i manoscritti degli altri cinque volumi, ma questi incontrarono una grande opposizione e la loro pubblicazione dovette attendere ancora quarant'anni. La sua opera resta di fatto ancora poco conosciuta al di fuori di un ristretto circolo di specialisti. Va però osservato che a partire dagli anni '30 del XX secolo, successivamente alle suggestioni di Whitehead prima ricordate, numerosi altri autori hanno offerto riflessioni sulle origini cristiane della scienza moderna. Fra questi, vanno ricordati gli studi storici di Alistair Crombie, Stanley Jalci e Olaf Pedersen, ed i contributi di molti altri autori. Sono studi che meritano di essere conosciuti soprattutto dai cristiani, in particolare da coloro che si dedicano all'educazione dei giovani, i quali spesso ascoltano ripetere molte voci che ci sarebbe un'opposizione di fondo tra scienza e fede cristiana. PETER

E. HODGSON

Vedi: CREAZIONE; GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL Loaos; NATURA; PADRI DELLA CHIESA; DUHEM, P.

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SCIENZE NATURALI, UTILIZZO IN TEOLOGIA

Pio IX, DR 2877; Concilio Vaticano I, DR 3017-3020; Aeterni Patris, EE 3, 104-105; Providentissimus Deus, DH 3287; Leone XIIl, DR 3287; Humani generis, DR 3895; Optatam totius, 13; Gaudium et spes, 44, 57, 62; Giovanni Paolo II, Lettera al Direttore della Specola Vaticana, 1.6.1988, OR 26.10.1988, pp. 5-7; Fides et ratio, 29, 34. I. Introduzione - II. Dal dialogo all'integrazione inteliettuale: alcune premesse epistemologiche - III. L'utilizzo delle scienze naturali nel lavoro teologico: un breve status quaestionis - IV. L'immagine fisica del mondo e le possibili implicazioni nella lettura teologica della Rivelazione biblica - V. Verso uno sviluppo omogeneo del dogma. I. Introduzione All'interno del suo specifico compito di comprendere la parola di Dio alla luce della fede, spiegarne l'interna coerenza ed esplicitarne le diverse implicazioni, la teologia entra inevitabilmente in rapporto con altre fonti di sapere e ne considera le rispettive conoscenze. Pur muovendosi lungo un cammino "discendente", che dalla Rivelazione biblica si muove verso le cose create, essa non può prescindere dalla .convenienza di un corrispettivo momento "ascendente", che dalla conoscenza filosofica e scientifica del reale muova verso una maggiore intelligibilità della parola di Dio. La presenza di una necessaria dinamica dialogica nel lavoro della teologia è in fondo già manifesta nella comprensione anselmiana della teologia come fides quaerens intellectum, che resta ancor oggi una delle migliori definizioni del suo compito razionale ("" TEOLOGIA, II). L'intelligenza delle cose che viene "cercata", ma anche "richiesta" ed "amata" dalla fede (in accordo con le molteplici sfumature che può assumere il verbo quaerere), proveniva storicamente da diverse fonti, che non riguardavano solo la filosofia in senso stretto, ma anche quelle conoscenze della natura

Scienze naturali, utilizzo in teologia

contenute in ciò che a lungo ha continuato a chiamarsi filosofia naturale. A partire dalla fondazione del metodo scientifico come metodo autonomo rispetto al sapere filosofico (,.,,. AUTONOMIA, IV. l ), la teologia si è trovata di fronte a due diversi interlocutori, la filosofia e le scienze, e anche a due ambiti distinti, quelli delle scienze umane e delle scienze naturali, dovendo tener conto in modo sempre più articolato e complesso delle diversità metodologiche e delle differenti prospettive epistemologiche che le rispettive discipline implicavano. Tale complessificazione di rapporti è stata segnata, in modo particolare, dall'irruzione (o forse dalla riproposizione) in epoca moderna di due grandi problematiche, la prospettiva recata dalla (,.,,.) storia e l'acuirsi della questione sulla(,.,,.) verità. Il tema dell'utilizzo della riflessione e dei risultati delle scienze naturali nel lavoro della teologia costituisce una tappa successiva e come il naturale sbocco del (,.,,.) dialogo scienzeteologia, ma vi aggiunge una particolare responsabilità, quella di progredire da una semplice analisi o giudizio di compatibilità verso la sfida di una possibile reciproca provocazione, il cui esito non è certamente solo quello di accrescere, da parte della teologia, l'intelligenza del dato rivelato, ma anche la possibilità di vedersi obbligata a ricomprenderlo all'interno di orizzonti inediti i quali, a loro volta, le presentano problemi nuovi e la spingono verso analisi più approfondite. Si vede allora facilmente che riferirsi ad un "utilizzo" delle scienze in teologia non rimanda affatto ad una visione strumentale o semplicemente ausiliaria (come non lo è neanche quella della filosofia o delle scienze umane), ma implica piuttosto l'idea di trovare in esse fonti di ispirazione e di sviluppo dogmatico, facendosi carico dell'onere ermeneutico che questo comporta. Rispetto ai rapporti esistenti (ed assai meglio tematizzati) della teologia con la filosofia, quelli con le scienze naturali presentano varie similarità, ma anche sensibili differenze. Da un lato, l'interpretazione del dato scientifico è spesso legata a particolari prospettive teorico-filosofiche (theory laden) e dunque richiede da parte del teologo, come nei riguardi della filosofia, un certo discernimento. Dall'altro, molti risultati delle scienze hanno una "prossimità" al reale ed una verificabilità oggettiva ed universale in certo modo unica, e tale da assegnare loro (pur con le dovute precisazioni) un peculiare valore cono-

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scitivo rispetto a quanto accade con altre fonti di indagine e di sapere. In entrambi i casi, tanto per l'utilizzo della filosofia come per quello delle scienze, resta centrale il loro rapporto con l'("") esperienza, che la teologia guarda ed accoglie all'interno del suo quadro realista, portatore di precise visioni sia per quanto concerne le relazioni fra verità e storia, sia in merito alla possibilità di accesso alla verità come tale. Ma a differenza della filosofia, le cui principali conoscenze il teologo acquisisce nello svolgimento del suo programma di formazione accademica, l'attenta comprensione e la valutazione di quanto apportato dalle scienze naturali richiede una competenza specifica che il teologo, sia per motivi di carattere storico ed istituzionale legati alla costituzione dei centri di studio teologico, sia per la sofisticatezza degli strumenti teorici e sperimentali della scienza contemporanea, oggi non possiede più, e che, quando posseduta, deriva da itinerari formativi ed accademici sviluppati a latere di quello teologico. In questo contributo, dopo aver accennato ad alcune premesse epistemologiche che dovrebbero a nostro avviso regolare il dialogo e l'interazione fra la teologia e le scienze (Sezione Il), riepilogheremo un breve status quaestionis della presenza delle scienze naturali nella teologia (Sezione III), per poi segnalare i principali risultati scientifici con i quali la teologia deve oggi confrontarsi (Sezione N), ed indicare infine alcune piste che potrebbero guidarne un opportuno utilizzo in termini di sviluppo del dogma (Sezione V).

II. Dal dialogo all'integrazione intellettuale: alcune premesse epistemologiche Esistono oggi le premesse filosofiche, ma anche un adeguato clima culturale, perché le relazioni fra teologia e scienze non abbiano più un carattere conflittuale, ma piuttosto un carattere dialogico. Sui fattori che hanno determinato tale cambio di prospettiva vi è in generale, fra i vari autori, un certo accordo (cfr. Polkinghorne, 1987, 2000; Gismondi, 1993; Haught, 1995; Barbour, 1997, 2000). Si segnala di solito il superamento del meccanicismo determinista e della pretesa autoreferenzialità dell'impresa logico-matematica, due paradigmi nei quali la conoscenza scientifica era rimasta imbrigliata per parecchio tempo, compromettendo le sue potenzialità di dialogo con altre fonti di sapere.

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Si segnala anche la riscoperta dell'impresa scientifica come "attività della persona" e dunque aperta ai canoni della conoscenza personale (valore della tradizione, integrazione del linguaggio logico-matematico con quello analogico, simbolico ed estetico, ecc.). Si registra infine il sorgere di domande filosofiche e, a volte, perfino esistenziali, all'interno dell'analisi delle scienze, sebbene, ovviamente, non possano essere né formalizzate né risolte all'interno del metodo scientifico. Sotto l'aspetto storico-culturale si potrebbe citare anche la riscoperta del legame fra teologia cristiana della creazione e sviluppo del pensiero scientifico occidentale ("" SCIENZA, ORIGINI CRISTIANE). Da parte della teologia, un importante fattore di mutamento è oggi rappresentato dalla progressiva, seppur lenta, accoglienza della visione scientifica contemporanea sul cosmo fisico, sulla vita e sulla specie umana, quale orizzonte contestuale irrinunciabile per una migliore comprensione della dottrina biblica sulla ("") creazione e della stessa storia della salvezza. 1. Le modalità di "sviluppo" del dialogo fra teologia e scienze. Il terreno di riflessione più naturale per tale confronto è quello dell'interpretazione del reale. È infatti proprio qui ove sorsero a suo tempo dei conflitti fra lettura scientifica e lettura religiosa del mondo. Una volta riconosciuta, grazie ad una più corretta("") ermeneutica, la possibilità di simultanee e diverse lettw-e del reale, non più conflittuali fra loro, si possono chiarire gli errori del passato e gettare le basi per una pacifica convivenza nel futuro. Una prima possibilità di sviluppo del dialogo che si spinga più in là della fase del chiarimento o della non belligeranza è quella che sposterebbe il confronto fra teologia e scienze da categorie essenzialiste verso categorie "personaliste", riconducendo così il problema epistemologico verso un terreno più tipicamente anu·opologico. Va osservato in proposito che lo stesso pensiero scientifico ha progressivamente rivalutato quei fattori di conoscenza personale, euristica, estetica, intuitiva, che per molto tempo erano rimasti sottostimati in un quadro scientifico in cui la razionalità veniva riduttivamente identificata con la razionalità logica("" EPISTEMOLOGIA, Il, VI; POLANYI, II-Ili}. Ciò implicherebbe il coraggio di rimettere a tema l'unità dell'esperienza intellettuale del soggetto conoscente: l'oggetto in questione non sarebbe più allora il dialogo u·a teologia e sapere scientifico nell'interpretazione del reale, bensì

s quello di vedere come i vari saperi contribuiscano ali' autocomprensione del soggetto e alla determinazione delle sue scelte esistenziali, non ultima quella religiosa (..ir UNITÀ DEL SAPERE, V). Si compirebbe in tal modo quel passaggio da assenso "nozionale" - dovuto all'analisi della logica, - ad assenso "reale" - dovuto alla convergenza degli indizi provenienti da tutte le fonti di conoscenza, anche quelle non formalizzabili in termini quantitativi - che rappresentava già una delle lezioni trasmesse da J.H. Newman ne La grammatica dell'assenso (1870). La migrazione da categorie epistemologiche ed essenzialiste verso categorie antropologiche e personalistiche reca con sé anche risonanze di carattere etico, ponendo le basi per un superamento dell'idea di "neutralità della scienza" (..ir ETICA DEL LAVORO SCIENTIFICO, IX). Ma esiste anche una seconda modalità di sviluppo del dialogo, questa volta in ambito spiccatamente teologico e non solo filosofico, alla quale si accede quando si accetta la possibilità di una reciproca "provocazione intellettuale", non più intesa come incitamento alla conflittualità, ma come opportunità di sottoporre i propri risultati alla riflessione dell'altro: «11 dialogo deve continuare e progredire in profondità e in ampiezza. In questo processo dobbiamo superare ogni tendenza regressiva che porti verso forme di riduzionismo unilaterale, di paura e di autoisolamento. Ciò che è assolutamente importante è che ciascuna disciplina continui ad arricchire, nuh·ire e provocare l'altra ad essere più pienamente ciò che deve essere e a contribuire alla nostra visione di ciò che siamo e di dove stiamo andando» (Giovanni Paolo Il, Lettera al Direttore della Specola Vaticana, 1.6.1988). La possibilità di una prudente assunzione nella riflessione teologica di risultati scientifici certi trova il suo fondamento dogmatico nella corrispondenza fra la parola creatrice e la parola che interpreta e dirige la storia, fra il Dio che si manifesta nelle opere della creazione ed il Dio che si è rivelato in pienezza nell'incarnazione del suo Verbo. Un invito a non trascurare questa corrispondenza viene offerto dalla Fides et ratio (1998): «L'unità della verità è già un postulato fondamentale della ragione umana, espresso nel principio di non-contraddizione. La Rivelazione dà la certezza di questa unità, mostrando che il Dio creatore è anche il Dio della storia della salvezza. Lo stesso e identico Dio, che fonda e garantisce l'in-

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Scienze naturali, utilizzo in teologia

telligibilità e la ragionevolezza dell'ordine naturale delle cose su cui gli scienziati si appoggiano fiduciosi, è il medesimo che si rivela Padre di nostro Signore Gesù Cristo» (n. 34). Evitando ogni ingenuo (..ir) concordismo, si tratta piuttosto di prendere sul serio le conseguenze di quella «unità della verità» appena citata. Alla voce in passivo di doversi assumere la responsabilità di valutare teorie e risultati provenienti da un ambito, quello scientifico, che certamente comporterebbe nuovi sforzi e nuove competenze, corrisponde però l'interessante voce in attivo di poter far confluire tali conoscenze in ciò che la teologia fondamentale chiama «sviluppo omogeneo del dogma» (vedi infra, V). In altre parole, le scienze naturali, che hanno costituito in buona parte una fonte di "guai" per la teologia, potrebbero essere invece viste come fonte positiva di speculazione teologica. Va precisato che sviluppo della teologia e progresso del dogma non sono la stessa cosa. L'esplorazione di nuovi sentieri è compito della riflessione teologica, non delle formulazioni dogmatiche, il cui ruolo è al contrario quello di raccogliere in forma autorevole e stabile l'esito di uno studio e di un approfondimento che, come mostra la storia, può durare anche vari secoli. Ma un vero progresso di queste ultime, frutto appunto di elaborazioni lente e ponderate, non sarebbe. possibile senza uno sviluppo speculativo della prima. 2. Due chiarimenti nell'approccio alle scienze. Una teologia che voglia vedere nelle scienze naturali una forite di positiva riflessione dovrebbe affrontare due chiarimenti importanti. Il primo di essi richiede di prendere posizione nei confronti del tema della verità nelle scienze; il secondo è la disponibilità a precisare alcuni aspetti terminologici, ed eventualmente anche a rivedere alcune categorie teologiche, alla luce di quelle conoscenze scientifiche sulla natura e sull'uomo la cui interpretazione non dipenda da particolari paradigmi filosofici. In merito al primo chiarimento, la teologia non dovrebbe insistere troppo né sul carattere fallibilista dell'impresa scientifica - quasi facendone il perno di ogni suo confronto con le scienze - né sulla supposta totale equivalenza o sul continuo cambiamento dei suoi paradigmi interpretativi. Sebbene si tratti di approcci epistemologici in parte giustificati, un loro utilizzo poco pertinente termina svirtuando la conoscenza scientifica dalle sue istanze veritative,

Scienze natul'ali, utilizzo in teologia

riconfinandola nell'orizzonte di un phain6menon riduttivamente inteso, come appello a quell' «unicamente salvare le apparenze», da cui la scienza galileiana aveva inteso prendere opportunamente le distanze ("" COPERNICO, 11.3; GALILEI, II.2). La storia del pensiero scientifico non è stata certamente univoca nel modo di intendere il «fenomeno», il cui legame con il mondo dei fatti ha ammesso diverse letture, ma essa, nella sua globalità, non potrebbe essere ragionevolmente compresa se non come un progressivo avvicinamento delle formulazioni astratte alla verità delle cose. La conoscenza scientifica, di cui la riflessione filosofica costituisce come il naturale prolungamento, partecipa anch'essa di quell'istanza metafisica che la Fides et ratio individua come la necessità di «passare dal fenomeno al fondamento» (n. 83). Il mondo dell'esperienza non rappresenta per le scienze un recinto chiuso ed autoreferenziale, ma è la sua porta di accesso all'essere delle cose. È significativo osservare in proposito che il citato documento menziona il processo conoscitivo delle scienze empiriche per mostrare - in analogia col pensiero filosofico - che la ricerca umana della verità non è congenitamente frustrata, ma è capace di riposare su dati certi: «Di fatto, proprio questo è ciò che normalmente accade nella ricerca scientifica. Quando uno scienziato, a seguito di una sua intuizione, si pone alla ricerca della spiegazione logica e verificabile di un determinato fenomeno, egli ha fiducia fin dall'inizio di trovare una risposta, e non s'arrende davanti agli insuccessi. Egli non ritiene inutile l'intuizione originaria solo perché non ha raggiunto l'obiettivo; con ragione dirà piuttosto che non ha trovato ancora la risposta adeguata» (n. 29) Sottolineare le istanze veritative del pensiero scientifico ed il reale progresso delle sue conoscenze in un quadro di riferimento epistemologico di tipo realista, facilita l'abbandono - o comunque il ridimensionamento - di facili luoghi comuni quali ad esempio la complementarità fra "come" e "perché" o l'insistenza sui "limiti" della scienza. La ricerca scientifica risponde a dei precisi "perché" e, all'interno del suo specifico oggetto formale, possiede un oggetto materiale "illimitato". Non sarebbe difficile mostrare che anche quei limiti che la scienza coglie dall'interno del suo metodo (incompletezze, impredicibilità, necessità di appello a causalità formali o finali, ecc.) non di rado co-

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stituiscono piuttosto delle "aperture", cioè punti di transizione o perfino di trascendimento, verso livelli di comprensione più alti o verso oggetti formali più generali. Il cammino seguito in sede logica da("") Wittgenstein, in merito al riconoscimento di un simile trascendimento, non è che un esempio di un itinerario concettuale comune anche ad altri ambiti delle scienze. Di conseguenza, andrebbe privilegiata lariflessione sui "fondamenti" del sapere scientifico, piuttosto che sui suoi limiti("" AUTONOMIA, IV.1). Fra i luoghi comuni che andrebbero abb~ndonati vi è anche quello, corrispondente ad una visione epistemologica tanto ambigua quanto scorretta, di dirimere questioni complesse sentenziando che una certa affermazione della scienza non entrerebbe in contraddizione con la Rivelazione perché si tratta in fondo solo di "ipotesi scientifiche". In realtà, se si tratta di vere argomentazioni scientifiche, sviluppate in modo metodologicamente corretto, il teologo si attende che esse, nemmeno come ipotesi, possano entrare in contraddizione con la Rivelazione. Una seconda questione riguarda l'utilizzo in teologia di termini che hanno una forte connotazione cosmologica, quali ad esempio terra, ("") cielo, ("") vita, ("") morte, ("") tempo, spazio, luce, ecc. Nell'epoca medievale, linguaggio téologico e linguaggio scientifico utilizzavano la stessa terminologia: oggi non è più così, e quando ciò accade vi corrisponde quasi sempre un contenuto equivoco, come avviene con il termine «nulla», o con la stessa nozione di «Creazione» ("" CREAZIONE, I.1, III.3). Il fatto che il linguaggio teologico (analogico, simbolico, poetico, dossologico, ecc.) sia necessaria.mente assai più ricco di quello delle scienze, non esime il teologo da un certo rigore terminologico, cui il mondo delle scienze è particolarmente sensibile. L'utilizzo di due nozioni meriterebbe una particolare attenzione: quella di trascendenza e quella di esperienza. Nell'impiego della prima, cruciale per tutto il discorso teologico, si dovrebbe saper mostrare il suo raccordo con l'analisi delle scienze e con le sue relative aperture epistemologiche ed antropologiche; nell'impiego della seconda, cruciale per tutto il discorso scientifico, si dovrebbe saper spiegare in qual modo l'esperienza delle cose di Dio e l'esperienza delle scienze intersecano entrambe la sfera del mondo sensibile e della storia("" ESPERIENZA, VI).

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Per convincersi dell'attualità del tema, bahanno rivolto una minore attenzione alle sciensterebbe pensare alla necessità oggi avvertita di . ze naturali, se confrontata con quella dedicata alle scienze umane. Il maggior peso tributato a proporre un linguaggio su Dio che risulti magqueste ultime è dovuto sia al loro ruolo di sciengiormente significativo per un ambiente cultuze ausiliari nello studio e nell'interpretazione rale modellato dalla razionalità scientifica (cfr. della("') Sacra Scrittura (storia, filologia, ecc.), Gaudium et spes, 5; "'DIO, III). Le ricadute in ambito pastorale, come ricordato in un recente · sia alla loro utilità per conoscere la determinata situazione storica ed esistenziale del destinatadocumento della Conferenza Episcopale Italiario del messaggio evangelico, cioè dell'uomo na, sono a tutti evidenti: .«senza valide riflessio(psicologia, sociologia, antropologia, ecc.). ni capaci di chiarire (e di articolare) il possibile Esempi, anche recenti, di questo "sbilancianesso esistente tra il cammino storico dell'uomento" sono l'assenza di riferimenti alle scienmo, l'evoluzione dell'universo e l'agire reale di ze naturali nella costituzione del Concilio VatiDio, ogni discorso sulla realtà di Dio e la sua cano TT Dei Verhum (1965) dedicata alla Rivepresenza rischia di rimanere culturalmente irrilazione divina e nel documento della PCB L'inlevante e senza significato per la vita» (CEI, 1999, n. 35; cfr. nn. 27-37). Analoghe avvertenterpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993). Se diamo uno sguardo più indietro, l'enciclica ze sono contenute in altri documenti pastorali di di Leone XIII, Providentissimus Deus (1893), natura programmatica (cfr. CEI, Progetto culturiconosce opportunamente che «la cognizione rale orientato in senso cristiano, 28.1.1997, n. delle cose naturali sarà un valido sussidio per il 3; Pontificio Consiglio per la Cultura, Per una dottore di Sacra Scrittura», sebbene la principapastorale della cultura, 23.5.1999, n. 35). Già le finalità di tale cognizione parrebbe più quelanni or sono, una dichiarazione dell'allora Segretariato per il Dialogo con i non credenti avela di delimitare i campi delle rispettive competenze, che non utilizzarne positivamente i risulva puntualizzato: «l cristiani non considerano le tati; si aggiunge infatti subito dopo: «nessuna scienze come una minaccia, ma piuttosto come vera contraddizione potrà interporsi tra il teolouna manifestazione, ad un livello più profondo, go e lo studioso delle scienze naturali, finché di Dio Creatore. D'altra parte, la cultura scienl'uno e l'altro si manterranno nei propri confitifica esige dai cristiani una maturazione della ni, guardandosi bene, secondo il monito di sanloro fede, la disponibilità ad aprirsi al linguaggio e alle ricerche degli scienziati, e in special t' Agostino, di non asserire nulla temerariamenmodo un senso di discernimento nei confronti te, né di presentare una cosa incerta come certa delle applicazioni tecniche della scienza» (in (incognitum pro cognito)» (DH 3287). Impor"Ateismo e Dialogo", 16 (1981), p. 231). tanti premesse magisteriali che avrebbero giustificato l'idea di un contributo positivo delle In termini generali un approccio capace di raccogliere costruttivamente la "provocazione" scienze naturali erano comunque contenute in delle scienze sulla teologia si presenta più imnuce nella Dei Filius (1870) del Concilio Vatipegnativo. Se, per asserire la semplice compaticano I, in merito ali' «aiuto scambievole» che bilità fra lettura scientifica del mondo e lettura fede e ragione devono prestarsi nella comprenofferta dalla Rivelazione, il teologo può cedere sione dei dogmi (cfr. DH 3019). alla facile scappatoia di non prendere o non far I. L'attenzione rivolta dai teologi e dalla prendere troppo sul serio i risultati della scienteologia. Può sorprendere che molti manuali za, se vuole invece utilizzarli come fonte di riteologici degli ultimi 30 o 40 anni mantengano flessione speculativa o di sviluppo dogmatico, sulla tematica un discreto, relativo silenzio. egli deve fare esattamente il contrario, cioè Eloquente quello della collana Mysterium saluprenderli sul serio. tis, un'opera che intendeva individuare le linee maestre di un rinnovamento teologico a partire dall'epoca del Concilio Vaticano II (Mysterium III. L'utilizzo delle scienze naturali nel laSalutis. GrundrifJ heilsgeschichtlicher Dogmavoro teologico: un breve status quaetik, a cura di J. Feiner e M. Lohrer, 5 voll., Einstionis siedeln 1965-1976; tr. it. 12 voli., Brescia 19671978). Fino all'inizio degli anni '80 del XX seIn linea generale, sia la riflessione teologicolo, sono rarissimi i trattati sulla creazione o ca che gli interventi del Magistero ecclesiale quelli di antropologia teologica che contengono

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qualche ponte di collegamento con le scienze naturali, e quando ne parlano lo fanno di solito in modo passeggero ed impreciso, quasi con l'impressione di trovarsi su un terreno minato. La graduale crescita di attenzione avutasi nello scorcio di fine secolo è stata guidata dalla riflessione obbligata sulla questione ecologica e da una ripresa di interesse dei classici temi di frontiera legati ai "problemi delle origini" (del cosmo, dell'uomo, della vita), con un'appendice riguardante gli scenari finali (futuro dell'uomo e del cosmo), quasi sempre come risposta a opere di scienziati che avevano avuto un notevole impatto filosofico sulla cultura e sull'opinione pubblica("" DIVULGAZIONE, III), impatto che la teologia non poteva fare a meno di registrare. Fra i teologi contemporanei va tuttavia ricordata l'opera di Karl Rahner (1904-1984) e Wolfhart Pannenberg (n. 1928), espressioni di una teologia non circostanziale, ma che sembra aver preso sul serio le scienze naturali. Il primo ha lasciato numerose riflessioni in proposito, sebbene contenute sotto forma di brevi saggi, senza aver dato però vita ad un pensiero organico (alcune riflessioni programmatiche in K. Rahner, Naturwissenschaft und vernilnftiger Glaube, 1981, tr. it. Scienze naturali e federazionale, Nuovi Saggi, voi. IX, Roma 1984, pp. 29-84). Il secondo, autore di estese monografie dedicate al nostro tema (cfr. Pannenberg, 1973, 1975, 1993) oltre che di copiosi articoli, ha sviluppato una significativa riflessione in dialogo con le scienze nella "Dottrina sulla creazione" della sua Teologia Sistematica (tr. it. 3 voli., Brescia 1996, cfr. cap. VII). Di Pannenberg va segnalata la forte prospettiva filosofica di tipo idealista, che orientando la questione della verità sull' escathon finisce col condizionare la coerenza della lettura che egli fa dell'attività delle scienze, almeno in alcuni aspetti. A questi due autori andrebbero ancora affiancati Thomas F. Torrance (n. 1913), la cui produzione filosofico-teologica ha largamente interessato i rapporti fra teologia e scienze (cfr. Torrance, 1989, 1992, 1997), e teologi come Juan Luis Ruiz de la Pefia, Karl Heim e Jiirgen Moltmann (n. 1926). Quest'ultimo è autore di un trattato sulla creazione che offre spunti di dialogo con le scienze (Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione, tr. it. Brescia 1986), ma in luogo di un impiego costruttivo del dato scientifico, egli pare più interessato alle analogie che alcune concezioni (come ad esempio la teoria

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dei campi) potrebbero secondo lui offrire per una comprensione del rapporto fra Dio (lo Spirito in particolare) e il mondo, con risultati che, a nostro avviso, restano largamente insoddisfacenti ("" SPIRITO, IV.3). Infine, non va dimenticato il contributo di ("") Bernard Lonergan (1904-1984), che sebbene sia stato sviluppato in sede filosofica nasceva da istanze di metodologia teologica (cfr. Insight. A Study of Human Understanding, 1957; Method in Theology, 1972). Abbiamo qui menzionato solo quegli studiosi che avevano od hanno come principale ambito di lavoro la teologia, e che pertanto, a nostro avviso, nella loro prospettiva metodologica si differenziano da quegli altri autori, oggi assai più numerosi, che si dedicano al rapporto scienze-teologia quale loro primario campo di studio ("" DIALOGO SCIENZE-TEOLOGIA), e la cui prospettiva resta sostanzialmente epistemologica, non teologico-dogmatica. Un discorso a parte andrebbe fatto per ("") Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955). Il caso dello scienziato gesuita francese è certamente atipico, ma degno di particolare attenzione. Teilhard non era un teologo né ha utilizzato strictu sensu le scienze naturali all'interno di un pensiero o di un progetto teologico sistematico o compiuto, eppure il suo pensiero ha grandemente influenzato e continua ad influenzare la teologia (per una concisa visione del suo influsso, cfr. Tilliette, 1998). Egli rappresenta infatti il primo caso di un autore il quale, sebbene non senza incertezze e talvolta qualche ambiguità, abbia cercato di "rileggere" i risultati delle scienze - in modo particolare la prospettiva evolutiva del cosmo e della vita - alla luce della Rivelazione biblica, proponendone interpretazioni inedite che ne estendevano la portata verso orizzonti assai più ampi del previsto. La sua lettura dei rapporti fra Cristo, l'uomo e il cosmo, dettata dalle sue osservazioni di paleontologo e dalle sue vibranti, a tratti mistiche, riflessioni di credente, ha rappresentato una sorta di paradigma all'interno del quale alcuni teologi hanno finito con l'interpretare questioni centrali come il rapporto fra natura e grazia o quello fra creazione e redenzione ("" GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL Looos, III.2). Tuttavia, se valutato come progetto teologico, il pensiero di Teilhard non offre soluzioni convincenti in merito ad alcuni questioni rilevanti per la dottrina cristiana, quali ad esempio la comprensione del peccato ori-

s ginale o le modalità della presenza di Dio nel cosmo, e può condurre a conclusioni che si distanziano, in alcuni aspetti specifici, dal contenuto della Rivelazione. Uno sguardo complessivo alla teologia del Novecento, tranne rare eccezioni, ci rivelerebbe che con il pensiero scientifico non si è instaurato un dialogo particolarmente costruttivo; ci riferiamo ad un dialogo che non si limitasse a segnalare confini o a chiarire errori, ma giungesse anche ad utilizzare, in modo prudente ma fecondo, alcuni dei risultati e dei nuovi orizzonti consegnati alla cultura dalla ricerca scientifica del XX secolo. La "valenza di pensiero" che questi risultati contenevano è testimoniata dagli ampi dibattiti suscitati dalle scienze in sede filosofica, non teologica, dove è stata però loro tributata un'attenzione principalmente epistemologica e gnoseologica, non giungendo quasi mai ad interessare il terreno antropologico od esistenziale: quando ciò è avvenuto, ne sono state più spesso veicolo le opere degli scienziati che quelle dei filosofi. Le cause del ritardo della teologia sono storicamente complesse, ma fra queste vi è ce1tamente la progressiva perdita del suo "orizzonte universitario". Si tratta di quell'impoverimento subito dalla teologia sia per aver gradualmente (talvolta forzosamente) abbandonato i campus universitari di buona parte delle nazioni di tradizione cristiano-cattolica per limitarsi all'insegnamento nei seminari ed in università dipendenti esclusivamente dalla Santa Sede, sia per la scomparsa di importanti discipline di cultura scientifica dagli studi istituzionali della formazione sacerdotale e dagli studi filosofico-teologici in genere (-" UNIVERSITÀ, III, V). Sebbene lo sviluppo contemporaneo delle scienze naturali abbia portato ad un'estensione di conoscenze non più paragonabile con quanto poteva considerarsi acquisito nel XIX secolo, la presenza della fisica, dell'astronomia, della logica o della biologia nella ratio studiorum dei seminari ottocenteschi era per lo meno indice di una sensibilità che verrà successivamente a mancare. Ciò ha contribuito ad aumentare quel gap culturale fra riflessione teologica e razionalità scientifica avviatosi lentamente (ma inesorabilmente) con l'inizio della modernità. Ne offre una riprova quantitativa, per gli amanti dei dati, una semplice analisi delle biografie scientifiche contenute nel monumentale Dictionary of Scientific Biographies (a cura di C. Gillispie, 16 voli., New York 1970-

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1980); risulta infatti che la percentuale di scienziati che fossero anche chierici secolari o regolari di chiese cristiane copre nel 1700 ancora il 30% di tutte le biografie riportate, ma scenderà poi drasticamente al 10% nel primo Ottocento, prima di essere ridotta solo a pochi personaggi nel Novecento. Pur non rappresentando tali dati alcuna prova della "efficienza" del dialogo fra teologia e scienze - i personaggi in questione, infatti, erano sostanzialmente chierici scienziati ma non teologi - è però in qualche modo un'indicazione importante della "dimestichezza" con l'ambiente della ricerca e della sperimentazione da parte di studiosi che avevano ricevuto prima una formazione filosofico-teologica e poi una formazione scientifica a livello professionale. Per il suo interesse storico, fra questi personaggi merita di essere ricordato Antonio Stoppani (1824-1891), abate e geologo, autore della prima ricognizione geologica completa del territorio italiano (Il Bel Paese, 1875), che affiancò alla sua produzione scientifica non solo una sensibile attività apologetica, ma una viva e più matura preoccupazione circa la formazione del clero in materia di scienze naturali. Nonostante il titolo possa fuorviare, la sua opera Il dogma e le scienze positive, ossia la missione apologetica del clero nel moderno conflitto tra la ragione e la fede (Milano 1886), non presenta una visione strumentale della scienza al servizio di una ingenua apologetica concordista o polemista, ma offre - pur con i limiti del linguaggio retorico dell'epoca - una precisa visione metodologica: «chiarire gli errori della scienza con la scienza». Con ciò egli intendeva indicare la necessità di una più profonda competenza del clero in materia scientifica, affinché le questioni sul tappeto non venissero né evitate né sottostimate, ma affrontate con competenza ed impiegate a maggior giovamento della teologia stessa. Alcuni titoli dei capitoli di quest'opera, come "Condizioni speciali del moderno conflitto tra la scienza e il dogma e conseguente necessità degli studi naturali" (cfr. pp. 48-75) o "Come lo studio delle scienze fisiche e naturali sia per l'universalità del clero cattolico specialmente indicato" (cfr. pp. 227236), mostrano da soli il progetto che lo studioso intendeva perseguire. 2. Il programma realizzato da Tommaso d'Aquino. Non è senza significato, per il tema che qui ci occupa, volgere lo sguardo ad un pas-

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sato ancora più lontano per scorgere un esempio istruttivo nell'opera di (,.,..) Tommaso d' Aquino (1224-1274). È opinione comune fra gli storici che, inserendo Aristotele nel circuito delle università medievali dell'occidente cristiano, pur non cooperando con ciò direttamente allo sviluppo delle scienze sperimentali, egli abbia contribuito a far rinascere l'interesse per lo studio della natura, favorendo la confluenza di molte conoscenze scientifiche del tempo nella riflessione della teologia. Tanto la Aeterni Patris (1879) come la Fides et ratio (1998), non mancano di indicare Tommaso come un esempio di attento conoscitore della cultura scientifica della sua epoca, che con una sapiente operazione di discernimento seppe instaurare un dialogo costruttivo e fecondo lì dove altri vedevano solo ostacoli o complicazioni per la fede. La rivalutazione del metodo e dello spirito dell'Aquinate potrebbe perciò rivelarsi assai utile per un odierno rinnovamento dell' approccio della teologia alla cultura scientifica, nonostante la distanza che ci separa dal contesto storico in cui egli visse ed operò. Una raccomandazione di Giovanni Paolo II è senza dubbio esplicita al riguardo: «Gli sviluppi odierni della scienza provocano la teologia molto più profondamente di quanto fece nel XIII secolo l'introduzione di Aristotele nell'Europa occidentale. Inoltre questi sviluppi offrono alla teologia una risorsa potenziale importante. Proprio come la filosofia aristotelica, per il tramite di eminenti studiosi come san Tommaso d' Aquino, riuscl finalmente a dar forma ad alcune delle più profonde espressioni della dottrina teologica, perché non potremmo sperare che le scienze di oggi, unitamente a tutte le forme del sapere umano, possano corroborare e dar forma a quelle parti della teologia riguardanti i rapporti tra natura, umanità e Dio?» (Giovanni Paolo II, Lettera al Direttore della Specola Vaticana, 1.6.1988). Non si tratta di riflessioni isolate. La medesima idea verrà autorevolmente ripresa, come prima accennato, nella Fides et ratio, che presenta Tommaso come un "ricercatore della verità", dovunque questa si trovasse e da chiunque questa fosse studiata ed insegnata. Riproponendo un brano di Paolo VI della lettera Lumen ecclesiae (1974), vi si afferma: «Tommaso possedette al massimo grado il coraggio della verità, la libertà di spirito nell'affrontare i nuo-

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vi problemi, l'onestà intellettuale di chi non ammette la contaminazione del cristianesimo con la filosofia profana, ma nemmeno il rifiuto aprioristico di questa. [ ... ] Il nocciolo della soluzione che egli diede al problema del nuovo confronto tra la ragione e la fede con la genialità del suo intuito profetico, è stato quello della conciliazione tra la secolarità del mondo e la radicalità del Vangelo, sfuggendo cosl alla innaturale tendenza negatrice del mondo e dei suoi valori, senza peraltro venire meno alle supreme e inflessibili esigenze dell'ordine soprannaturale» (Fides et ratio, 43). E ancora: «Intimamente convinto che "omne verum a quocumque dicatur a Spiritu Sancta est" (Summa theologiae, 1-11, q. 109, a. l, ad lum) san Tommaso amò in maniera disinteressata la verità. Egli la cercò dovunque essa si potesse manifestare, evidenziando al massimo la sua universalità» (ibidem, 44). Finalità di tali esortazioni non pare essere tanto (o soltanto) una lode celebrativa del pensiero dell'Aquinate, ma anche l'invito a realizzare nella nostra epoca quello che Tommaso fece nella sua. Ma si tratta di un'operazione, è facile constatarlo, che oggi coinvolgerebbe non solo il sapere filosofico, ma anche quello proveniente dalle scienze naturali. Avendo in mente il contesto odierno e "traducendo" le considerazioni di Tommaso in un linguaggio capace di includervi anche queste scienze come oggi le conosciamo, è interessante rileggere quanto affermato all'inizio del libro II della Contra Genti/es. In quella pagina egli giunge alla lucida conclusione che «è perciò evidente che la considerazione delle creature fa parte dell'istruzione della fede cristiana». Neriproponiamo i passi essenziali: «La considerazione delle opere di Dio è necessaria per l'istruzione della fede umana sulle cose di Dio. Primo, perché dallo studio di ciò che essa ha compiuto, possiamo facilmente volgerci ad ammirare e a considerare la sapienza divina. Le cose infatti che sono prodotte dall'arte rappresentano l'arte medesima, perché eseguite secondo i suoi criteri. [ ... ]Secondo, questa considerazione porta ad ammirare l'altissima virtù di Dio, e quindi produce nel cuore degli uomini la riverenza verso Dio. Infatti la virtù dell'artefice viene concepita necessariamente superiore a quella delle cose prodotte. Di qui le parole della Sapienza: "Se costoro", cioè i filosofi, "hanno ammirato la virtù e gli effetti di queste cose", cioè del cielo, delle stelle e degli elementi

s del mondo, "capiscono quanto sia più forte di essi colui che le ha fatte" (cfr. Sap 13,4). [ ... ] 'ferzo, questa considerazione accende gli animi degli uomini all'amore verso la bontà divina. [... ]Quarto, questa considerazione dà all'uomo una certa somiglianza con la perfezione divina. Infatti abbiamo spiegato che Dio, conoscendo se stesso, conosce in sé tutte le cose. Perciò, siccome la fede cristiana istruisce principalmente l'uomo su Dio, e con la luce della rivelazione divina gli fa conoscere anche le creature, nell'uomo si produce una certa somiglianza della sapienza divina. [ ... ] È perciò evidente che la considerazione delle creature fa parte dell'istruzione della fede cristiana» (Il, c. 2). Poco più avanti il discorso pare coinvolgere ancor più direttamente l'ambito della ''filosofia naturale", quando si afferma che la conoscenza attenta delle creature giova ad evitare di commettere errori riguardo la conoscenza di Dio. «La considerazione delle creature è necessaria non solo a istruire nella verità, ma anche a combattere l'errore. Infatti gli errori circa le creature talora allontanano dalla fede, perché sono incompatibili con la vera conoscenza di Dio. E questo può avvenire in più modi. Primo, perché chi non conosce le creature talora arriva al1' assurdo di considerare quale prima causa, e quindi Dio, cose le quali non possono non derivare da altre cause, ritenendo di non poter ammettere altri esseri che quelli che si vedono. [ ... ] Secondo, per il fatto che essi attribuiscono a delle creature ciò che è prerogativa solo di Dio. Ma anche in questo capita un errore circa le creature. Infatti ciò che è incompatibile con la natura di una cosa, non le venne attribuito, se non perché codesta natura è ignorata[ ... ]. Terzo, perché ignorando la natura del creato si toglie qualcosa alla virtù di Dio che opera nelle creature. [ ... ] Quarto, perché l'uomo, il quale è guidato verso Dio dalla fede come al suo ultimo fine, per l'ignoranza delle cose naturali e quindi della sua posizione nell'universo, può pensare di essere sottoposto alle cose di cui è superiore. Ciò è evidente nel caso di coloro che ritengono la volontà degli uomini soggetta agli astri» (II, c. 3). Si tratta di considerazioni che si commentano da sé. La conclusione cui s. Tommaso anche in questo caso giunge, collegandosi ad Agostino e attraverso di lui alla grande tradizione che lo ha preceduto, mantiene inalterata tutta la sua attualità: «Di qui si vede come sia falsa l' affermazione di certuni i quali, come narra s. Agostino, so-

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stenevano che non interessa affatto alla verità della fede quello che ciascuno pensa delle creature, purché abbia un'idea giusta di Dio: poiché l'errore circa le creature si ripercuote in una falsa idea di Dio e porta il pensiero lontano da Dio, verso il quale la fede cerca di condurlo, assoggettandolo ad altre cause» (ibidem). 3. Lo "spirito" del Concilio Vaticano II e la sua applicazione. La scarsità di riferimenti espliciti alle scienze naturali nel Magistero ecclesiale del XX secolo, rispetto a quanto sviluppato nei confronti della filosofia o delle scienze umane, non dovrebbe però indurre il teologo a prestarvi una minore attenzione nel suo lavoro. In continuità con quanto già riportato a proposito dell'esempio di s. Tommaso, si possono rintracciare spunti programmatrici in alcuni documenti del Concilio Vaticano II che nello "spirito", forse più che nella "lettera", paiono incoraggiare gli studiosi in tal senso. Fu intenzione precipua del Concilio, come è noto, esortare a presentare il messaggio evangelico in maniera più adeguata alla cultura degli uomini del nostro tempo, consapevole che «l'esperienza dei secoli passati, il progresso delle scienze, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell'uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa» (Gaudium et spes, 44). Alla menzione delle scienze, in questo o in altri brani, non segue la spiegazione circa le modalità di un loro possibile contributo alla teologia. Meritano tuttavia attenzione alcuni passaggi redatti dai Padri conciliari. La Gaudium et spes ne parla in modo significativo in vari suoi punti. Dopo aver riconosciuto che l'uomo, applicandosi allo studio delle varie discipline quali la filosofia, la storia, la matematica e le scienze naturali, contribuisce ad elevare la situazione culturale e sociale del1'umanità, ed aver al tempo stesso ricordato che il progresso delle scienze e della tecnica può favorire un certo fenomenismo e (""') agnosticismo quando il loro metodo viene innalzato a norma suprema di ricerca di una verità globale, si segnala che «questi fatti deplorevoli però non scaturiscono necessariamente dalla odierna cultura, né debbono indurci nella tentazione di non riconoscere i suoi valori positivi. Fra questi si annoverano: lo studio delle scienze e la rigorosa fedeltà al vero nell'indagine scientifica, la necessità di collaborare con gli altri nei gruppi

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tecnici specializzati, il senso della solidarietà internazionale» (Gaudium et spes, 57). Chetale valutazione positiva della cultura scientifica, pur alla luce di possibili tentazioni e talvolta di vere e proprie deviazioni, debba coinvolgere nel loro dialogo con il mondo anche i teologi e non solo i credenti generalmente intesi, lo si può dedurre da quanto riportato in uh altro brano: «Infatti gli studi recenti e le nuove scoperte delle scienze, della storia e della filosofia, suscitano nuovi problemi che comportano conseguenze anche per la vita pratica ed esigono anche dai teologi nuove indagini. I teologi sono inoltre invitati, nel rispetto dei metodi e delle esigenze proprie della scienza teologica, a sempre ricercare modi più adatti di comunicare la dottrina cristiana agli uomini della loro epoca, perché altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo con cui vengono enunziate, rimanendo pur sempre lo stesso il significato e il senso profondo» (ibidem, 62). Facendo eco a quanto già Pio XI scriveva nella costituzione sulla formazione del clero Scientiarum Dominus (1931), e cioè che la religione cattolica ha da temere solo l'ignoranza e non altri nemici esterni (id unum timet: veritatis ignorantia), il Concilio parierà nel suo decreto sulla formazione sacerdotale Optatam totius della necessità che i candidati al sacerdozio posseggano una cultura umanistica e scientifica adeguata ad intraprendere gli studi superiori (cfr. n. 13), indicando espressamente che nel loro approfondimento della teologia devono tener conto anche «del progresso delle scienze moderne in modo che, provvisti di una adeguata conoscenza della mentalità odierna, possano opportunamente prepararsi al dialogo con gli uomini del loro tempo» (n. 15). Nella dichiarazione conciliare Gravissimum educationis, infine, nel contesto delle università cattoliche e delle Facoltà di Teologia delle università ecclesiastiche, si esorterà ad una stretta cooperazione con altri centri di insegnamento dedicati alla ricerca scientifica (cfr. nn. 10-12). È tuttavia nel magistero di Giovanni Paolo II, spesso sotto forma di allocuzioni al mondo dell'università e della cultura, dove incontriamo una certa concrezione delle esortazioni conciliari, in continuità con quello "spirito" cui prima ci riferivamo(-" MAGISTERO DELLA CHIESA, IV; UNIVERSITÀ, VI). Egli non ha consegnato specifiche indicazioni legislative al riguardo - la costituzione sulla riforma degli studi eccle-

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siastici Sapientia christiana (1979) non conterrà neanch'essa prescrizioni di sorta in merito al ruolo delle scienze naturali - ma l'insieme del suo lungo pontificato ed il sincero interesse rivolto al mondo della ricerca scientifica, testimoniato da coraggiosi e inediti interventi, riteniamo abbiano condotto l'atteggiamento della Chiesa cattolica verso un "punto di non ritorno". Valga per tutte una nuova citazione dalla già ricordata Lettera al Direttore della Specola Vaticana (1988): «Come le antiche cosmologie del vicino Oriente poterono essere purificate e assimilate nei primi capitoli del Genesi, non potrebbe la cosmologia contemporanea avere qualcosa da offrire alle nostre riflessioni sulla creazione? Può una prospettiva evoluzionistica contribuire a far luce sulla teologia antropologica, sul significato della persona umana come imago Dei, sul problema della cristologia - e anche sullo sviluppo della dottrina stessa? Quali sono, se ve ne sono, le implicazioni escatologiche della cosmologia contemporanea, specialmente alla luce dell'immenso futuro del nostro universo? [ ... ]Si potrebbero fare molte altre domande di questo tipo. Ma per continuare a proporne si richiederebbe quella specie di intenso dialogo con la scienza contemporanea che, generalmente parlando, è mancato nei teologi impegnati nella ricerca e nell'insegnamento». Parrebbe quasi evincere che, a differenza di quanto forse accaduto in altre epoche della storia della Chiesa, si stia vivendo un momento in cui il Magistero anticipa la ricerca teologica indicandole una strada da seguire, mentre la teologia sembra ancora impreparata a percorrerla.

IV. L'immagine fisica del mondo e le possibili implicazioni nella lettura teologica della Rivelazione biblica Fra i risultati delle scienze contemporanee ve ne sono senza dubbio un certo numero che il teologo non può ignorare, sia perché offrono delle nuove fonti di conoscenza di cui tener conto nella sua ricerca teologica, sia perché possono suggerire, o a volte perfino richiedere, alcune nuove interpretazioni della Sacra Scrittura. Se il contenuto dogmatico e il senso autentico del dato rivelato non dipendono, come tali, dai risultati delle scienze, tuttavia grazie ad essi ne può crescere l'intelligenza e, con questa, la coerenza interna e le implicazioni del deposi-

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to della fede. Il modo del tutto generale e riassuntivo con cui richiamiamo qui alcuni di questi risultati, divenuti ormai parte della "comune cultura scientifica del nostro tempo", ci esime dall'offrirne puntuali riferimenti bibliografici: il lettore interessato potrà trovarli in altre voci di quest'opera,.alle quali rimandiamo per ulteriori approfondimenti. Confinando la nostra analisi alle scienze naturali come abitualmente intese, gli ambiti teologici che ne restano interessati più da vicino paiono essere la teologia fondamentale, il trattato sulla creazione, l'antropologia teologica, l'escatologia, ed in certo modo anche la cristologia. I. Una breve visione d'insieme. Una delle maggiori "aperture di orizzonti" proviene, come è noto, dalla (..W) cosmologia fisica. Abbiamo ormai dati sufficienti per concludere che l'universo fisico presenta una marcata dimensione storico-evolutiva. Esso è stato soggetto ad un lento ed enorme sviluppo nel tempo, partendo da una fase iniziale capace di "contenere", in condizioni fisiche di altissima densità e temperatura e di dimensioni incredibilmente ridotte, tutta la materia e l'energia oggi esistenti. Non è escluso che il nostro universo coesista con altre regioni spazio-temporali, totalmente indipendenti fra loro e con storie evolutive differenti (-1' PLURALITÀ DEI MONDI, III), obbligando pertanto a maggiori precisazioni e distinzioni fra una definizione fisica ed una filosofica di (-1') universo. L'orizzonte spazio-temporale che fa da sfondo alla comprensione dell'universo in cui viviamo ha subito uno straordinario allargamento, obbligando pertanto ad una conseguente "ricollocazione" del genere umano e del suo habitat cosmico. Tale ricollocazione implica un nuovo contesto fisico e temporale dal quale non si può ormai prescindere, come non si poté più prescindere, in passato, dai nuovi mondi cui approdarono le grandi scoperte geografiche o dalla rivoluzione copernicana. Il tempo intercorso dalla formazione dei primi elementi chimici fino alla comparsa della vita sulla terra, e dal sorgere di questa ali' ominizzazione, è stato incredibilmente lungo, assai più di quanto si poteva immaginare solo un secolo fa. Le scienze naturali hanno la capacità di ricostruire senza interruzioni di principio - benché solo per gli osservabili che attengono al loro metodo e al loro oggetto formale specifico - i passi salienti di questa storia e sono in grado di predirne alcuni dei principali scenari futuri. Anche questi ultimi so-

Scienze naturali, utilizzo in teologia

no caratterizzati da tempi lunghissimi ma non infiniti, tali comunque da segnalare che le condizioni adatte per ospitare la vita biologica corrispondono ad opportune "finestre" che si sono date a partire da una certa epoca e che dopo un certo intervallo di tempo non si daranno più. Ma i larghi spazi ed i grandi tempi coinvolti, lungi dall'essere ridondanti, sono stati strettamente necessari perché vi fossero le condizioni, i luoghi ed i tempi affinché la lenta sintesi degli elementi chimici avesse luogo e fosse poi possibile la formazione di scenari fisici e di nicchie biologiche adeguate ad ospitare la vita. Conosciamo inoltre che esiste una "delicata sintonia primigenia" (fine tuning) fra la struttura fisica dell'universo e le condizioni fisiche, chimiche e biologiche sulle quali la vita - che sarebbe apparsa moltissimo tempo dopo - sarebbe stata poi basata (..W ANTROPICO, PRINCIPIO). Da questo punto di vista, siamo in grado oggi di affermare che per la presenza della vita umana qui e adesso, le condizioni iniziali del cosmo sono state altrettanto importanti, e per certi aspetti lo sono state assai di più, degli innumerevoli eventi contingenti accaduti lungo l'evoluzione dell'universo, non solo cosmica, ma anche biologica. Per quello che riguarda le leggi che lo governano, sappiamo che l'universo fisico non è retto da leggi sempre matematicamente formalizzabili ed interamente predicibili. Esso non è deterministico ma neanche "indeterminato": i suoi componenti elementari posseggono cioè delle proprietà specifiche e stabili, che manifestano i caratteri dell'identità e dell'universalità su larga scala cosmica (..W LEGGI NATURALI, IVV). Ma accanto alle "essenze", a determinare le proprietà dei componenti elementari del cosmo vi sono soprattutto le "relazioni": non esistono proprietà totalmente isolate, perché la parte dipende dal tutto. Nell'universo esiste una quantità positiva di informazione, irriducibile al supporto della materia o dell'energia che la trasporta (..W INFORMAZIONE, III). Su tutto lo scenario delle leggi di natura emerge poi come questione dominante quella circa l'origine della loro intelligibilità e razionalità, e della loro sintonia con i canoni della conoscenza umana. Ancora riguardo la struttura cosmica, sappiamo che le distinzioni fra materia ed energia, fra spazio e tempo, fra materia e vuoto vanno rilette con categorie del tutto nuove: materia ed energia si trasformano mutuamente; lo scorrere

Scienze naturali, utilizzo in teologia

del tempo dipende dalla curvatura dello spazio e dunque dalla materia in esso contenuta; il vuoto fisico, una volta che l'universo è in essere, è sede di energie altissime che potranno a loro volta trasformarsi in enormi quantità di materia (;P COSMOLOGIA, III). La natura è realmente capace di emergenza e di creatività: la sua non è una storia di lento degrado e di progressiva uniformazione. Se ciò può essere vero su larghissima scala, su scala bassa e intermedia possono generarsi strutture nuove sempre più complesse, nelle quali l'informazione si accumula e si accresce: il reale fisico resta qualcosa di veramente "aperlo" alla novità della storia (;r LEGGI NATURALI, IV.3). La biologia, dal canto suo, ci ha mostrato che l'essere umano riassume nella propria dimensione corporea questa lunga storia cosmica, ma anche planetaria (;r GEOLOGIA, VII). All'interno di un minuscolo patrimonio genetico, in larghissima misura comune con quello delle specie animali inferiori, è contenuta l'informazione essenziale del suo futuro sviluppo corporeo. Ad ogni essere vivente individuale è assegnato un determinato codice genetico paragonabile ad un "programma" in grado di ricostruire, in modo non riduttivo ma informazionale, la struttura fisico-corporea ed i processi biologici di un vivente (;P BIOLOGIA, IV; GENETICA, IIIII). Conosciamo onnai che le diverse forme di vita sul nostro pianeta hanno subito lente trasformazioni che hanno condotto alla comparsa di nuove specie e alla scomparsa di altre. Tale itinerario non indica solo uno sviluppo o una crescita, ma una vera e propria (;P) evoluzione. A renderla possibile hanno contribuito, ed in parte ancora contribuiscono, in modo diseguale, diversi fattori: l'adattamento dei viventi all'ambiente in cui venivano a trovarsi, una certa selezione naturale, lo sviluppo di precise funzioni organiche, la presenza di canalizzazioni e di coordinamenti interni che, esplicitandosi nel tempo, hanno progressivamente condotto i viventi proprio verso forme più perfezionate e complesse. Fra queste, la specie homo sapiens sapiens ne rappresenta come il vertice visibile; come altrettanto visibile ed oggetto di esperienza scientifica è la sua non completa riducibilità al panorama biologico che lo circonda e di cui egli stesso è parte (;P MENTE-CORPO, RAPPORTO; CULTURA). I tempi e le fasi che hanno comunque ritmato la comparsa dell'uomo sulla terra e la progressiva ascesa dei primi uomini verso le

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conquiste di civiltà e di cultura che oggi noi conosciamo sono stati assai più lunghi di quanto si potesse ragionevolmente pensare fino a pochi decenni or sono (;P UOMO, IDENTITÀ BIOLOGICA E CULTURALE, II-III). Le odierne osservazioni astronomiche fuori dalla nostra atmosfera ci hanno inoltre rivelato che la presenza di stelle con pianeti in rotazione attorno ad esse è un fenomeno relativamente diffuso: non esistono osservazioni di altre forme di vita, neanche elementari, ma l'ipotesi che queste si siano originate in ambienti simili al nostro è altamente plausibile (;r COSMO, OSSERVAZIONE DEL, II). È sempre la ricerca scientifica, infine, ad erudirci che a causa delle dimensioni dell'universo in cui viviamo, e a motivo dei tempi in gioco per poter comunicare attraverso lo spazio, non è possibile (né mai lo sarà) avere un'informazione completa da tutte le regioni dell'universo in merito alla possibile presenza di altri esseri intelligenti con una origine diversa da quella del genere umano: si tratta dunque di una evenienza che non può essere smentita in base a ragionamenti a priori (;P EXTRATERRESTRE, VITA). 2. Verso una teologia della scienza ed una rinnovata teologia della natura. La lista di risultati e di prospettive appena schizzata avrebbe potuto essere ancora più lunga. Abbiamo insistito principalmente su risultati di carattere cosmologico e, in parte minore, su quelli provenienti dalla biologia o dall'antropologia; se ne sarebbero potuti aggiungere vari altri, di paragon,abile "portata filosofica", nel campo della fisica delle alte energie, della (;r) meccanica quantistica, della (;P) chimica o della biochimica, della zoologia o della fisiologia umana. Per quanto riguarda le scienze matematiche e la (;r) logica, anch'esse protagoniste di esiti assai significativi, sono da questo punto di vista più assimilabili alla filosofia che alle scienze naturali. Ma il punto in questione non è, ben si comprende, esaminare un'immensa mole di risultati in modo completo e approfondito: si tratta piuttosto di valutare se tali risultati rappresentino solo una fonte di "problemi" per la lettura che, a partire dalla Rivelazione, il teologo fa del mondo (uomo compreso) e dei suoi rapporti con Dio; oppure se quanto le scienze naturali oggi ci insegnano possa davvero costituire una fonte positiva di speculazione e di progresso teologico. Un vero progresso, d'altra parte, è possibile quando, se vi sono dei problemi, questi vengono affrontati ed eventualmente

s risolti, proponendo nuovi modi di comprendere la Rivelazione che ne accrescono l'intelligibilità per la ragione e, con essa, anche la credibilità della fede in un contesto scientifico. Positivamente, basterebbe pensare all'orizzonte nel quale oggi, proprio grazie alle scienze, la teologia può meglio inquadrare cosa voglia dire «essere. creatura in un mondo creato». Il significato e la portata di questi termini acquistano oggi un peso ed un contesto che prima non possedevano; e se ciò non accresce direttamente il contenuto dogmatico della nozione teologica di creazione come atto ex parte Dei, lo accresce certamente nelle implicazioni delle altre sue due accezioni, come relazione e come effetto creato ("' CREAZIONE, I.1). Sempre all'interno della teologia della creazione non è certo senza interesse pensare al fatto che le condizioni essenziali della sintonia fra fisica e biologia, su cui l'universo si sarebbe poi retto, si siano date negli istanti iniziali dello sviluppo del cosmo, cioè ben prima della successiva evoluzione biologica. Andrebbero poi valorizzate le eventuali risonanze cristologiche di una centralità teleologica, non più ·geometrica, della vita e dell'uomo nel cosmo. Forse, perfino la dottrina cristiana della resurrezione della carne, alla luce della dissoluzione del corpo umano, potrebbe giovarsi delle nostre conoscenze su cosa sia in realtà l'informazione genetica. La grande attenzione rivolta dal pensiero cristiano alla "teologia del corpo", un corpo partecipe anch'esso dell'immagine di Dio, capace di rivelare la persona e di essere tempio dello Spirito Santo, riceverebbe solo ombre, o non piuttosto anche nuove luci, dal fatto che tale corpo, ancor prima di essere "umano", incarni una lunghissima storia evolutiva, sia cosmica che biologica? E come andrebbero compresi l'ordine e l'armonia di una natura coronata al suo termine dalla creazione dell'essere umano, quando si consideri che nella storia che lo ha preceduto sono comparse e poi scomparse innumerevoli specie, non senza reciproche rivalità e talvolta dolorosi antagonismi? Sul piano della storia salvifica, poi, la comprensione del rapporto fra redenzione oggettiva e redenzione soggettiva potrebbe ricevere significative suggestioni dai lunghissimi tempi trascorsi a partire dalla comparsa della specie umana sulla terra, soprattutto pensando al fatto che lenorme maggioranza degli esseri umani finora vissuti non sono entrati in contat-

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to, neppure intenzionale, con l'evento pasquale di Cristo. Si tratta solo di spunti - anche in questo caso la lista potrebbe allungarsi - ma forse già sufficienti per mostrare il senso di quanto intendiamo; non solo per le potenzialità che vi si contengono, ma anche per la necessità che esse manifestano di un lavoro interdisciplinare serio e rigoroso, e quella di autori in grado di realizzarlo con competenza. Sul versante dei nodi da risolvere apparirebbe ad esempio l'importanza di spiegare oggi il rapporto fra prima creazione e "nuova creazione" con modalità che non contraddicano le conoscenze che abbiamo sulla realtà materiale, sui suoi scenari passati e futuri. La valutazione degli elementi di continuità e di discontinuità presenti in quel rapporto, sui quali pure la Rivelazione ci istruisce, andrebbe fatta anche in base alla prospettiva scientifica, con conseguenti possibili implicazioni per l'escatologia, anche quella intermedia. Si tratta - osserviamo esplicitamente - di "implicazioni" e non necessariamente di "problematizzazioni", dunque di esigenze di intelligibilità a vantaggio della comprensione dogmatica della Rivelazione stessa. In merito alla dimensione "fisica" che il rapporto continuità/discontinuità fra prima e nuova creazione certamente contiene in sé ("' CREAZIONE, VI), andrebbero poi inquadrati alcuni elementi legati al peccato originale. Indipendentemente dalle possibili ermeneutiche che soggiacciono alla narrazione biblica - che è compito degli esegeti esplicitare in accordo con il contenuto essenziale del dogma - se l'entrata storica del peccato, in un mondo già creato da tempo, viene presentata con precise conseguenze non solo per la natura umana, ma anche per quella del mondo materiale nel suo insieme, allora la teologia dovrebbe chiarire se la "discontinuità" introdotta da tali conseguenze abbia o meno degli osservabili a livello scientifico. In caso affermativo, un confronto con le scienze getterebbe luce sul modo in cui andrebbe intesa la morte umana, suggerendo ad esempio di distinguere fra compimento di un ciclo biologico .e la drammaticità con cui il termine della vita fisica viene avvertito da una creatura razionale che ha messo in sospetto la bontà del suo Creatore. Sempre un confronto con le scienze potrebbe ancora suggerire che il disordine introdotto nella natura dal peccato dell'uomo ammetterebbe interpretazioni che ne sottolineano la valenza antro-

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pologica (disordine nella relazione fra l'uomo peccatore e la natura) senza dover necessariamente insistere su una valenza fisica intrinseca alla natura stessa (disordine nella natura). Ne deriverebbero anche diversi modi di comprendere in cosa consista il "male fisico" ed il suo significato nei piani di Dio ("" LEGGI NATURALI, VI.3). Se ne potrebbero infine desumere indicazioni sul corretto modo di intendere ìl rapporto fra dimensione storica e metastorica del peccato originale stesso. Il significato e la logica della storia della salvezza - che è la storia della libertà di Dio e della libertà dell'uomo - superano certamente quanto significato dalle storie evolutive del cosmo e della vita e dalle possibili ricostruzioni che di esse le scienze possono fare. Eppure, la storia della salvezza si dà, cioè ha luogo, in quelle storie e si interseca con loro. Il realismo del mistero dell'Incarnazione, con il quale il Verbo assumendo su di sé la natura umana ne ha assunto anche tutte le relazioni con il creato, comporta di dover prendere sul serio tale inter~ sezione, esplorandone fino in fondo le conseguenze("" RESURREZIONE, VI). La rilevanza di tutto ciò per la teologia ha recentemente fatto pensare alla necessità di sviluppare una "teologia della scienza" (cfr. Heller, 1996, pp. 95-103) o, anche una "teologia della natura" (cfr. Pannenberg, 1993; Ganoczy, 1997). Pur con tutti i limiti che tali prospettive teologiche "al genitivo" possono avere (non sempre accolte positivamente perché viste come fonte di frammentazione), riteniamo che esista oggi materiale di lavoro più che sufficiente per dare vita a riflessioni, ormai necessarie, che si orientino in tal senso. «La teologia - osserva un autore contemporaneo - può realizzare il suo contributo solo nella misura in cui si mantenga in contatto con il resto delle scienze. E nel dire questo ci riferiamo non già al fatto ovvio che necessita di essere ascoltata, bensì al fatto che essa stessa ha bisogno di ascoltare gli altri saperi [... ]. Il teologo, come ogni scienziato, ha bisogno di essere umile, ed in misura ancora maggiore; non solo perché ciò che sa lo riceve dalla parola di Dio, affidata alla Chiesa, di fronte al quale deve mantenersi in atteggiamento di devoto ascolto, ma anche perché riconosce che la scienza teologica non lo autorizza a prescindere da altri saperi» (Illanes, 1982, p. 887).

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V. Verso uno sviluppo omogeneo del dogma Fra gli autori del passato che mostrarono di comprendere la portata conoscitiva, anche per la teologia, delle scienze naturali, va certamente menzionato John Henry Newman (18011890). Sebbene non abbia lasciato sviluppi particolarmente elaborati in proposito, va comunque ricordato che, in un'epoca di acceso dibattito, talvolta di vero conflitto, fra scienze e pensiero religioso, non mancò di offrire significative riflessioni sul problema dell'evoluzione ("" NEWMAN, VI). Il suo interesse per i risultati delle scienze fu sincero e ponderato: «Noi viviamo in un secolo straordinario; l'orizzonte della scienza laica si è allargato in un modo che oggi è semplicemente sbalorditivo, tanto più in quanto promette di seguitare, con rapidità ancora maggiore e risultati ancora più clamorosi. Ora queste scoperte, sicure o probabili, hanno in realtà un'attinenza indiretta con le opinioni religiose, e sorge il problema di come armonizzare le rispettive esigenze della rivelazione e della scienza naturale. Sono poche le persone serie che possano davvero starsene tranquille senza una certa base razionale per le loro credenze religiose; si può dire che la mente abbia quasi l'istinto di cercare l'accordo della teoria con la realtà. Perciò quando un diluvio di fatti, accertati o presunti, ci si rovescia addosso, mentre infiniti altri già cominciano a delinearsi, tutti i credenti nella rivelazione, cattolici o no, si sentono sollecitati ad esaminare quale significato abbiano tali fatti [ ... ] (Apologia pro vita sua, Milano 1982, p. 277). Ed è ancora a Newman che vogliamo dirigerci per poter compiere il passo successivo, quello di chiederci cosa vorrebbe dire, in definitiva, vedere nelle scienze della natura una fonte di vero e proprio sviluppo dogmatico. Resta soprattutto aperto il problema di trovare un metodo, una criteriologia che possa servire da guida per tale scopo. Desideriamo riproporre le considerazioni da lui svolte nella sua opera Lo sviluppo della dottrina cristiana (1845), nella quale egli enuncia sette criteri che guiderebbero l'autentico sviluppo storico di una dottrina, distinguendolo dalla sua corruzione. Il contesto delle sue riflessioni non è quello del dialogo della teologia con le scienze, bensì quello del banco di prova della storia: egli si domanda quali nuove formulazioni la dottrina

s cristiana potrebbe assumere per inglobare nuove conoscenze o nuove occorrenze sorte nella storia, senza perdere la sua identità. È in fondo una criteriologia del lavoro teologico, che all'interno della propria autonomia ed in accordo con l'interpretazione autentica del Magistero della Chiesa ("' AUTONOMIA IV.4), propone nuove vie da percorrere e modi nuovi di comprendere quanto vi è di ancora inespresso nel deposito della Rivelazione. I criteri suggeriti da Newman venivano così riepilogati dall'autore: «Mi sento in grado di indicare sette criteri, variabili quanto al loro valore, alla loro indipendenza e applicabilità e che serviranno a distinguere gli sviluppi sani di un'idea dal suo stato di corruzione o di decadenza. Detti criteri sono i seguenti: non si dà corruzione se lo sviluppo conserva un unico e stesso tipo, gli stessi principi, la stessa struttura; se le sue fasi iniziali lasciano prevedere le sue fasi susseguenti e se le sue manifestazioni posteriori conservano quelle originarie e sono ad esse subordinate; se dimostra di avere, dal principio alla fine un potere di assimilazione e di reviviscenza e un'attività vigorosa» (tr. it. Bologna 1967, p. 183). Avendo in mente il contesto prima delineato circa i possibili apporti conoscitivi recati dalle scienze naturali, ne offriamo qui una breve rilettura. a) e b) Persistenza di un unico tipo e continuità di princìpi. Questi primi due criteri indicano in sostanza l'identità del soggetto che si sviluppa. Una teologia che voglia tener conto dei risultati delle scienze naturali deve continuare ad essere se stessa, cioè una vera teologia, con il proprio metodo e le proprie fonti abituali. La teologia non deve trasformarsi in fisica o in biologia, né il teologo in un ricercatore da laboratorio. Ci sia consentito osservare che una certa teologia contemporanea ha cercato di andare incontro alle scienze proprio nella direzione contraria a quella indicata da Newman, cioè volendone assumere la metodologia. La presenza di autori come Kuhn o ("') Popper in molti manuali teologici basterebbe a mostrarlo. c) Potere di assimilazione. Indica l'apertura della teologia sulla verità e sulla storia, perché aperta al mistero dell'Essere e al mistero di Dio. La vera teologia ha la capacità di assimilare nuove vere conoscenze, da qualsiasi direzione esse provengano (vedi supra, III.2), senza corrompere la sua identità o andare in pezzi. Questo criterio newmaniano indica la possibili-

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tà di "rileggere la realtà", una e un'altra volta, assimilandone le istanze veritative. Di fatto, sono state operate alcune ri-letture di taluni contenuti della Rivelazione dopo eventi storicoscientifici di notevole portata, legati ai nomi di ("') Copernico, Cristoforo Colombo, ("') Darwin, ("') Freud, o altri. È anche un esempio di rilettura quello che la teologia ha potuto fare proponendo una visione evolutiva della creazione a partire dagli spunti offerti in proposito da ("') Bergson prima e Teilhard de Chardin poi. Si tratta di autori certamente assai diversi fra loro, le cui visioni filosofiche non sempre sono state compatibili con il contenuto della fede, ma che qui citiamo soltanto per il loro ruolo paradigmatico, in quanto i movimenti scientifico-culturali che da essi hanno avuto origine sono entrati in rapporto significativo con la storia della teologia. d) Coerenza logica. L'utilizzo dei risultati delle scienze e delle loro implicazioni deve essere tale da mantenere la coerenza logica delle verità rivelate, cioè non deve contraddire quanto già pacificamente acquisito. Si tratta in fondo di un'applicazione del principio dell' analogia fidei ("' ANALOGIA, IIl.4). Alcune conoscenze scientifiche potrebbero sembrare a prima vista difficilmente conciliabili col corpo della dottrina cristiana, ma una volta esaminate nel loro vero valore scientifico e correttamente interpretate, se prudentemente assunte finirebbero prima o poi con illuminare altri contenuti della Rivelazione, all'interno di una visione globale che risulterebbe, nell'insieme, più coerente della precedente. e) Anticipazione del futuro. I nuovi sviluppi, se davvero autentici, dovrebbero contenere dei semi precoci impliciti nella Rivelazione biblica oppure nella tradizione teologica precedente. A ben vedere, la compatibilità fra creazione ed evoluzione la si potrebbe scoprire, ad esempio, in alcuni passi della Genesi opportunamente interpretati, rintracciarla in Agostino o in Tommaso d'Aquino, oppure trovarne dei germi nella cristologia paolina. Il carattere di inesauribile ricchezza posseduto dalla Parola rivelata offrirebbe il fondamento implicito per l'applicazione di questo criterio. f) Conservazione del passato. Rivoluzioni scientifiche o culturali avvengono inevitabilmente, ma non sono mai interamente distruttive, né per la teologia né per la scienza. Ogni autentico sviluppo è sempre, in certo modo, con-

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servativo. Come frutto del suo dialogo con le scienze, la teologia può cambiare paradigmi di riferimento filosofico o scientifico, purché conservi quegli aspetti del dogma che venivano agevolmente spiegati nel paradigma precedente. Qualcosa di simile avviene in fondo per la fisica, dove le soluzioni cosiddette "classiche" vengono superate da quelle quantistiche o relativistiche, ma non perdono il loro contenuto veritativo, recuperandolo, spesso, sotto forma di casi particolari all'interno di un quadro interpretativo più generale. Per fare degli esempi, una diversa formulazione del mistero della conversione delle specie eucaristiche (transustanziazione) che fosse in maggiore sintonia con le categorie scientifiche contemporanee, potrebbe essere accettata solo se con essa si conservassero tutti gli aspetti dogmatici precedentemente acquisiti, oltre a spiegarne di nuovi("" EUCARISTIA, III-IV); così come un ampliamento di orizzonti indotto dalla eventuale scoperta di altre forme di vita intelligente nell'universo dovrebbe conservare gli aspetti essenziali del dogma cristologico ("" EXTRATERRESTRE, VITA, IV.3). Le formulazioni attuali sono dunque per la teologia una sorta di soluzioni "classiche": l'adozione di nuovi sviluppi deve conservare le acquisizioni contemplate nelle soluzioni precedenti, ed eventualmente esplicitarne di nuove. g) Rafforzamento dottrinale. Ogni autentico sviluppo, sostiene Newman, reca con sé un rafforzamento di tutto il contenuto dottrinale e anche dell'Istituzione che lo confessa. Quando la teologia avesse fatto un uso scorretto dei risultati delle scienze noterebbe presto o tardi un indebolimento della sua capacità di comprendere, ma anche della sua dimensione profetica - dai loro frutti li riconoscerete, ricorda la frase evangelica (cfr. Mt 12,33). In questo caso si impone il necessario discernimento e l'umiltà di cambiare strada. Se abbiamo insistito sul contributo che le scienze possono fornire alla riflessione teologica non ignoriamo che l'implicazione conserva tutto il suo valore anche nel senso inverso, e cioè riguardo le luci che la Rivelazione, con la mediazione della teologia, offre ed ha offerto in passato al pensiero scientifico e filosofico in genere. In molte altre voci di questo Dizionario tali implicazioni sono state esaurientemente segnalate. Intendiamo anche che la presenza delle scienze nel lavoro teologico non debba rispondere a criteri strumentali o ancillari: la ri-

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cerca scientifica è un valore di per sé ed essa occupa, come ogni attività umana ed ogni sincero desiderio di conoscenza, un ruolo preciso nel piano divino sulla creazione e nell'ordinamento di questa al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito. Si è voluto solo suggerire l'esistenza di un sensibile spazio di riflessione per una incorporazione più vitale di alcuni risultati del sapere scientifico nel sapere teologico. Riteniamo che senza questa assimilazione, rispettosa del passato ma aperta sul futuro, prudente nel discernimento ma conseguente con se stessa di fronte alla verità, la teologia potrebbe correre il rischio di occuparsi soltanto della "difesa" di quanto una determinata epoca ha compreso del contenuto dogmatico della fede, ma favorirebbe assai meno l'autentico sviluppo dogmatico della Chiesa, giungendo forse a indebolire la sua missione: annunciare in modo credibile e significativo per tutte le epoche il Vangelo di salvezza di cui essa è depositaria. GIUSEPPE TANZELLA-NITTI

Vedi: AUTONOMIA; DIALOGO SCIENZE-TEOLOGIA, METODO E MODELLI; SACRA SCRITTURA; TEOLOGIA.

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SENSO COMUNE

I. II senso comune nel contesto del pensiero logico-metafisico - Il. Il senso comune nell'oggetto e nel metodo delle scienze III. Senso comune e linguaggio fisico-matematico - IV. Il senso comune e la logica della fede. I. Il senso comune nel contesto del pensiero logico-metafisico Il termine «senso comune», nella sua accezione logico-metafisica (ben diversa dall'accezione psicologica e da quella sociologica), è un termine moderno, nato nell'epoca rinascimentale, prima nella forma latina (sensus communis) e poi in italiano e nelle altre lingue neolatine (fr. sens commun, sp. sentido comun), infine in inglese (common sense) e in tedesco (Gemeinsinn). I primi filosofi moderni a usare questo termine furono gli umanisti Lorenzo Valla (1405-1457) e Luis Vives (1492-1540), derivandolo da Cicerone (106-43 a.C.), il quale aveva parlato di communis consensio o sensus communis a proposito delle convinzioni morali (di giustizia e di promozione del bene comune) universalmente possedute dagli uomini di tutti tempi e di tutti i luoghi. Cicerone, a sua volta, derivava questa nozione e il corrispettivo greco di questo termine (koina{ enno{ai) dalla logica e dall'etica dello stoicismo. I filosofi moderni - soprattutto nel Settecento, con Claude Buffier, Giambattista Vico e Thomas Reid - prese-

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Senso comune

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ro a usare il termine per contrastare il razionalismo cartesiano e postcartesiano, che secondo loro, partendo dal dubbio universale e dal soggettivismo, conduceva allo scetticismo e alla distruzione dell'idea stessa di verità, con nefaste conseguenze sulla morale e sulla religione. Ben diversa, dunque, è questa accezione del termine «senso comune» da quella psicologica e da quella sociologica. Nella psicologia razionale classica, il senso comune o sensorio comune è quel senso interno che, secondo Aristotele (gr. koiné afsthesis), serve a unificare i dati sensoriali per consentire la percezione del1' oggetto cui le diverse sensazioni si riferiscono. Nella sociologia moderna, invece, il senso comune è il pensiero dominante in un certo gruppo sociale, è il quadro dei valori che caratterizza la cultura di un popolo in una determinata epoca (così, ad esempio, Antonio Gramsci scrive che la rivoluzione comunista dovrà cambiare il "senso comune", contadino e cattolico, del popolo italiano). Ancora più diversa dall'accezione logico-metafisica del senso comune è l'accezione più in uso nel linguaggio ordinario, dove per «senso comune» spesso si vuole indicare il "buonsenso" (come il tedesco gesunder Verstand) oppure le idee comunemente accettate, non di rado per superficialità o ignoranza (come era per i Greci la d6xa). Qui è importante distinguere queste diverse accezioni del termine, perché molti scienziati - oltre a molti filosofi - hanno parlato nel Novecento di una netta contrapposizione tra senso comune e scienza, volendo intendere con questo che la scienza supera e contraddice "per principio" le percezioni superficiali della realtà materiale e le ·

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idee basate sulle apparenze dei fenomeni fisici, proprie dell'uomo comune. Vedremo invece che il senso comune, nella sua accezione logico-metafisica, non solo non è mai in conflitto con la conoscenza scientifica, né risulta da essa superato, ma ne è piuttosto la premessa logica, il presupposto metafisico e il linguaggio di base. Diciamo dunque che per «senso comune» intendiamo qui quell'insieme (sistematico e organico) di certezze primarie, fondate sull'esperienza originaria (che è comune a tutti, indipendentemente dalle differenze di età, di cultura, di ambiente), che sono alla base di ogni possibile conoscenza settoriale e inferenziale, tanto da essere sempre e in ogni caso il criterio di base della ("") verità di ogni altra conoscenza. Tutte le conoscenze certe presuppongono - attraverso una catena di presupposizioni logiche - queste prime certezze empiriche, assolutamente indubitabili e presenti nella coscienza di tutti. Per quanto concerne le prove dell'esistenza di questi primi giudizi, non potendo svolgerle in questa sede, rimandiamo alle nostre ricerche precedenti (cfr. Livi, 1990); ora invece basterà, per quanto riguarda il loro contenuto, indicarli con un semplice enunciato sintetico. Ecco allora quali sono questi cinque giudizi esistenziali primari che rappresentano come il primo anello della grande catena della "presupposizione": a) c'è un mondo di cose in movimento (apparire, divenire e scomparire di enti mobili e molteplici, connessi e regolati da leggi fisiche, diversi per essenza specifica e individuale ma analoghi tutti nell'essere); b) nel mondo ci sono io, che conosco il mondo (emergenza del soggetto); c) nel mondo ci sono degli altri, simili a me (analogia dei soggetti, intersoggettività); d) il mio rapporto con gli altri e il rapporto degli altri con me sono rapporti diversi da quelli fisici, perché implicano amore e responsabilità (esistenza di leggi di tipo morale); e) ali' origine dell'ordine che lega con leggi fisiche e morali il mondo, me e gli altri c'è un'Intelligenza creatrice e ordinatrice, che è anche l'ultimo Fine (fondamento, trascendenza). Il primo concetto che occorre adesso definire è che cosa intendiamo per «mondo» quando diciamo che il mondo è la prima certezza del senso comune. Chiaramente, il mondo in sé non è un concetto, e comunque non è definibile; è definibile invece il senso preciso del rimando a quel mistero che è il mondo, evidentissimamente presente ma talmente primario da non

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poter essere pensato con il pensiero propriamente oggettivante (il mondo mi contiene; io abito nel mondo; non posso vederlo da fuori ma mi ci sento dentro). ("") Ludwig Wittgenstein (1889-1951) definiva il rimando al mondo attraverso la formula logica della totalità (non sperimentabile) delle cose (fatti) sperimentabili; la sua celebre espressione è questa: «il mondo è la totalità dei fatti (die Welt ist die Gesamheit der Tatsachen)» (Tractatus Logico-philosophicus, 1.1). ("") Immanuel Kant (17241804) riconosce la totalità del mondo dell' esperienza come presupposto delle conoscenze particolari quando scrive: «Se diamo uno sguardo alle conoscenze del nostro intelletto in tutto il loro àmbito, noi troviamo che quello che la ragione vi mette di assolutamente suo e cerca di inserirvi come elemento attivo è il fondamento sistematico della conoscenza, ossia la sua unità secondo un principio. Questa unità razionale presuppone sempre un'idea, ossia l'idea della forma di una totalità della conoscenza, la quale precede la conoscenza determinata delle parti e contiene le condizioni per determinare a priori il posto di ciascuna parte e il suo rapporto con le altre» (Critica della ragion pura, tr. it. Bari 1975, p. 505). Il secondo concetto da chiarire è quello di «certezza». I giudizi del senso comune sono giudizi esistenziali dotati della più assoluta certezza, tanto che non solo è incontrovertibile la loro verità, ma è anche impensabile la loro non-verità, e di fatto nessuno riesce a pensare davvero che non siano veri; qualcuno, a partire da("") Descartes (1596-1650), potrà anche negare la loro verità, ma la negazione è possibile solo a parole, come mero "dire". Per questo motivo le certezze del senso comune sono il fondamento aletico (cioè veritativo) di tutte le possibili conoscenze, a partire dagli altri giudizi di esistenza; l'ermeneutica del pensiero (coscienza critica dei propri giudizi e interpretazione del linguaggio nella comunicazione interpersonale) richiede un "olismo della certezza" che si estende a un àmbito molto più vasto dell'analogo concetto di "olismo del significato": richiede cioè che ogni certezza particolare sia collegata con l'intero attraverso il fondamento. Dice giustamente Hegel nella prefazione alla Scienza della logica (1807) (anche se la frase ha nel contesto originario un senso immanentistico): «Il vero è l'intero (das Wahre ist das Ganze)».

s Il terzo concetto da chiarire è il rapporto tra la prima certezza del senso comune (la verità del mondo) e la seconda (la verità dell'io, l'autocoscienza); il chiarimento può essere fornito da questo testo di("") Tommaso d'Aquino: «La verità risulta dall'operazione dell'intelletto che formula un giudizio nel quale l'intelletto stesso si riferisce alla cosa cosl come essa è. Tale verità, poi, è conosciuta dallo stesso intelletto che riflette sul proprio atto: in questa riflessione, infatti, l'intelletto conosce non solo il proprio atto ma anche la corrispondenza di questo atto alla cosa. Ora, tale corrispondenza non può essere conosciuta se prima non si conosce la natura dell'atto intellettivo, e questo a sua volta non può essere conosciuto se prima non si conosce la natura del principio attivo, cioè l'intelletto stesso, la cui natura è appunto di potersi conformare alle cose» (De Veritate, q. 1, a. 9). Si noti, in questo testo tommasiano, la concatenazione dei presupposti dell'adeguazione rilevati dall'Aquinate, che mostra di saper fare uso - senza ovviamente usare il termine che io uso - del procedimento della presupposizione. Peraltro, Tommaso d'Aquino non dubita nel1' affermare la priorità logica della conoscenza del mondo sulla conoscenza di sé o autocoscienza; egli scrive infatti: «L'anima si conosce attraverso i suoi atti. Infatti, uno di noi si accorge di avere un'anima, di vivere e di esistere accorgendosi di sentire e di conoscere e di svolgere le altre funzioni vitali. [ ... ] Ma nessuno si accorge di conoscere se prima non conosce qualcosa [una delle cose del mondo], perché la conoscenza di qualcosa precede la conoscenza della conoscenza» (ibidem, q. 10, a. 8). Non si tratta certamente di priorità cronologica, bensl, come abbiamo già detto, di priorità logica; dal punto di vista cronologico (cioè fisico, psicologico), la conoscenza e l'autocoscienza sono atti concomitanti, e infatti Tommaso precisa altrove che «con la medesima operazione io conosco l'oggetto e conosco di conoscere» (In I Sent. d. 1, q. 2, a. 2). In questo senso è stato giustamente detto che l'esperienza fa il soggetto: il soggetto si riconosce e si identifica come "soggetto di esperienze". Nell'insieme organico delle ce1tezze del senso comune l'io non si colloca - come in Descartes - a fondamento logico di tutta la conoscenza ("" DESCARTES, IV), ma è coscienza riflessa che presuppone la conoscenza diretta, ossia l'esperienza del mondo; ogni forma di soggettivismo e di rappresentazioni-

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smo - che sono i prodromi dell'immanentismo o idealismo assoluto - è esclusa, in quanto arbitraria se vista alla luce della fenomenologia della conoscenza.

IL Il senso comune nell'oggetto e nel metodo delle scienze Secondo l'accezione classica (greca e medioevale), il termine «scienza» (gr. episteme, lat. scientia) ha come principale referente la filosofia (scientia communis) e solo come referenti secondari le conoscenze scientifiche settoriali (scientiae particulares). Qui invece si userà questo termine proprio per riferirci principalmente alle scienze particolari, adeguandoci a quanto oggi comunemente si intende nel parlare di "conoscenza scientifica". Le scienze particolari sono possibili sia come "interpretazione" della realtà in un certo ambito dell'esperienza ("" ERMENEUTICA), sia come "classificazione e catalogazione" dei dati dell'esperienza stessa (il che comporta sempre anche un'interpretazione, almeno secondo la logica dell'ordine e dei reciproci rapporti razionali). Pare evidente, comunque, che aspirazione incoercibile della ricerca scientifica sia proprio l'interpretazione, il ritrovamento delle cause, la spiegazione razionale dei fatti. Ora, ogni interpretazione scientifica si trova a doversi applicare a un oggetto "predeterminato" in qualche misura da una interpretazione anteriore e più vasta di quella che le scienze possono elaborare. Lo notava H.G. Gadamer nella sua opera Verità e metodo (1960): «Non solo il fenomeno del comprendere impronta di sé tutti i rapporti dell'uomo col mondo. Esso ha una validità autonoma anche nell'ambito della scienza, e si rifiuta al tentativo che vol1'ebbe ridurlo a una questione di metodo scientifico. La ricerca che segue si ricollega a questa resistenza che, all'interno della scienza moderna, si oppone alla pretesa di universale dominio della metodologia scientifica. Il suo intento è quello di studiare, ovunque essa si dia, 1' esperienza di verità che oltrepassa l'ambito sottoposto al controllo della metodologia scientifica, e di ricercarne la specifica leggittimazione» (tr. it. Milano 1995, p. 19). Gadamer non parla qui direttamente ed esplicitamente del «senso comune», anche se il suo pensiero è stato particolarmente sensibile a questo tema (egli infatti ha riscoperto il valore epistemi-

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co della filosofia del senso comune di Vico): egli si riferisce piuttosto all'interpretazione contenuta nella conoscenza filosofica, in quella storica e in quella artistica: ma, mediante queste, egli tenta di opporre alla pretesa di universalità e assolutezza dell'interpretazione delle scienze particolari una pre-interpretazione davvero universale e assoluta, che fonda il sapere filosofico, storico e artistico, ma non è da questi fondata. «Le scienze dello spirito - egli scrive - vengono così ad avvicinarsi a quei tipi di esperienza che stanno al di fuori della scienza: all'esperienza filosofica, all'esperienza dell'arte, all'esperienza della storia stessa. Tutte queste sono forme di esperienza in cui si annuncia una verità che non può essere verificata con i mezzi metodici della scienza» (ibidem). La «pre-figurazione» di cui parla Gadamer è, effettivamente, quella dei giudizi del senso comune: solo secondariamente è quella (eventuale) della filosofia, dell'arte e della storia, tre forme di conoscenza e di coscienza che dipendono fortemente dalle diversità di tempo, di luogo e di linguaggio, mentre il senso comune si colloca al di qua di queste differenze storicoculturali. La logica della ricerca scientifica porta quindi a riconoscere anzitutto, nell'oggetto stesso della scienza, un sistema di giudizi (materiali e formali, empirici e metafisici) nel quale la ricerca si inserisce, instaurando la dialettica dato/giustificazione. A tale sistema di giudizi, che sappiamo essere il senso comune, appartengono ad esempio i primi principi speculativi, come il principio di non-contraddizione, essenziale per la razionalità scientifica; ma ad esso appartengono altresì l'evidenza della causalità, che mette in moto la ricerca di cause non ancora scoperte nei fenomeni osservati, e soprattutto (perché fondante) l'evidenza che i fenomeni appaiono in un contesto unitario e coerente, caratterizzato dalla razionalità. La dialettica dato/giustificazione si instaura non appena la scienza si costituisce come "ricerca"; la ricerca, infatti, è un processo logico che parte dall'esperienza e tende alla pienezza dell'intelligibilità. Si tratta dell'intuizione primordiale dell'esperienza come "razionalità problematica", provocazione a una ricerca di senso più esaustiva; quando ad essere problematizzata e presa come oggetto della ricerca è "tutta" l'esperienza, allora abbiamo la ("") metafisica; le scienze particolari, invece, nascono dalla parcellazione dell'esperienza, dalla problema-

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tizzazione di uno dei suoi aspetti materiali 0 formali. La dialettica dato/giustificazione è quindi la medesima in ogni ricerca scientifica: l'obiettivo è sempre il medesimo, ossia la spiegazione del dato, intendendo per «spiegazione» proprio quello che l'etimologia suggerisce, cioè la visione più chiara dell'oggetto, che prima si trova "piegato" e poi viene "dispiegato", "disteso", come una carta geografica. Tutto ciò implica una logica di apprensione originaria del1' oggetto come dotato di razionalità, tanto da intuire un contenuto "implicito" che deve essere "esplicitato" (e anche in questi termini si ritrova l'immagine materiale della carta piegata). Insomma, la logica della ricerca scientifica presuppone la certezza del senso comune circa la razionalità del reale: una razionalità "data", e nel contempo "da sviluppare", da scoprire. Se l'esperienza non fosse percepita come un insieme di dati dotati di una certa razionalità, essa non costituirebbe né oggetto di conoscenza immediata, né problema per la scienza, perché non ci sarebbe l'istanza della mediazione; d'altra parte, se la razionalità dell'esperienza fosse in tutti i casi completa- se cioè "desse ragione" del dato in modo esauriente e incontrovertibile -, il problema scientifico sarebbe di nuovo impossibile, perché una scienza sarebbe superflua. Comprendiamo perché la logica della scienza non può essere quella hegeliana: Hegel (1770-1831) pretendeva per la scienza (la filosofia, la logica, e in definitiva ogni scienza) la capacità di un cominciamento assoluto in sé stessa, la negazione di ogni presupposto, la riduzione di ogni conoscenza a scienza e di ogni scienza ad autocoscienza dello Spirito ("" IDEALISMO, Il). La logica che le scienze adottano fin dal loro costituirsi come tali - limitandoci qui alla testimonianza delle scienze particolari - è invece la logica che implica i "presupposti delle scienze": tali presupposti non costituiscono a loro volta altre scienze, come accade invece per la filosofia nei confronti delle scienze particolari, ma una "scienza pre-scientifica", ossia il senso comune. Un filosofo assai attento alla logica delle scienze e ai suoi rapporti con la metafisica, ("") A.N. Whitehead (1861-1947), affermava agli inizi del secolo che la scienza positiva di tipo occidentale era stata resa possibile grazie ad un presupposto logico, ad una certezza previa alla scienza stessa, alla possibilità almeno di concepirla come possibile o degna di essere

s tentata: tale presupposto è levidenza che tutti i fenomeni naturali hanno qualcosa di razionale, di ordinato, che fa sì che si possa parlare di (/) «Universo». Whitehead vede in questa nozione implicita di "ordinamento dell'universo secondo una razionalità" (che è appunto una delle prime nozioni del senso comune) l'eredità della metafisica ebraica e poi cristiana, arricchita dalle categorie della filosofia greca. Di conseguenza, la ricerca scientifica sviluppatasi a partir~ dal ~inascimento dev~ ~utto ~Ila cult~­ ra pre-nnasc1mentale: «non puo mfatt1 provemre che dalla concezione medioevale, che insisteva sulla razionalità di Dio, al quale veniva attribuita l'energia personale di Jahvè e la razionalità del filosofo greco [ ... ]. La mia tesi è che la fede nelle possibilità della scienza, nata prima dello sviluppo della teoria scientifica moderna, è un derivato inconsapevole della teologia medioevale» (La scienza e il mondo moderno, Torino 1979, pp. 30-31). Qualche anno prima che Whitehead scrivesse queste considerazioni, Federigo Enriques (1871-1946), uno scienziato che ebbe il merito di dare lavvio in Italia agli studi di epistemologia applicata alla matematica e alla fisica, nella sua opera Per la storia della logica (1915), aveva parlato di un «postulato di comprensibilità» dell'oggetto delle scienze sperimentali: se tale postulato non fosse ammesso almeno implicitamente, il lungo e faticoso cammino della scienza mirante a una spiegazione dei fenomeni non verrebbe nemmeno intrapreso. Il termine «postulato», che Enriques prende in prestito dalla matematica e trasferisce tout court alla filosofia della scienza, ci lascia qui insoddisfatti, in quanto potrebbe far pensare a qualcosa di arbitrario e di totalmente convenzionale. In realtà, Enriques intendeva dire che il "principio" (la razionalità dei fenomeni presi in esame) ha la sua giustificazione al di fuori (o prima) della scienza come tale, in quanto ne è logicamente un presupposto, che possiamo nuovamente identificare con il senso comune, alla luce di una consapevolezza critica che appartiene alla logica filosofica. Lo stesso si può dire - sostiene ancora Enriques - della necessaria inclusione del "soggetto" che fa scienza "nell'oggetto della scienza", dato che lo scienziato è parte del sistema cosmico o universo (cfr. La teoria scientifica della conoscenza scientifica da Kant ai giorni nostri, 1938). Convinzioni simili verranno manifestate, come è noto, da Albert Ein-

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stein e da molti altri scienziati, esponenti di quel realismo scientifico che riconosce all'attività delle scienze un fondamento che vada al di là del metodo empirico in quanto tale ("" EINSTEIN, III; LEGGI NATURALI, IV). In tempi più recenti, dalla scuola di Whitehead e dalla collaborazione stretta di scienziati (soprattutto fisici) e filosofi è nata una letteratura che parlerà esplicitamente di «ontologia della scienza» e di «metafisica della scienza»; Mario Bunge (n. 1919), esponente di questo indirizzo, sostiene che la fisica e la ("") biologia utilizzano nozioni che debbono essere interpretate dalla metafisica, perché solo a quel livello hanno esse una definizione rigorosa: sono, ad esempio, le nozioni di sostanza, la nozione di intero, quelle di proprietà o di attributo, di legge, di possibilità, di causalità, di caso, di mutamento, di spazio e tempo, di vita, ecc. Ma sappiamo che anche la metafisica implica e presuppone il senso comune, essendo la riflessione scientifica sui dati che il senso comune possiede in modo spontaneo. Il metodo scientifico moderno continua a rispecchiare la logica della scienza classica, che Aristotele definiva come «conoscenza certa delle cose, attraverso la scoperta delle loro cause», cioè uno scire per causas. Vogliamo qui mettere in luce due aspetti presenti in questa definizione: la certezza e la motivazione. Al puro accertamento dei fatti, dei fenomeni, che resta il primo passo dell'indagine scientifica, deve necessariamente seguire il tentativo di offrire una spiegazione di quei medesimi fatti, dandone le ragioni e i fondamenti. Etimologicamente, «spiegazione» significa passare dall'implicito all'esplicito, come già abbiamo osservato, e quindi significa operare un intervento sulla realtà (sull'oggetto) che risponde a una volontà: volontà di significato da una parte, e volontà di elezione (scelta) dall'altra. Di conseguenza, la spiegazione scientifica varia a seconda dell' approccio metodologico del ricercatore e delle finalità che egli si è (consapevolmente o non) proposto: «La spiegazione può essere di tipo puramente logico: per esempio, può essere la spiegazione di un teorema matematico: il fatto è il sussistere del teorema, la spiegazione è la sua dimostrazione, il procedimento che fonda la validità del teorema sulla validità di altri precedentemente dimostrati oppure a quella di certi prindpi ammessi come veri. Nel caso della chimica e della fisica, la spiegazione dei fenomeni che si osservano può consistere in una teoria che

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giustifica, determinando la costituzione della materia che stiamo osservando, che si comporta in certo modo perché è costituita secondo certe leggi. Persino una scienza che può essere considerata come puramente descrittiva, come la geografia, non si accontenta di presentare le cose come sono, ma cerca di darne una descrizione sistematica e ragionata, cioè di dare un embrione di spiegazione» (Manara, 1981, p. 517). Il carattere fondamentale della ricerca scientifica è quello di "spiegare ciò che si osserva". A partire da("") Galileo e dalla progressiva affermazione del metodo sperimentale, "osservazione di un fenomeno" vuol dire qualcosa di più specifico, ossia la possibilità di ripetere più volte, a volontà del ricercatore, il fenomeno osservato("" EsPERJENZA, IV), così da poter variare le circostanze in cui esso avviene e quindi eliminare, tra le cause possibili enunciate in via di ipotesi, quelle che non sono essenziali. In altre parole, si tratta di una tecnica per ricercare nel modo più efficiente possibile la spiegazione valida tra tutte quelle che si affacciano alla ribalta (senza pregiudizio della disponibilità a cambiare le spiegazioni nel caso in cui si presentassero dei fatti che prima non erano conosciuti). In questo ordine di idee, quindi, non si tratta soltanto di esaltare una certa "tecnica per l'accertamento dei fatti empirici", ma di rafforzare il più possibile le fondamenta sulle quali si deve costruire l'edificio della conoscenza sperimentale. Si tratta, in altre parole, di cercare di avvicinarsi il più possibile alla certezza delle osservazioni sensibili, perché sia maggiormente garantita la loro "spiegazione" valida. Ora, se è chiaro che tale istanza rientra pienamente nella logica della scienza positiva, è altrettanto evidente che non sempre esistono circostanze empiriche che la rendono possibile; pertanto, sarebbe eccessiva la pretesa di negare obiettività scientifica a quei fatti che restino non riproducibili a volontà dell'osservatore, come avviene in molte scienze della natura, come ad esempio l'("") astronomia e la(...,) geologia, o per buona parte delle scienze sociali. Il successo innegabile del metodo sperimentale va spiegato riconoscendo che esso costituisce una tecnica efficace per giungere alla massima certezza possibile dei fatti osservati; certezza che è fondamento della ricerca di spiegazione, che viene ottenuta con l'enunciazione di ipotesi e con la verifica. Ora però va rilevato come vi sia in questo atteggiamento l'applica-

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zione di un criterio significativo, e cioè che un fatto è tanto più certo quanto maggiore è il numero di persone che lo constatano; di conseguenza, un fenomeno è considerato come certo (di fatto) quando esso è riproducibile a volontà, in modo che qualunque osservatore può provocarlo a volontà, secondo la modalità che un ricercatore descrive ed un altro può ripetere fe •. delmente. In base a questo criterio, l'obiettività viene identificata con "l'intersoggettività" dell'osservazione. Quanto vogliamo qui segnalare, è che sia proprio il senso comune il quadro logico che dà validità a questo atteggiamento di verifica intersoggettiva. Non va però dimenticato che siamo pur sempre di fronte ad un'astrazione, in quanto la ripetizione di un fenomeno assolutamente identico a sé stesso non è rigorosamente praticabile. Una conoscenza che voglia commisurare la propria obiettività con l'intersoggettività dovrà poi necessariamente essere in qualche modo "comunicata". Ora, il ricorso al linguaggio matematico per sostituire con espressioni precise e quantitative le espressioni generiche e qualitative del linguaggio comune, implica l' accettazione di certi presupposti circa la costituzione degli oggetti osservati; presupposti ragionevoli, ma spesso accettati inconsciamente da chi opera e comunica. Tale linguaggio, nella misura in cui vuole restare un'interpretazione comunicabile di un reale osservato induttivamente, dovrà offrirne inevitabilmente una visione riduttiva e limitata, andando incontro a possibili discrepanze e differenze di valutazione (nel peso di alcune ipotesi, nei risultati, ecc.). Una delle questioni più importanti nella costruzione di ogni teoria fisica, è la decisione sul fatto se le discrepanze inevitabili tra le conseguenze delle ipotesi e le verifiche sia dovuta all'inesattezza delle ipotesi oppure agli errori delle misure e in generale delle osservazioni di verifica. Consapevole che il metodo delle scienze risponde a una logica necessariamente idealizzata e riduzionista, la comunità scientifica mostra di avvertire chiaramente il senso meramente "pratico", cioè finalizzato alla comunicazione dei protocolli e della elaborazione dei calcoli, della formalizzazione matematica e della enunciazione delle leggi. Proprio per questo, gli scienziati pensano che, come fase preliminare e come fondamento di ogni spiegazione, la scelta dei procedimenti da adottare è tanto più attendibile quanto maggiore è il numero di co-

s loro ai quali essi risultano convincenti: si potrebbe dire allora che l'oggettività viene stimata tanto maggiore quanto maggiore è l'intersoggettività. Questa "intersoggettività" è evidentemente legata al carattere "comune'', cioè "universale" che è proprio dei giudizi sulla realtà che si fondano sull'esperienza originaria, che è appunto comune a o~ni ~e~sona e ~~ da fondamento comune a ogm attività cogmtlva. Offrono ancora un collegamento col senso comune quelle visioni epistemologiche tese arivalutare l'azione di fattori, impliciti o taciti, nella formulazione di un'ipotesi o nella valutazione di un risultato. L'accento sull'azione di tali fattori è stato messo in luce soprattutto da ("') M. Polanyi (1891-1976), il quale ha sottolineato come ogni giudizio scientifico si giova di una conoscenza intuitiva non totalmente oggettivabile. Tale conoscenza, forgiata dall'esperienza, è regolata da un'insieme di forme possedute dal soggetto: essa nasce dal reale ed al reale conduce. La mente non possiede a priori le forme con cui organizzare normativamente la realtà, come avrebbe voluto la critica kantiana: l'intuizione del soggetto conoscente, in definitiva il suo senso comune, è educato a posteriori dall' esperienza sensibile ed attraverso di essa interagisce continuamente con tutte le altre fonti di sapere. Una delle più severe critiche al senso comune, a partire dall'ambito dell'osservazione scientifica, proviene da alcune interpretazioni della("') meccanica quantistica. A proposito dei rapporti fra osservazione macroscopica (che è quella direttamente connessa ali' esperienza ordinaria e al senso comune) e osservazione microscopica, atomica (che dipende maggiormente sia dalla strumentazione, sia, soprattutto, dall'interpretazione teorica del fenomeno osservato), ci limiteremo a rilevare con Eddington che «la fisica macroscopica ha sempre l'ultima parola nell'osservazione, perché l'osservatore stesso è macroscopico» (Philosophy of Physical Science, Cambridge 1939, p. 234). Di fatto, mentre la conoscenza a livello ordinario, sebbene possa essere corretta da quanto si osserva a livello atomico, resta perfettamente concepibile anche senza questa osservazione, la conoscenza a livello atomico, al contrario, è sempre una funzione di ciò che si conosce a livello ordinario, che è in definitiva il livello del senso comune. Può essere istruttivo ricordare quanto segnalava Einstein a proposito del paradosso quantistico noto come l'esperimento ideale "gat-

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to di Schrodinger" ("' MECCANICA QUANTISTICA,

IV.2): «[La scuola di Copenhagen] crede che la teoria quantistica fornisca una descrizione della realtà, e perfino una descrizione completa; tale interpretazione risulta tuttavia confutata nel modo più brillante dal vostro sistema: atomo radioattivo + contatore Geiger + amplificatore + carica di polvere da sparo + gatto chiuso nella scatola; si badi che la funzione l/f del sistema comprende sia il gatto vivo che il gatto fatto a pezzi dall'esplosione: ma è possibile che lo stato del sistema debba essere creato solo quando un fisico osserva la situazione in un certo momento? Chi può dubitare davvero che la presenza o l'assenza del gatto sia una cosa indipendente dall'atto di osservarlo? Ma, allora, la descrizione mediante la funzione l/f è certamente incompleta, e quindi ce ne deve essere una più completa» (K. Przibram, Schrodinger, Planck, Einstein, Lorentz. Briefe zur Wellenmechanik, Wien 1963, p. 36). Al di là del delicato problema della completezza della meccanica quantistica, o di quello della sua sostituzione con una teoria più generale che al momento non possediamo, della quale essa non sarebbe che una prima approssimazione, rimane il fatto che il livello ultimo e fondante, riteniamo, non possa non essere che quello del senso comune. Solo a livello di senso comune si può parlare dell'esistenza del gatto nella scatola prima o dopo l'osservazione scientifica. A questo stadio, se di «funzione più completa», in senso analogico, si può ancora parlare, si tratta di qualcosa di "non computabile", di non matematizzabile, almeno nel senso che oggi si attribuisce alla matematica.

III. Senso comune e linguaggio fisicomatematico È opinione da tutti condivisa che la scienza moderna, prima ancora che per il suo aspetto sperimentale, si distingue nettamente da quella antica soprattutto per aver adottato la ("')matematica come suo specifico linguaggio. Tale adozione ha comportato innegabili vantaggi pratici: le osservazioni sono meglio codificate attraverso la misura delle quantità relative, e l'espressione numerica delle misure consente maggiore precisione e chiarezza; a loro volta, le ipotesi possono essere espresse con relazioni matematiche, e le deduzioni giovarsi del formalismo deduttivo proprio della matematica. Tut-

Senso comune to il processo scientifico - osservazione, ipotesi, deduzione - è così enunciato in modo esatto e chiaro, ed il momento finale del processo metodologico - quello della verifica - non ·è altro che il confronto tra le misure ipotizzate mediante i calcoli di previsione e le misure che si ottengono sperimentalmente di volta in volta. La precisione e la chiarezza del processo così formulato spiegano bene la tentazione razionalistica di adottare il linguaggio matematico anche per la filosofia, che appare soprattutto in Descartes e Spinoza. Galileo non esitava ad affermare che la matematica era il linguaggio proprio della scienza, ancora da lui indicata col nome di filosofia: «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta dinanzi agli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non si impara a intendere la lingua e conoscere i caratteri ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto» (Il Saggiatore, in Opere, Firenze 1968, vol. VI, p. 333). Ora, il primo presupposto della formalizzazione matematica è la "riduzione" dell'oggetto - il "mondo" della conoscenza pre-scientifica, ossia del senso comune - alle dimensioni calcolabili, riduzione che appare conscia ed esplicita nella celebre Prefazione dettata da ("") Isaac Newton per la prima edizione dei suoi Principia mathematica: «Poiché gli antichi [... ] ebbero nella massima considerazione la meccanica al fine di investigare le cose della natura, e i più moderni, abbandonate le forme sostanziali e le qualità occulte, tentarono di ridurre i fenomeni della natura a leggi matematiche, è sembrato opportuno in questo trattato coltivare la matematica per quella parte che attiene alla filosofia» (Princìpi matematici della filosofia naturale, tr. it. Torino 1965, p. 55) Anche se la filosofia vera e propria aveva teorizzato in quegli anni la riduzione razionalistica della realtà alle "idee" o alle "percezioni" (""BERKELEY), non è certo compito questo della "filosofia naturale", cioè della fisica: essa può solo operare la riduzione, consapevole di lasciare da parte tanti altri aspetti della realtà che il senso comune conosce e che la fisica stessa non avrebbe titoli per considerare "nonreali" (""RIDUZIONISMO). Si tratta, in fondo, di un procedimento di astrazione, per esigenze

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pratiche di semplificazione e di manipolazione dei dati, o anche per esigenze schiettamente teoriche di adeguamento dell'oggetto ai limiti cognitivi della scienza; anche gli antichi, peraltro, riconoscevano l'astrazione come necessità della scienza, derivante non dall'oggetto (realtà) ma dal limite soggettivo della conoscenza scientifica, che lega la certezza all'universale, poiché non si può fare scienza con un singolo oggetto reale (de individuo non est scientia). L'astrazione scientifica è legittima, ma occorre essere consapevoli della sua operatività, in modo da non ignorare, in tutto il processo del metodo scientifico, la presenza dei presupposti di senso comune. La matematizzazione della scienza viene favorita dall'impiego di una logica di tipo formale, che ricorre al potente strumento del linguaggio simbolico("" LOGICA, II-III; SIMBOLO). I vantaggi meramente formali della logica simbolica possono far dimenticare l'esigenza realistica delle scienze della natura, per privilegiare la "certezza" a scapito della "verità": già ("")Leibniz (1646-1716) riteneva che si poteva mettere fine a ogni discussione semplicemente perché era arrivato il momento di fare dei calcoli e, più tardi, David Hilbert (1862-1943) affermerà che «la matematica è diventata un tribunale, una corte suprema innanzi a cui portare tutte le questioni fondamentali, poiché essa è la base determinata su cui tutti devono essere d'accordo e che permette di controllare ogni asserzione>> (Sull'infinito, in "Filosofia della matematica", a cura di C. Cellucci, Bari 1967, p. 183). Oltre al giudizio di certezza, il vantaggio della formalizzazione matematica è la "generalità", nel senso che tutte le deduzioni ottenute con il calcolo matematico sono ritenute valide non solo per quei particolari fenomeni fisici presi in esame all'inizio della ricerca ma anche per tutti gli altri fenomeni che possano essere ridotti al medesimo schema formale, al medesimo "modello". Giova però osservare che la cer~ tezza e la generalità della logica simbolica allontanano sempre di più il ricercatore dall'interesse per la realtà empirica, dato che i simboli non dipendono direttamente dai referenti, anzi spesso ne prescindono del tutto. Quello che invece si può riconoscere come vantaggio epistemico all'impiego della matematica è l'indubbia agevolazione del procedimento di controllo e vaglio delle ipotesi; la conferma (verificazione) o la smentita (falsificazione) delle ipotesi è più

s facile sulla scorta della deduzione matematica e del confronto delle formule. Ma, con tutto ciò, è chiaro che il confronto con i dati empirici (osservazioni) sarà sempre più ricco e fecondo di conoscenze quanto più la matematica viene impiegata in accordo con il suo ruolo strumentale, e la realtà affrontata con strumenti cognitivi di maggior qualità e ampiezza. Mentre l' evoluzione dell'epistemologia contemporanea porta giustamente a ridimensionare l'importanza della matematica anche per le scienze fisiche, la residua mentalità scientista pretenderebbe di estendere l'uso della formalizzazione matematica anche alle scienze umane e sociali, dove appare invece sempre più evidente il ruolo fondante del senso comune, le cui certezze sono le più significative riguardo all'oggetto dell'indagine (;r EPISTEMOLOGIA, II-III). Un esempio di quanto qui desideriamo porre in luce può essere agevolmente preso dall'aritmetica. Questa si fonda su «termini primitivi» e su «assiomi» (o «postulati») assunti come evidenti e razionalmente validi. L'aritmetica di Giuseppe Peano (1858-1932), che rappresenta il primo esempio di logica matematica moderna, indica tre «termini fondamentali» (zero, numero naturale e successore) e cinque «postulati fondamentali» Pi. In particolare, P 1: O è un numero naturale; P 2: se x è un numero naturale, esiste un altro numero naturale denominato x' chiamato il successore di x; P 3 : O -:;:. x' per ogni numero naturale («0 non è il successore di alcun numero naturale»); P4: sex'= y', allora x = y («se due numeri naturali hanno lo stesso successore, allora sono uguali»); P 5: se Q è una proprietà che può oppure non può valere per tutti i numeri naturali, e se a) O ha la proprietà Q, e b) ogni volta che un numero naturale x ha la proprietà Q, allora x' ha la proprietà Q, allora tutti i numeri naturali hanno la proprietà Q (cioè se Oha una certa proprietà e il fatto che un numero naturale qualunque abbia la stessa proprietà implica che il suo successore abbia la stessa proprietà, allora ogni numero naturale ha quella proprietà; noto anche come «principio di induzione matematica») (cfr. E. Mendelson, Introduzione alla logica matematica, Torino 1972, p. 128). Dai tre termini e dai cinque postulati fondamentali di Peano si sviluppa la teoria dei > (nella lingua tedesca, che possiede al riguardo un vocabolario più preciso, i due significati sono resi con Geschichte e Historie). La storia, infatti, da una parte rimanda a quanto accaduto, vale a dire al succedersi degli avvenimenti del passato che hanno avuto come protagonista l'essere umano, considerato individualmente e collettivamente. Dall'altra, allude al "sapere sull'accaduto", ossia all'operazione mediante la quale la mente umana torna sul suo passato con l'intenzione di ricostruirlo, valutarlo e interpretarlo. I sensi menzionati non si sovrappongono: l'insieme dell'accaduto supera notevolmente ciò che all'uomo è dato ricostruire. Va rilevato però che la relazione tra i due è cosl intima che, in un certo qual modo, potrebbe dirsi che il secondo fonda e quasi fa sorgere il primo. Si può infatti parlare di «storia» solo perché l'uomo possiede una «memoria»; può quindi evocare il passato ponendolo in relazione con il presente e da questo proiettarsi verso il futuro. Gli esseri

I. La scienza storica: genesi e sviluppo La tendenza a narrare gli avvenimenti del passato è tanto antica quanto l'umanità, o perlomeno quanto i primi documenti (siano questi documenti letterari oppure disegni) che l'umanità ha lasciato dietro di sé. Nei luoghi più diversi dell'Europa, dell'Asia, dell'Africa, del1' America o dell'Oceania, rinveniamo cronache in cui si conserva traccia delle vicissitudini di un popolo, di una dinastia, di una famiglia o di una tribù, trasmesse con più o meno particolari e, con una certa frequenza, collegati a realtà metastoriche o mitologiche(" Mrro). La nasci· ta della scienza storica, ossia, il tentativo di ricostruire il passato mediante lo studio e la valutazione delle fonti, si colloca tuttavia in un periodo posteriore: nella Grecia classica e nel contesto dello sviluppo del pensiero critico che in essa ebbe luogo. Risultano decisive in proposito le figure di Erodoto (484-426 a.C.) e di Tucidide (ca 460-

s 400 a.C.). A partire da questo momento la ricerca storica non ha smesso di esistere; soffrl un certo declino nel periodo medievale, ma acquisl nuova forza nell'Umanesimo. In questa epoca, in effetti, il gusto per la cultura greco-romana e, in generale, p~r le lingue antiche, n?n poteva non orientare m tal senso. Le grandi scoperte geografiche, linguistiche e archeologiche che ebbero luogo a partire da questa data, e in particolare nei secoli XVII e XIX, diedero nuovo impulso agli studi storici. Un notevole contributo in questa linea si deve allo spirito romantico, a tal punto da poter qualificare l'ultimo dei secoli menzionati come il "secolo della storia". Lo sviluppo degli studi storici è stato accompagnato, soprattutto in epoca più recente, da una riflessione sulla natura e la metodologia che li devono orientare. In una concezione rigic damente aristotelica, dove la scienza si definisce come una sapere a partire dalle cause, la storia potrebbe essere negata come tale, come di fatto è stato sostenuto d alcuni autori. In una comprensione più ampia del sapere scientifico, inteso come un conoscere che procede con rigore e metodo, che controlla e contrasta criticamente le sue affermazioni e conclusioni, una tale negazione diventa priva di senso. L'uomo, non solo può evocare i suoi ricordi immediati, ma anche addentrarsi, mediante la ricerca e I' analisi delle fonti, nella conoscenza del passato. E questo non solo certificando avvenimenti puntuali, ma percependo parallelismi, nessi e connessioni, e pertanto unità di senso. Rispetto alla comprensione del lavoro dello storico e, più radicalmente, in merito alla relazione tra storia-accadimento e storia-scienza, una questione decisiva è costituita dal riferimento alla tensione costante tra due momenti chiave: la documentazione e l'interpretazione. La storiografia di matrice positivista pose l'accento sulla determinazione dei fatti, considerando l'interpretazione come un momento secondario e fortuito, meramente giustapposto a fatti previamente stabiliti, secondo il classico aforisma del pensiero anglosassone, «facts are sure, opinions are free» (i fatti sono sicuri, le opinioni sono libere). La critica filosofica non tardò a mettere in evidenza lingenuità di tale impostaz.ione: i fatti non esistono allo stato puro, ma aff1~rano in corrispondenza alla prospettiva con c?1 lo storico legge i documenti e le testimomanze (..w ERMENEUTICA). In definitiva, «la storia è inseparabile dallo storico» (Marrou, 1954).

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Il riconoscimento di questa realtà, a cui contribuirono potentemente gli scritti di Dilthey ( 1833-1911 ), può condurre al relativismo, o lungo un'altra direzione, intrecciandosi con altri presupposti teoretici, può condurre alla proclamazione dell'irrilevanza della storia in quanto tale, per porre invece l'accento sulla storicità nel senso heideggeriano del termine, ossia, sull'autocoscienza che l'esistente umano acquista nella misura in cui si sente confrontato con il momento che gli è toccato di vivere. L'importanza della storicità come categoria antropologica è innegabile, ma non esclude, anzi reclama, il riferimento all'accaduto storico. Così come, viceversa, il riconoscimento della funzione strutturante che la prospettiva personale del soggetto gioca nel processo ermeneutico obbliga a essere consapevoli dei propri ed altrui presupposti senza per questo implicare la negazione dell' obiettività del conoscere storico. Questo, infatti, non è mera proiezione della soggettività dello storico, ma incontro tra questa soggettività e il passato testimoniato dalle fonti. Dato per certo questo presupposto, ci si può chiedere: a che cosa aspira la scienza storica? La risposta potrebbe essere: a comprendere il passato. Non quindi alla mera determinazione di dati puntuali (la data in cui ebbe luogo un avvenimento, il numero di soldati che intervennero in una battaglia, la percentuale di persone che esercitarono una certa professione ... ), ma, come prima accennavamo, a capire l'accaduto, a chiarificarne i perché, a coglierne i nessi causali, così come, in modo ulteriore, a porre in evidenza le sue costanti e le sue leggi. La lettura di qualsiasi opera storica, da Erodoto ai nostri giorni, testifica questa aspirazione al "comprendere" (e non solo al "narrare"), e a un comprendere che sia la base del narrare, poiché solo dalla comprensione si può affrontare il compito della narrazione. Orbene, qual è la portata di questa aspirazione al comprendere? Detto in altri termini: ammesso che lo storico possa certamente cercare e individuare dei nessi causali, e quindi unità di senso, gli è dato però anche di aspirare a una conoscenza che comprenda la totalità del1' accadere e che gli permetta di pronunciarsi sul "senso della storia", considerata nella sua universalità? La questione così formulata entra immediatamente nel terreno della domanda sulle ragioni o spiegazioni ultime. Non ci si trova più

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quindi nel campo dell'("") epistemologia, ma in quello della("") metafisica e della("") teologia.

II. Dalla scienza storica alla teologia della storia Gli storici greco-romani - in particolare coloro che ricevettero l'influsso della filosofia stoica - aspirarono a raggiungere una comprensione o una spiegazione di quei fatti e di quei processi di cui si occuparono ed ebbero anche coscienza dei vincoli che uniscono la totalità del genere umano, ma essi non si posero formalmente il progetto né l'idea di una "storia universale". Il loro approccio alla storia obbedì, più che allo stimolo o alla preoccupazione per la ricerca di senso - questione che riservarono alla filosofia o alle religioni-, all'analisi di avvenimenti ed esperienze, e alla delucidazione degli insegnamenti che scaturiscono da queste esperienze, in linea con l'aforisma historia magistra vitae, la storia, la conoscenza della stori~, insegna a vivere. L'introduzione, nel mondo delle idee, del concetto e dell'aspirazione a una storia universale, o più concretamente, l'introduzione della domanda sulla possibilità e la verità di un senso della storia considerata nel suo insieme, è vincolata al Cristianesimo. Basta aprire le Scritture cristiane per avvertire che la storia, il succedersi degli avvenimenti, occupa un luogo centrale. In una prospettiva cristiana, infatti, si può e si deve dire che Dio si rivela "nella storia" e non semplicemente "con occasione della storia": Dio entra nella storia umana e si rivela in essa("" GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL Looos, 1.2). Gli avvenimenti salvifici in cui Dio si rivela non rimandano a un tempo mitico, ma al tempo della storia umana. Sono avvenimenti singolari, accaduti in un luogo e in un momento concreti. E, da questo luogo e tempo concreti, essi si rivolgono e si riferiscono alla totalità dell'accadere, il quale, proprio alla luce di quegli avvenimenti e del disegno divino che in essi si svela, si presenta dotato di unità e di senso. L'universo ha origine, e ha origine nel tempo - ha cioè un inizio - come conseguenza della decisione divina di comunicare la sua bontà e di chiamare gli uomini a partecipare della sua vita. E ha un fine, una meta verso la quale è destinata a confluire l'instaurazione di

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uno stato definitivo, caratterizzato dalla pienezza della comunicazione di Dio all'umanità, che è andata crescendo e costituendosi attraverso i tempi. Tutto quanto accade esiste quindi in ordine alla salvezza e deve essere giudicato rispetto a essa. La storia è "storia della salvezza" historia salutis. Nella prospettiva della fede cri~ stiana l'accadere non è semplicemente un succedersi di eventi, né una ripetizione di cicli sempre uguali, ma è il processo grazie al quale si costruisce una realtà piena di senso, finalizzata e orientata escatologicamente ("" CREAZIONE, VI). È quasi un'ovvietà segnalare la differenza tra questa concezione biblica e le idee sul ("")tempo predominanti nella cultura greco-romana. Per i greci o per i romani dell'epoca anteriore al Cristianesimo, la riflessione sull'accadere è dominata dalla credenza nell'eterno ritorno, nel ripetersi ciclico degli avvenimenti. Lo studio del passato era pertanto concepito - in accordo con quanto appena accennato - come il ricordo degli esempi ricevuti dai nostri predecessori, o come lo studio delle leggi che reggono lo sviluppo delle società, per imparare così ad adeguare la propria condotta ai ritmi richiesti dalla natura. In un'ottica cristiana, alcuni di questi elementi permangono, ma non costituiscono più il centro della riflessione. Se l'accadere non è più il ripetersi di cicli, bensì un unico processo, allora ogni avvenimento ha un valore in se stesso: potrà certamente avere anche un valore di esempio o di insegnamento per altri, ma ciò che è importante è che "in se stesso", ossia nella sua singolarità, è parte di un processo unitario, ne contribuisce al dispiegamento e partecipa del suo senso globale. Il Cristianesimo porta con sé, allo stesso tempo e inseparabilmente, due dimensioni a prima vista contrapposte, ma in realtà intimamente connesse: una valorizzazione del singolo istante, di ogni momento o settore dell'accadere, e una visione universale e onnicomprensiva della storia, dell'insieme dell'accadere, come processo in cui si annuncia e in cui si prepara quella pienezza cui si arriverà al momento della consumazione, cioè quando Cristo, apparendo in tutto lo splendore del suo potere salvifico, realizzerà in modo completo e definitivo il disegno di Dio Padre e l'umanità, costituita nel succedersi delle generazioni, convergerà nella pace, nella gioia e nella gloria della famiglia dei figli di Dio.

s Evidentemente queste affermazioni i!_llpliano una concezione unitaria della storia. E ov~io altresl che sono affermazioni che non solo derivano dalla (""') fede, ma che muovono dal suo interno: si appoggiano invero sul messaggio che la fede presuppone e a cui aderisce, non su evidenze empiriche. In altri termini, la fede cristiana conduce spontaneamente e direttamente a una "teologia della storia", ossia a una comprensione della storia nella prospettiva di quanto la rivelazione biblica fa conoscere rispetto al destino dell'uomo. Ancora più significativo - e decisivo per la questione che qui ci occupa - è il fatto che tale comprensione della storia connota l'affermazione netta di un senso globale e la valorizzazione di ogni momento dell'accadere, poiché su di esso riverbera l'eternità. Al tempo stesso, tale comprensione non chiarifica il modo in cui questi momenti, e i processi in cui essi si integrano, anticipino l'escatologia, la consumazione finale o contribuiscono a configurarla: la teologia della storia, in definitiva, verte sul senso della storia nel suo insieme ma non sul senso dei differenti processi sociali e culturali che nella storia si sviluppano. Forse nessun autore ha formulato questa espressione con maggiore nitidezza e precisione di ("") Agostino di Ippona (354-430), che viene presentato con frequenza, e a ragione, come il"fondatore della "teologia della storia". La riflessione sulla storia, anche in una prospettiva cristiana, aveva già avuto inizio nei secoli precedenti - affiora addirittura nei testi biblici -, ma è innegabile che s. Agostino diede prova di una consapevolezza del problema e coniò alcune formulazioni che trascendono gli scritti precedenti, spiegando cosl l'influsso che egli ha esercitato ed esercita tuttora. 11 sacco di Roma del 410 d.C. ad opera di Alarico, scosse profondamente l'Impero romano provocando una forte inquietudine di cui furono testimonianza le critiche che l'intellettualità pagana dell'epoca diresse al Cristianesimo attribuendo ad esso, in un modo o nell'altro, la responsabilità della crisi. Nel rispondere a queste critiche s. Agostino mostra al contempo una n?tevole stima per Roma unita alla capacità di distanziarsene. Di fronte ai cristiani che avevano idealizzato l'impero presentandolo come una preparazione connaturale e quasi imprescindibile per l'avvento e l'espansione del Cristianesimo, s. Agostino reagisce svincolando la storia di Roma dalla storia della salvezza. L'e-

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sistenza dell'Impero e la sua pace hanno potuto contribuire alla diffusione del Cristianesimo, ma la sua sopravvivenza o sparizione sono di per sé avvenimenti accidentali per lo sviluppo del piano salvifico: «Per quel che riguarda questa vita mortale, che si sviluppa e si esaurisce nel giro di pochi giorni, che importa sotto quale regime viva l'uomo, che è destinato a morire?» (De civitate Dei, V, 17,1). La netta proclamazione del carattere peregrinante dell'esistere umano porta il vescovo di Ippona ad affermare con decisione che il destino umano non solo possiede dimensioni trascendenti, ma si pone anche interamente al di là dell'empirico, posto che dice riferimento a un orizzonte eterno e solo da questo orizzonte può essere valutato radicalmente e definitivamente. Da qui l'immagine delle "due città," su cui si edifica tutta la riflessione agostiniana sulla storia. «Due amori hanno costruito due città: l'amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l'amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste» (De civitate Dei, XIV, 28). La storia fu sempre considerata da s. Agostino nelle sue dimensioni ultime, e pertanto come la storia della contrapposizione tra due città mistiche o anche, più propriamente, come la storia dell'agire di Dio che, nel chiamare e salvare gli eletti, costruisce la città eterna e, come contropartita, il dramma della dispersione dovuta al peccato; il peccato infatti non è altro che la controfigura e il rifiuto del1' azione divina, e pertanto non dà origine, propriamente a una storia che possieda senso, ma al vuoto che implica la pura negatività. Lo svilupparsi delle due città - prosegue il Dottore di Ippona - trascende l'accadere culturale. Il suo inizio dice riferimento agli inizi stessi della creazione, prima dell'apparizione della specie umana; più in là dei primi uomini, Adamo ed Eva, per risalire fino all'esistenza degli ("") angeli. Anche la sua meta è "metastorica": sono tali il giudizio finale e lo stato di salvezza o di condanna che da quel giudizio derivano. La trascendenza del disegno salvifico non implica tuttavia - ed è questo è un punto decisivo - che questo ci risulti interamente sconosciuto, o che manchi di segni empirici; tale disegno si realizza infatti nella storia: nella storia Dio chiama l'uomo e nella storia l'uomo è chiamato a rispondere. Agostino cercherà anche di abbozzare le linee generali di uno sviluppo storico, anche se

Storia in modo molto essenziale. Seguendo una cronologia tradizionale al suo tempo, divide la storia in vari periodi, intrecciando nella sua descrizione dati biblici con dati provenienti da cronache e da storie che si riferiscono alla vita di regni o imperi secolari, in particolare Babilonia e Roma. L'enumerazione di periodi termina in Cristo, dopo il quale non c'è più posto per una distinzione di tappe, poiché la presente economia salvifica si mantefl'à fino a che, quando arriverà l'ora, la storia si chiuda con la venuta ultima e definitiva di Gesù e l'accadere confluisca nell'eternità. Questa la struttura essenziale dello schema seguito da s. Agostino. La sua semplice esposizione mostra chiaramente che il vescovo di Ippona, anche se allude a fatti e ad avvenimenti concreti, non si propone di fornire una spiegazione della connessione che si possa dare tra essi a livello sociologico o culturale, ma vuole invece mostrare le linee maestre del piano salvifico. Tutto l'accadere intra-storico è sospeso a momenti sovra-storici dai quali dipende il suo senso: la creazione da una parte, il giudizio finale e la('') resurrezione dei corpi dall'altra, e, tra questo inizio e questa fine, l'Incarnazione del Verbo, che impregna del suo contenuto la totalità dell'esistenza. Tutto ciò che accade tra il principio e la fine acquista la sua importanza dalla sua valenza di accettazione o di rifiuto della grazia e della chiamata divina. La storia è per s. Agostino storia della lotta tra la fede e l'empietà, tra l'amore e l'egoismo. Per cogliere con esattezza le idee agostiniane, è importante non perdere di vista che la Città di Dio e la città terrena sono due realtà mistiche; non si identificano con nessuna società empiricamente constatabile, anche se entrambe hanno dimensioni o effetti sensibili. I due estremi sono proclamati da Agostino con assoluta chiarezza. Egli sottolinea ad esempio che la Città di Dio si rende visibile nella Chiesa, o comunità cristiana, che esiste sulla terra. I nessi tra le due città sono profondi e le loro relazioni intime, però non si identificano del tutto: ci sono cristiani che saranno infedeli alla fede, e che pertanto, in ultima istanza, non sono pmte della Città di Dio; e viceversa, ci sono non cristiani che riceveranno la fede, e che pertanto devono essere considerati come autentici concittadini dei santi (cfr. De civitate Dei, I, 35). La distinzione è ancora più netta se ci riferiamo ai diversi imperi o società che sono esisti-

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te e che esisteranno lungo la storia. Su questo piano tutto dipende dal fine o ideale in accordo al quale si organizzano queste società temporali: se si organizzano a servizio del vero bene, cioè lamore, possono contribuire ai fini della Città di Dio; se si orientano invece al falso bene, all'egoismo, si aggregano alla Città terrena, rendendosi schiavi del diavolo. I confini tra la Città di Dio e la Città del diavolo, sono quindi netti e marcati, e risultano evidenti alla conoscenza divina, che discerne tra salvati e reprobi, sebbene, al contrario, non siano empiricamente percepibili dall'uomo. Nel suo peregrinare terreno, l'uomo deve rispettare i segreti di Dio. Ognitentativo di emettere un giudizio sulla storia che abbia la pretesa di essere, allo stesso tempo, giudizio di Dio, resta radicalmente escluso dal vescovo di Ippona, poiché le due città sono mescolate, permixtae, dall'inizio alla fine del mondo, e all'uomo non è dato conoscere le loro frontiere (cfr. De civitate Dei, XVIII, 54,2). Il rigore teologico e il senso dei limiti della nostra conoscenza presenti nella riflessione agostiniana non furono più, dopo di lui, sempre rispettati. Bisogna però riconoscere che, almeno in parte, egli stesso è responsabile di questo. In primo luogo a causa dell' oscillamento terminologico: l'espressione civitas terrena viene utilizzata a volte in senso mistico-trascendente, quando la si riferisce all'insieme di coloro che non hanno fede, ed altre volte in senso storico-culturale, quando la si riferisce alle società che si succedono lungo la storia umana. In secondo luogo perché non ha trattato in modo approfondito un aspetto del problema, vale a dire il valore proprio e la ragion d'essere delle società umane temporali(-" AUTONOMIA, Il). L'opinione di s. Agostino si può riassumere dicendo che le società si giustificano nella misura in cui riescono a ottenere una certa pace e giustizia, della quale possono beneficiarsi tutti gli uomini, buoni e cattivi indistintamente (cfr. ibidem, XIX, 26). Una tale dottrina è evidentemente incompleta; lascia in effetti al margine un'analisi accurata della finalità intrinsecamente costitutiva delle società umane, e questa lacuna includerà in potenza alcune crisi che si produrranno in seguito. Nelle epoche successive a s. Agostino troveremo due impostazioni contrapposte, che in qualche modo rompono l'equilibrio della sua posizione. Con la prima di esse, accentuando il senso del peccato che caratterizzò la dottrina teologica del vescovo di lppona, si potrà arriva-

s ·e_ come di.fatto accade in alcune formulaziopresentazioni della dottrina luterana dei "due regni" o dei. "due governi.,, - a presentare i regni o le società tem~or~li come realtà. d?~~ nate dal peccato, e, qumd1, non suscett1b1h d1 essere vivificate dal Vangelo. Questo converte il cristiano in un semplice spettatore della storia umana, alla quale in fin dei conti abbandona la sua sorte, limitandosi a testificare di fronte a lei la trascendenza del Regno di Dio. La seconda impostazione, accentuando invece l'azione vivificante del Vangelo e lasciando in secondo piano il senso della trascendenza (che invece caratterizzò profondamente Agostino), può far sfociare in una "idealizzazione" di imperi o di società concrete, vedendo in esse una realizzazione sufficientemente completa, anche se non piena, del Vangelo, e pertanto esemplare o paradigmatica. Sorge cos} quello che si potrebbe qualificare come «ideale di cristianità», nel quale possono rientrare, anche se provengono da un orizzonte intellettuale molto diverso e pertanto con accenti non nostalgici ma futuristi e utopici, i filoni che confluiscono in Gioacchino da Fiore (1130 ca.-1202) e la sua considerazione della storia come processo aperto ad un'età futura in cui lo Spirito realizzerà il Vangelo in pienezza. Queste due impostazioni contrapposte non esauriscono ovviamente il panorama della riflessione storico-teologica post-agostiniana. La tradizione di maggior rilievo è costituita infatti da coloro che, dall'epoca medievale fino ai nostri giorni, situandosi più o meno direttamente all'interno della cornice delineata da s. Agostino, si sforzano di colmare il vuoto intellettuale a cui alludevamo, e quindi di porre in evidenza il valore delle realtà terrene e di quanto in esse viene realizzato. Non sembra necessario descrivere qui nei particolari tale processo. Basti menzionare alcune delle sue tappe più rappresentative: l'opera dei grandi maestri medievali, in particolare quella di(""') Tommaso d'Aquino (1224-1274), con la sua analisi sulla tendenza naturale alla sociabilità; le discussioni sull'origine e i limiti del potere che ebbero luogo agli inizi dell'Età Moderna, e nella quale giocarono un ruolo decisivo diversi rappresentanti della scuola di Salamanca; i moti provocati dalla Rivoluzione '.rancese e la sparizione dcll' ancien régime, con tl conseguente dibattito sul valore delle forme politiche passate e, più ampiamente, sulla mu\ 0 Il

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tabilità delle successive incarnazioni dell'ideale cristiano. Alla base di tutti questi scritti e dibattiti soggiacciono impostazioni e valutazioni rispetto alla possibilità e ai limiti di un giudizio teologico sulla storia. Tuttavia nessuno di essi sfociò in una riflessione approfondita sulla natura e le caratteristiche di una "teologia della storia", cosa che sarà invece oggetto di ampia considerazione lungo il XX secolo. Un bilancio riassuntivo delle diverse posizioni può trovarsi nelle opere di Congar (1966) e di Pozo (1986); sono pure significative in proposito le riflessioni più recenti di autori come W. Pannenberg e E. Ji.ingel. A modo di sintesi va segnalato che, al di là delle impostazioni particolari, la riflessione teologica contemporanea sul valore e il senso della storia trova le sue coordinate di fondo in quattro affermazioni fondamentali: a) la trascendenza assoluta della consumazione escatologica, che implicando la donazione piena e senza limiti di Dio all'uomo, supera ogni precedente e ogni preparazione; b) la continuità tra il tempo e l'escatologia. Se è vero infatti che il dono divino trascende ogni preparazione, non è meno certo che Dio si comunica a un'umanità che è stata costituita storicamente e che conserva le impronte del suo dispiegarsi e procedere nel tempo anche quando confluisce nell'eternità; c) il valore del1' accadere temporale e delle società e realizzazioni che ne scandiscono il dispiegamento in quanto momenti e realtà in cui il soggetto umano si realizza come persona e come essere chiamato alla comunione; infine, d) la limitazione e apertura verso il futuro di tutte le realizzazioni storiche, nessuna delle quali esaurisce la ricchezza dell'essere umano e tantomeno di Dio. Impegno e distacco, spinta all'azione ecoscienza del limite, valorizzazione del presente e disponibilità al futuro, intrecciandosi fra loro, contribuiscono cosl a configurare l'attitudine cristiana di fronte alla storia.

III. Dalla teologia della storia alla filosofia della storia Una delle personalità più rappresentative nella Francia del XVII secolo è quella di JacquesBénigne Bossuet (1627-1704). La sua comprensione della storia si muove innegabilmente nel contesto di quell'ideale di cristianità al quale abbiamo già accennato. Egli dedicò uno dei

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suoi scritti più importanti, il Discours sur l'historie universelle (1681) a difenedere la nozione cristiana di Provvidenza (;r CREAZIONE, IV.3) di fronte alle critiche degli intellettuali "libertini" della sua epoca ("' PASCAL, I.2), precursori del razionalismo dell'Enciclopedia ("' ENCICLOPEDISMO). Animato da una forte preoccupazione apologetica, egli non si limitò a una riflessione teologica al riguardo, ma si propose di mostrare che è possibile intravedere, analizzando i cambiamenti storici, lo sviluppo del disegno di Dio. In numerosi testi, sia nel Discours che in altre sue opere, appare la pretesa di determinare le ragioni per cui Dio ha permesso o voluto una serie di fatti: perché è nato l'Islam, perché Dio ha voluto· che i regni di Francia e di Gran Bretagna restassero separati dopo la guerra dei cento anni, ecc. Dilthey aveva già segnalato che il modo di concepire la storia proprio di Bossuet conteneva un principio di secolarizzazione: l'assoluto risulta infatti proiettato nel relativo e il trascendente nell'empirico (Introduzione alle scienze dello spirito, 1883). Ampliando questa considerazione Karl Lowith (1897-1973), nel suo saggio Il significato e il fine della storia (1949) sostenne che l'apparizione del termine e della realtà di una filosofia della storia si spiega come conseguenza della secolarizzazione delle impostazioni cristiane. Ma quest'ultima affermazione deve essere sfumata: si può trovare in verità una concezione di filosofia della storia anche in precedenza. È un dato di fatto però che l'opera che introdusse l'espressione "filosofia della storia" e che costituisce il punto di partenza di questo modo di pensare nell'epoca moderna, il Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni pubblicato da Voltaire nel 1756, è un deciso intento di replica al Discours di Bossuet. Esso promuove una spiegazione della storia umana in cui non ci si limita a evitare il ricorso alla Provvidenza, così come concepita dalla fede cristiana, ma la si rifiuta esplicitamente. Al di là di quelle che possono essere questioni meramente erudite o accidentali, ciò che importa notare è che la "filosofia della storia", così come coltivata nel periodo illuministico - a cominciare dall'opera di Voltaire si moltiplicarono infatti i saggi in questa medesima linea aspira a rendere suo, anche se secolarizzandolo, quello che costituiva fino a quel momento una esclusiva del pensiero cristiano: l'affermazione di un "fine" della storia. Essa quindi, oltre a dif-

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ferenziarsi dalla teologia, in quanto cerca ora di sviluppare una riflessione che ponga come punto di partenza l'esperienza e non più la fede, si appropria dei contenuti propriamente cristiani e li secolarizza. La meta della storia non si colloca più in una realtà metastorica (il Regno dei Cieli) ma in una realtà intrastorica, concepita e presentata come vertice a cui tende l'insieme dell'accadere sociale, politico, culturale. Questa realtà - e su questo punto i pensatori illuministi coincidono - non è diversa dal ("') progresso inteso come processo verso la pienezza umana. La storia dell'umanità è concepita quindi come il succedersi di generazioni che, attraverso successi e insuccessi, gioie e dolori, hanno reso possibile uno sviluppo costante che in questo momento, nel secolo dei lumi, sta arrivando alla tappa della maturità. Alcuni autori, fra i quali G.E. Lessing (1729-1781) posero l'accento sul "progredire" in quanto tale: concepirono il progresso come un processo indefinito e videro in questo incessante aprirsi di mete sempre nuove il fondamento della felicità e della gioia di vivere. Altri - tra essi rientrerebbe il Kant delle Idee di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784) e Per la pace perpetua (1795)del progresso sognarono invece l'arrivo di un compimento e di una pienezza definitiva. Di speciale importanza è inoltre la distinzione tra la visione idealista e quella positivista, distinzione che riguarda rion solo attitudini o speranze, ma anche l'interpretazione della sostanza dello sviluppo storico. Entrambe le posizioni postulano uno stato futuro di pienezza quale orizzonte della storia, ma divergono invece nella considerazione di ciò che in effetti si raggiunge: lo sviluppo delle scienze e del sapere per il("') positivismo, la presa di coscienza della propria finitezza da parte dell'uomo per l'("') idealismo. In questo panorama intellettuale Hegel (1770-1831) occupa un luogo di speciale rilievo: la sua opera rappresenta infatti l'apice dello sforzo per ottenere una identificazione del reale con il razionale e pervenire quindi a una filosofia che dia ragione non solo del fondamento dell'essere, ma di ogni particolare del suo dispiegarsi nella storia. Marx (1818-1883), in coerenza con la sua comprensione della filosofia come sapere pratico (fino ad allora i filosofi si sarebbero accontentati di pensare la storia: adesso diviene invece necessario costruirla), e

s ensando di aver riconosciuto la chiave erme-

~eutica dell'a~cadere ne!l'intrecciarsi di fil?~o­ fia e sociologia economica, trasformò la v1s10ne hegeliana in un progetto rivoluzionario, che si realizzerà poi nell'avventura sovietica. La seconda metà del secolo XIX e la prima metà del XX presenziano tuttavia alla crisi di tutte queste impostazioni. In una prospettiva intellettuale e accademica, diversi filosofi, tra i quali risaltano Wilhelm Dilthey e Sj11ren Kierkegaard (1813-1855), criticarono le basi teoriche dell'impresa hegeliana. Due guerre mondiali, l'amara esperienza della filosofia della storia - in particolare quella marxista - convertite in copertura ideologica di governi dittatoriali, la globalizzazione della cultura che metteva in luce il limite dell'orizzonte del pensiero illuminista, il succedersi di crisi economiche e politiche, contribuirono a minare, con un duro confronto con i fatti, la fede in un progresso inteso come meta ineludibile, e soprattutto a diffondere dubbio e prevenzione nei confronti ai "grandi narrazioni" di stile hegeliano (.W PROGRESSO, Il e IV). Il tentativo di rilanciarne le istanze, realizzato da alcuni pensatori posteriori, non andò oltre il successo del momento. In questo contesto non risulta sorprendente la tendenza a rifugiarsi in un pensiero debole, che non solo rinuncia alle grandi costruzioni idealiste, ma anche al1' affermazione di qualsiasi ideale o valore per accontentarsi del mero vivere. Questa non sembra però essere una soluzione convincente. La crisi di una certa filosofia della storia non implica la crisi della fi\osofia in quanto tale. L'uomo è un essere storico, un essere che non solo vive nel presente, ma si interroga sul futuro e dirige il suo sguardo verso il passato per cercare di comprenderlo, e così comprendere se stesso. La riflessione filosofica sulla storia costituisce una necessità antropologica, anche se - e questa è la lezione che fornisce l'itinerario intellettuale qui analizzato - deve avere una messa a fuoco non scientista ma sapienziale (-"UMANESIMO SCIENTIFICO). La ragione umana può percepire la connessione tra fatti e processi storici e giungere ad esplicitare la presenza di fattori costanti e di leggi, ma non può, né deve, aspirare a formulare una legge capace di svelare completamente il senso dell'accadere, ed il senso di tutti ed ognuno degli istanti e dei processi che lo integrano. E questo per la semplice ragione che una tale

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legge non esiste. L'accadere non è il risultato del dispiegarsi di una legge impersonale ed immanente, ma il frutto del gioco delle libertà. La meta a cui aspira l'essere umano, e dalla quale pertanto dipende in ultima istanza il senso della sua vita, non è costituita meramente dal benessere o dal mero vivere, ma da una pienezza che si apre verso orizzonti che trascendono completamente l'accadere storico-culturale.

IV. Osservazioni conclusive In uno dei suoi saggi sulla storia (Uher das Ende der Zeit, 1950), il filosofo Josef Pieper (1904-1998) ha messo in evidenza che la domanda sulla fine dei tempi - intendendo con questa espressione l'interrogativo su un eventuale stato finale o culminante dell'umanità non era una domanda filosofica, ma teologica: essa non può avere risposta dall'interno della storia, ma solo in Dio. Solo Egli, situato al di là della storia, può ergersi su di essa e coglierla nella sua integrità. In altre parole, si può parlare di una "tappa finale dei tempi" solo nell'eventualità di una Rivelazione. Ma d'altro canto, in realtà, .tale rivelazione non esiste. I testi della Sacra Scrittura che compongono la letteratura apocalittica parlano certamente di segni della fine dei tempi, ma la loro intenzione, la loro finalità, non è certo quella di soddisfare la curiosità del momento o indagare sui pruticolari dello stato finale (curiosità peraltro escluse espressamente da Gesù Cristo, cfr. At 1,7), bensì quella di rìlevare la grandiosità e la trascendenza della pienezza del dono che, al termine della storia, Dio farà di Se stesso, nonché la finalità, con tale aspettativa, di suscitare nell'uomo attitudini di fede, di amore e di speranza (sul rapporto fra verità e storia, ;r IDEALISMO, VI.3). Questa considerazione si riflette nella trama dell'accadere. A motivo di ciò, possiamo chiudere queste riflessioni riprendendo una conclusione che abbiamo formulato, con riferimento esplicito alla teologia della storia, in un precedente scritto, ma che possiamo facilmente applicare anche alla filosofia: «Il nucleo del problema della Teologia della storia, e pertanto la chiave per lo sviluppo futuro di una riflessione teologica sulla storia - scrivevamo in quella sede - sta nel separare due questioni che storicamente si tendeva a confondere: che senso ha il tempo nel suo insieme? e, che senso hanno i

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singoli avvenimenti? [ ... ] Il problema fondamentale risiede nel determinare se la finalità di una Teologia della storia consiste nell'abbozzare una visione che anticipa il futuro, e quindi pretende rivelare il senso degli avvenimenti; o se, al contrario, il suo obiettivo debba essere quello di situare il cristiano davanti al tempo e alle diverse situazioni che l'accadere prepara in modo che assuma in ogni momento l'atteggiamento consono alla sua vocazione e missione divine» (Illanes, 1997, p. 41). La nostra posizione era e continua a essere la seconda. Filosofia e teologia, situate nella realtà della storia, possono e devono porsi la questione del senso, così come devono interrogarsi sulla natura del vivere sociale e dei fattori che li costituiscono e che pertanto condizionano e a volte ne determinano il dispiegamento. Ma devono essere consapevoli dei propri limiti epistemologici e, in ultima analisi, del limite esistenziale dell'essere umano. Quest'ultimo, situato in un (-") universo e in una storia, li penetra con la sua intelligenza senza però esaurirli, e sperimenta così la necessità di aprirsi a un mistero che attraverso l'universo e la storia costantemente lo interpella. Tutto questo senza dimenticare che, rispetto al tentativo di situare l'uomo davanti a un presente che presuppone il passato e apre al futuro, né la filosofia né la teologia possono prescindere dal sapere storico concreto. Riflessione a partire dall'esperienza, meditazione a partire dalla parola della Rivelazione e impegno per ricostruire in modo critico e scientifico la figura del passato, sono tutte realtà che si completano e richiamano reciprocamente. JOSÉ LUIS lLLANES

Vedi: CREAZIONE; ERMENEUTICA; EVOLUZIONE; PROGRESSO; TEMPO.

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Gaudium et spes, 5, 23, 33, 39, 54, 57; Apostolicam actuositatem, 7; Populorum progressio, 42, 48, 65; Redemptor hominis, 15-16; Laborem exercens, 1-3, 4-6, 24-25; Sollicitudo rei socialis, 15, 27, 29, 46; Ex corde Ecclesiae, 7; Centesimus annus, 4, 17, 24, 31-33, 36-38, 50-51; Fides et ratio, 46. Giovanni Paolo Il: Discorso agli scienziati e agli studenti nella Cattedrale di Colonia, Colonia 15.11.1980, Insegnamenti JJI,2 (1980), pp. 1200-1211; Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 29.10.1990, Insegnamenti Xlll,2 (1990), pp. 961-967.

I. Terminologia e stato del problema - IL Tecnologia: interpretazioni e valutazioni III. La tecnica nelle varie epoche storiche IV. La critica umanistica e filosofica: utopie e futurologie - V. Prospettiva antropologica e umanistica - VI. Per una nuova cultura tecnologica - VII. Tecnicità originaria e speranza teologale - VIII. Lavoro e tecnica nella Rivelazione - IX. Progettualità, speranza e suoi impegni - X. Sintesi conclusiva. I. Terminologia e stato del problema La tecnica è nata con l'uomo. Il termine, nel tempo, ha avuto numerosi significati, indicando: regole e metodi pratici che presiedono a un'arte, professioni, mestieri, attività intellettuali, sportive ecc.; attività pratiche basate su norme acquisite con l'esperienza, nelle varie epoche ed aree; procedimenti per lavorare i mate-

riali o produrre oggetti. In senso più generale e culturale, il termine «tecnica» indica le forme di attività che producono i mezzi volti a migliorare le condizioni di vita e del lavoro. Pure il termine «tecnologia» ha diversi significati: studio degli strumenti per risolvere problemi pratici; ottimizzazione delle procedure, scelte e decisioni strategiche volte a raggiungere dati obiettivi; insieme di elaborazioni teoriche e sistematiche volte a pianificare e razionalizzare gli interventi produttivi; analisi scientifica delle tecniche più progredite in un dato settore di ricerca o produzione; conoscenze della natura costitutiva dei materiali e dei loro usi e impieghi ecc. Con riguardo a realtà come impianti, oggetti, cose, oggi si preferisce parlare di «sistemi». Per «sistema tecnologico» s'intende: in senso generale, un insieme di elementi umani, concettuali e materiali, coordinati fra loro per formare un complesso organico funzionale soggetto a proprie regole; in senso particolare, un insieme di elementi coordinati, secondo determinati metodi, per attuare certe operazioni. Per «cultura tecnologica» s'intende l'insieme di idee, sentimenti, stili di vita, atteggiamenti e comportamenti che caratterizzano le socioculture tecnologizzate. In questo senso, cultura «tecnologica» e «tecnoscientifica» sono sinonimi. Solitamente, affermazioni e valutazioni rivolte alla tecnologia riguardano, invece, la cultura tecnologica. Tutto ciò provoca frequenti equivoci e imprecisioni. Cercheremo, quindi, di distinguere, senza separarli, questi diversi aspetti. L'analisi delle culture tecnologiche rimane, comunque, difficile, perché le realtà e gli sviluppi tecnologici sono legati a situazioni complesse, sempre nuove, che coinvolgono numerosi elementi: condizioni storiche, culturali e sociali, precomprensioni filosofiche, pregiudizi ideologici, interessi economici, politici e di ogni genere ecc. Qui approfondiremo gli aspetti più significativi per il nostro tema, vale a di-

Tecnologia re la tecnologia e la cultura tecnologica, nel rapporto fra scienza e fede. È indispensabile considerare insieme scienze e tecnica, perché esse si possono distinguere ma non separare. Insieme sollevano complessi problemi sia all'Occidente che alle altre aree del mondo. Riguardo alle relazioni fra tecnologia e «scienza», s'intende quest'ultima come attività umana che indaga cause, leggi ed effetti di determinati fenomeni, mediante elaborazioni teoriche e verifiche sperimentali. Essa, però, è implicita nella tecnologia che è, insieme, scienza tecnica e scienza della tecnica e, attualmente, si caratterizza per tre elementi specifici: a) sistemi sempre più vasti e complessi; b) crescente potenziale energetico; e) aumento di efficienza operativa. Inoltre vanno rilevati i suoi tre caratteri di: progettualità, materialità, permanenza strutturale. Questi elementi e caratteri, in buona parte la differenziano dalla scienza. La rendono molto affine, invece, le procedure razionali: definire i problemi in termini empiricamente controllabili; analizzare rigorosamente le condizioni per le loro soluzioni; elaborare strategie necessarie per attuare tali condizioni; coordinare le conoscenze, per farne efficaci strumenti strategici (cfr. Agazzi, 1985, pp. 15-16). La tecnologia, quindi, è pure un ambito di realtà e specifiche scienze progettuali (ingegneria), volte a trasformare le situazioni esistenti in situazioni desiderate (cfr. Simon, 1973, p. 79). Ciò significa che non è esatto ridurla a pura applicazione delle conoscenze scientifiche (scienza applicata). Infatti è coerente fino in fondo con l'ideale moderno della scienza, che non era contemplativo ma pratico: conoscere l'operare della natura, per imitarla, riprodurla e correggerla; dominare le leggi che "fanno" le cose per produrre cose nuove (cfr. Heidegger, Il problema della cosa, 1962; H. Volkmann-Schluck, Einfuhrung in das philosophische Denken, Frankfurt a.M. 1965). Le scienze definite "pure" sono anch'esse intrinsecamente tecnologiche, in quanto le loro osservazioni, misurazioni, calcoli ed esperimenti esigono strumenti capaci di produrre anche artificialmente i fenomeni da osservare e misurare e con cui verificare ipotesi e teorie. La cultura moderna, quindi, è caratterizzata da una scienza divenuta tecnica e una tecnica divenuta scienza (tecnologia). Uomo scientifico e tecnologico collaborano strettamente fino a unirsi. Vide bene, quindi, ·Heidegger definendo la tecnica, non una pura applicazione dei risulta-

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ti scientifici, ma la forma della scienza che traduce il pensiero da teoretico a produttivo. Pure gli storici hanno dimostrato che l'idea di scienza pura non esisteva in passato ma è una creazione recente (cfr. Jacob, 1992, p. 163). Una buona cultura tecnologica, quindi, deve riconoscere che l'uomo inventò tecniche e scienze, per varie ragioni: soddisfare necessità primarie; produrre tecnologie complesse in funzione della complessificazione delle sue esigenze; creare sistemi tecnologici per liberarsi dalle urgenze naturali o biologiche e dedicarsi a compiti più umani ed esigenze più spirituali e culturali.

Il. Tecnologia: interpretazioni e valutazioni Della tecnologia si danno molte interpretazioni e valutazioni, in positivo e negativo; ne esamineremo qui solo alcune più significative (umanistico-antropologica, bio-sistemica, sociale, evoluzionista). L'interpretazione «umanistico-antropologica» considera la tecnica rivelativa, poiché la sua progettualità mostra i limiti, le insoddisfazioni e gli inappagamenti da superare. Intuisce, quindi, un mondo differente e una vita diversa, più appropriati all'uomo, di cui svela le capacità interiori, cognitive e creative. Svela pure le intime esigenze di trascendenza, liberazione, salvezza e speranza, che fondano l'esperienza umana, denunciandone la natura spirituale e l'esigenza di un totalmente e radicalmente Altro. Anche l'enciclica Veritatis splendor (1993) esordisce sottolineando che: «lo sviluppo della scienza e della tecnica, splendida testimonianza delle capacità, dell'intelligenza e della tenacia degli uomini, non dispensa l'umanità dagli interrogativi religiosi ultimi, ma piuttosto la stimola ad affrontare le lotte più dolorose e decisive, quelle del cuore e della coscienza morale» (n. 1). La concezione umanistico-antropologica evidenzia, quindi, che un valido discorso sulla tecnologia non può limitarsi ai rappotti, dipendenze e priorità con scienze, economia e produzione. Esso va inserito in un ampio contesto umanistico e socioculturale, che riguardi pure la liberazione del1' uomo dai limiti e condizionamenti della sua materialità. È, quindi, decisivo riflettere sul significato antropologico della "tecnicità originaria" dell'uomo, aperta alla "progettualità" e alla "speranza". Il «principio speranza» sottolineato da E. Bloch, prova l'esigenza di un urna-

1' nesimo tecnologie.o, ape~to alla rifl~ssione fil~­ sofi~a. antropologica, etica e teologica (cfr'. G~­ smondi, 1995, pp. 6-7, 150-151). Apre, qumdi, un discorso sui fini, i significati fondamentali e i valori culturali globali, che superano il puro ambito tecnoscientifico (cfr. Gismondi, 1993a, PP· 243-245; 1995, pp. 20-22). A differenza dell'interpretazione umanistica della tecnologia, le altre non sono esenti da proiezioni mitologiche e pregiudiziali ideologiche. Accenneremo solo alle principali, senza soffermarci sui dettagli. Iniziamo dall'interpretazione «bio-sistemica» o «bio-naturalistica», che vede nella tecnologia la sistematica estensione delle capacità biologiche umane, per mezzo di artefatti che riducono la dipendenza diretta dall'ambiente. Essa chiama «biosoma» il sistema unitario di persone, società, macchine, congegni e attività che costituisce il prolungamento socio-biologico dell'uomo. In breve, lo sviluppo tecnologico sarebbe un organismo biologico, che coordina società e macchine. Un'alti·a interpretazione, la «tecnologia sociale» studia le complesse relazioni fra tecnologia e società, per valutare utilità, benefici sociali, rischi e danni derivanti dalle grandi opere tecnologiche (autostrade, dighe, centrali nucleari ecc.). In particolare, s'interessa alla ripartizione dei rischi e dei costi delle nuove tecnologie, tra popolazione globale e diretti beneficiari. Analizza, quindi, le conseguenze positive (liberazione da mali e pericoli), negative (danni e pericoli nucleari, chimici e biologici) e i problemi sollevati (mutazioni nel lavoro e nelle professioni, automazione crescente, necessità di materie e fonti energetiche sempre nuovi). L'interpretazione «evoluzionista» o «neodmwinista» considera la tecnologia non come sistema singolo, ma come «popolazione di sistemi» in perenne ("") evoluzione, guidata da scopi particolari e senza fini. Gli scopi sarebbero puri meccanismi privi di valore umano, spirituale, etico e culturale. Al riguardo, una critica specifica viene da Samuelson, premio Nobel per l'economia, che ritiene metodologicamente ingiustificato e concettualmente equivoco forzare i concetti di una scienza per applicarli a un'alti·a (cfr. Samuelson, 1978, p. 82). A loro volta, gli storici obiettano che i processi tecnologici sono di natura storica e che il principio arrestare la tecnica è impossibile, continuarla è catastrofe è ideologicamente fondato su presupposti deterministi, evoluzionisti, materiali-

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sti, naturalisti e scientisti, inadeguati per lo studio dei fenomeni complessi. Inoltre, a una visione neo-darwinista della tecnologia si oppongono i seguenti dati specifici: le componenti umane e culturali dei sistemi precedono quelle puramente materiali; il ruolo-guida compete alle finalità; la complessità è irriducibile a schemi puramente deterministici e meccanicistici (pura necessità) o casuali e aleatori (puro caso). Queste prospettive, inoltre, tendono a esagerare i vantaggi e sottovalutare gli svantaggi, a non distinguere fra essere e dover essere e ad omettere il discorso sui fini (cfr. Gismondi, 1995, pp. 35-36). Le prospettive storiche, culturali e sociali, che consentono modelli nuovi capaci di tener conto della complessità, progettualità e ("")informazione, appaiono quindi, più adeguate (cfr. Gismondi, 1993a, pp. 103-123).

III. La tecnica nelle varie epoche storiche La prospettiva storica tiene conto degli atteggiamenti, impostazioni concettuali, realtà e condizioni che formano l'identità e i caratteri della tecnologia, dei sistemi e della cultura tecnologica e dai quali provengono pure tecnicismi teorici e negatività (cfr. Staudenmaier, 1983, p. 12; Giedion, 1948). Nel mondo classico antico, il disprezzo del lavoro manuale e l'abbondanza di schiavi e prigionieri ostacolò l'evolversi della tecnica e consolidò una mentalità pre-tecnica (Actis Perinetti, 1977, pp. 1176-1178). Il cristianesimo, col suo messaggio spirituale e religioso sulla dignità, libertà, fraternità ed eguaglianza, pose le basi per superare la schiavitù e lo sfruttamento dell'uomo ridotto a pura energia fisica. Nell'anno 580 Gregorio di Tours condannava l'uso dei "timpani rotanti", grandi ruote mosse dalle persone, per produrre energia umana, favorendo il diffondersi dei mulini ad acqua e a vento. Nel Medioevo la("") teologia sviluppò ulteriormente i concetti di natura come (""') creazione, ambiente del Logos e "vestigia" di Dio (cfr. Summa theologiae, I-II, q. 105; s. Bonaventura: Determinationes quaestionum, pars I, q. 11, Opera Omnia (Quaracchi), voi. VIII; De perfectione evangelica, q. 2, a. 2, ibidem, voi. V; Sermones de Verbo Incarnato, V, ibidem, voi. IX). La morale si oppose sempre più allo sfruttamento dell'"energia umana" tanto che, nel secolo XII, furono inventati pure congegni mossi dalle maree. L'in-

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gegno umano costruiva i timoni e le bussole per le navi e, nel secolo XIII, gli orologi meccanici. Quando la stampa diffuse i libri, artigiani e tecnici poterono perfezionare le loro conoscenze, migliorando le tecniche metallurgiche (forni) e per la produzione della ghisa. Nuove esigenze, sempre più complesse e diverse, richiedevano nuovi sviluppi tecnici. Tuttavia, le innovazioni medievali, per quanto numerose e importanti, rimasero a livello della tecnica, senza divenire scienza o tecno-logia. Fu il Rinascimento ad aprire il periodo faustiano della tecnica, all'insegna del baconiano scientia et potentia in unum coincidunt (conoscenza e potere coincidono), o della scienza non contemplati va ma dominativa (Francesco Bacone, Nova Atlantis, I, 27). Il sapere come potere doveva condurre al paradiso tecnologico, dotato di tutte le invenzioni (cfr. Farrington, 1976). ("")Cartesio proponeva di tralasciare gli aspetti teorici, per attuare una scienza utile al dominio della natura e alla vita migliore. Il sapere passava da "disinteressato" a "utile", contrapponendo lanatura manipolabile dall'uomo alla creazione biblico-cristiana e ai fini stabiliti da Dio ("" AuTONOMIA, III; NATURA, VI-VII). Lo spirito "prometeico" ispirava la cultura tecnologica moderna e preparava i giganteschi sistemi volti a costruire il mondo di un uomo dominatore dell'universo. Scienze esatte, naturali e tecniche stringevano rapporti sempre più stretti. L'ingegno tecnologico si espandeva, favorito da più condizioni: riscoperta della scienza greca, fermenti intellettuali e sociali, accumulo di ingenti risorse finanziarie, sorgere di società e banche ecc. Nasceva il dominio pratico sulla natura, mediante la razionalità tecnologica. La scienza, per operare, esigeva strumenti e apparecchi sempre più potenti e complessi: pendoli, orologi, telescopi, cannocchiali, microscopi, ecc. Nel 1776 le macchine a vapore rendevano l'uomo indipendente dalle energie naturali (venti e acque), dando un decisivo impulso alla tecnologia. Iniziava lindustria che "meccanizzava" il lavoro e la produzione (rivoluzione industriale). Occorreva produrre e accumulare energie per sempre nuovi progetti. Bisognava passare dalle singole operazioni tecniche ai grandi sistemi tecnologici (cfr. Ellul, Tecnica, 1984, p. 334). Il passo successivo sarebbero state le macchine prodotte e gestite da altre macchine (automazione) (cfr. Spengler, 1980, p. 136; Abbagnano, 1980, p. 860). Nel se-

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colo XX, questa eccezionale crescita, le idee che l'avevano accompagnata e le conseguenze che essa aveva provocato, furono sottoposte a una riflessione sistematica. Alcuni prevedevano miglioramenti radicali delle condizioni di lavoro, la fine dei suoi aspetti meno gratificanti e la riduzione della fatica. Altri vedevano nel ("") progresso tecnologico un perfezionamento delle persone. Le critiche, invece, sottolineavano la rottura dell'antica alleanza fra uomo, tecnica e natura operata dalla tecnologia moderna. Il problema era lo sfruttamento e distruzione della natura, legato ai progetti scientifici, tecnologici c industriali (cfr. von Weiszacker, 1977, p. 64). Questi brevi cenni storici, mostrano le numerose variazioni della tecnica e delle sue comprensioni, nelle diverse epoche e culture. L'uomo l'adibì sempre, senza rigidi schemi teorici, alle proprie esigenze, non solo materiali. Se ne servì per sopravvivere, migliorare la propria vita e persona, perlezionare il mondo e aumentare il senso, significato, valore e bellezza delle cose. I suoi usi migliori sembrano collegati a una concezione della natura, come creazione da rispettare e amare. Al contrario, le visioni scientiste, razionaliste, positiviste, dell'assoluta autonomia della ragione, della razionalità come dominio e della manipolazione della natura, instaurarono le ideologie di una tecnologia onnipotente e onnicomprensiva (..., RAGIONE, III). Oggi si riscopre la storicità e contingenza delle sue molte forme. Ciò significa che quelle vigenti potrebbero essere sostituite da altre e scomparire del tutto, mentre altre sono possibili. Esse, a loro volta, dipendono da scelte di fondo, che possono porre il senso della tecnologia e delle culture tecnologiche nelle cose materiali o nei significati spirituali, ossia scelte profonde riguardanti la vita, la società, la cultura e il futuro. Poiché esse riguardano il futuro, sollevano il problema delle speranze e delle utopie, della liberazione e della salvezza, ossia nei grandi beni e valori in cui l'uomo intende, o meno, credere e impegnarsi (cfr. Ex corde Ecclesiae, 7; Gismondi, 1995, p. 59).

IV. La critica umanistica e filosofica: utopie e futurologie Riguardo al futuro, il secolo XX ha sviluppato una "futurologia scientifica" che, dapprima, cercò di capire il futuro per orientare il pre-

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sente. Non riuscendovi, cercò di capire il presente per anticipare il futuro, ma con nuovi insuccessi (cfr. De Jouvenel, 1972; Jungk, 1975; Gismondi, 1976; De Rougemont, 1979). L'ultimo tentativo, l'analisi dei contenuti (conteni analysis), si basava sull'analisi dello spazio riservato a certi argomenti, su certe pubblicazioni, in certi tempi (cfr. Naisbitt, 1990). Anch'esso, dopo esit~ inc.er~i fu .abbandon.ato,. poic~é le transiziom sociah aggmngono ai problenu tecnologici ed economici quelli assai più complessi e imprevedibili di gruppi e persone, poco rispondenti ad enunciat! g~nerici. I li~~ti de·ll·o "strategismo tecnocratico stanno nell 1dentificare erroneamente il progresso tecnologico con quello umano e sociale. Esso assume, quindi, come indici: l'ampliamento dell'attività economica; l'aumento dei posti-lavoro e della domanda di prodotti industriali; le produzioni e consumi di massa; l'aumento di produttività e dei salari; l'eliminazione dei lavori pesanti e insalubri e degli eccessivi orari di lavoro (cfr. Noble, 1993, pp. 10-13). Si tratta di elementi che solo in parte sono significativi e, comunque, che restano soggetti a errori d'interpretazione derivanti dalle chiavi di lettura. Nell'era della mobilità mondiale degli investimenti e delle produzioni sempre più automatizzate, in cui la competizione fra aziende e la produttività non garantiscono la prosperità sociale né la sicurezza del lavoro, quella del "progressismo tecnologico lineare" è ormai un vecchio residuo scientista e le letture "economiciste" sono poco attendibili. La presunta "catena della prosperità", infatti, che doveva legare gli investimenti alle innovazioni, le innovazioni alla produttività, la produttività alla competitività e la competitività alla prosperità e al benessere sociale si è rivelata illusoria. La realtà è data piuttosto da disoccupazione strutturale, destabilizzazione sociale, erosione di capacità professionali (competenza, creatività, elasticità e versatilità produttiva ecc.). Occorre, pertanto, capovolgere questa impostazione, assumendo come costanti anziché variabili: piena occupazione, comunità stabili, infrastrutture solide, integrità ambientale e regionale, sanità decente, istruzione efficace. La "democrazia economica" reale, per quanto difficile da realizzarsi, appare l'unica alternativa. Queste critiche riguardano la cultura delle società tecn?logiche più che la tecnologia. Occorre, quindi, porre la persona come valore culturale prioritario e la qualità della vita come elemento cui

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subordinare gli altri: competitività, produttività, innovazioni, rendimenti ecc. (cfr. Noble, 1993, pp. 169-170). Leggiamo nella Centesimus annus: «è necessario lasciarsi guidare da un'immagine integrale dell'uomo, che rispetti tutte le dimensioni del suo essere e subordini quelle materiali e istintive a quelle interiori e spirituali» per cui «l'obbedienza alla verità su Dio e sull'uomo è la condizione prima della libertà, consentendogli di ordinare i propri bisogni, i desideri e le modalità del loro soddisfacimento secondo una giusta gerarchia» (n. 41). Pure la sociologia conferma quest'impostazione, criticando i pregiudizi per cui le innovazioni tecnologiche, da sole e necessariamente, darebbero luogo a tipi nuovi e migliori di società (ad es. le società informatiche), mediante un'evoluzione naturale di tipo quasi-organico e un continuo sviluppo evolutivo omogeneo. Propone pure che le scelte prioritarie per le tecnologie siano basate sui valori umani e sociali, scelti in modo democratico (cfr. Lyon, 1988, p. 226). La "idolatria del silicio", ossia la razionalità matematica computerizzata, alterando le essenziali capacità spirituali, etiche, culturali e sociali delle persone, può essere anch'essa disumanizzante (cfr. Shallis, 1984, p. 169). Scientismo e tecnicismo propongono le società informatiche come soluzione per il futuro dell'umanità. Le scienze umano-sociali le denunciano come minaccia. Centesimus annus sottolinea che la soluzione dei problemi più gravi non è mai puramente economica, giuridica o strutturale, ma umana ed etico-religiosa, poiché esige cambiamenti di mentalità, di comportamento e di valori (cfr. n. 60).

V. Prospettiva antropologica e umanistica In linea con quanto ricordato da Gaudium et spes, che valuta con equilibrio gli aspetti positivi e negativi della tecnologia, il pensiero cristiano privilegia gli approcci antropologici, umanistici e culturali. Il citato documento del Concilio Vaticano II riconosce che la tecnologia apre nuove vie, contribuisce a migliorare la vita e diffonde la cultura; sottolinea, tuttavia, che non sempre essa persegue veri valori umani. L'equilibrio fra lo sviluppo tecno-scientifico e tali valori, quindi, è uno dei compiti più urgenti nelle attuali culture tecnologiche. Scienze e tecnica possono migliorare società e culture, far

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conoscere meglio la natura e trasformarla. La ricerca scientifica e le trasformazioni tecniche possono consentire una miglior convivenza sociale e maggior responsabilità. Tuttavia, esse provocano pure ("') agnosticismo, perdita della trascendenza e illusioni di autosufficienza (cfr. Gaudium et spes, 54, 56-57; cfr. Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 29.10.1990, n. 6). In realtà la "raffinata razionalità" delle culture tecnologiche ha pure diffuso illusioni fideiste e utopie miracolistiche quali: guarigione di tutte le malattie, viaggi intergalattici, governo mondiale dei saggi (tecnici), previsione e controllo pe1fetto del futuro, fine di fatiche c disagi, vittoria su vecchiaia e ("') morte. Invece di questi beni illusori, si sono verificati dei mali reali: disastri nucleari, biologici e chimici; catastrofi ambientali; i rischi legati all'effetto serra e ai buchi nell'ozono ecc. Essi hanno prodotto nell'opinione pubblica delusioni e angoscia uniti al timore d'inquinamenti irreversibili e mortali, esaurimento delle risorse, che hanno attirato su scienze e tecnologie le accuse di "raffinata irrazionalità" (cfr. Ellul, Tecnica, 1984, pp. 340-341). Inoltre, aumenta la percezione che i congegni che sottraggono all'uomo capacità ed esperienze un tempo sue lo impoveriscono e lo svuotano (tesi di Leroi-Goughan) (cfr. Cotta, 1968; Finzi, 1977). La riflessione antropologica affronta questi problemi a diversi livelli di profondità (cfr. Baudrillard, 1974). Al livello materiale, più immediato, mostra che una crescita incondizionata dei sistemi tecnologici non è ipotizzabile, dati i limiti del sistema terra e l'imprevedibilità della crescita che la biosfera può sopportare (cfr. Ellul, ibidem, pp. 348-349; Kranzberg, 1980). Al livello epistemologico e filosofico, intermedio, chiede una verifica delle idee che orientano sistemi tecnologici e innovazioni (cfr. Serrand, 1965). Al livello spirituale ed eticomorale, il più profondo, s'interroga sui fondamentali valori che devono ispirare le culture tecnologiche. I primi due livelli vanno impostati a partire dal terzo, ossia dai significati, fini e valori più profondi, per liberare la cultura tecnologica dal "tecnicismo" e restituirle significati e valori più autentici. In realtà, fino agli anni sessanta si cercava d'integrare le persone nelle socioculture tecno-scientifiche. Nei decenni 1970 e 1980 si cercò, piuttosto, di modificare le culture. Ciò dipese dalla percezione che lo sviluppo tecnico, elevato a fattore priori-

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tario o variabile indipendente, riduce le esigen. ze umane e socio-culturali a fattori secondari e variabili dipendenti (impostazione "tecnomor. fa"), rendendo uomo e società puri "derivati" tecnici (cfr. Koslowski, 1991, p. 5). Emerse pu. re che la conoscenza e l'informazione contano più della ("') materia e che le analisi storiche socio-culturali e antropologiche sono più signi~ ficative di quelle puramente naturalistiche. Pure la filosofia della cultura percepì che la tecnologia, nata da scelte e decisioni umane, è soggetta alle vicende storiche, economiche e politiche e legata a fini, scopi e interessi di parte. Cominciò, quindi, a valutarla in una prospettiva antropologica centrata sul bene comune, per capire come farne coefficiente di liberazione anziché d'imposizione. La tecnica produrrebbe ciò che non esiste se l'uomo non lo facesse apparire (cfr. Koslowski, 1991, pp. 8-10). La tecnologia, vista come svelamento, allarga il discorso ai fini, gli effetti, i significati e i valori, con importanti conseguenze euristiche ed etiche (cfr. Maldonado, 1979). La capacità di svelare mostra che la tecnica appartiene essenzialmente al mondo dello spirito, delle rappresentazioni e dell'intelletto agente (intellectus agens). Essa svela la sua autentica essenza umana e culturale, fuori della quale si svuota e snatura. Di qui l'insufficienza delle sue interpretazioni naturalistiche, materialiste, deterministe, biologiche, evoluzioniste, ecc., incapaci di comprenderne i contenuti autenticamente umani. Di qui la necessità di rendere "antropomorfe" le culture "tecnomorfe", privilegiando le espressioni della coscienza umana e le esperienze dello spirito, impenetrabili ai tecnicismi, funzionalismi e utopismi tecnocratici (cfr. Laborem exercens, 13).

VI. Per una nuova cultura tecnologica La moderna cultura europea ha considerato l'uomo come risposta alla domanda sulla ("') verità. Dimenticò, tuttavia, che egli non è ancora la verità, né tutta la verità e che questa, comunque, è sempre incommensurabile all'uomo. Le religioni avevano risposto che la verità è Dio, a costo di sminuire il valore e significato dell'uomo. La fede cristiana, invece, risponde che la verità è Dio fatto uomo, per cui i progetti culturali non possono fondarsi né sull'uomo come verità, né su una verità riferita genericamente ed esclusivamente a Dio. Occorre per-

T correre, fino in fondo, l'itinerario che va dalla cultura all'uomo, dall'uomo alla sua verità, dalla verità dell'uom~ all~ v~rità di Dio, dalla verità di Dio alla ventà di Dio fatto uomo. La validità di ogni progetto culturale, quindi, si misura confrontandolo con questo itinerario veritativo (cfr. Koslowski, 1991, pp. 276-277). Questi rilievi sull'approccio umanistico alle culture tecnologiche sono corroborati da numerosi testi del Magistero della Chiesa cattolica sulla cultura tecnoscientifica, il progresso tecnologico e i valori della coscienza: «Non esiste alcun motivo per concepire la cultura tecnicoscientifica in opposizione con il mondo della creazione di Dio. [ ... ]Ma non ci possono essere dubbi riguardo alla direzione verso cui guardare per distinguere il bene dal male. La scienza tecnica, diretta alla trasformazione del mondo, si giustifica in base al servizio che reca all'uomo e all'umanità» (Giovanni Paolo II, Discorso agli scienziati e agli studenti nella Cattedrale di Colonia, n. 4). «Lo sviluppo tecnologico caratteristico del nostro tempo soffre di un'ambivalenza di fondo: mentre da una parte consente all'uomo di prendere in mano il proprio destino, lo espone, dall'altra, alla tentazione di andare oltre i limiti di un ragionevole dominio sulla natura, mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza e integrità della persona umana» (Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti a due congressi medici, 27 .10.1980, Insegnamenti, IIl,2 (1980), p. 1007). Perciò, ancora con parole di Giovanni Paolo Il, «siamo confrontati da una grande sfida morale che consiste nell'armonizzare i valori della tecnologia, sorta dalla scienza, con i valori della coscienza» (Discorso al CERN, Ginevra, 15.6.1982, Insegnamenti, V,2 (1982), p. 2322); «bisogna mobilitare le coscienze e congiungere le forze vive della seienza e della religione per preparare i contemporanei alle sfide dello sviluppo integrale» (Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 29.10.1990, n. 7). Ciò significa che bisogna superare i limiti e difetti più gravi della cultura tecnologica, per poter recuperare i valori e significati fondamentali della tecnologia. Più esplicitamente, si tratta di: superare l'oblio dell'essere; ridimensionarne i falsi assoluti; riscoprire la "presenza nascosta" e recuperare la Trascendenza; riproporre un discors~ ~ui valori umanistici e i significati antropolog1c1 della tecnicità; rivalutare l'autentica verità dell'uomo, le esigenze etico-morali e le istanze

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di libertà. Il compito è indubbiamente difficile, ma è sollecitato da una rinascente sensibilità verso i valori più profondi, da ricondurre alla "presenza nascosta" e alla Trascendenza. Le filosofie dell'esistenza hanno manifestato la necessità di uscire dalle "gabbie di acciaio" (scientismo, razionalismo, irrazionalismo, immanentismo, nichilismo ecc.), che imprigionano il pensiero e soffocano le coscienze. E significativo che il «principio speranza» sia germogliato in un autore come Ernst Bloch (1885-1977), esponente della cultura tecnicistica più preclusiva e negatrice della Trascendenza (Das Prinzip Hoffnung, Frankfurt 1959), che nel XX secolo cercò d'imporre al mondo i suoi progetti di totale immanenza (marxismo, comunismo). L'opzione fra immanenza e Trascendenza ritorna decisiva. Un discorso sulla trascendenza può sembrare fuori luogo, per una tecnologia legata a progetti materiali immediati. Quello sulla speranza può apparire irrealistico per traguardi di produzione e urgenti necessità materiali, che esigono certezze. Se, però, colleghiamo questi progetti e traguardi al contesto di preoccupazioni del presente e angosce per il futuro, sollevate proprio dalla presenza e gestione dei colossali sistemi tecnologici attuali, i due discorsi appaiono assai meno astratti. È la realtà quotidiana di milioni di persone a reclamare e rivalutare la necessità di una speranza. Occorre, tuttavia, chiedersi sinceramente quale: le speranze limitate, esclusivamente terrene, immanenti e secolari o la speranza autentica, che esige aperture trascendenti? La differenza è sostanziale. La speranza autentica ha dimensione teologale, religiosa e metafisica. È ad essa che va orientato il discorso sulla speranza, riape110si nel cuore della cultura tecnologica moderna. A tal fine, il fallimento dei progetti tecnoscientifici utopici e rivoluzionari, totalmente immanenti, va analizzato fino in fondo. Occorre sottolineare che il principio speranza del marxista Bloch non lasciava «nessun Dio nei cieli, perché lassù proprio non c'è e non ce n'è mai stato uno» e che per «trascendere senza trascendenza[ ... ] è l'avanti che attira, perché lo si può formare, non il lassù» (Il principio speranza, Milano 1994; Ateismo nel cristianesimo, Milano 1971). Un altro marxista faceva della speranza «l'anticipazione militante dell'avvenire terreno» (cfr. R. Garaudy, Parola di uomo, Assisi 1975). Queste speranze sono svanite nel 1989. Nessuna speranza che svanisce nel tempo

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può essere vera. Come vedremo più avanti, vera speranza è solo quella che non può svanire nell'uomo, né nel mondo.

VII. Tecnicità originaria e speranza teologale È proprio il resistere a ogni vicenda storica e a ogni riduzione secolarizzante e immanentista che conferisce alla speranza il suo valore. Lévinas (1905-1995) sottolinea che l'immanentismo moderno, nel titanico sforzo di sopprimere la trascendenza, riuscl solo a negare laltro, ossia ogni essere dotato d'identità e dignità propria: l'uomo, la persona, Dio stesso. Per superare questa crisi e recuperare la speranza si deve ritornare a riconoscere e rispettare ogni altro (cfr. Lévinas, 1983, pp. 5-26). Riguardo alla natura, ciò significa la fine di ogni dominio, manipolazione e sfruttamento indiscriminato di energie e risorse. Riguardo all'uomo, significa il riconoscimento della sua verità, dignità, libertà e delle sue ineliminabili dimensioni ed esigenze spirituali, relazionali e comunionali. Riguardo a Dio, significa rivalutare integralmente l'essenziale dimensione spirituale, religiosa ed etica di persone, culture e società, che lo riconoscono Signore, Creatore e Salvatore universale. Questi riconoscimenti costituiscono gli itinerari di speranza che concordano con la saggezza antica e l'autentico umanesimo. Essi sostengono il rispetto verso 1' altro, come eguale (uomo) o come inferiore (natura), partendo dal rispetto per 1' Altro che è superiore (Dio) (cfr. Gismondi, 1993a, p. 177). Tuttavia, la speranza terrena è autentica solo per chi riconosce il limite invalicabile della finitezza umana. Tale riconoscimento, se si limita alla percezione della temporalità chiusa e disorientata, produce nichilismo, sentimento del1' assurdo e disperazione. Esso vanifica il desiderio e le spinte umane al superamento e all'apertura divenendo, come disse magistralmente Gabriel Marcel (18891973), «coscienza del tempo come prigione» (Marcel, 1967, p. 64). L'orizzonte dell'esistenza chiuso unicamente in un "al di qua" privo di trascendenza sprofonda ogni speranza nell'illusione impotente (cfr. K. Jaspers, Lafedefilosofica difronte alla rivelazione, Milano 1970, p. 724). La dimensione umanistica e la visione antropologica della tecnicità, come anelito a un mondo e a una vita diversi da quelli puramente natura-

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li, preservano da tale sprofondare. Per esse la tecnica è segno e svelamento di una condizione consona alle esigenze umane, non reperibile in nessuna delle dimensioni storiche e terrene, per quanto petfezionate e idealizzate. Il principio speranza immanente non offre nulla all'esigenza incolmabile, all'anelito spirituale, all' esigenza di liberazione dai limiti del presente, all'ansia di apertura al totalmente Altro. L'originaria tecnicità antropologica mostra che tecnica e tecnologia non escludono ma esigono una prospettiva trascendente, non rifiutano ma attendono una speranza ultraterrena che le preservi da ogni pretesa immanente di autoliberazione e autosalvezza (cfr. Gismondi, 1998b, pp. 124-126). Le speranze secolari moderne, per onestà teoretica e oggettività storica, devono riconoscere che assai prima di loro vi furono le speranze religiose e, al di sopra di tutte, la speranza teologale cristiana, le cui proposte radicali la diversificano da ogni altra. Il suo specifico irrinunciabile è l'annuncio-testimonianza della speranza che radica il tempo, dalla creazione al suo esito escatologico, nel mistero dell'Incarnazione e Redenzione di Cristo, sua base, centro e vertice (cfr. Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 8.12.1975, n. 27; Giovanni Paolo Il, Redemptoris missio, 7.12.1990, n. 44). Essa non è solo q_ualcosa per il tempo, la storia e l'"al di qua". E il dono di Qualcuno che, nel tempo e nella storia, offre il pieno compimento oltre il tempo e la storia. La speranza di Cristo e in Cristo fa del tempo e della storia molto più di una semplice attesa o apertura, rendendoli, con la sua presenza, tempo di grazia e storia di salvezza. Pertanto, la speranza cristiana è fondata nell'Assoluto che, in modo gratuito e straordinario, si dona e manifesta nel relativo, facendosi via, verità e vita e operandovi come mistero di grazia e di salvezza (cfr. Gv l, 14; 14,6). Tale mistero non contraddice l'intelligenza né la ragione, ma solo le pretese razionalistiche dell'assoluta autonomia dell'uomo. Per una ragione e intelligenza veramente umane, invece, è dono e sfida positiva, che apre ricerche, riflessioni e impegni illimitati. Senza di essa è impossibile rispondere in modo convincente alla domanda kantiana: «che cosa posso sperare?». Essa mostra alla cultura tecnologica la sua impossibilità di "significare", in modo convincente ed esaustivo, la pienezza dell'esperienza umana. Infatti, la speranza, con le sue esigenze d'intenzionalità, fini, senso e significato, trasgredisce tutti i limiti dei saperi

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contingenti e supera i confini di ogni razionalità protocollare. Spazia nell'intera esperienza personale, ove abitano l'ulteriorità e l'ultimità di domande veramente umane, che esigono solo risposte vere, nei confronti delle quali la garanzia razionale non può arrogarsi controlli onnicomprensivi, né impedire aperture. Pur giungendo e muovendosi a queste altezze, la speranza teologale non si sottrae alle esigenze della cultura tecnologica, ma le propone il recupero di un atteggiamento m~ano autentico che, unendo ~ede e ragione, sappia progettare e operare, per risolvere responsabilmente i problemi, e provvedere alle incertezze e rischi del futuro. Essa consente una vera "progettualità" tecnoscientifica, orientata a giusti fini, rispettosa dei metodi, consapevole dei mezzi e delle risorse da adibire. La sincera speranza e l'autentica progettualità non si escludono ma s'integrano a vicenda nel mobilitare le migliori capacità dell'uomo.

VIII. Lavoro e tecnica nella Rivelazione Per capire la relazione fra speranza e tecnologia occorre risalire all'autentica tecnicità originaria che la Sacra Scrittura descrive più volte, mostrandone la novità e diversità dal concetto greco-classico di téchne (cfr. Aristotele, Metafisica, XIII, 3, 1070a) ripreso, poi, dal pensiero cristiano, per esplicitare la responsabilità dell'uomo nell'universo. Nella Bibbia, la visione della tecnica trasformatrice della natura e dell'uomo prevale su quella della produzione di beni. Il Creatore chiama l'uomo, sua immagine, ad aver cura della creazione (cfr. Gen 2,15). Lavoro e abilità tecnica, prima che sostegno o adattamento dell'ambiente, vi esprimono la «cura amorosa delle cose» (cfr. Testa, 1959). La natura, intesa come creazione, invita alla ricerca, alla riflessione, a interventi rispettosi e amorosi. Nel rispetto a Dio e alle sue opere, le creature non sono oggetti o cose, ma alleate e amiche dell'uomo, che aiutano a vivere in un mondo rinnovato e trasformato dal suo ingegno. Il creato, espressione amorosa e sapiente ?el Creatore, può ricevere, senza danno, ogni mtervento umano ispirato dallo stesso amore e sapienza (cfr. Caprioli-Vaccaro, 1983). L'universo rivela un sistema di entità ordinate ragionevolmente, che l'uomo può osservare-contemplare da molti punti di vista: religioso, simbolico, estetico (cfr. Gilson, 1983, pp. 441-465). Il

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confronto fra questo quadro e la costruzione della torre di Babele mostra chiaramente l'origine e il contenuto degli abusi. Quanti si oppongono al progetto di Dio - agli inizi Adamo, più tardi i costruttori della torre - producono effetti negativi, finendo confusi e divisi dalle proprie opere (cfr. Gen 11,1-26). I mali, dunque, non derivano dalla tecnica, ma dalla stoltezza e insipienza umana. La Genesi mostra il mondo chiamato da Dio a uscire dal disordine per essere ordinato. Il tempo scandito dalla Parola non appartiene al caos né al cosmo, ma solo alla volontà di Dio che, nominandoli in giorni successivi, crea il tempo di ogni cosa fino all'ultimo giorno, tempo dell'uomo, al quale Dio affida tutte le creature e i loro tempi. L'originalità biblica emerge qui rispetto al mondo pagano di Eraclito, chiuso in se stesso e privo di progresso: «questo cosmo di fronte al quale ci troviamo e che è lo stesso per tutto e per tutti, non fu creato da un Dio né dall'uomo. Era già, è e sempre sarà. Il fuoco del suo logos divampa eternamente e si spegne di nuovo secondo tempi immutabili» (Diels-Kranz, fr. 30). Per il messaggio biblico, il rapporto fondamentale non è fra l'uomo e il mondo, ma fra Dio e l'uomo, come base del rapporto uomo-mondo. Per questo la concezione biblica della tecnica è positiva. Diversamente da quelle pagane o atee, essa evidenzia l'autentico senso umano della tecnicità. Per il Creatore, natura e universo non sono cose da sfruttare, ma creature da rispettare e custodire, con amore intelligente e intelligenza amorosa. L'annuncio biblico, quindi, sostiene le giuste esigenze della tecnologia, ma contrasta le illegittime pretese del tecnicismo. Il libro della Genesi non parla di «mondo» e «universo» ma di «cielo e terra», immagini di realtà celesti. Dopo il peccato, il mondo rimane la casa dell'uomo, ma diviene il luogo del contrasto fra male e bene. Ogni rapporto fra uomo e mondo, compreso il lavoro e la tecnica, esprime il mistero dell'iniquità e della salvezza. Secondo il messaggio contenuto nel Qoèlet e in altri testi sapienziali, la vita umana, senza Trascendenza, non produce sorprese e novità, ma solo noia, sofferenza e disperazione mortale (cfr. Alfaro, 1972). Nella pura immanenza non vi è posto per la vera speranza, che abita altrove. Nell' AT il mondo è incompiuto e va completato e perfezionato, imprimendovi il segno del Creatore. Nel NT va liberato e purificato con la grazia di Cristo e la potenza dello Spirito, per

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essere trasfigurato in vera immagine delle realtà celesti (cfr. C. Lesquivit, P. Grelot, Monde, in "Vocabulaire de théologie biblique'', Paris 1970, coll. 784-791). Il riferimento a Dio, Creatore e Signore, impedisce all'uomo ogni dominio indiscriminato o assoluto. La narrazione del libro dell'Esodo illustra gli aspetti negativi e positivi della tecnica. Quelli negativi emergono dalla schiavitù di Egitto: oppressione, dominio, sfruttamento e abbrutimento (cfr. Es 6,6). Quelli positivi appaiono nella costruzione del tempio: capolavori d'arte, d'abilità e d'ingegno che sono la gloria di Dio e dell'uomo (cfr. Es c. 35; Alfaro, 1972, pp. 40-41). Lavoro e tecnica, quindi, completando la creazione divina, migliorano l'uomo e il mondo, purché non siano ridotti a servire la grandezza, ricchezza e potere terreni. Il NT sottolinea la tecnica come prudenza evangelica. Nel Vangelo il costruttore della torre deve calcolare spese e mezzi prima di costruire (cfr. Le 14,28). Le costruzioni devono avere fondamenta solide e appropriate (cfr. Le 6,48-49). S. Paolo presenta il valore della speranza per l'universo, enfatizzandone il dinamismo, che trascina con sé la fede e la carità (cfr. JCor 13,13; Gal 5,5-6; JTes 1,2 e 5,8; Ef 1,15-18; Col l,4-4). Il suo discorso s'inserisce in un contesto di salvezza e speranza totale, per il cosmo misteriosamente trasformato (cfr. S. Lyonnet, Dieci meditazioni su San Paolo, Brescia 1966, pp. 89-90). Tutta la creazione è protesa a questa liberazione dalla vanità e corruzione, anche se il suo modo rimane misterioso (cfr. Rm 8, 19-23). Tecnicità e progettualità tecnologica partecipano a questo sforzo per edificare un mondo rinnovato e una convivenza degna dell'uomo, il cui cuore «è più grande di tutto ciò che non è Dio» (cfr. Verhoeven, 1969, pp. 183-184, 197).

IX. Progettualità, speranza e suoi impegni La speranza cristiana pone l'uomo in un dinamismo perenne verso la trascendenza assoluta, che conferisce valore alla temporalità, inserendola nell'eterno. Essa fonda pure un'etica della temporalità, che riscatta il divenire dalla banalità e insignificanza, mediante risposte non puramente concettuali, che sono vere "opere della speranza". Conferisce, quindi, particolare valore ai progelli umani, come preparazione al nuovo futuro divino per il mondo, togliendo fatalità alla storia e valorizzando le responsabili-

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tà del presente. Marcel sottolinea che la virtù della speranza impegna i singoli e tutta l'umanità (cfr. Marcel, 1970, vol. II, pp. 144-145). La speranza, come "definizione" dell'esistenza cristiana, si estende ai problemi della tecnologia, dell'economia e della(~) ecologia perché, nota s. Paolo, l'uomo è così profondamente unito alla creazione, che la sua salvezza implica quella del creato (cfr. Rm 8,19-23). Per la fede cristiana, quindi, i recenti tentativi di rilanciare la speranza, sia pur secolarizzata, al fine di sostenere le migliori energie dell'uomo, non vanno sottovalutati, come non vanno sottovalutati i fallimenti delle speranze puramente immanenti. In modi opposti testimoniano la necessità della speranza per la vita umana. Tuttavia, la speranza trascendente non è mai estranea al mondo e all'uomo, poiché esige la quotidiana traduzione in segni e impegni (opere della speranza). La speranza cristiana teologale-escatologica, quindi, discerne la storia e lorienta al futuro assoluto con opere concrete, rispondenti alle esigenze umane e alle attese culturali e storiche. La cultura tecnologica diviene, allora, un grande scenario dell'azione rinnovatrice e liberatrice della speranza cristiana. Il Concilio Vaticano II, collegando sviluppo tecnologico e rivoluzione industriale, ha cercato di illuminare il significato umano, socio• culturale e salvifico-spirituale dei problemi emergenti nelle culture tecno-scientifiche. Per la costituzione Gaudium et spes, gli sforzi per migliorare le condizioni di vita, come frutti del1' ingegno e del coraggio dell'uomo, corrispondono alle intenzioni di Dio. Sono segni del suo grande progetto. L'attività umana permette di trasformare cose e società, perfeziona e aumenta le conoscenze dell'uomo, sviluppa le sue facoltà e lo porta a superare se stesso, attuando la sua vocazione integrale. Il comandamento del1' amore è la legge fondamentale della perfezione umana e della trasformazione del mondo, rendendo l'uomo capace di amare e rispettare il creato (cfr. nn. 34-35, 37-38). Dal canto suo, nell'enciclica Laborem exercens (1981), Giovanni Paolo II ha posto in una prospettiva mondiale i problemi del lavoro creati dal nuovo contesto dell'automazione e dalle ristrutturazioni da essa provocate. Ha confermato I' aspetto umano del lavoro come chiave essenziale della questione sociale (cfr. nn. 1-3); ha notato che scienze, tecnica e industria gli sono debitrici del loro particolare impulso e ne confermano

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il grande valore etico e spirituale (cfr. nn. 4, 6); ha valutato la tecnologia come «alleata del lavoro e dell'uomo», senz~ nascondere c~e, so~ vente, viene trasformata m sua avversana, dai responsabili d~ll'econom.ia che l'adoperano per «soppiantare» 1 l~~~raton, sottl~aendo loro creatività, responsab1hta e occupaz10ne (cfr. n. 5). Analogamente, in Sollicitudo rei socialis (1987) è stat~ sotto.lineato il, contributo della tecnica alla hberaz10ne dell uomo, anche su scala mondiale (cfr. nn. 7, 10). Si ricorda che tecnologia e industrializzazione contribuiscono alla solidarietà e all'interscambio, tuttavia producono pure conseguenze negative, come le contaminazioni ambientali che danneggiano il pianeta ~la salute dei popoli (cfr. nn. 34, 43~. Infine, l'msegnamento contenuto nella Centes1mus annus (1991) ha evidenziato la stretta relazione fra i mutamenti ideologici e tecno-scientifici e la questione sociale. Essi condizionano non solo l'economia, ma la società e le persone. Vi si sottolinea pure che i poteri economici, politici e militari trasformano i progressi tecnologici e scientifici in strumenti di devastazione e di morte, rendendoli micidiali e distruttivi, al servizio dell'odio ideologico e di oscuri interessi di ogni genere (cfr. nn. 4, 17). L'ingiustizia dei sistemi economici e tecnologici, quindi, non dipende dalla tecnologia, ma dai soggetti che se ne servono e, soprattutto, dalle condizioni culturali e ideologiche, radicate nella carenza dei fondamentali valori spirituali, religiosi ed etici di culture e società (cfr. n. 24).

X. Sintesi conclusiva Attualmente la cultura tecnologica e gli impegni "sociali" della speranza sono chiamati a fronteggiare i gravi problemi analizzati e sottolineati. Nell'acuto dibattito tra fautori entusiasti del potere tecnologico e radicali pessimisti che criticano o rifiutano ogni innovazione, il messaggio cristiano può inserire il suo solido equilibrio. Riconosce le difficoltà, i rischi e i mali, ma anche le possibilità di uno sviluppo tecnologico corrispondente al disegno di Dio. Ricorda che occorrono princìpi per guidarlo, orientarlo e controllarlo al fine di evitarne gli abusi (cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Chiesa e lavoratori nel cambiamento, Bologna 1987, n. 5). Propone di contestualizzare le innovazioni tecnologiche nelle culture locali, te-

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nendo conto delle esigenze mondiali e dei problemi emergenti, quali la crescente disoccupazione provocata nei vari contesti economicosociali e l'aumento degli esclusi (anziani, emarginati, nuovi poveri, aree mondiali più fragili) dai miglioramenti (cfr. ibidem, n. 6). Ammonisce che nessuno dei problemi esaminati può essere risolto con le sole innovazioni tecnologiche, ma va affrontato con spirito nuovo, tenendo conto di tutte le componenti umane culturali e sociali. Sottolinea che le diverse interpretazioni scientifiche, filosofiche, umanistiche, antropologiche e teologiche mettono in luce la necessità d'integrare le componenti della cultura tecnologica nella prospettiva più ampia della speranza trascendente, escatologica e teologale, capace di resistere alle prove storiche e alle verifiche più severe. La molteplicità e complessità degli argomenti trattati non consente una sintesi dettagliata delle esigenze emerse, ma solo alcune indicazioni generali. Riguardo alle "culture tecnologiche" la fede cristiana dovrà: a) illuminarne e orientarne la progettualità secondo i fini, significati e valori del Vangelo; b) valorizzare l'istanza originaria della tecnicità, come glorificazione di Dio nel creato, trasformazione della realtà al servizio del bene comune e del prossimo, realizzazione ed espansione delle persone; c) orientare i responsabili al controllo delle tecnologie e innovazioni nel rispetto, conservazione e sviluppo del creato a servizio dell'uomo; d) affrontare con misure adeguate la costante diminuzione dei posti di lavoro conseguente alle innovazioni e sviluppi tecnologici; e) contrastare la perdita delle capacità umane conseguente agli sviluppi tecnologici. Riguardo alle "tecnologie" la fede dovrà orientare: a) ad agevolare il lavoro, liberandolo dagli aspetti più dannosi, pericolosi, faticosi e frustranti; b) a pianificare trasformazioni del creato benefiche e ragionevoli; c) a controllare le conseguenze negative; d) a rispettare le esigenze delle generazioni future; e) a controllare e contrastare le conseguenze negative degli sviluppi tecnologici. All'"uomo tecnologico'', infine, la fede dovrà ricordare la sua vocazione di co-protagonista consapevole e responsabile della redenzione del mondo; invitarlo a non porre le sue speranze solo nell'opera delle proprie mani e della propria mente; spingerlo a innovare per il vero bene di tutto l'uomo e tutti gli uomini; incoraggiarlo ad affrontare difficoltà, rischi e fa-

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tiche fidando nella vera «speranza del mondo» (cfr. Gismondi, 1998b, pp. 184-186). A tal fine dovrà unire, al messaggio della fede, le opere della speranza, essenziali per trasformare la cultura tecnologica in una cultura del sociale relazionale e dell'economia solidale, perché uomo tecnologico, tecnologia e sistemi tecnologici servano alle autentiche esigenze dell'uomo e dell'umanità (cfr. Gismondi, 1995, pp.180181). GUALBERTO GISMONDI

Vedi: AUTONOMIA; ECOLOGIA; ETICA DELLO SVILUPPO; ETICA DEL LAVORO SCIENTIFICO; PROGRESSO.

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TEMPO DH95J-953; Concilio Vaticano/, DH 3002; Humani generis, DH 3890; Tertio millennio adveniente, 9-10; Dies Domini, 74.

I. Il tempo della natura - II: Alcuni asp~tti filosofici del tempo nelle scienze naturali III. Il tempo dell'uomo - IV. Il tempo alla luce della Rivelazione cristiana. I.

n tempo della natura

J. Nozione di tempo. Sperimentiamo il tempo come un passaggio continuo e inarre~ta­ bile da ciò che fu a ciò che è adesso ed ultenormente a ciò che sarà. Questo passaggio quasi impercettibile non significa che il tempo sia un'entità assoluta (la cosiddetta teoria del «tempo assoluto», o vuoto, assunta ad esempio da Newton), poiché in realtà il tempo è una caratteristica derivata dal movimento («teoria relazionale» del tempo, seguita in modi diversi da Aristotele e da Leibniz) (cfr. Le Poidevin, 1993). Ogni mutamento contiene una dimensione irriducibile di successione di un "prima" e di un "dopo" ed è questa la temporalità nel suo momento originario, prima di ogni misurazione (non bisogna però collocare il prius e posterius in un tempo vuoto). Laddove c'è successione, c'è una forma di temporalità. Da questo punto divista, ogni fenomeno successivo produce un proprio tempo, ma a causa dell'intreccio tra gli esseri della natura, normalmente il prima e dopo di molti fenomeni si determina in rapporto a certe successioni standard (per esempio, lavoriamo prima o dopo il tramonto del Sole). Il tempo quindi è l'ordine successivo prima/dopo tra gli eventi, nato dal movimento (cfr. Aristotele, libro IV della Fisica). Però, ciò che cambia pennane sotto molti altri aspetti, per cui il tempo, in un senso più frequente del termine, è la «durata dell'essere mutevole», una durata sempre immersa nel cambiamento, dal momento che ogni essere naturale subisce costantemente trasformazioni interne e anche cambia a causa del mutamento continuo della natura circostante. Cosl un ente dura il tempo di un'ora, di un giorno, di alcuni anni, in quanto permane nel1' essere durante quel periodo o durata, che resta

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determinata proprio perché quel periodo è stato caratterizzato da alcuni cambiamenti (per esempio dai mutamenti nei fenomeni del cielo, in quelli terrestri, l'invecchiamento dei viventi, ecc.). Se, per assurdo, non cambiasse mai nulla nel mondo e non ci fosse alcun riferimento, nemmeno esterno, ad una qualche successione di eventi, allora in quello strano stato (mai sperimentato) non si darebbe un vero «tempo». A durare è ciò che è mutevole e, per questo motivo, le cose a-temporali, come sono i concetti astratti, per esempio i numeri, non «durano» (il concetto di ora o di minuto non ha alcuna durata). Da questa fondamentale nozione di tempo procede quella più abituale, corrispondente alle "misure temporali" eseguite dall'uomo. Il tempo, in quanto dimensione non spaziale del moto, è suscettibile di essere quantificato. La ragione può considerare certi periodi temporali di alcune successioni naturali per misurare i diversi tempi della natura e della vita umana (ore, giorni, anni). Il tempo come misura è un'oggettivazione culturale coniata dall'uomo in base ai tempi naturali. 2. Presente, passato e futuro. Simultaneità e unità del tempo. Ci risulta ovvia la divisione del tempo in passato, presente e futuro. Il «presente» corrisponde all'attualità dell'essere in moto (in modo derivato ma più normale, questo termine si riferisce al nostro presente psicologico). Tale attualità lascia costantemente un prima, che è il «passato», e affronta un dopo, che è il «futuro». In modo astratto possiamo considerare periodi di tempo di qualsiasi epoca, ad esempio il tempo che va dal 1600 al 1700, i cui estremi relativi sono dunque un prima e un dopo, senza tener conto di un presente che faccia del prima un passato e del dopo un futuro (ma in realtà noi facciamo tale considerazione dal nostro presente). Questo tempo, in qualche modo statico, senza un presente "in flusso", è denominato in filosofia analitica «serie temporale B»: la denominazione dà luogo ad asserti "eterni" o senza tempo (tenseless statements) come «Giulio Cesare è prima di Tiberio». La «serie temporale B» è risultato dell'astrazione umana del tempo. Più reale e concreta è la denominata «serie temporale A», ovvero il tempo che contiene il nostro presente in flusso costante: essa si esprime in frasi temporali (tensed statements), come «ora piove», frase che poco fa si doveva dire «pioverà» e tra poco si dovrà dire «ha piovuto» (cfr. Le Poidevin, 1993, pp. 23-

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34). Alcuni filosofi idealisti riducono il tempo ad un'apparenza, come se nell'eternità tutto il tempo fosse già accaduto, prediligendo di conseguenza la «serie temporale B». I filosofi realisti invece sostengono la realtà del tempo soprattutto nella sua attualità di presente, perché il passato non è più e il futuro è ancora una possibilità. L'essere temporale si dice principalmente del presente. Non si può parlare di successione temporale senza un riferimento alla "simultaneità". La misurazione del tempo comporta infatti due tempi presi come simultanei («pranzavo quando l'orologio indicava le due del pomeriggio»). Due eventi o fenomeni sono simultanei, in un senso intuitivo prescientifico, se accadono "nello stesso tempo", vale a dire se avvengono o sono misurati da un periodo comune di tempo («lavoravo durante il giorno»). La teoria della (.•") relatività speciale impone, però, certe restrizioni al fenomeno della simultaneità. Secondo tale teoria, gli osservatori che si trovano in diversi stati di movimento relativo non possono accordarsi su una definizione di simultaneità, cioè non hanno un tempo comune «che scorra con lo stesso ritmo», quindi non hanno neanche un presente comune. Tale situazione diventa irrilevante per gli oggetti con una velocità assai bassa rispetto a quella della luce. Per questi oggetti, com'è ad esempio il sistema Sole-terrauomo, esiste una simultaneità e quindi un'unità (locale) di tempo. D'altra parte, la teoria della relatività generale, nella sua applicazione cosmologica, consente di prendere un orologio standard e di relativizzare gli oggetti rispetto ad esso, ottenendo cosi un «tempo universale coordinato». Prendendo come orologio (in senso ampio, non necessariamente riferito allo strumento tecnico inventato dall'uomo) un moto sufficientemente valido per tutto il cosmo (ad esempio l'espansione dell'universo), si può parlare di «tempo cosmico» da cui deriva la nozione di una "età" dell'universo (""' COSMOLOGIA, 11.1). La nostra comune percezione del tempo naturale unitario è collegata al nostro inserimento psico-biologico nel sistema Sole-terra: noi, in altre parole, senza neanche arrivare alla misura astratta del tempo (come pure gli altri viventi), coordiniamo inconsapevolmente tutti i tempi della natura in un unico tempo e in un unico presente "relativo" grazie al riferimento "universale" (in realtà locale) che procede dall'apparente moto celeste. Tale "moto" è

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l'orologio naturale della vita terrestre. Il presente è relativo anche perché la comunicazione causale tra gli enti fisici richiede un tempo (vediamo i segnali luminosi sempre più tardi rispetto al momento in cui sono partiti). I cosiddetti «orologi biologici» (per es. i ritmi circadiani, circannuali, ecc.) sono naturalmente collegati al tempo della successione giorno-notte, cosi come i ritmi interni dell'organismo sono collegati ai ritmi esterni della natura circostante (cfr. sui tempi biologici, Whitrow, 1980, pp. 123-173; Coveney, 1991, pp. 351-370; Fraser, 1992, pp. 109-147). La sensazione psicologica di regolarità con cui scorre il "flusso del tempo" nasce dalla regolarità del moto celeste diurno e notturno, prima ancora che dalla regolarità degli orologi che usiamo (cfr. Sanguineti, Tempo naturale e tempo umano, 1998). 3. Continuità temporale e istanti di tempo. Il tempo, come la dimensione spaziale, è una grandezza considerata abitualmente come "continua", cioè sempre divisibile all'infinito. Possiamo raffigurare idealmente il tempo come una linea che, divisa in un punto qualsiasi, produrrebbe ciò che chiamiamo «istante di tempo». La fisica parla talvolta del tempo come costituito da una collezione infinita di istanti, ma si tratta pur sempre di un'idealizzazione. Gli istanti, se considerati come una realtà in atto, producono i noti «paradossi del continuo» (""' MECCANICA, 11.3). Secondo la filosofia aristotelica, l'istante è una realtà potenziale, dovuta al carattere del "continuo farsi" (mai completamente attuale) del tempo e del moto continuato. Il "presente" può apparire come un candidato per esprimere l'esistenza attuale dell"'istante", ma in verità anche il presente percettivo copre sempre un piccolo periodo temporale, che viene appreso in modo "strutturale" o gestaltico (cosi capiamo in atto, quasi in simultaneità, l'unità di una breve frase o del pezzo di una melodia). Ciò non toglie però realtà agli eventi temporali dell'inizio e della fine di un movimento. I cosiddetti "istante iniziale" e "istante finale", collegati alle discontinuità degli eventi, sono da considerarsi come "limiti" del moto. A questo riguardo potrebbe avere senso parlare di un inizio assoluto dell'universo (o del tempo t), contrapposto a un tempo di durata eterna, ma tale inizio, nella teoria continuista qui esposta, non va preso come un istante nel senso di un reale tempo t O, bensi come un limite iniziale, per cui talvolta risulta più adeguato parlare di

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T "primi periodi" (per esempio, il primo secondo la prima ora dell'universo) anziché di un "primo istante"(""' COSMOLOGIA, 11.1 e VI.l). D'altra parte è possibile (ed è compatibile con quanto detto) l'esistenza di tratti minimi di tempo "fisicamente indivisibili", nonché l'esistenza di eventi fisici istantanei iniziali o finali situati nel tempo (ad esempio la creazione di particelle o la loro annichilazione). 4. La direzione temporale. Il tempo è una relazione di ordine successivo (abcd... ) con una direzione, cosl come la linea può dirigersi verso la destra, la sinistra, ecc. (metaforicamente si parla in questo senso della «freccia» temporale). Intuitivamente osserviamo una direzione unica e irreversibile del tempo: si procede sempre verso il futuro e non si ritorna mai nel passato. Il fatto è dovuto alla costante novità del cambiamento. Tempo "chiuso" sarebbe un tempo costituito dalla ripetizione ciclica degli stessi eventi (abc-abc-abc, ecc.). Il tempo "aperto" 0 "lineare" invece procede verso eventi che contengono sempre qualche novità (abcde ... ). Ovviamente molti fenomeni naturali sono ciclici e nella natura esiste un intreccio tra ripetizione e novità, per cui il tempo complessivamente sarà ciclico o lineare a seconda dell'orientamento cosmologico prevalente. I tempi della natura sotto un primo sguardo sembrano ciclici, mentre il tempo dell'uomo, al contrario, è palesemente aperto in rapporto alla (""') storia. Tuttavia le scienze naturali sin dal XIX secolo hanno evidenziato in un modo sempre più costringente che i tempi fisici a lunga scadenza sono aperti. La direzione del tempo verso ciò che chiamiamo "futuro" cambia comunque a seconda della prospettiva: non sono la stessa cosa un futuro aperto ma caotico, un futuro di crescita creativa, un futuro predeterminato oppure relativamente indeterminato, un futuro libero e progettato, un futuro verso la finalità oppure verso la distruzione. Il futuro, come altri termini temporali, ha un significato analogico. 5. Ontologia del tempo. La temporalità è una dimensione della realtà fisica intrinsecamente legata all'essere. Sarà accidentale vi vere oggi o domani, ma è essenziale il fatto di essere sottomessi al continuo e irreversibile passaggio del tempo, con un inizio e una fine. La radice della temporalità fisica è il divenire, il fatto cioè di non "essere tutto in una volta" ma "a po~o a poco", e anche quello di dover perdere irnmediabilmente nel passato i giorni che pas0

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sano, o di vivere nell'attesa, proiettati verso il futuro, senza poter mai fermare il presente. Questo carattere di non-essere parziale del tempo e del divenire indica, per così dire, la precarietà di una certa situazione ontologica: gli enti soggetti al cambiamento non durano sempre e sono instabili nel possesso delle loro perfezioni. Questo punto è sperimentato drammaticamente dall'uomo di fronte alla sua (""') morte. Bisogna comunque aggiungere che nel mondo non tutto è pura temporalità. L'uomo, in particolare, dimostra una certa signoria sul tempo, poiché lo può misurare, organizzare, utilizzare come vuole, e col pensiero egli è capace di trascendere il tempo e di rapportarsi alla realtà eterna di (""') Dio. Di conseguenza il tempo va preso in un senso analogico (""' ANALOGIA). Non esiste soltanto il tempo meccanico. Ai gradi dell'essere corrispondono gradi della temporalità: non è identica la temporalità considerata dalla fisica, dalla chimica, dalla biologia o dalle scienze umane e sociali. Le forme più elevate dell'essere prendono la temporalità di un livello inferiore e la incorporano nel proprio ambito, nel quale il tempo acquista un nuovo significato. Nella vita appare già con chiarezza la direzione teleologica del tempo. Nell'uomo il tempo si presenta come storia (tradizione, progetto, scelta, compimento) e si inserisce in una dimensione di eternità.

II. Alcuni aspetti filosofici del tempo nelle scienze naturali 1. L'approccio scientifico al tempo. Le scienze naturali, in pa1ticolare la fisica, utilizzano il parametro temporale come una coordinata per la descrizione matematica dell'evoluzione dinamica dei corpi. La prospettiva scientifica si riferisce specialmente alla misura delle relazioni temporali, anche se attraverso di esse si confronta con certe caratteristiche "qualitative" del tempo, come ad esempio la sua direzionalità, il suo carattere continuo o discreto, la sua relatività. Bisogna tener conto di una certa costruttività del parametro temporale nelle scienze, non solo perché l'approccio scientifico necessariamente schematizza la realtà osservata, ma anche perché l'uomo misura il tempo a partire da alcuni fenomeni naturali scelti con una certa libertà, la cui esatta regolarità è presupposta per convenzione.

Tempo Il tempo della fisica quindi è un tempo astratto che non sempre rispecchia in toto la realtà del tempo naturale ontologico. Tale astrazione, ancor prima dei procedimenti cronometrici scientifici, cominciò già con le più antiche misurazioni temporali, basate sull'osservazione astronomica e su certe divisioni culturali del tempo. Ciononostante le scienze naturali, correttamente interpretate, arrivano a determinate caratteristiche reali del tempo e superano talvolta i limiti della percezione ordinaria (il secondo atomico, ad esempio, è definito da 9.192.631.770 cicli dell'atomo 133 Cs, un isotopo del cesio, una misurazione che supera di gran lunga le possibilità della percezione comune del tempo). 2. Tempo assoluto e relativo. È noto che (""')Newton concepiva il tempo come assoluto, come un flusso uniforme e infinito, indipendente dalle cose, nel quale si potevano situare i tempi particolari misurati dall'uomo (cfr. Prindpi matematici della filosofia naturale (1687), Torino 1977, pp. 101-102). Questo tempo non era altro che un'idealizzazione pari a quella dello spazio assoluto e infinito. (""') Kant seguì in un certo senso la stessa strada, solo che ridusse il tempo ideale newtoniano a un'intuizione a priori della sensibilità interna dell'uomo (cfr. Critica della Ragione Pura, Roma-Bari 1989, voi. I, pp. 74-83), introducendo così il dualismo tra il tempo psichico (quello della sensibilità interna) e il tempo assegnato ai fenomeni per inquadrarli nelle categorie del pensiero. Come dicevamo sopra, è vero che il tempo astratto è costruito in pmte dall'uomo quando misura la successione dei moti naturali (il giorno, l'anno, in quanto tali sono entità di ragione fondate sulla realtà), ma altri aspetti del tempo sono ontologici e pre-metrici (il futuro, ad esempio, non è un ente di ragione). La teoria della relatività di Einstein eliminò in maniera definitiva l'idea del tempo assoluto nella fisica. Il tempo (meglio: lo spazio-tempo) è relativo allo stato di moto di un dato sistema di riferimento, e nella teoria della relatività generale il tempo è anche relativo alla intensità del campo gravitazionale, cioè alla curvatura dello spazio. Abbiamo già indicato (vedi supra, I.2) alcune conseguenze della relatività sulla simultaneità e sul presente (cfr. D. Sciama, "Paradoxes" in Relativity, in Flood, 1986, pp. 6-21; Bohm, 1996). 3. Ordine temporale e causalità. Le cause del moto precedono i loro effetti, come i lavori

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di una casa in costruzione precedono temporalmente l'esistenza della casa costruita (la causa si può dire simultanea all'effetto solo se ci riferiamo alla causafiendi o del divenire, non alla causa del risultato: così, l'atto di edificare è simultaneo all'atto di essere edificato) (cfr. E. Agazzi, Time and Causality, "Epistemologia" 1 (1978), pp. 397-424). Questo punto è valido soltanto per le cause fisiche efficienti, ma non per altri tipi di cause, come sono la causa finale o formale, e neanche per le cause di natura spirituale, che possono provocare effetti temporali, ma non agiscono nel tempo. Quest'ultima osservazione vale particolarmente per la causalità di Dio nel mondo: Dio, l'Essere Eterno, crea il mondo fisico e di conseguenza crea il tempo, per cui non ha senso domandarsi "quando" Egli crei, oppure pensare cosa facesse "prima" di creare il mondo (cfr. Agostino, De Genesi contra Manicheos, I, 2, 3), come se il Creatore fosse una causa temporale. Se così fosse, ci si potrebbe interrogare su una causalità che vada oltre Dio, poiché ogni causa temporale può essere sempre preceduta da un'altra causa temporale. L'evento creativo dell'Eterno sul tempo, di Dio sul mondo, non essendo un evento temporale, non appartiene al "momento iniziale" in cui il mondo comincia ad esistere, ma abbraccia insieme tutto l'arco dell'esistenza temporale del mondo, in ogni suo istante. L'ordine temporale della causalità fisica consiste, dunque, nel fatto che le cause "precedono" i loro effetti e questi ultimi esistono "dopo" le cause (cfr. Summa theologiae, I, q. 46, a. 2, ad 1um; De Potentia, q. 3, a. 17). Ne consegue che le cause degli eventi sono da ricercarsi nel passato, e che a partire dalle cause si possono prevedere gli effetti futuri. Se le cause sono potenziali o indeterminate (per es. cause libere), il futuro si presenta come una "possibilità", mentre il passato è sempre determinato. La cosiddetta «teoria causale del tempo» (cfr. Reichenbach, 1956) ha approfondito il menzionato rapporto tra causa e temporalità. Un'altra conseguenza di quanto abbiamo indicato è l'impossibilità che l'effetto esista prima della causa. Non è possibile un'inversione temporale che non rispetti questo principio della causalità (cfr. sul tema P. Caldirola, E. Recami, The Concept of Time in Physics, "Epistemologia" 1 (1978), pp. 263-304). Il fatto è stato evidenziato dalla teoria speciale della relatività, da cui segue che l'ordine prima-dopo è in-

T variante (cioè non relativo all'osservatore) per gli eventi "causalmente collegabili". Tale collegamento causale è associato alla temporalità della trasmissione dei segnali, la cui velocità non può superare quella della luce (cfr. Martinez, 1996). Proprio per questo motivo non sono possibili i "viaggi nel tempo", ad esempio nel passato, s~ con questo ~e1:~i?e .i~dichia?1o dei veri viaggi, con la poss1b1hta d1 mteragire con altri oggetti. Se noi viaggiassimo nel passato, potremmo intervenire sulle nostre cause, per esempio uccidendo nostro nonno per impedire la nostra esistenza (in questo ambito epistemologico si parla appunto del «paradosso del nonno»). Il viaggio nel tempo, considerato come un'entità data e percorribile, comporta una confusione logica e anche una contraddizione. Un certo "ritorno nel passato" sarebbe in qualche modo pensabile soltanto in un modello di universo ciclico, nel quale le linee dello spazio-tempo fossero chiuse. Vi sono però dei dubbi sul fatto che un simile modello, elaborato da (""') Kurt Godel, possa avere un reale senso fisico; in ogni caso esso sarebbe incompatibile con l'apertura lineare del tempo storico dell'uomo. Nella fisica quantistica si parla talvolta di una "violazione della causalità"; secondo alcune teorie, gli ipotetici «tachioni», possedendo una velocità superiore a quella della luce, viaggerebbero indietro nel tempo. Tali conclusioni vanno prese con cautela ed occorre fare attenzione ad una presunta interpretazione ontologica di certe idealizzazioni fisiche. Ad esempio, nella storia dell'elettrodinamica quantistica, si pensò in un certo momento all'esistenza di particelle di energia negativa che potessero viaggiare indietro nel tempo, ma più tardi l'idea fu accantonata, reinterpretandola nel quadro delle caratteristiche dell'antimateria (Davies, 1996, pp. 225-228; ;r MATERIA, IIl.4). 4. La freccia del tempo. Abbiamo già accennato (vedi supra, I.4) alla direzionalità del tempo. Le equazioni della meccanica descrivono i fenomeni con un comportamento invariante sotto l'inversione del tempo. Le equazioni (o le leggi della fisica) sono quindi temporalmente simmetriche, il che significa che gli eventi da esse governati sono reversibili (non forniscono quindi indicazioni per poter distinguere il passato dal futuro) (cfr. G. Prosperi, Il problema del tempo nella fisica, in Aspetti del tempo, 1998, pp. 17-46; ;r LEGGI NATURALI, 1.2 e IV.3). Questo fatto non esclude però l'esistenza di una

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direzione temporale in natura. Le formulazioni matematiche delle leggi meccaniche sono pur sempre astratte, ed infatti le "soluzioni" delle equazioni vengono di solito accettate in modo temporalmente asimmetrico, cioè soltanto in uno dei due sensi, considerandosi il senso inverso improbabile, altamente improbabile o praticamente impossibile. Accade cosl in molti fenomeni studiati dalla meccanica statistica, come la diffusione di un gas in un ambiente, la dissoluzione di una goccia d'inchiostro in un bicchiere d'acqua o numerosi altri fenomeni di mescolanza. Dopo la formulazione del II principio della termodinamica, si è venuta affermando l'idea dell'irreversibilità di molti processi fisici, quindi la loro asimmetria temporale, malgrado la simmetria temporale delle equazioni. Il menzionato II principio stabilisce che nei sistemi isolati, o privi di interventi causali esterni, l'entropia cresce complessivamente fino a raggiungere un massimo. Di conseguenza un sistema fisico evolve naturalmente e in modo irreversibile da situazioni più strutturate ma instabili (di non equilibrio) verso situazioni di equilibrio, prive di ordine differenziato. Questo punto ovviamente ha conseguenze sul piano cosmologico (evoluzione dell'universo verso uno stato di massima entropia cioè di massimo disordine; ;r COSMOLOGIA V.2; cfr. Davies, 1977; Hollinger, 1985; Kroes, 1985; Bellone 1989). Si ricordi a questo proposito che il concetto di "ordine" è pur sempre relativo a certi criteri. La caratterizzazione dell'entropia come "grado di disordine" prende l'ordine come una situazione strutturata, specifica, organizzata, mentre il disordine (che in realtà è un ordine minimo) riflette la mancanza di strutture (cfr. Sanguineti, 1986, pp. 27-42 e 235-255; Arecchi, 1990, pp. 21-129). La tematica della direzione del tempo nei diversi settori della fisica (teoria quantistica, relatività speciale e generale, teoria quantisticarelativistica di campi, ecc.) è stata studiata e discussa ampiamente negli ultimi decenni del XX secolo (per esempio si parla di un'asimmetria temporale nelle interazioni deboli, evidenziata in certi esperimenti). Al di là della questione teoretica (cfr. Highfield, 1992; Zeh, 1992; Halliwell, 1994), importa soprattutto il fatto dell'ovvia direzione temporale nell'evoluzione del cosmo a partire dal Big Bang fino al suo stato attuale e anche nella prospettiva del

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suo remoto futuro(~ UNIVERSO; cfr. Hawking, 1993, 1996; P. Davies, Stirring Up Trouble, in Halliwell, 1994, pp. 119-130). Tale evoluzione è concretamente l'espansione dell'universo e il suo progressivo raffreddamento termico, evidenziato nella radiazione cosmica di fondo (oggi caratterizzata da una temperatura di 2,74 gradi Kelvin), cui si aggiunge la formazione delle grandi e piccole strutture fisiche della natura, la nascita ed evoluzione della vita e infine la crescita complessiva di entropia in tutto il cosmo. Una eventuale futura contrazione cosmica di tutto l'universo comporterebbe parimenti un incremento di entropia e non sarebbe l'esatto rovescio della sua espansione (cfr. S. Hawking, The No Boundary Condition and the Arrow of Time, in Halliwell, 1994, p. 356). Tutti questi fenomeni, in particolare quelli appartenenti alla vita, manifestano un'asimmetria temporale: il futuro dell'universo non è identico al suo passato. La determinazione della direzione fisica del tempo non nasce dalle equazioni fisiche, ma piuttosto dalla "realtà globale del cosmo" (cioè dall'insieme di tutte le "frecce" particolari), per cui l'eventuale inversione locale di alcuni processi non comporterebbe l'inversione complessiva del tempo dell'universo (cfr. Castagnino, 1998). In altre parole, l'unità della direzione del tempo in tutti i fenomeni fisici procede dall'unità stessa del cosmo considerato nel suo insieme complessivo, dal momento che la freccia cosmologica, in quanto relativamente "ultima", fissa la direzione di tutte le altre frecce locali. Per affermare tale comportamento unitario, non è necessaria una conoscenza esaustiva di tutto il cosmo, ma basta quanto oggi conosciamo in proposito("' COSMOLOGIA, IV.3). D'altra parte, per quanto riguarda i processi fisici inorganici (per esempio l'espansione rispetto alla contrazione), siamo in grado di distinguere la direzione temporale del cosmo dalla sua ipotetica inversione globale solo perché facciamo parte del cosmo e attraverso il presente psico-biologico ne conosciamo l'attualità nella sua precisa direzione. In altre parole, noi, osservatori soggetti al divenire fisico, osserviamo l'espansione dell'universo e così sappiamo che la sua direzione procede verso il futuro. In definitiva, nella conoscenza della direzione del tempo fisico intervengono sia il cosmo, preso nella sua globalità in quanto conosciuta, sia il nostro presente psico-biologico.

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5. Temporalismo e atemporalismo. Facendo leva sulla simmetria temporale delle leggi fisiche e sulla possibilità teorica dell'inversione dei processi fisici, alcuni autori, come Einstein, nelle loro riflessioni filosofiche sulla scienza hanno ritenuto che nella natura non ci sarebbe una vera direzione temporale, ma piuttosto un ordine atemporale o eterno, e che l'ordine passato-presente-futuro nascerebbe dall'osservatore umano o dalla sua prospettiva locale (cfr. Sanguineti, 1997). Questa posizione "atemporalistica" (se prendiamo il termine "tempo" nel suo senso forte, cioè come un tempo con passato e futuro diversi) talvolta guarda la realtà alquanto platonicamente, cioè solo dal punto di vista delle leggi teoriche, in quanto considerate astrattamente dal pensiero scientifico matematico. Preso in un senso più radicale e riduzionistico, l'atteggiamento atemporalistico può eliminare la rilevanza del tempo storico della vita umana. Un esempio estremo di tale posizione, molto peculiare ma significativo (e senz'altro privo di base scientifica), è stata la concezione filosofica di Nietzsche circa l'eterno ritorno, cioè l'eterna ricorrenza di tutti gli eventi del cosmo dopo periodi finiti di tempo: si cerca in questo modo di eternizzare l'istante fisico mediante la sua infinita ripetizione (dimenticando che neanche un tempo fisico infinito è la vera eternità). Altri autori, come ad esempio ("') Bergson, ("') Whitehead e, sotto alcuni aspetti, Prigogine (cfr. Bergson, 1983; Prigogine, 1988, 1994), sono esponenti di una visione "temporalistica", nella quale la natura è essenzialmente creativa e riserva sempre delle novità, per cui la visione atemporalistica sarebbe soltanto parziale, o addirittura meramente logica; ma sarebbe anche incompleta la concezione che guarda al tempo fisico solo come degrado, nel senso indicato dal secondo principio della termodinamica. 6. Inizio e fine del tempo. Una assenza di direzionalità temporale nel cosmo, il fatto cioè che le direzioni temporali siano semplicemente locali, comporterebbe che in linea di principio l'universo si presentasse come eterno, senza inizio né fine. Tale eternità non avrebbe però nulla a che vedere con l'eternità di Dio. Essa sarebbe soltanto un perdurare indefinito di ciò che è temporale, non sarebbe prova di un'auto-consistenza assoluta nell'essere e·rimanderebbe comunque alla suprema causalità divina. Gli antichi, come Aristotele, ritenevano che il mondo

T fosse perpetuo; un cristiano come s. Tommaso d'Aquino (cfr. De Aeternitate Mundi; Summa theologiae, I, q. 46, a. 2) non aveva difficoltà nell'ammettere tale possibilità teorica (pur ribadendo l'inizio temporale del mondo come una verità di fede), in quanto non esiste alcuna incompatibilità tra un universo perpetuo e il fatto che esso sia creato da Dio(_,, CREAZIONE, III.2). La creazione non è una causalità temporale, come abbiamo detto, ma una situazione di dipendenza ontologica permanente. Falliscono dunque il bersaglio quelle posizioni apologetiche che legano l'inizio temporale del mondo all'esistenza di Dio o che al contrario legano l'eternità del mondo all'ateismo. In termini rigorosi non è dimostrabile, né scientificamente né filosoficamente, che l'universo abbia un inizio oppure che sia eterno. L'attuale visione cosmologica (teoria del Big Bang) favorisce certamente l'idea di un inizio assoluto, ma non lo dimostra in maniera incontrovertibile. Le attuali cosmologie quantistiche, comunque puramente speculative al giorno d'oggi, prospettano un quadro quanto-gravitazionale atemporale, da cui avrebbe origine il nostro universo assieme con il suo tempo, con la caratteristica di un evento solo probabile tra molti altri eventi possibili (;r COSMOLOGIA, VI.I). Eppure non esisterebbe alcuna incompatibilità tra questa prospettiva e il carattere creato del cosmo. Affermare l'esistenza di una freccia temporale cosmica implicherebbe invece il fatto che l'universo stia procedendo "verso un futuro". Visto nel suo complesso, il cosmo mostra un'organizzazione crescente, una sorta di finalismo interno che culmina nella complessità delle strutture della vita, soprattutto nella vita intelligente, quale è la vita umana; siamo però ugualmente certi dell'incremento globale della sua entropia (la nascita dell'ordine presuppone sempre una spesa energetica) e sappiamo che ogni struttura fisica, tranne forse quelle più elementari, esisterà per un periodo di tempo finito, dopo il quale decadrà. Questi due aspetti della freccia temporale lasciano aperto, già all'interno di una prospettiva puramente fisica, il problema del destino definitivo e ultimo del cosmo. Alcuni autori prospettano un futuro di nuovi universi o di nuove forme di vita, fino all'affermazione definitiva della vita intelligente nel cosmo (cfr. F. Tipler, La fisica dell'immortalità, Milano 1995), ma non lo fanno in base a

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risultati scientifici bensì a giudizi di valore sulla vita e sull'intelligenza, mentre ricercano almeno la possibilità fisica di tale tesi. Altri invece (cfr. P. W. Atkins, Time and Dispersa[: The Second Law, in R. Flood, 1986, pp. 80-98) sostengono l'inevitabilità della fine disastrosa del cosmo, una fine che suscita atteggiamenti pessimistici ed è in forte contrasto con le aspirazione più profonde dello spirito umano. La visione del cosmo e della storia trasmessaci dalla Rivelazione cristiana è compatibile con le diverse teorie fisiche sulla direzionalità del cosmo fisico, purché queste non siano assolutizzate. Ciò che la Rivelazione biblica aggiunge non si colloca sul piano fisico, ma dà un senso ultimo e più alto all'evoluzione del cosmo. La fede cristiana, infatti, insegna che l'universo fisico, creato da Dio, è in rapporto con il destino definitivo dell'uomo (;F CREAZIONE, VI). La creazione è ordinata all'opera della Redenzione: in altre parole, lo scorrere del tempo trova il suo senso ultimo nella storia della salvezza. La sacra Scrittura parla inoltre di una «fine dei tempi», cioè della fine della storia umana in corrispondenza della quale avrà luogo la (;F) resurrezione dei morti e l'avvento definitivo del Regno di Dio (la gloria del Cielo e la beatitudine dei santi). Restando in una pura prospettiva fisica, il "disordine futuro" del cosmo potrebbe sottolineare la finitezza e contingenza di un mondo che non è Dio, così come la morte umana mette in risalto la finitezza della nostra esistenza. D'altra parte il destino definitivo del cosmo così come voluto dal piano di salvezza di Dio e creduto dalla speranza cristiana, non va visto precipuamente nella linea di un processo fisico, né di perfezionamento né di distruzione alla luce delle nostre conoscenze scientifiche, il che potrebbe essere fuorviante, bensì alla luce di un perfezionamento morale e religioso della persona umana, come processo di libera corrispondenza alla grazia di Cristo. Le conseguenze concrete che questo piano salvifico possa avere sulla struttura fisica dell'universo non ci sono note e restano pertanto nascoste nel mistero divino della creazione in quanto tale.

III. Il tempo dell'uomo I gradi dell'essere manifestano le perfezioni ontologiche quali l'unità, la bontà, il finalismo, il dominio e in definitiva il possesso stes-

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so dell'essere. La temporalità, vista come pura dispersione del divenire (vedi supra, I, n. 5), viene gradualmente superata quando ci eleviamo verso i gradi ontologici più alti della realtà (per i gradi delle forme temporali, cfr. Fraser, 1982, 1992). Cosl i viventi conservano il passato nel loro codice genetico, organizzano il loro tempo in funzione della loro finalità e si sviluppano fino alla maturità organica. Gli animali cominciano a superare la loro vita limitata al presente mediante la memoria e le aspettative istintive. Ma l'uomo, situato nel confine tra il tempo e l'eternità, è in grado con il suo pensiero di cogliere la natura del tempo e di ripercorrerlo con la conoscenza in ogni sua direzione (ricostruzione del passato, previsioni del futuro). Solo la mente è capace di pensare a "tutto il tempo dell'universo", ad altri tempi o all'annullamento del tempo. Calendari, orologi, orari, sono segni del dominio umano sul tempo. Entro certi limiti, l'uomo organizza il tempo, lo utilizza in funzione dei fini che vuole, ne decide i diversi momenti, ne amministra le scadenze, si concede pause, ecc.; egli si dimostra cosl un autentico signore del tempo. La struttura massimamente temporale dell'uomo (l'unico essere che guarda davvero al futuro e al passato senza limiti), cioè la sua storicità, è la conseguenza della sua spiritualità sopra-temporale esistente nel tempo. Antropologicamente, la «situazione ontologica» dell'uomo di essere nel tempo e sopra il tempo deriva dalla sua struttura unitaria di spirito che è anima di un corpo, cioè dal suo essere una persona corporea. La comprensione intellettuale, ad esempio, è un atto sopra-temporale che da una parte dipende da un'adeguata percezione sensoriale, tramite la quale si ricevono temporalmente degli inputs provenienti dal mondo (per esempio dall'ascolto di un interlocutore), e dall'altra si esprime con il linguaggio e altri simboli sensibili. Parlare, conversare, ragionare, sono atti umani temporali, ma sono anche canali di contenuti al di sopra del tempo, come sono gli atti del capire, del volere e dell'amare. Il tempo umano si può denominare (""') «storia» o anche «esistenza». L'uomo è "storico" perché il suo tempo accumula progressivamente il passato, in forma di ricordi, esperienze, abiti, conoscenze acquisite, tradizioni, mentre è nel presente continuamente affacciato al suo futuro, senza poter mai fermare questo corso del tempo. La struttura ontologica che

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consiste nell'avere sulle spalle un passato ricordato e anche inconscio, non solo individuale ina anche collettivo, e nel dover sempre affrontare il futuro con la libertà, si può chiamare esistenza. Il passato ricordato e raccontato (cfr. Ricoeur, 1986-1988) serve a donare a ciascuno la coscienza della propria identità. Il futuro prospetta all'uomo lo spazio della sua libertà e responsabilità, poiché l'esistenza di un futuro significa che la storia per ciascuno non è chiusa, ma rimane aperta e in buona misura dipende dalla sua libertà. Il presente è il luogo dell'azione e delle scelte, non solo nel rapporto orizzontale col futuro temporale ma anche nel rapporto verticale con l'eternità, verso la quale l'uomo è destinato.· L'esistenza umana possiede anche una sttuttura ermeneutica, dal momento che l'uomo vede la proiezione della sua vita e gli orizzonti del passato e del futuro sempre alla luce dello stato attuale della sua coscienza temporale; egli vede la sua vita in una maniera sempre nuova, eppure in modo compatibile con la sua conoscenza di verità eterne sull'essere e su sé stesso. In definitiva si può dire che il tempo esistenziale dell'uomo ha le caratteristiche della "crescita" e della "libertà". Le virtù e le conoscenze acquisite, tutto quanto c'è di buono e di positivo nel suo passato, fanno crescere l'uomo lungo la sua vita (i difetti e le mancanze invece ne diminuiscono la libertà). Di fronte al tempo l'uomo è attivo e passivo. Non possiamo cambiare la nostra natura umana, né l'inesorabile avanzare del tempo limitato che ci resta disponibile, fino al momento ugualmente inesorabile della(""') morte, ma possiamo imprimervi la direzione che vogliamo. All'uomo è stato donato il suo essere, di cui dispone con libertà. Il futuro gli appare come possibilità sempre aperta, offerta alla libertà ed emergente da quanto gli è stato donato. Il tempo dell'uomo è soprattutto il tempo concesso alla sua libertà. Il presente è in questo senso il momento privilegiato - unico dell'attualizzazione della libertà: nel momento presente l'uomo pone in atto le sue possibilità per il compimento dei suoi fini, e per dare cosl un senso alla sua esistenza. La consapevolezza della morte gli ricorda che il suo tempo ha un limite, e che in esso egli deve compiere le scelte necessarie per il raggiungimento del suo fine eterno. È fondamentale includere a questo punto nella nostt·a considerazione anche il desiderio umano di eternità. L'uomo trascende il tempo

T mediante la conoscenza intellettuale e l'amore e desidera vivere per sempre in uno stato di pienezza. Egli non trova tale pienezza nel semplice prolungamento dei giorni, ma nel riempire il suo tempo con atti di valore intrinseco. Ciò che egli cerca è un "vivere eterno". In termini utilitaristici, il tempo è solo un mezzo per arrivare ad uno scopo futuro (per esempio il tempo necessario per compiere un viaggio). Invece nel1' amicizia, nell'amore, nella contemplazione intellettuale o artistica, nell'orazione con Dio e in ogni singolo atto religioso, il tempo è riempito di atti immanenti, atti voluti per se stessi, con un valore proprio e non semplicemente rapportati ad altri. Ora, considerando questi atti e il loro oggetto nel quadro dell'essere, l'uomo scopre in Dio l'Essere veramente eterno. Il suo rapporto fondamentale con l'eternità consiste dunque nella contemplazione e nell'amore dell'Essere Eterno, al di sopra del suo rapporto con il cosmo creato. Cosi da una parte l'uomo è consapevole di non poter raggiungere in questa vita mortale un'autentica vita eterna, a causa della morte e della successione temporale dei suoi giorni, mentre dall'altra egli può e deve compiere in questa vita quelle scelte e quegli atti grazie ai quali egli può cominciare a partecipare a qualcosa di eterno e insieme può disporsi per raggiungere l'Eternità in modo definitivo, oltre la morte. Tuttavia, la coerenza di un simile quadro può percepirsi con chiarezza solo alla luce della fede religiosa (vedi infra, IV). Sul piano della razionalità l'uomo può soltanto comprendere e sperimentare il suo insopprimibile desiderio di una vita eterna, insieme alla sua costante inquietudine di fronte al passaggio del tempo e all'approssimarsi della morte, sebbene il pensiero filosofico possa venirgli incontro aiutandolo a riconoscere l'immortalità della sua (""') anima. Anche in un'epoca secolarizzata come la nostra, il desiderio di eternità è fortemente sentito; esso si manifesta in varie forme, tra le quali la preoccupazione (talvolta apprensione) per la conservazione della natura (""' ECOLOGIA) ma anche nelle speculazioni sulla sopravvivenza della vita umana nel cosmo. L'uomo può vivere il tempo anche in una maniera patologica. L'eccessivo attaccamento nostalgico al passato, la pura fretta che toglie al n~o~ento presente la capacità di viverlo con g101a e serenità, il timore di non saper utilizzare con frutto il tempo disponibile, ecc., sono

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forme problematiche di assumere la propria temporalità. Alcune di queste forme possono avere un'origine culturale o ideologica, anche se si riflettono sulla vita personale. Ne sono un esempio il fatalismo, l'idea che tutto quanto succede sia già prefissato, il puro vivere il presente cercandone solo l'aspetto del piacere immediato, senza alcuna preoccupazione per il futuro temporale o eterno, la ricerca dell'eternità in utopie intra-temporali o infine la ricerca di immortalità in forme di vita artistica, scientifica, sociale, ecc., mentre si cerca di sfuggire alla responsabilità personale del presente, dimenticando il proprio destino eterno. L'uomo può anche oscurare il passato, ad esempio quando lo ricostruisce in una maniera unilaterale o falsa. L'ideologia del(""') progresso spesso ha traviato il senso della temporalità umana, nella misura in cui ha riposto tutte le energie della speranza umana in un futuro intrastorico di progresso tecnologico, facendo cosi dimenticare l'importanza dell'incontro personale con i valori sopratemporali (cfr. Ratzinger, 1971). L'uomo, in definitiva, deve amare il proprio tempo disponibile e deve saperlo impiegare con l'impegno della sua libertà per rapportare la sua vita alla dimensione eterna cui è costitutivamente chiamato. Questa dimensione comincia già nella vita mortale e si compie nella vita eterna alla quale è chiamato da Dio. Tutte le grandi opere della cultura, delle scienze, della filosofia, delle religioni, ecc. si possono interpretare come uno sforzo umano per il superamento del tempo che finisce. Nella religione rivelata, Dio mostra all'uomo la via per raggiungere tale finalità, invitandolo a percorrerla.

IV. Il tempo alla luce della Rivelazione cristiana La visione cristiana del tempo, se confrontata con molte culture pagane, supera completamente la concezione di un tempo ciclico (cfr. M. Eliade, 1968; Jaki, 1974), in favore di una concezione lineare che ripercorre tutta la storia della creazione, sin dall'inizio, quando «Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1), fino alla conclusione della storia, quando il processo di salvezza inaugurato da Cristo arriverà al suo momento culminante e definitivo nei «nuovi cieli e nella nuova terra» (Ap 21,1). La rivelazione cristiana, pur ribaltando del tutto il senso ultimo

Tempo del tempo delle concezioni pagane, nulla dice sulla struttura del tempo cosmologico e neanche sulle forme concrete della storia. Essa toglie tuttavia valore alle visioni del tempo incompatibili con la fede, quelle cioè che ne fanno una realtà assoluta e definitiva. Il tempo è creato da Dio, appartiene a Dio, l'Eterno, Signore dei tempi e della storia, e finirà quando Dio Padre lo vorrà, con la sua scelta misteriosa e non rivelata all'uomo (cfr. Mt 24,36; At 1,7), mentre niente si dice sui processi cosmologici e storici concreti che ci sono stati e che tuttora ci saranno. Non si avvalla così né una visione storica della natura, né il contrario di essa, non si assume una fisica che comporti necessariamente l'inizio del mondo, né una che implichi la sua distruzione o trasformazione in un determinato senso. L'ultima e assoluta linearità del tempo, nel cristianesimo, è quella che appartiene all'esistenza umana storica, linea irreversibile di libertà personale che può accogliere in questa vita un progetto divino culminante nella vita eterna dopo la morte e dopo la fine della storia dell'umanità. Una struttura cosmologica, antropologica o religiosa del tempo (caso, fatalità, determinismo assoluto) che renda vana tale «forma del tempo umano» è posta fuori gioco dalla visione cristiana. È da notare in questo senso l'importanza della temporalità nella rivelazione giudeo-cristiana, la quale di per sé ha una struttura "storica": essa è appunto una «storia della salvezza». Nell' AT Dio stabilisce un patto con un popolo scelto e tale evento fondamentale della storia coinvolge tutta l'umanità. Israele conserva eriflette sulla propria identità, cioè sulla vocazione ricevuta da Dio, e in questo senso guarda il passato nel costante ricordo della sua chiamata (scelta dei Patriarchi, liberazione dalla schiavitù nell'Egitto, consegna della Legge), mentre rivolge lo sguardo al futuro delle promesse che sono state fatte ad Abramo, a Mosè e ai Profeti, e che fanno sperare il possesso stabile di una terra e, ulteriormente, la liberazione messianica definitiva e l'avvento del Regno di Dio. Il NT è dominato dal clima di compimento delle promesse: «il tempo si è compiuto» (Mc 1,14), Cristo è venuto «nella pienezza del tempo» (Gal 4,4; cfr. Efl,10). Il tempo è un dispiegamento del grandioso disegno divino che ripercorre tutta la creazione e che giunge in Cristo ad un momento culminante, non solo in un senso cronologico (gr. chr6nos in Gal 4,4), ma anche

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qualitativo (gr. kair6s, Mc 1,14), soprattutto perché Cristo ricongiunge il tempo e l'eternità di Dio, consentendo all'uomo di partecipare a tale unione in modo vitale e concreto. «Grazie alla venuta di Dio sulla terra - scrive Giovanni Paolo II - il tempo umano, iniziato nella creazione ha raggiunto la sua pienezza. "La pienezza deÌ tempo", infatti, è soltanto l'eternità, anzi Colui che è eterno, cioè Dio. Entrare nella "pienezza del tempo" significa dunque raggiungere il termine del tempo e uscire dai suoi confini, per trovarne il compimento nell'eternità di Dio» (Tertio millennio adveniente, 10). Nel cristianesimo prevale il senso di novità del "presente". È il presente in cui si partecipa al mistero/evento di Cristo (kair6s, tempo opportuno: Ef 5,16; cfr. Col 4,5), potendo cosl, in Lui, redimere e santificare il tempo stesso, un tempo che in tal modo partecipa dell'eternità di Cristo risorto (cfr. Dies Domini, 74). Il cristiano quindi amministra il tempo, dono di Dio, capitalizzandolo per l'eternità (cfr. le parabole evangeliche dello sviluppo del seme, della coltivazione di un campo, dell'amministrazione fedele della casa, ecc.; cfr. Escriva de Balaguer, 1982). Il tempo della grazia è un germe della vita eterna futura, da coltivare anche nella sofferenza. La tensione verso il futuro escatologico costituisce la speranza cristiana. La fine dei tempi sarà «il giorno del Signore» (cfr. 2Pt 3, 1O), in cui il giudizio di Dio porrà fine alla storia e la vita della grazia, per chi è stato fedele, arriverà alla sua maturazione perfetta, compiuta dallo stesso Dio che si rivelerà pienamente ai santi: «quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà» (JCor 13,10). La Bibbia appare così interamente raccolta entro una prospettiva temporale: comincia con «In principio» e si conclude con il «verrò presto» di Cristo (Ap 22,20). La tensione escatologica cristiana verso il futuro non è quindi una filosofia della storia immanente o intramondana. La redenzione cristiana del tempo ha una dimensione prettamente "verticale" e non comporta una esaltazione dello sviluppo "orizzontale" dell'uomo, che continua secondo la propria dinamica, ma non va divinizzato. La storia rimane sempre aperta e il fil· turo umano non è necessariamente migliore o peggiore, anzi esso conterrà sempre elementi da correggere. La storia profana è l'insieme delle circostanze temporali nelle quali ogni essere umano deve vivere la sua personale vocazione

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Ila vita eterna, e non un semplice stadio trans-

~torio verso Dio (cfr. Gaudium et spes, 38-39).

L'Eternità divina non vanifica la realtà del tempo e della storia, perché il tempo procede da Dio, anche il temp? imprevedibile della.libertà creata dell'uomo, tl quale, con la sua nspost!l alla chiamata divina, decide la sua eternità. E ben lontana dal cristianesimo una sottovalutazione del tempo, il quale comunque acquista tutto il suo senso alla luce dell'eternità. L'Eternità di Dio, d'altra patte, non va confusa con latemporalità del pensiero astratto, ma è da concepire come una Vita piena, sempre attuale e senza successione, secondo la celebre definizione di Boezio: «possesso simultaneo e perfetto di una vita senza termine» (De Consolatione Philosophiae, V, 6, 9). Nella vita eterna dello stato glorioso, dal momento che i corpi risusciteranno e ci sarà un nuovo stato dell'universo, il tempo fisico non sarà cancellato ma piuttosto trasfigurato e liberato da quanto oggi contiene di c01rnttivo (""RESURREZIONE, VI). Il tempo è sempre una partecipazione all'essere, e cosi il tempo che apparterrà allo stato definitivo di gloria dell'universo sarà anch'esso una peculiare partecipazione all'eternità (per il concetto di «eternità partecipata», cfr. Summa theologiae, I, q. 10, a. 2, ad 1mn e a. 3). Per finire ricordiamo la tesi tomistica, non priva di interesse e comune nella tradizione cristiana, di una certa forma analogica della temporalità, denominata «eviternità» (cfr. ibidem, I, q. 10, aa. 5-6; q. 57, a. 3, ad zmn), propria degli esseri spirituali, come gli("") angeli e le anime separate, che indicherebbe la misura del loro agire, nei loro atti d'intelligenza e di volontà, con una certa successione discontinua. JUAN JOSÉ SANGUINETI Vedi: ANALOGIA; CREAZIONE; EVOLUZIONE; RELATIVITÀ, TEORIA DELLA; STORIA; UNIVERSO; BERGSON, H.

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finito e essere eterno, Città Nuova, Roma 1988; J.L. LEUBA (a cura di), Temps et eschatologie, Acadé1nie

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tire da quella famosa di s. Anselmo (10331109),fides quaerens intellectum. Per("") John H. Newman (1801-1890) la teologia «è semplicemente la scienza di Dio, oppure le verità che noi conosciamo su Dio, ordinate in sistema» (The Idea of University, New York 1959, p. 96). Secondo Yves Congar (1904-1994) «la teologia è lo sviluppo scientifico della fede», o anche lo sforzo «di costruire in forma di scienza il messaggio cristiano» (Théologie, in DTC, vol. XV, coll. 475 e 470). Pietro Parente dà la seguente definizione: «la teologia è la scienza che mediante il lume della ragione e della divina rivelazione tratta di Dio e delle creature in rapporto a Dio» (Dizionario di teologia dommatica, Roma 1957, p. 407). In questi ultimi anni qualche autore, vittima forse della secolarizzazione, ha creduto bene definire la teologia omettendo qualsiasi riferimento a Dio, alla sua Parola, alla sua rivelazione e alla fede, facendola consistere semplicemente nello studio del fenomeno cristiano (cfr. P. Touilleux, Introduction à la théologie critique, Paris 1967, p. 88). Questa decisione è decisamente troppo vaga. Tutt'al più può bastare come indicazione dell'oggetto materiale (vedi infra, n. 2); essa omette ciò che conta di più: la specificazione dell'oggetto formale, cioè il lume della ("") fede, della Rivelazione, della Parola di Dio. Senza una chiara menzione di tale componente, che è quella principale, non si distingue sufficientemente la teologia soprannaturale da quella naturale, dalla storia delle religioni o dalla storia del cristianesimo. Spesso oggi si definisce la teologia come «studio della storia della salvezza alla luce della fede». Questa definizione è indubbiamente valida e, per molti versi migliore, più eloquente e più "concreta" di tante altre, perché la Rivelazione non è solo Parola ma anche e soprattutto evento; la stessa Parola (il Verbo di Dio) si fa evento, si fa storia, e fa dono della salvezza

Gaudium et spes, 44; Dei Verbum, 24. Giovanni Paolo II: Discorso alla Pontificia Università Gregoriana, 15.12.1979, Insegnamenti I/,2 (1979), pp. 1418-1429; Discorso ai teologi ad Altotting, 18.11.1980, Insegnamenti III,2 (1980), pp. 1332-1338; Discorso ai teologi di Salamanca, 1.11.1982, Insegnamenti V,3 (1982), pp. 1049-1055. Donum veritatis, 1-12; Fides et ratio, 64-98.

I. Natura e oggetto della teologia - II. La teologia nell'orizzonte del rapporto fra fede e ragione - III. Lo statuto epistemologico della teologia: la teologia come scienza - IV. Filosofia e teologia - V. Il metodo della teologia. I. Natura e oggetto della teologia 1. Una definizione di teologia. La parola «teologia» trae origine dal greco, dove significa «discorso (l6gos) su Dio (The6s)». Aristotele ed i Platonici per «teologia» intendono lo studio delle realtà immateriali, le sostanze separate, le Idee e Dio in modo particolare. Gli autori cristiani, già dal III secolo, si appropriano di questo termine e se ne servono per designare lo studio dei misteri della fede cristiana. Nel medioevo, però, il termine più usato per indicare la scienza della fede era sacra doctrina (cfr. Summa theologiae, I, q. 1). Essenzialmente la teologia è uno studio sistematico e critico della fede cristiana, attingendo a tutti i livelli del sapere umano, specialmente alla filosofia. In vario modo, è sempre questo che viene espresso dalle formule che sono state proposte per definire la teologia, a par-

Internationale des Sciences Religieuses, Cerf, Paris 1994; E. SPANIO, Il tempo della scienza e il tempo della coscienza, Il Cardo, Venezia 1996; J.J. SANGUINETI, Il realismo scientifico. Popper e Einstein a confronto, in "Il Fare della Scienza'', a cura di F. Barone Il Poligrafo, Padova 1997, pp. 97-122. '

T alla storia. Quella di cui si occupa la teologia è una storia della salvezza del tutto incomparabile con qualsiasi altra vicenda salvifica di cui si abbia memoria. Infatti, attore della salvezza :ion è un uomo o un popolo, ma Dio stesso; i salvati siamo noi, mentre il genere di salvezza dl cui Dio ci fa dono è quello da lui prescelto. Ma precisamente, da che cosa e per che cosa Dio salva l'umanità? Su questo obiettivo c'è stata negli anni Ottanta del XX secolo una dura polemica co~ i "teol~gi della liberazione",. alcuni dei quah hanno ndotto la salvezza, la hbei·azione che Dio ha concepito e voluto per l'umanità a misure troppo anguste, troppo umane, temporali, terrene. Come già insegnava s. Paolo, la salvezza che Dio ha programmato per noi ha prospettive molto più alte e ambiziose di tutte le prospettive soteriologiche escogitate dai pensatori antichi e moderni con le loro ideologie e le loro utopie: il disegno di Dio ha di mira la liberazione dell'uomo dalla(-"') morte (sia fisica che spirituale) per la vita: «Dio dà vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4, 17). Ma qualcuno si chiederà: esiste una "scienza" della fede? Non è forse la(-"') ragione soltanto passiva di fronte a Dio che le parla, e l'unica disposizione che le viene richiesta non è forse quella dell'umile accettazione del divino messaggio? Fides ex auditu dice s. Paolo. La fede ascolta, accetta e confessa. Ciò è vero, ma occorre un intellectus fide i. Ascolta infatti veramente soltanto chi comprende; il servo ascolta il padrone se capisce ciò che gli comanda di fare. Nella Rivelazione Dio non parla a se stesso, ma all'uomo, e Dio parla all'uomo proprio perché sa di poter essere capito, avendolo dotato di intelletto per fare di lui, secondo l'espressione di Karl Rahner, un «uditore della Parola». Ora Dio ha parlato, ed esiste un depositumfidei memorizzato dalla Scrittura e dalla Tradizione. Comprendere la Parola di Dio, approfondirne il significato, esporla ordinatamente cosl da afferrarne il significato globale: questo è il compito della teologia. 2. Oggetto materiale e formale della teologia. Ricordiamo anzitutto che !"'oggetto materiale" è ciò che è comune a varie scienze, mentre l'"oggetto formale" è quello proprio e specifico di una determinata scienza. Cosl, oggetto materiale dell'antropologia è l'uomo, che è oggetto di studio anche della medicina, della sociologia, della psicologia, della storia, ecc.;

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mentre oggetto formale dell'antropologia è l'uomo considerato nella sua natura, la sua origine, il suo valore, il suo destino ultimo. Ora, oggetto materiale della teologia è (-"') Dio, il quale è anche oggetto di studio della fenomenologia religiosa (-"' RELIGIONE), della storia delle religioni, della (-"') metafisica, cioè della teologia filosofica, oltre che della teologia dogmatica. Come osserva s. Tommaso, «nelle cose che confessiamo intorno a Dio, vi è un doppio ordine di verità. Ve ne sono alcune che superano ogni capacità della ragione umana, come la Trinità insieme all'Unità di Dio; altre poi possiamo afferrarle con la ragione naturale, come l'esistenza di Dio, la sua unità e simili verità che anche i Filosofi dimostrarono col solo lume della ragione naturale» (Contra Gentiles, I, c. 3). Poco più avanti, egli ribadisce lo stesso concetto: «L'intento del sapiente deve rivolgersi ad ambedue gli ordini di verità, naturali e soprannaturali, intorno a Dio, e a distruggere gli errori contrari. Al primo ordine basta l'indagine della ragione, mentre il secondo supera ogni industria della ragione medesima» (ibidem, c. 9). Sebbene la teologia studi tutte le verità rivelate da Dio, tra le quali figurano anche verità accessibili alla ragione (come ad es. l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima), tuttavia il suo oggetto proprio e specifico, il suo oggetto formale, sono le verità "soprannaturali". Esse appartengono ai credibilia, verità che rimangono sempre incomprensibili ed inaccessibili alla ragione. Oggetto formale della teologia sono quindi i misteri in senso stretto(-"' MISTERO, 11ID). Questi sono detti anche «articoli della fede», i quali corrispondono in definitiva agli articoli del Simbolo, che svolgono nella teologia il ruolo che hanno i principi primi nelle altre scienze: «Questa dottrina ha come principi primi gli articoli della fede, i quali sono per se noti mediante il lume della fede a colui che possiede la fede, cosl come sono a noi noti mediante il lume dell'intelletto i principi naturalmente insiti nella nostra mente» (In I Sent., Prol., q. 1, a. 3, sol. 2, ad aliud). Pertanto non qualsiasi oggetto creduto può essere accolto come articolo della fede, ma soltanto quelli che devono essere assunti come punti di partenza della fede e come cardini della teologia. Essi sono directe et per se oggetto della Rivelazione, mentre altri non lo sono se non in modo indiretto e per il tramite dei primi. «Le realtà che di

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per sé (per se) appartengono alla fede sono quelle della cui visione godremo nella vita eterna e per mezzo delle quali siamo guidati alla vita eterna. Due cose saranno allora offerte alla nostra contemplazione: il segreto della divinità, la cui visione ci renderà beati; e il mistero del1'umanità di Cristo, che ci consente l'accesso alla gloria dei figli di Dio (cfr. Rm 5,2). Ciò, d'altronde, è conforme alle parole di s. Giovanni: "Questa infatti è la vita eterna, che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai inviato, Gesù Cristo" ( Gv 17 ,3 )» (Summa theologiae, 11-11, q. 1, a. 8). In tal senso si è anche espressa lenciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio (1998). Al n. 92 leggiamo: «La teologia deve puntare gli occhi sulla verità ultima che le viene consegnata con la Rivelazione, senza accontentarsi di fermarsi a stadi intermedi. [ ... ] oggetto proprio della sua ricerca è la Verità, il Dio vivo e il suo disegno di salvezza rivelato in Gesù Cristo». Mentre nel numero successivo si precisa: «Lo scopo fondamentale a cui mira la teologia consiste nel presentare l'intelligenza della Rivelazione ed il contenuto della fede. Il vero centro della sua riflessione sarà, pertanto, la contemplazione del mistero stesso del Dio Uno e Trino. A questi si accede riflettendo sul mistero dell'incarnazione del Figlio di Dio: sul suo farsi uomo e sul conseguente suo andare incontro alla passione e alla morte, mistero che sfocerà nella sua gloriosa risurrezione e ascensione alla destra del Padre, da dove invierà lo Spirito di verità a costituire e ad animare la sua Chiesa». Oggetto specifico della teologia è tutto questo mistero cristiano con tutte le sue implicazioni e conseguenze a tutti i livelli: ermeneutico, storico, ontologico, umano e cosmologico; ma anche etico, mistico, operativo, individuale e sociale, attuale ed escatologico (cfr. Vagaggini, 1982, p. 1612).

Il. La teologia nell'orizzonte del rapporto tra fede e ragione 1. Priorità della fede e necessità della ragione in teologia. Già l'espressione «teologia» attesta la natura composita di questa disciplina: essa abbraccia due elementi, uno chiaramente umano (il l6gos, discorso), l'altro trascendente, soprannaturale (il the6s). La sua complessità è resa ancora più manifesta nella classica definì-

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zione fides quaerens intellectum. La teologia è la fede che cerca una più adeguata comprensione di se stessa. La teologia è intelligenza della fede, perciò non è semplice fede (Parola di Dio, Vangelo, Sacra Scrittura, Storia della salvezza, ecc.), né semplice ragione (che cerca, interroga, disquisisce, spiega, ecc.); ma è incontro, simbiosi, sintesi fra fede e ragione. È Dio che si dona e si incarna nel l6gos umano ("' GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL Looos). È attuazione dell'Incarnazione nel mondo del conoscere, del sapere, del linguaggio. Per stabilire questo incontro, questa incarnazione, questo sposalizio, la fede offre alla ragione un nuovo oggetto da meditare, approfondire, contemplare, comprendere; mentre da parte sua la ragione fornisce alla fede gli strumenti per interpretare, comprendere e comunicare gli articoli della fede. La ("') fede di cui si parla nella definizione di teologia è ovviamente la fede soprannaturale, la fede teologale e non la fede naturale. Nell'uomo esiste già una fede naturale: è la disposizione a fidarsi di altre persone, del prossimo, accettando quanto il prossimo dice, insegna, riferisce. La fede teologale si innesta in quella naturale come un dono, il quale arricchisce il credente sia soggettivamente che oggettivamente: soggettivamente in quanto potenzia la disponibilità all'ascolto e all'accettazione della Parola di Dio; oggettivamente in quanto comunica alla nuova facoltà (habitus) un nuovo ed infinitamente più ricco orizzonte di verità. Di qui la distinzione frafides qua, che è l'habitus del credere, e fides quae, che sono le verità rivelate accolte per fede. Per la teologia il connubio fra fede e ragione non è un fatto accidentale, occasionale, provvisorio, ma fa paite della sua stessa natura: è un vincolo indissolubile. Quando viene meno il connubio fra fede e ragione viene meno anche la teologia. Infatti, se si elimina la fede, si cade in un razionalismo più o meno presuntuoso; mentre se si elimina la ragione si cade in un cieco ("') fideismo, in cui risuona soltanto la Parola di Dio, senza nessun orecchio che realmente l'ascolti e la comprenda. Il primo è l'errore di Georg W. Hegel (1770-1831), il secondo è l'errore di Karl Barth (1886-1968). Delle due componenti della teologia, la fede e la ragione, il the6s e il l6gos, la prima gode di una priorità assoluta (logica, ontologica, assiologica e teleologica) rispetto alla seconda.

T Questo è un punto importante che le teologie del XX secolo hanno disatteso spesso e volentieri. Parlando della sacra doctrina - ancorché essa si qualifichi mediante un riferimento alla ratio - non si insisterà mai abbastanza sulla priorità a~soluta dell~fide~".In t~ologia,y polo in cui si ncerca una mtens1f1caz1one, un espansione, un approfondimento, ricorrendo alla ratio, è proprio la fede, la Parola di Dio, la Rivelazione. Colui che gode priorità assoluta nella scienza teologica è Dio che si dà e dandosi suscita nel credente quella disponibilità ad accoglierlo che si chiama fede. Il principio genetico, Ja fonte originaria, la sorgente della verità, l'habitus noetico e lorizzonte semantico in teologia è quello tracciato da Dio. La priorità della fides sulla ratio viene implicitamente riconosciuta quando per qualificare il ruolo della jides si dice che essa procura l'oggetto, i contenuti, la sostanza, l'anima il senso della scienza teologica, mentre la ratio le fornisce la forma, il corpo, la struttura, l'espressione verbale, la veste culturale. Sulla priorità della fede si registra un consenso costante tra i teologi di ogni tempo, anche se non mancano autori cristiani, soprattutto nei primi secoli e poi nel protestantesimo ("" LUTERO), che accentuano talmente il ruolo della fede da annullare praticamente quello della ragione. Clemente Alessandrino (150-215 ca.), primo grande teologo della cristianità, afferma che per la salvezza basta la fede, ma per l'elaborazione della "gnosi" (che è la scienza della fede), occorre la filosofia, ossia la ragione. Infatti, «la gnosi è una dimostrazione scientifica delle verità trasmesse dalla "vera filosofia" [la Sacra Scrittura]. Di essa possiamo dire che è un'ascesa della ragione verso lassenso a verità di cui si è ancora incerti, partendo da quelle riconosciute» (Stromata, II, 11, 48). Sant' Agostino dichiara di «aver sempre desiderato di vedere con l'intelletto quanto credeva» (De Trinitate, XV, 28, 51); mentre altrove precisa che «dobbiamo all'autorità quanto crediamo, mentre dobbiamo alla ragione quanto comprendiamo» (De utilitate credendi, 11, 25). Chiarendo il servizio che la ratio rende allafides, il dottore di Ippona afferma che la teologia «genera, nutre, difende e fortifica la fede supremamente salutare, che conduce l'uomo alla vera beatitudine; questa è scienza che non possiedono i fedeli, sebbene sia assai vigorosa la loro fede. Infatti altro è sapere quello che un

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uomo deve credere per conseguire la vita beata, la quale non può essere se non eterna, altro è saperlo in tal modo da metterlo a profitto dei buoni e da difenderlo contro i cattivi» (De Trinitate, XV, 1, 1). S. Tommaso d'Aquino, al quale l'enciclica Fides et ratio riconosce «il grande merito di porre in primo piano larmonia che intercorre fra la ragione e la fede» (n. 43), è tuttavia molto esplicito circa il primato assoluto che spetta alla fede, alla Parola di Dio, alla Rivelazione, sia per quanto concerne la salvezza, in quanto solo la fede salva, sia per quanto concerne la sacra doctrina, di cui la ragione, più precisamente la filosofia, è una semplice ancella, anche se la più importante e la più servizievole. Ecco un testo esplicito a questo riguardo: «La scienza sacra può sì ricevere qualche cosa dalle discipline filosofiche, non già perché ne abbia necessità, ma per meglio chiarire i suoi insegnamenti. I suoi princìpi infatti non li prende da essa, ma immediatamente da Dio per rivelazione» (Summa theologiae, I, q. 1, a. 5, ad 2um). La priorità della fides sulla ratio è affermata in modo egregio da s. Bonaventura nel Breviloquium, là dove dice che la teologia si propone di «evidenziare che la verità della Sacra Scrittura è da Dio, di Dio, secondo Dio e per Dio: per questo motivo essa merita il nome di teologia» (Prologo, 6, 5). 2. Fecondazione reciproca fra fede e ragione in teologia. La definizionefides quaerens intellectum fissa già in modo chiaro ed inequivocabile la singolarità del sapere teologico, che è necessariamente di natura diversa rispetto ad ogni altro sapere, in quanto in esso si intrecciano e si uniscono intimamente, e reciprocamente si fecondano, due distinte sorgenti di conoscenza, la sorgente soprannaturale della fede e la sorgente naturale della ragione, ciascuna con i propri oggetti (il lumen sacrae scripturae ed il lumen cognitionis philosophicae, come li chiama Bonaventura). Per intendere bene che cos'è e come opera il sapere teologico occorre tener presente la sua natura composita, cioè la duplicità delle sue fonti conoscitive e dei suoi princìpi, e allo stesso tempo, la priorità assoluta del principio soprannaturale rispetto a quello naturale e, conseguentemente, la costante ed essenziale subordinazione di quello naturale a quello soprannaturale; anche se questo non significa affatto che il ruolo della ragione sia accidentale o provvisorio: si tratta di un ruolo subalterno ma del tutto

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irrinunciabile per chi vuole realizzare il sapere teologico. La teologia è essenzialmente intensificazione di quell'incontro della Parola di Dio con la ragione umana, che è già in atto dal primo istante in cui Dio si rivolge all'uomo con la sua Parola. Questa non si agita nel vuoto - non è una voce che grida nel deserto come quella di Giovanni il Battista - ma agisce in profondità nella mente e nel cuore di coloro che l'ascoltano e la ricevono. Perciò sono già "teologi" Abramo, Mosè, Geremia, Isaia, Daniele, la Vergine Maria, gli Apostoli. Colui che riceve il dono della fede, da quel preciso momento si trova nella condizione di sviluppare una comprensione del tutto nuova, più ricca, più profonda della verità, dell"'intero della verità". L"'intero" di colui che crede abbraccia non solamente ciò che egli può acquisire con il lavoro autonomo della ragione insieme a ciò che gli viene proposto dalla fede - come se si trattasse di due fonti noetiche distinte - ma anche ciò che egli riesce a sviluppare e a maturare attraverso la reciproca fecondazione delle due sorgenti. È a questo punto che entra in gioco la teologia. Il suo obiettivo è distinto sia da quello della fede come da quelli delle varie forme del semplice sapere umano: è un quid novum, analogo alla novità dell'Incarnazione, dopo che la persona divina del Verbo ha assunto la natura umana. Né la semplice fede, né la semplice ragione è teologia: quest'ultima è un sapere superiore generato dalla reciproca fecondazione della fede e della ragione. Cerchiamo ora di intendere meglio come abbia luogo questa reciproca fecondazione. La condizione iniziale - astrattamente parlando - è quella di una persona che possiede la fede, ma che ancora non quaerit (non cerca): pur possedendo allo stesso tempo un altro lumen, cioè un'altra fonte di conoscenza, la ragione, con tutto il suo bagaglio di cognizioni, non l'ha messo ancora in opera per procedere così ad una migliore comprensione della Parola di Dio. Con la fede il credente è già ripieno dl mistero di Dio e ad esso aderisce con gioia ed esultanza; su di esso fissa il suo sguardo estasiato ed in esso si immerge. Procedendo per questa via dell'intuizione e dell'amore, la fede realizza un'ermeneutica di tipo mistico, non speculativo, non concettuale; resta praticamente chiusa nel suo circolo. Non "cerca" i sussidi della ragione, né si propone finalità sistematiche e tanto meno critiche.

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Il lavoro del teologo ha inizio quando la fe. de esce dal proprio guscio ed intenzionalmente si rivolge alla ragione, al lumen naturale, per realizzare anzitutto una intensificazione della propria conoscenza di Dio e delle cose in quanto ordinate a Dio, e successivamente una presentazione sistematica di tale conoscenza. A questo punto il teologo mette in moto due procedimenti ermeneutici, uno "ascendente" e l'altro "discendente". In quello ascendente si avvale di tutte le risorse conoscitive della ragione per conseguire una migliore comprensione della fe. de ed inoltre fa ampio uso del sapere umano per dare espressione alla fede stessa. In quello discendente proietta su tutto l'orizzonte della cultura umana la luce attinta dalla fede, lo risana, lo purifica, lo potenzia, larricchisce, lo intensifica sotto il profilo della verità e del significato: «il libro della Scrittura è riparativo di tutto il mondo per far conoscere, lodare e amare Dio» (s. Bonaventura, In Hexaemeron, III, 12). È abbastanza ovvio che sia nel momento ascendente come in quello discendente, il lavoro del teologo suppone la massima intensificazione e sistematizzazione del sapere razionale in quanto tale. Infatti, quanto più solido ed esteso è l'orizzonte grammaticale e semantico del sapere umano, tanto più corretta, giusta ed adeguata sarà la forma, l'espressione che si consegnerà alla Parola di Dio e, allo stesso tempo, tanto più vasta e profonda la fecondazione del1' ordine naturale che riuscirà a trarre da quella stessa Parola. In conclusione, le due ermeneutiche della fede e della ragione, che possono essere promosse e coltivate anche separatamente, nella teologia si sposano per dar luogo ad un'(,.,,) ermeneutica superiore, che si avvale delle risorse di entrambe, dando la precedenza all'ermeneutica della fede nell'ordine semantico (della verità) e all'ermeneutica della ragione nell'ordine grammaticale (della espressione linguistica, cioè della forma).

III. Lo statuto epistemologico della teologia: la teologia come scienza Gli scrittori cristiani hanno fatto teologia fin dall'epoca dei (,.,,) Padri della Chiesa, prima ad Alessandria, poi a Cartagine, quindi ad Antiochia, Gerusalemme, Roma, Costantinopoli, Milano. Essi sono riusciti a fare teologia in modo ri-

T goroso, "scientifico" e talora anche in modo sistematico. Si pensi al De Principiis di Origene e al De Trinitate e al De civitate Dei di("") s. Agostino. Essi sapevano che la teologia era una scienza e si servivano della logica e della filosofia per dare una struttura scientifica alla loro spiegazione dei misteri cristiani; però nessuno di essi si era mai preoccupato di "dimostrare" che la teologia meritasse effettivamente il titolo di scienza. II merito di avere elevato la teologia al grado di scienza, capace di trattare i misteri della fede in modo rigoroso e sistematico, spetta a ("') s. Tommaso d'Aquino. Questi entra in scena nella seconda metà del XIII secolo, nell' epoca d'oro della Scolastica, quando la teologia medioevale aveva già compiuto passi da gigante con s. Anselmo di Aosta, s. Bernardo di Chiara valle, Riccardo e Ugo di s. Vittore, Pietro Lombardo, Alano di Lilla, Alessandro di Hales e("") s. Alberto Magno. La questione della scientificità della teologia era già dibattuta sin dai tempi di Abelardo (1079-1142). Molte Summae iniziavano con la questione: Utrum theologia sit scientia (se la teologia sia una scienza). La risposta più comune era che la teologia, più che una scienza, è un'arte, e come scienza poteva entrare nel genere delle scienze pratiche, come la morale e la politica. Ai tempi di Tommaso era ancora di moda un'epistemologia teologica che potremmo dire di stampo "monofisitico" (una sola natura), che non soltanto sottolineava l'alterità della teologia rispetto a qualsiasi altra scienza, ma riduceva la presenza della ragione nella riflessione ad un ruolo meramente passivo. L'unico lumen che doveva alimentare il lavoro del teologo doveva essere il lumenfidei, e l'attività del teologo essenzialmente contemplativa. Si ebbe così la fioritura della teologia "monastica", che caratterizza il XII secolo e gli inizi del XIII. S. Tommaso ha una concezione antropologica e metafisica profondamente diversa da quelle degli altri magistri suoi contemporanei. Egli considera l'uomo nella ricchezza della sua stmttura psicofisica, nella nobiltà della sua persona, nell'autonomia della sua attività (libertà) e .interpreta i suoi rapporti con Dio e con la div!na grazia alla luce del principio che egli non st stanca mai di ripetere: gratia non destruit sed perficit naturam (la grazia non distrugge, ma perfeziona la natura). In questa prospettiva, al-

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tamente umanistica, l'Angelico definisce lo statuto epistemologico della teologia, che diventa necessariamente un habitus acquisitus, poiché si tratta di sapientia umana, ancorché la più eccellente di tutte. Però si tratta di un habitus nuovo, non previsto dalla classificazione aristotelica degli habitus (virtù) dianoetici, che includeva soltanto la fisica, la matematica e la metafisica. S. Tommaso fa vedere che come habitus intellettuale la teologia ha elementi in comune sia con la scienza sia con la sapienza. Con la scienza in quanto è discorsiva (argumentativa); con la sapienza perché ha come oggetto la causa ultima, Dio. In quanto scienza discorsiva essa ha il carattere di "scienza subalterna" perché è da Dio, mediante la fede, che essa riceve i suoi princìpi primi, gli articoli della fede, i misteri. Gli storici hanno giustamente osservato che ciò su cui fa perno lepistemologia teologica di s. Tommaso è il concetto di «subalternazione». La teoria che ci sono scienze subalternanti e subalterne risale ad Aristotele (Secondi Analitici, I, 2) ma s. Tommaso è il primo ad applicarla alla teologia. Con questa teoria che la teologia è scienza subalterna alla «scienza divina e dei beati» (Summa theologiae, I, q. 1, a. 2), l'Aquinate riesce a salvaguardare ad un tempo il primato assoluto e costante della fede e l' appartenenza effettiva, intrinseca, non accidentale, di tale scienza alla ragione. La ragione non è un semplice contenitore che riceve il vino della Parola di Dio, ma è un "alambicco" che lentamente riesce a trasformare il vino in un gustoso liquore. Secondo il Dottore Angelico, nel lavoro teologico non c'è nessuna strumentalizzazione della ragione da parte della fede bensì una partecipazione della ragione alla scienza divina con l'aiuto della fede. La fede viene data alla ragione perché questa possa conoscere ciò che altrimenti non potrebbe conoscere. Infatti il soggetto che pensa la verità rivelata è il soggetto umano il quale ha come propria capacità di pensare l'intelletto, il quale si chiama ratio, quando pensa discorrendo, argomentando, ragionando. Senonché l'intelligenza umana non possiede un potere adeguato per cogliere le verità soprannaturali. Con l'aiuto della fede, lungi· dall'essere squalificata per quanto attiene il suo esercizio, la ragione viene messa in condizione di penetrare nel mondo dell'ineffabile delle verità divine; ma lo fa discurrendo non intuendo,

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argomentando non contemplando. La contemplazione non appartiene a questa vita bensì alla vita eterna, quando faremo ritorno in patria. Il gradino più vicino alla contemplazione nella vita presente è la teologia speculativa. Come scienza subalterna che affonda le sue radici nella sapienza divina, la teologia opera sulle verità che le vengono proposte ed esposte dalla luce della fede, in modo da ricavarne tutta la pregnanza, tutta la ricchezza, tutta la bellezza. Per fare questo essa mette a buon frutto tutto l'argomento conoscitivo di cui dispone, utilizzando la tecnica dell'argomentazione. Questa, quando assume la forma sillogistica, è composta di due premesse e di una conclusione ("'LOGICA, II.2). Nell'argomentazione teologica la premessa maggiore è un asserto di fede (un articolo di fede, una verità rivelata), la premessa minore una ·verità di ragione. La seconda premessa è quindi un momento in cui la ragione fa omaggio delle proprie conoscenze alla fede, per comprendere meglio la verità rivelata. Lo statuto epistemologico che s. Tommaso conferisce alla teologia non danneggia la fede né sminuisce il carattere sapienziale di questa singolarissima scienza, ma è il modo migliore di esplicitare la ricchezza teologica della fede e di avvicinarla alla sapienza. La teologia è essenzialmente scienza superiore, massima tra le scienze umane (maxime sapientia inter omnes sapientias humanas), ma lo diviene nella misura in cui essa fa meglio comprendere la fede, raggiungendo nuove conclusioni nell'ordine di quelle verità che in statu viae (nella vita presente) rimangono oscure e inesauribili. Lo schema tomistico della struttura della scienza teologica è il quadro proposto per analizzare lo sviluppo della fede in intellectus fidei: questo ampliamento speculativo, apparentemente divergente rispetto alla semplicità contemplativa del puro credente è, in realtà, se ben condotto, una rimonta della fede verso la scienza di Dio e la prima tappa sulla via della visione beatifica (cfr. Chenu, 1958, pp. 31-41). A noi moderni l'assegnazione del titolo di "scienza" ad una ricerca che si occupa dei misteri divini - ossia di ciò che supera infinitamente tutto ciò che l'intelligenza umana è in grado di pensare e capire - sembra un controsenso. Non è forse vero che i misteri di Dio sono ineffabili? La costruzione di una scienza dei divini misteri sembra che debba inevitabilmente coz-

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zare contro uno dei due scogli, il razionalismo oppure il nominalismo. Il razionalismo stritola i misteri col torchio della ragione, «ultra modum suae capacitatis ad divinorum perscrutationem se ingerendo» (Commento di s. Tommaso al De Trinitate di Boezio, Proemium). Il nominalismo non scalfisce in alcun modo il mistero, ma si accontenta di segnalarlo con parole prive di senso. La scienza teologica costruita da s. Tommaso sfugge a tutti e due gli scogli: non è né razionalistica, né nominalistica. Egli evita l'arroganza che porta a scrutare i misteri come se fossero perfettamente conoscibili, ma allo stesso tempo è fiducioso di coglierne parzialmente il senso. Il("') mistero è l'oggetto di cui si occupa la teologia; il l6gos umano è il suo strumento. II mistero è il contenuto; la logica il recipiente. Ma mentre in tutte le altre forme di sapere è il recipiente stesso che provvede a procurarsi il contenuto, nella teologia il contenuto viene introdotto dall'esterno: viene infatti donato dalla divina rivelazione. E c'è una grande sproporzione tra il contenuto (il mistero) e il recipiente (il l6gos umano). È la stessa sproporzione che si incontra nell'Incarnazione tra la divinità del Cristo e l'umanità, per cui c'è un abbassamento (kénosis) della divinità (che rinuncia alla for-· ma della sua natura divina, come dice s. Paolo, cfr. Fil 2,6-7) nel momento in cui viene ricevuta dalla natura umana. Ma allo stesso tempo, nell'Incarnazione, c'è anche uno straordinario arricchimento delle potenzialità della natura umana di Cristo. Altrettanto avviene nella teologia: la verità del mistero si spoglia del suo fulgore divino, mentre gli occhi dell'intelligenza illuminati dalla fede sono messi in condizione di intravedere i bagliori della verità dei misteri contemplati. Nella teologia, così come è concepita ed elaborata da Tommaso d'Aquino, non c'è né razionalismo né nominalismo, ma un modesto e tuttavia gustosissimo assaggio dell'infinita ricchezza dei divini misteri. Infatti, «anche la più imperfetta conoscenza delle cose più nobili conferisce una somma perfezione all'anima. E quindi, sebbene la ragione umana non possa pienamente comprendere le verità che sono sopra di lei, tuttavia acquista grande perfezione» (Contra Gentiles, I, c. 5). Il problema dello statuto epistemologico della teologia è tornato di attualità nel secolo XX ed è stato affrontato da molti autori, in par-

T ticolare da M.D. Chenu, Y. Congar, E. Schillebeeckx, W. Pannenberg e (.·") Bernard Lonergan. Occorre tener presente che la geniale soluzione di s. Tommaso si basava sul concetto aristotelico di scienza. Ora, nell'epoca moderna, il concetto di scienza è notevolmente cambiato. A partire da Francesco Bacone (1561-1626), scientifico è ciò che è verificabile empiricamente ciò che trova conferma negli esperimenti (;, ESPERIENZA, IV). La scienza moderna non procede più deduttivamente, come insegnava Aristotele, ma induttivamente. Non parte da principi, ma piuttosto stabilisce dei princìpi. Ora è evidente che questo nuovo concetto di scienza non è applicabile alla teologia e cosl, in molti ambienti è stato contestato il carattere scientifico della teologia("" POSITIVISMO). Senonché, la recente "rivoluzione epistemologica" ha messo in discussione il concetto baconiano di scienza ed il valore del procedimento induttivo. Filosofi contemporanei come ("") Popper, Kuhn o Lakatos, negano che le scoperte scientifiche siano il risultato di determinati procedimenti metodolo. gici (.i' EPISTEMOLOGIA, II). Attualmente si ammette che il concetto di "scienza" sia un concetto analogico e non univoco, e che pertanto il modo di fare scienza non è lo stesso nella matematica, nella fisica, nell' astronomia, nella chimica, nella biologia, nella storia, nella sociologia. Gli elementi essenziali per avere scienza sono due, rigore ed obiettività: rigore dei procedimenti ed obiettività degli asserti. Ora, anche in teologia si trovano questi due elementi, e pertanto essa merita il titolo di scienza. La teologia procede rigorosamente nella raccolta dei suoi dati, nelle sue argomentazioni, nell'organizzazione delle verità rivelate. Quanto all'obiettività, la teologia ha il diritto di rivendicarla, ma non la può convalidare né mediante verifiche sperimentali, né mediante dimostrazioni rigorose, ma soltanto appellandosi alla divina rivelazione. È quindi una scienza del tutto particolare: nasce dalla fede e si occupa della fede: è una scienza della fede. Perciò è scienza in senso analogico, ed è questo precisamente quanto già insegnava s. Tommaso con la sua teoria della subalternazione.

IV. Filosofia e teologia 1. La necessità di un logos su Dio. L'enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio dedica

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un lungo capitolo alla questione dei rapporti fra filosofia e teologia (cfr. nn. 64-79). Vi si dichiara che vi sono «alcuni compiti propri della teologia nei quali il ricorso al pensiero filosofico si impone in forza della natura stessa della teologia» (n. 64). Essa deve ricorrere alla filosofia sia nel momento dell' auditus fidei, sia in quello dell'intellectusfidei: «Con il primo, essa entra in possesso dei contenuti della Rivelazione cosl come sono stati esplicitati progressivamente nella Sacra Tradizione, nella Sacra Scrittura e nel Magistero vivo della Chiesa. Con il secondo, la teologia vuole rispondere alle esigenze proprie del pensiero mediante la riflessione speculativa» (n. 65). Nell' auditus fidei la teologia applica il suo procedimento ascendente (vedi supra, Il.2), nell'intellectusfidei realizza il procedimento discendente. In entrambi il ricorso alla filosofia risulta indispensabile. Nel primo - l' auditus fide i - l'apporto dell~ filosofia è importante soprattutto «per una più coerente comprensione della Tradizione ecclesiale, dei pronunciamenti del Magistero e delle sentenze dei grandi maestri della teologia» (ibidem). Nel secondo - l'intellectus fidei - il ricorso alla filosofia è necessario specialmente «nel far emergere il significato di salvezza che tali proposizioni contengono per il singolo e per l'umanità» (n. 66). Ma precisamente, di quale filosofia ha bisogno la teologia? Noi sappiamo non solo che esistono molte filosofie ma anche molti generi di logoi (discorsi possibili): oltre quello del linguaggio ordinario, vi sono i logoi specializzati delle varie scienze. Come già mostrava sant' Agostino nel De doctrina christiana, tutti questi logoi possono essere utilissimi al teologo. Tuttavia, tra i logoi umani esiste un logos privilegiato assolutamente indispensabile quando si fa teologia: è il logos della filosofia. Infatti solo la filosofia, occupandosi dell'Intero senza restrizioni, cosa che non fa mai la scienza ("" UNIVERSO), è in grado di attingere quell'orizzonte concettuale che supera tutti i confini spazio-temporali e giungere fino all'Infinito; solo questo vastissimo orizzonte si attaglia alle esigenze dell'Intero originario che viene dischiuso dalla Parola di Dio. Certo il teologo deve vigilare che sia rispettata quella infinita differenza qualitativa che separa i due orizzonti e i due logoi, riconoscendo tuttavia che c'è tra di loro quel minimo di ( "") analogia che giustifica l'applicazione dell'intero della ragione all'Intero della fede.

Teologia Questa tesi che è stata sostenuta ininterrottamente dai teologi cattolici di tutti i tempi, già a partire da Clemente Alessandrino e da Origene, trovò espressione nella celebre formula philosophia ancilla theologiae. La tesi è stata ribadita anche dal Magistero ecclesiastico: da Leone XIII (Aeterni Patris, 1879), da Pio XII (Humani generis, 1950) e da Giovanni Paolo Il, in modo particolare. Quest'ultimo Pontefice, in occasione della sua visita alla Pontificia Università Gregoriana (15.12.1979), rivolgendosi ai professori e agli studenti disse tra l'altro: «La teologia nella sua storia millenaria ha sempre cercato "alleati" che l'aiutassero a penetrare tutte le ricchezze del piano divino così come esso si disvela nella storia dell'uomo e si riflette nella magnificenza del cosmo. Questi alleati sono stati ravvisati via via nelle scienze e nelle discipline che andavano emergendo sotto la spinta del desiderio di una conoscenza più profonda del mistero dell'uomo, della sua storia, del suo ambiente di vita. Mal' alleata principale, la scienza che presta maggior aiuto alla teologia resta sempre la filosofia. In effetti la conquista della verità naturale, che ha la suprema sorgente in Dio creatore, come la verità divina l'ha in Dio rivelatore, ha reso la filosofia sommamente idonea ad essere ancilla fide i senza svilire se stessa e senza restringere i suoi campi di indagine, ma al contrario, acquistando sviluppi impensabili della ragione umana». 2. Il ruolo insostituibile della metafisica. La filosofia tocca il culmine della sua esplorazione dell'Intero nella("') metafisica, la quale è per definizione studio dell'Intero e non di qualche settore particolare della realtà. Secondo la classica definizione di Aristotele, la metafisica è «studio dell'ente in quanto ente». Nella sua ascesa verso il Principio, sorgente di ogni realtà e di ogni ente, l'indagine metafisica mette sempre a punto una "grammatica del trascendente", che è esattamente il l6gos di cui ha bisogno la teologia. Questa si rivolge alla metafisica (come del resto anche alle scienze umane) non tanto per attingere dai suoi otri nuove verità su cui la Rivelazione non si sarebbe espressa - potrebbe anche farlo, ma si tratta di verità secondarie per quanto concerne la storia della salvezza - ma soltanto per impadronirsi di quegli otri e per usarli al fine di rendere maggionnente "commerciabile" la Parola di Dio. Sulla metafisica quale strumento insostituibile per fare della buona teologia insiste giu-

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stamente la Fides et ratio. Da una parte l'enciclica raccomanda ai filosofi di avere il coraggio di fare metafisica per uscire da quella crisi del senso e della verità in cui è piombata la post-modernità; dall'altra richiama il teologo all'uso della metafisica per scavare in profondità nei misteri della fede. «La fede, infatti presuppone con chiarezza che il linguaggi~ umano sia capace di esprimere in modo universale - anche se in termini analogici, ma non per questo meno significativi - la realtà divina e trascendente. Se non fosse cosi, la parola di Dio che è sempre parola divina in linguaggio umano, non sarebbe capace di esprimere nulla su Dio» (n. 84). D'altronde, «la parola di Dio fa continui riferimenti a ciò che oltrepassa l'esperienza e persino il pensiero dell'uomo; ma questo "mistero" non potrebbe essere rivelato, né la teologia potrebbe renderlo in qualche maniera intellegibile, se la conoscenza umana fosse rigorosamente limitata al mondo dell'esperienza sensibile. La metafisica pertanto si pone come mediazione privilegiata nella ricerca teologica. Una teologia priva dell'orizzonte metafisico non riuscirebbe ad approdare oltre l' analisi dell'esperienza religiosa e non permetterebbe all'intellectus fidei di esprimere con coerenza il valore universale e trascendente della verità rivelata» (n. 83). Pertanto la teologia esige «una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace cioè di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante. È un'esigenza questa, implicita sia nella conoscenza a carattere sapienziale che in quella a carattere analitico; in particolare, è un'esigenza propria della conoscenza del bene morale, il cui fondamento ultimo è il Bene sommo, Dio stesso» (n. 83). 3. La filosofia di cui ha bisogno la teologia. Pertanto la teologia ha anzitutto bisogno di una filosofia che sia aperta e non chiusa alla Trascendenza. Se una filosofia è chiusa alla Trascendenza, non dispone, né può disporre di una grammatica concettuale atta ad esprimere i grandi misteri del cristianesimo (Trinità di Dio, Incarnazione, Risurrezione, Chiesa, Sacramenti, ecc.) che sono tutti misteri che si riferiscono al mondo della Trascendenza, alla sfera del metafisico, del sovra-sensibile, del sopra-naturale. Sono filosofie chiuse alla Trascendenza il nichilismo, il nominalismo, l'(;r) agnosticismo, il ("') materialismo, il ("') positivismo, lo storici-

T mo il marxismo, il ("")pragmatismo, il "pen1 siero' debole" . s·1 tratta precisamente . deIl e "~~ uuse ~ilosofie" d.e~unciate dalla. Fides et ratio come incompatibth con la teologia (cfr. nn. 86-90). Sono invece aperte alla Trascendenza non solo il platonismo e laristotelismo - sia nelle versioni originarie, sia nelle versioni derivate di Agostino, Tommaso, Duns Scoto, ("") Cusano, (/) Descartes, Malebranche, Vico, ("") Leibniz, ("') Rosmini, ecc. - ma anche alcune filosofie contemporanee come lesistenzialismo di Jaspers e Marce!, il personalismo di Mounier, Lavelle, Buber, Levinas, e anche a nostro avviso la filosofia della speranza di Bloch. Queste filosofie - in linea di principio aperte alla Trascendenza, anche se di fatto non sempre la teorizzano sono in grado di dialogare con la teologia. La filosofia di cui la teologia ha bisogno è questo il secondo requisito - non deve soltanto contenere un'apertura verso la Trascendenza, ma deve anche sviluppare una riflessione positiva sulla Trascendenza, deve cioè contenere una "metafisica", come ribadisce con insistenza la Fides et ratio. Abbiamo già osservato che i misteri di cui si occupa la teologia sono misteri "soprannaturali", apl:'artengono cioè alla sfera della Trascendenza. E quindi il linguaggio della trascendenza quello di cui necessita la teologia. Ma questo è precisamente il linguaggio che mette a punto la metafisica e soltanto la metafisica; ed è anche ciò che la metafisica ha sempre fatto da quando Platone ha compiuto la sua "seconda navigazione", e da quando Aristotele con la sua prote philosophia ha scoperto e organizzato questa importantissima disciplina teoretica. Infatti, solo le categorie della metafisica sono categorie aperte, sono concetti veramente universali, in grado di esprimere con sufficiente chiarezza e precisione (senza mai cadere né nell'equivocità, né nell'apofatismo) le grandi verità della Rivelazione. Le due massime metafisiche che la mente umana abbia mai saputo costruire rimangono ancor oggi e resteranno per sempre le metafisiche di Platone e di Aristotele. A ragion veduta il cristianesimo si è sempre riv.olto alla loro metafisica per dare veste scientifica alla Parola di Dio, pur apportando le necessarie correzioni ed integrazioni (con Agostino, rispetto a Platone, con Tommaso, rispetto ad Aristotele). In terzo luogo la filosofia di cui ha bisogno la teologia non è una metafisica che pone a fondamento della realtà un principio impersonale

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(l'Uno, la Sostanza, l'Essere, il Bene, ecc.), ma un principio personale. Infatti le realtà di cui si occupa la teologia sono anzitutto e soprattutto realtà personali: tali sono sia gli "abitanti del cielo" (la SS.ma Trinità, la Vergine Maria, gli Angeli, i Santi), sia gli abitanti di questa terra pellegrini verso la patria beata. Nel secolo XX sono state elaborate anche varie filosofie di stampo personalistico, ma quasi tutte dettate dal pregiudizio di un insanabile conflitto tra metafisica e personalismo. Si tratta però di un nefasto pregiudizio che rende precario il personalismo e impoverisce assai la metafisica. Purtroppo hanno un'impostazione impersonalistica, le grandissime metafisiche di Platone (che è una metafisica dell'Uno e del Bene) e di Aristotele (che è una metafisica della Sostanza Prima e del Motore immobile). Perciò questi due prototipi di tutte le metafisiche hanno bisogno di una profonda revisione in senso personalistico. Non si tratta di un'operazione impossibile. È il punto di partenza di queste metafisiche che va modificato. La "seconda navigazione" non deve prendere il via dal mondo impersonale delle cose materiali e del divenire cosmico, bensì dal mondo delle persone umane, per traghettarlo verso il mondo delle Persone divine. La filosofia di cui necessita la teologia deve possedere ancora un'altra nota importantissima, la nota "agapica", cioè la nota dell'amore, e questo perché l'amore è il principio universale, il vero principio primo, da cui procede ogni cosa. Ovviamente, nel cristianesimo, I' amore è una proprietà personale, una proprietà delle persone. Ma in Dio l'amore è molto di più che una proprietà; in Lui l'amore è il suo stesso essere. Più che sostanza, più che pensiero, più che persona, Dio è amore: Deus caritas est (JGv 4,8.16), ed è un amore così intensamente personale che si ipostatizza in tre Persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: i tre infiniti, eterni e felicissimi Amanti. Tutta la teologia va ricostruita in chiave agapica, ma altrettanto si deve fare anche per la metafisica, perché soltanto una filosofia agapica è degna ancella di una teologia agapica.

V. Il metodo della teologia Essendo una scienza, e perciò uno studio rigoroso, approfondito, critico e sistematico,

Teologia anche la teologia ha bisogno, come ogni scienza, di un proprio metodo. Storicamente, il primo metodo scientifico fu elaborato da Aristotele nella sua logica (gli scritti dell' Organon). Si tratta essenzialmente di un metodo deduttivo: esso procede da verità universali e arriva a conclusioni (verità) particolari. Agli inizi dell'epoca moderna, Francesco Bacone nel suo Novum organon escogitò un nuovo metodo, quello induttivo, che da fenomeni particolari risale alla legge universale. I teologi hanno generalmente praticato, fino all'epoca del Concilio Vaticano II (19621965), il metodo deduttivo, che per la loro disciplina sembra non soltanto perfettamente legittimo, ma anche l'unico praticabile; infatti la teologia non stabilisce i propri princìpi (gli articoli della fede, i misteri), ma li riceve direttamente dalla Parola di Dio, ed il suo compito, come sappiamo, è semplicemente di approfondirne il significato e respingere le difficoltà e le obiezioni che si possono sollevare contro di essi. Alcuni teologi recenti hanno messo in discussione il metodo della teologia: criticato e respinto il metodo dall'alto (quello deduttivo), hanno adottato quello dal basso (induttivo), non accorgendosi che in questo modo correvano il rischio di cui erano rimaste vittima anche la maggior parte dei filosofi moderni, quello di credere nel valore assoluto del metodo induttivo e nel concetto univoco di scienza. Epistemologi contemporanei come Popper, Gadamer, Bachelard, Agazzi e altri, hanno contestato ambedue le pretese; hanno dimostrato che il metodo induttivo non ha affatto un valore assoluto e tutto sommato non funziona neppure per le scienze sperimentali, che non hanno alla loro base la constatazione di fatti, di fenomeni, e come procedimento linduzione, ma muovono da problemi e procedono con ipotesi che sono sempre accolte provvisoriamente, con la clausola della falsificabilità. Quanto poi al concetto di scienza, esso non ha un carattere univoco, bensì analogo: perché si realizzi basta un certo grado di rigore ed oggettività, ma il rigore e loggettività possono variare enormemente da scienza a scienza. Quanto alla teologia, essendo un' ermeneutica razionale della Parola di Dio, essa esige un metodo molto complesso, che non può esaurirsi semplicemente né nell'induzione, né nella deduzione. Nel suo monumentale studio

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sul metodo teologico, Bernard Lonergan (Me. thod in Theology, London 1972) distingue otto momenti o specializzazioni funzionali (.w Lo. NERGAN, IV): la "ricerca", che è la raccolta dei dati ritenuti pertinenti alla storia della salvez. za; !"'interpretazione", che ne precisa il significato; la "storia", che reperisce i significati in. cainati in azioni e movimenti; la "dialettica" che indaga le conclusioni conflittuali degli sto~ rici e degli interpreti; la "fondazione", che dà valore oggettivo all'orizzonte raggiunto me. diante la conversione; la "dottrina", che si serve della fondazione come guida per scegliere tra le alternative presentate dalla dialettica; la "sistematica", che cerca un chiarimento definitivo del significato delle dottrine; la "comunicazione", che cura la trasmissione intelligibile degli asserti teologici. A nostro avviso, il metodo della teologia è alquanto più semplice di quello elaborato da Lonergan, e consta sostanzialmente di quattro fasi: a) fenomenologica, che è un'analisi accurata dell'uomo come essere singolo ed essere socievole in tutte le sue attività principali (conoscenza, volontà, libertà, linguaggio, cultura, lavoro) e nelle istanze che più contano; b) metafisica, che è uno studio approfondito della natura umana, della persona, della dimensione spirituale dell'uomo, della sua apertura verso l'infinito e verso il trascendente, della sua esigenza di perennità; c) ermeneutica, che è comprensione e proposta della Parola di Dio come parola di salvezza per l'umanità, in tutti i suoi bisogni fondamentali, sia del corpo che dello spirito, sia per le persone singole che per i gruppi sociali; d) dialogica, che cerca di rac· cordare la Parola di salvezza con le istanze storiche, concrete, particolari dell'epoca storica in cui il teologo svolge il proprio lavoro. Que· st' ultima è la fase in cui può trovare una buona applicazione il metodo "correlativo" di Paul Tillich (1886-1965), il metodo cioè della do· manda della ragione e della risposta della fede, oppure il meto~o della "relazione polare" tra fede e ragione di Romano Guardini (18851968). L'importanza del momento dialogico nel metodo teologico è stata ribadita più volte da Giovanni Paolo II. La si trova già espressa nel1' enciclica Redemptor hominis (1979), ma è stata poi riaffermata in varie circostanze, in particolare nel discorso ai teologi di Salamanca (1.11.1982), in cui si dice tra l'altro che la teo-

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1 gia va elaborata «come risposta di pienezza g~atuita alle questioni fondamentali della vita umana». Nelle nostre quattro fasi del metodo teolo'co traspare chiaramente la saldatura che uni:~e la riflession~ teologi~a a qu~lla ~ilosofica. Il discorso teologico non s1 esaunsce m una semlice trasposizione delle categorie e del lin~uaggio filosofico al messaggi~ cristiano; l'operazione del teologo è molto più vasta e complessa e, nella sua parte iniziale (q~e~la fen~­ menologica e trascendentale o metaf1s1ca), esige un grosso impegno filosofico: esso consiste nel sollevare le questioni fondamentali e nel prospettare delle .risposte v.alid~ •. che però si enunciano come nsposte opmab1h e non assolutamente sicure, e se pretendono possedere un carattere di assoluta certezza ed esaustività, la ragione si rende colpevole di superbia (hybris). Nelle fasi ermeneutica e dialogica, il teologo presenta la risposta che Dio offre alla ragione per le questioni fondamentali della vita umana, una risposta gratuita che per un verso smaschera le sue inattuabili pretese e, dall'altro, colma le sue più elevate aspirazioni. Come abbiamo visto in precedenza (vedi supra, IV.1), e come insegna anche la Fides et ratio (cfr. nn. 64-65), nella fase ermeneutica si distinguono due momenti: quello dell' auditus /idei e quello dell'intellectus fidei. Il primo si occupa dell'ermeneutica delle fonti: la (") Sacra Scrittura, la Tradizione, le definizioni conciliari. Il secondo si occupa dell'ermeneutica delle istanze dell'umanità; è l'ermeneutica dei "segni dei tempi", su cui il teologo cerca di irradiare la luce della Parola di Dio, della Rivelazione. Ovviamente, ciascuna delle quattro tappe fondamentali del metodo teologico richiede molto tempo e grande impegno e, probabilmente, nessun teologo è in grado di percorrerle interamente da solo. Per questo si dice che il tempo delle Summae è ormai superato. Al loro posto oggi si compilano dizionari ed enciclopedie, generalmente con la collaborazione di molti autori. Ciò significa che anche la teologia è diventata un lavoro svolto in équipe. BATIISTA MONDIN

Vedi: EPISTEMOLOGIA; FEDE; METAFISICA; RAGIONE; SCIENZE NATURALI, UTILIZZO IN TEOLOGIA; VERITÀ; TOMMASO o' AQUINO.

Teologia

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Trapianti TRAPIANTI

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zioni e confusioni concettuali. È perciò utile fin dall'inizio, fare chiarezza almeno su alcuni di essi. Con il termine «trapianto» si indica un complesso intervento chirurgico con cui un organo, o un tessuto, o anche solo qualche cellula, viene prelevato da un organismo e innestato in un altro, oppure in una zona diversa dello stesso organismo. Questa descrizione include in sé chiaramente varie specie di trapianti, che si distinguono sia in base a ciò che viene trapiantato (organo, tessuto, cellula), sia in base all'organismo destinatario (lo stesso da cui si fa il prelievo, o un altro). Si affaccia all'orizzonte anche il trapianto di geni, all'interno della ("")ingegneria genetica. Ma dato che qui ci occuperemo, quasi unicamente, dei trapianti di organi, conviene fin d'ora precisare che limiteremo l'attenzione a quanto riguarda questo tipo di trapianto. Come nel linguaggio usuale, anche noi qui, col termine «trapianto», senza nessuna ulteriore specificazione, intenderemo sempre trapianto di organo. Possiamo definirlo: «intervento chirurgico con cui si innesta in un organismo, detto "ospite", un organo prelevato da un altro organismo, detto "donatore"». Per quanto concerne i termini «prelievo da cadavere» e «prelievo da vivente» è superflua ogni spiegazione. Gioverà, invece, notare subito che la stragrande maggioranza dei prelievi è da cadavere. Da vivente, unico prelievo ammissibile è stato per anni quello di rene. Da poco tempo si è aggiunto quello di una parte del fegato. E se si allarga l'attenzione anche ai tessuti, c'è da aggiungere il prelievo di midollo osseo e quello di sangue del cordone ombelicale, per la cura di varie patologie del sangue. Con la denominazione «donatore» viene convenzionalmente indicato l'organismo umano da cui si preleva un organo a scopo di trapianto. Di per sé, tale sarebbe solo il soggetto vivente che dona uno dei suoi organi, o anche chi in vita ha manifestato la volontà che, a morte avvenuta, i suoi organi siano prelevati a scopo di trapianto, ma è invalso l'uso del termine con l'accezione più ampia ora accennata. Ancora: «omotrapian· to» è detto il trapianto di un organo prelevato da un organismo appartenente alla stessa spe· cie, cioè quella umana, dell'organismo ospite; mentre la dizione «eterotrapianto» o «xenotra· pianto» indica il trapianto di un organo prete· vato da un organismo appartenente ad un'altra specie.

T Infine, termini quali «istocompatibilità», 'pizzazione» e «rigetto», sono .decisamente tl « . . t Cnici e una loro sp1egaz1one esauriente occupee . L' . 1e, rebbe in questa sed.e troppo spaz10. . ~~senz!a in termini sperabilmente comprens1b1h, puo ese sintetizzato m . ~ueste poche fìrasi:. «L' ~~gano sere 0 il tessuto da trapiantare devono essere compatibili", devono cioè essere immunitariamente comparabili (cioè riconoscibili come "propri") con lorganismo ricevente. Questa ricerca della compatibilità è definita come "tipizzazione". In caso contrario si ha una complessa reazione immunitaria verso l'organo o il tessuto ricevuto, che può portare addirittura al suo rifiuto, come è il caso del "rigetto"» (Crepaz, 1996, p. 7). L'istocompatibilità è massima tra due gemelli omozigoti; notevole tra fratelli e altri stretti consanguinei; carente, in misura più o meno rilevante, tra non consanguinei. Nel momento in cui si rende disponibile un organo, l'individuazione del soggetto col più basso grado di incompatibilità u·a i pazienti in lista di attesa, si raggiunge con rapidità e sicurezza, grazie alla rete di mezzi della moderna informatica, che collega i vari Centri operanti, con sede anche in Paesi diversi. 2. Origini della problematica, situazione attuale e prospettive. La comparsa dei trapianti di organo ha segnato, nel processo di sviluppo della medicina moderna, una delle svolte più importanti e più ricche di significati, che vanno ben oltre l'ambito della ("") medicina. La sua rilevanza in tale ambito è incisivamente evidenziata da queste parole di uno dei maggiori esperti, da tempo impegnato nella ricerca e nella prassi dei trapianti: «si può cominciare per la prima volta a parlare di terapia radicale delle affezioni morbose [ ... ], vale a dire la sostituzione di un organo malato, di una parte malata con una sana, di modo che l'individuo possa tornare ad essere normale e non viva in condizioni precarie di subnormalità» (Cortesini, 1969, pp. 87ss). A differenza però di altre "svolte", ad esempio la scoperta dei sulfamidici o degli antibiotici, quella dei trapianti ha avuto profonde ripercussioni anche in altri ambiti, oltre a quello della medicina, e di fondamentale importanza. Ha, infatti, scosso e rimesso in questione concezioni da sempre e universalmente accolte nell'umanità, circa la ("") morte, la (.ir) vita, la persona e, in campo morale, ha aperto orizzonti nuovi, fino a ieri impensabili, ~Ila solidarietà. In breve, «non c'è aspetto relativo al trapianto di organi che non abbia susci-

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tato interrogativi di natura morale e filosofica» (Lamb, 1995, p. 19). La storia dei trapianti in senso proprio inizia negli anni intorno al 1950. È del 1954 il primo trapianto di rene non fallito, ma per oltre vent'anni il trapianto non superò la condizione di "sperimentazione clinica". Si colloca nei primi anni '80 il passaggio dei trapianti ad una vera e propria "realtà terapeutica", grazie a nuove acquisizioni e scoperte, specialmente quella di un farmaco capace di assicurare un controllo meglio calibrato della reazione immunitaria dell'organismo ricevente, la «ciclosporina A», seguita poi da altri farmaci ancora più vantaggiosi (cfr. Ippoliti e Viganò, 1999). La situazione odierna può essere così descritta: «Il trapianto rappresenta, oggi, l'unica vera cura disponibile per un numero crescente di patologie ad evoluzione sfavorevole e irreversibile del rene, cuore, fegato, polmone, pancreas e intestino. [ ... ]A dimostrazione della validità di tale pratica terapeutica basta ricordare che in tutto il mondo sono operativi più di 1.650 Centri che hanno effettuato oltre 350.000 trapianti di rene, 1.600 di pancreas, 5.600 di rene e pancreas, 40.000 di fegato, 180 di intestino e multiviscerali, 36.000 di cuore e 4.200 di polmone». E quanto alla durata di vita dopo un trapianto, «la più lunga sopravvivenza del ricevente è stata di 32 anni nella chirurgia sostitutiva renale, di 25 anni in quella epatica e di 21 anni in quella cardiaca, di 16 anni dopo il trapianto di pancreas, di 14 anni dopo trapiarto combinato di rene e pancreas, di 12 anni dopo trapianto di cuore e polmoni, di 10 anni dopo trapianto singolo e di 8 dopo trapianto bilaterale di polmone» (Cortesini e Venettoni, 1999, p. 61). Un risultato il cui valore in termini di vite umane risalta con tutta evidenza, quando si sa che, ad esempio, per i trapianti di cuore, «mentre il 100% dei pazienti selezionati e non trapiantati muore entro 6 mesi, 1'80% dei pazienti trapiantati riprende a lavorare e a condurre una vita normale entro un anno» (Bompiani e Sgreccia, 1989, p. 16). Quali sviluppi si possono prevedere nel futuro? Solo qualche breve cenno. Nell'allungamento, sempre in atto, della lista di organi, e di altre parti del corpo, suscettibili di trapianto, sta conoscendo notevoli sviluppi il trapianto da vivente di parte del fegato (cfr. Salizzoni et al., 1999, pp. 39-42). È recente la notizia dei primi trapianti di mani e di avambracci, anche a di-

1ì-apianti stanza di anni dalla loro amputazione. È in crescita il numero di trapianti di più organi insieme, come rene e pancreas, cuore e polmoni. Traguardo estremo verso cui sta da anni muovendosi qualche ricercatore, pur nella bufera di accese discussioni, è il trapianto di testa o di tronco (cfr. White, 1983, pp. 102-130). Ma il problema a cui maggiormente preme trovare soluzione è quello costituito dalla troppo scarsa disponibilità di organi, rispetto al numero di pazienti in lista di attesa. A giudizio di competenti, anche con la migliore delle leggi e con un'ottima organizzazione sanitaria, non si arriverà mai al pareggio tra domanda e offerta (cfr. Cortesini e Venettoni, 1999, p. 62). Le ricerche di soluzione del problema si muovono principalmente su due piste: la costruzione di organi artificiali impiantabili, e perciò miniaturizzati, e l'utilizzo di organi prelevati da animali. L'ostacolo principale, contro cui si sono infranti i rari tentativi di xenotrapianto finora compiuti, è costituito dal rigetto, che è particolarmente acuto. Il suo superamento è affidato sia alle ricerche per un più soddisfacente controllo di esso in ogni trapianto, sia alle nuove possibilità aperte dall'ingegneria genetica con la conseguente disponibilità di animali transgenici, in primis i suini. Ben più ambiziosa è la ricerca che mira alla creazione, in vitro e in vivo, di organi. 3. La situazione sul piano giuridico. Leggi e direttive. La conoscenza, sia pure ridotta, della realtà in questo ambito permette, tra l'altro, di cogliere come è stata recepita nella società la comparsa e la diffusione dei trapianti, facendo riferimento non a indagini di opinioni, in cui spesso emergono valutazioni e atteggiamenti dettati da emotività e da scarsa informazione, ma a quelle sedi in cui è ragionevole presumere che quanto viene detto sia basato su conoscenze serie sia sui trapianti, sia sugli orientamenti della maggioranza della popolazione. Sono in questione non solo leggi emanate da singoli Stati, ma anche direttive date dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), da organismi della Comunità Europea e dall'Associazione Medica Mondiale, nonché da Comitati Nazionali di Bioetica. Non potendo in questa sede passarli in rassegna, rimandiamo il lettore alle informazioni contenute nella Bibliografia (cfr. Bompiani e Sgreccia, 1989, pp. 85131 e 157-305; Sapienza, 1996, pp. 61-67; Aramini e Di Nauta, 1998, pp. 51-66). Per quanto concerne le legislazioni statali, ne diamo qui solo un rapido cenno. Nei vari

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Stati in cui il grado di sviluppo raggiunto ha consentito di far posto alla pratica dei trapianti si è percepita subito la necessità di una regola~ mentazione giuridica, che si è portata o su tutti o solo su alcuni dei molteplici aspetti e implicazioni che tale attività comporta. Nella grande maggioranza dei casi, nonne attente, ovviamente diversificate, si sono avute circa l'accertamento di morte del donatore, il consenso al prelievo, l'organizzazione dell'attività di trapianto e il suo controllo da parte dello Stato, il divieto di commercio di organi (cfr. Bompiani, 1994, pp. 460-466, 474-477). 4. Posizioni religiose e problematica etica complessiva. Una realtà cosl complessa, quale è quella dei trapianti, che tocca profondamente le persone fino a mettere in gioco la vita e la morte; una realtà che coinvolge la società fin nei suoi organi legislativi e nella sua organizzazione sanitaria, non può non sollevare problemi etici seri, complessi a loro volta, e per giunta inediti nella storia umana. Guardando alle grandi religioni, sia quelle monoteistiche, sia quelle orientali, si può rilevare che è largamente estesa, con motivi ovviamente diversificati, una valutazione positiva del trapianto. Su questo punto specifico, che non potremo qui sviluppare, rinviamo alla bibliografia per maggiori informazioni (cfr. Le tre grandi religioni monoteistiche (Ebraismo, Cristianesimo, Islam) e la donazione di organi dopo la morte, 1993; Atighetchi, 1995; Biagi e Pegoraro, 1997). Dal punto di vista della problematica etica più generale, e tenendo conto del fatto, già rilevato, che la stragrande maggioranza dei trapianti si effettua con organi prelevati da cadavere, è possibile ed è didatticamente utile evidenziare un primo gruppo di problemi che si pongono abitualmente nella pratica rutinaria · dei trapianti, connessi come sono col prelievo da cadavere. Tali sono, in rapporto al donatore: a) il consenso al prelievo, ovviamente antecedente; b) l'accertamento della sua morte. Un secondo gruppo è costituito da problemi che si pongono con relativa rarità. Essi sono: a) la cessione di un proprio organo da parte di un soggetto vivente; b) il prelievo di tessuti e orga· ni fetali. Infine un terzo gruppo di problemi è costituito da quei trapianti che si profilano per il futuro, attualmente ancora in fase di ricerca su animali, e cioè: a) lo xenotrapianto e b) il trapianto di tronco, o di testa.

T In relazione poi a tutti questi problemi c'è da far luogo ad. as?etti ?i~r~dici e ad ~spetti di olitica sanitana, 1~ cm, e 1m?1a~cabtl~ anche pna dimensione etica. E ovv10, mfattt, che è 11 mpito dell'etica giustificare la doverosità di 0 ~ali interventi e indicare i criteri a cui deve ispirarsi il loro adempimento ("" BIOETICA). Nella nostra esposizione ~i occupe~emo ~zitutto, e più attentamente, det problemi del pnmo gruppo cioè di quelli che oggi si presentano con m~ggiore frequenza, e che in alcuni aspetti sono oggetto di vivaci dibattiti. Vedremo poi, più brevemente, i problemi del secondo e del terzo gruppo. Gli aspetti giuridici e politici troveranno posto, in gran parte, lungo tutta l'esposizione. I dovuti limiti di spazio disponibile ci imporranno una certa sinteticità.

II. I più frequenti problemi etici: consenso al prelievo, donazione, accertamento di morte avvenuta 1. Il consenso al prelievo di organi, o donazione: i valori in gioco. Se non si vuole cadere in un deprecato moralismo, riducendo l' etica a poco più che un elenco di limiti e divieti, l'etica deve anzitutto farsi carico di evidenziare i valori che sono in questione nel comportamento di cui si tratta. Onesti e degni, oppure disonesti e indegni, saranno dichiarati i vari comportamenti, a seconda che rispettino e promuovano, oppure compromettano e calpestino, quei valori. Col termine «donazione» qui intendiamo l'atto con cui una persona manifesta la sua decisione, consapevole e· liberamente maturata, di destinare al trapianto gli organi del proprio corpo, una volta avvenuta, e debitamente accertata, la sua morte. La persona in tal modo dispone, per quanto dipende da lei, il passaggio dell'appartenenza ad altri, non di cose o oggetti propri, sia pure preziosi, ma di parti di se stesso, precisamente di parti di quel corpo che è uno dei costitutivi della persona. È dunque un vero donare. È donare una parte di sé, e, quindi, un "donarsi". Anche se, rigorosamente parlando, quando il passaggio di proprietà diverrà e~~ett~v~, il corpo, ormai cadavere, non potrà pm dtrst soggetto, dato che l"'io" in esso non c'è più. Ma è anche vero che il valore morale ~el gesto non è condizionato all'effettivo prelievo di organi, che, evidentemente, non dipen-

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derà per nulla dal donatore. Tutto il significato e il valore, il gesto ce l'ha già in se stesso. La finalità a cui quel gesto è indirizzato, non è di aumentare le ricchezze già in possesso da parte di altri, ma dare un contributo essenziale ai tentativi che esperti operatori sanitari faranno per strappare alcuni a morte prematura, liberare altri dalla logorante schiavitù di apparecchiature, altri ancora trarre fuori dal buio e dall'isolamento della cecità. Tutti tesori di incalcolabile valore e preziosità. Già questo basterebbe per riconoscere alla donazione di organi un alto valore etico, come gesto di autentica solidarietà, di altruismo e, in un credente, gesto di autentica carità. Lo ha affermato da tempo in modo esplicito Giovanni Paolo II rivolgendosi ad un gruppo di donatori: «donare il proprio sangue o un proprio organo» è certamente «un atto nobile e meritorio [... ], gesto tanto più lodevole in quanto non vi muove, nel compierlo, il desiderio di interessi o di mire terrene, ma un impulso generoso del cuore, la solidarietà umana e cristiana: lamore del prossimo che forma il motivo ispiratore del messaggio evangelico (cfr. Gv 13,34)». Sviluppando ulteriormente tale prospettiva cristiana, il Papa aggiungeva che questo gesto può essere compiuto «come un'offerta al Signore [... ], un dono fatto al Signore sofferente che nella sua Passione ha dato tutto se stesso e ha versato il suo sangue per la salvezza degli uomini» e può quindi diventare «una splendida testimonianza di fede cristiana» (Discorso all'Associazione Volontari Italiani del Sangue (AVIS) ed all'Associazione Italiana Donatori di Organi (AIDO), 2.8.1984). Il valore della donazione di organi, già cos} eticamente alto, appare ancora più ricco di nobiltà quando si pone attenzione a due qualità che lo caratterizzano; esso è un gesto: a) assolutamente gratuito, senza nessuna contropartita a vantaggio del donatore (neppure quella di ricevere un «grazie!») da parte di chi beneficerà del dono; e, b) di puro altruismo, in quanto destinato a persone verso le quali il donatore non ha debito alcuno né di affetto, né di riconoscenza, né di giustizia o di qualunque altro genere, persone che sono addirittura per lui degli estranei o ignoti. Si può allora cogliere quanto sia giustificato il grande apprezzamento che Giovanni Paolo II fa della donazione di organi nell'Enciclica Evangelium vitae (1995), collocandola al primo posto tra i gesti eroici, propri di quello che egli denomina "l'eroismo del quoti-

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diano": «tra questi gesti merita particolare apprezzamento la donazione di organi compiuta in forme eticamente accettabili, per offrire una possibilità di salute e perfino di vita a malati talvolta privi di speranza» (n. 86). Ritornando ora sull'accenno fatto poco sopra al valore della donazione di organi come gesto che si muove nella logica del "dono di sé", vale la pena di evidenziarne, sia pure brevemente, la portata, a partire dalla concezione di persona come "essere essenzialmente in relazione", cioè strutturalmente proiettata a vivere non solo "con" ma "per" gli altri e, quindi, a donarsi. La donazione di propri organi allora appare come una modalità nuova di realizzare questa dimensione propria della persona. Dimensione, evidentemente, non come una fra le altre, ma centrale e di primaria importanza. Nel cristianesimo questa concezione ha trovato più solido fondamento nella rivelazione che l'uomo è stato creato «ad immagine e somiglianza di Dio» (cfr. Gen 1,26; ;r VITA, IV). Un'espressione, questa, singolarmente pregnante, e di cui solo gradualmente si è potuto cogliere la ricchezza di significati, via via che Dio stesso si è venuto rivelando nella storia della salvezza. Tale rivelazione ha toccato il vertice in (;t) Gesù Cristo, con lo stupefacente annuncio che Dio è in se stesso comunione d'amore tra Persone in continua, piena e vicendevole donazione di sé. Richiamando questa somiglianza, il Concilio Vaticano II giunge ad affermare che l'uomo «non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé (plene seipsum invenire non posse nisi per sincerum sui ipsius donum)» (Gaudium et spes, 24). Vedere nel gesto della donazione dei propri organi una forma nuova di dono di sé ha trovato autorevole conferma in chiari e inequivocabili insegnamenti di Giovanni Paolo II: «Con l' avvento dei trapianti di organi [... ],l'uomo ha trovato il modo di donare parte di sé, del suo sangue e del suo corpo, perché altri continuino a vivere». E poco più avanti il Pontefice insiste nel riconoscere all' «atto di oblazione del donatore» il significato e il valore di «dono sincero di sé che esprime la nostra essenziale chiamata all'amore e alla comunione» (Discorso ai partecipanti ad un Congresso sui trapianti di organi, 20.6.1991). Su questa linea egli non esita a spingersi molto più avanti e in profondità, rilevando che il gesto della donazione di propri organi «è già in molti casi un atto di grande amore, quel-

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l'amore che dà la vita per gli altri» (ibidem). È fin troppo trasparente l'allusione alle parole di Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di que. sto: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13), Gesù alludeva alla sua ormai imminente passio. ne e m01te redentrice sulla croce. Nella donazio. ne dei propri organi si profilano, così, un signifi. cato e un valore stupendamente sublimi, ben 0 1. tre quelli di un gesto di solidarietà e di amore. Si dà, in esso, come un eco e un prolungamento del1' amore stesso di Cristo per noi. Dice ancora Giovanni Paolo II: «La Morte e Resurrezione del Signore rappresentano l'atto supremo di amore che conferisce un profondo significato ali' offerta di un organo da parte del donatore per salvare un'altra persona. Per i cristiani, Gesù che offre se stesso è il punto di riferimento e di ispirazione dell'amore che è alla base della disponibilità a donare un organo» (ibidem). Su questa base è possibile scoprire un nesso profondo tra la donazione di organi propri e l'Eucaristia, in cui Gesù ha reso sacramentalmente permanente quel suo donarsi per la nostra salvezza. Lo si potrebbe mettere in luce utiJiz. zando alcune acute annotazioni di un noto biblista, Albert Vanhoye, sulla istituzione della (;t) Eucaristia: «Quando parliamo dell' eucaristia, di solito insistiamo sulla trasformazione che chiamiamo transustanziazione, quella cioè del pane che diventa il corpo di Gesù, e del vino, che diventa il suo sangue. Senz'altro questa è una trasformazione essenziale al sacramento, però dovremmo insistere altrettanto, anzi maggior· mente, sull'altra trasformazione avvenuta, la quale è più importante per la nostra vita persona· le ed ecclesiale: la trasformazione della morte in mezzo di comunione con Dio e fra tutti». Nel racconto degli evangelisti torna insistente il ver· bo «dare»: Gesù «prese il pane e lo diede ai di· scepoli, prese il calice e lo diede [... ]. Gesù dava sé stesso ai discepoli, trasformava la sua morte in dono di sé» (A. Vanhoye, Discussioni sulla Nuova Alleanza, "Rivista Teologica di Lugano" 1 (1996), pp. 172-174). E cos'altro fa chi donai propri organi, se non trasformare la propria morte in dono di sé? Tutto questo può costituire an· che un valido commento alle parole di Giovanni Paolo II prima riportate: «Per i cristiani, Gesù che offre sé stesso è il punto essenziale di riferi· mento e di ispirazione dell'amore che è alla base della disponibilità a donare un organo». Un ultimo elemento vale la pena di raccogliere nelle parole immediatamente successive

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del già citato discorso del Po~tefic~, in cui egli 'denzia un valore anche sociale d1 quel gesto: eVl . 'f la donazione viene pres~nt~ta, come «~~m et zione di generosa sohdaneta ancor pm elos :ente in una società che è divenuta eccessivaq ente utilitaristica e meno sensibile alla gene~sa donazi~ne». ~el.1' ?rga~ismo so~iale, ?1-~~a­ to di utilitarismo ~nd1v1d~al~st.a, la d1spo111b1ht~ !la donazione d1 orgam diviene una sorta di ~salutare trasfusione di solidarietà" totalmente disinteressata. Il dono prezioso costituito da tale "operazione" emerge ancora più in luce considerando un'altra affermazione rivolta ai rappresentanti di quasi tutti i popoli della terra all'inizio del secolo XXI, quella che «il secolo che si apre dovrà essere quello della solidarietà» (I' ETICA DELLO SVILUPPO). Un "dover essere" che si impone se si vogliono dissipare le gravi ombr~ che ha~no grava~o sul se~olo XX, pur pieno d1 esaltanti progressi (cfr. Discorso al Corpo diplomatico, 10.1.2000). 2 Valutazione morale delle varie scelte possibili: donazione, rifiuto, noncuranza. Quanto appena ora esposto fornisce motivi più che evidenti per affermare che la scelta di donare gli organi da prelevare, a suo tempo, dal proprio cadavere sia una scelta lecita, e di nobile solidarietà. Sorge piuttosto un interrogativo: si tratta di una scelta soltanto lecita, lasciata al buon cuore di ognuno, cioè con la facoltà di fare lecitamente anche la scelta opposta, oppure si tratta invece di una scelta doverosa? La risposta più comune tra i moralisti sostiene trattarsi di una scelta solo facoltativa. Riteniamo personalmente che, a nostro avviso, quella della doverosità sia una tesi solidamente fondata. Questa tesi è sostenuta anche da chi si muove in un'ottica e su un piano puramente razionali, cioè non alla luce delle considerazioni precedentemente svolte nel contesto del messaggio biblico e cristiano. Può bastare qui un unico, ma significativo riferimento. Il Comitato Nazionale per la Bioetica in Italia, nel documento Donazione d'organo a fini di trapianto (7.10.1991) lo afferma più volte e lo ribadisce anche nella parte conclusiva: «Il Comitato [ ... ] concorda unanimemente nel ritenere[ ... ] che si debba aderire ad un'etica che consideri doverosa la donazione post-mortem» (p. 32). Per dimostrm-e la validità di questa tesi appare preferibile non la via teoretica con analisi di concetti e richiamo di principi eti~i, ma la via concreta, sulla base di un parallelo con un'altra

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situazione, quella di vite umane in pericolo di morire di fame. È evidente che chiunque abbia qualche possibilità di strappare alla morte quelle persone, ha il dovere gravissimo di farlo. È un'esigenza indiscutibile della più elementare solidarietà. Disinteressarsi di quelle vite in pericolo di morte, e proseguire indifferenti per la propria strada, nessuno esiterebbe a qualificarlo come inammissibile egoismo, o perfino come crudele cinismo. Una condanna ancora più severa poi, meriterebbe il comportamento di chi, noncurante di tali necessità, dichiarasse che preferisce gettare tra i rifiuti alimenti e denari che a lui non servono, piuttosto che darli a chi ne abbia assoluto bisogno. Riteniamo che il comportamento di chi rifiuta di donare i propri organi dopo la propria morte sia pienamente assimilabile a quello appena delineato. Tradotto in parole, in un ipotetico dialogo, questo gesto vedrebbe, da una parte i pazienti che inscrivendosi in una lista di attesa, lanciano una continua e pressante implorazione di aiuto per sfuggire a morte prematura, oppure per recuperare una condizione di vita finalmente libera dalle catene di apparecchiature mediche, e dall'altra alcuni che, raggiunti da quelle grida imploranti, rispondono: «i nostri organi?! Vadano piuttosto a marcire tutti nella tomba, ma a voi. .. niente!» E proprio così accadrà: marciranno inutilmente nella tomba, organi che potevano invece servire a salvare uno da morte prematura, a restituire ad un altro la felicità di una vita sana e libera, a ridonare ad un cieco la gioia di rivedere i volti di persone care e le bellezze della natura. Ogni rifiuto si traduce nella morte di qualcuno e nel prolungarsi , per altri, di pesanti sofferenze. In breve, la valutazione morale delle tre scelte prospettate può secondo noi così riassumersi: a) il dono è un gesto di vera, nobile e doverosa solidarietà umana e di genuina carità cristiana; b) il rifiuto è un gesto che va qualificato come certamente cattivo, perché malvagio e disonesto; c) la noncuranza indifferente è riprovevole e potrebbe in alcuni casi rivelare un cinico egoismo. Tutto questo, però, con un'importante precisazione: come ogni valutazione morale, anche questa riguarda esclusivamente comportamenti considerati nella loro oggettività, o in se stessi. In nessun modo va scambiata per giudizio, o condanna, delle persone che compiono tali scelte. Per valutare un atto in se stesso, è sufficiente conoscere gli elementi che lo costituiscono e i valori in gioco; per giudicare una per-

Trapianti sona, invece, è necessario conoscerla negli in·numerevoli elementi che la costituiscono, a partire dalla sua dotazione genetica, fino alla serie di tutte le vicende che formano la sua storia, ognuna delle quali, imponderabilmente, ma realmente, influisce sulle sue scelte attuali. Perciò le precedenti qualifiche morali da noi suggerite non costituiscono un giudizio sulle persone, ma sui comportamenti, per i quali la valutazione etica deve essere netta, chiara e motivata. 3. Consenso o rifiuto al prelievo di organi dal cadavere di un proprio familiare. Come vedremo più avanti, in assenza di ogni manifestazione della volontà dcl defunto, l'esigenza di avere il consenso di suoi familiari stretti per procedere al prelievo di organi, o perché stabilita per legge, oppure perché affermatasi di fatto nella prassi, è largamente praticata. E là dove non esiste un vasto consenso sociale a favore dei trapianti, come è in Italia, la causa principale del mancato prelievo di organi da potenziali donatori risulta essere l'opposizione dei familiari. Anche senza scomodare studi e testimonianze, si può facilmente intuire lo stato d'animo di persone che una drammatica telefonata ha fatto accorrere ad un reparto di rianimazione, dove un loro caro, spesso in età ancora giovane, e fino a qualche ora prima in perfetta salute, sta ora, improvvisamente, in lotta tra la vita e la morte. I familiari vivono, in situazioni del genere, delle ore di angoscia e di speranza così intense, che di solito non vi è spazio per altri pensieri, di qualunque genere. Se in un simile stato d'animo li raggiunge la richiesta di consentire al prelievo di organi - richiesta inseparabile dal crollo di ogni residua speranza di poter riavere in vita il loro caro - non sorprende davvero il fatto che molti di essi siano incapaci di prendere in considerazione la prospettiva dell'espianto. Il gesto di chi, in simili condizioni, riesce ugualmente ad acconsentirvi, ha certamente qualcosa di eroico, ed è in certo senso ancor più ricco di valore della donazione dei propri organi. Estendere il severo giudizio morale che abbiamo formulato nei confronti del rifiuto di donare i propri organi, anche al rifiuto di consenso da parte dei familiari in una tale drammatica situazione, sarebbe evidentemente ingiusto. Siamo davanti a due situazioni tra loro vistosamente differenti. Nella prima, il rifiuto è una decisione presa con tutto il tempo desiderato, sulla quale il soggetto ha potuto riflettere in piena tranquillità e nella prospettiva di un futuro vago

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e ipotetico, quello di essere, se lo sarà, nulla più che un cadavere in un reparto di rianimazione. Nell'altra, invece, la decisione si colloca in una situazione sconvolgente, creatasi all'improvviso, che solleva forti sentimenti ed emozioni intense, proprio in mezzo alla quale viene richiesto di fare una scelta in tempi brevissimi. Nes. suno è autorizzato a farsi giudice e a pronunciare sentenze di condanna nei confronti di chi, in quelle condizioni, decida per un rifiuto. 4. La, regolamentazione giuridica del con. senso. Nei numerosi Stati che hanno emanato leggi sulla pratica di trapianti, il problema del consenso, per poter procedere legittimamente al prelievo di organi da un cadavere, ha costituito spesso oggetto di vivaci e prolungate discussioni, sia nelle aule parlamentari, sia nella pubblica opinione. Discussioni che hanno dato luogo a soluzioni legislative diversificate. Queste possono essere così schematizzate a grandi linee: a) necessità del consenso previamente manifestato dal soggetto stesso; b) mancando questo, necessità del consenso dei familiari stretti; e) consenso presunto, in base alle convinzioni etiche e allo stile di vita del defunto; d) consenso implicito in un silenzio-assenso informato. Nessun dubbio che la manifestazione di consenso da parte del soggetto costituisca la soluzione ottimale anche dal punto di vista etico. Si realizza così una vera donazione e vengono rispettati tutti i legittimi diritti delle persone coinvolte in un trapianto. Ma una simile norma, nei molti Stati in cui è ancora carente la diffusione di una cultura della donazione, si tradurrebbe in una grave scarsità di organi disponibili, con conseguente perdita di vite umane che potevano essere salvate. Si configurerebbe così una situazione giuridica contraddittoria e assurda, ponendo il rispetto, non solo dell'autonomia, ma anche della disattenzione, e persino dell'egoismo, di alcuni, al di sopra del rispetto del primo e fondamentale diritto, quello alla vi· ta, di altri. Se poi si riflette sul fatto che ci si spinge già ben più oltre con la norma, universalmente adottata, che autorizza l'autopsia per motivi giudiziari, senza richiedere il consenso di nessuno, emerge anche un'altra paradossale antinomia giuridica: «di fronte al semplice accertamento di un reato, si potrebbe intervenire sul cadavere, mentre questo sarebbe vietato per salvare una vita umana» (S. Leone, Le ragioni a favore del silenzio-assenso, "Bioetica e Cultura" 9 (1996), p. 54).

T Tra i Paesi che hanno adottato la norma del ·1enzio-assenso informato c'è anche l'Italia (~egge 1° apri~e ~ 999.' n. ~ 1: J?isposizio~i i~ iateria di prelievi e di trapianti di organi e di ~essuti). Da sottolineare, nella le.gge italia~a, la ura particolare, da parte del legislatore, dt coloc are tale norm~ in u~ contesto ~i disposizioni particolarme?te mdovmate: ed ettca~~n~e c?rrette, che comvolgono ogm genere dt 1st1tuz10ni e di persone, sia in una vasta e capillare informazione e sensibilizzazione, sia nel sollecitare ripetutamente i silenziosi ad esprimere la propria scelta in materia. Perciò il ~ittadino eh~, ben sapendo che la sua mancata risposta equivale ad un consenso al prelievo dei suoi organi, sceglie di continuare a tacere, manifesta col silenzio il suo inequivocabile sì. In linea, del resto, con l'antico detto: «chi tace acconsente». In conclusione: la via per consentire una soluzione ottimale sul piano legislativo è la promozione di una diffusa cultura della donazione, all'interno di una più ampia cultura della solidarietà. In questa impresa, un ruolo fondamentale di primo piano spetta ovviamente alla famiglia, ma con la collaborazione di tutte le varie agenzie educative, la scuola e i media, innanzitutto, associazioni e movimenti di volontariato sociale, e col contributo prezioso della Chiesa per i credenti. Quando si sarà riusciti a realizzare un vasto consenso sociale attorno al significato e ai valori della donazione di organi, sopra evidenziati, si potrà addirittura omettere ogni regolamentazione della manifestazione di consenso, perché la donazione entrerà a far parte della categoria di adempimenti talmente ovvi, che si dà per scontata la volontà di compierli. E per chi crede in Cristo, la parabola del "Buon Samaritano" (cfr. Le 10, 25-37) basterà per fargli percepire il "passare oltre", fingendo di non sentire l'invocazione di aiuto dei fratelli in lista di attesa di un trapianto, come grave infedeltà al grande comandamento dell'amore. Tanto più che quel gesto presenta, tra l'altro, la singolare caratteristica di abbinare un valore altamente prezioso e costo zero: a chi lo compie non costa letteralmente nulla. 5. L'accertamento di morte avvenuta. Da sempre, nella storia dell'umanità, i criteri per accertarsi se una persona aveva cessato di vivere erano consistiti in un'attenta verifica della cessazione delle due funzioni vitali fondament~li, la respirazione e la circolazione, con mezzi a lungo puramente empirici, poi anche stru-

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mentalmente perfezionati. Si era certi della morte di una persona quando risultava che aveva cessato di respirare e il suo cuore non batteva più("" MORTE, IV). Nessun dubbio che questi criteri sono tuttora validi per la stragrande maggioranza dei casi, tranne per chi muore in un reparto di rianimazione o terapia intensiva. È stata la comparsa delle tecniche di rianimazione a sollevare il problema di come accertare la morte di una persona in cui sofisticate apparecchiature esterne consentono di non far cessare il respiro e il battito cardiaco. L' accertamento di morte, quindi, è risultato molto importante anche indipendentemente da ogni prospettiva di trapianto. Si evita, infatti, così il rischio di impegnare inutilmente apparecchiature costose e personale altamente specializzato attorno ad un cadavere. Uno spreco anche eticamente riprovevole. La comparsa dei trapianti ha aggiunto un ulteriore e forte impulso alle ricerche di nuovi criteri per accertare sollecitamente la morte avvenuta, per evitare il deterioramento degli organi da prelevare. Gioverà sottolineare, preliminarmente, che la definizione vera e propria di morte di una persona umana è di competenza dell'antropologia filosofica e teologica, definizione che in sostanza è: separazione dell'("") anima dal corpo. Ma tale separazione è sottratta, evidentemente, ad ogni rilevazione diretta. Mentre decisamente verificabile è la cessazione della vita sul piano biologico, e questo è ovviamente di competenza delle scienze biomediche. Lo ha ripetutamente affermato lo stesso Pio XII fin dal 1957: «Spetta al medico e specialmente all'anestesista dare una definizione chiara e precisa della "morte" e del "momento della morte" di un paziente che spira in stato di incoscienza». E più in generale: «Per ciò che riguarda l' acce1tamento del fatto [della morte] nei casi particolari, la risposta non può dedursi da alcun principio religioso e morale, e, sotto tale aspetto, essa non è di competenza della Chiesa» (Risposte ad importanti questioni sulla rianimazione, 24.11.1957; anche in Verspieren, 1990, pp. 429-435). La scienza non ha mancato di farsi carico di questo difficile compito. Pietra miliare nel cammino di ricerca furono le conclusioni a cui giunse una Commissione ad hoc dell'Università di Harvard nel 1968, note come "Criteri di Harvanf'. Criteri successivamente confermati, condivisi, pe1fezionati, ma anche oggetto di discussioni e dissensi fino ad oggi. Si è comunque

Trapianti creato nel mondo scientifico un vasto consenso attorno al concetto di morte come morte cerebrale (cfr. Puca, 1991; Manni, 1992). Partendo dal dato, scientificamente certo, che l'encefalo - cioè cervello, cervelletto e tronco cerebrale - è il vero centro regolatore che assicura il funzionamento unitario coordinato delle numerose e diversificate parti e funzioni dell'organismo umano, è apparso chiaro che la cessazione totale e irreversibile di ogni attività dell'encefalo costituisce la perdita, totale e irreversibile, dell'unitarietà funzionale dell'organismo. Questo, cioè, non è più un tutto unitariamente funzionante, non è più, quindi, un organismo vivente. Ciò avviene in seguito ad un "infarto cerebrale totale", che rende fisicamente impossibile l'afflusso e la circolazione di sangue nell'encefalo, con la conseguente rapida distruzione delle cellule nervose. Che questo segni la morte del soggetto, si comprende agevolmente quando si riflette che si ha cosl l'equivalente di una decapitazione. E nessuno può mettere in dubbio la morte di un soggetto che sia stato decapitato. La cessazione di ogni attività dell'encefalo viene acce1tata con una serie diversificata di procedimenti e rilevazioni, alcuni dei quali anche strumentali, a cominciare dall' elettroencefalogramma. Per togliere ogni possibilità di dubbio che ci si trovi ormai davanti ad un cadavere, e non più ad un paziente in coma, sia norme emanate da organismi scientifici, sia testi legislativi, prescrivono che, a partire dal momento in cui tale cessazione è stata rilevata, si continui a verificarne la persistenza per almeno 6, o anche 12 ore. Una conferma particolarmente autorevole della validità di queste concezioni è venuta dalla (""') Pontificia Accademia delle Scienze nel 1985 (Dichiarazione circa il pro-

lungamento artificiale della vita e la determinazione esatta del momento della morte, 21.10.1985). Il persistere di discussioni indusse l'Accademia ad organizzare una nuova sessione di studio nel 1989, che si concluse con un documento di conferma della precedente Dichiarazione (cfr. R.J. White et al., Working Group

on the Determination of Brain Death and its Relationship to Human Death, 1992).

III. Altri problemi etici meno frequenti 1. Donazione di organi da vivente. C'è da rilevare, anzitutto, una piena concordanza tra

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etica razionale, teologia morale e la stessa dottrina giuridica nel fissare alcuni limiti invalica. bili a un gesto del genere. Segno chiaro che siamo davanti a delle vere e proprie evidenze etiche. Suicidio e automutilazione sono comportamenti che nessuna legislazione ammette. Ne segue già per questo, e logicamente, che è inammissibile la donazione di un organo indispensabile per continuare a vivere, come pure di un organo la cui perdita comporta il venir meno di una o più funzioni nell'organismo. In concreto si è affermato il principio della liceità di donazione unicamente nell'ambito di organi doppi. Nella prassi però, e nella regolamentazione giuridica, il trapianto da vivente ha riguardato a lungo solo il rene. Da poco si è aggiunto quello di una parte di fegato, il primo con esito positivo è stato compiuto nel 1989 in Australia (cfr. Salizzoni et al., 1999). La liceità di questi prelievi si basa principalmente sul fatto che l'organismo del donatore subisce non la perdita, ma solo l'attenuazione di qualcuna delle sue funzioni. Così in linea generale. Ma l'entità effettiva del danno è ovviamente diversa da caso a caso, a seconda delle condizioni complessive dell'organismo in questione, che perciò dovranno essere attentamente valutate di volta in volta. Lo esprime felicemente la formula coniata da Giovanni Paolo II: «fatta salva la propria integrità sostanziale» (Discorso ai Partecipanti a due Congressi di Medicina e Chirurgia, 27.10.1980). E tranne i casi in cui la compromissione di tale integrità è evidente, la sua verifica non può che essere di competenza dei medici. Nella teologia morale è stato possibile giungere a valutare lecita una tale donazione, grazie allo sviluppo che si era verificato, per impulso di Pio XII, attorno al principio di totalità. Con tale principio si afferma che è lecito sacrificare una parte, quando ciò è necessario per il bene del tutto. Con "tutto", nell'uomo, si era sempre inteso l'organismo. Pio XII, davanti agli sviluppi in atto nelle scienze biomediche, con l'apparire di novità prima inimmaginabili, aprl la via ad una migliore interpretazione di due degli elementi presenti nel principio. Il "tutto" va identificato non con l'organismo, ma con la persona umana. Conseguentemente il "bene" della persona non è solo il benessere e l'integrità fisica, ma anche, e più ancora, ogni arricchimento sul piano dei valori morali e spi· rituali. E questo è vistosamente alto nel caso di

T d nazione di un proprio organo (cfr. Ciccone, 1 ~86, pp. 193-198, 202-204). Si ap~lica~ infatt' a questo gesto tutto quello che si è nlevato ;Ìrca il significato e i ~alori .d~lla do~az~?ne di rgani da cadavere. Qm, anzi, il termine donaoione" è pienamente appropriato. E il gesto è ~en lontano dal non costare nulla a chi lo compie. Vale soprattutto per questo la qualifica di gesto "eroic~" che Giovann~ Paol~ 11, co1!1e si è visto attribmsce alla donazione di organi. Anche sotto altri aspetti si presentano delle particolarità che è opportuno rilevare, nel confronto con la donazione da cadavere. Anzitutto la neces~ità non solo di un'accurata informazione, all'aspirante donatore, sulle conseguenze e i rischi a cui si espone, ma anche di una competente consulenza psicologica, capace di rendere piename.nte autentiche le sue motivazioni, oppure di smascherare in tempo motivazioni più o meno inconsce, suscettibili di scatenare dopo, a cose fatte, conflitti e turbamenti psichici. Altra rilevazione da fare è quella sui tristi scenari del commercio di organi. Il quadro è dei più foschi: da una parte persone alle prese con situazioni disperate di miseria e di fame, appartenenti prevalentemente all'area dei Paesi poveri; dall'altra pazienti ricchi e decisi a tutto pur di guarire; fra le due parti, intermediari capaci di commettere azioni criminose e, talvolta, alcuni medici senza troppi scrupoli (cfr. Rodriguez, 1990). Per prevenire simili abusi, tutti i documenti degli Organismi internazionali sopra citati, come pure i codici di deontologia medica sanciscono - nella maggior parte dei Paesi è stabilita anche per legge - la gratuità della donazione, il divieto di ogni forma di commercio di organi, il divieto ai medici di eseguire trapianti di organi di cui non sia certa e documentata la legittima provenienza. Tutti i divieti sono anche penalmente perseguibili. Ma ci sono anche Paesi in cui tutto questo è legalmente consentito; cosi è, ad esempio, in India, e al servizio soprattutto di pazienti più ricchi provenienti da altri Paesi. 2. Trapianto di tessuti e organi fetali. Come risulta dal titolo stesso di questo paragrafo, la nostra riflessione sconfinerà dal campo dei tr.apianti di organo, allargandosi anche a quello d1 tessuti. Non ci occuperemo invece del trapianto di cellule cosiddette "staminali" ("" EMBRIONE UMANO, IV). Per tessuto «Si intende l'aggregazione di cellule similarmente specia-

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lizzate, unite nella effettuazione di una particolare funzione (sono tessuti, ad es., il midollo osseo, la cute, le diverse aree del sistema nervoso, ecc.)» (cfr. Spagnolo e Sgreccia, 1988, p. 845). A rigore di termini si dovrebbe parlare non di trapianto, ma di "innesto"; molti autori però usano liberamente come intercambiabili ambedue i termini. Altra precisazione terminologica: i tessuti possono essere prelevati e innestati su uno stesso organismo, spostandoli dallo loro sede naturale ad un'altra. Si parla allora di trapianto, o innesto, "autoplastico". Si pensi, ad esempio, ad operazioni del genere in caso di ustioni estese, con l'utilizzo di lembi di pelle. Ma questo tipo di intervento non solleva problemi etici di nessun genere. L'argomento messo a tema presenta particolari difficoltà, specie per essere qui svolto con brevità e chiarezza: forniremo comunque alcuni spunti in proposito. Perché e come si è arrivati a ricorrere anche a feti? Anzitutto per reperire organi adatti a trapianto su neonati: «la necessità di reperire organi idonei rappresenta spesso l'unica possibilità di sopravvivenza, e moltissimi bambini muoiono aspettando un organo appropriato». Altro motivo: «curare alcune malattie, neurologiche e non, tanto dei bambini quanto degli adulti» (cfr. Spagnolo e Sgreccia, 1988, ibidem). La prima malattia a cui si è cercato di porre rimedio ricorrendo a tessuti fetali è stato il morbo di Parkinson, ma ad essa si sono aggiunte, o si ipotizza di aggiungere, altre patologie gravi: «la corea di Huntington e la demenza di Alzheimer, il diabete mellito, alcune anemie, leucemie, gravi immunodeficienze» (cfr. Spagnolo, 1995). I primi tentativi, ad anni '80 inoltrati, fecero seguito a riusciti innesti autoplastici di tessuto midollare della ghiandola surrenale nel cervello di pazienti affetti dal morbo di Alzheimer, con notevoli vantaggi clinici. Passando alla utilizzazione di tessuti fetali, si aggiunse anche quello cerebrale. I problemi etici sollevati sono notevoli e alcuni non facilmente risolvibili. Soluzioni decisamente inaccettabili hanno potuto trovare posto sulla base della pretesa legittimazione dell'aborto, largamente accettata nel mondo. Ma se si parte dall'assoluta illiceità dell'aborto procurato, l'utilizzo di organi e tessuti fetali a scopo di trapianto finisce per risultare teoricamente lecita, ma di fatto impraticabile. Teoricamente lecita, purché si rispettino le stesse condizioni per la liceità del prelievo da cadavere,

1ì·apianti più il consenso informato dei genitori o almeno della madre. Di fatto impraticabile, perché per ottenere organi e tessuti idonei ad essere trapiantati, è impossibile evitare ogni complicità con l'aborto procurato (cfr. Spagnolo, 1995). E quanto a feti abortiti spontaneamente, è inevitabile la compromissione di organi e tessuti, con la conseguente non idoneità di essi al trapianto (cfr. anche Spagnolo e Sgreccia, 1988). Quanto agli aspetti giuridici, è da segnalare in particolare un documento dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa, la Raccomandazione n. 1046 del 1986 «Sull'uso di embrioni e feti umani per scopi diagnostici, terapeutici, scientifici e industriali». Non si esclude l'utilizzo di feti abortiti volontariamente, ma si raccomanda di limitarlo a situazioni eccezionali, e anche in queste si danno indicazioni per separare quanto possibile questo tipo di intervento da quello abortivo (cfr. Spagnolo e Sgreccia, 1988, p. 869; D. Tettamanzi, Interventi su embrioni/feti umani. In margine alla Raccomandazione 1046 del Consiglio d'Europa, "La famiglia" 20 (1986), n. 120, pp. 46-49). Il Magistero della Chiesa non ne ha fatto oggetto di specifici insegnamenti, ma nell'Istruzione della CDF Donum vitae (22.2.1987), nel paragrafo dedicato alla valutazione della ricerca e della sperimentazione su embrioni e feti (cfr. parte I, n. 4), l'ultimo capoverso riguarda «i cadaveri di embrioni o feti, volontariamente abortiti o non». Vi si trovano, tra l'altro, alcune indicazioni per il caso che si operino delle mutilazioni su di essi (e quindi vi rientrano anche i prelievi di tessuti e organi). Le condizioni richieste per la loro liceità sono: morte accertata, consenso dei genitori o della madre, nessuna complicità con l'aborto volontario, nessun pericolo di scandalo.

IV. I trapianti in prospettiva futura: lo xenotrapianto e il trapianto testa/tronco Esigenze di spazio impongono di non andare, anche in questo tema, oltre rapidi accenni. Per maggiori e necessari approfondimenti rimandiamo il lettore ai testi citati in Bibliografia. 1. Lo xenotrapianto. Dopo i fallimenti dei primi tentativi, a causa della prevedibile reazione di rigetto acuto, negli anni '60, non erano pochi a prospettare labbandono di questa via per accrescere la disponibilità di organi per tra-

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pianti. Ma i successi conseguiti nella ricerca di farmaci più efficaci per dominare la reazione immunitaria, e nell'ingegneria genetica con la produzione di animali transgenici, stanno restituendo fondata fiducia di riuscire ad avere tra non molto suini transgenici, i cui organi potranno essere trapiantati con successo nell'uomo (cfr. Cortesini e Venettoni, 1999, pp. 62ss). Superata questa difficoltà, nessuna obiezione si pone dal punto di vista etico. Se si riconosce all'uomo il diritto di servirsi degli animali fino ad ucciderli per nutrirsene, non si vede cosa si possa seriamente obiettare contro altre forme; ragionevoli e giustificate, di servirsi degli animali per salvare vite umane. La collocazione dell'uomo al vertice della scala dei viventi nel mondo visibile, fondamento dell'accennato diritto, è una verità che il cristianesimo ha in comune non solo con l'esperienza universale dell'umanità, ma anche con ogni antropologia razionale, persino con quelle materialiste. Le differenze si pongono sulle giustificazioni che si adducono per fondare quel primato dell'uomo e, a volte, sul costitutivo di tale primato. Gli unici a dissentire sono i movimenti animalisti, ma sulla base di concezioni antropologiche insostenibili, che qui non è possibile analizzare, elaborate specialmente dall'australiano Peter Singer e dall'americano Hugo T. Hengelhardt jr, che si spingono fino a conferire ad animali diritti che essi negano a tutti quegli esseri umani che non possono mostrare con i fatti di essere persone: embrioni, feti, neonati e infanti, handicappati mentali gravi, anziani affetti da arteriosclerosi. 2. Il trapianto di testa/tronco. L' oscillazione terminologica esiste, e non sorprende davanti al prospettarsi di una realtà così sconvolgente, quasi fantascientifica. È però utile precisare che il termine esatto è «trapianto di tronco». Il soggetto ricevente, infatti, non può essere un tronco, che nel momento in cui venisse staccato dalla testa, cesserebbe di essere un soggetto umano vivente. L'obiettivo è quello di dare un tronco sano ad un soggetto in cui, ad un cervello perfettamente sano, si abbina un corpo affetto da molteplici e inguaribili invalidità. Il corpo verrebbe preso da una persona che muore in una situazione inversa, cioè per una devastazione cerebrale, ma con un corpo sano. Ricerche e sperimentazioni su animali iniziarono già negli anni '60, con un primo tentativo riuscito su scimmie nel 1970, ad opera specialmente di uno studioso americano, Robert J.

T Wh'te non senza accese discussioni, non solo ul ~i~no etico, ma anch~ sulla stessa fattibilità s nica di un tale trapianto nell'uomo (cfr. tee . d . . White, 1983). Il passaggio a . espenmentl su esseri umani è stato preannunciato dallo stesso .· ercatore nel 1996, con la scelta anche del ucogo in cui. sarebb e mtenz1ona . . to a con durl'i, 1 :On a Cleveland, dove abitualmente oper.a,. ~a · Ucraina (cfr. Spagnolo, 1997). La possibihtà mon remota di un tale trapianto è confermata ~al fatto che i~ div~rse legis~azio~i, t~a .cui anche quella i~ahana~ m te~a d1 trap!anti si è avuto cura di vietare 11 trapianto dell encefalo, oltre a quello delle gonadi (Legge 1° aprile 1999, n 91, art. 3.3). · Siamo sorpresi di trovare tra i moralisti chi non dubita della liceità di un tale trapianto (ad es. K. Demmer, Liceità dell'ardita sperimentazione del trapianto cerebrale, in "Trapianto di cuore e trapianto di cervello", Roma 1983, pp. 150-169). Pur essendo impossibile prevedere con sicurezza tutti gli effetti che una simile massiva sostituzione della componente corporea della persona avrebbe sull'identità personale e sulla sua percezione da pmte del soggetto, è comunque evidente lo sconvolgimento profondo di tale identità. Si può fondatamente prospettare «una alterazione della personalità di vaste proporzioni», una specie di «rigetto psicologico di questa nuova corporeità dovuto alla violenta cancellazione della sua storia corporea con una conseguente crisi di identità le cui dimensioni per il momento, non sono facilmente valutabili» (S. Leone, Cambio di mente o trapianto di cervello, "Bioetica e Cultura" 16 (1999), p. 134). Analogo il motivo di una valutazione etica negativa del trapianto di gonadi. Ne va, anzitutto, dell'identità genetica dei figli. Questi saranno geneticamente figli di un padre o di una madre diversa da quella che compone la coppia giuridicamente genitoriale, figli del donatore o della donatrice della gonade. E correlativamente ne va di mezzo anche l'identità procreatrice della persona generante.

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sabilità dell'uomo, col compito di usarne saggiamente per il bene vero di tutte le persone che vengono a trovarvisi coinvolte e della società. Una saggezza che l'homo tecnologicus non sempre mostra di possedere, in questo, come in altri campi dell'esaltante e vertiginoso progresso scientifico realizzato nell'ultimo secolo. Un progresso che ha portato, fra l'altro, ad una diffusa mitizzazione del sapere scientifico e spesso ad un indiscriminato impiego delle conseguenti realizzazioni tecnologiche, spesso assunte al rango di valore assoluto ("' TECNOLOGIA). Ad operare una salutare correzione di rotta, per ristabilire un saldo collegamento tra scienza ed etica, tra scienza e coscienza, un contributo di primo piano è venuto dalla comparsa e dalla rapida diffusione delle riflessioni appmtate da una nuova disciplina, la ("') bioetica. Giovanni Paolo II non ha esitato, nell'Enciclica Evangelium vitae, a collocare tale fatto tra i "segni di speranza" nella lotta in atto tra la "cultura della morte" e la "cultura della vita": «con la nascita e lo sviluppo sempre più diffuso della bioetica vengono favoriti la riflessione e il dialogo - tra credenti e non credenti, come pure tra credenti di diverse religioni - su problemi etici, anche fondamentali, che interessano la vita dell'uomo» (n. 27). Con la bioetica si è quindi aperta una nuova via al dialogo tra fede e ragione, fra riflessione etico-filosofica sulla persona e pensiero scientifico, nella ricerca appassionata della valorizzazione delle conquiste della medicina, perché siano sempre al servizio dell'uomo e della società umana, e si impedisca quel capovolgimento, sempre in agguato, di vedere nell'uomo un mero strumento al servizio della ricerca e della sperimentazione. LINO CICCONE

Vedi: ANIMA; BIOETICA; MEDICINA; MORTE; TECNOLOGIA; VITA.

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UMANESIMO SCIENTIFICO

Giovanni Paolo II: Allocuzione al Giubileo Mondiale dei Docenti Universitari, Roma, 9.9.2000, OR 10.9.2000, p. 7; Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 13.11.2000, OR 13-14.11.2000, p. 6. I. Introduzione - IL L'umanizzazione secondo l'ideale biblico di sapienza III. L'umanizzazione, completata e messa alla prova dalla scienza: la quasi-creatività - IV. Contenuto e criteri di un umanesimo scientifico alla luce della sapienza biblica. I. Introduzione 1. Una definizione. Una definizione formale di questa tematica può emergere dalla storia stessa. Infatti, a partire dal '400, il termine «umanesimo» ha significato quell'insieme di dottrine sulla dignità della persona umana, capaci di orientare anche una certa prassi; vale a dire quella discussione sistematica la cui finalità consisteva nel porre in atto la straordinaria grandezza e ricchezza riconosciute presenti nell'umanità. Con termine diverso, tale attuazione è anche chiamata «umanizzazione». Ne è un esempio lopera di Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate (1486). Nel solco di tale utilizzo, il termine umanesimo è stato impiegato, specialmente nelle ultime decadi, per indicare il tentativo di presentare la nozione di dignità umana e l'ordine etico ad essa associata. Con il termine «scienza», come è noto, si intende quell'attività umana che ricerca una comprensione sistematica della realtà osservabile, mediante il metodo sperimentale, come affermatosi a partire da

("") Galileo attorno al 1600. Una definizione formale di «umanesimo scientifico» diviene pertanto lineare: esso indica quella dottrina sulla dignità umana, con conseguenze anche nell'ordine operativo, che si confà, o corrisponde, alla nostra era scientifica. 2. La sfida. In cosa consisterebbe il contenuto sostanziale di tale dottrina? Si tratta di uno dei problemi più difficili e dibattuti, ed al tempo stesso più vitali ed entusiasmanti, che restano da risolvere all'alba del terzo millennio dell'era cristiana. La difficoltà è innanzitutto di tipo generale in quanto ogni umanesimo, in linea di principio, deve essere onnicomprensivo e convincente. In altri termini, esso deve poter abbracciare tutto quanto vi sia di importante per l'intera persona umana e per tutti gli esseri umani, in accordo con il detto del commediografo latino Terenzio: homo sum: nihil humani a me alienum puto (sono uomo e nulla di umano lo considero a me estraneo). Una delle difficoltà dell'umanesimo scientifico deriva anche dal suo compito di dover assimilare al suo interno ciò che chiamiamo "il significato umanistico della scienza". Si tratta di un'impresa alquanto ardua, poiché gli intellettuali contemporanei hanno la tendenza a condividere soltanto una delle cosiddette "due culture", quella umanistica e quella scientifica (cfr. Snow, 1964; .;r UNITÀ DEL SAPERE).

Alla problematicità del tema in questione si potrebbe aggiungere il fatto che oggigiorno si tende a presentare la dignità umana quasi esclusivamente in termini di diritti, piuttosto che di doveri, come mostrato dagli accordi internazionali del nostro passato recente (cfr. Human Rights: A Compilation of International lnstruments of the United Nations, New York 1973). In altre parole, la dignità umana è oggi vista principalmente come giustificazione della propria affermazione nei confronti degli altri o delle cose. Di conseguenza, l'umanesimo scientifi-

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co può essere inconsciamente visto come un mezzo per sostenere l'autoaffermazione di individui o di gruppi attraverso l'utilizzo della scienza. Ma ciò genera un'inevitabile serie di controversie perché è impossibile soddisfare tutte le attese di autoaffermazione, spesso contrastanti fra loro, che gruppi od individui ripongono sulla scienza. Di fatto, questa situazione mostra come il problema dell'umanesimo scientifico sia uno dei più attuali ed importanti. Non è infrequente che l'opinione pubblica contemporanea veda nella sempre maggiore forza della scienza uno strumento per soddisfare qualsiasi desiderio umano, ogni cupidigia o violenza. In altri termini, la scienza sta con-endo il rischio di essere fraintesa come la licenza, da parte dell'uomo, di poter conseguire qualsiasi obiettivo; ed obiettivi che, non di rado, sono disumanizzanti. Una chiarificazione di questo stato di cose si rende perciò necessaria per evitare un peggioramento della attuale crisi circa il senso della dignità della persona umana. Infine, il tema dell'umanesimo scientifico è certamente uno dei più appassionanti, perché un suo corretto inquadramento può aiutare un gran numero di persone, mai prima ipotizzato, a raggiungere con successo la piena espressione della propria umanità, e questo proprio a motivo delle incomparabili risorse che la scienza, in un prevedibile futuro, potrà offrire a tale finalità. 3. La metodologia. Qual è il migliore approccio per giungere al genuino contenuto sostanziale dell'umanesimo scientifico? A partire dalla nascita della scienza moderna, per secoli, si è ritenuto che fosse quello filosofico, in quanto tutti i più importanti filosofi della modernità si sono seriamente occupati del tema della dignità umana, come ad esempio ("') lmmanuel Kant (1724-1804). Ma il loro contributo in proposito non è stato a nostro avviso pienamente convincente. Ne sono un esempio indicativo due fra le maggiori correnti contemporanee che hanno propugnato l'avvento di un umanesimo adatto ai nostri tempi: il marxismo ed il ("') pragmatismo (cfr. Pestrosyan, Humanism. Its Philosophical Ethical and Sociologica[ Aspects, Moscow 1972; Humanist Manifestoes, Buffalo 1973). L'approccio più efficace ad un umanesimo scientifico andrebbe dunque cercato in un sistema di pensiero che, ricordando piuttosto l'impostazione delle grandi sintesi

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medioevali("' TOMMASO o' AQUINO), risultasse in tal senso più evocativo di quelli comunemen. te compresi sotto il nome di sistemi filosofici ed aperto ad una possibile verifica da parte del~ l'esperienza. Ma come? Uno sguardo alla storia della cultura ci suggerisce la presenza di ciò si chiama "sapienza" o "saggezza", cosi come ci viene trasmessa dal messaggio biblico (-" SAPIENZA, LIBRO DELLA). Il "movimento sapienziale" è una linea di pensiero millenaria, nata all'epoca del re Salomone (X secolo a.C.), portata poi a compimento nella Chiesa apostolica primitiva. I suoi effetti di valore umanistico sono stati assai notevoli in termini di apertura mentale, di profondità ed efficacia, ma anche in quanto capacità di affrontare nuove e ripetute sfide culturali. La sua apertura mentale si mostra anche nel fatto che pur essendo frutto della religiosità del popolo ebreo osservante, la nozione biblica di «sapienza» fu capace di cercare, purificare ed incorporare molteplici intuizioni di carattere umanistico presenti nelle . culture del vicino oriente. Ne rappresenta un esempio assai illustrativo la figura di Giobbe, un personaggio non appartenente al popolo ebreo, la cui vicenda personale è un elogio delle sue virtù e della sua santità. La sua profondità umanistica può vedersi notando che essa ha dato origine alle più elevate espressioni di esperienza religiosa, dal contenuto dei Salmi fino a quello dei Vangeli. La sua efficacia è stata tale che, fino ad i nostri tempi, essa ha fomentato una grande rettitudine morale ih una innumerevole quantità di persone, fino a motivarne la preoccupazione ed il sacrificio in favore delle persone più bisognose, come i poveri, i piccoli ed i malati. Infine, l'i· deale di saggezza di radice biblica possiede ricorsi umanistici che hanno permesso di affron· tare sfide culturali sempre nuove, compresa la capacità di riconoscere e percorrere vie prima impensate, molte delle quali avevano una diretta relazione con la promozione della vita e della dignità umana. Si pensi ad esempio all'origine della scienza("' SCIENZA, ORIGINI CRISTIANE). I precedenti sia matematici che osservativi della scienza moderna risalgono alla civiltà greca. Dopo il declino di questa, furono i filosofi islamici a sviluppare l'eredità dei greci. Tuttavia, l'ingegno della cultura greca non trovò una sede istituzionale e stabile nella civiltà islamica, come

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·nvece accadde, piuttosto, nelle (.....) università

~el medioevo (cfr. Lindberg, 1992). Vi sono

buone ragioni per ritenere che il fattore decisivo che consentl alla scienza moderna di mettere radici fu la crescente influenza del cristianesimo e della Chiesa (cfr. Cantore, 198~).' La storia può inoltre 1?1ostr~re. che fur~no g!1 i?segn~­ menti di alcum tomisti romant ad ispuare m Galileo lo sviluppo di una filosofia veramente originale che fece di lui il pioniere del pensiero scientifico (cfr. Wallace, 1984; ..... GALILEO, I). Tutto ciò non significa, ben inteso, legare la possibilità di u~ ?manesimo scienti.fi~~ ad .m~a confessione rehg1osa, ma alla poss1b1htà d1 nu·ovare una concezione integra della razionalità, capace di accogliere in se stessa le nozioni di verità, di dignità della persona umana, di diritto naturale e di diritto delle genti. Senza una simile fondazione, infatti, resterebbe illusoria la possibilità di una (,lf') cultura scientifica che non prevarichi l'uomo e la società e la stessa possibilità di una scienza che non si riduca a pura manipolazione tecnologica. Partendo da queste basi, un primo quadro approssimativo del contenuto dell' «umanesimo scientifico» può essere ricondotto alle tre brevi considerazioni qui esposte nelle prossime sezioni.

II. L'umanizzazione secondo l'ideale biblico di sapienza Non sono molti i tentativi di sintetizzare il contenuto "umanistico" del messaggio biblico sulla sapienza (Cantore, 1960; von Rad, 1975). Nonostante l'esegesi contemporanea sia di tipo principalmente analitico, vi sono dati sufficienti per affermare, in modo maggiormente sintetico, che quel messaggio biblico contiene gli elementi essenziali per indicare un genuino processo di umanizzazione. Lo si può riassumere con tre principali generalizzazioni, il cui valore ed efficacia, ai fini di una promozione della dignità umana, sono di grande rilevanza. 1. La vita umana tende verso il suo perfezionamento coltivando una intima sensibilità, di natura trascendente, verso la realtà circostante. Il movimento sapienziale nacque inizialmente per fini pratici, senza che vi fosse un necessario collegamento con la religione (cfr. McI~an~, 1970). La finalità originaria era quella dt onentare l'educazione dei più giovani af-

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finché potessero avere successo nelle loro scelte di vita. Sapienza o saggezza volevano dire così "riuscita" o anche "aver successo", cioè l'abilità nel poter raggiungere un certo obiettivo. La persona saggia era colpita da due percezioni: a) ogni azione è generalmente mossa dalla propria interiorità, dal proprio "cuore", inteso come il nucleo profondo del proprio essere (,lf' CUORE, III); b) ma ciò può divenire anche fonte di rovina, almeno fino a quando non si impara a dominare le ragioni del proprio cuore, elevandosi al di sopra dei desideri istintivi di attrazione o di repulsione che proviamo verso le cose, e comportandosi cosi in maniera rispettosa verso gli altri e verso la natura. Senza la possibilità di una simile autotrascendenza, si finirebbe infatti col divenire schiavi delle proprie passioni o paure. Così facendo, si finisce col non prestare più attenzione all'ordine e all'armonia esistenti nella realtà, per essere invece schiacciati da un dinamismo che non si riesce più a controllare. Il Libro dei Proverbi ce ne presenta un esempio nella fisionomia del pigro, che considera il lavoro sempre u·oppo faticoso, non meritevole di diligente attenzione, terminando così in una situazione di penuria e di disprezzo da parte della società (cfr. Prv 6,6-11 e 26,12-15). Un altro esempio è l'intrigante, che si dedica con soddisfazione a seminare zizzania fra le persone, allo scopo di trarne un qualche vantaggio personale. Il risultato è un rapido e catasu·ofico precipitare della situazione: «per questo, improvvisa verrà la sua rovina, in un attimo crollerà senza rimedio» (Prv 6,15, cfr. 6,12-14). Di conseguenza, i saggi dell'antichità sottolineavano specialmente un punto: se si vuole avere successo nella vita - intendendo tale successo come il condurre una vita dignitosa, alla quale seguirà poi una memoria positiva dopo la morte - allora occorre coltivare continuamente una speciale sensibilità del cuore verso la realtà che ci circonda. La sapienza invocata dagli uomini saggi sta «nel capire la propria via» (Prv 14,8) in mezzo all'agitarsi delle cose, e dunque nel «percorrerla» (cfr. Prv 28,26). In modo analogo, i saggi esortavano all'indirizzo di unaricerca della sapienza ridicolizzando lo stolto, antitesi della sapienza stessa, perché la stoltezza è una sorta di disordine in mezzo al suo popolo, un disastroso inganno (cfr. Prv 14,8). 2. L'intima sensibilità del "cuore" fa maturare l'uomo rivelandogli la sua dignità; at-

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traverso tale sensibilità, l'uomo dà il suo intimo assenso a Dio, che si rivela nella realtà delle cose esistenti, disponendosi ad entrare in comunione con lui. Nel contesto della dottrina biblica sulla sapienza, si giunse successivamente ad una fioritura umanistica delle intuizioni precedenti. Ci si rese conto che coltivare la "sapienza del cuore" aveva come effetto ben di più che preparare un giovane ad una vita di successo. Essa conduce gli uomini alla maturazione della loro intera personalità, in tutte le sue potenzialità cognitive, volitive, sensibili e pratiche. La saggezza della vita non è altro che l' assenso con cui l'uomo risponde a Dio che si manifesta e si comunica agli esseri umani razionali mediante la totalità delle cose esistenti, cioè mediante le sue opere("" DIO, IV). Sempre alla luce del messaggio biblico, l'esperienza mostra che tale assenso produce una dilettevole intimità con Dio, destinata a durare per sempre. Su tale aspetto porranno la loro enfasi i successivi libri sapienziali della Sacra Scrittura, come i Salmi, il("") Libro della Sapienza e il Siracide. Essi richiamano con insistenza i loro lettori a prestare attenzione al meraviglioso e considerevole splendore dell'universo ("" CIELO, III). Vi si trova un incoraggiamento alla riflessione personale, per giungere cosl a riconoscere che l'universo è intimamente governato da un Signore onnipotente, insondabile e benevolo, indicato con il nome di Dio. In modo particolare, questi libri della Scrittura esortano i loro interlocutori a confessare che tutte le cose esistenti hanno avuto origine da Dio, mediante l'onnipotenza della sua parola("" CREAZIONE, II); un Dio che si prende cura delle sue creature, specialmente di ogni essere umano che confida in lui. In linea con ciò, vi si sottolinea il dovere di tutti gli uomini di riconoscere Dio nella vita pratica, con una lode grata ed illimitata, una sottomissione coscienziosa e, più concretamente, assistendo in modo altruista chi è maggiormente necessitato. Da tutto ciò emerge che l'ideale biblico di sapienza ha gradatamente elaborato tutti gli elementi di un vero umanesimo, tanto elevato quanto realistico. Il concetto di sapienza coinvolge tanto la preoccupazione per una prassi attenta ai fatti terreni, quanto una elevata nozione della dignità umana e della sua promozione. Per essere espliciti, i libri sapienziali dichiarano che la sapienza ha inizio con una confidente e riverente obbedienza a Dio: «il timore del Signore è

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il principio della scienza» (Prv 1,7), o anche «principio della saggezza è il timore del Signore» (Sal 110,10; cfr. Gb 28,28). Ma essi indicano anche che questo è solo il punto di partenza. Il raggiungimento di una simile virtù implica infatti una crescente disponibilità a pa1tecipare della sapienza di Dio stesso da parte di coloro che vi si applicano. Nell'obbedienza a Dio si può allora comprendere, quasi per esperienza, che l'intera realtà è pervasa di un significato sapiente e profondo, la cui grandezza eccede la piena comprensione da parte dell'intelletto umano (cfr. Sal 103,24; Prv 3,19; Sir 42,21). In particolare, si diviene consapevoli del fatto che Dio può condurre gli uomini alla maturità precisamente attraverso quelli che sembrano essere gli aspetti negativi della vita umana sulla terra, come la perpetrazione dei crimini più gravi (cfr. Sal 50,6) o la finitezza e la contingenza della vita umana (cfr. Sal 89,12). Si giunge a comprendere che la sapienza può essere ottenuta solo come dono gratuito elargito da Dio stesso (cfr. Sap 8,21; Sir 1,10). Egli ha reso agli esseri umani il grande onore di costituirli custodi dell'intera creazione (cfr. Sal 8,3-8), ma ciò implica che essi possono rimanere all'altezza del loro compito soltanto nella misura in cui restano uniti alla stessa sapienza di Dio (cfr. Sap 9,1-2.17-18). Rese consapevoli della grande dignità di cui sono state investite, le persone umane non possono che chiedere ardentemente il dono della sapienza (cfr. Sap 9,4-6.10-17; Sir 39,5); cosa che le pone a sua volta in maggiore intimità con Dio (cfr. Sap 7,27) e trasmette loro una incrollabile sicurezza di vivere in perenne comunione con lui (cfr. Sap 15,3; Sal 16,8-11; 48,3.15 e 72,23-28). In breve, ottenere la sapienza coincide col pieno sviluppo della propria dignità (cfr. Sir 25,10), come viene attestato dai numerosi esempi, tratti dalla storia della salvezza, che i libri della Scrittura riportano (cfr. Sap 10,18 - 11,14; Sir cc. 44-50). 3. L'assenso a Dio nella donazione di sé, coincide in definitiva con il servizio ai più biso· gnosi e conduce ad una piena realizzazione di sé, sia personale che collettiva. Il mistero pas· quale di Cristo porta l'umanesimo contenuto nel messaggio biblico sulla sapienza alla sua massima ed insuperabile espressione. Vi si rive· la adesso che la più profonda dignità umana consiste nella vocazione ad essere figli di Dio, nel rispondere con cuore filiale a Dio, Creatore di ogni cosa. Il messaggio cristiano accentua

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ncor più il dovere di mnare Dio con tutte le riaorse della propria personalità, aggiungendo 5nche la «mente» alla lista delle potenzialità ~mane enumerate nel libro del Deuteronomio (cfr. Mc 12,30 e Dt 6,5). Si sottolinea l'inseparabilità dell'o~bligo di amare Di? da quello. di amare il prossimo, ~ua~e espressione autentica del proprio amore dt Dio (c~r. 1.2.3!), per: ché ogni essere umano è flgho dt D10. Net ("") Vangeli, ~ri.sto esort~ gli uomini a cercare la perfezione 1mtt~do D10 lor? Padre ne~la sua benevola generos1ta verso tutti, compresi coloro che ci offendono (cfr Mt 5,43-48). Con il proprio esempio, Gesù Cristo svela tutta la novità del mistero pasquale, mostrando il modo di giungere ad una piena "umanizzazione" attraverso l'amore. Egli predica la rinuncia alla propria autoafferm~i.on~, i~vit~do ad a~c~ttare i sacrifici e le umthaz1om - s1mboleggiatt dalla croce - e conduce, coloro che si affidano con tutto il cuore alla sua guida, a partecipare per sempre della sua (""') resurrezione (cfr. Mc 8,34-37). Gesù Cristo si fa protagonista di un appello umanizzante che riguarda tutti gli uomini, senza eccezione. Proclamando un regno di portata universale, egli promette una vita eterna in Dio a coloro i quali hanno assistito i loro simili nelle loro necessità, perché è egli stesso ad identificarsi con i più deboli ed i più disprezzati (cfr. Mt 25,31-36). Da pmte loro, i primi seguaci di Cristo si resero conto, attraverso la riflessione e l'esperienza diretta, della credibilità dell'umanesimo proposto dagli insegnamenti di Cristo. Essi percepirono che l'esempio ricevuto forniva loro una straordinaria energia per comportarsi come figli di Dio, attraverso un amore per gli altri sempre pronto al sacrificio, sul modello dell'amore crocifisso di Cristo per l'umanità (cfr. JGv 3,14-16). Ed essi percepirono allo stesso modo che il loro sacrificio in favore degli altri uomini diveniva in Cristo fonte di gioia (cfr. Col 1,24; 2Cor 7,4). I primi cristiani avevano infatti ottenuto da lui l'assicurazione che le sofferenze presenti avrebbero prodotto un frutto indicibilmente maggiore, cioè la sovrabbondante e perenne partecipazione alla vita stessa di Dio (cfr. 2Cor 4,16-18). Essi divennero così consapevoli ~h.e ~fosù Cristo, rendendoli capaci di un amore 1l!1m1tato verso gli altri, stava permettendo loro d1 raggiungere in Dio una piena realizzazione P.ersonale. Egli forniva cioè le energie necessane per porre in atto, nel proprio libero assenso

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del cuore a Dio, tutte quelle potenzialità insite nella personalità umana, nella sensibilità, nell'intelletto, nella volontà e nell'operare pratico (cfr. Ef3,16-19). Insegnando ad amare gli altri, il messaggio cristiano dava ad essi la capacità di portare anche tutti gli altri esseri verso la loro pienezza ed il loro compimento. Sempre secondo il messaggio biblico, è nel contesto dell'intera creazione che l'uomo svolge la sua missione di comportarsi sempre più in accordo con quell'immagine e somiglianza di Dio di cui è insignito (cfr. Gen 1,26-30), ma è soprattutto attraverso l'amore per gli altri, rivelato definitivamente da Gesù Cristo, che la persona umana si fa sempre più somigliante a Dio. Fin dall'inizio, il messaggio del NT ha riconosciuto in Cristo colui grazie al quale Dio poteva riconciliare con Sé tutte le cose (cfr. Col 1,20), riportando tutto all'unità (cfr. Ef 1,10) ed al suo pieno compimento (cfr. JCor 15,28; Rm 8,1822; Ef 4,10), perché è nel mistero di Cristo che Dio ha voluto all'inizio tutte le cose e le ha chiamate all'esistenza (cfr. Col 1,15-17; Gv 1,3; ""' GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL Looos, II). Tale riconoscimento viene

espresso riferendosi a Gesù Cristo non solo come al Figlio di Dio incarnato, ma anche come «Sapienza di Dio» (JCor 1,24), quella sapienza che già nell' AT era stata intravista come fonte di umanizzazione, esecutrice dei piani di Dio. Il cristianesimo afferma che, con la creazione dell'uomo, Dio stesso ha posto nel suo cuore una legge divina (cfr. Rm 2,15), aprendo così a tutti la possibilità della salvezza, cioè della loro definitiva umanizzazione in Dio. In Cristo, suo Figlio eterno, sua Sapienza e sua Parola, Dio ha illuminato ogni uomo (cfr. Gv 1,9): la missione del Verbo incarnato è quella di riportare all'unità i figli di Dio che erano dispersi (Gv 11,52). Riassumendo, il messaggio biblico sulla sapienza si presenta con i tratti essenziali di un genuino umanesimo. Come abbiamo visto, la sua finalità è condurre gli esseri umani verso una sempre crescente attuazione delle loro capacità nell'ambito della sensibilità, della conoscenza, del volere e dell'operare, quali segni della dignità della persona e condizioni per condurre a pienezza il senso della propria vita. Attraverso l'esercizio della sapienza, il cuore umano diviene più attento, riflessivo, rispettoso di tutta la creazione, in modo particolare dei propri simili che sono nel bisogno. Tale processo umanizzante, infine, rende sempre più parte-

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cipi della automanifestazione ed autocomunicazione di Dio alle sue creature.

III. L'umanizzazione, completata e messa alla prova dalla scienza: la quasi-creatività Il significato della scienza per la dignità della persona umana è piuttosto complesso (cfr. Cantore, 1987; "' PROGRESSO, III-IV). Una riflessione sullo sviluppo della scienza in se stessa, specie se stimolata e sotto la guida del pensiero filosofico e religioso di ("') Galileo, mette in evidenza una illuminante intuizione: la scienza rappresenta un sostegno ed insieme una sfida a quegli elementi di umanizzazione presentati dall'ideale biblico di saggezza. La scienza è infatti capace di rivelare all'uomo una nuova, fino a prima impensata, caratteristica della sua personalità, dalle immense potenzialità umanistiche ed umanizzanti, che potrebbe essere chiamata "quasi-creatività". Vediamone i principali elementi di comprensione in proposito. I. La scienza è la risposta del cuore umano di fronte alla realtà osservabile, accompagnata da una certa riverenza, per raggiungere una comprensione razionale dell'universo. Come opportunamente messo in luce da("') Einstein, il grande passo in avanti di Galileo fu quello di considerare che la mente è capace di comprendere l'universo, cogliendo le cose non solo come esse sono in apparenza, ma cercando anche di darne una spiegazione (cfr. A. Einstein, Introduction in Galilei, Dialogue concerning the two Chief World Systems, Berkeley 1967). Galileo fu piuttosto risoluto su questo punto, gettando discredito sulla visione allora prevalente, che voleva lo studio della natura soddisfatto dal semplice «salvare le apparenze», piuttosto che dallo sforzo di comprendere la realtà oggettiva ad esse soggiacente. Ma egli sottolineò che tale comprensione doveva essere rigorosamente dimostrata ed era al contempo limitata da ciò che poteva essere percepito attraverso i sensi. Lo scienziato pisano insistette diffusamente su ciò che chiamava «sensate esperienze», cioè le esperienze sensibili controllate dall'intelletto, quale banco di prova della nostra comprensione della natura. Non soltanto con le parole, ma anche con il suo esempio personale, Galileo mise in rilievo che l'impresa scientifica

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si nutre di un profondo coinvolgimento interio. re, mosso da un sentimento di nobiltà d'animo che aspira alla vera comprensione delle cose'. Egli respinse con energia la visione opportunista del suo tempo, che identificava l'umiltà scientifica con la mera ripetizione delle opinioni sulla natura formulate dagli antichi, invece di dedicarsi all'investigazione della natura in se stessa. Egli giunse a ritenere un tal modo di procedere come una offesa a Dio, in q~mnto il Creatore aveva dotato gli uomini di ragione e di esperienza sensibile, proprio perché i moderni potessero progredire nella conoscenza della natura sopravanzando così il pensiero degli antichi. Galileo aveva appreso dalla Sacra Scrittura che la gloria di Dio è una luce inesauribile sprigionata dalle opere del Creatore, una luce alla quale si doveva corrispondere ricercando in modo sempre più preciso e profondo l'intelligibilità della natura. 2. L'attività scientifica ha mostrato che la personalità umana possiede una capacità, prima non pienamente manifestata, che possiamo chiamare "quasi-creatività". La Scrittura ci presenta la ("') creazione come l'effetto di un'attività divina che produce qualcosa di radicalmente nuovo. L'esercizio della saggezza conduceva a riconoscere Dio come l'Essere infinito ed ineffabile, che aveva concepito e chia· mato all'esistenza tutte le cose. Tale convinzione si mostrò decisiva per il progresso della scienza, perché trasmetteva la straordinaria consapevolezza di non vivere nel mezzo di un chaos, ma piuttosto all'interno di un cosmo meravigliosamente ordinato, pervaso di significato e perciò capace di essere compreso nonostante la sua complessità. E la scienza non fece altro che estendere proprio questa consapevolezza. Già Galileo si rallegrava di poter mostrare, attraverso il suo telescopio, «cose mai udite in tutti tempi trascorsi» (cfr. Sidereus Nuncius, 1610). Tutta la ricerca scientifica successiva non ha fatto, in fondo, che proseguire nel medesimo entusiasmo, scoprendo aspetti sempre più reconditi della razionalità dell'universo, spingendosi fino agli elementi più profondi e alle loro interazioni dinamiche, che danno ragione del comportamento del tutto. Gli scien· ziati contemporanei cominciano oggi a comprendere con maggiore dettaglio come l'intera realtà osservabile, la materia e la vita, si sono sviluppate attraverso lo spazio e il tempo.

V La(-"') cosmologia ha oggi un'idea gene. le abbastanza solida su quali siano state le ia use che abbiano determinato l'evoluzione dei ca · · che h anno reso poscorpi celesti e 1e cond.1z10m 'bile la vita sulla terra (cfr. ad es. M. Rees, Befare the Beginning. Our Universe and Othe;s, Reading - MA 1997). Da ~arte sua, !a(""') biologia ha compiu~o note~oh progre~st verso un~ comprensione sistematica delle hnee portanti dell'evoluzione della vita. Almeno in linea di principio, è oggi possibi.le. dare~~ qua~ro esplicativo di come sia poss1b1le umf1care il grande numero e la sconfinata varietà delle specie viventi - dagli esseri unicellulari, alle piante e agli animali, fino all'uom~ - all'interno di un medesimo albero genealogico (cfr. ad es. C. De Duve, Polvere vitale. Il lungo cammino dalla polvere ~os.mi~a. alla vita, M~l~no 1997): Cosl la biologia md1v1dua con prec1s10ne, grazie alle sue varie scoperte sperimentali, i meccanismi che spiegano le forme ed i comportamenti dei viventi (cfr. W.R. Loewestein, The Touchstone of Life, New York 1999). In breve, la scienza contemporanea mette in luce il carattere "creato" dell'universo in un grado mai prima immaginato. Lo diciamo nel senso che i suoi risultati mostrano con sempre maggiore ricchezza di particolari, un. universo osservabile le cui varie componenti sembrano pervase da un intrinseco dinamismo ed orientate verso dei precisi obiettivi (1" ANTROPICO, PRINCIPIO; FINALITÀ). Ma la scienza fa anche sì che l'umanità dell'era scientifica sia maggiormente consapevole di avere ricevuto un dono che potrebbe chiamarsi, appunto, quasi-creatività, perché attraverso di essa l'uomo può penetrare sempre più, per dirlo in qualche modo, nella profondità dei segreti della stessa creatività divina e, come conseguenza, giungere perfino ad una certa sua imitazione, mediante quella creatività con cui egli applica le conoscenze che ha acquisito. Ovviamente, gli esseri umani non potranno mai "creare" qualcosa nello stretto senso del termine - cioè produrre qualcosa che prima non esisteva del tutto, tanto da un punto di vista concettuale come da uno materiale. Tuttavia, l'esperienza non lascia spazio a dubbi sul fatto che l'uomo è in grado di produrre delle vere novità, che ancora non esistevano, facendole emergere da qualco~a che già esiste. Gli esempi sono numerosi: dai. m1ovi materiali realizzati per specifiche finalità tecnologiche, a forme viventi geneticamente modificate allo scopo di ottenere partico-

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lari risultati utili all'uomo, oppure un raccolto più abbondante, ecc. La più alta dimensione umanistica della scienza pare dunque consistere nel fatto che, attraverso la scienza stessa, l'uomo può oggi partecipare in un certo modo, non originale ma dipendente, al potere creatore di Dio, mediante la conoscenza e l'azione. 3. La quasi-creatività resa possibile dalla scienza resta insufficiente, da sola, per una corretta umanizzazione. Il potere cui fa accedere la scienza non è però sufficiente, di per sé, ad un corretto processo di umanizzazione, poiché esso reca con sé anche delle incertezze e dei rischi mai prima incontrati. Tale insufficienza deriva dagli stessi principi metodologici che rendono possibile la scienza. Questi confinano la ricerca scientifica a quegli aspetti della realtà che possono essere percepiti attraverso i sensi, direttamente o mediante l'uso di strumenti, e dunque espressi in linguaggio formale, come ad esempio misure di grandezza, velocità, forza, frequenza, e così via. Una crescita in umanità, invece, è qualcosa che dipende da aspetti della realtà assai diversi, non assimilabili dallo stesso metodo, come, ad esempio, la (""') verità, la (""') bellezza, la bontà, la giustizia. Di conseguenza, come osservato anche da Einstein, la scienza non può mostrare dall'interno del suo metodo perché la ricerca scientifica è degna di essere realizzata ed è in se stessa un valore. Per far ciò la scienza dovrebbe accedere ad entità non osservabili o che comunque eccedono la sua portata, come sono il poter dire cosa sia la verità o un valore. Nonostante ciò, non mancano alcuni scienziati, seguiti da alcuni loro epigoni, che ignorano tale limitazione intrinseca al metodo scientifico e finiscono col negare orgogliosamente lesistenza di quegli aspetti della realtà che essi non misurano e sui quali, invece, si poggia la scienza stessa. Si tratta di una dogmatizzazione ideologica della scienza comunemente chiamata «scientismo» (""' POSITIVISMO; RIDUZIONISMO). Da un lato, il fenomeno in questione è psicologicamente comprensibile perché esprime un condizionamento che emerge quando si ha a che fare solo con entità osservabili, sebbene unito anche ad una certa presunzione di voler dire l'ultima parola su ogni cosa. Dall'altro, si deve però sottolineare il grave pericolo che tale posizione ideologica reca con sé. A causa, infatti, dell'enorme prestigio della scienza, lo scientismo confonde l'opinione pubblica, fa-

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cendole accettare come certamente scientifiche alcune visioni delle cose che, in realtà, non lo sono affatto("" DIVULGAZIONE, I-II). La gravità dello scientismo sta nel fatto che esso distrugge le basi umanistiche della cultura, penalizza la dignità umana e mina la scienza stessa, svuotandola del suo significato umanistico. A volte, alcuni scienziati sono giunti fino ad invocare insensatamente l'eliminazione degli stessi concetti di libertà o di dignità, quale supposta condizione necessaria per arrivare ad una società perfetta, che essi affermano oggi possibile grazie al potere della ("") tecnologia (così, ad es., B.F. Skinner, Beyond Freedom and Dignity, New York 1971). Altri ancora, sebbene in modo meno stridente, favoriscono il medesimo dogmatismo disumanizzante, presentando la nozione di dignità umana come una sorta di vestigio oscurantista dell'età pre-scientifica. Vari biologi, anche di certa rinomanza, dichiarano oggi che il progresso scientifico riconosce gli uomini come animali in tutto uguali agli altri (cfr. E. Mayr, This is Biology. The Science of the Living World, Cambridge - MA 1997), mentre altri presentano come una presunta scoperta scientifica il fatto che gli esseri umani non posseggano, in realtà, né libertà né capacità di autodeterminazione (cfr. E.O. Wilson, Consilience. The Unity of Knowledge, New York 1999). Concludendo, l'attività della scienza completa, ma anche rappresenta una sfida per quel processo di umanizzazione delineato dall'ideale biblico di sapienza. La saggezza, come abbiamo visto, scaturisce dalla consapevolezza che un personale, interiore coinvolgimento di fronte alla realtà che ci circonda sia qualcosa di assai conveniente, ancor più, sia un obbligo morale di "riverenza" verso quel profondo significato che la realtà incarna. Anche la scienza sorge da una simile consapevolezza, quella di percepire lo studio osservativo e sperimentale - anch'esso una risposta del cuore umano di fronte all'appello della realtà circostante - come un'impresa attraente e di alto valore morale. La scienza conduce così a porre in luce un importante fattore di rilievo umanistico, un elemento insospettato della dignità della persona umana, la sua "quasi-creatività'', il suo poter cooperare alla creazione. Ma la scienza, infine, non può contribuire ad un autentico processo di umanizzazione se non attraverso una necessaria integrazione con la sapienza. Tale incapacità

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deriva sia da limitazioni interne al metodo scientifico, sia dalla sempre possibile deriva verso lo scientismo, i cui effetti sulla cultura dove esso giunga ad avere il sopravvento, son~ di fatto disumanizzanti.

IV. Contenuto e criteri di un umanesimo scientifico alla luce della sapienza biblica Le precedenti considerazioni suggeriscono come potersi spingere oltre una definizione meramente formale di umanesimo scientifico per giungere ad una proposta del suo genuino contenuto. Abbiamo infatti visto che la scienza sostiene e completa, ma anche mette alla prova, i caratteri essenziali di quell'umanesimo di cui parla l'ideale biblico di sapienza. L'autentico contenuto dell'umanesimo scientifico deve dunque risultare dall'integrazione dei contributi umanistici sia della scienza che della sapienza. Tale contenuto può essere schematicamente così riassunto: a) la nuova visione della dignità umana che deriva dalla simultanea considerazione sia della sapienza di origine biblica, sia dei valori della scienza; b) il riconoscimento di un nuovo ethos corrispondente a questo processo di umanizzazione; c) il nuovo realismo che ne deriva, con cui affrontare i bisogni e le sofferenze dell'uomo, e, finalmente, d) quell'insieme di intenti necessari per rendere operativi, sia una tale nuova visione, sia l'ethos ed il ("") realismo che ne risultano collegati. Il raggiungimento di un umanesimo scientifico è affidato in sostanza all'adempimento dei seguenti quattro criteri. 1. Un personale convincimento circa la corrispondenza fra le aspirazioni del cuore umano e l'invito paterno di Dio a collaborare con lui nella creazione. Una nuova visione della dignità umana che risulta da un incontro fra la scienza e la sapienza può prendere avvio solo da un fermo convincimento circa la "realtà" della propria dignità. Tanto la scienza come la sapienza, secondo punti di vista differenti ma complementari, pongono in evidenza che ogni essere umano è in qualche modo unico nel panorama dell'esistenza; è l'unico essere a sperimentare un auto-trascendimento, un desiderio di pienezza. Inoltre, entrambe le prospettive mostrano che la dignità umana non può essere interpretata a proprio piacimento, in modo oggettivante. Le aspirazioni legate all'attività

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V ientifica e alla vita morale scaturiscono diret-

~~mente dal soggetto, dalla propria interiorità,

dal proprio ."cu~re", ~on sono. frutt? di. un~ deisione arb1trana. S1 tratta di asp1raz10m che ~ostrano anche come l'esistenza di ogni ~ss~re umano risponde ad uno .scopo, ad un~ f~nahtà che si è ricevuta con la vita e che non c1 s1 è dati da sé. Parte di questo scopo è porre in atto, mediante una certa partecipazione al potere creativo di Dio, le proprie potenzialità e quelle dell'universo nel suo insieme, specialmente venendo incontro alle necessità dei propri simili, mediante una risposta sensibile ed attiva alle sollecitazioni provenienti dal reale. La sete di pienezza di ogni essere umano non può essere soddisfatta per qualcosa di meno, come mostrano sia la riflessione filosofica che l'esperienza personale. La presenza di questa sete di pienezza e di realizzazione insita nel profondo del proprio animo, mostra che essa non può ridursi ad un mero stato emotivo, ma è piuttosto il richiamo di Qualcuno fuori di sé; un richiamo che, se si vuole, può essere anche ignorato, ma quando si decide di prestarvi attenzione e di seguirlo, è la persona stessa a venirne promossa, con la crescita della sua sensibilità, premura e affidabilità. L'integrazione della scienza con la sapienza, mostra che la dignità umana può comprendersi come uno slancio presente nella propria personalità, che ci rende capaci di percepire il significato che pervade l'universo e ci abilita a contribuire a realizzarne lo scopo finale, partecipando alla creazione secondo la modalità propria di un figlio di Dio; perché, in definitiva, ogni essere umano è naturalmente inclinato a rispondere a Dio e a cooperare con lui. La paternità di Dio, Creatore e pienezza di senso, rappresenta, in ultima analisi, la spiegazione definitiva della presenza in noi di quelle aspirazioni. 2. Riconoscere, nella propria coscienza, l'obbligo di formulare un'intima e continua risposta a Dio, consapevoli della propria capacità "quasi-creativa". Qui giace l'etica di un nuovo umanesimo, la sostanza delle norme per tradurre in pratica la nuova visione della dignità umana appena tracciata. In vista di tale scopo, la logica del proprio agire si basa sui seg.uenti .quattro punti. In primo luogo,-noi non siamo i signori della nostra dignità, ma piuttosto. dei depositari, ai quali il Creatore ha affidato 11 compito di condurla alla sua piena realiz-

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zazione. In sostanza, siamo moralmente legati a dover render conto della nostra condotta a Dio, riconoscendone la chiamata originaria insita nel nostra coscienza. In secondo luogo, la condotta "umana" più appropriata è sforzarsi di vivere secondo Dio comportandosi in modo adeguato verso il nostro prossimo, perché il senso più pieno della nostra dignità consiste nella capacità di percepire l'invito di Dio a prendere esempio da lui (cfr. Mt 5,48), che si comporta in modo benevolo verso tutti, divenendo cosl suoi figli. In terzo luogo, occorre mantenere un atteggiamento recettivo ed attivamente disposto arispondere alle chiamate che Dio indirizza attraverso le circostanze della vita quotidiana; è sempre lui ad avere l'iniziativa e nessuno potrebbe vivere secondo Dio basandosi solo sulle proprie forze. Infine, il mezzo più adeguato per mantenere un costante atteggiamento di ascolto, ricettività e disponibilità a corrispondere all'iniziativa divina è la perseveranza nella ("") preghiera. La preghiera è la garanzia della presenza in noi di un sincero desiderio di voler agire come figli di Dio, e di una fiduciosa consapevolezza che le risorse per condurre a buon fine il proprio agire morale dipendono anch'esse da Dio. 3. Valorizzare il ruolo del sacrificio e della sofferenza nel processo di umanizzazione e nella risposta alla chiamata di Dio a realizzarsi come persona. Un'integrazione fra scienza e sapienza non può non condurre ad un simile realismo. Ambedue ci aiutano a comprendere e a sopportare la sofferenza come qualcosa che, nonostante il disagio che reca con sé, rappresenta un fattore importante nella maturazione della personalità. Di per sé, la sofferenza non è automaticamente redentiva o umanizzante, ma raggiunge questo scopo quale strumento nelle mani della provvidenza di Dio. Essa spinge alla preghiera e ad agire in modo più umano, grazie anche all'aiuto che la preghiera ottiene presso Dio. La sofferenza contribuisce al processo di umanizzazione in molti modi. Ad esempio, aiuta a destarsi dal sonno delle false sicurezze e dell'orgoglio nel quale si finisce quando ogni cosa si svolge secondo le proprie voglie. Si tratta di una sorta di "sistema d'allarme" che ricorda la nostra creaturalità e la nostra dipendenza da Dio, aiutandoci ad entrare cosl in maggiore sintonia con le necessità e le sofferenze degli altri uomini, stimolandoci ad un comportamento verso di essi conforme alla nostra comune filiazione divina. Ancora, l'accettazione volonta-

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ria della sofferenza ed anche della morte, quando ciò dovesse esserci richiesto, fa assurgere la nostra dignità al livello massimamente concepibile, perché avvicina gli esseri umani alla dignità di Dio, che è amore, pura auto-donazione ed illimitata generosità. Sacrificarsi in favore degli altri libera dal proprio egoismo e permette di accogliere in sé la logica della vita stessa di Dio, il cui dono necessariamente sorpassa ogni generosità umana. Il cristianesimo annuncia infatti la logica che per guadagnare la propria vita bisogna perderla e che, offrendola in sacrificio per gli altri, la si ritrova (cfr. Mc 8,35).

4. Un personale coinvolgimento nel promuovere la dignità umana, specie nei riguardi delle persone maggiormente bisognose. Concludiamo segnalando un triplice insieme di convinzioni e di applicazioni mediante le quali rendere operativi i caratteri distintivi di un umanesimo scientifico. a) Il raggiungimento di una piena dignità umana è possibile soltanto aiutando i nostri simili a raggiungere la loro. Tale dignità è, in fondo, l'intimo richiamo presente in tutti gli uomini a divenire figli di Dio. La condotta umana viene r) anima, non può der~­ vare dai genitori. C'è una certa analogia tra 11 " an11naz10ne . . " che s1. ha ne1processo generativ a e l'"ominizzazione" che si realizza nel proces~ so evolutivo. Ritroviamo questa idea in una Ca~ techesi di Giovanni Paolo II: «Non basta l'evo. luzione a spiegare l'origine del genere umano come non basta la causalità biologica dei geni: tori a spiegare da sola la nascita di un bambino Pur nella trascendenza della sua azione, sempr~ rispettosa delle "cause seconde", Dio crea l'a. nima spirituale del nuovo essere umano, comu. nicandogli il suo soffio vitale (cfr. Gen 2,7) attraverso il suo Spirito che è "il datore della vita". Ogni figlio va visto dunque ed accolto come un dono dello Spirito Santo» (Catechesi del mercoledl, 27.5.1998, Insegnamenti XXI,l (1998), p. 1053). Nell'animazione vi è un intervento "creativo" di Dio nel momento in cui si realizza l'organizzazione di una forma vivente tale da comportare i caratteri di vita umana. C'è quindi una connessione necessaria, per volontà di Dio creatore, tra la disposizione della struttura biologica della vita umana e il concorso divino che crea l'anima. Tale intervento divino rientra in quell'azione creatrice con cui Dio vuole e mantiene secondo il suo disegno la realtà con le sue caratteristiche e proprietà, comprese quelle di ordine spirituale. Nella generazione umana si realizza qualcosa di superiore alla dimensione biologica, perché Dio creatore così vuole attraverso le cause seconde che sono i genitori (per il rapporto fra causa prima e cause seconde ;r AUTONOMIA, 11.1). Anche pensando che la vita umana del bambino derivi immediatamente dai genitori nella sua totalità di corpo-anima-psiche e nella sua totalità personale - ed è per questo che il Magistero della Chiesa afferma che Dio chiama i genitori «ad una speciale partecipazione del suo amore ed insieme del suo potere di Creato· re e di Padre» (Familiaris consortio, 28) - ciò non può significare che il principio spirituale si formi dai gameti dei genitori. Nel momento in cui si genera una nuova vita umana si ha un trascendimento, per volontà di Dio creatore, rispetto agli elementi che si uniscono. Nella "ominizzazione" si può ritenere.cl~e si sia verificato qualcosa di analogo, che v1 sia stato cioè un intervento speciale di Dio in un essere vivente, voluto da Dio e da lui orientato

lJ ·a pure attraverso cause seconde - apa for' t E come Zione di una vita veramen e umana. inal 'essere anima · 1e grnngesse · d "ttdi a uno s a o se· i"' che fa sì che sta . necessario . che camb'1 e cr1s aia in lui. un essere nuovo (c f r. N'1co1as, ~~~8). Secondo questo modo di ve~ere, ciò di: attraverso venne possibile quando, . , . 1 mutamenti . biologici, si raggrnnse un orga~1z~az10n~ cerebrale tale da supportare uno ps1ch1si:no riflesso consentire la comparsa dt una vita umana. ~l'a se il processo dell'evoluzione va considerato' come un solo atto divino che abbraccia tutte le forme della natura per crearle e farle agire secondo le loro leggi e proprietà, latto con cui Dio crea 1' anima umana e fa esistere il primo uomo può essere visto allora come "ciò che dà a tutto quanto lo precede il suo senso e corona~ento", non per un determinismo ineluttabile, ma per un disegno esplicito di Dio. A questo proposito Giovanni Paolo Il ha affermato: «Dal punto di vista della dottrina della fede, non si vedono difficoltà nello spiegare l'origine dell'uomo, in quanto corp?, mediante l'ipotesi della evoluzione [ ... ]. E cioè possibile che il corpo umano, seguendo l'ordine impresso dal Creatore nelle energie della vita, sia stato gradatamente preparato nelle forme di esseri viventi antecedenti. L'anima umana, però, da cui dipende in definitiva l'umanità dell'uomo, essendo spirituale non può essere emersa dalla materia» (Catechesi, 16.4.1986). L'esistenza di una discontinuità, «di una differenza di ordine ontologico» tra l'uomo e l'animale viene ribadita anche nel già citato messaggio alla Pontificia Accademia delle Scienze del 22 ottobre 1996 (cfr. EV 15, 1353). È così che l'uomo può considerarsi frutto, ad un tempo, dell'evoluzione biologica e di un concorso particolare creativo di Dio: è creatura di Dio sia in forza della sua condizione fisica comune agli altri esseri viventi sia a motivo del singolare principio spirituale che gli è proprio. Questa concezione dell'evoluzione, aperta al. trascendente, non può essere esclusa dalla scienza, perché le nozioni di creatura, di Creatore e di ("") spirito non entrano nel dominio della scienza; e nello stesso tempo non può essere esclusa dal testo sacro e dalla fede, anche se possono rimanere aperti alcuni problemi. ~on è però compito della teologia individuare 111 quale fase dell'ominizzazione sia comparso l'uomo. È questo un compito della scienza, la quale utilizza tutte le conoscenze che si posso- Sl

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no avere sia sul piano morfologico, sia soprattutto sulle manifestazioni della cultura che contraddistinguono l'uomo. Oltre all'animazione, che comporta una discontinuità ontologica tt·a l'animale e l'uomo vi è un altro aspetto che può avere rilevanza sul piano teologico: quello del «monogenismo», cioè della derivazione dell'umanità da un'unica coppia, alla quale la teologia lega tradizionalmente la dottrina del peccato originale per spiegarne la propagazione a tutta l'umanità. A questo riguardo va osservato che, mentre non può essere messa in discussione l'universalità del peccato a partire dagli inizi dell'umanità e il bisogno universale della salvezza che viene da Cristo, la natura della trasgressione che nelle sue conseguenze avvolge tutta l'esperienza umana e si accresce con l'apporto di tutti gli uomini appartiene al mistero del peccato. Uno stretto legame fra universalità del peccato originale e monogenismo può risultare quasi ovvio nel testo sacro, ma alcuni teologi (fra questi K. Rahner, Il problema dell'ominizzazione, Brescia 1965) hanno ritenuto di non poterlo dedurre in modo apodittico. Il Magistero ha precisato alcuni termini della questione nella citata enciclica Humani generis, dicendo che «non si vede come poter comporre» un abbandono del monogenismo con la dottrina sul peccato originale (DH 3897; ..... SACRA SCRITTURA, V.3). Ma ciò che oggi "non si vede" potrebbe, secondo alcuni, vedersi in futuro. J. De Fraine ritiene che l'oscurità che impedisce di vedere oggettivamente come il poligenismo possa conciliarsi con la Rivelazione non sarebbe necessariamente definitiva (cfr. Adamo e la sua discendenza, Roma 1966). Per H. Haag si deve distinguere tra la storicità dei particolari del racconto biblico e la storicità dell'irruzione del peccato nell'umanità (cfr. Dottrina biblica della creazione e dottrina medievistica del peccato originale, Brescia 19'.70). Di converso, non va dimenticato che l'ipotesi del monogenismo da un punto di vista scientifico non può essere esclusa in modo assoluto e che la possibilità di un'origine monogenetica del corpo umano è ammessa anche da alcuni autori. Al termine di questo itinerario ci siano consentite alcune osservazioni conclusive. La vera alternativa non è tra evoluzione e creazione, bensì tra due diverse visioni di un mondo in evoluzione l'una dipendente da un

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Dio trascendente e Creatore, l'altra autosufficiente, capace di crearsi e trasformarsi, per una sorta di potenza e intelligenza immanente. Non siamo dunque di fronte ad una alternativa fra lettura scientifica e rivelazione cristiana, ma tra una visione atea e materialista ed una visione religiosa di tutta la realtà, aperta al trascendente. Non è quindi in gioco una visione della realtà dal punto di vista della scienza. La conciliabilità tra teoria evolutiva e fede cristiana resta vera anche se la teoria risultasse in seguito falsa. Essa può rientrare in un quadro armonioso di tutta la creazione. Riconoscere Dio all'interno dell'evoluzione dell'universo è in coerenza con un azione divina che generalmente si serve, per i suoi disegni progettuali, di cause seconde, ed è in fondo una visione molto più attraente che non lasciare tutto al caso. L'idea di un disegno generale, che emerge "a posteriori" anche a seguito di eventi di tipo non deterministico, è ragionevole, anche se l'esistenza di disegno globale non è rigorosamente dimostrabile all'interno del solo metodo scientifico sperimentale. Il fatto che la creazione sia affidata all'uomo ne accresce la grandezza e le responsabilità anche sul piano bio-ecologico. L'uomo è l'essere che ha un significato per sé stesso e fa assumere un significato alla realtà che lo circonda. La sua peculiarità non deriva dal livello morfologico evolutivo o dai prodotti della cultura, ma dalla sua capacità di generare cultura, fondata sulla progettualità e sulla simbolizzazione. La sua grandezza nel disegno generale di Dio, deriva dalla sua capacità di conoscere Dio, dalla sua libertà, dalla sua vocazione a conformarsi a Gesù Cristo, prototipo e vera immagine di ogni uomo. L'uomo ha il compito di prolungare la creazione di un mondo in evoluzione voluto da Dio, assumendone la gestione e divenendo egli stesso protagonista di una evoluzione delle risorse della natura nelle loro potenzialità, a lode di Dio e a servizio dei suoi simili. Questo impegno dell'uomo, animato dallo Spirito di Cristo, orienta tutta la realtà cosmica e umana verso le mete finali della storia in cui Cristo ricapitolerà in sé tutta la realtà creata da Dio e la consegnerà al Padre per l'eternità. FIORENZO FACCHINI Vedi: ANIMA; CREAZIONE; CULTURA; EVOLUZIONE; SIMBOLO; SPIRITO; VITA; DARWIN, C.

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Uomo, identità biologica e culturale

tion, Téqui, Paris 1992; L. GALLENI, Scienza e teologia, Queriniana, Brescia 1992; M. ARTIGAS, Le frontiere dell'evoluzionismo, Ares, Milano 1993; J.-M. MALDAMé, Cristo e il cosmo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995; A. GANOCZY, Teologia della natura, Queriniana, Brescia 1997; A. GBSCHé, Dio per pensare. Il cosmo. San Paolo, Cinisello Balsamo 1997; G. MARTELBT, Evolution et création, vol. I, Médiaspaul - Cerf, Montréal - Paris, 1998; A. SERRA, Le origini biologiche dell'uomo, "Civiltà Cattolica" 149 (1998), IV, pp. 16-30; J. ARNOULD, La teologia dopo Darwin, Queriniana, Brescia 2000.

VANGELI

pCB, DH 3398-3400, 3561-3578; PCB, Istruzione sulla verità storica dei Vangeli, 21.4.1964, EV2, 151-161; Dei Verbum, 1819,· PCB, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, 15.4.1993, EV 13, 28463150; Novo millennio ineunte, 17-18. I. La questione circa l'autenticità storica dei Vangeli - II. Criteri di valutazione dell'autenticità dei Vangeli: il metodo comparativo - III. Dalla storicità all'autenticità: Io stile di Gesù - IV. Le fonti del materiale evangelico e il criterio della molteplice attestazione - V. L'itinerario di un approccio a Gesù - VI. Per una lettura dei Vangeli nello Spirito e nella Chiesa. Sorto nell'alveo della tradizione religiosa ebrea, il cristianesimo ha in Gesù di Nazaret il suo fondatore. Le sue opere ed i suoi insegnamenti, diffusi dai suoi testimoni e discepoli, sia a partire da quanto essi videro ed udirono, sia con la comprensione sempre più profonda delle esperienze vissute con lui, in modo particolare quella della sua morte e resunezione, costituiscono il nucleo dell'annuncio cristiano o «Vangelo». Tale messaggio proclama il definitivo compimento della rivelazione che Dio aveva fatto di sé al popolo di Israele, come Creatore dell'universo e Signore della storia, compimento realizzato con l'incarnazione del Figlio di Dio e l'invio al mondo dello Spirito Santo. I rapporti fra Dio, il mondo e l'uomo delineati nelle Scritture di Israele, acquistano una nuova luce dalla dottrina di Gesù e su Gesù la cui In~arnazione viene messa in stretto ra~porto con il senso e la verità dell'intera creazione.

Nel confronto fra rivelazione cristiana e lettura scientifica del mondo, svolge un suo preciso ruolo l'incarnazione del Verbo e, dunque, il mistero di(,....) Gesù Cristo. Il problema dell'accesso storico alla vita umana di Gesù e alle sue opere rappresenta, inoltre, un tema classico dei rapporti fra fede e scienza. Le fonti di base per lo studio di tale accesso sono i Vangeli, documenti che raccolgono la predicazione orale degli apostoli, messa per iscritto da alcuni di essi o dai loro discepoli. Anche quando ci si accosta con categorie storico-scientifiche alla figura di Gesù di Nazaret, non va dimenticata la simultanea presenza di due elementi inseparabili, quello dell'evento e quello del mistero. Il primo è legato alla concretezza storica, geografica, religiosa e culturale della sua umanità; il secondo alla confessione dell'origine divina di Gesù, come Figlio di Dio consustanziale al Padre, e alla fede cui questa confessione fa appello.

I. La questione circa l'autenticità storica dei Vangeli I Vangeli sono giunti fino a noi sotto forma di quattro brevi documenti redatti in lingua greca, attribuiti dalla tradizione cristiana a quattro autori, due dei quali, Matteo e Giovanni, appartenevano al «gruppo dei dodici», gli apostoli scelti nominalmente da Gesù (cfr. Mt 10,2-4; Mc 3,16-19; Le 6,13-16) e altri due, Marco e Luca, erano conosciuti come discepoli di un altro apostolo, Pietro, e di Paolo di Tarso. Pur nella diversità dello stile, tre dei quattro (Mt, Mc e Le), detti «sinottici», riportano una narrazione quasi parallela (gr. synoptik6s, dal verbo synorai5, «vedo nell'insieme, abbraccio con lo sguardo»), mentre il quarto (Gv) sviluppa narrazioni in parte originali, soffermandosi più a lungo degli altri sui discorsi di Gesù e sulla teologia che vi soggiace. I quattro documenti